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Nota introduttiva Francesco Maria II della Rovere, dopo 57 anni di governo del Ducato di Urbino, morì il giorno lunedì 28 aprile 1631, all’età di 83 anni, a Urbania (allora Castel Durante), città da tempo scelta per la sua abitazione. Il suo cadavere, adeguatamente preparato, fu portato nella camera ardente allestita presso la Sala Maggiore del Palazzo Ducale di Urbania, dove restò fino a mercoledì 30, quando ebbe luogo l’ufficio funebre. Una lunga processione costituita da alcuni cori musicali, dai membri delle locali confraternite laicali e regolari, da numerosi ecclesiastici di vari ordini religiosi (Padri Cappuccini, Padri Conventuali, Padri Minori Osservanti, Chierici Regolari Minori di San Francesco Caracciolo, ecc.), da coloro che avevano servito il duca in vita, e infine dal popolo tutto, si mosse alla volta delle chiese durantine di Santa Chiara, di Santa Maria Maddalena e di San Francesco, per raggiungere infine la chiesa del Santissimo Crocifisso (al giorno d’oggi conosciuta come chiesa dell’Ospedale), dove il duca aveva da tempo stabilito che dovesse essere la sua sepoltura. Nel corso della funzione furono “lette più orazioni”, come si evince da un manoscritto a carattere miscellaneo conservato dalla Biblioteca Universitaria di Urbino (segnatura di collocazione Urbino 1), che tra le altre cose contiene una descrizione dei funerali di Francesco Maria II della Rovere, ove però non è possibile trovare notizie più approfondite sulle orazioni che furono lette e sui relativi autori. Giungendo ad esaminare in maniera specifica l’oggetto delle nostre attuali attenzioni, va detto in primo luogo che l’orazione dell’Albani, che pure a tal fine era stata preparata, non figura tra quelle che vennero lette nel contesto della cerimonia funebre, a motivo di un suggerimento “di chi presiedeva al governo dello stato già devoluto alla Santa Sede”. Purtroppo non è stato possibile rintracciare notizie utili a chiarire i motivi del mancato pronunciamento dell’orazione funebre, che per contenuti non sembra

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Nota introduttiva

Francesco Maria II della Rovere, dopo 57 anni di governo del Ducato di Urbino, morì

il giorno lunedì 28 aprile 1631, all’età di 83 anni, a Urbania (allora Castel Durante),

città da tempo scelta per la sua abitazione.

Il suo cadavere, adeguatamente preparato, fu portato nella camera ardente allestita

presso la Sala Maggiore del Palazzo Ducale di Urbania, dove restò fino a mercoledì

30, quando ebbe luogo l’ufficio funebre.

Una lunga processione costituita da alcuni cori musicali, dai membri delle locali

confraternite laicali e regolari, da numerosi ecclesiastici di vari ordini religiosi (Padri

Cappuccini, Padri Conventuali, Padri Minori Osservanti, Chierici Regolari Minori di

San Francesco Caracciolo, ecc.), da coloro che avevano servito il duca in vita, e

infine dal popolo tutto, si mosse alla volta delle chiese durantine di Santa Chiara, di

Santa Maria Maddalena e di San Francesco, per raggiungere infine la chiesa del

Santissimo Crocifisso (al giorno d’oggi conosciuta come chiesa dell’Ospedale), dove

il duca aveva da tempo stabilito che dovesse essere la sua sepoltura.

Nel corso della funzione furono “lette più orazioni”, come si evince da un

manoscritto a carattere miscellaneo conservato dalla Biblioteca Universitaria di

Urbino (segnatura di collocazione Urbino 1), che tra le altre cose contiene una

descrizione dei funerali di Francesco Maria II della Rovere, ove però non è possibile

trovare notizie più approfondite sulle orazioni che furono lette e sui relativi autori.

Giungendo ad esaminare in maniera specifica l’oggetto delle nostre attuali attenzioni,

va detto in primo luogo che l’orazione dell’Albani, che pure a tal fine era stata

preparata, non figura tra quelle che vennero lette nel contesto della cerimonia

funebre, a motivo di un suggerimento “di chi presiedeva al governo dello stato già

devoluto alla Santa Sede”.

Purtroppo non è stato possibile rintracciare notizie utili a chiarire i motivi del

mancato pronunciamento dell’orazione funebre, che per contenuti non sembra

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presentare alcun elemento atto a rendere problematico il passaggio dall’epoca ducale

al periodo legatizio, e che era stata scritta da un esponente della famiglia Albani,

vicina ad Urbano VIII e certamente incline ad assecondare in tutto e per tutto la

volontà del pontefice.

Non sarà del tutto superfluo precisare che l’autore dell’orazione presa in esame non è

Annibale Albani (Urbino, 15 agosto 1682 – Roma, 21 ottobre 1751), cardinale di

Santa Romana Chiesa e nipote di papa Clemente XI, bensì di un omonimo che lo

precede cronologicamente. Il Nostro era figlio di Orazio Albani (quest’ultimo nato a

Urbino nel 1576 e morto a Roma nel 1653, dopo essere stato ambasciatore del Ducato

di Urbino, nonché Senatore di Roma, dal 1633 al 1645) e dell’urbinate Olimpia

Staccoli; il prelato Annibale Albani (1605 - 1651), che quando compose l’orazione

aveva 26 anni, si dedicò alla carriera ecclesiastica e fu anche Prefetto della Biblioteca

Vaticana.

Il Progetto Archivio Albani della Biblioteca Oliveriana di Pesaro ha laudabilmente

provveduto a mettere a disposizione degli utenti della rete – tra le altre cose - la

riproduzione digitale dell'originale dell’orazione in morte del Duca Francesco Maria

della Rovere, che è stata conservata sia in bozza sia in bella copia (v. Raccolta di

scritture, e componimenti Eruditi d'Orazio, e suoi figli - Orazioni, et altri

componimenti Italiani, e Latini di diverso argomento Parte compite, e parte abozzate

da Monsignor Annibale Albani).

Dal canto suo l’urbinate Antonio Rosa, che portò avanti le sue attività tra la fine del

secolo XVIII e gli inizi del secolo XIX (di qui la collocazione cronologica del

documento, per la quale v. la descrizione iniziale), molto probabilmente ebbe a suo

tempo modo di disporre di tale documentazione, e, non nuovo a siffatte imprese

erudite, copiò integralmente l’orazione. Il fascicolo di 34 carte non numerate, che

nelle prime 32 contiene l’elegante trascrizione del discorso funebre, per ragioni che

allo stato attuale delle cose non è possibile chiarire, non venne collocato tra i

manoscritti del Fondo del Comune di Urbino (oggi conservato presso la Biblioteca

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Centrale Umanistica dell’Università degli Studi di Urbino), bensì venne rilegato

insieme ad un esemplare (che la medesima biblioteca conserva con segnatura di

collocazione B V 45) dell’opera a stampa appresso indicata: Esseqvie del serenissimo

Francesco Maria II. sesto, et vltimo dvca d'Vrbino. Celebrate da' PP. Chierici Minori

nella lor Chiesa del Santissimo Crocifisso in Casteldurante. In Vrbino, per il

Mazzantini, & Luigi Ghisoni, 1631, 88 p., in 4⁰. Al recto della carta F1 un secondo

frontespizio (su entrambi è presente lo stemma dei duchi d'Urbino) introduce la parte

conclusiva del volume: Oratione nelle esseqvie del serenissimo Francesco Maria II.

VI. & vltimo Dvca d'Vrbino, Fatta, e recitata in Casteldurante, nella Chiesa del

Santissimo Crocifisso de' Padri Chierici Minori. Dal Padre Lodouico Munaxhò della

medesima Religione. Lo spagnolo Ludovico Munaxhò, religioso dei Chierici Regolari

Minori di San Francesco Caracciolo, era uno dei confessori di Francesco Maria II

della Rovere; e furono proprio i padri Caracciolini, che, in occasione del trigesimo,

vale a dire trenta giorni dopo la sua morte, spinti da obbligo di gratitudine, vollero

organizzare una pomposa e devota celebrazione funeraria per onorare la memoria di

un personaggio che aveva dimostrato una così particolare predilezione nei loro

confronti, e si prodigarono alla realizzazione di un grande apparato mortuario, che la

succitata pubblicazione descrive con barocca eloquenza.

A motivo della sua particolare collocazione fisica (rilegata assieme ad un’edizione a

stampa, e per questo non compresa nella nota indicizzazione di Luigi Moranti

contenuta nell’ottantesimo volume della serie curata dal Mazzatinti) è da supporre

che la copia manoscritta del Rosa dell’orazione di Annibale Albani non sia molto

nota tra gli eruditi, nonostante la segnalazione del suddetto Moranti al numero 110

del suo volume dedicato alla tipografia urbinate (l’opuscolo venne stampato a Urbino

nel 1631).1

Tutto ciò fa apparire come giustificato il tentativo di valorizzazione costituito dalla

trascrizione che segue, tenuto conto anche dello stato di conservazione non

1 Moranti, Luigi, L'arte tipografica in Urbino (1493 – 1800), con appendice di Documenti e Annali, Firenze, Leo S. Olschki, 1967, p. 220 – 221.

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propriamente ottimale del documento, che fa temere per un prossimo futuro

alterazioni del supporto cartaceo, dovute all’acidità degli inchiostri ferrosi, come

purtroppo testimoniato dall’effetto di controstampa che caratterizza alcune carte del

manoscritto.

Per quanto riguarda il testo, esso va inteso come una trasposizione su supporto

informatico, realizzata con modalità facsimilari, del manoscritto originale, rispettato

fedelmente in ogni sua caratteristica, come l’abbondante ricorso alle lettere

maiuscole, i particolari e desueti usi della punteggiatura, degli accenti, degli apostrofi

(si è lasciato ‘de’ senza apostrofo anche ove la sensibilità attuale lo imporrebbe) e

degli articoli (da sottolineare il particolare uso dell’articolo ‘gli’). Si è rispettato

scrupolosamente ciò che il manoscritto reca per ciò che concerne le consonanti

doppie o scempie (es. ‘piutosto’), l’alternanza grafica u / v (es. ‘noua’) e le

abbreviature, per altro poche e di non difficile scioglimento (es. ‘san. mem.’ per

‘santa memoria’ oppure ‘Sermō’ per ‘Serenissimo’). Per non rendere l’esame

dell’orazione eccessivamente frammentario, si è pensato di fare un uso molto parco

del termine latino sic posto tra parentesi quadre (è proprio così).

Infine ringrazio il Professor Rocco Borgognoni per avermi fatto comprendere

l’importanza storica dell’orazione funebre di Annibale Albani, inducendomi così a

svolgere un doveroso e – spero – utile lavoro di valorizzazione, e soprattutto per

essere stato generosamente prodigo di preziosi suggerimenti e di significative

osservazioni.

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INIZIO TRASCRIZIONE DEL MANOSCRITTO

C [ 1 ] R.

Orazione Funebre

Per celebrare le solenni Esequie

di Francesco Maria II.

Feltrio della Rovere

Duca VI. ed ultimo d’ Vrbino

composta

Dal Sig. Annibale Albani,

e da esso non recitata

Per servire ai commandi

Di chi presiedeva al Governo

dello Stato

già devoluto alla Santa Sede.

C [ 1 ] V. bianca

C [ 2 ] R.

