NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia...

59
Embargo fino alle ore 10.00 del 4 novembre 2019 Presentazione del Rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze SVIMEZ

Transcript of NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia...

Page 1: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

Embargo fino alle ore 10.00 del 4 novembre 2019

Presentazione del Rapporto SVIMEZ 2019sull’economia e la società del Mezzogiorno

NOTE DI SINTESI

Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze

SVIMEZ

Page 2: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno
Page 3: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

1

INTRODUZIONE

I NUOVI TEMI DI UN ’ANTICA QUESTIONE

IL MEZZOGIORNO NELLA NUOVA GEOGRAFIA EUROPEA DELLE DISUGUAGLIANZE

Le politiche nazionali di fronte al «doppio divario»

Un ventennio di declino iniziato con gli anni Novanta, sette anni di recessione senza soluzione di continuità, la fine della ripresa e, oggi, lo spettro di una nuova recessione, lasciano la politica economica nazionale di fronte a un nodo di fondo non sciolto. Quale ruolo ritagliarsi, di fronte a dinamiche di mercato avverse alla diffusione territoriale dei processi di sviluppo e nel sentiero stretto dei vincoli europei, per invertire il trend che vede l’economia e la società italiane subire le conseguenze più che cogliere le opportunità dei cambiamenti strutturali intervenuti con il nuovo secolo.

Questi mutamenti hanno riguardato la rivoluzione digitale e la diffusione delle nuove tecnologie, l’integrazione esasperata dei mercati a livello globale, la crescente importanza di conoscenze e competenze, la frammentazione geografica delle produzioni e l’affermarsi del modello produttivo delle catene globali del valore, l’esposizione crescente delle economie locali più deboli tanto alle turbolenze dei mercati globali, quanto alle opportunità offerte dall’integrazione con le aree forti. Si è trattato di un complesso sistema di dinamiche di mercato che hanno favorito la concentrazione geografica dei processi di sviluppo.

In Europa, i processi di agglomerazione tendono a prevalere su quelli della diffusione delle opportunità di crescita economica e sviluppo sociale. Lo «sgocciolamento» territoriale sembra interessare solo le aree in ritardo di sviluppo che riescono ad agganciarsi a quelle forti del core, in prevalenza quelle dei nuovi Stati membri dell’Est, in virtù di legami commerciali più forti, di processi di integrazione tra imprese più strutturati. Le periferie europee del Sud Europa, viceversa, pur nelle loro diversità, sembrano condividere il tratto comune di un’integrazione più problematica con le vere locomotive dell’Europa centro-settentrionale, non riuscendo perciò a trarne pieno beneficio, mostrando dinamiche economiche sfavorevoli, ricadute sociali, dinamiche demografiche avverse.

Ben prima della grande crisi, le politiche europee, ordinarie e di coesione territoriale, hanno solo incrociato passivamente le dinamiche di crescente concentrazione di investimenti, attività produttive e risorse umane qualificate nelle aree forti del Continente. Nel frattempo con l’allargamento a Est dell’Unione europea venivano offerte nuove e crescenti opportunità ai nuovi Stati membri e, in parallelo, si indeboliva progressivamente l’opzione geopolitica mediterranea dell’Unione. Ma la crisi ha solo svelato tutti i limiti di un modello di politica economica già scritti nelle fondamenta di un progetto di unificazione europea incapace, per le sue carenze iniziali, di conseguire le promesse originarie di prosperità diffusa. Limiti già scritti – e ormai riconosciuti in misura crescente anche da tanti osservatori qualificati che allora ne riconoscevano solo i meriti – nei pilastri sui quali si reggeva il modello europeo delle origini: la priorità assegnata alle riforme strutturali quali strumento per innalzare la competitività delle aree in ritardo di sviluppo da giocarsi sul campo delle svalutazioni interne; la mancanza di coordinamento tra politica fiscale e monetaria; una politica monetaria unica con l’obiettivo esclusivo di garantire la stabilità dei prezzi; la scelta della moneta unica senza unione fiscale; il coordinamento sovranazionale delle politiche fiscali nazionali improntato al contenimento della spesa sotto i precetti della cosiddetta austerità espansiva.

Page 4: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

2

Con il risultato di traghettare l’Unione europea verso la deflagrazione della crisi meno attesa e più drammatica dalla grande depressione degli anni Trenta senza strumenti adeguati a contrastare l’aumento delle disuguaglianze, tra territori e tra individui, capace solo di assistere passivamente al nascere di una nuova e più frastagliata geografia delle opportunità in Europa. La distribuzione diseguale dei benefici connessi all’integrazione europea, senza il supporto di politiche economiche adeguate, convive con l’evidenza di un processo selettivo di diffusione della crescita economica e dello sviluppo sociale tra aree più sviluppate e regioni deboli; e persistono rilevanti divari di competitività tra sistemi produttivi nazionali e tra diverse regioni europee. Il fatto relativamente «nuovo» con il quale va aggiornata la geografia economica e sociale dell’Europa, poi, sta nelle crescenti dinamiche divergenti interne al suo core e alla sua periferia. Così la geografia, tradizionalmente letta con le categorie del centro e della periferia, è andata via via complicandosi, per effetto di una divaricazione tra «locomotive» a diversa velocità e tra nuovi Stati membri dell’Est e aree deboli dell’Europa mediterranea. Entrambe le dinamiche hanno visto l’Italia dal lato dei perdenti, con responsabilità delle politiche nazionali che diventano sempre più evidenti con il passare degli anni. Nell’ultimo ventennio, la politica economica nazionale ha disinvestito dal Mezzogiorno, ha svilito anziché valorizzare le sue interdipendenze con il Centro-Nord, con la conseguenza di determinare l’indebolimento del mercato interno dei settori produttivi delle aree più forti del Paese. Abbiamo assistito (è proprio il caso di dirlo perché le voci critiche a riguardo sono state ben poche) a un progressivo disimpegno della leva nazionale delle politiche di riequilibrio territoriale con conseguenze negative per l’intero Paese. Come si è verificato – per rimanere agli anni più recenti post-austerità – con la preferenza accordata ai trasferimenti anziché agli investimenti pubblici; una scelta che ha impedito di utilizzare i margini di manovra più ampi che si andavano aprendo nelle rigide regole della disciplina fiscale europea per perseguire gli obiettivi (complementari) della crescita nazionale e della riduzione dei divari interni.

È nei confini allargati di questa Europa sempre più diseguale e complessa, avendo ben chiari i vincoli esterni (insieme alle opportunità) derivanti dalla partecipazione all’Unione europea e le lezioni apprese dalle carenze delle politiche pubbliche nazionali, che va calata la riflessione corrente sul ritardo italiano, non solo meridionale. Un ritardo della società e dell’economia nazionali che ormai va letto come «doppio divario». Il Nord e Sud del Paese sono bloccati nel panorama europeo, perciò l’Italia, tutta intera, si allontana dall’Europa. Mentre i nostri divari interni non accennano a diminuire.

Il Mezzogiorno e l’Italia nell’Europa diseguale

Il progetto europeo non ha mantenuto le sue ambiziose promesse di uno sviluppo armonioso ed equilibrato, di elevati livelli di occupazione e protezione sociale, di un elevato grado di convergenza e di solidarietà tra gli Stati membri. Il processo europeo di integrazione si è alimentato nella convinzione che non fosse necessario prevedere diversi modelli di sviluppo tra le regioni più ricche e quelle più arretrate, e che non fosse necessario assegnare alla politica fiscale comune la funzione attiva di stabilizzazione nell’Unione. Per lungo tempo è parso sufficiente organizzare una buona politica di coesione per contenere le dinamiche della divergenza che, da sempre, interessano le aree più arretrate del vecchio Continente. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Settanta, i processi di globalizzazione, di innovazione tecnologica e di terziarizzazione dell’economia, hanno prodotto la cosiddetta «grande inversione». Quest’inversione ha generato nelle regioni rurali, nelle piccole e medie aree urbane e nelle aree di «vecchia industrializzazione» importanti perdite di posti di lavoro, una riduzione significativa della forza lavoro e una diminuzione del reddito pro capite. Per converso, le grandi aree urbane sono state capaci di attrarre capitali e risorse umane high-skilled tali da determinare un complessivo aumento del reddito pro capite e la creazione di posti di lavoro, soprattutto nel terziario avanzato ad alta specializzazione. Tali dinamiche di concentrazione intorno alle regioni europee del Centro hanno dimostrato di non essere in grado di avviare processi di

Page 5: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

3

convergenza «automatici» attraverso gli effetti di spill-over, generando, al contrario, effetti di divergenza economica.

Soffermandoci sulle dinamiche relative al nuovo secolo, i dati rivelano: il pronunciato processo di convergenza sperimentato dall’Europa dell’Est, l’allontanamento dei paesi dell’Europa del Sud, Italia inclusa, dai livelli medi di tenore di vita europei; la crescita tendenziale del reddito pro capite nell’Europa del Nord; e la tenuta del dato relativo alle economie dell’Europa centrale, Germania inclusa.

Questi dati forniscono la fotografia «aggregata» dei divari di sviluppo economico documentati nella loro più fine articolazione regionale nelle edizioni recenti del Rapporto SVIMEZ, con particolare riferimento al ritardo italiano nel panorama europeo, e a quello meridionale nei confronti delle altre aree europee in ritardo di sviluppo. Divari crescenti che non si limitano al dato del PIL pro capite, misura notoriamente non esaustiva di benessere, estendendosi ai differenziali regionali di sviluppo sociale, alle condizioni di vita delle famiglie, e a quelli di competitività delle imprese. Tutti fatti anch’essi documentati in questi anni dalla SVIMEZ senza voler stabilire un nesso causale «robusto» tra collocamento europeo della nostra economia e stagnazione italiana, ma per segnalare la necessità di uscire dallo steccato dei confini nazionali per misurare i divari del Sud e, al tempo stesso, avere una visione più realistica della velocità di marcia della nostra «locomotiva» interna. Perché la lettura attenta delle principali performance economiche delle regioni del Centro-Nord misurate in termini relativi nello scenario europeo, più che i divari interni italiani, esalta il ritardo italiano in Europa. È il sistema Paese, tutto insieme, che non è in grado di tenere il passo con le regioni europee più dinamiche.

Fatta 100 la media europea, tra il 2006 ed il 2017, tutte le regioni italiane, nessuna esclusa, hanno registrato un calo del PIL per abitante.

Quale ruolo «possibile» per le politiche?

È necessario un cambio di prospettiva nella lettura della stagnazione italiana e del ritardo del Mezzogiorno. Bisogna, come la SVIMEZ invita a fare ormai da qualche anno, adottare una prospettiva più ampia dei confini nazionali. Innanzitutto, per misurare la reale dimensione dell’allontanamento del nostro Sud dagli altri Sud d’Europa. E, in secondo luogo, per acquisire consapevolezza che il nostro Nord non è più tra le locomotive trainanti del Continente. Una parte del Centro-Nord italiano rappresenta, di fatto, la periferia degli agglomerati dell’Europa centro-settentrionale che marciano a ritmi più sostenuti, ospitano produzioni manifatturiere fortemente specializzate e integrate col terziario avanzato; presentano un maggiore grado di finanziarizzazione; beneficiano di centri di ricerca e innovazione all’avanguardia; vantano sistemi di istruzione universitaria di livello internazionale. A ciascuno il suo Nord: le nostre regioni settentrionali si presentano agli occhi dell’Europa come il Sud di aree più sviluppate come quella di Parigi, Londra, della Rhine-Ruhr o del Randstad Holland.

Il ritardo meridionale va misurato nella cornice europea: l’economia meridionale si trova a competere, soprattutto dopo l’allargamento a Est dell’UE, con economie arretrate in forte crescita ed elevate potenzialità competitive. È rispetto a queste economie, alle altre regioni europee che beneficiano della politica di coesione europea, che il Sud ha perso terreno a causa dello svantaggio strutturale connesso alla sua appartenenza a un’economia nazionale dove vige un carico fiscale elevatissimo rispetto a quello praticato nei paesi dell’Est Europa. L’accumulazione del ritardo del Mezzogiorno si associa alla concorrenza del dumping fiscale dei nuovi Stati membri. Le differenze nei livelli di tassazione del lavoro e del reddito di impresa tra paesi membri, anche queste documentate nelle recenti edizioni del Rapporto SVIMEZ, vengono evidenziate con continuità dai dati Eurostat, e rappresentano un fattore decisivo nel determinare la capacità di offrire un ambiente attrattivo per le attività produttive più mobili del Continente.

Page 6: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

4

Più in generale, le asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, nei sistemi giuridici e in molti altri fattori determinano importanti differenziali regionali di competitività che pongono le regioni dell’area mediterranea, soprattutto il Sud-Italia, in una condizione di «svantaggio strutturale». Su questa premessa occorre basare le linee di intervento future. La discussione intorno alle determinanti del ritardo del Sud o dell’inefficacia delle politiche regionali ne risulterebbe arricchita e si eviterebbe di assumere, semplicisticamente, che lo sviluppo del Sud dipende solo da variabili specifiche, interne al Mezzogiorno stesso, e che l’efficacia delle politiche per il Sud dipende solo dai fattori locali, in primis la qualità delle classi dirigenti locali.

Serve un ritorno a una visione «unitaria» della stagnazione italiana, smarcandosi dalla lettura dell’aumento delle disuguaglianze nel nostro Paese esclusivamente legata al confine immutabile tra Nord e Sud del Paese. Questa lettura va «complicata» per recepire i mutamenti che in questi anni sono intervenuti: il Sud ha accentuato le sue differenziazioni interne, come è avvenuto nel Nord del Paese; la crisi ha fatto risalire lungo lo stivale il confine Nord-Sud; anche le regioni del Nord produttivo perdono posizioni nelle graduatorie delle regioni europee di sviluppo economico, sociale e di competitività; Nord e Sud sono accomunati dall’aumento delle disuguaglianze tra aree urbane e aree interne; nell’Italia intera le periferie dei grandi centri urbani sono attraversate dalle stesse emergenze sociali. Per tutto ciò la questione della coesione territoriale va collocata in quella più ampia, nazionale, della crescita e della coesione sociale, e le risposte non possono che basarsi su una visione unitaria del Paese.

Al centro dell’azione delle politiche va posta la valorizzazione delle complesse complementarietà che legano il sistema produttivo e sociale di Sud e Nord Italia, leggendo i rapporti tra le due aree con la lente di un’interdipendenza mutuamente benefica da riattivare con il supporto delle politiche. Economia e società del Mezzogiorno non sono realtà sganciate dall’Italia. Nord e Sud Italia sono legati da una fitta rete di rapporti commerciali, produttivi e finanziari che generano condizionamenti reciproci, determinando andamenti fortemente correlati delle rispettive economie. Inevitabilmente i risultati economici e il progresso sociale di ciascuna di esse dipendono dal destino dell’altra. Perciò l’obiettivo della chiusura del divario Nord-Sud non può essere disgiunto da un disegno nazionale di rilancio della crescita. Intorno a un obiettivo prioritario: riattivare gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, prioritariamente nei settori delle infrastrutture sociali, ambientali e, in generale, per migliorare l’accesso ai diritti di cittadinanza. L’unica via «possibile» per il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa è tenere insieme le due parti del Paese in una strategia di crescita comune, archiviando la stagione delle soluzioni «per parti» per il Nord produttivo e il Sud assistito. Esistono importanti aree di disagio sociale anche al Nord, come esiste un sistema produttivo reattivo al Sud. Riattivare gli investimenti pubblici al Sud è il modo più produttivo, per l’economia e la società italiane, di valorizzare le interdipendenze tra le due aree del Paese. Vuol dire mettere il Mezzogiorno nelle condizioni di rafforzare il suo contributo alla crescita nazionale, nel breve periodo, contribuendo all’attivazione della domanda interna, a beneficio anche delle aree più forti del Paese.

Se rivolti al rafforzamento delle infrastrutture e dei servizi sociali, inoltre, gli investimenti pubblici riescono a realizzare, al tempo stesso, finalità redistributive, facilitando l’accesso ai diritti di cittadinanza, caratterizzati dai divari territoriali discussi in altre parti di questo Rapporto, e di sostegno allo sviluppo economico. Perché le migliorate possibilità di accesso ai servizi essenziali sortiscono effetti paragonabili a quelli di migliori infrastrutture economiche. La presenza di servizi sociali efficienti contribuisce a migliorare le condizioni esterne per gli investimenti produttivi al pari delle infrastrutture, ad esempio, di trasporto e comunicazione. Infine, invertire il trend calante degli investimenti pubblici al Sud vorrebbe dire iniziare a porre le basi per la risoluzione del noto problema del mancato rispetto del principio di addizionalità che stabilisce che, per assicurare un reale impatto economico, gli stanziamenti dei Fondi strutturali non possono sostituirsi alla spesa pubblica dello Stato membro. Al rispetto di questo principio, storicamente inattuato in Italia, siamo

Page 7: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

5

stati chiamati di recente dalle istituzioni europee. È una debolezza che va sanata per restituire alla «normalità» anche le valutazioni delle ricadute economiche della politica di coesione che, solo con un ritorno della spesa per investimenti nazionali su livelli adeguati, potrà essere messa nelle condizioni di funzionare e di essere valutata.

LA QUESTIONE DEMOGRAFICA E I SUOI EFFETTI SUL DUALISMO

La popolazione dell’Italia ha smesso di crescere dal 2015, da quando continua a calare a ritmi crescenti, soprattutto nel Mezzogiorno. L’esaurimento del lungo periodo di transizione si è tradotto, infatti, in una vera e propria trappola demografica nella quale una natalità in declino soccombe a una crescente mortalità. In questo scenario, il sostegno della popolazione nel Centro-Nord è affidato al solo contributo del movimento migratorio che risulta ora, e si stima possa esserlo anche nei prossimi decenni, largamente insufficiente a colmare un saldo naturale sempre più negativo. Le emigrazioni dall’interno e dall’estero hanno finora garantito un dividendo demografico positivo e una solida struttura demografica, condizioni necessarie per un equilibrato e robusto sviluppo economico, alle regioni settentrionali. Nel Mezzogiorno, invece, politiche e misure di intervento persistentemente inadeguate alla dimensione demografica dell’area hanno lasciato a tanti giovani l’unica alternativa di emigrare verso il Nord e l’estero. Una continua sottrazione di forze vitali che ha indebolito la struttura demografica dell’area e compromesso le sorti dei piccoli e medi centri urbani e rurali delle aree interne, non risparmiando del resto quelle metropolitane le cui cinture periurbane costituiscono le fonti principali del deflusso migratorio dal Sud.

Le dinamiche demografiche avverse attraversano tutto il Paese ma si manifestano in maniera più drammatica nel Mezzogiorno

La popolazione attiva del Mezzogiorno si riduce progressivamente in tutto il periodo di previsione. Al contrario, nel Centro-Nord l’azione rigeneratrice delle immigrazioni consentirà di compensare parzialmente il processo di riduzione della popolazione attiva nei prossimi due decenni e una sua stabilizzazione a partire dalla metà degli anni Quaranta di questo secolo. Entro i prossimi 50 anni il Paese si troverà con una popolazione molto più piccola e decisamente invecchiata, in particolare il Mezzogiorno è destinato a un lento e pesante declino demografico.

In questa nuova fase che si annuncia più complessa e più instabile, il Mezzogiorno si trova ad affrontare le sfide con una popolazione invecchiata, un dividendo demografico decisamente negativo e un’economia fragile segnata come il resto del Paese da andamenti della produttività decisamente regressivi. Diversamente dal dopoguerra il Mezzogiorno in questa fase di ripresa dalla recessione e di cambiamenti profondi di scenario economico e geopolitico mondiale, si trova a gestire i problemi legati al persistente ritardo di sviluppo senza gli stimoli che potrebbero provenire da una popolazione giovane e dinamica come fu dopo il 1946. Infatti, in assenza di misure forti di politica economica e sociale in presenza di un quadro demografico ormai decisamente compromesso, il sistema economico e la società meridionale rimarranno su un sentiero insostenibile.

In tutti gli scenari previsti nel Rapporto, il Pil italiano, ipotizzando una invarianza del tasso di produttività, diminuirebbe nei prossimi 47 anni a livello nazionale da un minimo del 13% ad un massimo del 44,8%, cali di intensità differenti interesserebbero il Nord e il Sud del Paese, si ridurrebbero così le risorse per finanziare una spesa pubblica in aumento per il maggior numero di pensioni e per l’assistenza sociale e sanitaria.

Nello scenario di base, costruito applicando la dinamica prevista per la popolazione attiva al livello del pil raggiunto nel 2018, ovvero in costanza del tasso di occupazione maschile e femminile nelle classi di età comprese tra i 15 e il 64 anni e di invarianza della produttività, nel 2065 il Pil

Page 8: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

6

nazionale si ridurrebbe del 23,6%; nel Mezzogiorno, anche in ragione della più veloce riduzione della popolazione attiva, il Pil calerebbe del -38,3 %, due volte e mezza più che nel Centro-Nord: -15,6%.

In una società che invecchia rapidamente e vede allungarsi sempre più le aspettative di vita degli anziani, appare quanto meno auspicabile un allungamento della vita attiva. Un’esigenza apparentemente ovvia che trova un fondamento nella riduzione della popolazione attiva e nell’impiego del tempo di una popolazione vecchia ma ancora in condizioni di esprimere soddisfacenti livelli di capacità lavorativa. Un allungamento della vita lavorativa è necessario anche a mantenere in equilibrio i conti di un sistema previdenziale che rischierebbe un serio e duraturo squilibrio finanziario con effetti disastrosi sulla tenuta del tessuto sociale. Una necessità questa che appare ai nostri giorni, visto l’orientamento generale ad un anticipo, del tutto immotivato, del ritiro dalla vita attiva, poco più che una provocazione.

Il contrasto alla riduzione della popolazione attiva può venire soprattutto da politiche finalizzate ad accrescere la partecipazione al mercato del lavoro accompagnate da misure di sostegno alla domanda di lavoro espressa dal mondo produttivo. La questione del lavoro conserva una sua forte centralità, una valenza non solo strettamente economica ma fondamentale per l’integrazione sociale e la valorizzazione dei singoli. L’aumento del tasso di occupazione rappresenta l’unica misura in grado di ridurre significativamente gli effetti negativi sull’economia del Mezzogiorno della prevista dinamica demografica. L’effetto dirompente riguarderebbe in particolare la componente femminile, vero e proprio serbatoio di forza lavoro. L’innalzamento del tasso di occupazione al target europeo (60%), costituirebbe quasi un raddoppio dell’attuale livello (32% circa), uno sforzo di non poco conto se si tiene presente che dal 1977 il tasso è aumentato di soli 6 punti percentuali. Ma è una sfida che non deve in nessun caso essere lasciata cadere. Andrebbero messe in campo misure finalizzate a conciliare le esigenze familiari con la crescita della partecipazione al mondo del lavoro. Si determinerebbe così un duplice effetto: aumento del prodotto interno lordo e con la maggiore disponibilità di reddito la ripresa della natalità. Nei paesi più sviluppati la natalità più elevata si riscontra là dove i tassi di attività femminile sono più alti.

Nel Mezzogiorno, trascurato dai flussi migratori e interessato nei prossimi decenni da un continuo calo della popolazione, rappresenta una sorta di imperativo categorico provare, se non ad invertire, almeno a mitigare tale tendenza. Ciò può avvenire indirizzando le politiche verso un deciso inserimento delle donne nel mondo del lavoro e incoraggiare la ripresa della fecondità.

Page 9: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

7

VALORIZZARE LE AUTONOMIE E RIDURRE LE DISUGUAGLIANZE . IL FEDERALISMO

POSSIBILE

Per riprendere, oggi, le fila di un dibattito informato e razionale sul regionalismo differenziato è necessario muovere da due considerazioni.

La prima. Le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono previste dall’articolo 116 comma 3 della Costituzione e sono, perciò, legittime. Ma sono parte integrante del Titolo V della Costituzione riformato nel 2001. Le richieste di regionalismo differenziato vanno perciò valutate, nei loro eventuali meriti e limiti, nel contesto di un’attuazione organica, completa, equilibrata, del nuovo Titolo V.

