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Bruno Morelli Rom abruzzese, è nato ad Avezzano (AQ) nel 1957. Pittore autodidatta all’inizio, si è cimentato in varie forme espressive, studiando e imitando i grandi maestri. L’urgenza di esprimersi in modi sempre più personali, la necessità di padroneggiare meglio le tecniche, di approfondire le sue tematiche, lo hanno portato ad uno studio lungo e sistematico, frequentando prima il Liceo artistico a Roma e poi l’Accademia di Belle Arti a l’Aquila, dove ha conseguito a pieni voti il diploma accademico discutendo la tesi su “L’immagine dello Zingaro in pittura”. È abilitato all’insegnamento scolastico nella scuola media e superiore nelle discipline di disegno e storia dell’arte. È membro del Centro Studi Zingari sin dal 1982. Autore di numerosi saggi e articoli scientifici di cultura zingara in “Lacio Dròm”, rivista bimestrale di studi zingari, è impegnato in un’intensa attività artistica ricevendo consensi sia in Italia che all’estero attraverso numerose esposizioni. Nota introduttiva di Giulio Soravia (docente di linguistica presso l’Università di Bologna, esperto delle parlate zingare in Italia) Si parla spesso di patrimoni culturali da salvare, in operazioni antiquarie e museali che lasciano l’amaro in bocca. Ebbene noi rifiutiamo questo modo di affrontare un’operazione culturale quale quella che ci siamo prefissi con questo libro, proprio a partire da una confutazione dei termini della questione. Patrimonio: la cultura non è un patrimonio se per patrimonio si intende un capitale di beni immobili. La cultura è un insieme di valori che improntano dinamicamente di sé il modo di vivere di un popolo, di una comunità, di un’etnia e come tale non appartiene a nessuno, perché è di tutti. In quanto così, allora, la cultura è mutevole, sfuggente, indefinibile. Si può mostrare per esempi, difficilmente catalogare, mai

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Bruno MorelliRom abruzzese, è nato ad Avezzano (AQ) nel 1957. Pittore autodidatta all’inizio, si è cimentato in varie forme espressive, studiando e imitando i grandi maestri. L’urgenza di esprimersi in modi sempre più personali, la necessità di padroneggiare meglio le tecniche, di approfondire le sue tematiche, lo hanno portato ad uno studio lungo e sistematico, frequentando prima il Liceo artistico a Roma e poi l’Accademia di Belle Arti a l’Aquila, dove ha conseguito a pieni voti il diploma accademico discutendo la tesi su “L’immagine dello Zingaro in pittura”. È abilitato all’insegnamento scolastico nella scuola media e superiore nelle discipline di disegno e storia dell’arte. È membro del Centro Studi Zingari sin dal 1982.Autore di numerosi saggi e articoli scientifici di cultura zingara in “Lacio Dròm”, rivista bimestrale di studi zingari, è impegnato in un’intensa attività artistica ricevendo consensi sia in Italia che all’estero attraverso numerose esposizioni.

Nota introduttiva di Giulio Soravia(docente di linguistica presso l’Università di Bologna, esperto delle parlate zingare in Italia)

Si parla spesso di patrimoni culturali da salvare, in operazioni antiquarie e museali che lasciano l’amaro in bocca. Ebbene noi rifiutiamo questo modo di affrontare un’operazione culturale quale quella che ci siamo prefissi con questo libro, proprio a partire da una confutazione dei termini della questione.

Patrimonio: la cultura non è un patrimonio se per patrimonio si intende un capitale di beni immobili. La cultura è un insieme di valori che improntano dinamicamente di sé il modo di vivere di un popolo, di una comunità, di un’etnia e come tale non appartiene a nessuno, perché è di tutti. In quanto così, allora, la cultura è mutevole, sfuggente, indefinibile. Si può mostrare per esempi, difficilmente catalogare, mai imbrigliare in formule rigide. Cambia continuamente: contro ogni vera cultura sono infatti gli stereotipi culturali che imbalsamano la realtà in un modello incapace di rendere le infinite varietà dei comportamenti umani.

Salvare: che cosa si deve salvare e che cosa si deve conservare. A futura memoria potremo salvare in un ambiente museale un vecchio attrezzo da lavoro che non si usa più, oggi superato da strumenti più moderni che alleviano la fatica e il sudore di coloro che lo usano. In un dizionario, con la specifica “arcaico”, si conserverà la parola relativa. Ma fermiamoci qui. Ci interessa semmai chiederci se davvero la fatica dietro lo strumento arcaico era maggiore del coso, in termini morali e materiali, dello strumento nuovo. Il dibattito è aperto e solo esso è produttivo, senza per altro che la società si fermi. Il rischio infatti è che mentre discutiamo sui valori dei tempora acta il resto del mondo scivoli via

e ci lasci in una realtà che nessuno riconosce più. Che, al limite, non riconosce se stessa.

Non è pragmatismo becero, eppure pragmatismo è. Dobbiamo costruire il futuro sulle radici del passato, si dice, e tutto ciò che è giusto, ma talvolta la visione che ne scaturisce, viziata da decenni di antropologia spicciola e di storia orecchiata, è che le culture siano dei filoni coerenti e sempre coesi. In altri termini che ogni cultura affondi le sue radici nel passato allo stesso modo in cui una pianta ha radici a fittone, per usare una metafora botanica, e non una radice fasceolata.

Non è il prodotto della civiltà moderna, dei mass-media, del villaggio globale e delle comunicazioni estese, o di simili sciocche piacevolezze, che le culture siano il risultato di un passato, ma anche di un presente, di sostrati, ma anche di ad strati e superstrati, di storia e di imprestiti, di calchi e di diffusione, per continuare con le metafore, questa volta prese dalla linguistica. Una cultura cambia continuamente, se è viva, si adatta a regole e situazioni nuove, prende dove può e vuole elementi nuovi, modifica i suoi valori ed è per sua natura (e grazie a Dio) bastarda. Le culture pure sono forse – se mai esistite davvero – quelle che hanno prodotto i più grandi guai della storia, per non dire i più grandi crimini. O quelle che per volontà propria o per costrizione (talvolta per realtà geografiche) sono rimaste isolate.

Come lingua italiana non sarebbe la lingua di Dante, ma soprattutto sarebbe incapace di esprimere i bisogni degli italiani, qualora fosse depurata di tutte le voci non di origine latina (e, bontà nostra, greche), come voleva fare il fascismo, così la cultura di un popolo, come quello dei Rom abruzzesi, è il risultato di interazioni infinite, di adattamenti, di compromessi tra loro, ma che sfuggono alla possibilità di essere racchiusi in formule strutturali che non siano quelle, così generiche, da non poter aggiungere nulla alle nostre conoscenze.

Ecco perché questo libro è nato così. Bruno Morelli si esprime con la matita e con la penna. È l’artista che fornisce una sua visione personale, ma proprio per questo valida, di un quadro generale di cui è tassello. La matita dona delle immagini in uno stile moderno, drammatico, poco zingaro?, evviva se lo è fuori dagli stereotipi che vogliono sempre zingari di un certo modo (come i gondolieri baffuti col mandolino e gli spaghetti delle immagini di certa America sull’Italia). La penna raccoglie ricordi, ma li travalica attraverso considerazioni personali, riflessioni, testimonianze che non vogliono scendere (o scadere?) in generalizzazioni, ma sono appunto la rivitalizzazione di una cultura attraverso la personalità di un suo intellettuale che non ha rifiutato né la propria tradizione, né le conoscenze degli “altri”.

La lingua più facilmente è imbrigliata in descrizioni strutturali, ma anche qui la scelta è stata di non permettere che teorie fonematiche intaccassero la realtà di forme linguistiche talvolta contraddittorie, variabili. Non stupisca dunque di vedere la “stessa” parola scritta in modi diversi: è anche questo un modo di affermare la realtà di una lingua orale, in cui da un lato i diversi parlanti hanno diverse pronunce, non ingabbiate da uno standard, da un altro sottolinea l’esistenza di varietà linguistiche diatoniche per la stessa lingua.

Allo stesso modo – e non solo per lasciare la freschezza dell’approccio più semplice e immediato – i testi di Bruno Morelli presentano una forma di trascrizione che è quella stessa dell’Autore (salvo poche insostanziali modifiche). Non sarà la forma cui sono abituati i lettori di “Lacio Drom”, una trascrizione scientifica, ma essa è la spontanea trasposizione di norme conflittuali tra codici conflittuali, quello italiano e quello romanes, che fanno entrambi parte della cultura dell’Autore. Diverso ovviamente è il caso della sezione linguistica dove le norme “standard” riappaiono e che qui riassumiamo a mo’ di conclusione.

Le vocali sono come in italiano, approssimativamente, anche se distinguiamo solo cinque varietà (non sette come nel toscano) oltre alla varietà indistinta ë che è simile alla e muta francese (vocoide centrale). Questa etimologicamente deriva da altre vocali, ma in romanes abruzzese è una realtà il cui statuto fonematico è forse discutibile, ma ci pare utile così marcare per semplificare al lettore la pronuncia delle parole in cui compare.

Le consonanti sono come in italiano con le seguenti precisazioni ed eccezioni che evitano le incoerenze della ortografia italiana:

č è sempre palatale (dolce)come in cena, davanti a tutte le vocali, consonanti o finale di parola;

k rappresenta la velare di cane;ğ analogamente è palatale come in gelo;ñ rappresenta la “gn” di gnomo;š è la palatale di scena, in qualunque posizione, davanti a

vocali, consonanti o finale di parola;ž analogamente p la sonora (j francese), che compare solo in

alcune parole in certe varianti;j è la semivocale di ieri (come y dell’inglese);x è il suono del “ch” tedesco in Bach;ts rappresenta il suono dell’italiano (toscano) z di zio (affricata

dentale sorda);z rappresenta il suo di z in zenzero (affricata sonora):L’accento tonico è sempre marcato con un accento acuto.

GIULIO SORAVIA

ROMANÒ GHJ

L’IDENTITÀ ZINGARA

MITI RITI RACCONTI METAFORE LINGUA

INTRODUZIONE

“La necessità di tornare ai miti e ai riti”

Viviamo in un mondo ormai vuoto e inutile dove nulla ha senso, niente ha significato se non attraverso i “filtri” della inesauribile, ipertrofica apparenza. Noi stessi non sappiamo chi siamo, cosa vogliamo veramente e dove siamo diretti; noi stessi non ci domandiamo neanche più chi siamo e chi eravamo, chi erano i nostri padri. Perchè la nostra presenza non ha più certezza dell’esserci. Siamo teleguidati e teleinformati al punto che la capacità di pensare non è altro che un ricordo sempre più offuscato da chi pensa per noi. Ciò che importa davvero è la casa, il lavoro, la famiglia, mangiare, bere, andare al cinema; o vedere la televisione e leggere il giornale illusi di essere aggornati. In realtà non ci rendiamo conto che siamo in balia di giochi sottili e subdoli, certamente non trasparenti. Diventiamo ogni giorno un po’ più pesanti anziché pensanti, prevale l’azione sul pensiero. esseri pensanti prima che agenti. Siamo meccanicamente controllati.

La vita di oggi, il “deserto” delle metropoli, i “mostri” dei media, l’ansia del consumare, riducono gli archetipi ogni giorno, piano piano, in belle “confezioni regalo” da portare agli amici a Natale o a Pasqua.

Siamo perdutamente automi di noi stessi, burattinai di noi stessi, siamo ormai interpreti in un teatro senza platea in cui il recitare l’ennesima replica di una farsa, nausea fino ad estranearci dalla vita reale: prigionieri delle nostre prigioni, giustiziati dal nostro stesso giudizio, e, violenti oltre la violenza stessa, siamo irmediabilmene impotenti. Ecco allora che i gesti quotidiani, ripetuti fino allo spasimo, si trafiggono in uno spiedo in puri atti elettro-programmati, o peggio palinsesti settimanali, in cui anche il respirare contiene in sé un tempo stabilito. Poi, mangiare, giocare, andare al teatro, lo yoga, gli incontri spirituali, il sesso ed altro ancora, tutto sprofondato nel fast-food di qualcosa che non cambia, che non si contraddice, uno stagno in cui tutto resta sugellato nel cosiddetto tenore di vita, o qualità di vita. Anche un bacio è scandito dal tempo razionato, infatti lo puoi trovare al supermercato in bellissime confezioni da 6, prendi due e paghi tre, dentro c’è il biglietto che ti ricorda parole d’amore. A casa, all’ora di pranzo, il papà arriva verso le 14,30 senza calcolare il traffico che lo fa arrivare sempre in ritardo, la mamma si ferma in ufficio per una riunione straordinaria, ma in frigo per fortuna c’è il sugo precotto, basta scongelarlo e scaldare un po’ d’acqua per la pasta, così i ragazzi possono iniziare a pranzare.

Domani c’è il funerale dello zio Augusto e così si salta anche questa volta la ginnastica. Che fatica preparare il cerimoniale! Non importa, tanto c’è sempre la ditta funebre che pensa a tutto, perfino a creare il corteo se dovessero mancare le persone.

Il nonno ormai se la fa addosso, occorre portarlo all’ospizio. Mi raccomando, il matrimonio deve essere molto chic, pochissimi invitati, cerimonia “solo civile”, abito lungo e scollato, per piacere, i confetti non vanno buttati addosso agli sposi, potrebbero sporcare i vestiti noleggiati ed è comunque un gesto da villani. Per il battesimo? Non c’è da temere, abbiamo deciso che il bambino lo farà da grande, se vorrà, noi siamo di una certa idea politica e quindi rispettiamo la libera scelta religiosa di nostro figlio.

E l’elenco, tristemente, continua. Il fatto è che non ci si rende conto che sono spariti tutti i

simboli, e con essi i contenuti e quindi i valori di ogni atto quotidiano. Per non parlare poi dei riti che sono ridotti a semplici e a volte noiosi iter formali deleteriamente automatici, la cerimonia anch’essa è ripetitiva e svuotata dalla non partecipazione in prima del sacerdote.

Tutto è occasione solo di “paganesimo consumistico” e di pseudo religiosità, ciò che importa è la forma più che la sostanza. Vi è un ribaltamento dei valori dall’esterno verso l’interno, ossia i falsi ideali, spesso materialistici e massificanti, aggrediscono e divorano i contenuti, sostituendosi ad essi in alibi chiamati modernizzazione ed emancipazione.

In questo passaggio epocale verso il cosiddetto tempo post-industriale i valori rituali trovano spazio in un luogo sempre più sminuito e commercializzato, il folclore. È là dove poter ricorrere in momenti di rimando ad un passato nostalgico-popolare attraverso i trattati di antropologia e le sagre paesane. Queste ultime spesso banalizzate e turistizzate da dannosi programmi televisivi esercitano il compito di valorizzare il territorio regionale. Da ciò si desume più una degressione dei valori che non il contrario in quanto si ripropone il “tour turistico” e ricreativo di quei posti, piuttosto che il recupero di quei significati umani da reintegrare nel patrimonio collettivo restaurando un equilibrio tra uomo e paesaggio.Ignorando spesso quello che c’è dietro ogni atto, ogni gesto della vita di tutti i giorni, ci abbandoniamo a ritmi snaturalizzati: mangiamo senza aver fame, beviamo senza aver sete, facciamo l’amore senza averne voglia. A volte c’è la sensazione di camimare per forza di inerzia, senza sentire più il peso del nostro corpo, sospesi “tra coloro che son sospesi” ci trasciniamo e soprattutto non sappiamo dove arrivare. Sappiamo solo di andare al lavoro, in ufficio, poi al fast-food, poi a ginnastica, poi a casa, poi a letto e poi di nuovo al lavoro, ecc.

Questo meccanismo, ciclico, automatico, fino a trasformarsi in un ritornello, rischia di uccidere completamente la fantasia e la creatività dell’individuo di essere al mondo. Si inibisce la libera iniziativa, ci si pone così alla mercè del potere politico-televisivo. Si diventa per così dire un pollo d’allevamento destinato ai tavoli dei Signori dei media per rallegare la loro implacabile antropofagia e la voracità dell’odience. L’assassino più spietato dei valori rituali è proprio la tivù, la quale non fa altro che imporsi come un dittatore nell’intimità della casa senza che nessuno glielo chieda, senza bussare, dove entra lui e il dialogo famigliare sparisce per lasciare il posto al focolare virtuale più gelido della storia umana: desolazione dell’immobilità di un ascolto senza interlocutore. Con i suoi indici commerciali e consumistici, la tivù dichiara guerra allo spirito umano, livellando e appiattendo tutto in nome dell’unità della nazione italiana. Così anche i riti della tavola, come il pranzo e la cena, finiscono con l’essere decontestualizzati dal sacro convivio della famiglia.

Quello che in fondo mi ha spinto a scrivere questo libro sui riti dei Rom è proprio il triste panorama che ho appena descritto, forse, con pessimismo, magari esagerando un pò. Il fatto è che mi sono domandato se ancora avesse un senso essere Rom e continuare ad esserlo oggi in una società come questa, in cui viviamo, tutti presi, dall’ossessione del futuro che sembra contraddire l’importanza del passato.

L’orrore di un presente che non c’è.Lo stesso quesito poi me lo sono domandato in senso opposto,

cioè se per la società l’esistenza di una minoranza etnica come quella dei Rom, avesse ragione di essere, senza generare problemi di convivenza al di là dei conflitti che realmente esistono.

Ebbene aldilà del fatto che io stesso sono zingaro, cercando di essere più possibilmente obiettivo, penso proprio di sì che valga la pena, non solo per riaffermare i valori tipici, ma che essi siano così preziosi a questa società ormai esangue da ogni impulso vitale, e anche per riaffermare il valore della diversità come presupposto per una vera universalità.

Penso che oggi più che mai, per il bene di tutti, si debba concedere una pausa alla corsa impazzita e incosciente dell’uomo moderno che non sa dove va perché non sa da dove viene. E il richiamo alle minoranze come custodi di “tesori nascosti”, può, anzi ne sono convinto, rappresentare forse l’unica vera ancora di salvezza, una riconversione ai valori autentici e perenni.

Se essere gagiò significa andare verso la perdita totale dell’identità umana prima ancora che culturale, rincorrendo a falsi miti e appariscenti valori, preferisco vivere come Rom fino in fondo, dove scopro che è l’uomo al centro e non le cose, dove il gesto ancora è simbolico, la festa è rito, e la comunità è la società.

È un modo in cui la dimensione misura l’altezza umana e le relazioni sono al di fuori della convenzionalità, una civiltà intesa dentro e non fuori dell’individuo “terrestre”.

Per un Rom l’individuo non vale per ciò che rappresenta, classisticamente o materialmente, ma per quello che rivela solo nel profondo del suo animo e della moralità, cioè nella ricchezza interiore. Penso che il significato dell’essere Rom oggi risieda nel proprio contributo affinché la società possa cogliere nell’opportunità di costruire, insieme, un avvenire fatto con il meglio dell’uno e il meglio dell’altro, il meglio di tutti i diversi che si vivono accanto.

Le diversità pongono, figurativamente, degli specchi entro i quali ognuno può riflettersi e vedere non tanto la bellezza della propria immagine ma i propri difetti. È grazie al contrasto prodotto dalla scala dei valori di culture diverse che ognuno di noi ha la prospettiva giusta per poter rimettere in discussione le proprie certezze e sicurezze di sempre, la possibilità cioè di rivedere e riesaminare comportamenti che magari sono stati ritenuti buoni fino ad allora stagnanti nel mancato confronto.

Inutile ricordare che senza la promiscuità delle varie culture non ci sarebbe stata l’evoluzione della civiltà.

I Rom, per la loro storia di nomadismo che li ha portati nel tempo a sviluppare mestieri di scambio e negoziazione fondamentalmente in forte rapporto dinamico e con l’altro,

rimangono gli ultimi esempi di una vita interculturale isolata in questa società contemporanea. Ecco perché in loro è spiccato il senso della vita, una sorta di rivendicazione all’indifferenza dell’ambiente in cui si vive.

Senso dell’ambiente che ha generato non pochi problemi.Il problema della “resistenza etnica” ad esempio, il quale è

dovuto principalmente al modo di concepire il lavoro; stretti in una morsa che spinge da tutte le parti per i già detti motivi, i Rom si pongono come le ultime cicale in un mondo popolato ormai da un esercito di formiche intente solo asoddisfare la sete della produzione. Il Rom non produce, crea.

Allora si tratta di salvare il salvabile, se da essi si vuole trarre un antidoto che renda la società immune dall’epidemia dell’alienazione e dalla omologazione dei cervelli, occorre accettare e acquisire uno stile di vita sganciato dai meccanismi dell’industrializzazione.

Liberi dalla macchina. …”Mi sono reso conto che, avendo recuperato il mio passato

nelle radici più profonde, ho capito chi sono veramente, mi sento adesso più forte poiché le mie braccia come rami possenti crescono più inalto verso il cielo, verso il futuro, verso la libertà, verso Dio, sono un albero millenario”...

METODOLOGIE: ALLA RICERCA DI UNA MODALITÀ DI RAPPRESENTAZIONE DELLA CULTURA ZINGARA.

Prima di affrontare argomenti così delicati come i riti che sono l’anima di un popolo, ho dovuto fare una scelta sul modo migliore di indagare. Si poneva il fatto che io stesso, essendo Rom, potessi essere oggetto di troppo coinvolgimento psicologico quindi poco vantaggioso per garantire l’obiettività e l’attendibilità della ricerca. Un elemento che mi mancava era una preparazione adeguata e formalizzata ad intraprendere la via dell’analisi critica specifica in questo caso, cioè essere antropologo, etnologo, sociologo o quant’altro. Niente di tutto ciò, sono un artista, un pittore, un accademico per quanto concerne la mia materia specifica, e allora che fare?

In fondo però, se non ricordo male, la storia dell’arte ci ha insegnato che nel passato l’arte e la scienza non solo erano solite collaborare insieme ma si integravano nel progresso della civiltà, basta ricordare Leonardo da Vinci nel quale arte e scienza convivevano nel sano conflitto, ma anche tutto il “900 che assiste ad una fusione straordinaria tra diverse discipline maturando nuovi orizzonti di studi come gli esperimenti di Chevreul, in simbiosi con

quelle di Cézanne, sui fenomeni ottici circa la percezione visiva e le teorie sul colore.

nell’800, quando si affermano studi di antropologia umana, specie in Inghilterra, si assiste alla consociazione tra artisti e scienziati: pensiamo alle ricerche sulla classificazione dei generi criminali attraverso le caratteristiche morfologiche della somatica; Domier e Géricault sono impegnati nella raccolta di questa tipologia umana che più tardi culmina nella rivoluzione figurativa di Degas stravolgendo la figurazione reinterpretandone i caratteri espressivi.

Ancora si può citare il Rinascimento, in cui alla nascita dell’anatomia umana, come scienza medica, si affianca alle ricerche di Michelangelo sulla verità della forma umana; si può dire che i primi tentativi di vivisezione risalgono ai cadaveri disegnati dagli artisti stessi in quello che veniva definito con il termine di “Scorticato”. Questo per asserire che l’arte ha sempre avuto in sè una peculiare capacità analitica per il fenomeno.

Mosso, quindi, da una curiosità di sondare quel mondo che mi appartiene, cercavo allo stesso tempo un metodo più efficace, che sapesse permeare di più quegli aspetti poco conosciuti agli altri di cui a volte è stato oggetto di saccheggio, violento e deviante, da parte di studiosi non zingari. Aspetti difficilmente giudicabili come quelli dell’etica. Mi veniiva chiesto i più che una semplice analisi esterna. Questo per non dare una interpretazione dell’evento ma una testimonianza direttamente sentita in prima persona, cercando di restutire il cuore di un popolo. Un compito privilegiato che classicamente è assegnato all’arte.

La ricerca dunque nasce anche tali motivazioni. Da troppo tempo leggevo libri e tesi di lauree sulle tradizioni

romané privi di fondamento, poco corrispondenti alla verità. Purtroppo la tendenza è la solita, si cerca di trasferire i propri schemi mentali e culturali, laddove i parametri sono completamente diversi, per cui il risultato è inevitabilmente infelice, sentenzioso, vano di pseudo-verità; elementi che si trovano solo nella mente di chi studia ricalcando vecchi stereotipi verso gli zingari.

L’approccio metodologico finora adottato verso i Rom è spesso inficiato da uno spirito scientifico “tardo romantico”, nel quale l’oggetto di studio è visto come fenomeno isolato da un contesto sociale e relegato nelle “nicchie dei sopravvissuti”. Questo genere di approccio genera l’acuirsi del razzismo perché antisociale e settoriale, impedendone un rapporto costruttivo e interattivo con la società tutta la quale ci contiene.

Quello che non si vuole capire è che i Rom non sono “gli ultimi adoratori di Iside” o i “sopravvissuti di Atlantide” o “lo yeti delle nevi”, continuando a scrivere su di loro libri del tipo “Il popolo della

spazzatura”, “I figli del vento” o “Il vento non soffia più”, libri che definiscono i Rom maschilisti, sessisti, matriarcali, patriarcali e così via. Più triste è che taluni di questi autori occupano posti all’università grazie anche a tal genere di pubblicazioni.

Diffidare inoltre, a mio avviso, di leader zingari pericolosi i quali si pongono, in maniera narcisistica in primo piano affermando di essere gli unici, i primi, i più bravi, i primi laureati e sconcezze di questo tipo, poiché non fanno altro che danneggiare l’immagine degli zingari i quali appaiono più disgraziati e ignoranti del solito.

Particolarmente dannosa è la figura di un personaggio in Italia che vanta di esercitare al tempo stesso una miriade di professioni: musicista, docente universitario, ricercatore, scrittore, poeta, attore, pedagogista ecc..

Ponendomi il problema di tutta questa serie di inconvenienti a sfondo morale e a sfondo sociale, ho scelto un metodo piuttosto semplice di ricerca, che almeno sia rispettoso e attendibile dei fatti; quello del raccontare semplicemente l’evento. È ovvio che il lungo contatto con un ambiente culturale e scientifico da parte mia, e la lettura di particolari testi attendibili, mi ha fornito strumenti d’indagine sufficienti per criticare anche argomenti delicati come i riti.

In più ho aggiunto il mio bagaglio d’artista che tende a sdrammatizzare e diluire in forma più ironica e trasfigurativa temi di natura complessa sul piano simbolico.

Prima regola è: per capire i Rom bisogna essere e vivere da Rom, questo solo pochissimi sono in grado di farlo, gli altri spesso si affidano al classico e banale mezzo “dell’intervista” che fuorvia ogni verità perché sà di interrogatorio; l’istinto del Rom è di mentire per salvarsi.

Dal momento che ho la fortuna di essere zingaro, non mi risulta difficile “interrogare” me stesso, senza paura di essere giudicato da nessuno. Ho voluto evitare il modo antipatico di assumere un linguaggio tecnico ma adottare una sequenza narrativa semplice e divulgativa, basandomi su fatti realmente accaduti dove gli attori sono per lo più ancora viventi.

Ossia, ricusando dal modo asettico del raccontare dello studioso sul rito fine a se stesso staccandolo dalla componente affettivo-psicologica, analizzando nella sua struttura puramente fenomenica, ho voluto invertire il discorso. Ho voluto riportare il fatto rituale nel suo complesso di varianti, descrivendolo in forma di cronaca e poi cercando di capire le coordinate che regolano il flusso rituale nell’ambito di un’elaborazione sintetica. In pratica, partendo da un episodio vero, dove anche i personaggi sono realmente vissuti, sono arrivato ad un’analisi spontanea di comparazione e di

riflessione tra rito e significato. Questo genere, che ho denominato con l’ossimoro «intuizione scientifica», trascina il lettore in una realtà vera di coinvolgimento psicologico in una commistione di suggestività e curiosità che spinge ad entrare dentro un mondo sconosciuto. L’osservatore scopre in tal modo che pure vi appartiene, al mondo zingaro, per quei valori universali che fraternizzano tutti i popoli.

Il gagiò, essendo “solo” gagiò, possiede “solo” un parametro di confronto nel rapporto con la cultura romaní ed è per questo che la sua sarà sempre una verità a metà. Al contrario il Rom, possedendo due parametri di confronto in quanto nella sua formazione ha del gagio e ha dello zingaro, può essere più fedele nel riportare la conoscenza zingara favorendo una giusta ed equilibrata mediazione tra Rom e gagé.

Ho deciso di raccontare le tradizioni rituali dei Rom in particolare quelli abruzzesi in forma narrativo-analitica anche per non dare giudizi personalmente ma per provocare un dialogo sereno e utile per entrambi le parti. Mentre un gagiò, raccontando dei Rom, in fondo dice ciò che vorrebbe sentirsi dire da loro, un Rom che parla direttamente dice di sé e basta, è una verità senza filtri, spontanea e autentica, come fosse un vero e proprio dialogo con il gagiò.

Altro elemento di cui mi sono preoccupato molto è la scrittura, mantenere cioè il valore dell’oralità della lingua zingara, il non rinunciare alle caratteristiche della tradizione orale: la discontinuità narrativa con alternanze spaziali del filo conduttore; la riproposta di concetti ribaditi più volte; il rispetto relativo delle regole strutturali della composizione scritta dove spesso la fine di una frase è composta in modo che il soggetto non sempre è all’inizio ma può essere alla fine di un periodo o non esserci per niente o essere ripreso nel secondo periodo; il tornare indietro spesso nel discorso quasi in senso pedagogico, un feed-back per ricalcare la verità, sicipé; la sensazione di avere un dialogo diretto col lettore immaginando in lui il soggetto che autorizza lo scrivente.

C’è nel modo di scrivere del Rom, in generale, una modalità comune; una sorta segmentazione ritmica della forma scritta e anche dei contenuti. Chiaramente, questo arricchisce la scrittura di vitalità, la rinvigorisce nella dinamica e le dà forza e carattere fino al punto di farla “parlare”.

Tutto ciò deriva dalla chiromanzia. È uno stile ricco di improvvisazioni, di invenzioni, proprio

perché è frutto delle pulsioni interiori che un Rom sa ascoltare fino in fondo.

La contraddizione, “intuizione scientifica”, anche se in un primo momento può essere rigettato quale assioma di netto contrasto, in realtà rappresenta l’incontro ottimale fra l’istinto e la

ragione. L’istinto, che da una parte muove dalla capacità innata di porre in relazione le acquisizioni del proprio bagaglio genetico lungo la storia delle vicissitudini umane; dall’altra la ragione che si pone come centro di “elaborazione dati” in stretto collegamento con la morale, altro elemento senza del quale non potrebbe aver luogo la ragione; sono funzioni che agiscono, si integrano, in grado di tradurre gli impulsi più profondi in metafore ammaglianti. L’obiettivo è sempre quello di provocare spiazzamento nell’individuo attraverso la “comunicazione articolata”.Lo zingaro, per sua natura (il nomadismo) e per sua cultura (l’oralità) è più abituato all’ascolto; sviluppa notevoli capacità d’interiorizzazione mnemonica, ne consegue che l’intuito, figlio dell’istinto, è più attivo e quindi rappresenta la fonte d’ispirazione della ragione. Per tali motivi ho scelto un metodo basato molto sull’intuizione, l’oggetto del discorso è in fondo un’autoanalisi, un fare riferimento a se stessi, alla propria esperienza e ai “confini” del proprio habitat. Si trattava di sondare l’humus culturale, nel quale vivo ed agisco, nella vita comunitaria, quale espressione viva di una minoranza etnica. Liberamente ho evitato di consultare una bibliografia in modo diretto, in quanto libri specifici sui riti dei Rom non ne conosco e nemmeno mi risulta che ci siano, soprattutto di autori zingari; allora ho preferito, per non rischiare di ripetere il già detto di acuni scritti banali, affidarmi completamente all’ascolto della mia coscienza e all’osservazione dei contesti rituali. Mi sono calato nella ricerca vera, sul territorio, materiale che per mia fortuna è alla portata di mano. Nella regione Abruzzo, dove vivo, è presente il gruppo zingaro più antico, insediato nella penisola già alla fine del 1300, tramanda la sua tradizione in termini di lingua e cultura nei centri di maggiore concentramento: Pescara, Isernia, Avezzano, Sulmona, Teramo. Non per ultimo ho ascoltato e registrato la voce degli anziani, che sono delle vere e proprie biblioteche viventi.Studiando il comportamento di uno dei gruppi più diffusi del mondo, i Rom Abruzzesi, si delinea il profilo socio-antropologico di fondo di tutti gli zingari della terra.

A tutto questo si somma, ovviamente, l’esperienza esterna ai Rom, cioè la scuola, il percorso completo di studi fino all’Università, quindi l’acqisizione degli strumenti d’indagine, di comparazione, nonchè l’essere accanto a movimenti di cultura zingara.

Il contatto frequente con la cultura scientifica, sia essa universitaria che di movimento zingaro, ha determinato in me la formazione e la volontà di dare un contributo chiarendo aspetti poco conosciuti alla società. Finché il Rom vive sempre e solo nel suo ambiente, non ha motivo di far conoscere la sua cultura agli altri, la vive e basta. È quando esce e si incontra con l’altra che sorge il conflitto nello scontro dei differenti parametri; allora egli è

costretto a reagire. Infatti sono quelli più esposti al confronto esterno che costituiscono la materia prima della rivoluzione culturale romaní; si vedano i leaders della “Romani Union”. Primo responsabile del confronto è il luogo della scuola, dove avviene l’acculturazione, è proprio in questo momento che la madre cultura si sveglia e reagisce al tentativo “d’adozione” imposta da un’altra madre, più egocentrica e superba, che riafferma il proprio predominio e la legittimità di vera genitrice.

IL PERCHÉ DI UN ACCOMPAGNAMENTO FIGURATIVO

Se il metodo che ho scelto esigeva una visione più ravvicinata, possibilmente reale attraverso una testimonianza diretta e immediata della mia adesione nel coinvolgimento del rito, mi è parso naturale esprimermi anche da un punto di vista artistico, arricchendo il materiale. Si rafforzava in tal modo quanto detto sui riti. Appare il contributo di una visione diretta e reale del linguaggio visivo dell’arte, in forma ironica e stilizzata, come scienza a sé affiancata non meno efficace. Anzi personalmente penso che i disegni inseriti in questo libro da soli potrebbero sostituire tante parole dette, se tutti fossero capaci di interpretare i significati di questo complesso linguaggio dei segni, quale è l’arte figurativa.

Disegni che non vogliono essere semplici illustrazioni, momenti cioè esplicativo-didascalici di concetti già elaborati secondo l’uso della scrittura, ma sono l’espressione di un atto profondo di

“ inconscio realismo”. Nel disegno, che rientra nel mio naturale mezzo di

comunicazione espressiva, vi è la medesima operazione intellettuale, vale a dire un metodo intuitivo e scientifico allo stesso tempo. È là dove estetica e ragione coesistono.

Nel momento in cui analizzo un cerimoniale o un particolare di esso con lo strumento della scrittura, contemporaneamente ho la visione, netta e nitida, di quello che sta accadendo e, senza perdere tempo, blocco la scena anche con la forma, mescolando le immagini che salgono dalla mia coscienza.

Questi agglomerati semantici, sistemati nell’ordine della mia scelta, in verità sono più pittorici che grafici per poter rendere al meglio il frammento di realtà che mi prefiggo di cogliere. Sono flash, in cui il disordine caotico delle linee e dei segni, spezzati con l’impeto dell’immediatezza, si alternano in spazi ottenuti dal diluirsi della china in morbide o violente velature. Spazi che non hanno niente a che vedere con quello fisico, riducibile alla rappresentazione oggettiva, ma evocano l’identificazione mentale del soggetto in cui la sensazione più densa dell’esserci si mescola alla tragedia della disgregazione. Estasi dell’interpretazione.

Uno mondo soggettivo dunque, costruito sui frammenti di una visione ravvicinata, basata sull’impalcatura essenziale: luce, ombra, segno. L’immagine è così depurata dal superfluo, ridotta al nocciolo dei suoi particolari più importanti e ingrandita in modo da ricostituire uno spazio a sé stante sui presupposti di un’immaginazione condizionatamente “reale”. Per reale intendo, in questo caso, essere più vicino al fatto “raccontato”, cioè al rito.

Un rito però che non sia la fotografia dell’insieme, ma abbia nei suoi elementi essenziali una selezione: focalizzare cioè solo i momenti salienti che rappresentano simbolicamente i cardini della liturgia rituale.

L’azione magica, misteriosa, l’atto sacro.

È un imput che dirige, stimola lo stato evocativo verso un’immagine più definita e definitiva nella mente del “partecipante visivo”. La realtà non è ciò che è definito, ma è qualcosa di mutevole, che cambia incessantemente, per cui della realtà si può contenere solo una porzione.

In ogni caso il linguaggio visivo, accanto a quello della scrittura avente lo stesso scopo, cioè quello di far calare il lettore nella realtà di un mondo che non si esaurisce solo nell’essere raccontato, vive più intensamente più di quanto non ci sforziamo di rappresentarlo in vani e insufficienti mezzi umani. In ogni caso resta pur sempre un metodo indubbiamente efficace perchè integrato, in quanto tende a modellare tale mondo sulle orme di una “scultura a tutto tondo”.

In conclusione, mi sembra l’approccio più consono per poter restituire la fragranza di un fatto avvenuto dove l’argomento centrale è affrontato sia sul piano razionale, sia sul piano emotivo; non poteva essere diversamente in quanto i Rom vanno compresi secondo due prospettive, con la ragione e col cuore.

Ricusando da residui culturali illuministici, quest’analisi dei riti intende essere un viaggio tra e nel mondo dei Rom, non un racconto su di essi, ma si vuole offrire un pezzo di vita partecipata, sentita.

Purtroppo molte ricerche danno ancora giudizi moralistici su questa cultura, dove i parametri e l’ecosistema interni sono completamente differenti da quelli dei gagé. È come andare in Africa tra alcune tribù dove la donna è iniziata da appositi guerrieri prima di sposarsi e giudicare tali comportamenti immorali e maschilistici. Le culture sono interessanti proprio perchè presentano diversificazioni comportamentali e quanto più diverso è il loro modo di vedere le cose e il mondo, quanto più ci possono dare insegnamenti e arricchirci di altri punti di vista.

Le analisi, tratte dagli episodi raccontati, sono anch’esse delle autoriflessioni immediate, di getto, senza rimuginarvi tanto sopra e comunque disponibili a contestazione o critica nel momento in cui un Rom sostiene il contrario. Ogni zingaro può riflettere nel rito l’immagine della propria esistenza e quindi quanto più diversa, poiché parlare di ciò vuol dire aprirsi nell’intimità.

Ho l’impressione che lo zingaro molto “studiato” stia diventando in questi ultimi tempi non più il soggetto sociale ma l’oggetto-fenomeno, la cavia di laboratorio, su cui scatenare la “libido scientifica” di scomporre e ricomporre l’individuo in piccole particelle fisiche ricucite a mo’ di Frankenstein; si studia perfino come i Rom vanno al bagno. Tutta questa etnologia accanita, secondo me, è il segnale inconscio di una rimonta di razzismo molto sottile, intellettuale.

Perché se è vero che questi studi hanno l’obiettivo di far conoscere il popolo dei Rom, allora non si capisce come mai non si promuova una espressione diretta dall’interno nella valorizzazione di detta cultura. Come mai non ha fine l’opera dei “filtri” culturali che continua una violenta analisi dello spazio psicologico di chi non ha mai chiesto tutto questo? L’istinto di superiorità culturale della società egemone, quella occidentale, si manifesta proprio nell’azione analitica peculiare dell’etnia sul piano puramente oggettuale senza considerare l’Uomo al centro di tali studi. Si finisce così col difendere un occidentalismo radicato che non accetta il confronto con le culture minoritarie nello scambio, spontaneo e naturale dell’espressività reciproca. In altre parole c’è la tendenza a scavalcare il soggetto sostituendosi ad esso e a rispondere ad un’analisi, tautologica e pseudoscientifica, strumentalizzando spesso i Rom a vantaggio dell’autopromozione. La conferma è che non mi risulta esserci rapporto di amicizia vera e disinteressata tra Rom e studiosi; ammesso che questo sia possibile, è il segno fallimentare di un tentativo di scambio umano attraverso il mezzo “scientifico”. Senza fratellanza non può esserci l’abbattimento del razzismo, essa dovrebbe essere lo spirito iniziale e il fine di tali studi. Naturalmente esistono anche degli studiosi amici dei Rom che superano l’atteggiamento di superiorità stabilendo un rapporto di cooperazione nella reciproca conoscenza.

IL RITO: COMPORTAMENTI CULTUALI

Appurato che recuperare i valori rituali vuol dire ridare senso ai gesti quotidiani alla riconquista dei significati assopiti da un’incessante opera di logorìo consumistico, occorre recuperare nell’uomo moderno un’identità capace di ritrovare in tutti i suoi

comportamenti ancora il “piacere”. Si tratta infatti di risentire stupore, emozione ed entusiasmo in una vita ormai “insciapita” e resa amorfa dalla routine meccanicistica dove tutto è già descritto, già fatto, già spiegato nel foglio delle “istruzioni per l’uso”, togliendo il gusto della scoperta e della soggettività.

Il rito nasce con l’uomo, dal momento in cui prende coscienza del proprio essere al mondo, quando cioè scopre il sacro nel mistero dell’universo. È a questo punto che l’uomo cerca di dare significati alle cose più importanti del suo percorso terreno, fissa dei punti immaginari di riferimento, come in una meridiana, scagliando porzioni di esistenza, definendo il luogo, lo spazio e il tempo attorno a sé, dà un senso “architettonico” alla propria vita. Celebra l’io nella collettività e stabilisce i confini tra la ragione e l’ignoto riconoscendo valori terreni e valori trascendentali, così blocca la certezza del vivere in tre tempi fondamentali: la nascita, l’unione e la morte. Dinanzi a queste fasi dell’esistenza egli non può che riconoscere due dimensioni, la vita e la morte, in cui si genera l’eterno conflitto dell’essere terreno e dell’essere spirituale, su tali basi costruisce la sua cultura, la sua storia. Tre miracoli della vita davanti ai quali ogni individuo della terra si è commosso, ha elevato una fervida immaginazione nel tracciare rappresentazioni di ogni genere ma comuni nella sostanza e nei contenuti. Si è emozionato davanti alla vita dove si è visto rinascere, commosso di fronte all’unione dell’uomo e della donna, in cui ha visto il trionfo dell’amore eterno che genera la vita, e infine la morte nella quale sprofondare disperatamente fino all’annullamento di sé ritrovando l’esatta dimensione per poter rinascere a nuova vita.

Inoltre nel rito abbiamo la consacrazione di ogni gesto e comportamento della quotidianità, in cui tutto appare non scontato ma frutto di fatica umana. Un Rom davanti alla morte ritorna povero, si spoglia di tutto quanto è superfluo, nudo con sé stesso, la tragedia lo assale, ma vede quel momento necessario un equilibrio riesaminando i suoi passi. Vede nel corpo morto il mistero della vita, la prova tangibile di quanto è dura l’esistenza e di quanto egli è piccolo nel mondo, svela il segreto dell’eternità nella translazione dimensionale.

L’uomo morto è più vivo di prima perché divenuto puro spirito in un mondo che pullula di anime in un mondo ultraterreno ma non celeste in quanto tutto si svolge su questa terra. Tali anime sono angeli custodi che possono intervenire nei momenti difficili accanto ai vivi aiutandoli nella guida del consiglio. Con il lutto si manifesta l’espiazione dei propri peccati terreni attraverso il rifiuto di ogni piacere carnale e materiale; si trascura il proprio corpo incolto e in completa astinenza. È così che la vita si riaffronta con più saggezza e più sapienza.

Anche se i Rom nel mondo sono divisi in gruppi distinti per cultura e tradizione, la lingua conserva un fondo comune, ed anche i riti rappresentano un filo rosso di congiunzione sulla base dei medesimi sentimenti spirituali e culturali. Parlando infatti con altri zingari appartenenti al gruppo dei Sinti, per esempio, notavo un’apparente contraddizione di fronte al problema della roulotte e cosa fare circa la casa del morto. Loro sostenevano di bruciare tali oggetti subito dopo il decesso del proprietario; queste affermazioni in effetti contrastavano con l’usanza dei Rom abruzzesi che invece “santificano” per così dire tutto ciò che rimane del defunto. E allora come conciliare tesi così lontane fra di loro?

Più approfonditamente scoprivo invece che non bruciano la roulotte in tutti i casi, ma solo quando avveniva una morte violenta cioè una morte “impura”. In questo modo tutto ritornava al suo posto, tutti i Rom nei casi di morte non naturale compiono la stessa azione, si disfano di tutto quanto apparteneva al morto, poiché si pensa che egli ritorni sul luogo della disgrazia o sui posti abituali in forma di spirito, u mulo mardò, il morto ammazzato, a terrorizzare i vivi. Questo perché il morto impuro è condannato a riapparire spaventando le persone per un tempo necessario all’espiazione delle colpe che lo hanno condotto alla tragica fine. È segno anche che ha bisogno di preghiere per poter essere aiutato nella purificazione, quindi i parenti pregano e fanno opera di carità perché egli si purifichi.

Parlando ancora di un Rom Rudari venivo a conoscenza di una loro antica usanza sul battesimo, il rito consisteva nel taglio delle unghie e dei capelli seguito poi da una grande festa. Tale cerimonia mi faceva riflettere sulla teoria dei valori universali, in cui tutti i riti si ricongiungono negli elementi fondamentali: il bambino nasce sempre impuro ed è compito della comunità purificarlo secondo il rito di iniziazione alla vita. I simboli di impurità sono rappresentati dalle estremità del corpo, i capelli e le unghie. Sul piano simbolico questi elementi si identificano con i connotati degli animali, quindi gli zoccoli e le corna, si pensi al diavolo o all’indiavolato che è sempre immaginato con tali attributi. Simbolicamente l’acqua purificatrice lava il peccato originale, la “bestialità”, e il taglio delle unghie esorcizza ugualmente da tale stadio “animalesco”.

Ancora oggi le romnià abruzzesi adoperano i cornetti d’oro o di corallo nell’uso della chiromanzia, essi hanno il potere di scacciare il male che minaccia sempre d’incombere sugli uomini. Hanno un potere protopotaico. In molte culture si ritrova il potere esorcizzante delle corna, siano esse intere che ridotte in polvere. Sul piano dell’elaborazione simbolica sconfiggere il male significa usare l’oggetto medesimo del male, come succede con il veleno attraverso l’antidoto. Anche se non ce ne accorgiamo, nel mondo moderno certi elementi tribali continuano a sopravvivere con tutta

la loro forza di archetipi, condizionando comportamenti a volte anche incomprensibili.

Come ripeto il fatto è che abbiamo perso ogni memoria con le radici e quindi con i contenuti delle tradizioni, agiamo inconsapevolmente. Ad esempio l’elemento dell’impuro lo ritroviamo nell’adulterio, ossia chi tradisce è considerato cornuto egli stesso; le corna simboleggiano un tradimento profondo. Impuro non è solo chi tradisce ma anche chi ne è vittima, esiste una contaminazione.

Nei matrimoni la festa del pranzo con molti invitati in fondo sta ad indicare un coro, un consenso comunitario alla nuova famiglia che si forma nella partecipazione alla società.

L’oro tra tutti i Rom è segno di purezza e portatore di azione benefica sia al corpo che allo spirito, la sua luce innata combatte gli spiriti maligni che sempre incombono su di noi.

L’oro assume anche valore estetico, tutto quello che è bello è puro, il bello è sacro e un corno d’oro è il segreto, l’antidoto contro il male. In tutte le culture l’estetica è sempre percepita come catarsi, aspirazione dell’uomo verso la dimensione della perfezione, della massima purezza mentale e spirituale.

Tutta la vita di un Rom è tracciata da questa ossessiva ricerca di verità sull’onorevolezza, saggezza e purezza, cioè pativ, la più alta carica onorifica. Si tratta di uno stadio che in genere si raggiunge solo con l’avanzare degli anni, quando cioè tutte le esperienze umane sono state attraversate.

È una ricerca spiritualistica che si contrappone al materialismo dei gagè e che genera spesso un accesso esistenziale, l’intimismo orientale contro il razionalismo occidentale.

I riti principali della nascita, dell’unione e della morte ruotano tutti intorno ad un asse portante, la kris. Questa garantisce un collegamento in quanto sede dei codici di comportamento che controlla e autentica ogni forma d’espressione rituale e sociale nel gruppo, definisce il modo di essere dello zingaro.

Essa si può immaginare graficamente come una ruota, essendo a struttura ciclica. Al centro abbiamo un fulcro, la kris, e alle estremità i punti equidistanti, tre momenti essenziali: battesimo, matrimonio e funerale. Questo meccanismo aziona un dinamismo centripeto, dinamico e perpetuo dove i riti, ripetendosi ciclicamente attorno al punto fermo del centro, si caricano di energia enfatica e aumenta la forza d’inerzia. È come fosse un motore alimentato da una forza interna che dà origine ad un moto perpetuo. Tale teoria può essere ammissibile sul piano dell’immaginazione, poiché potrebbe spiegare anche il concetto del tempo e la visione del mondo dei Rom disegnando ancora uno schema circolare. Infatti il tempo non è concepito come concetto astratto, infinito o relativo,

ma è un elemento concreto, reale della natura che scandisce i momenti cardini della vita, quelli cioè rituali. Quindi è un qualcosa di misurabile che racchiude la stessa esistenza, al di fuori di questa c’è il nulla. La stessa visione del mondo, che ne consegue, è altrettanto circoscritta attorno a sé nelle cose tangibili, nella materia addomesticabile, nei fenomeni spiegabili dai misteri della natura, è un mondo benigno a cui affidarsi e viverlo pienamente, dove è compresa anche la dimensione surreale.

Come si può notare tutto avviene e si compie dentro un proprio mondo, forse uno spazio maturato nel tempo dalla singolare collocazione sociale e spaziale, forse da un nomadismo e dalla difesa dall’assimilazione, da una cultura d’origine e da contatti con altre, comunque denota una prospettiva “rotonda”, che confina con la società esterna circoscrivendo il limite del proprio essere e divenire Rom.

Anche la speculazione mentale si dirige all’interno, nell’intimismo e nella elegiaca contemplazione del silenzio che parla del profondo e dello spirituale, una riflessione espressamente soggettiva di massima concentrazione, che trova il suo punto massimo nel contatto con l’aldilà, il mondo dei morti. È una filosofia che affonda le radici nella storia delle popolazioni primitive, in cui i valori tribali traggono origine dall’esperienza umana più antica e più profonda della genesi del mondo. Il tempo non è ripartito convenzionalmente tra passato, presente e futuro, ma è sintetizzato in un solo tempo, il presente come l’evolversi del divenire. Si può immaginare un “adesso” dinamicamente mutevole e imprevedibile, conscio del passato ma non vincolato ad esso; il futuro è rappresentato dalla paura di un domani non certo e quindi rimosso e relegato nel fatidico destino. L’unico punto realmente fermo nella vita di un Rom è il momento che sta trascorrendo, dove sono concentrati i tre tempi fondamentali, la memoria, l’agire e il progetto. È un momento intriso di passato dove i morti sono sempre presenti nella loro rievocazione perenne, il programmare per il domani diventa inutile poiché non esiste come concetto del dopo ma è insito nell’istante che prevede già quello che sarà il domani stesso.

È come dire un vissuto costante che non scopre imprevisti perché è già tutto visto, in quanto è esclusa la paura del domani; è un atteggiamento difensivo e diffidente nei confronti della realtà affrontata nella sua imprevedibilità. Ecco perché è difficile programmare con i Rom: loro al momento dicono sempre sì ad ogni iniziativa senza portarla, molto probabilmente, mai a termine, ma è già idealizzata nel momento in cui se ne parla, se ne discute animatamente, si trova così un pretesto per stare insieme socievolmente, confrontarsi nella parola e nell’intelligenza, per cui

la “cosa” è superata dal rapporto umano interpersonale, momento in cui il domani non ha più senso.

Il progetto si realizza, invece, all’istante mentre accade, affrontando di volta in volta i problemi che cadono sotto il cammino, inteso come continua invenzione e sperimentazione dell’esperienza del fare.

IL NON-LUOGO DEI ROM

Nell’affrontare il tema rituale dei Rom, ampio universo che va al di là delle mie descrizioni e analisi, non ho potuto fare a meno di cercare di concepire uno spazio contestuale in cui collocare i momenti celebrativi. Ebbene questi spazi si possono ricercare necessariamente nel rapporto dualistico e conflittuale del dilemma Rom-gagiò. È assurdo insistere, come è nell’opinione pubblica, concepire tale comunità all’interno di una sola dimensione lontana dalla società, nel tempo e nel luogo; al contrario è l’esempio d’interazione culturale più all’avanguardia che sia mai esistita. Semmai è da considerare lo scambio, che è avvenuto nella lingua, negli usi, nei costumi, nella religione e nei riti; più un “compromesso sociale” per la sopravvivenza della minoranza zingara, che va favore della società maggioritaria. In altre parole la presenza romaní ha sempre interagito con “l’esterno”, di cultura in cultura, come un’ape che di fiore in fiore ha succhiato il nettare ma ha anche impollinato lasciando, dietro, un po’ di sé.

Anche l’ape ,quindi, alla fine della giornata ritorna al proprio alveare per depositare il miele, frutto del meglio dei fiori.

Spero che la metafora sia stata compresa.Ora, la cultura zingara custodisce quel “miele prezioso” che la

società deve ancora scoprire per nutrirsene a sua volta. Il luogo dei Rom è un “non luogo”, essi sono dappertutto, pur

avendo un “alveare” ben preciso, invisibile agli altri, ma così reale ed esistente che ha permesso la loro sopravvivenza fino ad oggi senza fuggire, rimanendo dentro la società, nonostante la lunga e triste storia di persecuzioni.

Quest’alveare supera il luogo, il tempo e lo spazio che sono puramente immaginari, fondato sul comune senso d’appartenenza e sul comune senso di martirio nella disgrazia di essere nati Rom e di aver sofferto tutti insieme nelle più terribili pene inflitte dalla società, il comune senso di fratellanza si associa così alla comune sofferenza e questo non può che riaffermare l’identità di un popolo ancora più saldamente.

Nei riti è avvenuto uno scambio di valori proprio nel contesto-contenitore celebrativo che è la religione, dove anche gli elementi di maggiore simbolismo come la croce o la chiesa stessa sono stati

assimilati dentro una morfologia linguistica che ha interpretato i valori adattandoli al proprio spiritualismo e contemporaneamente ha assunto anche una parte ideologica. Un esempio di questo genere di scambio, maggiormente conosciuto, è il termine tru-shul (letteralmente tre denti) per indicare la croce cristiana, ma che all’origine indiana voleva significare il tridente del dio hindu Shiva; il termine Khangherì , per indicare la chiesa, in origine era un prestito del persiano per significare torre; anche l’adorazione profonda della Madonna, Devlesc-dai, madre della misericordia, non è altro che una traslazione religiosa della dea Kalì, madre della natura che i Rom tutt’oggi riconoscono soprattutto nelle Madonne nere come la Madonna di Loreto in Italia, la Vergine Maria in Polonia e così via.

Il “non-luogo” dei Rom è perciò l’utopia del luogo, cioè il concetto più reale ed ottimale del considerare lo spazio non come momento di identificazione attraverso il proprio ambiente circostante, che rassicura e orienta, come fanno i sedentari, ma è solo un “posto” transitorio non definitivo che permette l’incontro con l’altro, creando una modalità d’identificazione che sconfina in una pluralità di spazi, tutti relazionati tra di loro dall’elemento di continuità rappresentato dall’onnipresenza dei Rom tra i non-Rom.

In altre parole nel mondo è il posto dei Rom.Là dove c’è l’individuo che accoglie, è possibile fermarsi,

sostare, negoziare con lui per poi ripartire senza allacciare legami vincolanti, dunque lo spazio dei Rom è lo spazio di tutti, quello dell’uomo; egli può essere ovunque perché non è il luogo che lo trattiene ma la fraternità e, pur non possedendo formalmente un luogo, in realtà è padrone di tutti i luoghi dove sceglie di andare in quanto, di passaggio, ne gode fino in fondo. Infatti nella traduzione in lingua romaní non esiste il vocabolo luogo ma piuttosto than, dove sostare temporaneamente. Lo zingaro può essere dappertutto e non farsi riconoscere, se decide di non rivelarsi; sa mimetizzarsi al momento opportuno per sfuggire al gagiò “predatore” e riapparire quando egli non è preda. È isolato e solitario nella strategia del saper vivere da nomade ma riunirsi a ricostituire comunità al primo segnale “comunitario” di celebrazione d’appartenenza, il rito appunto. Questo sofisticato meccanismo di “mimesi antropologico-cultuale” dei Rom, sviluppato in linea con le leggi fondamentali della sopravvivenza della natura ha permesso la conservazione fino ad oggi di una cultura in minoranza.

L’aspetto straordinario dei riti è che in essi si possono ritrovare valori spirituali di molte religioni diverse e lontane tra di loro, tutte condensate in un contenitore di matrice indiana per cui il rito può apparire a volte pagano-primitivo, a volte cristiano cattolico o ortodosso e a volte induista. Sono tutti prestiti religiosi che attestano un valore spirituale universale grazie ancora al lungo

peregrinare tra le genti di cui hanno fatto propri elementi particolari. Anche il rito quindi presenta, come per la lingua, un mosaico multicromatico e catalizzatore di varie espressioni umane attorno ad una propria radice originaria. Ha selezionato dal superfluo delle religioni durante il lungo viaggio l’essenza di fondo, il valore della vita e della morte.

1. IL BATTESIMO

“U Pro-bankó kerél li ciavé kristiàn”(Piede-storto rende cristiani i suoi figli)

IL MOMENTO OPPORTUNO PER IL BATTESIMO

Pro-bankó si trova ormai sul punto di non poter rimandare più, è arrivata l’ora di decidersi, oltre tre figli non è più possibile aspettare, bisogna farsi coraggio e affrontare il grande momento, il battesimo.

Pro-bankó è un povero Rom e, come tale, cerca di far pesare il meno possibile sul proprio bilancio familiare la gravosa spesa della grande festa. Ed ecco perciò che il battesimo si può rinviare, tanto alla fine lo si farà per tutti e tre i figli assieme, come del resto quasi tutti i Rom fanno, non è uno scandalo.

Però i figli crescono, diventano grandi, e allora che fare? Il terzo ha quasi tre anni, il secondo ne ha quattro e il primo ha appena compiuto cinque anni; non è possibile rinviare ancora, c’è un limite anche a questo, non si può portare davanti all’altare dei giovanotti. Anche la moglie, Cià-tarnì (Giovane-ragazza) negli ultimi tempi gli si era messa alle orecchie, diceva che non avrebbe aspettato più per il battesimo e che, soprattutto, non sarebbe stata disposta ad attendere il quarto figlio per fare la festa, questo oltrepasserebbe ogni limite, i Rom comincerebbero davvero a criticarli.

Insomma non ci si può più tirare indietro, occorre affrontare la grande spesa e fare le cose nel modo giusto e nei momenti giusti.

Cià-tarnì è una donna moderna, vive il suo tempo, non vuole fare come i propri genitori, che magari hanno aspettato il giorno del loro matrimonio in chiesa per potersi battezzare. Allora erano altri tempi, lo facevano quasi tutti, anche perché il prete non permetteva, ovviamente, la celebrazione del matrimonio se prima non c’era stato il sacramento del battesimo; in quei tempi pochi erano i Rom che si regolarizzavano davanti alle istituzioni, erano marito e moglie secondo le proprie usante, come lo era il “battesimo”. La nascita di un figlio veniva celebrata semplicemente attraverso una festa, senza il consenso della Chiesa.

Si vede che nel passato era più vivo il senso del nomadismo, il quale si scontrava con le esigenze anagrafiche anche dopo che i Rom cominciavano a fermarsi nelle città stabilmente. Poi col passare del tempo anche la vita sedentaria induceva alla tendenza di mettersi in regola con la società, perdendo così parte della propria autonomia rituale. Ancora oggi si può assistere ad episodi, in cui una coppia anziana si sposa in chiesa e contemporaneamente

si battezza. Quello che spinge a fare ciò è sempre lo stesso motivo, sistemare la propria posizione anagrafica e spirituale allo stesso tempo.

Negli ultimi tempi, ricevere i sacramenti è diventata, ormai, una regola rispettata da tutti i Rom sedentari. Quindi Cià-tarnì ha ragione a premere su questo punto, il battesimo non è più rimandabile, la sua richiesta è legittima, rispecchia il normale iter di tutti i Rom della comunità. Ma come in tutte le cose ci sono le eccezioni, in questo caso sono esclusi dalla norma coloro che mantengono condizioni privilegiate, vale a dire i ricchi e i grandi nuclei familiari. I ricchi, perché, non avendo problemi economici, possono battezzare quando e come vogliono, e la famiglia grande perché alla festa dell’ultimo figlio vi è la partecipazione finanziaria anche dei fratelli maggiori.

A Pro-bankó e Cià-tarnì, che non sono né ricchi né una grande famiglia, tocca seguire la norma sociale comune, cioè quella più lunga e faticosa.