Orazione

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Dunque le prime voci, che da questa infelice mia bocca dovranno alla presenza di

numeroso Popolo uscire saranno per vostro commandamento, o Signori destinate al

pianto? Dunque il primiero suono, che manderà fuori questo sventurato petto sarà

ambasciatore infausto di avversità, e di miserie? Dunque le parole, che per la prima

fiata mi si converrà a nome della mia carissima Patria formare, non risuoneranno

altro che lamenti; e questo nobilissimo Tempio, che fù benespesso da quelle non

meno invitte, che religiose piante calcato, e dalla regia maestà di quella fronte

rallegrato, sarà oggi amaramente dalle mie lagrime cosperso? Ahi che pur troppo le

eroiche virtù, che fregiarono quell’Anima grande, e come in chiarissimo Cielo quasi

vaghissime stelle risplendono, mi chiamano a questo lamentevole ufficio, a questo di

riverentissimo affetto ben dovu= C [ 2 ] V. to, ed ultimo segno. Pur troppo quel

lucidissimo Sole, che per lo passato sovra questa Città sparse tanti benignissimi

influssi, quanti dalla sua maggiore altezza serenissimi raggi diffuse, mi provoca a

lagrimare incessabilmente gli spenti suoi lumi, a piangere inconsolabilmente

gl’estinti suoi splendori. Pur troppo, ahi troppo l’acerbissima perdita per l’irreparabil

colpo di morte cagionataci, che affatto dissipò le nostre speranze, mentre furando2 a

Francesco Maria di sempre gloriosa memoria la vita, sostegno, e mantenimento di

mille vite, crudelmente fè strage di questo suo fedelissimo Popolo, m’invita a palesar

con parole accompagnate da copiosissimi pianti l’interno duolo, che miserabilmente

gl’animi nostri trafigge. Ed io certo a questa pesante soma, a questo gravoso incarico

da voi impostomi, o Signori, gl’omeri di molto miglior voglia sopporrei,3 se quei

torrenti di lagrime, che dagl’occhi per cotanto compassionevole, e fiero caso versaste,

C [ 3 ] R. cangiarmisi in altrettanti fiumi di eloquenza vedessi, che nel vero, se pari al

dolore, che in me della parte più nobile tiranno divenuto me stesso a me stesso

ritoglie, la facondia oggi congiungessi, ne [ sic ] voi sareste per desiderare effetti

corrispondenti alla mia pronta volontà, ne [ sic ] io di non avere quella copia di

eloquentemente ragionare mi dorrei, che alle azioni gloriose e magnanime del morto

2 Furare è un verbo transitivo antico e letterario che significa ‘rubare’. 3 ‘Soppórre’ è forma antica e letteraria per ‘suppórre’, verbo transitivo usato qui nel significato – a sua volta antico e letterario - di ‘collocare sotto’ (in questo caso il gesto di ‘porre le spalle sotto un peso’ va inteso in senso ovviamente figurato).

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Duca nostro giustamente convenevole sarebbe; Sebene ed i cenni vostri, a cui sono

sempre tenuto di ubbidire, e ciò che questa Città particolarmente deve a quell’anima

virtuosa, che mentre trà noi dimorò mai fu sazia di beneficarla, ed i suoi fatti egregi

superiori ad ogni retorico aggradimento consolano in parte la bassezza dell’ingegno

mio, e la debolezza non mezzana delle mie forze.

Perche con qual fronte aurei io potuto sottrarmi a questo benche rilevante carico,

venendone gravato dalla mia Patria, nel pietoso seno di cui sono stato benignamente

allevato e nudrito. Con qual a= C [ 3 ] V. nimo poteva rifiutare questo ancorche grave

peso di palesare le lodi di un Principe, a cui mentre visse di collocar sempre piacque

negli Urbinati gl’onori, senzache io dovessi con ragione temere di non essere

quasiche mostro di abominevole ingratitudine, e come non vostro degno Cittadino

universalmente dimostrato da tutti. Con qual cuore aurei sofferto di tacere le gloriose

operazioni di Francesco Maria, che colle sue meraviglie faticò ogni più pellegrino

ingegno co suoi stupori stancò ogni più dotta penna, colle sue grandezze gli eterni

gridi, ed i voli infaticabili della trionfatrice fama sempre di gran lunga precorse e

vinse. Di quel Francesco Maria, che fù sicuro rifugio de calamitosi, placido porto de

naufraganti, certo sostegno degli afflitti, saldo scudo de miseri, stabile appoggio degli

infelici, severo vendicatore dell’altrui oltraggiata innocenza, giustissimo dispensatore

degli onori, prudentissimo distributore de premj, liberale rimuneratore delle generose

azioni, magnanimo favoreggiatore delle più pregiate discipline, C [ 4 ] R. benigno

ricevitore delle Arti più nobili, e delle sbandite, ed ormai quasi non conosciute virtudi

ricettatore, e ristoratore unico, e pietosissimo protettore. Di quello, che mentre godè

questa dolcissima luce, altamente operando fù nobile compendio di regolata

magnificenza, vero specchio di non affettata piacevolezza, vivo ritratto di regia

provvidenza, bella forma di perfetta giustizia, sacro tempio, e teatro di non mentita

Religione; splendore de letterati, onore de guerrieri, ornamento de saggi, regola de

buoni, norma de Principi, idea ed esemplare de Grandi. Di quel Francesco Maria

dico, che non mai travalicò le reverende leggi della convenienza, e della onestà, non

mai si allontanò da ogni dirittura e lealtà di costumi, non mai torse i passi dal difficile

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e scosceso sentiero dell’eroica sublimità; prudente nel deliberare, magnanimo

nell’imprendere, costante nel proseguire; tutto in se moderato, tutto pieno d’ineffabile

dolcezza ed umanità, tutto in somma per racchiudere in breve epilogo le sue lo= C [ 4

] V. di non punto dissimile da se stesso. Che se nel dimostrare quanto egli

saggiamente visse con la bassezza, ed umiltà dello stile, da ogni pompa del dire sarò

lontano, non pertanto non dovrò forse, o Signori, esserne da meno tenuto e reputato;

poichè meglio, e più vivamente campeggierà trà questi neri arredi, e trà questi oscuri

orrori di funesto spettacolo il candore di un puro e negletto favellamento, e

rimembranza di quelle virtù, che l’estinto e perduto Principe nostro rendette appo tutti

cotanto chiaro, ed illustre. E quì, o Signori m’aveggio, che sul bel principio del mio

ragionare da Voi si desidera una lodevole narrazione della Serenissima prosapia di

Francesco Maria, ed altri forse a cui fosse mestieri il parlare di soggetto, che povero

in se stesso di gloriose prodezze, di nulla tanto dovizioso, quanto de valorosi fatti

degli Avoli fosse stato, quasi posto in nobilissimo teatro, farebbe mostra a suo senno,

nol niego, dei più pregiati ornamenti degli Oratori, scoprirebbe a suo piacere i più

ricchi tesori dell’eloquenza, ed in vaga tela di ben C [ 5 ] R. tessute parole

spiegherebbe a sua voglia co’ più fini colori del dire le grandezze degli Antenati, i

quali fin dalle loro fredde ceneri rampognano i Posteri tralignanti. Ma non debbo io,

che abbondevole di quella luce, con la quale illustrò il Mondo il nostro per sempre

eclissato Sole arricchito de suoi lumi aurei, quando tanto valessi un sì bel campo da

far pompa di quelli de buoni dicitori, ricorrere oggi agli altrui splendori. Potrei dire, è

vero, o Signori, ch’egli fù prezioso rampollo di quella real quercia, in cui un’Aquila

generosa Feltresca madre fortunatissima dei Monfeltrini, de Bonconti, de Galassi, de

Nolfi, degli Antonij, de Federici, de Guidi, oh quanto in questo sol nome comprende,

già fin dalla Germania venuta, e vicino a quei Monti, ond’esce il famoso Tebro4

fermatasi, di dove poi spiegò avventurosa dall’uno all’altro Polo le ali e le piume

gloriose, quasi stanca finalmente de suoi voli sublimi, con felicissimi auspicj

4 La dinastia dei Montefeltro, che ha per simbolo l’aquila, nacque da un ramo della famiglia dei conti di Carpegna, oggi comune della provincia di Pesaro e Urbino che dista una trentina di chilometri dal Monte Fumaiolo, situato tra Romagna, Toscana e Marche, nei pressi della cui vetta trovasi la sorgente del Tevere (indicato nel testo come Tebro).

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trionfatrice posossi. Potrei dire, che questa Quercia, germoglio serenissimo de

Principi Longobardi, C [ 5 ] V. fermò le sue nobili radici più di novecento anni fà in

Turino: quindi in Savona Città antica ed illustre della Liguria, e poscia in Urbino

allignando fù sempre di grazie adornata dal Cielo, sempre copiosamente irrigata, ed

inaffiata dalle acque de suoi favori. Potrei dire, che questa Quercia al pari di quelle de

lidi Cauchi navigando maravigliosamente non per l’acque di due soli laghi, ma per

l’ampiezza de più profondi, e remoti mari, fù di terrore a Principi nemici, a Genti

superbe, a Popoli feroci.5 Potrei dire, che questa vincendo quella cotanto appo la

troppo in vero ammiratrice di se stessa antichità lodata Quercia di Romolo ornata non

delle spoglie opime dei soli Ceninensi,6 ma più carica di trofei, che di ghiande, più

ricca di corone, che di foglie dei sconfitti nemici, delle abbattute nazioni, dei disfatti

eserciti sempre vincitrice mostrossi. Potrei dire, che questa superando quell’antica

Quercia sul fiume Cefiso,7 sotto le sue grate ombre, sotto i suoi verdeggianti rami,

non ad un solo trionfatore Alessan= C [ 6 ] R. dro, ma a ben mille prodi Guerrieri, ed

invittissimi suoi Duci diede sicuro, ed onorato riposo. Potrei dire, che a questa nuova

Quercia Dodonea8 i più saggi e prudenti Principi d’Europa qualora deliberare

d’alcune gravi bisogna [ sic ], che alla conservazione de loro stati appartenesse

ebbero mestiere, quasi ad Oracolo non fallante fecero meritevolmente ricorso. Potrei

dire, che da questa, come già da quel Greco Cavallo fatale alle armi di Troja per

5 Questo passo si riferisce sicuramente all’inizio del libro sedicesimo (Alberi selvatici) della Storia naturale di Plinio il Vecchio. I Cauci erano una popolazione germanica insediata lungo la costa del Mare del Nord, nei pressi della quale si trovavano due laghi circondati da alte e poderose querce, a proposito delle quali sarà interessante leggere quanto scrive Plinio.

Le querce, per la loro smisurata invadenza nel crescere, occupano addirittura il litorale, e, a causa delle onde che scavano la terra sotto di esse o del vento che le sospinge, si staccano portando con sé grandi isole costituite dall’intreccio delle radici: restano così dritte, in equilibrio, e si spostano galleggiando (Plinius Secundus, Gaius, Storia naturale, III: Botanica, I, Libri 12 – 19 ... Torino, Giulio Einaudi, 1984, p. 373).

Le modalità del riferimento, poco contestualizzato e probabilmente criptico per il lettore moderno, costituiscono la prova di quanto fosse diffusa, agli inizi del diciassettesimo secolo, la conoscenza dell’antica enciclopedia pliniana, che effettivamente in questo caso fornisce l’occasione per un paragone singolare all’oratore, intento a magnificare la storia della famiglia della Rovere. 6 Popolo dell'Italia preromana probabilmente di origine sabina, secondo la tradizione assorbito dai Romani a seguito della vittoria del primo re di Roma, Romolo, il quale nel 752 - 751 a. C. riuscì ad uccidere il loro re, Acrone. 7 Plutarco, nella sua nota biografia di Alessandro Magno, racconta che ancora ai suoi tempi era nota una grande quercia, situata presso il Cefiso (fiume che bagna la pianura ateniese), sotto la quale il sedicenne condottiero macedone avrebbe posto la sua tenda all’epoca della battaglia di Cheronea; va detto che Plutarco visse tra il primo ed il secondo secolo dopo Cristo, mentre la battaglia di Cheronea fu combattuta nell’anno 338 a. C. 8 Dodona era una città greca dell'Epiro, sede di un antichissimo oracolo, incentrato sull’interpretazione del fruscio delle foglie di una quercia.