La seconda. La semplificazione che vuole che il confronto continui a svolgersi tra due fronti contrapposti, identificati con un Nord propositivo e un Sud conservativo, va rimossa. A bocciare le richieste di regionalismo differenziato di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna non è stato un fronte del No meridionale. Le critiche sono arrivate da organi nazionali sulla base di argomentazioni che affrontano il merito delle proposte. Il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio hanno bene messo in evidenza, insieme ad un lungo elenco di criticità, l’evidente conflitto tra le richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e il rispetto dei principi di eguaglianza, perequazione e solidarietà nazionale sanciti dal nuovo Titolo V. Perciò è immotivata la tesi secondo la quale l’opposizione alle richieste di autonomia verrebbe da un fronte del No radicato territorialmente a Sud, nemico dell’efficienza e del cambiamento, scarsamente informato sul merito delle intese e perciò capace solo di avanzare critiche «emotive».

A partire da queste due considerazioni, bisognerebbe chiudere con la stagione delle contrapposizioni territoriali e depurare il confronto dalle scorie rivendicazioniste (provenienti da Nord e da Sud) ormai stratificate nel dibattito pubblico, per riportarlo sui temi «nazionali» della qualità delle politiche di offerta dei servizi pubblici e su quelle necessarie per la ripresa della crescita del Paese.

Se si vuole fare della riflessione sul regionalismo differenziato un’occasione per ripensare il riassetto delle competenze tra centro e periferia della Pubblica Amministrazione nell’interesse del Paese, bisogna concordare su un obiettivo di fondo: le eventuali concessioni di autonomia rafforzata devono essere motivate dall’interesse nazionale, non da quello particolare delle singole regioni richiedenti. Volendosi basare sui fatti e non sulle enunciazioni di principio o, peggio, sulla propaganda, va chiarito che la richiesta di nuove competenze da parte di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna viene così motivata in tutte le versioni note degli schemi di intesa: «L’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione richiedente e immediatamente funzionali alla sua crescita e sviluppo». Con questa «scarna affermazione identica per tutte le tre bozze di intesa», per usare le parole dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, «viene liquidata» la giustificazione della richiesta di nuove competenze. Senza nessun riferimento all’interesse nazionale.

Più volte la SVIMEZ ha stigmatizzato l’uso strumentale che si propone del concetto di residuo fiscale, misura della redistribuzione riferibile agli individui, non ai territori. Perciò, dietro la pretesa di contenere i residui fiscali può nascondersi solo l’obiettivo di indebolire la funzione redistributiva dello Stato tra contribuenti, non tra territori. Un obiettivo, questo, che non dovrebbe riguardare la concessione di ulteriori forme di autonomia regionale nella fornitura dei servizi ai cittadini. A ciò si aggiunga che i residui fiscali «regionali» del Nord sono già in diminuzione da un ventennio e che la contabilità dei flussi interregionali di risorse basata sui residui fiscali regionali è estremamente parziale perché omette di considerare altri flussi di risorse private che vanno in direzione opposta, da Sud a Nord.

Page 10: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

8

Quanto alla presunta penalizzazione delle regioni del Nord derivante da una sperequazione territoriale della spesa pubblica a vantaggio del Mezzogiorno, l’unica informazione quantitativa diffusa nell’iter attuativo dell’autonomia per quantificare «quanto spende lo Stato per le competenze da trasferire» riguarda alcuni dati di fonte Ragioneria Generale dello Stato pubblicati sul sito del Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie a corredo dei testi concordati delle intese del febbraio 2019. Sulla base di questi dati, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia si collocano in coda alla graduatoria delle Regioni italiane per spesa pubblica pro capite. Un’evidenza, questa, che è stata portata a supporto dell’assunto di un eccesso di risorse nelle Regioni del Sud e dunque di un diritto alla restituzione delle Regioni forti del Paese. Ma come è stato documentato dalla SVIMEZ, questi dati forniscono un’informazione parziale dell’effettivo livello di spesa pubblica nelle regioni italiane. Un quadro completo dell’effettiva distribuzione della spesa pubblica dell’operatore pubblico tra Regioni viene fornito dal Sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), la fonte ufficiale più completa in materia di spesa pubblica regionalizzata e, di conseguenza, la più adeguata per misurare l’effettiva distribuzione tra Regioni delle risorse pubbliche che finanziano i servizi pubblici. L’utilizzo dei dati di fonte CPT racconta un’altra storia della distribuzione regionale della spesa pubblica. E qui non si vuole rispondere alle rivendicazioni che vengono da Nord con altre rivendicazioni, di segno opposto. Si vuole segnalare la necessità di avviare una discussione razionale e informata a partire da un utilizzo corretto, e non strumentale, delle diverse fonti ufficiali disponibili sulla finanza pubblica territoriale.

Da parte delle regioni richiedenti, non si è fatto nemmeno mistero di voler utilizzare la maggiore autonomia regionale come soluzione alla crisi economica. Un’idea dichiarata in fase di avvio delle richieste, ribadita nella «scarna affermazione identica per tutte le tre bozze di intesa» citata in precedenza. Anche il riferimento al parametro del gettito dei tributi maturati nei territori per la definizione dei fabbisogni standard contenuto nelle pre-intese, successivamente accantonato, risponde alla stessa logica di soluzione «autonoma» alla crisi perché è funzionale all’obiettivo di trattenere maggiori risorse sui territori, per innalzare il livello dei servizi nelle regioni capaci di produrre maggiore gettito, legittimando per via normativa il divario di diritti di cittadinanza già esistente tra i diversi territori del Paese. Legare il finanziamento dei servizi pubblici al gettito maturato nei territori poteva essere presa in considerazione da un governo nazionale come una soluzione efficace alla riduzione dei divari territoriali nell’accesso ai diritti di cittadinanza?

C’è una richiesta, poi, che non è mai stata messa in discussione, neanche dall’ex maggioranza governo, venendo accolta anche nei testi concordati del febbraio 2019 all’art. 6, identico per le tre regioni richiedenti, che prevede che «Lo Stato e la Regione, al fine di consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti, determinano congiuntamente modalità per assegnare una compartecipazione al gettito, o aliquote riservate relativamente all’Irpef o ad altri tributi erariali, in riferimento al fabbisogno per investimenti pubblici ovvero anche mediante forme di crediti di imposta con riferimento agli investimenti privati, risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese». Vale a dire, la richiesta di risolvere «a casa propria» il problema «nazionale» della programmazione e della mobilitazione delle risorse che finanziano gli investimenti pubblici, il motore della crescita che è mancato nel paese in questi anni. Una soluzione in chiaro contrasto con i principi della perequazione infrastrutturale. Anche in questo caso, c’è da chiedersi: davvero l’autonomia è un’occasione anche per le regioni del Sud? Davvero il rilancio necessario degli investimenti pubblici per la crescita può fare a meno di una strategia nazionale?

Oggi è necessario costruire un fronte unitario intorno ad un Sì convinto ai principi del federalismo cooperativo nell’interesse del Paese, rendendo finalmente operativi i vincoli previsti dalla Costituzione per rendere sostenibili le richieste di autonomia. Insomma, riprendere un’attuazione ordinata del federalismo fiscale è la vera sfida, anche delle classi dirigenti meridionali.

Page 11: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

9

Alle iniziative di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna va riconosciuto il merito di aver creato le premesse per una riflessione ampia sul regionalismo, sul superamento dell’attuale assetto istituzionale delle competenze tra Stato e Regioni. Oggi bisogna ripartire da un approccio cooperativo all’attuazione della riforma costituzionale del Titolo V. Costi standard e livelli essenziali delle prestazioni per assicurare pari diritti di cittadinanza, un fondo perequativo per garantire certezza negli stanziamenti per colmare il deficit infrastrutturale sono allo stesso tempo la garanzia di uno sviluppo equilibrato del Paese e la condizione per mettere il cittadino meridionale nelle condizioni di valutare la qualità della sua classe dirigente.

Page 12: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

10

PARTE PRIMA

IL DOPPIO DIVARIO SUD/NORD, ITALIA /EUROPA

1. L’ ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO E DEL CENTRO-NORD

La riapertura del divario riguarda soprattutto i consumi

Come nel 2016 e nel 2017, anche nel 2018 la crescita del prodotto nel Mezzogiorno è risultata inferiore al resto del Paese, con un ulteriore allargamento del gap di reddito e benessere tra le due aree. Nel 2018 il Sud ha fatto registrare una crescita del PIL appena del +0,6%, rispetto al +1% del 2017. Il dato che emerge è di una ripresa debole, in cui peraltro si allargano i divari di sviluppo tra le aree del Paese. Con la significativa eccezione del 2015, anno segnato da fattori congiunturali positivi e dalla chiusura del ciclo dei fondi europei che ha determinato una modesta ripresa dell’investimento pubblico nell’area, anche nel 2016 e nel 2017 il gap di crescita del Mezzogiorno è stato ampio.

Uno dei lasciti negativi della crisi è l’ampliamento dei divari di competitività tra aree forti e deboli del Paese, a svantaggio di quest’ultime. Nel 2018 la produttività è stata stagnante in entrambe le aree, il prodotto per occupato è rimasto sostanzialmente invariato nell’industria e nei servizi, ed è calato in agricoltura.

Il dato più preoccupante, nel 2018, che segna la divergente dinamica territoriale, è il ristagno dei consumi nell’area (+0,2, contro il +0,7 del resto del Paese). Mentre il Centro-Nord ha ormai recuperato e superato i livelli pre crisi, nel Mezzogiorno i consumi sono ancora al di sotto del livello del 2008 di -9 punti percentuali. A pesare nel 2018 è il debole contributo dei consumi privati delle famiglie, con i consumi alimentari che calano dello 0,5%. Questa prudenza nella spesa privata del Mezzogiorno continua a riflettere il pesante impatto della peggiore crisi dal dopoguerra, rispecchiato nell’ampia caduta dei redditi e dell’occupazione, che ha provocato una netta riduzione dei consumi delle famiglie meridionali rispetto al resto del Paese.

Ma soprattutto è mancato l’apporto del settore pubblico. La spesa per consumi finali delle Amministrazioni Pubbliche ha segnato un ulteriore -0,6% nel 2018, proseguendo un processo di contrazione che, cumulato nel decennio 2008-2018, risulta pari a -8,6%, mentre nel Centro-Nord la crescita registrata è dell’1,4%. Questa è una delle cause principali, a dispetto dei luoghi comuni, che spiega la dinamica divergente tra le aree.

Gli investimenti rimangono la componente più dinamica della domanda interna nel Mezzogiorno (+3,1% nel 2018 nel Mezzogiorno, a fronte del +3,5% del Centro-Nord). La sostanziale tenuta degli investimenti meridionali nel 2018, rivela una dinamica molto differenziata tra i settori. Sono cresciuti gli investimenti in costruzioni (+5,3%), mentre si sono fermati, con un fortissimo rallentamento rispetto all’anno precedente, quelli in macchinari e attrezzature (+0,1%, contro il +4,8% del Centro-Nord). Un dato preoccupante, questo, perché sono soprattutto gli investimenti in macchinari e attrezzature a indicare la volontà di investire delle imprese. Nonostante la ripresa dell’ultimo triennio, questi investimenti sono ancora al di sotto dei livelli del 2008 del -27,6% contro il +4,9% del Centro-Nord, a indicare la strutturale difficoltà a ristabilire un clima di fiducia favorevole all’espansione dell’attività economica.

La ripresa degli investimenti privati, in particolare negli ultimi tre anni, aveva più che compensato il crollo degli investimenti pubblici, che si situano su un livello strutturalmente più basso rispetto a quello precedente la crisi e per i quali non si riesce a invertire un trend negativo.

Page 13: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

11

Nel 2018, stima la SVIMEZ, sono stati investiti in opere pubbliche nel Mezzogiorno 102 euro pro capite rispetto a 278 nel Centro-Nord (nel 1970 erano rispettivamente 677 euro e 452 euro pro capite).

Gli andamenti differenziati nelle Regioni italiane

Il quadriennio 2015-2018, pur confermando che la debole ripresa degli anni scorsi ha riguardato quasi tutte le regioni italiane, mostra andamenti alquanto differenziati a livello territoriale. Il grado di disomogeneità, sul piano regionale e settoriale, è estremamente elevato nel Sud. Nel 2018, Abruzzo, Puglia e Sardegna sono state le regioni meridionali che hanno fatto registrare il più alto tasso di crescita, rispettivamente +1,7%%, +1,3% e +1,2%.

L’Abruzzo rialza la testa nel 2018 (+1,7%), dopo che negli anni precedenti aveva fatto registrare appena +0,3% nel 2017 e +0,1% nel 2016. La ripresa è dovuta soprattutto alle costruzioni che segnano un promettente +12,7%. Crescono, ma molto meno, anche i servizi (+1,7%). Viceversa, l’agricoltura ristagna (-0,3%) e l’industria in senso stretto arretra del -1,2%.

La Puglia, che nel 2017 aveva già cominciato a riprendersi (+1,2%), migliora ulteriormente gli andamenti del PIL nel 2018 (+1,3%). Anche in questo caso sono soprattutto le costruzioni a tirare (+4,4%), la crescita dell’industria in senso stretto si attesta sul +2,0% e quella dei servizi sul +1,1%. Va, invece, in controtendenza l’agricoltura (-1,0%).

La Sardegna, uscita con qualche incertezza dalla fase recessiva rispetto al resto delle regioni meridionali, segna +1,2%, dopo l’andamento negativo del prodotto nel 2016 (-1,9%) e la ripresa fatta registrare nel 2017 (+1,8%). Sono in particolare i servizi a trainare la “ripresina” (+1,2%), ma vanno bene anche l’industria in senso stretto (+0,8%) e i servizi (+1,4%), mentre l’agricoltura è inchiodata a zero.

Il Molise, nel 2018, segna un aumento del PIL dell’1,0%. Un segnale di crescita significativo se confrontato con il -1,0% dell’anno precedente, quando il Molise ha fatto registrare l’unico dato negativo tra le regioni meridionali. L’economia del Molise è stata sostenuta soprattutto dall’industria in senso stretto che ha registrato un’ottima performance (+5,4%), capace di compensare la debole crescita dei servizi (+0,7%), e il calo delle costruzioni (-1,0%) e, soprattutto, dell’agricoltura (-2,3%).

Anche la Basilicata si attesta su un incremento del PIL modesto, +1% nel 2018, dopo la forte accelerazione della crescita negli anni scorsi: addirittura +8,9% nel 2015. A trainare la regione è in particolare l’industria (+3,8%), ma anche l’agricoltura fa un balzo in avanti (+2,2%), mentre le costruzioni si attestano sul +0,7%. In contro tendenza i servizi il cui valore aggiunto cala del -0,2%.

La Sicilia fa segnare nel 2018 una crescita del PIL pari a +0,5%, dopo il -0,3% del 2017. Nell’Isola sono soprattutto l’industria in senso (+5,9%) e le costruzioni (+4,3%) a sostenere la ripresa. I servizi segnano appena +0,1%. Va male l’agricoltura, in caduta di -4,2%.

In Campania, nel 2018, è crescita zero del PIL, per effetto di andamenti soddisfacenti nelle costruzioni neutralizzati da andamenti meno soddisfacenti nel resto dei settori. Ciò dopo che nel 2017 il prodotto lordo aveva continuato a crescere dell’1,8%. Nella regione, le costruzioni vanno bene (+4,7%), l’agricoltura si attesta a +1,1%, mentre l’industria in senso stretto realizza un modesto +0,5%. In controtendenza i servizi, che pesano molto sul complesso dell’economia campana, in calo di -0,3%.

Infine la Calabria, unica regione nel Mezzogiorno e in Italia ad accusare una flessione del PIL nel 2018 (-0,3%), per effetto dovuto quasi esclusivamente alla performance negativa del settore

Page 14: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

12

agricolo (-12,1%) e dell’industria in senso stretto (-4,9%), conseguente in particolare alla performance delle public utilities. Questi dati contrastano un andamento positivo degli altri settori. Soprattutto le costruzioni che segnano +3,8%, e anche dei servizi che registrano +0,9%.

Page 15: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

13

Tab. 1. Tassi annui di variazione (%) del PIL e della domanda interna (a prezzi concatenati, anno di riferimento 2010)

Aggregati

2001-2007

2008-2014

2015 2016 2017 2018

2015-2018

2008-2018

2001-2018

Media annua

Cum-ulata

Media annua

Cum-ulata

Media annua

Cum-ulata

Media annua

Cum-ulata

Media annua

Cum-ulata

Mezzogiorno

PIL 0,6 4,5 -2,0 -13,2 1,5 0,2 1,0 0,6 0,8 3,3 -1,0 -10,4 -0,4 -6,3 Domanda interna - - - - - - - - - - - - - - Consumi finali interni 0,7 4,7 -1,7 -11,1 0,8 0,5 0,9 0,2 0,6 2,4 -0,9 -9,0 -0,3 -4,8 Spese per consumi finali delle famiglie 0,5 3,9 -2,0 -13,1 1,5 1,0 1,3 0,5 1,1 4,4 -0,9 -9,2 -0,3 -5,7 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 0,9 6,7 -0,9 -6,4 -0,9 -0,7 -0,2 -0,6 -0,6 -2,3 -0,8 -8,6 -0,1 -2,4 Investimenti fissi lordi 1,8 13,3 -6,7 -38,2 4,2 -0,8 2,9 3,1 2,3 9,6 -3,5 -32,3 -1,5 -23,2

Centro-Nord

PIL 1,3 9,7 -1,0 -7,1 0,8 1,4 1,9 0,9 1,2 5,1 -0,2 -2,4 0,4 7,1 Domanda interna - - - - - - - - - - - - Consumi finali interni 1,0 7,0 -0,6 -4,1 1,7 1,2 1,5 0,7 1,3 5,2 0,1 0,9 0,4 8,0 Spese per consumi finali delle famiglie 0,9 6,2 -0,8 -5,2 2,3 1,4 1,7 0,7 1,5 6,2 0,1 0,7 0,4 7,0 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 1,4 10,1 0,0 0,0 -0,5 0,6 0,7 0,5 0,4 1,5 0,1 1,4 0,6 11,6 Investimenti fissi lordi 2,3 17,4 -4,3 -26,7 1,5 4,8 4,8 3,5 3,6 15,2 -1,5 -15,5 0,0 -0,8

Italia

PIL 1,2 8,5 -1,3 -8,5 0,9 1,1 1,7 0,9 1,1 4,7 -0,4 -4,3 0,2 3,8 Domanda interna - - - - - - - - - - - - - - Consumi finali interni 0,9 6,3 -0,9 -6,2 1,4 1,0 1,3 0,6 1,1 4,4 -0,2 -2,1 0,2 4,1 Spese per consumi finali delle famiglie 0,8 5,6 -1,1 -7,4 2,1 1,3 1,6 0,7 1,4 5,8 -0,2 -2,0 0,2 3,4 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 1,2 8,8 -0,3 -2,3 -0,6 0,2 0,4 0,2 0,0 0,1 -0,2 -2,2 0,3 6,4 Investimenti fissi lordi 2,2 16,4 -4,9 -29,5 2,1 3,5 4,3 3,4 3,3 14,0 -2,0 -19,7 -0,4 -6,5

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e stime SVIMEZ.

Page 16: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

14

2. I SETTORI PRODUTTIVI

Agricoltura

Il valore aggiunto nel settore agricolo è diminuito, nel 2018, al Sud del –2,7%, dopo la stagnazione dell’anno precedente (0,2%), che a sua volta seguiva la flessione registrata nel 2016 (–3,3%). Tale calo è imputabile non solo ai fattori climatici, ma anche alla difficile situazione dell’olivicoltura, specie in Puglia, e alla diminuzione della produzione di agrumi. Nel Centro-Nord la produzione agricola è invece aumentata (+3,3%).

Nel 2018 in Italia gli occupati del settore agricolo erano pari a 917 mila unità, di cui 528 mila, il 57,5%, localizzati nel Mezzogiorno.

La buona performance dell’industria alimentare è testimoniata dal trend delle esportazioni del settore che negli ultimi anni sono in costante aumento. Questo elemento può rappresentare un fattore trainante per l’agricoltura meridionale, anche se nel 2018 le esportazioni di prodotti agroalimentari provenienti dal Mezzogiorno sono state pari a 7,1 miliardi, solo il 17% dell’export agroalimentare italiano.

Industria

Nel 2018 il prodotto del comparto industriale in senso stretto del Mezzogiorno è ulteriormente cresciuto, seppure con un incremento (1,4%) inferiore a quello dell’anno precedente (2,7%). Nel resto del Paese l’aumento è stato maggiore (1,9%), ma in significativo rallentamento rispetto al 2017 (3,8%). Il prodotto del settore delle costruzioni è aumentato in misura significativa, anche a seguito della ripresa degli investimenti: nel 2018 l’attività edile nel Mezzogiorno è cresciuta del 4,5%, molto di più dell’incremento registrato nel resto del Paese (0,7%).

L’occupazione industriale ha fatto segnare, nel 2018, una diminuzione di due decimi di punto percentuale nel Sud, a fronte di un’espansione dell’1,8% nelle regioni centro-settentrionali. Durante la «lunga crisi» (2008-2014), l’industria del Sud ha perso il 20% dell’intero stock occupazionale di inizio periodo a fronte di una perdita, nel Centro-Nord, di 12 punti percentuali.

Terziario

Il rallentamento nella crescita del 2018 ha riguardato anche i servizi: il prodotto terziario nel Paese è aumentato dello 0,6% rispetto al 2017, che aveva registrato un incremento più che doppio (1,4%). Ma al Sud il prodotto terziario è cresciuto dello 0,5%, meno che nel Centro-Nord (0,7%). L’occupazione terziaria nel Mezzogiorno ha superato i livelli pre-crisi: dal 2007 al 2018 si è incrementata di 74 mila unità, l’1,5% cumulato.

Page 17: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

15

Tab. 2. Produttività (a) dei settori dell'economia del Mezzogiorno in % del Centro-Nord (valori concatenati - anno di riferimento 2010)

Settori di attività 2000 2007 2015 2016 2017 2018 Variazioni assolute

2001-2007 2008-2018 2001-2018

Agricoltura, silvicoltura e pesca 54,9 53,9 47,5 44,5 47,8 43,5 -1,0 -10,4 -11,4 Industria 83,6 75,3 73,4 72,3 71,4 71,8 -8,4 -3,5 -11,8 In senso stretto 88,1 81,5 74,1 74,2 73,2 73,9 -6,6 -7,6 -14,3 Costruzioni e lavori del Genio civile 76,9 70,1 85,2 80,9 80,8 80,9 -6,9 10,8 4,0 Servizi 81,7 82,6 82,5 82,1 82,3 82,5 0,9 -0,1 0,8

- Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli 72,3 68,0 72,2 71,1 70,8 71,7 -4,2 3,7 -0,6

- Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 92,0 83,8 85,6 84,3 84,1 84,3 -8,2 0,4 -7,8 - Intermediazione finanziaria e attività immobiliari 89,6 92,6 86,8 86,4 89,2 88,3 3,0 -4,2 -1,2 - Pubblica Amministrazione e altre attività di servizi 96,7 103,2 101,9 101,9 102,0 102,4 6,5 -0,9 5,6

Totale settori extra agricoli 82,8 81,1 80,9 80,2 80,0 80,2 -1,7 -0,8 -2,5 Totale 79,2 78,1 77,9 77,1 77,0 76,9 -1,1 -1,1 -2,2

(a) Valore aggiunto ai prezzi base per occupato. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e stime SVIMEZ.

Page 18: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

16

3. IL MERCATO DEL LAVORO

Secondo i dati SVIMEZ, si riallarga il gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord: i posti di lavoro da creare per raggiungere il tasso di occupazione del Centro-Nord sono circa 3 milioni. La dinamica dell’occupazione meridionale presenta dalla metà del 2018 una marcata inversione di tendenza rispetto al primo semestre, con una divaricazione negli andamenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord: nella media del 2018, il Sud resta di circa 260 mila occupati sotto il livello del 2008 (–4,0% a fronte del +2,3% del Centro-Nord).

