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Gruppo Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Interstizi & Intersezioni N N e e w w s s M M A A G G A A Z Z I I N N E E I I n n t t e e r r s s t t i i z z i i & & I I n n t t e e r r s s e e z z i i o o n n i i n n . . 2 2 5 5 , , P P r r i i m m a a v v e e r r a a - - E E s s t t a a t t e e 2 2 0 0 1 1 2 2 Se morisse l’alfabeto morirebbero tutte le cose. Le parole sono le ali. La vita intera dipende da quattro lettere. Federico García Lorca Abitare poeticamente il mondo Il grande poeta romantico Friedrich Hölderlin invitava ad “abitare poeticamente il mondo”. E’ possibile fare proprio questo auspicio nel vivo della società postindustriale contemporanea? Che questa idea sia praticabile nella vita di ogni giorno lo testimonia tra l’altro una rivista francese di scienze umane splendidamente illustrata, Canopée (Pour une écologie de la terre, du corps et de l’esprit, Actes Sud), il cui numero 10/2012 è interamente dedicato a tale tema. Abitare poeticamente la terra implica la rinuncia ad uno sguardo dominatore e predatore, quello a cui ci ha abituato di fatto, in Occidente, l’idea del predominio dell’economico sulla dimensione sociale e su quella etica, con le nefaste conseguenze di cui stiamo soffrendo in questi anni di acuta crisi economico-finanziaria. E implica sostiene Canopée il privilegiare tre verbi, vale a dire contemplare (con uno sguardo empatico che ci ponga in armonia con tutti gli esseri viventi), collegare (nel senso di collegarsi al mondo) e mescolare (métisser), gesto che ci permette di apprezzare le diversità. Si può cercare di abitare poeticamente il mondo non solo da artisti (e non è detto che per essi sia più facile), ma da viaggiatori e fotografi, operatori della salute e cuochi, agronomi e contadini, botanici e semplici amanti della natura. E, vorrei aggiungere, si può farlo da ricercatori e da studenti delle scienze umane e di letteratura o di altre discipline, da membri di una comunità accademica. Si può cercare di farlo da cittadini che credono nella bellezza del loro paese, delle loro città, delle loro abitazioni: nella bellezza insostituibile degli incontri umani. Giovanni Gasparini SOMMARIO Forum su “Giustizia & Letteratura” a cura di Claudia Mazzucato (Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Francesco D’Alessandro, Paola Ponti) 1. Incontri - Michela Bolis, Lectio magistralis di G. Gasparini su “Società, bellezza e valori nel mondo contemporaneo” - Cristina Pasqualini, La via per una nuovo umanesimo. Incontro con Edgar Morin 2. Libri & Scritti - Giovanni Gasparini, Oeil ouvert et coeur battant di F.Cheng - Michela Bolis, Breve storia della vita privata di B. Bryson - Alida Airaghi, Melting pot di G. Gasparini 3. Arte & Comunicazione - Lucia Gasparini, Famiglie Tradizione Narrazione, Itinerario d’arte e spiritualità - Giovanni Gasparini, Leonardo, pittore alla corte di Milano 4. Vita quotidiana - Silva Cortellazzi, Riflessioni sulla cultura Rubrica “Città (e luoghi) interstiziali” - Francesco Marini, Accra: interstizio di umanità - Giorgio Baroni, Trieste Pubblicazioni recenti neXus

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Gruppo Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Interstizi & Intersezioni

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Se morisse l’alfabeto morirebbero tutte le cose. Le parole sono le ali.

La vita intera dipende da quattro lettere.

Federico García Lorca

Abitare poeticamente il mondo

Il grande poeta romantico Friedrich Hölderlin invitava ad “abitare poeticamente il mondo”. E’ possibile fare proprio questo

auspicio nel vivo della società postindustriale contemporanea? Che questa idea sia praticabile nella vita di ogni giorno lo

testimonia tra l’altro una rivista francese di scienze umane splendidamente illustrata, Canopée (Pour une écologie de la terre,

du corps et de l’esprit, Actes Sud), il cui numero 10/2012 è interamente dedicato a tale tema. Abitare poeticamente la terra

implica la rinuncia ad uno sguardo dominatore e predatore, quello a cui ci ha abituato di fatto, in Occidente, l’idea del

predominio dell’economico sulla dimensione sociale e su quella etica, con le nefaste conseguenze di cui stiamo soffrendo in

questi anni di acuta crisi economico-finanziaria. E implica – sostiene Canopée – il privilegiare tre verbi, vale a dire

contemplare (con uno sguardo empatico che ci ponga in armonia con tutti gli esseri viventi), collegare (nel senso di collegarsi

al mondo) e mescolare (métisser), gesto che ci permette di apprezzare le diversità. Si può cercare di abitare poeticamente il

mondo non solo da artisti (e non è detto che per essi sia più facile), ma da viaggiatori e fotografi, operatori della salute e

cuochi, agronomi e contadini, botanici e semplici amanti della natura. E, vorrei aggiungere, si può farlo da ricercatori e da

studenti delle scienze umane e di letteratura o di altre discipline, da membri di una comunità accademica. Si può cercare di

farlo da cittadini che credono nella bellezza del loro paese, delle loro città, delle loro abitazioni: nella bellezza insostituibile

degli incontri umani.