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lungo corso d’anni uscirono sempre generosissimi Cavalieri, che non una sola Città,

ma soggiogarono le provincie intiere col lor sommo valore ed invincibile fortezza; E

quì potrei ridurvi a memoria gl’Ermondi, i Girolami, i Leonardi, i Raffaelli, i Guidi, i

Franceschi; gli Capitani d’eserciti, i Generali di Vinegia, e di Santa Chiesa, i lumi

chiarissimi della Romana porpora, ed i Nocchieri supremi della Sagratissima

navicella di Pietro. E dopo d’avere a mio talento raccontate le lodi delle nobilissime

Case di Montefeltro, e della Rovere, rivolgendomi alla linea materna di Francesco

Maria, potrei pro= C [ 6 ] V. porvi, o Signori, a vagheggiare un campo amenissimo, e

fioritissimo dei Gigli Farnesi.9 Quivi vedreste una Famiglia ornamento dell’Italia

splendore dell’Europa, i cui figli generosi avezzi a trattare con le invitte destre

poderosi scettri, costumati di ornarsi le tempie vincitrici con trionfali allori, soliti di

vestire le più fine porpore, assuefatti a coronarsi le chiome gloriose con li più

venerandi, e sagrosanti diademi, sempre si pregiarono di quella candidezza de regii

costumi, onde portano ornate le nobilissime insegne; Che coi loro petti magnanimi

servirono di ben saldo scudo nelle turbolenze ed assalti di Santa Chiesa; Che essendo

uniti non meno di valore, che di sangue con le prime case d’Italia, si congiunsero

anche in stretto parentado con le corone della Francia, e della Spagna; Che trà i

maggiori lor vanti possono meritevolmente pregiarsi di aver data alla Casa della

Rovere una Donna, dalla quale fù prodotto alla vita quel glorioso Principe, di cui ora

inconsolabilmente piangiamo la morte. C [ 7 ] R. Ma chi è di voi, o Signori, che o

non sappia queste cose, o non s’avveggia, che siccome Francesco Maria non tanto

osservò ciò, che di generoso operarono li suoi Antenati, quanto quello, che conveniva

ad esso di fare, ne [ sic ] tanto volle ornarsi delle altrui nobili azioni, quanto delle sue

proprie; così sarebbe di non poco biasimo degno chi ricercasse di questo Principe le

lodi altrove, che ne suoi magnanimi fatti: Che ben dimostrò egli anche avanti la sua

felice natività quanto, e quale doveva essere, poiche e fù di gran peso e travaglio alla

Serenissima sua Madre, ed ella più dei nove mesi portollo nel suo ventre. Non poteva

quel nobilissimo parto, che di già era destinato alla immortalità esser compreso dalle

9 Francesco Maria II era figlio di Guidobaldo II della Rovere e di Vittoria Farnese.

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angustie del tempo altrui ordinariamente prescritto. Tacciano pure le menzognere

lingue de Poeti, ne [ sic ] più vantino il nascimento del loro Alcide.10 Ecco che dieci

interi mesi alla perfezione del parto di Vittoria si danno. Si congiunsero i Primi

Potentati dell’Italia ad onorare il Prin= C [ 7 ] V. cipe nato. Posciache Paolo Terzo

Pontefice di gloriosa rimembranza mandò il Cardinal Durante, che lo richiamasse a

nuova vita con le acque salutifere del Battesimo, e la Republica di Venezia spedì

Giacomo Soranzo nobile Cittadino, acciò in quella azione non meno pia, che

sontuosa gli fosse a suo nome Padrino: Riverendo allora da lontano questo Sole

nascente, che trè anni dopo illustrò le sue ben avventurate contrade. Perche dovendo

il Duca suo Padre Generale di quella famosa Signoria andarsene a Verona, ov’egli

per lo più dimorava,11 e passando per Venezia vi condusse il Fanciulletto Francesco

Maria, che fin da quei teneri anni dava chiarissimo saggio di una ferma, e stabile

virtù, ed ancor bambino porgeva della grandezza dell’animo suo manifesti indizj.

Perche trà gli abbracciamenti e di madama, e della nutrice nulla ò con fanciullesco

gioco, o con puerile scherzo balbettare udissi giammai. Aureste detto fin d’allora, che

quasi consapevole della sua generosa schiatta egli in non matura età trà pensieri di

ben maturi e prodi costumi si andasse C [ 8 ] R. ravvolgendo. Aureste affermato, che

in lui il giudizio precorreva il tempo, il senno gli anni, il valore le forze, la maturità la

fanciullezza: mentre poscia ad ogni studio e cavalleresco, e civile, che a suo pari si

conveniva applicandosi, quasi a gara era sommamente riverito, e commendato da

tutti. Non mi lascia mentire di quanto io dico la dimostrazione onorata fattane da quel

Sermō Doge, annoverandolo, trovandosi egli con occasione di giorno solenne in

Venezia, quasi altro Federico, e ritratto espresso delle sue virtù, in una compagnia

della prima Nobiltà, che quivi si chiama della calza.12 Me ne fà fede quell’allegrezza,

che occupò gl’animi dei sudditi, ed i segni non ordinarj, che si fecero universalmente

10 Alcide è il patronimico poetico, che deriva dal nonno paterno Alceo, di Èracle (l’Ercole dei latini); per ciò che concerne la sua nascita, la tradizione mitologica vuole che essa fu ritardata di due mesi da Hera, la protettrice dei parti. 11 Nel 1546, tre anni prima della nascita del figlio Francesco Maria II, Guidubaldo II della Rovere aveva acquisito dalla Repubblica di Venezia il titolo di governatore, e con esso la condotta generale delle armi venete. 12 ‘Compagnie della Calza’ è il nome di antiche associazioni di giovani nobili, che a Venezia si incaricavano di organizzare gli spettacoli teatrali e carnascialeschi. Anche Federico da Montefeltro era stato membro di una simile compagnia giovanile durante il suo soggiorno a Venezia, dove era stato inviato come ostaggio dalla primavera del 1433 all'autunno del 1434.

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da tutti del ritorno, ch’egli fece a questo fedelissimo suo stato. E nobilissima

testimonianza ne diede quel Gran Filippo Rè di Spagna, mentre al Duca Guidobaldo,

che gli aveva dato parte per lettere di voler mandare il Putto in Germania rispose di

desiderarlo appresso di se, scrivendo, che l’aurebbe trattato come proprio figliolo. C [

8 ] V. Onde restò non molto contento Francesco Maria, che aveva fatto pregare il

Padre, che lo volesse mandare alla Corte di Cesare, il quale allora con l’ottomano

guereggiava, pensando di poter ivi aver gran campo da rendersi glorioso: Eppure egli

non passava il terzo lustro; e di già disegnava barbare prede, e pellegrini trofei. Che

se dalle affettuosissime preghiere del fanciulletto Annibale d’essere agli eserciti in

Ispagna condotto potè argomentare Amilcare, ch’ei fosse per divenire nella matura

età famoso guerriero; qual argomento non diedero del futuro valore i prieghi di

Francesco Maria ancor fanciullo, perche il Padre licenza di girsene alla Corte

dell’Imperatore gli desse? Or giunto ch’ei fù a quella del Rè Cattolico, furongli fatti

tutti quegli onori, che gli si convenivano, dimostrandosi ver lui tanto liberale di grazie

la Spagna, quanto era egli dovizioso di meriti; Poichè fù incontrato da tutta la Corte,

ed in particolare da quelli, che colà Grandi si nomano,13 ed al pari del Principe di

Fiorenza pochi giorni prima partito, in tutte le occa= C [ 9 ] R. sioni trattato;

ricevendo dal Rè nell’essergli a far riverenza qualunque dimostranza di paterno

affetto ed ogni segno di quell’amore, che appo tutti la grazia ed avvenevolezza gli

acquistava, ch’ei maravigliosa aveva nel favellare, e nel trattare; Perche alla

gentilezza congiungeva la gravità, alla cortesia la dignità, ed ai ragionamenti anche

piacevoli la convenevolezza. Onde somigliava quel Gallico Ercole, che con belle

catene e d’ambra, e d’oro, fiumi d’eloquenza dalla bocca isgorgando, non meno i

cuori che gli orecchi degli ascoltanti a se traeva. E chi invaghito non sarebbesi delle

sue nobili, e graziose maniere? Se frenava indomito, e feroce corsiero, che con

generosi nitriti versando fiati di fuoco dalle nari, e calpestando coi piè la terra si desse

precipitoso al corso, era ad Alessandro domante Bucefalo14 pareggiato da molti. Se

13 Se si fa eccezione per il sovrano e suo figlio (l’Infante di Spagna), ‘Grandi di Spagna’ erano anticamente detti coloro che detenevano la massima dignità nobiliare spagnola. 14 Bucefalo era il nome del cavallo di Alessandro Magno.

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giocava di spada, ed ora ritirandosi, ora riparandosi, or con ueri, or con finti, or con

pieni, or con iscarsi colpi, e schivando, ed incalzando l’avversario sempre in guardia

noua si recava, C [ 9 ] V. da qualunque persona erano lodate, ed ammirate la sua

prestezza, agilità, e leggiadria, con le quali e sfuggiva, ed investiva il nemico. Se in

nobile caccia, quasi nuovo Ciro15 l’ore impiegava talor seguendo co sagaci cani e con

velocissimi veltri e per li monti, e per le valli o vil lepre, o timidetta Damma,16 o

fuggitivo Cervo, che la speranza della lor vita alla sola fuga raccomandassero; Talora

con famelici molossi, e mordenti mastini fermando, e ferendo o fieri cinghiali, o

rapaci Lupi, o rabbiosi Orsi, scorgevansi assai ben luminose le scintille del suo

coraggio, e dell’infaticabile sua natura. Se cinto d’armi passava a nuoto i fiumi, ed a

onta de pesanti acciari con le robuste braccia valicava la profondità delle acque,

vincendo con la leggerezza, e fortezza delle membra guidate da generosa prontezza

d’animo la natia grevezza de ferri militari, chiunque lo vedeva, ravvisava in lui

l’invitto ardire di quel Coclite, che nuotando armato per l’ampiezza del Tevere, si

condusse a suoi.17 Se reggeva leggiadro Giannetto,18 che gentilmente scuotendo i

crini, e con essi lievemente il breve collo sferzando a veloce carriera mo= C [ 10 ] R.

vesse i passi, quasi dell’orme sue non stampando l’arena, e secondo l’uso di quella

Nazione molti giochi militari faceva, potevano gli stessi Spagnoli giustamente

dolersi, che da un Italiano gli fosse tolto il pregio in tali esercizj, come già

rammaricossi quell’Alabandense,19 che nell’arte del ben dire grecamente fosse per

portare un Romano il vanto. Sebene e chi fù mai, che volontieri non sopportasse la

15 Il riferimento è al fondatore dell'impero persiano, il re Ciro il Grande (590 a. C. – 529 a. C.), al quale Senofonte dedicò la sua celebre Ciropedia. 16 I. e. daino (maschio o femmina). 17 L’episodio più celebre della vita di Orazio Coclite avvenne nel 508 a. C., quando i romani demolirono il ponte Sublicio per arrestare l'avanzata dei nemici Etruschi, contro i quali Orazio rimase a combattere da solo fino a quando la demolizione non fu completata, dopo di che si gettò nel Tevere con tutta l’armatura. A questo punto le versioni di ciò che accadde divergono: secondo Polibio, affogò, mentre secondo Tito Livio riuscì ad attraversare il fiume ed a ricongiungersi con i suoi commilitoni (a questa seconda ipotesi dimostra di credere Annibale Albani, l’autore dell’orazione). 18 Tipo di cavallo spagnolo. 19 I dotti riferimenti culturali dei quali l’orazione abbonda sono di comprensione non sempre immediata per il lettore contemporaneo; l’Alabandense del testo è Apollonio Molone di Alabanda, meglio noto come Molone di Rodi, che fu maestro di Cicerone. Anche Plutarco, nella sua biografia del grande retore latino, descrive il rammarico – attribuendolo però ad un altro personaggio, il grammatico Antioco di Ascalona – derivante dal fatto che Cicerone, un romano, sia riuscito a strappare ai greci il primato dell’elequenza, arte appunto di origine greca. Alabanda è un’antica città della Caria, in Anatolia (l’odierna Turchia).

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vittoria di lui, che con la gentilezza e benignità tutti superava: e queste sue lodi

piutosto nascondeva, ed iscemava col sprezzarle, che scoprisse, od accrescesse

mostrando di farne alcuna stima.