Sulla base dei dati territoriali disponibili, la crescita dell’occupazione nei primi due trimestri del 2019 riguarda soltanto il Centro-Nord (+137 mila unità pari al +0,8%) cui si contrappone il calo nel Mezzogiorno (–27 mila unità pari al –0,4%). Nel confronto con il quarto trimestre 2008 gli occupati meridionali sono, nel secondo trimestre del 2019, 175 mila in meno (–2,7%), mentre nel Centro-Nord sono 557 mila in più (+3,3%), in crescita continua da 17 trimestri.

Nel Mezzogiorno, l’occupazione, nella media dei primi due trimestri del 2019, è in calo in Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia, mentre cresce sensibilmente in Molise, Puglia, Basilicata e, soprattutto, Sardegna.

Nello stesso periodo calano, se pur di poco, gli inattivi di 15-64 anni (–33 mila rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente –0,3%), diminuzione che riguarda solo il Centro-Nord (–66 mila unità pari al –0,9%), mentre nel Mezzogiorno aumentano di circa 33 mila unità (+0,5%).

Nello stesso arco temporale, aumenta la precarietà al Sud e si riduce nel Centro-Nord: è più elevato nelle aree meridionali negli ultimi anni il peso delle assunzioni a termine sul totale delle nuove e maggiore anche la precarietà. Nel Mezzogiorno il part time riprende a crescere (+1,2%): l’incidenza, in particolare, del part time involontario è sensibilmente più alta nel Mezzogiorno dove si riavvicina all’80%, a fronte del 58% del Centro-Nord.

Al Sud, il tasso di occupazione giovanile 15-34 anni ancora nel 2019 è intorno al 29%, un dato senza paragoni in Europa.

Misurando la differenza con il 2008, e dunque gli effetti prodotti dalla lunga recessione, i livelli occupazionali a fine 2018 erano ancora molto distanti da quelli pre-crisi in quasi tutte le regioni: –7,8% in Sicilia, di poco meno in Calabria (–5,7%), Molise (–5,0%), Puglia (–4,6%), Basilicata (–3,6%), Sardegna (–3,3%) e Abruzzo (–2,4%). Solo la Campania si colloca su valori intorno a quelli del 2008 (–0,4%)

Page 19: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

17

Tab. 3. Occupati, per sesso, classe d'età e cittadinanza (anni 2018 e 2019 media dei primi due trimestri) Circoscrizioni territoriali

Totale Maschi Femmine 15-34 35-49 50 ed oltre Stranieri Italiani

Media 2017-2018

Variazioni assolute in migliaia

Mezzogiorno 50,7 19,1 31,7 1,2 -28,6 78,1 22,9 27,8 Centro-Nord 141,3 78,3 62,9 14,3 -124,1 251,0 9,3 132,0 Italia 192,0 97,4 94,6 15,5 -152,6 329,1 32,1 159,9

Variazioni % Mezzogiorno 0,8 0,5 1,4 0,1 -1,1 3,5 6,3 0,5 Centro-Nord 0,8 0,8 0,8 0,4 -1,7 4,3 0,4 0,9 Italia 0,8 0,7 1,0 0,3 -1,6 4,1 1,3 0,8

2018-2019 (media dei primi due trimestri) variazioni assolute in migliaia

Mezzogiorno -26,7 -36,0 9,3 -26,4 -37,7 37,4 -5,3 -21,4 Centro-Nord 137,4 48,6 88,9 35,5 -116,4 218,4 58,2 79,2 Italia 110,8 12,6 98,1 9,1 -154,1 255,8 53,0 57,8

Variazioni % Mezzogiorno -0,4 -0,9 0,4 -1,9 -1,5 1,6 -1,4 -0,4 Centro-Nord 0,8 0,5 1,2 0,9 -1,6 3,6 2,8 0,5 Italia 0,5 0,1 1,0 0,2 -1,6 3,1 2,2 0,3

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro.

Page 20: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

18

PARTE SECONDA

IL TERZO PILASTRO : LA SOCIETÀ DEL MEZZOGIORNO

4. LA DINAMICA DELLA POPOLAZIONE : UN PROBLEMA ITALIANO , UNA GRANDE

QUESTIONE PER IL SUD

In un’Italia, che è tra i paesi più vecchi al mondo, il Mezzogiorno si trova ad affrontare una delle crisi demografiche più profonde e durature tra i paesi del mondo occidentale. Nel corso dei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti e, soprattutto, gran parte delle sue forze generatrici e produttive: -1,2 milioni di giovani e -5,3 milioni di persone in età da lavoro A fronte di un Centro-Nord che, invece, dovrebbe contenere le perdite a 1,5 milioni di residenti. Nel Mezzogiorno, inoltre, sarà decisamente più debole il contributo delle nuove nascite e delle immigrazioni. La conseguenza è il drastico e preoccupante ridimensionamento demografico del Sud, associato all’insostenibile invecchiamento della popolazione, il più alto in Italia e nell’UE.

Dall’inizio del secolo a oggi, la popolazione meridionale è cresciuta di solo 81mila abitanti, a fronte di circa 3 milioni e 300 mila al Centro-Nord; nello stesso periodo la popolazione autoctona del Sud è diminuita di 642 mila unità, mentre al Nord è cresciuta di 85mila. Le migrazioni interne ed estere giocano un ruolo fondamentale nella crescita delle distanze tra Nord e Sud del Paese. Infatti, il Centro-Nord dall’inizio del secolo, in 18 anni, ha compensato i cali naturali di popolazione con un’eccezionale ondata migratoria dall’Europa dell’Est, dal Maghreb e dall’Asia, mentre dal Mezzogiorno si sono trasferite al Nord poco meno di 900 mila persone.

Continua lo spopolamento delle aree interne e “l’eutanasia” dei piccoli borghi

Continua il processo di spopolamento dei piccoli centri, in particolare dei comuni della dorsale appenninica e insulare, non compensato dall’afflusso di immigrati. Dal 2015, infatti, il rallentamento dei flussi di immigrati, unito alla nuova migrazione italiana, hanno contribuito al calo della popolazione totale, che ha interessato anche i medi e grandi centri urbani della penisola. La minore presenza di migranti extra comunitari nei centri minori e periferici non ha contribuito al contrasto di un processo di denatalità, invecchiamento e, soprattutto, migrazioni interne, che hanno ridisegnato la geografia umana del Paese spostando masse ingenti di persone dalle zone interne a quelle costiere e dalle aree svantaggiate economicamente a quelle più dinamiche.

Se si osserva, in particolare, l’evoluzione della popolazione nel periodo 2003-2017, il calo demografico nel Mezzogiorno, nei comuni montani e collinari, è di intensità tale da non essere compensata dai modesti incrementi registrati nei comuni medi e grandi. I piccoli e piccolissimi comuni presentano un tasso di natalità decisamente più contenuto di quello rilevato nei centri più grandi sia nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord. A bassi livelli di natalità corrispondono indici molto elevati di invecchiamento della popolazione residente: nei piccoli comuni del Mezzogiorno l’indice di vecchiaia è quasi doppio di quello medio dell’area (303,2% a fronte del 152,8%). La situazione è solo leggermente meno grave nel Centro-Nord, con valori rispettivamente pari a 248,9% e 177,5%.

Page 21: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

19

La popolazione italiana si riduce di più nel Mezzogiorno. Le immigrazioni non compensano le perdite e contribuiscono ad aggravare gli squilibri tra Nord e Sud.

Tab. 4. Natalità, mortalità, incremento naturale e migratorio della popolazione italiana residente, per regione e ripartizioni. Anno 2018 (valori per mille abitanti)

Regioni Tasso di natalità

Tasso di mortalità

Tasso di crescita naturale

Tasso migratorio Tasso di crescita totale Interno Estero

Estero stimato (a)

Interno + estero

Piemonte 6,7 12,3 -5,7 1,0 2,4 0,4 3,4 -4,5 Valle d'Aosta 7,2 11,7 -4,6 0,6 2,0 0,0 2,6 -4,3 Lombardia 7,5 9,9 -2,4 2,1 3,6 2,7 5,7 2,4 Trentino-Alto Adige 9,0 8,8 0,2 3,4 2,2 0,8 5,6 4,3 Veneto 7,2 10,0 -2,8 0,9 3,4 2,3 4,3 0,4 Friuli-Venezia Giulia 6,4 11,9 -5,5 2,3 3,4 2,0 5,7 -1,3 Liguria 5,8 14,3 -8,5 1,6 3,7 2,8 5,3 -4,1 Emilia-Romagna 7,3 11,2 -3,9 3,2 4,0 2,2 7,1 1,5 Toscana 6,7 11,6 -5,0 0,3 3,7 2,7 4,1 -2,0 Umbria 6,6 11,4 -4,9 -0,3 3,1 2,3 2,7 -3,0 Marche 6,7 11,2 -4,6 -0,1 2,4 0,4 2,4 -4,2 Lazio 7,2 9,7 -2,6 0,0 3,3 -0,4 3,3 -3,0 Abruzzo 6,8 11,2 -4,4 -0,6 3,4 2,4 2,8 -2,8 Molise 6,2 12,1 -5,9 -3,5 4,6 0,6 1,1 -9,4 Campania 8,3 9,2 -1,0 -4,4 2,0 1,2 -2,4 -4,3 Puglia 7,2 9,6 -2,5 -3,0 1,8 0,9 -1,3 -4,8 Basilicata 6,6 11,1 -4,5 -4,3 2,6 1,5 -1,7 -7,5 Calabria 7,8 10,1 -2,3 -5,2 3,6 2,9 -1,6 -4,9 Sicilia 8,1 10,4 -2,3 -3,6 1,4 0,5 -2,2 -5,4 Sardegna 5,7 9,9 -4,2 -1,5 1,2 0,5 -0,3 -5,2

Mezzogiorno 7,6 9,9 -2,3 -3,5 2,0 1,2 -1,5 -4,9 Centro-Nord 7,1 10,8 -3,6 1,4 3,3 1,7 4,7 -0,6 Nord-ovest 7,1 11,0 -3,9 1,7 3,3 2,1 5,0 -0,1 Nord-est 7,3 10,5 -3,2 2,2 3,5 2,1 5,7 1,0 Centro 6,9 10,6 -3,7 0,1 3,3 0,9 3,4 -2,8 ITALIA 7,3 10,5 -3,2 -0,3 2,9 1,5 2,6 -2,1

(a) Include gli individui irreperibili e quelli ricomparsi. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT.

Dal 2014, anno di massima espansione della popolazione italiana, è iniziato un calo crescente e continuo che è stato più intenso nel Mezzogiorno. Tra il 2015 e il 2018 si sono registrate -307 mila unità al Sud, contro le -128 mila del Centro-Nord. Un risultato determinato sia dal saldo naturale sempre più deficitario, che da emigrazioni di cittadini italiani e stranieri che sopravanzano il flusso di immigrazione extracomunitaria. Nel 2018 la diminuzione di popolazione è stata di 235,8 mila unità a fronte di un aumento di 111,1 mila stranieri residenti. Sempre nello stesso anno la diminuzione è risultata più intensa nel Sud: circa 100 mila residenti in meno rispetto ai –24 mila del resto del Paese. Il peso demografico del Sud dunque continua, pur se lentamente, a diminuire; è ora pari al 34,1%, 2 punti percentuali in meno dall’inizio del nuovo millennio. In ulteriore peggioramento la dinamica naturale: in Italia le nascite lo scorso anno sono state pari a 440 mila (–18 mila rispetto al 2017), di cui 65 mila stranieri (il 14,8% del totale). I decessi dal 1993 sopravanzano il numero dei nati e nel 2018 ammontano a oltre 633 mila, in lieve flessione (–16

Page 22: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

20

mila) rispetto al 2017. La popolazione italiana ha dunque subito una contrazione della componente naturale di oltre 193 mila unità. La componente esogena delle migrazioni (+69 mila unità) ha compensato solo in parte la perdita naturale, le iscrizioni dall’estero ammontano a 286 mila, di cui l’86% sono riferite a stranieri, mentre le cancellazioni per l’estero ammontano a circa 69 mila unità (il 26% circa sono riferite a stranieri).

Secondo le analisi della SVIMEZ le immigrazioni stanno svolgendo un ruolo crescente nell’evoluzione della demografia italiana, ma contribuiscono ad accentuare gli squilibri esistenti tra le due aree del Paese. Dal 1981 la distribuzione territoriale si è progressivamente modificata a vantaggio del Nord. Infatti, in quell’anno quasi un quarto della popolazione straniera risiedeva in una regione del Sud, dopo trentasette anni, questa quota si è ridotta di quasi 10 punti percentuali. Il risultato è che nel 2018 gli stranieri, con 4,4 milioni, rappresentano quasi l’11% della popolazione del Centro-Nord e, con circa 900 mila unità, solo il 4,4% di quella meridionale. Le immigrazioni di cittadini stranieri hanno assunto dall’inizio del nuovo secolo un carattere strutturale: aumenta il peso dell’anzianità del soggiorno e quello delle seconde generazioni, cresce anche il numero di concessioni di cittadinanza. Nel 2018, i nuovi italiani sono circa 112 mila unità (35 mila in meno del 2017), circa un decimo risiedono nel Mezzogiorno.

La trappola demografica italiana: natalità in calo e mortalità in crescita al Nord e al Sud

Nel 2018 tutte le regioni italiane hanno registrato un saldo naturale di popolazione negativo, nel complesso pari a 193,4 mila unità (–3,2 per mille), in linea con quello dell’anno precedente. Una tendenza stazionaria sia nel Centro-Nord che al Sud, dovuta a una diminuzione del numero dei morti che ha più che compensato il tendenziale calo delle nascite. Il Trentino-Alto Adige è la sola regione italiana con un saldo naturale positivo, ma che è andato dimezzandosi nel corso degli ultimi tre anni. La gravità del fenomeno appare in tutta evidenza: per il Centro-Nord in Liguria (–8,5 per mille), in Piemonte (–5,7 per mille), nel Friuli Venezia Giulia (–5,5 per mille); per il Sud in Molise (–5,9 per mille), in Basilicata (–4,5 per mille) e in Sardegna (–4,5 per mille). Il Trentino-Alto Adige è la regione italiana con il più alto tasso di natalità (9,0 per mille), seguito dalla Campania (8,3 per mille), dalla Sicilia (8,1 per mille) e dalla Calabria (7,8 per mille). Tra le più basse, invece, la natalità della Liguria (5,8 per mille), della Sardegna (5,7 per mille), del Molise (6,2 per mille). La Liguria, si conferma la regione con il tasso di mortalità più elevato (14,3 per mille), mentre il Trentino-Alto Adige (8,8 per mille), si conferma la regione con il tasso di mortalità più con tenuto.

L’Italia dal 2013 segna ogni anno un nuovo minimo storico delle nascite. Nel 2018 si è raggiunto un nuovo minimo: 439,7 mila nati vivi, 18,4 mila in meno rispetto al 2017. Nel Mezzogiorno lo scorso anno sono nati 156,8 mila bambini, circa 6 mila in meno che nel 2017.

Continua ad aumentare l’età in cui le donne mediamente fanno i figli, salita da 31 anni e mezzo nel 2014 a 31,9 anni nel 2018 (nel 1998 era 30,2 anni), livelli simili sia al Centro-Nord che al Sud. La mancanza di fiducia verso le strutture socio-economiche, l’insicurezza per il futuro e la posticipazione del momento della nascita dei figli sono alla base di questa dinamica. Nonostante il progressivo processo di inserimento della popolazione immigrata nel tessuto sociale e culturale italiano, il contributo garantito dalle donne straniere non è più sufficiente a compensare la bassa propensione delle donne italiane a fare figli. Il numero delle nascite che coinvolgono almeno un genitore straniero sono diminuite nell’ultimo triennio: si è passati infatti dalle 104 mila unità del 2014, alle 101 mila unità del 2015, alle 100 mila del 2016 e alle 99,2 mila del 2017. Si sono ridotte nel Centro-Nord, dove sono passate dalle 89,7 mila del 2014 alle 84,2 mila del 2017, mentre sono sostanzialmente stabili nel Mezzogiorno, dove sono passate dalle 14,4 mila del 2014, alle 14,5 mila del 2016 e alle 15 mila nel 2017.

Page 23: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

21

Il Mezzogiorno continua a perdere giovani e popolazione attiva

Secondo le proiezioni dell’ISTAT, nel 2065 la popolazione residente in Italia sarà pari a circa 54 milioni persone, con una perdita di oltre 6 milioni rispetto al 2017 (60.483.973). In questo scenario, secondo la SVIMEZ, il Mezzogiorno perderà una parte consistente delle sue forze più giovani (fino a 14 anni), pari a –1 milione e 46 mila unità, e di quella in età da lavoro (da 15 a 64 anni), pari a –5 milioni e 95 mila unità, per effetto di un progressivo calo delle nascite e di una continua perdita migratoria. Nel Centro-Nord la popolazione si ridurrà di circa 1 milione e mezzo di unità, la componente giovanile della metà di quella del Sud (-444 mila unità) e quella in età da lavoro di 3 milioni e 891 mila unità. In quest’ultima area la riduzione della popolazione sarà contenuta grazie alle immigrazioni dall’estero, da quelle dal Sud e da una ripresa della natalità. Dal generale calo demografico si distinguono solo tre regioni del Centro-Nord nelle quali il contributo degli immigrati compensa ampiamente il calo naturale che colpisce tutte le realtà territoriali italiane. La Lombardia con +300 mila abitanti; il Lazio, regione sede delle unità amministrative nazionali, con quasi 30 mila; e il Trentino-Alto Adige, regione che ha sempre dedicato particolare attenzione alle politiche sociali e del territorio, con un aumento di poco meno di 150 mila abitanti. Tutte le regioni meridionali saranno interessate da un drastico calo della natalità e dunque del saldo naturale, contrastato da una immigrazione dall’estero apprezzabile solo per l’Abruzzo e la Sardegna; al contrario, la Campania e la Puglia sembrerebbero essere interessate da un saldo migratorio continuamente negativo: le immigrazioni dall’estero non sembrano in grado di compensare le perdite migratorie interne.

Tab. 5. Popolazione al 2018 e previsioni demografiche al 2065

Regioni e ripartizioni

Popolazione ad inizio anno

2018 Saldo naturale Saldo migratorio Saldo totale

Popolazione ad inizio anno 2065

IDSO 2018

IDSO 2065

Abruzzo 1.315.196 -406.165 179.498 -226.667 1.088.529 97,4 146,3

Molise 308.493 -123.529 51.782 -71.747 236.746 103,9 160,8

Campania 5.826.860 -1.392.509 -11.891 -1.404.400 4.422.460 119,4 190,3

Puglia 4.048.242 -1.091.903 57.487 -1.034.416 3.013.826 118,4 195,3

Basilicata 567.118 -192.456 29.008 -163.448 403.670 107,6 186,9

Calabria 1.956.687 -545.188 85.587 -459.601 1.497.086 125,3 190,5

Sicilia 5.026.989 -1.201.640 88.654 -1.112.986 3.914.003 131,2 193,3

Sardegna 1.648.176 -656.577 190.175 -466.402 1.181.774 100,3 179,9

Mezzogiorno 20.697.761 -5.609.962 670.295 -4.939.667 15.758.094 118,1 189,4

Centro-Nord 39.786.212 -9.037.769 7.580.125 -1.457.644 38.328.568 87,7 122,4

Italia 60.483.973 -14.647.734 8.250.423 -6.397.311 54.086.662 95,8 140,9

IDSO= Indice di sostenibilità economica ((P0-14+P65e +)/P15-65)/L/(P15-64))*100. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT.

La nuova migrazione italiana riguarda molti laureati

L’emigrazione verso l’estero ha accelerato dal 2003 in tutto il Paese, senza soluzione di continuità. Le perdite migratorie di italiani si accentuano con la ripresa dell’economia dei paesi europei. Nel 2017 il saldo migratorio ha raggiunto i -50 mila emigranti netti nel Centro-Nord e i -22

Page 24: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

22

mila nel Mezzogiorno. Nel periodo 2002-2017 hanno lasciato il Centro-Nord quasi 286 mila persone e 126 mila il Mezzogiorno. L’esodo ha interessato tutte le regioni ma molto di più quelle del Mezzogiorno e del Nord-Ovest, relativamente meno quelle del Nord-Est e del Centro. La Lombardia è la regione italiana con il più elevato numero assoluto di emigranti (82 mila), seguono la Sicilia (44 mila), il Lazio (44 mila), il Veneto (42 mila) e il Piemonte (33 mila). Tra le regioni del Mezzogiorno che nel complesso vedono accrescere i saldi negativi dei flussi verso l’estero, sino a superare le 20 mila unità annue nell’ultimo triennio, il fenomeno è particolarmente grave in Sicilia, Calabria e Sardegna, relativamente meno in Campania e Puglia. Tra quelli che scelgono di andarsene, crescono gli emigrati in possesso di un’elevata preparazione professionale e culturale. La nuova migrazione riguarda un numero massiccio di giovani la cui età media sta aumentando per la presenza crescente di laureati che completano gli studi in età più avanzata. Negli anni precedenti lo scoppio della recessione economica, la quota dei laureati emigrati dal Mezzogiorno era assai modesta, rispetto a quella del Centro-Nord, tale differenza tuttavia si riduce sensibilmente con l’avanzare della crisi: dal 19,3% del Mezzogiorno e 29,1% del Centro-Nord nel 2007, a rispettivamente, 29,1% e 32,3% nel 2017. La migrazione dal Mezzogiorno si rivolge soprattutto verso i paesi Ue e ha come paese di destinazione principale la Germania, dove, nel 2017, si sono trasferiti quasi 11 mila meridionali (quasi un terzo del totale); seguono, a una certa distanza, il Regno Unito (5,7 mila unità), la Svizzera (3,8 mila unità) e la Francia (2,4 mila unità).

La “nuova migrazione” meridionale: giovani, con elevati livelli di istruzione, molti dei quali non tornano più

Dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno 2 milioni e 15 mila residenti: la metà sono giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati; il 16% circa si sono trasferiti all’estero. Oltre 850 mila di loro non tornano più nel Mezzogiorno. Nel 2017, in presenza di un tendenziale rallentamento della ripresa economica, si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 132 mila residenti, un quarto dei quali ha scelto un Paese estero come residenza, una quota decisamente più elevata che in passato, come più elevata risulta la quota dei laureati, un terzo del totale. La SVIMEZ ha rilevato come la «nuova migrazione» sia figlia dei profondi cambiamenti intervenuti nella società meridionale, un’area che sta invecchiando e che non si dimostra in grado di trattenere la sua componente più giovane – appartenente alle fasce di età 25-29 anni e 30-34 anni – sia quella con un elevato grado di istruzione e formazione, sia coloro che hanno orientato la formazione verso le arti e i mestieri. Nel 2017 gli appartenenti a queste due classi di età che lasciano definitivamente una regione del Sud ammontano rispettivamente, a 16 mila e a 12 mila unità. Oltre il 68% dei cittadini italiani che nel 2017 ha lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, aveva almeno un titolo di studio di secondo livello: diploma superiore il 37,1% e laurea il 30,1% (nel 2010 le quote risultavano rispettivamente pari al 38,7 e a 25,1%).

La consistente perdita dei giovani laureati interessa tutte le regioni del Mezzogiorno e assume un rilevo maggiore in Basilicata e in Abruzzo, rispettivamente il 33,9% e il 35,0%. Nelle altre regioni del Mezzogiorno la quota dei laureati che si trasferisce al Centro-Nord supera sempre il 30% con l’eccezione della Campania (29,1%) e della Sardegna (28%).

