Non tutto e' come sembra

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Ornella Nalon, giallo. A bordo di un’auto recuperata in un fiume viene rinvenuta la salma di Giancarlo Visconti, un giovane e rinomato psicologo. La morte sembra accidentale, ma il maresciallo dei Carabinieri Giovanni Colucci ricorda che altri due psicologi dello stesso comune sono morti negli ultimi due anni e comincia a insospettirsi. Convince i suoi superiori a non derubricare il caso come un semplice incidente stradale e si adopera per dimostrare che si tratta di un omicidio. L’autopsia accerta che Visconti non presenta segni di annegamento e che la causa del decesso è dovuta allo sfondamento della scatola cranica per mezzo di un corpo contundente. Ottenuta la conferma dei suoi sospetti, il maresciallo, con l’aiuto della sua piccola squadra, indaga per trovare l’assassino e per stabilire un collegamento tra le morti dei tre psicologi, elemento che suffragherebbe la tesi di un serial killer. Approfondite e scrupolose indagini volgono a comprovare questa teoria e, da quel momento...

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In uscita il 25/11/2014 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

2015 (4,99 euro)

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ORNELLA NALON

NON TUTTO È COME SEMBRA

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NON TUTTO È COME SEMBRA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-816-9 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

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NON TUTTO È COME SEMBRA

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CAPITOLO I

L’INTUIZIONE

«Stefano, hai controllato la targa? Si tratta di Visconti?» «Sì dottore. La targa è quella segnalata.» «Già, come immaginavo. Diavolo, che morte del cazzo! Hai notato qualche segno di frenata sull’asfalto?» «No dottore. Nessun segno di frenata!» «E smettila con ‘sto dottore!‘ Sto povero Cristo… come avrà fatto a uscire di strada e finire nel fiume, in un rettilineo del genere?» «Forse ha avuto un malore o forse è stato abbagliato dai fanali di qualche auto oppure, magari, stava correndo troppo forte.» «Può essere tutto, come facciamo a saperlo dal momento che non ci sono segni sull’asfalto né testimoni oculari! Chi glielo dice, adesso, a quella sventola di sua moglie che suo marito è morto affogato?» «Dott… Maresciallo, credo che la moglie sia quella che sta gridando e cerca di farsi largo tra i curiosi.» Il maresciallo Giovanni Colucci attese che la gru appoggiasse sull’asfalto l’Audi grondante d’acqua e di fango, da cui pendevano, inoltre, alcuni filamenti di qualche pianta acquatica. Guardò attraverso il finestrino aperto del lato guida e vide, per prima cosa, il volto del cadavere che, se non fosse stato per il pallore della pelle, il colore grigiastro delle labbra e per i capelli fradici, poteva sembrare quello bello e rilassato di una persona che stava tranquillamente dormendo. Il corpo era in perfetta posizione seduta, tenuto ben saldo sul sedile dalle cinture di sicurezza. Soltanto spostandogli il corpo in avanti Giovanni poté notare un rivolo di sangue, oramai raggrumato, che gli scendeva dalla base della nuca lungo tutto il collo sino ad andare a formare una vistosa chiazza che aveva impregnato la

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camicia. Scostò i capelli e gli apparve una ferita trasversale, non molto lunga, ma che sembrava profonda. Aprì la portiera e cominciò a frugare nelle tasche della giacca dell’uomo, finché trovò il suo portafogli da cui estrasse la patente di guida. Lesse il nome: “Giancarlo Visconti”. Guardò tra la folla di curiosi che si accalcavano oltre i nastri segnaletici posizionati dai suoi colleghi e focalizzò la sua attenzione sulla donna che, a fatica, Cosimo cercava di trattenere per evitare che oltrepassasse la fragile barriera. Giovanni strofinò la mano destra sul fianco della divisa, nel tentativo di asciugarla e poi se la passò tra i capelli. Era un gesto del tutto inutile, poiché non aveva alcun ciuffo da tenere a bada, ma gli veniva d’istinto quando si sentiva leggermente infastidito da qualcosa; era come se da esso riuscisse a trarre quel minimo di coraggio in più che gli serviva per affrontare ogni piccola sfida. Si avvicinò alla donna che sembrava in preda a una crisi isterica e le si rivolse con il tono più gentile che riuscisse a ottenere: «Lei è la signora Visconti?» «Sì, sono io. Qua non mi vuole dire niente nessuno! La prego, ho riconosciuto la nostra auto; so che quello è mio marito! Mi lasci andare da lui, voglio vederlo!» «Sì, signora, temo che abbia ragione; dai documenti in suo possesso risulta che si tratta di suo marito. È sicura di volerlo vedere?» La donna ebbe un visibile sbiancamento in viso, ma smise di agitarsi e di gridare. Dopo essersi ricomposta, rispose: «Sì, devo vederlo!» Il maresciallo fece un cenno con la testa a Cosimo, quindi egli alzò il nastro segnaletico bianco e rosso e permise alla donna di passarci sotto. Giovanni la prese delicatamente al braccio e iniziò ad accompagnarla verso l’auto. Lei, completamente in silenzio, procedeva con passo un po’ incerto che denotava tutta l’agitazione e il timore che doveva provare nell’affrontare quella terribile situazione. Quando furono in prossimità dell’Audi, la donna si divincolò dalla leggera stretta del suo accompagnatore e si lanciò con foga verso la portiera, cercando di afferrare la maniglia per poterla aprire, gridando il nome del consorte a gran voce.

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Il maresciallo la fermò: «Signora, la prego, non tocchi nulla! Può confermare che quello è suo marito?» «Sì, è proprio lui! Ma come può essere successo?» rispose lei singhiozzando rumorosamente. «È una cosa che dobbiamo ancora accertare. Ora la faccio accompagnare a casa.» «No, no. Voglio stare con lui.» «Non c’è nulla che possa fare qua. Ci lasci compiere il nostro lavoro. Mi creda, è molto meglio se torna a casa dai suoi figli. Ne ha due, se non sbaglio.» «Sì, un maschio e una femmina ancora piccoli. Mio Dio, come farò a dire loro che non hanno più il padre!» «Deve farsi coraggio e cercare di trovare in loro la forza per andare avanti.» Probabilmente toccò il tasto giusto, perché dopo la sua frase la signora Visconti sembrò arrendersi e, docilmente, si lasciò accompagnare all’auto che l’avrebbe portata a casa. «Cazzo! Questa è la parte che odio del mio lavoro. Cosa si può dire a una donna che ha appena visto il marito conciato in quella maniera, se non stupide frasi di circostanza?!» chiese all’appuntato Stefano Righi, più per cercare di sciogliere il leggero imbarazzo in cui si era trovato poco prima che per avere una risposta. «Eh sì! Non è facile» commentò l’altro, distrattamente, mentre annotava sul suo taccuino qualche appunto che gli sarebbe servito per la sua relazione di servizio. «Maresciallo, dobbiamo aspettare l’arrivo del Magistrato?» chiese il brigadiere Cosimo. «No, è impegnato, non può essere presente, ma mi ha dato l’autorizzazione a rimuovere la salma.» Più tardi, nel suo ufficio della piccola caserma, Giovanni non riusciva a concentrarsi sulle pratiche che doveva sbrigare; non si toglieva dalla mente il pensiero dell’incidente di cui aveva disposto i rilievi poco prima. Non era tanto per la crudezza delle immagini a cui aveva dovuto assistere, poiché durante la sua attività aveva avuto

