Non è la solita guida

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84 Fatte 'na pizza c'a pummarola 'ncoppa Vedrai che il mondo poi ti sorriderà Fatte 'na pizza e crescerai più forte nessuno Nessuno più ti fermerà Non è la solita guida Il Ragù, il Sangue di San Gennaro, Rosso Pompeiano, Pizza, il Vesuvio ed i Campi Flegrei

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Volume rosso

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Fat t e ' n a p i z z a c ' a pummaro la ' n coppa Ved ra i che i l mondo po i t i s or r iderà Fat t e ' n a p i z z a e c re sc era i p iù f orte ne s suno Nes suno p iù t i fe rmerà

Non è l a so l i ta gu ida

I l Ragù , i l Sangue d i S an Gennaro , Ro s so Pompe iano , P i z za , i l Ve suv io ed i Camp i F leg re i

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Claudia Albrizio, Bruna Caiazzo, Imma Lancia, Immacolata Mormile, Maria Parisi, Martina Vezzi

Progetto grafico: Elena Carrucola

P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”

Redazione a cura di

83

NOTE

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3

P R E S E N T A Z I O N E

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La chiesa di Sant'Angelo a Nilo si trova

nel centro storico di Napoli in piazzetta

Nilo, all'angolo sud-est di piazza San

Domenico, con una facciata (che è la

principale) rivolta su via Mezzocanno-

ne.

La chiesa conserva al suo interno diver-

se opere tra cui il monumentale sepol-

cro del cardinale Rainaldo Brancac-

ci scolpito da Donatello, Michelozzo ed

aiuti.

La nostra passeggiata si conclude u-

scendo di nuovo su via Duomo dove

troneggia la sontuosa cattedrale.

La Cattedrale di Napoli (o Duomo di

Napoli), dedicata a Santa Maria Assun-

ta, è la sede dell'arcidiocesi di Napoli,

nonché una delle più importanti e gran-

di chiese della città.

Il Duomo sorge lungo il lato est del-

la via omonima, in una piazzetta con-

tornata da portici. Essa ospita il batti-

stero più antico d'Occiden-

te (il battistero di San Giovanni in Fon-

te) e tre volte l'anno accoglie il rito

dello scioglimento del sangue di san

Gennaro.

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della famiglia di accedere privatamen-

te al luogo di culto.[3]

La cappella ospita capolavori come

il Cristo velato, conosciuto in tutto il

mondo per il suo velo marmoreo che

quasi si adagia sul Cristo morto,

la Pudicizia e il Disinganno, ed è nel

suo insieme un complesso singolare e

carico di significati.[3][4] Essa ospita

anche numerose altre opere di pregiata

fattura o inusuali,[3] come le macchine

anatomiche, due corpi totalmente scar-

nificati dove è possibile osservare, in

modo molto dettagliato, l'intero siste-

ma circolatorio.[5]

Oltre ad essere stato concepito come

luogo di culto, il mausoleo è soprattut-

to un tempio massonico carico di sim-

bologie, che riflette il genio e il cari-

sma diRaimondo di Sangro, settimo

principe di Sansevero, committente e

allo stesso tempo ideatore dell'appara-

to artistico settecentesco della cappel-

la.

L'opera più suggestiva della "Cappella

di Sansevero" è sicuramente il Cristo

Velato. Scolpita da Giuseppe Sanmarti-

no, l'opera colpisce per la minuziosità

del particolare e la delicatezza del velo

che ricopre il Cristo morto, adagiato su

dei cuscini. Sul viso e sul corpo di Ge-

sù sono visibili i segni del supplizio, le

mani e i piedi forati dai chiodi, la ferita

del costato e il dolore rimasto nei line-

amenti del cadavere. Di fianco al cor-

po, sempre scolpiti nel marmo, sono

posti i chiodi e la corona di spine.

Il velo che ricopre il soggetto, offusca

ma non copre la scultura e questo ha

fatto nascere la leggenda del velo mar-

morizzato dal Principe di Sansevero. La

bellezza dell'opera è tale che addirittu-

ra Antonio Canova, il grande scultore,

dopo aver cercato in tutti i modi di

entrarne in possesso, dichiarò che per

avere la scultura, sarebbe stato dispo-

sto a privarsi di dieci anni della sua

vita. Il velo che ricopre il Cristo lascia

comunque aperto l'antico dibattito:

l'innaturale "morbidezza" che lo carat-

terizza è figlia dell'ineguagliabile arte

di Giuseppe Sanmartino, o dei poteri

esoterici del Principe Raimondo di San-

gro?

Sant’ Angelo a Nilo

5

I N T R O D U Z I O N E

Famosissimo come alimento dalle grandi proprietà nutrienti,

il Pomodoro non è soltanto questo, e Napoli più di ogni altro

posto al mondo dà a questo prodotto della terra una grande

importanza. Chiamato dal popolo ‘a pummarola’ esso accom-

pagna famosissimi piatti della tradizione napoletana come il

ragù e la pizza.

Nelle domus pompeiane ritroviamo quel colore rosso caratte-

ristico, diventato quasi un simbolo territoriale.Il colore di

quel fuoco che qui è stato elemento fertile e distruttore, un

elemento con cui i partenopei convivono da sempre.

La città, infatti, è distesa tra due aree vulcaniche, le pendi-

ci del Vesuvio e i Campi Flegrei, i campi "ardenti" dei Greci,

che fin dai tempi antichi, con sapienza sono stati sfruttati

per la produzione di vini pregiati.

Infatti, Napoli è anche famosa per il Vesuvio, un vulcano

ancora attivo, ai cui piedi natura e arte si incontrano per

offrire un perfettoconnubio di bellezza. Oltre alle varie e

affascinanti storia legate a questa montagna di fuoco, come

quella di Pucinella o dei miracoli di San Gennaro, si possono

ammirare le bellezze dell’omonimo Parco Nazionale. Il Vesu-

vio è legato al pomodoro, in quanto sulle sue pendici è colti-

vata il famosissimo ‘Piennolo’, ovvero il grappolo di pomodo-

ri, oppure “ a pecchetella”, e cioè la conserva in vetro. Il

pomodoro del Vesuvio è una qualità che si trova esclusiva-

mente nel territorio partenopeo grazie al terreno che pre-

senta una stratificazione di lava dovuta alle eruzioni vulcani-

che. Al rosso del pomodoro è legato San Gennaro, il santo

patrono della città di Napoli, festeggiato il 19 settembre, nel

cui Duomo sono custodite due ampolle contenenti una so-

stanza allo stato solido, che la tradizione afferma essere

sangue del santo, e che si liquefà tre volte all'anno. Ciò è

conosciuto come il Miracolo di San Gennaro, e considerato

dai napoletani un segno d’auspicio per la città.

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(UNESCO)

La piazza, fulcro di alcuni dei più im-

portanti monumenti di Napoli, ruota

attorno al monumentale obelisco

dell'Immacolata, maestosa guglia di

marmo bianco e bardiglio posta al cen-

tro dello spiazzale.

La guglia fu eretta nel XVIII secolo per

volere del gesuita padre Francesco

Pepe su progetto di Giuseppe Genoi-

no grazie ad una colletta pubblica.

L'opera si ispira alle innumerevoli mac-

chine da festa presenti in quei secoli

ed è rivestita da sculture marmoree

di Matteo Bottiglieri e di Francesco

Pagano. Sulla sommità è posta la statua

di rame dell'Immacolata.

Complesso monumentale Santa Chiara

Adiacente alla Piazza troviao una delle

più antiche chiese di Napoli ,la basilica

di Santa Chiara.

La basilica di Santa Chiara, con l'adia-

cente complesso monastico, entrambi

conosciuti anche come monastero di

Santa Chiara, è un edificio di culto d

iNapoli.

Edificato tra il 1310 e il 1340 su un

complesso termale romano del I secolo

d.C., per volere di Roberto d'Angiò e

della regina Sancha d'Aragona, nei

pressi dell'allora cinta muraria occiden-

tale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al

convento faceva parte anche

il complesso delle Clarisse, oggi luogo

di culto a sé.

Si tratta della più grande basili-

ca gotica della città.

L’ultimo Decumano che percorriamo in

questa nostra visita tra le emozioni e

le suggestioni che Napoli ci elargisce a

grandi mani, senza parsimonia, con

grande e superba generosità,è il decu-

mano superiore.

Qui incontriamo la cappella San Seve-

ro,altro luogo incantevole e misterioso.

La cappella Sansevero (detta an-

che chiesa di Santa Maria della Pie-

tà oPietatella) è tra i più importanti

musei di Napoli. Situata nelle vicinanze

dellapiazza San Domenico Maggiore,

questa chiesa, oggi sconsacrata, è atti-

gua alpalazzo di famiglia dei principi

di Sansevero, da questo separata da un

vicolo una volta sormontato da un pon-

te sospeso che consentiva ai membri

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il Chiostro di San Lorenzo Maggiore.

Importante testimonianza di epoca

settecentesca è quella del pregevole

pozzo di marmo epiperno scolpito

da Cosimo Fanzago e, sulla lunetta del

portale che immette in chiesa, l'affre-

sco Madonna con bambino e devo-

to di Montano d'Arezzo.

….allontanandoci dal Decumano mag-

giore la passeggiata prosegue incon-

trando ,lungo il decumano superiore la

chiesa di San Pietro a Majella è u-

na chiesa gotica di Napoli, situata nel-

centro antico della città, adiacente

all'omonimo conservatorio musicale.

Giungiamo finalmente nella Piazza del

Gesù dove si affaccia l’omonima chiesa

di origine barocca.

La chiesa del Gesù Nuovo o Trinità Mag-

giore è una delle più importanti chie-

se basilicali di Napoli; si erge in piazza

del Gesù Nuovo ed è situata ad ovest

dell'antico decumano inferiore.

La chiesa venne così chiamata per di-

stinguerla dalla vecchia chiesa del Ge-

sù. All'interno vi è inoltre custodito il

corpo di san Giuseppe Moscati e le sue

stanze private dentro le quali soggior-

nava.

La piazza

La piazza, data la sua complessità ar-

chitettonica e strutturale, non è rag-

giungibile tramite alcun mezzo di loco-

mozione, né pubblico, né privato, e

costituisce un'area interamente pedo-

nale. Inoltre, sulla facciata della chiesa

del Gesù Nuovo, è affissa la tar-

ga UNESCO con incisa la motivazione

per la quale il centro storico di Napo-

li è divenuto patrimonio dell'umanità:

« Si tratta di una delle più antiche città

d'Europa, il cui tessuto urbano contem-

poraneo conserva gli elementi della sua

storia ricca di avvenimenti. I tracciati

delle sue strade, la ricchezza dei suoi

edifici storici caratterizzanti epoche

diverse conferiscono al sito un valore

universale senza uguali, che ha eserci-

tato una profonda influenza su gran

parte dell'Europa e al di là dei confini

di questa. »

7

2. Rosso Pompeiano 18

I N D I C E

1. Le vie del Gusto 10

Le vie della Pizza 13 Il Decumano Maggiore 14 Il Decumano Inferiore 16 Il Decumano Superiore 17

Villa Pignatelli 23 Museo Archeologico 24 Palazzo Venezia 25

3. Il Sangue di San Gennaro 28

Duomo e Processione 32

4. Il Vesuvio 34

Origine del nome 35 Le Storie del Vesuvio 36 Il Parco Naturale del Vesuvio 38 La produzione agricola Vesuviana 42 Lacryma Christi 43 Il Piennolo 44 Area di produzione 46 Dati economici produttivi 46 Itinerari 47

5. I Campi Flegrei 52

Il Lago d’Averno 53 Il Lago di Lucrino 55 Il Monte Nuovo 57 Il Percorso 58

6. Il Ragù 62

Caratteristiche 67 Itinerario 67

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8 77

sta cappella era originariamente allo-

cato il celebre dipinto di Simone Marti-

ni San Ludovico di Tolosa che incorona

il fratello Roberto d'Angiò, ora al Museo

di Capodimonte.

Nel transetto sono conservate anche

diverse testimonianze pittoriche risa-

lenti alle origini della chiesa. Cicli di

affreschi trecenteschi di Montano d'A-

rezzo sono infatti visibili nel transetto

destro; altri di ignoti giotteschi sono

presenti sul lato destro del deaumbula-

torio absidale, mentre diverse sono le

sculture risalenti a questo secolo. An-

cora, vi è il Monumento funerario

di Carlo di Durazzo, fatto giustiziare

nel 1348 dal re Luigi d'Unghe-

ria (l'iscrizione posta di fronte al sarco-

fago riporta per errore la data 1347).

Di rilievo, infine, anche la pala

di Colantonio, Consegna della regola

francescana, iniziata per la chiesa

nel 1444, anch'essa confluita a Capodi-

monte.

La magnifica abside è un esempio chia-

ro della profonda impronta che lascia

il gotico francese sulla basilica. Note-

vole ildeambulatorio con cappelle ra-

diali ed un alto presbiterio a pilastri

polistili, costoloni e volte a crociera.

Non c'è unanimità fra i vari studiosi

circa l'attribuzione di questa parte im-

portante della basilica ad un costrutto-

re. Secondo ilVasari l'autore sareb-

be Nicola Pisano, per Gaetano Filangie-

ri invece Arnolfo di Cambio, secondo

altri, per alcune analogie costruttive

stilistiche con la chiesa di Santa Maria

Donnaregina l'attribuzione sarebbe da

ascriversi proprio all'architetto france-

se che edificò quest'ultima.

Nel deambulatorio, all'altezza della

prima arcata, sul lato destro, si trova

ilmonumento sepolcrale di Caterina

d'Austria (prima moglie del duca Carlo

di Calabria, figlio di re Roberto d'An-

giò). L'opera scultorea è di fatto la

prima opera napoletana di Tino di Ca-

maino.

L'altare maggiore, opera di epoca rina-

scimentale tra le più belle presenti

a Napoli, è dello scultore napoleta-

no Giovanni da Nola. Sono visibili nella

parte superiore le statue dei santi Lo-

renzo, Antonio e Francesco, mentre

sulla parete inferiore lo scultore raffi-

gurò Il Martirio di San Lorenzo, San

Francesco con il lupo di Gub-

bio eSant'Antonio che parla ai pesci, in

uno sfondo in cui è rappresentata la

città all'epoca rinascimentale che ren-

de l'opera di grande valore documenta-

rio oltre che artistico. In origine vi era

un'altra sezione posta in alto rispetto

alle statue dei santi con rilievi raffigu-

ranti la Madonna, gli Angeli ed

il Bambino. Oggi questa parte è conser-

vata nel transetto destro.

Adiacente alla Sala Capitolare, vi è

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Di notevole interesse è il campanile,

del secolo XV, eretto a più riprese, in

sostituzione di quello preesistente. La

torre, di forma quasi quadrata, è a

quattro piani e, per la sua posizione nel

centro della città è stata al centro di

svariati fatti storici. Il chiostro fu depo-

sito di armi dei Viceré spagnoli e

nel 1547 il campanile fu posto sotto

assedio dal popolo nella rivolta contro

Pedro de Toledo; nel 1647 i seguaci

di Masaniello lo presero d'assalto utiliz-

zandolo come avamposto di artiglieria

contro gli spagnoli

Interno

La basilica ha una pianta a crociera con

cappelle laterali aperte da archi acuti

che si aprono sull'unica navata coperta

(così come il transetto) da capriate.

Tra le cappelle laterali vanno ricorda-

te:

I-II cappella a destra: vi domina

il monumento sepolcrale di Ludovico

Aldomorisco(1421), consigliere del

re Ladislao di Durazzo. L'opera di gusto

tardo-gotico appartiene allo sculto-

re Antonio Baboccio da Piperno e fu

questo l'ultimo suo lavoro documenta-

to;

III cappella a destra: è in sti-

le barocco decorata da Cosimo Fanza-

go nella cancellata in ottone d'ingresso

e contenente le tombe della famiglia

Cacace con busti e statue eseguite

da Andrea Bolgi intorno al 1653. Sulla

parete frontale vi è una Madonna del

Rosario, dipinto di Massimo Stanzione,

mentre la volta è affrescata da Niccolò

de Simone;

IV cappella a destra: contiene un pre-

gevole polittico rinascimentale in ter-

racotta;

IV cappella a sinistra: ospita un'Adora-

zione dei Magi di Marco dal Pi-

no eseguita tra il 1551 e 1568 per

la chiesa del Gesù Vecchio trovando

solo di recente stabile collocazione

all'interno della basilica di San Lorenzo.

Cappellone di Sant'Antonio

Nel lato sinistro vi è il cappellone di

Sant'Antonio, maestosamente barocco

nell'esecuzione diCosimo Fanza-

go del1638 in cui trovano alloggio di-

pinti diFrancesco Di Maria e due tele

di Mattia Preti: Santa Chia-

ra e Crocifisso di San Francesco. In que-

9

F a t t e ' n a p i z z a c ' a p u m m a r o l a ' n c o p p a V e d r a i c h e i l m o n d o p o i t i s o r r i d e r à

F a t t e ' n a p i z z a e c r e s c e r a i p i ù f o r t e n e s s u n o N e s s u n o p i ù t i f e r m e r à

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L a p i z z a è u n p r o d o t -

to gastronomico che ha per base un

impasto di acqua, farina, sale e lievito,

che dopo una lievitazione di almeno

ventiquattro ore viene lavorato fino a

ottenere una forma piatta, cotto al

f o rno e var iamente cond ito.

L'etimologia del nome "pizza" derive-

r e b b e s e c o n d o a l c u n i ,

da pinsa (dalla lingua napoleta-

na), participio passato del ver-

bo latino pinsere oppure del verbo

"pansere", cioè pestare, schiacciare,

p i g i a r e c h e d e r i v e r e b b e

da pita mediterranea e balcanica, di

origine greca pita o pitta, dal greco

peptòs ossia "infornato”; secondo

quest'ultima ipotesi la parola derive-

rebbe dall'ebraico, dall'arabo e

dal greco, da cui anche pita che appar-

t i e n e a l l a s t e s s a c a t e g o r i a

di pane o focacce. Tuttavia l’ipotesi

più accreditata induce a pensare che

derivi semplicemente dalla “pita” gre-

ca per incrocio con la parola “pezzo”

oppure “pazzo”.

La pizza ha una storia lunga, complessa

e incerta. Le prime attestazioni scritte

della parola "pizza" risalgono al latino

v o l g a r e d i G a e t a n e l 9 9 7 .

Già comunque nell'antichità focacce

schiacciate, lievitate e non, erano dif-

fuse presso gli Egizi, i Greci e i Romani.

Benché si tratti ormai di un prodotto

diffuso in quasi tutto il mondo, la pizza

è un piatto originario della cucina ita-

liana. Nel sentire comune, spesso, ci si

riferisce con questo termine alla pizza

tonda condita con pomodoro e mozza-

rella, ossia la variante più conosciuta

della cosiddetta pizza napoletana, la

pizza Margherita. La vera e propria

origine della pizza è tuttavia argomen-

to controverso: oltre a Napoli, altre

città ne rivendicano la paternità. Esi-

ste, del resto, anche un significato più

ampio del termine "pizza" con innume-

revoli varianti, cambiando nome e ca-

ratteristiche a seconda delle diverse

tradizioni locali.

L’unico tipo di pizza, però, riconosciuto

in ambito nazionale ed europeo è la

Pizza Napoletana. Nel 2004, infatti, è

Le vie del gusto

75

giornò nel convento nel 1343, come

egli stesso documentò in una lettera

all'amico Giovanni Colonna, descriven-

dogli il maremoto che il 25 novembre

colpì la città, mentre Giovanni Boccac-

cio pare che qui si innamorò di Fiam-

metta, la bellissima Maria d'Aquino,

figlia del re Roberto d'Angiò, sua musa

ispiratrice, dopo averla vista nella basi-

lica durante la messa del sabato santo

del 1334.

Nei secoli seguenti, la basilica è stata

poi oggetto di numerosi rimaneggia-

menti, dovuti anche ai danni

dei terremoti che colpirono la città e a

partire dal XVI secolo. Vi si aggiunsero,

ad opera di architetti locali, pesanti

sovrastrutture barocche. A partire

dal 1882 i restauri, più volte interrotti

e ripresi, sino all'ultimo, terminato

nella secondà metà del XX secolo, can-

cellarono progressivamente le aggiunte

barocche, ad eccezione della facciata e

della controfacciata, opera di Ferdi-

nando Sanfelice, della cappella Cacace

e del cappellone di Sant'Antonio, opera

di Cosimo Fanzago.

Tra gli anni cinquanta e anni sessan-

ta del Novecento furono eseguite ope-

re di consolidamento da Rusconi per

bloccare il crollo delle mura attraverso

un contrafforte e opere di cemento

armato.

Infine, nel corso del tempo hanno tro-

vato, nella basilica, degna sepoltura

diverse illustri personalità della storia

napoletana, come il filosofo e comme-

diografo Giovanni Battista Della Porta,

il letterato amico

del Petrarca Giovanni Barile, il mar-

chese Giovanni Battista Manso e l'insi-

gne musicista Francesco Durante.

Esterno

La facciata presenta un portale gotico,

probabilmente eseguito con la collabo-

razione di maestri toscani, che ancora

offre alla vista gli originari battenti

lignei trecenteschi, ciascuno suddiviso

in 48 riquadri in un discreto stato di

conservazione. La facciata invece risa-

le al 1742 in piena epoca barocca ed è

opera del Sanfelice.

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74

a e il forno (convertito poi a refettorio

per le orfanelle, nel XVIII secolo). I

lavori che furono effettuati dopo

il 1664, sotto direzione di Francesco

Antonio Picchiatti, modificarono sensi-

bilmente la struttura del chiostro, ridu-

cendo sensibilmente le sue dimensioni;

infatti, fu costruito il refettorio al pia-

no terra, mentre le celle occuparono il

piano sovrastante. Nel cortile di servi-

zio vi si trovavano diciassette cucine, il

che ha fatto intuire quanto le religiose

tenessero ad ogni comodità: come ben

spiega Enrichetta Caracciolo che visse,

per ben sette anni, all'interno del com-

plesso, non come donna religiosa, ma

come laica; ella pubblicò le sue memo-

rie intitolate I misteri del chiostro na-

poletano.