Per quanto riguarda le migrazioni interne, nel 2017, quasi 110 mila abitanti si sono trasferiti dal Mezzogiorno in una regione centro-settentrionale, 2 mila in più dell’anno precedente. Le partenze più consistenti avvengono dalle regioni più grandi come la Campania con 31,4 mila unità, la Sicilia con 26,4 mila e la Puglia con 19,6 mila unità; a esse si unisce la Calabria (13,9 mila) che presenta il più elevato tasso migratorio, 4,0 per mille, seguita dalla Basilicata (3,8 per mille) e dal Molise (3,0 per mille). La Lombardia è la meta preferita da coloro che lasciano una regione del Mezzogiorno, quasi un terzo del totale; meno attraenti risultano, invece, le regioni del Nord-Est, a vantaggio di quelle del Centro, tra le quali, il Lazio si conferma stabilmente, con quasi un quinto del totale, la seconda regione di destinazione degli emigrati dalle regioni del Mezzogiorno. Cresce la

Page 25: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

23

componente femminile delle emigrazioni giunta ormai alla quasi parità con quella maschile; con essa aumenta anche il tasso di scolarità dei migranti. I laureati del Mezzogiorno, nella maggior parte dei casi, preferiscono trasferirsi in Lombardia con un’incidenza del 40%, seguono l’Emilia-Romagna con 32,7% e il Trentino-Alto Adige con il 28,7%. Decisamente più modesta è la quota di laureati diretti in Valle d’Aosta e in Friuli Venezia Giulia (rispettivamente pari al 16,6% e al 22,7%).

Tab. 6. Flussi e saldi migratori del Mezzogiorno con il Centro-Nord dal 2002 al 2017

Voci 2002-2017 2017

Unità % Unità % Emigrati 2.015.059

132.187

-di cui laureati 379.995 18,9

34.872 26,4

-di cui giovani (15-34 anni) 1.035.617 51,4

66.557 50,4 -di cui laureati 243.166 23,5

21.970 33,0

Immigrati 1.162.946

63.585

-di cui laureati 139.541 12,0

13.189 20,7 -di cui giovani (15-34 anni) 423.495 36,4

19.231 30,2

-di cui laureati 62.448 14,7

4.897 25,5

Saldo migratorio -852.113

-68.602

-di cui laureati -240.454 28,2

-21.683 31,6

-di cui giovani (15-34 anni) -612.122 71,8

-47.326 69,0 -di cui laureati -180.718 29,5 -17.073 36,1

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT.

Un’alternativa all’emigrazione: il pendolarismo di lungo periodo

Nel Mezzogiorno il pendolarismo fuori regione interessa nella media del 2018 circa 236 mila persone, pari al 10,3% del complesso dei pendolari, a fronte del 6,1% della media del Centro-Nord. Di questi circa 57 mila, in crescita di 7 mila rispetto all’anno precedente, si muovono verso altre regioni appartenenti allo stesso Mezzogiorno, mentre 179 mila, pari a circa il 3% degli occupati residenti nel Sud e nelle Isole, si dirigono verso le regioni del Centro-Nord o verso l’estero. Rispetto al 2017 gli occupati residenti nel Mezzogiorno con un posto di lavoro nelle regioni centro-settentrionali o all’estero aumentano di circa 17 mila unità, pari al +10,3%. L’aumento dei pendolari spiega circa un terzo dell’aumento dell’occupazione complessiva del Mezzogiorno, pari nella media del 2018 a circa 51 mila unità: il rallentamento in corso d’anno nella crescita delle opportunità di lavoro nelle regioni meridionali ha probabilmente determinato flussi di pendolari più consistenti verso le regioni del Centro-Nord e verso l’estero, interessati da una congiuntura ancora positiva. L’incidenza sul totale degli occupati dei pendolari che lavorano fuori dalla circoscrizione di residenza è alquanto differenziata tra le diverse regioni del Mezzogiorno. Il valore più elevato si registra in Abruzzo e in Campania (4,0%), ma in flessione rispetto al 2017, seguite dal Molise (3,4%), dalla Sicilia(2,9%) e dalla Basilicata (2,7%), mentre è più contenuto in Calabria (2,2%), in Puglia (1,9%) e in Sardegna (1,6%). Gli spostamenti dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord sono solo in minima parte compensati da movimenti in direzione opposta. Oltre il 40% dei pendolari meridionali ha meno di 35 anni, rispetto al 22% degli occupati totali, mentre quasi il 70% ne ha meno di 45. Per quanto riguarda i settori, l’agricoltura ha un ruolo decisamente marginale, mentre l’industria e soprattutto le costruzioni presentano una quota consistente. I pendolari meridionali, in complesso, si caratterizzano per un più elevato grado di istruzione e per una professionalità più elevata rispetto agli occupati totali. Il 23,4% circa dei pendolari che lavorano nel Centro-Nord o all’estero ha al massimo la scuola dell’obbligo a fronte del 36% degli occupati totali. I laureati sono rispettivamente circa il 21% degli occupati in complesso e il 32,6% dei

Page 26: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

24

pendolari di lunga distanza.

5. LA CONDIZIONE FEMMINILE IN ITALIA

Le regioni del Sud tra le ultime in Europa per tasso di attività e occupazione femminile

Tra il 2008 e il 2018 l’occupazione femminile cresce significativamente in Europa (+6,3%, pari al +0,6% in media all’anno), in misura più sensibile rispetto a quella maschile (+1,2%, pari al +0,1% in media all’anno). L’Italia si colloca poco al di sotto della media UE (+0,5%). Nel periodo preso in esame complessivamente in Italia l’occupazione femminile sale più velocemente nel Centro-Nord (+0,6% all’anno, a fronte del +0,3% del Mezzogiorno): il divario è particolarmente apprezzabile negli anni della crisi (+0,3%, a fronte del –0,5% delle regioni meridionali), mentre diventa favorevole al Mezzogiorno durante la ripresa (+1,6% all’anno tra il 2014 e il 2018, a fronte del +1,0% nel Centro-Nord). Terziarizzazione dell’economia e crescenti livelli d’istruzione sono i principali driver di questa evoluzione. Nel 2018 per l’Italia aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea, che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali (49,5%, a fronte del 63,3% della UE a 28). Nel nostro Paese si riduce in misura più significativa il gap tra uomini e donne per effetto della contrazione nel periodo considerato del tasso di occupazione maschile. Il dato italiano si caratterizza, peraltro, per un divario più elevato rispetto alla media europea (18 punti circa, a fronte dei 10,5 della UE a 28). Sempre tra il 2008 e il 2018, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile il Centro-Nord è relativamente poco distante dai livelli medi europei (58,5%, a fronte del 63,3% della media UE a 28), mentre il Mezzogiorno, già molto lontano all’inizio del periodo, perde ulteriormente terreno, passando dai 27,5 punti del 2008 ai 30,5 punti del 2018.

Tutte le regioni del Mezzogiorno d’Italia si collocano in posizioni di grave svantaggio rispetto alle altre regioni europee. Se confrontiamo le regioni italiane con il resto delle regioni europee, solo la provincia di Bolzano si colloca nella prima metà della classifica delle regioni europee, con un tasso di occupazione femminile di circa il 68%, 114° nella graduatoria. Seguono Valle d’Aosta (156°), Emilia-Romagna (176°) e la Provincia di Trento (185°), con tassi di occupazione femminili intorno al 62-63%, in linea con la media europea dei 28 paesi membri, che è pari al 63,3%. Delle rimanenti regioni del Centro-Nord, Toscana, Piemonte e Lombardia si collocano intorno alla 200-esima posizione, mentre le altre su posizioni più arretrate, con il Lazio ultimo in 240-esima posizione, con un tasso del 53,1%. Le regioni del Mezzogiorno, sensibilmente distanziate da quelle del Centro-Nord, si collocano tutte nelle ultime posizioni, con Basilicata, Puglia, Calabria, Campania e Sicilia nelle ultime sei con valori del tasso di occupazione intorno al 30-35%, di oltre 30 punti inferiori alla media europea. Solo l’isola di Mayotte dei domini d’oltre mare francesi si colloca al di sotto (277°; 25,4%). Tra le regioni meridionali, in posizioni meno sfavorevoli si trovano Abruzzo (257°) con un tasso di occupazione pari al 45,6%, Sardegna (261°; 45%) e Molise (264°) con un tasso di occupazione intorno al 42%.

Sui dati relativamente bassi di occupazione delle donne italiane incide anche il sensibile ritardo nel grado di istruzione rispetto alla gran parte dei paesi UE. Nel periodo considerato la distanza dall’Europa delle regioni del Centro-Nord è minore e in significativa riduzione (da 12,8 punti percentuali nel 2001 a 9,6 nel 2018), mentre è più elevata e in leggero aumento per le regioni meridionali (da 20,2 punti percentuali nel 2001 a 21,9 nel 2018). Cresce, inoltre, il gap tra Mezzogiorno e Centro-Nord, da 7,4 punti all’inizio del secolo a 12,3 punti nel 2018.

Page 27: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

25

Tab. 7. Tasso di occupazione femminile (15-64 anni) per regione (NUTS2): prime e ultime 20 regioni su 277. Anno 2018

Regioni Paese Tasso di occupa-zione

Regioni Paese Tasso di occupa-zione

Stockholm SE 79,7 Ipeiros EL 45,5 Southern Scotland UK 78,5 Guadeloupe FR 45,1 Åland FI 78,4 Thessalia EL 45,1 Övre Norrland SE 77,5 Sardegna IT 45,0 Småland med öarna SE 76,8 Extremadura ES 44,8 Västsverige SE 76,8 Kentriki Makedonia EL 43,2 Oberbayern DE 76,5 Molise IT 42,0 Brandenburg DE 76,4 La Réunion FR 41,8 Chemnitz DE 76,1 Sterea Ellada EL 41,7 Gloucestershire, Wiltshire and Bristol/Bath area UK 76,1 Ciudad Autónoma de Melilla ES 41,3 Leipzig DE 75,9 Ciudad Autónoma de Ceuta ES 40,0 Cumbria UK 75,8 Dytiki Makedonia EL 39,6 Freiburg DE 75,8 Dytiki Ellada EL 38,7 Dresden DE 75,4 Guyane FR 37,8 Norra Mellansverige SE 75,4 Basilicata IT 36,9 Oberfranken DE 75,2 Puglia IT 32,8 Trier DE 75,1 Calabria IT 31,1 Hovedstaden DK 75,1 Campania IT 29,4 Utrecht NL 75,0 Sicilia IT 29,1 Thüringen DE 74,9 Mayotte FR 25,4

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Eurostat ed ISTAT.

La bassa occupazione delle donne al Sud riflette anche la carenza di domanda di lavoro che già penalizza gli uomini e, in particolare, i giovani. Questo spiega il tasso di disoccupazione femminile al Sud intorno al 20%, su valori più che doppi rispetto al Centro-Nord e quasi tripli rispetto alla media europea.

Le donne del Sud: tra crisi occupazionale e moderata ripresa

Tra il 2008 e il 2018, in Italia, l’occupazione femminile è aumentata (+498 mila unità, +5,4%). La moderata crescita dell’occupazione nell’arco del decennio, tuttavia, avviene in un contesto in cui la partecipazione al mercato del lavoro (in particolare delle giovani donne) è bassissima. Inoltre, bassa valorizzazione delle competenze, segregazione occupazionale e maggiore presenza, sempre meno volontaria, nel lavoro non standard continuano a caratterizzare il lavoro femminile. Il dato complessivo mostra che esiste una gravissima emergenza lavoro per le giovani generazioni: le occupate tra i 15 e i 34 anni si riducono di oltre 769 mila unità (–26,4%), in calo anche quelle delle classi centrali, mentre crescono decisamente quelle con 50 anni e oltre (+1 milione 445 mila pari al +70,7%). La contrazione dell’occupazione giovanile è sostanzialmente simile per genere e per territorio con una leggera accentuazione nelle regioni meridionali. Un dato che è dovuto a un forte aumento del lavoro part time (+22,8%) a fronte di una flessione del lavoro a tempo pieno (pari al –1,3%). Rispetto al 2008 la percentuale di lavoratrici a tempo parziale sale dal 27,8 al 32,4%. L’incremento del part time peraltro è interamente involontario e quindi non motivato da esigenze di conciliazione tra il lavoro e la vita privata, ma dalla carenza di opportunità di lavoro a tempo pieno. Le donne occupate con part time involontario aumentano nel decennio di 939 mila unità pari al +97,2%.

Page 28: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

26

Il downgrading dell’occupazione femminile: la ristrutturazione alla rovescia del mercato del lavoro

L’Italia, in particolare negli anni della crisi, è uno dei pochi paesi ad aver contratto il peso del lavoro qualificato, a favore di un incremento del lavoro meno qualificato, soprattutto nei servizi alla persona e domestici. Con la crisi del 2008, a differenza degli altri paesi europei, le professioni qualificate sono state le più colpite, con un downgrading delle qualifiche. Le professioni altamente qualificate hanno perso, infatti, tra il 2008 e il 2014, oltre 1,2 milioni di unità (–13,6%) a livello nazionale (nell’UE a 28 sono aumentate del 3,2%), un calo che nel Mezzogiorno è stato assai più accentuato (–18,1%) rispetto al Centro-Nord (–12,0%). Ancora più consistente è il downgrading per la componente femminile, rispettivamente –20,7% nel Mezzogiorno e –13,7% nel Centro-Nord. Questa dinamica negativa sembra invertirsi negli anni della ripresa in termini complessivi ma ancor più per la componente femminile nel Mezzogiorno: le professioni cognitive altamente qualificate crescono tra il 2014 e il 2018 nel complesso del 2,5% e del 6,5% per le donne; nell’ambito delle occupate crescono anche, negli ultimi anni, impiegate e addette al commercio e ai servizi di vendita (+7,5%), le posizioni manuali specializzate e qualificate (+8,6%) e, sia pur in misura più contenuta le professioni non qualificate (+3,5%). Il processo di upgrading sembra, peraltro, più contenuto nelle regioni meridionali rispetto al resto del Paese, dove il gruppo delle professioni cognitive cresce dell’8,3% mentre le professioni elementari flettono del 3,1%.

Il fenomeno del downgrading ha rappresentato una sorta di «ristrutturazione alla rovescia» del nostro mercato del lavoro, su cui hanno pesato, specialmente nelle regioni meridionali, il netto calo della domanda pubblica (allargata all’intero sistema della sanità, dell’assistenza sociale e dell’istruzione), il rallentamento della crescita dell’occupazione nelle grandi imprese, nonché la competitività affidata più all’abbattimento dei costi che all’innovazione tecnologica.

Gli squilibri di welfare pesano sull’occupazione femminile al Sud

La scarsa partecipazione femminile è legata in buona parte all’incapacità delle politiche italiane di welfare e del lavoro di conciliare i tempi della vita lavorativa e familiare, causando anche incertezza economica e una modifica dei comportamenti sociali, tra cui la riduzione del tasso di fertilità delle italiane. Si è innescato un circolo vizioso per cui la conciliazione lavoro e vita privata è complicata e il reddito medio delle famiglie non è adeguato per domandare servizi privati per l’infanzia, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la «divisione del lavoro» all’interno delle famiglie è fortemente dicotomica per genere e la partecipazione femminile al mercato del lavoro patologicamente bassa. Nel Mezzogiorno solo un terzo dei Comuni offre degli asili nido che coprono appena il 5,4% dei bambini con età inferiore ai tre anni, a fronte del 17% delle regioni del Centro-Nord. Le regioni con tassi di occupazione più vicini alla media europea sono quelle con la migliore copertura dei servizi per la prima infanzia, i migliori tassi di istruzione femminili e le strutture produttive più evolute (vedi Trento, Emilia-Romagna, Toscana).

6. L’ IMPATTO DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Reddito di cittadinanza utile, ma al Sud servono investimenti e politiche su diritti di cittadinanza

Da diversi anni la SVIMEZ ha proposto l’introduzione anche nel nostro Paese di una politica universale di contrasto al disagio e all’esclusione sociale, per questo va accolta con favore la scelta del Primo Governo Conte di porre al centro della manovra di bilancio 2019 una misura di contrasto

Page 29: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

27

alla povertà, il Reddito di Cittadinanza. Anche se la SVIMEZ sottolinea che la povertà non si combatte solo con un contributo monetario e che identificare la misura come una politica per il Mezzogiorno è scorretto perché si basa sulla dannosa semplificazione che vorrebbe dividere il Paese nei due blocchi contrapposti e indipendenti di un Nord-produttivo e un Sud-assistito. Il Reddito di Cittadinanza è una misura “nazionale” di contrasto alla povertà, le politiche per il Mezzogiorno, soprattutto dopo la crisi, dovrebbero passare attraverso una ridefinizione delle politiche di welfare e sul tema dei “diritti di cittadinanza”.

Nel 2018 le famiglie che avevano due o più occupati erano il 29,3% nel Mezzogiorno e il 52,7% nel Centro-Nord. Nel Sud, dunque, prevalgono i nuclei familiari monoreddito (2,2 milioni di famiglie, a fronte di circa 1 milione e mezzo con 2 o più occupati e 1,2 milioni senza occupati). La debole ripresa economica non ha inciso sui livelli di povertà che restano sostanzialmente stabili nel 2018 dopo l’aumento degli anni precedenti. Da valori di poco superiori a 1,5 milioni nella prima metà degli anni Duemila le persone in povertà assoluta sono salite nell’ultimo biennio poco sopra i 5 milioni, di cui quasi 2,4 milioni nel solo Mezzogiorno (8,4% dell’intera popolazione in Italia e l’11,4% al Sud). Il peggioramento della povertà assoluta nel Sud avviene soprattutto nelle grandi aree metropolitane (dal 10% al 13,6%). Si conferma una polarizzazione dell’area di povertà nelle grandi aree urbane, mentre le aree interne vengono gradualmente abbandonate. Le famiglie in povertà assoluta che nel 2017 erano nel Mezzogiorno 845 mila, scendono a 822 mila nel 2018, l’incidenza sul totale delle famiglie dell’area passa dal 10,3% al 10%, un valore circa doppio di quello del Centro-Nord (5,6%). La povertà riguarda sempre più i giovani, che scontano le difficoltà di entrare sul mercato del lavoro: la quota di famiglie in povertà assoluta raggiunge nel caso di capo famiglia under 35 anni il 14% nel Mezzogiorno e circa il 9% nel Centro-Nord.

Tab. 8. Reddito di Cittadinanza: domande presentate e accolte per regione al 4 settembre 2019

Regioni e circoscrizioni Domande presentate

Nuclei beneficiari Persone coinvolte % domande

accolte Importo medio

mensile Piemonte 86.558 54.539 117.497 63,0 450,03 Valle d'Aosta 1.908 1.066 2.162 55,9 375,68 Lombardia 143.057 80.543 182.212 56,3 416,42 Trentino Alto Adige 5.811 2.945 7.016 50,7 352,88 Veneto 55.355 29.440 63.107 53,2 386,25 Friuli Venezia Giulia 18.890 10.980 20.998 58,1 362,90 Liguria 32.246 20.538 40.881 63,7 436,79 Emilia-Romagna 64.339 34.230 77.900 53,2 388,37 Toscana 65.227 36.946 81.716 56,6 414,87 Umbria 17.032 10.275 23.007 60,3 450,18 Marche 26.712 14.564 33.705 54,5 404,28 Lazio 130.980 85.003 187.222 64,9 464,93 Abruzzo 31.755 20.617 46.071 64,9 450,80 Molise 8.257 5.634 12.718 68,2 466,65 Campania 251.309 181.874 520.936 72,4 549,89 Puglia 126.610 88.137 223.227 69,6 494,83 Basilicata 15.413 10.071 22.264 65,3 433,39 Calabria 93.071 65.458 165.575 70,3 482,99 Sicilia 224.826 165.273 431.018 73,5 529,40 Sardegna 61.107 41.874 89.191 68,5 461,63 Mezzogiorno 812.348 578.938 1.511.000 71,3 514,85 Centro-Nord 648.115 381.069 837.423 58,8 429,98 Italia 1.460.463 960.007 2.348.423 65,7 481,16

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati INPS ed ISTAT.

Page 30: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

28

Aumentano i lavoratori poveri

Il peggioramento qualitativo del mercato del lavoro, dovuto alla crescente precarizzazione, determina soprattutto nel Mezzogiorno la crescita significativa della povertà assoluta anche tra le famiglie in cui la persona di riferimento è occupata: nel 2018 l’incidenza della povertà assoluta sale nel Sud all’8%, era al 7,2% nel 2017 (5,6% al Nord e 4,9% al Centro), su valori doppi rispetto a quelli del 2008. Nel caso in cui il capo famiglia occupato ha un contratto di operaio la quota di famiglie in povertà assoluta sale al 14,7% nel Mezzogiorno (era l’11,7% nel 2017) mentre scende di circa un punto intorno all’11% nel Centro-Nord, evidenziando, come in assenza di specifiche politiche di supporto (fissazione di un salario minimo, programmi di training e formazione obbligatori, ecc.), il fenomeno dei working poors continui a crescere, soprattutto nelle aree più svantaggiate caratterizzate da un mercato del lavoro con bassa concorrenza. La crescita del lavoro a bassa retribuzione, dovuto a complessiva dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario, è una delle cause, in particolare nel Mezzogiorno, per cui la crescita occupazionale nella ripresa non è stata in grado di incidere su un quadro di emergenza sociale sempre più allarmante. In questo contesto, l’introduzione del Reddito di Inclusione, il 1° gennaio 2018, ha costituito una novità rilevante e la scelta di porre al centro della manovra di bilancio 2019 una nuova misura di contrasto alla povertà, il Reddito di Cittadinanza, è da considerarsi opportuna, anche se una via più semplice al conseguimento dello stesso obiettivo avrebbe potuto essere il potenziamento dello strumento già disponibile, il ReI. La maggiore generosità del RdC rispetto al ReI – in termini sia di importi unitari, soprattutto per le persone sole, sia della platea di potenziali beneficiari – comportava, nelle previsioni iniziali, un significativo incremento della spesa e un contenimento apprezzabile della povertà.

Impatto nullo del RdC sul mercato del lavoro

Scarso se non nullo risulta, al momento, l’impatto del Reddito di Cittadinanza sul mercato del lavoro. Con l’entrata in vigore del RdC ci si aspettava un aumento del tasso di partecipazione e del tasso di disoccupazione che nei cinque mesi trascorsi non c’è stato. Le persone in cerca di occupazione si sono ridotte dai circa 2,7 milioni del primo trimestre dell’anno a valori intorno i 2,4-2,5 milioni negli ultimi mesi. Il tasso di disoccupazione è sceso gradualmente dal 10% di aprile al 9,5% di agosto 2019. Secondo le analisi della SVIMEZ, sembra che il Reddito di Cittadinanza stia allontanando dal mercato del lavoro anziché richiamare persone in cerca di occupazione. L’avvio da luglio della nuova fase con i centri per l’impiego e i navigator non sembra al momento aver modificato la tendenza. Un secondo problema è che il trasferimento monetario ”spiazza” il lavoro perché tende ad alzare il salario di riserva e, di conseguenza, disincentiva il beneficiario ad accettare posti precari, occasionali, a tempo parziale.

La SVIMEZ propone di uscire dalla logica del sussidio monetario e rendere il RdC una parte di un progetto più ampio di inclusione sociale. Le risorse disponibili per il Reddito di Cittadinanza potrebbero finanziare, infatti, un sistema integrato di servizi per le fasce più deboli della popolazione, attraverso interventi mirati per contrastare l’abbandono scolastico, integrare i servizi socio-sanitari (asili nido, strutture socio-assistenziali per anziani) oggi carenti, rafforzare le politiche attive del lavoro, migliorando così la qualità della vita delle fasce più fragili della popolazione e attivando, al tempo stesso, anche attraverso il mondo della cooperazione, occasioni di lavoro.