Ma che stò io a raccontarvi ad una ad una le rarissime doti del corpo, che ornarono

Francesco Maria, mentre a se mi chiamano quelle dell’animo più nobili assai: Venite

per grazia meco, o Signori, e contempliamole. Volle egli dopo il ritorno, che fece di

Spagna al suo stato ripigliare quei studj tralasciati mentre ei fù fuori d’Italia, che

all’intelletto appartengonsi: sapendo molto bene, che siccome alla sanità del corpo

sono giovevoli li esercizj, e le fatiche, così non puossi render C [ 10 ] V. vigoroso, e

perspicace l’animo senza l’uso delle discipline più rare e pregiate. Perche quantunque

Egli abbia dalla natura alcuni principj di virtù, e di scienze entro se stesso, che lo

fanno abile a perfezionarsi; questa perfezione nondimeno non gli si acquista con

altro, che collo studio e fatica, per cui avvalorato, e purgato dalle terrene lordure

lucidissimo, e purissimo diviene. Laonde il nostro Duca attese alle Matematiche, che

cotanto giovano alle più nobili dottrine, ed alla lezione delle Istorie, che frequentata

coll’osservazione de fatti altrui produce in noi quell’esperienza non volgare delle

cose sommamente commendabile ne Grandi. Applicossi anche diligentemente allo

studio della Filosofia, tanto in quella parte, in cui si scoprono i più riposti segreti

della natura, quanto nell’altra, la quale discorre de vizj, e delle virtù, che da color, che

sanno chiamansi morali: aggiungendo a questa ancor quella al Principe sì necessaria,

che dimostra di governar con giustizia i Popoli a se soggetti. Nelle quali scienze, ed

in altre, che per C [ 11 ] R. se stesso apprese, quanto egli profittasse, e s’avvanzasse

coll’eccellenza del suo quasi divino ingeno, di quei, che m’ascoltano, coloro chiamo

in testimonio che in onorevole carico servendolo, bene spesso lo sentirono altamente

discorrere di qualunque questione proposta. Voi sapete, o Signori, che non si tenne

ragionamento mai avanti questo dottissimo Principe di alcuno effetto naturale, di cui

egli subito ancorchè occulta fosse non ne rendesse la ragione. Voi sapete, che non vi

fù ne fatto d’armi, ne vittoria di capitano, ne sconfitta d’esercito, ne fuga di armata,

ne trattato di pace, ne risoluzione di guerra, ne parentadi, ne discendenze, ne amistà

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de Grandi, o dipendenza da quelli di cui Egli non avesse perfetta contezza. Voi sapete

che non successe ne sedizione di popolo, ne commovimento di Provincia, ne di

Regno ribellione: ne prodezza egregia, ne morte, o nascimento illustre, ne assedio di

fortezza, ne distruzione di Città ch’egli non raccontasse tutte queste cose, comese in

persona vi si fosse trovato. Voi sapete, che C [ 11 ] V. non vi fù ne golfo, o seno di

mare, ne spazio o distanza di terra, ne origine, o nome di fiume, ne riti di nazioni, ne

costumi di gente, ne leggi di Republiche o nostrali, o straniere, che a lui note non

fossero. Voi sapete finalmente, che di ciò, che mai, o si fece o si disse ne tempi

trapassati (purche fosse stato raccomandato col mezzo della Scrittura alla memoria de

Posteri) egli maravigliosamente ragionava. Ma non recheranno meraviglia queste

azioni per se stesse incredibili a chi si ricorderà, che Francesco Maria oltre l’altezza

dell’ingegno, la profondità della memoria, e l’eccellenza del giudizio, essendo

sempre stato delle altre cose liberalissimo, fù solo in ogni tempo avarissimo del

tempo: Onde soleva dire, che il Principe non doveva mai essere ozioso, ma

continuamente in virtuose fatiche esercitarsi, perchè se l’anima nostra non si dava alle

virtù, cadeva ne vizj, non potendosi vivere senza operare alcuna cosa. E ben lo

dimostrò Egli, che adornò l’animo suo di tutte quelle eroiche virtù, che concorro= C [

12 ] R. no a fare un Principe perfetto: non spendendo l’ore in altro, che in Esercizj

Cavallereschi, in affari gravissimi, e nella lezione continua di libri, o d’Istorie o di

Filosofia, o di Teologia, o d’altre rinomate discipline tanto assiduamente, che poco

avanti gli ultimi giorni di questo gloriosissimo Duca trovossi, che nel corso della sua

Vita ancorche agitata in un Mare di occupazioni, e di negozj, aveva letti

studiosamente trè mila e più ben grossi volumi. O amore santissimo della sapienza, e

qual possanza non hai ne cuori generosi, che a te si sottomettono! Tu sempre invitto

dispregi il gelo del più orrido verno, non curi l’arsura della più cocente State: vinci

ogni difficoltà, superi qualunque fatica. Tu col nobile rigore d’una severa Filosofia il

petto de tuoi seguaci armando, rendi loro dolci le calamità, cari i patimenti, tranquille

le avversità, soavi i travagli. Tu gli fai non men piacevoli, che giusti, non men liberali

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che magnanimi, non men circospetti, che coraggiosi, non meno accorti C [ 12 ] V.

che pronti, non men saggi, che forti, non men costanti, che prudenti.

E pure vi è, o Signori, chi sbandisce dai Palagi Reali le buone Arti, e le più nobili

discipline, e particolarmente le speculative, quasi che elleno possedute da Principi,

siano loro di grave pregiudizio al maneggio de publici affari, rendendoli, secondo

costoro, in guerra vili e timidi, ed in pace inetti alle civili faccende, e di null’altro,

che della sola contemplazione curanti. Sò, che quel Saggio appresso il Divino Platone

rimirando alla sciocchezza di Thalete che datosi tutto al contemplare pone anche la

vita propria in non cale: onde da una vil feminuccia di Tracia ne viene proverbiato,

s’induce a dichiarare i Filosofi non abili a politici governi.20 Sò, che il Dio de

Filosofanti dimostra la mente speculativa non essere punto atta a negozj, come quella

che nella sola cognizione delle cose trattenendosi non come fattevoli le contempla.

Sò, che Tiberio, Vespasiano Imperatori accortissimi, e di altissimo C [ 13 ] R.

ingegno furono nemici de seguaci della Filosofia l’uno e l’altro di Roma

sbandendogli come uomini che con le loro opinioni fossero di molto danno

all’imperio, ed al Publico Bene. Ma sò ancora, che l’istesso Platone altrove dichiara

beate quelle Repubbliche, in cui alla cura de Filosofi delle cose si appoggi la somma.

Che il medesimo Stagirita21 chiama felice la Città di Tebe da questi governata. Che

quel Numa, che così saggiamente resse in pace l’Imperio di Roma ed Epaminonda,

che cotanto valo[ro]samente innalzò in guerra la grandezza de Tebani, ebbero

cognizione non pur mediocre, ma perfetta della Filosofia, e delle buone Arti. E se

questo luogo, o Signori ammettesse le ragioni delle Scuole, il dubbio facilmente si

sciorebbe; Ma quelle da spinose distinzioni circondate tralasciando, vagliami per

risposta verissima l’esempio delle gloriose azioni di Francesco Maria, il quale

comecchè diligentissimo amatore delle scienze speculative fosse stato, e nella pace, e

20 Ecco il famosissimo passaggio al quale Annibale Albani fa riferimento: “[Talete], mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi passa il tempo a filosofare [...] provoca il riso non solo delle schiave di Tracia, ma anche del resto della gente, cadendo, per inesperienza, nei pozzi e in ogni difficoltà.” (Platone, Teeteto, 174 a - 174 c). 21 Per antonomasia, il filosofo greco Aristotele, nativo di Stagira, antica città della Càlcide.

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nella guerra nondimeno di= C [ 13 ] V. mostrossi prudente e forte. E quì sovvengavi,

che mentre pur attendeva a questi studj, essendosi conchiusa trà Principi Cristiani

quella memorabil Lega contro l’Ottomano Tiranno, egli, avutane licenza dal Sig.

Duca suo Padre, il quale benchè magnanimo, svisceratissimo nondimeno di sì

prezioso pegno volle più d’una fiata esserne richiesto, andò subito a Genova affine

d’imbarcarsi per così santa impresa con quel nuovo folgore di guerra D. Gio.

d’Austria Generale dell’Armata, col quale già in Ispagna stretta amicizia avea

contratta.

Fermati, Principe invitto. A quai rischi, a quai perigli sì baldanzosamente ten corri?

Mira l’afflizione della tua Serenissima Sposa lasciata in Ferrara senza speranza per

ancora di prole:22 le lagrime della tua nobilissima Madre, l’affetto del tuo

valorosissimo Padre, il dolore de Popoli, il pianto de sudditi, la mestizia di tutti. Mira

la fierezza del Mare, l’incostanza dell’onde, l’incertezza de venti, le traversie de

tempi, la fralezza C [ 14 ] R. d’un legno, la lontananza de Paesi, l’orridezza de

luoghi, l’asprezza de siti, la perversità degli Abitatori, l’empietà della fede, la

malvaggità de costumi, l’iniquità, la perfidia, la crudeltà, l’ingiustizia. Cambierai i

sicuri riposi in perigliose fatiche, i placidi sonni in aspre vigilie, le morbide e delicate

piume bene spesso in una semplice coltre, le agiate lettiere in duri letticioli, ed i

nobili arredi in guerrieri arnesi, gli serici drappi in belliche loriche, i sontuosi palagi

in piccioli Abituri, gli onesti diporti in atroci spettacoli, li letterati discorsi in militari

consigli, le addottrinate penne in furiose spade, i salutevoli esercizj in violenti sudori,

le belle cacciagioni in fiere uccisioni, le dilettose giostre in sanguinose zuffe, le

gioconde e finte risse in ispaventose, e vere mischie, le innocenti, e piacevoli

battaglie nelle nocenti e mortifere sconfitte. Dunque cotanto dolce e caro ti sarà il

solcare le acque amarissime d’infido mare, che porrai in non cale l’Isauro, ed il Me=

22 L’afflizione di cui parla Annibale Albani va vista più che altro come un artificio retorico, dato che sappiamo che i rapporti tra Francesco Maria II e la sua prima moglie, Lucrezia d'Este, non furono buoni.

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C [ 14 ] V. tauro, che placidamente correndo ti portano di purissime onde cristallino

tributo.23 Deh ferma, ferma i passi, Principe glorioso.

Ma non v’è impedimento per grave ch’ei sia onde resti trattenuto un generoso

cuore. Non v’è ritegno, che vaglia a distornare una magnanima risoluzione ed un

eroico pensiero. Non v’è difficoltà che non superi un petto veramente intrepido e

costante, a cui aggiunga stimoli l’onore di Cristo. Da questi, e dall’innato suo valore

piucchè da venti portato giunge Francesco Maria al luogo della pugna tanto bramata.

Ed ecco il Golfo di Lepanto ripieno di cento e cento ben spalmati,24 ed armati legni,

che coi pesanti ed alti alberi formano bella selva nel mare. Ecco innalzarsi le riverite

insegne, e co tuoni orrendi de concavi bronzi darsi vicendevolmente segno del vicino

combattimento. Ecco che il sommo Capitano accende all’ira i cuori de Soldati: Ecco

che frà gl’altri Duci anche Francesco Maria spinto da zelo ed amore divino, ne C [ 15

] R. sembrando cosa mortale da sublime luogo infiamma con parole, quasi nuovo

Pericle tonante i petti de suoi alla futura battaglia. Già odonsi incomposte grida de

Barbari, e pietose voci de Fedeli. Già risuonano d’ogni intorno guerrieri stromenti;

già i formidabili metalli dalle infuocate loro concavità avventano palle tremende, ed

offuscano l’aria co’ nuvoli della polvere accesa ed arsa: Già mille frezze e saette

coprono ed oscurano il Sole. Già avvampa d’incendj il Mare, e scorrono a vicenda

artificiate fiamme, e volanti facelle, onde accendonsi, ed ardono con fuoco

inestinguibile le galee. Già con ferrate mani l’une nell’altre si afferrano, e fieramente

urtandosi per gli non ben saldi fianchi all’acque, che le sommergono aprono il passo.

Già il furore, la temenza, lo spavento, e l’orrore, benche la vittoria penda ancora

dubbiosa, cominciano con minaccevole impeto a discorrere per l’infedele armata

Turchesca. Ma si trovano però alcuni legni degli Ottomani tra gl’altri più ar= C [ 15 ]

V. diti, che circondano la Galea, dove guereggia invittamente co’ suoi il Principe

nostro. E qual da prora, e qual da poppa, e qual da lati investendola, vien fatto a molti

23 Urbino è posta tra le due vallate dei fiumi Metauro e Foglia; quest’ultimo è detto anche Isauro, dal suo nome latino Isaurus (anche se tale idronimo è attualmente usato solo per Belforte all'Isauro, comune marchigiano della provincia di Pesaro e Urbino), dal quale deriva Pisaurum, che è l’antico nome latino della città di Pesaro. 24 Le strutture in legno delle imbarcazioni venivano spalmate di catrame (da cui il verbo incatramare) o di sostanza similare, allo scopo di proteggerle dall’azione dell’acqua marina.

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de Turchi, mentre i nostri da una parte coraggiosamente si difendono di guadagnarla

sino all’Albero, entrandovi dentro per l’altra. Or qui, o Signori, confesso mancarmi le

parole per potere in alcuna parte ridirvi le valorose prodezze di Francesco Maria.