San Lorenzo Maggiore

La basilica di San Lorenzo Maggiore è

una delle più antiche chiese diNapoli.

Si trova nel centro antico della città,

presso piazza San Gaetano.

Giovanni Boccaccio la definì "grazioso e

bel tempio" e si dice che qui egli incon-

trò Fiammetta nel 1334, mentre

nel 1346 Francesco Petrarca dimorò nel

convento annesso.

Nel 1235 il papa Gregorio IX ratificò la

concessione di una chiesa dedicata

asan Lorenzo da erigere in città. All'e-

poca, è documentata la presenza di

almeno altre cinque chiese dedicate al

santo, e la chiesa del Foro (di epoca

paleocristiana) fu assegnata ai frati

francescani come edificio su cui sareb-

be stata costruito il nuovo tem-

pio. Carlo I d'Angiò a partire dal1270,

quindi non molto tempo dopo la sua

vittoria su Manfredi, iniziò a sovvenzio-

nare la ricostruzione della basilica e

del convento, in una mescolanza di

stile gotico francese e francescano. Ad

architetti francesi si deve l'abside, rite-

nuta unica nel suo genere in Italia ed

esempio classico di gotico francese. Nel

passaggio dall'abside alla zona

del transetto e della navata si andò

affermando invece uno stile maggior-

mente improntato al gotico italiano,

segno del mutamento dei progettisti e

delle maestranze con il passare degli

anni.

Negli anni successivi, la basilica fu pro-

tagonista di importanti eventi per la

città ed il regno più in generale. San

Ludovico da Tolosa, rinunziatario al

trono del padreCarlo II d'Angiò, fu in-

fatti consacrato sacerdote in questa

basilica (celebre è il dipinto, oggi

al Museo di Capodimonte di Simone

Martini che rappresenta San Ludovico

di Tolosa che incorona il fratello Rober-

to d'Angiò). Altra consacrazione celebre

fu quella di Felice Peretti, vescovo

di Sant'Agata de' Goti, il futuro papa

Sisto V. Francesco Petrarca invece sog-

11

uff icialmente r iconosc iuta co-

me Specialità Tradizionale Garantita

(STG) della Comunità Europea. Essa si

presenta come una pizza tonda dalla

pasta morbida e dai bordi alti

(cornicione). Tale rigonfiamento del

cornicione è dovuto all'aria, che duran-

te la fase di manipolazione del panetto

si sposta dal centro verso l'esterno.

Nell'impasto classico napoletano non è

ammesso nessun tipo di grasso. Soltan-

to acqua, farina, lievito (di birra o na-

turale) e sale. Nella più stretta tradi-

zione prevede solo due varianti per

quanto riguarda il condimento:

P i z z a m a r i n a r a :

con pomodoro, aglio, origano e olio

extravergine di oliva.

P i z z a M a r g h e r i t a :

con pomodoro, mozzarella STG a listel-

li, mozzarella di bufala campana DOP a

cubetti o Fior di latte, basilico e olio

extravergine di oliva.

La cottura della pizza napoletana, infi-

ne, avviene sempre ed esclusivamente

tramite l'utilizzo del forno a legna.

Oggi la pizza napoletana è uno dei piat-

ti più diffusi al mondo ed è presente in

quasi tutti i ristoranti e locali di cucina

italiana all'estero con il nome pizza

napoletana o pizza Napoli.

La Pizza Margherita fu creata da Raffa-

ele Esposito nel 1889 per onorare la

Regina d’Italia Margherita di Savoia,

una pizza condita con pomodori, moz-

zarella e basilico, per rappresentare i

colori della bandiera italiana.

La prima vera unione tra la pasta e il

pomodoro avvenne a metà del Sette-

cento nel Regno di Napoli. Per alcuni

anni dopo che il pomodoro fu portato

in Europa dalle Americhe nel XVI seco-

lo, molti europei credevano che fosse

velenoso. Dal tardo XVIII seco-

lo tuttavia era comune per i poveri

della zona intorno a Napoli aggiungere

il pomodoro alle loro focacce, e così

nacque la pizza. Il piatto guadagnò in

popolarità e presto la Pizza divenne

un'attrazione turistica quando i visita-

tori a Napoli si avventuravano nelle

zone più povere della città per provare

le specialità locali. Fino al 1830 circa la

pizza era venduta in bancarelle ambu-

lanti e da venditori di strada fuori dai

forni. Alcune pizzerie mantengono viva

questa antica tradizione ancora oggi.

Quella che oggi è chiamata pizza Mar-

gherita era tuttavia già stata preparata

prima della dedica alla regina di Sa-

voia. Francesco De Bourcard

nel 1866 riporta la descrizione dei prin-

cipali tipi di pizza, ossia quelli che oggi

prendono nome di pizza marina-

ra, pizza margherita e calzone:

« Le pizze più ordinarie, dette coll'aglio

e l'oglio, han per condimento l'olio, e

sopra vi si sparge, oltre il sale, l'origa-

no e spicchi d'aglio trinciati minuta-

mente. Altre sono coperte di formaggio

grattugiato e condite collo strutto, e

Page 12: Non è la solita guida

12

allora vi si pone disopra qualche foglia

di basilico. Alle prime spesso si aggiun-

ge del pesce minuto; alle seconde delle

sottili fette di muzzarella. Talora si fa

uso di prosciutto affettato, di pomido-

ro, di arselle, ec. Talora ripiegando la

pasta su se stessa se ne forma quel che

chiamasi calzone. »

Sino al principio del Novecento la pizza

e le pizzerie rimangono un fenomeno

prettamente napoletano, e gradual-

mente italiano (nell'Italia settentriona-

le iniziò a diffondersi solo nel secondo

dopoguerra), poi, sull'onda dell'emigra-

zione, iniziano a diffondersi all'estero

ma soltanto dopo la seconda guerra

mondiale, adeguandosi ai gusti dei vari

paesi, diventano un fenomeno mondia-

le. Oggi il giro di affari legato alla pizza

(pizzerie, consegne a domicilio, surge-

lati, catene di fast food) è molto rile-

vante nel mondo, al punto che alcuni

abili imprenditori hanno costruito in-

torno alla pizza grandi fortune.

I puristi sostengono che esistono solo

due vere pizze: la “Marinara” e la

“Margherita”, ed è tutto ciò che servo-

no. La Marinara è la più antica e ha un

c o n d i m e n t o d i p o m o d o -

ro, origano, aglio, olio extra-vergine

d'oliva e solitamente basilico. Era chia-

mata “Marinara” non, come molti cre-

dono, perché contiene pesce ma per-

ché era il cibo che i pescatori mangia-

vano quando tornavano a casa dalle

lunghe giornate di pesca nella Baia di

Napoli. L'"Associazione Verace Pizza

Napoletana", fondata nel 1984, ricono-

sce solo la Marinara e la Margherita

verace ed ha stabilito le regole molto

specifiche che devono essere seguite

per un'autentica pizza Napoletana.

Queste includono che la pizza deve

essere cucinata in un forno a legno,

alla temperatura di 485 °C per non più

di 60-90 secondi; che la base deve es-

sere fatta a mano e non deve essere

utilizzato il mattarello o comunque non

è consentito l'utilizzo di mezzi mecca-

nici per la sua preparazione (i pizzaioli

fanno la forma della pizza con le loro

mani facendola "girare" con le loro di-

ta) e che la pizza non deve superare i

73

La fontana

La scelta della badessa, non fu però

basata solo su un mero giudizio esteti-

co, ma soprattutto funzionale, poiché il

chiostro dei Santi Marcellino e Festo

possedeva una rara qualità, ossia quella

di rispondere alle esigenze delle suore

di dominare, anche solo con lo sguardo,

il paesaggio urbano e quello naturale.

Cinque belvedere resero meno faticosa

la clausura: i due più bassi, ad esem-

pio, sono accanto alla cupola e sull'an-

golo orientale che fa da sfondo la cupo-

la di San Lorenzo.

Il terremoto del 1930, provocò danni

ingenti all'intero monastero e i restauri

successivi si rivelarono alquanto delu-

denti. Il fattore che ha sconvolto gli

esperti dei beni culturali, è notare che

fu demolita la splendida scala sette-

centesca che fece posto ai bagni

dell'orfanotrofio, a cui era stata desti-

nata parte del complesso religioso.

Il chiostro è caratterizzato da una

splendida fontana di controversia attri-

buzione[1]realizzata per richiesta della

badessa Violante Pignatelli e la stessa

è affiancata da due statue raffiguranti

il Cristo e laSamaritana, opere sculto-

ree di Matteo Bottiglieri. Inoltre, sono

ivi presenti decorazioni originali

ed aranci.

Il creatore della struttura idrica, rima-

sto sconosciuto, sempre sotto richiesta

della nobildonna, introdusse anche

delfini ed altri animali marini, masche-

re, ecc. tutte figure intrecciate, ele-

mento degno delbarocco napoletano,

avido di forme e di spazio. Accanto alla

fontana, invece, troviamo il pozzo che,

assunse tale struttura, solo per coprire

il foro dal quale fu estratto il materiale

tufaceo per le ricostruzioni.

Altra principale caratteristica del chio-

stro, sono le reti idriche ideate per

usufruire delle acque provenienti dal

condotto del Carmignano e quelle pio-

vane, dunque in maniera completa-

mente indipendente. I canali che face-

vano sopraggiungere l'acqua alle cister-

ne, vennero collocati su due archi ram-

panti sollevati tra l'orto e il portico

adiacente alla chiesa. Le cisterne furo-

no rivestite da volte a padiglio-

ne in lapillobattuto e rese accessibili

attraverso una piccola finestra, dalla

quale poteva passarci tranquillamente

un uomo. Il pozzo che raccoglieva le

acque piovane, invece, fu posizionato

lungo l'asse orientale. Ben 135 scalini

conducevano ai cunicoli dell'acquedot-

to e a numerosi depositi ricavati negli

ambienti sottostanti.

Il chiostro è formato da numerosi altri

ambienti, come ad esempio la farmaci-

Page 13: Non è la solita guida

72

L'altare maggiore, appoggiato alla pa-

rete fondale dell'abside, è opera

di Dionisio Lazzari; l'ancona, ospitante

l'Ascensione di Giovan Bernardo Lama,

è sormontata da una grata che costitui-

sce l'affaccio del Cappellone, o Coro

dell'abside, sulla chiesa.

Sulla sinistra del presbiterio,

il comunichino del 1610: da qui la ba-

dessa del convento soleva ascoltare la

messa e consentiva alle monache di

ricevere la comunione.

L'ambiente interno conserva ancora

oggi la Scala santa che, fino al secolo

scorso le monache erano obbligate a

salire in ginocchio tutti i venerdì del

mese di marzo come forma di peniten-

za.

Il chiostro

I l chiostro, per secoli negato alla citta-

dinanza comune, fu aperto a tutti

nel 1922 circa, quando la clausura fu

abolita.

La precisa data di fondazione della

struttura è alquanto sconosciuta, ma,

alcune fonti scritte, hanno fatto intuire

che il chiostro esistesse già in un perio-

do anteriore all'XI secolo. In una docu-

mento politico, infatti, viene menzio-

nata l'allora piccola chiesetta di San

Gregorio Armeno, affiancata da altre

tre chiesette. Tutte insieme, collocate

a poca distanza le une dalle altre, furo-

no unite per costituire un unico com-

plesso dedicato a San Gregorio Armeno:

le cui reliquie furono portate a Napoli

grazie alle monache basiliane che sfug-

girono alla guerra iconoclasta.

Ai primordi, il chiostro era stato conce-

pito con uno spazio verde rettangolare

ed adibito parzialmente ad orto e deli-

mitato da undici archi per dodici. Con i

dettami del Concilio di Trento, le suore

furono costrette a rimaneggiare l'intero

complesso monastico. La prima modifi-

ca, riguardò la chiesa stessa, cuore del

complesso religioso che, sempre secon-

do le disposizioni tridentine, doveva

essere esterna al convento. Il rimaneg-

giamento più accurato fu quello che

riguardò la struttura in oggetto, poiché

il chiostro, costituiva l'unico spazio

esterno delle suore, il loro giardino

personale che avrebbe dovuto essere,

secondo il loro gusto, il più accogliente

possibile.

Sotto richiesta della badessa Lucrezia

Caracciolo, le opere vennero affidate

a Giovanni Vincenzo Della Monica. Sot-

to consiglio della nobile, per l'edificio

in questione, l'architetto ed ingegnere

riprese il disegno del chiostro dei Santi

Marcellino e Festo: anch'essa sua pre-

gevole opera.

13

cano: da "E tu vuliv'a pizza" di un festi-

val della canzone napoletana degli anni

60, cantata da Aurelio Fierro insieme a

un improbabile Giorgio Gaber; a Pino

D a n i e l e , e c c .

La sua storia è strettamente intrecciata

con la storia di Napoli, e della sua ata-

vica fame. Il segreto dell'invenzione

della pizza napoletana, e del suo suc-

cesso nella stessa città che le ha dato i

natali, sta nella sua economicità;

nell'eccellenza dei suoi ingredienti,

prodotti in zona; nella facilità della sua

confezione; nel suo potere saziante (la

pasta della pizza continua a lievitare

nello stomaco); nel suo apporto calori-

co (la pasta per i carboidrati, la mozza-

rella per le proteine, il pomodoro per

le vitamine, i sali minerali e il licope-

ne , sos tanza ant i - o s s idante ) .

Gli ingredienti di base della pizza napo-

letana sono due: la mozzarella ('a moz-

zarella)e il pomodoro ('a pummarola),

ingred ient i ad a l to tasso d i

"napoletanità": sapientemente lavorati

e impiegati, hanno fatto della "pizza

napulitana" qualcosa di unico.

L e v i e d e l l a p i z z a

L’unione dei suoi ingredienti, unita alla

vivacità del popolo napoletano e

all’atmosfera che si respira per le vie

del centro storico di Napoli, fanno del

suo assaggio un momento memorabile

sia per il napoletano stesso, che per il

turista. Venire nella città partenopea

per molti, infatti, significa anche fare

un viaggio nella gastronomia del posto

e come si può non assaggiarne il simbo-

l o p e r e c c e l l e n z a ?

35 cm di diametro o essere spessa più

di un terzo di centimetro al centro.

L'associazione seleziona anche le pizze-

rie nel mondo per produrre e diffonde-

re la filosofia e il metodo della pizza

verace napoletana. Ci sono molte piz-

zerie famose a Napoli dove si possono

trovare queste pizze tradizionali, la

maggior parte di esse sono nell'antico

c e n t r o s t o r i c o d i N a p o l i .

Talvolta tali pizzerie andranno anche

oltre le regole specificate, ad esempio,

usando solo pomodori della varietà "San

Marzano" cresciuti sulle pendici del

Vesuvio e utilizzando solamente l'olio

di oliva e aggiungendo fette di pomodo-

ro in senso orario. Un'altra aggiunta

alle regole è l'uso di foglie di basilico

fresco sulla pizza marinara: non è nella

ricetta "ufficiale", ma è aggiunto dalla

maggior parte delle pizzerie napoleta-

ne per guarnirla.

Simbolo della città di Napoli e

dell’Italia nel mondo, la pizza e entrata

nella cultura come elemento distintivo

di un popolo e di una cultura. Nelle

canzoni, i riferimenti alla pizza si spre-

Page 14: Non è la solita guida

14

E’ nei decumani della città che si tro-

vano le principali pizzerie napoletane,

le più storiche e le più autentiche. La

via primaria quando si parla di pizza

resta sempre Via dei Tribunali ma il

centro storico pullula di pizzerie sia

nelle strade principali che secondarie.

Il percorso che vi viene proposto è in-

fatti tra i decumani della città, quindi

del centro storico con le sue chiese e le

sue piazze più importanti. Partendo dal

Decumano Maggiore (quello centrale) in

cui si trova Via dei Tribunali andremo a

quello Inferiore (detto anche Spaccana-

poli, più in basso) in cui c’è molto da

visitare e a quello Superiore (più in

alto) meno ricordato ma sempre pieno

d i f a s c i n o e s t o r i a .

Queste tre strade scorrono parallela-

mente l'una dall'altra attraversando da

est a ovest la città, parallelamente

rispetto alla costa. Il termine decuma-

no utilizzato in via ufficiale risulta in

realtà un termine improprio in quanto

esso caratterizza un sistema di urbaniz-

zazione di epoca romana mentre la

nuova zona urbana di Neapolis, venne

fondata come colonia greca, dunque

ben prima dell'avvento dei romani. Il

sistema greco prevedeva uno schema

stradale ortogonale in cui tre strade, le

più larghe e grandi, parallele l'una

all'altra, chiamate plateiai (singolare:

plateia), attraversavano l'antico centro

urbano suddividendolo in quattro parti.

Inoltre, tali vie principali vengono ta-

gliate perpendicolarmente, da nord a

sud, da altre strade più piccole chiama-

te stenopoi (singolare: stenopos) o più

impropriamente "cardini", le quali stra-

de oggi costituiscono i vicoli del centro

s t o r i c o c i t t a d i n o .

Oggi tutte e tre le vie principali del

nucleo antico fanno parte della porzio-

ne di centro storico di Napoli protetto

dall'Unesco e contengono al loro inter-

no un elevato numero di palazzi nobi-

liari, chiese monumentali e siti archeo-

logici della città.

I l D e c u m a n o M a g g i o r e

Oggi il decumano maggiore è una delle

strade più importanti del centro storico

di Napoli (dichiarato nel 1995 patrimo-

nio dell'umanità) e corrisponde all'o-

d i e r n a v i a d e i T r i b u n a l i .

Il decumano maggiore inizia grosso

71

Il prodigio, a differenza di quello di San

Gennaro, avrebbe avuto luogo negli

anni in modi e tempi diversi, ma secon-

do la tradizione, i martedì e il giorno

della festa di Santa Patrizia, il 25 ago-

sto.

Nella chiesa avverrebbero o sarebbero

avvenute anche altre liquefazioni di

santi celebri: San Giovanni Battista (il

29 agosto e talvolta il 24 giugno) e San

Pantaleone (l'ultimo sarebbe avvenuto

il 27 giugno del 1950).

Esterno

La facciata, seppur leggermente spro-

porzionata, presenta quat-

tro lesene toscane che le conferiscono

armonia di forma e struttura, con tre

finestroni in arcate in un primo tempo

sormontate da un timpano e successi-

vamente da un terzo ordine architetto-

nico.

L'atrio, severo e scuro, regge il piano

del coro con quattro pilastri e le relati-

ve piccole volte ad essi collegati.

Il portale principale presenta dei bellis-

simi battenti disegnati con originali

linee di ispirazione classica ed eseguiti

nel 1792. In ciascuno degli scomparti

dei tre battenti figurano rispettiva-

mente, intagliati a rilievo, San Loren-

zo, Santo Stefano e gli Evangelisti.

Superando l'atrio, si notano ai lati della

porta le iscrizioni che ricordano l'anno

di consacrazione della chiesa

nel 1579 e la dedicazione al santo ar-

meno. In una terza lapide è menziona-

ta la visita di Pio IX del 1849.

Interno

Navata

L'interno presenta una navata unica,

con quattro cappelle laterali e cinque

arcate per ciascun lato, che termina

con un'abside a pianta rettangolare,

sormontata da u-

na semicupola decorata con La gloria

di San Gregorio di Luca Giordano.

Cupola

Di straordinaria fattura è il soffitto a

cassettoni, realizzato nel 1580 dal pit-

tore fiammingo Teodoro d'Errico su

commissione della badessa del conven-

to Beatrice Carafa, i cui scomparti con

intagli dorati allocano tavole con la

raffigurazione della vita dei santi le cui

reliquie sono custodite nel complesso

conventuale.

Nelle quattro cappelle laterali destre

vi sono, tra l'al-

tro, L'Annunciazione di Pacecco De

Rosa, la Vergine del Rosario di Nicola

Malinconico e notevo-

li affreschi diFrancesco Di Maria. Sul

lato sinistro si può ammirare invece un

superbo San Benedetto attribuito al-

lo Spagnoletto.

Page 15: Non è la solita guida

70

pinacoteca con opere del Caravaggio e

di altri maestri.

S Gregorio Armeno: la chiesa ed il chio-

stro

La storia

Sorge sull'omonima via, l'antica Strada

Nostriana che prende il nome dal ve-

scovo Nostriano che nel V secolo fondò

il primo ospedale per i poveri ammala-

ti.

La chiesa sarebbe stata edificata sulle

rovine del tempio di Cerere attorno

al930, nel luogo che secondo la leggen-

da avrebbe ospitato il monastero fon-

dato da Sant'Elena Imperatrice, madre

dell'imperatore Costantino.

Altra leggenda vuole la presenza nel

luogo di un monastero di monache basi-

liane, seguaci di santa Patrizia che vi si

sarebbero stabilite dopo la morte della

santa, conservando le reliquie di san

Gregorio Armeno (che fu patriarca

di Armenia dal 257 al 331).

Nel 1009, in epoca normanna, il mona-

stero fu unificato a a quello dedicato

a San Pantaleone, assumendo la regola

benedettina.

Dopo il Concilio di Trento, a partire

dal1572, il complesso subì un profondo

rifacimento ad opera di Giovanni Vin-

cenzo Della Monica e Giovan Battista

Cavagna, con la chiesa collocata al

centro del convento.

Ulteriori rifacimenti ad opera

di Dionisio Lazzari furono del 1682.

Il miracolo di Santa Patrizia

Dal 1864 le spoglie della Santa furono

traslate nella chiesa, a suggello della

devozione dei napoletani per la vergi-

ne, discendente dell'imperato-

re Costantino che nel IV secolo naufra-

gò sulle coste della città, prendendo

alloggio nell'antico convento basiliano,

dove sarebbe morta il 13 agosto

del 365.

Nella quinta cappella a destra della

navata, vi sono le reliquie della Santa,

contenute in un pregevole reliquiario in

oro e argento.

Le doti miracolose di Santa Patrizia, già

note nel secolo XII, per il trasudamento

dellamanna che sarebbe avvenuto dalle

pareti sepolcrali che custodivano il

corpo della Santa, ed in seguito per la

liquefazione del sangue, hanno trovato

a Napoli nei secoli ed ancora oggi, eco

minore rispetto a quelle del più celebre

patrono della cittàSan Gennaro.