Page 31: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

29

7. IL DIVARIO TERRITORIALE NEI SERVIZI PUBBLICI E LA CONVERGENZA

INTERROTTA DEL PROCESSO DI SCOLARIZZAZIONE

Al Sud scarsi servizi a cittadini e imprese

Secondo le analisi della SVIMEZ, i dati sulla spesa per i servizi ai cittadini e alle imprese sfatano il luogo comune su un Sud inondato di risorse pubbliche perse in sprechi e inefficienze. La spesa pro capite delle Amministrazioni pubbliche è pari, nel 2017, a 11.309 euro nel Mezzogiorno e a 14.168 nel Centro-Nord. Un divario che è andato aumentando negli anni Duemila. Lo svantaggio meridionale è molto marcato per la spesa relativa alla formazione e ricerca e sviluppo e cultura, con una quota pro capite rispettivamente dell’80% e del 70% rispetto al Centro-Nord. Molto elevato il divario anche nella sanità (circa 85%).

La spesa sanitaria pro capite è di circa 1.800 euro in Italia nel 2016 e di 2.800 nella media UE a 15. Siamo a 3.000 euro circa in Francia e Danimarca e a 3.800 in Germania. Consistente anche il divario interno al nostro Paese: circa 1.600 euro nel Mezzogiorno e 2.000 euro nel Centro-Nord. Significativo anche il divario dell’Italia con l’UE a 15 relativo alla spesa per abitante in prestazioni sociali per famiglie e bambini (circa 500 euro a fronte di 800 nel 2016). La dotazione relativamente bassa di risorse si traduce in un evidente problema di equità: si amplificano per le fasce economicamente più deboli le difficoltà di accesso ai servizi per soddisfare i bisogni essenziali: l’istruzione, la salute e l’assistenza. Difficoltà che aumentano soprattutto per le famiglie residenti nelle regioni meridionali, per quelle con tre o più minori o con stranieri.

Lo squilibrio tra necessità e risposte ricevute si rileva, ad esempio, per le famiglie che hanno un componente con problemi di salute. L’analisi territoriale evidenzia che dove la richiesta è maggiore la risposta è minore: nel Mezzogiorno il 35,6% delle famiglie vorrebbe ricevere aiuto ma solo il 12,5% lo riceve. Sensibile il divario anche al Nord dove il 23,5% vorrebbe ricevere aiuto ma solo il 13,5% lo riceve. Le famiglie del Centro sono quelle che trovano una risposta abbastanza in linea con le loro richieste (il 19,9% vorrebbe ricevere aiuto e il 18,8% lo riceve). Con riguardo ai servizi sanitari, risulta dall’indagine che nel 2016 sono stati utilizzati dal 69,5% delle famiglie e che il 60,4% (circa 15,2 milioni) ha sostenuto delle spese, affrontate con difficoltà nel 62% dei casi. Rispetto al complesso delle famiglie le maggiori difficoltà si osservano in quelle più povere: nel Mezzogiorno (73,2%), nei primi due quintili di reddito la percentuale di famiglie che incontra difficoltà è sensibilmente più elevata (77,9 e 75,5% rispettivamente). A livello territoriale le maggiori difficoltà si incontrano nelle aree meno sviluppate: nel Mezzogiorno la percentuale di famiglie che incontra difficoltà è del 73,2%.

Continua l’emigrazione ospedaliera dal Sud verso il Centro-Nord

La quantità e qualità dei servizi sociali nel Mezzogiorno risultano ancora decisamente inferiori a quelle del resto del Paese. Questo spiega un più elevato tasso di emigrazione ospedaliera verso le regioni del Centro-Nord, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti. Nel Mezzogiorno circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per tali patologie si sposta verso altre regioni, a fronte di valori compresi tra il 5% e il 6% nelle regioni del Centro-Nord. Il tasso di emigrazione si riduce in Basilicata e Sicilia, resta sostanzialmente stabile in Campania e aumenta in tutte le altre regioni meridionali. Il basso tasso di gradimento dei servizi sanitari al Sud dipende da numerosi fattori, ambientali, strutturali e organizzativi, ma anche da una meno consistente dotazione di posti negli istituiti di cura.

I posti letto in degenza ordinaria per 1.000 abitanti sono, nel 2016, 3,18: 3,37 nel Centro-Nord e 2,82 nel Mezzogiorno. Divari sensibili si rilevano per le lungo degenze e la riabilitazione. Divari ancora più ampi tra Nord e Sud del Paese si rilevano nella dotazione di posti letto nei presidi

Page 32: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

30

residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari. I posti letto complessivi per 100.000 abitanti, sono 791 nel Centro-Nord e 363 nel Mezzogiorno. Relativamente più equilibrata è la situazione del Mezzogiorno con riguardo ai minori (173 posti letto a fronte di 201 nel Centro-Nord), peraltro, in netto peggioramento dal 2009 soprattutto nelle regioni meridionali. Ampi squilibri si rilevano con riguardo ai posti letto per disabili (53 posti letto a fronte di 100 nel Centro-Nord), e ai posti letto per anziani (1.137 posti letto a fronte di 2.608 nel Centro-Nord).

Grave il ritardo anche nei servizi per l’infanzia. Gli ultimi dati disponibili relativi al 2016 confermano inoltre la situazione di sostanziale stagnazione sui bassi livelli del decennio scorso. Nel 2016, la percentuale di bambini tra zero e tre anni di età che hanno usufruito dei servizi per l’infanzia, è nel Mezzogiorno del 5,4%, era al 4,6% nel 2013 e al 4,3% nel 2007. In lieve calo risulta il dato medio dei comuni del Centro-Nord (17%, era al 17,2% nel 2013), mentre il dato medio nazionale sale moderatamente (13% a fronte del 12,9% del 2013 e del 12% del 2007).

Nel 2016 la spesa dei comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta in volume a circa 7 miliardi 55 milioni di euro, corrispondenti allo 0,42% del PIL nazionale. Aumenta leggermente la spesa media per abitante (116 euro a livello nazionale). Al Sud la spesa pro capite è decisamente inferiore rispetto al resto d’Italia: 74 euro nel 2016 in aumento rispetto all’anno precedente (70 euro pro capite), a fronte dei 139 del Centro-Nord stabile rispetto al 2015. Per quanto riguarda l’Assistenza domiciliare integrata (ADI) erogata dai comuni, dal 2007 al 2016 la quota di persone presa in carico ogni cento persone di 65 anni è calata dallo 0,8 allo 0,6%. La quota di anziani presa in carico ogni 100 abitanti è pari allo 0,2% nel Mezzogiorno a fronte dello 0,3% del 2007; nel Centro-Nord, invece, l’assistenza domiciliare interessa lo 0,7% degli anziani con 65 anni e più rispetto all’1,1% del 2007. In calo nel Centro-Nord anche il numero di Comuni che eroga il servizio che invece cresce nel Mezzogiorno dove, peraltro, si riduce il numero medio di utenti presi in carico.

Convergenza interrotta nella scolarizzazione al Sud e divari di competenze

La spesa in istruzione in Italia, in aumento nei primi anni del nuovo secolo, si è andata invece riducendo dall’inizio della crisi, passando da circa 60 miliardi del biennio 2007-2008 a circa 50 negli ultimi due anni (in euro costanti 2017). Una flessione di circa il 15%, con un calo del 19% nel Mezzogiorno e del 13% nel Centro-Nord. Nel confronto internazionale l’Italia è agli ultimi posti sia come spesa per studente che come spesa in istruzione in rapporto al PIL e il divario con i principali paesi cresce passando dalla scuola primaria all’istruzione terziaria. Con riguardo a quest’ultima emergono dai dati OCSE due aspetti problematici. Il primo riguarda l’esiguità di risorse investite: nel 2016 solo lo 0,89% del PIL, decisamente meno della media OCSE (1,48%). Non sorprende quindi che il processo di convergenza del nostro Paese si sia interrotto e che ancora oggi l’Italia sia tra i paesi con la popolazione meno istruita anche con riferimento alle generazioni più giovani: tra i 25-34enni solo il 27,7% è in possesso di un titolo terziario, mentre la media UE a 28 è al 40%. Il secondo problema dell’Italia (segnalato da Education at a Glance) riguarda l’assenza di titoli terziari brevi (biennali), piuttosto diffusi all’estero.

Page 33: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

31

Tab. 9. Tassi di scolarizzazione secondaria superiore e terziaria (valori %)

Paesi Scuola secondaria superiore Istruzione terziaria

25-64 anni 25-34 anni 25-64 anni 25-34 anni 2008 2018 2008 2018 2008 2018 2008 2018

UE 28 47,2 45,8 49,0 44,3 24,2 32,3 31,0 40,0 Germania 59,9 57,5 61,9 54,6 25,4 29,1 23,9 32,3 Grecia 38,6 41,8 47,4 44,9 22,8 31,7 27,7 42,8 Spagna 21,6 22,9 25,7 23,4 29,5 37,3 40,0 44,3 Francia 42,4 42,5 42,1 40,1 27,1 36,9 40,6 46,9 Regno Unito 41,5 37,1 43,1 37,4 32,0 43,2 38,6 48,1 Italia 38,9 42,4 49,1 48,1 14,3 19,3 19,9 27,7 - Mezzogiorno 32,9 37,9 45,0 48,3 12,3 15,3 16,5 21,3 - Centro-Nord 41,4 44,8 50,6 48,0 15,4 21,4 21,8 31,6 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e MIUR.

Le differenze Nord/Sud riguardano in maniera particolare i due estremi del percorso formativo, l’offerta di scuole per l’infanzia e la formazione universitaria. L’emergere di nuovi bisogni sociali e le trasformazioni istituzionali hanno determinato nuovi scenari organizzativi dei servizi di asilo nido e dei servizi integrativi per la prima infanzia. Nel Mezzogiorno solo il 5,4% dei bambini da 0 fino al compimento dei tre anni ha usufruito dei servizi per l’infanzia a fronte del 17% del Centro-Nord. Il Sud sconta, inoltre, la forte carenza di asili nido pubblici e l’alto costo di quelli privati.

Con riguardo all’istruzione terziaria, nei tassi di partecipazione e di conseguimento il Sud aveva raggiunto il resto del Paese, ma l’inversione di tendenza della seconda metà dello scorso decennio è stata più pronunciata nelle regioni meridionali rallentando il processo di recupero. Per l’istruzione terziaria, a livello nazionale, il processo di convergenza verso i target degli altri principali paesi si è interrotto tra il 2003 e il 2005, quando i tassi di entrata nell’istruzione terziaria del nostro Paese erano intorno al 55%, in linea, se non superiori alla media OCSE e UE a 22 . Da allora si è avviato un processo di divergenza con tassi nazionali al di sotto del 50% (48% nel 2016) e tassi OCSE e UE a 22 intorno al 60% (66% e 62% nel 2016 rispettivamente per OCSE e UE a 22).

Nell’anno accademico 2018-2019 gli immatricolati sono tornati ai livelli del 2008, circa 293 mila restando, peraltro, ancora lontani dai valori dei primi anni Duemila (circa 330 mila). Le dinamiche si mostrano differenziate a livello territoriale: gli immatricolati nel Centro-Nord sono ben al di sopra dei livelli 2008, quelli degli Atenei del Mezzogiorno ancora sensibilmente al di sotto. La contrazione delle immatricolazioni sembra, in larga parte, ascrivibile all’effetto combinato del calo demografico, della diminuzione degli immatricolati in età più adulta e del deterioramento della condizione occupazionale dei laureati. I problemi della transizione dalla scuola al lavoro vengono evidenziati dal tasso di occupazione dei 20-34enni non più in istruzione e formazione che hanno conseguito un titolo di studio secondario superiore o terziario, da uno a tre anni prima della rilevazione. Nel 2018, in Italia, l’indicatore assume un valore pari a 56,5% (+1,3 punti rispetto al 2017), sintesi del tasso di occupazione dei diplomati (50,3%) e dei laureati (62,8%). I valori sono marcatamente inferiori a quelli medi UE a 28 (rispettivamente pari a 81,6%, 76,8% e 85,5%).

Per quanto riguarda le prospettive occupazionali, il dato nazionale per i giovani usciti dagli studi non è confortante rispetto ad altri Paesi europei come Francia e Spagna. Il dato nazionale sottende un divario nazionale profondo tra Nord e Sud del Paese. Nel Mezzogiorno solo poco più di 3 diplomati e 4 laureati su dieci sono occupati da uno a tre anni dal conseguimento del titolo. La situazione è fortemente peggiorata tra il 2008 e il 2014 ma il miglioramento degli ultimi anni non ha compensato l’impatto della crisi. A tali fattori si è aggiunta la crescente difficoltà di tante famiglie a sopportare i costi diretti e indiretti dell’istruzione universitaria e una politica del diritto allo studio ancora carente.

Page 34: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

32

Tab. 10. Tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati (20-34 anni) non più in istruzione formazione che hanno conseguito il titolo di studio da uno a tre anni prima

Paesi Variazioni in punti percentuali

Diplomati Laureati 2018 2014-2018 2008-2014 2018 2014-2018 2008-2014

UE28 76,8 6,1 -6,4 85,5 5,0 -6,4 Germania 90,3 2,6 4,5 94,3 1,2 0,6 Grecia 49,1 10,3 -24,2 59,0 11,6 -24,0 Spagna 68,2 13,5 -19,5 77,9 9,3 -16,7 Francia 68,0 1,3 -8,0 84,4 4,0 -8,5 Regno Unito 83,1 4,6 -1,0 88,4 2,2 -1,1 Italia 50,3 12,0 -22,1 62,8 9,9 -17,6

- Mezzogiorno 32,6 7,9 -15,4 41,3 9,4 -19,9 - Centro-Nord 61,8 15,3 -29,1 73,6 8,9 -14,7

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su microdati ISTAT, RCFL ed EUROSTAT.

Il divario quantitativo si combina con un divario qualitativo. L’ultimo rapporto INVALSI mostra che il nostro Paese deve affrontare un sensibile divario territoriale delle competenze dei giovani. La qualità degli apprendimenti diminuisce in maniera sensibile spostandosi da Nord a Sud. I divari relativamente piccoli nella scuola primaria crescono nella secondaria inferiore e ancor di più in quella superiore. Tra le regioni del Sud i livelli mediamente più bassi si rilevano per Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. In presenza di una spesa per studente di poco superiore nel Centro-Nord (5- 6%), vanno valutate possibili differenziazioni in termini di numero e distribuzione delle scuole, anzianità dei docenti e maggiore o minore precarietà del corpo docente stesso. Nel Sud, inoltre, è minore l’apporto degli enti locali che influiscono sulla qualità dei servizi alla scuola che nel Mezzogiorno registra livelli qualitativamente inferiori: si pensi ai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Pesa, inoltre, sui risultati in termini di apprendimento del Sud il contesto economico-sociale e territoriale. Il ritardo generale di quest’area – il più alto tasso di disoccupazione, la più elevata diffusione di condizioni di povertà ed esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e soprattutto la minor dotazione di servizi pubblici efficienti – rende il compito della scuola chiaramente più difficile che in altre parti del Paese.

Continua l’abbandono scolastico, ancora distante dal target di Lisbona

Il target quantitativo della strategia di Lisbona che prevedeva il raggiungimento nel 2010 di una quota dell’85% dei giovani tra i 20 e i 24 anni con almeno un diploma di scuola secondaria superiore è stato pienamente raggiunto nelle regioni del Centro-Nord, mentre è ancora distante per quelle del Mezzogiorno. Facendo riferimento alla più diffusa misura di dispersione scolastica a livello internazionale, gli «early leavers from education and training (ELET)», la percentuale di giovani che abbandona il sistema formativo è scesa, a livello nazionale, da valori vicini al 20% nel 2008 al 14,5% nel 2018, valore, tuttavia ancora lontano rispetto al target di Europa 2020 (10%) e dalla media europea (10,6%). Il declino dell’indicatore si è interrotto, peraltro, negli ultimi due anni. Nel 2018 ancora circa 600 mila giovani, di cui 300 mila nel Mezzogiorno, pur avendo al massimo la licenza media abbandonano il sistema di istruzione e formazione professionale. L’analisi a livello territoriale conferma i problemi delle regioni meridionali e, soprattutto, insulari. Il Mezzogiorno presenta tassi di abbandono assai più elevati: nel 2018, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers meridionali erano il 18,8% a fronte dell’11,7% delle regioni del Centro-Nord. Valori più elevati si registrano per i maschi (16,6% in Italia, 21,5% nel Mezzogiorno). Peraltro, se nel Centro-Nord il mancato proseguimento degli studi si accompagna a un numero più

Page 35: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

33

consistente di giovani occupati, pur con basso livello di istruzione, nelle regioni meridionali gli occupati usciti precocemente dagli studi sono una minoranza (21% a fronte del 46% del Centro-Nord nel 2018).

Edilizia scolastica: al Sud la maggior parte degli edifici che richiede manutenzione urgente

Il patrimonio edilizio scolastico al Centro e nel Settentrione è mediamente più controllato, sicuro e mantenuto di quello del Meridione e delle Isole. Gli enti locali dichiarano la necessità di interventi di manutenzione urgenti per il 43,6% del totale nazionale, dato simile rispetto allo scorso anno, che aumenta nei territori del Sud (56% degli edifici che necessitano di manutenzione urgente) e nelle Isole (49,9%). Preoccupante è la situazione dal punto di vista della sicurezza, perché ai minori controlli corrisponde una maggiore fragilità sismica del territorio. Al Sud 3 scuole su 4 sono in area a rischio sismico. In Sicilia la situazione peggiore: quasi il 98,4% delle scuole.

8. NON PROFIT: UN’ECONOMIA IN CRESCITA , MA IL SUD È ANCORA INDIETRO

La quota dei soggetti market (orientati a vendita di prodotti e servizi sul mercato) è in crescita di 2,6 punti percentuali rispetto al 2011, un timido segnale che incide in modo residuale sul predominio degli enti non market. A livello di tipologie giuridiche soltanto tra le cooperative sociali – che sono in totale il 4,8% dell’universo non profit – prevale la componente market (4,1%) su quella non market (0,6%). Il non profit meridionale presenta evidenti limiti con un valore di circa due terzi in meno rispetto al valore produttivo della ripartizione territoriale più dinamica (Nord-Ovest).

La distribuzione delle entrate mostra importanti differenze a livello di area geografica, il 35,3% dei ricavi viene prodotto nel Nord-Ovest ripartito in un 27,1% proveniente dalle organizzazioni market e 8,2% da quelle non market, la sola regione Lombardia produce il 68,2% dei ricavi della ripartizione territoriale. Seguono il Centro con una partecipazione del 33,6% ai ricavi complessivi (22,5% market e 11,2% non market) e il Nord-Est nella misura del 19,1% (13,8% market e 5,2% non market). Il Mezzogiorno è fanalino di coda con una partecipazione alle entrate del 12,0% (8,5% market e 3,5% non market) valore concentrato, peraltro, soprattutto in tre regioni (Sicilia 24,7%, Puglia 24,2% e Campania 20,2%).

È la Calabria con un valore di 52.123 euro medi per ente non profit, la regione con il livello più basso di produttività mentre la regione con la migliore performance è la Puglia con 121.412 euro per organismo. Discreti livelli di produttività si rilevano anche nella regione Sardegna (103.329 euro) e in Sicilia (100.458 euro). Seguono in modo decrescente la Basilicata (91.178 euro per organizzazione), la Campania (88.529 euro), il Molise (82.872 euro) e l’Abruzzo (74.900 euro). La Campania pur vantando un elevato numero di organismi (19.252) mostra un non profit scarsamente produttivo, poco coerente con le basi imprenditoriali territoriali relativamente solide. La Sicilia vince le difficoltà di crescita post-crisi facendo registrare buone performance nel non profit e detiene il primato del maggior numero di enti del Terzo Settore (20.699). Dati, questi, che evidenziano come il non profit si sviluppi su trame non soltanto economiche ma anche di sviluppo civile e partecipazione sociale.

Il Nord-Ovest è il contesto che totalizza il maggior numero di lavoratori retribuiti, con il 32,6% (352.904,) mentre il Mezzogiorno con il 18,9% (204.545) è la ripartizione con meno occupati non profit del Paese. Nel Nord-Est le unità occupate sono 263.138 (24,3%) e nel Centro 261.404 (24,2%). Gli occupati sono concentrati nelle istituzioni market (75%) e in misura molto inferiore

Page 36: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

34

negli organismi non market (25%). La distribuzione dei retribuiti per tipologia giuridica di ente mostra nel Mezzogiorno i valori più bassi del Paese con l’eccezione delle Cooperative sociali (market 89.834 retribuiti e non market 5.942 retribuiti) e delle Fondazioni (11.890 i retribuiti delle imprese market) che hanno valori superiori alla ripartizione del Centro.

Le organizzazioni non profit che secondo l’ISTAT si occupano di attività di fundraising sono 72.099, appena il 21,4% dell’universo non profit. Il 34,0% degli organismi dediti ad attività di raccolta fondi si trovano nel Nord-Ovest seguiti dal Nord-Est (25,9%) e dal Centro 22,7%, chiude la classifica il Mezzogiorno con il 17,4% quasi la metà del valore della ripartizione più virtuosa.

9. IL PESO DELL ’ECONOMIA ILLEGALE SULLO SVILUPPO E LE AZIONI DI CONTRASTO

Il riutilizzo dei beni confiscati può riavviare i processi di rigenerazione di fiducia sociale

Il numero totale dei beni (immobili e aziendali) confiscati in via definitiva ammonta attualmente a 36.418. Di questi, 32.448 sono beni immobili e 3.970 sono beni aziendali. In relazione, invece, allo stato della procedura di destinazione del bene: il 55% dei beni sia immobili che aziendali è ancora in gestione dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e della destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), mentre il 45% è già stato destinato definitivamente.

Relativamente alla distribuzione territoriale, la maggior parte dei beni è localizzata nel Mezzogiorno: il 76% dei beni immobili e il 71% dei beni aziendali. Nelle regioni del Centro-Nord i valori sono decisamente inferiori e ammontano al 24% per quanto riguarda i beni immobili e al 29% in riferimento ai beni aziendali. Su un totale di 32.448 beni immobili, 16.884 (52%) sono beni ancora in gestione e quindi amministrati dall’ANBSC, mentre 15.564 (48%) sono stati destinati a un uso istituzionale o sociale.

Per quanto riguarda nello specifico i beni immobili in gestione – ricalcando la distribuzione territoriale presentata all’inizio – il 69% si trova nel Mezzogiorno, mentre appena il 31% nelle regioni del Centro-Nord. Lo stesso accade per quanto riguarda i beni immobili destinati: l’83% si trova al Sud e il 17% al Centro e al Nord.

Tuttavia, nonostante le regioni meridionali possano vantare una sorta di primato per quanto riguarda la presenza di beni confiscati alla criminalità organizzata, è interessante individuare le prime sei regioni che si contraddistinguono per incidenza maggiore di beni immobili in gestione e destinati. Le prime tre posizioni sono ricoperte dalle regioni meridionali note per le particolari caratteristiche e la lunga tradizione che contraddistingue la criminalità organizzata: Sicilia, Campania e Calabria. Si tratta, nello specifico, di Cosa nostra siciliana, della camorra campana e della ’ndrangheta calabrese. Fuori dal podio si ritrova un’altra sola regione meridionale, ovvero, la Puglia. Un’incidenza rilevante di beni immobili confiscati alla mafia è evidente anche in regioni come la Lombardia e il Lazio, a testimonianza del fatto che il fenomeno della criminalità organizzata non può e non deve più essere pensato e – di conseguenza combattuto – come un fenomeno che interessa e colpisce le sole regioni meridionali. Queste regioni da sole, dunque, ospitano l’82% dei beni immobili in gestione e il 94% dei beni immobili destinati. Sul totale dei beni immobili destinati, l’83% è sito nelle regioni meridionali e il 17% al Centro-Nord.

Page 37: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

35

PARTE TERZA

LE TRASFORMAZIONI DEL SISTEMA PRODUTTIVO MERIDIONALE

10. LE TRASFORMAZIONI DEL SISTEMA PRODUTTIVO E DELL ’ INDUSTRIA DOPO LA

CRISI

Tra il 2008 e il 2014, le industrie manifatturiere nel territorio nazionale sono calate da 686.795 a 636.557. Nel 2018, la base industriale risulta ulteriormente assottigliata, con una numerosità pari a 625.303 unità. Durante la fase acuta della grande crisi (2008-2014), il calo più rilevante si è verificato nelle regioni del Centro-Nord, -8% rispetto al livello iniziale. La riduzione registrata nello stesso periodo nel Mezzogiorno è stata del -6%, ma con picchi del -10% in Calabria, Puglia e Sardegna.