Poiche corre dove è più fiera la mischia e quale incrudelito Leone si scaglia con la

nuda spada in mezzo a nemici e così velocemente a danni altrui la ruota, che se miri

allo spesso forgorare di essa, triplicata la crederai. Dove giunge, porta rovine, dove

arriva arreca morti, dove si ferma, la Vittoria seco si porta. Conforta con amico volto

i suoi, spaventa con isdegnosa faccia li Barbari, e grande strage fattane con intrepide

voci sgridando gli scampati dalla sua destra fatale, gli sforza (non sostenendo essi

tanto impeto) o a rifuggire al loro legno, o non permettendogliele il tempo a cercare

mal C [ 16 ] R. sicura salute nelle onde. Quindi a seguire galee fuggitive si volge, e

pare un altro Temistocle, od un altro Augusto, che seguano: quegli le antenne fugaci

di Serse nello stretto di Salamina; questi le vele fuggenti di Marco Antonio e di

Cleopatra appresso il Promontorio Azzio poco lontano dal Golfo, ove Francesco

Maria rinovava la memoria della fortezza, e del valore Romano. E già non solo in

questa parte, ma dà per tutto gli Cristiani facevano fiero scempio de Traci. Correva il

sangue a torrenti, si colorava di vermiglio il Mare, ed al Vincitore vicino giaceva il

vinto. Erano le Galee nemiche parte rotte, parte abbruciate, parte prese, parte

sommerse. Nuotavano frà le tavole e gli armamenti de fracassati navigli, quì tronche

braccia, ivi busti atrocemente feriti colà capi da lor colli recisi, quà corpi semivivi, in

ogni luogo cadaveri esangui. La quantità delle armi de soldati uccisi sopra rotti legni

posatasi aveva con pavimento d’acciaro lastricato il mare, onde rendeva terribile

insieme, e giocondo spettacolo a C [ 16 ] V. riguardanti fedeli, che più stanchi, che

sazj di seguire alcuni pochi legni (misero avvanzo della memorabile sconfitta di quei

crudeli Tiranni) al luogo del sanguinoso arringo erano tornati. Oh quanti fortissimi

Capitani, quanti prodi Guerrieri, quanti valorosi combattenti furono in quel giorno

dalla morte rapiti! Oh quanti nobili uomini, quanti illustri Giovani gli loro ultimi dì

terminarono! Quanti seguaci di quell’empia luna nemica del vero sole meritamente

morirono! Quanti egregi Campioni di Cristo fieramente furono estinti, valorosamente

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pagando col nobile prezzo del loro sangue vittoria per noi cotanto illustre.

Fortunatissimo giorno delli sette di Ottobre! e qual pietra sarà mai così candida, che

meritevolmente possa segnarti? qual lingua così eloquente, che possa abbastanza

lodarti? qual penna così elegante, che possa raccontandoli, non iscemare i tuoi vanti?

quale stile così terso, così puro, che possa giungere a tuoi pregi? E di vero, o Signori,

la Cristianità non ha mai dopo la memoria degli Uomini C [ 17 ] R. avuta più

prospera giornata, poiche trovandosi i nostri nel numero de Navigli a nemici inferiori

molto, gli sconfissero nondimeno coraggiosamente, facendone memorabile strage con

la morte dello stesso loro Generale, e di grandissima preda caricandosi, che fù poscia

largamente distribuita da D. Gio.25 a Principi, a Capitani, ed a Soldati, che

generosamente si portarono in quel giorno. De quali perchè tra primi fù il nostro

vittorioso eroe, riportonne perciò oltre ventiquattro schiavi, pregiatissimi doni da

pochi forse di questi che mi ascoltano nella sua nobile armeria di Pesaro non veduti.

Ove dopo questa famosa vittoria egli tornò con incredibile festa e contento de suoi

Popoli, il quale come si accrebbe molto per le sontuose feste, che si fecero della

venuta da Ferrara della Serenissima sua sposa,26 così non mediocremente scemò per

la partenza di lui, che andossene tra pochi mesi a Roma.

Quivi ricevè egli grandissimi onori, avendo voluto Pio V. di san. mem.

ancorché gravemente indisposto udirlo, essendo questa l’ultima udienza, che C [ 17 ]

V. diede quell’ottimo Pontefice, il quale per la dolcezza, ed accortezza sua nel

favellare, comeche infermo fosse, nondimeno lo sentì lungamente e di molta

sodisfazione gli diè segni. E nel vero, che considerarà, che quella Corte, la quale è

solita di mirare con occhi di Argo, e di Linceo, e con critici sguardi gli fatti de

Principi lodò, e commendò sempre per ammirabili le azioni del nostro, si avvederà,

che le onorevoli dimostranze fatte ver lui in ogni tempo da Grandi erano molto ben

25 Si tratta del già citato (v. supra) condottiero spagnolo don Giovanni d'Austria (1547 – 1578), infante di Spagna in quanto figlio illegittimo dell'imperatore Carlo V d'Asburgo; nell’ambito della battaglia di Lepanto don Juan de Austria fu il comandante della flotta della Lega Santa che sconfisse i turchi. 26 Essendo signore di Urbino il padre Guidobaldo II Della Rovere (e per la precisione il giorno 18 febbraio 1570), Francesco Maria II della Rovere sposò Lucrezia d'Este, di quattordici anni più anziana di lui. I festeggiamenti del matrimonio si svolsero prima a Ferrara, poi - nel novembre dello stesso anno 1570 - a Pesaro, dove furono diretti da Francesco Paciotti.

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dovute a suoi meriti, ed alla fama, che del suo nome glorioso risuonava dapertutto.

Da questa alcuni anni dopo mentre egli attendeva al governo di questo Stato mosso

Sisto V. nobile difensore della libertà Ecclesiastica non prima ebbe conchiusa Lega

contro gli Eretici, che ne deputò per degnissimo Generale Francesco Maria, dal

valore di cui ben aurebbero ricevuto grandissimo ajuto le cose della vera fede, se

forse i demeriti nostri C [ 18 ] R. di così santa impresa non avessero ritardato

l’effetto.

Da questa mosso Clemente Ottavo Pontefice di altissimo intendimento lo fè

arbitro di alcuni gravi disgusti passati frà due gran Signori suoi sudditi, che questa

Città per l’accortezza e prudenza di lui vide rapacificati in pochi giorni.

Da questa mosso il Rè di Spagna accettatolo trà suoi Confederati lo condusse a suoi

servigj con grossi stipendj, obligandosi di pigliarne sempre e contro qualsivoglia

Principe la difesa, e commandando poco dopo al Duca di Parma, che fosse a dargli il

nobilissimo Ordine del Tosone, che per essere questi vecchio assai, e della persona

per la podagra cagionevole, fù da lui con solennità e pompa ricevuto

nell’Arcivescovato di Bologna, dove egli per minore incommodità di quel Principe si

contentò cortesemente di trasferirsi con nobile comitiva di gravissime persone.

Perche se mai nelle Corti de gran Signori furono uomini di va= C [ 18 ] V. lore, e

particolarmente scienziati, in quella per certo del Duca d’Urbino fiorirono di maniera,

che ne era sparso il grido per tutta Europa. Che se d’alcuni soli di questa Città,

passatine molti sotto silenzio, e senza nominare gli Guerini,27 gli Ingegneri, gli

Albergati,28 i Muzj,29 i Leoni,30 ed altri forastieri, vorremo ricordarci, verrannoci a

27 Dal 1602 al 1604 Francesco Maria II della Rovere ospitò presso la sua corte lo scrittore Giovanni Battista Guarini (Ferrara, 10 dicembre 1538 – Venezia, 7 ottobre 1612), ricordato soprattutto per il dramma pastorale Il pastor fido. 28 Per un certo tempo Guidobaldo II della Rovere ebbe al suo servizio il famoso giurista Fabio Albergati (Bologna, 1538 – ivi, 1606). 29 Girolamo Mùzio, letterato, trattatista e diplomatico (Padova, 1496 - la Paneretta, villa tra Siena e Firenze, 1576), per un certo tempo fu alle dipendenze di Guidubaldo II Della Rovere, che lo nominò precettore di suo figlio Francesco Maria, per il quale il Muzio scrisse Il prencipe giouinetto, un trattatello contenuto nella raccolta intitolata Auuertimenti morali (Muzio, Girolamo, Auuertimenti morali del Mutio Iustinopolitano. I quali sono Il prencipe giouinetto. Introduttione alla virtù. Le cinque cognitioni, a signor che uada a corte. Reggimento di stato. La orecchia del prencipe. Il Caualiero. Trattato della giustitia della guerra. Discorso di guerra al Papa. Due trattati di matrimonio. Institutione di sposa eccellente. Quattro consolatorie di morte. La poluere ... Con vna tavola copiosa di tutte le cose piu degne di consideratione. In Venetia, appresso Gio. Andrea Valuassori, detto Guadagnino, 1571). Il Muzio, detto Giustinopolitano

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memoria un Commandino,31 un Federico Bonaventura,32 un Lodovico Odasio,33 un

Felice Paciotti,34 un Bernardino Baldi,35 ed altri, di cui sarà sempre immortale il

nome e la fama. Ebbe egli i Letterati in tal pregio e venerazione, che con grandi

provisioni, ancorchè molte volte fossero lontani dal suo servizio, sempre gli favorì, di

loro in negozj gravissimi bene spesso servendosi, quando fossero stati non men

virtuosi, che dotti. Onde somigliava un’altro [ sic ] Alessandro Severo, che degli

uomini buoni, ed addotrinati negli affari del governo si valse; od un’altro [ sic ]

Ottaviano Cesare sotto il cui felicissimo Imperio provarono un Secolo d’oro le più

nobili dot= C [ 19 ] R. trine; perche non ebbero mai più grata ombra le Muse di

quella, che co’ suoi gloriosi rami formava a loro prò questa Serenissima Quercia, che

sempre fù carica di aurei frutti a beneficio de Sapienti.

Chiamava Esiodo le scienze figliole della povertà, quasi che questi tesori non

potessero ricoprirsi se non sotto vil gonna, e laceri panni, e povera, e nuda sempre,

come cantò quel Cigno gentilissimo dell’Arno, la Filosofia girsene dovesse.36 Ma

perché la sua famiglia era originaria di Giustinopoli (l’odierna Capodistria), è noto anche per aver composto una biografia di Federico da Montefeltro, edita a stampa postuma (Muzio, Girolamo, Historia di Girolamo Mutio Giustinopolitano. De' fatti di Federico di Montefeltro duca d'Vrbino. In Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti Senese all'Aurora, 1605). 30 Nello stesso anno della già citata biografia di Federico da Montefeltro (v. nota precedente) fu edita anche l’opera appresso indicata: Leoni, Giovanni Battista, Vita di Francesco Maria di Montefeltro della Rouere IIII. duca d'Vrbino. Descritta da Gio. Battista Leoni. In Venetia, appresso Gio. Batt. Ciotti senese al segno dell'Aurora, 1605. L’Albani si riferisce all’autore di quest’opera, lo storico e poligrafo Giovanni Battista Leoni (1542? – 1613?), di probabili origini padovane. 31 Il grande matematico ed umanista Federico Commandino (Urbino, 1509 – ivi, 1575) tradusse le opere dei grandi matematici dell'antichità e diede un contributo fondamentale alla nascita della scienza moderna. 32 L’urbinate (ancorché nato in Ancona) Federico Bonaventura (Ancona 1555 - Urbino 1602) fu consigliere e ambasciatore del duca Francesco Maria II della Rovere, e - nei suoi panni di portabandiera del tradizionale aristotelismo filosofico - ricoprì un ruolo significativo nell’ambito della corte roveresca. 33 Nella sua contrapposizione tra urbinati e forestieri l’oratore in questo caso commette un piccolo errore, in quanto l’umanista Lodovico Odasio trascorse gli ultimi ventisette anni della sua vita a Urbino, dove era stato chiamato da Federico da Montefeltro e dove morì nel 1509, ma nacque a Padova nel 1455; Lodovico Odasio fu precettore sia di Guidubaldo, l’ultimo dei Montefeltro, sia del suo successore al ducato, Francesco Maria I della Rovere. 34 Il matematico Felice Paciotti probabilmente non fu l’esponente più famoso dell’illustre casata urbinate dei Paciotti: ad esempio suo fratello Francesco fu un importate architetto militare e civile, e lavorò per Filippo II, re di Spagna, occupandosi tra le altre cose della chiesa dell'Escorial. 35 L’eclettico Bernardino Baldi nacque il 5 giugno 1553 a Urbino, dove morì il 10 ottobre 1617, dopo una vita dedicata ai più diversi rami della letteratura, della scienza e della cultura. 36 Il riferimento è al componimento numero 7 del Canzoniere di Francesco Petrarca, un sonetto che viene riportato qui di seguito.

La gola e ’l somno et l’otïose piume ànno del mondo ogni vertú sbandita, ond’è dal corso suo quasi smarrita nostra natura vinta dal costume;

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ecco, che il mio generoso Mecenate sotto il suo manto regale benignamente ricovera

le più degne discipline, e le arti più belle. Onde veggonsi sublimi ingegni, ed elevati

spiriti in ozio letterato e pacifico consecrare alla eternità le loro gradite ed

avventurose fatiche.