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modo di vedere alcune scene ben più raccapriccianti, ma c’era qualcosa che gli appariva strano. Nella testa aveva cominciato a ronzargli quel campanello che sentiva, ogni volta, quando si metteva in funzione il suo istinto. Con un colpo secco, chiuse la cartella che conteneva il caso dei furti di biciclette davanti al supermercato, che avrebbe dovuto trattare con priorità e si mise a cercare informazioni su Visconti. “Visconti Giancarlo, nato a Dolo (VE) il 29 Aprile 1972. Padre: Visconti Carlo. Madre: Nalesso Stefania. Laureato nell’anno 2001 in psicologia. Iscritto all’Albo dell’Ordine degli Psicologi del Veneto cin n. 403. Titolare di uno studio di psicologia in Mestre (VE) dal 2006. Sposato il 21 Maggio 2005 con Veronica Fecchio…” D’improvviso, interruppe la lettura e tornò a rileggere la professione: psicologo! Ecco! Aveva trovato il motivo per cui il campanello si era messo in funzione! Chiamò a gran voce l’appuntato Righi che apparve sulla porta quasi istantaneamente. «Eccomi dottore.» «Oh Stefano! Quant’è che lavoriamo assieme?» «Sarà un anno il 20 di Settembre, dottore.» «Ecco. E in quest’anno di tempo, quante volte te l’avrò detto di chiamarmi Giovanni, Colucci o maresciallo, quando siamo tra noi e non in veste ufficiale? Quante volte ti ho detto che quando mi chiami “dottore” mi fai sentire uno sfigato e mi sembra di essere preso per il culo?» «In effetti, parecchie volte. Mi scusi, ma non mi viene spontaneo. Prometto che ci proverò, maresciallo.» «Bene. Senti, sapevi che Il Visconti era uno psicologo?» «Sì, lo sapevo, lo conoscevo di persona, anche. Abitava poco lontano da me.» «E ti ricordi che c’è stata la morte di un altro psicologo di Oriago, circa cinque o sei mesi fa?» «Sì, ricordo perfettamente. Era il dottor Santini. Morto piuttosto giovane di un brutto male. Una malattia fulminante che l’ha rubato nel giro di qualche mese.» «Bravo! E di…» in quel momento gli suonò il cellulare e vide apparire, sullo schermo, il nome di Claudia.

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«Porca troia. Ancora mi rompe le palle, questa. Toh! Stefano. Rispondi tu e dille che ha sbagliato numero.» «Maresciallo, ma così la richiamerebbe subito!» Rassegnato, ma evidentemente seccato, Giovanni rispose al telefono: «Ciao Claudia» e poi silenzio. Dalla posizione in cui si trovava, Stefano non poteva sentire distintamente ciò che la donna diceva, ma capiva che il suo tono era alquanto alterato e captò un paio di parole che tutto sembravano fuorché dei complimenti. «Senti amò, non ti ho più chiamata perché sono stato impegnatissimo con il lavoro. Appena sono un po’ libero mi faccio sentire, promesso» ancora silenzio da parte di Giovanni e ancora il vocio convulso dall’altra parte della linea. «Ok. Ora che ti sei sfogata spero ti senta meglio! Ti devo salutare, ci sentiamo» chiuse la conversazione buttando il cellulare a lato della scrivania, in malo modo. «Ma cosa ci fa alle donne, maresciallo?» «Cosa fanno loro a me, piuttosto! Le porti a cena due volte e già pensano di metterti la fede al dito! Ma torniamo a noi. Prima, stavo dicendo se ti ricordi del suicidio di un’altra psicologa, nell’estate dell’anno scorso. Si chiamava Lunardi, mi pare.» «Sì, maresciallo. Me la ricordo bene, perché ero arrivato da poco. L’abbiamo trovata impiccata alla travatura del suo magazzino e ho pensato che se cominciavo in quel modo, chissà a cosa avrei dovuto assistere, andando avanti nel tempo.» «A te non sembra strano che, in poco più di un anno, tre psicologi dello stesso comune siano morti? E non ti sembra strano che il dottor Giancarlo sia uscito di strada, in una strada dritta, senza che ci sia un minimo segno di frenata?» «Beh, maresciallo, in effetti è piuttosto strano. Ma sono state tre morti completamente diverse l’una dall’altra, nulla che possa far pensare a qualcosa che non sia una pura coincidenza. Il Visconti può essere stato colto da un malore improvviso.»

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«Sai una cosa? Io non credo alle coincidenze ma credo molto al mio fiuto. Non per niente, in famiglia fin da piccolo mi avevano soprannominato “segugio”.» «Allora, che pensa di fare?» «Ancora non lo so, torna pure al tuo lavoro. Ah! Stefano, la fai tu la relazione di servizio? E ricordati che domattina sei di pattuglia.» «Certo maresciallo.» Rimasto da solo, Giovanni riprese in mano la pratica che aveva lasciato in disparte poco prima e decise che avrebbe disposto maggiori controlli davanti al supermercato. Già aveva una mezza idea su chi potesse essere il responsabile dei furti di biciclette; bastava che mettesse qualcuno anche a controllare i suoi movimenti e di sicuro lo avrebbero beccato sul fatto. “Se è Andrea Mainardi, quando lo prendo, gli faccio passare io la voglia di rubare per poi spendersi i soldi in erba e coca!” pensò, per poi riflettere su quali potevano essere i motivi per cui un ragazzo di buona famiglia prendeva una strada così traviata. Chissà, forse la famiglia non era così buona come poteva sembrare o, forse, disponeva di un carattere un po’ debole e si lasciava trascinare nelle scelte insane della sua compagnia. Volendo ampliare la prospettiva, si poteva supporre che fosse affetto da una patologia autodistruttiva derivante dalla mancanza di valori e riferimenti tipici di una società profondamente consumistica, in cui lo spazio lasciato libero dalla risoluzione dei problemi primari può venire occupato da un disagio psicologico ed esistenziale che, talvolta, sfocia nelle alienazioni più destabilizzanti. Dopotutto, il caso di Andrea non era a sé, anzi, faceva parte di un rilevante fenomeno presente e ben consolidato nel suo territorio di giurisdizione e da come era noto, purtroppo, non si limitava solo a quella limitata territorialità. Anche se aveva dedicato molto tempo e numerose forze per cercare di contrastare quel terribile fenomeno, doveva ammettere che i risultati erano stati piuttosto scarsi. Era come cercare di estirpare una pianta di gramigna; può sembrare facile da asportare, ma poi ci si accorge di avere divelto solo le foglie in superficie, mentre le radici, rimaste saldamente ancorate in profondità, consentiranno alla medesima