Tuttavia, capitando di imbattersi per

caso nella chiesa, un martedì mattina,

si può assistere, in un'atmosfera di ra-

refatto misticismo, al prodigio che av-

verrebbe in seguito alle impetrazioni

delle monache.

15

modo da Port'Alba e piazza Bellini

(dove sono presenti le prime mura gre-

che del centro storico di Napoli) conti-

nuando per via San Pietro a Majella e

per via dei Tribunali, la quale incrocia

con via Duomo per poi terminare al

Castel Capuano (nella foto accanto).

Quest'ultimo è il motivo per il quale, la

strada, è stata chiamata sin dal Cin-

quecento strada dei Tribunali. Infatti,

il castel Capuano, sin dagli inizi del XVI

secolo, per volontà di Don Pedro di

Toledo, assunse il ruolo di tribunale

della città. In posizione centrale di via

dei Tribunali si può incontrare piazza

San Gaetano, la quale sorge sull'area in

cui insisteva in epoca greca l'agorà del-

la città, divenuta poi in epoca romana

foro. Sempre sulla piazza, a testimo-

nianza di ciò, ci sono gli ingressi per la

Napoli sotterranea e per gli scavi di San

Lorenzo, i quali offrono importanti re-

sti della Neapolis greca. Inoltre dalla

piazza si accede verso sud a via San

Gregorio Armeno, cardine (o stenopos)

che unisce il decumano maggiore al

d e c u m a n o i n f e r i o r e .

Le altre piazze attraversate dal decu-

mano sono: piazzetta Miraglia, il largo

dei Girolamini e piazza Riario Sforza.

Su via dei Tribunali si affacciano nume-

rosi edifici di culto di significativa im-

portanza. Tra i principali vi sono la

Basilica di San Paolo Maggiore (nella

foto accanto), quella di San Lorenzo

Maggiore e la chiesa dei Girolamini.

Andando da ovest verso est, la prima

chiesa che si incontra è la basilica di

San Paolo Maggiore. Edificata alla fine

del VII secolo, la basilica è a tre navate

e ospita opere di Stanzione, Vaccaro e

Solimena. Di fronte alla basilica di San

Paolo Maggiore giace la Basilica di San

Lorenzo Maggiore, una delle più anti-

che chiese napoletane (è stata infatti

eretta nel XII secolo). La chiesa fu defi-

nita «grazioso e bel tempio» da Boccac-

cio, essendo progettata in chiaro stile

gotico francese. Più avanti vi è invece

la chiesa dei Girolamini che per motivi

storici, artistici e culturali, è tra i più

importanti luoghi di culto della città. Il

complesso arriva fino a fronteggiare il

duomo di Napoli che custodisce la più

antica biblioteca della città (seconda in

Italia) ed una importante quadreria che

Page 16: Non è la solita guida

16

espone dipinti di giovani artisti del

Seicento napoletano.

Tra gli altri siti storici situati lungo il

decumano maggiore abbiamo:

Conservatorio di San Pietro a Majella;

Chiesa di San Pietro a Majella;

Cappella dei Pontano;

Chiesa di Santa Maria delle Anime del

Purgatorio ad Arco (nella foto accanto);

Duomo di Napoli;

Pio Monte della Misericordia.

I l D e c u m a n o I n f e r i o r e

Il decumano inferiore, volgarmente

chiamato Spaccanapoli, in quanto divi-

de nettamente, con la sua perfetta

linearità, la città antica tra il nord e il

sud, è un'arteria viaria del centro anti-

co di Napoli ed è una delle vie più im-

portanti della città.

Il decumano inferiore divenne tra il

Medioevo e l'Ottocento importante sia

per i conventi degli ordini religiosi sia

per le abitazioni di uomini potenti che

vi abitarono. In origine il tracciato sor-

geva dalla piazza San Domenico Mag-

giore (nella foto sopra) e proseguiva

fino a via Duomo. In epoca romana, la

via si allungò e inglobò anche la zona

dell'attuale piazza del Gesù Nuovo co-

me testimoniano i resti delle terme

romane ritrovate sotto il chiostro della

basilica di Santa Chiara.

Il decumano si suddivide in tre spezzo-

ni:

Il tratto iniziava da piazza del Gesù

Nuovo (nella foto a destra) per prose-

guire per l'attuale via Benedetto Croce,

passando per piazza San Domenico

Maggiore, piazzetta Nilo e largo Corpo

di Napoli;

La parte centrale è via San Biagio dei

Librai;

Invece, via Giudecca Vecchia, una par-

te di Forcella, superato l'incrocio con

via Duomo, costituisce il tratto finale

del decumano.

L a m o d e r n a c o n c e z i o n e d i

"Spaccanapoli" invece include anche le

espansioni che si sono avute nel corso

del XVI secolo le quali hanno visto al-

lungare il tratto iniziale fino ai Quartie-

ri Spagnoli.

69

più chiostri, arrecando danni al patri-

monio artistico-architettonico che ca-

ratterizzava la via.

Tra i numerosi monumenti presenti nel

Decumano maggiore vale la pena sof-

fermarsi sulla Chiesa dei Girolamini.

La chiesa dei Girolamini fa parte di un

vasto complesso monumentale al quale

si accede da Via Duomo.

Nell'omonima piazza, su Via Tribunali,

si affaccia la Chiesa, fondata nel 1592,

fu eretta a spese dei padri dell'ordine

di San Filippo Neri, dell'Oratorio, venuti

la prima volta a Napoli nel 1586.

Il progetto della Chiesa è di Giovanni

Antonio Dosio nelle forme classiche

toscane. Dopo la sua morte l'opera fu

continuata da Dionisio Nencioni di Bar-

tolomeo che la ultimò nel 1619.

La cupola ed il frontespizio sono opera

di Dionigi Lazzari. La facciata fu rifatta

da Ferdinando Fuga nel 1780 in marmi

pregiati. Sul portale si vedono le Tavole

della Legge scritte in caratteri ebraici.

Ai lati due campanili gemelli dotati di

orologi.

La parte superiore della facciata è al-

leggerita da un finestrone rettangolare

sormontato da un timpano sul quale

svetta un coronamento costituito da un

timpano arcuato spezzato al centro del

quale si inalza un setto decorato con

l'immagine della Maternità.

Nelle nicchie del prospetto sono collo-

cate delle statue iniziate da Cosimo

Fanzagoe ultimate da Giuseppe Sam-

martino, altre statue dello stesso auto-

re sono collocate sul portale.

Interno della chiesa

L'interno è molto vasto e presenta una

pianta a croce latina suddivisa in tre

navate per mezzo di 24 colonne di gra-

nito (12 per lato).

Le cappelle sono 12 tutte decorate da

artisti di estrazione toscana, romana

ed emiliana.

Sulla controfacciata c'è un affresco di

Luca Giordano.

Le sculture sono del Bernini, mentre il

soffitto a cassettoni fu realizzato nel

1627.

La "Domus Aurea"

Per la sua decorazione barocca in oro,

la chiesa fu detta "la Domus Aurea" e

custodisce i resti mortali di Giambatti-

sta Vico che nell'Oratorio lavorò a lun-

go per ordinare ed ampliare la famo-

sa biblioteca ricca di oltre 60.000 fra

libri e incunabili.

Il Complesso monumentale dei Padri

Girolamini, comprende, oltre la Chiesa

omonima, il convento e due chiostri;

quello maiolicato e quello "segreto"

degli aranci. Segreto perché tutti san-

no dell'esistenza di un chiostro degli

aranci, ma pochi ne conoscono l'ubica-

zione.

- Pio monte della misericordia: con una

Page 17: Non è la solita guida

68

quella Medioevale, Rinascimentale fino

all'unificazione d'Italia. Essi costituisco-

no, nella pianta di Ippodamo da Mileto,

tre assi viari di Neapolis, città nuova

(470 a.C.) che vanno da est ad ovest,

intersecati da venti stradine denomina-

te "cardini". Dove si intersecano i decu-

mani ed i cardini sorgono le insule con

la contemporanea presenza di palazzi

pubblici sacri e palazzi nobiliari privati.

L'elemento religioso e l'elemento nobi-

liare, fortemente uniti, hanno determi-

nato la privatizzazione degli spazi.

Di particolare interesse è il decumano

maggiore.

Il decumano maggiore è un'arteria via-

ria del centro antico di Napoli e, insie-

me al decumano inferiore e aldecuma-

no superiore, una delle tre strade prin-

cipali dell'antico impianto urbano gre-

co.

La strada, urbanisticamente la più im-

portante delle tre, costituisce il cuore

dei decumani di Napoli.

Oggi il decumano maggiore è una delle

strade più importanti del centro storico

di Napoli (dichiarato

nel1995 patrimonio dell'umanità) e

corrisponde all'odierna via dei Tribunali

seguendo ancora interamente l'antico

asse viario greco.

Proprio perché si tratta di una struttura

stradale originaria dell'antica Grecia,

sarebbe più opportuno parlare

di plateia e non di "decumano", deno-

minazione di epoca romana che per

convenzione ha sostituito l'originaria.

Il decumano maggiore inizia grosso

modo da port'Alba e piazza Belli-

ni (dove sono presenti le prime mura

greche del centro storico di Napoli)

continuando per via San Pietro a Majel-

la e per via dei Tribunali, la quale in-

crocia con via Duomo per poi terminare

al Castel Capuano. Quest'ultimo è il

motivo per il quale, la strada, è stata

chiamata sin dal Cinquecento strada

dei Tribunali. Infatti, il castel Capuano,

sin dagli inizi del XVI secolo, per volon-

tà di Don Pedro di Toledo, assunse il

ruolo di tribunale della città. In posi-

zione centrale di via dei Tribunali si

può incontrare piazza San Gaetano, la

quale sorge sull'area in cui insisteva in

epoca greca l'agorà della città, divenu-

ta poi in epoca romana foro. Sempre

sulla piazza, a testimonianza di ciò, ci

sono gli ingressi per la Napoli sotterra-

nea e per gli scavi di San Lorenzo, i

quali offrono importanti resti del-

la Neapolisgreca.

Il percorso fu duramente deturpato

all'altezza di piazza Miraglia con la co-

struzione del vecchio Policlinico alla

fine del XIX secolo, distruggendo un'e-

norme quantità di edifici storici, per lo

17

Lungo via San Biagio dei Librai, uno dei

cardini (o stenopos) che sale verso

nord, collegando il decumano inferiore

a quello maggiore, è via San Gregorio

Armeno.

Su Spaccanapoli si affacciano numerosi

edifici di culto di significativa impor-

tanza, centri della cristianità napoleta-

na. Tra i principali vi sono la chiesa del

G e s ù N u o v o c o n l ’ o b e l i s c o

dell’Immacolata, quella di Santa Chiara

e quella di San Domenico Maggiore con

l’obelisco di San Domenico.

Il primo che si incontra partendo da

piazza del Gesù è la chiesa del Gesù

Nuovo, o della Trinità Maggiore. Di

fronte alla chiesa del Gesù Nuovo è la

basilica di Santa Chiara, con l'annesso

complesso monastico. Voluta da Rober-

to d'Angiò nel XIV secolo, la chiesa si

presenta subito con una sobria e impo-

nente facciata, con un grande rosone

centrale. Gli interni, ospitano anche la

tomba della dinastia dei Borbone. Più

avanti vi è invece il complesso di San

Domenico Maggiore, tra i più antichi,

grandi e storicamente e culturalmente

rilevanti della città.

Tra gli altri luoghi di interesse storico,

lungo il decumano inferiore, abbiamo:

Chiesa di Sant'Angelo a Nilo;

Palazzo Pignatelli di Toritto;

Chiesa di Santa Maria Assunta dei Pi-

gnatelli;

Chiesa di Sant'Angelo a Nilo.

Il Decumano Superiore

E’ il "decumano" più alto e corrisponde

alle attuali vie della Sapienza, via

dell'Anticaglia e via Santi Apostoli. A

causa dei numerosi rifacimenti subiti

nel corso dei secoli, il tracciato non

risulta essere "lineare" in diversi punti

essendosi perso, dunque, l'originario

aspetto.

Lungo il tracciato del Decumano supe-

riore si conservano importanti struttu-

re e mura di epoca greca o romana

imperiale, nonché diversi edifici reli-

giosi e civili di primaria importanza tra

i quali ricordiamo:

Chiesa di Santa Maria della Sapienza;

Complesso degli Incurabili;

Teatro romano di Neapolis;

Page 18: Non è la solita guida

18

Il rosso pompeiano è un'ocra rossa di

origine inorganica naturale (ematite),

composto da ossido di ferro. Nell'antica

Roma era conosciuto con il nome di

sinopsis, dovuto alla città di Sinope

dove secondo Plinio fu rinvenuto la

prima volta. A Pompei, da cui il nome,

così come in altre città dell'antica Ro-

ma, ci sono vari esempi di pitture mu-

rali in cui è usato questo pigmento i-

norganico. È’ conosciuto anche con i

nomi di rosso Ercolano, terra di Pozzuo-

li, rosso inglese, ematite e terra rossa

di Verona. Inizialmente veniva prepara-

to con degli scarti di lavorazione del

cinabro, da cui l'elevato costo di produ-

zione che ne limitava l'utilizzo ai casi di

estrema necessità.

Dato che il cinabro contiene notevoli

quantità di mercurio, ed è quindi noci-

vo per la salute, il colore è stato gra-

dualmente sostituito dal vermiglione

(più sull'arancione), dall'ocra rossa, dal

rosso di Marte e dal Rosso di Pozzuoli;

questi ultimi due sono miscele di ossidi

e idrossidi di ferro (tra cui l'ematite).

In realtà il rosso pompeiano era un gial-

lo, modificato dai gas dell'eruzione

vesuviana. Gran parte del colore che

caratterizza le pareti delle ville di Er-

colano e di Pompei in origine era un

giallo ocra. Ciò è stato dedotto

grazie ad alcune indagini che hanno

accertato che il colore simbolo dei siti

archeologici campani, in realtà, è frut-

to dell'azione del gas ad alta tempera-

tura la cui fuoriuscita precedette l'eru-

zione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo

Cristo. Pompei è una delle piu’ signifi-

cative testimonianze della civiltà roma-

na e si presenta come un libro aperto

sull’arte, i costumi,sui mestieri,sulla

vita quotidiana del passato.La città è

riemersa così come era al momento in

Rosso pompeiano

67

serbava rancore e vendetta, ed un gior-

no la sua donna, per intenerirlo gli pre-

parò un piatto di maccheroni. La prov-

videnza riempì il piatto di una salsa

piena di sangue. Finalmente, commosso

dal prodigio, l'ostinato signore, si rap-

pacificò con i suoi nemici e vestì il

bianco saio della Compagnia. Sua mo-

glie in seguito all'inaspettata decisione,

preparò di nuovo i maccheroni, che

anche quella volta, come per magia,

divennero rossi. Ma quel misterioso

intingolo aveva uno strano ed invitante

profumo, molto buono ed il Signore

nell'assaggiarla trovò che era veramen-

te buona e saporita. La chiamo' cosi'

"raù" lo stesso nome del suo bambino.

Caratteristiche

Originariamente costituiva il piatto

unico della domenica, in quanto il sugo

veniva utilizzato per condire la pasta, e

la carne consumata come seconda por-

tata. I tipi di carne impiegati nella pre-

parazione del ragù sono numerosi, e

possono variare anche da quartiere a

quartiere, ed inoltre, questa non è

macinata ma è cotta a pezzi grossi, da

500 g fino a un kg, tagliati a mo' di

grossa bistecca, farcita con ingredienti

vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame

o lardo, noce moscata, prezzemolo) e

legata con uno spago. Generalmente

viene utilizzato un misto di carne di

manzo (tagli anteriori e poco pregiati,

che necessitano di lunga cottura) e di

maiale. Troviamo il muscolo di manzo

(gamboncello o piccione), le spuntatu-

re di maiale (tracchie), l'involtino di

cotenna (cotica), la polpetta e la bra-

ciola, termine che viene usato però per

indicare un involtino di carne di manzo

ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli,

uva passa e dadini di formaggio.

Tradizionalmente, la preparazione del

ragù inizia di buon mattino, in quanto

la salsa deve addensarsi molto, cuo-

cendo a fuoco lento, fino a diventare

di una consistenza molto cremosa,

prima di poter condire degnamente

una buona pastasciutta. In molte va-

rianti del ragù napoletano viene impie-

gato anche un cucchiaio di concentrato

di pomodoro.

Itinerario proposto

E’ il centro storico di Napoli ad essere

la cornice perfetta per una non solo

degustazione del ragù, ma anche di

una esperienza sensoriale e culturale

di inestimabile valore.

IL CENTRO STORICO

Aristotele, uno dei più grandi filosofi

Greci disse "l'armonia è nel contrasto"

e Napoli ben rappresenta questo con-

cetto attraverso i suoi Decumani, supe-

riore, maggiore ed inferiore, che por-

tano dalla Napoli Greco-Romana a

Page 19: Non è la solita guida

66

dialetto napoletano di questi termini

derivati dal francese, avviene proprio

nel periodo a cavallo fra il diciottesimo

ed il diciannovesimo secolo quando,

sotto il regno di Ferdinando IV di Bor-

bone vi fu una grande influenza della

cultura e delle mode francesi nella

corte Borbonica.

Ferdinando IV di Borbone era diventato

contemporaneamente re di Napoli, col

titolo di Ferdinando IV, e re di Sicilia,

con il nome di Ferdinando III, alla gio-

vane età di otto anni, a seguito della

nomina del padre Carlo come re di Spa-

gna. Aveva poi sposato Maria Carolina

di Asburgo Lorena figlia di Maria Teresa

d'Asburgo Imperatrice d'Austria. Ferdi-

nando fu spodestato dal regno di Napoli

nel 1805 da Napoleone che lo sostituì

prima con il fratello Giuseppe e poi con

il cognato Gioacchino Murat. Ferdinan-

do fu poi restaurato dal Congresso di

Vienna nel 1816, ma per motivi di ca-

rattere politico, i due regni di Napoli e

di Sicila furono riunificati nel Regno

delle due Sicilie e pertanto Ferdinando

assunse il titolo di Ferdinando I Re del-

le Due Sicile.

A proposito di queste vicende storiche

riporto un gustoso epigramma contro il

Re scritto da un anonimo siciliano che

mal sopportava questa riunificazione

che sanciva una subalternità della Sici-

lia rispetto a Napoli.

Fosti quarto ed insieme terzo,

Ferdinando, or sei primiero:

e, se seguita lo scherzo,

finirai per esser zero.

Durante il periodo fascista, il regime

tentò di "italianizzare" il termine, visto

come non puramente italiano e quindi

non consono al vocabolario fascista,

trasformandolo in ragutto.

La leggenda del ragù

A Napoli alla fine del 1300 esisteva la

Compagnia dei Bianchi di giustizia che

percorreva la città a piedi invocando

"misericordia e pace". La compagnia

giunse presso il "Palazzo dell'Imperato-

re" tuttora esistente in via Tribunali,

che fu dimora di Carlo, imperatore di

Costantinopoli e di Maria di Valois figlia

di re Carlo d'Angiò. All'epoca il palazzo

era abitato da un signore nemico di

tutti, tanto scortese quanto crudele, e

che tutti cercavano di evitare. La pre-

dicazione della compagnia convinse la

popolazione a rappacificarsi con i pro-

pri nemici, ma solo il nobile che risie-

deva nel "Palazzo dell'Imperatore" deci-

se di non accettare l'invito dei bianchi

nutrendo da sempre antichi e tenaci

rancori. Non cedette neanche quando il

figliolo di tre mesi, in braccio alla balia

sfilò le manine dalle fasce ed incro-

ciandole gridò tre volte: "Misericordia e

pace". Il nobile era accecato dall'ira,

19

cui venne sommersa dall’eruzione vul-

canica del 79 d.c. Lo spesso strato di

cenere e lapilli che hanno ricoperto la

città ha permesso che arrivasse integra

fino alla scoperta nel 700,in ogni suo

minimo dettaglio.Notevole scoperta si

ha anche per quanto riguarda la pittura

romana che senza i ritrovamente di

Pompei sarebbe del tutto sconosciuta.

Il fascino dei siti archeologici vesuviani

è stato tale, nel corso dei secoli, che

nel gusto europeo si è posta

l’attenzione non solo dal punto di vista

cromatico ma verso tutta l’estetica che

pervase soprattutto a inizio 800 e si

impose in Europa sia nel gusto

dell’arredamento delle case borghesi

sia nel modo di vestirsi e acconciarsi

delle donne europee. Questo stile è

definito neoclassico. I lavori di scavo

dei siti vesuviani furono promossi da Re

Carlo III di Borbone, il quale realizzò un

Museo che custodisse tutti i reperti

rinvenuti, ma fu durante il regno di

Gioacchino Murat e sua moglie Caroli-

na Bonaparte che lo stile neoclassico

ebbe la sua diffusione a Napoli.Il colore

è stato enormemente utilizzato a Napo-

li, e non solo, per la costruzione di

molti edifici importanti,dai quali pos-

siamo creare un itinerario che porterà

il turista ad addentrarsi tra le zone più

belle della città. Partiamo da uno degli

edifici più importanti e significativi

della nostra Napoli,Palazzo Reale che

si eregge maestoso nella famosa piazza

Plebiscito,ricco di storia e testimo-

nianza del susseguirsi delle varie domi-

nazioni napoletane, il palazzo ospita

anche delle sale interne che con il loro

colore rosso pompeiano ricordano e

richiamano le sale delle ville di Ercola-

no e Pompei. Nel corso della sua storia,

il palazzo divenne la residenza dei vari

sovrani spagnoli, austriaci e, in seguito,

dei re di casa Borbone. Dopo l'Unità

d'Italia fu nominata residenza napoleta-

na dei sovrani di casa Savoia. Il palazzo

fu costruito nel Seicento da Domenico

Fontana. Esso avrebbe dovuto ospitare

il re Filippo III di Spagna, atteso a Na-

poli con la sua consorte per una visita

ufficiale che non avvenne mai. Il palaz-

zo doveva essere degno di altre resi-

denze europee, dato il suo compito di

essere stato costruito nella seconda

città dell'Impero spagnolo dopo la capi-

tale amministrativa a Madrid. Esso fu

costruito nello stesso posto in cui esi-

steva un'altra residenza vicereale, vo-

luta cinquant'anni prima dal viceré don

Pedro de Toledo. La scelta di costruire

la nuova reggia nella stessa zona in cui

sorgeva la "vecchia" testimonia dunque

l'importanza che aveva quella zona

della città, che assicurava una certa

vicinanza al porto e quindi una certa

facilità di fuga in caso di invasioni ne-

miche.