Ne solo delle dotte penne, ma eziandio delle gloriose spade questo nostro

Marte togato fù vago, le quali con regio splendore, ed eroica liberalità in buon

numero sempre mantenne, più per non mancare all’innata sua magnificenza, che per

guardia, o difesa di se stesso. Perche quali azioni nel lungo C [ 19 ] V. corso degli

anni, ne quali governò i suoi Popoli, fece egli mai, che o non fossero di sommo onore

meritevoli, o non traessero con dolce violenza i cuori, e le lingue di tutti a pregiarle, e

lodarle?

Passeggi superbo attorniato di guardie colui, che in alto grado collocato altro

non ha di grande, che il nome, più riverito, che amato: Sia circondato pure da

numeroso stuolo di gente chi Signore più d’altri, che di se stesso fatto servo di

sfrenate voglie, non può mantenere la maestà del Trono Regale, se terribile nol rende

altrui: Mostri non men coronate le tempie di preziose gemme chi i mal sicuri fianchi

di armi mercenarie colui, che quanto ricco di tesori, altrettanto povero di virtù alla

lubrica cima delle mondane grandezze asceso, paventa poco saggio i folgori

dell’adirata fortuna: Veggasi accerchiato da guerriero drappello presto a suoi cenni

chi timido, e temuto, ha sempre di sangue innocente l’infame ferro fumante, e le

ingorde mani ripiene ed imbrattate di esecrabili rapine: Mirisi cinto da in= C [ 20 ] R.

et è sí spento ogni benigno lume

del ciel, per cui s’informa humana vita, che per cosa mirabile s’addita

chi vòl far d’Elicona nascer fiume.

Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? Povera et nuda vai philosophia,

dice la turba al vil guadagno intesa.

Pochi compagni avrai per l’altra via: tanto ti prego piú, gentile spirto,

non lassar la magnanima tua impresa. Petrarca è chiamato ‘Cigno gentilissimo dell’Arno’ perché nacque il 20 luglio 1304 ad Arezzo, e l’Arno scorre lungo la zona settentrionale della c. d. piana d’Arezzo.

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finite spade pronte alle sue barbare voglie colui, che dalle furie di una scelerata

coscienza agitato di ogni grave supplicio reo si conosce, e di mille morti: Sia

finalmente accompagnato da moltitudine di Uomini Armati chi di regio ammanto

adorno ingiustamente maneggia lo scettro. Che il nostro valorosissimo Principe ha

per unica difesa di se stesso le opere ammirabili della sua non mai corrotta giustizia,

con cui si acquista affezione, e la riverenza di qualunque animo benchè inumano e

crudele. L’amor solo de suoi Cittadini è per lui inespugnabile guarnimento.37

E quì, o Signori, veggio d’essere entrato in un vastissimo mare, nelle profonde

acque del quale credo, che patirebbe miserabile naufragio la vacillante, e debole

barchetta dell’ingegno mio, se con l’aure soavissime della vostra molta benignità, che

con tanta pazienza m’ascoltate, di potere sospingerla io non m’affidassi a placido

porto, e sicuro.

È la giustizia universalmente considerata (co= C [ 20 ] V. me piace al Maestro

del Liceo38) quell’abito prodotto in noi, per lo quale ci rendiamo idonei a far cose

convenevoli in ogni fatto; ed in questo senso forse secondo gli Accademici abbraccia,

e comprende tutta la gloriosa schiera delle virtudi. Ella è più vaga della stella di

Venere, che foriera di quel gran Pianeta, per cui godiamo la luce del giorno, col suo

bel lume inargenta le campagne del Cielo. Anzi ella risplende al pari dell’istesso

Sole, poichè quanto illustra Egli cò suoi raggi le sfere celesti e ‘l nostro basso mondo,

tanto per gli splendori di lei e luminoso e puro diviene un’animo [ sic ] che la

possiede. Dividesi questa da Peripatetici in più parti, ma particolarmente in due

principali (tralascio, o Signori le altre minori non proporzionate al luogo, dove io mi

trovo) l’una delle quali consiste nell’osservanza delle Leggi quando ree non siano, dal

che ha il nome; l’altra in un desiderio moderato di ciò, che giustamente è lecito si

trattiene, e questa propriamente Giustizia particolare si chiama. C [ 21 ] R. Or se

Francesco Maria per tutti questi capi fosse perfettissimo osservatore di essa, onde 37 Nell’uso antico il termine guarniménto (anche guerniménto) indicava il complesso degli elementi atti a decorare un luogo oppure (come nel caso di ragione) a difenderlo. 38 Il riferimento è alla scuola fondata ad Atene nel 335 a. C. da Aristotele, il quale approfondì filosoficamente il concetto di giustizia nell’Etica Nicomachea, opera considerata il primo trattato sull'etica come argomento filosofico specifico.

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meritevolmente l’illustre nome di Giusto gli si convenisse, dicanlo per me tutte le

lingue, e tutte le bocche de suoi sudditi, che videro quanto egli interamente gli

adempisse e verso di loro, e verso di se stesso: Dicalo l’Europa, che ne mirò con

istupore gli continuati effetti: Dicalo l’universo, che ne sentì risuonare da per tutto il

grido glorioso. Imperciocche quali diligenze tralasciò egli mai, perche la reverenda

maestà delle leggi da malvaggi uomini, non dirò conculcata, ma punto vilipesa non

fosse? Qual cura non si diede per aver sempre appresso di se ottimi Consiglieri, e

giustissimi Uditori? Quale studio non pose nel fare a suoi tempi esquisita scelta ed

elezione de migliori uomini di questo stato, acciò amministrassero rettamente la

giustizia a popoli suoi? Quanto fù egli gentile nell’ascoltar tutti, benigno nell’udire

gli altrui litigj, paziente nel sentire le querele? Rammentatevi, o Signori, che non

parlo di cose molti anni fà succedute, di quel= C [ 21 ] V. la facilità grandissima

dell’udienze, di quella continuazione in esse non mai nel tempo ch’egli governò

tralasciata: di quel poter voi essere intesi ogni giorno senza eccezione alcuna di

persone. Ricco, mendico, grande, piccolo, gentiluomo, artigiano, cittadino, contadino

fù egli mai, che nelle ore a ciò destinate ei d’ascoltarvi negasse? Poverello il più vile,

che sia in questa città, il più abbietto, che sia in questo Stato, ti ricordi tù mai, che per

li tuoi bisogni il tuo or da te perduto Duca volontieri non ti sentisse? Ti ricordi tu mai,

che non facesse terminare le tue liti in brevissimo tempo? Che non castigasse

severamente chi di suggerti con ingiustizia il sangue bramava? Deh dillo, dillo se ‘l

sai. Ah che ben odo le tue voci, con cui tacitamente rispondi, che il tuo morto Duca

non mai ti lasciò opprimere da chi poteva più di te, non mai comportò, che ti fosse

fatto aggravamento, o torto alcuno. Orfani, pupilli, calamitose persone oh come

sempre in ogni vostro affare pigliò con ardore C [ 22 ] R. di voi la protezione, sempre

da ogni ingiuria vi difese il Principe vostro. Che dico Principe? volsi dir Padre. E tu,

anima gloriosa, perdona a questo mio scorso di lingua39 in me cagionato dal dolore

estremo, ch’io sento con questo Popolo della tua perdita, il quale la mente mi turba, le

parole mi confonde, e mi sforza a lagrimare. Ma quanto siete importune, o lagrime

39 Uno ‘scorso di lingua’ è un errore commesso nel parlare, per fretta o disattenzione.

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mie! Deh rovesciatevi trabocchevolmente sul cuore inondandolo, e quivi trattenetevi

finche fia tempo d’uscire a torrenti per gl’occhi. Sebene hanno gran ragione questi

occhi di essere copiosi eglino almeno di pianto, mentre nel ridire del nostro morto

Duca le lodi cotanto sterile è la mia lingua. Ma voi, o Signori, scusatemi, se non

accorgendomene poco virilmente forse io mi lascio trasportare al pianto, e mi dò in

preda a questo mio sviscerato sì, ma giustissimo affetto: Che le grandi virtù si ponno

più piangere, che lodare; poiche in questo non si appaga l’intelletto, in quello almeno

resta C [ 22 ] V. sodisfatto, e contento. Padre veramente fù, e Padre tenerissimo di

tutti gli suoi Sudditi Francesco Maria; poiche in essi fè punire il vizio sol per fargli

divenire virtuosi, e per rendergli somiglianti a se stesso. Non ebbe egli mai odio nel

petto, ma vi nudrì sempre contro le sceleraggini un generoso sdegno. E quanti mezzi

tentò egli prima di venire ai castighi, per riaccendere nel cuore di alcuni le talor

spente scintille dell’onore? Non ammonì, non isgridò, non minacciò prima di far

provare le pene? Non si servì d’ogni rimedio men aspro prima di por mano a ferri? I

quali se poi sforzato adoperava lo faceva solo per coreggere i malfattori, ò acciò per

la malvaggità loro non potendo, per emendare con l’esempio di questi di molti altri i

diffetti, e gli errori. Chi fù di lui più spregiatore d’ogni fatica, più accorto, più

sollecito, e vigilante al publico bene.

Sapeva questo dottissimo Signore, che non era dovere, che quegli trapassasse

le notti intere in placidi sonni, al governo di cui fosse appoggiata la salu= C [ 23 ] R.

te de Popoli. Sapeva, che il Principe è anima dello Stato, e che in vile riposo standosi

questa, tutto quel suo gran corpo giacerebbe senza movimento, e quasi esangue.

Sapeva, che il Platone de Poeti mentre tutto l’esercito de Greci era sepolto in

profondo, e dolce sonno, descrisse giudiziosamente solo Agamennone vegliante.40

Sapeva, che i Principi sono come capo, mente, e vita della Repubblica, Pastori de

Popoli, Luogotenenti di Dio, ed imagine, e ritratto della sua bontà in terra, e perciò

40 Il Platone dei poeti, secondo l’espressione di Annibale Albani, non è altri che Omero, il quale incomincia il libro decimo dell’Iliade in questo modo (la traduzione dal greco all’italiano è di Vincenzo Monti): Tutti per l'alta notte i duci achei / dormìan sul lido in sopor molle avvinti; / ma non l'Atride Agamennón, cui molti / toglieano il dolce sonno aspri pensieri.

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convenir loro quasi ad imitatori di quel favoloso Argo star sempre con occhi aperti

per la publica felicità, ed al pari di generosi leoni, ne anche nello stesso sonno

tenergli chiusi.41 Aveva letto nell’Omero de Filosofanti, in quella guisa appunto, che

nocchiero esperto nel solcar col suo legno l’onde, altrove non riguardava, che alla

sicurezza de Naviganti.42 E che altro dimostrava quell’accuratezza di lui nel voler

esser fatto consapevole di quanto si faceva nello Stato? Che altro dichiarava quella

diligenza nell’ C [ 23 ] V. esaminare ogni negozio, ed ogni benche minimo affare?

Che altro predicavano quegli editti, e quegli ordini quanto rigorosi, altrettanto

salutevoli, coi quali sempre procurò di rimediare agli errori, che alla giornata erano

commessi?

Ma se cotanto dell’osservanza delle leggi Francesco Maria mostrossi zelante,

non meno per certo nel moderato desiderio degli onori, e delle ricchezze, e d’altri

beni, che si chiamano di fortuna, e nella convenevole distribuzione di essi fù giusto.

Perche non mai ebbe invidia all’altrui grandezze, non mai desiderò le altrui facoltà,

non mai ingiustamente spoglionne i loro possessori. Non vi fu legge, a cui volesse,

che ubbidissero gli suoi Sudditi, ma a cui non volle, che ubbidissero? la quale prima

da lui interamente osservata non fosse, non isdegnando di farsi a lei soggetto,

acciocche eglino mossi principalmente dall’esempio di lui, non offendessero in alcun

fatto il diritto. I giudizj furono sotto il suo imperio sempre giusti. Onde poteva ben

parere altrui, che si fos= C [ 24 ] R. sero determinati, come già li Areopagiti

costumarono nell’oscurità e nelle tenebre della notte chiaramente vedendosi, che egli

conobbe i fatti, non le persone, e che gli occhi della sua santa mente non furono

offuscati dallo splendore dell’oro giammai. Gli eccessi, ed i delitti furono così puniti

negli uomini vili, come ne Potenti: le onorevoli azioni e virtuose largamente premiate

in questi, ed in quelli. Stimò sempre suo bene il procurare l’altrui, e fù non più

Signore de Popoli, che de proprj affetti, usando più rigore con se stesso, che con i

41 La presenza di leoni scolpiti agli ingressi degli edifici è ricollegabile all’antica credenza che il leone dormisse ad occhi aperti, cosa che ne fece l'emblema della vigilanza. 42 Il pensatore greco Panèzio di Rodi (n. 185 circa - m. 110 circa a. C.) chiamava Platone divino, sapientissimo, santissimo, e lo identificava con l’appellativo di ‘Omero dei filosofi’, qui ripreso da Annibale Albani; il riferimento è probabilmente ai contenuti del dialogo La Repubblica.