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pianta di crescere rafforzata e più rigogliosa di prima. Lui si sentiva un po’ come quella mano che strappava i virgulti di una radicata erbaccia; da solo e con i mezzi di cui disponeva, sapeva benissimo che il suo terreno ne sarebbe rimasto infestato. Gli venne un attimo di sconforto e poi, per associazione di idee, pensò a sua figlia e provò un forte desiderio di vederla e di averla con sé. Non era la giornata in cui avrebbe dovuto tenerla e sapeva bene che la sua ex moglie non gradiva modifiche sugli accordi stabiliti, ma volle provare comunque. «Ciao Lucia. Hai in programma qualche uscita con Chiara per questa sera?» «No, credo che rimarremo a casa. Perché me lo chiedi?» «Mi piacerebbe portarla al cinema, so che fanno un film d’animazione.» «Ma è domani che devi tenerla, no?» «Lo so, ma pensavo che potrei venire a prenderla questa sera, così dormirebbe da me e domani avremmo tutta la giornata da trascorrere assieme.» «È meglio se vieni a prenderla domani, sai che non mi piacciono i cambi di programma improvvisi.» «E come se non lo so! Pensavo che ogni tanto potessi concedermeli!» «Magari la prossima volta.» «Ok. Mi puoi passare Chiara?» chiese, reprimendo, a fatica, un insulto che gli si era presentato sulla punta della lingua. Dall’altro capo si sentì la donna chiamare la bambina ad alta voce e, quando questa arrivò, le disse che c’era suo padre a telefono. «Ciao papy.» «Amore, come stai?» «Bene, stavo guardando la televisione.» «Sai che domani mattina vengo a prenderti per stare assieme tutto il giorno, vero?» «Sì, lo so. Andiamo al mare?» «Certo che ci andiamo. Ricordati di portare tutto l’occorrente, secchiello e paletta compresi, che dobbiamo fare a gara per il

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miglior castello di sabbia. Sarò da te alle otto, fatti trovare pronta che partiamo subito, va bene amò?» «Tanto vincerò io! A domani papà.» «A domani piccola.» Osservò per un attimo il suo cellulare come se non volesse accettare che la comunicazione si fosse interrotta. Era sempre così alla fine di ogni conversazione con sua figlia, si sentiva sempre un po’ triste e amareggiato. Ogni volta, prendeva coscienza di quanto fosse limitato il tempo in cui poteva sentirla e vederla e di quante cose si sarebbe perso della sua vita. Per questo motivo cercava di godere appieno di ogni minuto trascorso con lei e di dedicarle tutte le attenzioni di cui era capace. I suoi giorni di riposo li avrebbe trascorsi volentieri standosene a letto, beatamente, fino a tardi e leggendo un buon libro, tra il divano del salotto e lo sdraio del giardino per il resto del tempo. Ma così facendo, avrebbe dovuto rinunciare a un po’ di compagnia di sua figlia e avrebbe compromesso il rapporto di confidenza e complicità che intendeva instaurare con lei. A quel punto, gli venne un moto di stizza nei confronti di Lucia che riteneva responsabile di aver provocato quella voragine nella sua tranquillità interiore. “Chi le capisce le donne! All’inizio, quando scappavo da lei, non faceva che corrermi dietro. Sembrava che non potesse vivere senza di me! Poi, quando me ne sono innamorato e ho cominciato a dimostrarle tutta la mia devozione, è stata lei ad andarsene. Ha appallottolato i miei sentimenti e li ha gettati via, come si fa con un foglio di carta scarabocchiato che non ha alcun valore e con la stessa leggerezza ha sgretolato la sua famiglia, senza preoccuparsi delle possibili implicazioni di destabilizzazione formativa di nostra figlia. Ora siamo come due estranei; già, due estranei che, tuttavia, si conoscono nei minimi particolari e nel più profondo dell’intimo, che hanno condiviso picchi di gioia e momenti di sofferenza, che hanno solidarizzato contro le ordinarie e straordinarie difficoltà e infranto, assieme, anche le ultime barriere morali riuscendo a raggiungere una totale comunione nel corpo e nello spirito. Ora, a queste due persone, rimane solo una cosa in comune: un bene

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prezioso e delicatissimo che si contendono con insano egoismo, che trattano come oggetto da baratto in cambio di misere rivincite e subdoli ricatti. Ciò che mi fa arrabbiare ancora di più è che, nonostante tutto, sono ancora innamorato di quella donna immatura e irresponsabile! Cazzo, mi prenderei a schiaffi per questo!” pensò, con un crescendo di collera. Quando riuscì a calmarsi, si sforzò di mettere da parte le sue questioni private per concentrarsi sull’incidente di Visconti. Doveva fare in fretta a decidere come avrebbe dovuto trattarlo. Se non faceva nulla, il caso sarebbe stato archiviato come un banale sinistro stradale e la salma sarebbe stata restituita ai suoi familiari. Se invece segnalava il fatto alla Procura, avrebbe potuto ottenere un’autopsia del corpo e una perizia dell’auto che avrebbero potuto stabilire se si trattasse o meno di un omicidio. L’unico problema era che, qualora non fosse stato riscontrato nulla di anomalo, avrebbe fatto la figura del fesso e, con tutta probabilità, ricevuto una bella lavata di capo dal suo capitano. Gli bastarono pochi minuti per valutare tutti i pro e i contro e per prendere la sua decisione; preferiva correre il rischio di fare una brutta figura piuttosto che restare nel dubbio di avere lasciato impunito un reato di quel genere e non aver reso giustizia a un povero disgraziato. Se l’era inventata la storia del suo soprannome, ma si fidava molto del suo istinto e anche questa volta voleva dargli retta. Fece il numero dell’interno di Stefano e gli disse: «Lascia stare la relazione. Ho deciso di informare il Pubblico Ministero, mi arrangio io con l’annotazione da fargli pervenire. Se hai finito il turno, te ne puoi andare a casa.» «Grazie maresciallo. A domani.»