Page 20: Non è la solita guida

20

I lavori Di costruzione del palazzo an-

darono a rilento fino al 1610, , pochi

anni dopo erano completate la facciata

principale, su "largo di Palazzo", ed il

cortile. Intorno al 1620 furono comple-

tati anche alcuni ambienti interni del

palazzo, affrescati da Battistello Carac-

ciolo, Giovanni Balducci e Belisario

Corenzio, nonché la cappella reale

dell'Assunta, nella quale lavorò venti-

quattro anni dopo Antonio Picchiatti

eseguendo alcuni elementi decorativi.

Nel 1734, con il dominio di Carlo di

Borbone, il palazzo divenne dimora

reale borbonica. Il nuovo re di Napoli,

in occasione delle nozze con Maria A-

malia di Sassonia avvenute nel 1738,

fece rinnovare alcuni ambienti interni

chiamando artisti come Francesco De

Mura e Domenico Antonio Vaccaro. In

contemporanea a questi lavori, Carlo si

impegnò anche per l'edificazione di

altre tre importanti regge: quella di

Capodimonte, di Portici e quella di

Caserta. Le opere di ammodernamento

iniziate in quegli anni furono poi ripre-

se più intensamente dal figlio Ferdinan-

do IV di Borbone, che, in occasione

delle nozze con Maria Carolina d'Au-

stria, trasformò la gran sala del periodo

vicereale in teatrino di corte. A com-

piere tali lavori fu ancora una volta

Ferdinando Fuga. Infine, durante la

prima metà del Settecento, fu realizza-

ta e conclusa la parte che da sul mare.

Alla fine del Settecento fu costruita

l'ala del palazzo che dà verso il Maschio

Angioino, divenuta poi nel 1927 la Bi-

blioteca nazionale Vittorio Emanuele

III.

Durante l’inizio dell’ 800 fu arricchito

da Gioacchino Murat e Carolina Bona-

parte con decorazioni e arredamenti

neoclassici; fu danneggiato da un in-

cendio nel 1837 e successivamente

restaurato per mano di Gaetano Geno-

vese che ampliò e regolarizzò, senza

stravolgerla, l'antica fabbrica. In quel

periodo furono aggiunte alla struttura

l'"Ala delle feste" e una nuova facciata

prospiciente il mare, caratterizzata da

un basamento di bugnato e da una tor-

retta-belvedere. Con Genovese, il pa-

lazzo si poté dire definitivamente com-

pletato.

65

http://www.taccuinistorici.it/

Il ragù napoletano è una salsa che ha

una lunga storia e che ha subito note-

voli evoluzioni nel corso del tempo.

L'antenato del ragù napoletano è un

piatto molto antico e di tradizione po-

polare. Esso deriva da un piatto della

cucina popolare medioevale provenzale

che aveva nome "Daube de boeuf" e

che era uno stufato di carne di bue,

parti molto coriacee, mescolate a ver-

dure e cotto lungamente in un reci-

piente di creta. Questo piatto pare

risalga al tredicesimo/quattordicesimo

secolo.

Il "ragout", invece, che è un piatto

francese posteriore, è sempre uno stu-

fato con verdure, ma, generalmente, di

carne di montone.

Il termine francese ragout deriva

dall'aggettivo "ragoutant" che significa

allettante, appetitoso o stuzzicante.

Questo tipo di preparazione francese

inizia a comparire nella cucina napole-

tana dal diciottesimo secolo, però co-

me piatto di mense ricche realizzato

con carni di manzo o di vitello qualità e

ancora senza pomodoro. Di esso parla

già Vincenzo Corrado nel suo libro "Il

cuoco galante" che risale alla prima

metà del settecento. Dello stufato par-

la anche Ippolito Cavalcanti nelle pri-

me edizioni della sua "Cucina teorica

pratica" che risalgono alla prima metà

dell'ottocento e cita anche per la prima

volta dei maccheroni conditi con sugo

di stufato e formaggio grattuggiato.

Nelle edizioni sucessive qualche volta il

Cavalcanti parla del sugo di stufato con

il nome di "brodo rosso", senza però

citare esplicitamente il pomodoro fra

gli ingredienti di cottura dello stufato.

In una delle ultime edizioni infine cita

per la prima volta la parola "ragù" rife-

rendosi ai maccheroni nel seguente

contesto:

"...li frammezzerai in zuppiera con

once 12 di parmigiano grattuggiato e

sugo di carne ovvero brodo di ragù". Ma

anche in questo caso non specifica se

vi entri o meno il pomodoro.

Dell'uso del pomodoro nel ragù, invece,

parla, forse per la prima volta, Carlo

Dal Bono che nella sua opera "Usi co-

stmi di Napoli" risalente al 1857, cosi

descrive la distribuzione dei macchero-

ni da parte dei tavernai.

"Talvolta poi dopo il formaggio si tingo-

no di color purpureo o paonazzo, quan-

do cioè il tavernaio del sugo di pomo-

doro o del ragù (specie di stufato) co-

pre, quasi rugiada di fiori, la polvere

del formaggio".

La parola ragù, ovviamente, è una de-

formazione del termine francese

"ragout" che rispecchia la sua effettiva

pronuncia. Questa è un deformazione

tipica del dialetto napoletano che ri-

troviamo anche nei termini: sartù,

gattò, crocchè, purè. L'acquisizione nel

Page 21: Non è la solita guida

64

re puntuale e,invece…

Intanto il mio pensiero corre,grazie

all’intenso odore di ragù che permane

nelle narici nonostante abbia messo

una certa distanza da me e la casa da

cui l’odore fuoriusciva consistente e

tenace,alle tante domeniche della mia

infanzia in cui si andava a pranzo dalla

nonna. Non importava quale delle du-

e,era la nonna, quella persona calda ed

accogliente che sapeva con un sorriso e

un abbraccio arrivare al mio cuore.

Il pranzo domenicale,nella mia fami-

glia, ha sempre occupato un ruolo ceri-

moniale ben preciso e il bello era che

sia che si trattasse della nonna paterna

che di quella materna , noi non poteva-

mo esimerci dall’esserci, a turno, una

domenica dall’una e una dall’altra.

Il ragù ,sebbene talvolta sostituito da

altre prelibatezze, restava il must della

tavola domenicale e per noi tutti era

sempre una festa. Personalmente tro-

vavo quel rituale confortante e rassicu-

rante, mi faceva sentire amata e pro-

tetta . Anche mia madre cucina bene e

sa fare tante cose diverse da quelle che

cucinavano le mie nonne.

Ma, come diceva mio padre e ,a dire il

vero sosteneva anche lei stessa, non

c’era paragone,proprio come nella ce-

leberrima poesia di Eduardo 'O 'rraù

'O rraù ca me piace a me

m' 'o ffaceva sulo mammà.

A che m'aggio spusato a te,

ne parlammo pè ne parlà.

Io nun songo difficultuso;

ma luvàmmel' 'a miezo st'uso

Sì,va buono: cumme vuò tu.

Mò ce avéssem' appiccecà?

Tu che dice? Chest' 'è rraù?

E io m' 'o mmagno pè m' 'o mangià...

M' ' a faja dicere na parola?...

Chesta è carne c' ' a pummarola

Sono arrivata in piazza, finalmente! E

Martina? Non la vedo…va bene,ho fatto

un po’ tardi ma ,dov’è?

Mi guardo in giro e la individuo che sta

chiedendo informazioni ad un vigile:

cosa vorrà mai? Siamo entrambi a pie-

di…eccola che si dirige verso me

-Ciao,cosa chiedevi?

-Mi hanno detto di un posto qui a Napo-

li dove servono il ragù e puoi pagarlo a

minuti,ne sai qualcosa?

-Certo,ne ho già fatto una scorpaccia-

ta…ora ti porto io. Assaggerai qualcosa

di divino,credimi.

Adesso è davvero domenica!-penso

mentre seguo, “ a naso” il percorso per

raggiungere questo luogo del gusto e

del ricordo.

Il ragù tra storia e leggenda

abstract dal testo a cura del QUESTO-

RE AIGS Messina Lorenzo Fabrizio Guar-

nera

21

A fine 800, per volere di Umberto I, le

nicchie esterne furono occupate da

gigantesche statue dei re di Napoli:

Ruggero il Normanno, Federico II di

Svevia, Carlo I d'Angiò, Alfonso I d'Ara-

gona, Carlo V d'Asburgo, Carlo III di

Borbone, Gioacchino Murat e Vittorio

Emanuele II di Savoia.

Le statue sono esposte in ordine cro-

nologico rispetto alla dinastia di appar-

tenenza che ha regnato in città e que-

ste iniziano con il primo re di Sicilia,

Ruggero il Normanno, il primo re a re-

gnare sulla città, e finiscono con Vitto-

rio Emanuele II, la più grande in altez-

za e la più discussa scultura presente

nella facciata della residenza reale,

aggiunta per ultima sotto la volontà

dello stesso re che però non fu mai

sovrano di Napoli, bensì d'Italia. Da

notare inoltre la presunta volontà dei

Savoia di occultare la dinastia dei Bor-

bone, una delle più influenti della città

partenopea, dalla storia della città.

Infatti, nessuna delle statue volute

sulla facciata del palazzo, rappresenta

un re borbonico e, l'unica che apparen-

temente sembrerebbe appartenere a

tale dinastia, Carlo di Borbone, viene

in realtà incisa col nome di Carlo III,

lasciando quindi alludere alla dinastia

spagnola e non napoletana, nella quale

invece assumeva il titolo di Carlo VII di

Borbone. I bombardamenti subiti du-

rante la Seconda guerra mondiale e le

successive occupazioni militari causa-

rono al palazzo gravissimi danni che

resero necessario un restauro condotto

dalla Soprintendenza ai Monumenti.

Entrati nel Palazzo si accede al Cortile

d'Onore che conserva l'impronta archi-

tettonica di Domenico Fontana. Di

fronte allo stesso cortile, vi è una fon-

tana ottocentesca con la statua della

Fortuna.

Da sinistra del lato orientale del cortile

d'Onore, si giunge al cortile delle car-

rozze, adibito proprio al passaggio del-

le stesse. Un altro cortile è situato

all'ingresso laterale del palazzo posto

di fronte alla Galleria Umberto I. Il

suddetto spazio ospita la scultura l'Ita-

lia turrita e stellata di Francesco Liber-

ti ed il giardinetto circostante è il giar-

dino d'Italia, realizzato da Gaetano

Page 22: Non è la solita guida

22

Genovese .Altri giardini, i giardini pen-

sili, sono posti al primo piano dell'edifi-

cio e offrono una splendida vista sul

porto di Napoli e sul Vesuvio. L'area dei

Giardini è stata adibita al verde già dal

XIII secolo al tempo della dinastia an-

gioina. Nel periodo dei viceré è stata

invece sistemata a parco e arricchita

con statue, viali e "giardini segreti".

Nella metà del XIX secolo l'architetto

Gaetano Genovese condusse i lavori di

ampliamento e restauro del palazzo, e

affidò i giardini alle cure del botanico

Federico Corrado Denhart, il quale in-

serì numerose magnolie, lecci e piante

rare. Fu così che il Giardino acquistò un

nuovo aspetto "all'inglese" e divenne

meta ambita dei visitatori.

In fondo ai Giardini vi sono le Scuderie

Ottocentesche, fiancheggiate dal ma-

neggio e adibite attualmente ad uso

espositivo. Si accede all'appartamento

storico per il monumentale e luminoso

Scalone d'onore che fu progettato da

Francesco Antonio Picchiatti e successi-

vamente sistemato e decorato da Gae-

tano. Lo Scalone è decorato da marmi

bianchi e rosati, da trofei militari e

bassorilievi allegorici. Notevole la ricca

balaustra di marmo traforato.

All'interno delle sale del palazzo sono

presenti dipinti di importanti artisti

che hanno operato nella Napoli borbo-

nica. Si distinguono le opere eseguite

dal Guercino, da Andrea Vaccaro, da

Mattia Preti, dallo Spagnoletto, dal

Tiziano da Massimo Stanzione, da Fran-

cesco De Mura, da Battistello Caraccio-

lo e da Luca Giordano. Infine, sono

presenti tele paesaggistiche di Filippo e

Nicola Palizzi e di Consalvo Carelli.

Le stanze e gli arredi usati più quoti-

dianamente non sono sopravvissuti alla

devastazione del palazzo causata du-

rante l'ultima guerra. Essa ha danneg-

giato anche i parati borbonici, rifatti

nella metà del XX secolo sugli stessi

telai antichi delle Seterie Borboniche

della Fabbrica di San Leucio presso

Caserta. Le testimonianze più impor-

tanti della decorazione seicentesca

d'origine sono gli affreschi di soggetto

storico di gusto tardo-manierista che

abbelliscono le sale più antiche con

cicli di pitture destinate ad esaltare

gloria e fortuna degli spagnoli vincitori.

63

vicolo sta cucinando il ragù.

Che delizia! L’olfatto si rallegra ed io

adesso sono certa che è domenica!

Che il sapore e l’odore di una pietanza

o di un alimento possa portare alla

mente immagini latenti del tempo per-

duto non è una scoperta. Anzi.

E ‘ un’asserzione comune anche grazie

a Marcel Proust che narra in modo mi-

nuzioso l’effetto dell’odore di una ma-

deleine inzuppata nel tiglio.

Una sera d’inverno, appena rincasato,

mia madre accorgendosi che avevo

freddo, mi propose di prendere, contro

la mia abitudine, un po’ di tè.[…] por-

tai macchinalmente alle labbra un cuc-

chiaino del tè nel quale avevo lasciato

inzuppare un pezzetto della maddale-

na. Ma appena la sorsata mescolata

alle briciole del pasticcino toccò il mio

palato, trasalii, attento al fenomeno

straordinario che si svolgeva in me. Un

delizioso piacere m’aveva invaso, isola-

to, senza nozione di causa. [...]

All’improvviso il ricordo è davanti a

me. Il gusto era quello del pezzetto di

maddalena che a Combray, la domeni-

ca mattina, quando andavo a darle il

buongiorno in camera sua, zia Leonia

mi offriva dopo averlo inzuppato nel

suo infuso di tè o di tiglio…."

M. Proust, Dalla parte di Swann

Come una scintilla,quindi, un certo

profumo casualmente risentito a di-

stanza di tempo può immediatamente

ridestare in noi un’ondata di ricordi

sopiti, lasciando riaffiorare, con dovizia

di particolari, esperienze della nostra

esistenza passata che ci sembravano

definitivamente rimosse.

L’odore è infatti il più grande alleato

dei ricordi: ci permette di viaggiare nel

tempo e perciò fa sì che l’olfatto venga

eletto a senso privilegiato dalla memo-

ria. Un odore o un profumo già sentiti

hanno l’impareggiabile potere di rima-

terializzare anche i nostri ricordi inti-

mi, di renderci presenti eventi lontani,

riportandoci improvvisamente a una

scena dell’infanzia, a un paesaggio o a

un episodio della nostra vita passata –

rievocato con ricchezza di particolari

attraverso una semplice zaffata – e

innescando, a seconda dei casi, la no-

stra nostalgia, la nostra malinconia, la

nostra gioia o la nostra tristezza. Nes-

sun altro dato sensoriale è altrettanto

memorabile di un odore, altrettanto

resistente al logorio del tempo, altret-

tanto evocatore del passato e altret-

tanto capace di sollecitare tutti gli altri

sensi.

Continuo a camminare a passo svelto

mentre qualche commerciante mi os-

serva dall’uscio del suo negozio ancora

vuoto e si chiede dove vada così di cor-

sa in un pigro giorno di festa. Martina

mi aspetta ,le avevo promesso di esse-

Page 23: Non è la solita guida

62

E’ domenica mattina, si è svegliato già

il mercato….così cantava Claudio Ba-

glioni in una sua nota canzone; ma il

suo mercato era quello di Roma ed

io,invece,vivo a Napoli!

A dirla tutta Baglioni non è proprio il

mio cantautore preferito ma è quello

amato da mia madre in epoca adole-

scenziale e ,quindi, anche io di tanto in

tanto ho ascoltato qualche strofa can-

ticchiata in modo distratto da lei inten-

ta a fare altro.

Sono uscita presto per raggiungere Mar-

tina con la quale ho appuntamento in

piazza.

Attraverso a piedi,come sempre, strade

e vicoli intrecciati in un silenzio, quasi

irreale per questa città ,il silenzio delle

prime ore del mattino di un giorno di

festa.

La domenica,si sa, ci si alza con como-

do ,non si lavora o,almeno,la maggio-

ranza delle persone non lavora. Imboc-

co l’ennesimo vicolo che in modo reti-

colare disegna, come un ricamo,

l’identità urbanistica di buona parte

della mia città. Tra sguardi distratti e

paesaggi confusi dalla fretta degli occhi

mobili ,mi torna alla mente un verso

del poeta Quasimodo sul Vicolo:

Vicolo: una croce di case

Che si chiamano piano,

e non sanno ch’ è paura

di restare sole nel buio.

Le case dei vicoli, infatti,come dice il

poeta,disposte a forma di croce, sem-

bra che si parlino di notte e di giorno

per vincere la paura di restare sole. Il

buio qui non c’è solo la notte e,qualche

volta è un buio che racconta di una

solitudine interiore.

Con questa stessa vena malinconica

accelero il passo,sono in ritardo,come

al solito!

La piazza è ancora distante quando,ad

un tratto, mi assale un odore inten-

so ,inconfondibile:qualcuno in questo

Il ragù

23

Da Palazzo Reale possiamo proseguire il

nostro percorso per arrivare a Villa

Pignatelli, passando per il bellissimo

lungomare dal quale si scorge la carat-

teristica veduta partenopea simbolo

della nostra città nel mondo. Poetica

ed ammaliante la visuale proposta por-

ta chi la guarda a perdersi, immaginan-

do la storia e la nascita di questo mera-

viglioso capoluogo partenopeo.

Arriviamo cosi a :

Villa Pignatelli

La residenza, pensata come una domus

pompeiana venne realizzata da Pietro

Valente nel 1826, a cui successe nel

1830 Guglielmo Bechi,per volere di Sir

Ferdinando Acton.

I lavori del Valente non furono sempli-

ci, dovendo di volta in volta adeguarsi

alle precise richieste del proprietario

inglese. Non a caso diverse furono le

controversie tra le due parti circa i

lavori di costruzione e proprio per que-

sto la decorazione interna e il giardino

esterno furono affidati al toscano Gu-

glielmo Bechi.

Qualche anno dopo la morte di sir Ac-

ton,la villa venne acquistata dalla fa-

miglia di banchieri tedeschi Carlo von

Rothschild, che la abitarono fino al

1860. Il nobile di Francoforte, incaricò

i successivi lavori di abbellimento pri-

ma ad un architetto parigino e poi,

insoddisfatto del lavoro, a Gaetano

Genovese. In questo periodo, all'estre-

mità settentrionale del parco, fu co-

struita una palazzina di tre piani nota

come palazzina Rotschild.

Nel 1867, la famiglia tedesca fu allon-

tanata dalla città a seguito dell'unità

nazionale. Così la villa fu ceduta a

principi Pignatelli Cortes d'Aragona,

che ne furono proprietari fino a quando

la principessa Rosina Pignatelli decise

di donarla allo Stato Italiano perché

fosse trasformata in un museo destina-

to a onorare il nome del marito, il

principe Diego Aragona Pìgnatelli Cor-

tes, duca di Monteleone.Insieme alla

villa, la famiglia Pignatelli, che era

molto raffinata, donò tutto quello che

era contenuto al suo interno: argenti,

bronzi, porcellane, smalti, cristalli,

un'importante biblioteca, circa quat-

Page 24: Non è la solita guida

24

tromila microsolchi di musica classica e

lirica. Tutti questi reperti, sono oggi

esposti negli ambienti del museo.Nel

1960 la villa venne aperta al pubblico

col nome di "Museo Diego Aragona Cor-

tes" e nel 1998 fu allestita la pinacote-

ca a cura del Banco di Napoli.

La villa dispone di due piani: quello

terra, che conserva l'aspetto di dimora

principesca, ed il primo, nel quale vie-

ne esposta la raccolta di dipinti del

Banco di Napoli. Le varie sale

all’interno della villa possiedono deco-

razioni a stucco, i dipinti e gli arredi

originali eseguiti tra il 1870 ed il 1880

dal pittore romano Vincenzo Paliotti.

Ad oggi la struttura è utilizzata per

ospitare eventi di vario genere.

Altro edificio significativo al quale

possiamo collegarci per proseguire il

nostro itinerario cromatico è il :

Museo Archeologico di Napoli

Il Museo archeologico di Napoli vanta il

più ricco e pregevole patrimonio di

opere d'arte e manufatti di interesse

archeologico in Italia, è considerato

uno dei più importanti musei archeolo-

gici al mondo se non il più importante

per quanto riguarda la storia dell'epoca

romana. La costruzione dell'edificio fu

iniziata nel 1586 come caserma di ca-

valleria; questa era situata subito al di

fuori della cinta muraria di Napoli .La

Cavallerizza era molto più piccola

dell'attuale palazzo museale ed il suo

ingresso principale si apriva sul lato

occidentale, sull'attuale via Santa Tere-

sa degli Scalzi, dove tuttora è visibile,

seppure murato, caratterizzato da due

tozze colonne in basalto a rocchi di-

stanziati sovrapposti. Il palazzo rappre-

senta una certa rilevanza architettoni-

ca essendo infatti uno dei più imponen-

ti palazzi monumentali di Napoli.Il mu-

seo è formato da tre sezioni principali:

la collezione Farnese (costituita da

reperti provenienti da Roma e dintor-

ni), le collezioni pompeiane (con reper-

ti provenienti dall'area vesuviana, fa-

centi parte soprattutto delle collezioni

borboniche) e la collezione egizia . Sia

questi tre settori che altri del museo

sono costituiti da collezioni private

acquisite o donate alla città nel corso

della storia.Gli importanti lavori di

restauro e di ristrutturazione dell'edifi-

cio avviati nel 2012 consentiranno la

realizzazione di una riorganizzazione

globale delle collezioni secondo criteri

espositivi nuovi, permettendo inoltre

che alcune raccolte rimaste escluse

dalla visita per decenni, possano trova-

re definitiva sistemazione dentro l'edi-

ficio. I reperti mai esposti al pubblico

riguardano la sezione Magna Grecia,

quella Cumana (costituita da vasi gre-

ci), l'epigrafica ed una ricca parte della

statuaria pompeiana. Si stima che i

pezzi in deposito siano in quantità tre

61

prevede che le viti siano sostenute da

un palo detto in latino Phalanx ( da cui

deriverebbe il nome falangina); i tipi

rossi si ottengono dai migliori vitigni

campani, come il Per ‘e palummo e

l’Aglianico.