Prima cosa da fare è scegliere il padrino e la madrina, u Kirivò ta i Kirivì, ed è già un dramma, poiché tale scelta implica un meccanismo assai complesso da mettere in moto e, al tempo stesso, occorre fare molta attenzione a nominare i compari. Ci si rende conto che essi rappresentano delle figure al di sopra di ogni sospetto da un punto di vista morale e sociale, con i quali avere un rapporto di estrema fiducia e di profondo rispetto.

NORME COMPORTAMENTALI DEI COMPARI: UN PATTO VINCOLANTE CHE PUÒ SCIOGLIERSI DA UN MOMENTO ALL’ALTRO

I compari di battesimo sono nominati anche per assicurare al bambino un controllo costante nel tempo di tipo etico e comportamentale seguendo una particolare forma di “affidamento onorario”, in cui i padrini si rendono responsabili della sana crescita e buona condotta dell’individuo a loro “consegnato”.

I compari possono intervenire sul loro figlioccio, Kirivurò, anche quando diventa adulto e nel delicato momento del matrimonio; infatti hanno potere decisionale o, comunque, molto condizionante ad esempio nella scelta del partner.

Alla morte dei genitori essi potrebbero assumere una presenza sostitutiva nei confronti del figlioccio, se nessuno dei parenti stretti, cioè lo zio o la zia, si fa avanti per l’adozione. È compito dei padrini quello di essere sempre presenti in occasioni di difficoltà da parte della famiglia, a cui si è legati da simile vincolo, il “comparato”.

Per essere nella perfetta educazione, con il massimo rispetto, al Kirivò ci si rivolge sempre dando la seconda persona plurale, cioè il voi, si usa dire tu raibbé, sua signoria, proprio perché sono stati

scelti come emblema e tutori dell’ordine e della morale del proprio figlio. Non è dato, assolutamente, di mentire di fronte ai compari, altrimenti si avrà sicuramente una disgrazia in famiglia, oppure una paralisi facciale, u mu bankò, la faccia storta. Inoltre al Kirivò non si chiede mai di pronunciare u xalsuvél, cioè il giuramento in chiesa davanti all’altare nel caso di accusa di furto o di infamia nei confronti della propria famiglia. Egli è, come dire, intoccabile, sacro, inaccusabile e inattaccabile. Nelle liti e nei conflitti con gli altri Rom il compare va sempre difeso, in ogni caso, salvo se ha chiaramente torto, allora la posizione deve mantenersi neutra nei suoi confronti; affinché tutto si chiarisca, è bene tenersi fuori, se non si vuole rischiare la rottura del comparato che verrebbe a crearsi per motivi interni al gruppo. Ossia se il gruppo assiste alla difesa ingiusta del compare, che ha torto, da parte del suo padrino, pubblicamente, avviene che il gruppo pone dei dubbi sulla dignità morale del detto difensore, screditandolo ufficialmente dell’onore che ricopre. Di conseguenza, un compare screditato davanti a tutti perde i diritti e i doveri nei confronti del proprio figlioccio, per cui finisce con la rottura del comparato come patto rituale.

Il compare è dunque sacro e intoccabile e questo vale anche per quanto riguarda eventuali matrimoni o meglio proposte di far sposare due giovani delle rispettive famiglie di comparato. È infatti vietato allacciare rapporti di sangue tra le famiglie dei compari; se ciò avvenisse, sarebbe subito sciolto il patto rituale. Il motivo sarebbe di tradimento, perché verrebbe meno la completa fiducia, che rimane, in fondo, la base di tale improfanabile patto.

Detto questo, si capisce quanto sia comprensibile la preoccupazione dei coniugi, protagonisti della nostra storia, nella scelta dei padrini.

L’IMPORTANZA DELL’ANZIANO NELLA SCELTA DEI COMPARI, LI KIRIVÉ

Cià-tarnì non sa veramente da dove cominciare, non ha idea di chi potrebbero essere le persone giuste per i suoi figli, quindi si reca dalla persona più anziana, che può anche essere sua madre o sua nonna, per farsi dare qualche consiglio su una così delicata scelta da fare.

Codesta anziana ha la facoltà di proporre alcuni nomi di persone che, secondo lei, sulla base della propria esperienza e del suo ruolo di donna dignitosa, Romnì patvalì, possono essere prese in considerazione per una eventuale scelta. Pro-bankó aspetta a casa la risposta della moglie, alla quale lascia ogni delega per quanto concerne la ricerca di una famiglia degna di ricevere tanto onore.

I compari, li kirivé, per essere designati, devono possedere doti morali di alta purezza, poi di prestigio sociale e di buona educazione. A volte li kirivé possono essere parenti molto stretti, fratelli o sorelle, ma in questo caso il comparato non assume valore sociale e culturale; è un modo per aggirare il “problema della scelta”, rifugiandosi nella sicurezza della propria famiglia. Il fatto di uscire dalla propria comunità di appartenenza per incontrare nuove realtà, a dire il vero, in questi ultimi tempi è sempre più motivo di timore e di disagio. Si tende a rimanere al sicuro all’interno dei propri “confini”.

Cià-tarnì a questo punto ricorda di una giovane coppia conosciuta in un’altra festa di battesimo in una città non molto lontana dalla sua. Quel giorno si trovava nella folla degli invitati e non sapeva dove andare a prendere posto da sedere, così era capitata proprio di fronte a quei due giovani appena sposati. Ne nasceva immediatamente una reciproca simpatia: Cià-tarnì e Pro-bankó non smisero mai di parlare con loro, saldando sempre più un’amicizia nata casualmente.

Quando tutto questo viene raccontato alla nonna, Cià-tarnì si rende conto che quella coppia non solo ha tutte le carte in regola per essere scelta come compari, ma appartiene anche ad una famiglia molto corretta. Cià-tarnì propone subito al marito di invitarli a casa loro, come si usa fare, per un banchetto onorevole; vuole subito estendere l’invio ufficiale al tavolo cerimoniale, attorno al quale, oltre a gustare tutte le bontà offerte dalla padrona di casa, si prendono anche accordi per quanto riguarda l’organizzazione della festa di battesimo; ogni consenso è simbolizzato da un brindisi.

Si può dire che è già iniziato il cerimoniale; infatti al tavolo si aggiungono gli altri membri della famiglia di ambedue le parti, a capotavola gli anziani. Questi ultimi fungono da testimoni dell’evento infondendo solennità e importanza attraverso la loro presenza intrisa di sapienza, di saggezza, di austerità e di storia. I primi ad essere serviti sono sempre loro, gli anziani, che spesso sono attorniati dai nipoti, piccoli e grandi; ci si rivolge a loro con il massimo garbo, con cura, in modo quasi servile, si usa chiamarli zio e zia anche se non c’è nessuna parentela con essi. L’anziano, u purò, è la luce della famiglia: i suoi consigli, la sua parola, la sua figura così altera nello spirito sono di sicuro conforto, danno certezza ai giovani specialmente nei momenti difficili, nelle scelte e nel comportamento. U purò può essere un amico e un giudice allo stesso tempo, può aiutarti ma può anche giudicarti e quindi condannarti, perché egli possiede il privilegio della sapienza, il pane dell’esperienza. Per questi poteri i vecchi sono sempre presenti nelle occasioni cerimoniali, con tutto il loro carisma sacerdotale, essi sono considerati dei veri e propri dei, intoccabili,

sono coloro che detengono la deontologia etica, i punti fermi del passato, sono l’incarnazione dell’archetipo, a cui fare riferimento. Senza di loro niente è confermato. Guai a chi osa profanarli mancando loro di rispetto, sarà biasimato da tutti, perderà la propria patìv, sarà un disgraziato per tutta la vita, non avrà fortuna e gli toccherà la stessa sorte del vecchio offeso. Non a caso la kris, il tribunale romanò, è quasi sempre costituito da anziani, ovviamente solo da coloro che non hanno mai avuto “ombre” durante la loro vita e hanno percorso più strade degli altri.

Durante la cena-festa i futuri compari mantengono un atteggiamento di massima correttezza; estrema cura del proprio corpo, nel vestire, nel modo di muoversi e soprattutto nell’evitare, nei dialoghi, pettegolezzi o bassezze intellettuali: bisogna mostrarsi all’altezza dell’evento.

VALENZA DEL BALLO NELLA FESTA

Ad un certo momento della serata si apre anche uno spazio musicale introducendo il ballo. Oltre che arricchire e colorare con enfasi il patto che si sta stringendo, il ballo produce una dinamica rituale d’interiorizzazione: è proprio un consenso fisico espresso attraverso il ritmo cui partecipa tutto quando il corpo. È qui che avviene il momento dello scambio e quindi della fusione tra le famiglie, è qui che si trova il punto più intimo e più complice, dove si alternano i rispettivi partners nel coinvolgimento ritmico del ballo. È un sentimento che rappresenta in forma visibile lo stabilirsi di un legame affettivo-sociale. Pro-bankó invita a ballare la comare e Cià-tarnì il compare, tutti gli altri assistono e applaudono all’apertura delle danze, subito dopo si aggiungono a loro gli altri ospiti.

Nel frattempo i tre figliocci non fanno altro che essere ricoperti di attenzioni e di coccole da parte dei padrini, i quali li tengono vicino a sé o sulle ginocchia per tutta la serata, parlando loro di continuo. I bambini hanno così la sensazione di avere dei genitori speciali oltre ai propri e iniziano già da allora a nutrire affetto e simpatia, ma anche curiosità verso questi individui così premurosi e super-affettuosi nei loro confronti. Solo più tardi comprenderanno il significato simbolico, che si nasconde dietro queste figure, capiranno che sono dei sostegni morali e spirituali del loro avvenire.

Conclusa la festa in casa di Pro-bankó, ci si prepara per una seconda festa, questa volta in casa dei compari. A distanza di pochi giorni si ripete più o meno lo stesso clima festoso a riconferma di ciò che si è detto e già fatto in primo luogo. C’è da dire che chi riceve il battesimo per i propri figli è in posizione leggermente

subalterna di chi “battezza”, per cui deve più rispetto e più attenzione verso l’altro, quasi in segno di gratitudine. Pro-bankó e Cià-tarnì, consci della loro posizione, preparano un bel regalo da portare alla seconda festa e lo offrono appena entrano in casa dei compari. È ovvio che assieme a loro partecipa tutta la famiglia, da parte però solo del capofamiglia, cioè di Pro-bankó, in particolare i fratelli e le sorelle e, se sposati, le loro famiglie.

LA NASCITA TRA RITO CATTOLICO E RITO PAGANO. LA FESTA DEL BATTESIMO

A questo punto i legami sono ben saldati e confermati, tutto è pronto per fissare il giorno della grande festa ufficiale del battesimo, cui parteciperanno gli altri Rom. Fin qui si è seguito il normale iter per arrivare alla fase ultima che consente la cerimonia cristiana, ma ci sono casi anomali in cui, per esempio, il compare del bambino da battezzare non è scelto spontaneamente, ma si autoproferisce; in questo caso le modalità cambiano, l’offerta di fare il padrino non si rifiuta mai, ma si cerca di ridurre al minimo la procedura sul piano degli incontri sociali per poter arrivare al più presto al giorno della festa del battesimo, precludendo così anche le possibilità di continuità nel rapporto padrino-figlioccio. In altre parole vi è un riconoscimento parziale del rito, comunque non sufficiente per poter essere legittimato fino in fondo. Non sempre promette sviluppi nel tempo, anzi è candidato allo scioglimento.

Pro-bankó e Cià-tarnì hanno già preparato tutto per il battesimo: il rinfresco a casa, la cerimonia in chiesa e il pranzo al ristorante. Sembra tutto normale come fosse alla maniera gagì (dei non zingari), invece ancora una volta lo spirito di adattamento dei Rom prende il sopravvento, anzi continua, sopravvive malgrado tutto. È vero che il momento del battesimo è identico a quello normale, ma non è “normale” presentare tre bambini davanti al prete, inoltre la partecipazione di centinaia di invitati farebbe pensare più a un matrimonio che a un battesimo.

Prima di andare in chiesa c’è una festa precedente, quella del rinfresco in casa dei genitori dei bambini da battezzare, in cui si mangiano dolci e anche si balla. In questa sede i padrini, che arrivano la mattina presto, portano i vestiti e gli oggetti in oro, che i bambini indossano subito per essere poi portati alla festa.

C’è da ricordare un altro momento ancora precedente, quello della nascita del bambino. Alla notizia della nascita, quando la puerpera è ancora in ospedale, il padre a casa improvvisa una cena, invita i fratelli e le sorelle per allietare della notizia e, se si tratta di un maschio, allora si aggiunge anche la musica e si balla. Quando la madre esce dall’ospedale, si ripete la festa per salutare il nuovo arrivato. Come si può notare, l’evento più festeggiato è

proprio la nascita, la vita, perché ogni figlio che nasce è considerato sempre un evento straordinario, una grazia ricevuta, ed ogni volta si festeggia nuovamente alla stessa maniera, come fosse la prima volta. Un Rom con molti figli è ritenuto un uomo fortunato e potente, una specie di patriarca molto autorevole e la sua voce ha un certo peso all’interno della comunità. Al contrario un Rom senza figli non ha alcuna influenza ed è considerato una persona assai povera e debole, non porta con sé la forza del grande nucleo familiare, quella “nicchia”, cioè, capace di garantire la discendenza e la conservazione della razza zingara.

Il figlio che nasce rappresenta il proprio futuro, dunque. Con una nuova vita riappare la speranza, la vittoria, la spinta, la voglia e la volontà di continuare ad essere Rom. In fondo è come festeggiare se stessi, il proprio popolo, il pathos dell’appartenenza. Il battesimo in chiesa, visto da quest’ottica, non è altro che una riconferma ulteriore del proprio divenire, questa volta però di fronte agli altri, ai gagé, agli avversari di sempre, nel loro luogo ufficiale per eccellenza, la chiesa.

Per questo i Rom nel momento della cerimonia cattolica spesso non assistono al rito, ma escono di chiesa. Anche se Pro-bankó e Cià-tarnì si danno tanto da fare per poter battezzare i loro figli davanti all’altare, al momento però sembra che partecipino poco alla cerimonia, sembra che in fondo siano assenti col pensiero: il loro corpo è là, ma la mente è altrove. Delle centinaia di invitati solo un terzo, forse, entra in chiesa, tutti gli altri si tengono stretti fuori, come a costituire il gruppo, l’ethnos, contro un qualcosa di minaccioso ma che, allo stesso tempo, bisogna fare, un impegno anch’esso, morale e spirituale, in forma di “compromesso sociale”. Comunque, quando il prete ha finalmente concluso il rito e purificato dal peccato originale i piccoli Rom, Pro-bankó e Cià-tarnì si sentono più tranquilli, tirano un sospiro di sollievo, hanno svolto il loro dovere di genitori anche “cristianamente”.

Terminata la funzione, si esce dalla chiesa e si va di corsa al ristorante, prima però si fa un giro in città a strombazzare un poco con le automobili come fosse un corteo matrimoniale. Fuori del ristorante si sente già un certo frastuono: è la musica della band che è lì ad allietare la festa. Un tavolo al centro della sala è riservato solo ai compari e ai battezzati, intorno siedono gli altri invitati. Al cospetto della comunità si celebra l’onore dei padrini, messi in primo piano. Il pranzo è romanò; infatti alla cucina del ristorante è stata portata da Cià-tarnì anche della carne casereccia, polli ruspanti, come spesso usano fare i Rom, se vogliono fare bella figura.

Alla sera le donne si cambiano d’abito, mettono vesti riluccicanti e molto colorate apposta per ballare. Ad aprire le danze spetta sempre ai protagonisti della festa, i quali sono seguiti da

scroscianti applausi alla fine dell’esibizione. Al centro di ogni tavolo vi è sempre il buon vino a tenere compagnia e favorire, magari, la conoscenza tra coloro che non si conoscono. Un buon Rom si sente a suo agio, quando sulla tavola c’è una buona riserva di vino che facilita il dialogo.

Si balla e si beve tutta la serata fino a notte tarda. Colui che beve di meno è proprio Pro-bankó, che rimane vigile durante la festa, attento ad evitare qualche spiacevole inconveniente: qualcuno potrebbe alzare il gomito e magari dare fastidio agli altri invitati. Sicché Pro-bankó sa quando è ora di chiudere la festa e si affida ad un segnale, che spesso è efficace; si tratta di un giuramento che i Rom, una volta ubriachi, fanno quando ribadiscono un concetto poco condiviso da altri: versano cioè del vino a gocce sul pavimento, paragonandolo al proprio sangue dicendo: “È vero quello che dico, altrimenti che il mio sangue venga sparso così come è sparso questo vino”. Questo tipo di comportamento fa indivuduare che nella festa potrebbe verificarsi un inconveniente, è bene capire che bisogna smettere, concludere al più presto la festa. Quella di Pro-bankó è stata proprio una bella festa, l’indomani certamente se ne parlerà in giro.

NASCITA E MORTE: FONDAMENTO DEL PENSIERO ZINGARO. “TEORIA DEL DUALISMO”

Il battesimo e il funerale, costituiscono i momenti più importanti della vita di un Rom. La nascita e la morte essendo agli antipodi di un percorso umano rappresentano i punti cardinali dell’orientamento che guida il pensiero e quindi la filosofia di vita di tutti gli zingari del mondo. Sono i confini che delimitano il campo d’azione entro cui si svolge la disarticolata e ancora “incantata” visione del mondo Romanò.

I concetti opposti, dettati essenzialmente dal senso del principio e della fine intesi come compimento del genere fisico, costituiscono la caratteristica base dell’essere Rom, il dualismo. Da qui la concezione mitologica di puro-impuro, fondamento del doppio essere, gagiò-Rom, trova riscontro nel modo di essere, il quale non si modella sul principio dell’infinito (caratteristica del pensiero occidentale), ma su un’idea di finito (filosofia orientale). Più propriamente si tratta di una strutturazione di pensiero che, rimbalzando dal punto fermo cioè la nascita, tale condizione pone l’individuo in una sorta di mondo chiuso attorno a sé, capace di adattarlo ad una visione limitata a quanto lo circonda, dove l’ontologia diventa tautologia, cioè l’essenza morale dell’agire umano torna su sè stessa, si ripete ciclicamente come fosse un

viaggio intorno al soggetto, metafora questa di una conoscenza tipicamente nomade, che ricusa ogni forma escatologica. Tali confini intellettuali, tipici delle società migranti ed in particolare dei Rom, hanno creato nel tempo una sorta di corazza culturale, entro la quale “agenti esterni” difficilmente hanno potuto penetrare innescando quei processi di colonizzazione capaci di demolire una cultura; al contrario elementi intrusi sono stati assimilati e neutralizzati attraverso una elaborata “digestione culturale” in base al concetto dell’interpretazione. Con il termine “digestione” non si intende il fagocitare culturalmente, semmai proprio il significato intrinseco del termine: digestione uguale trasformazione, quindi interpretazione.

Ogni elemento esterno non va respinto ma va rielaborato, come la musica, l’arte, la religione, la lingua. La doppia immagine dello zingaro, dovuta alla sua particolare condizione psicologica e culturale, lo predispone ad assumere caratteri sistemici simmetrici volgendo le due facce, contemporaneamente, all’interno e all’esterno del proprio mondo, creando ancora una volta un fenomeno antitetico e dicotomico dell’essere e dell’agire allo stesso tempo. In altre parole un Rom vive contemporaneamente due dimensioni, una interna e una esterna, la propria e l’altra cultura, sicché è costretto, anche suo malgrado, ad entrare ed uscire in questi due mondi continuamente, senza per altro chiedersi il perché; lo fa naturalmente sin da quando è bambino. Questa condizione dettata in primo luogo dalla legge della sopravvivenza, ha portato ad assumere necessariamente un sistema di vita basato su una doppia modalità di agire e di essere. Pertanto il Rom ha sviluppato nel corso dei secoli una forma di adattamento sociale e culturale su un principio di bivalenza, ha dovuto imparare ad essere allo stesso tempo anche gagiò oltre che Rom, portando con sé il meglio dei due mondi. Così la liturgia risente necessariamente dei due impulsi.Sicchè lo zingaro si pone come un essere speciale, che sfugge a tutto e a tutti, poiché non rientra in nessun canone di definizione e di classificazione. La sua apparenza, così insicura e ambigua, infondo ha sempre creato malintesi e false opinioni da parte di chi vi ha letto semplicemente una certa crisi di identità, scambiando la sua ambivalenza per doppia personalità. Un Rom invece possiede una identità, che è profondamente etica prima ancora che etnica e culturale, e può dare luogo a molteplici forme, entro cui si identifica camaleonticamente e versatilmente. La forma è slegata dal contenuto.Un Rom non si riconosce da come è vestito e neanche dal rispetto verso le proprie regole degli usi e dei costumi, ma soprattutto nei sentimenti dell’essere e dell’agire, cioè nelle norme comportamentali più profonde, quelle che spesso ignora chi non è

zingaro e forse non potrà capire mai. Due Rom si riconoscono attraverso l’intuito, il sentire, il percepire, anche quando sono lontani tra di loro e appartengono a gruppi diversi tradizionalmente.

Quando personalmente partecipo a convegni internazionali, dove sia i Rom che i gagé adottano un modo comune di presentarsi, di parlare, di vestirsi, noto subito chi è zingaro, anche se è dentro i panni di un perfetto diplomatico. Questo per dire che esiste un feeling, che permette il riconoscimento reciproco fra Rom, che va al di là dei segni distintivi già codificati e che sfugge completamente agli studiosi che si occupano di loro. Tali studiosi, per lo più antropologi, etnologi e linguisti, tengono a considerare l’individuo Rom sempre nel suo habitat naturale, cioè la comunità, la famiglia e le relazioni con i suoi simili, senza considerare l’altra faccia del Rom sviluppata nel tempo, quella cioè gagì, anzi addirittura si cerca di negarla, di rimuoverla nel timore che questa possa fuorviare dalla esatta classificazione etnologica del gruppo minoritario. Questo tipo di approccio può creare a volte una situazione conflittuale due volte discriminatoria: tra i gagé che vedono i Rom come esseri primitivi, lontani, irraggiungibili, alimentando la paura dello spettro del diverso come problema di incompatibilità civile e culturale, ma soprattutto tra i Rom ai quali si infonde una falsa coscienza etnica, che tende ad allontanare, regressivamente, da un rapporto civile con la società, che invece andrebbe stimolato proprio nella valorizzazione di quell’aspetto gagiò che il Rom ha insito in lui sin dalla nascita. Le diversità sono compatibili inquanto sono alimentate dalle somiglianze. Proprio questo ha permesso la sopravvivenza come popolo attraverso un compromesso così leale umanamente civile quale l’aver assimilato anche una parte della cultura altra.

Non a caso pure nella cerimonia del battesimo spesso i padrini sono scelti fra i gagé; questo perché onora ambedue le parti in una logica di interessi diversi ma comuni nel reciproco rispetto, ossia al di là del valore economico e di prestigio sociale. In questi casi “anomali”, ma non infrequenti in quando sono sempre esistiti, si nasconde in forma simbolica e psicologica un esempio di armistizio esemplare in cui le due parti si scambiano messaggi di accoglienza e scoprono allo stesso tempo elementi e valori comuni e complementari.

ROM E GAGÉ, DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

Sia il gagiò che il Rom scoprono che in fondo non sono altro che due facce della stessa medaglia, l’uno compensa l’altro, l’uno ha bisogno dell’altro, poiché il Rom è quello che manca al gagiò e altrettanto lo è il gagiò per il Rom.

Nel battesimo Rom-gagiò si celebra “abusivamente” una congiunzione negata nella società, un intimo e latente legame che malgrado tutto ha tenuto attaccati i due diversi individui da sentimenti contrapposti ma proprio per questo alternativi fra di loro. Lui, il gagiò, quando sogna l’evasione dalla realtà, cioè dalla rete degli schemi e delle regole sociali, sentendosi derubato dalla voglia di manifestarsi e di compiersi pienamente, sogna la figura dello zingaro come mito di libertà, di catarsi, entro cui si identifica cavalcando la gioia di infrangere i divieti e di respirare a piani polmoni il vento della libertà. Questo trasognante mito nasce storicamente nel Romanticismo e si incarna nel personaggio del bohémien, il quale è allo stesso tempo demoniaco, trasgressivo, ma anche diabolicamente affascinante e l’arte, quale sorgente di vita, si veste proprio di tali panni per presentarsi al mondo, rinnovata.

Se da una parte, sotto sotto, il gagiò sogna di essere Rom, dall’altra, in cuor suo, anche il Rom sogna di essere un gagiò. Se il gagiò sogna la fuga dalla “realtà”, lo zingaro sogna di entrarvi dentro, di vivere nella realtà legale a lui sempre negata con tutta la repressione accumulata da tanta esclusione. Anche se nessuno mai lo amerebbe, né un gagiò, né tanto meno un Rom, e tanto meno voi che state leggendo, nel sogno si sono sempre incontrati e desiderati fino al punto da emularsi a vicenda, connotandosi però solo nelle sembianze e non nel coraggio di esternare tali ambizioni nella realtà. Vi è da una parte l’ethos che condanna e dall’altra un pathos che avvicina. Una cosa è certa, che da entrambe le parti emerge con chiarezza la carenza di elementi umani, che le culture cercano di colmare attraverso un contatto onirico o comunque latente, dove la razionalità continua ad esercitare censura e inibizione.

Il meno frustrato in questa situazione è senz’altro il Rom, che riesce per forza di cose a colmare di più il vuoto, assumendo nella sua personalità anche un carattere gagiò, l’altra faccia, appunto, della medaglia. Sono due estremi opposti che però si incontrano sempre e non al di fuori ma al di dentro di se stessi: uno rappresenta la coscienza e l’altro l’incoscienza, la razionalità e la spontaneità, il conscio e l’inconscio, la realtà e il sogno, il lecito e l’illecito, il tabù e la trasgressione. Una raffigurazione del doppio che in senso psicologico e simbolico può andare anche oltre investendo la natura stessa del mondo: giorno e notte, maschio e femmina, sole e luna, gioia e dolore, bianco e nero, dentro e fuori, il respiro, ecc. fino al punto di confermare l’entità ontologica riconoscendo i suoi elementi costitutivi essenziali, le due parti opposte. Così, la vita esiste perché c’è la morte, il giorno esiste perché c’è la notte, l’amore esiste perché c’è l’odio, il maschio esiste perché c’è la femmina, la luce esiste perché ci sono le tenebre e così lo zingaro esiste perché c’è il gagiò. Il giorno in cui

non ci saranno più i Rom, significherà che la società non avrà più ragione di sognare, sarà “sana”.

Nella storia dell’arte molti sono gli esempi di dualità che gli artisti hanno evidenziato nel rapporto società-Rom. Nella pittura l’immagine dello zingaro non è solo sublimata in forma simbolica e mitologica sia nell’età classica del Rinascimento che in quella moderna, ma è servita a proiettare su di essa atteggiamenti di pensiero antitetico e spesso rivoluzionario rispetto alla società stessa. Per cui quando l’artista condannava alcuni principi o idee imposti dai poteri della società, evidenziava l’immagine del mitico “trasgressore” e reagiva liberamente manifestando così il proprio dissenso o contestazione contro quell’editto o quell’altro bando punitivo verso i Rom. Ancora l’artista, attraverso l’uso dell’immagine dello zingaro, denunciava fatti negativi anche in seno alle problematiche religiose; è il caso di Pieter Brügel nella celebre opera “La predica di San Giovanni” del ‘500.

Evidentemente la vita di un Rom si svolge tutta su un principio di bidimensionalità, dentro e fuori, nella propria cultura e fuori in un’altra cultura; un mondo in verità, quello dei Rom, chiuso alla società ma aperto allo stesso tempo al baratto necessario sul piano della sopravvivenza. Da un punto di vista psicologico, questo essere Rom e gagiò insieme, ha prodotto secondo me anche una terza personalità, quella che a tutt’oggi non si conosce bene, ma che anima la figura dello zingaro e lo rende inafferrabile, in incasellabile, in omologabile, indefinibile. È ciò che appare ma non è, ciò che si sente ma non è palpabile, cioè che dà affidabilità ma che sfugge, insomma un saper essere più che essere, un valore d’esperienza del vissuto insuperabile, quello che potremmo definire un quid in più che rende l’individuo dotato di un settimo senso. Una certa intuizione non comune agli altri, una capacità di sentire che va al di là del normale, quasi una sorta di radar incorporato che permette al Rom, per esempio, di orientarsi senza saper leggere, di prevedere l’arrivo di una persona da lontano semplicemente provando un certo formicolio al naso, di leggere il carattere di una persona basandosi solo sul suo volto, sulla sua espressione, sul palmo della mano e difficilmente sbaglia, un carisma capace di ipnotizzare a volte e di veder chiaro all’interno di una persona, paradigma della chiaroveggenza. Lo zingaro conosce l’uomo più di ogni altro, ha la proprietà di cogliere i segni del linguaggio del corpo che stanno dietro le parole, dietro i discorsi anche i più complessi, l’atteggiamento cioè positivo o negativo del soggetto parlante. Egli è in grado di distinguere il parlato dal parlante, il vero dal falso, l’uomo che parla con sentimento da quello che non sente quello che dice e che quindi usa parole svuotate di contenuto.

Se il battesimo da una parte conserva il valore del sacramento fondamentale grazie al suo potere purificante in grado di redimere

l’individuo da uno stato di animalità, questo secondo il pensiero zingaro, dall’altra parte figura come un compromesso sociale indispensabile per l’inserimento, avallato dalla cultura cristiana e dalla vita quotidiana esterna, seguendo ancora una volta una doppia mobilità rituale. Non esiste una cerimonia veramente e solamente zingara che io sappia, ma è sempre imparentata, impastata con altre culture, poiché lo zingaro in fondo altro non è che il risultato di un crogiuolo di culture, dinamicamente assemblate fra loro su un’asse portante di tradizione indiana. È come un grande albero innestato con diversi “rami” culturali, dove i frutti sono variegati e accomunati allo stesso tempo dalla medesima linfa. Una linfa vivida, che ancora scorre nell’individuo Rom, lo anima e lo guida nel mondo, così che attraversa culture di passaggio senza indebolirsi, anzi ne esce sempre più forte; sembra quasi che si nutra di queste e abbia sviluppato potenti anticorpi per difendersi dall’assimilazione. Agisce come un fantasma, un’entità astratta che non si vede ma che esiste in forma di puro spirito potente, che muove dalle anime precedenti e si somma alle altre progressivamente con la morte, riemerge poi più vigoroso con la nascita e si celebra con il battesimo. Ogni bambino che nasce è nuovamente sinonimo di rivincita contro un passato segnato da una ininterrotta e inesorabile opera di repressione adottata da tutti contro i Rom. Questa è una realtà radicata nella coscienza di ogni zingaro, consciamente o inconsciamente, ognuno sente l’ostilità intorno a sé, stretto come in una morsa che preme di continuo ogni giorno minacciando di schiacciare una gente considerata da lungo tempo maledetta solo perché non ha mai voluto essere cancellata come popolo. Contro ogni genere di genocidio culturale subìto durante duemila anni di nomadismo, la nascita che testimonia la verità di un diritto alla vita, sacro e inviolabile, non può che essere celebrata con tutta l’enfasi e l’orgoglio possibile per continuare ad essere e a vivere ancora da Rom, cioè da Uomo.

1. IL MATRIMONIO

U prandv tar u Kalò(Lo sposalizio di Kalò)

LE PRIME CONOSCENZE TRA I RAGAZZI E LE FAMIGLIE: U PRICIRDIPÉ

Kalò ha già diciassette anni compiuti, è un uomo, murš, quindi è giunto il momento di ammogliarlo; ha bisogno di una giuvél, di una donna, per dargli dei figli e per inserirlo nel mondo degli adulti. In questo momento tutti parlano di una bella ragazza, Laklí, a Pescara, una ciai laccì (una buona ragazza), molto ambita dai cciavé tarné (ragazzi giovani), perché possiede molte buone qualità: è patvalì, takarnì, cioranì (vergine, bella e brava a guadagnare). La ragazza vergine porterà amore e fortuna nella casa dove andrà a sistemarsi, e anche rinnovata dignità là dove non ce ne dovesse essere, insomma una rigenerazione. Di buona famiglia, la ragazza è molto corteggiata da diverse parti della regione; è colei che riceve più buccivibbé (serenate) di tutte le altre donne.

Lei, rifiutando i pretendenti, aumenta sempre più il suo prestigio, la sua posizione e la patìv della propria famiglia. Ma, questa voltà però, a chiedere la sua mano è Kalò, un bel giovane di Isernia, di ottima famiglia. Kalò sembra avere tutte le carte in regola per bussare anch’esso alla porta della tanto ricercata Laklí.

La famiglia del ragazzo aveva conosciuto Laklí ad una festa e subito era piaciuta tanto. Kalò non aveva esitato un momento a lanciarle sguardi dolci e appassionati, esprimendo così il suo amore spontaneo e immediato. Infatti lo sguardo è il solo modo per comunicare tra i ragazzi Rom, visto che è severamente proibito parlarsi e, tanto meno, frequentarsi.

Quella sera alla festa non c’era stato nemmeno bisognoso della ruffiana, di solito una donna anziana che si presta a persuadere la ragazza verso il corteggiatore. Anche Kalò era piaciuto subito a Laklí; infatti i loro sguardi si incrociavano spesso.

La famiglia del ragazzo a questo punto dovrebbe iniziare quello che di solito si fa per stabilire le reali qualità della ragazza attraverso ricerche e informazioni direttamente sul posto, ma la nomea e la fama di Laklí è tale da risultare davvero superfluo il cercare conferme sulla sua purezza.

LA SERENATA E IL FIDANZAMENTO: U BUCCIVIBBÉ

Si deve semmai iniziare subito con i preparativi per il grande buccivibbé (serenata) alla famiglia della ragazza.

Certo è una gran fatica organizzare il rituale, che costa un gran sacrificio di denaro, ma purtroppo la ragazza ha fatto sapere che di fuga non se ne parla nemmeno per risparmiare i soldi della serenata e che non lascerà la propria famiglia, se prima non verrà onorata con tutti i rituali della festa di matrimonio. La ragazza è veramente patvalì, quindi non resta che cominciare.

Intanto si contatta un’orchestrina che dovrà suonare per molte ore e poi si parte con la famiglia e i parenti verso la nottata più lunga, che li terrà in ansia per ore e ore fino al mattino; sarà una notte sì di fatica e di scombussolamento, ma anche di musiche e di danze. Da Isernia, alle prime ombre della sera, parte, in silenziosa complicità, un corteo di automobili con destinazione Pescara, verso la casa della futura sposa di Kalò.

Laklí sà già dell’arrivo di Kalò per farle la serenata e difficilmente prenderà sonno quella sera; terrà le persiane delle finestre ben serrate per indicare che lei è la prescelta.

Giunti sul posto la casa della ragazza è ormai assediata da automobili e da musicisti, iniziando subito a suonare appassionate melodie sotto la sua finestra. Le suonate devono essere tre per la casa della sposa e di numero inferiore, a seconda del grado di parentela, per le case degli altri nuclei familiari.

Le tre suonate segnalano la scelta della sposa ambita e si ripetono durante la notte fino all’alba per tre volte di seguito.

La notte è lunga da trascorrere in macchina in questo modo, quindi si cerca di renderla meno scomoda creando una specie di piccola festa ambulante, ove i partecipanti si dispongono in cerchio intorno all’orchestrina. All’interno del cerchio si improvvisa una piccola festa: si balla e si banchetta ogni volta che ci si ferma sotto una casa per suonare.

Quando manca poco al mattino, si conclude il giro delle serenata e ci si riposa un poco prima di affrontare il grande giorno propiziatorio. Qualche ora di riposo in macchina e poi, ai primi raggi del sole, di nuovo pronti a tirar fuori dalle auto i migliori vestiti per essere in perfetta forma. Lo sposo specialmente deve essere il più bello.

Nel frattempo si prepara il ricevimento presso un locale, che spesso è il bar più grazioso della città. Si prepara il rinfresco, ma anche un pranzo vero e proprio, pronto in cucina; solo che quest’ultimo sarà tirato fuori al momento opportuno. Certo, la spesa che ha dovuto affrontare la famiglia dello sposo è enorme; si spera solo che tutto vada bene, poiché basterebbe un semplice non assenso da parte del padre della sposa per mandare tutto all’aria.

Nel locale del rinfresco viene data la risposta ufficiale del genitore della sposa alla richiesta di fidanzamento e di matrimonio.

Un no significherebbe una sconfitta profonda per la famiglia dello sposo, che riporterebbe, oltre alla perdita delle spese, anche la mortificazione e l’umiliazione di fronte a tutti.

L’essere rifiutato pubblicamente per Kalò, tra l’altro, significherebbe porre dei dubbi sulla sua integrità etica e fisica tali da precludergli altre possibilità di matrimonio. Infatti spesso al primo rifiuto ne seguono altri, cosicché il ragazzo è costretto, alla fine, a rapire una ragazza pur di sposarsi.

Il luogo del ricevimento, in questo senso, è sentito come momento di confronto intenso fra le due famiglie. Nel caso di esito negativo diventerebbero nemiche per sempre.

Tornando a Kalò, tutto è pronto e a posto; bisogna soltanto attendere che i genitori della ragazza arrivino al bar. In questi momenti di attesa c’è tutta l’ansia possibile, ogni ora di ritardo non è certo da interpretare come segno positivo, anzi potrebbe essere il segnale che la famiglia della ragazza non si presenterà affatto al rinfresco, provocando così un’offesa vera e propria. Un tale atteggiamento, a dire il vero molto raro, metterebbe la posizione del ragazzo di fronte a pettegolezzi di ogni genere.

In alcuni casi il ritardo della famiglia si può attribuire a motivi interni di tipo decisionale, magari la non unanimità di accordo verso la scelta definitiva. Allora si mandano ambasciatori per cercare di convincere la famiglia che quel ragazzo ha tutte le carte in regola per presentarsi. Quindi invitano la famiglia della ragazza ad accettare di venire al rinfresco per una dichiarazione pubblica. Un sì o un no.

Nel caso che la famiglia della sposa sia contraria al fidanzamento con tale ragazzo, la strategia del convincimento attraverso gli ambasciatori è indispensabile, perché rappresenta l’ultima carta da giocare. Questi ambasciatori, che sono Rom Potvalé (uomini d’onore) soprattutto per le loro qualità di dignità, di stima e di saggezza, hanno il compito di sciogliere eventuali ombre gettate sulla natura morale del giovane candidato. Essi garantiscono, sotto la propria responsabilità, l’autenticità dei valori di purezza e onorevolezza del ragazzo e della sua famiglia, quindi in qualche modo garantiscono anche la riuscita del matrimonio.

Se l’opera di convincimento, data dall’intervento dei Rom patvalé, non riuscisse a portare la famiglia della sposa nel luogo del ricevimento per dichiararsi ufficialmente, non resta altro che ritornarsene sconfitti a casa propria.

Di norma succede che la famiglia della ragazza ambita rispetta la parola degli ambasciatori e accetta almeno l’invito ad apparire al ricevimento al cospetto del genitore del ragazzo e pronunciarsi dicendo: “Non ho figlia da maritare”. Oppure in tono offensivo: “Mia figlia non è per tuo figlio”.

Se invece si tratta di un caso positivo, come per Kalò che ha fortuna, il rituale si svolge in tutt’altra maniera.

La famiglia della sposa si reca nel luogo del ricevimento spontaneamente, senza aiuto di ambasciatori, e il padre della ragazza accetta il rinfresco brindando con l’altro genitore. Dice: “Sono onorato della vostra ambizione”.

Questa frase e soprattutto l’aver brindato con i genitori del ragazzo vuol significare un consenso decisivo alle tanto sospirate nozze. Il padre della ragazza, dunque, esprime la sua gratitudine per l’onore ricevuto, dialoga con i familiari del ragazzo per fissare il giorno del matrimonio, che può avvenire anche a distanza di qualche anno.

Il sì del padre acconsente alla celebrazione del rito del fidanzamento con un atto simbolico, abbraccia il ragazzo il quale infila l’anello d’oro sul dito della ragazza e da quel momento inizia il legame vincolante per tutta la vita. Immediatamente si apre una festa, dove si banchetta e si balla per tutto il giorno fino a notte inoltrata. La ragazza può considerarsi burì, cioè promessa sposa; verrà presa a ballare da tutti i cognati come segno di approvazione e di accoglienza nella nuova famiglia. Essa sarà considerata come un’altra figlia e contribuirà a ingrandire la famiglia. Durante il periodo di fidanzamento le due famiglie si incontrano spesso, si frequentano, si conoscono e così allargano anche nuovi rapporti sociali.

I due promessi sposi però devono tenersi sempre a debita distanza: non devono parlarsi, possono solo guardarsi e tutt’al più ballare insieme; devono cioè mantenere una buonissima condotta morale, promettendo l’essere degni per il rito di celebrazione. La sposa deve mantenersi vergine. Questo vuol dire anche praticare un’astinenza sessuale necessaria come prova di amore e quindi di fedeltà tra i due ragazzi. Rappresenta anche la prova del rispetto nei confronti delle famiglie, che hanno risposto in loro fiducia e stima.

In questo periodo di conoscenza può accadere di tutto proprio per il suo carattere di prova. Per esempio il fidanzamento può essere interrotto e ritirate tutte le promesse fatte, se qualche cosa di grave dovesse saltar fuori sul conto del ragazzo o della sua famiglia, oppure della ragazza stessa. Dopo tutto al ricevimento si è data solo una parola, u lav, appunto, che può essere “rimangiata, ritirata” in ogni momento, se ne sopraggiungessero i motivi. La ragazza, essendo ancora pura, illibata, ha diritto di avere altri pretendenti.

Nel periodo di fidanzamento si può perfino assistere ad una fuga da parte della ragazza con un altro corteggiatore, scegliendolo come suo sposo a dispetto del fidanzato, che magari non le piace più. In tal caso la famiglia della ragazza si troverebbe in torto e ne

pagherebbe le conseguenze attraverso il risarcimento in denaro alla famiglia del fidanzato. A volte la somma viene condivisa anche dalla famiglia del ragazzo che ha deviato le attenzioni della fidanzata, provocando la rottura del fidanzamento ufficiale.

In casi anomali o poco chiari a stabilire la verità sarà sempre una sorta di tribunale interno, chiamato kris, che deciderà il da farsi in ogni dettaglio.

A volte succede che nel periodo di fidanzamento i promessi sposti mettano in pratica il matrimonio di fuga, cioè trasgrediscono gli accordi del fidanzamento e scappano via insieme per qualche giorno. Quindi ritornano nelle rispettive famiglie già marito e moglie dopo aver consumato l’atto sessuale. La famiglia di lei, umiliata e offesa, si riscatta da tale vergogna quando gli sposi ritornano per farsi perdonare. Il padre o il fratello maggiore della ragazza dà uno schiaffo simbolico al ragazzo nel mezzo della festa, che comunque si prepara per riaccogliere la ragazza divenuta ormai sposa.

Una seconda festa celebrativa del matrimonio ha luogo quando le due famiglie si riuniscono per una pace ufficiale ed è lì che si procede al rituale di gruppo vero e proprio verso il matrimonio.

Il periodo di fidanzamento, come si è potuto capire, è davvero molto delicato e rischioso; per questo si cerca spesso di ridurre il più possibile tale periodo, fissando a più breve termine il giorno delle nozze.

Sono pochi i casi, in cui si arriva al matrimonio mantenendo la parola data al momento del fidanzamento. Il motivo, per cui più frequentemente si viene meno, è di tipo economico. Cioè si tende a scegliere la strada della fuga, perché il normale matrimonio costa troppo e le famiglie, di solito, non possono permetterselo.

IL MATRIMONIO: U XULSIVIBBÉ

Se tutto procede per il verso giusto, cioè senza che si verifichi alcun intralcio nel periodo del fidanzamento, si arriva al matrimonio vero e proprio con tutte le regole richieste e dovute. Poniamo ad esempio che per il protagonista della nostra storia di matrimonio, Kalò, sia andato tutto positivamente e che il tempo di conoscenza e di prova del fidanzamento sia andato a buon fine. Allora per Kalò arriva il tempo di abbracciare e finalmente sposare la sua Laklí tanto attesa e desiderata.

Si cerca quindi un locale, un ristorante ben ampio per accogliere le centinaia di invitati, che devono partecipare alla festa del matrimonio. Poi si provvede a trovare un’orchestra di bravi musicisti per i balli di tutta la serata.

Apparentemente non si notano riti caratteristici durante quel giorno; non sono evidenti cioè forme tradizionali di tipo folcloristico, tutto è celato dietro comportamenti comuni. Esistono però dei valori inconfondibili nei comportamenti di ciascun individuo. Apparentemente il matrimonio dei Rom abruzzesi sembra molto simile a quello italiano, ma in fondo non lo è, si tratta solo di un adattamento dei propri riti nella forma convenzionale, ma non nella sostanza.

Per esempio, al mattino, dopo il ricevimento tenuto in casa dello sposo o della sposa, si va in chiesa a celebrare il matrimonio secondo il rito cattolico, si tratta di una formalità necessaria, un qualcosa che bisogna fare per riconfermare sia l’appartenenza religiosa e sia la convivenza con la società ospitante. Qualche volta, per esigenze burocratiche, si fa anche il rito civile in Comune.

Di solito i membri della festa non entrano in chiesa per assistere al rito; preferiscono rimanere fuori, stringendosi in gruppo a parlottare tra di loro. Di fatto il matrimonio viene riconosciuto al di fuori della chiesa, nella festa che attende al ristorante, dove si consuma il cibo assieme e si danza intorno agli sposi con assenso di gruppo. Il luogo della chiesa riceve in verità un rito già consumato e lo si ricelebra dandovi maggiore vigore e incisività attraverso l’aggiunta di altri valori. Ma, allora, si tratta di un matrimonio sacro o pagano?

Non è facile rispondere a questa spontanea domanda. Forse lo è in entrambi i modi, cioè diventa un’occasione più unica che rara di un esempio di vera comunione tra sentimenti religiosi profondamente diversi fra loro. I Rom scelgono di andare a celebrare il matrimonio in chiesa anche per accrescere ed enfatizzare l’evento. Per i Rom il vero legame, che legittima il vincolo tra due individui, è l’atto carnale prima e la festa poi. L’unione di sangue è sentita come fusione di esseri in un’unica scelta di vita, la famiglia, e la festa come ingresso e adesione al gruppo, che riconosce e battezza l’evento; tutto ciò che avviene al di fuori funge da indispensabile cornice.

Nei costumi non risultano caratteristiche particolari. La sposa veste di bianco, se va in chiesa, mentre veste normalmente, cioè col proprio costume piuttosto variopinto, se fa a meno del rito cattolico. In alcune città, come Isernia e Pescara ad esempio, le ragazze non maritate quel giorno vestono di bianco come la sposa. È simbolo di purezza sessuale.

Quando il matrimonio non prevede il momento del rito cattolico, cosa che succede sempre meno fra i Rom abruzzesi, si passa direttamente dal rinfresco al ristorante per iniziare con il banchetto e i balli.

Il momento senza dubbio più saliente della festa è il ballo, dove si possono rintracciare dei caratteri tradizionali. La sposa viene

invitata a ballare in ordine gerarchico, iniziando dal suocero, poi dai cognati, dai cugini in primo grado e infine dalle cognate e dalla suocera. Questo è il segno che la sposa è accettata dall’intera famiglia. Lo sposo balla con lei tutta la serata, ma non la può né baciare né stringere.

I partecipanti offrono come regalo di nozze quasi sempre oggetti d’oro, che non sono però acquistati, ma sono quelli che indossano personalmente disegnati apposta e che hanno un valore affettivo. Il regalo in questo modo ha più significato, porta più fortuna e prestigio sociale.

LA PROVA DEL LENZUOLO: U PARNÒ LULÒ

Le sorelle dello sposo alla sera, dopo la festa, preparano il letto nuziale, mettendo il famoso lenzuolo di prova, u parnò. Il lenzuolo bianchissimo ha lo scopo di raccogliere i segni della verginità e sarà mostrato, in seguito, come prova d’onore indiscutibile, data la macchia rossa di sangue.

Se disgraziatamente la sposa non supera la prova del lenzuolo, per lei sono veramente dei guai seri. Innanzi tutto verrebbe cacciata subito e rimandata dai suoi genitori con la richiesta di risarcimento per tutte le spese del matrimonio, come ricompensa del disonore subito. In questo caso i genitori di lei, dopo aver controllato il lenzuolo, si attengono alle regole consequenziali. La ragazza ne esce profondamente umiliata e disonorata, senza più possibilità di scelta, e costretta a sposare un vedovo o un gagiò.

Se invece tutto è a posto con la prova del lenzuolo, allora la sposa rimane a vivere con la famiglia dei suoceri, poi con la propria, una volta avuti dei figli.

Anche se la nuova famiglia si stacca dalla grande, costituendo una cellula, un nucleo a sé, persiste un legame interfamiliare che li terrà sempre uniti fino a che quest’ultima non avrà maturato anch’essa altri nuclei familiari. Una comunità familiare è infatti costituita dal nucleo originario più gli altri direttamente originati; per cui vi è la famiglia dei genitori, che ha potere sulle famiglie dei propri figli maschi finché questi non producono a lor volta altre famiglie attraverso i loro figli, costituendo altre comunità familiari. La società zingara è formata da nuclei che si sdoppiano in innumerevoli satelliti i quali ruotano attorno alle famiglie d’origine.

Per il protagonista della nostra storia del matrimonio romanò, Kalò, fortunatamente tutto è andato bene. Con sua moglie Laklí vive felice aspettando il suo primo figlio. Così anche Kalò avrà voce in capitolo tra i murš baré (uomini adulti) del gruppo comunitario e potrà aspirare anche ad entrare a far parte dei Rom patvalé, per fare eventualmente anch’egli da ambasciatore.

Fra i Rom, in genere, ogni rito o evento importante viene testimoniato e reso autentico solo col consenso della comunità tutta, che partecipa in maniera corale e intimistica, infondendo valore sociale e culturale. Un matrimonio con pochi invitati non è sufficientemente convalidato, “ratificato” e non viene accettato nella comunità legittimamente. Ecco perché il matrimonio fra Rom deve essere popolato da quante più persone possibile; infatti l’invito viene esteso al singolo capofamiglia con facoltà che questi possa a sua volta invitare altri suoi parenti senza limiti di numero.

Il matrimonio romanò è un grande evento che si pone anche come momento di unione o di riunione in cui si celebra la perpetuazione della propria razza contro le avversità e aggressività sociali esterne.

3. IL FUNERALE

Muló Bašinó(È morto Bašinó)

LA MORTE DI BAŠINÓ E LA DIFFUSIONE DELLA NOTIZIA: U MIRRIBBÉ TAR U BAŠINÓ

È morto il povero Pasquale detto Bašinó (gallo), e la notizia si diffonde rapidamente; in un battibaleno si mette in moto una rete di comunicazione che, a mo’ di passa-parola, muove tutti i Rom interessati verso la conoscenza del grande e importante fatto. Niente altro scorre così veloce, nessun altro evento è più serio da richiamare l’attenzione senza concedere esitazioni o distrazioni di sorta: bisogna informare gli altri, più altri possibile a correre al più presto sul luogo della sventura.

E il morto è lì, immobile, senza respiro, sul freddo letto della camera, il corpo giace bloccato, il suo viso è teso nell’ultima espressione, ti guarda fisso. Tutt’intorno ci sono persone disperate, davanti i parenti più stretti e dietro tutti gli altri. Fuori, intanto, si continua a cercare, a provare, attraverso ogni mezzo, anche il telefono, di rintracciare gente, altri Rom; tutti devono essere informati della notizia, anche se molti sono in giro per altre città.

Ma non basta, anche i gagé devono sapere, ovviamente quelli che erano amici del defunto; tutti insomma devono sapere, devono fermarsi un po’ dal correre: un uomo è morto. Per questo fatto vale la pena di cessare ogni attività, di lasciare perdere ogni cosa e correre a recare conforto, a sorreggere, anche se per poco, quel morale sconvolto della famiglia colpita da così terribile disgrazia. Alcuni Rom, addirittura, fanno da corrieri pur di assicurare l’arrivo della notizia là dove non è possibile coni normali mezzi di comunicazione.

Bašinó è morto, ora tutti lo sanno.

Era un uomo patvaló, un uomo d’onore, rispettoso, dignitoso, amante della pace e della famiglia. Era padre di ben otto figli.

Un male brutto, un tumore, lo aveva aggredito là nei polmoni, proprio nella respirazione dove aleggia u gij tar u ginó, l’anima dell’uomo. Ormai era ridotto all’osso, il suo corpo pesava come quello di un bambino di dieci anni; in quell’ospedale, dove era entrato per una banale influenza, in quel letto, poi, c’era rimasto fino alla fine senza più rialzarsi.

Fumava troppo, sì, dicevano i medici, ma in fondo Bašinó non aveva rivelato loro la verità della sua vita passata nella miseria sin da quando era piccolo; delle notti d’inverno trascorse sotto la

tenda, dormendo su giacigli di paglia, dell’andare in giro scalzo a chiedere l’elemosina, delle paure inflitte dalla polizia durante le cacciate in piena notte. Aveva vissuto gran parte della sua vita da nomade nella sofferenza e nelle mille difficoltà di una vita dura e precaria.

Ora, che iniziava ad essere sedentario, quindi ad avere anch’egli una casa in cui vivere più umanamente, l’amaro destino gli aveva teso un tragico agguato. Ad appena quarant’anni la sua vita lo lasciava, lo abbandonava senza pietà, gli sfuggiva, lo strappava dalla famiglia che adesso doveva affrontare la dura e difficile vita da zingari.

Bašinó era un uomo stimatissimo in vita, poi la sua morte, così improvvisa e semplice, lo aveva lasciato puro; la sua è una buona morte, lacció miribé dicono i vecchi, e questo accresce l’affluenza dei Rom accompagnandolo per l’ultima volta verso il grande e ultimo viaggio, u baró drom.

Durante il tempo trascorso in ospedale, intorno a Bašinó c’era sempre stato un andirivieni di gente a farlo sentire nella comunità come fosse a casa sua, tutti i parenti si davano da fare, così come si suole fare per un uomo degno di rispetto ed egli lo meritava fino in fondo.

Di solito nessun Rom mangia in ospedale, per cui la povera moglie, Tikinì (piccola), provvedeva a portargli da mangiare tutti i giorni da casa; così facendo gli riduceva il distacco dalla famiglia e rendeva quel luogo “impuro” più umano che mai, quindi più accettabile.

In quel giorno dell’addio, Bašinó ha voluto la sua compagna accanto a sé con la mano ben serrata fra le sue, aggrappato alla vita mentre gli sfuggiva, l’ultimo sguardo pieno di passione per quella donna che era stata per lui una ragione di vita, la sua Tikinì Gina, e così la salutava. Da quel momento la notizia correva veloce e si dilagava richiamando Rom ovunque.

LA VEGLIA AL MORTO: PASÉ U MULÒ

Dopo le ore trascorse nella sala dell’obitorio, attorniata da tanti a omaggiarlo florealmente, la salma viene portata a casa per vegliare su di essa e pregare ancora in intimità solo con i congiunti.

Anche se già nella camera ardente inizia la visita portando corone e mazzi di fiori, è alla casa del defunto che avviene la grande affluenza di persone. Qui assume valore ufficiale e tradizionale di rito vero e proprio. Il visitatore si presenta sempre con la barba lunga, si toglie il cappello, ha l’aria trasandata, l’espressione seria e solenne, entra nella casa del morto e ai suoi piedi esita con un segno di croce, poi pronuncia qualche frase

immaginando un dialogo con lui, rievoca l’avverso destino che gli ha causato il distacco dai vivi, infine lo bacia sulla fronte e sulle mani. Dopo si allontana silenziosamente raggruppandosi altri, che spesso sono fuori della casa riuniti a parlare ancora del poveretto.

Vicino alla bara invece ci sono la moglie, i figli, le nuore, i generi e i nipoti; questi ultimi possono stare vicino alla salma solo per poco.

Accanto alla moglie ci sono a sostenerla e a sorvegliarla altre donne: la disperazione è grande, è tale che, a volte, può essere perfino pericoloso, lei potrebbe tentare il suicidio con un coltello o comunque di farsi del male strappandosi i capelli o graffiandosi il viso. L’atteggiamente della disperazione è spesso plateale perciò significativo del valore caduco della vita.

La veglia del morto è fatta non solo di preghiere e contemplazioni ma di pianti e lamenti, ossia i parenti più stretti, assieme alla moglie, si raccolgono vicino al morto di un afflato di pianto continuo che sembra una nenia, un lamento sibilante. Su questo lamento corale si aggiungono poi, di volta in volta, con tono più alto, vere e proprie urla strazianti. In tale modo trascorre il tempo di veglia accanto al morto, un giorno e una notte fino all’alba.

Nella tradizione si pensa che il pianto espresso in coro aiuti il morto ad espiare i suoi peccati per prepararsi al trapasso verso l’aldilà. Quindi più si piange e più il morto si purifica e si lava delle proprie colpe grazie alle lacrime dei parenti.

Altro significato del pianto, in forma iconica, è che la compagna del defunto deve piangere per manifestare agli occhi degli altri la fedeltà e il suo incommensurabile dolore verso una persona che non potrà mai essere sostituita. Infatti alla vedova o al vedovo non è consentito di avere un altro compagno per tutta la vita; se ciò dovesse accadere, certamente si perderebbe l’onore, la patív, si trasgredirebbe al patto sacro e vincolante del matrimonio che prevede l’eterna unione. La comunità non vedrebbe mai di buon occhio una simile scelta, anche se di fatto vi è l’accettazione e la comprensione umana di coloro che scelgono di rifarsi un partner nella loro vita. Moralmente è considerato comunque un comportamento indegno. La differenza tra una donna che rimane vedova e quella che riprende marito è che quest’ultima non potrà mai essere una donna patvalí, una donna d’onore, non avrà voce in capitolo in nessuna occasione ufficiale e cerimoniale. Inoltre non potrà entrare, per esempio, in strutture autorevoli come la Kris, il tribunale dei Rom, che è composto solo da persone d’onore, né tanto meno nell’ordine degli ambasciatori, cioè dei portavoce garanti della moralità.

La donna che riprende marito, dunque, viene accettata dalla comunità, ma allo stesso tempo non ne fa più parte. Si tratta in

fondo di una regola che tende a garantire la preservazione della razza a discapito di rischiose “infiltrazioni”. Infatti i figli, che nascono da unioni non legittimate dal consenso del gruppo non vengono neanche riconosciuti nell’ambito della cerimonia del battesimo, manifestando così un netto rifiuto della comunità.

IL CONSOLO: U XABBÉ TAR U MULÓ

Durante la veglia al morto la moglie non si allontana mai dal suo posto di penitenza, neanche quando iniziano i cosiddetti “consoli”, lei rimane lì senza toccare né cibo né acqua e saltando diversi pasti.

Il consolo, u xabbé tar u muló (il cibo del morto), consiste nel preparare del cibo da consumare durante la veglia del defunto. In questo periodo la famiglia non dovrebbe mai cucinare, non ne avrebbe la forza; tanto è afflitta dal dolore che rischia anch’essa la morte per il digiuno. Quindi sono gli altri a sostenere la famiglia caduta in disgrazia, cucinando per alcuni giorni.

Mangiare in comunione nella casa del morto è un elemento talmente ricco di significati simbolici e di valori spirituali, da costituire il nucleo centrale del rito del funerale. Il consolo continua per diversi giorni anche dopo il funerale fino a che tutti i parenti più stretti dell’estinto provvedono a fare la loro parte, cioè portare del cibo. In questi giorni bisogna fare a meno della carne, si possono mangiare solo pietanze a base di pesce, preferibilmente il baccalà cucinato in molti modi.

Lo scopo principale del consolo è quello di esorcizzare la paura della morte. Il mangiare vicino alla salma rappresenta la vita che risorge sulla morte. Davanti alla tragedia del nulla, dell’ignoto, della negazione corporea, si oppone un senso contrario alla morte, la rinascita, la continuità. Durante i pasti appunto non si fanno discorsi angosciosi o tristi, ma sempre si raccontano storie allegre, positive, perché il fine non è tanto quello di alleviare il dolore dei cari, quanto di creare intorno reazione, effetto, stimolo. Si mangia e si beve anche per onorare la persona che se ne va, così, senza disperazione, e si accetta il fatto inevitabile: è un dato naturale, che fa parte della vita stessa. In alcuni gruppi di Sinti, ad esempio, oltre al banchetto del funerale si aggiunge anche la musica, improvvisando una sorta di festino dove però si fa a meno del ballo.

Il momento in cui si manifesta la tragedia, il dramma, la disperazione, è quando avviene il distacco del morto dalla propria casa, definitivamente. Anche se si considera egli come fosse ancora nella propria famiglia con tutta la sua presenza, che forse è ancora più forte in quanto è divenuto spirito, si prova tuttavia, un profondo senso di solitudine per essere rimasti sprovvisti del capofamiglia. Si

pensa che la sua anima non sia ancora pronta a lasciare il corpo e la sua casa e che continui a girare e a vegliare sui figli e sulla moglie ancora per qualche giorno. Gli animali possono avvertire tale presenza, in particolare cani, gatti e cavalli.