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CAPITOLO II

LA STORIA DI GIOVANNI

Giovanni Colucci nacque il giorno di Natale del 1973 in una camera da letto di una umile ma dignitosa casa popolare del quartiere di Secondigliano, a Napoli. Quella buona donna di sua madre quando rimase incinta di lui, avendo passato i quarantacinque anni di età, pensò di essere entrata in menopausa e, per i primi mesi, nemmeno si sognò di andare da un medico e di farsi qualche controllo. Tutto avrebbe cercato fuorché un’altra gravidanza avendo già tre figlie femmine, due delle quali maggiorenni e un marito come unica fonte di reddito. Tuttavia, quando realizzò che l’ingrossamento della sua pancia non era dovuto a un fisiologico aumento di peso, ne rimase impressionata ma non del tutto contrariata. Invece, il mite marito, ingobbito e precocemente invecchiato da una vita di duro lavoro, che già pregustava l’approssimarsi del pensionamento, quando seppe che avrebbe dovuto rimandare di qualche anno l’appuntamento con il meritato riposo ebbe un periodo di grave sconforto, dal quale si risollevò solo quando prese in braccio, per la prima volta, il suo sano e vivace pargolo di quasi quattro chili di peso. Neanche a dirlo, Giovanni crebbe viziato e amorevolmente coccolato dalle quattro donne della sua famiglia. Ogni suo capriccio era visto come un segno distintivo di carattere e ogni vizio come una necessità che andava assecondata per potergli garantire una sana ed equilibrata educazione. In tale contesto, si sarebbe potuto immaginare che il ragazzo non potesse sviluppare la giusta dose di grinta e combattività in difesa delle avversità della vita o la necessaria determinazione a proseguire obbiettivi difficili e importanti, invece, non fu così. Ben presto, dimostrò di sapere

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opportunamente difendere ogni sua scelta e di completare i suoi percorsi con caparbietà, sino al raggiungimento del successo. Era dotato di un buon quoziente intellettivo, di una adeguata curiosità e desiderio di sapere che gli permisero di ottenere buoni risultati scolastici, di una buona dose di simpatia e diplomazia che gli facilitarono i rapporti sociali. Aveva dei bei lineamenti: folti capelli bruni e lisci, grandi occhi scuri e magnetici, mascella un po’ squadrata che gli conferiva un aspetto da duro e la pelle olivastra. Tuttavia, l’altezza gli faceva un po’ difetto e poiché aveva un buon rapporto con il cibo, nel senso che mangiava tutto ciò che gli veniva posto nel piatto, aveva la tendenza a essere un po’ troppo corpulento; ciò lo infastidiva e non gli consentiva di avere un corretto approccio con l’altro sesso. Per cui, fino al compimento del suo diciottesimo compleanno, poteva vantare di avere un considerevole numero di amici maschi, ma una quasi totale assenza di esperienza con le donne. Il quartiere in cui viveva presentava forti segni di disagio economico e sociale e la criminalità organizzata trovava terreno fertile per le sue illecite attività, tra cui spiccava il florido mercato degli stupefacenti. Essendo cresciuto in un ambiente del genere, ma avendo acquisito dalla famiglia solidi principi di onestà morale, trovava del tutto naturale frequentare amicizie notoriamente ambigue senza venirne minimamente intaccato e deviato. In verità, qualche spinello se lo concesse, ma di tutto il resto che girava in compagnia con estrema naturalezza, non ne fu mai incuriosito a tal punto da farne uso. Conseguì il diploma di maturità scientifica nei tempi regolari e senza particolare sforzo. Molto probabilmente, se di lì a poco non fosse successo un fatto eclatante che mise in discussione la sua concezione di legalità e giustizia, avrebbe trovato un tranquillo lavoro magari di concetto e avrebbe continuato a frequentare persone poco raccomandabili, con naturale disinvoltura.

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Gaetano era suo vicino di casa, nonché amico, fin dai tempi dell’asilo e avevano condiviso ogni esperienza sino al raggiungimento del diploma di terza media. Da quel momento, le loro scelte si erano diversificate in base alle loro propensioni caratteriali che, indubbiamente, si erano dimostrate diverse nel tempo. Giovanni amava il sapere ed era portato per lo studio, per cui aveva deciso di iscriversi al Liceo, mentre Gaetano, pur essendo sveglio e perspicace, era più che altro dotato di senso pratico e abilità manuali, quindi optò per una scuola professionale. Naturalmente, durante i loro diversi percorsi scolastici ebbero l’occasione di conoscere nuove persone e di crearsi delle nuove amicizie che, tuttavia, non ostacolarono mai il loro consolidato sodalizio. Gaetano non era particolarmente avvenente; aveva il naso prominente, la bocca larga e i capelli ispidi. Era di statura alta, ma aveva un corpo talmente esile da far temere che si spezzasse a ogni colpo di vento. Nonostante un aspetto simile possa determinare insicurezza in alcune persone, nel suo caso sembrava costituire un punto di forza. La sua continua ironia su sé stesso riusciva a strappare un sorriso a chiunque, mentre la sua spigliatezza e la sua parlantina sciolta gli conferivano un discreto successo con le ragazze. Durante la prima metà del terzo anno di scuola, gli si presentò l’opportunità di un lavoro come apprendista meccanico in una officina del suo paese ed egli colse l’occasione al volo, rinunciando al conseguimento del diploma. «Studiare teoria sui libri è solo una perdita di tempo, quando si ha l’opportunità di imparare sul campo e per di più si è pagati!» disse, una volta, al suo storico amico mentre gli offriva orgogliosamente da bere con il suo primo stipendio. Giovanni era perennemente squattrinato e fu solo grazie alla generosità di Gaetano che da allora si poté permettere qualche ulteriore uscita in pizzeria o discoteca. Con il passare del tempo, alcune volte la prodigalità di Gaetano assunse dei toni persino

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imbarazzanti; se succedeva che davanti a una vetrina Giovanni esprimesse un apprezzamento per un qualsiasi oggetto, lamentandosi del prezzo troppo alto e del fatto che non se lo sarebbe potuto permettere, l’amico entrava in negozio e glielo comprava. Molte volte Giovanni lo doveva trattenere, perché si sentiva imbarazzato nell’accettare troppi regali che sapeva di non poter ricambiare. «Hai vinto alla lotteria?» gli chiese una volta, dopo avere constatato che il tenore di vita del suo amico sembrava di gran lunga superiore a quanto avrebbe potuto permettersi con il suo modesto lavoro. «Non proprio. Diciamo che ho trovato il modo di arrotondare» rispose l’altro con un sorrisetto compiaciuto e una strizzatina d’occhio. Non chiese alcuna spiegazione, perché preferiva ignorare quale fosse la fonte di quel consistente reddito immaginando, tuttavia, che non dovesse essere del tutto lecita. Un po’ alla volta, in paese, si diffuse la voce che Gaetano fosse entrato a far parte di un clan malavitoso dedito allo spaccio di droga, ma egli si rifiutò di crederci; lo conosceva troppo bene! Non avrebbe potuto additarlo come esempio di onestà, ma, di certo, non poteva essere diventato un criminale di quel calibro! Un giorno prese il coraggio e lo mise al corrente di ciò che gli era venuto all’orecchio, aspettandosi da lui la conferma che si trattasse solo di maldicenze. «Ti sei guardato intorno e ti sei chiesto cosa ti può offrire questo posto? Io l’ho fatto e mi sono detto che non voglio diventare come mio padre o come il tuo, che si sono ingobbiti posando mattoni e hanno guadagnato più calli sulle mani che quattrini da portare a casa. Non ci sono altre possibilità Giovanni; se non vuoi quel tipo di vita non ti resta altro che la scelta che ho fatto io.» «E quale sarebbe questa scelta?» «Quella di avere un mucchio di soldi che mi permettano di fare la bella vita e di mantenere nel benessere la famiglia che mi andrò a formare. La miseria non fa per me.»