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suoi Vassalli, i quali erano governati da lui non con rigidezza ed asprezza, ma sempre

mantenuti in un riverente timore ed in un riverito amore. Gli onori, e le dignità

publiche, i pesi, ed i carichi furono in ogni tempo distribuiti dal nostro ottimo Duca

secondo che convenivasi, avendo Egli sempre avuto riguardo a meriti di ciascuno. De

quali onori ben sapete, o Signori, quanta parte liberalmente ne fece a molti degni ed

illustri Uomini di questa Città, che amò tenera= C [ 24 ] V. mente sopra le altre. Ed

egli nel vero fù ardentissimo amatore della Giustizia, e così la osservò, e fè sempre

osservare, che questo Principe per altro modestissimo, e di se medesimo in tutte le

cose bassamente sentendo, di questa virtù solamente pregiossi. Perche discorrendosi

avanti di lui pochi giorni prima degli ultimi suoi, de Funerali, che si sogliono fare a

Grandi, e de laudatori delle loro azioni, disse in buon proposito, che colui, al quale

dopo la sua morte fosse stato commesso il carico di lodarlo non trovando nella sua

persona altro fatto degno di pregio, aurebbe potuto almeno dir questo, ch’egli nel

tempo, che governò, per quanto sapeva non fece ingiustizia alcuna giammai. Udite,

udite, o Signori, (poichè con alta voce per essere da tutti inteso vuò dirlo) il Duca

Francesco Maria nello spazio di più di cinquant’anni, ne quali governò questo Stato,

non fece alcuna ingiustizia giammai. E chi poteva meglio di lui, che fù sempre

giustissimo, trattandosi di giustizia farne testimonianza C [ 25 ] R. più vera, e sicura?

O voci degne d’esser scritte a caratteri d’oro ne chiari annali della Immortalità con

penna divelta dalle ali della Fama! O modestia lodevolissima del mio Principe! O

lode modestissima! Ben è dovere, che di questa virtù, che tanto a prò di Noi tutti

esercitò io taccia, mentre di lui le modeste parole lo celebrano al pari non pure della

mia rozza favella, ma d’ogni dicitore più eloquente e facondo.

Ma a che meraviglia, ch’egli illustre fosse in questa sola virtù, mentre

nobilmente di tutte le altre fù adorno? Onde come già disse quel Greco, che nelle

labbra di Pericle la persuasione aveva collocato il suo Trono; così posso dir’io, che

nell’animo virtuosissimo di Francesco Maria le virtudi avessero un nobile Tempio e

Teatro. Il tempo, o Signori, mi sforza a trapassarne il lodevole racconto. Ma ben può

ammutolire la mia lingua, mentre elleno abbondevolmente parlano nelli eroici fatti di

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lui. Perche non vi ricorderò quanto egli fos= C [ 25 ] V. se magnanimo, quanto

affabile, quanto saggio, quanto prudente: quanto fosse dovizioso di splendore, e di

magnificenza, quanto ricco di mansuetudine, e di benignità, quanto ornato di sobrietà

e di temperanza. Queste, e molte altre virtù, che furono da lui possedute, tacerò io,

ma non tralascerò già di rammentarvi con una sola azione gloriosissima, ch’egli fece

quanto fosse pieno di fortezza.

Dopo gl’ultimi giorni di Donna Lucrezia da Este passò Francesco Maria per le

grandi preghiere di Madama sua Madre, e de suoi sudditi alle seconde nozze,

congiungendosi in matrimonio con la Sermā Donna Livia della Rovere Signora del

suo sangue, e preponendo questa per le rarissime doti dell’animo suo a molte altre.

Principessa di bellezza incomparabile, di onestà somma, di prudenza suprema:

Principessa, alla graziosissima maestà del cui volto si dedicò ogni cuore, la cui

candidezza de santi costumi riverì ogni animo, dalla regia provvidenza, e nobili

maniere di cui dolcemente fù signoreggiato ogni petto: Principessa, C [ 26 ] R. che

innalzatasi con le sue eroiche virtù sovra il femmineo sesso quando talvolta a nostro

prò ebbe a trattare lo scettro con maschio valore, e con virile fortezza saggiamente del

Governo a lei commesso il grave peso sostenne. Or di questa inclita Donna nacque

Federico tenerissimamente amato da Frācesco Maria e come Figliolo unico, e come

degno Erede della sua grandezza. Ma sul più bel fiore degl’anni nel dicianovesimo

dell’età sua piacque a Dio di chiamarlo a se recidendo la morte in un punto e lo stame

della sua vita, e disperdendo (ahi dolorosa memoria!) le nostre in lui fondate

speranze. Fù portata la ria novella allo sventurato Padre, ch’era allora, come sapete, o

Signori, in Castel Durante.

Ma egli forse quando intese di esser stato percosso di così crudele ferita,

veggendosi privato di quell’unico sostegno della cadente sua età accusò il destino del

Cielo? Forse mirando ad un tratto seccarsi quel bel germoglio della sua Serenissima

C [ 26 ] V. Quercia si lamentò dell’infelice sua fortuna? Forse ricordandosi della

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generosa indole del morto figlio,43 a cui di già aveva posto in capo la corona, sospirò

la sua perversa sorte? Forse rammentandosi, che dell’estinto Principe non v’era

maschia Prole,44 nel mancamento di questo Stato si dolse dell’acerba sventura di sua

schiatta? Forse udendo le meste voci, ed i compassionevoli singhiozzi de suoi più

cari, che quivi erano presenti, si rammaricò con esso loro di sì grave sciagura? Forse

al fiero annunzio tutta la sua virtù adoperando, ascose ben per allora ogni segno ed

indizio di paterno, ed isviscerato affetto, ma ito poscia in solitaria parte ov’altri

testimonj fuorche le sue calamitose miserie non aveva, ivi almeno sfogò le sue

passioni, e le sue pene? Forse s’udirono dalla bocca di lui doglianze di sì gran perdita,

gridi, querele, lamenti? Forse sospirò, lagrimò, pianse? Ah che il cuore di Francesco

Maria, o Signori, non era soggetto a queste dimostranze C [ 27 ] R. ancorche

concesse agli uomini saggi. La Virtù vi aveva fabbricato di sua mano un fortissimo

riparo, che lo rendeva contro i più fieri colpi di rea fortuna invitto. Onde di tanto

crudele novella non punto turbandosi, al sagrosanto volere di colui che avendogli

prima dato quel Figliolo, poscia gliel tolse, soppose la sua volontà, ed ogni paterno

benchè sviscerato affetto. O cuore veramente intrepido, o petto costante, o animo

divino! Ora innalzi pure ed esalti l’ambiziosa antichità quāto può con magnifiche

parole la fortezza dei Paoli Emilj, de Pericli, degli Annassagori, degli Antigoni, de

Senofonti, e d’altri, che con occhi non bagnati da lagrime mirarono i propri Figli

estinti; Che io oggi propongo a contemplare Francesco Maria, il quale con raro

esempio d’invitta toleranza la memoria di quelli rinova, e tanto ci si mostra maggiore

di essi quantoche egli nella morte dell’unico Figliolo, che più di se stesso amava vide

mancare alla sua nobil C [ 27 ] V. Prosapia questo fioritissimo Stato.45

43 Le attuali conoscenze storiche ci consentono di valutare la figura dell’unico figlio maschio di Francesco Maria II della Rovere in maniera diversa rispetto al quadro dipinto dall’Albani, che risente sia delle consuetudini retoriche del tempo sia dell’occasione particolare dell’orazione; leggendo quanto scrive Gino Benzoni nella breve biografia dedicata a Federico Ubaldo della Rovere e pubblicata nel Dizionario Biografico degli Italiani (v. volume 45 del 1995, ad vocem) si ha modo di lumeggiare i lati ribelli e scapestrati del carattere del principe urbinate prematuramente scomparso. 44 Federico Ubaldo Della Rovere e sua moglie Claudia de’ Medici ebbero un’unica figlia femmina, Vittoria Feltria Della Rovere (Pesaro, 7 febbraio 1622 – Pisa, 5 marzo 1694). 45 Non ci sono dubbi che quando morì Federico Ubaldo della Rovere, il 28 giugno 1623, tutti concentrarono l’attenzione sull’imperturbabilità di Francesco Maria II della Rovere nell’apprendere la notizia della morte del figlio più che sulla tragica scomparsa del principe; per dovere di cronaca va detto che vi furono alcuni che interpretarono la reazione del duca come indifferenza ed assenza di autentici turbamenti di qualsiasi tipo.

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Di cui come riconobbe sempre il possesso dalla Sede Apostolica, così

generosamente a lei molto prima degli ultimi suoi dì rendendolo, mostrossi non men

magnanimo spregiatore delle terrene grandezze, che religioso accrescitore

dell’Ecclesiastico Dominio. Che se il Regno, come piacque a quel chiaro lume della

Greca eloquenza trà i beni umani e divini è cosa grandissima anche con spargimento

di sangue, e con la contesa delle armi da dover essere procurata: E qual virtù

dobbiamo credere, che fosse quella del nostro Ottimo Principe nel privarsi

volontariamente dello scettro, eleggendo di vivere in ritirato luogo poco meno che

dissi come Cittadino privato? Fù questo, o Signori per mio credere effetto non di virtù

umana, ma di quella sovrumana, che tanto sempre gli fù a cuore, ed amò, la quale

nella pietà verso Dio, e verso gli uomini consiste.

Che non altronde per certo apparò egli a dispregiare le mondane grandezze, ed

a stimare cotanto l’ C [ 28 ] R. eterne. Quindi nacque in lui quel santo costume di

ricrearsi ogni otto giorni col divinissimo Pane degli Angeli; quindi quel zelo

dell’onore di Cristo; Quindi quell’ubbidire in qualunque cosa a suoi divini precetti;

Quindi quell’osservare rigorosamente anche nell’ultima decrepitezza le sue sante

leggi nel digiuno. Quindi quel non perdonare a spese nelle fabbriche fatte a gloria

sua, tra le quali avanti gl’occhi avete questa magnifica cupola, e quella nobile

Cappella;46 Quindi quel provedere gli Servi suoi di chiostro; Quindi quel donar loro

famose Librarie;47 Quindi finalmente quell’amore ardentissimo verso li poveri; E

quanti ne sostentò egli? quante limosine fè loro ogni anno distribuire? quante grosse

46 Per quanto riguarda la cattedrale di Urbino, va detto che nell’aprile del 1584 Francesco Maria II donò 1000 scudi per ornare la cappella del Sacramento, e nel 1604 il medesimo duca fece erigere una cupola disegnata in forma ottagonale da Muzio Oddi (si tratta della cupola che – a seguito di un terremoto - il 12 gennaio 1789 cadde precipitando sul sottostante oratorio della Grotta, dopo aver infranto il pavimento della chiesa). Appare scontato concludere, tenuto conto di tutti gli elementi (‘avanti gl’occhi avete’), che Annibale Albani scrisse la sua orazione pensando di recitarla presso l’altare del duomo di Urbino, e non all’interno della chiesa del Santissimo Crocifisso di Urbania, dove le esequie effettivamente si svolsero; non sembra tuttavia essere questa una circostanza capace di spiegare l’esclusione dell’orazione dal novero di quelle che furono recitate. Per le informazioni concernenti il duomo di Urbino, v. Negroni, Franco, Il Duomo di Urbino, Urbino, Accademia Raffaello, 1993. 47 Il riferimento è ai Chierici Minori Regolari, nei confronti dei quali l’ultimo duca fu assai generoso, fondando – come detto nel testo – un convento caracciolino a Castel Durante, e lasciando loro in eredità la sua preziosissima collezione di volumi editi a stampa.