La creazione di questi itinerari ha visto

già un possibile percorso che congiunge

le aziende associate che dovrebbero

redigere una serie di mini tour capaci

di attrarre l’interesse anche del turista

di passaggio.

Page 25: Non è la solita guida

60

scontra ancora oggi nel vino resinato

greco. Dopo sei mesi, il vino era filtra-

to e travasato in otri o anfore di terra-

cotta appuntite che permettevano la

decantazione del deposito eventuale,

p r i m a d e l l o s m e r c i o .

Oggi le varietà coltivate sono cambia-

te, ma i vini godono ancora di un vasto

e meritato prestigio. cantine per la

vinificazione. Alcuni di questi locali

sono sopravvissuti anche nell’uso: vi si

applicano ancora i metodi tradizionali

della vinificazione, tramandati da ge-

nerazioni e mai dispersi, anche se rin-

novati nella tecnologia. Nel tufo si sca-

vavano anche le palmente, le antiche

vasche per la pigiatura. Una grande e

pesante pietra di tufo verde è stata

utilizzata per secoli dai contadini come

peso nella spremitura delle uve: è la

“pietra torcia”.

Nel territorio flegreo la denominazione

di origine controllata “ Campi Flegrei”

e la zona di produzione di queste uve,

comprende l’intero territorio dei comu-

ni di Procida, Pozzuoli, Bacoli, Monte di

Procida e Quarto; un’ area tra le più

ricche per storia e bellezze naturalisti-

che.

Plinio il Vecchio gli concede una men-

zione d'onore nella Naturalis Historia

ed è stato servito anche alla corte ara-

gonese. La Falanghina e il Piedirosso,

localmente denominato Per 'e Palum-

mo, hanno avuto in quest'area la prima

diffusione e le prime affermazioni. Il

disciplinare ammette le tipologie Bian-

co, Rosso, Pér e' Palummo, Pér e' Pa-

lummo Passito, Falanghina, eccellente

in abbinamento con la ricciòla all'acqua

pazza, e Falanghina Spumante.

Tale rinomanza perdurò anche nel Me-

dioevo, infatti il vino de Putheolo era

tra quelli prescelti dalla regia mensa al

tempo di Carlo II d’ Aangiò come si

desume dal suo liber espensarum.

Nasce così, nei secoli, una straordinaria

costellazione di varietà di uve che tro-

vano favorevoli le fortunate condizioni

pedolimatiche di un suolo in gran parte

d i o r i g i n e v u l c a n i c a .

Dopo tanti secoli oggi le ricchezze di

questo territorio sono promosse dalla

rete di itinerari delle Strade del Vino

Campi Flegrei.

I luoghi del vino attraversano un pano-

rama unico che include sette comuni

situati al confine tra i quartieri napole-

tani di Fuorigrotta,Soccavo, Pianura e

Agnano.

Parliamo di vini dunque dalla grande

storia e tradizione, derivanti da uno dei

più apprezzati prodotti enologici

dell’antichità, Il Falerno Gaurano loda-

to anche da Plinio il Vecchio.

E mentre per i bianchi la Falanghina

risulta essere ad oggi il vino più diffuso

e viene allevato ancora con l’antica

tecnica del sistema alla puteolana che

25

volte superiore rispetto a quelli esposti

e che gli stessi occupino allo stato attu-

ale tre livelli dei sotterranei del palaz-

zo ed un piano del sottotetto.

Dal 2005 nella sottostante stazione

"Museo" della linea metropolitana è

stata aperta la stazione Neapolis, in cui

piccoli ambienti che si succedono tra

loro espongono i reperti archeologici

rinvenuti durante gli scavi della metro

ed entrati a far parte del patrimonio

museale. Nel 1612 il viceré don Pedro

Fernández de Castro, conte di Le-

mos .decise di trasferire nell'edificio

incompiuto l'università di Napoli

("palazzo dei Regi Studi"), precedente-

mente situato nel convento di San

Domenico Maggiore.La ristrutturazione

dell’edificio fu affiadata a Giulio Cesa-

re Fontana, nel 1615 l’edificio incom-

pleto fu inagurato.Lo stesso anno i la-

vori vennero interrotti per la partenza

del Fontana da Napoli.Nel corso degli

anni molti furono gli architetti incarica-

ti di apportare modifiche alla pianta e

alla facciata del museo.Ma fu nella

prima metà dell’800 che tornando il re

Ferdinando IV sul trono di Napoli (ora

come "Ferdinando I Re delle Due Sici-

lie"), il 22 febbraio 1816 egli decretava

ufficialmente l'istituzione del "real mu-

seo Borbonico". E nel 1852 con il suc-

cessivo abbattimento delle mura cin-

quecentesche della città e della porta

di Costantinopoli, il museo entrava a

pieno titolo a far parte del tessuto ur-

bano della città. Dopo l'unità d'Italia,il

museo diventava proprietà dello Stato

ed assumeva il nome di "museo nazio-

nale”.

Alla fine di questo itinerario cromatico

arriviamo,nel cuore del centro storico,

Spaccanapoli, dove troviamo Palazzo

Venezia edificio importante sul piano

storico-politico in quanto testimonian-

za privilegiata ed esclusiva dei passati

rapporti intercorsi tra il Regno Napoli e

la Repubblica di Venezia in periodo

rinascimentale.

Palazzo Venezia

Il Palazzo si trova nel cuore del centro

antico,esso visse il momento di mag-

giore splendore tra il XV secolo e il XVI

secolo, fino a quando a metà del cin-

quecento cadde in completa rovina e

fu restaurato da Geronimo Zo-

no.Successivamente molte furono le

restaurazioni tanto che nel XIX secolo

fu eretta una casina pompeiana. La

struttura non presenta elementi di

grande rilevanza architettonica, se non

il giardino pensile, la scala interna,

tipica dell’architettura nobiliare sei-

centesca, ma costituisce comunque

un’importantissima testimonianza sto-

rica dei rapporti che, nei secoli passa-

ti, esistevano tra Napoli e Venezia.

Page 26: Non è la solita guida

26

Si conclude così il breve viaggio attra-

verso un itinerario legato ad un colore

simbolo della città Partenopea,che

po r t a l ’ a t t enz i one non so l o

sull’estetica ma ci coinvolge e ci porta

ad esplorare la storia e l’unicità di una

tonalità che può essere considerata

“viva” ed intrinseca di avvenimenti.

59

del mancato invito alla festa, incise sul

pomo la frase "Alla più bella", causando

così una lite furibonda fra Era, regina

degli dei, Afrodite, dea della bellezza,

e Atena, figlia di Zeus.

Tornando all’ aspetto enogastronomi-

co,il pomodoro cannellino è coltivato

da generazioni nei Campi Flegrei, dove

grazie ai terreni di origine vulcanica la

qualità del pomodoro raggiunge punte

di eccellenza.

Il rosso rievoca anche la colorazione

del vino.

“Qui è il Vesuvio finora ombroso di

verdi vigneti. Ora tutto giace sommerso

nel fuoco e nel tristo lapillo”.

Così Marziale, con sintesi fulminea,

fotografa la distruzione operata dal

vulcano con l’eruzione del 79 d.C., e

contemporaneamente richiama l’antica

vocazione della zona alla coltivazione

d e l l a v i t e .

Testimonianze storiche e letterarie lo

confermano, e le ville di Pompei e de-

gli altri centri distrutti dal Vesuvio ne

hanno conservato prove nella campa-

gna, nelle case e nelle cantine. Dalle

ceneri dell’antica Oplontis, nei pressi

di Torre Annunziata, sono emersi i resti

di un’azienda agricola produttrice di

vino accanto a quelli di una ricca villa

appartenuta a Poppea Sabina, moglie

di Nerone.

Gran parte della ricchezza dell’antica

Pompei derivava, infatti, dalla produ-

zione e dal commercio del vino. E un

vino pompeiano è stato prodotto recen-

temente da cinque vigne piantate negli

scavi della città, uno dei quali in corri-

spondenza dell’antico vigneto presso la

Casa dell’oste Eusino.

A Pozzuoli, invece, è il grande anfitea-

tro a conservare ancora le strutture

interne che svelano la struttura

dell’antico mercato. Unico e per molto

tempo misterioso, il Serapeo è stato

f inalmente r iconosc iuto come

”Macellum”, l’ampio mercato di Puteo-

lis, a ridosso del porto, con le botte-

ghe, le nicchie e le colonne, che i fre-

quenti bradisismi hanno istoriato dei

resti di molluschi marini.

La vite qui approda in tempi remoti

dall’Eubea e trova eccellente dimora,

conoscendo con il tempo quella impor-

tante diffusione che sappiamo.

Ed è proprio lì che maturavano le uve

per i numerosi vini dei Campi Flegrei.

I pithoi, alti tre metri e mezzo e con

un’imboccatura di un metro, erano i

vasi da trasporto per eccellenza, sia

per l’olio d’oliva, sia per la frutta.

Nella Grecia antica, però erano usati

anche per la fermentazione del mosto:

per ridurre la traspirazione, venivano

interrati e cosparsi all’esterno di resina

o di pece. Questa tecnica conferiva al

vino un aroma particolare, che si ri-

Page 27: Non è la solita guida

58

se non vi sono indizi cronologici più

precisi su questo palmento, con buona

approssimazione l'edificio si può collo-

care nel XVII-XVIII secolo, epoca in cui

il Monte Nuovo era parzialmente colti-

vato a vigneto, come testimoniano an-

cora i resti di opere di terrazzamento

riconoscibili lungo le pendici del vulca-

no, soprattutto quelle interne della

cima più alta.

Sulla cima più alta del cratere, infine,

fra la vegetazione si riconoscono i resti

in muratura di una costruzione circola-

re, seminterrata, costruita con bloc-

chetti di tufo quadrati. Data la sua

posizione strategica, e data la tecnica

muraria non dissimile da altre esistenti

in cima al Capo Miseno, con ogni proba-

bilità si tratta di una postazione desti-

nata alla difesa antiaerea, approntata

durante l'ultimo conflitto mondiale.

Il monte è caratterizzato da una folta

vegetazione. Sul vulcano crescono

piante tipiche della macchia mediterra-

nea. Le piante maggiormente presenti

sono il pino, la ginestra, l'erica.

Il vulcano, ora inattivo, è diventato

un'oasi naturalistica.

Ad oggi i campi flegrei costutiscono un

area ad alto rischio sismico e per que-

sto nel 2003, in attuazione della Legge

Regionale della Campania n. 33 del

1.9.1993, è stato istituito il Parco re-

gionale dei Campi Flegrei monitorato

dall'Osservatorio Vesuviano.

Il colore rosso nei Campi Flegrei non

rimanda solo al mito degli inferi e al

fenomeno del vulcanesimo ma lo si può

accostare anche ai sapori di questa

meravigliosa terra se si fa riferimento

ad alcuni prodotti tipici come il pomo-

doro cannellino e il vino.

II percorso: “L’ oro rosso flegreo:

Vino e cannellino”

Splendida terra, quella flegrea,passata

alla storia non solo per un ventaglio di

reperti archeologici - presenti un po’ su

tutto il territorio - che ci raccontano lo

splendore vissuto su queste terre,

splendore testimoniato dal fatto che

qui ha dimora uno dei più importanti

santuari dell’età classica, quello in cui

sono state ambientate l’Odissea e

l’Eneide; ma anche per una radicata

cultura enologica ed enogastronomica.

Tra i prodotti tipici di questo territorio

che rievocano il colore rosso vi sono il

pomodoro cannellino e il vino.

Facendo riferimento al pomodoro e

restando in tema di mito e leggenda mi

viene in mente quella legata al pomo

d’oro.

Il pomo della discordia o mela della

discordia è, secondo il mito, la mela

lanciata da Eris, dea della discordia,

sul tavolo dove si stava svolgendo il

banchetto in onore del matrimonio

di Peleo e Teti. La dea, per vendicarsi

27

Page 28: Non è la solita guida

28

Il pomodoro , per la sua bontà e per

le proprietà benefiche, ha scalato le

classifiche degli ortaggi “migliori”.

Guardato dapprima con occhio sospet-

toso per i suoi frutti idealmente perico-

losi, il pomodoro, negli anni a seguire,

è stato ammirato negli orti botanici

come pianta tipicamente esotica: at-

tualmente, il pomodoro viene apprez-

zato per la malleabilità in cucina e per

l e p rop r i e t à i n f i t o t e rap i a .

Come abbiamo visto, il pomodoro,

seppur entrato relativamente tardi

rispetto agli altri ortaggi importati dal-

le Americhe - nella cucina italiana, è

divenuto un alimento base della dieta

m e d i t e r r a n e a .

I pomodori sono ricchi d'acqua, e di-

screti quantitativi vitaminici: si ricor-

dano Vitamine del gruppo B r acido

ascorbico, vitamina D e soprattut-

to, vitamina E che assicurano al pomo-

d o r o l e n o t e p r o p r i e -

tà antiossidanti e vitaminizzanti.

Divenuto uno dei prodotti più usati

della città di Napoli, infatti i prodotti

tipici, come la pizza ha proprio il po-

modoro come ingrediente principale.

U n a d e l l a p r i n c i p a l e I l

coltivazione di pomodoro è quella dei

pomodori in barattolo il miracolo di san

Gennaro, basata su varietà ed ecotipi

autoctoni ed è ecosostenibile.

Per la produzione utilizzano particolar-

m e n t e i n t e r v e n t i m a n u a l i .

Per la concimazione e la difesa adotta-

no i s i stemi d i colt ivaz ione

propri dell'agricoltura integrata.

Il Miracolo di San Gennaro sono Pomo-

d o r i n i d i G r a g n a n o .

rigorosamente coltivati secondo la tra-

d i z i o n e , s e n z a r i c o r r e r e

a prodotti chimici. Coltivato sui Monti

L a t t a r i , è p a r t i c o l a r m e n t e

adatto per le conserve.

Il sangue di San Gennaro

Itinerario di San Gennaro:

Un interessante itinerario da poter in-

traprendere durante la permanenza

nella città di Napoli, potrebbe essere

quello di San Gennaro ed i suoi tesori.

Il sangue di San Gennaro

57

dall’antichità di turisti che arrivavano

lì per godere delle sue acquee sulfuree,

nell’800 è stata metà del Grand Tour e

dagli inizi del 900 anche sede di

un’intensa attività estrattiva di allume

e bianchetto.

Proprio sulla bocca del cratere si narra

che fu decapitato San Gennaro, dopo

che le belve aizzate contro il vescovo

beneventano nell’attiguo anfiteatro

Flavio, si erano prostrate dinanzi al

santo anzichè sbranarlo.

Comincerete a chiedervi se sono tutte

storie figlie del folklore popolare quelle

che raccontano di sinistri rumore che si

avvertono all’interno del cratere ed

esattamente nella zona cosiddetta del-

la “cava rossa”, rossa come il cinabro

che colora le rocce circostanti, rossa

come il sangue.

Lamenti, grida, rotolar di te-

ste….proprio lì dove fu raccolto il san-

gue gelosamente custodito nell’ampolla

del miracolo, e la cui pietra su cui fu

decapitato il santo è oggi custodita nel

santuario costruito a ridosso del vulca-

no.

La solfatara è stato anche location di

alcuni famosi film di Totò, tra cui Totò

all'inferno e 47 morto che parla, non-

ché le sequenze nel film dei Pink

Floyd Live in Pompeii.

Poco distante da Pozzuoli, verso occi-

dente, in riva al Lago Lucrino,

nel 1538 è sorto il Monte Nuovo, il vul-

cano più recente d'Europa, oggi oasi

naturalistica.

Il monte nuovo

Il monte Nuovo è un piccolo vulcano di

forma circolare, che fa parte

dei Campi Flegrei. Si trova nel comune

di Pozzuoli presso il Lago Lucrino. Si

formò tra il 29 settembre e il 6 otto-

bre 1538 a seguito di un'eruzione che

distrusse il villaggio medievale

di Tripergole e mise in fuga la popola-

zione locale.

Percorrendo il sentiero principale

sull'orlo del cratere, a metà strada

circa, presso degli alti pini, si incontra-

no i modesti ruderi di un picco-

lo palmento:

Attraverso una soglia si accede ad un

semplice ambiente quadrangolare, con

un banco in muratura (probabilmente

una cucina ) posto a destra dell'ingres-

so, seguito da una nicchia rettangola-

re, quasi certamente un armadietto a

muro, mentre nella parte bassa della

parete stuccata di bianco figura mura-

to un grosso versatoio cilindrico in pie-

tra lavica; alle sue spalle (lungo l'attu-

ale sentiero) vi sono i resti affiancati di

due tini in muratura, simili a piccole

cisterne, di cui uno rettangolare e l'al-

tro circolare, dove venivano pigiate le

uve, il cui mosto, defluendo attraverso

il versatoio in pietra, veniva raccolto

nel vicino ambiente quadrato. Anche

Page 29: Non è la solita guida

56

Anche questo lago come quello

d’Averno conserva in se qualcosa del

mito. Infatti,chiamato in antichità an-

che "Acherusio" perché si credette di

identificarvi la Acherusia palus ovvero

la palude infernale formata dal fiume

Acheronte (nome attribuito più spesso

al lago Fusaro), da sempre viene asso-

ciato ad una fonte infernale come quel-

la del Cocito o Piriflegetonte

Cunicoli di genere simile a quelli de-

scritti in precedenza, si trovavano an-

che nei pressi del lago Fusaro che in

età molto antica si presentava come un

ampio golfo sul mare che le popolazioni

locali, anche prima dell’arrivo dei gre-

ci, sfruttavano per la coltivazione dei

mitili e soprattutto delle ostriche.

Altro luogo ricco di fascino mistico, già

famosa durante l'epoca imperiale roma-

na,è la Solfatara.

La solfatara

Strabone, nel suo Strabonis geographi-

ca, la descrive come la dimora del Dio

Vulcano, ingresso per gli Inferi, chia-

mandola “Forum Vulcani”; viene inol-

tre menzionata anche da Plinio il Vec-

chio come “Fontes Leucogei” per le

acque alluminose e biancastre che

sgorgano ancora tutt'oggi.

A monte di Pozzuoli, la Solfatara, è un

cratere è uno dei 40 vulcani che costi-

tuiscono i Campi Flegrei ed è ubicata a

circa tre chilometri dal centro della

città di Pozzuoli.

Si tratta di un antico cratere vulcanico

ancora attivo ma in stato quiescente

che da circa due millenni conserva

un'attività difumarole d'anidride solfo-

rosa, getti di fango bollente ed elevata

temperatura del suolo: altre attività

simili si riscontrano anche in altre parti

del mondo e vengono indicate con il

nome di solfatare proprio per la simili-

tudine con quella puteolana.

La Solfatara, nome col quale viene in-

dicato il cratere piuttosto che l'intero

edificio vulcanico ha una forma ellitti-

ca con diametri di 770 e 580 metri,

mentre il perimetro è di 2 chilometri e

trecento metri; la parte più alta della

cintura craterica è posta a 199 metri

ed è chiamata monte Olibano mentre il

fondo del cratere è posto a 92 metri sul

livello del mare.

La Solfatara è stata meta sin

29

San Gennaro è considerato il patrono di

Napoli,infatti il nome Gennaro è molto

diffuso in Campania e r isale

al latino Ianuarius che significava

«consacrato al dio Giano».

Il percorso turistico potrebbe iniziare

dalla chiesa del Duomo, sita in via Duo-

mo; considerata una delle chiese più

antiche ed emblematiche della città,

contiene le reliquie di San Gennaro e

tre volte l’anno ospita il rito dello scio-

glimento del sangue: si ritiene che una

pia donna avesse raccolto in due am-

polle il sangue di San Gennaro per con-

segnare poi la preziosa reliquia al ve-

s c o v o d i N a p o l i .

I grumi rappresi scuri e solidi spontane-

amente si sciolgono. Il sangue ribolle

ed assume il colore rosso vivo.

la liquefazione avviene di solito accom-

pagnata dalle fervide preghiere ed insi-

stenti invocazioni al Santo. Le modalità

con le quali avviene lo scioglimento:

tempo, intensità del sangue sono consi-

derate di buon auspicio per la città se

avvengono senza indugi, nel caso con-

trario sono di segno sfavorevole.

Il miracolo si ripete regolarmente altre

due volte nell’anno: a maggio ed a di-

cembre ed in circostanze particolar-

mente rilevanti per Napoli come ad

esempio la visita di qualche personag-

gio importante, la minaccia di sciagure

n a t u r a l i e t c .

Per la prima volta fu annotata la lique-

fazione del sangue di San Gennaro nel

1389 sulle pagine del "Chronicon Sicu-

lum". Da quel momento in poi studiosi,

scienziati e ricercatori si sono sbizzarri-

ti nello scrivere su questo insolito fat-

t o .

Fino ad oggi nessuno è riuscito a trova-

re la soluzione del mistero. Di conse-

guenza attorno al sangue di San Genna-

ro sono cresciute numerose leggende e

superstizioni.