La sua anima può trasformarsi nelle sembianze di un animale per non farsi riconoscere e provocare paura, può trasformarsi anche in un insetto, una formica o una farfalla, se vuole, il suo corpo è lì, ma la sua anima è vagante, inizia a peregrinare per un breve periodo sulla terra fino a che espia tutte le proprie colpe, dopo di che può salire in alto assieme a tutte le altre anime.

Se la persona è deceduta per mala morte, mirribé giungaló o, muló mardó, morto ammazzato, egli deve rimanere sospeso tra cielo e terra e purgarsi dei suoi peccati anche per anni, oltre all’aiuto di tante preghiere e carità da parte dei suoi familiari.

Durante la veglia la notte è particolarmente lunga da trascorrere, sembra infinita e la paura che assale è talmente grande da riunire i veglianti in un gruppo estremamente contratto e tremante, tutti stretti, nessuno dorme.

La paura è un sentimento che si prova quando si è di fronte all’ignoto, quando la razionalità si mostra impotente in cui la fantasia si libera nella sua contorta, fervida, “mostruosa” immaginazione spesso terrorizzante.

Solo al mattino, alla luce del giorno, tutto si placa, tutto si calma, e ritorna la padronanza della ragione.

I MORTI E I SOGNI: LI MULÉ ANDRÉ LI SUNÉ

U muló, il morto, per i familiari è un essere che vede e sente tutto, potrebbe alzarsi da un momento all’altro per mangiare i vivi se essi si sono comportati male con lui durante la vita o se stanno mentendo mentre piangono e si dispongono davanti a lui in forma ipocrita.

Il morto è percepito come una entità etica, depurata dal peccato della carnalità perciò illuminato dalla verità, egli scruta e vigila sulle norme comportamentali dei vivi, dà corpo in altre parole, a quella che è la loro coscienza. Di fronte a lui si ha l’impressione di essere trasparenti, incapaci di fingere, anche se in realtà non può né più vedere né più sentire, può però penetrare leggendo dentro di noi. Ha il privilegio di essere ormai nel mondo della verità.

Anche dopo i funerali la sua presenza continua ad esercitare una forte influenza nei familiari. Attraverso le fotografie la sua immagine conserva tutta la sua potenza, il suo carisma spirituale, è una specie di totem, rappresenta un punto di riferimento fisso, diventa un essere ammonitore, che allo stesso tempo protegge.

Infatti non passa un solo giorno che i figli o la moglie non vadano a contemplare e a pregare davanti all’immagine fotografica come fosse una reliquia, comunque qualcosa di molto sacro, iconico, improfanabile, da conservare gelosamente come un simulacro.

Le persone care, una volta scomparse, rimangono presenti nella memoria dei vivi come tracce indelebili di vita, hanno capacità di interagire, intervenendo nella loro vita nei momenti cruciali, sempre però in segno positivo. I morti possono avvisare i vivi di particolari pericoli e quindi suggerire consigli su come evitarli, oppure semplicemente apparire in sogno in veste di custodi; possono richiedere preghiere se hanno bisogno di purificarsi dai peccati o la visita al cimitero in caso di dimenticanza.

I morti nel sogno

Andrè u sunó, (nel sogno) essi non parlano mai direttamente in quanto non è dato loro di pronunciarsi, ma si esprimono attraverso atti simbolici; per esempio se il morto ti bacia in sogno, vuol dire che ti è custode, ma se anche ti stringe allora vuole portarti via con sé, è un presagio di morte. Inoltre se ha fame nel sogno e ti chiede un pezzo di pane, è segno che vuole da te molte preghiere; infatti i morti di cattiva sorte spesso vanno in sogno mostrandosi sempre affamati, possono perfino apparire nella realtà provocando panico. L’immagine che presentano è sempre l’ultima della loro vita, l’episodio violento che li ha troncati, quindi se la persona è morta d’incidente, si mostra massacrata o decapitata se ha perso la testa. Esprimono comunque, una fine maledetta, come se venisse data una punizione per la loro impurità.

Colui che è morto di mirribé lacció, di buona morte, si manifesta invece nelle apparizioni sempre integro di corpo e lascia un ricordo piacevole e benefico psicologicamente. Non provoca paura, tiene solo compagnia ai suoi cari perché ha nostalgia di stargli vicino, offre la sua protezione e sparisce non appena qualcuno si accorge della sua inconsistenza.

Ricordo una volta, mentre stavamo facendo ferragosto in montagna, tutti insieme in famiglia. Si era fatto sera e avevamo acceso il fuoco attorno al quale c’eravamo seduti a continuare la festa bevendo e parlando in compagnia, vicino a noi, ad un tratto, improvvisamente, qualcuno si era accorto della presenza di un cane. Era grosso, bianco, molto bello, con l’aria sorniona se ne stava sdraiato accanto al fuoco, come se anche lui stesso ascoltando le storie che si raccontavano allegramente. Quando però tutti ci eravamo accorti della sua compagnia, un po’ sorpresi e alquanto sbigottiti, ma solo per il fatto che non apparteneva a nessuno di noi, esso sparì, si dileguò nel nulla senza che ne fossimo spaventati. Il giorno seguente venimmo a sapere che lì, in quel

preciso posto dove stavamo noi, era morto da poco tempo un pastore in seguito ad un attacco di cuore. Tutti i miei parenti attribuirono, senza alcun dubbio, la figura di quel cane a quella del pastore morto in quel luogo. Era stata una morte che non rientrava né in quelle di “mala morte”, né tra quelle di “buona morte”; era considerata una morte inaspettata e come tale il defunto aveva bisogno di vagare ancora sulla terra per un breve periodo prima di uscirne definitivamente. Ciò che in me è rimasto maggiormente impresso di quell’episodio è l’espressione di quell’animale: sembrava proprio quella di un uomo. Ogni volta che ci ripenso, mi sento rabbrividire.

Bašinó ha fatto una buona morte, dunque i familiari non hanno nessuna paura di una sua eventuale apparizione.

Il mattino seguente, dopo la veglia notturna, si eseguono i preparativi per il trasporto della salma nella chiesa più vicina. Si porta la bara sulle spalle, ma il distacco definitivo dalla propria casa crea nuovamente una crisi di disperazione che culmina col pianto della moglie e dei figli pronunciando frasi di addio e di abbandono.

Fuori della casa centinaia di persone attendono con in mano moltissimi fiori. Non appena la bara è uscita, inizia un lungo corteo di persone che segue fino alla chiesa; qui i fiori vengono deposti prima di entrare. Nella chiesa si attende la cerimonia, che spesso è celebrata da un sacerdote amico dei Rom e scelto apposto da loro.

Vale la pena sottolineare che il rito, come nel caso del matrimonio, è in realtà già stato consumato al di fuori della chiesa secondo l’usanza propria e cioè attraverso e soprattutto il consolo e la veglia. Ora si consuma un secondo rito, quello alla maniera dei gaggé, dei non zingari. Ciò comunque assume notevole importanza, è ormai parte integrante del funerale dei Rom. Mentre nel caso del matrimonio il rito cattolico può anche non esserci a consacrare l’evento perché esso è ugualmente riconosciuto ed è valido all’interno della comunità, nel caso del funerale invece, il momento della chiesa è fondamentale, ricelebra, per così dire, il rito infondendo ulteriore carisma spirituale che i Rom accettano e contemplano intensamente. È ovvio che in questo caso gioca molto l’elemento sociale esterno, che impone delle norme di tipo etico-religioso e di ordine burocratico. I Rom non sanno che la cerimonia del funerale secondo il rito cattolico è una scelta e non un obbligo, loro pensano sia una regola della società esterna da rispettare.

Ad ogni modo occorre dire che i Rom non si sentono costretti a stare in chiesa ad assistere al rito cattolico e alla predica del sacerdote, ma vi si adattano volentieri, senza sforzi, per la loro spontanea e potenziale spiritualità, che a volte si traduce in fede e in profondo senso religioso. Ancora una volta l’evento, doppiamente celebrato, si scopre occasione di incontro fraterno e spirituale. In questo, la somma di due culture diverse riversano la

propria energia di valori umani in una sorta di nuova religione, che potremmo chiamare religione “cosmica”,, cioè una religione universale che abbraccia tutte le altre. Ne consegue l’interiorizzazione e l’enfatizzazione dell’evento, che si radica ancor di più nella memoria. Qualcuno nella storia ha detto che le religioni allontanano gli uomini, in questo caso, invece, mai c’è stata tale comunione e fusione così da avvicinare spiriti diversissimi.

È solito, nell’occasione del funerale in chiesa, che dei gruppi di uomini facciano “comunella” fuori, mentre spesso sono le donne che ascoltano e partecipano di più alla messa della cerimonia. Questi gruppi si raccolgono per parlare del defunto, di quando egli era invita, dei suoi momenti particolarmente importanti, della sua storia, insomma si parla di ciò che era stato ed aveva significato all’interno della comunità.

Nominare il morto, parlare di lui come fosse ancora presente e interessarsi della sua esistenza, rievocare il suo valore di uomo di pace che ora diviene un mito, un patvaló, un puro, rappresenta, ancora, un’altra forma di partecipazione al rito del funerale. La celebrazione vuole una libera manifestazione di sentimenti celebrativi che si esprimono in diversi momenti e modalità, ma sempre orientati al fine rituale che rimane al centro della dinamica antropologica. È un’opportunità in cui l’elemento pagano e l’elemento cristiano trovano un’altra forma di complementarietà di valori spirituali e religiosi senza creare immaginabili conflitti o contrasti di identità culturale. La capacità di adattamento della cultura romaní è straordinariamente complessa, agisce senza sovrapporsi, senza colonizzare. Il fenomeno dell’adattamento culturale dei Rom non prelude mai ad uno scontro in cui una cultura soccombe all’altra semmai promuove una dialettica delle parti, favorendo una dilatazione degli orizzonti conoscitivi sul piano dei valori umani.

IL CORTEO E LA STRADA DEI FIORI

Terminata la funzione religiosa, la bara è pronta per essere presa di nuovo in spalla, portata fuori dalla chiesa, inizia il lungo corteo fino al cimitero. La bara viene sollevata e lentamente comincia a muovesi sotto le spalle dei volontari, che non sono mai i figli del defunto. Dietro segue la moglie straziata dal pianto, sorretta dalle nuore e dalle sorelle, subito dopo ci sono gli uomini, cioè i fratelli, i generi e poi i nipoti del morto, infine tutti quanti gli altri.

Il corteo è un altro momento, in cui si verifica il fenomeno dello scambio fra elementi tradizionali romané e usanze locali. Le corone, i cuscini, i mazzi di fiori, man mano che si cammina, vengono

scomposti, si tolgono i fiori e si gettano lungo la strada; si crea così una scia di fiori dietro al corteo, disegnando a terra suggestivi arabeschi colorati. I gesti sono lenti, austeri, cadenzati, si accompagnano al ritmo della musica della banda musicale che accompagna il corteo. Questa caratteristica di spargere i fiori a terra, tipica dei Rom abruzzesi, è imitata, sempre più sovente, dalla gente del posto, i gagé.

La strada infiorata traccia i passi della processione, è una un’orma viva, fragrante, fatta in onore di un uomo che lascia questo mondo, fiero, salutato dai suoi cari a suon di melodie e profumo di fiori. La strada dei fiori, purtroppo, è destinata a morire, ad essere distrutta, devastata subito dopo dalle automobili, dai passanti, dalla pioggia e dall’opera degli spazzini, che eliminano tutto, fino all’ultima foglia, all’ultimo petalo; di ciò che è stato, non vi è più alcun segno. Come tutte le cerimonie romané, non rimane niente della materia, tutto è etereo, fuggevole, inevitabilmente precario, senza peso; l’atto è puramente simbolico, ha valore nel momento, nel presente, così come é la vita stessa. Ci si avvia lungo la strada con le facce tristi e sofferenti, ma l’espressione è sempre impeccabile, ieratica, propria di chi è cosciente del “dato” destino.

L’OSSERVANZA DEL LUTTO: U KALIPÉ Gli uomini conservano la barba anche per mesi in segno di

lutto, mentre le donne vestono di nero. Oltre al lutto e alla barba lunga, il vero segno di rispetto per il morto è la rinuncia e l’astinenza dal fare alcune cose, come ad esempio mangiare carne e dolci per un tempo determinato. Il lutto varia secondo il grado di parentela.

La moglie veste di nero per tutta la vita. I figli praticano la rinuncia anche per un anno, vale a dire di

vedere la televisione, di ascoltare la radio, la musica, tanto meno poi ballare o partecipare a feste; per loro il nero può durare non oltre un anno. I fratelli o le sorelle del defunto mantengono tale segno di lutto sei mesi, i cugini qualche mese ma solo attraverso l’esposizione di un bottone nero sul vestito.

Un tempo le donne vedove, oltre a vestire completamente di nero, comprese anche le scarpe e la biancheria intima, foderavano di tessuto scuro tutti i gioielli che indossavano. Inoltre si astenevano dal lavarsi con acqua e sapone tutto il corpo soprattutto la parte più intima, che in tal modo manteneva lo stato di purezza. Ai fratelli e sorelle del morto, qualora fossero sposati, non era consentito di avere rapporti coniugali per un certo periodo, mentre ai maschi era lecito svolgere “pratiche diversive”. Un vedovo non fa la barba per almeno un anno. Anche eventuali feste

cerimoniali sono sospese e rimandate, se appartengono ai parenti stretti del defunto. Ciò che è importante, in seguito a queste regole è incidere nella memoria di ognuno il ricordo dell’individuo morto affinché non sia mai dimenticato. L’evento cerimoniale, così monumentalizzato, serve al fine di creare nelle coscienze riferimenti mitologici e modelli di comportamento in cui sia possibile attingere per ritrovare l’orgoglio e lo spirito di appartenenza.

Anche per Bašinó è arrivato il privilegio di entrare a far parte degli “uomini miti”, un lacció rom, cioro rom, buono e povero zingaro, ed è proprio sulla base di queste qualità che si modella la purezza di un individuo. D’altra parte, anche se la ricchezza e la potenza possono creare in un uomo qualità di fascino, attrazione, abilità e intelligenza, per il gruppo non sono certamente requisiti ottimali per riconoscere un Rom patvaló, se manca una buona condotta morale. Lo zingaro ricco può solo crearsi degli adepti che mirano a perseguire gli stessi piani per diventare a loro volta dei piccoli re, ma sono modelli che non appartengono al comune senso etico dei Rom. Quindi il ricco è considerato sì uno che conta, ma se non aiuta chi ha bisogno, se non è rispettoso verso i poveri, se non osserva l’ordinario senso del pudore, egli viene associato all’impuro e cioè a un gavaló, a uno che non sa più distinguere il bene dal male, uno che è perduto tra i suoi soldi e così tutti coloro che lo seguono.

Dopo la sepoltura del marito Tikini ritorna accompagnata dai figli a casa esausta e senza più energie, ma non è sola, accanto vi è il conforto del consolo dei vari parenti a tenerle compagnia ancora per alcuni giorni. La casa comunque è vuota ai suoi occhi e si sente perduta senza più la compagnia e il sostegno del proprio marito. Il motivo per cui lei trova la forza di andare avanti è l’interesse verso i figli che ora più che mai diventa prioritario su tutto, i figli devono crescere e formarsi una nuova famiglia perciò hanno bisogno della sua forza.

Sa anche che l’anima del compagno non la lascerà mai, continuerà a sorvegliarla ed a proteggerla per sempre.

RIFLESSIONI

La morte rappresenta per i Rom, assieme alla nascita e al matrimonio, uno dei momenti più significativi della vita intera. In essa si proiettano paure, angosce, speranze, leggende, racconti e miti, un luogo di nascita e fonte di cultura indispensabile per far crescere e preservare la propria tradizione. È un momento di pausa, d’introspezione profonda, in cui l’individuo si ferma a

riflettere sui valori della vita e i significati del mondo elaborandone così la propria interpretazione.

La scrittura è un sistema convenzionale di regole e di segni che

limita l’espressività e l’immediatezza, palpabile, spontanea del linguaggio orale. È qui lo scontro tra i due sistemi, che produce in me un conflitto; non accetto di piegarmi alla convenzionalità della scrittura, che in qualche modo imbriglia, riduce e sintetizza tutta l’esuberante ricchezza dell’espressione verbale. Per questo allora cerco di impormi di mantenere il più possibile tutta la fragrante caratteristica della tradizione orale. Mii rendo conto che è una fatica enorme o addirittura un’utopia cercare di conciliare due aspetti tradizionali, due mondi così distanti fra loro, ma questa secondo me, è una strada da battere, una scommessa del domani. Se si vuole veramente creare uno scambio culturale fra le parti, l’oralità nella scrittura non è un controsenso ma può essere il vero futuro della cultura romaní.

Nel raccontare un’usanza o una particolare tradizione spesso poi mi sento come derubato nell’intimo, sento che un’altra storia, che una volta era viva perché segreta, ora muore tra i segni di un “muto linguaggio” che tutto rivela e tutto palesa indelebilmente. La fugacità della storia romaní è finita per sempre.

Tuttavia comprendo che i tempi cambiano e, come dicevano i Latini, “verba volant, scripta manent”, accetto la sfida della nuova era che si apre dinanzi al futuro dei Rom. Questo popolo deve imparare anche a modificare la sua tradizionale comunicativa se vuole avviarsi verso un cammino ricco di dialoghi e di crescita umana.

4. IL TRIBUNALE

“I Kris tar i makkí”(La ragione di Mosca)

MOTIVAZIONI PER LA RICHIESTA DI UNA KRIS

Makkí è una ragazza veramente sfortunata, è rimasta sola con un figlio appena nato; il marito, Karmusó, l’ha lasciata sola e di quel matrimonio non ne vuole più sapere.

La disperazione è grande e Makkí non sa proprio che cosa fare. Ha tentato di tutto per non arrivare alla rottura definitiva, ma a quanto pare non c’è riuscita; a questo punto non rimane altro da fare che affidarsi a una Kris facendone esplicita richiesta.

Lei non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma il caso è messo male ed è urgente un chiarimento ufficiale se ci tiene al proprio marito e alla famiglia, la Kris può essere l’ultima possibilità di soluzione per il suo problema. Ci ha riflettuto molto. Avviare una Kris significa mettere a nudo tutto, svelare tutti i particolari, anche quelli più intimi di fronte a tutti, davanti alla comunità intera, col rischio che, se ha torto, l’umiliazione subìta si moltiplicherebbe, assumendo il caso di dominio pubblico.

Makkí però è decisa e vuole andare in fondo, perché sa che ha ragione e che la verità sta dalla sua parte. Comunque il caso è già sulla bocca di tutti comunque, se ne parla in giro, si critica e già si sputano sentenze; il fatto è che due si lascino pur avendo un bambino, accresce l’odio verso chi ha colpa. D’altra parte il gruppo è piccolo ed è inevitabile che l’episodio non passi inosservato. In altre parole la Kris era già iniziata in forma ufficiosa prima che Makkí si pronunciasse palesemente. Senza saperlo i due erano già oggetto di giudizio, era troppo anomalo per pretendere che non si accendessero in giro pettegolezzi di ogni sorta. Alcuni anziani l’avevano predetto, quel matrimonio non sarebbe andato a buon fine, la mancata partecipazione della comunità all’evento matrimoniale non ha reso forte l’unione. Infatti non era stata una scelta spontanea reciproca: i due si erano avvicinati per mezzo di una persona interposta, la ruffiana, e sembra che fosse stata proprio la madre di lui a organizzare il tutto. Karmusó era innamorato di un’altra ragazza che non piaceva alla madre, da qui l’opera di persuasione, serrata, era per far volgere lo sguardo del figlio verso la donna proposta che invece accontentava le aspettative della famiglia. E alla fine la mamma aveva convinto Karmusó a sposare Makkí. Un matrimonio, che in realtà non essendo approvato da nessuno per il suo carattere torbido e poco

chiaro, i due avevano deciso di adottare il sistema della fuga per autolegittimarsi marito e moglie.

Quel matrimonio era partito male, lo dimostrava il fatto che al ritorno della fuga loro non erano stati accolti dai parenti con le feste rituali a consacrare l’unione avvenuta, segno questo di disapprovazione. Ora che i due si sono lasciati e il bambino è nato, il discorso cambia: passa in secondo piano il legame tra i coniugi, mentre prende il sopravvento, l’amore per il figlio, che può ricreare una base per una riconciliazione. La saldatura dell’unione è data ora dal figlio ed esistono quindi tutti i presupposti per una convocazione della Kris.

Makkí per prima cosa si presenta in casa della persona più anziana del gruppo e descrive tutto quanto è avvenuto, aspettando una risposta; poi va da altre persone, sempre addette alla Kris, a ripetere ancora quanto già detto; a questo punto attende un responso in base al numero di ragioni date in suo favore per poter affermare la verità. In genere le risposte sono concordanti fra di loro con eccezione per casi molto particolari, cioè anomali, proprio come quello di Makkí, ahimé sfortunata.

Non esiste (come forse si potrebbe immaginare) un luogo di Kris dove i vari personaggi addetti si incontrano per stabilire la verità, ma singolarmente ogni individuo patvaló, cioè onorato, può rappresentare una Kris; quindi esiste una verità a più voci. È la concertazione di queste che, alla fine, determinerà la “vera” verità, senza alcun ordine gerarchico. Quando non si arriva ad una unanimità, si passa ad una fase finale, come fosse, facendo un paragone, una cassazione o giudizio di grado superiore, in cui le parti si affidano ad una persona più autorevole fra gli autorevoli per una verità definitiva del caso.

Makkí corre qua e là in cerca di Kris, ma i pareri sono enormemente contrastanti. Anche la persona più autorevole, super partes, ha espresso un giudizio equivoco, che non sta decisamente né da una parte né dall’altra. Secondo l’anziana, Makkí ha ragione sul piano strettamente umanitario ma non sulla questione etica, ossia è vero che la nascita del bambino diventa una ragione prioritaria per la riconciliazione della coppia, ma è anche vero che Karmusó era stato deviato e quasi obbligato nella scelta di sposare Makkí senza che ne fosse pienamente innammorato, e che lei consapevole di tutto, si era proposta davanti ai genitori approfittando della loro simpatia. In sostanza qual è il verdetto? Sicuramente viene prima di tutto il rispetto dell’individuo, quindi la sua libertà di agire e di gestirsi la propria vita, e Makkí è venuta meno a questo sacrosanto principio; in secondo luogo l’aspetto umano del caso non rientra tra gli oneri etici ma rimanda alla soggettività della persona che può decidere liberamente di sposarsi senza incorrere in nessuna trasgressione delle regole fondamentali

della comunità. In altre parole Karmusó è libero di fare, finalmente, la sua libera scelta.

Makkí si rende conto che non può aver una Kris completamente a suo favore, considerata la delicata situazione, si mette perciò l’anima in pace e attende. Forse lui, ora che si sente libero, può riflettere tranquillamente e decidere, seguendo magari l’istinto affettivo verso il proprio figlio, di tornare a stare tutti assieme. Chi lo sa!

PARTECIPAZIONE DELLA COMUNITÀ ALLA KRIS NEI CASI DIFFICILI

Ovviamente c’è da considerare tutto il retroscena, che muove i fili dietro le quinte, le famiglie. Esse si raggruppano omogeneamente sulla struttura gerarchica di parentela e poi si schierano l’una contro l’altra verso l’obiettivo con tutto il conflitto possibile. arrivano in alcuni casi perfino a scontri violenti. In questo periodo la tensione tra le famiglie è forte, si tratta di una questione di sangue e di onore, la posta in gioco è alta, ci potrebbe scappare una lite pericolosa. La comunità intera è sconvolta da una situazione difficilmente controllabile. Occorre ristabilire la pace. Si inviano allora appositi ambasciatori che sono di solito dei noti paceri, bisogna che si arrivi ad accordi o per lo meno cercare di spegnere fuochi di rabbia e di risentimento.

Di conseguenza la comunità risente dei conflitti tra le due famiglie, genera un clima di disarmonia generale visto che in fondo sono quasi tutti parenti. In questo caso è il tempo che darà ragione, Kris, a qualcuno e sarà il naturale evolversi dei fatti a dimostrare la verità.

Vi è nel frattempo un’attesa, tutti sono fermi e aspettano che succeda qualcosa spontaneamente. La Kris ha terminato il suo compito di chiarire e ribadire le regole. Altro non può fare. Infatti quest’organo non ha alcun potere coercitivo, ma solo il compito di ricordare i comportamenti essenziali per il bene del gruppo, per il suo equilibrio. Poi le persone prendono lezione da sé e modificano il proprio agire secondo una legge che è legata fondamentalmente alla sopravvivenza di una comunità piccola e della propria identità: chi trasgredisce le regole trasgredisce a se stesso, chi non rispetta gli altri non rispetta la propria esistenza che, senza il riconoscimento degli altri, non ha alcun senso.

RISPETTARE LE REGOLE EQUIVALE AL RISPETTO DI SE STESSI, GARANZIA DELL’UNIONE DELLA COMUNITÀ

Rispettare le regole significa rispettarsi, questa è la base che sostiene e garantisce l’unità, la forza coesiva della comunità zingara. La sentenza della Kris non prevede pene, come abbiamo visto ma riesce ugualmente ad essere efficace attraverso il suo potere morale e psicologico: screditare la persona che ha torto della dignità di essere uomo. L’uomo rappresenta sempre e solo la famiglia cui appartiene, non solo l’individuo ma tutta la sua stirpe. Possono schierarsi dalla parte di una famiglia solo coloro che ne sono direttamente originati, cioè fino ai nipoti; oltre non è consentito.

Chi ha torto, bagnipé, e non si attiene alle norme “prescritte” dalla Kris, che come abbiamo visto è rappresentata dall’intera comunità e non solo da pochi eletti, ha due possibilità; o l’esclusione dal gruppo che comporta spesso l’uscire fuori dalla città dove vive cercando un’altra comunità, o piegarsi al volere della comunità intera riconquistando così i patív, l’onore, che aveva perduto a causa del nafél, il torto.

Una terza possibilità, rara ma non da escludere, comporta la segregazione della famiglia all’interno della comunità stessa, ad ammettere pubblicamente il proprio torto per un certo tempo, senza avere rapporti con gli altri di nessun genere.

In passato i luoghi della Kris erano le fiere, dove i Rom si incontravano per via del commercio dei cavalli; si coglieva l’occasione del raduno di molti Rom per convocare una Kris. Due gruppi di persone si dividevano e si fronteggiavano alle spalle dei contendenti, i quali manifestavano le loro ragioni alla persona designata al ruolo di Kris. Il mancato riconoscimento della volontà della Kris dava origine a forti attriti tra i gruppi, che in genere provenivano da città diverse.

DIFFERENZA FRA KRIS E XALSUVÉL, TRIBUNALE E SACRO GIURAMENTO

La ricerca della verità può avvenire anche con un altro mezzo, u xalsuvél, il sacro giuramento richiesto specialmente nei casi di furto tra Rom o di calunnia grave a sfondo morale, per esempio sull’onore di una ragazza circa la sua purezza sessuale. Questi due motivi sono da considerarsi gravi nell’ambito della vita del gruppo. La calunnia, u xuxribbé, su una ragazza può precludere il suo avvenire circa le possibilità di matrimonio; il furto tra Rom è designato come atto di profondo tradimento.

U xalsuvél, il giuramento sacro, serve a cancellare la macchia gettata su una data famiglia, ripristinandone la purezza, se non altro per il fatto di sottoporsi ad una prova tanto delicata quale il giuramento davanti al Dével, Dio, l’atto con cui si arriva alla verità fino in fondo. Il momento del

xalsuvél ha luogo in chiesa col consenso del prete. All’alba a digiuno senza prendere nemmeno un caffè, si dice che l’individuo in questo momento è particolarmente puro, quindi più adatto a “prendere” il giuramento, la persona accusata si inginocchia davanti all’altare del Cristo o della Madonna, invocando su di sé maledizioni di ogni genere, li kuscibbé, compresa la morte, fulminea all’istante, se dovesse mentire. Se la persona accusata in quel momento sta dichiarando il falso, il suo volto sarà colpito da una paresi facciale e da lì a poco subirà gli effetti del grande peccato, u bissaxá, e sarà colpita da una serie di disgrazie, proprio quelle che ha invocato per discolparsi dalle accuse. Se invece è innocente cioè bi bissaxá, senza peccato, allora tutto si risolve bonariamente e gli attori di questo xalsuvèl aumentano le proprie qualità di patív, onorabilità.

La differenza fra la Kris e il xalsuvél è che mentre la prima ha un impatto direttamente sociale, coinvolge la comunità intera attraverso gli schieramenti di parte con le testimonianze in favore della verità da dimostrare pubblicamente, il secondo è un atto privato, più intimo, è un faccia a faccia tra le parti in assenza di testimoni, si consuma un rito delicato su questioni di onore davanti al massimo Giudice.

Il xalsuvèl si presenta quasi fosse un processo a porte chiuse, un momento in cui vi è la resa dei conti di fronte all’Altissimo, colui che vede in noi la verità inconfessata. U xalsuvél si può prendere anche sui morti, invocandoli e giurando su di loro la verità, oppure sui figli dicendo: “ta ciav bi tar mru ciavó”, cioè che io possa stare senza mio figlio, quello che dico è la sacrosanta verità.

Pena per chi è spergiuro è il giudizio negativo e stigmatizzante della collettività verso colui che viene bollato con la definizione di ful, cioè “merda”, uomo di perduta dignità; ciò comporta destituzione morale dell’individuo rendendolo impartecipe della vita sociale.

Se il sacro giuramento rappresenta la ricerca della verità che non può essere verificata razionalmente, ossia con l’aiuto della collettività, in quanto azione singola, la Kris è invece il mezzo con cui si affronta un fatto pubblico, che investe la comunità intera, ragionando analiticamente su di essa. Quindi abbiamo una verità ottenuta per fede, non verificabile dagli uomini, e una verità ottenuta per mezzo della ragione, umanamente raggiungibile.

Molto importanti sono i testimoni in una Kris, i quali con la loro versione possono influenzare in maniera fortemente condizionare la verità dei fatti contestati; ma, se sono parenti stretti delle parti, non sono riconosciuti completamente dalla Kris.

COME SI DIVENTA UOMINI DI KRIS E COME SI DECADE DA TALE CARICA

La Kris è un organo di controllo molto sensibile, poiché si basa esclusivamente sui principi morali del sistema organizzativo della società romaní, l’equilibrio è regolato da meccanismi di fondo della cultura, cioè gli elementi in opposizione che possiamo denominare: sciuscibbé – maxribbé, pulito – sporco, puro – impuro.

Va da sé allora che la persona designata al compito di Kris deve possedere una condotta morale impeccabile senza alcuna macchia legata soprattutto a episodi di perversione sessuale: incesti, tradimenti, ecc… ma occcorre che possieda anche i mezzi per essere veramente critico e obiettivo. Innanzi tutto deve possedere un’esperienza di vita, che proviene essenzialmente dal viaggio: “U rom ta piriá u tém”, l’uomo che ha girato il mondo. Un altro elemento, che determina l’uomo di Kris è la sofferenza: “colui che conosce il dolore, conosce anche la gioia”. Inoltre l’intelligenza, la capacità discorsiva, il carisma che ne deriva, definiscono un uomo di Kris anche sul piano di leader, cioè capace di orientare gli altri. Infine il sentimento di appartenenza, esplicitamente dichiarato e sottolineato in ogni occasione, e la relativa osservanza “ortodossa” dei punti di riferimento fondamentali, registri della dimensione zingara, fanno tutto ciò di un Rom un modello radicale per la predisposizione alla Kris.

Infatti l’uomo di Kris è sempre un uomo di pace, incline più alle feste che alle liti, ma severo nelle decisioni e fermo nelle scelte: ha il senso dell’equilibrio e della misura in tutto quello che fa, è una persona su cui fare affidamento. La sua è una famiglia altrettanto tranquilla, dove i ruoli sono rispettati in armonia e senza contrasti: questo è segno che il capofamiglia ha dato una buona educazione.

Egli ha inoltre uno spiccato senso di solidarietà: nei casi di bisogno si adopera per gli altri, recando aiuto sia sul piano morale sia su quello economico, ed è sempre vigile nell’osservare l’andamento della comunità, tenendosi informato costantemente sui fatti del giorno e sugli episodi importanti. La sua casa, molto ospitale, è sempre piena di gente, specie al mattino in occasione del caffè: ci si intrattiene a parlare e quindi a riferire le notizie più interessanti del giorno, che riguardano la propria comunità ma anche le altre.

Il suo compito, quindi, è anche quello di essere ben informato su quanto accade intorno a sé, in maniera che i suoi giudizi, o meglio la sua saggezza sia basata sulla realtà concreta e non solo sulla teoria dei buoni propositi. Può anche aspirare alla Kris, colui che ha risolto un grosso problema all’interno del gruppo, dimostrando preoccupazione per gli altri e spirito eroico.

In altre parole l’uomo di Kris più degli altri ha radicato il pathos d’appartenenza e sviluppato di conseguenza uno spirito attivo nell’essere protagonista di vicende legate al mondo rimanó: ha un

ascendente particolarmente forte sugli altri, che lo riconoscono come guida del gruppo.

Nel panorama complesso dell’organizzazione sociale egli rappresenta un punto fermo, i binari di riferimento contro ogni rischio di deragliamento lungo il difficile cammino di perpetuazione dell’etnia. questo non esclude che il Rom di Kris possa essere anche, per così dire, progressista nel suo compito di “vate” morale; anzi colui che è troppo conservatore, può essere delegittimato dalla carica di Kris.

La sua mente deve essere molto elastica pur restando fedele ai principi di base; deve essere in grado di recepire i cambiamenti anche più impercettibili che comunque avvengono in seno alle tradizioni, questo per assicurare un’assistenza costante nel mutevole e meccanismo di adattamento della cultura dei Rom alla società esterna.

Se esiste una deontologia che legittima un Rom al ruolo di Kris, vi sono anche dei divieti, che precludono e pongono una barriera a chi volesse entrare in tale ruolo; i medesimi divieti possono far decadere lo stesso preposto. I motivi, che non consentono all’onore, patív, di essere riconosciuto in tale carica onorifica riguardano sempre la sfera della dignità umana. Primo motivo è l’omicidio: chi ha commesso un simile gesto, è escluso da qualsiasi rapporto morale con la comunità; per lui c’è solo la comprensione umana per la sua sopravvivenza, che sarà di persona miserevole e impura per sempre.

Altro neo inibitorio è il rapporto incestuoso, che considera l’uomo macchiato di tale colpa impuro per sempre, milaló, una sporcizia interiore, cioè uno che non sa distinguere il bene dal male, uno che vive nel buio, nel torbido, in un mondo senza la luce della verità, un mondo impuro dove non è concesso di vedere chiaro. Infatti coloro che si macchiano di questo delitto, vengono definiti anche col nome di gavalé, cioè uomini privi di principi naturali; anche per loro, comunque, c’è la comprensione umana nel senso che non sono cacciati dal gruppo, come si potrebbe pensare, ma continuano a viverci, però senza avere cariche di stima. Questo atteggiamento del gruppo aiuta il “deviato” a reinserirsi attraverso un’opera di riabilitazione concessagli in forma di continui esempi di sani comportamenti. Anche chi lascia la moglie non può essere considerato un patvaló, cioè potenziale uomo di Kris, poiché ha trasgredito una regola importante per l’armonia familiare e si è reso impuro con rapporti sessuali esogamici. Anche la seconda moglie è esclusa dalla Kris, perché impura da tale contatto. I figli nati da matrimonio non legittimato sono anch’essi impuri e sono chiamati giuré, cioè “muli”, e non potranno aspirare alla Kris. Questa dura legge garantisce l’unione e la stabilità del gruppo, nonché il delicato equilibrio interno. Anche l’adulterio è bollato

come sinonimo di tradimento. L’uomo, che è stato tradito dalla propria donna, è denominato scingalò, cornuto, e non può essere stimato; lo stesso vale per la donna scingalí, “cornuta”. Un altro escluso è colui che viene rinnegato come kirivó, padrino di battesimo, per essere venuto meno agli obblighi prestabiliti.

In ogni caso è vietato il ruolo di Kris a tutti coloro che in qualche modo creano scompiglio nella collettività, cioè litigi tra famiglie, sconvolgendo la coesione del gruppo e la sua armonia.

LA PENA INFLITTA DALLA KRIS E RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI XUXRIBBÉ, FALSITÀ

Da quanto detto finora appare chiaro che la Kris non ha niente a che vedere con il concetto di tribunale, come spesso viene frainteso; semmai è da intendere come un momento essenziale nella vita del gruppo, in cui si manifestano, si dichiarano e si ribadiscono le regole basilari, che permettono la tranquillità di una cultura in minoranza. Regole che a mio avviso sono importanti proprio per il loro carattere di essenzialità, esse sono strutture portanti di valori umani estrapolati dai contesti e ridotti a puri impulsi che agiscono e muovono l’istinto di un Rom. Questo è dimostrato dal fatto che in una Kris non si stabilisce mai una pena materiale, come avviene in un tribunale dei gagé, ma si determina invece una punizione morale, una rettifica, promuove una distinzione tra il giusto e l’ingiusto; la pena è la decadenza della stima, cioè degli attributi umani, e quindi l’estraneazione dell’identità zingara.

È concessa tuttavia la riabilitazione sociale. Soltanto attraverso la “riscolarizzazione” dell’individuo,

riproponendogli i codici di comportamento dettati dal gruppo, dove egli è spettatore e allievo al tempo stesso, qui la sua posizione è solo di apprendimento; infatti non può intervenire in alcun modo attivamente, la sua azione è sospesa, subisce passivamente con atteggiamento remissivo. Questo è il segno che ha inteso la lezione e sottostà alla pena inflittagli dalla Kris. Qualora non dovesse accettare tale pena o condizione di pubblico “umiliato”, colui che è in colpa subisce il bando vero e proprio dalla comunità, cioè l’essere ignorato totalmente nelle occasioni più importanti, i riti.

Un altro elemento interessante da mettere a fuoco nella disquisizione su “giusto e ingiusto”, “sicipé ta xuxribbé”, è il confronto fra due termini apparentemente simili: dumuiéngr e xuxribbé, bugia e falsità. Dumuiéngr deriva di du-mui, “due-facce”, più la desinenza – engr, cioè colui che fa il due-facce, il bugiardo. La bugia viene vista come qualche cosa di poco rilevante nella sua gravità, quasi fosse indispensabile per la sopravvivenza quotidiana;

un errore di poco conto e quindi ammesso. Si pensi alle bugie che un Rom è costretto a dire tutti i giorni per tirare avanti.

Ben diverso è il vocabolo xuxribbé, con il quale si usa indicare una falsità. Con Xoxanó si descrive una persona falsa, ipocrita, meglio ancora uno che produce falsità, ed è sinonimo di abietto, pericoloso, immorale, da tenere a bada.

Xoxanó è anche da attribuire a colui che, in seguito ad un giuramento sacro come quello del xalsuvél, ne esce perdente e diventa così spergiuro, falso profondamente. Il dumuiéngr è ritenuto poco affidabile, mentre il xoxanó è da allontanare perché pericoloso; mentre il primo coinvolge la sfera quotidiana con atteggiamento di errore involontario e magari in buona fede con lieve disturbo collettivo, il secondo rappresenta un pericolo vero, poiché la sua è un’azione consapevole di cattiva fede, spesso premeditata al fine di produrre del male, u nafél; pertanto va tenuto sotto controllo.

Un altro modo per appurare la verità in momenti occasionali estemporanei, senza scomodare la Kris, ha luogo spesso durante una festa, dove gli uomini, in particolare, usano versare del vino per terra dai loro bicchieri, pronunciando frasi di giuramento come: “U luló miró, sar kajá mol”, che sia versato il mio sangue come questo vino.

A conclusione di una dichiarazione particolarmente delicata e rivelatrice di una verità annunciata nel corso di una discussione, si versa il vino per terra, come a dimostrare e confermare la “vera” verità, u sicipé.

Sempre in tale circostanza, invece di versare il vino in segno di giuramento, l’uomo può mettere in scena un’altra forma di iuribbé, di giuramento orale: si inginocchia davanti al suo interlocutore e, baciandogli le mani, dice: “ta ces bi ta mandr”, che tu stia senza di me. Anche con questa formula si giura sulla propria vita.

L’IMPORTANZA DEL VINO COME ELEMENTO SIMBOLICO NEI RITI

L’elemento del vino è spesso ricorrente nei riti propiziatori. Lo abbiamo visto nel matrimonio, quando il padre della sposa acconsente all’unione sollevando e bevendo un bicchiere di vino: “Piav i mol” (bevo il vino) e da qui anche il significato di biav che significa matrimonio; poi nel battesimo, durante la festa preliminare di conoscenza, il brindisi diventa momento di comunione e di patto solenne; quindi nel funerale, quando il cònsolo riunisce i parenti vicino al defunto a consumare l’ultimo cibo; poi di nuovo nel caso del giuramento, dove addirittura il vino simboleggia il sangue umano versato in segno di sacrificio; infine

ancora il vino funge da catalizzatore nei rapporti di pace tra individui in contrasto tra di loro.

La pace è seguito sempre da un brindisi.Nei casi di discordia tra famiglie o persone a causa di conflitti o

di inimicizie, che alla lunga disarmonizzano il ritmo sociale di una comunità – e questo emerge ancor più visibilmente in una festa – ecco che il vino diventa elemento di solidarietà e riappacificazione per mezzo del brindisi. Una terza persona, che si autointerpone, avvicina i due litiganti proponendo un brindisi, una bevuta di vino per cancellare il passato e ritrovare il presente. Se uno dei due non accetta, è segno che il rancore permane; bisogna attendere ancora e rinviare il brindisi.

Questo bere il vino insieme, piás i mol tikané, corrisponde ad un profondo senso di fratellanza inteso come concetto di uguaglianza, in quanto si ristabilisce, simbolicamente, la comune fonte di vita. Questa presenza indispensabile del vino nei riti propiziatori o consolatori delle varie cerimonie la si può ricondurre ai riti arcaici di libagione dell’era pagana, in cui questo elemento, offerto alla divinità, era sparso sull’ara del sacrificio.

Ora, tenuto conto che il senso del sacrificio è associabile all’idea di purificazione secondo le teorie di molte religioni – si veda il rito cattolico del battesimo, in cui il bambino è sottoposto ad uno shock psicologico nel momento in cui gli viene versata l’acqua sulla testa, affinché travalichi la soglia del peccato originale – può essere ammissibile pensare che il giuramento attraverso il versare il vino a terra corrisponda ad un atto sacrificale, con il quale si certifica la verità, la purificazione o, nel caso specifico, la ricerca del “puro”. La sede o il tempio del sacrificio può essere rappresentato, in forma simbolica, dalla festa, momento ritenuto sacro. La sacralità della festa è confermata dal fatto che non sono ammessi gli individui, che con la loro azione alienante possono disturbare la quiete e il normale svolgimento. I “disturbatori”, di regola, non sono invitati alla festa ma se dovessero presentarsi ugualmente, vanno sorvegliati a vista e sbattuti fuori alla prima occasione di comportamento inopportuno: nessuno deve impedire la serenità, il rituale evolversi della festa. Il primo responsabile della buona riuscita della festa è sempre il protagonista, cioè colui che la indice e che ha il compito di vegliare fino alla fine, accertandosi personalmente dell’andamento generale.

A conclusione di quanto detto finora si può riassumere dicendo che la Kris rappresenta, in sintesi, il fondamento della cultura romaní poiché in essa sono contenuti i principi, le regole, i tabù, i valori e i codici di comportamento sociale ed extrasociale, a cui l’individuo, necessariamente, deve riferirsi durante la sua vita per non rischiare lo smarrimento da se stesso nell’identità e nella cultura di appartenenza.

La Kris è il fulcro, intorno al quale ruotano i momenti rituali più importanti, quali la nascita, l’unione e la morte, garantendo ad essi un collegamento diretto nel modo di controllarli, di stimolarli e infine anche di organizzarli. Essa non solo è la sede dei codici di comportamento del singolo individuo in rapporto con la comunità, ma ne stabilisce le modalità organizzative di ciascun rito, intervenendo in ogni cerimonia. Kris non è dunque solo sinonimo di tribunale, luogo di giudizio del bene e del male, ma è un organo direttivo, che mantiene la sua presenza di controllo e di coordinamento costante su tutto ciò che avviene in seno alla vita comunitaria. Infatti i rappresentanti della Kris entrano in azione non appena inizia una cerimonia rituale, vengono invitati al tavolo dove si discute dell’organizzazione di una festa, dando consigli sul modo e sui dettagli. Se una festa non rientra nei canoni stabiliti dal codice rituale avvallato da quest’organo, difficilmente avrà consenso generale, pregiudicando l’affluenza degli invitati, i quali, vedendo tale cerimonia non corrispondente alla propria usanza, la bollerebbero con l’aggettivo spregiativo gagicanò, alla maniera dei gagé.

5. IL LAVOROTRA TRADIZIONE E RINNOVAMENTO

“Baló giá rakél butí”(Balò cerca lavoro)

LA FAMIGLIA DI BALÓ E LA CRISI DEL LAVORO

Baló ha appena vent’anni e la sua famiglia è intenzionata a non mantenerlo più perché oltre a lui ci sono ben altri sette figli da sfamare. Il padre, Pelé, è un vecchio Rom che vive ancora con un mestiere tradizionale, il commercio dei cavalli, dal quale però guadagna poco, infatti a integrare il bilancio familiare si associa l’attività della moglie Basciní che pratica la chiromanzía, si arrangia nel manghél (chiedere) e di tanto in tanto, quando non trova altro in giro, provvede, perché no, a racimolare cibo per i figli anche rubando qualche gallina. Baló, essendo il primo figlio, ha avuto la fortuna di andare a scuola fino alla terza media, poi ha provato a seguire il padre commerciante, però a quanto sembra, questa attività non lo attira molto, probabilmente per gli scarsi guadagni. Lui avrebbe voluto evolvere il mestiere del padre fondato esclusivamente sulla compravendita dei cavalli, peraltro in crisi in quanto questi animali non servono più al contadino nei campi; purtroppo bisogna accettare che il mondo è cambiato. Baló sa che il ruolo del cavallo oggi è più nell’ottica dello sport, dell’agriturismo e quindi occorre orientare l’attività verso questi obiettivi se si vuole sopravvivere con la propria economia.

Baló allora propone al padre di mettere su un bel maneggio, una scuola di equitazione ma Pelé risponde subito che non vuole saperne affatto, la sua abitudine e la sua conoscenza nonché la sua età non gli consentono più di modificare, di colpo, la tradizione del cavallo, è una questione mentale per lui, è inconcepibile usare questo animale per fini superficiali e di svago come la passeggiata a cavallo. Pelè vede questo ruolo inutile e innaturale. È impossibile sperare in un dialogo innovativo col padre, è troppo ancorato ai tempi passati per poter pensare alla situazione di oggi profondamente trasformata.

Per Baló ci sono ben poche possibilità, o adeguarsi ad un lavoro che sta per morire, quello paterno, oppure trovare al di fuori altre forme di sopravvivenza, nel mondo dei gagé, mettendosi in coda alla burocrazia, quindi uffici di collocamento, domande o corsi professionali.

Certo non è semplice trovare una occupazione al tempo di oggi: non solo per Baló, ma per tutti, la disoccupazione colpisce tutti, è un problema generale. Egli, non essendo pienamente autonomo economicamente, non può neanche prendere moglie in quanto i genitori non lo asseconderebbero a formarsi una famiglia, lo vedono insicuro e soprattutto non strutturato dimensionalmente, non ha fatto ancora una scelta definitiva, allora lo lasciano libero al proprio destino.

Pelé è preoccupato per il figlio, non sa affrontare oggi un problema simile, ai suoi tempi non si discuteva nemmeno, il figlio seguiva la scia del padre e basta. Ora si rende conto che non è più così, i tempi sono diversi, la vita di Baló non sarà facile. Non se la sente nemmeno di mettere in pratica quello che in questo caso suggerisce il comportamento tradizionale, cioè spingere comunque il proprio figlio al matrimonio e provvedendo lui stesso al sostentamento, provvisorio, fino a quando acquista la completa autonomia. In fondo Pelé è conscio che questa autonomia difficilmente arriverà, quello che infatti lo rattrista di più è pensare di assistere ancora una volta ad un altro esempio di devianza sociale e culturale dettata dalla legge della sopravvivenza. Ha il timore che suo figlio faccia la fine di tanti altri giovani avviati ormai nel cerchio vizioso della microdelinquenza, spinti dalla crisi del lavoro e dai facili guadagni. Pelé è un Rom all’antica, vorrebbe che Baló vivesse umilmente ma onestamente per non infangare il buon nome della famiglia.

Nella città in cui vive, infatti, si tira avanti anche quando non si guadagna, sua moglie Bascinì in quei momenti passa dai contadini con i quali Pelè tiene rapporti di lavoro e di compromessi sociali stabiliti da regole del passato tra Rom e gagé in una funzione di scambio di servizi economici, per cui Bascinì ha diritto di ricevere periodicamente da detti contadini aiuti alimentari come farina, olio e foraggio per il bestiame.

Ora questi diritti, accaparrati durante il lungo periodo di convivenza favorevole sul piano della funzionalità economica tra Rom e gagé, iniziano ad essere minacciati da cattivi comportamenti di quei giovani o adulti che scelgono, per costrizione, la via alternativa più semplice al lavoro, nell’ambito dell’illegalità.

Purtroppo la crisi del lavoro ha portato in questi ultimi tempi i Rom ad interpretare impropriamente le loro potenzialità economiche, assumendo ruoli non sempre socialmente leciti acuendo ancor di più l’astio e l’emarginazione.

La città ormai sta dimenticando i vecchi “patti” e, generalizzando dispregiativamente i Rom, tende a ghettizzarli e tenerli sotto controllo, a farne a volte dei capri espiatori. La situazione non è delle migliori, Baló deve prendere una decisione: o rompere con il passato, uscire cercando altri modi lavorativi o

rimanere dentro pagando il duro prezzo che ne consegue, il disagio economico. Inoltre c’è la reazione della comunità dinanzi ad una simile scelta. Il conflitto assale a questo punto non solo Baló, ma anche tutti gli altri giovani che si trovano nella stessa condizione; d’altra parte i tempi sono pronti per una evoluzione della storia, è tempo di svoltare, bisogna trovare altre ingegni se rivuole salvare la dignità di un popolo, l’orgoglio di farne parte.

Convinto di ciò Baló si decide a uscire di “casa” e avviarsi all’inseguimento di un nuovo lavoro.

TRADIZIONE E PAURA DEL NUOVO

I primi ostacoli, la burocrazia.

Occorre prima di tutto una serie di certificati, di documenti e titoli di studio: requisiti necessari solo per compilare una serie di domande per la partecipazione a concorso o a colloquio, dove non è per niente sicuro di essere assunti poiché bisogna superare appositi esami.

Tutto questo per Baló rappresenta, a dir poco, un incubo, egli possiede appena la terza media come titolo scolastico e nessuna specializzazione prciò escluso in partenza da certe aspirazioni. Può pretendere invece altre occupazioni di più umile livello, di più facile accesso, i lavori di manovalanza. Ci sono disponibili dei posti al Comune con contratti provvisori e, comunque, sarebbe già una fortuna essere scelti anche per questi tipi di mansioni.

L’entusiasmo di Baló si attenua ma non si spegne, è deciso ad andare fino in fondo, vuole percorrere l’esperienza del lavoro dei gagé ad ogni costo, anche se l’offerta non è delle più entusiasmanti, l’importante è rendersi autonomo e pensare a mettere su famiglia. Sogna di avere una casa tutta per sé insieme alla moglie e i figli, poi un’automobile per spostarsi e viaggiare incontrando altri Rom in altre città, anch’egli desidera fare la bella figura specialmente nelle occasioni delle feste dove ognuno gareggia nell’esibire la propria automobile come facevano una volta i genitori o i nonni con i cavalli. Sogna di entrare nel mondo degli adulti, di essere riconosciuto come tale e rispettato dalla comunità.

Le aspettative di Baló non sono dirette solo all’ambito del suo gruppo ma sono premura di avere o di ristabilire anche un sano contatto di convivenza pacifica e ancora di scambio con l’esterno, cioè con i gagé del posto.

Senza ciò non sarebbe possibile continuare a vivere tranquillamente nel villaggio. Baló insomma vuole la fiducia dei Rom, ma anche quella dei gagé proprio come la pensavano i

vecchi, che si erano procurati per questo, i “diritti di sopravvivenza” nei momenti di magra attraverso gli “oboli” alimentari dei contadini. Baló in questo senso è più tradizionalista degli altri giovani che la pensano diversamente. Essi adottano ancora il sistema della sopravvivenza culturale basato sulla chiusura verso la società, anche con le pseudo attività tradizionali, convinti così di difendersi dalla minaccia dell’estinzione o della fagocitazione della propria cultura. La maggioranza dei Rom crede che il sistema della chiusura di fronte all’innovazione sociale ed economica rappresenti ancora una forma di conservazione della razza ponendo dei divieti a chi sceglie vie alternative di lavoro, gettando “max-ribbé”, impurità, su coloro che “lavorano” alla maniera gagì. Tuttavia quest’atteggiamento, tradizionalista e conservatore, inizia a modificarsi, lentamente, nei principi di rigetto del lavoro inteso come elemento alienante dell’essere zingaro integralmente e accettando ciò come una sorta di compromesso sociale necessario per una salvezza.

Risolvere il problema del lavoro significa risolvere alla radice il problema della incompatibilità tra zingari e società.

Vivere in pace con la giustizia, questo interessa a Baló che finalmente inizia a lavorare. Al Comune il suo primo giorno di lavoro è pieno di novità, per prima cosa deve indossare la divisa della sua categoria, operatore ecologico, poi deve imbracciare una grande scopa e per ultimo una specie di carretta da portare in giro per riempirla d’immondizia.

Baló è contentissimo di iniziare i suoi compiti ma subito viene rimproverato perché sta pulendo un marciapiede sbagliato, lì passa la macchina, poi non deve ramazzare oltre un confine che delimita la sua zona da quella di un altro spazzino. Cominciano i guai. È il secondo giorno che Baló dimentica ancora di timbrare il cartellino di entrata così perde le ore di lavoro che non gli verranno retribuite.

Durante la pulizia delle strade egli tende sempre a fare d’iniziativa sua pulendo dove è più sporco aldilà delle zone di “confine” ed ogni volta viene rimproverato dal superiore, deve ubbidire ai suoi ordini, cioè ramazzare solo dove gli dice di fare anche se è pulito. Mano a mano l’entusiasmo iniziale declina sempre più in un continuo lavorare ormai solo per dovere.

Anche le battute dei gagé di tanto in tanto non tardano a farsi sentire su Baló, del tipo “Hai mai visto uno zingaro mietere?” per dire che sembra strano vederlo lavorare. Nell’ambiente di lavoro viene ritenuto un “fesso” perché lavora più degli altri. Baló si sente ora come una grande scopa in mano ai gagé perché non è lui che pulisce, ma si sente uno strumento utilizzato per pulire senza una volontà propria.

Questo, certo non lo incoraggia e non lo gratifica molto, il bello è che, quando racconta ciò ai colleghi viene deriso, gli rispondono

che la gratificazione non è il lavoro, ma il fine che si raggiunge da esso, cioè lo stipendio.

Baló è ormai in preda allo sconforto, avverte che non può così esprimere tutta la ricchezza delle sue capacità e che le conoscenze ereditate dalla propria storia sono ridotte a quel lavoro che non lo soddisfa pienamente né gli dà la dignità di essere uomo; si sente annientato come essere creativo, si sente un automa.

Il problema maggiore si presenta non tanto tra i gagé, ma quanto in mezzo alla sua gente, dove Baló non è più considerato un “ciavó lacció”, un bravo ragazzo, ma un “gagió”, ovvero uno che non riesce a vivere più da Rom.

LAVORO PURO (SUSÓ) E LAVORO IMPURO (MILALÓ)

Alcuni lavori sono ritenuti impuri tra cui proprio quello dello spazzino che ha a che fare con i rifiuti di questa società; simbolicamente Baló ne risulta “contaminato” in quanto igienicamente non è ammesso il contatto tra l’individuo e le sostanze inquinanti. Così come, per esempio, chi lavora nei bagni pubblici o peggio negli ospedali, dove la funzione dell’inserviente, che è addetta alla pulizia anche intima dei pazienti e alla distribuzione dei pasti stessi, è inammissibile per il comporatmento dei Rom, poiché le stesse mani non possono agire ora tra le feci (elemento impuro) e ora tra i pasti (elemento puro). Quando una Romrí, dopo aver partorito, esce dall’ospedale, è ritenuta impura e per alcuni giorni non può toccare la cucina; infatti in casa sua sono altri che provvedono a preparare il cibo. Così anche la donna mestruata, una volta, non poteva toccare il cibo destinato alla cucina.

Anche il becchino, che lavora nei cimiteri, è ritenuto contaminato dallo stare a contatto con i morti. Così pure chi lavora in un mattatoio è segnalato fra gli impuri e non può toccare né pane né altro in cucina, perché le sue mani possono aver toccato diversi tipi di carne.

In queste usanze, apparentemente barbare, agisce simbolicamente nella dimensione culturale un’azione diretta di netta distinzione dei ruoli destinati alla vita sociale, per cui tutto ciò che rappresenta il rifiuto umano ed ha a che fare con il concetto dell’igiene va allontanato, quindi, messo in secondo luogo rispetto al vissuto quotidiano che è invece sempre più importante.

Questo modo di considerare il “rifiuto umano” cioè separarlo dal non rifiuto, ha in sé una grande valenza di valore sanitario in quanto si tende così a ridurre il più possibile la probabilità di contaminazione, che vuol dire infezione o meglio infestazione: la

trasmissione dei germi, in questo modo, è più tenuta sotto controllo.

Quando un Rom costruisce la propria casa, il bagno deve essere posto lontano dalla cucina e dalla camera da letto sempre per lo stesso motivo. Questo può essere ricondotto in fondo alla vita nomade, quando si doveva garantire l’igiene senza possederne i mezzi, allora la difesa era proprio in questo allontanamento degli elementi “contaminanti”. La zona dei bisogni fisiologici doveva essere posta sempre a debita distanza dal posto in cui si mangiava, che a sua volta era diviso da dove si dormiva.

Anche Baló ora fa parte, per il suo lavoro di spazzino, di coloro che sono resi impuri dal lavoro, quindi a lui è proibito d’intervenire in cucina e tagliare il pane a tavola. In ogni caso lavori estranei alla dimensione concettuale dei Rom entrano in breve in forte crisi, poiché inconciliabili con le norme etiche interne della comunità con risultati immaginabili di disagio sociale e verso se stessi.

Tuttavia esistono, accanto a lavori designati impuri, anche lavori riconosciuti dal gruppo nel pieno consenso e sono quelli che in qualche modo rientrano sempre nelle modalità di essere e pensare zingaro. Ad esempio i lavori connessi allo sviluppo delle qualità manageriali dei Rom, il commercio in genere, quelli che privilegiano i rapporti relazionali, lavori di rappresentanza, di spettacolo e di arte, quelli di carica di responsabilità (prestigio sociale), quelli legati alle capacità manipolative, l’artigianato e infine anche lavori stagionali, in cui vi è contemplato il contatto con la natura, bracciante agricolo oppure attività forestale, ecc…

DIFFICOLTÀ DI MODERNIZZAZIONE: L’ERA INDUSTRIALE

Altrettanto deprimente per un Rom è senz’alto il posto in fabbrica, dove non c’è possibilità di scampo; tale lavoro lo rende completamente passivo e castrato nella libera iniziativa di gestione del proprio fare, che caratterizza la personalità dello zingaro. Egli si sente talmente svuotato dei sensi di percezione e di orientamento che alla fine non sa più chi è, se è zingaro o gagiò. Ad ogni modo non tutti escono dalla fabbrica con disagi psicologici e della personalità così come si registra nella gran parte dei casi; vi sono tuttavia anche Rom che si adeguano e con fatica conciliano la loro vita con le esigenze della società industriale.

Purtroppo i Rom non sono saltati in tempo sul veloce “treno” dell’industrializzazione e sono rimasti là dove i mezzi di comunicazione privilegiano rapporti interpersonali, negando oggi i necessari contatti istituzionali. In altre parole essi sono rimasti con alte potenzialità, ma privi di nuove vie di praticabilità, risorse sommerse dal mancato aggiornamento.

Un altro errore, in cui i Rom cadono spesso, è quello di mandare i propri figli in scuole non rispondenti alle loro inclinazioni e quindi incapaci di tirar fuori da loro il meglio sulla base delle reali capacità. Purtroppo i modelli di identificazione nel mondo del lavoro di questa società si impongono per mezzo della televisione agli occhi dei Rom che spesso vengono trascinati, senza volerlo, a rincorrere ruoli non congeniali al loro modo di essere ma sono quelli che storicamente appartengono ai sedentari, cioè ai gagè, si dimenticano così le proprie tradizioni. La conseguenza di questa situazione fuorviante e antiproduttiva, creata per lo più dai mass-media, annulla le diverse identità nel nostro paese, favorendo la più totale massificazione, inibisce ognuno di essere libero nella scelta del proprio mestiere e quindi di esprimersi. La persona viene indotta a fare ciò che non sente e che a volte non vorrebbe proprio fare. Spesso allora si finisce per generare pessimi avvocati, cattivi medici, ingegneri impreparati e politici pericolosi. L’insoddisfazione è la causa del mal funzionamento sociale. A questa triste lista aggiungerei anche dei Rom che svolgono i lavori di vigili urbani, infermieri, spazzini, operai, macellai, muratori; e le nuove professioni a cui aspirano: ragionieri, tecnici industriali, avvocati, parrucchieri e giardinieri.