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«Io vedo una terza possibilità che non farà arricchire magari, ma potrebbe consentire una posizione dignitosa senza correre rischi e appesantire la coscienza.» «La coscienza è un concetto astratto coniato da chi non ha fegato per agire. I rischi sono una parte integrante della vita. Dove pensi che ti porterà il tuo bel diploma? Quali prospettive riesci a intravvedere senza prendere in esame il trasferimento in chissà quale paese e mettere in conto una serie infinita di sacrifici? A Giova’, tu vivi di sogni, io, invece, di fatti!» Giovanni non aveva aggiunto altro, ma dal suo silenzio e dalla espressione cupa del suo volto si poteva leggere tutta la delusione e la disapprovazione che stava provando. Forse il suo amico aveva ragione sulle scarse possibilità di successo che avrebbe potuto ottenere nel futuro, ma mai si sarebbe sognato di ovviare alle difficoltà scegliendo la scorciatoia della malavita, se di scorciatoia si poteva parlare! Si chiese quale potesse essere stato il momento e la causa in cui le loro strade, quasi parallele, avessero subito quella brusca interruzione per poi proseguire, ognuna per conto proprio, in due diverse direzioni. Non poteva immaginare quale sarebbe stata la sua destinazione, ma poteva nettamente distinguere quella di Gaetano e ciò che vedeva non gli piaceva per niente. Una fredda mattina di Gennaio, il corpo di Gaetano La Torre venne trovato riverso in una pozza di sangue nel parcheggio semivuoto del piccolo centro commerciale alle porte del paese. Di li a qualche giorno, avrebbe compiuto il suo diciottesimo compleanno. Nel suo garage c’era una fiammante berlina decappottabile, nera metallizzata, che si era comprato soltanto il giorno prima e che mai avrebbe avuto la possibilità di sfoggiare come simbolo del suo successo. Giovanni era ancora a letto quando sua madre andò a informarlo dell’accaduto. Piangeva e non riusciva quasi a parlare tra un singhiozzo e l’altro, ma egli non aveva bisogno di tante spiegazioni; gli bastò comprendere le parole “Gaetano” e “sparato” per sapere di avere perso per sempre il suo amico.

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Si mise seduto sul letto, con i piedi nudi che toccavano il pavimento freddo, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani a tenergli la testa che gli girava e gli sembrava pesante come il piombo. Scoppiò a piangere. Un pianto che proveniva dall’anima, che portò in superficie tutta la rabbia e il dolore che gli stavano opprimendo il petto. Mai come in quel momento aveva sentito netta la distinzione tra le persone perbene, che faticano a trovare una loro dimensione nel rispetto delle regole sociali e quelle disoneste, le quali altro non sono che i parassiti delle prime. Se avesse avuto tra le mani quel figlio di puttana che aveva freddamente giustiziato il suo amico, nemmeno per un attimo avrebbe esitato a stringergli il collo fino al suo ultimo respiro. Sentiva di provare, inoltre, molta collera verso Gaetano, per il male che aveva provocato a sé stesso e ai suoi cari, per non essersi reso conto che stava barattando la sua vita per un benessere fittizio e che la sua ambita ricchezza, risultato dello sfruttamento dell’ignoranza, della povertà e della debolezza umana, non poteva che essere destinata a portare solo sofferenza! Anche il rimorso si affacciava in quel turbinio di sentimenti; non poteva esimersi dal rimproverare sé stesso per non avere obbligato il suo amico a rinunciare ai suoi vacui miraggi di ricchezza. Pianse, quasi ininterrottamente, per tre giorni di fila: mentre mangiava, mentre si faceva la doccia, per non parlare di quando andò a far visita a donna Assunta, la madre di Gaetano e del giorno della cerimonia funebre. Poi, il pianto s’ interruppe; fu come se gli occhi gli si fossero seccati, ma non per questo sentiva pesare meno la tristezza e il senso di abbandono che portava nel cuore. Seguì un lungo periodo in cui si sentì svuotato e completamente demotivato. Ormai si era diplomato da tempo, ma non aveva voglia di prendere alcuna decisione riguardo al suo futuro. Gli tornava alla mente, martellante, una delle ultime frasi del suo amico: “quali prospettive riesci a vedere se non prendi in esame il trasferimento?” Gaetano aveva sicuramente ragione su questo punto; se rimaneva a Secondigliano, privo com’era di conoscenze, a malapena poteva

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aspettarsi di prendere il posto di muratore lasciato libero da suo padre. Ma tale prospettiva lo faceva rabbrividire. Pian piano, cominciò ad accarezzare l’idea di andarsene dal suo paese, ma a fare cosa ancora non lo sapeva. La maturità scientifica lo aveva preparato per l’università, ma, ora come ora, non se la sentiva di riprendere a studiare e così si trovava senza alcuna specifica preparazione per aspirare a qualunque posto di lavoro che non prevedesse una bassa e massacrante manovalanza. La decisione che cambiò il corso della sua vita la prese d’impeto, una mattina di buon’ora, dopo essersi svegliato dal sonno notturno in cui si sognò di Gaetano. Gli apparve sotto forma eterea; del suo viso si distinguevano solo le labbra piegate in un tenue sorriso. Cercava di abbracciarlo, ma le sue braccia e le sue mani si muovevano nel vuoto, senza riuscire a stringere nulla. «Mi manchi, amico. Mi manchi tanto!» «Lo so, mi dispiace farti soffrire, ma voglio che tu sappia che sto bene, non devi piangere più per me.» «Mi dispiace. Mi dispiace tanto di non averti impedito di fare delle scelte sbagliate! Ho preferito ignorare piuttosto che discuterne con te e affrontare il problema.» «Ero consapevole che quanto avevo intrapreso poteva comportare dei rischi, ma li accettavo perché la contropartita li valeva tutti. Nulla di ciò che avresti potuto dire o fare mi avrebbe fatto cambiare percorso.» «A volte mi sfiora l’idea di vendicarti.» «Lascia perdere le vendette sterili. Concentra le tue energie su te stesso, trova la tua dimensione. Portami nel tuo cuore e tienimi per sempre come esempio di ciò che devi contrastare. Questa potrà essere la tua vendetta e sarebbe, senz’altro, il motivo del mio orgoglio.» La sua immagine si dissolse in un attimo, come il fumo di un camino che viene spazzato da una folata di vento, ma l’eco del messaggio che lesse nelle sue ultime frasi, gli rimase nelle orecchie anche dopo essersi svegliato e per molto tempo ancora.