Alcuni scienziati dopo tanti studi ap-

profonditi, hanno ipotizzato che

all’interno delle ampolle si trova una

proprieta' fisica non diffusamente co-

nosciuta: la tissotropia. I materiali tis-

sotropici diventano piu' fluidi se sotto-

posti a una sollecitazione meccanica,

come piccole scosse o vibrazioni, tor-

nando allo stato precedente se lasciati

indisturbati. Un esempio consueto di

questa proprieta' e' la salsa ketchup,

che se ne sta rappresa senza scendere

dalla bottiglia fino a quando delle scos-

se non la fanno diventare d'un tratto

molto piu' liquida, e ne viene fuori

troppa. La tissotropia e' impiegata in

moltissimi prodotti, come gli inchiostri

e le vernici, dove il colore diventa ab-

bastanza fluido quando e' sottoposto a

sollecitazione mentre abbandona lo

strumento di applicazione e viene steso

sul supporto, ma deve scorrere il meno

possibile una volta lasciato a riposo.

Pur essendo nota da sempre in certi

campi, la tissotropia non e' molto cono-

sciuta, nemmeno presso chi si occupa

Page 30: Non è la solita guida

30

di fisica o di chimica. Un esempio di

come sia poco conosciuta e' che due fra

i maggiori esperti cattolici sul miracolo

di San Gennaro hanno dei passi, nei

loro libri, in cui descrivono quanto do-

vrebbe essere strana una sostanza che

imitasse la reliquia: coll'intenzione di

dimostrare che sono richieste delle

caratteristiche "che la scienza non puo'

spiegare", danno in realta', senza sa-

perlo, una definizione della tissotropi-

a. D'altra parte molti che avranno co-

nosciuto sia la tissotropia sia il miraco-

lo di San Gennaro devono aver pensato,

piu' o meno vagamente, ad un possibile

collegamento fra i due fenomeni. Ma

e'merito proprio di questa rivista l'aver

fatto convergere l'interesse, le cogni-

zioni e lo scetticismo dai quali e' nata

una formulazione sufficientemente

accurata dell'ipotesi tissotropica, con-

temporaneamente ad una sostanza che

la esemplifica: questa sostanza (una

sospensione colloidale di idrossido di

ferro in acqua con ioni sodio e cloro) e'

stata studiata espressamente per esibi-

re la tissotropia in forma cosi' accen-

tuata da passare, se agitata lievemen-

te, addirittura dallo stato solido a quel-

lo liquido, ma, al contempo, per essere

realizzabile con i soli mezzi disponibili

nel 1300.

Nel Museo del tesoro di San Gennaro,ci

sono straordinari capolavori raccolti in

sette secoli di donazioni di papi, re,

imperatori, regnanti, uomini illustri,

gente comune e facente parte di colle-

zioni uniche e intatte grazie alla Depu-

tazione della Real Cappella del Tesoro

di San Gennaro, antica istituzione laica

ancora esistente nata per un voto della

città di Napoli.

Invece la seconda destinazione da po-

ter raggiungere, inerente all’itinerario

intrapreso, è la Porta San Gennaro, che

si trova tra Caponapoli e il Vallone di

via Foria.

La Porta San Gennaro è la più antica

porta della città di Napoli, ed era l'uni-

co punto di accesso per chi proveniva

dalla parte settentrionale della città. Il

nome di Porta San Gennaro deriva dal

fatto che di qui partiva anche l'unica

strada che portava alle catacombe

dell’omonimo santo.

La terza destinazione da non dover

assolutamente dimenticare, sono la

Catacomba di San Gennaro, che si tro-

vano nel rione Sanità di Napoli.

La catacomba di San Gennaro si compo-

ne di due livelli non sovrapposti. Il nu-

55

neo regno delle ombre.

Tale culto per Ulisse seguirebbe un

itinerario ben preciso : l’eroe scava

una fossa e compie una libagione dei

morti con miele e latte, vino e ac-

que; poi cosparge di farina bianca do-

po aver sgozzato un ariete e una peco-

ra e fa scorrere il sangue nella fossa.

Le anime escono fuori: Ulisse scorge

l’anima di Elponore, poi quella della

madre e infine Tiresia.

Quest’ultima anima lo riconosce, beve

il sangue e dice ad Ulisse che, a chiun-

que lascerà bere il sangue, questi gli

predirà cose vere. Allora Ulisse lascerà

bere il sangue alla madre che, solo

allora lo riconosce e gli parla. Ulisse,

dal canto suo, cercherà di abbracciarla,

ma per tre volte essa gli sfuggirà. Que-

sto perché, come dice Omero, quando

uno muore il fuoco distrugge il corpo e

solo l’anima vaga, ma come tale sfugge

come un sogno.

Tornado a tempi più recenti abbiamo la

testimonianza di Giovanni Pontano, che

nel "De bello Neapolitano" ci dice che a

Napoli esisteva un quartiere dei Cim-

meri, e che una delle uscite dei loro

cunicoli sotterranei erano vicino alla

chiesa di Sant'Agostino della Zecca nei

cui pressi vi è oggi una via dei Cimbri, e

ancora nel 1623 scriveva Don Cesare

d'Eugenio Caracciolo in Napoli Sacra ,

"una delle chiese più antiche della cit-

tà, quella di santa Maria di Portanova,

era chiamata -a Cimmino- per la pre-

senza nella zona di -tal nazione Cimme-

ria-.”

Vicino al lago si trovano il tempio di

Apollo, la grotta della Sibilla Cumana

(una grotta scavata nel tufo, lunga

200m e probabilmente creata per col-

legare il lago al mare e che per la sug-

gestione dell’ambiente veniva associa-

to alla Stige infernale e ai luoghi

dell’Acheronte) e la grotta del Cocceio

( un cunicolo scavato dai romani per

scopi militari, che collegava il lago a

Cuma, oggi non più visitabile a causa di

danni provocati durante la guerra mon-

diale).In prossimità del lago d’Averno,

vi è un altro lago: quello di Lucrino.

Lago di Lucrino

Esso è un bacino naturale che si è for-

mato in epoca antica in seguito al mo-

to ondoso del mare che, apportando

progressivamente della sabbia, ha col

tempo chiuso un’insenatura naturale

con un istmo.

Il sottile istmo , secondo il mito, ven-

ne attribuito ad Eracle che l’avrebbe

creato quando dal remoto occidente

condusse in Grecia i buoi che aveva

rubato al mostruoso Gerione; lì poi vi

fu costruita una strada che , in ricordo

dell’eroe, fu chiamata Via Heraclea.

Attualmente è letteralmente sommersa

dal mare ma è riconoscibile su fotogra-

fie aeree o grazie ad immersioni.

Page 31: Non è la solita guida

54

l’ingresso agli inferi, dal quale Cristo

discese per liberare le anime dei giusti.

Connessa all'idea che la zona avesse a

che fare con il regno dei morti, abbia-

mo la testimonianza di alcune leggende

che attribuiscono la realizzazione di

cavità del sottosuolo napoletano e fle-

greo a degli esseri di dimensioni straor-

dinarie, che popolavono il sottosuolo di

Napoli fino a Cuma.

Ancor oggi un intricato groviglio di

grotte, tunnel, catacombe, pozzi, luo-

ghi di culto; il sottosuolo comincia ad

essere abitato con la venuta a Napoli di

un popolo nomade proveniente dalla

Scizia, l'attuale Russia meridionale.

Già descritti da Omero nell' XI libro

dell'Odissea; questo popolo migrò

dall'altipiano Iranico verso il Caucaso e

poi scacciati dagli Sciti, verso la Crime-

a.

In realtà non si conosce bene la data-

zione della loro probabile venuta nel

golfo Campano, ma i Cimmeri, così

venivano chiamati, hanno fatto alimen-

tare molte fantasie su di loro creando

così nel tempo un certo alone di miste-

ro.

Citando Strabone: “i Cimmeri vivevano

tra il lago d'Averno e Baia le loro case

erano spaventevoli ed infernali per il

loro offuscamento e folte caligini, per

le pallidi ombre, per la profonda ed

eterna notte che vi regnava. Molti era-

no gli stranieri che si recavano a visi-

tarli, essi venivano accolti nelle loro

abitazioni per poi essere accompagnati

ad interrogare l'oracolo dei morti situa-

to sotto terra (nekyomanteìon chthò-

nion), e che proprio grazie all'oracolo

traevano parte del loro sostentamento

(pare con una tariffa per le consulta-

zioni fissata dal loro re; ma - come è

facile intuire - molto probabilmente

anche nutrendosi di parte delle carni

degli animali sacrificati agli inferi)”.

Essi si erano rifugiati nel sottosuolo per

riparasi dalla forza distruttrice del Ve-

suvio, che temevano in modo reveren-

ziale.

Erano infatti considerati i custodi

dell'oltretomba, guardiani e detentori

di antichissime conoscenze di origine

divina dei culti della Terra.

Diodoro Siculo affermava che dal loro

villaggio si poteva raggiungere l'oracolo

dei morti. Ci conferma anche lo storico

Nevio, che in una grotta simile a quella

della Sibilla di Cuma, sul lago d'Averno

viveva la Sibilla Cimmeria.

Di questi Cimmeri se ne trova traccia

anche nell’Odissea, quando Ulisse se-

guendo le istruzioni della maga Circe,

giunge ai boschi sacri di Persefone.

In proposito Strabone sostiene che Ulis-

se era venuto qui a consultare

l’Oracolo dei morti dell’Averno; sinoni-

mo dell’Acheronte per indicare

l’accesso all’Ade, appunto il sotterra-

31

cleo originario è da individuare nell'uti-

lizzo e nell'ampliamento, avvenuto tra

la fine del II e gli inizi del III secolo, di

un ambiente cosiddetto "vestibolo infe-

riore". Da esso si sono sviluppati, nei

periodi successivi al III secolo, gli am-

bulacri della catacomba inferiore se-

condo uno schema di scavo ampio ed

o r i z z o n t a l e .

La catacomba superiore ebbe varie fasi

di sviluppo: anch'essa ebbe origine da

un antico sepolcro che oggi chiamiamo

"vestibolo superiore", noto essenzial-

mente per gli affreschi della volta della

fine del II secolo. Gli elementi che ca-

ratterizzano maggiormente la catacom-

ba superiore, sono la piccola "cripta dei

vescovi" e la maestosa "basilica

maior" (una vera e propria basilica sot-

terranea); la prima, ubicata presso la

tomba di San Gennaro dove vennero

sepolti alcuni dei primi Vescovi napole-

tani, la seconda è il frutto di un'ampia

trasformazione dei vicini ambienti rea-

lizzata quando, nel sec. V, fu traslato

San Gennaro. La "basilica maior" è a

tre navate, conserva numerosi affre-

schi (V-VI sec.) ed è scavata intera-

mente nel tufo.

Successivamente nel rione Sanità, co-

me quarta destinazione, troviamo

l’ospedale San Gennaro dei poveri,

considerata una struttura ospedaliera

di interesse storico-artistico di Napoli.

La storia dell’ospedale è strettamente

intrecciata a quella della basilica che

sorge al suo interno, quella di San Gen-

naro fuori le mura.

La chiesa, dopo la traslazione delle

reliquie di San Gennaro a Benevento,

cadde in rovina.

Successivamente anche l'intero mona-

stero cadde in abbandono, ma succes-

sivamente venne riutilizzato dal cardi-

nale Oliviero Carafa, che lo trasformò

in ospedale per gli appestati.

Dopo la peste l'ospedale fu ulterior-

mente ampliato e fu dotato anche di

uno ospizio dedicato ai Santi Pietro e

Gennaro.

Page 32: Non è la solita guida

32

Il complesso è preceduto da una scala a

doppia rampa che precede un vestibolo

con affreschi cinquecenteschi di Agosti-

no Tesauro, stemmi della città di Napo-

li, ed altre particolarità artistiche-

architettoniche.

Ultima chiesa da visitare per questo

itinerario, è la chiesa di San Gennaro,

che si trova nel bosco di Capodimonte.

Opera dell’architetto scenografo Sanfe-

lice, fu eretta per volere di Carlo III di

Borbone, come conferma una vecchia

iscrizione di marmo che campeggia

sulla semplice facciata d’ingresso.

la chiesa ha un piccolo campanile, i cui

archi ad ogiva sono frutto di un succes-

sivo rimaneggiamento. L’interno della

chiesa, che ha conservato nel comples-

so l’impianto originario, si sviluppa su

di un invaso ovale; le decorazioni risul-

tano alquanto.

Sull’altare maggiore è esposto un olio

su tela, raffigurante il santo protetto-

re, attribuito tradizionalmente al fa-

moso pittore Francesco Solimena mae-

stro ed amico del Sanfelice.

Fin dal Settecento la chiesa era ornata,

oltre che dalla grande tela di San Gen-

naro, anche da quattro statue dedicate

ai santi protettori della famiglia re-

gnante. Restano in loco quelle in gesso

di San Carlo Borromeo e Sant’Amalia,

in nicchie ai lati dell’abside; le altre

due, rappresentanti San Filippo e Santa

Elisabetta, erano negli angoli opposti

della chiesa.

Gli arredi di legno provengono proba-

bilmente dalla chiesa di San Clemente

dell’Eremo dei Cappuccini, essendo

documentato il trasferimento di sup-

pellettile ed arredi sacri nella parroc-

chia di San Gennaro, alla soppressione

del convento.

Dalla chiesa si entrava negli spazi della

sagrestia, oggi adibiti ad esposizioni

temporanee, e si accedeva al piano

superiore, dove era l’abitazione del

parroco.

…Duomo, e processione:

all’interno del Duomo, in prima fila

sulle panche di legno della cappella

dedicata al santo patrono, fin dalle

prime luci del mattino sono sedute le

Parenti, donne che da secoli hanno

vissuto la funzione di sacerdotesse di

carie del culto di San Gennaro, traman-

dandosi di generazione in generazione

un corpus di preghiere e litanie.

Mentre le Parenti vanno avanti con i

loro rituali arrivano gli alti prelati, ve-

scovo in testa, e le autorità cittadine il

cardinale prende l’ampolla con il san-

gue del santo, e dalla cappella si dirige

lentamente verso l’altre maggiore del

Duomo.

Nel mare di folla che il cardinale attra-

versa, accompagnato dagli applausi e

53

Da sempre l’intensa attività vulcanica e

il ben noto fenomeno del bradisismo ha

suscitato un’immagine mito del territo-

rio, conferendo al vulcanesimo stesso

tale coloritura.

E allora ecco che i Campi Flegrei sono

lo scontro tra Dei e Giganti, figli della

Terra.

Secondo Apollodoro Gea (la Terra),

arrabbiata contro Giove e gli Dei per la

sorte inflitta ai Titani aveva partorito i

Giganti, esseri mostruosi che avrebbero

assalito gli Dei. Questi, trovatisi in dif-

ficoltà, avrebbero ricevuto l’aiuto di

Ercole riuscendoli così a sconfiggere.

E’ da qui che mi piace partire per que-

sto breve viaggio.

Un viaggio tra mito storia e leggenda

che ha come file rouge il rosso, colore

che da sempre rievoca calore, passione

e che nel caso specifico dei campi fle-

grei può ricondurre al rosso degli inferi.

Itinerario uno : “Sulle sponde degli

inferi. Il tour dei laghi”.

Il lago d’Averno

Recuperando il mito partiamo dal più

grande lago flegreo di origine vulcani-

ca: Il lago d’ Averno.

Questo lago vulcanico si trova nel co-

mune di Pozzuoli, tra la frazione di

lucrino e Cuma.

La parola Averno in greco significa

“senza uccelli” proprio perché gli uc-

celli che volavano sopra questa voragi-

ne morivano a causa delle sue esalazio-

ni.

Questa oscura e profonda voragine e-

manante vapori sulfurei, secondo la

religione greca e poi romana era un

accesso all’oltretomba, regno del dio

Plutone, ed è per tal motivo che gli

inferi si chiamano anche averno.

Anche il poeta Virgilio nel sesto libro

dell’ Eneide colloca vicino ad esso

l’ingresso mistico agli inferi dove l’eroe

Enea deve recarsi.

L’Averno, luogo ancora oggi ammantato

di misteri: un luogo selvaggio e tene-

broso, “un antro irto di scogli, cupo,

circondato da nero lago e tenebre bo-

schi” (Virgilio, Eneide VI Libro), dove

gli antichi immaginarono la Sibilla e

dove la leggenda vuole che qui vi fosse

Page 33: Non è la solita guida

52

“La memoria come processo di muta-

zione della materia che diventa sogget-

to in grado di rimandare alla realtà”.

“Intanto continuavano le scosse di ter-

remoto e molti, fuori di senno, con le

loro malaugurate predizioni si burlava-

no del proprio e del male altrui. Noi,

però, benché salvi dai pericoli ed in

attesa di nuovi, neppure allora pen-

sammo di partire, finchè non si avesse

notizia dello zio. Queste cose, non de-

gne certamente di storia, le leggerai

senza servirtene per i tuoi scritti; né

imputerai che a te stesso, che me le

hai chieste, se non ti parranno degne

neppure di una lettera. Addio” ( Lette-

re, VI Naturalis Historia, Plinio il Giova-

ne). Originariamente, secondo Diodoro

Siculo la definizione “Flegrea” si attri-

buiva all’area fra il Monte Massico e i

monti del casertano fino ai Lattari.

Attualmente invece con il termine

Campi Flegrei s’intende la zona ad o-

vest di Napoli compresa fra Posilli-

po fino a Quarto e di lì verso nord lun-

go la via Domiziana, poco oltre Capo

Miseno fino a Cuma ,così come già in

epoca romana l’intendeva Plinio in

“Storia Naturale”.

In ogni caso, il termine “Campi Fle-

grei”, deriva dal greco phlegraios che

significa ardente grazie all’abbondanza

di sorgenti calde e acque termali.

Infatti geologicamente la terra di fuo-

co, declamata da Omero e Virgilio, si

presenta come un'enorme area vulcani-

ca formata da numerosi crateri, di cui

l’unico ancora attivo è la Solfatara. Gli

altri, invece, vivono oggi di una nuova

vita: l’Averno è un lago, gli Astroni e il

Monte Nuovo sono delle oasi naturali,

altri giacciono in fondo al mare.

Questa grande caldera con un diametro

di 12–15 km nella parte principale

e’oggi in stato di quiescenza, ma conti-

nua ad esercitare la sua attività mag-

matica, ne sono testimonianza le inten-

se fumarole e le acque termali che da

Agnano a Baia permettono di goderne i

benefici effetti.

I campi Flegrei

33

dall’organo, spiccano i pennacchi dei

due carabinieri che lo scortano.

Dietro l’altare sono scherate due file di

sacerdoti vestiti di bianco.

Ai lati, i gonfaloni del comune e della

provincia di Napoli il vescovo sale

sull’altare la musica si ferma:”Fratelli

e Sorelle, vi do il grande annunzio”.

Ai lati del vescovo l’Abate della Cap-

pella, che poco prima gli avevano uffi-

cialmente consegnato l’ampolla; il vi-

cepresidente della deputazione , che

custodisce il tesoro e le relique del

santo.

E quest’ultimo è colui che sventola il

fazzoletto bianco non appena termina

la fase del vescovo, partono gli applau-

si e altri fazzoletti iniziano a sventola-

re, quando l’ampolla esce dalla chiesa

viene salutata da fuochi d’artificio che

disegnano linee di fumo bianco nel cie-

lo limpido del mattino.

Il miracolo viene visto come un culto e

non dandogli quella forma folcroristica;

non si tratta solo del cosiddetto “San

Gennà fammi la grazia”.

L’unico re di Napoli è stato San Genna-

ro e l’unico napoletano che ha regnato

su questa città e a questo è dovuto

l’amore la dedizione al santo.

Il napoletano ha avuto sempre un po’

di timore e diffidenza nelle autorità

invece san Gennaro è un intermediario,

il trait d’unione tra l’autorità il Padre

Eterno e la gente comune.

Page 34: Non è la solita guida

34

Il Vesuvio è particolarmente interessan-

te per la sua storia e per la frequenza

delle sue eruzioni. Fa parte del sistema

montuoso Somma-Vesuviano, è situato

leggermente all'interno della costa del

golfo di Napoli, ad una decina di chilo-

metri ad est del capoluogo campano. È’

un vulcano esplosivo o effusivo in stato

di quiescenza dal 1944, situato nel ter-

ritorio dell'omonimo parco nazionale

istituito nel 1995. La sua altezza, al

2010, è di 1.281 m, sorge all'interno di

una caldera di 4 km di diametro.

Quest'ultima rappresenta ciò che è

rimasto dell'ex edificio vulcanico, ovve-

ro il Monte Somma, dopo la grande

eruzione del 79 d.C., che determinò il

crollo del fianco sud-orientale in corri-

spondenza del quale si è successiva-

mente formato il cratere attuale.

Esso costituisce un colpo d'occhio di

inconsueta bellezza nel panorama del

golfo, una celebre immagine da cartoli-

na ripresa dalla collina di Posillipo lo ha

fatto entrare di diritto nell'immaginario

collettivo della città di Napoli.

Oggigiorno è l'unico vulcano di questo

tipo attivo di tutta l'Europa continenta-

le, che nel 1997 il Vesuvio è stato elet-

to dall'Unesco tra le riserve mondiali

della biosfera, ed inoltre nel 2007 il

Vesuvio è stato proposto alla selezione

per eleggere le sette meraviglie del

mondo naturale come “Bellezza natura-

le italiana”, non riuscendo però ad

essere eletto dopo essere arrivato in

finale.

Il Vesuvio detiene un primato a livello

mondiale, cioè quello di essere stato il

primo vulcano ad essere studiato siste-

maticamente (per volontà della casa

regnante dei Borbone), studi che conti-

Il Vesuvio

51

18.000 abitanti, malgrado le ripetute

eruzioni vulcaniche che, anche nel XIX

secolo, avvenivano quasi ogni due anni.

Bosco Reale:

Nel territorio di Boscoreale

(Vuoscoriàlë in napoletano) erano sorte

già a partire dall'epoca sannitica nume-

rose ville rustiche che sfruttavano la

fertilità del suolo. Con il tempo molte

di esse si trasformarono in residenze

lussuose e in età augustea il sito, insie-

me all'attuale Boscotrecase, era dive-

nuto un sobborgo della vicina Pompei

con il probabile nome di Pagus Augu-

stus Felix Suburbanus. Le ville del terri-

torio vennero distrutte dall'eruzione

del Vesuvio del 79 d.C., ma in seguito il

territorio venne probabilmente rioccu-

pato, come sembra testimoniare il ri-

trovamento di lucerne con simboli cri-

stiani del IV secolo.