Spesso mi sono domandato come mai i lavori tradizionali dei Rom non si siano sviluppati così come si è sviluppato l’adattamento in una realtà notevolmente trasformata tecnologicamente e giuridicamente. Le risposte possono essere molte e ovvie, ma rimane il fatto che tutta l’attività economica si è come paralizzata, bloccata nella sua crescita e proprio per questo destinata ad estinguersi se non si corre ai ripari.

Personalmente penso che le doti innate dei Rom, frutto delle attività tradizionali antiche legate ancora al nomadismo (mobilità lavorativa), si siano declinate in quelle forme di pura sopravvivenza, spesso non riconosciute legalmente. La causa di questa distorsione del progresso produttivo dei Rom è da attribuire anche ai modelli della civiltà consumistica e capitalistica, che non ha permesso al Rom a tutt’oggi di autorientarsi nel mondo del lavoro partendo proprio dal momento più propizio e delicato per tale scelta, la scuola.

UNA SCUOLA NON FORMATIVA

La scuola non assicura un’assistenza efficace nel favorire il libero sviluppo delle doti dell’individuo liberamente e incondizionatamente. Una scuola dove innanzitutto non si riconosce la diversità culturale della singola persona, ma si adotta il sistema del “buon inserimento sociale” come risposta ai bisogni del paese

nei vari spazi dell’economia e nell’incasellamento in ruoli pre-determinati e pre-confezionati. La macchina industriale cancella e violenta lo spirito creativo dell’essere umano, spirito che rimane l’unica differenza tra lui e la macchina.

Non si ammettono e non si riconoscono attività al di fuori di quelle identificate e codificate dai modelli schematizzati. In pratica nel caso dei Rom non si concepisce una persona che studia per andare poi a svolgere il mestiere di circense o di acrobata o di artista o di giostraio o di burattinaio o di artigiano o di commerciante di cavalli, ma ridicolizzando questi, si prefigura nella scuola meglio un geometra, un ragioniere, un metalmeccanico, un elettricista e così via. Con questa mentalità incapace di concepire una società libera, ma solo incasellata e blindata senza riconoscere la base che la costituisce e cioè la comunità come pluralità conglomerante, un compatto che è la nazione, non si fa altro che accrescere un malcontento, non solo negli ambienti delle minoranze etniche che ne sono maggiormente colpite, ma nel comune senso d’appartenenza “patriottico”, che si vede negato e rinnegato nella peculiarità culturale a cui per prima cosa appartiene.

La reazione ad uno stato troppo centralista nei poteri decisionali sia in campo del lavoro come nel campo dei valori, uguali per tutti, nei principi e nelle scelte politiche, ha inevitabilmente acceso un processo reattivo all’unità della nazione intesa ora come concetto puramente astratto. Per contro vi è un ritorno all’identità e alla riaffermazione di radici culturali capaci di riorganizzare una società basata sul rispetto delle diversità anziché sui gusti comuni “ sradicanti”.

Riorganizzare le attività, giustamente collegate allo stile di vita dei Rom, promuovendo quindi orientamenti contemplati più sulle capacità interne e non sulle aspettative esterne, significa rimettere in piedi le ossa di una struttura che può tornare, come in passato, a contribuire allo sviluppo collettivo della società in senso economico e culturale giustapponendosi come presenza attiva nell’apposito spazio del grande mosaico europeo.

IL LAVORO COME CONCETTO SPAZIO-TEMPO

I Rom sono realisti o idealisti nel lavoro? Secondo l’ideale del pensiero zingaro il concetto del tempo è collegato al rapporto con il lavoro, dove egli non è sottoposto alla macchina della produzione come oggetto, produttore di oggetti, ma è il soggetto della propria capacità di prodursi, soggetto “abilis” di un saper fare anziché di un fare. In questo ribaltamento del concetto di lavoro non è tanto importante che cosa fa l’individuo, ma l’individuo stesso facitore di

cose, è il fare che domina il manufatto. È un trarre godimento dalla propria capacità di facitore, dove egli è sempre al di sopra delle cose dominandole in una sorta di “antropocentrismo della cerazione”.

Infatti l’operare di un Rom non segue mai una linea costante nel tempo, ma presenta e rivela anche lì il suo carattere, la sua indole, discontinua e apparentemente dispersiva. Agendo per soddisfare innanzitutto sè stesso anziché gli altri, lui lavora solo per sé ed è spinto da un interesse emotivo, che può scaturire da qualsiasi cosa.

Dopo, quando quest’impulso si esaurisce, egli si scarica terminando di lavorare, oppure se è necessario, si ripetere smettendo di “fare” e offrendo solo mediocrità, il lavoro appunto. Semmai aspetta un nuovo impulso per riprendere a fare con nuova energia e nuova visione così come è diversa l’emozione successiva.

Questo modo di procedere è visibilmente chiaro nell’arte dove egli appare incoerente e paradossale, ma proprio per questo ricco di invenzione continua e inesauribile, tale da riflettere l’immagine dell’essere umano nel più vero “difetto”, la contraddizione.

Nella lingua romani non vi è traduzione del termine lavoro, ma “butí” che significa cosa. Con ciò essa indica il risultato del fare, diversamente dalla parola fare che si traduce con “keráv”, faccio.

Butí può essere qualsiasi cosa indistintamente, sia che rappresenti un gesto, un fatto, un oggetto, sia che si indichi un determinato comportamento, quindi il termine cosa è inteso nella sua accezione più ampia, è l’espressione dell’umano. Lo zingaro intende il lavoro come qualcosa di subordinato a lui, strettamente confacente con le sue capacità, “ogni Rom è nato per fare qualcosa”, dicono vecchi, e lo fa talmente bene che ne diventa specialista, lo fa con arte. Nel momento in cui egli decide di entrare in azione mette in moto tutte le sue energie per tirare fuori il meglio di sé, è una gara con se stesso. In questi istanti egli, per certi versi, è fuori della realtà, è perso in un mondo in cui persegue solo l’istinto di finitezza, la perfezione, che secondo il pensiero zingaro risiede nel continuo cambiamento, nel modificabile. Visibile questo concetto di correzione è nella precarietà delle cose intorno a lui, dove tutto assume valore d’incompiuto, di disordine apparente, ma proprio quest’aspetto induce a pensare al senso di mutevolezza, al rimettere insieme ogni volta i pezzi di un puzzle per ricreare una nuova situazione; in fondo un Rom rimane artista anche nel lavoro. Nei mestieri tradizionali si nota sempre una tendenza alla sublimazione delle cose attraverso il fare, lui, incantatore delle folle venderebbe l’argento per l’oro, un cavallo bolso per un puro sangue, la canapa per la seta. Ricordo in proposito un episodio accadutomi recentemente in Spagna, a

Granata, durante un viaggio di scambio interculturale. Al grande mercato settimanale della città vi erano dei Rom Calé che lavorano, commerciavano un po’ di tutto, sono per la maggior parte dei venditori ambulanti. Mentre circolavo assieme al mio gruppo tra le tante bancarelle, notavo che quelle dei Calé erano sempre più affollate nonostante i prodotti esposti fossero più o meno sempre gli stessi. Quello che attraeva non erano le cose ma il comportamento del venditore stesso che si distingueva nel suo atteggiamento, tant’è vero che uno di questi ci convinse ad acquistare delle stoffe che non ci servivano, tale era stata la sua opera di persuasione e di attrazione.

Il mercanteggiare era stato un mezzo per convincere ad intrattenere un rapporto di relazione con loro perché potessero esprimere la bravura e la capacità professionale. Parlando della sua storia, delle sue avventure, i suoi problemi, il mercante si procurava così la nostra fiducia. Questo per affermare la piena e libera ideologia dello zingaro sul concetto di lavoro.

Là dove il lavoro prende il sopravvento sull’uomo vi è il netto rifiuto, si preferisce di più l’ozio, (ammesso che ci sia l’ozio per lo zingaro) piuttosto che la negazione dell’individualità, rivendicando ancora una volta l’esatta dimensione di fronte alle umane fatiche.

Per un Rom, paradossalmente, non esiste l’ozio inteso inteso come il non fare. Egli anche quando non è impegnato fisicamente, lo è mentalmente nell’ansia dell’arrangiarsi, ossia la pratica strategica della sopravvivenza è sempre il risultato di una fase progettuale che avviene proprio quando egli sembra non stia facendo niente. Il commerciante di cavalli di ieri come il negoziante di automobili di oggi trascorre dei giorni senza “lavorare”, andando in giro; in quel periodo egli è di ricognizione, alla ricerca di occasioni. Incontrare, parlare, conoscere. Per esempio, un contadino con un particolare bisogno di una cavalla malata da guarire aspetta qualcuno che lo faccia e va per questo nelle fiere in cerca di uno zingaro. Ecco allora che la sua presenza casuale diventa di aiuto. Oggi esistono i veterinari per la salute degli animali, ma una volta c’era lo zingaro. Anche quando egli non gira ed è fermo, in realtà riflette su come gestire il proprio tempo, il lavoro di domani, con nuove idee.

Un Rom si alza al mattino senza sapere ciò che sicuramente dovrà fare, ma è un giorno nuovo da organizzare ogni volta, anche se l’attività è sempre la stessa. Può decidere quella mattina di non andare alla stalla, se si tratta di un commerciante di cavalli, e magari partire verso un paese nei d’intorni a trovare il compare e invitarlo a vedere i suoi nuovi puledri. Unendo l’utile al dilettevole potrebbe così trovare altre occasioni di commercio. Lo zingaro odia la sistematicità di un lavoro ripetitivo in cui sentirsi ossessionato dall’idea di arricchirsi potenziando razionalmente la sua attività

sulla moltiplicazione del prodotto; il suo fine è semplicemente quello di sopravvivere, ciò che conta è il prestigio e il consenso della comunità in quello che fa al meglio.

Per la società lo zingaro è il disoccupato cronico per eccellenza, quello cioè privo di un “posto fisso” né in fabbrica e né in bottega, è l’emblema del fannullone che non produce, insomma un parassita o qualcuno su cui inventare altri aggettivi dispregiativi di facile immaginazione. Quello che un Rom può fare è solo il ladro o l’imbroglione, colui che vive di illecito.

Questo perché la società è talmente cieca nella sua centralità del concetto di lavoro, spesso subordinato all’idea del padrone, che non vede alternative.

Il gagiò senza rendersi conto è destinato in questa società, detta post-industriale, ad un ingranaggio collocato al “posto giusto” che permette alla “macchina” ( dell’organizzazione economica) di azionarsi per la produzione. Questo concetto è reso ancora più chiaro dalla metafora della fabbrica dove l’individuo è inserito come un “integrato elettronico” programmato a svolgere una data funzione automaticamente, senza concedersi libera iniziativa di cambiare movimento o programma prestabilito.

Il risultato di tale violenza ha condotto l’individuo alla regressione sul piano dell’intelligenza umana in favore di quella artificiale, i computers minacciano la sostituzione totale del “posto” di lavoro tanto sudato.

Infatti in questa era assistiamo ad alcuni fenomeni di apparenti soluzioni, il “posto” in fabbrica così come era strutturato, cioè l’individuo automatico, viene ora sostituito da sistemi elettronici veri, i robot che suppliscono pienamente la funzione dell’operaio. La differenza è che le fabbriche, quasi del tutto automatizzate, non cessano la loro minaccia, gli uomini sostituti dai robot escono dalle fabbriche disoccupati, ma vengono poi reinseriti in altre fabbriche dove si costruiscono i robot stessi per altre fabbriche, e così il giro continua dando vita ad un nuovo mostro, la cibernetica.

Il posto fisso per un Rom è assurdo solo pensarlo: non avendo egli la concezione dell’immobile, vede il lavoro come mezzo dinamico dell’essere mobile per poter realizzare la propria individualità, cioè non si sente affatto “ingranaggio”, semmai “macchina” egli stesso. Per via del nomadismo gli zingari hanno assunto sempre lavori confacenti ai loro spostamenti, permettendo un rapporto di sintonia con la società esterna nello sviluppo di particolari capacità di negoziazione e fiuto per gli affari. Infatti sia i circhi che le giostre dei Sinti, sia il commercio del bestiame che l’artigianato, conservano tutt’ora elementi di grande comunicazione e di psicologia sociale. Tra i Rom è esclusa ogni forma di cooperazione intesa come lavoro di gruppo, perché vivendo in un modo ostile verso i nomadi, occorre essere pronti a disseminarsi al

primo pericolo di persecuzione. Riassumendo, l’avvento dell’industrializzazione vede spiazzata e in crisi l’economia zingara a causa dell’esclusione tecnologica. Tuttavia alcuni a stento portano avanti ancora mestieri tradizionali, mentre altri impiegano le proprie capacità acquisite in altre forme di sussistenza come il commercio delle auto, il riciclaggio di ferro o carta, ecc... Purtroppo non ci è stato uno sviluppo e un aggiornamento delle attività proprie per colpa di una mancata fase di modernizzazione e di adeguamento allo “scossone economico”, per cui i Rom sono rimasti a metà strada, da una parte ricchi di potenzialità, dall’altra “disoccupati” del proprio lavoro.

6. LA CHIROMANZIA

U drab tar i Maccí”(La medicina di Pesce)

LA CHIROMANTE

Maccí è una delle chiromanti più conosciute ed affermate tra i Rom dell’Abruzzo, l’eco della sua bravura sconfina oltre regione fino a raggiungere tutto il Centro Italia. Il marito, Pelé (testicoli), è talmente orgoglioso di avere accanto a sé una romní così di tant (brava a guadagnare), e così drabeštr guaritrice, che spesso la esibisce nelle fiere e durante le feste. Pelé, pur essendo anch’egli un Rom patvaló, onorevole, per le sue qualità etiche e professionali come valente commerciante di cavalli, vicino ad una moglie altrettanto brillante, acquisisce un’ulteriore stima e riconoscimento dagli altri Rom. È considerato all’interno della Kris uno sceró Rom (uomo di testa), motivo di maggiore prestigio tra i saggi del gruppo.

Ereditata la virtù direttamente dalla nonna, Maccí sin da piccola si impossessa del metodo e dei trucchi più antichi e segreti della chiromanzia zingara; tutte le ricette per guarire, i sortilegi per sciogliere i malefici, le formule magiche per esorcizzare i mali e soprattutto le tecniche “paragnostiche” per leggere “chiaramente” nella mente delle persone. Una volta adulta ella diviene perfettamente in grado di portare avanti una famiglia, perché possiede le doti e le conoscenze di quell’arte antica che è sempre stata alla base della loro economia nomade. infatti non ha problemi di come organizzarsi le sue giornate di lavoro, così quella mattina nella sua memoria annovera un caso difficile da risolvere. In una famiglia di Capistrello, un paese vicino Avezzano, la discordia e la maledizione si sono abbattute furiosamente.

Maccí in questo periodo sta seguendo diverse storie e quindi occorre dividere il tempo un po’ per ciascuno e quel giorno toccava proprio a questi. Siamo negli anni cinquanta, anni difficili che seguono l’ultima guerra: fame, sofferenze e mancanza di mezzi, impediscono un comodo trasporto, perciò è costretta a scegliere, suo malgrado, il vecchio sistema di spostamento, l’andare a piedi verso la meta prefissa.

A lei non costava poi così tanto camminare, era abituata già da bambina a seguire la biga del padre a piedi quando, durante le salitre in cui il cavallo non ce la faceva a trasportare tuttti, u laddipé, lasciava il posto ai fratelli più piccoli e ai nonni. Dunque quei venti chilometri diventavano poco più di una passeggiata specie se era d’estate, il peggio arrivava semmai con l’inverno

quando insieme alla fatica si aggiungeva anche il freddo pungente delle montagne appenniniche.

In quella casa, un po’ periferica, arroccata su di un colle, si reca al mattino presto preceduta dal solito abbaiare dei cani. Una bella fattoria solitaria, pilalí kurkurí, così solida e benestante, nascondeva all’interno disagi e sconsolatezza.

Carmela, la padrona, accoglie Maccí a braccia aperte quasi fosse una persona di famiglia discesa dal cielo per soccorrerla, la fa accomodare in casa ansiosa di ascoltare la sua voce. Quelli che si possono definire dei veri e propri “incontri privati” durano da ben due anni, segno che l’effetto benefico di tali contatti ancora sostiene il morale di quella gente. Conscia del suo carisma di donna guaritrice, continua la sua opera persuasiva portando la cliente verso fasi sempre più elevate della normale procedura di chiromanzia.

Dapprima, dopo aver scrutato a fondo la donna e intuito il nuovo problema, Maccí le legge la mano, scopre tutti quei punti dolenti che sono alla base dei suoi mali e delle sue ansie. Svolto tutto il programma della chiromanzia nelle diverse fasi: lettura della mano, durghiupé tar u vast; dell’amuleto magico, udrabburó, piccola medicina; del tav, il filo; del varó, l’uovo; ed infine mancava l’ultima parte, u drab tar u muló, (la medicina del morto), che avrebbe concluso l’iter di guarigione.

La signora si era finora dimostrata credente in ciò che la zingara le diceva e, onorata con discreti compensi, ora pretendeva la scomparsa definitiva del male che affliggeva quella famiglia.

Maccí difficilmente poteva risolvere quel delicato problema che in fondo le aveva confidato solo parzialmente in quanto si trattava di un tradimento. Temeva di farla soffrire troppo dicendole tutta la verità, tirava avanti la cliente allontanandola da quel sospetto e cercando di ripristinare in qualche modo un’armonia rotta da una crisi sentimentale. Il marito si teneva lontano dagli affetti coniugali, presentava tutti i sintomi di una fattura. Un maleficio lanciato proprio dai vicini di casa, invidiosi del progresso e della serenità di quella famiglia.

Nei due anni di cura Maccì le aveva prescritto una terapia che consisteva nel porre rimedio solo con l’ausilio della “magia bianca”, ovvero con le messe e le preghiere ai morti affinché fossero venuti in suo aiuto; ed alcuni rituali complessi (che descriverò meglio più avanti). Maccí aveva tentato tutte le vie possibili per far dimenticare quella donna, ma l’uomo sembrava negli ultimi tempi aver perso completamente la testa e ora minacciava di lasciare per sempre la moglie e i figli.

La signora era venuta a sapere per bocca del marito la triste verità, quella verità che anche la zingara non poteva che ammettere ora che s’era appurato, finalmente! Il vero motivo dei

lunghi conflitti era la fine dell’amore. La fattura consisteva nell’aver scombinato l’intesa familiare con l’introduzione dell’adulterio il quale spostava il sentimento verso un’altra persona. Si trattava a questo punto di intervenire drasticamente; la signora glielo avevo chiesto e lei certo non poteva rinunciare. «Quello che vuole la gagí è la grande guarigione, u baró drab».

Allora Maccí si mette a lavorare subito. Elabora un rituale capace di allontanare la donna intrusa

riaccendendo i desideri di lui verso la propria moglie. Per ottenere tutto ciò il prezzo da pagare è alto: oro, biancheria e cibo da mangiare. Sette streghe dovranno essere attive per molte notti, richiamate dalla zingara, per ottemperare alla richiesta. Di tale compenso solo una piccola parte andrà alla chiromante, il resto servirà agli spirito dell’occulto.

Maccí tira un sospiro di sollievo, una volta accordato con la signora, può finalmente tornarsene a casa. Qui non finisce ancora il suo compito, occorre organizzarsi di nuovo per seguire un altro caso. Questa volta si tratta di una casa indemoniata, terrorizzata dalla comparsa frequente di un morto, la padrona. Prepara in fretta un pasto per i figli e il marito, poi di nuovo va verso quel luogo dove la stanno aspettando. Per fortuna la signora di Capistrello le aveva riempito u cól ( il sacco) con ogni ben di Dio da mangiare e da bere.

L’altro paese si trova a Magliano dei Marsi, abbastanza distante per andarci a piedi quindi è bene prendere un mezzo. Purtroppo neanche Pelé può accompagnarla con la biga in quanto tiene gli animali nella stalla da stramare e inoltre aspetta un commerciante di cavalli proprio in quel pomeriggio, potrebbe concludersi un affare.

Giunge così in corriera al paese. Appena scende dal mezzo si sente abbracciare dal gentile signore ormai disperato e ansioso del suo arrivo. La conduce in fretta al suo palazzo e spiega che ancora una volta la defunta moglie compare di notte incutendo terrore. Dunque neanche lì erano valsi i lunghi e complessi rituali per poter riportare la tranquillità. In quella casa tutto ciò che era riuscita a fare, Maccí, era di calmare la situazione e di inibire le apparizioni. Bisognava anche in questo caso affrontare il problema con un metodo forte.

Ecco quello che era accaduto.

La storia della serva e il padrone

Tutto aveva avuto inizio con la morte prematura di quella donna: dopo la sua scomparsa per un tumore allo stomaco, in quella casa iniziava una serie di episodi alquanto strani.

Poco lontano dell’abitazione viveva una famiglia umile, gente

molto povera che spesso aveva bisogno di elemosinare per poter sopravvivere. Infatti la mamma si recava almeno una volta al giorno presso il palazzetto a chiedere gli avanti del pranzo, ma non sempre riceveva qualcosa dalla serva, i xaciaréngr1. Non tanto perché la domestica era cattiva, ma quanto per non disubbidire ad un ordine dato dalla padrona. Il marito conservava la volontà della defunta, una specie di rituale con cui mantenere vivo il ricordo e la presenza di colei che possedeva tutti i beni. Il motto dichiarava: «Qui dentro non si spreca niente». Dunque andava riciclata ogni cosa, compresi gli avanzi che finivano ai maiali che a loro volta sarebbero serviti a nutrire gli stessi padroni.

Questo criterio si adottò per molto tempo, fino alla morte della signora, ma cosa successe dopo? Una cosa molto strana. La serva tutti i giorni andava a portare gli avanzi ai maiali e tutti i giorni, puntualmente, negava la carità a quella povera gente ma, incredibilmente, le bestie dimagrivano anziché ingrassare. Il signore, un giorno, accortosi di tale situazione, chiamò la serva e le chiese spiegazioni; ella rispose che sempre aveva fatto il suo dovere, cioè la volontà della padroncina. Lui non credette alla domestica e così la licenzio in tronco.

In breve assunse una nuova serva, raccomandandosi di osservare la regola della “famiglia” (anche se di figli non ne aveva nemmeno uno). Questa volta però la novizia cambiò l’abitudine, si fece impietosire dai poveri e dette tutti gli avanzi, tutti i giorni, a quella madre affamata che chiedeva cibo per lei e per i figli. La novità è che i porci questa volta ingrassavano pur non mangiando niente. Il padrone allora aumentò la paga alla serva, tanto era contento che la memoria dell’amata fosse rispettata di nuovo.

Sembrava che tutto filasse liscio, i poveri si sfamavano, i maiali ingrassavano e il padrone era contento, ma qualcosa ancora non funzionava. Da un po’ di tempo a questa parte in quella casa non si mangiava più bene come una volta, la pasta che mangiava ogni giorno aveva un sapore poco gradevole, forse era colpa del sugo un po’ aspro, chi lo sa! Cosa accadeva? Chiamò subito la cameriera e la interrogò in tal senso. Ella disse che veramente non era colpa sua, il sugo, in effetti, non era ben saporito perché tutte le volte doveva rifarlo daccapo. Appena lei usciva dalla cucina il sugo spariva e la pentola rimaneva completamente vuota. Quindi era costretta, in fretta in fretta, a ripreparare il sugo, ma il tempo non permetteva la giusta cottura; quando il padrone rientrava c’era appena il tempo per servirlo, ed è così che il pasto sapeva di crudo.

A quel punto c’era una cosa da fare: attendere là il momento propizio per vedere cosa succedesse. Ebbene, proprio nell’istante in 1 Da xa = mangia; ciarò = piatto; engr = desinenza; figur. “Lecca-piatti”.

cui l’aroma del sugo arieggiava e si spandeva nell’aria, la finestra si socchiudeva e da lì scendeva lentamente un gran serpente. Era enorme, viscido, raccapricciante, con gli occhi neri e lucidi spalancava la sua bocca tirando fuori una lingua biforcuta e, come una pompa, risucchiava tutto il piacevole liquido. Poi, come un fulmine, si dileguava sciabolando qua e là la lunga coda. Uno spettacolo orripilante, da far venire i brividi, era chiaro che nelle sembianze di quella bestia strisciante ormai viveva un’anima dannata, sua moglie.

La zingara allora spiegava quello che realmente era accaduto. Quella trasformazione in serpente era il segno di una dannazione operata da Dio, il qual puniva la padrona per l’avidità e la tirchieria verso gli altri. Perciò, non accettata nel regno dei giusti a glorificare la potenza divina nella pace eterna, era condannata a rimanere sulla terra strisciando e rubando cibo dal quale non trovava mai sazietà. La disperata fame testimoniava simbolicamente il bisogno di preghiere, di messe e di carità ai poveri; solo in questo modo sarebbe stato possibile espiare le colpe, le carenze d’umanità e gli egoismi della sua vita. Non restava altro da fare che riempire i vuoti di un’anima dannata alla “miseria della ricchezza”.

Maccí intanto prepara per la circostanza un apposito rituale che farà non appena il cliente è pronto.

LA CARITÀ – I DEVLESK

Al proposito della carità narra così un’altra leggenda:

I daj tar u S. PietroCésn ni furát i daj tar u San Pietro, ioj asiné but xrivj, na

chirésn ki nikt i devlésk. Ni divés accésn pascé ki ni lén, ta tuvésn li šax pru carvibbé, sa ki ni furát jek tar kalá šax na štloppéngh andró paní. Kanà joj n ari štlì ta rillél kavá šax ta pigná: «ta gial pru gi’ tar li mulé». Ver divés acciá kirésn u maró andré u furn ta anghivuló sa xaciardó, li ákavá maró ta dignál ki li cioruré ta pigná: «ta gial prú gi’ tar li mulé».

U divés ta mulí cajá giuvél, a gilí andré u prigadorj, acandré accésn but giné: kón a giásn tilé, kon a giásn upré, ta joj na giásn ki nikt cringh. Kaná puciá ku murdivél: «a dévl soskr mé ciav oká bi ta piráv avék?»

U murdivél pigná «lét ki kavá šax ta ziddát upré, a liáp ku šax ta kavá pacariápp, joj kiál a pilí buddér tilé pascé ku maró xaciardó así sa li devlèsk ta kirián i tu. Kuvá ta na cammés pri tut naj sti si pri li vavér».

La madre di San Pietro

Una volta c’era la madre di San Pietro che nella sua vita non aveva mai fatto la carità, era molto egoista. Un giorno si trovava vicino al fiume per lavare della verdura per poterla poi cucinare, quand’ecco che un fuscello le scappa dalle mani, cerca di riprenderlo ma non ci riesce, allora dice: «Beh, che possa andare per l’anima dei morti».

Un altro giorno si trovava a cuocere il pane nel forno e quando va a tirarlo fuori si accorge che è tutto bruciato, allora dice: «Beh, che possa andare per l’anima dei morti» e lo regala ai poveri.

Viene un giorno che questa donna muore e si ritrova nel Purgatorio, qua vede gente che sale e gente che scende, ma lei è sempre ferma in un punto fisso. Allora chiede al Signore: «Maestro, perché io sono sempre allo stesso posto?» Il signore le risponde dicendo: «Afferrati a questo fuscello che ti tiro su». La donna afferra il fuscello ma questo si spezza e lei sprofonda ancora più giù, cadendo su un mucchio di pani bruciati vicino ai diavoli. Lei: «Maestro, perché mi hai fatto questo?» Il Signore: «Beh, quello che non va bene per te, non va bene neanche per gli altri».

La carità è uno dei temi molto sentiti fra i Rom e i Sinti di tutto il mondo, senza un valore così necessario al gruppo probabilmente questa etnia non sarebbe riuscita a sopravvivere contro la giungla delle persecuzioni e delle avversità sociali. Nelle norme etiche di ciascun individuo è inciso profondamente il segno di riconoscimento più evidente dell’essere zingaro in quanto uomo dedito all’aiuto altrui. Nella comunità infatti non è ammesso mai che uno, dopo aver guadagnato o concluso un affare, non condivida con gli altri tale soddisfazione con un segno, seppur esiguo, di far “assaggiare” un po’ della sua felicità. Basta offrire ad ogni capo famiglia un contributo sufficiente per un pranzo che il suo guadagno venga celebrato e “benedetto” dal gruppo, il fortunato si avvale così dell’augurio e quindi della fortuna, baxt, in avvenire.

Al contrario, se ci si astiene da questo obbligo umanitario, la maledizione lo colpirà e verrà abbandonato dalla fortuna. Si affonda nel proprio egoismo che vuol dire essere esclusi dal gruppo se con tale segnale non si esprime una prova di fraternità e quindi di accomunanza.

«A dignóm ciummunácchj malešt, ta gial pru ghij tar li mulé» = ho dato qualcosa per ognuno, che vada per l’anima dei morti.

Questa frase si fa rito propiziatorio nella solidarietà. A conclusione di una chiromanzia andata a buon fine era ed è ancora d’obbligo “rinfrescare i morti” con questa simbolica carità. Il gesto si carica così di valori importanti in grado di compattare il gruppo nell’unità di popolo escludendo ogni forma di invidia.

In un’economia basata sulla estrema precarietà, la condivisione vicendevole d’aiuto, che possiamo definire come una sorta di “sostegno organizzato”, non è altro che sinonimo di “quell’alleanza spirituale” unica in questa razza capace di essere la sola forza coesiva di un popolo disperso.

Per cui se la carità da un lato esprime un sentimento solidaristico con tutto quello che significa: povertà, sofferenza, emarginazione, dall’atro canto diventa la modalità più sofisticata di una forma unificatrice basata sulla relazione. Chi non fa la “carità” quando ha guadagnato non sarà aiutato a sua volta nel momento di bisogno, dunque è un ciclo dove una “minima tassa” di chi lavora contribuisce ad autofinanziare il “piccolo Stato” Rom.

Diversamente si pone invece il concetto di bašin che vuol significare “percentuale di guadagno” in un affare. Derivato dal termine paš, metà, si introduce direttamente nella accezione di Kris, ragione o giudizio, che garantisce ogni volta qual è la giusta parcella destinata ai soci.

Quando si esercita un’opera di chiromanzia si è detto che solitamente sono in due a lavorare, una indovina e l’altra compagna che fa da spalla: i drabéngr ta i malinì; a volte possono essere in tre, ma solo raramente perché in troppi si rischia u xajardipé2.

La chiromante e la compagna dividono perfettamente a metà gli utili della prestazione, u bašin, se una vive con i suoceri allora la Kris prevede altro bašin ai componenti maggiori della famiglia: la suocera, la cognata e il cognato, se questi, però, non sono ancora sposati. Al resto della famiglia va come di consueto ciummunakj, qualcosa, cioè un segnale di familiarità. Sono regole ferree che sanciscono l’onorevolezza di un membro degno di stima e di riconoscenza. Il bašin una volta determinava contrasti anche violenti, se non si rispettava il patto della giusta divisione delle parti previste in percentuale in base al grado di parentela e di compito d’azione nell’attività.

Ad esempio, quando si era soliti rubare le galline nei casolari, la ripartizione si porzionava in parti non eguali, ma in relazione a detti ruoli specifici, quindi a qualcuno era giusto dare la coscia e l’ala ed ad un altro solamente la zampa e il collo, le interiora erano privilegio dell’anziano e del manús3.

A proposito della carità un proverbio zingaro dice: «Fidder ni mació ku cioruró, na šel xaddé kurkuró» = meglio un pesce donato a un povero che non cento mangiati da solo. È raro trovare un Rom che mangia cose prelibate da solo, come può essere il pesce, cibo

2 Non esiste la traduzione letterale del termine, si può pensare a un certo “mangiare la foglia”, essere scoperti.3 Capo famiglia.

considerato di lusso, ma nella sua famiglia ci sarà sempre almeno un ospite con il quale condividere la gioia di quel bene.

Per povertà si intende chi è malato o senza figli, ma mai chi non possiede nulla. Un ricco, anche se pieno di soldi e cose ed altro ancora, può essere ritenuto povero, se è egoista e si tiene tutto per sé. Il vero ricco è circondato da persone, amici, parenti, figli, nipoti, generi e nuore, perché quella casa sarà sempre animata da feste e allegria.

I CLIENTI

La sera Maccí scende e riprende la strada del ritorno, a casa c’è la famiglia che l’attende. Il giorno seguente ricorda di recarsi anche da un amico di Pelé, il quale ha le bestie ferme nella stalla colpite anche loro da un forte malocchio. Questa volta porta con sé una compagna, malino, che è la propria cognata, i salí, per partire insieme a sistemare la faccenda.

I pazienti sono un mulo e una mucca, non mangiano da una settimana e sono pericolosi da avvicinare, scalciano. Si chiede alla contadina dell’olio, del sale, e una fila di agli. La compagna tiene, coraggiosa e ferma, i due animali per la cavezza, i vušar, ormai calmati, mentre Maccí intinge il pollice nell’olio e benedice la fronte dei due segnandoli con una crode, poi sparge il sale tutt’intorno. La corona di agli va appesa all’ingresso della stalla per evitare il ripetersi della iettatura (li majá).

I contadini, non avendo soldi, pagano con il cibo il servizio di guarigione, infatti davanti ai loro occhi il mulo e la mucca immergono di nuovo i loro musi nella mangiatoia. Era chiaro che si trattava di un’invidia, di un odio spietato inflitto da alcuni parenti su quella casa, così opulenta. Ciò che aveva colpito l’incantesimo erano sostanzialmente due cose: il mulo che rappresentava il lavoro, la tenacia e la forza instancabile di quella famiglia che permetteva di superare ogni ostacolo; e la mucca che rappresentava la tranquillità e la sicurezza economica. Quindi nell’attaccare questi due simboli di stabilità si incideva nel cuore della sintonia familiare; perché è così che agisce il malocchio.

A questo punto Maccí, insieme alla compagna, decide di fare ritorno a casa, ma lungo la strada rammenta che nelle vicinanze vive un’altra cliente molto affezionata. A Trasacco, una località tipicamente agreste, così come tutto il territorio morsicano, vive la famiglia da assistere nuovamente.

La signora insiste sul volere una fattura a morte verso il proprio marito, in quando ha deciso di andare a vivere con l’amante. Naturalmente non esistendo alcun rimedio per tale problema, la cliente viene soddisfatta con terapia lunga che rimanda giorno

dopo giorno il momento fatale. Nel frattempo Maccí “stringe” il rapporto amoroso adultero con innumerevoli rituali, trattenendo la donna nella spirale del piacere proibito al fine di portarla alle sue dipendenze il più possibile, proprio come fanno gli psicanalisti con i loro pazienti.

Il lavoro della chiromante non si limita solo al servizio a domicilio, svolge anche, e più spesso, l’attività “in studio”, ossia riceve visite in casa sua. Dunque è solito trovare da Maccí un via vai di gente specialmente verso sera, quando è più facile tenere lontani gli occhi indiscreti dei vicini; i clienti preferiscono un rapporto piuttosto riservato. Il timore è di essere derisi e criticati anche se tutto poi, spesso e volentieri, è pura finzione in quanto proprio chi si è scagliato aspramente contro la chiromanzia, in fondo, di nascosto è andato anche lui da Maccí.

Perciò di fronte all’ammiccante carisma di irrinunciabile attrazione, ogni comune mortale si sente spinto, anche se solo per un momento, dalla curiosità di incontrare Maccí, la famosa zingara. Perfino il medico di famiglia ogni tanto si trattiene da lei, dopo le sue cure “scientifiche”, a sua volta si fa curare il cervello, il suo stato nervoso, dalla paziente-guaritrice. Ormai nello studio della strollega del paese frequenta gente che non ha assolutamente nulla da guarire e nemmeno alcun problema da risolvere, eppure quotidianamente vi si reca soltanto per chiacchierare, parlare e raccontare del più e del meno di ciò che è accaduto nel corso della propria giornata. Alla fine delle “sedute” queste persone, desiderose solo di avere un dialogo umano, si sentono meglio e affrontano con più sicurezza la propria esperienza di vita.

Silvia, ad esempio, è una ragazza un po’ sfortunata sia dal punto di vista estetico perché è fortemente strabica e con pochi capelli e sia come indipendenza economica in quanto ancora disoccupata nonostante numerosi concorsi falliti, eppure è molto preparata nel campo aziendale. Il suo problema è decisamente d’impatto fisico e ad ogni colloquio non conquista il lato empatico dell’esame in quanto il resto funziona perfettamente; le dicono di attendere la chiamata. Insomma l’opera di Maccí è di ridare fiducia e conforto a Silvia puntando sull’affettività e sul bisogno d’amore che purtroppo non trova nella vita.

Altro problema consequenziale a tutto ciò è il rapporto sentimentale che Silvia non ha nemmeno, quindi bisognerà ricorrere a rituali, anche magici, perché quel ragazzo di cui ella si è innamorata le rivolga la stessa attenzione. I filtri d’amore sono le richieste più gettonate e in tal senso da buona chiromante tira fuori anche la cartomanzia, indispensabile per certe faccende.

Dalla zengr va anche in massima segretezza un prete che vive in un paese vicino Avezzano, Castel Nuovo. Questi mantiene una relazione con una sua fedele molto cristiana che va a messa tutti i

giorni, ma dopo la cerimonia si incontrano da soli in sagrestia, in “sede confessionale”. Lui vorrebbe, come si suol dire, svestirsi e sposarsi con la sua amata vedova, ma i figlioli di le non vogliono che la mamma porti un uomo in casa, quindi chiede alla zingara di convincere la donna a scappare con lui in Sardegna, dove possiede la casa paterna per poter vivere insieme.

Maccí chiede al prete, u barašá, i soldi per le candele e le messe cantate, nonché le necessarie preghiere che egli dovrà recitare ogni sera prima di coricarsi; è questo il prezzo da pagare per quella richiesta. Inoltre si provvederà, più in avanti, ad un rituale di “legame incantatorio” tra i due.

Altra inusuale cliente che di rado imbocca la porta della chiromante è a sua volta una maga che però non è DOC, cioè zingara. La chiromante gagí tenta di rubare il mestiere alla romní drabeštr fingendo di farsi indovinare, lei sta al gioco e le racconta al proposito un sacco di ciarlatanerie. La maga trova un riferimento simbolico molto forte nella figura della zingara, la chiromante per eccellenza; è quasi un bisogno di confrontarsi con lei e affidarsi a ciò che ella rappresenta: il contrario della società, l’opposto di una dimensione misteriosa in cui liberarsi della paura del giudizio, trovando finalmente una risposta alla spontaneità di se stessi, incondizionati, e perciò raggiungere lo stato ottimale per essere aiutati.

Quasi tutte le Romniá si sentono missionarie a loro volta della umanità sofferente; molto spesso si crede che approfittano dello stato di debolezza altrui pensando solo allo scopo di lucro, non è affatto vero, svolgono invece un servizio utile che loro stesse ignorano, un grande sostegno morale. Questo è il segreto per cui non si cesserà mai di ricorrere a una “sibilla”. C’è poi chi frequenta certe persone solo per avere consigli su come evitare malocchi proteggendosi con elaborati amuleti quasi fosse una cura preventiva. Insomma non c’è da escludere alcuna categoria da una superstizione che segnala l’esigenza di risolvere l’antico conflitto tra il presente e il futuro, un futuro che rappresenta l’ignoto in cui tutti cercano una prospettiva in qualche modo pianificata, programmata contro l’evento naturale che tenta sempre di sorprenderci e di coglierci di sorpresa, impreparati.

FASI DELLA CHIROMANZIA – RITUALI MAGICI

La chiromanzia, lettura della mano, per tutti gli zingari, ma più propriamente per i Rom abruzzesi, costituisce una caratteristica precipua di questo gruppo, evidenziando un sistema di vita basato essenzialmente sul rapporto di tipo ausiliare con la società maggioritaria. Come viene fuori dal racconto di Maccí, ciò che offre

la zingara è solo un sostegno morale e psicologico nell’incontro privato di ciascun individuo, un solido appoggio umano ove riscoprire dei valori.

Anche se tali affermazioni possono apparire ottimiste o quanto mai paradossali con la comune morale che sempre cerca di condannare la chiromanzia e la sua pratica, rimane il fatto che il fenomeno non solo persiste nel tempo ma cresce nei giorni ostri.

La romní drabeštr (brava chiromante) osserva sempre la regola principale della chiromanzia, cioè rispettare le diverse fasi della lunga e complessa procedura paragnostica. lei prevede sempre all’inizio un approccio di tipo indagativi che definisce col nome di droghiripé (indovinare), l’atto speculativo con cui coglie i problemi che affliggono quella determinata persona.

Iª fase (la preparazione)Il primo approccio è dunque la lettura della mano (drighiripé

tar u vašt), momento di forte penetrazione psicologica; se il soggetto risponde bene, si passa alla fase successiva, u draburó o scinguró, che vuol dire piccola medicina o cornetto, quale momento di iniziazione alla chiromanzia.

Questo primo contatto, che si divide in due tempi, è interessante per l’abilità e la prontezza di riflessi con cui la zingara riesce in pochissimo tempo, magari quando il soggetto è un passante che va di fretta, a captare soprattutto i segnali negativi che quella figura emana per mezzo di un linguaggio che non si può nascondere, quello del nostro corpo. A quel punto, quando il passante si ferma, richiamato dalle “provocazioni” lanciate fugacemente dall’indovina, è impellente afferrargli la mano ed iniziare a leggere. Spesso non si osservano nemmeno le linee di questa, ma si fissa in volto e la sua espressione per scrutare invece le linee del viso.

La tattica è sempre la stessa così come funziona dappertutto, negli oroscopi e nell’astrologia; si calca là dove le carenze umane segnalano debolezza e si fanno luogo comune: l’invidia dei parenti, l’amore contrastato, un nuovo amore, l’adulterio, la fortuna, la vincita, la salute, il sistema nervoso ecc… Il cliente sicuramente si rispecchierà in uno di questi problemi e anche se non lo rivela alla chiromante, perché vorrebbe metterla alla prova, lo tradirà qualche accenno nel suo viso. E così parte quello che diventa un colloquio sempre più approfondito, dove lei cercherà di farlo parlare il più possibile fino a scoprire ogni cosa della sua vita privata, mettendolo a proprio agio.

Viene poi il momento del draburó. Dopo che il soggetto lascia nella propria mano, ormai aperta e scandagliata dalla lettrice, una manciata di monete in segno di compenso, lei inoltra la richiesta di

ulteriore denaro per il portafortuna, u draburó, che lascerà quale oggetto in grado di proteggerlo dagli influssi negativi. U draburó è una bacca che cresce sulla siepe del cosiddetto pungitopo, prolifera in montagna, esso si raccoglie in primavera quando è rosso; poi si fa seccare al sole. Una volta pronta, la bacca assume un colore trasparente e presenta all’interno una macchietta nera dall’aspetto molto particolare, sembra un occhio con la sua pupilla. Tale amuleto, preferito dai Rom abruzzesi, si rilascia al cliente con la seguente formula:

«Questo è l’occhio della calamita, attira la fortuna dove hai i tuoi pensieri, allontana il malocchio, le invidie e le iettature. Fai un’orazione, dì tre Ave Maria, tre Padre Nostro, e tre Gloria Padre in devozione ad un santo tuo preferito. Così benedetto lo terrai in un sacchetto sempre con te».

Il portafortuna poi viene reso sacro con tre fiati e la recita del segno di croce, tracciando l’occhio magico sulla fronte del cliente. Affinché il rituale acquisisca tutta l’efficacia carismatica, occorre impegnare una “posizione”, un’offerta in denaro valida per la messa cantata e una messa parata (con tre preti). Il soggetto è ancora in uno stato di indecisione e quindi occorre infondergli fiducia, si raccomanda di osservare le prescrizioni, di attenersi al silenzio e alla segretezza, il rischio è di sciogliere l’incantesimo e dunque di mandare tutto all’aria.

IIª fase (passaggi intermedi)Una volta che il soggetto mostra di credere nella “cura”

essendosi liberato da ogni preconcetto e scetticismo, spesso presenti all’inizio, è pronto per i passaggi successivi: u tav ta u varó, il filo e l’uovo. Questi due incantesimi lo immergono fino in fondo alla chiromanzia in una dimensione suggestiva carica di fascino e di emozione.

U tav è un semplice filo da cucito che può essere di colore rosso, bianco e nero; luló, parnó ta caló, che però assume significato metafisico nel momento in cui lo si usa decontestualizzato dalla sua usualità e consegnato alla nuova abilitazione. Nella magia allora il filo rosso diventa l’equivalente di una strada-vita legata ai sentimenti amorosi; quello bianco indica purezza sessuale, per cui si usa spesso per le vergini; e infine il nero che è associato ai problemi estremamente cruciali tipici travaglio terreno fino a simbolizzare la morte.

Il primo procedimento è il “legamento”: la zingara precedentemente prepara il filo annodandolo tre volte, poi lo nasconde tra le sue dita. A questo punto chiede alla cliente un pezzo di filo, lo aggomitola nella mano fino a farne una pallina: con questa poi traccia una croce sulla fronte della signora.

Durante questi gesti ha modo di sostituire la pallina senza nodi con quella annodata, dopo la tira fuori stendendola sotto gli occhi increduli della cliente, la quale domanda che cosa sono quei nodi. E la zingara dunque spiega che ogni nodo rappresenta un ostacolo della nostra vita “legato” da fatture contrarie che occorre sciogliere. Bisogna esercitare tre fiati sul filo “magagnato” e citare la formula. È possibile risolver tale “incordatura” con una apposito rituale, riappropriandosi di una vita serena, senza intoppi e frenature.

Il rituale dell’uomo consiste nell’appurare ulteriormente una invidia, u xalipé, che rivela il male, magagná, profondo e nascosto nel corpo della cliente. Quindi si chiede un uovo e lo si pone sul palmo della mano, sotto si cela una pallina di filo con alcuni nodi già appositamente preparati segretamente dalla chiromante. Poi l’uovo, schiacciato sulla mano, rivela la “magagna”, segno che la fattura è stata internata così profondamente in modo da rendere difficile la sua estirpazione. L’uovo fa emergere un significato legato alla vita, al principio, alla perfezione, alla natura, e dunque a Dio. Il numero dei nodi sul filo corrisponde ai gradi di intensità della fattura realizzata dalla persona nemica, pagando un determinato grado di “legazione”, pandipé, pari alla somma che necessità la sua stessa espiazione. In pratica per togliere una fattura bisogna pagare la stessa moneta, il chiodo schiaccia chiodo.

Con la fase dell’uovo si introduce il momento più avanzato della chiromanzia, u drab baró, la grande medicina, si tratta di un rituale denominato dai Rom abruzzesi, u papíl tar u muló, la lettera del morto, noto agli altri gruppi come “la rivelazione del tesoro nascosto”.

Si centra innanzitutto il discorso sull’anima di un defunto che in quella casa circola ancora inquieta perché vorrebbe aiutare la famiglia comunicando l’esistenza di un tesoro per mezzo di una lettera, questa si legge a contatto col fuoco. La tecnica è un rudimentale effetto chimico tra la sonanza acida del succo di limone tracciato dalla chiromante su un foglio di carta e il calore del fuoco che ingiallisce il liquido, in tale modo si evidenzia la frase tracciata.

Il risultato è l’apparizione graduale di una scritta: «dai retta a questa zingara». Inoltre un teschio disegnato e una croce in alto. Il cliente è assalito da timore e stupore allo stesso tempo, spesso insieme ai suoi famigliari dichiara di mettersi a disposizione di lei, spinto anche dalla volontà di rispettare il consiglio del defunto che per mezzo del medium ha potuto comunicare con essi.

Come ripeto, una volta i contadini che erano più credenti in questo tipo di chiromanzia, non possedevano molto danaro per compensare tali opere, per cui si disimpegnavano offrendo mercanzia di produzione propria quale farina, grano, frumento,

granturco, castagne, pane, polli, legumi e, se c’erano, oggetti d’oro e biancheria. Questa ricompensa era molto gradita dalle Romniá, così potevano sfamare anche i loro numerosi figli e i cavalli.

L’ora ideale per comunicare col morto è la sera tardi, prima di mezzanotte, davanti ad un braciere ardente, tutt’intorno, dove la chiromante recita e fa recitare agli altri un’orazione per preparare l’anima del defunto: sette Ave Maria, sette Padre Nostro, sette Gloria Padre e sette Requiem Aeternam, quindi si stende il foglio apparentemente bianco e, piano piano, attende l’incantesimo.

Con ciò si conclude l’intero iter tar u drabaripé, chiromanzia, lasciando così il cliente che presto si accorgerà dell’inganno, svanirà l’illusione di diventare ricco. Il tesoro l’indomani non si svelerà. Dunque nessuno può immaginare la sua reazione, magari andrà dai gendarmi a dichiarare di essere stato truffato, oppure vendicarsi personalmente, oppure come era nella maggior parte dei casi, rassegnarsi piegando le spalle davanti al suo sogno.

A volte capitava che il contadino non si rassegnava affatto, mostrava di essere più credulone del solito e in tal caso la chiromante capiva che il suo compito non era ancora finito, perciò continuava a “indovinare” il cliente per non togliergli la speranza di diventare ricco così da abbandonare un giorno vanga e zappa e con essi la fatica e il sudore. Qui certamente non mancava la fantasia della zingara di inventarsi ogni volta qualcosa di nuovo per tirare avanti, in un reciproco sollievo, si allacciava un compromesso per cui il contadino continuava a sognare di liberarsi dalla tribolazione “terrena” e la zingara ad avere la possibilità di sopravvivere grazie al suo talento consolatorio.

FORMULE E SIMBOLOGIA DEI RITI

Guarire dal mal di denti«Sant’Apollonia per il mondo andava, la mano alla mascella la

metteva, che hai Apollonia che vai gridando come un cane? Vado gridando per il mondo per dare addosso ai cristiani. Se è il verme possa morì e se è il dente possa cadé (cadere)…»

Questa strofa si ripete nove volte mentre con la mano si massaggia la zona dolorante della mascella. L’offerta in questo caso è a piacere.

Guarire dalla verminara«Lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo, giovedì santo,

venerdì santo, sabato santo, domenica viene la Pasqua e tutti i vermi in terra possa cascà (cadere). Col nome di Dio e di Maria questa verminara possa andà via, col nome di Dio e di tutti i santi questa verminara possa andà dietro e no avanti».

Cosi si “segna” nove volte la pancia.

Guarire dal malocchio«Tutt’occhi t’anno guadato, tre santi t’hanno aiutato, col nome

di Dio e di Maria questo malocchio possa andà via. Col nome di Dio e di tutti i santi questo malocchio possa andà dietro e non avanti».

Nel caso del malocchio c’è un doppio modo di procedere, si può sciogliere o attraverso la “segnatura” del pollice sulla fronte con una croce ripetuta nove volte recitando la relativa formula, oppure con un altro rituale detto u zet andré u paní, l’olio dentro l’acqua. Si fanno cadere in questo caso, delle gocce di olio d’oliva in un piatto colmo d’acqua e poi si aspetta la reazione, se la goccia si espande è in atto il malocchio, se invece rimane raccolta e ferma vuol dire che non c’è niente. Nel caso affermativo la zingara insiste fino a tre volte ripetendo l’operazione con la stessa tecnica.

Ogni momento è celebrato da preghiera in nome di Dio e di Maria. Al termine si giunge sempre ad un esito positivo, in cui il malocchio è cacciato; un compenso segna l’inizio, probabile, di una nuova indovinata, droghiripé, in quanto anche questa misura rientra nella tattica degli approcci.

Il malocchio ha un’origine che si perde nei tempi e tra la gente anche non zingara, nella cultura popolare, soprattutto del centro sud d’Italia è infatti molto diffuso ancora oggi. La differenza nell’affrontare tale rito è divisa tra: chi cerca solo una neutralizzazione degli effetti negativi che esso porta, ed è il fine della magia gagí; e chi invece va oltre tentando di risalire alla fonte della jettatura colpendone il mandante, il nemico. Il malocchio evidentemente si congiunge con il “male” più antico dell’uomo, l’invidia per cui anche l’episodio di Caino e Abele, nel Vecchio Testamento, rimarca in noi questa innata propensione negativa verso il prossimo. Il “guardar male” intensamente una persona evoca in qualche modo un influsso negativo che la tradizione simbolizza in una vera e propria pratica offensiva per poter colpire senza esporsi.

La guarigione del malocchio non è mai completa se non si prolunga la terapia fino alla fase del cosiddetto draburó, medicina sacra, con la quale si garantisce protezione per sempre.

Il malocchio può essere prodotto non esclusivamente da un nemico ma anche dalla donna zingara se è in stato interessante. Riguarda un’azione quasi quotidiana del vissuto zingaro dove la femmina incinta, giuvé kabbiní, essendo considerata sacra in tale periodo, non va assolutamente contraddetta nei suoi desideri fino al punto che se qualcuno si distrae a questi voleri, lei può procurare u mal-jak, un leggero rigonfiamento dell’occhio e continui capogiri. Quando era un kabbiní nella casa o roulotte di qualcuno, egli dovrà offrirle molta ospitalità, gentilezza e, più di tutto, l’assaggio di ogni

cosa da mangiare; se uno le sta mangiando davanti senza offrire quel cibo, questi l’indomani avrà l’occhio gonfio. È interessante intuire il messaggio di questo comportamento che coincide con il senso di condivisione di ogni bene nella solidarietà del gruppo.

Contrariamente a quanto si pensa, la donna è ritenuta nella comunità una sorta di regina. Nella mitologia zingara la condizione consacrata alla funzione di sacerdotessa, ci ricollega nuovamente in India dove il rapporto diretto col sistema della caste, vede materializzate tale “vocazione” nell’essere assegnata alle attività divinatorie.

Anche in apparenza la donna zingara sembra ed è stata descritta come l’essere sottomesso all’uomo, schiavizzata, umiliata e addirittura maltrattata, al contrario ricopre un ruolo così centrale e “regale” nella famiglia che fa di lei una guaritrice, una dottoressa dell’occulto, in grado di togliere, li majá, anche ai propri figli, al marito e perfino agli animali di casa. Una volta, quando si praticava il nomadismo lei controllava sempre, prima del viaggio, il cavallo e il marito, specie se questi erano stati in una fiera, luogo più esposto alle male-occhiate.

Molte volte accadeva che anche la donna gagí incinta poteva provocare il mal-ják senza che uno se ne accorgesse.

Per il timore di ricevere influssi negativi di questo e di altri tipo, i Rom e i Sinti di tutto il mondo si sono sempre premuniti con una protezione molto preziosa, l’oro. Si indossa l’oro per adornare le diverse parti del corpo con una duplice funzione: la zona del petto relativo al cuore rappresenta uno dei punti più vulnerabili alle jettature quindi si usa un sistema di “schermatura aurea”; allo stesso tempo assume valore estetico e di status sociale.

Simboli ricorrenti nei gioielli come medaglioni, croci, corni, amuleti, assimilati nel proprio gusto decorativo esplicano inoltre una funzione sacrale. Forma d’investimento ideale per una vita dinamica ed errante, l’oro rappresenta ancora oggi un’ancora di sicurezza.

La stitichezza Altro rito di guarigione di ricordare fra quelli riuniti sotto la

formula del tav, il filo, riguarda il disturbo della stitichezza. Una volta srotolato il filo nero, contro le “fatture corporali”, con quei nodi che rappresentano gli intoppi della vita, la zingara fa notare al cliente che corrispondono a legamenti interni dell’intestino per cui necessita d’urgenza un rimedio:

«Vergine Maria e figlio di Dio, questo nodo si possa sciogliere, come il budello cacatorio, la magagna possa andà via, col nome di Dio e di tutti i santi, questo legame possa andà dietro e non avanti». (Si segna la pancia e si ripete la formula per nove volte).

Il capelloAltro elemento significativo nelle pratiche rituali è il capello,

presente nella maggioranza dei gruppi zingari, lo ritroviamo spesso nelle fasi propiziatorie delle chiromanzie: come l’uovo dei Rom abruzzesi e il droghiripé dei Xoraxané, mentre è fisso nei riti di unione sessuale, anche se la simbologia lo associa in qualche modo ad un’ambigua valenza tra il puro e l’impuro. La xoraxaní, quando affronta il gagió da indovinare, si avvicina dapprima chiedendo l’elemosina e poi con uno scatto gli strappa un capello della fronte e lo adagia sulla sua mano che andrà a leggere. Il capello viene in seguito avvolto da una moneta di carta del cliente per potenziare l’effetto chiaroveggente; si inizia sempre dall’invidia.

Sul piano mitologico il capello, u bal, è l’analogia di qualcosa che possiede contenuti contrari: il sesso, l’intimo, l’erotico, e dunque valori materiali da una parte, e dall’altra per la sua forma ondulata, allungata e leggera, si associa anche al vento, al mistero e alla continuità in quanto sopravvive ai processi di decomposizione.

Nel rito infatti evoca forse opposte ma proprio per questo di intensa azione suggestiva, il capello così può causare maledizione e malattia se ammatassato su se stesso in ammira intrecciata, oppure esorcizzare una fattura se usato nel suo stato naturale. Ha potere di legamento carnale se si è ricavato dalla zona pubica del corpo dei due che intendono amarsi per sempre. I capelli per una romní sono considerati degli attributi di bellezza se lunghi e fluenti, nel caso di adulterio essi vengono tagliati e lei esposta alla derisione pubblica. Un capello trovato nel cibo è segno di scarsa igiene ma anche di maxrimmé, impurità “jettata” dal nemico, dunque è necessario privarsi immediatamente delle stoviglie altrimenti l’impurità contaminerebbe anche il corpo. Nel simbolismo onirico i capelli evocano spesso presagi di abbondanza se sono lunghi ma di perdita e di impotenza se essi cadono dalla testa. Come per le unghie e gli arti di un essere umano, si ritiene che anche i capelli mantengono un rapporto stretto con la persona anche dopo esserne stati separati; rappresentano le proprietà dell’individuo e sono il concentrato rituale delle sue virtù: sono uniti al loro proprietario da un legame di “simpatia”.

Ad esempio si può spiegare così il culto delle reliquie dei santi soprattutto di una ciocca di capelli, culto che esprime non soltanto un atto di venerazione, ma anche un desiderio di partecipazione alle loro virtù. Il capello è un legame e per questo è uno dei simboli magici dell’appropriazione, anzi, dell’identificazione. Lasciarsi crescere i capelli, come la barba e i baffi, senza tagliarli né pettinarli, è segno di lutto non solo tra la maggior parte dei gruppi zingari, ma anche presso numerosi popoli (Papua della Nuova Guinea) o, spesso, la conseguenza di un voto.

Nella lite tra due romniá mostra la supremazia sull’altra chi riesce a strappare più capelli e la perdente torna a casa sminuita così anche delle sue virtù speciali.

LI MAJÁ – LE FATTURE

La zingara chiede alla signora di procurare un po’ di filo, glielo avvolge intorno alla mano, poi taglia le due estremità e ottiene un mazzetto di fili, ne fa sfilare uno a piacere dalla cliente e un altro lo prende lei, a questo punto entrambe hanno un filo liscio senza nodi. La chiromante tiene nascosta una pallina di filo tra due dita, l’indice e il medio, un filo che riporta tre nodi, pronta a tirarlo fuori al momento opportuno. Dice:

«… Dammi due dita e rispondi appresso. Col nome di Dio, risciolta sia la vita mia, San Giuseppe con le braccia aperte ridonami la salute e la pace nella famiglia mia, dentro di casa e fuori di casa, Vergine Maria quello che faccio giovamento mi sia, Santissima Trinità fammi la grazia per carità, ridammi la salute e la pace di casa mia…».

«Scegli un filo e facci tre nodi, fanne una pallina come un cece e ponila nella palma della tua mano. Fatti tre fiati (alitare) dicendo: “dammi la salute, dammi la salute, dammi la salute e la pace di casa mia…”. Se di questo filo si scioglie un solo nodo non ti posso aiutare, se si sciolgono due nemmeno, se si sciolgono tutti e tre allora ti posso salvare».

La signora allora deve depositare una posizione (pagamento) uguale a quella usata per la fattura contro di lei. Ovviamente la pallina di filo nella palma della signora è stata sostituita abilmente con quella senza nodi preparata dalla chiromante e, quando le dice «Adesso prendi questo filo e tendilo davanti ai tuoi occhi», esso si presenta senza nessun nodo, la fattura è stata tolta. per terminare il rito di liberazione bisogna lavorare sul “libro incantatorio” e depositare l’offerta ad un crocevia dove la zingara si incontrerà con sette streghe vergini, li ciuxamá, per fare il richiamo della fattura. La “posizione” della signora dopo sarà bruciata come a indicare il bruciore stesso della salute dello iettatore.

U varò , l’uovo Il rito ulteriore al filo è quello dell’uovo, poiché la fattura si

compone di due aspetti, uno all’interno e uno all’esterno; la “scioglitura” riguarda il fuori, per il dentro occorre il rito dell’uovo.