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Non riuscì mai a decidere se il sogno fosse stato il frutto di una normale, insignificante, attività onirica o, in realtà, un messaggio inviato da Gaetano dalla dimensione in cui si trovava, oppure se fosse stata una premonizione o ancora, più semplicemente, l’espressione di un suo recondito desiderio; fatto sta, che da esso dipese il suo intero futuro. Finalmente decise quale doveva essere la sua strada: contrastare il male! E quale migliore possibilità di farlo se non entrando nelle forze dell’ordine? Cominciò a informarsi su come avrebbe potuto fare e scoprì, che da lì a poco, ci sarebbe stato un concorso per potere entrare a far parte delle forze armate dei carabinieri. Con la buona preparazione di cui disponeva e un pizzico di fortuna, riuscì a superare la selezione. Tutto sommato il concorso si dimostrò piuttosto facile; la parte più difficile si rivelò essere invece quella di mettere al corrente le donne della sua famiglia che si sarebbe dovuto trasferire fuori regione. Il primo anno di volontariato lo avrebbe dovuto svolgere nel Lazio e per loro era come se dovesse partire per una missione militare all’estero! Provarono di tutto per farlo desistere dal suo proposito: versarono un fiume di lacrime, lo fecero sentire in colpa per il fatto che avrebbe abbandonato i genitori anziani, tentarono di dissuaderlo con l’improbabile possibilità che il posto in cui sarebbe andato avrebbe potuto essere più pericoloso di quello in cui era cresciuto, ma poi, di fronte all’evidente sconfitta, si fecero promettere almeno che avrebbe fatto loro visita ogni fine settimana. Il percorso di Giovanni non fu dei più facili. Per diverso tempo provò molta nostalgia di casa, della sua famiglia, della ragazza che non l’aveva seguito e dei suoi amici. Non fu semplice nemmeno accettare l’imposizione di ferree regole e l’obbligo dell’obbedienza al comando, avvezzo com’era a essere egli stesso più un comandante che un esecutore. Tuttavia, con il passare del tempo, si abituò all’ordine delle cose e riuscì a crearsi una ristretta ma affiatata cerchia di amici tra i suoi colleghi. Inoltre, un po’ per il fatto che con

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una certa regolarità gli veniva richiesta una discreta attività fisica, un po’ perché fu costretto a modificare il suo regime alimentare, riuscì a ottenere un evidente giovamento della sua struttura fisica. Persi oltre sei chili di peso, i bicipiti e i pettorali potevano essere mostrati con fierezza e gli addominali cominciarono a mettersi in evidenza. Fu in quel periodo che il timido e un po’ imbranato corteggiatore pian piano lasciò il passo al conquistatore disinvolto e libertino che lo caratterizzò fino a quando conobbe la donna che sarebbe diventata sua moglie, qualche anno più tardi. Durante il periodo in cui rimase a Viterbo, le visite alla sua famiglia ebbero una cadenza pressoché quindicinale. In quelle occasioni, le sue donne lo rimpinzavano come un tacchino perché, a loro dire, stava diventando sempre più magro e sciupato. Il suo trasferimento in Veneto fu vissuto come una tragedia; probabilmente, alla notizia della sua morte in servizio, avrebbero reagito con la stessa disperazione. A Padova, Giovanni si trovò bene sin dall’inizio. Al tempo, era una città relativamente tranquilla e a lui piaceva molto, una volta terminato il servizio, passeggiare tra le vie acciottolate del centro. Solitamente, lo faceva in compagnia di qualche collega, ma alcune volte anche da solo. Un po’ alla volta, visitò tutti i suoi innumerevoli monumenti e siti storici, rimanendo affascinato da molti di essi, per la loro bellezza e il prestigio della loro storia. Fu durante la visita alla Basilica di Sant’Antonio che la sua attenzione, fino a quel momento accentrata sulla statua bronzea della Madonna col bambino di Donatello, venne dirottata sulla figura inginocchiata di una giovane donna in preghiera. Se qualcuno gli avesse chiesto quale poteva essere tra le due la rappresentazione della bellezza, non avrebbe saputo rispondere. Il viso della ragazza era incorniciato da un velo nero che le cadeva morbido sulle spalle e da cui usciva qualche ricciolo biondo. Le sue labbra carnose erano di un rosso vivo naturale, il naso piccolo e dritto e i grandi occhi azzurri fissi su di un punto non definito dell’altare le conferivano un’aria angelica che bene si intonava con la sacralità dell’ambiente. Le sue mani

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affusolate, erano giunte all’altezza del piccolo seno che premeva, appena, sulla sottile camicetta rosa antico. Se Giovanni avesse dato ascolto al suo impulso, sarebbe andato a fare immediatamente la sua conoscenza, ma, consapevole che avrebbe potuto disturbare un momento importante di raccoglimento spirituale risultando fastidioso e inopportuno, attese pazientemente che la ragazza si alzasse e si dirigesse verso l’uscita. A quel punto, si affiancò a lei, in maniera che sembrasse del tutto casuale, la salutò con il sorriso più accattivante che riservava per le più grandi occasioni e le chiese se fosse del posto. Sapeva che gli sarebbe bastato osservare la sua espressione e ascoltare il tono con cui gli si sarebbe rivolta per capire se l’interesse era reciproco oppure se la risposta fosse stata di semplice cortesia. Quando vide le sue labbra piegarsi in un dolcissimo sorriso, capì che quell’incontro non si sarebbe concluso entro qualche minuto, ma sarebbe stato l’inizio di qualcosa di più consistente. Andarono a sedere a un tavolo della sala rossa del Caffè Pedrocchi e lì, davanti a una bibita fresca, cominciarono a raccontarsi un po’ delle loro storie. Lucia aveva ventidue anni, era originaria di Belluno ma si era trasferita a Padova per frequentare l’università. In verità, aveva scelto la facoltà di farmacia per ripiego, poiché avrebbe voluto diventare medico come suo padre e il nonno, ma aveva dovuto arrendersi di fronte alla difficoltà del test d’ingresso a medicina che, nonostante l’avesse tentato varie volte, non era mai riuscita a superare. Simpaticamente, ironizzò sulla sua limitata preparazione culturale e forse anche intellettiva che le avevano pregiudicato il proseguimento delle orme paterne. Poi, d’improvviso si fece seria e solo su insistenza di Giovanni gliene spiegò il motivo. Il filo conduttore dei suoi precedenti discorsi l’aveva portata a pensare alla terribile malattia che era stata diagnosticata a suo padre solo poco tempo prima. Spiegò di essere sempre stata pressoché agnostica, ma di fronte all’impotenza di un suo attivo intervento aveva sentito il bisogno di chiedere una grazia divina. Ecco spiegato il motivo della