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rendite furono applicate a Luoghi Pii?48 Voi mendichi di questa Città siatemi

testimonj di quello che io dico: Voi che non mai chiusa miraste la mano liberale di

Francesco Maria nelli nostri [ i. e. vostri] bisogni: Voi, che provaste con quanta

prontezza ed ardore egli alle vostre necessità sovvenne: Voi, che trovaste quando

bisognò i granari di lui sempre aperti in vostro ajuto; C [ 28 ] V. E con voi sianmi

testimonj quest’aria, questo Cielo, e questo Sole, che spirate, che godete, di cui finora

sareste privi, se in anni di generale carestia, ne quali in molti luoghi dell’Italia i

Poveri da crudel fame estenuati, bene spesso per le publiche strade di puro stento

cadendo, si videro in braccio alla morte, egli con isviscerato amore e pietà non vi

avesse dato opportuno soccorso. E quì per certo, che io non vuò dire le grandi

prestanze di danaro, ch’egli in tai tempi più volte fece alle sue Città, Terre, e Castella,

acciò li prezzi delle cose a danno de poverelli non crescessero, acciò il solito peso del

pane non iscemasse, poiche purtroppo ve ne ricordate, e lo sapete. I Conventi

d’Uomini Religiosi, li Monisteri di caste Donne con qual liberalità furono da lui

ajutati? con qual carità? con qual zelo fè loro dispensare largamente il vitto?

Tantoche posso affermarvi, che non vi fù luogo in questo Stato, dove in ritirata

adunanza si menasse santa vita (purchè bisognevole fosse) il quale ogni anno della

sua beneficenza non sentisse? C [ 29 ] R. E non di meno questo Pincipe, che così

ardentemente procurò sempre la salute di tutti, questo publico Benefattore, questo

Padre commune si trova accerchiato da mille mali, attorniato da dolori atroci,

travagliato da infermità crudele. Così dunque premia il Cielo il merito de suoi più

cari? un tal guiderdone49 a loro dà egli? questa rimunerazione rende loro? O giudizj

divini altissimi e profondi! O vista mortale quanto sei debole! O inteletto umano

come poco t’innalzi. Ah che l’esperienza di grande virtù non puote esser piacevole, e

delicata. Gli Uomini Guerrieri si pregiano delle ferite. La Provvidenza infallibile con

le calamità, come diamanti saldi a gravi percosse, prova i forti. Il Capitano in guerra a

perigli maggiori e gli più valorosi riserba.

48 I luoghi pii erano istituzioni, ecclesiastiche o laiche, che operavano nel campo del sociale con obbiettivi caritativi ed assistenziali, ed avevano una loro organizzazione interna (regolata da statuti), nonché proventi propri. 49 Vale a dire una tal ricompensa.

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Rimirate, o Signori, Francesco Maria prostrato in quel letto quasi egregio

campione duellare gagliardamente con i fieri accidenti dell’umana fralezza. Rimirate

quella faccia già tutta ridente, ed ornata di maestà, ora tutta esangue coperta si di

pallidezza, e di squallore, ma non punto smarrita per disusati travagli. C [ 29 ] V.

Rimirate quel corpo che fù cotanto nelle sue parti proporzionato, ora tutto attratto, e

crudelmente abbattuto da nojosa malattia, conservare nulladimeno quasi saldo scoglio

contro orribili tempeste nel mare l’animo ardito, intrepido, ed invitto.

Mostrammo ben noi segni dovuti e di allegrezza, e di dolore, secondo che le

novelle o buone, o ree della sua lunga infermità ci furono recate. Ma egli sempre

costante mantenne un’istesso [ sic ] volto uno istesso petto, uno stesso cuore. Al tristo

annunzio dell’aggravamento della sua malattia, qual sollecitudine fù in questa dolente

Città? Ognuno parlava del suo male, ognuno discorreva di sua salute ognuno

domandava di lui, se almeno ancora per qualche giorno sarebbe vivuto (ah che sento

strapparmi il cuore dalle viscere nel raccontarlo). Subito ricorressimo a Dio contro di

noi adirato, gli chiedemmo perdono, lo scongiurammo, che per allora deponesse così

grave flagello. Furono per la sua salute umili supplicazioni in Publiche Processioni

ordina= C [ 30 ] R. te, ed in altre guise fatte dalle divote persone. Vi fù chi fè voti,

chi digiunò, chi andò coi piedi ignudi a molte delle nostre Chiese. non vi fù Chiostro,

non Convento, non Monistero, non casa, non tetto, dove non si pregasse e di giorno, e

di notte per lui.

Ed allora veramente il Cielo forte vinto da nostri prieghi, mosso a pietà delle

nostre miserie, sospese, per alquanto l’ira sua; Onde il nostro amatissimo Duca si

riebbe. Le Orazioni efficacissime di tante caste Vergini furono ascoltate collasù,

come quelle già del Capitano Ebreo,50 onde fermatosi questo chiarissimo Sole non

così tosto ci trovammo nella oscura notte delle nostre sventure. Le caldissime

50 Il riferimento è ad un passo della Bibbia, Giosuè 10,12 – 14: “12 Il giorno che l'Eterno diede gli Amorei nelle mani dei figli d'Israele, Giosuè parlò all'Eterno e disse in presenza d'Israele: «Sole, fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Ajalon!». 13 Così il sole si fermò e la luna si arrestò, finché il popolo si fu vendicato dei suoi nemici. Questo non sta forse scritto nel libro del Giusto? Così il sole si fermò in mezzo al cielo e non si affrettò a tramontare per quasi un giorno intero. 14 E non ci fu mai, né prima né dopo, un giorno come quello, in cui l'Eterno abbia esaudito la voce di un uomo, perché l'Eterno combatté per Israele.

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preghiere di tanti fanciulli innocenti, di tanti amici di Dio, le lagrime di questa afflitta

Città furono da lui con l’istesso occhio pietoso allora mirate, col quale già riguardò il

pianto di quel Rè del suo Popolo, a cui la vita accrebbe: Onde pochi giorni, oltre gli

ultimi, essendone noi forse intercessori, furono aggiunti a Francesco Maria. C [ 30 ]

V. E quì, o Signori, ricordatevi quando si seppe, ch’egli era di quel male renduto

sano, quale consolazione fù la vostra. Ricordatevi come inestimabile fù la vostra

letizia. Come soperchiati dall’infinito gaudio non capivate in voi medesimi. Dite se

provaste mai simile allegrezza. Sovvengavi, sovvengavi come allora che intendeste,

ch’egli era per andare a diporto al suo Parco, correste a vederlo a rimirarlo, ed a

riverirlo, come cosa di nuovo donataci, e restituitaci dal Cielo.

Ma ohime quanto brevi sono di lui le grazie: ohimè quanto sono scarsi i suoi

favori! Miseri noi, infelici noi, che appena risorto il nostro ottimo Principe, tosto

ricade, e ricade, ahi dolore! per chiuder gl’occhi in sonno eterno. Stassene oppresso

da crudeli angosce, e pure si ricorda di te, o Urbino, te spesso noma, te chiama. A te

lascia un ricchissimo dono, una memoria degnissima di lui. Parlo di quei nobilissimi

Manoscritti, quali finche saranno tuoi (ma perpetuamente tuoi saran= C [ 31 ] R.

no51) aurai sempre avanti gl’occhi un pegno preziosissimo dello sviscerato amore,

ch’ei non lasciò di portarti giammai. Giace egli angustiato dagli affanni penosi della

morte, e non dimeno quasi lume, che nello spegnersi rende maggior splendore,

vigoroso conserva l’animo, e dà segni di nuova virtù; perche essendogli detto, ch’era

vicina l’ultim’ora sua, non solo non si turba, non solo soffre la novella con invitta

costanza; ma se ne rallegra, rispondendo con un sacro versetto a chi gliel disse, ch’ei

era lieto per tale avviso, poichè sarebbe ito, o voce celeste! nella magione divina.

51 Le disposizioni testamentarie dell’ultimo duca prevedevano che i ‘nobilissimi Manoscritti’ divenissero patrimonio della città di Urbino, e che i libri a stampa passassero al Convento durantino del Santissimo Crocifisso dei Chierici Regolari Minori di San Francesco Caracciolo; va detto che il duca Francesco Maria II, negli ultimi anni della sua vita, fu molto vicino ai padri caracciolini, il cui insediamento a Casteldurante era stato voluto proprio da lui nel 1617. Purtroppo però la storia successiva ci testimonia che, per quanto riguarda lo straordinario patrimonio bibliografico, le ultime volontà di Francesco Maria II della Rovere furono in tutto e per tutto disattese: infatti papa Alessandro VII, nato Fabio Chigi, dispose nel 1657 il trasferimento presso la Biblioteca Apostolica Vaticana della biblioteca di Federico da Montefeltro, costituita come detto da manoscritti preziosissimi, e dieci anni dopo, nel 1667, il trasferimento a Sant’Ivo alla Sapienza della Biblioteca Ducale, costituita da scelti e riputatissimi volumi editi a stampa, attualmente conservati presso la Biblioteca Alessandrina dell’Università La Sapienza di Roma.

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V’andaste, così lo spero, Anima gloriosa v’andasti e trà cotesti risplendenti

zaffiri assiso in Trono sublime vagheggiando nel purissimo fonte della Divinità le tue

immortali bellezze godi il premio eternale delle quaggiù bene impiegate fatiche. Altra

corona tempestata di gemme, altro scettro carico di gioje, altro ammanto circondato

di luce or ti copre, ti abbellisce, ti adorna. C [ 31 ] V. Ascendesti, ove ride una

vaghissima Primavera, ove ne i freddi soffi del violento Aquilone, ne i caldi fiati del

torbido Noto giungono, ma solo l’aura giocondissima di lieve Zefiro dolcemente

spira. Salisti da queste terrene bassezze, da questa oscura notte, da questi spiacevoli

orrori, da questa perpetua guerra a coteste celesti altezze, a cotesti lucidissimi giorni,

a cotesti piacevoli splendori, a cotesta eterna pace. Deh anima generosa da qual parte

del Cielo tu ti sia rimira il dolore estremo di questi tuoi già riverentissimi Sudditi, e

dalla grandezza di lui quanto lor fosti caro comprendi. Ben mi sembra udir le tue

voci, con cui mosso a pietà delle communi miserie, in questa guisa meco immagino,

che loro ragioni: Lasciate ormai, lasciate, Popolo mio fedelissimo di piangere la mia

felicissima partita da Voi: cessino le lagrime per la perdita, che avete fatta di me, ne

vogliate con l’importunità de C [ 32 ] R. vostri sospiri, e dolenti singhiozzi in un

certo modo turbare le mie sempiterne allegrezze. Ecco che per volontà di chi mi fè

divenire eterno e beato abbandonandovi io restate sotto la benignissima cura, sotto il

santo dominio dell’ottimo Pastor delle Genti del degnissimo Successore di Pietro, del

Grande Urbano VIII. Egli sarà nostra guida, Egli Capo, Egli Duce. Così è, o Signori,

se il Cielo ci tolse Francesco Maria, ci diede Urbano; Urbano, che armato della sua

sagrosanta autorità è tremendo fin nell’Abisso: che ha per termine non meno del suo

Sovrano Imperio, che della sua gloriosissima fama le stelle: Giudice delle discordie

de Principi, Arbitro delle Guerre dei maggiori Potentati del Mondo, Conservatore

della pace d’Italia Difensore della quiete universale, Padrone di tutti, Padre

Commune, Signore Supremo, Rè dell’Universo, Vicario di Cristo: Urbano, che con

somma pietà, e con viscere di paterno amore volle consolarci, mandando in questo

Stato due nobilissi= C [ 32 ] V. mi Suoi Nipoti, l’uno abbellimento delle Mitre,

l’altro ornamento delle Corone; l’uno splendore della Vaticana Porpora, l’altro onore

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della Romana grandezza; l’uno cinto di spada celeste, l’altro armato di folgori terreni;

l’uno ricetto de cuori di questi novelli Sudditi dell’Apostolica Sede, l’altro soggetto

degli amori di questi nuovi Vassalli della Latina Chiesa; l’uno, e l’altro magnanimo,

forte, benigno, e saggio, ambo ripieni di liberalità, di Giustizia, di Magnificenza, di

Virtudi. Urbano in somma ci diede il Cielo, o Signori, che sempre pensa al vostro

bene, che continuamente procura la vostra salute, che ha in animo di essere di

presenza a benedire le vostre persone. Oh se mai spunterà dall’Oriente quel

felicissimo giorno, se mai sorgerà per noi quella fortunatissima Aurora, come, come

vedrannosi lieti questi Paesi, come ridenti queste Campagne, come glorioso questo

Stato, come abbonderanno le grazie, saranno copiosi, benefici, innumerabili i favori.

Ho detto.

C [ 33 ] R. bianca

C [ 33 ] V. bianca

C [ 34 ] R. bianca

C [ 34 ] V. bianca

FINE TRASCRIZIONE DEL MANOSCRITTO