La magagna (il male) si ferma in genere giù in fondo allo stomaco e allora: «… questa magagna si toglie con la mano di Dio e la virtù mia. Questa sera prendi un uovo di gallina e avvolgilo in una carta di moneta. Poi mettilo una notte intera accanto alla parte

dolente del tuo corpo e il giorno appresso lo riconsegni alle mani mie…».

Inoltre chiede alla signora un piatto per raccogliere l’uovo una volta lavorato. Ancora tra le dita la romní tiene nascosta una pallina fatta di un capello attorcigliato ad un filo rosso. Prende l’uovo e lo passa dolcemente lungo al pancia della signora recitando la preghiera del Credo e dopo: «… Se quest’uovo una volta rotto risulta sano così come lo ha fatto la gallina è segno che la fattura è stata tolta solo con la scioglitura (il filo); se invece ci troviamo dentro la magagna mi domanderai, come mai questa magagna è entrata in questo uovo? Dio è grande e potente che ha creato il pulcino nell’uovo e così sarà grande e potente da far uscire fuori la magagna…»

Così prende l’uovo, lo avvolge in un fazzoletto e lo sottopone a tre fiati della signora che ripete: «Grazie Madonna toglimi questa magagna».

Poi schiaccia il tutto sotto il piede e lo versa nel piatto; allontana la signora dicendole di non avvicinarsi troppo poiché la magagna potrebbe rientrarle dentro proprio dalla bocca. Finalmente la magagna è visibile, nel tuorlo si può vedere la matassa di capelli e il filo rosso; è una fattura a morte che il rito ha fatto uscire dal corpo della donna. Ora bisogna procurare una posizione, benedirla con i tre fiati consueti e offrirla alla guaritrice con la mano sinistra. Poiché la fattura entra con un fiato ed esce con un fiato, occorre offrire con tutto il cuore, altrimenti i soldi bruceranno all’istante. La magagna è così neutralizzata e la chiromante la porta via con sé in un posto lontano dai rischi di “respirarla di nuovo”.

U drab tar u muló , la medicina del morto Il morto è irrequieto, va in sogno alla zingara manifestando

l’angoscia di non poter raggiungere il luogo di salvezza (il paradiso) se prima non rivela ai suoi famigliari l’esistenza di un tesoro nascosto. Così inizia l’ultima fase della chiromanzia in cui lei si presenta anche come medium tra le due dimensioni esistenziali, l’aldiquà e l’aldilà.

Con la voce roca si pronuncia alla cliente: «Con la mia virtù, se mi dai un’offerta per una messa, farò un richiamo (orazione) dell’ultimo vostro caro defunto che questa notte mi è venuto in sogno. Questo morto sente il bisogno di “dare un segnale” (rivelare il segreto) che vi farà stare meglio in furto. Quello che vuole darvi è un tesoro pieno di brillanti, marenghi, catene d’oro e d’argento. Il destino è tuo, cara signora, ma senza di me, della mia virtù, non puoi prendere possesso del tesoro. Devo dormire una notte in casa tua a recitare le mie preghiere e quand’è arrivato il momento, bisogna scoprire il tesoro. Mi farai trovare: l’acqua santa di tre

chiese, la palma benedetta di tre case e infine una grande caldaia di rame. Si presenterà una croce d’oro sul pavimento e noi dovremo coprirla d’oro altrettanto, poiché di sopra scopre l’oro di sotto».

Così chiede degli oggetti d’oro come posizione. «Bisogna coprire le quattro punte della croce, tre parti li metti tu e una parte la metto io». Tranquillizza la signora promettendo il recupero della posizione una volta concluso il rito.

«… Il morto non può parlare poiché egli essendo puro spirito può lanciare soltanto dei segnali, questa notte farà il richiamo perché ci dia le giuste indicazioni».

L’indomani torna dalla signora per leggere il primo segnale del defunto; è una lettera, u papíl tar u muló. Raduna la famiglia attorno al camino acceso poi assegna una preghiera a piacere per ognuno e in silenzio rievoca l’anima irrequieta del morto. «… Anima benedetta segnala a questa gente il bene che vuoi dare».

Recita a sua volta una Requiem Aeternam mentre avvicina il foglio di carta al calore del fuoco (il foglio, come s’è già detto, si prepara in anticipo usando il succo di limone per scrivere in maniera invisibile).

Pian piano la carta reagisce al calore del fuoco e fa comparire: la scritta, una croce, un teschio e il valore del tesoro. L’accordo prevede che, due parti spettano alla signora, e una parte a lei come pagamento del servizio.

Fattura d’amoreUna fattura consiste nel legamento, u pandipé. Il rito del filo

può essere di chiusura o di apertura, scioglimento o legatura. Nel caso di una jettatura bisogna “rompere l’incantesimo” quindi sciogliere i nodi della maledizione; se si desidera “jettare” una negatività, oppure “legare” a sé una persona, allora si stringono i nodi sul filo.

Così, ad esempio, si procede se il soggetto aspira ardentemente congiungersi con il proprio compagno in un amore contrastato: «Prendi un filo e fai nove nodi. Ad ogni nodo ripeti il nome dell’amato appresso a me, Gianfranco, legato sia verso di me, ecc…» (Ad ogni legamento chiede una posizione).

Quando i nove nodi sono stati stretti, porta via il filo con sé perché la sera, a mezzanotte, lo riannoderà ancora e sotto orazione, lo fisserà in un legamento infinito.

Li majá tar u mirribbé, la fattura a mortePer la fattura a morte la cliente deve procurarsi: un foglio

bianco, u papíl parnó; una fettuccia nera, i xatán kalí; e dieci spilli, deš suviá.

Lei, la chiromante, traccia con la fettuccia una croce sul foglio e per ogni punta infila uno spillo. Secondo la tradizione questi spilli rappresentano i chiodi che servirono per crocifiggere Gesù.

La fettuccia nera raffigura la morte, e il foglio bianco l’opposto del nero, la purificazione quindi la luce. Ciò si potrebbe interpretare come una contrapposizione netta tra la vita e la morte in cui la luce si distingue grazie alle tenebre, la fine necessaria perché trionfi l’inizio della vita.

Poi l’oggetto così formulato sarà portato a mezzanotte in un posto dove quattro strade si incontrano, un crocevia che è la sede ideale per le sette streghe. Queste si fermano lì perché la croce formata dalle strade le obbliga a raccogliersi ed aiutare la loro serva, la zingara, a compiere gli incantesimi: «Scurirò la stella (la persona che deve morire) che tu vuoi sia cancellata per sempre».

Ovviamente la persona non morirà affatto per quella fattura ma la cliente è soddisfatta ugualmente perché così sfoga la sua voglia di vendetta. La zingara promette ogni volta l’esito proposto e così tira avanti.

DISTINZIONE TRA DRAB E DURGHIRIPÉ

La parola drab, tradotta nei termini di medicina o guarigione, non risponde esattamente al significato autentico in quanto drab può essere sinonimo ed eufemismo di più concetti. Con drab si indicano due contenuti al tempo stesso, medicina, con la quale guarire il malato e medicina con la quale si “guarisce” da una fattura quindi un farmaco dalla doppia azione, una chimica ed una magica.

Con la derivazione verbale di drabarél si assumono altri significati ancora, che letteralmente acquisiscono l’equivalente di filosofare, relazionare, esposizione di un pensiero; l’insieme cioè di conoscenze atte a rappresentare il più esauriente possibile, una profonda sapienza e conoscenza di vita.

La romní drabeštr infatti può essere affiancata, per certi versi, alla figura di grande saggio che esercita la capacità di influenzare con la forza della persuasione. Dunque il sinonimo più vicino a drabarél è persuasione, convincere proprio con l’aiuto della regione che a sua volta è eufemismo del concetto di Kris, giustizia uguale ragione. La romní drabestr è sempre una donna di Kris.

Diverso da drabarél è durghirél, anche se sembrano simili, in fondo esprimono due stati della chiromanzia con qualità differenti. Durghiripè mette in pratica l’azione della chiaroveggenza, questa sorta di “presbiopia”, l’istinto cioè di captare i segreti privati di una persona e quindi prevederne il “futuro”. Un futuro però che non può

essere modificato dalle persone se non attraverso l’aiuto di un dio invocato dai riti del drab.

Tutti gli zingari, in effetti, potrebbero praticare l’innata capacità del durghiripé ma pochi sono dei drabéstr; vocazione contro istinto. Bisogna essere eletti, possedere delle doti particolari per diventare romniá di drab, guaritrici; l’intelligenza, la sensibilità e una grande quantità di esperienza umana, fanno di una donna, soprattutto in età matura, una perfetta chiromante.

Tutti i vari tipi di lettura, della mano, delle carte, dei fondi del caffè o dei pianeti (stelle), non sono che dei pretesti per poter esprimere un talento spontaneo dell’uomo nell’individuare le angosce, le speranze, i vizi e i fantasmi che accomunano tutti gli uomini della terra in unica specie superstiziosa. È un po’ una sfida all’ignoro, all’imprevedibilità e alla paura di affrontare le difficoltà della vita.

LA CRISI DELLA CHIROMANZIA E LA NASCITA DI NUOVE FORME

È noto che gli zingari nel passato godevano di rapporti con la società migliori dei tempi attuali dove la comunicazione si fondava sul principio dello scambio dei servizi in una comune mentalità. La chiromanzia, finora descritta, risulta come riflesso di una cultura che accettava o addirittura richiedeva proprio un intervento di questo tipo, tutto sommato di consolazione, di sostegno morale e negoziazione di atti rituali che rafforzavano una tradizione ancora mitologica e incantata dinanzi alla natura.

Oggi, stravolta e sradicata completamente una “certa filosofia agreste”, di conseguenza anche la chiromanzia, con essa, è cessata di funzionare. Infatti nel nuovo paesaggio moderno anche questo importante fondamento dell’economia zingara è venuto a mancare, nasce così la crisi, un corrispondente stato di conflittualità e una incompatibilità di convivenza sociale.

Nei tempi correnti assistiamo, per fortuna, ad un fenomeno di recupero della chiromanzia in diversi gruppi e in diverse forme, che tentano di ristabilire un equilibrio con la società adeguandovi nuovi sistemi. Si prova a ricucire lo strappo di un cambiamento troppo brusco in cui i tempi di adattamento non sono stati rispettati.

In altre parole rinasce la chiromanzia. In un momento in cui la delusione delle aspettative dell’era scientifica che doveva assicurare risposte razionali alle varie domande esistenziali in termini di progresso non solo materiale, l’uomo ricerca le proprie sicurezze nuovamente nei valori affettivi e quindi di rapporti umani.

Alcuni riti sono del tutto scomparsi dalla scena come quello del tesoro nascosto e delle guarigioni superficiali, tipo il mal di denti, la risipola, ecc… Persiste invece la richiesta di guarire dei mali

incurabili oppure l’immunità dell’invidia, la ricerca della fortuna e soprattutto la ricerca dell’amore. Non manca naturalmente il desiderio di trovare lavoro e la volontà di fare carriera e denaro nella vita.

Tutto il resto della chiromanzia resiste ma con accorgimenti, rettifiche e inserimenti di nuove tecniche verso una chiromanzia più di moda basata sugli effetti speciali e sulla fenomenologia di per sé dell’occulto; lontano in ogni caso dalla propria caratteristica, un aggancio con la spiritualità religiosa. Il rischio è che anche la chiromanzia zingara venga assimilata e perciò svuotata da originali contenuti.

LE GUARIGIONI

L’aspetto più collegato ai fattori psicologici della chiromanzia è la guarigione, già denominata “magia bianca” del Foletier, è in relazione, paradossalmente, con la sfera spirituale. Tale spiritualità permea totalmente l’attività divinatoria usando i carismi dogmatici religiosi per incalzare il ruolo, per così dire, del sacerdote. Non è blasfemo affermare che tale chiromanzia non è affatto frutto di magia nera, ossia la supremazia dei privilegi “paranormali” fini a se stessi, tesi a esaltare le virtù umane; al contrario, la zingara riconosce sempre un Essere Supremo dal quale dipendere nei panni di un servo. Infatti in tutte le formule incantatorie appare l’aggancio diretto con la liturgia cristiana e la relativa fede che ne scaturisce. Altra ipotesi ardua da avanzare è l’opera di “informazione religiosa” che le Romniá hanno svolto quando si aggiravano in posti dispersi e lontani dai centri abitati, come casolari e case di pastori, portando la conoscenza delle preghiere cristiane spesso ignorate.

La chiromanzia zingara è una geniale combinazione di elementi divini e umani in cui la fede animista e intimista di matrice indiana si incarna con uno spirito cristiano più calato nel vissuto umano. Questa ricchezza di esperienze eleva l’immagine della zingara sul piano simbolico e costituisce il paradigma della chiromanzia.

Dunque l’identificazione della chiaroveggenza risiede nella figura della romní ed è testimoniata dall’iconografia popolare dei mass-media. Al proposito c’è da chiedersi: «fino a che punto la società è rimasta influenzata da tutto ciò?». Quanto ha agito la “terapia psicoanalitica” durante i secoli tra le genti di ogni paese? È molto probabile che anche un po’ di pensiero zingaro viaggia in ognuno di noi, magari più o meno inconscio, ma pur vivo così come serpeggia ancora il fantasma della filosofia greca in Europa.

Ovviamente risulta difficile raccogliere prove che confermano l’incidenza di tale pensiero tra i gagé, ma sicuramente delle tracce sono state lasciate. Un “sacerdote” lascia sempre un segno. Ad

esempio tra i Rom si usa definire un gagió romanó quando il valore qualificativo dell’aggettivo è impresso ad una persona la quale può essere più o meno influenzata da un modo di essere zingaro. E non solo, anche una città, o addirittura una nazione, può essere considerata più romaní o più gagicaní (non zingara). Romanó significa zingarizzato, quindi più vicino alla maniera zingara dove rintracciare elementi comuni come: la bontà d’animo, gagió lacció; la semplicità, l’essere privo di formalità, así sar aménd, è come noi; l’osservanza dei riti fondamentali quali il matrimonio, il funerale, il battesimo; u gagió atirélc, il gagió ci tiene a rispettare i riti; di sé e della sua famiglia; la tutela delle figlie di sesso femminile; u gagió patvaló, gagió che ha una morale.

Per ultimo, molto importante è la parola, se un gagió ricorre ancora alla promessa orale per stringere un contratto anziché usare gli artifici delle regole scritte e firmate, egli si riconosce come un uomo di parole, gagió di lav.

Vi sono paesi e città più romané e meno romané, il meno sta ad indicare soprattutto l’essere restii alle norme convenzionali, infatti l’eggettivo vlinéngr mostra uno stato completamente contrario al modo di essere e di vivere da Rom. Vlinéngr sta per un significato difficilmente traducibile, è come dire “giustiziatore”, chi ricorre spesso alla giustizia, chiamare le forze dell’ordine, polizia o carabinieri per denunciare un fatto. Vlinengr deriva da vlin, corte, ed avvisa altri Rom che quel posto è soggetto alla cacciata da parte delle autorità.

La città più romaní dell’Abruzzo è senz’altro Pescara, vi sono presenti non a caso il maggior numero di Rom ed è qui che si rintraccia evidentemente una certa affinità mentale tra i Rom e i cittadini. Si ha la sensazione che il Pescarese abbia molto di zingaresco e il Rom molto del Pescarese, sia nel parlare che nel modo di fare. Anche se la minoranza è sempre quella che si adatta di più ai costumi locali, è anche vero che lascia in quel posto molto dei suoi atteggiamenti.

Ad esempio la parola gagió è entrata nel dialetto pescarese corrente, in maniera non ufficiale ma in grado di interpretare un certo significato che in fondo non è molto lontano da quello reale. Gagió è divenato “gagg”, che nella lingua popolare abruzzese allude all’essere un fesso, un individuo quindi da imbrogliare, derubare e non rispettare. Gagg è sinonimo anche di “bastardo” e “nemico”, e ci riporta alla mente la teoria di Ghazni come origine del termine gagió; lo storico imperatore orientale nemico e sterminatore degli zingari.

Per concludere, si accennava all’inizio, la guarigione rientra nella pratica della chiromanzia perché coinvolge il soggetto a fondare il rito su una pratica che unisce il divino all’occulto, due opposizioni che trovano conciliazione nei valori complementari di

queste aspirazioni: l’atto di completa fiducia nello sfidare l’impossibile con la sola volontà. Ecco perché la chiromanzia zingara è unica al mondo.

IL RITO COME CULTO DELLA MAGIA

La pratica del rito nel corso della chiromanzia zingara risponde essenzialmente ad una meccanica simbolica con cui si traducono l’elemento naturalistico e l’elemento esoterico, in una sintesi che prende forma nelle azioni e nella gestualità. Queste azioni chiaramente manifestano una tradizione, un modo di vivere, un modo di pensare tipico che è il risultato di un felice incontro tra i “residui” d’origine orientale ed “imprestiti” occidentali, fondando un nuovo esempio di pensiero, quello zingaro.

Dunque, se la simbologia delle azioni insieme alle formule verbali, rappresentano importanti codici di riferimento di una filosofia che è possibile rintracciare solo attraverso l’espressione profonda del culto e dell’arte, interessante è osservare direttamente tutto questo “cifrario” perché, a mio avviso, dimostra anche la straordinaria ricchezza dell’immaginazione di questo popolo. I rituali qui raccolti discendono direttamente dalla fonte, gli anziani, si presentano dunque come un campione di dati che hanno valore di comunanza con tutti gli altri gruppi, perché alla base esiste un legame di fondo caratteristico del popolo zingaro, il medesimo ceppo. Questa caratteristica consiste nella capacità di rielaborare ogni elemento acquisito del tutto originale, ad esempio molto ricorrente è l’aspetto religioso, preso in prestito dall’esterno e richiamato in causa in maniera quasi ossessiva, serve a mescolarlo col proprio sistema comunicativo per potenziare l’effetto “incantatorio” che ha come fine una sorta di ipnosi etico-psicologica. Tale fenomeno riconduce ad un certo misticismo orientale di natura mitologico-fantastica, dove le credenze nella reincarnazione e la capacità dell’uomo di controllare gli eventi fisiologici con la sola volontà e forza di concentrazione, diventa il modo di agire.

Il culto della magia, radicato in questo popolo, spiega pure un concetto di spazio-tempo fuori dell’ordinario e del comune senso di razionalità, pone la propria condizione assistenziale più nell’area dell’enigma, del mistero, che non al di qua del razionale dove è tutto spiegabile.

La magia sfida l’impossibile con un atto di fede. Lo zingaro esiste perché è il volere di “un” Dio a cui piace la varietà, mentre a noi non è dato di sapere altro, tutto è frutto del destino.

Narra così un vecchio detto romanó sul destino:

Ni furát accénzn trin lacliá bi-prandundiá ta vacheréuzn ku Ghi Kambló. Ni divés accenzn avrí tar u ker; ta nacchénzn li pagnalé ki ni lacló, nghirénzinél ku mirribé, asinél biš-ta-jek berš. Kalá trìn pigná, “Cioruró a pigné, a devla! Kial tarnó astí mirél”. Vavér jek a pigná: “Ta na kirvésn kuvá ta kiriá anglá ku mirribé na giasinécc”. U divés palár u Ghi Kambló avakiriá ki dui tar kala; tu kujá a rispunnigná na vachiriácc. Dui, trin divés na vachiriácc evék. Kajá laclì kaná manghiá ki li pigná soscr u dévl na kirésn lac u mu? Soscr a mand na vacherésm avék? Tapál a gilé ku dévl ta pigné “Soscr ki mengr pén na vakeréš avék? Beh, pigná joj a vakirelamáng u divés ta racchépp anglál trin giuvliá fijmmé. Ta joj astì cél a ká. Ta kuvá a dikkél nastí nghinél ki nikt, astí pinél a mand. Kajá ni divés vakiriá ki ni vašteskr ta dikkiá sa butí, a biandól ni ciajurí andré li luluddiá; biandól vavér ciajurí maschiarál ki li macchiá ta kirné; biandól tapál ni ciavuró murš ki ni sció ku carló. U divés palàr a gilí ku dévl ta vachirél, beh pigná so dikkián? A dévl a dikkióm ni ciajurí pirdí di luluddiá, tapál vavér ciajurí ki li macchiá ta kirmé pascé. Ta kujá vavér? A dévl a dikkióm ni lacluró murš ki ni sciló ku carló. Bèh pigná : kujá ki li macchiá a desc-trìn bérsc a kirél i giuvél tar u drom ; kujá vavér ki li luluddiá, avél ki menz soscr asìl u ghij lacció, ta u ciavuró murš ku sciló ku carló a mirél a bisc-ta-jek bersc. Be šund kaná, kuvá ta kammél u Murdivél adál ime ta na tumé ; a pinépp, u murš a bianduló, kuvá ta kammél u Murdivél aviló».

Il racconto del destino:Una volta c’erano tre ragazze non sposate che parlavano con

lo Spirito Santo. Un giorno queste zitelle stavano fuori di casa, videro passare dei gendarmi con un ragazzo, lo portavano all’impiccagione, aveva 21 anni. Queste sorelle: “Poveraccio – dissero – oh Dio! così giovane e deve morire”. Una disse: “Se non avesse fatto quello che ha fatto, davanti alla morte non ci andava”. Il giorno dopo lo Spirito Santo parla con due di queste mentre all’altra, che aveva risposto in quel modo, non le rivolge la parola. Due, tre giorni non le parlava più. Questa ragazza allora chiede alle sorelle perché il Maestro non le faceva più faccia, perché non le parlava più. allora vanno dal Maestro e gli dicono: “Perché Maestro a nostra sorelle non le parli più?” “Beh – risponde – lei mi parlerà il giorno che si trova davanti a tre donne partorienti. E lei dovrà essere presente, e quello che vede non deve raccontarlo a nessuno; deve dirlo solo a me”. Questa un giorno parla con una levatrice e guarda tutto; nasce una prima bambina tra le rose; nasce un’altra bambina in mezzo a mosche e vermi; nasce poi un bambino maschio con una corda la collo. Il giorno appresso va dal Maestro a parlare: “Beh! – le dice – cos’hai visto?” “Oh, Maestro, ho visto una bambina tra le rose, poi un’altra bambina con le mosche e i vermi vicino”. “E l’altro?” “Oh, Maestro, ho visto un bambino

maschio con una corda al collo!” “Beh – dice il Maestro – quella con le mosche a 13 anni farà la donna di strada; quella con le rose verrà con noi perché ha l’anima buona; il bambino con la corda al collo morirà impiccato a 21 anni. Beh, ascolta adesso, il destino lo do io e non voi”.

Il detto è: «Uomo nato, destino dato»4

Dunque ciò che in fondo si fa messaggio nella chiromanzia zingara è di accettare gli eventi del mondo e della natura come causa di forze soprannaturali a cui non possiamo che arrenderci nella consolazione, da qui l’esaltazione della pratica di per sé. È nel rito stesso che si realizza e si compie il “miracolo°” della magia, il non voler cambiare nulla ma rispettare la sorte.

La chiromanzia si perpetua di madre in figlia. Poiché non tutte le figlie possiedono le doti per tale vocazione, di norma accade che è la nonna, già drabeštr, chiromante – guaritrice, a scegliere la prediletta della famiglia per iniziarla, fin da piccola, insegnandole tutto sull’arte di indovinare. Soltanto però sul punto di morte della nonna la nipote riceverà l’ultimo anelito, il potere incantatorio. In questa visione mitologica la parola drab acquisisce un misto di significati; fra medicina strumento di guarigione naturale e “medicina” strumento di guarigione paranormale. Esiste una sorta di prospettiva mitica dell’individuo il quale si pensa conservi delle proprietà speciali perché figlio di un Dio superiore dal quale eredita una parte di quei poteri. Quindi sapienza terrena e illuminazione divina, fanno della romní drabeštr oltre che una donna di Kris, anche una donna carismatica, in quanto ha ricevuto dei “doni” da Dio. Ecco perché la bontà e la generosità si accompagnano sempre al carattere di tale fitura.

La donna tra i Rom è considerata, in fondo, un essere sacro, la sua diversità la rende creatrice, capace cioè di partorire. Allatta i propri figli con quegli attributi, le mammelle, che sono simbolo di prosperità, di proliferazione e di fratellanza. Perciò il detto «I ciucí na ngaravép» il seno non si nasconde (il latte non si nega) si riferisce ad un significato d’eguaglianza ed è un esempio di superiorità. Quella che una volta tra i gagé si chiamava balia e forniva il suo latte dietro compenso, rientra nel comune comportamento di ogni buona romní che all’occorrenza non deve mai rifiutare il seno ad un bambino che ne ha bisogno.

4 Traduzione letterale.

STORIE DI MORTI E DI DIAVOLI

Le storie di fantasmi che appaiono, di morti che resuscitano, di diavoli e di fiabe-parabole, qui riportate, sono il frutto di uno scandagliamento meticoloso tra gli anziani, o meglio in quei pochi vecchi che ancora detengono la memoria di quanto appartiene alla mitologia e quindi alla cultura zingara del nostro gruppo più antico d’Italia, i Rom abruzzesi.

Dunque piccole ma intense storie, che fungono ora da metafora, ora da morale e a volte si dispongono anche come specchio riflettente un’immagine dello zingaro rapito dalle sue stesse credenze sulla spiritualità, sull’origine e significato del mondo.

Una finestra aperta nel cuore di una realtà, dove il mito non è già dato dalle false idee di una visione acritica e stereotipata esterna, ma si materializza, vivo e fragrante, pronto a balzare al di qua dell’altra dimensione ancora a sorprendere, a suggestionare e ad aggredire i sentimenti e la fantasia di chi crede che, in nome della civiltà, si sia oltre il trialismo e si siano superati gli archetipi dell’inconscio e della primitività. Al contrario, questi semplici ma incisivi “apologhi” di vita quotidiana fanno presa sull’immaginifico e nel profondo di ognuno di noi, in quanto carichi di contenuti umani.

Al di là della superstizione evidente e volte anche divertente, è interessante notare il modo di concepire il sacro, i canoni di definizione della verità e il rapporto con la religione cattolica, nonché i punti d’incrocio che hanno permesso ai Rom di accomunarsi alla popolazione autoctona sia essa regionale, provinciale, locale e rionale, insomma elementi basilari della filosofia zingara. Una filosofia che tende ad usare tutte le strategie espressive per evocare ed esaltare una coscienza individualistica basata sui beni interiori, le virtù che allo stesso tempo sono il risultato di sintesi umana, e che produce un senso di fratellanza senza gerarchie “artificiali”, basata sull’uguaglianza, sull’essere a servizio della comunità e sull’essere distaccati dalla società.

I RÀT TAR LI SANT

Ni ràt asiné u divés tar sa li sant, ta li Rom assuvénzn tilàr ki ni kanghirí, andré kaià kanghirì accensn li karmurè, assuvénzn tilàr ni porticàt.

Mirì nonn asiné bùt divòt, asiné ni giuvél kanghiréngr, a paš ràt adikkél ni procissión, sa li gaggé palár ki procissión: kón asinéll i mumulì nghirésn i mumulì, ta kon na sinéll i mumulì nghirésn u ngušstó pirdó tar i jak. Kaná i cior rumrí na xalilì ništ: «Kaná già

šunà pank i mé i kanghirì». Stundiól tar u vódr ta già dikkèl u vuddár, kavá siné pandindó, na cesn nikt avék.

U divés palàr agiàl ta pucél ki li gagià: «Sar asì i ràt a kirén i procissíon akà» i na pignà. «Ió pignà, diaràt adikkióm i procissión ma giásn ta šunasn i kanghirí ta na šugniápp ništ». Na i procissión na kiriàpp.

So siné, li mulé tar sa li sant, a paš ràt agiàn ki procissión ma giàsn ta šnasn i kanghirì ta na šugniàpp ništ». Na i procissión na kiriàpp.

So siné, li mulé tar sa li sant, a paš ràt agiàn ki procissión. Li mulé sa ki li mumujà andé li vašt, asì sar li giné, ma nanéc, jon asì dóx, pur spìrit, a giàn kurkuré lengr procissión, ta pinén i lengr kanghirì, a tutt li sant, kurkuré a giàn andré i danghirì ta pinen appéng i kanghirì. Pank ta šunés nà xavés ništ, kujá rumrì a šugniàl soskr siné ni giuvél tar i kanghirì, li vavér giné na dikkén ništ.

LA NOTTE DI TUTTI I SANTI

Una notte ricorreva la festa di Tutti i Santi e gli zingari dormivano accampati sotto il porticato di una chiesa. La chiesa era tenuta da frati.

Mia nonna, molto devota, era una donna di chiesa e quindi un’anima giusta. Quella sera, a mezzanotte, una visione: vede una processione uscire da quella chiesa, una moltitudine di persone seguiva la processione, chi aveva la candela la portava in mano, e chi non l’aveva, portava al posto della candela il proprio dito acceso. In quel momento alla povera donne venne desiderio di partecipare: «Vado a sentirmi la messa», ma quando si alzò per andare in chiesa, trovò il portale chiuso e tutto sparito.

La mattina seguente va a chiedere alla gente informazioni: «Come mai qui la processione la fate di notte così tardi?». «No – le rispondono – non c’è stata nessuna processione». «Ma – disse – io questa notte ho visto una processione e volevo andare ad ascoltare la messa, solo che non c’era più niente». «No, signora, la processione proprio non s’è fatta».

Che cosa era successo? Erano stati i morti che, durante la notte di Tutti i Santi, andavano in processione. I morti, infatti, sembravano veramente delle persone vere con le candele in mano, ma si trattava solo di una apparizione, in realtà loro sono anime, puri spiriti che da soli in quella ricorrenza fanno la loro processione e cantano la loro messa. Chi ha la grazia di assistere a tale apparizione in quanto anima buona e persone di chiesa, non può però capire ciò che i morti dicono, si sente un bisbiglio, ma non si capisce niente. Dunque la donna aveva avuto la facoltà di guardare

perché era un’anima giusta; gli altri non avrebbero visto alcuna cosa.

I “CHIACCHIERINA”

Ni furàt accésn ni ranì, karesinépp la Chiacchierina, bravalì kajà ranì, agilì andré America, a siné biprandundì. Agilì andré America ciorurì, accilì kó bar bút berš ta rinvilì bravalì kirnì. Kejà ranì so kiresn akó, a sinél jek lucàl akó, allésn li laclurià ta nghirésinéll ki li gagé, ta lésn bút xaddé.

Tapàl visóm berš kajà ranì a kiriappéng bút xaddé ta rinvilì kà, accésn di kér pašé ki bi Giuvìn bunànim; la “Chiacchierina” a karenzinéll, avilì purì ta mulì. Kanà sasseré li giné lakr accilé pašè làt karié lulà tac céne pašè ku mulò i ràt.

André i ràt dik so cciló. I mulì sa ki ni dàb ngavésn kutar ta katàr tar u cikàt, du šing; kalà šing avénzn baré pulité, puliké, puliké. Li gagià ta dikkenzn atrašanzn bút, kanà i Giuvìn pinésn: «Ma! Kiréll mrì kkià o si cipé ta sì li šing?» Gilì ta ccivépp pašé ta siné du singuré, jek kutàr ta jek katàr; li àta naštlì val, val. Sar Dikkié i Giuvìn, li gagià naštlé pank jon sassaré; sa dikkienzinéll ta nikt a pinésn ništ, a civenzinépp atraš, ta naštlé. U divés palàr li giné lakr akariè li karmurià, kalà gilé kundré ta naštlé pank jon. Ta naštlé sassaré. Kanè val, val anghiriell ku cambusànt ta ma riddikkié u muló, šuné! Li šing zinzé, zinzé. Kajà ranì accésn ku beng avilì bengvalì pri sa li bissaxà ta kirià, anghirésn li cior ciajurià ku lubnipé. Li prighier ta kirenzn li gagià na giàsnallàk giuvamènt soskr asinéll u ghi bengvaló, andré u bissaxà baró.

LA STORIA DI “CHIACCHIERINA”

Una volta c’era una signora, si chiamava Chiacchierina, era molto ricca, andò in America e non si sposò mai nella sua vita. Andò in America che era molto povera, stette lì molti anni e ritorno ricchissima. Questa signora cosa faceva lì, aveva tirato su un locale dove prostituiva ragazze giovani facendole incontrare con gli uomini, e così prendeva molti soldi.

Dopo diversi anni la signora divenne talmente ricca che decise di smettere e ritornare nel suo paese d’origine, Avezzano. Infatti stava di casa proprio vicino alla nostra Giovina buonanima5. La chiamavamo la “Chiacchierina” perché era una gran pettegolona; diventò vecchia negli anni e poi morì. Tutti i parenti le prepararono il funerale e chiamarono, come si usa, le donne per la nottata vicino al morto.5 Defunta.

Durante la notte successe una cosa incredibile. Alla morta all’improvviso iniziarono a spuntare dalla fronte due bozzi che parevano corna. Questi bozzi, piano piano, crescevano sempre più fino a prendere la forma vera e propria delle corna. Le donne che pregavano intorno a lei iniziarono ad impaurirsi però nessuno aveva il coraggio di parlare. Allora Giovina dice: «Ma! Sono i miei occhi che lo fanno oppure quello che vedo sono corna?». Si avvicina alla salma e si accorge che erano realmente delle corna, erano spuntate una a sinistra ed una a destra della fronte. In quell’istante si fece assalire dal panico e scappò via di corsa. Le altre, appena videro Giovina fuggire, si decisero anch’esse di squagliarsela. Il bello era che tutti vedevano quello che stava succedendo, ma nessuno si pronunciava per timore che fosse una propria visione. La mattina dopo chiamarono delle monache per benedire la salma, ma anche queste ebbero orrore dinanzi allo spettacolo incredibile e l’abbandonarono all’istante. In fretta in fretta i familiari si precipitarono a sistemare la defunta nel cimitero; prima di sotterrarla vollero rivedere per l’ultima volta la donna morta per l’addio, come si usa da queste parti, e si gelarono il sangue vedendo che quelle corna erano cresciute oltre misura fino a impedire che la bara si richiudesse bene. Era chiaro dunque che questa signora stava con il diavolo, divenuta indiavolata per colpa di quei peccati che aveva fatto, portava le povere ragazze alla prostituzione. Perfino le preghiere delle donne erano valse a niente, non le davano giovamento perché aveva un’anima dannata da un grosso peccato.

«SO PICCÓL E TÈNG LI BAFF»

Atté a Lubbúrg accénzn li Rom ta giànzn našindónn, jek tar kalà a kiriàsn ni mirribbé, agianzn našindónn ku pral. Kavà fàtt asì cipé. Kutàr tar i dìs accésn ni kring kardó spitalét, akó cél ni pónt ta kutèr tar u pónt accél ni pilalí, kajà pilalí abikinésn i mól.

Kanà kalà arvénzn tar i pilalí a ràt ta upràl ku pónt šugné u ruvibbé tar ni ciajurí: «A devl!» pignà u kirivó Giachimúcc bunànim, «ašunes li cingàrd tar i ciajurì a Micchè? Pakià ni lubbinì di gagì kiriàl ta frikkaniàl tilàr, kanà giàv ta làll» pignà. Alléll šukuar mbašimmé ta nghiréll upràl ta cìap akkišté ki kavà ciavuró pri li musià. Phér ta phér aviló divés, kanà kavà ciavuró a xalarì i furàt a ziasn bút, filó ta dikkél andró mú, tar kavà ciavuró, ta dikkià u mú tar ni puró ki li šingure prú cikat: «Eh! Pignà, so piccól e teng li baff». «A devl! Kón asì kavà!» sar a pignà kón asì kavà, na dikkiàl avék, ta pirié prù dróm. Duràl tar u pónt akirià tar dikkép, triddó, triddó, baró, baró ki li šing, asiné u béng. Jon apirié ta naštlé tar ustaribbé, tapàl ta ringhignéll, so ccililléng; accilé buddér tar ni

mask ki tra špri lénd, a dikkiénzn u béng. Agilé ta pucél ki li gagé ta pigné ta kó a marienzn ni murš pri li xaddé, kavà arninghiósn soskr u ghi leskr na siné lacció.

“SONO PICCOLO E PORTO I BAFFI”

Vicino a Borgo Rose6 si trovavano dei Rom, due dei quali erano fratelli e fuggivano dalla polizia perché coinvolti in un omicidio. “Questa storia è pura verità”. Di là del paese, in un posto chiamato Ospedaletto, c’era un ponte e di là dal ponte si trovava un casolare dove era possibile comprare del vino.

I due fratelli una notte tornavano proprio da quel casolare mentre riportavano con sé del vino. Sul ponte, ad un certo punto, sentirono il pianto di un neonato. «Oddio!» disse il compare Giacomuccio buonanima, «senti anche tu questi strilli di bambino, Michele? Forse una prostituta gagì l’ha partorito e l’ha buttato sotto questo ponte; adesso vado giù a riprenderlo». Dice. Allora va e con tutte le fasce raccoglie il bambino, lo riporta su, se lo mette in braccio e rimonta a cavallo. Cammina e cammina quand’ecco che si alza il giorno, l’alba schiarisce la notte e inizia ad illuminare il paesaggio, quindi può finalmente vedere il bambino che porta in braccio. Adesso però avverte una strana cosa: questo bambino un po’ alla volta aumenta di peso sulle sue braccia, allora egli va a guardare il viso del bambino e si accorge che ha la faccia di un vecchio con i baffi e le corna sulla fronte. Quello risponde: «Eh! So piccól e teng li baff». Giacomuccio: «Oddio! Chi è questo?» Appena dice “chi è questo”, sparisce tutto. E continuano a camminare per la strada. Lontano dal ponte ecco nuovamente apparire, dritto dritto, enorme, l’immagine demoniaca con tanto di corna: era proprio lui, il diavolo. I due fratelli con la famiglia scapparono dal posto, se la scamparono dalla polizia che li ricercava; ma quando raccontarono la storia, cosa successe, stettero più di un mese con il terrore addosso, avevano visto il diavolo. Poi andarono a domandare cosa era accaduto in quel posto e seppero che proprio lì era stato commesso un assassinio per motivi di soldi. Il morto allora, non potendo riposare in pace, era costretto ad apparire in quanto anima dannata.

«UŠTÌ TA ZIÀS»

André ràt rištiém ki ni dìs ndurtunì ta spuladdiém ladindé ki ni kring nivó bi pricikardindó. Asiné tilàr ki ni pónt, pašé ki ni ruk baró. Kanà mrù rom sutló upràl ki ciàr, upràl ki ni bàrr.

6 Un paese tra il Lazio e l’Abruzzo in provincia di Rieti.

André u suvibbé šunésn: «Alzati che mi pesi», ciangajàp trašanó ta na dikkià ništ. Ver xalarì andró sunó šugnà: «Alzati che mi pesi». Sa ki ni furàt u Vincenz aštundló ta pignà: «Kon asì?», na césn nikt, dikkiàp kutàr ta katàr ta siné jov kurkuró.

U divés palàr giló ta pucél ki li gagé: «So ciló akà», pignéllesk ta mulì ni laclì tilàr u kambj tar u buró bušmignàngr. Tapál ta li vavér rom giagné kavà fatt, anaštlé sassaré tar u laddipé. Akiàl sa li rom nghiulé tar kujà kring ta gilé sa pašé ki ni mujakkr. U xulaj tar i mujàkkr a pignà: «Jó, u buró tar kojà laclì arvesn tar u lavór ta giàsn palàr ki burì, ta bušindón a pignà: “Ma dikkés ta civàt tilàr?” ta ciappéngl pišignangr tilar, a sinél dešoxtó berš ta mulì. U kuà sutló mrù rom a siné u kuà pilì i laclì tar u pónt ta mulì ku širó pakardó».

“ALZATI CHE MI PESI”

A notte tardi siamo arrivati in un paese sconosciuto e ci siamo accampati in un posto nuovo mai visto prima. Era sotto un ponte vicino ad un grande albero. Mio marito si adattava dormendo fuori dalla tenda sul prato d’erba fresca che appena copriva una lastra di pietra.

Durante il sonno comincia a sentire una voce strozzata che diceva: «Alzati che mi pesi». Pensava di sognare e così riprendeva a dormire, ma questa volte la voce arriva dal sogno: «Alzati che mi pesi». Vincenzo scatta in piedi svegliandosi impaurito e pensa: «Ma chi è?». Intorno a lui non c’era anima viva, si guardava di là e di qua ma non c’era nessuno, era solo.

Il giorno appresso va a chiedere in giro dicendo: “Ma cosa è accaduto in questo posto?” e apprende che dove lui aveva ascoltato la voce, era morta una giovane ragazza d’incidente sotto il camion del proprio fidanzato mentre scherzavano sul ponte. Appena gli altri Rom avevano saputo del tragico fatto, si erano allontanati dal posto e tutti insieme cambiavano accampamento, si erano messi vicino ad un’osteria del paese. Il padrone del locale iniziò raccontando: «Sì, il fidanzato tornava dal lavoro ed aveva incontrato la ragazza su quel ponte dove giocava con le dicendole: “Vuoi vedere che ti metto sotto col camion?” Così dicendo succedeva il disastro, la investiva non volendo, spingendola dal ponte, cadeva su quel punto ormai morta. Era caduta sulla pietra spaccandosi la testa».

I GURÚV DILINÌ

A Villa Vallelonga agiém me ta mrì ccià Cianganéll bunànim ta ciém ni ràt akó. Kanà lamé sinéng ni giukél kiàl baró, a siné

l’autúnn, acciàsu pašé ki giuladdì tar i kanghirì, cièm i ngeràt ta ciémc ta suvàs.

Sa i rat nakkèsn pašà ménd ni gurúv, tilé ta upré, tilé ta upré, u giukél na cingardésn, prisó trašàsn, a xavésn ta siné u muló. Me pignom: «Dikké kujà gurúv, u xulaj na pandignàl laccì, a svušariàpp». Lamé na xaliém ta siné u muló, xavàsn ta kumugn xindì putrajasinépp ta i gurúv naštlìns.

Kanà apuciém ki li gagiè: «Ma diaràt mukkién ni gurúv putraddì avrì?» I nà, pigné, trin, štar divés palé vilì ni giošstr ta piló ni laclò tar bišujek berš ta muló akó. Jov anghiól ki sassaré. Li giné ta mulé tar u mirribbé giungaló anghiól prù them soskr aštì rissél u divés tar u mirribbé lacciò, kuvà ta dél u murdivél.

LA MUCCA MATTA

A Villa Vallelonga7 andammo io e mia figlia Cianganélla buonanima, ci fermammo lì per un giorno.Avevamo con noi un cane bianco molto bello e grande, faceva la guardia al campo durante la notte.

Era d’autunno e stavamo vicino la piazza del paese di fronte alla chiesa, accampati là per una notte. Ecco che nella notte si sentivano dei passi d’animale avanti e indietro, era una mucca che scorrazzava su e giù per la piazza. Il cane che avevamo non abbaiava. Egli aveva paura perché, come tutti gli animali, capiscono quando hanno a che fare con i morti. Allora ho pensato: «Ma guarda quella mucca, il padrone non l’ha legata bene, s’è scavezzata». Non avevamo compreso che si trattava di un morto, pensaamo che fosse scappata da qualche stalla, e che la mucca una volta liberata fuggisse all’impazzata.

Allora raccontammo l’indomani alle persone ciò che era accaduto: «Per caso questa notte avete lasciato libera una mucca?» Ci risposero di no ma che invece alcuni giorni prima era venuta una giostra e dal gioco del “calcio in culo” un ragazzo di 21 anni si era sganciato precipitando a terra senza vita. Da quel giorno egli appare a tutti spargendo terrore. Infatti i gagé avevano ragione perché le persone che muoiono di mala morte, cioè prematuramente prima che Dio abbia deciso, con il suo destino, la durata di una vita, sono condannate a vagare sulla terra degli uomini per il tempo necessario fino a che raggiungono il giorno fatale.

U MIRRIBBÉ TAR U NOK

7 Un paese nei dintorni di Avezzano.

A kiriàpp u fór a Lanciàn ta u kàk miró, u pràl tar u mur dàt, u zi Nok, asiné ni rom zuraró, trašanzu sassaré ta leštr. U divés tar u fór addignà u brišndó ta sapnariépp sassaré. Tapàl tar u fór, a siné u mask tar u novèmbr, asiné šil, li rom allenznappéng trìn štar ašdinià tar u vangàr ta kinénzn sa màs tar u baló : pré, càn, pór, mú, ta civénzn i kakàv.

Kanà kavà rom a sapnariasinép ta a šukkiariáp anglàl ki jak ta pignà:«Ah! Kanà šunammàng ni zór ta xasnamàng trišél giné», anglàl ki sa li rom. Ma jóv apignàl akial bi nafél. Tapàl ta xajé, a pié ta kiriàp ràt, karià i romrì pi ta giàn ta suvénappéng tilàr ki ngeràt. U divés palàr a pignà ki rimr:«Lamé giasamméng ki ni disurì tilar a la Guardj ta karép Mulón» ta gileppéng, li rom arcilé kó ki dìs.

Kanà štar, pànc tar kulà pigné: «Ma giàs rakkàs kuva zuraró ta maràsl?», acciép tikané ta gilé, già maràsl. Kavà rom accià suvésn pašé ki rumrì ta li ciavé, kavà rom a siné malmàs, anghirésn pri lešt u šutabà. Gilé anglàl ki ngeràt ta pigné:«A Nok, uštì, già piasamméng paš zitinì ki mujàkkr». U Nok pignàlleng: «A mrù pràl, pignà, na šnàmm lacciò, sa kuvà šil ta lióm, a giašs tašà». Jon: «Innà giaskanà, aštì uštìs». U ciór Nok xaliló, kalà kamménzn avér butì, ta štundló. Gilé andré i mól. Kanà du acciép avrì tar i mól ta anglàl tar u vuddàr ta du andré, kanà u rom axaliló ta lià u štabà tu ziddià vàl jóv ta kiririà i gagì ki musì, palàr kuvà a zidigné andré lešt, giló ta našel avrì ta kikiriél li vavér du, ta muló kó. Kavà rom tapàl aparugnél sa butì, ta li vavér aštariél sassaré. Kanà kavà rom pank jóv arninghiošn ki li giddé pašé kuà muló mardó. Li divés ta nakkésn i rumrì ladindì akó, i gagì tar i mól adikkesinél, apinesnallésk: «Eh! Nok so kirés a te». Iov: «Cià šikiràv ta nakkél i mirì rumrì ta mrì ciavé» i gagì vakerésn ku rom. U rom pinésn: «Me signóm muló ma u ghi miró giàl pirindón, ta štì keràv akiàl soskr u murdivél na kariàm kanà ki lès». Kajà gagì apinésn ki rumrì kuvà ta šunesn ta lešt.

Lamé acciàsn ku kér a Cuppit ta kulà rom accésn a kó a la Guardj, lamé na gianàsn ništ tar kavà mirribbé. Kanà u murdàt giló ta dél ta xàl ki li voj ta dikkiappéng ni zizà, barì barì, kalì ki li kià putraddé; ngavasinél tar kuà xan li voj ta kujà anglàl, anglàl, giló ngavél ta i zizà cià xasnappéngl. U murdàt ki mrì dàj: «Vlin! Kajà ziza, so kammèl, a štì sì tar i gagì pašé ménd. Xignà làkr mulé». Sar pignà kiàl, a kirià ni jak barì ta na dikkiàp avék. Kanà a murdàt ciàp a traš, giló ndré budder muló na giddó. U divés tapàl kuvà ta marià Nok, u Giuvannìn, aviló ta suvél ki ménz, lamé na gianàsn ništ, u cior rom kirià ta xàl, ta pil andré u ker mengr, tapàl giloppéng. Tapàl xalarì divés lamé giagném su butì, u murdàt xulinàs pignà: «Ta giagnósn mariosinél akandré ku và ta mariammàng u pràl». Murdàt asiné tikinó ma vésn cinghirdó. Kujà ziza a sinérn u ghi léskr ta vésn ta pukavésn u mirribbé tar leskr pràl.

L’UCCISIONE DI NOK

Alla fiera di Lanciano c’era anche il fratello di mio padre, zio Nok, un uomo molto forte fisicamente e coraggioso, di lui avevano tutti timore. Il giorno della fiera venne a piovere bagnando i Rom che erano presenti. Alla fine decisero di ritornare; era il mese di novembre e un gran freddo imperversava su tutta la campagna, sicché decisero, come era consueto, di raccogliersi tutti insieme in un posto per mangiare. Così ogni famiglia acquistava tre o quattro chili di carbone e carne di maiale soprattutto zampe, orecchie, trippa, muso; ognuno si cucinava queste ghiottonerie nella propria pentola.

Questo Rom, Nok, dopo aver ben mangiato e ben bevuto, mentre si asciugava davanti al fuoco esclama: «Oh! Adesso mi sento così forte da mangiarmi8 300 persone», dicendolo davanti a tutti gli altri. Me egli lo diceva così, senza malizia. Dopo che mangiarono e bevvero, a notte tardi chiama sua moglie e s’incamminano verso la loro tenda a coricarsi. Il giorno appresso dice alla moglie: «Andiamocene in quel paesetto che si trova sotto Guardiagrele [PE], a Molone», così se ne andarono mentre gli altri rimasero là.

Dopo che se ne andarono, alcuni uomini che avevano ascoltato l’esclamazione di Nok, dissero: «Vogliamo andare a cercare quel forzuto e fargli pagare la provocazione che ci ha fatto?». Si mettono insieme e partono a cercarlo. Quell’uomo se ne stava tranquillo a dormire vicino alla propria moglie e i suoi figli. Ora, si dà il caso che neanche lui fosse un santo, infatti portava sempre con sé la pistola. Questi, avvicinati alla tenda, gli chiesero: «Nok alzati, alzati, andiamo a farci una bevuta all’osteria». Nok rispose: «Fratello – dice – non mi sento bene adesso, è stata tutta l’acqua che ho preso alla fiera, ci andremo domani». Loro ribadiscono: «No affatto, dobbiamo andare ora, devi alzarti». Allora il povero Nok capisce quello che volevano e si alza e vanno finalmente all’osteria. Dunque era un tranello. Due uomini entrarono con lui e due rimasero fuori del locale davanti alla porta. A quel punto l’uomo intende e cerca di difendersi, inizia a sparare per primo ma colpisce la signora dell’osteria al braccio, dopo di lui sparano i due dentro, lo feriscono, lui cerca di scappare ma fuori l’aspettano gli altri che lo finiscono e muore, muore lì. Poi venne sepolto e la storia finì con l’arresto dei colpevoli.

Ed è così che anche Nok appariva alle persone. Nei giorni seguenti la moglie con la biga e i figli soleva passare da quelle parti e ogni volta la signora ferita le riferiva che lei vedeva Nok e gli parlava, chiedeva sempre della famiglia. Lei diceva: «Eh! Nok cosa stai facendo seduto su quel mucchio di sassi?» e lui rispondeva: 8 Sconfiggere.

«Sto aspettando che passi mia moglie con i miei figli». Dunque la gagì parlava con il morto. Diceva anche: «Io sono morto ma la mia anima vaga ancora, devo fare così perché Dio non mi ha chiamato ancora con Lui». Questa donna raccontava tutto alla moglie.

Allora noi, in quel periodo, stavamo di casa a Coppito [AQ] e non sapevamo niente di quella brutta storia, ignoravamo tutto finché successe un fatto. Mio padre un giorno andò a stramare le bestie che aveva in stalla e come al solito buttava bracciate di fieno nella mangiatoia, quando vede apparire improvvisamente un gatto, era grosso grosso, nero con gli occhi spalancati, più lo scacciava dalla mangiatoia e più gli avanzava davanti. Va per toglierlo con la forza e il gatto si inferocisce attaccando mio padre. Allora papà si rivolge a mia madre scacciando ancora il gatto: «Questo gattaccio cosa vuole, deve essere quello della signora accanto» e lo bestemmia, «che io possa cagare i suoi morti». Appena pronuncia la frase il gatto sparisce in un lampo di fuoco. Papà ebbe molta paura, ritornò in casa più morto che vivo. L’indomani si trovò a dormire da noi l’assassino dello zio Nok; si chiamava Giovannino, venne a trovarci per qualche giorno, non sapevamo nulla di ciò che aveva commesso e così mangiò e bevve con noi in casa nostra. Dopo che se ne fu andato, venimmo a conoscenza di tutto con una rabbia che mio padre non poté sfogare; aveva offerto ospitalità all’assassino del proprio fratello. Disse: «Se l’avessi saputo l’avrei ucciso, quel dannato infame ha fatto fuori mio fratello». Era piccolo mio padre ma era molto ribelle. Allora capimmo che quel gatto non era altro che l’anima sua, dello zio, che veniva ad avvertirci, ad avvertire il fratello del suo assassinio.

U XÉR KINÓ

Vér furàt acciàsn ku kér a Trasàcc ta u mrù papù a kignàsn trìn, štàr xér a Villa Collelong, jóv a pignà ku mrù dat: «Già, già rillé kulà xér», ta jóv a giló.

Maškiaràl li disurià, Trasàcc ta Collelong, a cél ni cambusànt, anghirésn ni sér palàr ta jek anglàl a kisté, rištló ki kavà cambusànt. Jóv na ccià dikkésn li mulé, pank ta siné ni rom ta dikkésn bùt mulé. Kanà šgnà palàr a lešt ni dox giungaló tar u xér, kavà kirésn: «Ahh! Ahh!...» sàr jék ta na kirelalàkl avék.

Kanà jóv ziddésn u xér ki vu šàr ta kavà na pirésn, a siné kinó, a giló ta rdikkél palàr ta dikkel jek a kišté prù sér, u mrù dàt pinél: «a mardó9 so cià kirés te upràl, kón pignattùkl ta civéšt upràl ku xér miró». Kuvà, triddó, triddó na vakirésn, sàr nakkló palàr ku cambusànt, na dikkià avék ništ. A siné ni gagió muló. Tapàl ta rgiló

9 Mardó significa “morto ammazzato” ma si usa anche per indicare un poco di buono, persona malvagia, traditore ecc…

ku kér mrù dàt a ciló ni mask andré u vódr pri traš. U mrú dàt a dikkésn bút ku urdivél ta li mulé.

L’ASINO STANCO

Un’altra volta stavamo di casa a Trasacco [AQ] e mio nonno torna dalla fiera di Collelongo, dove aveva comprato degli asini; disse a mio padre: «Va’, va’ a riprendere quegli asini», e lui andò.

Tra il paese di Trasacco e quello di Collelongo si trova un vecchio cimitero su cui si narrano delle storie di fantasmi e apparizioni, ma mio padre in quel momento ai morti proprio non ci pensava, però. Ad un certo punto, mentre camminava sentì uno strano respiro. Lui andava avanti in sella all’asino e l’altro lo seguiva dietro tenuto per mezzo di una corda. Il respiro dell’asino si faceva sempre più affannoso come se non ce la facesse più a tirare avanti, anche la corda era tesa e affaticava il cammino, gridò all’asino: «Ar, ar!...» per farlo andare avanti, ma l’asino sembrava stanco, come se portasse una soma pesantissima sulla schiena, si sentiva forte un: «Ahh! ahh!...», quasi stramazzava a terra.

Allora si decise a voltarsi per rendersi conto di cosa stava accadendo e vede un uomo in groppa all’asino; gli grida dicendo: «Bellimbusto, cosa stai facendo lì sopra, chi ti ha dato l’ordine di salire in groppa al mio asino?». L’uomo, dritto dritto, se ne andava in silenzio; ma quando oltrepassarono il cimitero egli scomparve all’improvviso. Era proprio un gagió morto apparso a mio padre; dopo che tornò a casa stette nel letto per più di un mese impaurito. Mio padre era un uomo soggetto alla visione dei morti perché era un uomo credente sia i Dio e sia nei morti.

U GAGIÓ BI ŠIRÓ

Kujà furàt Tèrn a siné ràt ta ciémc andré ni floót tar li Kèr ludindé, akà césn u dróm nivó, ta na nakkenzinéc niék, katàr césn li kér, ta kutàr césn u ciarvibbé baró, drak, ruk ta butià kiàl.

Kanà rištiésn a ràt lamé ta li voj accénzn bi ta xàn, mrù rom pignà: «Tašà vàl giàv andré kuvà ciarvibbé ta kiràv ni dlés i ciàr ta civavalléngl anglàl li voj». U divés palàr, ku kam tilé,vàl, vàl giàl a kó ta lél i ciàr, kanà sa ki ni dàbb dikkelattúk jek bi širó andré i ciàr. Só ciló a kó, mariénzinéc ni ginó. Kanà jov na xavésn tar u muló xavésn ta siné u xulaj ta ngariasinép maskiarál i bàr pi ta štarél.

Arviló andró laddipé sa trašanó, Tapál i mé gióm ta puciàv ki pilalì: «Tar kón a sì kujà cik?» kujà cik a siné tar ni ginó ta mariél kó, a cignéllésk u širó, du, trìn bérš palé. Lamé naštiém vàl sar šugném kiàl tar kujà kring.

IL GAGIÒ DECAPITATO

Quella volta a Terni arrivammo di sera e in fretta in fretta ci accampammo tra un gruppo di case in mezzo alla campagna. Allora stavamo al di qua di una strada nuova però poco trafficata, di là c’erano le case e dall’altra parte c’era la campagna aperta con un campo d’erba rigoglioso, inoltre si vedeva l’uva della vigna, alberi da frutta e cose del genere.

Essendo arrivati tardi, i cavalli avevano fame e quindi mio marito disse: «Domani mattina presto vado in quel pascolo a fare una bella “bracciata” d’erba per i cavalli». Infatti la mattina di buon’ora, con il sole ancora basso, si appresta ad andare e vede, in mezzo ad un cespuglio, una persona senza la testa, aveva solo il busto. Cosa era successo? Là avevano ammazzato un uomo tagliandogli la testa. Mio marito non si era accorto del morto, pensava fosse invece il padrone che s’era nascosto tra l’erba alta per fare la guardia al suo campo convinto, chissà, di acciuffarlo. Poi una volta riconosciuto il morto che gli era apparso, scappò via da lì e arrivò al posto tutto raggelato dal panico.

Dopo andai tra la gente dell’abitato per informarmi meglio e chiesi: «Chi è il padrone di quella terra là?». Mi risposero che il pezzo di terreno apparteneva ad un uomo ormai morto, ucciso nella sua campagna in modo atroce, gli avevano reciso la testa e dunque il suo destino è quello di riapparire. Così scappammo subito da quel posto.

U KURRIBBÉ TAR U PRÀNDV

U Ciapanél, u rom tar i Papinì, a sinél ni ciavó tarnó ta karesinépp Ghúš10, a siné kór ta lésn i rumrì. Kalà rakkenzinépp a li Vill tikané li vavér rom ta cénz ku kér andré kujà dis.Liénzn a jàk ni ciajurì, i cià tar u Angél ta i Giùlj, kajà cià siné šukuàr sar u kàm, u nàv lakr siné Cirinì ta sinél deštatrìn berš. Kanà u Ciapanél pignà: «šund a Papinì, già sta lasamméng kujà ciajurì ta dásl ku méngr ciavó, jóv a kammél mistó». Pank i ciajurì kammésn u ciavó, kiàl i ràt gilét a lieppéngl ta naštlé duràl. Tapà ta rgilé u dàt ta i dàj tar kajà ciajurì, na rakkié avék i Cirinì. Li gagià pukajè sa butì. Vàl, vàl u dàt giló andré vlìn, ciàl andré vlìn, kalà ruddié bút, kutàr ta katàr, ta na rakkié ništ, nakló ni mask, ništ, tapàl rakkiél. I vlìn lià i cià ta nghiriél ku dàt ta i dàj, a vašt tar i vlìn a rlieppéng i ciajurì. Kajà ciajurì kanà a siné saštì, u ciavó na ciangajasinél pri ništ soskr siné

10 Ghús è un soprannome diffuso che nasce da un’associazione con il gozzo della gallina; Ghúšvaló è una persona dal collo rigonfio in avanti.

bút tarnó. Kanà kalà rom ta cilé mukklé tar i cià lié but laggiavó, sa xulinàs vilé sassaré ki dìs mengr ta vakirén, kamménz i krìs. Jón kamménzn i cià ki zór, kanà sinénl bagnipé, li puré digné krìs. Jón kamménzn i cià ki zór, kanà sinénl bagnipé, li puré digné krìs ku dàt tar i ciajurì. Aviló u kurribbé. U ciavó mukkló na prandunesinép a vek. Avilé sa li Casamònik tar i diš di Roma, kón kili ciurià, kón ki li kašt, kón tu tuvél. A dikkiemc sessaré anglàl ki kanghirì andré ni fór baró, ta kó kuriémc giungualó. Lamé signénz xalarì, jón siné buddér, u Cilikló dignà ni dàbb ku tuvél ta cignà paš širó ki ni mùrš; a mariépp sar li giukél. Tapàl vilì sa i vlìn, sa i zór léngr, sa li kriàt, soskr a siné bút giné ta štarié sassaré. Kirieppalléng vàl i tulinì ta u xarnóširó dignà: ku Cilikló bunànim jék bérš ta šo mask; ku trù dát oxtó mask; ku Làng deštoftà mask; ta sa la vavér li épanc mask. Gilé stardé triànt giné. Anglàl u staribbé di Vzzàn li rumnià vénzn ta giánzn, a già rakkénzn li léngr rom ta nghirénznalléng u xabbé. André i kanghirì tapàl a rakkié bút butià tar u kurribbé: triànt kašt; biš putignà; deš ciurià ta oxtó nuné; li rom pri tràš tar u ródm a fikkagné sa butì ko ndré. Kanà kajà ciajurì a rcilì pašé ku dàt ta i daj, jón tapàl a prandugnél ku ciavó tar u Filippantònj, u Karnél.