Il processo di selezione nell’industria del Sud ha interessato soprattutto le micro e le piccolissime imprese, che nell’area sono la stragrande maggioranza. A fronte di una riduzione della base produttiva, le imprese rimaste sul mercato e le nuove entrate sono quelle che, grazie a una maggiore apertura internazionale, hanno potuto sopperire al crollo, ormai non più congiunturale, della domanda interna. Ancora oggi le imprese meridionali presentano un notevole gap dimensionale con quelle del Centro-Nord.

La SVIMEZ sostiene che le leve della resilienza nell’industria italiana sono fortemente disomogenee a livello territoriale. Le imprese industriali del Centro-Nord hanno puntato sull’internazionalizzazione e sull’innalzamento qualitativo dell’offerta, quelle meridionali, invece, coinvolte limitatamente nelle catene globali del valore e meno orientate all’innovazione, hanno resistito alla lunga crisi soprattutto facendo leva sul contenimento dei costi.

Serve forte discontinuità nella politica industriale

Il recupero del valore aggiunto prodotto dal settore manifatturiero, che nel triennio 2015-2017 aveva connotato la ripartenza del Mezzogiorno, ha subito nel 2018 una decelerazione (+0,9%), mostrando un andamento anche meno brillante rispetto al Centro-Nord (+2,2%). L’industria meridionale, nonostante i segnali positivi emersi dal 2015, diversamente dalle regioni centro-settentrionali – prossime a recuperare i livelli pre-crisi – non ha ancora risalito la china rispetto alla lunga crisi.

Anche per gli investimenti industriali, al di là del dato prettamente congiunturale del 2018, che nel Mezzogiorno è stato lievemente al di sopra di quello del Centro-Nord (+3,5% a fronte del +3,3%), va rilevato come, mentre nel Sud la crescita nel periodo 2015-2018 sia arrivata a malapena a recuperare poco più del 20% della caduta sofferta durante la lunga crisi, le regioni centro-settentrionali abbiano messo a segno un recupero molto più ampio e pari a circa l’85%.

Page 38: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

36

Tab. 11. Unità locali attive nelle regioni italiane per branche, anni 2008, 2014 e 2018

Regioni e circoscrizioni 2008 2014 2018

2008 2014 2018

A-B C

Piemonte 67.716 59.013 56.337 55.334 50.204 48.687 Valle d'Aosta 2.155 1.585 1.556 1.071 1.078 990 Lombardia 57.333 53.020 51.764 142.096 130.076 127.214 Trentino Alto Adige 31.098 29.431 29.593 10.150 9.411 9.225 Veneto 85.172 73.023 70.733 75.182 68.510 67.361 Friuli Venezia Giulia 19.535 15.592 14.578 13.800 12.430 12.148 Liguria 13.710 11.055 10.572 14.971 13.752 13.507 Emilia Romagna 73.088 63.798 60.526 63.147 58.477 57.215 Toscana 47.019 43.815 43.971 62.158 58.767 58.116 Umbria 19.546 17.909 17.933 10.453 9.721 9.394 Marche 34.990 29.936 27.794 26.672 24.441 24.003 Lazio 50.275 45.083 45.220 37.486 35.753 35.394 Abruzzo 33.036 28.390 27.443 15.842 15.158 14.897 Molise 11.860 10.355 10.277 3.101 2.858 2.851 Campania 74.944 63.694 63.105 47.993 47.925 49.018 Puglia 91.033 79.582 79.954 35.598 32.203 30.679 Basilicata 20.538 18.366 18.896 5.393 5.065 5.015 Calabria 33.066 31.162 33.245 16.186 14.568 14.301 Sicilia 102.415 83.635 83.024 35.612 33.131 32.731 Sardegna 37.401 34.533 35.437 14.550 13.029 12.557

Mezzogiorno 404.293 349.717 351.381 174.275 163.937 162.049 Centro-Nord 501.637 443.260 430.577 512.520 472.620 463.254

Totale 905.930 792.977 781.958 686.795 636.557 625.303

D-F G-S

Piemonte 80.201 76.511 71.340 287.744 289.780 291.069 Valle d'Aosta 3.367 3.339 3.083 8.629 8.914 8.760 Lombardia 166.721 160.713 155.517 617.634 649.456 679.968 Trentino Alto Adige 16.965 17.533 17.405 61.077 64.168 65.971 Veneto 83.338 77.234 72.835 296.887 309.895 318.022 Friuli Venezia Giulia 18.292 17.341 16.487 68.025 68.560 68.975 Liguria 30.593 31.713 30.960 114.660 115.799 118.213 Emilia Romagna 83.804 79.194 75.130 283.265 293.212 297.833 Toscana 72.034 65.596 61.942 255.570 267.532 274.221 Umbria 14.141 13.668 12.743 51.746 55.544 56.216 Marche 26.657 25.639 24.074 98.671 102.409 104.218 Lazio 77.601 80.090 80.968 351.728 390.044 419.203 Abruzzo 20.896 21.516 20.284 80.533 86.187 89.695 Molise 4.544 4.547 4.462 17.584 18.508 19.239 Campania 62.799 64.297 67.883 327.247 367.113 396.685 Puglia 45.467 46.232 45.424 202.767 216.551 224.459 Basilicata 7.431 7.850 8.080 28.830 30.175 31.553 Calabria 22.479 21.601 21.636 103.390 110.817 117.169 Sicilia 50.345 48.592 47.486 242.195 251.958 259.890 Sardegna 24.328 22.726 22.062 97.234 99.582 101.489

Mezzogiorno 238.289 237.361 237.317 1.099.780 1.180.891 1.240.179 Centro-Nord 673.714 648.571 622.484 2.495.636 2.615.313 2.702.669

Totale 912.003 885.932 859.801 3.595.416 3.796.204 3.942.848

Legenda: A-Agricoltura, silvicoltura pesca; B-Estrazione di minerali da cave e miniere; C-Attività manifatturiere; D-Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata; E-Fornitura di acqua; reti fognarie; F-Costruzioni; G-Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazioni,...; H-Trasporto e magazzinaggio; I-Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione; J-Servizi di informazione e comunicazione; K-Attività finanziarie e assicurative; L-Attività immobiliari; M-Attività professionali, scientifiche e tecniche; N-Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese; O-Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale,...; P-Istruzione; Q-Sanità e assistenza sociale; R-Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento; S-Altre attività di servizi.

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Infocamere.

Page 39: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

37

11. LE POLITICHE PER L ’ INDUSTRIA

La SVIMEZ indica quali policy dovrebbero essere messo in campo, richiedendo innanzitutto una decisa e netta discontinuità della politica industriale rispetto al passato. Ridando centralità all’industria, puntando su interventi attivi, non solo per il rafforzamento e la difesa dell’apparato esistente, ma anche per avviare dinamiche di sviluppo industriale, soprattutto al Sud. Per raggiungere quest’obiettivo, servono strumenti di politica industriale, meno orientati, come in passato, a mantenere in vita ciò che non regge più alla prova della competitività e più focalizzati sulla capacità di attrarre e di attivare nuove energie in settori innovativi.

La SVIMEZ non condivide la tesi di quanti sostengono che la compressione salariale nel Sud possa rappresentare una strategia per migliorare produttività e competitività dell’Italia. In particolare, esaminando i differenziali nella produttività e nelle retribuzioni tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord, emerge come nel Sud il salario nominale medio sia già oggi inferiore (di circa il 25%) a quello nel Centro-Nord.

Occorre invece rafforzare “Industria 4.0” in più direzioni, garantendo agli strumenti previsti dal Piano: una prospettiva temporale di medio-lungo periodo; una maggiore selettività; una declinazione territoriale a favore del Sud. Anche per gli altri interventi nazionali di politica industriale, dovrebbero essere previste misure rafforzate per il Mezzogiorno.

Nell’attuale fase di debolezza del ciclo economico, ai crediti di imposta agli investimenti nel Mezzogiorno andrebbe poi assicurata una prospettiva di medio-lungo periodo, per far sì che possano realmente incidere sulle decisioni di investimento delle imprese e contribuire a rafforzare la crescita. I Contratti di sviluppo vanno mantenuti e rafforzati per contribuire allo sviluppo di investimenti innovativi e di grandi dimensioni nel Sud, italiani ed esteri, assicurando i necessari rifinanziamenti.

Attenzione, infine, all’attuazione delle Zone Logistiche Semplificate (ZLS), che prevedono un’estensione del regime delle Zone Economiche Speciali alle aree portuali del Centro-Nord, anche se limitandolo ai soli aspetti di semplificazione burocratica. Infatti, anche al di la degli aspetti più strategici riguardanti i porti italiani su cui si decide di puntare, va considerata l’importanza che le semplificazioni burocratiche in un Paese come l’Italia, appesantito da forti oneri di questa natura, possono esercitare, quanto se non più delle misure fiscali, per l’attrazione degli investimenti. Tale estensione se recepita determinerebbe un depotenziamento delle ZES nella loro funzione di attrarre investimenti nel Mezzogiorno con l’intento di diminuire il gap con il resto del Paese. Si determinerebbe, in altre parole, una concorrenza tra porti, che finirebbe per sminuire il valore dell’intervento teso a compensare gli svantaggi di localizzazione nel Sud, minando in definitiva la sua missione originaria.

Le agevolazioni all’industria ammontano in Italia nel 2017 a 4,7 miliardi di euro, rispetto agli 8,5 miliardi del Regno Unito, ai 16,8 della Francia, e soprattutto, ai 42,3 miliardi spesi dal Governo tedesco.

Page 40: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

38

Tab. 12. Aiuti di Stato nei principali paesi europei, in percentuale del PIL (industria e servizi, al netto degli interventi straordinari anti-crisi)

Paesi 1992 1997 2007 2017 Variazione 2017-2007

Italia 1,10 0,81 0,29 0,27 -0,01 Germania 1,55 1,04 0,55 1,29 0,74 Francia 0,50 2,40 0,42 0,73 0,31 Regno Unito 0,11 0,17 0,21 0,37 0,16

UE a 28 0,75 0,88 0,41 0,72 0,31 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati della Commissione europea, "State Aid Scoreboard 2018".

Nel nostro Paese, la dinamica più recente delle agevolazioni concesse evidenzia una sostanziale stabilità. Nel 2017, a livello nazionale, l’importo complessivo delle agevolazioni concesse, pari a 4,7 miliardi, è rimasto infatti pressocchè invariato rispetto al 2016 (+0,3%), stabilizzandosi su livelli leggermente superiori a quelli minimi della media del precedente quinquennio 2012-2016. A livello territoriale le dinamiche sono di segno opposto ma a svantaggio del Sud. Nel 2017, nelle regioni centro-settentrionali, infatti, gli incentivi concessi alle imprese sono aumentati, passando da 2,8 miliardi di euro a 2,6 miliardi del 2016 (+6,1%), e diminuiti da 1,6 miliardi a meno di un miliardo e mezzo di euro (-13,3%) nel Mezzogiorno. Contestualmente, la quota di accesso del Sud sul totale delle agevolazioni concesse è scesa dal 38,9% al 34,2%.

Page 41: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

39

Tab. 13. Interventi nazionali (a) e delle Regioni (b). Investimenti agevolati, agevolazioni/finanziamenti concessi e erogati, per ripartizione territoriale, nel periodo 2012-2017 (milioni di euro, s.d.i.)

2012 2013 2014 2015 2016 2017 Totale 2012-2017

Var. ass.

2017-2016

Var. % 2017-2016

Investimenti agevolati

Mezzogiorno 2.934 2.658 3.735 1.938 6.244 2.650 20.159 -3.594 -57,6 Centro-Nord 8.635 8.293 5.524 7.994 10.089 15.919 56.453 5.830 57,8 Non localizzabili territorialmente 220 1.177 753 1.216 1.216 243 4.823 -973 -80,0 Italia 11.789 12.128 10.011 11.147 17.548 18.812 81.436 1.264 7,2

Agevolazioni/finanziamenti concessi

Mezzogiorno 1.407 1.377 2.634 915 1.673 1.451 9.456 -222 -13,3 Centro-Nord 2.108 2.549 2.038 1.949 2.628 2.788 14.060 160 6,1 Non localizzabili territorialmente 12 71 621 166 367 442 1.679 75 20,5 Italia 3.526 3.997 5.293 3.031 4.667 4.681 25.195 14 0,3

Agevolazioni/finanziamenti erogati

Mezzogiorno 1.126 1.223 1.591 1.331 1.120 945 7.336 -175 -15,6 Centro-Nord 1.999 1.786 1.926 1.606 1.211 1.210 9.738 0 0,0 Non localizzabili territorialmente 263 179 132 45 82 80 783 -2 -2,6 Italia 3.389 3.188 3.649 2.982 2.413 2.235 17.857 -178 -7,4

Quota % del Mezzogiorno sul totale al netto dei non localizzabili territorialmente

Investimenti agevolati 25,4 24,3 40,3 19,5 38,2 14,3 26,3 -24,0 -62,7 Agevolazioni/finanziamenti concessi 40,0 35,1 56,4 32,0 38,9 34,2 40,2 -4,7 -12,0 Agevolazioni/finanziamenti erogati 36,0 40,6 45,2 45,3 48,1 43,8 43,0 -4,2 -8,8

(a) Gestiti dalle Amministrazioni centrali - (b) Comprensivi degli interventi conferiti alle Regioni e di quelli nell'ambito della programmazione comunitaria dei POR.

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati del Ministero dello Sviluppo Economico.

Al Sud non più aziende in crisi del Nord ma difficoltà maggiori

Oggi sono aperti 159 tavoli di crisi al MISE, con una crescita piuttosto elevata rispetto al 2012 quando erano 119, 15 in più rispetto al 2018.

Tab. 14. Numero dei tavoli di crisi aperti presso il MISE Anno 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 N° tavoli 119 131 159 151 156 162 144 159

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati MISE.

Le crisi aziendali non sono più numerose al Sud, ma la loro gestione incontra ostacoli molto più complessi nelle regioni meridionali. Sui tavoli aperti, le imprese meridionali rappresentano poco meno del 40% del totale, percentuale che riflette la reale distribuzione territoriale delle imprese medio-grandi presenti nel Paese. Solo che, nella gestione di queste imprese, i tempi di soluzione sono più alti, in media si raddoppiano, per due motivi: la scarsa attrattività del territorio meridionale per i nuovi investitori e le maggiori difficoltà nella ricollocazione dei lavoratori in eccesso.

Page 42: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

40

PARTE QUARTA

LA DEBOLEZZA E LE ESIGENZE DI RILANCIO

DELLE POLITICHE PUBBLICHE

12. LE POLITICHE DI COESIONE EUROPEE E NAZIONALI

Sulla base della proposta della Commissione UE, le risorse comunitarie per le Politiche di Coesione a disposizione dell’Italia per il post 2020 ammontano a circa 43,46 miliardi di euro a prezzi correnti, contro i circa 36 miliardi del periodo 2014-2020. Circa 42,4 miliardi di fondi europei andranno ripartiti tra le Regioni. A queste risorse si dovrà aggiungere la parte di risorse di cofinanziamento nazionale della quale, però, non si è ancora discusso. In attesa delle decisioni e dei conseguenti calcoli che porteranno a definire la quota di risorse complessive (nazionali e comunitarie) e la loro ripartizione, si può comunque affermare che per il ciclo 2021-2027 in totale si potrà disporre di circa 60 miliardi di euro per le Politiche di Coesione, di cui il 70% (in precedenza era il 75%) destinato alle Regioni meno sviluppate.

Le Regioni meno sviluppate salgono da 5 (Campania, Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia) a 7, con l’aggiunta di Molise e Sardegna, Regioni in transizione nel precedente periodo di programmazione. Le Regioni in transizione sono 3: l’Abruzzo (già presente nel ciclo 2014-2020), l’Umbria e le Marche, in precedenza considerate Regioni più sviluppate. Gli ambiti tematici sui quali far confluire le risorse sono quattro: lavoro di qualità, territorio e risorse naturali per le generazioni future, omogeneità e qualità dei servizi per i cittadini, cultura veicolo di coesione economica e sociale.

I ritardi nell’attuazione del ciclo 2014-2020

Lo stato di attuazione dei Programmi della Coesione, rilevabile dai dati di monitoraggio a giugno 2019 e dalla certificazione delle spese sostenute aggiornate al 31 luglio 2019, mostra un processo di realizzazione lento con alcuni elementi di particolare debolezza. A giugno 2019, le risorse complessivamente disponibili in Italia per la politica di coesione europea a valere sui Fondi strutturali (FESR e FSE) ammontavano a circa 54,3 miliardi di euro, di cui circa 34,5 miliardi di risorse comunitarie e 19,7 miliardi di risorse di cofinanziamento nazionale. L’avanzamento del ciclo di programmazione 2014-2020 che si completerà il 31 dicembre 2023, indica che, a fronte dei circa 54,3 miliardi di euro complessivamente programmati nell’ambito dei Fondi FESR e FSE, risulta un avanzamento del 49,34% in termini di impegni e del 23,66% in termini di pagamenti (l’importo degli impegni e dei pagamenti comprende sia la quota UE sia la quota nazionale). Nelle Regioni meno sviluppate del Sud va molto peggio: i dati medi degli impegni e dei pagamenti dei POR della Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia sono pari, rispettivamente, al 37,46% e al 19,78% delle dotazioni finanziarie. I valori medi di attuazione per queste regioni sono inferiori di circa 7 e 4 punti percentuali rispetto al dato medio complessivo di tutti i POR. Per i PON, lo stato di attuazione, in relazione agli impegni, è più avanzato rispetto ai POR di tutte le regioni, ma soprattutto di quelle meno sviluppate, dove costituiscono il 57,2% del contributo assegnato (a fronte del 37,5% dei POR) mentre la differenza tra PON e POR registra performance pressoché analoghe riguardo all’andamento dei pagamenti.

Page 43: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

41

Tab. 15. Fondi strutturali 2014-2020: stato di attuazione al 30 giugno 2019 dei Programmi Operativi Regionali (milioni di euro, s.d.i.)

Programma Operativo Regionale

Risorse programmate

(a)

Attuazione finanziaria

Impegni (b)

Pagamenti (c)

Impegni (b/a) (%)

Pagamenti (c/a) (%)

Regioni più sviluppate

POR Piemonte 1.838,13 1.079,46 672,11 58,73 36,56 POR Valle d'Aosta 119,92 62,79 40,04 52,36 33,39 POR Lombardia 1.940,94 1.000,53 629,09 51,55 32,41 POR P.A. Bolzano 273,25 180,69 57,36 66,13 20,99 POR P.A. Trento 218,65 136,63 75,58 62,49 34,57 POR Veneto 1.364,35 722,34 417,65 52,94 30,61 POR Friuli Venezia Giulia 507,21 294,54 156,68 58,07 30,89 POR Liguria 747,09 381,44 191,59 51,06 25,64 POR Emilia-Romagna 1.268,15 1.049,13 538,45 82,73 42,46 POR Toscana 1.525,42 1.111,93 495,65 72,89 32,49 POR Umbria 649,82 212,23 121,82 32,66 18,75 POR Marche 873,36 328,79 138,26 37,65 15,83 POR Lazio 1.871,60 852,42 421,00 45,54 22,49 Totale 13.197,89 7.412,92 3.955,28 56,17 29,97

Regioni in transizione

POR Abruzzo 414,01 199,96 63,28 48,30 15,28 POR Molise 129,03 64,01 29,64 49,61 22,97 POR Sardegna 1.375,78 651,94 348,41 47,39 25,32 Totale 1.918,82 915,91 441,33 47,73 23,00

Regioni meno sviluppate

POR Campania 4.950,72 1.829,83 894,86 36,96 18,08 POR Puglia 7.120,96 2.930,24 1.557,84 41,15 21,88 POR Basilicata 840,31 401,13 225,57 47,74 26,84 POR Calabria 2.378,96 826,76 451,81 34,75 18,99 POR Sicilia 5.093,13 1.648,49 901,08 32,37 17,69 Totale 20.384,08 7.636,45 4.031,16 37,46 19,78

Totale generale 35.500,79 15.965,28 8.427,77 44,97 23,74 Fonte: Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, IGRUE.

I dati al 31 luglio 2019 indicano che l’obiettivo di spesa da certificare alla fine dell’anno è stimato in circa 3 miliardi di euro. Tra i PON, «Iniziativa PMI», «Imprese e competitività» e «Iniziativa a favore dell’occupazione giovanile» hanno già raggiunto l’obiettivo di spesa del totale delle risorse in scadenza al 31.12.2019. Quote di spesa da certificare particolarmente elevate sono evidenti per i PON «Inclusione», «Infrastrutture e Reti», «Scuola, competenze ed ambienti per l’apprendimento» e «Ricerca ed Innovazione». Si tratta di importi significativi, variabili all’incirca tra i 130 e il 180 milioni di euro per ciascun Programma.

Page 44: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

42

Tab. 16. Fondi strutturali 2014-2020: spesa certificata al 31 luglio 2019 e stima delle risorse da certificare nei Programmi Operativi Nazionali (milioni di euro, s.d.i.)

Piani Operativi Nazionali (PON) Dotazione totale (a)

Attuazione finanziaria

Spesa certificata

(b)

Quota della spesa

certificata (b/a) (%)

Stima N+3 (TOT)

31.12.2019

Stima risorse da certificare

(c)

PON iniziative PMI 322,50 102,50 31,78 82,44 0,00 PON Città metropolitane 858,94 150,51 17,52 214,86 64,35 PON Cultura e sviluppo 490,93 100,74 20,52 128,82 28,08 PON Governance e capacità istituzionale 780,76 120,03 15,37 192,84 72,81 PON Imprese e competitività 3.058,24 542,12 17,73 497,01 0,00 PON Inclusione 1.218,34 93,68 7,69 224,52 130,84 PON Infrastrutture e reti 1.843,73 327,32 17,75 483,79 156,48 PON iniziativa a favore dell'occupazione giovanile 2.785,35 1.170,80 42,03 1.073,58 0,00 PON Legalità 610,33 75,78 12,42 87,59 11,81 PON Scuola, competenze e ambienti per l'apprendimento 2.852,18 486,33 17,05 669,91 183,58 PON Ricerca e innovazione 1.189,69 147,58 12,41 310,97 163,38 PON Sistemi di politiche attive per l'occupazione 1.729,45 364,38 21,07 427,76 63,38

Totale 17.740,45 3.681,77 20,75 4.394,09 874,72

(c) L'importo della spesa da certificare è calcolato come somma degli importi da certificare relativi a ciascun Programma, non quale differenza tra il totale della stima del n+3 da un lato, e il totale della spesa certificata dall'altro. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati dell'Agenzia per la Coesione Territoriale.

Dei circa 3 miliardi di spesa da certificare, 1,85 miliardi riguardano i POR del Mezzogiorno, in particolare quelli delle Regioni meno sviluppate. La maggior parte delle risorse da certificare sono concentrate in Campania, Puglia, e soprattutto Sicilia: rispettivamente circa 403,7, 526,1 e 603,9 milioni di euro.

Page 45: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

43

Tab. 17. Fondi strutturali 2014-2020: spesa certificata al 31 luglio 2019 e stima delle risorse da certificare nei Programmi Operativi Regionali (milioni di euro, s.d.i.)