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sua precedente visita alla Basilica. Conclusa la triste parentesi, i due ragazzi continuarono a parlare a lungo di argomenti un po’ più ameni, scherzando e ridendo come fossero amici di vecchia data. Quello fu il primo di una lunga serie di incontri che finirono con il consolidare il loro rapporto, sino a farlo diventare una relazione stabile. Tra i due, Lucia fu la prima a legarsi sentimentalmente e a pretendere un rapporto esclusivo, mentre Giovanni avrebbe preferito una frequentazione subordinata al desiderio, senza obblighi o troppo impegno. Dopo circa un anno di appuntamenti, stanca della disparità del loro coinvolgimento passionale, la ragazza esigette un periodo di pausa durante il quale avrebbe valutato la possibilità di accettare quel rapporto che non la soddisfaceva appieno, oppure avrebbe potuto maturare la decisione di troncarlo nettamente. Come di solito succede, solo quando si realizza di poter perdere definitivamente qualcuno di importante, ma che si dava per scontato, si comincia a valorizzarlo, a collocarlo nel suo esatto ruolo e ad attribuirgli una funzione di necessità. Lucia gli mancava. Gli mancavano le sue sciocche risate, ma anche i suoi discorsi profondi, il suo gesto abituale di passarsi le mani tra i capelli, i suoi abbracci improvvisi, i suoi immotivati sbalzi d’umore, quel modo che aveva di guardarlo con adorazione e il totale trasporto con il quale faceva l’amore. Oramai, era diventata un’ossessione; il suo primo pensiero del mattino e il suo ultimo della notte. Fu così che Giovanni decise di interrompere quell’intervallo che si stava protraendo da un po’ troppo tempo e decise di chiamarla per confessarle quanto aveva scoperto di provare per lei. I due ragazzi tornarono assieme, andarono a convivere quasi subito e cominciarono un nuovo percorso in cui sembravano essere in simbiosi. Il loro fidanzamento durò sei anni, durante i quali si susseguirono numerosi eventi che li fecero rallegrare ma anche soffrire e contribuirono alla formazione della loro maturità caratteriale senza che nulla, comunque, andasse a intaccare il solido rapporto che si erano costruiti. Giovanni decise di partecipare al concorso per allievo maresciallo. Riuscì a superare la selezione iniziale per cui, per il primo anno,

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dovette trasferirsi alla scuola di Velletri e, per quello successivo, a quella di Firenze. Seppur a malincuore Lucia decise di non seguirlo, perché i trasferimenti avrebbero influito negativamente sul suo percorso scolastico. Ogni settimana, però, riuscivano a ritagliarsi una o due giornate per incontrarsi e da trascorrere assieme. Il padre di lei, dopo una lunga battaglia, non riuscì a vincere contro la malattia che lo aveva colpito, lasciandola nel più totale sconforto per lunghissimo tempo. Qualche mese dopo, un lutto colpì anche lui. D’improvviso, colta da ictus, venne a mancare sua madre. Per contro, nel giro di un solo anno, si sposarono le due sorelle ancora zitelle ed entro breve si trovò a diventare zio di un paio di maschietti che adorava, anche se poteva vederli crescere quasi esclusivamente attraverso la webcam e goderseli di persona, generalmente, soltanto una volta l’anno. Conseguito il grado di maresciallo, Giovanni fece domanda per essere destinato a Padova, ma l’autorità dell’arma decise di trasferirlo in un paese del veneziano. Questa volta la sua ragazza non poté rifiutarsi di raggiungerlo anche se le dispiacque molto lasciare la città che aveva imparato ad amare. Tuttavia, quasi subito, il nuovo paese le offrì l’opportunità di un lavoro part-time che le garantiva un certo reddito, pur lasciandole tutto il tempo per dare gli ultimi esami e lavorare alla sua tesi. Ogni guadagno in più era il benvenuto, perché i due ragazzi avevano il grande progetto di comprare casa. Avevano sempre vissuto in appartamenti in affitto, ma entrambi desideravano possedere una propria dimora per custodire i loro ricordi e far crescere i loro figli. Quando Lucia si laureò, a Giovanni venne voglia di iscriversi alla facoltà di scienze politiche. Sapeva che il suo progetto sarebbe stato impegnativo, sia dal punto di vista economico che da quello organizzativo, ma l’idea gli piaceva troppo per rinunciarvi. Così decise di intraprenderlo, anche se si ripromise di prendersela comoda e di non sacrificare, per esso, il suo equilibrio e quello di coppia.

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Una volta laureata, Lucia ottenne che il suo contratto di lavoro a tempo parziale diventasse a tempo pieno e quella fu l’occasione in cui decise, assieme al suo compagno, di accendere un mutuo per l’acquisto della loro abitazione. La natura del lavoro di Giovanni non poteva garantirgli che non gli fossero imposti ulteriori trasferimenti, ma, se avesse seguito tale logica, avrebbe dovuto rinunciare a mettere radici, per cui non gli restava che sperare che quest’ultima fosse la sua destinazione finale. Visionarono numerose proposte dell’agenzia immobiliare a cui si erano affidati e finirono con l’innamorarsi di una piccola casa singola, parzialmente da ristrutturare, ma con un grande giardino dominato da un bell’esemplare di ulivo dal fusto contorto e da un acero di medie dimensioni la cui fluente chioma rossa rappresentava un vivace colpo d’occhio. Poteva sembrare una scelta consapevole, ma, in verità, fu del tutto casuale il fatto che Lucia rimase incinta subito dopo aver completato l’arredo interno della nuova casa e sistemato, alla bene e meglio, il giardino. Lo shock iniziale fu piuttosto forte, ma durò molto poco, dopodiché entrambi furono felici del futuro arrivo di un bambino. Decisero, anche grazie alla pressione esercitata dalle sorelle di Giovanni, che si sarebbero sposati prima della sua nascita. «Voglio sposarmi quando sono ancora in forma, prima che la pancia mi faccia sembrare una balena in abito da sposa!» aveva suggerito Lucia. Così, fissarono la data delle nozze che sarebbero avvenute dopo due mesi. Il matrimonio fu celebrato in un assolato giorno di Giugno, nella centenaria e graziosa chiesa del paese. Gli inviati erano stati selezionati tra gli amici più intimi e i parenti più stretti; il loro numero era modesto ma tutti, dato il legame di consanguineità e di affettività che li univa agli sposi, erano visibilmente emozionati. Chiara nacque due settimane dopo la data in cui era attesa, da una mamma completamente spossata fisicamente e un padre dilaniato dall’impazienza. Comunque, ai due neo genitori bastò udire il suo primo strillo per tornare in piena forma e straripare di gioia.