Tapál tar kavà kurribbé, but rom giléppéng, a mukkié kajà diš, a siné kulà tar li Kasamónic, kón a Riét, kon a Caštél di Sángr ta sa li vavér a Róm, bikigné léngr kér ta na vilé avék katàr, André kajà dis a cilé: li Muréll, li Di Silvj ta li Spad.

GRANDE RISSA PER UN MATRIMONIO

Ciapanello, il marito di Papinì [Tacchina] aveva un figlio giovane, pronto per essere ammogliato, si chiamava Ghúš [Gozzo]. Si trovavano a quel tempo presso la località di Villerose, un piccolo paese in provincia di Rieti dal quale si dice discenda la famiglia dei Morelli. Ciapanello si era accampato vicino alle case degli altri Rom della zona, aveva preso d’occhio una bella ragazza, figlia di Angelo e Giulia. Era bella come il sole e giovanissima, appena tredici anni, il suo nome era Cirinì [luna]. Se non che Ciapanello parla con sua moglie e dice: «Ascolta Papinì, perché non andiamo da quella ragazza e la diamo in sposa a nostro figlio, so che anche a lui piace». La ragazza pure voleva il giovane quindi, appena scende la notte, vanno a prendersela e fuggono lontano. Tornati i genitori a casa non trovano più la figlia. I vicini di casa allora raccontano tutto e seppero tutto così, presto presto il padre si recò dai carabinieri per denunciare il fatto. Li mise nella legge dei gagé; i carabinieri fecero ricerche qua e là ma non trovarono nulla, passò un mese, niente, ma dopo qualche tempo li rintracciarono. La legge prende la ragazza e la riconsegna al padre per mano dei carabinieri. Il padre la riaccoglie, perché lei aveva assicurato che la sua verginità era

intatta, aveva conservato l’onore. Quel ragazzo infatti non l’aveva neanche toccata, perché era troppo ragazzino, aveva solo dodici anni. La famiglia del ragazzo a quel punto, una volta abbandonati dalla ragazza, si coprirono di vergogna per questo e così, molto arrabbiati, decisero di vendicarsi. Vennero accompagnati da altri loro parenti fino ad Avezzano per dichiarare “guerra” alla famiglia della ragazza e fu in questo modo che scoppiò una grande lite fra Rom. Prima di iniziare però chiesero una kris per ottenere ragione per la quale avere diritto a riprendersi la ragazza con la forza, ma i vecchi dettero torno a loro e ragione al padre della ragazza. Purtroppo quel ragazzo non si sarebbe più sposato a causa dell’affronto umiliante ricevuto. Iniziò una rissa violenta, molti Casamonica di Roma vennero ad affiancare Ciapanello, alcuni erano armati di coltello, altri con mazze e bastoni ed altri ancora con le asce. I due gruppi si scontrarono nella piazza davanti alla chiesa di San Giovanni e lì se le dettero di brutte. Il gruppo di Avezzano era inferiore rispetto all’altro più numeroso, ma uomini valenti, come Cilikló [uccello] e Ciang Zinzì [Gambalunga] fecero la loro parte brillantemente. In questa piazza si sentivano grida e il sangue schizzava da tutte le parti; Cilikló con un colpo d’ascia portò via un orecchio e parte di pelle ad una persona che stava per uccidere una donna, insomma si azzannarono come cani; per fortuna non ci fu nessun morto. Dopo venne finalmente la polizia e la situazione si calmò, molti furono subito arrestati, processati e condannati per direttissima. Ci fu la causa e il giudice inflisse la pena: a Cilikló un anno e sei mesi; a Ciang Zinzì otto mesi; a Lang [Zoppo] diciassette mesi, e a tutti gli altri cinque mesi. Andarono in prigione ben trenta persone, davanti a quel carcere andavano e venivano le mogli portando da mangiare ai loro mariti. Nella chiesa poi trovarono molte armi, nascoste là per non essere coinvolti nella rissa: c’erano 30 bastoni, 20 fucili, 10 coltelli e 8 falcetti. Così quando tutto finì la ragazza stette dai genitori che provvidero a maritarla in seguito con un bravo ragazzo del posto, Karnéra, il figlio di “Filippantonio il terribile”, ma questa è un’altra storia.

Dopo la lite molti Rom andarono via dalla città per trasferirsi: a Roma soprattutto i Casamonica; altri si recarono a Rieti e Castel di Sangro, vendendo la propria casa. Rimasero ad Avezzano i Morelli, i Di Silvio e gli Spada.

U ISSJPÉ TAR I GIUVÉL

Ni furàt accésn ni giuvél bút ciorirì ta kušésn sa li divés u Murdivél soskr a siné bi baxt, kanà sa ki ni dàbb a viló anglàl a làt ni ràj baró ta pignà: «Soskr a kušcés u Murdivél, so kiriàn?» Joj a pignà: «Me kušav but soskr na sim ništ». Kanà u ràj xaliló u ghy

giungaló tar i giuvél ta vakirià kiàl: «šund a mand! Me dàt baxt ta bravlipé ta avés kimànz ki kór laccì, me kammàv u tru ghi». I giuvél a pignà jó. Kanà viló u berš ta u ràj manghià u ghi, giló pašé u ciavó ta kariàl: «Sund ciavuró phén ki tri dàj ta me šikiràv kujà butì». U ciavó argiló ku kér ta pignà sa butì ki dàj ta joj na gilì palàr kulà làv, u divés palàr vavér furàt kavà ràj a kiriallésk kuvà vakiribbé.

U ciavó li àzulì ta pucià ki dàj: «Kón asì kuvà ràj? So kammél?». Kanà i giuvél lià sa i zór ta gilì anglàl u ràj: «So kammés kanà a béng?» U beng: «Arsirešt, me kammav tru ghi?». I giuvél karià u beng ta pignà: «Me vàv ki tús ta xavés kris: André i xindì, a ràt i tu a šti pringikarés so sì ni butì». U beng a pinél jó. Kanà a ràt joj a sikariàp sassarì ta ciapp pašnurì prippù ta li bàl zinzé tilé. Giló andré i xindì u béng ta lèl ta ciangavél kajà butì. Li vašt tar u béng a giànzn upre ta tilé upràl kajà giuvél nanghì, ta pignà:«Li bàl asì i purì u dummò asì kuvà bišép ta i búl so sì? Asì u širó, a xandél bút u dox, nané u grašt, nané u baló, so si?». Kiàl u béng sa i ràt ciangavésn ta na xavésn so siné kujà butì, aviló u divés, ta u béng a nasciajà.

LA FURBIZIA DELLA DONNA

Una volta c’era una donna molto povera che non rassegnandosi alla sua miseria bestemmiava Cristo ogni giorno. Si lamentava sempre per la sua sfortuna fino a quando si presentò davanti a lei, un giorno, un signore distinto. Lui le domandò: «Perché bestemmi spesso il nome di Cristo, cosa ti succede?». Ella risposte: «Io bestemmio molto perché non possiedo nulla». Allora il signore si accorge dell’anima cattiva della donna e le parla in questo modo: «Ascolta donna quello che ti dico! Io ti darò fortuna e ricchezza se tu puoi verrai con me, io voglio la tua anima». La donna pronuncio, senza alcun dubbio, un sì secco ed egli sparì in un lampo di fuoco.

Venne il tempo che quel signore ricomparve a riprendersi l’anima dannata di quella donna. Si avvicinò un giorno al figlio mentre andava a scuola e gli disse: «Ascolta ragazzo, riferisci a tua madre che sto aspettando quella promessa». Il giovane torna a casa e racconta l’episodio alla mamma la quale non dette importanza a quelle parole. L’indomani la stessa cosa, il signore gli ripeté la frase del giorno prima. Il ragazzo allora si innervosisce e domanda alla madre: «Ma chi è colui? Cosa vuole da te?» La signora prende coraggio ed affronta il signore: «Cosa vuoi adesso, diavolo d’un signore?» Il diavolo risponde: «Ricordi, io voglio la tua anima». La donna chiama il demonio e gli fa una proposta: «Verrò con te quando tu avrai risolto un enigma: nella stalla durante la notte dovrà riconoscere un tipo d’animale». Egli accetta la sfida.

Allora nel buio della notte lei stessa si spoglia tutta nuda nella stalla e si mette carponi con i capelli fluenti penzolanti all’ingiù in modo da coprire la faccia. Il diavolo, allora detta, va ed entra nella stalla scura e comincia a toccare la cosa palpando su e giù tutto quando il corpo della donna. Le mani di lui arrivano fino ai capelli, poi risalgono la schiena fino alle natiche e non capisce di che cosa si tratta e dice: «Questa è la coda» riferendosi ai capelli; «questo è il garrese» pensando alla schiena; «mah! questa dovrebbe essere la testa» toccando le natiche che in quell’istante produssero un peto, «ma le puzza tanto l’alito di feci e sembrerebbe un deretano, non capisco. Se qui c’è la coda dall’altra parte per forza ci deve essere la testa, sì ma che animale è? Non è un cavallo, non è un maiale, cos’è?». Così passò, indeciso, tutta la notte fino all’alba, in cui il diavolo perse la scommessa e fu sconfitto dalla furbizia della donna.

L'IDENTITÀ ZINGARA

(Lezioni tenute da Bruno Morelli nel corso di cultura zingara all'Università Roma 2 "Tor Vergata- - Anno accademico 1997-98)

L'AUTOIDENTIFICAZIONE

Chi sia un Rom oggi penso lo sappiano tutti: è quello che una volta si usava chiamare zingaro, un termine che in un certo senso echeggia radicato di sinistra diffidenza. Pare che il "nuovo" appellativo Rom ammorbidisca un po' il fantasma così evocato e abitui a guardare questo individuo, tuttora strano, in un altro modo.

Ecco, è proprio di quest'altro modo che vorrei parlare in una maniera più approfondita del solito, ma solo per il fatto che questa volta a farlo è il sottoscritto stesso, uno zingaro.

Da tempo ho riflettuto su tale condizione esistenziale, un po' come faceva il "Narciso" del Caravaggio rimirando la propria immagine nello specchio d'acqua, ma badando di non fare la stessa fine, cioè annegare in se stesso, incantato dalla propria bellezza. Ragione per cui cerco di penetrare l'apparenza, sempre deviante dalla verità, per soffermarmi sui "difetti" che più garantiscono il ritratto vero di un volto; come diceva Honoré Daumier,

grande pittore e caricaturista dell'Ottocento francese: "il difetto in una persona è segno di bellezza, in quanto ne rivela il carattere espressivo; dunque via tutto ciò che è "aureo" perché ingannevole—. Perciò se il "Narciso" del Caravaggio evoca con la sua metafora etica la velleità mitica e minacciosa dell'edonismo, Daumier nei "ritratti grotteschi" innalza la bruttezza umana ai valori di una nuova estetica, che si affaccia agli albori dell'arte moderna.

Due incisi per dichiarare guerra ai pregiudizi e ai falsi luoghi comuni intorno ad un personaggio per troppo tempo raffigurato come un essere demoniaco o un alibi di sogni proibiti.

Occorre sfatare il comune significato di identità, che in generale equivale ad un principio di eguaglianza tra i connotati generali della persona con la "carta di identità", documento con il quale si stabilisce con assoluta certezza il riconoscimento di un individuo e la sua collocazione formale. Molto bene l'interpreta l'opera di Luigi Pirandello, che evidenzia la meschinità umana (quando si cerca uno stato sociale, si incontra l'alienazione di se stessi in quella che in fondo è una maschera) e in maniera divertente smonta l'infallibilità del sistema adottato per accertare la legittimità di un essere umano. Tant'è vero che il personaggio di una delle sue novelle, fingendo di morire annegato nel fiume, dove lascia i suoi panni e i documenti per simulare al meglio la propria scomparsa, quando decide di tornare "in vita" incontra molte difficoltà nell'affermare un'esistenza non più `'certificabile", in quanto ormai tutto l'apparato burocratico dichiara che quel nominativo è estinto e con esso la persona medesima. Dunque il personaggio è costretto a cercare un'altra identità.

È chiaro quanto possa essere assurdo, anche se la società è ormai adattata al sistema, voler applicare tale metodo identificatorio agli zingari. Essi di sicuro adoperano all'interno del loro habitat sociale, della loro comunità, tutt'altro modo.

Molto complesso e interessante è per esempio il metodo di autoidentificazione di un Rom di fronte a membri sconosciuti della stessa etnia. Ebbene il metodo in questo caso non si basa su un ineccepibile gesto di presentazione: mostrare i propri documenti per designare una discendenza, i dati fisici, la professione, lo stato civile se celibe o coniugato. Non esiste un parametro di identità tra la persona e la dichiarazione personale per presentare l'individuo nei termini di collocazione nello spazio e nel tempo; i punti di riferimento sono tutt'altri. Il Rom ricorre essenzialmente a criteri che tendono a coinvolgere l'intera genealogia; il linguaggio si fa territorio di aspetti caratteristici, di speciali tracce che raffigura-no l'identikit "digitale" e fisico di quel singolo individuo; quindi, oltre a nominare i suoi antenati per famiglia e per gruppo specifico, accennerà anche a caratteristiche proprie, intime, di quella data organizzazione familiare.

Lo Zingaro, dunque, non si presenterà mai col proprio nome, cognome, data di nascita e indirizzo davanti ad un altro Rom (semmai lo -farà con un ~_'as-nò); inizierà invece dal padre: "Signnòm ti ciavò far u Gas", sono il figlio di Gozzo, nome romanò dal quale si risale a quello italiano con il relativo cognome, ma prima è il padre ad essere citato e con il proprio soprannome. Poi si passa alla madre e si introduce la famiglia con i vari agganci parentali. Questo per rintracciare, possibilmente, almeno una goccia di sangue della stessa razza, dichiarando così anche un principio di origine comune. Con pln-al, fratello, si stabilisce lo stato di unione zingara come figli del medesimo ceppo. Inoltre si cita sempre un atto o un episodio eclatante della famiglia, che testimonia la verità di un comune modo di pensare: può essere un atto eroico oppure legato ad un mito, la forza dell'esempio. E ricorrente l'aver picchiato i carabinieri o salvato dalla morte un bambino o aiutato una famiglia in un momento di bisogno; sempre comunque episodi a tutela e a beneficio della comunità.

Altro elemento di identificazione 4'pluralistica" è il ribadire i tipici difetti di ciascun gruppo-famiglia, legati questi ai cognomi. Allora sono consueti ad esempio modi di essere, esasperati e mitizzati, con i quali si riconoscono differenze comportamentali di questa o quella tribù.

I Morelli, per esempio, sono ben noti per la loro tendenza all'alcol, per cui vale la nomea di razza di ubriaconi, anche se, allo stesso tempo, si ammira in loro uno spiccato senso di generosità.

Poi ci sono `_li Spinelli, famosi per la loro megalomania e narcisismo, il quale si combina però con un lato positivo, la bontà. Tendono ad esagerare tutto quello che fanno; se possiedono una casa, parlano di una villa; se hanno un prosciutto, parlano di un enorme maiale; se hanno un po' di soldi, riferiscono di essere milionari, ecc.

Gli Spada sono grandi mangiatori di carne e di grasso; si dice che sono poco longevi a causa dell'alimentazione povera di vegetali, spesso soffrono di gotta e di problemi all'intestino. Avvezzi al pettegolezzo, si dimostrano instancabili nelle discussioni. Tra i Rom il parlare troppo è ritenuto un difetto, la ciarlataneria non corrisponde alla saggezza, che privilegia invece l'ascolto.

I Di Silvio appartengono, nell'immaginario romanò, alla categoria dei cosiddetti ndrepk, interpreti, cioè di coloro che, per comprenderli nel loro strano modo di esprimersi, necessitano di un interprete. Questo significa difficoltà di rapporti con essi in quanto, testardi e irremovibili nelle prese di posizione, rifiutano ogni tentativo di cambiare le loro idee. Per tale carattere incontravano nelle fiere occasioni di litigio.

I Ciarelli sono considerati per l'innata tendenza alla violenza un vero e proprio pericolo pubblico, una minaccia per la pace del gruppo, che è la garanzia indispensabile su cui si fonda l'armonia e l'unità di questa "microsocietà". Infatti difficilmente vengono invitati a feste o celebrazioni varie per timore di inaspet-

tate sorprese. Tuttavia la loro virtù è senz'altro la parola data, la serietà e il ri-spetto. Forse proprio per questo forte senso di rettitudine mancano di ironia e di atteggiamento scherzoso, che loro, di solito, fraintendono per offesa personale.

I Guarnieri sono fra tutti i più ricchi di senso ludico e di comicità: non c'è festa, per così dire, dove la loro presenza non sia gradita. anzi si va alla ricerca di essi per rallegrare e divertire. Lontani sempre dalle controversie e dai conflitti di vario genere, preferiscono prendersi e prendere in giro. Agiscono un po' da giullari, scherzano, parlano e avanzano così la loro critica. Questa famiglia non viene presa molto sul serio e gli altri gruppi mantengono con essi rapporti mode-rati.

Poi esistono altre famiglie come i De Rosa, presenti soprattutto nella zona di Sulmona e Torre dei Passeri (CH), ricordati per la superbia e la manuseng, il maschilismo, mentre i Campanella, rimasti in pochi a Pescara, lo sono per la loro preferenza all'isolamento.

Altro ceppo familiare molto esteso fra i Rom abruzzesi è quello dei Di Rocco, noti per la loro permalosità: arricciano il naso e aggrottano la fronte quando si sentono derisi e sono pronti a scattare d'ira non appena si insiste nell'ironia; sono, come si suol dire, "di punta", puntigliosi, barricati nella propria convinzione, nel proprio sentimento vendicativo. Anche dopo anni ricordano l'offesa ricevuta e non trovano pace finché non la restituiscono. Altro modo curioso di esprimere il loro risentimento in ambito familiare è il digiuno: sono capaci di non mangiare per giorni, evitano di stare a tavola assieme al marito o alla moglie o ai figli fino a quando non si chiede lealmente scusa nei loro confronti. y

Queste peculiarità palesemente riscontrate in ogni gruppo-famiglia consentono anche di orientarsi nell'impostare rapporti matrimoniali e quindi di parentela con essi oltre all'identificazione immediata dell'individuo che vi appartiene e che quindi viene collocato in uno spazio preciso, per poter poi adeguarvi il modo di accoglienza e di trattamento. Se egli discende da bevitori è bene misurare la quantità di vino da offrire per impedire lo stato di ubriachezza a danno dell'ospitalità; se proviene da testardi, si cerca di essere il più accondiscendenti possibile nella discussione; se fa parte dei violenti, allora è bene non trattenerlo a lungo nella conversazione o in casa, evitando spiacevoli inconvenienti; se è megalomane, non prenderlo sul serio, e così via.

Altra possibilità di identificare un Rom è il modo di citare i suoi ascendenti, ossia se usa indicare i genitori col nome anagrafico oppure col nome romanò. Naturalmente tra Rom è meglio qualificato chi usa i nomi reali, cioè quelli dati

dal gruppo, che spesso derivano o da un pregio o da un difetto della persona: si va dalla associazione con gli animali a causa di una somiglianza somatica, a quelli che designano un handicap fisico, per arrivare a quelli che evocano valori mitici quali la bellezza, la forza, il coraggio, la bontà, ecc.

Tali nomi si possono comprendere sommariamente in alcuni più diffusi come Basinò, Gallo, Balò, Maiale, Xèr, Asino, Macciò, Pesce, Macchì, Mosca, Ciriklò, Uccello, Karmusò, Topo, Pusùm, Pulce, Purò, Vecchio, Pro Bankò, Piede storto, Lang, Zoppo, Kalò, Nero, Tulò, Grasso, Gus, Gozzo, Pas mine, Mezza vagina, Pelé, Testicoli, Ciang zinzì, Gamba lunga, Erkhl, Ercole, Muntàgn, Montagna, Cillòn, "Uccellone", Laklò, Ragazzo gagiò, Minciurì, Vaginetta, ecc.'.

Il fatto di presentarsi col nome romanò è per sentirsi più vicino al mondo zingaro, di cui si fa parte. Ma esiste anche un altro modo di autoidentificazione che, esulando dal contesto interno di appartenenza, coincide col dato esterno, la società dei gagé. Come ci si presenta all'interno e come ci si presenta all'esterno della comunità zingara? Vi è contrasto oppure esiste un collegamento fra due identità apparentemente in disaccordo? Evidentemente a nessuno è mai balenata l' idea che un Rom potesse compenetrare entrambe le realtà; egli fa_ parte ed incarna, a quanto sembra, proprio le due culture, per cui subentra sia un fenomeno di biculturalismo sia un fenomeno di bilinguismo spiegando una sorta di sana dicotomia. Se lo Zingaro si autocertifica in una doppia modalità connotativa, obbedendo al contempo alla duplice legge dei Rom e dei gagé, interpretativa dello stato formale di una persona, ciò induce a riflettere sulla sua identità e a riformulare la stessa definizione sociologica dell'identità e il rispettivo status etnico di questo individuo.

II problema è se la configurazione spazio-temporale di un Rom aderisce solo a modelli originali e indipendenti da quelli delle società maggioritarie oppure si innesta in esse conservando un ruolo di integrazione conflittuale.

I. Davanti al nome si usa sempre l'articolo, u Kalò. i Maccì, dove u, i stanno per il. la. Così si indica il nome in senso personalizzato e teso ad evidenziare colui che è dentro al nome, quindi la sua precipuità, la sua individualità. Ben altra cosa è indicare una persona senza l'articolo: esso diviene un nome comune, che noncaratterizza ma delinea il soggetto in una accezione qualunquistica e formale. Altrettanto Giovanni, Carlo, Franca... non sono che nomi fine a se stessi, classificatori solo di una identità esterna. C'è da dire che i cognomi sono puramente indicativi, non determinano cioè l'origine reale dei Rom nellastoria dell'araldica. I Rom hanno avuto tali cognomi dalle grandi casate nobiliari come protezione e salvacondotto durante gli spostamenti al di fuori dei loro territori. Pertanto dire "Sono della casata dei barone Spada (o Morelli, Di Silvio, ecc.)" consentiva alle autorità di riconoscerli e quindi di rispettarli. Gli Zingari infatti non sono stati sempre odiati nella storia, molti invece erano amati e ricercati per le loro eccezionali virtù artistiche e artigianali oltre ai vari vantaggi nell'agricoltura, data la conoscenza approfondita del cavallo quale mezzo base dell'economia rurale. E fu così che nacquero i cognomi zingari, le cui origini so

no quasi sempre collegate al mondo nobiliare.Ovviamente non funzionava così per altri Rom, che furbescamente si facevano passare per buoni assumendo lo stesso cognome pur di salvare la pelle in certi casi o di circolare liberamente. Coi tempo si "cognomizzarono" molti al momento della iscrizione nei registri dei comuni durante i censimenti. Con la nascitadell'anagrafe tutti vennero definitivamente "identificati", ma anche qui non sempre i Rom dissero la verità; spesso chi aveva problemi con la giustizia cambiava il cognome.Da tutto ciò si può desumere quanto sia effimero il sistema gagiò di identificazione per gli Zingari, in quanto per loro non assume certamente un carattere di riconoscimento. Ecco perché rimane salda l'autoidentificazione nella maniera propria per accertare appieno l'identità individuale.

Un conflitto selettivo, sensibile ai segnali che indicano il livello di "normalità", quindi d'equilibrio, una posizione che prende il meglio di entrambe le parti, che attinge da sé e dall'altro per essere l'uno e l'altro insieme.

Altro elemento prioritario di identificazione è la lingua. Parlata essenzial-mente tra Rom, essa si presenta all'inizio come un biglietto da visita, un "galateo identitario imposto" per spirito di appartenenza, quindi l'onore e il pathos dell'essere orgogliosamente zingaro. Una cosa molto bella è l'universalità di questa lingua, che in tutto il mondo, ove c'è la presenza zingara, assicura la comunicazione: si prova una sensazione di libertà andando in giro oltre i confini nazionali senza dover balbettare un'altra lingua per farsi capire. Quando mi capita di uscire dall'Italia per motivi professionali, all'inizio ho un po' di panico per via della lingua internazionale, l'inglese, che non conosco, ma fortunatamente dove vado spesso si tratta di organizzazioni zingare e allora la difficoltà è risolta ricorrendo alla madrelingua. Dopo qualche esitazione di primo impatto, quando cioè i dialetti si differenziano per i diversi imprestiti dati dalla convivenza con altre lingue, si cerca di riordinare tutto seguendo un principio puristico della lingua: si tratta di togliere quanto più possibile le numerose "contaminazioni" che, pur arricchendola in termini di variazione., coloritura, musica e contenuti culturali, tuttavia intralcia una chiara comunicazione. Ci si basa soprattutto sulle parole antiche, basilari, quelle che più hanno resistito allo scambio e al confronto linguistico: inoltre, quando proprio necessita un rafforzativo nella comprensione reciproca, si fa uso della lingua inglese citando i termini-slogan più diffusi quali stop, OK, relax, ticket, ecc. In tal modo torna utile la spontanea revisione della propria lingua nella riaffermazione d'identità in questa comune ascesa fino alla radice di quanto affratella e rende identici nello spirito di un popolo reso invisibile dalle discriminazioni.

Anche se la lingua è, come si è detto, quell'abitare insieme una stessa casa e quel viaggiare con il medesimo mezzo di trasporto per le vie del mondo, tutta-via non sempre si possono affermare i medesimi principi per esempio davanti ai .Kalé di Spagna. Pur non parlando più la lingua zingara, il kalò, ormai da secoli a causa di una politica razzista fortemente inclusiva nei loro confronti, che adottava pene capitali per chi trasgrediva l'ordine di non parlare la madrelingua, ebbene l'identità zingara dei Kalé non è cessata di esserci, anzi si è rafforzata in altre forme espressive. Segno che i caratteri di questo popolo sono radicati oltre

la lingua. Nella mia esperienza con i Gitani spagnoli, ho rintracciato la lingua "tagliata" dai re cattolici nel flamenco con tutte le sue sonorità e i significati propri della nostra lingua romanì; anzi nel flamenco si vivifica e prende forma lo spirito zingaro in un linguaggio che supera la comunicazione verbale "parlando" perfino ai sordi, a quelli che non potrebbero ascoltare l'idioma zingaro.

Resta inteso però che i parlanti il romanò conservano intatto il privilegio di portare avanti la cultura anche nella storia, se si considera che questa lingua comincia ad essere scritta e si fissa così per sempre come un patrimonio e un bene comune da salvare.

L'identità, quale mezzo di ricerca dell'io più consono ai ruoli stabiliti dalla società, in termini di riconoscimento e di dignità del valore esistenziale reclama-to da ciascuno di noi facenti parte di un collettivo legittimo, stimola la persolità di un Rom a stabilirsi, a individuare, come emerge chiaramente dalla sua "bi-faccialità" e dualismo innato perché adottato in due dimensioni eterogenee, quel-le nicchie così necessarie, che hanno fatto sì che questa diversità abbia resistito, abbia avuto significato e mantenga tuttora il suo ciclo vitale e soprattutto il gusto della propria esistenza. Una vita divisa in due, ma che in realtà non è altro se non il risultato di una geniale combinazione nei valori e nei sentimenti di diverse cul-ture per un principio di "compromesso sociale" di sopravvivenza: i lati positivi di entrambi i "genitori", i caratteri dominanti prevalgono su quelli recessivi, co-me succede spesso nei matrimoni misti.

Nella vita di uno Zingaro ritorna sempre un bi a segnare una duplice intesa, una duplice educazione, una duplice lingua, una duplice religione, una duplice tradizione, una duplice cultura. Personalmente non sento più la differenza tra il parlare la mia lingua e quella dei gagé: per me è tutta una lingua allargata. Ora sto scrivendo in italiano, ma se lo facessi in romanò, sarebbe la stessa cosa, l'unica difficoltà è scrivere in una lingua che è stata solo parlata per secoli secondo una tradizione orale. Un bambino zingaro acquisisce fin dai primissimi anni di vita i dati incisivi delle due culture, entro cui dovrà imparare a vivere, il suo e l'altro habitat. La lingua zingara si insegna naturalmente così come si trasmette anche quella gagì parlata dagli stessi genitori. E come dire una lingua paterna e una lingua materna. Anche i comportamenti sociali dei bambini zingari sono frutto di un contatto esterno: assieme ai bambini non zingari si assumono con spontaneità attraverso il gioco, che diventa luogo di prima convivenza.

L'ambiente zingaro è descritto come qualcosa a tutti i costi tribale, isolato, vissuto esclusivamente dagli stessi "indigeni", dove cercare, come i missionari, il posto adatto per la loro conversione, dove proiettare le proprie certezze religiose o scientifiche. E l'intervento "civile" risulta tanto più interessante e avvincente, quanto più il grùppo è "puro". Contrariamente a tutto ciò si può affermare che la vera arma di sopravvivenza sociale e di resistenza agli attacchi di assimilazione esterna, sviluppata da questa minoranza, è stata ed è ancora il '`non purismo" di questa razza. Se fosse avvenuto il contrario e fossero rimasti chiusi er-meticamente agli scambi con l'esterno, gli Zingari sarebbero estinti da tempo o ridotti ad un numero insignificante di individui relegati in chissà quale riserva protetta. Quella che è stata definita una sorta di "dispersione organizzata" degli

Zingari non risponde ad altro che ad un adattamento sociale, o meglio ad una "strategia di mimetismo", in base alla quale non ci si disperde, ma ci si allea con il nemico. In realtà egli, lo Zingaro, non si è mai nascosto e non si è disperso nel mondo, ha sempre seguito il suo fiuto nel raggiungere il posto dove meglio poter vivere, interpretare i gusti di quella terra prendendone le sembianze. Ancor oggi per sfuggire ad esempio ai divieti di sosta o di accattonaggio, si elaborano sistemi di mimetismo, ci si appropria dei costumi e degli atteggiamenti locali apparente-mente devianti dalla propria identità. Basta pensare ai giostrai o ai circensi: le lo-ro donne difficilmente si riesce ad identificarle come zingare e loro stessi ricusa-no dal manifestarlo davanti ai clienti e soprattutto alle autorità. Così le grandi fa-miglie circensi non dichiareranno mai ufficialmente la propria identità zingara, ma al contatto con altre famiglie siete è di dovere presentarsi come tali a condi-visione della comune radice. Ciò che conta è apparire gagé quando il momento lo richiede, perché, consci della pressione esterna, si mostrano i requisiti richiesti per garantire lo svolgimento delle proprie attività. Allora si spiega, in alcuni gruppi, anche il differente costume adottato dai due sessi: gli uomini seguono lo stile locale, mentre le donne tendono a mantenere il costume tradizionale, qualora serva da attrattiva specie nella pratica della chiromanzia per esaltare il fascino esoterico. La legge di adattamento, dunque, impone sempre una rinuncia in una mimesi continua.

Gli spigoli vivi del proprio sistema di vita si smussano nella misura in cui è possibile un incastro con l'altra parte, perché il dualismo, fenomeno presente in tutte le minoranze, divenga punto di incrocio e di articolazione atto a mantenere "tollerata" la diversità. È come parlare di una diversità bilanciata, calibrata, inversamente proporzionale alla normalità, in modo da apparire entrambe "equamente" diverse. Si spiegano così le somiglianze dei "diversi", che, al contrario di quanto si possa pensare, universalizzano i popoli in base ai valori di fondo e non ai modi di essere. La diversità è uguaglianza.

IL DUALISMO ZINGARO: LA MASCHERA REALE

Una maschera Reale e una maschera Vera. Luigi Pirandello a confronto

Per essere accettati, per non dire tollerati dalla società, i Rom e i Sinti hanno dovuto costruirsi delle "maschere" in grado di corrispondere a inevitabili "gabelle morali", per dimostrare uno stato di appartenenza ufficiale in perfetta regola con le esigenze della regione, in cui vivevano e vivono, sia nei riti - vedi il matrimonio, il funerale, il battesimo - sia nella duplice identificazione dei ruoli, interni ed esterni, e nello stesso bilinguismo; hanno accettato per ultimo la scolarizzazione e quindi l'acculturazione stessa. Senza volerlo gli Zingari hanno sin-tetizzato nel tempo un sistema di permanenza all'interno della maggioranza assai efficace e molto resistente, sul quale varrebbe la pena di indagare ulteriormente. Un sistema che ha permesso loro di essere perfettamente intessuti nella società usando il "mimetismo sociale" e, quando i tempi particolarmente difficili lo richiedevano, in grado di raggiungere una sorta di equilibrio identitario difficilmente destrutturabile.

Infatti osservando alcuni riti celebrativi di iniziazione, nel matrimonio e nel battesimo, il dualismo culturale si attua e si evidenzia fino a materializzarsi in una doppia liturgia, che prima si svolge nel gruppo con la cerimonia di rito tipico, alla maniera zingara, cioè in un raccoglimento corale-festeggiativo al di fuori dei condizionamenti delle dottrine religiose; poi, in un secondo tempo, si "registra" il matrimonio in chiesa e al comune a sancire il patto di un'alleanza sociale, ad abbracciare anche l'altro valore rituale, a riconoscere in pieno l'evento.Questa dualità di "salvataggio", precipua del popolo zingaro, dove la sopravvivenza della specie è garantita da una speciale maschera-veicolo di interazione con l'ambiente, conservando però le proprie ricchezze culturali, in qualche modo mi ha stimolato ad accostarmi al pensiero di Pirandello per associazione di idee.

Appare probabile una similitudine tra la "maschera" del grande letterato e la "maschera" zingara, seppure una differenza sostanziale determini le due me-tafore dilatandole in una contrapposizione "speculare". Da un lato Pirandello cen-tra l'idea contemporanea dell'identità in una affannosa, tormentata e vana ricerca del "ruolo-forma" del proprio personaggio, cedendo l'immagine di sé ai ricatti di una società, che costringe, per sua natura, a camuffare la vera identità per l'e-sigenza di collocarsi e quindi di identificarsi sulla base prima della professione e poi della persona; dall'altro lato la maschera dello Zingaro mostra alla collettività ciò che egli è divenuto per restare indenne in questa società. Vero è che la

maschera" -agì del Rom è finita col non recitare più, una volta scoperto che essa garantiva un rapporto vitale con chi non riconosceva volentieri l'altra faccia, anzi la inibiva in tutti i modi possibili e immaginabili. Il culmine di tale inibizione

culturale lungo la storia persecutoria nei confronti degli Zingari è stata raggiunta con l'olocausto, la "soluzione finale" nei campi di concentramento della Germania nazista negli anni quaranta.

Dunque una maschera incarnata permanentemente. facente un tutt'uno con il viso, su cui difficilmente si distinguono le parti; è questa difficoltà di identifi-cazione che induce a riflettere sull'esistenza zingara come un qualcosa di unita-mente doppio, creato nei secoli di condivisione dello stesso spazio e dello stesso territorio in piena conflittualità.

Se Pirandello sognava di superare la staticità dei ruoli preassegnati, rifiu-tando una maschera ingannevole del vero e dell'essenza umana, che invece vive e muta in un continuo divenire, meno "reale" ma più genuino e legittimo del vi-vere quotidiano, i Rom hanno risolto tale dilemma con una "maschera vera", una finzione che è divenuta uno stile di vita, forma nella quale ritrovare il punto d'in-contro con la fraternità umana.

L'identità zingara oggi

li concetto di *'lo" di un Rom coincide con la definizione di se stesso nella totalità, ossia corpo e spirito, mente e volontà, e nell'azione fortemente socializzante verso l'altro, dove l'entità umana è tutta rivelata nel concreto, lasciando poco spazio all'astrazione di tale concetto.

Nella lingua zingara "io" si dice i me e sta a significare una ripetuta definizione di sé, perché i è articolo femminile e me equivale "me medesimo", "la mia persona". Dunque è come se si dicesse "la io", come del resto anche la seconda persona singolare tu, ritenuta un altro "io", si indica con l'articolo femminile.

I1 femminile, con cui si costruisce la definizione di persona umana, è anche significativo per il valore simbolico associato all'idea di completezza. quindi di fecondità. L'io dispone allora di un valore individuale e spirituale, che si contrappone all'io cosciente materialistico e psicologico dei gagé. Mentre nell'uno permane il mistero ancora tutto "medievale" dell'inspiegabile esistenza umana, l'altro è impregnato di consapevolezza e di disincantata visione "scientifica" del tufM sveldf"i. Spesso oggi si parla di perdita o crisi di identità zingara nella nuova generazione, quella che va, secondo alcuni, dalla metà degli anni sessanta, in coincidenza con la storica rivoluzione giovanile, fino ai periodi più oscurantistici, se-gnati dai temibili anni ottanta e novanta, quando i mass media attaccano al suolo l'identità zingara resa fragile dalla progressiva sedentarizzazione.

In una certa letteratura scientifica, in uno studio al riguardo, si legge che "Il vento non soffia più", come a indicare la fine di un'era romantica, in cui lo Zingaro,

personaggio "reale" per Pirandello e quindi non vero dal punto di vista della concretezza, non cavalcherebbe più il vento della libertà. Niente di più falso. Ciò che è vero invece è nel principio di mutevolezza, di modificazione, di cambiamento a cui ogni cultura sottostà, ed è dunque naturalmente immaginabile anche per la dimensione romanì, che si vede investita dall'epoca delle grandi riforme, il passaggio in un nuovo millennio, dove cambiare è indispensabile.

Nei secoli, in ogni epoca e in ogni paese, gli Zingari hanno interiorizzato una maschera di adattamento alle svariate circostanze; così anche nei tempi attuali assistiamo alla metamorfosi, alla sostituzione della "pelle" vecchia, non più capace di proteggere il corpo e di permettere un nuovo spostamento". La trasformazione, che stiamo vivendo oggi, prevede l'integrazione sempre più complessa e sofisticata, dove i segni evidenti del folklore tendono a sparire e un nucleo a rafforzarsi in un sempre minore tribalismo e in una sempre maggiore con-sapevolezza culturale. Il proprio bagaglio non lo si vive solo istintivamente, ma è soggetto a critica e a riesame da parte soprattutto dei giovani scolarizzati, che saranno i protagonisti di una rinnovata zingarità del domani.

Riformulare l'orientamento di questa grande etnia verso un futuro certamente migliore, dove il confronto con gli intellettuali rom è la sicura sfida di una nuova era, è al centro dell'attenzione già in numerosi convegni, movimenti e associazioni europee, tese a ripristinare un rapporto dinamico e competitivo con la società a pari livello. Reclamando i diritti alla diversità culturale, togliendo le ci-catrici della "maschera incarnata" per presentare la compiutezza di questo innesto umano, si affermerà una cultura a pieno titolo.

La ventata di novità non a caso proviene dai paesi dell'Est, dove regimi totalitaristici degli anni passati, con lo scopo di assimilare tali diversità, hanno imposto la scolarizzazione anche agli Zingari. Quelli ovviamente dotati hanno potuto raggiungere notevoli livelli di studio e, nel contempo, hanno rafforzato una coscienza etnica. Significativi sono i titoli delle nuove organizzazioni socio-culturali, come ad esempio Anglunipé di Skopje e Ternipé romani

a Sofia, che rispettivamente si traducono "Futuro" e "Gioventù zingara". Esse predispongono programmi innovatori nel campo dei movimenti zingari spesso in rot-tura con le vecchie generazioni, aspirano alla modernizzazione e alla soggettività politica, affinché una maggiore partecipazione nella vita sociale aiuti a risolvere

il problema dell'emarginazione, che affligge in maniera prioritaria il nostro mondo.

Nell'Europa occidentale invece abbiamo una situazione diversa, in cui Rom e Sinti `godono di vantaggi sul piano economico, riflettono le condizioni genera-li del continente, ma presentano carenze dal punto di vista dell'istruzione scolastica. Manca, tranne eccezioni, una effettiva rappresentatività sul piano politico,

• soprattutto in Italia si fatica ad organizzarsi e a trovare una piena autonomia di gestione, soprattutto per la mancanza di leader.

Un altro intoppo, che ostacola un autentico protagonismo nella causa dei Rom e dei Sinti, è rappresentato dalla eterogeneità dei gruppi, troppo differenti e contrastanti tra loro; questo impedisce il consolidarsi in forze associative per una forte azione consensuale. Pertanto i paesi detti poveri hanno prodotto i movimenti più importanti a iniziare dalla Unione Romanì fino agli ultimi dalla carica rivo-luzionaria. In Italia, paese industrializzato, va ricordata I' Unirsi, che avrebbe do-vuto consociare le diverse associazioni romané, ma di fatto non riesce a decollare perché manca una adeguata preparazione intellettuale e quindi un'autonoma coscienza e responsabilità. La spinta ad agire non parte dai Rom, ma da alcuni gagé, che curano più i propri interessi. Non sono ancora maturati i tempi per una rappresentatività forte fra gli Zingari. Tuttavia il giovane Rom vive adesso una grande occasione propizia se, nel sano conflitto interfamiliare e intercomunitario, riesce a superare le frustrazioni dovute alla rottura col passato più tradizionalista• a spingersi verso il futuro senza però negare quanto di valido c'è nel passato. La crisi genera caos, ma è dal disordine che nasce un nuovo ordine: i tempi sono pronti per reinventarsi.

Lo strumento indispensabile, che permette tale riscatto generazionale, è la scuola innanzi tutto, oggi finalmente di più facile raggiungimento. Il punto debole però nel corso di questa importante trasformazione è, a mio avviso, la mancanza di supporti essenziali di sostentamento in un cammino, dove l'entità zingara manifesta tutta la sua fragilità. Momento delicato e facilmente insidioso per il rischio di falsi modelli, che potrebbero disturbare e dirottare fortemente l'o-rientamento verso una distorta coscienza dell'essere zingaro. La prima carenza di supporti è senz'altro in ambito scolastico, dove spazi di riconoscimento ai porta-tori di altra cultura non sono concessi a sufficienza o per lo meno è assente una struttura capace di intervenire in una fase così decisiva. Occorre rettificare l' in-segnamento ai bambini zingari in maniera più consona e appropriata a conoscenze specifiche sull'argomento culturale con una pedagogia e una didattica atte a preparare al meglio gli aspiranti a una "neoidentità".

Se una volta fra i Rom il mezzo educativo e formativo era affidato total-mente ai genitori e quindi alla famiglia, unica responsabile della costruzione identitaria dell'individuo adattato alla società, fin dai tempi in cui l'istruzione era ancora lontana e fuori luogo, oggi i tempi sono cambiati, la permanenza a lungo termine in luoghi divenuti residenza e domicilio, l'impatto con una convivenza a stretto gomito incide sul dover dare risposte alle nuove generazioni sempre più attratte da altri modelli di vita. Dunque si rende necessario aprirsi al nuovo, af-

frontando la sfida del confronto come unico modo per combattere gli "agenti", sempre più in agguato, dell'assimilazione. Solo attraverso una effettiva doppia scolarizzazione di cultura gagì e di cultura romanì si potrà assicurare la "maschera protettiva" di sopravvivenza culturale nel futuro, iniziando proprio dalla scuola in cui si gettano le basi della formazione e dove la discordanza tra cultura madre cultura "ufficiale" ha sempre creato conflitti.

TEORIA DELLA BILANCIA - DUALISMO FONTE DI EQUILIBRIO

Nell'affrontare il tema dell'identità zingara numerose sono state le associa-zioni di idee, che hanno sollecitato la mia immaginazione a usare forme semplici di paragone, ma efficaci nell'esprimere il mio punto di vista; pertanto espongo un esempio, che indico come la teoria della "bilancia".

La mia età coincide con un periodo importante per la storia dei Rom abruzzesi, in quanto ho attraversato quella fase tanto critica, che corrisponde al passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, da una infanzia vissuta all'aperto a una rigida immobilità. Dico rigida, perché il cambiamento è avvenuto bruscamente, dovuto innanzi tutto all'apparire di nuove condizioni economiche favorevoli sul piano del commercio. Questo passaggio evidentemente ha provocato un eccezionale trauma psicologico, che ancor oggi mi porto dentro, ma che mi arricchisce senz'altro di esperienze uniche e utili a sostenere una visione autocritica e il più possibile attendibile.

La dualità è una condizione che presenta vantaggi e svantaggi allo stesso tempo, sia perché rende più liberi nel pensare e nel vedere senza pregiudizi le cose che ci circondano, sia perché pone il problema della diversità visto come un vivere fuori dalle regole e dalla "normalità".

Dunque un'anima, si direbbe, vissuta o "divisa in due", come suggerisce il titolo di un noto film, ma non è così, vista la naturalezza e la tranquillità con cui si tira avanti la sorte. E da ammettere però che vivere contemporaneamente le due dimensioni non è sempre facile, anzi è faticoso soprattutto farlo capire agli altri. Ed è proprio questo spiegare l'inconciliabilità apparente di due mondi, che diviene per me una ragione di esistenza, la voglia di comunicare quanto più vantaggio porti l'essere un "duo" anziché un "io". A ciò si aggiunge tutta una corrente filosofica kantiana a favore della tesi "dualistica", con cui si tenderebbe a recuperare "1' integrità originaria" dell'individuo come valore di totalità, presupposto dell'assunzione in un tutto fatto del bene e del male, del puro e dell'impuro, del vero e del falso, della verità e della contraffazione, dell'essere e del non essere, di tutte le contraddizioni umane che pongono in dubbio la stessa definizione statica dell'identità.

Da parte mia l'esigenza di teorizzare una versione appagante in qualche modo dell'essere zingaro oggi, o diversa da un contesto normale, mi porta all'esempio della "bilancia" ad illustrare il privilegio di una condizione, che è al di là della facciata scomoda che tutti conoscono. "La diversità come luogo di equilibrio sorto sulla differente posizione sociale". Si può immaginare il

rudimentale strumento della bilancia nello spazio della società. La bilancia possiede tre punti nodali, su cui si basa il principio di equità dei pesi in un gioco di rapporti e di proporzioni: i punti estremi della barra orizzontale rappresenterebbero le due dimensioni, gagì e romanì, dell'identità duale zingara, mentre la barra verticale funge da perno di snodo che, poggiando profondamente nei valori perenni della società, crea l'articolazione necessaria.

Mentre il primo elemento, la barra orizzontale, si presenta in una azione mobile, il secondo rimane fisso e radicato in terra. La mobilità è data dall'asse in bilico che unisce le due estremità di intensità differente e che nella misurazione continua stabilisce il concetto di equilibrio: l'essere sospeso a mezz'aria senza pesare troppo né da una parte né dall'altra. Tale equilibrio è soggetto, suo malgrado, a essere messo sovente in discussione, poiché raffigura una verità che deriva dal confronto simultaneo dei due parametri, i quali non suggeriscono la soluzione palesemente ma spingono a rintracciarla per un effetto di contrappesi. È come se ogni volta si ascoltassero due versioni diverse di due litiganti e dalle due "campane" si tirasse fuori una verità obiettiva, che occorre fabbricare sulla base dei differenti punti di vista. La "verità" non appartiene mai ad una sola voce, ma è il frutto di un patteggiamento, a volte travagliato, di chi si trova alla ricerca dell'equilibrio per la sua "diversa" natura. Non a caso il "di-verso" contiene due versi in sé, leggibili entrambi in modo da coglierlo pienamente.

La diversità in generale è indispensabile alla società proprio per non cadere in dogmi o verità a senso unico, "troppo pesanti", pericolose in quanto portano allo squilibrio della bilancia e quindi alla dittatura. Dunque, se si riesce a mantenere la dualità nel gioco delle differenze con continui punti di riferimento diversificati nelle forme ma evidenti nella loro sostanza, il fine sarebbe di cogliere il "principio plasmatico", una verità cioè non assoluta, che non pesa né troppo da una parte né troppo dall'altra, ma diventa una ricerca, un anelito verso qualcosa che ci porta a perfezionarci ogni giorno senza fossilizzarci nelle gravose sicurezze.

Un parametro di equilibrio lo rintracciamo in risposta alla forza di gravità: il verticalismo. L'opposto è l'orizzontalità, dove la perpendicolarità prevede l'equa distribuzione delle parti. L'equilibrio ottimale, stabilito dallo stato orizzontale della barra comunicativa, non può posizionarsi equamente se tutti i pesi, i modi di pensare, non si dispongono orizzontalmente, senza cioè sovrapporsi

l'uno sull'altro. Responsabile di tale mediazione è sempre il perno, elemento perpendicolare a terra, situato fra i linguaggi delle varie culture e i relativi valori.

Se per Sigmund Freud l'io non è altro che la risultante di una frustrazione inflitta dalla realtà esterna verso l'individuo, il quale sviluppa una coscienza tutto sommato difensiva ed esplorativa dell'ambiente, ancor di più risulterebbe costruttivo se la realtà comprendesse più parametri differenti di giudizio, poiché si sommerebbe quella proficua frustrazione per un maggiore equilibrio. Sarebbe un paradosso, ma l'equilibrio come cosmos mentale è dato dal caos, dal disordine naturale: "Dio creò i cieli, la terra ed infine l'uomo con la polvere". Senza la "bi-lancia" una società rischia di avvizzire nelle sue certezze e di morire di super-io, se dovesse venir meno l'opposta estremità a ricordare la fallacia umana.

Il grande perno d'equilibrio dei Rom è stato il nomadismo, mezzo preferenziale per distaccarsi da tutto ciò che è inerente al senso del possesso sia territoriale che materiale, permettendo inoltre un rinsaldamento di quei valori che risiedono nell'umanità, nella famiglia, nel rispetto del debole, negli affetti fraterni, nell'amore per la natura e nel rifiuto della guerra. Ma quello che ha maggiormente conservato lo spirito sgombro dai mali dell'uomo, quali l'odio razziale, la corruzione morale, la fede nelle ideologie fino ad arrivare allo sterminio delle razze inferiori, è stata proprio la dualità, figlia del nomadismo, con la quale la di-mensione umana si è garantita nell'umiltà e nel concreto dei sentimenti.

Tornando ai ruoli di Pirandello, si può concludere la teoria della "bilancia" con un riferimento alla novella "La carriola", dove si racconta di un professionista perfettamente identificato nella sua qualifica di avvocato di successo, che ad un certo punto viene colpito da una crisi di identità proprio per il perfetto fluire della sua vita, tutta calcolata e scandita da ritmi sempre uguali. Un bel giorno, tornando allo studio, è colto da uno strano sdoppiamento della personalità, grazie al quale può finalmente vedersi dall'esterno nella ridicolaggine di una maschera costruita attorno ad un perfetto prodotto sociale, il classico professionista, che deve vestire in un certo modo, parlare un linguaggio tipico, mostrare sicurezza di sé, adornarsi di simboli specifici: targhe, scrivania in cuoio, pipa, penna d'oro e laurea in vista. Si rende conto però che dentro quei contorni lui non c'è più, si sta spegnendo dentro quella riluccicante confezione, è come se si trovasse atrofizzato in un bozzolo, ma non per diventare farfalla dal bruco, bensì per sparire completamente. Allora ha uno scatto di "sana" imprevedibilità, va nello studio, prende la sua cagnetta per le zampe posteriori e, alzandola, la fa camminare a mo' di carriola

intorno alla scrivania, ed è così che si salva.In fondo il gesto così inconsueto non faceva altro che riportarlo alla vita,

deviando un po' dalla solita routine professionale e permettendogli di credere così di non morire totalmente. In questo caso la "bilancia" segnava quel momento di dualità necessaria per reimpadronirsi di sé e ridimensionare il proprio ruolo. Gli Zingari per loro natura e condizioni di vita hanno sempre fuggito l'incasellamento in un ruolo, rifiutando ogni maschera-prigione. Così, per esempio. l'iden-tificazione con il lavoro si realizza mediante il capovolgimento dei piani, cioè il lavoro viene inteso al secondo posto dietro alla persona umana. Prima il piacere e poi il dovere; il lavoro al servizio dell'individuo e non il contrario. Esiste una sorta di antropocentrismo in ogni azione dell'intera attività culturale, compreso il lavoro, che non prescinde dal tutt'uno della vita quotidiana, fatta però di momenti irripetibili, di un presente in divenire, in cui il lavoro si traduce in piacere, celebrando la compiutezza dell'individuo. Un Rom non è tanto importante per quello che fa, ma per come lo fa, il modo in cui agisce, si impadronisce della tec-nica, che fa di lui non tanto l'uomo abilis quanto piuttosto l'uomo sapiens, dotato di facoltà intellettive, che sfociano nel fare e questo fare dura fin quando si prova soddisfazione, piacere, e poi basta; se arriva la stanchezza o la noia, allora quel prodotto diventa lavoro.

Non a caso il lavoro si traduce in butì, cosa, come un'espressione tipica-mente umana che non è semplice manufatto, ma oggetto simbolico che eleva l'uomo nella sua dignità e nella sua socialità, perché il lavoro è visto come un'identificazione col mondo nei rapporti di servizio non fine a se stessi di tipo utilitaristico, ma occasione per dimostrare la propria intelligenza comunicativa con gli altri. Infatti il lavoro non è concepito come un luogo chiuso nell'immobilità ripetitiva di un ufficio, dove tutto è calcolato e le mansioni sono prestabilite da altri, dalla regola che vale per tutti svuotando la libera iniziativa, ma al contrario è momento di grande creatività, d'improvvisazione, di imprevedibilità, dove lo Zingaro conduce sempre una sfida con le proprie capacità a dimostrare che ancora una volta ha vinto, dubigna, e non ha "guadagnato", come si usa dire per il normale frutto del lavoro.

Dunque vincita e non guadagno, due concetti diversi che racchiudono due mondi differenti, dove però il significato più nobile, ma ahimè utopistico per questa società ormai meccanizzata, esprime ancora una ricchezza umana. Giostre, circhi, spettacoli ambulanti, musica, artigianato, allevamento di bestiame e chiromanzia hanno rappresentato dovunque esempi di alternatività nel modo di concepire il lavoro. La stessa kris, metodo di giudizio con il quale un'assemblea di saggi Rom presiedono al controllo del gruppo vagliando il bene dal male, è costruita su criteri critici, precetti morali e non moralistici, che niente hanno a che fare con i valori materiali e possessivi, ma sono frutto di valutazioni provenienti da un vivere semplice ed

essenziale, il minimo indispensabile per sopravvivere rispettando quelle regole di vita basilari per la convivenza sociale tra Rom e gagé collaudata nei lunghi e difficili anni di mantenuta tradizione. Proprio il distacco da tutto ciò che è fisso, immobile, permanente ha portato i Rom a fare riferimento, come nelle Tavole di Mosè, a principi etici umani.

L'ELOGIO DELLA DEVIANZA

La diversità come identificazione di un concetto matematico: il piano geometrico di Cartesio

Ancora un esempio per evidenziare il valore della diversità. Ai tempi del liceo mi rimase impressa una particolare lezione del professore di matematica, benché non fossi mai eccelso in tale materia, ritenendola alquanto noiosa, forse per come me l'avevano insegnata fino ad allora. Rimasi affascinato, tuttavia, dall'esposizione di una teoria filosofica sulla geometria. Le rette, gli angoli, le forme, i punti ideali x, y, la misurazione e le varie equazioni con le relative formule. quasi magiche, da cui si ricava la cifra cercata, mi attraevano moltissimo, ma più di ogni altra cosa mi incuriosiva, quel giorno, la definizione del piano geometrico secondo Cartesio. Subito lo associai alla diversità in senso esteso, universale, a tutto ciò che è diverso, a tutti coloro che vivono condizioni di diversità, fino a ricondurre tale teoria allo stato sociale degli Zingari.

La definizione, più o meno, teorizzava l'identificazione del piano "virtuale" in questo modo: possiamo rappresentare nello spazio una costruzione imma(iinaria, una struttura formale, determinata idealmente da una infinità di punti disposti sulla stessa quota, equidistanti fra loro secondo un sistema direzionale parallelo e perpendicolare, una sorta di reticolato di punti, un campo teorico ove poterci orientare, ove poter misurare, tracciando segmenti relativi a tali punti di riferimento. In pratica è come ci apparirebbe una mappa disegnata sul sistema del reticolato di meridiani e paralleli quali

indispensabili punti di attracco per sorreggere una codificazione corrispondente alla identificazione geografica, Ora, ammesso che anche i segni nello spazio del piano geometrico, che noi andiamo a

tracciare, a loro volta "fisicamente" rappresentino la medesima caratteristica, cioè l'insieme di punti l'uno vicino all'altro ed equidistanti, la teoria sostiene che bisogna cambiare rotta, anche di pochissimo, perché il fenomeno della visibilità dei segni si manifesti ai nostri occhi e alla nostra mente. Ovviamente tutto ciò è frutto di un ragionamento logico-matematico e quindi astratto, che poco ha a che vedere con la realtà tangibile; sono puri orientamenti fondamentali per il nostro rapporto concettuale col mondo, i cardini, o "assi cartesiani", per mezzo dei quali abbiamo costruito la nostra immagine di tempo e di spazio, "l'architettura" del pensiero.

Questo vuol dire che una retta, un arco o un cerchio, che andiamo a trac-ciare sul piano geometrico, diviene visibile grazie alla variazione "deviante" del segno rispetto all'allineamento ordinato dei punti fissi di riferimento. Ora il trac-ciare, in termini geometrici, coincide con il collegare l'un l'altro i punti allineati spostando la direzione rispetto l'ordine dato; questo per risultare significante sulla griglia punteggiata. Altrimenti si disegnerebbe a vuoto, cioè sovrapponendo punti su punti.

La devianza. È curioso pensare che occorre deviare, anche se di poco, per essere presente come entità; il segno al contrario si disperde, se si procede nella direzione speculare di questo ordine dato. La griglia "stellata" del piano geo-metrico assomiglierebbe un po' allo schermo televisivo, che funziona per mezzo di numerosi puntini luminosi, chiamati pixel, tutti disposti secondo l'ordine degli assi cartesiani; essi originano la formazione dell'immagine attraverso un sofisticato sistema prodotto dal tubo catodico, il quale "spara" determinati segnali elettrici. Sul piano geometrico non possiamo inviare segnali seguendo coordinate ordinate in quanto non verrebbero riconosciuti dalla nostra percezione, la quale si basa su un principio di contrasto, di nero su bianco: così un segno tracciato su un segno non verrà mai letto, ma basterà appena scostarlo per assumerlo.

Il segreto sta nella devianza. Questa teoria mi ha fatto riflettere e immagi-nare la società organizzata come una grande struttura grigliata, dove i punti di ri-ferimento o pixel luminosi sono le regole e le leggi che ci siamo dati per costruire un ordine nel quale muoverci e vivere armonicamente e ciclicamente; i tracciati sono invece le persone che devono agganciarsi a questi paletti per scegliere o di vivere o di esistere a seconda della direzione presa. Allora si può dedurre che quanto più ci si allinea al programma direzionale di un sistema sociale, nell'ac-cettare pedissequamente tali regole adattando se stessi fino a scomparire nella gri-glia, tanto più si vive tranquilli il proprio ruolo incoscientemente. Al contrario, quanto più si cerca di non seguire parallelamente le fila ordinate opponendo una resistenza al processo di integrazione, tanto più si esiste nell'evidenziarsi come entità autonoma capace di libero arbitrio. Ma questa seconda scelta pregiudica la

possibilità di vivere tranquilli e addormentati, anzi si paga lo scotto di quello che per il "comune allineamento" è sinonimo di devianza-provocazione. Per conser-vare un atteggiamento critico e attivo nella griglia sociale bisognerebbe non se-guire ciecamente i binari fissi, lasciandoci spingere dal flusso generale di massa. per cui diventa normale tutto ciò che appartiene al fare standard. In questo modo non solo non si sente più il sapore del "cibo quotidiano", ma non si prova proprio il gusto della vita, perché, troppo allineati sui punti cartesiani, si rischia di sparire nel piano geometrico dell’esistenza.

Per esistere bisogna divergere

Da tali considerazioni mi sono convinto dell’imporatnza itale del fattore “diversità” nel vivere comune, perché rappresenta l’esempio vivente di quell’alterità che anela legittimamente verso il superamento del quotidiano inteso come banalità e mediocrità umana. La cultura zingara in tal sensoandrebbe recuperata nei suoi valori di diversità e alterità ed anche per ragioni di utilità sociale in quanto propone nell’immaginario collettivol’esempio di più alto di vita “deviata”. Per concludere, se l’equilibrio, come spiegato nella teoria della “bilancia”, si ragiunge mediante la dualità, lo stare dentro e fuori dai ruoli assegnati, l’identità è data allora dalla diversità, cioè dalla capacità criticaprotesa alla divergenza rispetto al “normale”.

In questo contesto è possibile affermare che il “normale” muore nell’identità e il “diverso” esiste nella sua crisi di identità: mentre il primo è già identificato e inscatolato nella collocazione sociale, l’altro è a contatto con la propria coscienza, l’uno vive l’altro esiste. Ricordo sempre volentieri le parole di Tullia Zevi, rappresentante dela cultura ebraica in Italia, in una intervista televisivacirca la tragedia del genocidio nazista. Ella affermava che gli unici tedeschicapaci ripulire un po’ la faccia della Germania Hitleriana furono quegli ufficiali che si rifiutarono di obbedire agli ordini superiori del Fuhrer e per questo fucilati dal regime e poi, a monito d’esmpio, esposti impiccati sugli alberi dei viali di Berlino con la scritta sul petto “sono un vigliacco”. Queste persone erano dotate nei loro animi di valori di “divergenza”: avevano messo in discussione l’ordine dato e, al di là della cieca obbedienza che li avrebbe portati ad essere assini della specie umana, hanno preferito morire piuttosto di associarsi allo sterminio.