Piani Operativi Regionali (POR) Dotazione totale (a)

Attuazione finanziaria

Spesa certificata (b)

Quota della spesa

certificata (b/a) (%)

Stima N+3 (TOT)

31.12.2019

Stima risorse da certificare

(c)

Regioni più sviluppate

POR Piemonte 1.838,13 585,39 31,85 460,69 42,91 POR Valle d'Aosta 116,97 30,92 26,44 28,00 2,21 POR Lombardia 1.940,95 455,50 23,47 469,70 49,32 POR P.A. Bolzano 273,24 48,29 17,67 71,70 23,41 POR P.A. Trento 218,65 55,45 25,36 55,51 8,92 POR Veneto 1.364,34 352,86 25,86 339,52 18,78 POR Friuli Venezia Giulia 507,21 137,02 27,01 128,80 3,14 POR Liguria 747,09 185,54 24,84 189,99 4,63 POR Emilia Romagna 1.268,15 407,36 32,12 316,29 0,00 POR Toscana 1.525,42 459,11 30,10 385,86 0,00 POR Umbria 649,82 112,64 17,33 147,80 35,16 POR Marche 873,36 135,57 15,52 144,48 11,12 POR Lazio 1.871,60 325,54 17,39 442,98 117,44 Totale 13.194,94 3.291,20 24,94 3.181,32 317,04

Regioni in transizione

POR Abruzzo 414,01 66,40 16,04 89,11 22,70 POR Molise 129,03 22,73 17,61 33,07 10,35 POR Sardegna 1.375,78 248,94 18,09 348,97 138,77 Totale 1.918,82 338,07 17,62 471,15 171,82

Regioni meno sviluppate

POR Campania 4.950,72 866,98 17,51 1.270,70 403,72 POR Puglia 7.120,96 1.315,59 18,47 1.841,79 526,19 POR Basilicata 840,31 212,95 25,34 218,62 16,96 POR Calabria 2.378,96 484,15 20,35 614,22 130,06 POR Sicilia 5.093,14 706,44 13,87 1.310,36 603,92 Totale 20.384,08 3.586,11 17,59 5.255,69 1.680,86

Totale generale 35.497,84 7.215,38 20,33 8.908,16 2.169,72 (c) L'importo della spesa da certificare è calcolato come somma degli importi da certificare relativi a ciascun Programma, non quale differenza tra il totale della stima del n+3 da un lato, e il totale della spesa certificata dall'altro. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati dell'Agenzia per la Coesione Territoriale.

Fondo Sviluppo Coesione, soltanto 1 miliardo pagato

Il Fondo Sviluppo e Coesione (FSC, ex FAS, Fondo per le aree sottoutilizzate) è, congiuntamente ai fondi strutturali, il principale strumento per il finanziamento della politica di coesione, dove confluiscono le risorse finanziarie aggiuntive nazionali destinate al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese. Sotto il profilo finanziario, se ai 20,4 miliardi in conto residui del FSC ancora da pagare, si sommano i 47 miliardi di stanziamenti FSC di competenza tuttora presenti nel bilancio dello Stato fino al 2025, nonché i 40 miliardi stanziati fino al 2026 del cofinanziamento nazionale dei Fondi UE (Fondo IGRUE), si ottiene la cifra di circa 110 miliardi di euro attualmente da destinare alle politiche nazionali di coesione nelle annualità dal 2019

Page 46: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

44

al 2026. Una somma ingente, alla quale vanno poi aggiunte le risorse FSC per il prossimo ciclo di programmazione 2021-2027, che saranno stanziate nei prossimi anni. Il legislatore ha finanziato la programmazione del Fondo per il ciclo 2014-2020 per 63,8 miliardi di euro.

La spesa monitorata del FSC è pari, al 30 giugno 2019, a soli 37,6 miliardi, dei quali soltanto 4,4 miliardi risultano contabilmente impegnati (11,6% delle risorse) e soltanto 1 miliardo realmente pagato (2,8%). (inserire tabella 10 pagina 466). Per quanto riguarda specificamente i Patti per il Sud, su 14 miliardi di risorse destinate ai Patti, al 30 giugno 2019, soltanto 1,2 miliardi risultano impegnati e 347 milioni pagati.

Secondo la SVIMEZ, si tratta di una evidente incapacità degli attori (sia a livello di Amministrazioni centrali, che regionali e anche locali) di utilizzare pienamente un patrimonio di risorse che potrebbero generare una vera crescita delle regioni del Mezzogiorno.

La clausola del 34% su programmi limitati

La legge di Bilancio 2019 ha modificato la normativa sulla clausola del 34% sulle modalità di verifica relative a se e in quale misura le Amministrazioni centrali, sui programmi di spesa in conto capitale annualmente individuati con direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri, abbiano destinato un volume complessivo annuale di stanziamenti ordinari in conto capitale nelle Regioni del Mezzogiorno proporzionale alla popolazione ivi residente (valore stimato nel 34%). Di grande rilievo è l’estensione della clausola anche ad ANAS e a Rete Ferroviaria Italiana, anche se l’applicazione di tale disposizione sarà possibile solo per i futuri contratti di programma.

Il numero «sperimentale» dei programmi per i quali sono previsti l’attuazione e il monitoraggio della clausola del 34% appare ancora limitato, con l’assenza di alcuni dei settori essenziali per il riequilibrio delle risorse da spendere.

13. POLITICHE INFRASTRUTTURALI : TRA IL PERSISTENTE DECLINO DEGLI

INVESTIMENTI E UN INCERTO RILANCIO FONDATO SULLA SOSTENIBILITÀ

La scelta di bloccare sostanzialmente l’attuazione di alcune grandi infrastrutture strategiche in fase avanzata di definizione tecnico-amministrativa e dotate di coperture finanziarie, pubbliche e private, nazionali ed europee, spesso complete o in via di completamento, ha prodotto, secondo la SVIMEZ, un effetto quasi generalizzato di sospensione e di attesa sull’intera programmazione infrastrutturale strategica. In questo quadro anche la nuova priorità di intervenire su un sistema infrastrutturale largamente bisognoso di manutenzione straordinaria o di vera e propria ristrutturazione o sostituzione non sembra ancora in grado di generare segnali concreti sul piano della sicurezza e dell’efficienza, pur a fronte di consistenti pianificazioni stradali e ferroviarie e relative dotazioni finanziarie.

La legge di Bilancio 2019 ha previsto nuovi stanziamenti: il Fondo investimenti per le amministrazioni centrali (con 2,9 miliardi di euro per il 2019, 3,1 miliardi per il 2020 e 3,4 per ciascuno degli anni dal 2021 al 2033); e il Fondo investimenti enti territoriali che riguarda investimenti in edilizia pubblica, manutenzione della rete viaria, piani di sicurezza di strade e scuole di province e regioni a statuto ordinario, dissesto idrogeologico, prevenzione del rischio sismico, beni culturali, trasporto pubblico locale (con una dotazione di 3 miliardi di euro per il 2019, 3,4 miliardi per il 2020, e altri stanziamenti oscillanti tra 2 e 3,5 miliardi fino al 2033). Molta enfasi è posta sul tema della mobilità sostenibile, per contenere le emissioni inquinanti e contrastare i cambiamenti climatici.

Page 47: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

45

La priorità politica, assegnata alla protezione dell’ambiente e della biodiversità e allo sviluppo sostenibile, viene declinata dal nuovo Governo in un Green New Deal. In questa chiave, si prospetta una nuova strategia di politica infrastrutturale fondata sulla sostenibilità. La SVIMEZ condivide la promozione della rigenerazione urbana, dell’efficienza e della riconversione energetica, dell’economia circolare e dello sviluppo delle fonti rinnovabili, della messa in sicurezza del territorio, del contrasto al dissesto idrogeologico e della ricostruzione delle aree terremotate.

Le modifiche della legge sblocca-cantieri sono incisive, anche se non tutte condivisibili, ma le incertezze e le criticità generate dai cambiamenti della politica infrastrutturale nazionale non hanno aiutato il Mezzogiorno, la cui classe politico-amministrativa, secondo la SVIMEZ, pur con le dovute eccezioni, manifesta complessivamente da sempre bassi livelli di efficienza.

Gli investimenti fissi lordi della P.A., in valori correnti, sono diminuiti nel 2018 rispetto all’anno precedente del 4,3% e quelli per opere pubbliche del 4%, con un –4,1% al Centro-Nord e un –3,6% nel Mezzogiorno. Le dichiarazioni programmatiche del nuovo Governo danno un apprezzabile risalto al Mezzogiorno, attribuendo al riequilibrio Nord-Sud una priorità nell’azione di rilancio degli investimenti. Non sono ancora note le misure specifiche, ma le priorità indicate sono condivisibili.

Anche il DEF 2019 non esprime una vera e propria linea d’azione specificamente dedicata al Mezzogiorno. L’attenzione verso quest’area avrebbe potuto essere definita almeno svolgendo una ricognizione territoriale della programmazione infrastrutturale prevista. Con l’avvio del nuovo Governo, resta da capire se l’annuncio di un piano straordinario per il Mezzogiorno ripartirà dalla strategia del precedente Governo, fortemente orientata sulla mobilità urbana e regionale e sul completamento (pur con qualche ripensamento sulle priorità) della programmazione infrastrutturale esistente, o si aprirà un dibattito su una priorità Mezzogiorno, che conduca a un disegno strategico dedicato a quest’area.

Al Sud, a parte la realizzazione di alcune tratte autostradali con terze corsie e l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, il limitato incremento di autostrade si è concentrato tutto in Sicilia. Il segnale del disimpegno degli investimenti pubblici in questo ambito sta nel peggioramento della dotazione relativa di autostrade nel Mezzogiorno. Rispetto alla media europea a 15 paesi (posta uguale a 100), la dotazione di autostrade del Mezzogiorno è passata dal 1990 al 2015 da 105,2 a 80,7 nel 2015. Per quel che riguarda la dotazione di linee ferroviarie, il Mezzogiorno appare pienamente coinvolto nel processo di razionalizzazione qualitativa della dotazione ferroviaria ordinaria rilevabile nel periodo 1990-2015. Molto carente, viceversa, risulta il suo ruolo nello sviluppo dell’Alta Velocità (AV), con soli 181 km di linee pari all’11,4% dei 1.583 km della rete nazionale; nel Centro-Nord la rete è di 1.402 km, pari all’88,6% del totale. Nel confronto con l’UE (rete AV ponderata sulla popolazione dei soli Stati membri dotati), l’indice di dotazione dell’Italia nel 2015 è pari a 116,0, con il Centro-Nord a 156,5 e il Mezzogiorno appena a 38,6.

I porti del Mezzogiorno, pur vantando numero e lunghezza degli accosti nettamente superiori a quelli del Centro-Nord, presentano una dotazione estremamente modesta, con un indice sintetico pari a 58,9 dovuto alla forte carenza di capacità di movimentazione e stoccaggio delle merci. Relativamente migliore risulta l’indice sintetico degli aeroporti (69,4), ma anche in questo comparto si scontano carenze qualitative dell’offerta (distanza dai centri urbani, aree di parcheggio aeromobili e superficie delle piste). Le strutture di intermodalità ferroviaria al Sud sono praticamente inesistenti, mentre estremamente modesta è la presenza di interporti.

Page 48: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

46

Tab. 18. Dotazione di infrastrutture terrestri in rapporto alla popolazione – Numeri indici (UE 15 = 100,0) e Variazione 1990-2015 (%)

Regioni e Ripartizioni territoriali

Indici 1990 (UE 15 = 100,0) Indici 2015 (UE 15 = 100,0)

Autostrade Ferrovie ordinarie Ferrovie

AV (*) Autostrade Ferrovie ordinarie Ferrovie

AV (*) Totali Elettrificate Totali Elettrificate

Abruzzo 263,3 105,2 192,5 0 161,7 103,3 110,1 0 Molise 99,9 191,5 54,5 0 69,7 222 88,3 0 Campania 71,9 44 81,1 0 45,7 48,9 67 137,5 Puglia 72 52,4 68,3 0 46,4 53,9 68,1 0 Basilicata 43,5 143,3 14,7 0 30,5 158,1 168,9 0 Calabria 130 100,7 88,8 0 90,4 113 113,7 0 Sicilia 105,2 71,5 55,5 0 80,7 71,1 72,5 0 Sardegna 0 65,1 0 0 0 67,8 119,1 0 Centro-Nord 105,1 72 118 121 72,7 71,7 100,9 156,5 Mezzogiorno 91,4 68,8 71 0 62,3 71,9 83 38,6 Italy 100,1 70,8 101 77,3 69,1 71,8 94,8 116 UE 15 100 100 100 100 100 100 100 100 (*) Media UE riferita ai soli Paesi dotati di linee AV. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT.

Nel ranking regionale infrastrutturale dell’UE a 28, la regione del Mezzogiorno più competitiva è la Campania, che occupa una posizione alla metà della graduatoria (134° su 263), seguita da Abruzzo (161°), Molise (163°), Puglia (171°), Calabria (194°), Basilicata (201°), Sicilia (207°) e Sardegna (225°). Ma anche le Regioni più competitive del nostro Paese si collocano comunque su posizioni di retroguardia, come Lazio (65°), Lombardia (69°), Emilia-Romagna (73°) e Piemonte (82°).

La sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia sta nel tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2018, che è stato pari a –2% a livello nazionale (–4,6% nel Mezzogiorno e –0,9% nel Centro-Nord). Gli investimenti infrastrutturali nel Sud negli anni ‘70 erano quasi la metà di quelli complessivi, mentre negli anni più recenti sono calati a quasi un sesto del totale nazionale. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro. Nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro.

La logistica nell’economia mediterranea

Il mercato della logistica e dell’intermodalità del Mediterraneo mostra importanti segnali di sviluppo orientati alle direttrici «diametrali» e «radiali» rispetto al Mezzogiorno, e proprio in tal senso andrebbero pensate e potenziate le connessioni mediterranee trasversali, attraverso corridoi plurimodali che vedano nella funzione portuale e nelle piattaforme logistiche di riferimento un tutt’uno funzionale nella gestione congiunta tra Autorità di Sistema Portuale (anche in qualità di Autorità di gestione delle Zone Economiche Speciali – ZES) e Regioni. Peraltro, in Italia l’industria armatoriale si concentra prevalentemente nel Mezzogiorno e rappresenta, quindi, unitamente a una portualità baricentrica, l’ideale piattaforma logistica europea-mediterranea in qualità di cerniera tra Europa, Africa, Asia (in primis Cina). L’Italia e il Mezzogiorno sono al centro di un sistema di rotte marittime che potrebbero essere notevolmente potenziate per facilitare gli scambi internazionali tra paesi dell’UE e tra paesi europei e altri paesi del Mediterraneo, creando collegamenti ponte tra i

Page 49: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

47

diversi bacini marittimi europei sfruttando al meglio le opportunità di itinerari alternativi alla mono-modalità stradale, oltre a diversificare per tipologia di traffico e porti di destinazione, lo smistamento europeo e mediterraneo dei flussi in incremento che graviteranno sulla rotta marittima della Nuova Via della Seta tra Cina ed Europa.

Le ZES tra delusione e speranza di crescita del Mezzogiorno

In particolare, le ZES dovrebbero rappresentare il luogo ideale di rafforzamento della capacità di esportare del Sud, costituendo un anello di congiunzione tra funzioni logistiche e funzioni produttive in chiave di complessiva apertura ai mercati. L’internazionalizzazione è una scelta strategica, sia per l’attrazione di investimenti dall’estero, sia per incrementare la propensione alle esportazioni delle imprese meridionali. Il sistema imprenditoriale meridionale, ancora fortemente basato su proprietà e governance familiare, si è dimostrato finora solo in parte capace di cogliere le opportunità legate al progresso tecnologico e alla competizione su scala sovranazionale e globale. Un’apertura della struttura di proprietà – attraverso iniezioni di equity – e nella governance – immettendo nelle imprese nuove competenze – può rivelarsi fondamentale per rimettere il Mezzogiorno su un sentiero di crescita più sostenuto. Incentivare l’efficienza dell’intero ciclo logistico non può risultare marginale nel processo di istituzione di una ZES: nello scenario di innovazioni tecnologiche devono rientrare necessariamente anche i sistemi logistici. Le iniziative governative dovrebbero concentrarsi sul miglioramento della dotazione infrastrutturale meridionale con una pianificazione che preveda anche servizi di alta specializzazione a supporto della distribuzione commerciale sempre più esigente. È necessario che si favorisca la presenza di servizi ad alto valore aggiunto per accrescere la competitività, differenziare l’offerta, attrarre nuove quote di domanda facendo convergere verso gli hub meridionali, legati funzionalmente all’economia del mare, nuovi flussi di traffico e facendo tesoro degli esempi luminosi riguardanti tante iniziative presenti nel Mezzogiorno nei settori innovativi anche per valorizzare le eccellenze presenti nell’industria meridionale.

Page 50: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

48

PARTE QUINTA

IL RUOLO DEL SUD IN UNA STRATEGIA DI SVILUPPO SOSTENIBILE

14. IL POSIZIONAMENTO DELL ’AGRICOLTURA ITALIANA E MERIDIONALE NEL

CONTESTO EUROPEO

Tra il 2007 e il 2018 la produzione agricola dell’UE a 15 è cresciuta del 17% a valori correnti e del 6,1% a valori concatenati. Dopo un brusco calo registrato nel 2009, negli anni successivi il settore ha mostrato una grande capacità di tenuta che è venuta meno dopo il 2014 quando, fatta eccezione per il 2017, le produzioni diminuiscono sia in termini quantitativi che in valore.

L’andamento della produzione italiana appare quasi in linea con quello medio dell’UE a 15, ma l’Italia perde decisamente terreno dalla Spagna, sua diretta concorrente sui mercati internazionali per molti prodotti mediterranei. Di fatto, la Spagna cresce del 25,6% a prezzi correnti e del 18% a valori concatenati, a fronte rispettivamente del +17,2% e +2,4% dell’Italia.

Per quanto riguarda l’occupazione, a livello UE a 15 l’aumento della produzione si è accompagnato a una riduzione di poco meno del 10% degli occupati. La riduzione degli occupati è stata generalizzata, fatta eccezione per Svezia e Regno Unito dove, al contrario, si è registrato un aumento delle unità occupate, e ha interessato in misura più consistente Austria, Portogallo, Finlandia e Belgio. I dati relativi all’agricoltura italiana non si discostano da quelli di Francia, Spagna e Germania.

Nel 2018 la produttività del lavoro a prezzi correnti per l’UE a 15 nel complesso è pari a 37 mila euro per occupato, con notevoli differenze tra i paesi. L’Italia si attesta leggermente sotto la media, ma soprattutto presenta valori molto più bassi delle agricolture di alcuni paesi del Nord Europa. Tra il 2007 e il 2018 l’aumento della produttività a valori correnti per l’UE a 15 è stato di poco meno del 29%, con differenze significative tra paesi. In particolare, in Italia è cresciuta solo del 16,7%, a fronte del +33% del Paese concorrente più diretto, la Spagna, e del +33,4% della Francia. Per quanto riguarda il posizionamento del Mezzogiorno e del Centro-Nord rispetto al contesto europeo, le differenze tra le due aree del Paese sono molto marcate. L’agricoltura del Centro-Nord presenta valori di produttività più alti dell’UE a 15, superiori alla Germania e alla Spagna e vicini a quelli di Francia e di alcuni paesi del Nord Europa. Il Mezzogiorno, al contrario, si colloca tra i paesi a minore produttività e tra il 2007 e il 2018 ha assistito a un ulteriore peggioramento del suo posizionamento.

Tra il 2007 e il 2018 l’evoluzione delle esportazioni agroalimentari dell’UE a 15 è stata molto intensa, con un incremento a prezzi correnti del 57%. L’aumento è stato particolarmente rilevante nel caso dell’Olanda le cui esportazioni sono passate da 51,8 a 87,4 miliardi di euro (+69%), della Spagna (da 25 a 47 miliardi di euro; +87%), dell’Italia che ha incrementato il valore delle esportazioni di ben il 71% (da 23,7 a 40,5 miliardi di euro). Il Mezzogiorno, nonostante le sue potenzialità produttive e la ricchezza di specialità alimentari, esporta meno dell’Austria e poco più della Svezia e della Grecia. Inoltre, la buona dinamica che ha caratterizzato le esportazioni meridionali è stata comunque inferiore a quella del Centro-Nord, non consentendo il recupero del divario esistente tra le due parti del Paese. In Italia la componente che ha presentato la migliore performance è stata quella delle bevande (vino, in particolare) che è aumentata dell’84%.

Page 51: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

49

Fig. 1. Variazione degli occupati in agricoltura dal 2007 al 2018. Confronto tra paesi dell’UE a 15 (dati percentuali)

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT.

Export agricolo condizionato da differenza strutturale organizzativa rispetto a Centro-Nord e UE

Le potenzialità produttive e la performance della produzione e delle esportazioni agricole sono condizionate dalle caratteristiche strutturali e organizzative del settore. Spesso viene sottolineata la differenza strutturale esistente tra Mezzogiorno e Centro-Nord d’Italia. In realtà le differenze tra le due aree sono da inserire all’interno del quadro più generale dell’agricoltura dell’UE a 15, evidenziando come il problema strutturale sia un problema dell’agricoltura italiana nel suo insieme che si trova a competere con realtà produttive europee ben più solide dal punto di vista strutturale. Nella stessa Spagna, che presenta dimensioni aziendali al di sotto della media dell’UE a 15, la superficie utilizzata per azienda è più che doppia di quella italiana. L’organizzazione della produzione, e in particolare le forme associate di produzione e di commercializzazione, possono in parte compensare le carenze strutturali. Uno studio condotto per conto della Commissione europea nel 2012 riporta l’importanza relativa delle forme cooperative nei diversi paesi dell’UE. In Italia tale quota si attesta poco al di sotto del 40% e nell’ambito dell’UE a 15 l’Italia è il Paese in cui il peso della cooperazione è più basso, fatta eccezione per la sola Grecia.

Mezzogiorno sotto la Grecia, peggiore della UE, per rapporto tra investimenti e valore aggiunto

La crescita del settore è strettamente legata alla capacità di investimento dei diversi sistemi produttivi. Nel 2017 per l’insieme dell’UE a 15 gli investimenti a prezzi correnti ammontano a 57,1

Page 52: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

50

miliardi di euro e per oltre il 50% riguardano Germania, Francia e Italia. In media i paesi dell’UE a 15 investono poco meno del 30% del valore aggiunto. Escludendo il dato anomalo del Lussemburgo, colpisce in primo luogo il basso tasso di investimento della Spagna, soprattutto se si rapporta alla intensa dinamica che ha caratterizzato l’agricoltura spagnola nell’ultimo decennio. L’Italia è sostanzialmente omogenea rispetto alla media europea e alle agricolture di paesi quali la Francia e l’Olanda. Questa omogeneità, tuttavia, riguarda solo l’agricoltura del Centro-Nord, mentre per il Mezzogiorno il rapporto tra investimenti e valore aggiunto si attesta al 17%, vicino a quello della Spagna, ma al di sotto della stessa Grecia che nel periodo ha mostrato le performance peggiori nell’UE a 15.

Fig. 2. Investimenti in agricoltura su valore aggiunto in rapporto alla variazione degli investimenti, per Paese dell’UE a 15 (anno 2017)

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT.

Negli anni che vanno dal 2007 al 2017 si possono distinguere due gruppi di paesi europei in base all’andamento degli investimenti. Al primo gruppo, con investimenti in crescita, appartengono, tra gli altri, la Spagna, l’Olanda e la Germania. L’Italia appartiene al gruppo dei paesi con investimenti calanti, posizionandosi peggio di Francia e Regno Unito e meglio di Irlanda, Danimarca e Grecia. Il Mezzogiorno si distingue in negativo per la più forte contrazione degli investimenti registrata nel periodo alla quale associa il più contenuto rapporto tra investimenti e valore aggiunto.

Politiche settoriali e investimenti per migliorare le performance del Sud nel settore agricolo

Il confronto tra l’andamento del settore agricolo in Italia e nell’insieme dei paesi dell’UE a 15 mette in luce elementi di omogeneità e di specificità dai quali è possibile partire per una riflessione sulle esigenze di intervento nell’agricoltura italiana, in particolare del Mezzogiorno. In generale, l’evoluzione della produzione e del valore aggiunto e le oscillazioni che hanno caratterizzato gli ultimi anni non differenziano sostanzialmente l’agricoltura italiana da quella di altri paesi dell’UE a

Page 53: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

51

15, ma molto diverse sono le caratteristiche strutturali del settore, con dimensioni medie aziendali molto ridotte, paragonabili solo a quelle della Grecia. L’aspetto strutturale solo in parte condiziona la performance delle diverse agricolture. Di fatto, nel contesto europeo anche l’agricoltura del Centro-Nord appare strutturalmente debole, ma ciò non sembra aver avuto effetti in termini di crescita e di posizionamento rispetto alle agricolture europee più forti. Molto diversa, invece, è stata la performance del Mezzogiorno che presenta elementi di somiglianza con le agricolture più deboli dell’UE, in primo luogo la Grecia (nel suo periodo più buio).