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Nessuno dei due poteva immaginare che quel momento avrebbe rappresentato l’apice di felicità del loro rapporto il quale, lentamente ma inesorabilmente, avrebbe intrapreso una strada in continua discesa sino a portarli alla separazione.

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CAPITOLO III

È OMICIDIO

«È arrivato il referto del medico legale e l’esito della scientifica sui campioni che ha raccolto» disse il Procuratore della Repubblica a Giovanni che aspettava, curioso e leggermente ansioso, di conoscerne l’esito. «I suoi sospetti erano fondati, dottor Colucci; il referto ha confermato che la morte del Signor Visconti non è stata accidentale! Non sono state trovate tracce di acqua nei suoi polmoni, ma, in compenso, gli è stato riscontrato un grosso trauma inferto da corpo contundente sulla parte posteriore del cranio. Il colpo, anche se poco visibile dall’esterno, ha provocato uno sfondamento della scatola cranica, pressappoco in corrispondenza del cervelletto. Ciò significa che era già morto prima di finire nel fiume. Non è stato rilevato nient’altro; nessun ulteriore segno di violenza fisica, nulla sotto le unghie. È probabile che la vittima sia stata colta di sorpresa, alle spalle e non abbia avuto modo di difendersi. Le dico la verità, gli elementi di dubbio che mi aveva fornito erano così scarsi che, di primo acchito, avrei derubricato il caso come incidente stradale. Tuttavia, la fiducia che nutro per lei come persona e come esponente dell’arma mi ha predisposto ad avallare gli accertamenti da lei richiesti.» «Mi rendo conto che la mia era una teoria basata più che altro su considerazione personali piuttosto che su prove tangibili. La ringrazio per la fiducia accordata.» «Assodato che ci troviamo di fronte a un caso di omicidio, se la sente di essere delegato all’indagine?» «Certamente dottore.»

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«Bene, allora, rinnovandole la fiducia, le lascio libero il campo d’azione, certo che lei saprà coordinare e organizzare l’attività investigativa nel modo più opportuno. Confido di essere aggiornato a ogni minimo sviluppo e mi auguro che ne possiamo venire presto a capo.» «È la stessa speranza che nutro anch’io.» «Capo, non potrebbe essere che il Visconti con l’auto abbia sbattuto contro qualcosa prima di finire nel fiume e si sia procurato la ferita colpendo la testa contro una parte metallica dell’abitacolo?» chiese Massimo, dopo che il maresciallo lo informò dell’apertura del caso Visconti. «Tu c’eri quando l’abbiamo tirato fuori con l’auto, no?» «Sì, ho assistito a tutta l’operazione.» «Quindi avrai notato che Visconti aveva ancora le cinture allacciate ed era perfettamente ancorato al suo sedile. Semmai, avrebbe potuto colpire violentemente contro il poggiatesta, ma in questo caso non avrebbe riportato una ferita simile a quella esposta nel referto il quale, peraltro, spiega che la ferita presenta un evidente segno allungato che potrebbe essere compatibile con una barra metallica. E l’assenza di acqua nei polmoni? No, Massimo. È stato sicuramente colpito alla testa quando era fuori dall’auto. È stato ammazzato e, dopo, è stato inscenato l’incidente per cercare di nascondere l’omicidio.» «Allora abbiamo un grosso problema!» «Già, sono proprio cazzi! Fammi fare mente locale: in cosa siete impegnati tu e gli altri in questo momento?» «Io e Felice stiamo seguendo l’indagine sul giro d’erba nella scuola media, Antonio quella sul furto di biciclette al supermercato e il caso di circonvenzione di incapace, Cosimo e Stefano sono ancora impantanati con la storia di scasso al Bancomat del Banco di Brescia.» «Direi che tanto le biciclette quanto il bancomat possono aspettare, mentre è utile che tu e Felice continuiate con la vostra attività e,

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cercate di portate pazienza, che vi sobbarchiate pure la questione dell’incapace. Fammi un favore, mandami qua gli altri.» «Subito maresciallo.» Ormai erano dieci anni che Giovanni abitava e lavorava a Mira. Nonostante si potesse considerare un paese relativamente tranquillo, nel corso di quel lungo periodo aveva dovuto perseguire una serie considerevole di reati e assistito a morti tragiche avvenute a causa di suicidi, di overdose di sostanze stupefacenti o di incidenti stradali, ma un omicidio non si era ancora verificato se si escludeva quello colposo, avvenuto un paio d’anni prima, in cui un uomo pulendo il suo fucile aveva accidentalmente ferito a morte suo fratello. La procedura da seguire, in questo caso, sarebbe stata ben più complessa, per non parlare della seccatura di dover relazionare costantemente il caso alla Procura e, magari, dover subire una sua possibile interferenza. Era abituato a gestire la sua caserma quasi in totale autonomia, mantenendo i contatti con le autorità soltanto in casi estemporanei e nelle occasioni di ritrovo ufficiali. Il solo pensiero che la sua attività potesse essere sottoposta a costanti monitoraggi e più che probabili pressioni lo preoccupava e, di certo, non lo disponeva al meglio. Amava il suo lavoro; gli piaceva la sensazione di fare del bene perseguendo la malvivenza, gioiva nel vedere la gratitudine e il rispetto nel volto dei paesani e lo sguardo di sconfitta o di sfida negli occhi di quelli che arrestava. Si sentiva un carabiniere in tutta la sua essenza; non c’era un momento in cui riuscisse a scindere l’uomo che era dalla sua professione, nemmeno quando era un padre per sua figlia o l’amante con una delle sue donne. Eppure, non era mai riuscito ad accettare, di buon grado e sino in fondo, la sua posizione di subalternità, il suo obbligo al comando, l’interferenza imposta alla sua attività. “Sono un maschio alfa, mi devo rassegnare che non potrò mai essere anche un carabiniere alfa!” si ripeteva spesso mentalmente. E poi sorrideva tra sé e sé, per sfatare quella punta di contrarietà che provava di fronte all’ineluttabilità di quel fatto.

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«Voglio che da questo momento in poi, la nostra missione primaria sia quella di trovare il colpevole di questo omicidio. Ogni nostro sforzo dovrà essere indirizzato a smascherare quel figlio di puttana che crede di farci fessi. Voglio sapere tutto, e dico tutto, sulla vita di Giancarlo Visconti: delle sue amicizie, dei suoi conti in banca, del suo lavoro, di sua moglie, persino di quanti peli aveva nel culo. E voglio che sia fatta una perizia scrupolosa alla sua auto, che sia analizzato ogni centimetro della carrozzeria, del baule e dell’abitacolo. Cosimo e Antonio, cominciate subito a darvi da fare per trovare tutte le informazioni necessarie. Tu Stefano, vieni con me, ritorniamo sul posto dell’incidente e vediamo se riusciamo a trovare qualcosa che ci era sfuggito.» FINE ANTEPRIMA.Continua...