L’esempio calza bene per la teoria del “piano geometrico”, ove non è affatto auspicabile il perfetto allineamento inalienabile dai ruoli prefissati. Ho provato un vero sgomento, continuando l’intervista alla Zevi, quando nella platea televisiva circa il dibattito su Auschwitz, molti giovani erano propensi a credere che gli ordini non andavano comunque discussi ma soltanto eseguiti.

Per capire l’importanza della diversità basta prendere come esempio la multiformità di pensiero politico dei partiti del governo, i quali garantiscono la protezione dal pericolo più insidioso per una società: l’integralismo e il totalitarismo. Una dottrina politica se non è asservita alla civiltà non può che essere usurpazione.

Esasperando il significato di diversità, inteso come reazione alla staticità, si può desumere che senza di essa la vita stessa non avrebbe senso. Pensiamo ancora alla ripetitività delle azioni che normalmente si compiono tutti i giorni, in ufficio, in fabbrica, purtruppo anche nella scuola, a casa e persino in vacanza. Quella che chiamiamo routine non altro in fondoche assenza di diversità in tutto ciò che facciamo, per cui è normale una sintomatologia comune, lo stress.

Un esperimento di ripetitività

Se ripetiamo una frase o una parola per alcuni minuti, cosa succede ? molto probabilmente anche il termine più importante e carismatico per noi, il nome della nostra amata, della mamma, dell’amico, perde di significato per via della ripetizione. Se dovessimo continuare, la pronuncia si trasforma in suono e poi di nuovo in puro atto meccanico della mascella la quale muove la bocca finendo col perdere anche lo stimolo muscolare.

Cosa vuol dire questo? Accade che la ripetitività trasforma in assurdità la pienezza simbolica di un articolazione fonetica, ossia avviene uno svuotamento dei messaggi comunicativi proprio per effetto del ripetere ugualmente la stessa frase.Una storia raccontata sempre allo stesso modofinisce con l’annoiare e potrebbe estinguersi se non ci fosse l’interpretazione, cui è dato il compito di rivitalizzare quella che che determiniamo col nome di tradizione. Così la storia si protrare nel tempo, richiamando la nostra attenzione col rinnovamento dell’esposizione.

Dunque, svelando un segreto della vita, se così possiamo dire, si tratta proprio della diversità, la diversificazionecome concetto di metamorfosi in cui cambiare pelle diventa necessario per adattarsi alla nuova stagione, continuando ad essere sè stessi. Nulla muore, nulla si distrugge, tutto si trasforma, è l’intuizione geniale di un grande da cui prendere spunto.

Per concludere, l’identità zingara si fonda essenzialmente su un aspetto

importante: il dualismo che afferma l’equilibrio del “dentro” e del “fuori” basato sui valori comuni e arcaici dell’essere umano che la Kris, quale organo di controllo sociale, detiene saldamente in un’opera incessante di “patteggiamento” con i gagè (i non zingari).

Lo ripeto: la diversità zingara, come ogni diversità nella società odierna, de-ve essere salvaguardata oggi più che mai, in un momento in cui l'egoismo e l'e-donismo prorompenti stanno portando alla "cultura" della clonazione: l'immagine di se stesso senza più confronti, il rischio della perfetta ripetitività umana, la per-dita totale dei significanti. Si corre il pericolo di annegare come Narciso nello specchio d'acqua contro l'immagine di se stessi, rifiutando l'altro come critica e dialogo sui valori che accomunano gli uomini diversi nel respirare lo stesso ossi-geno e nel bere la stessa acqua, eliminando tutti gli "specchi delle brame".

Lo spazio di questo popolo è una pluralità di spazi da attraversare alla ricerca di migliori condizioni, che vengono però superate non appena sorge il rischio di ripetitività, vero ostacolo della cultura zingara. Una migrazione che va oltre la sedentarizzazione, radicandosi in quello che è,diventato un modo di essere.

Da quanto si è detto sinora, ci si può rendere conto della complessità di questa minoranza e del suo criterio e processo di identificazione; un mondo che ha diviso in due parti il suo io, "l'unità identica", per esigenze di adattamento; e così ha trovato contatto con la propria coscienza, apprendendo di appartenere ad entrambi-1 mondi. Una identità che affonda le proprie radici nei due terreni e trova un humus che la completa e la libera da legami materiali.

Interessante in questo caso è estrapolare dalla lingua zingara un termine comune a tutti i dialetti: xulaj, che significa padrone, colui che è il possessore, detentore di qualcosa, in particolare di terre e di case. Analizzando l'etimo di xulaj viene fuori una associazione con .rulì o xolì, che esprime la rabbia, L'ira; dunque il possesso si accosta alla rabbia, mentre in italiano padrone deriva da padre, la persona che ha diritto di possesso.

Se andiamo indietro nel tempo, possiamo spiegare l'appellativo romanò xiilaj ancora con il nomadismo, dove nel viaggio spesso capitava di fermarsi in un campo e cogliere del cibo o per il cavallo che trainava la biga o per la famiglia in momenti di bisogno. Questo termine allora corrisponderebbe a chissà quanti improperi da parte del padrone nel sorprendere i ladri sul proprio terreno. Allora probabilmente la faccia arrabbiata di costui deve essere

rimasta così impressa che ne è derivato un sinonimo e modello di disprezzo verso tutto ciò che è possesso, specie di beni come quelli della natura che apparterrebbero a tutti. Dunque xulaj, padrone, è la personificazione della rabbia.Ovviamente nella realtà non è sempre così: vi sono molti Zingari che rispecchiano in pieno i modelli dettati dal materialismo consumistico dei tempi attuali, ma in genere si verifica un diverso tipo di attaccamento alla proprietà, in quanto è sempre considerata precaria, vendibile e sostituibile in ogni momento. Si è sempre pronti a cambiare casa, città e perfino nazione, se le circostanze lo richiedono e questo senza nessuna nostalgia o senso di colpa, come al contrario è per i gagè. Ciò denota una differente identificazione con il territorio, in cui il possesso per i gagè "di fissa dimora" rappresenta l'incarnazione quasi fisica con le cose, coincide con lo status sociale: senza possedimento non si è nulla di importante. Da qui fino ad arrivare alla difesa del territorio in maniera violenta, quel fenomeno veramente deviante che ha portato l'uomo all'omicidio, da Caino alla guerra, per affermare il proprio dominio sul mondo. Dall'altra parte il nomadismo, radicato nello Zingaro, lo ha salvato da questo male, relegando il valore del possesso in un angolo secondario, da cui trarre invece un significato elevato per il commercio e quindi lo, scambio di beni.

Importante emerge l'intelligenza manageriale, la capacità, la bravura del-l'individuo, che sa trattare nella compravendita di un'automobile, di una roulotte, di una casa, di un terreno, di un cavallo, ecc. Per capire questo 4'strano" rapporto con le cose, basta recarsi nella casa di uno Zingaro. La bellezza e l'ordine sono solo d'apparenza, puramente casuali; l'esibizione di un oggetto si presenta quasi sempre poco funzionale; mancano gli accessori del bagno, le rifiniture e a volte anche le porte interne; la cucina poi è tipicamente da vetrina e deserta, perché quella in cui si cucina e si vive non è nella casa, ma fuori in giardino; allestita in modo estemporaneo, precario, ricorda molto il vecchio metodo usato nel nomadismo, l'accampamento. Insomma la casa è bella solo di fuori e l'ampio salone all'interno è adattato per ricevere una moltitudine di parenti nelle feste.

Difficilmente uno Zingaro muore nella casa acquistata per tutta la vita: cam-bierà sicuramente più volte dimora in un nomadismo così insito da sopravvivere nonostante quel simbolo di immobilità. La trasformerà in un gigantesco guscio da portarsi sulle spalle come una chiocciola.

Bruno Morelli

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Poesie

Vittorio Mayer Pasquale

Sono un Sinto

Sono un Sinto

Vivo in carcere

Solo

Nel mio dolore.

Bevo la luce del sole

Che sgorga dalla finestra

Nei miei sogni raccolgo i fiori

Di tutti i giardini.

Intreccerò per te una corona

Con tutte le stelle

Del cielo,

con tutte le stelle dell’Universo.

Vita oscura

Quando sei solo con la tristezza

Nella miseria.

Piange il mio cuore

La vita libera,

piangono i miei occhi.

con le lacrime

scrivo sulle ali

di una rondine:

rendimi la vita mia libera.

Che io possa morire

Sotto un piccolo pino,

come un Sinto. (In “Zingari Ieri e Oggi” Ed. C.S.Z. 1993)

(_,.\.\ L 11; Rc \ ~

Lamé Romdi Nadya Natasakiri

I cik mengr si bari' upràl a giàn li romla ccèl laccì i daj cik! Ta ccén laccè li Rom!Si but bers la li rom giàn palàr ku kamla ngherén u kam andré u jlo'. Ta li kilibhé, la li ghià sukàr ki li giné andré u tem barò.Pri cave li giné kamménl misto), pri cavà li rom a sinl i pativ la na histarencly nikt cavà, li rom a si ciavé laccé.kanà la utero xaciarep sa li kriat la li giné marén li vavér giné, li Rom na marèn nikt ki nikt kringh a krié kurribbé.

Vr ( ),~ R ( "Enigma paradigma", olio e oro su tavola- cm. 50x80 – 1994

di i

R o

-.~

Bruno Morelliinedita

Li RomLi macce' andre' u pani', li cilikle' pru ruk, li

sap andre' i bar, li karmuse' andre' i xev. Li Roni a kiste 'ki bravàl a sì xulay tar u thèm.

Bruno Morelli

I pesci nell'acqua,gli uccelli sull'albero, i serpenti nella siepe, i topi nella buca.Gli zingari a cavallo del vento sono padroni del mondo.

Luci

Nella natura

Ho scoperto me

Finalmente…

Mi sono ritrovato.

Fantastiche luci rimbalzano

Tra i rami, tra i cespugli,

tra le fogie e tra i sassi.

Luce

Verde, al mattino.

Luce

Bianca, il giorno.

Luce

Incendiata

Di giallo e di rosso,

al tramonto.

Luce

Che sgorga dall’acqua,

d’argento si tinge, si staglia, sfavilla.

Nel caoticovortice dell’erba,

il riverbero del sole pulsa,

una vita,

come il mio cuore.

Nella natura

Il mio posto naturale.

B. Morelli

L'estetica zingara, tra mito e realtà

uesta relazione ha come scopo, assai proprio dal profondo dell'essere umano.dire chi ha la facoltà di sentire, di percepire. Q

ardito, quello di condurre, o meglio, Sulla base delle teorie di Benedetto Croce, in Un altro punto fermo è quello che descrive ildi avviare un'indagine tesa a far luce primo luogo, seguito poi da altri come Alexan- Croce nei suoi lunghi studi sull'Estetica circasui problemi dell'arte in seno alla cultura zinga- der Baumgarten, Emanuel Kant ed Hegel, se l'intuizione".ra concernente particolarmente la produzione l'intento è quello di stabilire una estetica zinga- Infine Kant, che propone come presuppostodelle immagini, non solo pittoriche dei diversi ra, si devono rintracciare gli elementi necessari, dell'arte il "dualismo", quale condizione essenfenomeni espressivi. Vi è, inoltre, la volontà di vale a dire i canoni estetici, costanti, nella pro- ziale e inevitabile per "l'unità sintetica originachiarire e di operare una netta distinzione tra duzione artistica della cultura zingara e sotto- ria" da raggiungere.leggenda e storia, tra falsi luoghi comuni e ve- porli ad un corretto esame comparativo con i Lungi dal liquidare completamente diverserità, discernere infine l'immagine paradigmati- canoni di definizione già delineati teoretica- teorie sull'arte zingara, ormai azzardatamenteca romantica dello. Zingaro, spesso pseudo-mi- mente da detti autori. Inoltre contribuisce la mia diffuse, circa il concetto che lo Zingaro sia citologica e pericolosa sul piano dei pregiudizi modesta esperienza di artista nello specifico nonimo di arte esso stesso, nell'essere in sé, insociali e culturali. campo dell'arte zingara, nonché il contatto con quanto zingaro che vive e si vive profondamen

Un volto vero e autentico spesso ignorato vo- altri operatori estetici impegnati

nel medesimo te e intensamente da negare l'arte come proielutamente. Insomma vuole essere un elemento tema; è, dunque, un'attendibile testimonianza zione fuori di sé, ma che, dunque, risolta denin più per fornire chiavi di lettura a colui che nell'affrontare tale ricerca. tro il proprio corpo, nell'essere e nell'agire nel gusta l'arte dinanzi ad un interprete della cultu- In questo compito di analizzare le fenome- mondo, nei vari comportamenti, tutti artistici; ra zingara, l'artista, che sia lui stesso pittore, nologie artistiche zingare e quindi ivi compreso, questa è verità solo in parte perché tende più ascultoré, scrittore, ballerino o musicista. non posso che cogliere, immediatamente, un soddisfare chi è al di là della comunità zingara,

Va da sé che diventa un vantaggio per tutti elemento che si impone quale comune denomi- tranquillizzando la propria ancora diffidente l'occasione sociale di incontrare un "diverso" natore nell'artista in generale, ma più propria- curiosità, che ammettere un mancato intervensapore intellettuale e un colore o un tono in più mente in quello zingaro: "la percezione". Da to degli addetti ai lavori che abbia mai promosda ricevere sulla tavolozza del comune patri- una prima analisi risulta che il Baumgarten già so ricerche e analisi della produzione artistica monio culturale.

conosciuto nel '700 come primo sostenitore del- zingara, c'è la tendenza a non riconoscere tale

Parlando di estetica non si può fare a meno di la teoria secondo la quale l'estetica è "la scien- espressione.

agganciare il discorso a fondamentali studiosi di tia cognitionis sensitive" scienza cognitiva sensi- Tuttavia bisogna chiarire che l'arte zingara sicodesta disciplina o meglio parte della filosofia tiva, ricalca in un certo verso il significato origi- articola in aspetti molteplici che vanno dallache persegue fini e finalità dell'arte, muovendo nario del termine AISTHETIS che in greco vuol musica al canto, al ballo, alla lavorazione dei

metalli, allo spettacolo, fino alle arti visive co- un occhio in viaggio che non vede mai la stes- abbandono alle umane passioni, ricorrere allame la pittura e la scultura, manca chiaramente sa cosa, ma vede in movimento una realtà che tragedia per mettere in risalto le debolezze e lel'architettura in quanto è fuori dal concetto dei cambia, si trasforma, mutevole nella forma, rria impotenze di ogni "illuso".nomadismo, a cui lo Zingaro non può sottrarsi, fedele nei contenuti: "la vita stessa". Secondo una vecchia leggenda cinta gli zino meglio vi è un altro modo di intendere lo spa- Così nella produzione di un artista zingaro gari parteciparono alla costruzione della Torrezio. E dunque nel momento in cui vi è una pro- non sarà mai possibile pretendere di vedere di Babele, ma con scarsi risultati

in quanto pigriduzione d'arte è chiaro che si manifesta nella unità linguistica e tematica se non si intende che e poco avvezzi al lavoro: così il Signore diedemodalità dell'operare una certa praticabilità l'arte al di là di tutto è puro messaggio spiritua- alla fine una lingua per ciascuno tranne al poconnotata in determinati codici di rappresenta- le prima che elaborazione formale; sicché tale vero Rom, che dovette imparare una lingua prozione chiamati "estetica". frammentarietà allora si ricompone nell'accet- pria prendendo un po' da tutte le altre con il ri

L'estetica come visione ideale del mondo se- tare l'opera come porzione di vita, data e tra- sultato però che poteva capire tutti e tutti non

condo proprie ottiche e spiritualità, e come mo- scorsa, già morta o meglio avente vita propria, potevano capire lui.mento decisivo ponderabile per operare una se- ma lontana in ogni caso dalla vita reale del suo Pensare di inquadrare l'arte zingara incanalezione degli elementi della natura e della natu- generatore il quale vive ormai di un'altra vita, di landola in precise dialettiche storico-artistichera dell'uomo, è un momento in cui nasce l'in- un altro stato d'animo.movimenti dell'arte moderna , è cosa imtuizione che dalla lirica, cioè dal bello soggetti- Questa estetica che potremmo definire di propria e inadeguata a un'espressione che sivo, trova stretta relazione con il gusto persona- "improvvisazione" risulta ancora più esaltante e presenta ora metafisica ora surreale, ora realistile e quindi culturale di appartenenza. Se è vero incisiva nella musica quanto nel ballo, il jazz e ca ora futurista, ora espressionista e perfinoallora che l'estetica, come sostiene il Baumgar- il flamenco di cui l'arte zingara è eccelsa con astratta. Vero è che l'arte zingara non può esseten, è la scienza cognitiva sensitiva, percezione grandi nomi come Django Reinard, re del jazz re altrimenti che un estetica trans-avanguardiscientifica attraverso i sensi, lo Zingaro più di europeo, e José Greco ballerino di flamenco di sta, cioè una visione che attraversa e oltrepassaogni altro possiede spiccati gli organi della per- fama mondiale.momenti storici, già codificati, ancezione ùltracorporei in quanto reduce di un Ricca di fantasia e di immaginazione fervida cora una volta in virtù di questa mobilità menpassaggio secolare attraverso le genti e le cultu- e infinita l'arte zingara non esaurisce mai di sor- tale e territoriale che è il nomadismo.re e la stessa natura. È fuori di ogni dubbio af- prendere, è una sovrapposizione di idee che fis- Lo Zingaro, avendo più degli altri girato ilfermare allora che tutta l'arte zingara è intuitiva sano la creatività in continua invenzione. Nel mondo, ha assaporato, anche

inconsapevole sensitiva nello stesso tempo. Jazz trova la vera valvola di scarico in quanto è mente, i vari climi culturali nelle quali si sono

Priva di teorie e di sovrapposti intellettuali, accettata a priori l'idea della improvvisazione. inscenate le nuove istanze artistiche e quindi di

l'estetica zingara muove solo dal naturale istin- Altresì nel flamenco vi è il libero movimento pensiero culturale.to, senso e intuito, in questo modo ogni opera d'azione oltre il prestabilito ponendo al centro Si può intendere tale particolare approccioappare conclusa in sé senza coerenza, né stili- della performance il protagonismo e il dramma estetico o inter-estetico dell'arte zingara come ilstica, né linguistica. umano dove lo zingaro entra naturalmente in vero riflesso di ciò che è avvenuto nei cambia

L'estetica zingara vive di frammentarietà, di scena perché maestro della gioia e dell'abbatti- menti in Europa artisticamente.

momenti a sé stanti collegati fra loro solo dal mento. È un'occasione in cui può esprimersi «L'estetica zingara infine usa tali linguaggimedesimo impulso, dal medesimo palpito di pienamente, dare libero sfogo all'esaltazione elaborandone uno proprio nella maniera chemanifestare ora quello che dopo non c'è, come del proprio predominio sul mondo e del proprio essa intende tutte le altre e le altre non intendo-

no essa stessa». Semmai l'arte zingara è da con- innumerevoli imprestici fonetici

ed estetici im- nomeno in molti altri artisti zingari

di tutto il

templare in una definizione più contenutistica piantati su un asse portante che è il fondo cui- mondo, siano essi di chiara fama che non; coche formalistica, nei valori costanti che si ripe- turale indiano. È interessante quindi rintraccia- munque conservano una caratteristica comune,tono ogni volta che un Rom si esprime, cioè l'a- re le variegate estetiche che emergono nella una visione trans-nazionale e trans-culturale nelria di mistero ed enigma, dove non c'è la rispo- produzione artistica e affiorano spesso maigra- fare e perseguire l'arte fino ad apparire a voltesta agli interrogativi esistenziali, ma vige la do- do l'incoscienza dell'autore, segno che il feno- poco unitari e contraddittori.manda stessa. meno è ribaltato anche all'interno, fisiologica- L'estetica zingara, in sostanza, nasce da una

Come se lui domandasse e cercasse da sé in mente, geneticamente. situazione d'instabilità, spaziale e temporale, sé l'origine e il perché della sua stessa condi- Conosco un pittore sinto, Olimpio Cari, il così come sempre è stata ed è la vita di un Rom, zione terrena, così improbabile e misteriosa da quale pur essendo completamente

autodidatta mobile e mutevole con toni accesi e cupi, note creare aloni insolubili e inspiegabili dell'essere esprime nelle sue tele o meglio sui vetri, perché ora languide ora violente, in netto contrasto zingaro in questa società perfino a sé stesso.secondo la sua tecnica, compo- crea armonia, palpitante di vitalità, in un turbo

In effetti tutta la cultura zingara compresa la sizioni con chiari riferimenti estetici di origine lento movimento dominato dall'umana passiolingua stessa si modella su una struttura pluri- araba e turca, senza che egli fosse mai andato in nalità per la natura, come luogo di ricomponiculturale a causa di un nomadismo lungo condiversamente si ritrova tale fe- mento e di equilibrio.

SIMBOLOGIA

T ella simbologia zingara sovente pren- sapienza umana; il cavallo, soggetto d'identifi- razione simbolica, alla dimensione contrasse

dono forma e segni e caratteri icono- cazione antropomorfa; la luce, mai naturale, ma gnata dalle opposizioni più evidenti: rosso cografici tipici e riconoscibili che si ri- metafisica o surreale che investe la

composizio- me sangue e quindi vita, terra; l'azzurro come scontrano puntualmente in ogni parte del mon- ne sempre in atmosfere magiche ed estrema- senso di spazio, cielo, libertà e ancora una condo ove vi sia un Rom artista che opera. mente enigmatiche; l'ambientazione naturali- trapposizione di caldo e freddo, fuoco e acqua

Ricordo una volta a Berlino in una mostra stica quasi sempre e comunque anche quando quali elementi dualistici del puro e impuro se

d'arte sacra dove partecipai anch'io con delle c'è un interno non è mai uno spazio racchiuso, condo la tradizione zingara.opere poste accanto ad altre di autori non zin- ma si libera in qualche spiraglio: l'albero che è Da qui richiamando il Croce "l'artista potràgari, e quando entrò Tamas Pile, valente pittore sempre soggetto principale della rappresenta- peccare e macchiare la purezza del suo animozingaro ungherese, senza che lui mi conosces- zione, associato all'idea della genealogia, si tra- e farsi colpevole in quanto uomo pratico; mase, individuò subito le mie opere come apparte- duce in simbolo della famiglia, quindi della sto- dovrà avere vivo, in una forma o in un'altra, ilnenti a quelle di uno zingaro. Ciò che aveva no- ria: il tronco è il padre, le radici sono la madre, sentimento della purità e della impurità, dellatato di diverso era la gestualità delle figure, mo- i rami sono i figli e la terra il mondo; difficil- rettitudine e dei peccato, del bene e del manumentali e mitiche, insieme ad atteggiamenti mente appare tra i simboli il

paesaggio o la ca- le"(1).che facevano pensare al. flamenco. A dire il ve- sa e se c'è spesso è diroccata come nei quadriro anch'io riconobbi i suoi quadri dalle medesi- del pittore Kalò alla mostra di Prato del 1971, leme caratteristiche. cui opere presentavano tale contrappunto, me

Altri dati simbolici sono da accomunare alle no felice della realtà.antiche credenze mitologiche dei Rom che ri- Nella sfera cromatica invece ritornano i co- (1) Op. cit. tratto da "Aesthetica in Nuce", pagg. 203; salgono alla dimensione culturale indiana, lori in un contrasto di massima dissonanza: il ed. Piccola Biblioteca Einaudi (Adelphi S.p.A.), Miquindi il serpente come elemento positivo della rosso e l'azzurro. Questi assurgono nell'elabo- lano 1990.

L'ALBERO 6 T R K°'

9 albero tra i Rom, come in tutti i popoli valli era proprio di legare l'animale ad esso e di- tratto dalla mitologia greca dove, per effetto di

primitivi continua ad assumere e mas- sporre l'accampamento tutt'intorno. Ancora og- usa trasgressione delle leggi divise, i due si tra

3 íi tenere un valore fondamentale dato da gi in India vi sono delle tribù nomadi che vivo- ducono sella forma dell'albero come bloccati

un legame, inscindibile e vitale cos esso, quasi so sugli alberi.mezzo, tra la vita e la vita, la vipaternamente o maternamente affettivo. Occor- Alcuni studi di antropologia sostengono che ta terrena e la Vita divisa.re ricordare che questo "essere" vegetale ha co- l'albero abbia costituito per l'uomo il primo ri- L'albero come vita e foste di vita e non solostituito per l'uomo abilis il primo amico al mon- ferimento di verticalità che ha spinto l'individuo per l'essere umano ma anche per molte altre fordo a cui affidarsi per proteggersi dalle belve e ad assumere la stazione eretta, l'uomo erectus, me vegetali e animali, come i suoi abitatori perdai predatori trovando in "lui" la prima forma di questo potrebbe spiegare l'incarnato ed univer- eccellenza, l'uccello e la scimmia nonché il serriparo, usa sorta di casa mobile e sospesa da ter- sale sesso di identificazione

antropomorfa del- peste dal quale scende per ingannare Eva, sira più valida di quella che poi è stata la grotta. l'uomo cos l'albero fino ad arrivare alle religio- presenta ancora selle sacre scritture in quanto:

Certo era più comodo entrare e uscire dalla ni in cui svolge un ruolo di polarizzazione de- "io sono la vita e voi i tralci". Per molte analogrotta che salire e scendere dall'albero, per que- gli avvenimenti liturgici. Si veda nell'Induismo. gie l'albero è sempre stato associato al simbolo sto ed altri motivi infine l'uomo sceglierà infat- Budda sotto l'albero, che è segno di immorta- della vita e della fertilità in quanto la sua partiti, la grotta, come rifugio definitivo anche se le lità, compie il miracolo delle visioni; e ancora colare conformazione lo avvicina al sistema di palafitte rimanevano un esempio alternativo. nel cristianesimo, nel vecchio testamento, as- circolazione sanguigna (linfa) dell'uomo e del Ancora di più è accentuato un rapporto così assurge ad essere parlaste per mezzo del quale suo stare destro e fuori della terra in un'azione tico cos l'albero sei popoli "migratori" come i Dio si rivolge a Mosé dal Monte Sinai; e ancora speculare complementare: la parte superiore, la Rom dove il riparo non poteva certo essere la nel ruolo di crocifisso a sorreggere le membra di chioma, è simile a quella inferiore, le radici; dogrotta, esclusa da usa funzionalità nell'ambito chi sta per compiere il miracolo della trasfigu- ve il forte ancoraggio terreno combacia cos la del nomadismo. Ed allora ecco di nuovo l'albe- razione, l'eternità. tensione aerea fino a sfiorare il cielo cos i rami ro sempre pronto ad accogliere chi viaggia, Anche nell'arte l'albero si pose come luogo più alti. Per questa satura doppia Freud sella stanco e accaldato, dà un'aura di frescura e un di metamorfosi catarsica in cui si celebra l'eter- psicoanalisi avvicina all'uomo in quanto essere approccio d'insediamento, infatti la prima cosa so conflitto dell'essere carne e dell'essere spiri- conscio, fuori dalla terra e inconscio, destro la che i Rom facevano quando giravano cos i ca- to, pensiamo all`Apollo e Dafne" del Bersisi, terra, essere materiale e spirituale.

ICONOGRAFIA

V ei processi iconografici della propria zioni sostenendo il concetto di una identità già ne, ma mai di contagio culturale, l'arte zingara

grafia visiva, la modalità di rappresen- in sé del pensiero e dell'essere in quanto pro- si fa portavoce di un giudizio estetico del montazione tende a privilegiare la linea duttore del molteplice e degli effetti creativi, per do in cui si "ospita". È in questo contesto che lo

tonda anziché retta adatta a comporre forme l'estetica zingara, secondo me, si presta di più la zingaro mantiene una distinzione tra suo pensenza spigoli, sinuose e ondeggianti nel moto teoria di Kant seppure ampiamente superata dal- siero interno, cioè l'interpretazione, e l'essere oaccelerato del movimento e una netta distribu- lo stesso Hegel nella filosofia

moderna. meglio l'esserci, l'esterno, i dati assunti.zione dei ritmi, segna ancora una volta una bi- Quello che interessa è l'accostamento stori- Senza la società esterna, vista ora come hudimensionalità entro cui il Rom è costretto a vi- co con tali teorie al fine di spiegare e capire i mus dal quale attingere, la cultura zingara nonvere nel continuo, uscire ed entrare dal proprio fattori che determinano le fenomenologie este- ci sarebbe mai stata o comunque non si connocontenitore d'appartenenza, in altro, a quello tiche della cultura zingara nel suo fare arte. Ciò terebbe come tale, oppure sarebbe completadel mondo.dei gegè (i non zingari). comporta necessariamente un'analisi compara- mente assimilata. Si pensi al flamenco e alla

È proprio questo carattere dicotomico evi- tiva storico-culturale e contestuale in cui la pre- musica di Reinard, quanto siano intrise di "altre dente anche nel bilinguismo, altro elemento senza zingara non è assolutamente estranea an- culture" che l'estetica zingara ha saputo rieladualistico che contraddistingue l'essere zingaro zi ne è intensamente permeata. borare facendola propria fino al punto di mettecome uomo nomade e come uomo doppio. Ovviamente sono studi che dovranno essere re in crisi gli etnomusicologi che ancora oggi

Qui è necessario richiamare Kant nella sua approfonditi ulteriormente, ma intanto valeva la tentennano nell'assegnare un ruolo d'apparte

"Critica della ragion pura" quando afferma di pena, già da queste tracce, puramente intuitive, nenza legittima del flamenco, se araba, se inuna doppia identità sensitiva dell'individuo, un aver fissato degli elementi importanti come il diana o se gitana.dato interno e un dato esterno e in mezzo lo spi- fatto che le sensibilità e i prodotti spirituali del- Un fatto è certo e cioè che comunque sia l'orito umano in eterno conflitto a mediare la verità l'estetica zingara abbiano dei riferimenti storici rigine di questa particolare espressione artistica,con l'aiuto della "critica ragione". Dunque "I'u- precisi a cui ricondursi per una più chiara lettu- adesso è proprietà dello Zingaro, è grazie a luinità sintetica originaria" cioè l'unione dell'intel- ra dei contenuti artistici e culturali. che diventa quel flamenco che oggi conoscialetto e l'essere, non è data, ma si raggiunge at- L'estetica zingara non si autoalimenta, ma vi- mo tutti, cioè la partecipazione più totaletraverso il conflitto delle opposizioni del dentro ve essenzialmente del rapporto con l'altro; di dell`uomo esteticus" a un'arte di pieno coine del fuori. Anche se il seguace più ardito di suggestione, di stimolo, di emulazione e infine volgimento dei sensi; in ogni atto vi è il simboKant, Hegel, contraddice e contesta tali afferma- attraverso l'interpretazione, che pure è creazio- lo, il documento di un'intera esistenza.

FLAMENCO

ppare chiaro, evidente la tragedia mes- hanno fatto si che questa forma d'arte così uni- Ecco la "guerra" dello zingaro, la risposta alsa in scena dai Rom Kalé, nel fare il fla- ca al mondo e che solo i Rom vi eccelgono, po- la storia

insanguinata dei Re cattolici che tagliamenco. Reazione, grido, protesta vio- tesse toccare i vertici dell'emotività. Chiunque vano la testa a chi continuava a parlare in Kalò, lenta nello sbattere in faccia una nobiltà negata di fronte a tale spettacolo non può che trasalire, nonostante i bandi di proibizione ad essere zinche rasenta, quasi, anzi senza quasi, un certo essere inghiottito dal coinvolgimento, sensibil- garo.Se la Spagna è riuscita, con diverse politisenso di superiorità, un atteggiamento terribil- mente attratto e profondamente offeso. Sì, offe- che di inclusione forzata a togliere la lingua ai mente aggressivo ma che allo stesso tempo è co- so, perché solo chi sa' leggere tra le righe av- Kalé illudendosi di aver vinto la partita, al conme fosse imprigionato chissà da quali divieti. verte un linguaggio sulla platea che urla le in- trario vi è rimasta l'anima, la vera cultura che

A

Forse il divieto di parlare la madre lingua? A giustizie inguaribili di una società assassina ver- non potrà mai essere debellata e che ora si fa

tramandare una cultura diversa? Oppure occu- so i più piccoli, i "deboli", si riafferma l'identità più forte perché animata da un'altra lingua,pare l'esempio, tangibile nella vera ed unica di- con tutta la propria forza, con tutta l'energia che quella che parla a tutti, l'arte.gnità umana, la libertà? Ovvero conservare an- proviene dalla vita vissuta fino in fondo. Attraverso il flamenco i Kalé si sono riscattacora il libero arbitrio di gestirsi la propria vita I gesti sono lame taglienti, spade lanciate al ti, a pieno titolo di tutti i mali a loro inferti duanche in "casa" d'altri, rifiutando di difendere la di qua del palcoscenico e le voci, stridenti nei rante la lunga carrellata di episodi storici di perpatria e rigettando l'ideale della guerra? lamenti, strozzati, mai stanchi di urlare la non versa persecuzione, e da ultimi cittadini sono

Questo. ,e forse altro ancora probabilmente arresa.Spagna.

DEFINIZIONE DELL'A RTE ZINGARA

uando si parla di arte zingara ovvia- re gli animi gentili. Quest'atteggiamento di su- mentalmente, né analizzato correttamente.Q

mente viene scartato a priori un frain- periorità ha creato nello Zingaro durante la sto- Si spera che in un prossimo futuro quello cheteso che spesso crea pregiudizio nei ria una falsa copia di sé che egli stesso ha im- ormai è maturato in vero e proprio movimentoconfronti di questa disciplina e vale a dire il fol- parato bene a dare in pasto agli amanti di "zi- di arte zingara, attestato da sempre più mostre eclore. Esso devia la considerazione dell'arte pro- ganità" con risultati di pseudocultura clichè. rassegne internazionali, in tutto il mondo possaponendo come arte zingara una pseudo arte. Niente di tutto questo, la vera espressione ar- imporre e rivendicare un giusto posto nel mo

E' il caso del mito del buon selvaggio, zinga- tistica dei Rom non è mai stata commerciale, si saico culturale europeo e oltre.

ro straccione e malandato che di volta in volta pensi ancora al flamenco dei gitani andalusi chelo si incontra a suonare il violino o a ballare in dividono le loro esibizioni per i turisti e per le La dimensione zingara può vantare un bagacerti locali tipici. proprie teste, così come per tutta la produzione glio culturale ricco di giacimenti e potenzialità

Inoltre si è pensato che l'arte zingara doves- creativa dei Rom nel mondo. creative infinitamente espressive, ma se rimanse per forza imitare un certo ideale romantico L' artista zingaro quando è impegnato seria- gono in forma latente e inespresse a causa di del senso di libertà, bòhemienne di professione mente e intellettualmente crea un sistema di co- una mancata politica di promozione civile di tae.incolto a tutti i costi perché così genuino e pri- dici rappresentativi di notevole interesse che, li valori, l'arte zingara resterà ancora intesa comitivo, un puro zingaro da far divertire e ricrea- come ripeto ancora, non è stato né accettato me "cattivo" prodotto artigianale folcloristico.

L'Io o Duo? SENTIERI NON PRATICABILI DEL GRANDE

BocoBruno Morelli

n questo titolo, un po' enigmatico e un po' impatto è passato, quello più gioioso, scopro la sto e che ora si svela, autentico e fragile. MiraT

magico, in fondo vi è già una risposta o una tragedia. colo della natura.

traccia, evidente,, di ciò che è nelle mie in- Gli alberi che prima erano lussureggianti e E ancora penso che nella pittura si rappretenzioni, affrontando il tema del "Bosco". festosi nel loro vociare col vento, di colpo sono senti un bosco da schiarire, un origine da rag

Sin da bambino ero enormemente attratto ed mostruosi, gridano, sanno di umano, i rami si giungere quale mistero umano o universale nel

affascinato da un luogo così incantevole da una allungano, cercano di avvolgermi, il timore mi quale entro ed esco ed ogni volta mi scoproparte e così inquietante dall'altra, forse proprio assale, subito la mente allora galoppa nella più sempre di più, la mia tavolozza si arricchisce diquesta sensazione contrastata mi procurava una ossessiva riflessione o fantasia, tra i fantasmi ri- toni e non solo di colore. Pittura come Bosco,gran curiosità e mi spingeva ad entrarvi dentro trovo un io frantumato. E' come se quella pas- bosco come mistero da chiarire, questo potrebper esplorare quel mondo a me nascosto e insi- seggiata si trasformasse in un viaggio nell'in- be essere il vero enigma che mi interessa sciodioso. Tutto ciò che conteneva il bosco era per conscio, in una proiezione metaterrena, oltre il gliere o cercare di sciogliere, ché è più piaceme motivo di mistero da svelare: le foglie, i ce- tisico, dentro di me, dentro il mio "Bosco', a rivole.spugli, i prati, l'acqua, il muschio, la brina, gli compormi. Equi che il miracolo si compie, io Lo "specchio" del bosco riflette i difetti piùodori, gli animali e più, in particolare, l'albero non sono più io, ma l'ombra di me stesso e mi radicati del mio essere, così incontentabile eche ho sempre identificato in mio padre; la sua basta guardare in uno stagno per scorgere la mia avido di emozioni, di energia necessaria per afpossenza mi rassicurava, la sua corteccia mi ri- vera immagine, oltre il "Narciso" dell'apparen- frontare il "mostro" dell'arte. L'ambizione piùscaldava ed insieme mi invitava ad accarezzar- za.cercare di conciliarela come stessi a contatto epidermico paterno. Mi soffermo, mi rifletto e rifletto sull'immagi- due aspetti dei nostro io in continua antitesi, ilAncora oggi non ho smesso di andarvi. ne, così senza sforzo, con naturalezza, felice fuori e, il dentro, "I'io o duo", appunto, quello

Adesso so che il bosco è sempre stato per d'aver incontrato, chissà, la vera identità. Sup- che io sono fuori dell'arte e quello che potrei l'uomo di ogni tempo un luogo eccezionale, è pongo. Se è al di là della patologia forse ho fat- essere dentro l'arte, una ridefinizione dell'io e là dove egli è cresciuto spiritualmente e mate- to luce su un aspetto che mi tranquillizza, l'aver dell'identità affinché l'uomo si affermi per la sua rialmente. Ogni qualvolta mi sento solo tra la capito che il mio essere non è quel semplice contraddizione e non per l'apparente e illusoria gente con il timore di

svanire nella mia entità, manifestarsi quotidiano, così chiara e superfi- unitarietà data da un io integrale a tutti i costi. ritorno nel bosco per ritrovarmi e raccogliermi. ciale immagine riconoscibile da tutti e imbalsa- Naturalmente non ho ricette per un simile romPasseggio, guardo, osservo, respiro profonda- mata nella sua sagoma, ma invero sono un al- picapo filosofico, mi basta l'aver evidenziato un mente, annuso come se fossi un animale e poi tro, l'altro che era dietro di me, alle mie spalle, mio problema da perseguire e ricercare in essorifletto, sogno, ma al risveglio, quando il primo che non conoscevo perché non l'avevo mai vi- occasione di dibattito, tautologico e ristretto,

nella sfera artistica, come momento intimo di accademici cosiddetti, al di fuori di noi, semmai della natura umana, il bosco che si apre a noicontributo per un cammino dell'arte e che si al contrario, la soluzione, sempre effimera degli come un corpo umano pronto a riaccogliercicompia attraverso una disgregazione dei suoi "assilli" umani, è di nuovo celata nella natura in nel suo grembo."elementi più ovvii", più obsoleti. Mettere a nu- quanto è lei che ci contiene e come contenito- Entrare nel bosco per me è come entrare neldo la verità che è sempre dietro le apparenze re del tutto.metafora dell'arte quale luodelle buone intenzioni. Noi come figli succhiamo da essa il latte ma- go sublime della speculazione mentale, inutile

La commistione geniale della natura, tra sen- terno dal quale intendiamo il gusto alla vita e la al corpo ma vitale per lo spirito. In esso si rige

so e intelletto, quale origine del sentimento, soddisfazione di essere al mondo, abbraccian- nera il gusto, atavico, anche della dimensionepresuppone il migliore approccio all'arte, spo- do un albero comprendiamo il senso fraterno e mobile, il nomadismo, concetto ancestrale delglia delle verità date. In questo viaggio dunque all'interno di esso la vita che scorre come è nel- lo spazio e del tempo; al quale tutti "dobbiamo"ho appreso che l'arte, intesa come verità tem- la storia terrena.mitologici, fondamento dellaporanea dell'uomo, non va ricercata in luoghi Natura non come rifugio dai mali della so- fantasia e della storia umana.

estranei quali urbani, asettici o propedeutici, cietà, ma natura come momento di

riconquista

IL 66GRANDE VIAGGIO99 E LA MOSTRA DI BRUNO

MORELLIAngelo Melchiorre

a mostra di Bruno Morelli, SENTIERI Bosco" del mondo, spinto dal prepotente ardo- ignote, cavalcando i poledri e bevendo il vento;NON PRATICABILI DEL GRANDE BO- re ch'egli ebbe "a divenir del mondo esperto/ e in quel lungo fuggir d'uomini e di luoghi per

_1 SCO, si propone come un invito rivolto de li vizi umani e del valore". E'non esiste solo lontananze senza confine; in quell'incalzar va

allo spettatore "a camminare lungo il percorso, l'Ulisse omerico o quello dantesco, perché la fi- rio di vicende (...), spesso una tristezza intensain compagnia solo di visioni che di tanto in tan- gura di colui che viaggia per un itinerario senza l'assaliva. Era un sentimento indistinto, torse unto appaiono sullo sfondo nero dei pannelli: le fine è frequentissima nella letteratura mondiale: desiderio di pace, un desiderio come di piantapitture". Ed ecco, quindi, quelle macchie di co- si pensi a Sindibàd, il marinaio delle Mille e una che sente in sé a poco a poco le forze vegetalilore e quei riflessi di luce, fiori, foglie, tronchi notte, o a Gilgamesh, l'eroe della grande epo- addormentarsi e cerca i risvegli del sole".d'albero che spesso si trasformano in mani e pea assiro-babilonese, o anche al Robinson Gli elementi essenziali del metaforico viagpiedi umani, che vogliono rappresentare il gran- Crusoe di Daniel Defoe fino al più moderno gio di Bruno Morelli sono già sinteticamente ande Bosco, attraverso il quale lo spettatore, insie- Ulisse di James Joyce.nella novella dannunziana: l'attraversame con l'Autore, deve scavarsi il proprio fitine- Ma un'analogia meno clamorosa, e pur sug- re terre e -enti ignote, il viaggiare inteso comerario, il proprio "sentiero". gestiva, è quella che si può riscontrare tra i qua- un "bere il vento", il fuggire luoghi e uomini

E un, itinerario - così scrive lo stesso Bruno dri di Morelli e una poco nota novella dannun- "per lontananze senza confine", il cercare la paMorelli "che tende a ripercorrere il cammino in- ziana, Ecloga fluviale, che chiude la raccolta ce come una pianta che si addormenti desideteriore dell'artista cercando di essere, il più pos- giovanile di Terra vergine. L'immagine centrale rando il risveglio del sole. Bruno Morelli affersibile, fedele nel restituire allo spettatore sensa- del racconto è quella di una giovane zingara, ma che l'esposizione dei suoi quadri è "pensazioni e riflessioni proprie", dandogli così modo Mila, "ridente dalle iridi violacee, tutta discinta ta secondo una struttura, snodata e articolata, "di assaporare e vivere fino in fondo, in intimità, nei cenci, tutta calda in quella sua pelle (...) ab- sulla base del concetto di nomadismo o coquel mondo interiore che

l'artista esprime e re- bronzita all'amor del sole". Anche qui, uno dei munque di un qualcosa che ha a che Fare con gala senza remore e inibizioni". motivi fondamentali del racconto è quello del il viaggio", una struttura che riproduce, attra

Il tema del "viaggio", che è il concetto so- viaggio: un viaggio che è, insieme, naturalistico verso pannelli, luci, odori e musiche, "il sentiestanziale di tale mostra, richiama alla memoria e psicologico, proprio come quello proposto, o ro di un Bosco". In D'Annunzio il bosco è conumerosi antecedenti letterari. In primo luogo, riproposto, da Bruno Morelli. Una specie di "va- stituito da quella "chiostra di verdura", entro la la figura di Ulisse, che è il più grande esponen- por torbido - scrive D'Annunzio - aveva con- quale si muove, flessuosa e sfuggente, la zingate simbolico dell'errare umano. Ulisse è il no- trassegnato la breve esistenza di Mila fin dagli ra Mila, le cui membra s'intrecciano e si confonmade per antonomasia, colui che - secondo la "albori della sua giovinezza (...): in quel lungo dono con quelle della natura vegetale. Proprio trasfigurazione dantesca - attraversa il "grande errare attraverso terre ignote, a traverso genti come quelle membra umane che paiono uscir

Nella natura, la mia vera natura.

IL 66GRANDE VIAGGIO99 E LA MOSTRA DI BRUNO

MORELLIAngelo Melchiorre

a mostra di Bruno Morelli, SENTIERI Bosco" del mondo, spinto dal prepotente ardo- ignote, cavalcando i poledri e bevendo il vento;NON PRATICABILI DEL GRANDE BO- re ch'egli ebbe "a divenir del mondo esperto/ e in quel lungo fuggir d'uomini e di luoghi per

_1 SCO, si propone come un invito rivolto de li vizi umani e del valore". E'non esiste solo lontananze senza confine; in quell'incalzar va

allo spettatore "a camminare lungo il percorso, l'Ulisse omerico o quello dantesco, perché la fi- rio di vicende (...), spesso una tristezza intensain compagnia solo di visioni che di tanto in tan- gura di colui che viaggia per un itinerario senza l'assaliva. Era un sentimento indistinto, torse unto appaiono sullo sfondo nero dei pannelli: le fine è frequentissima nella letteratura mondiale: desiderio di pace, un desiderio come di piantapitture". Ed ecco, quindi, quelle macchie di co- si pensi a Sindibàd, il marinaio delle Mille e una che sente in sé a poco a poco le forze vegetali

lore e quei riflessi di luce, fiori, foglie, tronchi notte, o a Gilgamesh, l'eroe della grande epo- addormentarsi e cerca i risvegli del sole".d'albero che spesso si trasformano in mani e pea assiro-babilonese, o anche al Robinson Gli elementi essenziali del metaforico viagpiedi umani, che vogliono rappresentare il gran- Crusoe di Daniel Defoe fino al più moderno gio di Bruno Morelli sono già sinteticamente ande Bosco, attraverso il quale lo spettatore, insie- Ulisse di James Joyce.nella novella dannunziana: l'attraversame con l'Autore, deve scavarsi il proprio fitine- Ma un'analogia meno clamorosa, e pur sug- re terre e -enti ignote, il viaggiare inteso comerario, il proprio "sentiero". gestiva, è quella che si può riscontrare tra i qua- un "bere il vento", il fuggire luoghi e uomini

E un, itinerario - così scrive lo stesso Bruno dri di Morelli e una poco nota novella dannun- "per lontananze senza confine", il cercare la paMorelli "che tende a ripercorrere il cammino in- ziana, Ecloga fluviale, che chiude la raccolta ce come una pianta che si addormenti desideteriore dell'artista cercando di essere, il più pos- giovanile di Terra vergine. L'immagine centrale rando il risveglio del sole. Bruno Morelli affersibile, fedele nel restituire allo spettatore sensa- del racconto è quella di una giovane zingara, ma che l'esposizione dei suoi quadri è "pensazioni e riflessioni proprie", dandogli così modo Mila, "ridente dalle iridi violacee, tutta discinta ta secondo una struttura, snodata e articolata, "di assaporare e vivere fino in fondo, in intimità, nei cenci, tutta calda in quella sua pelle (...) ab- sulla base del concetto di nomadismo o coquel mondo interiore che l'artista esprime e re- bronzita all'amor del sole". Anche qui, uno dei munque di un qualcosa che ha a che Fare con gala senza remore e inibizioni". motivi fondamentali del racconto è quello del il viaggio", una struttura che riproduce, attra

Il tema del "viaggio", che è il concetto so- viaggio: un viaggio che è, insieme, naturalistico verso pannelli, luci, odori e musiche, "il sentiestanziale di tale mostra, richiama alla memoria e psicologico, proprio come quello proposto, o ro di un Bosco". In D'Annunzio il bosco è conumerosi antecedenti letterari. In primo luogo, riproposto, da Bruno Morelli. Una specie di "va- stituito da quella "chiostra di verdura", entro la la figura di Ulisse, che è il più grande esponen- por torbido - scrive D'Annunzio - aveva con- quale si muove, flessuosa e sfuggente, la zingate simbolico dell'errare umano. Ulisse è il no- trassegnato la breve esistenza di Mila fin dagli ra Mila, le cui membra s'intrecciano e si confonmade per antonomasia, colui che - secondo la "albori della sua giovinezza (...): in quel lungo dono con quelle della natura vegetale. Proprio trasfigurazione dantesca - attraversa il "grande errare attraverso terre ignote, a traverso genti come quelle membra umane che paiono uscir

fuori dai tronchi e dalle piante dei quadri di Mo- E un altro canto tipico della cultura rom è dagli studi del Pott, hanno sottolineato con fonrelli, alcuni dei quali ben si adatterebbero ad il- Jizn tzisanskaia ("La vita tzigana"): za la natura itinerante dei

popoli "nom": l'India, lustrare la novella dannunziana. "Tutta la notte la luna come luogo di partenza; e, poi, l'Asia centrale,

Centrale, dunque, è il motivo del viaggio. Il contempla la steppa della Moldavia l'Armenia (o anche l'Egitto), la Grecia, l'Europa "viaggio" è una specie di "logo" della cultura e soltanto la vita tzigana slava, l'Italia, la Spagna, persino la lontanissima zingara. La storia dei "nom" (e "nom" vuoi dine scorre spensierata e libera". America. II "viaggio del rom", dunque, è un "uomini") è quella della partenza originaria da viaggio realisticamente veritiero e storicamente un luogo lontano (probabilmente l'India ante- Numerosi studiosi, dal '700 ad oggi, hanno documentabile, ma è anche e soprattutto un niore settentrionale) per un percorso che non messo in risalto, quale elemento caratteristico viaggio psicologico, un viaggio dell'anima, atavnà mai fine, né geografica né temporale. Vi è della cultura "rom", il tema della libertà, intesa traverso il mondo-civiltà e attraverso il mondoun canto tzigano tradizionale, intitolato Tcudo come un viaggiane senza confini, alla ricerca natura: o, meglio, attraverso un mondo-civiltà tcudesa ("Miracolo miracolo"), il cui ritornello non di mète stabilite, ma dell'essenza stessa del- che, per essere sereno, deve trasformarsi in è il seguente: l'essere uomini, dell'essere "nom". Le ipotesi mondo-natura. Proprio come i fiori e i coloni di"Miracolo, miracolo, per me la grande vita linguistiche del Rúdigen e del Gnellmann, in pie- Bruno Monelli, come i "sentieri non praticabiliè quella della steppa e delle foreste". no secolo XVIII, confermate poi, a metà '800, del grande Bosco".

L'IMMAGINETra Simbolismo e-Simbolico nella fotografia di Luca Pagni

L'enigma ci assale guardando le fotografie di Luca Pagni: vogliono essere emblematiche nella contestualizzazione oppure è la forza delle forme che predominano in un simbolismo in sé insito, integrale, connaturato e radicato nella stessa immagine che inevitabilmente si impone ai nostri occhi? Difficile affermarlo con certezza, in ogni caso ci coglie, ci intriga, ci sorprende; questo penso basti per indurci a riflettere sull'intima dicotomia. Quando il gioco della diversità, quale tema espressamente dichiarato, si fa generoso e così familiare con l'arte e con la stessa immagine che mai o sempre conserva gelosamente la sua identità ambigua, favorisce oltremodo il lavoro di cattura dei ritagli di realtà, così come agisce questa ricerca di Luca Pagni. Il linguaggio dell'immagine allora si fa sentire, forte, fragrante e parlante nel muto codice dell'arte, rivolto alla nostra facoltà più percettiva, la sensibilità.

Ci ferma, ci domanda, provoca, esige una risposta. La mia, personalmente, è l'assenza di spiegazioni; ho inteso tutto, mi è tutto chiaro, forse perché ha stabilito un dialogo con l'individualità zingara, vera eccezione. Semmai lo sforzo sta nel restituire tali impressioni; non so, forse è così vicino alla mia pittura che ne colgo i predicati per affinità. I suoi "quadri" fotografici toccano molti aspetti anche storici della fotografia, ma qui non mi soffermerei con i soliti collegamenti; ciò che sorprende è davvero questo distaccarsi dalla consueta visione cronistica dei tempi contemporanei, fuori dall'iconologia assassina dei media circa il fenomeno zingaro, insomma la messa a fuoco che va oltre la distorta e non cristallina visione del confronto con i soggetti autenticamente diversi della realtà, è dunque essenziale quest'enorme nuovo simbolismo che ne scaturisce.

L'autore, da una parte, non ricerca un significato didatticamente, affettivamente proiettivo nell'immagine, ma la situazione concettuale in cui la stessa energia evocativa della forma scelta si presenta tale, spontanea e autonoma nella sua condizione più vera: una bambina rom con in braccio un'altra bambina ma finta, una bambola sporca quasi priva di occhi, entrambe però ben aggrappate al ludico, sebbene nel paesaggio desertico e plumbeo della periferia non cessi di emanare senso di sconvolgente tenerezza, di sublime poesia.

Dall'altra parte si staglia in una citazione surrealistica alla Dalì, meno dissacratore ma più incantato, più suggestivo, più estetico, intriso di delicati effetti, di immagini compenetranti nell'atmosfera di un cielo onirico aldilà del reale, senza né tramonto né alba, soltanto memoria di una casa aperta senza pareti, aperta al vuoto dell'esistenza, naturale ma resa virtuale dal sopravvento simbolico della nostra interpretazione. Ci suggerisce l'idea di un posto ideale dove possa esserci liberamente nell'utopia del non luogo dei nomadismi mentali, i pensieri che sempre si accavallano e si dissolvono nell'aria, alla fine, non ricusando tuttavia il caldo tepore di un momento di relax, gustare un banale ma simbolico tè.

BRUNO MORELLI

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Olimpo Cari

Libero come la musica tzigana Sono nato sotto una tenda in una notte d'estate

in uri accampamento zingaroai margini della città.I grilli mi cantavano la ninna nanna la luna mi fasciava di raggi cloro e le donne vestivano gonne fiorite.

Sono cresciuto su un carrodalle ruote scricchiolanti.Eravamo ragazzisenza ieri e senza domanimendicavamo il pane nella pioggia e al sole correvamo incontro ai nostri sogni alle nostre fantasie nel bosco.

Ora sono diventato grandela mia tenda è distrutta, il mio carro si è fermato.Ma cammino ancora per essere libero conce il vento che scuote il bosco come l'acqua che scorre verso il mare come la musica di un violino tzigano.

in Lacio Drom n" 1. 199;

"L'io o duo", olio e oro su tavolacnm. 60x90 - 1994

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Bruno Morelli inedita

I Braval a cingardèl zuraré a si siiu kam a mutòna clikképp nikt avrí. Ciorurò sar ni giùv a signora na nera nist ta dav tumend. André cava thèm me signornu ruk ta i Bravala ghiavel andré mand.

Bruno Morelli

Il Vento grida forteè freddoil sole è mortonon si vede nessuno in giro.Sono povero come un pidocchionon ho niente da dare agli altri.In questo mondoio sono un alberoe il Vento cantadentro di me.

"Donna vento", olio e oro su tavolacm. 80x63 – 1994

Bibliografa

Per quanto riguarda la bibliografia tengo a chiarire che i testi citati non sono da ritenere fonti dalle quali ho attinto per poter elaborare le mie analisi, tuttavia vale la pena segnalarli in quanto penso abbiano certamente contribuito a stimolare questa ricerca.

Antropologia Culturale, T. Tentori, Firenze 1973Tempo, Memoria, Identità a cura di P. Falteri, e G. Lazzarin, Firenze 1986 L'Acculturazione dei Popoli Primitivi M. Forno, Brescia 1971Crisi e Ricerca d'Identità V. Lanternari, NapoliIl Linguaggio del corpo A. Lowen, MilanoArte e percezione visiva R. Arnheim, MilanoUn Vero Kalò Riboldi, MilanoZingari M. Karpati, inserto speciale de l'Unità, Roma 1991Mille anni di storia degli zingari Vaux de Fauletièr, Milano 1978Zingari B. McDowell, Firenze 1979Storia sociale dell'arte A. Hauser Torino 1975Dizionario dei simboli Chevalier, Gheerbrant, Milano 1986Aspetti delle tradizioni e dei costumi popolari delle minoranze linguistiche in Italia Ministero dell'Interno, Roma 1997Proverbi zingari B. Nicolini, D. Tripler Lacio Drom 1971

Nadya Natasakiri

La nostra terra è gli Zingari il sole Per questo gli Zingari hanno onore, Mentre il mondo arde dovunquvanno gli Zingari.

cuore Per questo sono amati dagli uomini. E uomini uccidono uominiChe sia felice la madre terra! E le danze e le belle canzoni

E non dimenticate amai questo,non colpiscono nessuChe siano telici gli Zingari! Agli uomini nel vasto mondo.gli Zingari sono bravi ragazzi. In nessun luogo hanno suscitato guerre.

(Traduzione dai testi originali di Bruno Morelli) in Lario Drom, n.ANALISI DI ALCUNI TERMINI ANTICÈ interessante soffermarsi a riflettere su alcuni termini e scoprire che all’interno di ogni parola si nasconde una piccola storia, è come fosse una storia nella storia simile al gioco, in qualche modo, delle bambole russe. Si rivela così l’identità di ogni singolo vocabolo avente vita propria, capace di contenere una carica psicologicamente notevole

che spesso noi ignoriamo ma che agisce ormai automaticamente in maniera latente. Solo chi conosce a fondo l’etimo e quindi l’evoluzione della terminologia può farne uso corretto o manipolarlo come deterrente. Così la linguistica arricchisce la storia “esogena” con la storia “endogena”, i significati dei significati.

Da questo punto di vista è utile cercare di capire il valore di alcuni termini, sia quelli di natura “composita” e sia quelli dati per effetto associativo tralasciando gli originali che si rimandano ai settori competenti di linguistica.

Quello che preme esporre è soprattutto il retroscena di taluni termini elaborati secondo un preciso punto di vista culturale che va considerato anche sul piano sociologico del rapporto Rom-gagé. Ad esempio nell’ambito della kris le parole corrispondenti a designare le figure istituzionali rappresentative della legge gagì comunicano un senso spregevole d’impurità verso una “Kris” non riconosciuta perché ingiusta per i Rom.

Il giudice si traduce con Xarnó širó che vuol dire “testa d’asino”.

Il processo si dice Tulinì, “calza”, e vuol dare l’impressione di una tessitura, lunga e noiosa.

L’avvocato viene chiamato u Mù, “bocca”, oppure u Kurò, “colui che è addetto al parlare”.

Le forze dell’ordine, Polizia, si usano indicarle col nome di Suvurià, “piccole spie”.

La spia è Suv, e l’associazione concettuale avvicina questo termine a colui che penetra da tutte le parti come fosse un ago; che è infatti il suo originale significato. Suv = ago; Suv = spia.

Denuncia = Pimmì. Carcere si esprime con il senso della cattura, štaribbé, è

dove si è chiusi tra i gagé lontano dal proprio gruppo; infatti si traduce anche con Pandipé, “chiusura”.

Cella si dice Ciliklì che significa anche “chiazza sulla testa” circoscritta in uno spazio ristretto e di forma circolare. Lo stesso termine è anche il femminile di Cilikló con cui si indica l’uccello.

Ferita sulla testa inflitta dal bastone o da un sasso di dice Ràn. Agg. Ranindó.

Candela è Mumulì, il termine contiene un’associazione tra Mu, “bocca”, e Mulì, “morta”; da ciò risulta “bocca del morto” come se si volesse simboleggiare con la fiamma della candela lo spirito santo del defunto.

Krešst tar i Drak è un rimedio antico per curare il mal di pancia e diarrea. Si tratta di una bevanda molto acre composta con la triturazione dell’uva acerba, sale e aglio; questo liquido veniva consigliato dalle romnià drabeštr alle loro clienti contro il malocchio dell’intestino.

Gallina si dice Xaxinì o Ciavrì, ma più comunemente tra i Rom e i Sinti di tutto il mondo prevale il vocabolo di Kaxinì la cui etimologia è molto interessante. Kaxinì deriva da Kak+nì, “ala” più la sua declinazione, quindi il significato di “alato”, “volatile”.

Kak vuol dire Zio nel vecchio Romanó e probabilmente rendeva l’idea di parentela stretta con l’uso di un arto, ala, come membro dello stesso corpo.