In primo luogo, c’è un problema di potenzialità produttive dell’agricoltura meridionale che non sono pienamente espresse. Le differenze di produttività del lavoro sono uno degli elementi alla base (o l’evidenza) del problema; ma le potenzialità inespresse si manifestano anche nella bassa capacità di esportazione del sistema agricolo meridionale. In secondo luogo, l’agricoltura del Mezzogiorno negli ultimi anni non è cresciuta in termini reali e la sua contrazione si è verificata contestualmente alla crescita del settore nel Centro-Nord. Sicuramente il volume di investimenti ha giocato un ruolo rilevante nel determinare questo andamento, ma il divario di crescita e degli stessi comportamenti di investimento rimanda all’esistenza di un diverso contesto socio-economico-istituzionale e a un diverso sistema di regole non ammissibili in ambito nazionale.

Secondo la SVIMEZ bisogna agire su due fronti. Il primo è quello delle politiche settoriali. Negli ultimi anni le parole d’ordine associate al sostegno all’agricoltura sono state qualità e sostenibilità ambientale (spesso legate tra loro). Sicuramente la valorizzazione delle produzioni rappresenta un’importante strategia di sviluppo e l’agricoltura meridionale ha intrapreso da tempo questa strada. Ma, perché si traduca in crescita, questa strategia deve accompagnarsi anche all’aumento delle quantità prodotte e al pieno sfruttamento delle potenzialità produttive.

Gli investimenti sono parte essenziale di questo percorso. I finanziamenti comunitari della politica di sviluppo rurale, sia per la loro entità, per la lentezza che caratterizza la loro erogazione, per la loro dispersione in mille rivoli, allo stato attuale non hanno grande capacità d’urto. Il secondo fronte riguarda il cambiamento del contesto socio-economico-istituzionale: infrastrutture e logistica, sistema del credito, capacità di governance, sicurezza sono tutti elementi che agiscono a livello orizzontale, modificando il quadro all’interno del quale gli operatori, agricoli e non, devono prendere le loro decisioni di investimento e produzione.

15. BIOECONOMIA ED ECONOMIA CIRCOLARE : UN’OPPORTUNITÀ DI CRESCITA PER LE

IMPRESE DEL MEZZOGIORNO

Da diversi anni la SVIMEZ ha scelto di inserire il tema della bioeconomia e dell’economia circolare all’interno delle analisi sui possibili drivers dello sviluppo del Mezzogiorno. La SVIMEZ, da aprile 2019, ha avviato un gruppo di lavoro per realizzare un progetto di ricerca su «Le origini, l’evoluzione e le prospettive della Bioeconomia e dell’Economia circolare in Italia e nel Mezzogiorno», dedicato ad analizzare l’impatto e le potenzialità di queste tematiche per l’industria meridionale.

Dalla bioeconomia una nuova rivoluzione industriale

Parlare di bioeconomia significa analizzare la dinamica di quell’insieme di attività e comparti che utilizzano bio-risorse rinnovabili del suolo e del mare per produrre cibo, materiali ed energia o che riescono, attraverso l’applicazione di tecnologie inedite, a ridurre sempre più i residui e gli scarti di produzione. Un fenomeno in continua trasformazione e, per sua stessa definizione, trasversale ai diversi settori produttivi tradizionali. Come ricordato dalla Ellen MacArthur

Page 54: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

52

Foundation, l’economia circolare potrà favorire una crescita dell’11% del PIL mondiale entro il 2030, consentendo una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica, pari al 48% del totale.

Secondo le stime della Commissione europea, ancora nel 2014 la bioeconomia rappresentava in Europa circa 2.200 miliardi di euro di fatturato annuo, occupando complessivamente 18,6 milioni di persone, con un peso complessivo pari al 9% dell’economia dell’Unione. Si calcola che, per ogni euro investito in ricerca e innovazione nella bioeconomia, la ricaduta in valore aggiunto nei settori del comparto sarà pari a dieci euro entro il 2025. Sono cifre e previsioni orientative, che si basano, però, sull’assunto, segnalato già dall’OCSE nel 2009, secondo cui la bio-economia può rappresentare una spinta verso una nuova rivoluzione industriale.

L’impatto di questo nuovo paradigma produttivo nel nostro Paese è evidente: nel 2017 l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia in Italia (includendo sia la gestione e il recupero dei rifiuti, sia il ciclo dell’acqua) ha generato un output pari a circa 328 miliardi di euro, occupando oltre 2 milioni di persone. La bioeconomia rappresenta il 10,1% in termini di produzione e il 7,7% in termini di occupati sul totale dell’economia del nostro Paese (nel 2017), percentuali in linea con quelle del 2016. Nel panorama europeo, l’Italia è terza per valore della produzione, dopo la Germania (402,8 miliardi di euro) e la Francia (357,7 miliardi), e seconda per occupazione, dopo la Germania, ma prima della Francia. Secondo queste stime, il valore della produzione della bioeconomia nel 2017 è cresciuto di oltre 6 miliardi in un anno (+1,9%), grazie al contributo positivo, in particolare, dell’agricoltura e dell’industria alimentare. Per quanto riguarda l’occupazione, invece, si è registrato un incremento contenuto (+0,2%), condizionato dalla dinamica negativa del settore agricolo.

Nel contesto nazionale, il Mezzogiorno svolge un ruolo considerevole grazie alla valenza dei suoi settori di punta, a monte e a valle delle filiere produttive. Considerando il peso dei principali comparti che formano l’economia dell’area, si può, infatti, stimare un valore della bioeconomia meridionale compreso tra i 50 e i 60 miliardi di euro. Rispetto al valore nazionale si raggiunge, quindi, un peso compreso tra il 15% e il 18%, dato particolarmente rilevante se si considera che la quota del manifatturiero meridionale sul totale nazionale è pari al 10%. Le regioni del Sud dell’Italia contano realtà produttive importanti, che partecipano alla creazione di valore aggiunto anche per l’apporto che forniscono in termini di bioeconomia, con una valenza superiore alla media nazionale. Alcuni esempi: nel 2015 il valore aggiunto di agricoltura, silvicoltura e pesca prodotto nel Sud risulta pari a circa 14 miliardi di euro, il 41% del dato nazionale, con un ruolo di primo piano di Sicilia e Puglia. Anche in termini relativi, il Sud mostra un tasso di incidenza del valore aggiunto generato dal settore sul totale del prodotto a livello regionale pari al 4,1%, a fronte del 2,5% del Nord-Est, dell’1,7% del Centro e dell’1,2% del Nord-Ovest. Sotto il profilo dei modelli produttivi, tra il 2010 e il 2016 sono cresciute la dimensione media e la superficie media delle imprese agricole, in un processo di graduale, ma comunque rilevante, avvicinamento tra i modelli aziendali del Nord e del Sud. Particolarmente significativo, inoltre, è il ruolo dell’industria alimentare e la sua incidenza sul totale del manifatturiero meridionale, segno di una vocazione agricola di queste regioni accompagnata dallo sviluppo dell’industria di trasformazione: è anche per questo che il valore aggiunto realizzato nel Mezzogiorno dal settore dell’alimentare, delle bevande e del tabacco nel 2014 è stato pari a 5,3 miliardi di euro, circa un quinto del valore complessivamente prodotto da questo territorio. Importante anche il ruolo assunto dal Mezzogiorno nella crescita delle nuove fonti energetiche rinnovabili (fotovoltaico, eolico, bioenergie): è qui, infatti, che nel 2013 si concentrava il 52,7% della potenza installata, con un peso particolarmente significativo di Puglia, Sicilia e Campania (pari, rispettivamente, al 16,7%, al 10% e al 7% del totale nazionale).

Page 55: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

53

Sud protagonista di una nuova fase industriale nella bioeconomia

Tra i diversi settori di punta della bioeconomia e dell’economia circolare presenti nel Mezzogiorno particolare rilievo assume quello della chimica verde. Il Sud, infatti, è già oggi protagonista di una nuova fase industriale, che coinvolge le comunità locali, il mondo della ricerca, l’industria, nuove imprese, agricoltori e istituzioni locali in un’opera di rivitalizzazione del tessuto produttivo, superando la logica del lavoro contrapposto alla tutela ambientale. Gli esempi più importanti li offrono Novamont in Campania, ENI in Sicilia, Matrìca in Sardegna, Fater in Abruzzo, ma non mancano le PMI innovative e le Università e i centri di ricerca di eccellenza: tutte realtà che guardano alla transizione verso un modello di bioeconomia circolare.

In provincia di Caserta (a Piana Monte Verna) si trova il centro di ricerca sulle biotecnologie di Novamont. Un caso esemplare di come la bioeconomia possa contribuire a ridare slancio a realtà in crisi. L’impianto del gruppo guidato da Catia Bastioli altro non è che il ramo d’azienda di Tecnogen, il centro di ricerca sulle biotecnologie controllato da Sigma Tau Finanziaria, che è stato a lungo in liquidazione prima che fosse acquistato da Novamont alla fine del 2012. La chiusura di Tecnogen avrebbe comportato la perdita di uno straordinario patrimonio di strumentazioni e tecnologie per lo sviluppo dei processi fermentativi e la dispersione di importanti competenze e conoscenze maturate in questi anni sul territorio campano. Novamont ha impedito che questo patrimonio venisse dissipato, creando un centro d’eccellenza sulle biotecnologie industriali.

In Sardegna, Matrìca, la joint venture tra Novamont e Versalis, ha realizzato a Porto Torres – partendo da un impianto industriale dismesso di ENI – una bioraffineria per la produzione di biochemicals per diversi settori, puntando a un nuovo modello di economia, che coinvolge industria, agricoltura, ambiente e attività locali in un grande progetto di riqualificazione e innovazione.

Dalla Sicilia alla Puglia, un’altra startup innovativa nel campo della bioeconomia è EggPlant, che detiene un brevetto per produrre una bioplastica in PHA (poliidros- sialcanoati) dalle acque reflue dell’industria casearia.

Il Mezzogiorno è, inoltre, sede di importanti realtà di ricerca nel settore, come l’Università di Bari, l’Università Federico II di Napoli, l’Università di Palermo e il Consiglio Nazionale delle Ricerche, con l’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali (IPCB) in Campania e in Sicilia. In Basilicata è attivo un impianto dimostrativo di ENEA a Rotondella. Qui la società canadese Comet Biorefining sta testando la propria tecnologia per la produzione di glucosio cellulosico da biomassa non alimentare. Il Centro ricerche Trisaia dell’ENEA rappresenta un vero e proprio fiore all’occhiello della ricerca italiana nel campo della chimica verde, riconosciuto a livello internazionale, soprattutto con riferimento all’utilizzo delle biomasse come fonte energetica nel campo della produzione di elettricità e calore in impianti di piccola taglia (filiere agro-energetiche locali) e in quello dei biocarburanti di seconda generazione.

Nella bioeconomia il Mezzogiorno sta dimostrando un grande protagonismo. E può davvero aspirare a diventare punto di riferimento per un nuovo Rinascimento industriale del Paese, capace di coniugare economia, ecologia e società.

Su questi principi si muove l’azione del Cluster nazionale della chimica verde SPRING (Sustainable Processes and Resources for Innovation and National Growth), che aspira a essere sempre di più un punto di riferimento nazionale e internazionale per la sua capacità di mettere insieme industria, agricoltura, ricerca pubblica e privata e i diversi attori della bioeconomia circolare italiana. Il Cluster SPRING nasce come Associazione no profit nel 2014, per iniziativa di Biochemtex, Novamont, Versalis e Federchimica, in risposta all’«Avviso per lo sviluppo e il potenziamento di Cluster tecnologici nazionali» del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e

Page 56: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

54

della Ricerca (MIUR). Il 27 maggio 2019, con un decreto del MIUR, il Cluster SPRING viene formalmente individuato come componente della cabina di regia nazionale sul tema della bioeconomia, «per il coordinamento delle politiche di ricerca industriale a livello nazionale e locale, nonché di raccordo tra le misure promosse a livello centrale e regionale e, con riferimento alle regioni del Mezzogiorno, anche quale strumento facilitatore per l’attuazione e l’impiego degli interventi sul territorio». SPRING oggi rappresenta circa 120 soci, distribuiti tra imprese di grandi e piccole dimensioni, Università e centri di ricerca e soggetti regionali. Come Cluster nazionale della bioeconomia mette insieme diversi settori produttivi, che vanno dalla chimica verde all’agroalimentare, fino al settore cartario, del legno e dell’automotive.

Dal Sud forte domanda di brevetti nel settore della bioeconomia

Un possibile modello di studio dell’impatto e dell’evoluzione della bioeconomia è legato all’analisi descrittiva della distribuzione delle domande di brevetto in questo settore per le regioni del Mezzogiorno d’Italia. In particolare, si fa riferimento alla classificazione Societal Grand Challenges (SGC), che costituisce la base per l’innovazione in diversi contesti di produzione industriale, focalizzando le tipologie di brevetto legate al gruppo della «BIOECONOMY».

Analizzando nello specifico l’andamento nel tempo delle domande di brevetto in bioeconomia, per le 8 regioni incluse nella macro-area del Sud dell’Italia, si osserva come in alcune regioni (Abruzzo, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia) si registri un più significativo contributo di questo settore in termini brevettuali. L’evoluzione della quota di domande di brevetto in bioeconomia nelle regioni del Mezzogiorno tra il 1980 e il 2016, rispetto al totale delle domande di brevetto presentate, evidenzia alcuni aspetti rilevanti. In primo luogo, non tutte le regioni presentano domande di brevetti nei settori riferiti alla bioeconomia in tutti gli anni (Basilicata, Calabria e Molise). In secondo luogo, vi è una forte eterogeneità tra le regioni del Sud: l’andamento nel tempo appare, infatti, variabile, seppure tali quote risultino sempre abbastanza sostenute. Infine, per Abruzzo, Campania, Puglia e le due Isole si può cogliere un aspetto comune: la quota di brevetti è molto alta nei primi anni del periodo analizzato, poi subisce un decremento negli anni centrali (1987-2010) e una ripresa negli ultimi anni.

Il biotech un comparto dinamico e innovativo al Sud

Tra le varie componenti settoriali che contribuiscono a definire il sistema della bioeconomia, il comparto delle biotecnologie occupa un posto di forte rilievo. Nel panorama industriale italiano la crescita delle imprese attive nel campo delle biotecnologie ha acquisito nell’ultimo decennio un particolare slancio, in significativa controtendenza rispetto alle perdite riscontrate nel tessuto produttivo nazionale. A fine 2018, sono state rilevate, su scala nazionale, 641 imprese operanti nel settore biotecnologico, con un aumento del 34% rispetto a quelle registrate nel 2008.

L’aumento del numero di imprese biotecnologiche ha registrato ritmi sostenuti fino al 2011 (con un aumento medio annuo del 6%), mentre ha iniziato a decelerare nel corso degli anni successivi, anche se occorre sottolineare come gli anni più recenti scontino una strutturale sottostima della popolazione esistente. L’intensificarsi dell’attività dell’Italia nelle biotecnologie si caratterizza, inoltre, per la progressiva diffusione di presenze imprenditoriali in tutto il territorio nazionale, con un crescente coinvolgimento delle regioni del Centro e di quelle del Mezzogiorno. A questo riguardo occorre in particolare osservare come il numero di imprese localizzate nel Sud sia cresciuto a ritmi sensibilmente superiori a quelli rilevati nel resto del Paese per tutto il periodo considerato. Nel complesso, a fronte di un aumento del 34,5% tra il 2008 e il 2015 su scala nazionale, le imprese del biotech sono cresciute nel Mezzogiorno del 61,1%, pari a quasi una volta e mezza l’incremento rilevato per il Centro (41,4%), e addirittura più di due volte che nel Nord

Page 57: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

55

(27,2%).

Non meno rilevante è lo scenario che si è andato delineando nel triennio 2016-2018, che se da una parte può considerarsi come una fase di assestamento della popolazione di imprese biotech nel suo insieme, dall’altra rivela importanti inversioni di tendenza delle dinamiche territoriali che sono emerse durante il periodo precedente. Con una contrazione di poco più del 5% del numero totale di imprese biotech, il Mezzogiorno inizia infatti a perdere terreno rispetto al Centro-Nord, che retrocede solo del 2,5% a fronte, peraltro, di una tenuta delle regioni centrali. Resta però il fatto che, tra il 2008 e il 2018, la distribuzione territoriale delle imprese attive nel biotech mostra un aumento pressoché continuo della quota relativa al Mezzogiorno, che passa da un valore iniziale di poco più del 14% a un valore stabilmente superiore al 17% alla fine del periodo.

Al potenziale innovativo dell’intero comparto, ha contribuito in misura crescente il Mezzogiorno, già in partenza caratterizzato da una più elevata quota di imprese a elevata intensità di ricerca al suo interno (nel 2014 il 65% contro il 53,4% del Centro-Nord). Nel periodo considerato, le imprese specializzate in ricerca biotech del Meridione hanno registrato un aumento del 18,5%, largamente superiore a quello osservato nel Centro-Nord (3,2%) e ben più ampio di quello, pari al 15%, rilevato per il totale settoriale. Nel 2016, la quota di imprese biotech a elevata intensità di ricerca sul totale del comparto raggiunge così nel Mezzogiorno un picco di più del 70% contro il 56% del Centro-Nord, attestandosi al 67% l’anno successivo, per effetto di una flessione che ha interessato tutto il territorio nazionale.

L’assetto produttivo del biotech risulta polarizzato intorno a quattro regioni, rappresentative complessivamente più dell’80% delle imprese che operano nelle biotecnologie nell’area meridionale, di cui più del 40% è stabilmente rappresentato dalla sola Campania, mentre la restante parte si distribuisce in maniera relativamente più uniforme tra Puglia, Sicilia e Sardegna.

Per quanto riguarda i settori di specializzazione, il Mezzogiorno presenta un’incidenza superiore di imprese specializzate nella ricerca biotech rispetto al Centro-Nord sia nell’ambito dei settori tipicamente a più elevata intensità di ricerca, che nell’ambito delle biotecnologie «verdi» e delle bio-tecnologie «bianche». In questo senso appare evidente come le imprese biotech ad alta intensità di ricerca abbiano assunto nel Mezzogiorno un ruolo significativo in tutti i settori, ma più in particolare come esse abbiano relativamente contribuito di più a sostenere quelli che ricadono al di fuori del tradizionale raggio di applicazione delle biotecnologie nell’ambito della salute umana, e rispetto ai quali sembra essersi avviato un nuovo percorso di sviluppo.

In Campania si rileva un’elevata concentrazione territoriale delle imprese specializzate nella ricerca. Il fenomeno è assai più marcato nel caso delle biotecnologie «verdi», con una concentrazione nel 2017 per il solo Mezzogiorno del 26% di imprese specializzate nella ricerca, e una presenza di spicco della Puglia, ma è apprezzabile anche per quanto riguarda le biotecnologie «bianche» che, al di là di una concentrazione di imprese specializzate nella ricerca di poco inferiore a quella registrata a livello di comparto (18% circa contro 20% circa), si segnalano per una significativa presenza della Puglia, nuovamente, e della Sicilia. Particolarmente elevata è inoltre la concentrazione regionale di imprese specializzate nella ricerca nel settore GPTA (Genomica, proteomica e tecnologie abilitanti) di cui il Mezzogiorno rappresenta il 27%, e che devono il maggior contributo a Campania (11,4%) e Sardegna (9,1%), mentre nel caso delle biotecnologie «rosse» la distribuzione è relativamente più in linea con quella rilevata per il complesso delle imprese biotech specializzate nella ricerca.

All’aumento del fatturato biotech dell’area, il cui peso relativo a livello nazionale rimane estremamente limitato, hanno contribuito in misura continua e crescente le imprese attive nelle biotecnologie «verdi» e nelle biotecnologie «bianche». Alla fine del 2017, tali imprese sono infatti arrivate a rappresentare, rispettivamente, il 27% e il 15% del fatturato biotech generato nel Mezzogiorno. La seconda quota è il risultato di una crescita riconducibile prevalentemente al

Page 58: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno

56

contributo della Sicilia (67% del fatturato biotech del Mezzogiorno nelle biotecnologie «verdi» nel 2017). Da sottolineare è inoltre come la quota del fatturato biotech del Mezzogiorno sul totale nazionale relativa al settore delle biotecnologie «verdi» risulti, al netto di una forte variabilità, sempre particolarmente elevata (6% nel 2017) e largamente superiore a quella rilevata per l’insieme del comparto biotech.

Il percorso di crescita relativa delle imprese biotecnologiche del Mezzogiorno nei confronti del Centro-Nord si è andato costruendo intorno a un nucleo sempre più numeroso di iniziative concentrate su attività di ricerca, nel quale i settori delle biotecnologie per l’agricoltura e zootecnia e quelle per l’industria hanno rivestito un ruolo di indubbia importanza. Tuttavia, altrettanto rilevante è stato l’aumento di imprese di piccola e, ancor di più, di piccolissima dimensione, che hanno mostrato maggiori difficoltà di tenuta, divenute più evidenti a partire dalla seconda metà del decennio. Tali difficoltà si sono riflesse però in misura diversa sui diversi settori del comparto, rendendo più instabile, se non addirittura rallentando, lo sviluppo di quelli maggiormente proiettati su campi relativamente più nuovi di applicazione delle biotecnologie, quali la riqualificazione dei processi e della produzione industriale e il miglioramento della qualità dell’ambiente. In altri casi, come quello delle imprese attive nelle biotecnologie per l’agricoltura e la zootecnia, il tessuto produttivo è ancora poco consistente, anche se il contributo all’intero comparto è in termini relativi in linea con l’incidenza presente nel Centro-Nord. In tal senso, se non è dato di trascurare l’avanzamento registrato dalle imprese operanti nel settore delle biotecnologie applicate alla salute, che occupa di per sé uno spazio preminente ed è maggiormente radicato in tutto il Paese, certamente è necessario valutare l’opportunità di consolidare una frontiera innovativa che si va allargando, e che proprio nel Mezzogiorno potrebbe trovare specifiche quanto inedite leve di progresso a partire da settori di forte rilievo per il Made in Italy e fortemente rappresentati in quest’area, quali quelli della filiera agroalimentare, del legno e della carta e non ultimo della chimica verde.

La dinamica di crescita registrata per questi settori, ha seguito le linee della ripresa economica del Mezzogiorno dopo la profonda recessione degli anni 2007-2014, mettendo in risalto come l’avvio di un processo di riconversione e riorganizzazione che si è realizzato in questi comparti negli ultimi anni possa rappresentare anche la premessa per un superamento del nuovo dualismo riapertosi tra Nord e Sud del Paese e accentuatosi con la crisi internazionale. Tuttavia, affinché tale premessa si trasformi in concreto e robusto processo di sviluppo, è necessario rafforzare il percorso di trasformazione di tali settori dando vita a nuovi modelli produttivi, in cui il ruolo dell’innovazione tecnologica è centrale. Ciò significa per il Mezzogiorno colmare una duplice insufficienza, che riguarda da un lato la necessità di accelerare la ripresa al fine di recuperare in tempi più brevi almeno le posizioni del periodo pre-crisi – evitando peraltro che il divario continui ad ampliarsi – e, dall’altro, dare un più forte impulso ai processi di innovazione industriale, per i quali il ritardo rispetto al resto del Paese è perfino maggiore.

Page 59: NOTE DI SINTESI Il Mezzogiorno nella nuova geografia ...lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/11/rapporto_svimez_2019... · universitaria di livello internazionale. A ciascuno