Nell'Ottocento Boscoreale assurse all'o-

nore della cronaca per la scoperta nel

suo territorio di numerose ville rustiche

di età romana (I secolo d.C.), portate

alla luce da scavi di privati cittadini,

sotto la sorveglianza della Soprinten-

denza Archeologica. Tali ville diedero

splendidi reperti archeologici, un teso-

ro di argenterie, affreschi, bronzi, pa-

vimenti a mosaico, sistematicamente

asportati dallo scavo e messi in vendita

al miglior offerente dai proprietari dei

fondi, poiché le leggi del tempo lo per-

mettevano.

I maggiori Musei del mondo

(Archeologico Nazionale di Napoli, Lou-

vre di Parigi, Metropolitan Museum di

New York, British Museum di Londra,

Musee Royal di Mariemont in Belgio,

Field Museum di Chicago, Getty Mu-

seum di Malibu, Walters Art Museum di

Baltimora, Altes Museum di Berlino

etc.) acquisirono nelle loro collezioni

oggetti provenienti dagli scavi archeo-

logici di Boscoreale.

In epoca moderna il comune è stato un

importante centro agricolo, famoso per

la sua frutta e soprattutto per vini tra

cui il più celebre è senz'altro il La-

cryma Christi del Vesuvio. Oggi Bosco-

reale è uno dei comuni che fanno parte

del territorio del Parco Nazionale del

Vesuvio e dal paese si può raggiungere,

grazie al collegamento della Via Matro-

ne, il percorso naturalistico che porta

al cratere del Vesuvio.

Page 35: Non è la solita guida

50

I Saraceni si insediarono nel territorio

nell'880, con il permesso del vescovo di

Napoli Atanasio, dal quale furono suc-

cessivamente trasferiti ad Agropoli due

anni dopo. La città in seguito fu presa

dagli Svevi e, a partire dal Quattrocen-

to, subì le vicende del Regno di Napoli,

divenendo parte del demanio reale, il

re Alfonso I ne cedette poi il possesso

alla famiglia Carafa, senza diritti feu-

dali.

Nel 1631 un'eruzione di proporzioni

ingenti distrusse tutto il versante a

mare del Vesuvio: Torre del Greco ven-

ne invasa da torrenti fangosi e da gran-

dissimi flussi lavici, dei quali uno in

particolare generò le scogliere della

Scala.

Il 18 maggio 1699 la città riacquistò il

diritto di possesso del suo territorio con

un atto di compravendita dall'ultimo

dei proprietari, il marchese di Monfor-

te, per 106.000 ducati e dopo questa

data si ebbe una fioritura del commer-

cio marittimo, mentre la flottiglia pe-

schereccia dell'epoca contava 214 im-

barcazioni, dedite alla raccolta delle

spugne, del corallo e delle conchiglie.

In quest'epoca si cominciò la lavorazio-

ne del corallo, divenuta poi tradiziona-

le.

Tra il XVII e il XVIII secolo, in epoca

borbonica, vi furono edificate diverse

ville signorili dell'area vesuviana: le

ville del Miglio d'oro, che conservano

ancora oggi splendidi esempi di archi-

tettura settecentesca.

Il Comune di Torre del Greco è stato

poi travolto nel 1707 dalla caduta ab-

bondante di piroclasti del Vesuvio, in-

sieme ai comuni di Scafati, Striano e

Boscotrecase, con danni alle coltivazio-

ni e centinaia di feriti.

L'eruzione del Vesuvio del 1794 seppellì

il centro storico sotto uno spessore

lavico di circa 10 metri, e numerose

altre eruzioni avevano provocato nei

secoli ingenti danni alla città: ed infat-

ti sullo stemma municipale, che com-

prende una torre, è riportato il motto

della fenice: Post fata resurgo.

La città divenne municipio sotto la do-

minazione di Giuseppe Bonaparte nel

1809 con l'elezione del primo sindaco

Giovanni Scognamiglio. Sotto la domi-

nazione di Murat diventò, insieme alla

vicina Portici, la terza città del Regno

di Napoli, dopo Napoli e Foggia, con

35

nuano tuttora ad opera dell'Osservato-

rio Vesuviano. Risale infatti al 1841

(per volontà del re Ferdinando II delle

Due Sicilie) la costruzione di un Osser-

vatorio (tuttora funzionante, anche se

solo come filiale di più moderne strut-

ture ubicate a Napoli) e si può dire che

la vulcanologia, come vera e propria

disciplina scientifica, nasca in quegli

anni.

Ciò che cattura l’attenzione è il favo-

loso panorama che offre la vista del

vulcano; dalla sua altura, guardando

verso il basso, è possibile ammirare di

fronte a sé il mare di Torre Annunziata,

tutto il Golfo di Napoli, la Penisola Sor-

rentina, Castellammare di Stabia, Torre

del Greco, Capri, Procida e Ischia. Di

sera la vista è ancora più suggestiva

poiché il tutto è illuminato dalle luci

dei lampioni, dai colori delle varie ca-

sette collocate lungo il bordo del crate-

re e dallo scintillio delle stelle e dalla

luminosità della luna che si riflette in

tutta la sua bellezza, nelle acque del

mare che bagna i diversi Paesi Vesuvia-

ni.

Origini del nome

Il nome Vesuvio presumibilmente deve

le sue origine alla radice indoeuropea

*aues, "illuminare" o *eus, "bruciare".

Esistono tuttavia alcune etimologie

popolari: dato che nell'antichità si rite-

neva che il Vesuvio fosse consacrato

all'eroe semidio Ercole, e la città di

Ercolano, alla sua base, prendeva da

questi il nome, si credeva che anche il

vulcano, seppur indirettamente traesse

origine dal nome dell'eroe greco. Ercole

infatti era il figlio che il dio Giove ave-

va avuto da Alcmena, regina di Tebe.

Una tradizione popolare della fine del

Seicento vorrebbe invece che la parola

derivi dalla locuzione latina Vae suis!

("Guai ai suoi!"), giacché la maggior

parte delle eruzioni sino ad allora acca-

dute, avevano sempre preceduto o

posticipato avvenimenti storici impor-

tanti, e quasi sempre carichi di disgra-

zie per Napoli o la Campania. Un esem-

pio su tutti: l'eruzione del 1631 sarebbe

stato il "preavviso" naturale dei moti di

Masaniello del 1647. Il nome del Vulca-

no è associato al termine “cas” che

significa “risplendere, bruciare” o an-

cora lo si ricollega al nome della Dea

greca Vesta, divinità del fuoco e del

focolare. Il monte era amato per le sue

fertili terre, per le sue magnifiche te-

nute di campagna, per i suoi fenomeni

geologici e soprattutto perché zona

residenziale di lusso dei patrizi romani.

Secondo gli studiosi le popolazioni che

vivevano alle falde del Vesuvio prima

del I secolo a. C., erano del tutto in-

consapevoli che tale vulcano fosse atti-

vo e pericoloso a causa delle possibili

violente eruzioni di lava, anche se al-

cuni letterati greci, primo tra tutti lo

scrittore Strabone e poi Diodoro Siculo,

Page 36: Non è la solita guida

36

nel I secolo a. C., avevano ben indivi-

duato il profondo nesso tra “il fiume di

fuoco (lava) e Vesuvio”. I successivi

intellettuali latini, Seneca, Sisenna,

Plinio il Vecchio, Vitruvio, Virgilio, Co-

lumella, ecc, ignari che il gigantesco

monte avesse un passato di sconvolgen-

ti eruzioni lo stimarono come locus

amoenus, ossia inizialmente lo apprez-

zarono per i suoi giardini, per la sua

coltivazione orticola e per la sua note-

vole attività vinicola.

Il noto poeta recanatese Giacomo Leo-

pardi, definisce così il “nostro” Vulca-

no, <<Sterminator Vesevo>> e ricorda

che <<questi campi cosparsi di ceneri

infeconde, e ricoperti dell’impietrata

lava, che sotto i passi al peregrin riso-

na; [ ] fur liete ville e colti, e biondeg-

giar di spiche, e risonaro di muggito

d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi

de’ potenti gradito ospizio; e fur città

famose che coi torrenti suoi l’altero

monte dall’ignea bocca fulminando

oppresse con gli abitanti insieme [ ] >>

- (La ginestra o il fiore del deserto,

1836).

Le storie del Vesuvio

Al Vesuvio sono legate alcune storie o

leggende, il racconto più suggestivo

scorre dalla china di Matilde Serao nel

suo "libro d'immaginazione e di sogno":

Vesuvio era un giovane nobile di Napo-

li, follemente innamorato di una giova-

ne di una "casa nemica", la famiglia

Capri. Ma il loro amore era così avver-

sato dalle proprie famiglie, che la fan-

ciulla, fatta imbarcare su una nave

diretta verso una terra straniera, sen-

tendosi "strappar l'anima", si gettò in

mare, «donde uscì isola azzurra e ver-

deggiante». Il cavaliere, «quando seppe

della nuova crudele, cominciò a gittar

caldi sospiri e lacrime di fuoco, segno

della interna passione che l'agitava: e

tanto si agitò che divenne un monte

nelle cui viscere arde un fuoco eterno

di amore. […] Così egli è dirimpetto

alla sua bella Capri e non può raggiun-

gerla e freme di amore e lampeggia e

s'incorona di fumo e il fuoco trabocca

in lava corruscante…» . Nelle Egloghe

Piscatorie, Bernardino Rota racconta di

Leucopetra, ninfa marina contesa da

due giovani, Vesevo e Sebeto. Per sfug-

gir al loro inseguimento, si gettò in

mare e si trasformò in pietra. Allora,

Vesevo, disperato, si trasformò in una

montagna che rovesciava fuoco, fino a

raggiungere la sua amata ninfa nel ma-

re; e Sebeto pianse così tanto da tra-

sformarsi in un rivolo che si versava in

mare. Vesuvio, fumaiolo dell'inferno, il

misterioso vulcano ha da sempre susci-

tato, nell'immaginario collettivo, timo-

re e terrore. Gli antichi lo associarono

all'Ade e interpretarono la sua eruzione

come manifestazione dell'ira divina.

49

Secondo itinerario – azione “creatrice”

del Vesuvio - Castellamare di Stabia:

Castellammare di Stabia (in napoletano

Castiellammare, talvolta anche Ca-

stllammare) il 25 agosto del 79 d.C. fu

travolta da un'inaspettata e violenta

eruzione del Vesuvio, che fece scompa-

rire la città, stabie, sotto una fitta

coltre di cenere, lapilli e pomici, insie-

me a Pompei ed Ercolano. A causa dei

frequenti terremoti che avevano prece-

duto l'eruzione, molte ville mostravano

segni di cedimento o crepe e quindi si

trovavano in fase di ristrutturazione: fu

questo il motivo per cui a Stabiae ci fu

un numero limitato di vittime[. Tra le

vittime illustri fu anche Plinio il Vec-

chio, che giunto a Stabiae per osserva-

re più da vicino l'eruzione, morì molto

probabilmente avvelenato dai gas tossi-

ci sulla spiaggia. Dopo la distruzione di

Stabiae ad opera del Vesuvio, alcuni

abitanti del luogo scampati all'eruzio-

ne, tornarono alle loro vecchie abita-

zioni, ormai distrutte, per recuperare

oggetti e denaro: furono questi che

costituirono un villaggio lungo la costa,

la quale grazie all'eruzione era diventa-

ta molto più protesa nel mare rispetto

al passato. Questo nuovo villaggio, che

viveva soprattutto di pesca ed agricol-

tura, entrò a far parte del Ducato di

Sorrento, e nel XX accolse l'apertura

della linea tranviaria che collegava la

stazione di Castellammare di Stabia

direttamente con Sorrento, attraver-

sando tutta la penisola sorrentina.

Sempre in questo periodo la vocazione

turistica di Castellammare di Stabia,

soprattutto per le sue acque e le loro

proprietà curative, raggiunge l'apice.

Torre del Greco:

Torre del Greco (Torre 'o Grieco in

napoletano[2] e Torre 'u Grieco o sem-

plicemente 'a Torre in torrese) in epo-

ca romana, come testimoniano nume-

rosi reperti archeologici, era probabil-

mente un sobborgo residenziale di Er-

colano, dove erano sorte numerose

ville che godevano dall'amenità dei

luoghi e dalla posizione centrale all'in-

terno del golfo di Napoli.

Proprio come accadde con Ercolano,

Pompei, Stabia e Oplonti, la devastan-

te eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

sconvolse anche questi luoghi, fino a

rimodellarne l'intero suolo e respingere

il mare per oltre 500 metri.

Page 37: Non è la solita guida

48

za di quello che ricoprì Ercolano e che

si solidifica in pietra durissima – ha

consentito che la Città giungesse inte-

gra fino ai nostri giorni non solo nelle

sue architetture, ma anche in tutto ciò

che era dentro le abitazioni o dentro i

negozi, offrendo un quadro del

quotidiano’ incredibilmente affascinan-

te.

La città dissepolta costituisce dunque

una eccezionale testimonianza storica

della civiltà romana: le memorie del

passato, così vive e tangibili nei resti

riportati alla luce, costituiscono il fa-

scino di oggi.

Quello che è emerso dal riempimento

di calchi, fatti con il gesso. Possiamo

scorgere la tremenda tragedia che si è

consumata e di come la grande eruzio-

ne abbia sterminato e ucciso. Crudele

ma allo stesso tempo affascinante,

sembra di rivivere quelle sensazioni di

paura e di orrore. Dalla posizione dei

calchi, possiamo dedurre che la morte

sia venuta ad opera dei gas nocivi che

l’eruzione ha disperso nell’aria, succes-

sivamente tutto è stato coperto da

cenere e lapilli incandescenti. Di questi

reperti ne sono stati trovati tantissimi

e ciò fa pensare che gli antichi non

abbiano nemmeno avuto il tempo di

scappare, senza quasi rendersene con-

to.

Ercolano

Gli scavi archeologici di Ercolano hanno

restituito i resti dell'antica città di Er-

colano, seppellita sotto una coltre di

ceneri, lapilli e fango durante l'eruzio-

ne del Vesuvio del 79, insieme a Pom-

pei, Stabiae ed Oplonti.

Ritrovata casualmente a seguito degli

scavi per la realizzazione di un pozzo

nel 1709, le indagini archeologiche ad

Ercolano cominciarono nel 1738 per

protrarsi fino al 1765; riprese nel 1823,

si interruppero nuovamente nel 1875,

fino ad uno scavo sistematico promosso

da Amedeo Maiuri a partire dal 1927: la

maggior parte dei reperti rinvenuti

sono ospitati al museo archeologico

nazionale di Napoli, nel 1997, insieme

alle rovine di Pompei ed Oplonti, è

entrato a far parte della lista dei patri-

moni dell'umanità dell'UNESCO, mentre

nel 2008 si è avuta la nascita del museo

archeologico virtuale che mostra la

città prima dell'eruzione del Vesuvio.

37

Intorno al II–III sec. d. C. il monte di-

venne l'abitazione del demonio o il

"fumaiolo dell'inferno", come lo definì

Tertulliano. Gli stessi San Gregorio Ma-

gno e San Pier Damiani lo paragonarono

all'inferno. Nell'XI secolo, l'abate Desi-

derio da Montecassino, in seguito Papa

Vittore III, raccontò un particolare epi-

sodio: una notte, un monaco napoleta-

no vide molti uomini neri, che traspor-

tavano "some cariche di paglia" lungo la

strada. Nonostante fosse fortemente

spaventato, chiese loro come intende-

vano utilizzare quelle grandi scorte.

Una voce che pareva giungere dall'ol-

tretomba rispose: "Noi siamo spiriti

maligni e prepariamo […] l'esca per

alimentare il fuoco che dovrà bruciare

gli uomini cattivi". Precisò anche che

presto sarebbero stati bruciati tali Pan-

dolfo principe di Capua e Giovanni duca

di Napoli. Orbene, i due morirono pro-

prio poco tempo dopo, mentre sul Ve-

suvio divampavano lingue di fuoco al-

tissime.

L. A. Villari riferisce un aneddoto sul

pittore napoletano Luca Giordano, che

avrebbe incontrato un diavolo sul Vesu-

vio, dopo aver rappresentato l'inferno

in un dipinto, spaventato dai compli-

menti che questi gli fece per averlo

raffigurato magnificamente, ritornò a

casa per distruggere il quadro e chie-

dere aiuto alla misericordia divina.

Ancora oggi, il vulcano è chiamato

monte dei diavoli e, com'è noto, sul

Vesuvio c'è una valle denominata Valle

dell'Inferno, che costituisce la parte

orientale della Valle del Gigante

(l'avvallamento che separa il Monte

Somma dal Vesuvio) e si oppone all'A-

trio del Cavallo, vicino alla Fossa del

Monaco, in cui – si racconta – fu in-

ghiottito un monaco che sul monte

aveva osato invocare "l'aiuto delle po-

tenze magiche per esaudire un deside-

rio inconfessabile". Il vulcano, sdegna-

tosi, vomitò un cavallo con occhi di

fuoco e una criniera di serpi che rag-

giunse il monaco in fuga e fece aprire

una voragine sotto i suoi piedi. Curiosa

la seguente composizione, una sorta di

formula di scongiuro contro l'eruzione

del Vesuvio, segno dell'ira divina susci-

tata dai peccati di Napoli. Fu scritta da

Padre Grimaldi per una lapide che non

fu mai realizzata.

Inoltre si racconta che contro le minac-

ce delle potenze infernali, il popolo

napoletano si affidò ai propri santi

protettori, e, di questi, solo uno era

capace di placare la forza del Vesuvio:

San Gennaro. Il binomio San Gennaro–

Vesuvio risale almeno al V secolo, peri-

odo cui viene fatto risalire un affresco,

ritrovato nelle cosiddette catacombe

di San Gennaro, che raffigura il patro-

Page 38: Non è la solita guida

38

no di Napoli accanto al Vesuvio. Nel

471, Papa Silverio I implorò l'aiuto di

San Gennaro. Da allora, seguirono nu-

merosi miracoli del Santo. "Presagio

fausto è", ancora oggi, "la liquefazione

del sangue di San Gennaro, da cui il

popolo deduce che non vi saranno du-

rante i mesi futuri né eruzioni né terre-

moti". Ma i documenti più numerosi

risalgono al Seicento. In Napoli nell'an-

no 1656, il medico Salvatore Renzi rac-

conta che il 2 luglio del 1658 veniva

posta sull'obelisco, eretto in onore di

San Gennaro – domatore del Vesuvio –

una statua del Santo, tra l'entusiasmo

generale del popolo, fiducioso che il

vulcano non avrebbe più eruttato. Eb-

bene, la sera del 3 luglio, accadde l'i-

nimmaginabile: il Vesuvio cominciò a

vomitare cenere e lapilli. Immediata-

mente, furono esposte le ampolle del

sangue del Santo e proclamata l'indul-

genza plenaria, così che furono tutti

assolti dai peccati: farabutti, briganti e

meretrici. "San Gennaro, contento di

tanta pubblica prova di devozione del

buon popolo", ordinò alla lava di arre-

starsi. Seguirono feste e processioni in

suo onore. Si trattava di processioni

molto pittoresche, cui partecipava una

fiumana di gente: i penitenti si flagel-

lavano, mostrando le ferite sanguinan-

ti; i monaci cospargevano il capo di

cenere del Vesuvio, recitando i salmi; e

talvolta le donne si legavano alle spalle

enormi croci di legno. Così, si giungeva

al Duomo per la benedizione dell'arci-

vescovo. Ma la bizzarria del popolo

napoletano è tale che non sempre si

richiedeva al Santo Patrono di rabboni-

re il vulcano. Qualche volta – incredibi-

le a dirsi – si richiese persino di ridar

vigore alla sua potenza. È il caso del

1952, quando si fece notare che, scom-

parso il pennacchio del Vesuvio, erano

scomparse anche le mance dei turisti, e

si giunse a supplicare tale Padre Alfa-

no: "Aiutateci voi. Dite una preghiera a

San Gennaro. Scongiuratelo di far com-

parire almeno un po' di fumo, sulla

cima del Vesuvio

Secondo una leggenda, fiorita dopo

l'eruzione del 1631, il simbolo della

napoletanità, Pulcinella, sarebbe pro-

prio nato dalle viscere del Vesuvio,

"uscendo dal guscio di un uovo compar-

so per volere di Plutone sulla sommità

del vulcano, grazie ad un impasto fatto

da due fattucchiere, che avevano chie-

sto un soccorritore per sanare situazio-

ni di ingiustizia e di oppressioni".

Il parco naturale del Vesuvio

Un altro componente del Vulcano at-

tualmente noto è il Parco Nazionale del

Vesuvio, nato il 5 giugno 1995 per il

grande interesse geologico, biologico e

storico che il suo territorio rappresen-

47

zioni e per la distribuzione non unifor-

me lungo tutto il complesso montano

del Somma-Vesuvio.

La superficie stimata è di circa 480

ettari (10% circa della Sau seminativi

dell’area), con produzioni annuali di

circa 4 mila tonnellate di prodotto fre-

sco, e rese oscillanti fra i 60 e i 150

quintali per ettaro.

Il riconoscimento della DOP e il rinno-

vato interesse commerciale verso tale

prodotto ha rivitalizzato l’intero com-

parto tanto che tutte le produzioni,

fresche e conservate, sono smaltite

rapidamente e senza alcuna difficoltà

soprattutto sul mercato locale, ma in

alcuni casi anche presso la moderna

distribuzione.

L’offerta di pomodorini in conserva o

in piennoli confezionati è ancora limi-

tata, ma in ogni caso, anche senza

un’adeguata politica di valorizzazione

del prodotto, rimane alto il livello di

qualità percepita dai consumatori e

quindi elevata è la richiesta del prodot-

to stesso.

Il Pomodorino del Vesuvio viene ap-

prezzato sul mercato sia allo stato fre-

sco, venduto appena raccolto sui mer-

cati locali, che nella tipica forma con-

servata in appesa -“al piennolo”-, op-

pure anche come conserva in vetro,

secondo un’antica ricetta familiare

dell’area, denominata “a pacchetelle”,

anch’essa contemplata nel disciplinare

di produzione della DOP.