Padella si traduce con Tixàn e Pentola con Kakàv. Lana si dice Pušúm. Bicicletta = Ratésk. Verde. Questo vocabolo viene assunto con il significato di

Jaló che vuol dire con il colore verde ma lo stato di un ramo o legna non secca, quindi verde, non buona da ardere. Altri gruppi dicono Zeleno per indicare il verde.

Disgusto si dice Giung e diventa radice per aggettivi come: Giungaló = brutto (fig. “schifoso”); Giungalipé, bruttezza di stirpe.

Colpa, Doš (agg. došaló). Latitante, Našindó, che deriva dal verbo našél, fuggire. Ricorrere, Praštal (agg. praštaló) si usa soprattutto nei casi

di una denuncia alla polizia; “è ricorso alla legge”. Praš si usa anche per tradurre la parola scorrere (esempio: U panì praštàl andré i lén = l’acqua scorre nel fiume).

Xajàrm è una parola difficile da tradurre in italiano perché serve ad esprimere una situazione difficile di allarmismo là dove è avvenuto, ad esempio, un furto, un imbroglio, una chiromanzia ecc… e il padrone si accorge “dell’inganno”; allora si dice che quel posto è xajardó, una zona calda, pericolosa. Il vocabolo deriva da una radice xajà, (“mangiato”) è una desinenza declinativi, è come dire “mangiare la foglia”. Infatti quando arrivano i carabinieri in casa per interrogare o per condurre una perquisizione, Rodm, si usa dire Xajàrm per “stare all’erta”.

Cercare, perquisire, spidocchiare la testa sono sinonimi della parola Rodm.

Spogliatoio, verb. = Sikaddó (part. pass.). Nudo = Nangó (part. pass. nghiardó). Segreto = Ciuriàl. Forzato = Pisslàs. Puttaniere = Lubanó. Maniche = Bajà. Crepare = Pariól. Paglia = Pús. Fieno = Kàs. Stagno, acquitrinio, si dice Xandàkj. Spino = Karó. Male improvviso = Dukkibbé. Tosse = Xas. Bolso = Purdindó, si usa dire per far capire le condizioni

fisiche di un cavallo affaticato col respiro affannoso, asmatico. Infatti deriva da Purdél, “soffio”.

Seta = Keš. Respiro = Dóx. Macellaio = Xamàs (da “uomo addetto al commercio dei

cavalli” – da “carne” = Mas). Macello = Maseskr. Sporcizia = Millipé (milaló = “sporco”). Sordo = Kašukó. Muto = Bi - Cib. Aborto = Spucitilì. Scoperto = Spicikardindó. Partorire = Bianilì. Tenaglie = Krešt. Nervoso = Prixaló. Biada = Gióv. Gioielliere = Rupéngr ( venditore di Rup, “argento” – da

rupia, moneta indiana). Domenica = Kurkó. Fontana = Xanìk. Pescara = Krikkì.

Trasacco = Gunó (“sacco”). America = Fúl (“merda”). Siepe = Bàr. Piccione = Sušuró (“pulito”). Oca = Cibalì (“linguacciuta”). Fagioli = Diliné (“pazzi”). Ceci = Nakkuré (“piccoli nasi”). Puzza = Xànd. Ubriaco = Mujaskarnó, deriva da muj, “bocca” (fig.

“abboccato”). Scialle = Pašnik, da Paš, “mezzo”, nik, nak, “naso”, “mezzo

naso”. Fa pensare al velo delle donne arabe. Pipa = Tumalì. Fronte = Cikàt. Guance = Ciammià. Ruffiana = Tuvanì. Avaro = Kaškanó. Auguri = Kiutlalén. Panni = Hìddl. Biancheria = Parnipé, da parnó, “bianco”. Cocomero = Paniesk, da panì, “acqua” (“acquoso”). Noci = Kuré. Lavatoio = Tuvibbé. Poco (di liquido) = Ciló. Sedano = Hacc.

Altro aspetto interessante dei termini antichi è la loro associazione che a volte rende visibile un proprio modo di vedere le cose attraverso i contenuti usati per raffigurare determinati concetti. Ad esempio il Danaro, Xaddé, sembra derivi dalla radice xand, “puzza”, qualcosa di maleodorante.

Infatti se si nota tutta la terminologia che descrive il sistema della quantificazione oggettiva e cioè il danaro, mezzo con cui si acquisisce quasi tutto, emerge soprattutto un rovesciamento dei valori dei valori di definizione per cui i soldi si indicano con nomi presi in prestito con significati poco edificanti ma con chiaro riferimento a situazioni di umiltà e di menomazione fisica, quindi:

Lira è: Kasukì (“sorda”); Dlinì (“pazza”); Pujà (“vecchie”);Milel lire = Bàl (“capello”);Un milione = Kirmó (“verme”).

I termini finora descritti fanno parte di un linguaggio in continuo cambiamento in cui parole che non svolgono più azione attiva nella vita quotidiana, cadono in disuso, diventano obsolete,

inevitabilmente sono destinate a scomparire sostituite da altre nuove, neologismi.

Come si sa il nomadismo tra i Rom abruzzesi ha segnato per molti secoli una cultura intera sia nella lingua che in altre forme espressive e comunicative per cui l’evoluzione della stessa lingua si è modellata armonicamente con quella popolare circostante permettendo ai neologismi di formarsi naturalmente e senza shock; ora con al fase della sedentarizzazione la lingua ha subito un cambiamento brusco dove il ricambio e rinnovo terminologico di alcune parole nonostante ciò è riuscito ad assicurare ancora una matrice del tutto originale. Ad esempio si può vedere la differenza fra due termini composti, uno antico e uno moderno: Saštréngr e Pirmignangr = maniscalco e automobile. Il primo termine esprime uno stato di fatto, reale, uno uomo che lavora il ferro (fig. “ferraiolo”); mentre l’altro termine dà il senso del camminare in quanto deriva dal verbo Peràv = cammino (fig. “mobile”).

Anche se la lingua è qualcosa di vivo e dunque soggetto al mutamento continuo dove parole e concetti si rimescolano progressivamente nella storia di una stratificazione incessante di nuove soluzioni linguistiche sempre aggiornate e obbedienti al comando della comunicazione, di fondamentale importanza resta la memoria che costituisce la storia e l’identità di una lingua che si fa cultura nella dignità di essere scritta e finalmente per sempre ricordata. La cultura zingara, residente inesorabilmente nella lingua soprattutto, può rappresentare una base solida per i giovani Rom su cui riprogettarsi e preparare insieme una nuova era.

GIULIO SORAVIA

LA LINGUA DEI ROM ABRUZZESI

NOTE SUL DIALETTO DEI ROM ABRUZZESI

Dal punto di vista fonetico il dialetto dei Rom Abruzzesi (che chiameremo per semplicità RA), presenta solo alcuni fonemi diversi dall’italiano. Anzi, è interessante notare l’adattamento al dialetto abruzzese nella pronuncia del romanes di questa “regione”.

In realtà, oggi più che mai è arduo identificare il RA con la regione amministrativa dell’Abruzzo: non solo esso deborda largamente verso le regioni confinanti e ciò, per quanto ci è dato di conoscere, da sempre. Parliamo delle Marche meridionali, del Lazio, del Molise, ma importanti nuclei di Rom Abruzzesi, identificabili per la parlata, hanno presto cominciato una migrazione che li ha condotti dapprima stagionalmente sul litorale adriatico, poi a stanziarsi in diversi quartieri di Roma (un tempo al Mandriane, oggi a Spinacelo, alla Romanina ecc.) e infine in varie città quali Bologna e Milano, tra le tante.

Sarebbe inoltre difficile stabilire un confine netto alla forma dialettale (ammesso che esista in un’unica variante) del RA rispetto alla massa dei dialetti del romanes che si parla(va)no in tutto il Centro-meridione d’Italia. Di molti è restata solo qualche traccia, soprattutto in Sicilia e a Napoli, di altri poco si sa (Puglie, Basilicata), ma ciò che conosciamo del romanes di Calabria induce a pensare che si tratti della stessa parlata con variazioni dovute a una lunga ma non troppo lontananza geografica.

In RA troviamo i seguenti fonemi assenti in italiano:

/ž/ come la “j” francese: žužžuró “piccione” (eso alterna con /š/);

/x/ come la “ch” tedesca: xabbé “cibo”.

Inoltre troviamo una /ë/, vocale indistinta: maréskërë “fornaio” che etimologicamente deriva da vocali postoniche o è una vocale finale di “appoggio” priva, sembrerebbe, di uno statuto fonematica. Appare inoltre probabile che – almeno in una pronuncia arcaica – si distinguessero due varietà di /r/ come in altri dialetti del romanes (rakló, lakró “ragazzo” e rom “uomo, zingaro”).

Da notare anche la presenza di un suono /dz/ simile all’italiano (zenzero) che in altri dialetti sarebbe presente come /z/: zarjà “peli”) e di una velarizzazione della /k/ in parole come kwérë “casa” o šukwárë “bello”.

Rileviamo che i fenomeni di palatizzazione si svolgono solo in presenza di /nj/ che diviene /ñ/ e di /lj/ che diviene tout court /j/ (miriklí “perla” > pl. mirikjá.

L’elemento che colpisce di più nella morfologia di questo dialetto è la scomparsa quasi totale delle declinazioni nominali. L’influenza dell’italiano ha fatto sì che si sviluppasse un intero set di preposizioni. Il fenomeno comprende anche il disuso del genitivo, mentre le forme etimologiche in –éškërë / -ákërë si usano oggi per formare dei derivativi:

pani “acqua” > panjé_kërë “cetriolo”;vaštë “mano” > vaštéskërë “spazzola”, “manico”.Alcune tracce mostrano la sopravvivenza di un fenomeno

arcaico di differenziazione tra il vero genitivo e il suffisso derivativo (-esko ~ -eskero). Es. devléskë “carità” ~ Devléskë Daj “Madonna” (= Madre di Dio), contro gli esempi riportati sopra.

Tra le preposizioni più usate troviamo:katárë “da” (dall’ablativo, abbreviata in tar, anche nel senso di

“di”);drë, tar “in”;ki “a”;ku “con”;pri “per”;maškarálë “tra”;upré “su”, ecc.

Residui di declinazione esistono ancora per i pronomi personali che troviamo usati secondo la seguente tabella:

io tu egli ella noi voi essi/enomin. amé tu jovë joj lamé tumé onëdativo mangë tukë lengë lakë laméng

ëtuméng

ëlengë

locativo mandrë

tutë lendë latë laméndë

tuméndë

lendë

comitativo

mántsa

túsa léssa lássa laméntsa

tuméntsa

léntsa

Forme di genitivo si riscontrano ancora nei possessivi che sono:

miró “mio”tiró “tuo”léškër(o) “suo (di lui)”lákër(o) “suo (di lei)”méngër(o) “nostro”tuméngër(o) “vostro”léngër(o) “loro”

Essi per altro si comportano come normali aggettivi (maschile in –o, femminile in –i e plurale comune in –e). Tendenzialmente le forme accentate sull’ultima vocale fanno sì che quest’ultima “sfumi” e divenga indistinta (ë). Sostanzialmente lo schema si ritrova nell’articolo (maschile o, femminile i, plurale comune li), ma non nell’articolo indefinito invariabile (ni).

Si vedano inoltre le forme:

kavá (f. kajá, pl. kalá) “questo”;ku(v)á (f. kujá, pl. kulá) “quello”;nijekkë “nessuno”;ništë “niente”;Kákkë, kamuñë “qualche”.

Il verbo si presenta con tre tempi:

il presente è del tipo comune che si riscontra in romanes:

kerávë “faccio” ğávë “vado”kerésë ğásëkerélë ğálëkerásë ğásëkerénë ğánëkerénë ğánë

il perfetto è del tipo “sinto”:

kerijómmë ğijómmëkerijánë ğijánëkerijá ğiló/(ilíkerijémë ğijémëkerijénë ğijénëkerijé ğilé

L’imperfetto vi appare innovativo e atipico:

kerásënë ğásanëkerésënë ğásanëkerésënë ğásanëkerásënë ğásanëkerénsa ğásanëkerénsa ğásanë

Il verbo incorpora le forme dei pronomi complemento (clitici) in una modalità che è di chiara origine italiana e insolita in romanes. Si vedano alcuni esempi:

dikkáttë “ti vedo” <*dikavë tutdikkésëmë “mi vedi” <*dikkésë manakkaréppë “si chiama” <*akkarélë pe (pe è il riflessivo)ardikkančë “arrivederci” <*ar-dikkas ci (it.)

Una caratteristica del verbo è la tendenza a sviluppare una a- prostetica in contesto. Si tratta di un fenomeno fonosintattico che si accompagna con il raddoppiamento sintattico della consonante iniziale del verbo e che si riscontra anche dopo l’articolo nei sostantivi e aggettivi. Un fenomeno analogo è riscontrabile in varie forme di italiano e nei dialetti italiani. Es.:

u rrukkë l’albero (<ruk)ağğávë mmángë me ne vado (<ğávë mángë)

Si osservino infine le forme del verbo “essere” e “avere”:

presente:

siñómmë asímmë nanémmë “non ho”siñánë asíttë nanéttësi nané “non è” asílë nanélë čelčë “c’è”siñémë asínčë nonénčësiñénë asíntëvë nanéntëvësi nané “non sono” asílë nanë čenčë “ci sono”

passato:

čijómmë asinémmëčijánë asinéttëčiló/čilí asinélëčijémë asinénčëčijénë asinéntëvëčilé asinélë

Per queste osserviamo che alcune forme di “essere” sono sostituite da č- “stare” (anche qui l’influenza italiana non standard?) e lo sviluppo della forma di “avere” (chiaramente di etimologia “essere a” si mange>asímmë ecc.) che non si trova in altri dialetti. In Calabria tuttavia si riscontra l’uso del verbo tar- per

“avere” riscontrato per altro anche in certi dialetti balcanici. L’origine potrebbe essere da štar- “prendere”. Si confronti del resto tir- “ricevere” in RA.

I “verbi” modali si trovano ridottissimi nell’uso. In pratica troviamo le seguenti forme:šti “dovere potere”naští “non dovere, non potere”

premesse al verbo coniugato e invariabili. Mentre il verbo volere kam- si usa seguito da te/ta e la forma verbale coniugata (esplicita), come avviene in altri dialetti del romanes. Es.:

šti ğğávë devo andarenaští kerésë akjálë non devi fare cosìkammávë te dikkállëvoglio vederlo

I numerali hanno le seguenti forme di base:

1. jekkë 6. šovë2. duj 7. fta3. trinë 8. xto4. štar 9. iññá/ña5. pančë 10. iññá/ña20. biššë30. triándë

Le decine superiori tendono a formarsi sul modello di “cinque volte dieci”:

40 sarándë / štarfradéš50 pančfradéš, ecc.

100 è šélë e 1000 è bálë.

Non sembrano di uso comune gli ordinali, che in romanes comune si formano con il suffisso (aggettivale) –to.

GLOSSARIO ROMANES-ITALIANO

ač- stare (v. č-)ajíğğë ieriakijal simileakká quiakkaná ora, d’akkaná attualeakkó làaldë altoamé ioamparin- imparareandré dentro, inanğ- accompagnareangjálë davantianglal futuroappiğğin- accenderearatí ieri seraardikkánğ arrivederciarğa- ritornarearkurdin- ricordarearl- raccoglierearprinčikar- riconoscerearris- arrivarearv- ritornareasd- alzareasdiní chiloasí è, sonoav- venire, diventareavek maiaveriğğë ieri l’altroavrí fuoriazzjal pesanteazzúrrë azzurro

bačanuró pulcinobaččiní pulcinobajë baio (di cavallo)bakrí caprabalë capelli; millebalí scrofabalivásë lardobaló maiale

bangó, bankó deforme; bangés al contrariobañardó stortobañipé torto; asílë bañipé ha tortobar pietra, sassobará molto, moltibaró agg. grande, grosso, importante, alto, vasto, largo, lungo; av-baró crescerebarrašá prete, fratebašav- suonarebašaddó fisarmonica; orologiobašín percentuale, parte, suddivisione del guadagnobašín- dividerebašíní pollastrabašnó gallobašvibbé musica, serenatabaxtaló fortunatobaxt fortunabeng diavoloberš anno; etàbeš- sedersibi senzabian- nascere, partorirebiandlipé nascitabiandó natobibbë ziabikë biga, calessebijatë beato!bikkin- venderebikkimbé commerciobirikjá v. virikjá collanebissáx peccatobiš ventibistar- dimenticare, sbagliarebištaripé dimenticanzabištlí sedia (anche bištrí); causa giudiziaria (v. tuliní)

bištló sedutobištrí sediabitrašanó coraggiosobivand crudobizor debolezzabjadë biada, avenabjávë matrimonioblebb fangobobbë favabokkaló affamatobokkë famebottonë bottonebraklí pecorabravál vento; automobilebravalipé ricchezzabravaló riccobregë montagnabrek pettobrišndó pioggia; u brišindó addélë, piovebuč- mandare, chiederebuččivibbé serenatabučin- giocarebuden- aumentarebuderë piùbukkulí pizza dolcebul culoburí sposa, nuora, fidanzata, promessa sposaburó sposo, fidanzatobusákkë gonzo, gaggiobušëmë giocobut molto, troppobutí cosa, lavoro, merce

č- stare; čélë pri llatë sta attenta, č-di ker abitarečaččó giusto, vero, genuino, destročad- vomitarečádëm vomitoča(j) ragazza, figliačajurí ragazza, figlia, bambinačammë mascellačamtimí schiaffo

čang gambačangav- toccarečankav- muovere; čankajap si muovečar erbačar- coprirečardé tendačardó copertočaró piattočarvibbé pascoločavó figliočavrí gallina, polločavuró ragazzo, figlio, bambinočelë cieločerásë ciliegiačib linguačibalí oca, linguacciutačik terra, campočikat frontečiliklí cellačilikló uccello; aereočin- tagliarečindó feritočingar- urlare, gridarečingardipé urlo, gridočingardó urlatorečingerdó molestočiní orecchino (pl. čiñá)činibbé tagliočirínë fiammifero, cerinočiriní stellačiv- mettere, coire, fare all’amorečon lunačor ladro; barbačor- rubarečoraló barbutočoraní brava, furba; v. koraníčcoró poveročučí mammella, senočummá guancečummalí guanciuto, dalle guance paffutečummid- baciarečummunakkj offerta

čur- rubare (v. čor-)čurí coltelločurdiní coltellatačururó povero; mendicantečuxaní strega

d- dare, picchiare; piovere; d- ni vastë dare una mano, aiutaredabbá colpi, bòttedavidés oggi, stamattinada(j) madredand dentedandar- morderedatë padredeš diecideštaftá diciassettedeštañjá diciannovedešoxtó diciottodeštrë destradešuddú dodicidešujek undicidešupanč quindicidešusó sedicidešustar quattordicidešutrin tredicidevléskë carità; ker- o devléskë, fare la caritàdiffíčilë difficiledik- vedere, guardaredikkanğ- incontraredikklibé mostradilinó matto, stupidodis cittàdisurí paese, piccola cittàDivélë (Dio (v. Murdivélë)divertin- divertiredivésë giornodliní lira (valuta)drab medicina, rimedio; fattura, malocchio; sorte; guarigionedrabburó curatore, medicastro

drabéštë chiromante, indovino/a, fattucchiera, medicastrodrak uvadrjavë maredrogiripé l’arte dell’indovinare, predire la sortedrom strada, via, viaggio, cammino; mododu(j) duedubal duemiladubbin- guadagnaredud lucedujdabbá doppietta, v. putinídukká dolori, dogliedukkav- doleredukkibé dolore, paralisidumó schienadumujengërë bugiardo, bugiadur lontanodural lontanoduraló lontanodurger- predire la sorte, leggere la manodurgjippé lettura della mano, predizionedurin- durareduríngë fino, spago; telefonodušel duecentoduštil basta, è abbastanza

fáčilë facilefinéštrë finestrafinišsin- finirefiriddë finestra (anche firit)fojë fogliafóro mercato, fierafraf catarrofrikkan- gettare, scagliarefrittatë frittatafrunnë foglie, frontefta setteftafradeš settanta

ful escrementi; vigliaccoFulë l’Americafungë fungofurát volta; sa ki ni furát, improvvisamentefururó puledro

gad camiciagağğí donna non zingara (più comune kağğí)gağğikanó non zingarescogağğó uomo non zingaro (più comune kağğó)gağikanó agg. non zingarogallináččë tacchinogaraddó nascosto, segretogarav- nasconderegav paese, villaggiogavaló uomo privo di principigávëlë fagotto di bagagli posto posteriormente nella bigager rognageraló rognosogergeló ubriacogernó vermegi anima; gi tar Murdivélë Spirito Santogijav- cantaregilí canzonegiv granogjaččë ghiaccioglasë bicchieregokë salumi in generalegrandinë grandinegrassiní cavallagrašt cavallogu salsiccia (pl. gujá)guddí cervelloguérë ancoraguldó v. uldógunó sacco, borsagurí copertaguruv bue, toroguruvní vacca

ğa- andare; ğa- upré salireğallë gialloğammang- andare a chiedere (v. mang-)ğamutró generoğangav- svegliarsiğan- sapereğarrakav- andare in cerca diğidó vivoğiker- aspettare, fermarsiğiné genteğinó corpoğiv- vivereğivipé vitağu pidocchio (pl. ğuvá)ğukél caneğuklí cagnağuladdí piazzağulav- pulire, scopareğungaló brutto, cattivoğuraddí piazzağuró muloğustin- aggiustareğuvaló pidocchiosoğuvél donna, femmina

iló cuoreimé ioinčirátë cerata, tenda, tendoneinkontrin- incontrareíssjë furbo, intelligentejag fuocojak occhio (pl. kja)jakéngërë fiammiferojaló verdejatró dottorejek unojíddëlë pannijiló cuore, sentimentojiv nevejoj ella, essajonë essi, essejovë egli, essojuraddó šukaré elegantejuráv- vestire

jurvibbé vestitojutin- aiutare

kabní incintakabórë quanto, quanti (anche tabór)kaffé caffèkag ala; ascellakak 1 ziokak 2 qualchekakávë pentola, caldaiokalin- scenderekalipé tuttokaló nero, morello, caffèkam solekam- volere, amare; kamméppë, ci vuolekambló buonokamipé volontàkamuñ qualchekan orecchiokaná adesso; quandokanaló orecchiuto, dalle orecchie lunghekandelë candelakanéngërë omosessualekanéštrë cestokangirí chiesakanglí pettinekánkërë cancrokar penekar- chiamarekaradó cottokarav- cucinare, cuocere; kwa karavépp cucinakarló collo, golakarmaló marciokarmuró/í frate, suorakarmusó topokaró spinakašikanó tirchio, avidokašt legno, bastonekašukí lira (valuta)kašukó sordokat forbici

katar da, da dove; di qua; destrakavá questokedadik- mostrarekedavá quellokel- ballare, giocareker- fare; ker- butí lavorare; ker- jag accendere; ker-xev scavarekerë casa: ker baró palazzokeš setakijálë cosìkikirdó- colpitokin- comprarekinarjap- stancarsikiniktëkring in nessun luogokinó stancokir formicakiral formaggiokiriví comare, madrinakirivó compare, padrinokirivuró figliocciokisalkerijáttë ovunquekišté a cavallokjir tempo, cielokjodë chiodokjutë la lénë espressione apotropaica, per indicare che non c’è invidia o malocchioklidë chiavekókkalo ossuto, magrokokëlë ossokolë grembiule succinto e formante una tasca sul davantikoló adagio, piano; anche koló-kolókombë imbroglio, bidonekopré lassùkor ora (di orologio)koraní donna brava a guadagnarekororó cieco; anche kurorókotilé laggiùkridin- crederekrij- creare

kris giudizio, tribunale, giustiziakristjánë cristiano; ker- krisjánë battezzareku conkuá quello; dovekualë chi, qualekuandë quandokuč caro di prezzokuítë zitto, quieto; anche kwittëkuminčin- cominciarekuré nocikurí copertakurkó domenica, settimanakurkuró solokuró avvocatokurribé guerra, battagliakurtë cortokušibbé maledizionekutar di là, sinistrakutór pezzo, fasciakuvá quello

l- prendere, ricevere, afferrarelaččibé bontàlaččó buono, sano, bravo, capace, contentolad- trasportare, spostareladdipé spostamento, viaggio, trasferimentolağğ vergognalaklí, lakrí ragazza non zingaralakló, lakró ragazzo non zingarolamé noilang zoppolav parolalavurin- lavorarelen fiume, lagolengëro loroléškëro suoli i, gli, lelibrë libro

liğğérë leggeroliğğin- leggerelikkí lendinilil carta, letteralimúnë limonelináj estatelon salelondó salatolubní prostitutalučë luce, lampada, v. dutluddipé accampamentolulí pomodoroluló rosso; sangue; luló dë sunaká, sauro (di cavallo)luludí fiorelundinó prosciuttolungë lungolunó falce, v. nunólutëmë ultimo

maččó pescemajéštrë maestromagañá (pl.) malimaj maimajá (pl.) fatture, iettaturamakkí mosca; makkí barí, ape vespa; makkí tiknurí, zanzaramaléštë ognunomalino/í amico, amicamaljakkë malocchiomang- chiedere, mendicaremanglipé richiestamanúš uomo, capo famigliamar- ammazzare, uccideremardó ammazzato; cattivomareškëre panettieremarfl catarromaró panemartéllë martellomartiníkkjë freno (di carrozze ecc.)martinó testimonemas carnemaskë mesemasliní oliva

maškaral tra, attraversomaxribbé impuritàmaxurn impuromaxurnibbé impuritàmbrol peramelaló sporcomendë mentoméngëro nostromer- morireminğ vaginamirdaj mammamiriklí perla, grano di rosario (pl. mirikjá, v. anche virikjá)miró miomirribbé mortemisálë tovagliamištó benemjelë mielemol vinomoxtó cassettone, baule, cassa, baramu bocca, facciamujaskarnó ubriacomuló morto; fantasma, spiritomumulí candelamur miomurdar- spegnere, uccideremurdatë babboMurdivél Diomurellë morello (di cavallo)murš maschio; uomo; murš baré gli adultimusí bracciomuter- urinare

na no, non; di, che (secondo termine di paragone)nafél male; offesa, torto; bi nafél innocentenaj unghia, zoccolonak nasonak- passarenakaló baccalànakkalí sigarezzanakuró fagiolo

nané non c’ènangó nudonasvaló malato; ağğávë nasvaló, sto malenasvlipé malattianaš- correre, scappare, fuggirenašin- nascerenašlipé fuga, corsa, garanaští non potere; nastí dik- odiarenav nome; kontranav cognomendurturó forestierongarav- nasconderengaradó segretongarjë carbone, v. vangárngav- toglierenginipé contoingir- guidarenguštlí anellongvštljar- fidanzarsinguštó ditoni uno (art. indet.)nikékk nessunonikló riccio, porcospinoninger- portareningjov- uscirenisprijó nipoteništë niente, nullanivibbé novitànivó nuovonjá novembrenjafradés novantanonnë nonnanunó falcenúvolë nuvola

odin- odiareóra ora

pabbá melapabbár- infiammare, incendiarepabbardó in fiammepager- rompere

pakardó rotto, spezzatopakj- crederepakjabbé debitopakjandó credutopalartašá dopodomanipalé poi, dopopalálë dietro, dopo, indietropanč cinquepančëšel cinquecentopančfradés cinquantapand- legare, chiuderepandindó chiusopandipé legamento; taglione, guidrigildopandra anchepaní acquapaniéškërë cetriolo, anguria, melonepanjalippé soldatopankaluró carabinierepannóččë granturcopapílë carta, carta moneta, documento, libropappinó tacchinopapú nonnoparamišë racconto, storiapariól- creparepariv- cambiareparnó bianco, storno (di cavallo); lenzuolo (v. pkaxtë)parumélë farfallaparvibbé cambiamento, cambiopašëdivés mezzogiornopašé vicinopašník fazzolettopatív onore, onorabilità; banchettopatvalí onesta, verginepatvaló onorato, onestopaviní bottigliapë perpe su; se stesso (riflessivo)pelé testicolipen/phen sorella

per- camminare, vagare (pir-)per- telé cadereperdin- perderepernítsa materassopeskin- pescarepéškëro propriopettsátë pezzato (di cavallo)pij- berepibbé bevandapilajéngërë contadinopilalí fattoria, casolare, stalla (pilari)piló cadutopin- direpinsin- pensarepípa pipapir- cadere (v. anche per-); riempirepirbangé granchi (anche pribangé)pirdó pieno, caricopirí pentolapiribbé l’andarepiséllë pisellipisóskë perchépišóttë mantice; portafoglio, borsapjandë piantapjaxtë lenzuolopomeriğğë pomeriggiopor/phor pancia (m.); penna (f.)portijálë aranciapoxtán stoffapralë/phralë fratello, amico intimo; pralë da vaštë cuginoprándëvë fidanzamentoprašt- inseguirepravardí gattapričikardipé conoscenzaprigadórjë purgatorioprijadó sbruffone, vanagloriosoprijanó amanteprikardí gatta

prikókkë albicoccaprimë primoprinčikar- conoscereprinčikardipé confrontoprincikardó famosoprixaló nervosopro piede, gamba, zampaprobankó piedi-piattipsigibbé corteggiamentopuč- chiederepučipé domandapujá soldipukibbé pagamentopukin- pagare, spenderepuliké adagiopuraddó sbruffonepurdar- soffiarepurdindó bolso (di cavallo)purdunó mercatopurí codapuribbé vecchiaiapurkanó anticopuró vecchiopurúm cipollapus pagliapuší- polverepuští tasca; puští tilár, la tasca sotto la gonna, borsapušum lanapušumá pulci, piattoleputar- aprireputékë negozio, bottega; barí putekë supermercatoputiní fucile

raibbé signoriaraj signorerajibé signoriarak- trovareraklipé ricercarakló v. lakroraklurí bambinarakluró bambinoraní signoraranokkjë ranarat notte

rateškë biciclettaraxámë giaccarič- restarerid- restituirerik lato, fiancoril petorinkin- raccontareringjuv- riuscireris- arrivarerod- cercare, perquisireroj cucchiaiorom uomo (zingaro), maritoromanésë alla zingara, la lingua zingararomanó (agg.) zingaroromní/romrí donna zingara, moglierotë ruotarud- cercare, perquisirerudindó perquisitoruk alberorup argentoruv luporuv- piangereruvibbé piantoruvurí volpe

sa tutti; sa li furàt sempre, tutte le voltesa- rideresabbé risata, risosalí cognatasaló cognatosalutin- salutaresanó sottile, leggerosap serpentesapanó bagnatosaplí lucertolasar comesasaró tuttosasú suocerasasto sano, interosaštrë ferro: saštrë luló ramesaštréngërë fabbrosaštró suocero

savrë saurosembrë sempresi sesičipé veritàsikavél- spogliare, leggeresiñómme io sonosiništrë sinistrasir agliosiv- cucireskrevin- scrivereskumméssë scommessaso che cosaspojin- spogliarespuladd- sostarespuladdó accampato, in sostasunaká oro, gioielli, tesorosunó sognosutilindó assonnatosutló addormentatosuv ago, spillosuv- dormiresuvaló spionesuvibbé sonnosuvurí guardiašax cavološdinó altošel centošelandalë cuscinošelóšil freddošikér-/škír- aspettare, mantenere, tenerešikardó mantenuto, amantešing cornošingaló cornutošingengërë forchettašinguró cornetto, amuleto, piccola fatturaširó testa; šero rom, saggio (anche širó)škj- alzarsiškola scuolašov sei (anche šo)špekkjë specchiošpettin- aspettare

štaddí cappelloštarebbé prigioneštarekkjá occhialištarepré coniglioštarfradés quarantaštellë stellašti potere, dovereštorja storiaštornë storno (di cavallo)štreččë pettinešugimé asciuttošugló peperonešugluró peperoncinošukárë agg. bellošukin- asciugarešukkjardó asciuttošukó magro, seccošun- sentire, ascoltare, ubbidirešungélë profumošurdó freddošušibbé purezza, puliziašušo pulito, purošušuró piccionešut acetošutabbá pistolašutaló acido

ta e, chetabbá botta, colpotabór quantotagár retakarní regina; bella donnatant ğuvélë di tant donna in gambatar da, ditar/thar mento; tar zinzí mento lungotarnó giovanetašá domanitatá babbotatipé caldo, caloretató caldotav filotekkané insieme; así tekkané essere d’accordo

ti chetijanë tegame, pentola (di coccio)tijardó in piedi, rittotikkinó piccolo, cortotiknuró piccino, bambinotilarë sottotilé giù, in fondotiró tuotiš tavolotixánë pentolatraññë secchiotraš pauratraš- aver pauratrasan- spaventaretremin- tremaretriánda trentatrin tretrišel trecentotrjax scarpatruš setetrušaló assetatotrušúl crocetséngërë la “zingara”, indovina, stregatsid- tiraretsitsá gattotritsí ziotsittiní litrotsox gonnatsukkë zuccatsukkërë zuccherotu tu; tu rajibé Signoria, Leituknuró v. tiknurótuliní calza (pl. tuliñá) ; causa, processo (v. bištlí)tuló grassotum fumotumalí tabacco, sigaretta, pipatumé voituméngër vostrotut lattetuvë fumotuv- lavaretuvajë tovaglia, v. misál

tuvél asciativibbé lavaggio, bagno

u il, louldó dolce; miele, zucchero; na uldó amarouprál sopraupré suustí- alzarsi

vager- parlarevakker- parlarevakkëribbé conversazione, discorso, parlataval prestovamoní incudinevangár carbonevaró uovovašt manovavér altrovend invernoveš bosco, veš baró forestavirikjá collanevlinë corte, tribunalevlinéngër chi ricorre alla corte (fuori dai principii rom)vodrë lettovojë mandria di equinivoja vogliavudar portavurkav- vestirevuribbé vestitovusin- spingerevušár cavezzavušt labbrovut gomito

xa- mangiarexabbalí patataxabbé cibo; xabbé tar u muló banchetto funebrexačar- bruciarexačarengërë servitorexaddé soldixajar- mollare, lasciar andare

xajardipé comprensione, il mangiare la fogliaxal-/xar- capirexalangí poco, un po’ dixalarí poco, poco meno, xalarí rat seraxaliló accortoxalipé invidiaxamuló becchini; miserabilexand- puzzarexandákkj pozzangheraxandvaló puzzolente; morto di fame; immoralexanğ- pruderexaník fontanaxarní asinaxaruv- grattarexas tossexas- tossirexatan fettucciaxedaddó sbruffonexer somaro, asinoxev fossa, bucoxilí ficoxin- cacarexindí escrementi, diarreaxirdió straniero, non italianoxiv bucoxlang vocexoraxanó zingaro jugoslavoxoxanó falso, bugiardoxrivj cattivo, feroce, avaroxto ottobrextofradeš ottantaxulévë calzoni, pantaloni, anche xulevjá (pl.)xulin- arrabbiarsixulsav sposarexulsivibbé matrimonioxulsivibbé matrimonioxumaréngërë pasta, maccheronixuxar- ingannarexuxardipé ingannoxuxribbé calunnia, falsità

zangarnó ghiottonezarjá (pl.) pelizet oliozijál pesantezinzó lungozor forzazularó/zuraló/zuzaró forte, durozuraré velocementezumí minestra, brodo

žužó pulito (anche šušó)žužuró piccione (šušuró)

GLOSSARIO ITALIANO-ROMANES

A kiAbbandonare muk-Abbastanza è duštílAbitare č- di kerAbituato mittisiméAccampamento luddipéAccendere ker- i jagAccompagnare anger-Accordo essere d’así tikkanéAccorto xalilóAceto šutAcido šutalóAcqua paníAddormentato sutlóAdesso kanáAereo čiliklóAffamato bokkalóAggiungere čiv- vavérë, čiv- buddérëAglio sirAgo suvAiutare ajutin-, d- ni vaštëAiuto ni vaštëAla kagAlbero rukkë, rukAllora (a quel tempo) kulá beršAlto šdinó, áldëAltrimenti te naAltro vavérëAmante prianó; (mantenuto) sikërdóAlzare ašd-Alzarsi uški-, ški-, ušti-Alzato ašdindóAmare kam- mištóAmaro na uldóAmerica FulëAmbiente kringëAmicizia prinčikardipéAmico/a malino/malinoAmmazzare mar-; Ammazzato mardó

Amore mištipéAnche pangëAncora (tuttora) pangë kanáAncora (di nuovo) guérëAncora (di più) buddérëAndare ğa-; andare a chiedere ğammang-; andare a cercare ğarrakav-Andare (sost.) piribbéAnello nguštlíAnima giAnno beršAntico purkanóAperto putraddóAprile putar-Argento rupArrabbiato xulinásArrivare ris-Arrivederci adrikkánğArticolo (merce) butíAscella kagAscia tuvélëAsciugare šukkjar-, sukin-Asciutto šukó, šukkjardóm šugiméAscoltare šun-Asino-a xer/xarníAspettare šikir-, ğiker-Assetato trušalóAssonnato sutlindóAttento stare č- pri + pron. suff.; attento! jač pri tutë; sta attenta élë pri llátëAttività butíAttraverso maškarálAttuale d’akkanáAumentare buddér-Automobile bravalëAvanti anglálë, angijalëAvaro xrívjëAvvocato kurxó, muAzzurro azzúrrë

Babbo murdatë, tatáBaccalà nakalóBaciare čummid-Bacio čummidibbéBagaglio gavlëBagnato sapanóBagno tuvibbéBagno fare il a qc. tuv-Baio bájëBallare kel-Bambina čavuríBambino čavuró, tiknuróBanchetto xabbé; (rituale) patív; (funebre) xabbé tar u mulóBara moxtóBarba čorBarbuto čoralóBasso tikkinóBasta duštílBastardo gavalóBastone kaštëBattaglia kuribbéBattere d-Battezzare ker-kristjánëBaule muxtó, moxtóBecchino xamulóBello šukárëBene mištóBere pj-Bevanda pibbéBianco parnóBicchiere glasëBicicletta ratéskëBiga bíkëBiglietto papilëBisogna kamméppëBocca muBolle (intr.) krijolëBolso purdindóBontà laččipéBorsa pišottëBosco vešBottiglia paviníBotte (bastonate) dabbBraccio musí

Bravo di tantëBrodo zummíBruciare xačar-Bruciato xačardó, pikóBruno kalóBrutto ğungalóBuco xev, xivBue gurúvBugiardo dumujengërë, xoxanóBuio ratBuono laččó, kamblóBurro čikénButtare (via) frikkan-

Cacare xin-Cadere pir-Caduto pilóCaffè (bevanda) kalóCaffè (locale) mujákkërëCalcio (colpo di piede) lastíCaldo s. tatipéCaldo agg. tatóCalunnia xuxribbéCalvo murraddóCalze tuliñá (sing. tuliní)Cambiare pariv-Cambiamento parvibbéCamera kwa suvépCamicia gadCamminare per-, pir-,Camminata piribbéCammino drom, laddipéCampagna čikkjáCampo čikCandela mumulí, mumelíCane ğukélCantare gjav-Canzone gilíCapelli balCapire xar-, xal-Capitare v-; ti capita, vélë túttëCapo sissó baró; -famiglia manúšCappello štaddí

Capra bakríCarabiniere pañaluró, pañaróCarbone vangár, ngarjëCarico pirdóCarità devléskëCarne masCaro laččó; (di prezzo) kučCarro bígëCarta papílëCasa KerëCasolare pilalíCassa muxtó, moxtóCatarro fraf, marflCattivo xrivj, bištlíCausa tuliní, bištlíCavalla grassiníCavallo gtraštë¸ a - kištéCavezza vušárCavolo saxCella čiliklíCena xabbéCento šelCercare rod-, rud-Certo! jo!Cervello guddíCetriolo paniéskërëChe ta; ma (secondo term. di paragone)Che cosa soChi konChiamare kar-Chiave klidëChiedere puč-, mang-Chiromante drabéštëChiesa kangiríChilo ašdiníChiudere pand-Chiuso pandinbdóCibo xabbéCieco kororóCielo (fisico) kjirCielo (superno) temCifra tabórCiliegia čirásëCinquanta pančfradeš

Cinque pančCinquecento pančëšelCipolla purúmCittà disClima kjirCoda puríCognato salóCognome kontranávëCoire čiv-Colazione xabbéCollane virikjáCollo karlóColpito kikirdóColpo dabb, tabbáColtellata čurdiníColtello čuriComare kirivíCombattere kur-Come sarCominciare kuminsin-Commercio bikimbéCompagnia tikanéCompagno malinoCompare kirivóComposto kirdóComprare kin-Con kuConiglio štareppréConoscenza/Confronto pričirdipé, prinčikardipéConoscere prinčikar-Consegnare d-Contadino pilajéngërëContinuare ğa- anglálëConto nginipéContrario, al bangésConversazione vakribbéCoperta kurí, guríCoperto čar-Coraggioso bitrašnóCorda šilóCornetto (portafortuna) šinguróCorno šingCornuto šingalóCorpo ğinó

Correre naš-Corsa našlipéCorte (tribunale) vlinëCorto tikkinóCosa butíCosì kjálëCotto karaddóCreare krij-Credere (aver fede) pakia-Credere (ritenere) pin-Crepare parjol-Crescita baripéCristiano kristjanëCroce trusulCrudo bivándCucchiaio rojCucina (luogo) kwa karavép; (arte) karvibbéCucinare karav-Cucire siv-Cucito sivibbéCugino pralë da vaštëCulo bulCuocere karav-Cuore jiló, ilóCurare sikir- laččóCurvo bankó, bangó, bañardoCuscino šelandlálë

Da tar, katarDare d-Data divésDavanti angijálëDavvero pišiñángëreDebito pakjabbéDebole bizuralóDebolezza bizórDefecare xin-Dente dandDentro andréDestra dešstrë, katárDi dë, tarDialetto vakribbéDiarrea xindíDiavolo beng

Dicembre dičembrëDichiarare pen-Diciannove deštañáDiciassette deštagtáDiciotto deštaxtóDieci dešDietro palárë, palalëDimenticanza bištaripéDimenticare bištar-Dimostrazione dikkipéDio Dévël, MurdivélëDire pen-, pin-Direzione (verso) dromDiscorso vakribbéDiscutere vaker-Dito nguštóDiventare av-Dividere bašin-Divinare durger-Divinazione drogiripé, durgjuppéDocumento papílë, lilëDodici deštadú, dešuddúDoglie dukkáDolce uldó, guldóDolere duk-, dukkav-Dolore dukkipéDomanda pučipéDomandare puč-Domani tašáDomenica kurkóDonna ğuvélë; donna non zingara ğağğí, kağğíDopo pálëDopodomani palartašáDoppietta dujdabbDormire suv-Dottore jatróDove kwaDovere n. lavDovere v. šti-Dritto (in piedi) tijardóDue dujDuecento dušélDuemila dubálDuro zularó

E taEccetera takkijálëEcco ekkitójEconomico najkučEgli/Ella jovë/jojElegante juraddó šukárëEnorme baróEntrare ğa- andré, av- andréEpilessia pipojëErba čarEscremento ful, xindíEsistere ač-Essi jónëEstate linájEsterno avríEtà berš

Fabbro saštréngërëFaccia muFagioli nakkuréFagotto gavëlëFalcetto nunóFalsità xuxribbéFalso xoxanóFame bokFamoso prinčikardóFango blebbFantasma mulóFare ker-Farfalla parumélëFarina varóFascia kutórFattoria pilalí, pilaríFava bop, bobbëFazzoletto pašiníkFeci fulFerito čindóFeroce xrivjFerro sáštrëFettuccia xatánFiammifero jakëre, čiríneFianco rikFico xilíFidanzamento praándëvë, ngguštljar

Fidanzata buríFidanzato buróFiera foroFiglia čajFiglio čavóFiglioccio kirivuróFilo tav, duríngëFine (non più) avékFine (sottile) sanóFinestra firítëFiore luluddíFirma nav ta kontranávFisarmonica bašaddóFiume lenFoglio papílëFondo tiléFonte zaníkForbici katForchetta šingéngërëForesta veš baróForestiero ndurtanó, ndurturóFormaggio királFormica kirForte zoraró, zularóFortuna baxtFortunato baxtalóForza zorFra maškarálFrancese frančikanóFrate karmuróFratello pral, phralëFreddo sil, šurdóFreno martiníkkjëFretta avere valFronte ikátFucile putiníFuga našlipéFuggire naš-Fumare pij-Fumo tum, tuvëFuoco jagFuori avríFurbo issjëFuturo anglál

Gallina čavríGallo bašnóGamba čangGara našlipéGatta prijardíGatto pravaddí, tsitsáGenerale agg. saGenero ğamutróGenitore datëGente ğinéGentile lağğóGettare frikkan-Ghiotto zangarnóGiacca raxámëGiallo ğallëGiocare kel-, bučin-Gioco búšëmëGioielli sunakáGiorno divésGiovane tarnóGirare pir-Giù tiléGiudice xarnó širóGiudizio krisGiuramento juribbé; g. sacro xasuvélGola karlóGomito vutGonna tsoxGonzo busákkëGrande baróGranchi pirbangéGrano givGrasso tuló; (sost.) čikénGratis bixaddéGrattare xaruv-Grembiule kolëGridare čingar-Grido čingardipéGrosso baróGuadagnare dubin-Guance čummáGuanciuto čummalóGuardare dik-Guardia suvuríGuarigione drab

Guerra kurribbéGuida ngiribbéGuidare ngir-

I (art. plur.) liIeri ajíğğ; Ieri l’altro averiğğ; ieri sera aratíIl uImbroglio (bidone) kombëImmediatamente valImprovvisamente sa ki ni furátImpurità maxribbé, maxurnibbéImpuro maxurn, gavalóIn andré, dreIncinta kabbiní, kabníIncontrare dikkanğ-Incudine vamoníIndietro palárInfiammare pabbar-Infiammato pabbardóIngannare xuxar-Inganno xuxaddipéInglese anglikanóInnocente binafélInseguire prašt-Insieme tikkanéIntelligente issjInteriora bukéInterno andréIntero saštóIntestino purjáInverno vendëInvidia xalipéInvitare kar-Io amé, iméItaliano italikanó

Là akó; di là kutarLabbro vuštLadro čorLaggiù kotiléLago lenLampada dutëLana pušum

Lardo balivásëLasciare muk-Lassù kopréLatte tutLavaggio tuvibbéLavare tuv-Lavorare ker-butíLavoro butíLegamento pandipéLegare pand-Legge krisLeggere sikav-; (la mano) durger-Leggero sanóLegno kaštLendine likkíLenzuolo pjaxtLettera lilLetto vodrLettura (della mano) durgjupéLibro papilë, librëLingua čib; vakribbéLira kašukím dliniLitro tsittiníLocale agg. kringLontano dur, durál, duralóLoro léngëroLotta kurribbéLuce dud, dutLucertola saplíLuna čonLungo zinzóLuogo kring; in nessun luogo kinktëkringLupo ruvLutto kalipé

Madre (da(j)Maggiore baróMagro šukóMaestro majéštrëMai avékMaiale balóMalato nasvalóMalattia nasvalipé

Male nafélë, i mali magañáMaledizione kušibbéMalocchio maljákkë, drabMamma mirdajMammella čučíMancare na č-Mandare buč-Mandria vojëMangiare xa-Mano vaštMantenere šiker-Mantenimento šikribbéMantice pišóttëMarcio karmalóMare drjavëMarito romMascella čámmëMaschio muršMaterasso pernítsaMatrimonio xulsivibbé, bjávëMattina divésMatto dilinóMedicastro drabburóMedicina drabMela pabbáMeno xalaríMendicante čururóMente širóMento tarMercato fóro, purdunóMese máskëMessaggio lílëMetà pašMettere čiv-Mezzo pašMezzogiorno pašedivésëMiele uldóMigliorare ker-fiddérMigliore fiddérMilione kirmóMille balMio miró, murMiserabile xamulóMisto paš ta pašMoglie rumrí, romní

Molesto čingerdóMollare xajár-Molto but, baráMondiale tar u temMondo temMontagna bregMordere dandar-Morte miribbéMorire mir-Morte miribbéMorto mulóMosca makkíMostra dikklibéMostrare kedadik-Mulo ğuróMuovere ankav-; si muove, čankajápMusica bašvibbé

Nascere bian-; è nato biandóNascita biandlipéNascondere garav- ngarav-, garavo-, ngarav-Nascondiglio parnibbéNaso nakNé naNecessario tu kammépNegozio šutali, putékëNemico kağğóNero kalóNervoso prixalóNessuno nijekkNeve jivNiente ništëNipote nisprijóNo naNoci kuréNoi laméNome navNon na; non c’è nanéNon zingaresco kağğikanó, gağikanóNonna nonnëNonno papúNostro méngërNotte rat

Novanta ñjafradéšNove ñjaNovità nivibbéNudo nangóNuora buríNuovo nivóNuvola nuvolë

Oca čibalíOcchiali štarekkjáOcchio jakOdiare naští dik-, odin-Odore šungOfferta čummunákkjOffesa nafélOffrire d-Oggi dadivésOgnuno malestëOlio zetOliva masliníOltre budérOmosessuale kanéngërëOnesto patvalóOnore patívOra (di orologio) kor, óraOrario korOrecchino činíOrecchio kanOrecchiuto kanalóOrina mutrOrinare mutir-Oro sunakáOrologio bašaddóOsso kókëlëOssuto kikkalóOttanta xtofradéšOtto xtoOvunque kisalkerjattë

Pace mištipéPadre datëPaese (villaggio) disurí, gavPaese (regione, stato), temPagamento pukibbéPagare pukin-Pagina papíl

Paglia pusPaio dujPalazzo ker baróPancia por, phorPane maróPanettiere mareskërëPanni jíddëlëPantaloni xlivjá, xulevjáParalisi dukkibbéParlare vakker-, vager-Parola lav, vakribbéParte kutórPartire ğa-Pascolo čarvibbéPassaggio nakkipéPassare nak-Passato aččilóPasta xumaréngërPatata xabbalí, čikkéngërëPaura trašPazzo dilinóPeccato bissáxPeccato! bissaxá!Pecora bakrí, braklíPelle murtí, guddíPelo zar (pl. zarjá)Pene karPenna (di uccello) por, phorPenna (per scrivere) por, phorPentola tixánë, kakávë, piríPeperoncino šukluróPeperone šuklóPer pri, pëPera mbrolPercentuale bašinPerché soskër; prisoskëPerdere našav-Perla miriklíPerquisire rud-, rod-Perquisito rudindóPersona ğinóPesante zijál, azzjálPesare qc. zijá-Pescare peskin-Pesce maččó

Peso dlesPeto rilPettine kanglí, šreččPetto brekPezzo kutórPiangere ruv-Piano avv. puliké, kolóPianto ruvibbéPiatto n. čaróPiattola pušúmPiazza ğuladdíPiccione šušró, žužuróPiccolo tikinó, tuknuróPidocchio ğuvalóPiede proPieno pirdóPietra barPioggia brišindóPipa tumalíPistola šutabbáPiù buderëPizza (dolce) bukkulíPoco xalangí, xalariPoi tapálë, palë, paléPollastra bašiníPolvere pušíPomodoro lulíPopolo ğinéPorta vuddárPortare ginger-, anger-Potere šti; non potere naštíPovero čururó, čoróPozzanghera xandákkjPranzo (pasto) xabbéPredizione drogiripéPrendere l-Preparare ker-Presente ta ‘ččelëPresidente sissó baróPresto (di buon ora) val; (tra poco) avér xalarí; (rapidamente) val valPrete barrašáPrezzo che p. ha? kabor avélëPrigione štaribbé, štarebéProcesso (giudiziario) tuliní

Prodotto butíProdurre kir-butjáProfumo šungelëProibire naštíPeskero proprioProsciutto lundinóProstituta lubiní, lubníPrudere xanğ-Pulce pušúmPulcino bašnuró, bačanuróm baččiníPuledro furó, fururóPulire ğulav-Pulito šušó, žužóPulizia/Purità šušibbéPurgatorio prigadórjPuro patvaló, susóPuzza xandPuzzare xand-Puzzolente xandvaló

Qua akáQualche kak, kamuñQualcosa čummunákkjQualcosa kak jekQuale konQuando quandoQuantità tabórQuanto tabó, kaborëQuaranta štarfradéšQuattordici dešuštárQuattro štarQuello kuvá, kuá, kedaváQuesto kaváQuindici dešupánč

Raccogliere ril-, arl-Raccontare rinkin-Racconto paramiëRagazza ča tarní, ča(j)Ragazza (non zingara) lakrí, laklíRagazzo čavó tarnóRagazzo (non zingaro) lakró, lakló

Raggiungere ris-Ragione krisRame tagár, takárRe tagár, takárReale čačóRealizzare ker-Regalità rajibbéRegina tagarní, takarníRespiro doxRestare rič-Restituire rid-Ricchezza bravalipéRiccio niklóRicco bravalóRicerca rakkipéRicevere tir-Richiesta manglipéRiconoscere arprinčikar-Riconoscimento prinčikardipéRicordare arsiram-Ridere asa- pë, sa-Riempire pir-Rimedio drabRipetere rikir-Riso (risata) sabbéRitardo essere in č- pálëRitirare rittsidRitornare av- pálë, arğa-, arv-Riunirsi ğa- tikanéRiuscire ringjuv-Rogna gerRognoso geralóRompere pakar-, pager-Rosso lulóRotto pakardóRubare čor-, cur-

Sacco gunóSaggio šeró romSalato londóSale lonSalire ğa- upréSalumi guj, gojëSangue luló

Sano saštóSapere ğan-Sasso barSbagliare bištar-Sbruffone xedaddó, puraddó, prijaddóScalzo pirnangóScarpe trjaxáScavare ker- xevScendere ğa- tilé, kalin-Schiaffo čamtiníSchiena dummóScoprire putar-Scorso pálëScrivere skrivin-Scrofa balíScuola škólaSe ta, si: se riflessivo peSecchio tráññëSecco škóSede kringSedersi beš-Sedia bištlíSedici dešušóSeduto bištlóSegreto ngaraddóSeguire ğa- palárSei š, šobSeno čučíSentimento jilóSentire čangav-; (udire) šun-Senza biSera xalarí ratSerenata buččivibbé, bašvibbéSerpente sapServo xačaréngërSessanta šofradešSeta kešSete trušSettanta ftafradešSette ftaSettimana ftadivés, kurkóSì joSigaretta nakkalíSignora raní

Signore rajSignoria raibbé, rajibbéSignorina laklíSimile akijálSinceramente sa ku jilóSingolo jekSinistra kutárSmettere muk-Società atikanéSoffiare purdar-Sogno sunóSoldato pañalippé, pañaluróSoldi saddé, pujáSole kamSolo kurkuróSonno suvibbéSopra uprálSordo kašukóSorella pen, phenSostare spuladd-Sottile sanóSotto telárëSottosopra telar ta uprálSpago šló, duríngëSpagnolo spañikanóSpaventare trašan-Spegnere murdar-Spendere pukin-Spesso but furátSpia suv, suvalóSpillo suvSpina karóSpingere vusin-Spirito Santo gi tar MurdivélëSpogliare sikar-, spojin-Sporco milalóSposare xulsav-Sposo buróSpostamento laddipéStalla pilaríStamattina dadivésStancarsi kinarjáp-Stanco kinó

Stare č-; come stai? sar aččesë?; stai bene? ččesë laččóStasera ğaratíStella čiriníStoffa puxtán, poxtáStoria paramisë, storjëStorpio bangóStorto bañardóStrada dromStraniero ndurtunó, xirdinóStrega čuxaníStretto tikinóStupido dilinóSu upréSubito valSufficiente ta duštílSuo (di lui) leskër; (di lei) lákërSuocera sasúSuocero saštróSuonare bašav-Suono bašvibbéSuora rašaní, karmuríSvegliarsi ğangav-Svilupparsi av- baróSviluppo baripé

Tabacco tumalíTacchino papinóTacere č- kwitTagliare čin-Taglio činibbéTalvolta kak furátTasca puštíTavolo tišTè paní tatóTedesco ğermanikanóTelefono duríngíTempo (meteorologico) kjirTenda čardéTenere šikir-Terra čikTesoro sunakáTesta širóTesticoli pelé

Testimone martinóTirare tsid-Tirchio kašikanóToccare čangav-togliere ngav-Topo karmusóTornare ariv-Toro gurúvTorto bañipéTosse xasTossire xas-Tovaglia misálëTra maškaralëTramite jek maškarálëTranquillo kwitTrasportare lad-Tre trinTrecento trišélTredici dešutrínTrenta triánd, triandaTribunale krisTroppo butTrovare rak-Tu tu; (onorif.) tu rajibbéTuo tiróTutto sa ; sa butí, sassaró

Ubbidire šun-Ubriaco mujáaskarnóUccello čiliklóUdire šun-Uguale sarUltimo lútëmëUndici dešujekUnghia najUnico čiv- tekaméUno (num.) jek; (art. indet.) niUomo manuš; maschio murš; non zingaro gağğó, kağğóUovo varóUrinare muter-Urlare čingar-Urlatore čingardóUsare lUscire ngjov-, ningjov-

Utile laččóUva drak

Vacca guruvníVagina minč, minğValore ammólVecchiaia puribbéVecchio puróVedere dik-Velocemente zuraréVendere bikin-Venire av-Venti bišVento braválVentre porVeramente appišiñangërVerde jalóVerdura šaxVergine patvalíVergogna lağğVerità sičipëVerme germóVero čačóVerso andare kir-u muVestirsi jurav-, nurjav-Vestito n. jurvibbéViaggiare lad-Viaggio drom, laddipVicino pašéVietato ta naštíVigliacco fulVincere dibbin-Vino molViolento xrivjVisitare ğarak-Vita ğivipéVivere ğiv-Vivo ğidóVoce xlangVoglia vojaVoi tuméVolentieri sa ku jilóVolere kam-Volontà kamipéVolpe ruvuríVolta furát

Vomitare čadiña-, čad-Vomito čádëmVostro tuméngërVuoto bi ništ

Zampa proZero ništZia bibbëZingara romní, romríZingaro rom; - jugoslavo xoraxanó; alla zingara o lingua zingara romanesë; agg. romanóZio kakZitto kwitZona kringZoppo langZucchero uldó, tsúkkerëZuppa zummí

BIBLIOGRAFIA

1) Riti e Miti dei Rom abruzzesi

Per quanto riguarda la bibliografia tengo a chiarire che i testi citati non sono da ritenere fonti dalle quali ho attinto per poter elaborare le mie analisi, tuttavia vale la pena segnalarli in quanto penso abbiano certamente contribuito, indirettamente, a stimolare questa ricerca [B.M.].

Tentori, T., Antropologia culturale, Roma, 1973Forno, M., L’acculturazione dei popoli primitivi, BresciaLanternari, V., Crisi e ricerca d’identità, NapoliLowen, A., Il linguaggio del corpo, MilanoArnheim, R., Arte e percezione visiva, MilanoRibaldi, M., Un vero Kaló, Milano, 1993Karpati, M., Zingari, inserto speciale de “L’Unità”, 1991Vaux de Foletier, M., Mille anni di storia degli zingari, Milano, 1978Mc Dowell, B., Zingari, Firenze, 1979Hauser, A., Storia sociale dell’arte, Torino, 1975Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, Milano, 1986Ministero dell’Interno, Aspetti delle tradizioni e dei costumi popolari delle minoranze linguistiche in Italia, Roma, 1997Tipler, D., Nicolini, B., Proverbi zingari, “Lacio Drom”, 1971

2) Sezione linguistica

Ascoli, G.L., Zigeunerisches, Halle 1865Colocci, A., Gli Zingari. Storia di un popolo errante, Torino, 1889Partisani, S., Glossario degli Zingari dell’Italia centro-meridionale, “Lacio Drom”, 1/1972, pp. 2-72Pellis, U., Il rilievo zingaresco e l’Annunziata di Giulianova (Teramo), “Boll. Atlante Linguist. It.”, 2/II (1936), pp. 61-85Soravia, G., Some Remarks on the Phonetics of a Gypsy Dialect, “Le maitre Phonétique”, 133 (Janvier-Juin 1970): 2-4Soravia, G., Glossario degli Zingari d’Abruzzo, “Lacio Drom” 1/1971, pp. 2-12Soravia, G., Influenze italiane nel dialetto degli zingari d’Abruzzo, “Lacio Drom” 6/1972, pp. 6-10Soravia, G., Gli Zingari di Reggio Calabria: situazione culturale e linguistica, “Lacio Drom”, 10/5-6 (1974): 19-28Soravia, G., Dialetti degli Zingar Italiani, Pisa 1977Soravia, G., Schizzo tagmemico del dialetto degli zingari di Reggio Calabria con Vocabolario, “Lacio Drom”, 2-3 (1978): 1-69

Soravia, G., La competenza linguistica dei bambini rom abruzzesi, relativamente all’uso del romanes e al bilinguismo, “Lacio Drom” 18/2 (1982): 43-59Soravia, G., Un “fossile” linguistico nel dialetto zingarico d’Abruzzo, in Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, II, Pisa 1983, pp. 855-861Soravia, G., Fochi, C., Vocabolario sinottico delle lingue zingare parlate in Italia, Roma, 1995