Itinerari

Il Vesuvio con le sue mille immagini

rapisce la vista di qualsiasi individuo,

anche perché oltre alle bellezze natu-

rali che offre si possono ammirare la

sua azione dì “distruttrice” e

“creatrice”, rispettivamente visitando

Pompei ed Ercolano, e la zona di Ca-

stellamare di Stabia, Torre del Greco e

Boscoreale.

Primo itinerario – azione distruttiva del

Vesuvio - Pompei:

Pompei è una delle più significative

testimonianze della civiltà romana e si

presenta come un eccezionale libro

aperto sull’arte, sui costumi, sui me-

stieri, sulla vita quotidiana del passa-

to. La città è riemersa dal buio dei

secoli così come era al momento in cui

venne all’improvviso coperta da uno

spesso strato di ceneri fuoriuscite,

insieme alla lava, con la devastante

eruzione del Vesuvio.

Era il 79 dc. La tragedia fu immane: in

quello che era stato uno dei più attivi

e dei più splendidi centri romani la vita

si fermò per sempre. Lo spesso strato

di materiale eruttivo che lo sommerse,

costituito in gran parte da ceneri e

lapilli – materiale non duro a differen-

Page 39: Non è la solita guida

46

una grande versatilità in cucina. Accan-

to ai tradizionali spaghetti alle vongole

e agli altri frutti di mare, gli chef locali

si impegnano ad utilizzarlo in tanti altri

piatti, tra cui una variante alla preliba-

ta pizza napoletana.

Si utilizzano per le cotture veloci, co-

me il pesce all’acquapazza, ed eccel-

lenti anche con la carne alla pizzaiola,

ovvero fettine cotte in un semplice

sughetto di pomodorini preparato

all’istante, che poi, una volta estratta

la carne, serve per condire i macchero-

ni. Così, per molti mesi, si possono

condire i piatti di pesce, le pizze e le

paste della tradizione campana con una

“pummarola” straordinariamente sapo-

rita.

Da sempre questi pomodori hanno co-

stituito il veloce spuntino di mezza

mattina dei contadini nei campi, un

pomodoro “schiattato” sul pane, un filo

d’olio, sale e basilico.

Area di produzione

L’area tipica di produzione e conserva-

zione del pomodorino del piennolo

coincide con l’intera estensione del

complesso vulcanico del Somma-

Vesuvio, includendo le sue pendici de-

gradanti sino quasi al livello del mare.

In particolare, la zona di produzione e

condizionamento prevista dal discipli-

nare del “Pomodorino del Piennolo del

Vesuvio DOP” comprende:

• l’intero territorio dei seguenti comu-

ni della provincia di Napoli: Boscoreale,

Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa

Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia,

Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a

Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San

Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuvia-

na, Terzigno, Torre Annunziata, Torre

del Greco, Trecase;

• la parte del territorio del comune di

Nola delimitata perimetralmente: dalla

strada provinciale Piazzola di Nola –

Rione Trieste (per il tratto che va sotto

il nome di “Costantinopoli”), dal

“Lagno Rosario”, dal limite del comune

di Ottaviano e dal limite del comune di

Somma Vesuviana.

Dati economici e produttivi

La diffusione del “Pomodorino del Pien-

nolo del Vesuvio DOP” nell’area vesu-

viana è piuttosto frammentata, per

l’elevata parcellizzazione delle coltiva-

39

ta. La sua sede è collocata nel comune

di Ottaviano. È stato istituito principal-

mente per conservare i valori del terri-

torio e dell'ambiente, e la loro integra-

zione con l'uomo; salvaguardare le spe-

cie animali e vegetali, nonché le singo-

larità geologiche; promuovere attività

di educazione ambientale, di formazio-

ne e di ricerca scientifica.

Il versante vesuviano e quello sommano

differiscono notevolmente dal punto di

vista naturalistico, il primo è più arido,

è stato in gran parte riforestato per

impedire fenomeni franosi e presenta

le caratteristiche successioni vegeta-

zionali della macchia mediterranea; il

versante del Somma, più umido, è ca-

ratterizzato dalla presenza di boschi

misti.

La flora presente nel territorio della

Riserva è comunque di tipo essenzial-

mente mediterraneo; da numerosi studi

riportati in letteratura risulta che il

complesso vulcanico è stato colonizzato

da più di 900 specie, considerando

quelle estinte e quelle la cui colonizza-

zione è recente.

Oggi molte delle specie presenti in

passato non sono più state rinvenute;

l’impoverimento del patrimonio flori-

stico vesuviano va certamente ricon-

dotto all’accentuarsi della antropizza-

zione, soprattutto negli ultimi decenni.

Da studi recenti si è appurata la pre-

senza attualmente di 610 entità, delle

quali oltre il 40% è costituito da specie

mediterranee, il 20% è rappresentato

da specie cosmopolite, mentre sono

poco rappresentate le specie endemi-

che, con solo 18 entità, probabilmente

a causa delle numerose ricolonizzazioni

che hanno seguito le cicliche manife-

stazioni eruttive del vulcano. Tra que-

ste ultime, quella che può considerarsi

veramente rara è la Silene giraldi, pre-

sente, oltre che sul Vesuvio, anche a

Capri ed a Ischia; degna di nota è la

ginestra dell’Etna (Genista aetnensis),

un endemita etneo introdotto sul Vesu-

vio dopo l’eruzione del 1906, che in

alcune zone,come nell’Atrio del Caval-

lo e nella Valle dell’Inferno, forma

delle boscaglie impenetrabili.

Sui suoli lavici vesuviani si osserva la

colonizzazione vegetale che parte ad

opera dello Stereocaulon vesuvianum,

un lichene coralliforme tipico di

quest’area, dominante incontrastato

soprattutto sulle colate laviche più

recenti, dal tipico aspetto grigio e fila-

mentoso. Il lichene ricopre interamen-

te le lave vesuviane e le colora di gri-

gio, facendo assumere alla lava riflessi

argentati nelle notti di luna piena.

Sulle colate più antiche allo Stereocau-

lon vesuvianum si affiancano le altre

specie pioniere, tra cui la valeriana

Page 40: Non è la solita guida

40

rossa (Centranthus ruber), l'elicriso

(Helichrysum litoreum), l'artemisia

(Artemisia campestris).

Le associazioni pioniere preparano il

terreno per l'instaurarsi di estesi gine-

streti, che imprimono un aspetto carat-

teristico ai versanti del Vesuvio, so-

prattutto in periodo primaverile duran-

te le fioriture; sono presenti tre specie

di ginestra: la ginestra dei carbonai

(Cytisus scoparius), la ginestra odorosa

(Spartium junceum) e la già citata gi-

nestra dell'Etna (Genista aetnensis).

Sul versante meridionale del vulcano,

l’originale vegetazione mediterranea

del Vesuvio è stata in buona parte so-

stituita dal pino domestico (Pinus pine-

a); a partire degli anni ’90 è iniziata

un’opera di sfoltimento delle pinete

per lasciare il posto alle essenze medi-

terranee della zona, e in particolare al

leccio (Quercus ilex).

Tra lecci e pini, il rigoglioso sottobosco

include il biancospino (Crataegus mo-

nogyna), la fusaggine (Euonymus euro-

paeus) e lo smilace (Smilax aspera). La

vegetazione mediterranea si compone

di lentisco (Pistacia lentiscus), mirto

(Myrtus communis), alloro (Laurus nobi-

lis), fillirea (Philllirea latifolia), origano

(Origanum vulgare) e rosmarino

(Rosmarinus officinalis). Tra la prima-

vera e l’state fioriscono, come già evi-

denziato, ben 23 specie di orchidee

selvatiche; le più visibili sono la Orchis

papillonacea e la Orphys sphegodes.

Le pendici settentrionali del monte

Somma, che, come già detto, sono più

umide, sono invece coperte da ampi

castagneti fino a quota 900 mt; a quote

superiori prevalgono, invece, i boschi

misti di latifoglie, ricchi di sottobosco e

costituiti, oltre che dal castagno

(Castanea sativa), da roverella

(Quercus pubescens), carpino nero

(Ostrya carpinifolia), orniello (Fraxinus

ornus), ontano napoletano (Alnus gluti-

nosa), varie specie di acero (Acer

spp.), e resi ancora più interessanti per

la presenza di alcuni nuclei sparsi di

betulla (Betula pendula), relitto di bo-

schi mesofili presenti nell'area in passa-

to; esemplari di betulla sono presenti

anche nella Valle del Gigante. Dove

l'umidità è maggiore, alle specie arbo-

ree citate si affiancano anche i pioppi

(Populus spp.) e varie specie di salici

(Salix spp.).

Il sottobosco è particolarmente ricco;

tra le specie maggiormente diffuse

citiamo il pungitopo (Ruscus aculea-

tus), lo smilace (Smilax aspera), il bian-

cospino (Crataegus monogyna), il ligu-

stro (Ligustrum vulgaris), e numerose

famiglie di felci.

La caratterizzazione climatica,

l’attività eruttiva, che a più riprese ha

cancellato la vegetazione, ed il profon-

do rimaneggiamento dovuto alla co-

45

nianze storiche più illustri, notizie sul

prodotto sono riportate dal Bruni, nel

1858, nel suo “Degli ortaggi e loro col-

tivazione presso la città di Napoli”, ove

parla di pomodori a ciliegia, molto sa-

poriti, che “si mantengono ottimi fino

in primavera, purché legati in serti e

sospesi alle soffitte”.

Altra fonte letteraria attendibile è

quella di Palmieri, che sull’Annuario

della Reale Scuola Superiore

d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà

di Agraria), del 1885, parla della prati-

ca nell’area vesuviana di conservare le

bacche della varietà p’appennere in

luoghi ombrati e ventilati.

Francesco De Rosa, altro professore

della Scuola di Portici, su “Italia Orti-

cola” del novembre 1902, precisava

che la vecchia “cerasella” vesuviana

era stata via via sostituita dal tipo “a

fiaschetto”, più indicato per la conser-

vazione al piennolo. Il De Rosa è anche

il primo ricercatore che riporta in modo

esaustivo l’intera tecnica di coltivazio-

ne dei pomodorini vesuviani, facendo

intendere così che si stava sviluppando

nell’area un’intera economia intorno a

questo prodotto, dalla produzione delle

piantine da seme alla vendita del pro-

dotto conservato.

Anche il prof. Marzio Cozzolino, della

Facoltà di Agraria di Portici, nel suo

testo del 1916, concorda con le fonti

precedenti, sia sulla descrizione varie-

tale che sui metodi di produzione, de-

dicando intere parti del testo a descri-

vere minuziosamente la tecnica coltu-

rale e soprattutto fornendo dati, anche

economici, che aiutano a capire la la-

boriosità e la complessità di questa

tipologia di prodotto.

Coltura

Il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio

si coltiva con un metodo tradizionale,

che prevede l’ausilio di sostegni con

paletti di legno e filo di ferro, che evi-

tano che le bacche tocchino terra e

fanno sì che ricevano uniformemente i

raggi solari. I pomodori, del peso di

circa 25-30 grammi, sono rotondi e

presentano un piccolo pizzo

all’estremità inferiore.

La tecnica di conservazione tradizio-

nale vuole che si formino dei

“Piennoli”, cioè pendoli: grappoli inte-

ri, raccolti tra luglio e agosto, sistema-

ti su un filo di canapa legato a cerchio,

per comporre un unico grande grappo-

lo, conservato sospeso in luoghi asciut-

ti e ventilati. Questo sistema favorisce

una lenta maturazione e consente di

avere “oro rosso fresco” fino alla pri-

mavera seguente all’anno della coltiva-

zione.

In cucina

Il “Pomodorino del Piennolo del Vesu-

vio DOP” per le sue qualità è un ingre-

diente fondamentale della cucina na-

poletana e campana in generale, ed ha

Page 41: Non è la solita guida

44

Il piennolo

Arrivato dalla lontana America, il po-

modoro ha trovato nel Napoletano il

suo habitat ideale, prosperando ed

evolvendosi verso specie domestiche

sempre più pregiate. La sua coltivazio-

ne è divenuta una vera e propria arte e

la tradizionalità di questa produzione

sin dal XVIII secolo è documentata da

numerose fonti bibliografiche nonché

dall'abitudine di riprodurre i pomodori-

ni fra gli ortaggi del presepe.

Una delle produzioni più caratteristiche

dell’area del Vesuvio sono i pomodorini

da serbo “col pizzo”, detti anche spon-

gilli o piénnoli (“pendoli”) per

l’abitudine di appenderli alle pareti o

ai soffitti, riuniti in grappoli

(schiocche) e legati con cordicelle di

canapa. Sono piccoli pomodori (20-25

grammi) dalla forma a ciliegia, che si

distinguono dagli ormai famosi pomo-

dorini di Pachino per la presenza di due

solchi laterali (detti coste) che partono

dal picciolo e danno origine a delle

squadrature, e di una punta, un

“pizzo”, all’estremità.

La buccia è spessa e resistente, la pol-

pa soda e compatta, povera di succo,

prosciugata dal sole che splende sui

terreni aridi del vulcano. Si seminano

in marzo-aprile e maturano tra luglio e

agosto, ma l’antico procedimento di

conservazione prevede che li si raccol-

ga a grappoli interi all’inizio dell’estate

per conservarli, appesi in locali con

adeguata temperatura e umidità, fino

all’inverno o addirittura alla primavera

successiva.

Sapore e profumo diventano più intensi

con il passare del tempo: man mano

che i pomodori asciugano e la concen-

trazione aumenta. Il Pomodorino è ric-

co di Vitamina A e C, di cui sono noti

da tempo gli effetti anticancerogeni, di

sali minerali quali Calcio, Fosforo e

Potassio, indispensabili per il corretto

funzionamento del cuore e dei muscoli,

e di Licopene, che esercita

nell’organismo un’azione antiossidante,

stimolando la produzione di enzimi che

bloccano l’azione cancerogena dei radi-

cali liberi.

Cenni storici

La coltivazione del Pomodorino del

Piennolo sulle falde del Vesuvio ha sen-

za dubbio radici antiche e ben docu-

mentate. Per limitarci alle testimo-

41

stante presenza dell'uomo, sono alla

base della coesistenza, in un territorio

relativamente poco ampio, di così tanti

ambienti, diversi fra loro ed in varie

fasi di evoluzione.

Nonostante l’area del Parco sia com-

pletamente inserita in un contesto e-

stremamente antropizzato, ed abbia

assunto le caratteristiche tipiche di

un'isola biogeografica, il suo popola-

mento faunistico è notevolmente inte-

ressante. Anche la fauna è stata prota-

gonista, come le specie vegetali, di

ripetute colonizzazioni a seguito delle

cicliche eruzioni del Vesuvio, ma la

vicinanza alla fascia costiera, il fatto di

essere l'unico complesso montuoso si-

tuato al centro della pianura nolana,

unitamente alle favorevoli condizioni

climatiche ed alla grande diversità am-

bientale, hanno contribuito a consenti-

re il mantenimento, in un territorio di

modesta estensione, di una interessan-

te comunità faunistica. Soprattutto le

fasce ecotonali a confine tra i numerosi

agrosistemi hanno creato le condizioni

favorevoli all'instaurarsi di una comuni-

tà animale ricca e diversificata. Tra i

vertebrati sono state recentemente

accertate 2 specie di anfibi, 8 specie di

rettili, 138 specie di uccelli, 29 specie

di mammiferi, mentre tra gli inverte-

brati si contano 44 specie di lepidotteri

diurni, 8 famiglie di apoidei e formici-

di, tutte rappresentate da numerose

specie, e molti altri taxa, in parte an-

cora da studiare e catalogare, in parte

descritti in una recente pubblicazione

sulla biodiversità del Parco del Vesuvio

(Picariello, Di Fusco e Fraissinet,

2000).

Gli anfibi presenti sono il rospo smeral-

dino (Bufo viridis) e la rana verde

(Rana esculenta); il primo è piuttosto

diffuso nel territorio del Parco alle

quote medio-basse, e per favorirne la

riproduzione l'Ente ha predisposto la

costruzione di stagni artificiali tempo-

ranei, la seconda è invece molto loca-

lizzata, laddove sono presenti pozze o

vasche artificiali. Tra i rettili sono de-

gni di nota il cervone (Elaphe quatorli-

neata) ed il saettone (Elaphe longissi-

ma), entrambi molto rari. Per quanto

riguarda i mammiferi, sono da segnala-

re il ghiro (Glis glis), il topo quercino

(Eliomys quercinus), il mustiolo (Suncus

etruscus), la crocidura minore

(Crocidura suaveolens), il topo selvati-

co (Apodemus sylvaticus) ed il moscar-

dino (Muscardinus avellanarius), so-

prattutto negli ambienti boscati, oltre

al riccio (Erinaceus europaeus), pre-

sente il tutto il territorio protetto. Due

le specie di lagomorfi accertate: il

coniglio selvatico (Oryctolagus cunicu-

lus), protagonista di una notevole e-

spansione demografica, e la lepre eu-

ropea (Lepus europaeus), presente

Page 42: Non è la solita guida

42

soprattutto alle quote medio-alte con

una discreta densità di popolazione.

I predatori sono rappresentati dalla

volpe (Vulpes vulpes), diffusa in tutti

gli habitat del territorio vesuviano,

compresi quelli densamente antropiz-

zati, la faina (Martes foina), anch'essa

presente in tutto il territorio, predili-

gendo però gli ambienti forestali, e la

donnola (mustela nivalis), comune so-

prattutto nel versante sommano.

La classe degli uccelli rappresenta sicu-

ramente il taxon più ricco del Parco

nazionale del Vesuvio; a parte le specie

nidificanti e svernanti, il complesso del

Somma-Vesuvio, essendo posto lungo le

rotte migratorie dell'avifauna del Pale-

artico occidentale, ed essendo l’unico

rilievo montuoso isolato di una certa

importanza in una vasta area pianeg-

giante, riveste una fondamentale im-

portanza ed un sicuro riferimento per

numerosi migratori che vi sostano du-

rante i passi; tra questi vale la pena

citare il falco di palude (Circus aerugi-

nosus), il gruccione (Merops apiaster),

l'averla capirossa (Lanius senator). Le

specie nidificanti sono 62, un numero

di tutto rispetto considerata la limitata

estensione del territorio, costituito tra

l’altro in gran parte di roccia lavica.

Tra le nidificazioni più interessanti si

citano tre-quattro coppie di poiana

(buteo buteo), una-due coppie di falco

pecchiaiolo (Pernis apivorus), due cop-

pie di sparviere (Accipiter nisus), tor-

nato a nidificare in seguito

all’istituzione del Parco nazionale del

Vesuvio, cinque coppie di gheppio

(Falco tinnunculus) e due di pellegrino

(Falco peregrinus).

Inoltre il territorio, ricco di bellezze

storiche e naturalistiche, vanta una

produzione agricola unica per varietà e

originalità di sapori.

La produzione agricola vesuviana.

Per quanto riguarda la produzione agri-

cola verso le basse e fertili pendici,

ricche di silicio e potassio, (materiali

preziosi per la vegetazione), permane

la zona orticola, dove è intensamente

ricoperta di frutta, legumi, agrumi

(albicocche, ciliege, mandarini, noci,

noccioline, fichi, arance, pomodori,

fave, piselli, zucchine, cavolfiori, car-

ciofi, broccoli, finocchi, ecc). Nei cam-

pi vesuviani è rimasto vivo soprattutto

l’antico culto latino per il vino. Infatti

fino ai 400-500 m di altura domina la

vite e, il buon vino che si consiglia di

gustare è il cosiddetto “caprettone”, il

cui vero nome è la Coda di Volpe. Tra i

vini pregiati del Vesuvio ricordiamo

anche quello ricavato dall’uva Falan-

ghina e Lacryma Christi, quest’ultimo

lo si ottiene dai grappoli d’uva del Pie-

dirosso del Vesuvio.

La coltivazione della vite sul Vesuvio

43

risale ad epoca antichissima. Da Aristo-

tele viene citato che i Tessali, antico

popolo della Magna Grecia, piantarono

le prime viti nella zona vesuviana quan-

do nel V secolo a.C. si stabilirono in

Campania. Tanti poeti latini, inoltre,

tra cui Sallustio, Plinio e Marziale, han-

no lasciato qualche testimonianza. Nel-

la cultura romana si ignorava che il

Vesuvio fosse un vulcano attivo, ma era

ben nota la fertilità delle sue pendici

che erano ammantate quasi interamen-

te da vigneti, per cui le falde del mon-

te erano tutto un susseguirsi di ville

rustiche, preposte alla coltivazione

della vite ed alla produzione del vino.

Alcune di queste ville sono state rinve-

nute ed in esse è ancora visibile la

struttura modellata in funzione della

produzione del vino a riprova dell'im-

portanza della viticoltura nella vita del

circondario pompeiano.

Lacryma Christi

Esistono vari miti e leggende sul nome

del vino: "Dio riconoscendo nel Golfo di

Napoli un lembo di cielo strappato da

Lucifero durante la caduta verso gl'in-

feri, pianse e laddove caddero le lacri-

me divine sorse la vite del Lacrima

Christi".

Un'altra versione narra invece di Cristo

in visita ad un eremita redento che

prima del commiato gli trasforma la

sua bevanda poco potabile in vino ec-

cellente. Versioni cristiane ereditate

dalla mitologia pagana ben radicata sin

dai primi insediamenti umani come

dimostrano l'affresco di Bacco sul Vesu-

vio conservato nella Casa del Centena-

rio a Pompei e le sue infinite presenze

nei resti romani scampati all'eruzione

del 79 d.C., la più antica di cui si abbia

testimonianza scritta.

Sulla leggenda ritornò Curzio Malaparte

che ne "La pelle", invita a bere "questo

sacro, antico vino".

Il Lacryma Christi veniva prodotto negli

antichi tempi da certi monaci, il cui

convento sorgeva sulle pendici del Ve-

suvio. Sembra che più tardi i Padri Ge-

suiti, padroni di vaste terre in quelle

località, fossero quasi esclusivi produt-

tori e detentori di questo prezioso vi-

no.Per quanto siano radicate le tradi-

zioni del Lacryma Christi, l'istituzione

della DOC è piuttosto recente e risale

al 1983.