Giovanni Gasparini

SOMMARIO Forum su “Giustizia & Letteratura” a cura di Claudia Mazzucato

(Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Francesco D’Alessandro, Paola Ponti)

1. Incontri - Michela Bolis, Lectio magistralis di G. Gasparini su “Società, bellezza e valori nel mondo contemporaneo” - Cristina Pasqualini, La via per una nuovo umanesimo. Incontro con Edgar Morin

2. Libri & Scritti - Giovanni Gasparini, Oeil ouvert et coeur battant di F.Cheng - Michela Bolis, Breve storia della vita privata di B. Bryson - Alida Airaghi, Melting pot di G. Gasparini

3. Arte & Comunicazione - Lucia Gasparini, Famiglie Tradizione Narrazione, Itinerario d’arte e spiritualità - Giovanni Gasparini, Leonardo, pittore alla corte di Milano

4. Vita quotidiana - Silva Cortellazzi, Riflessioni sulla cultura

Rubrica “Città (e luoghi) interstiziali” - Francesco Marini, Accra: interstizio di umanità - Giorgio Baroni, Trieste

Pubblicazioni recenti

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Forum su “Giustizia & Letteratura” a cura di Claudia Mazzucato

Introduzione Anche l’edizione 2011-2012 del ciclo seminariale organizzato dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale ha confermato la vocazione della letteratura, e di tutte le arti narrative in genere, a dischiudere orizzonti di senso nei quali gli stessi giuristi possono intravedere spiragli di risposta alle loro secolari domande. Gli incontri hanno percorso epoche, letterature e culture diverse – dalla tragedia antica alla filmografia di Kubrick, passando per alcuni grandi “classici” (Manzoni, Melville, Collodi) – e affrontato una ricca messe di tematiche di rilevanza filosofico-giuridica. Fra queste, è forse possibile riconoscere tre direttrici fondamentali: la questione libertà-determinismo e dunque il tema della responsabilità (così, per esempio, in Pinocchio, nella tragedia greca e nelle sue trasposizioni novecentesche, nella filmografia di Kubrick); il rapporto tra giustizia (sostanziale) e legge (formale), tra giustizia e autorità, tra giustizia e ordine-controllo (così, per esempio in Melville e Manzoni, nonché ancora nel racconto collodiano e nei film di Kubrick); il linguaggio come capacità anche di esprimere l’ingiustizia, veicolata così in forme dicibili, comunicabili, le quali neutralizzano il ricorso a un altro, inaccettabile, “dire” che è il gesto violento (Billy Budd di Melville, Full Metal Jacket di Kubrick, certi episodi che riguardano Renzo ne I promessi sposi, ecc.). Direttrice portante, in tutti i seminari, è stata però, ancora una volta, la ricerca di una giustizia che travalichi i formalismi giuridici o le istintualità vendicative e si collochi in un territorio alternativo al consueto, un territorio timidamente e saggiamente aperto persino alla riconciliazione. Claudia Mazzucato, Università Cattolica – Milano, [email protected]

La via stretta: vendetta, giustizia, perdono nei

Promessi sposi

(10 novembre 2011, Prof. Pierantonio Frare, Prof. Luciano Eusebi) Il tema della giustizia pervade il notissimo capolavoro di Alessandro Manzoni. Il racconto è intriso di ingiustizie ed è tutto animato dalla ricerca della giustizia che vi compare come un

concetto polisemico di cui si descrivono le molteplici forme: l’istinto di vendetta (Renzo) la giustizia asservita al potere (Azzeccagarbugli), la violenza per amore di giustizia (Lodovico), il perdono (Fra Cristoforo, Innominato, Renzo). Nella struttura narrativa de I promessi sposi, la domanda lancinante di giustizia muove i protagonisti principali, li conduce lungo un’avventura esistenziale, li trasforma completamente e infine diviene motivo del loro stesso compimento, o “conversione”. Il romanzo si apre e si chiude sulla giustizia, la quale però cambia di segno nell’arco del racconto: la vendetta diventa perdono, il duello stesso – nell’episodio di Lodovico – subisce un’imitazione mimetica nel gesto perdonante. La figura di Renzo è emblematica: da vittima di sopruso, egli è, fra tutti i personaggi, quello che più cerca la giustizia ed esige il riconoscimento del diritto e dei diritti. Ma la sua domanda si aggroviglia inizialmente nell’accezione meno nobile di giustizia ed esprime sete emotiva di ritorsione e impulsiva inclinazione per una giustizia “fai da te”. Nel suo itinerario, però, si stagliano – quali vere e proprie figure salvifiche – Fra Cristoforo e Lucia le quali si distinguono proprio per la loro singolare capacità di non isterilirsi nella retribuzione del male o nel risentimento privato e violento, e di aprirsi invece all’incontro incondizionato che si scioglie nel perdono e cattura infine anche Renzo, un Renzo che appunto matura nel suo travagliato viaggio dalla vendetta al perdono. Il dinamismo di questa straordinaria narrazione è intimamente connesso alla giustizia e trova via via nel perdono – forse l’unica forma di giustizia; forsa la vera Giustizia – la propria ripartenza: è il perdono che rimette in moto la storia; “giustizia” sembra appunto essere solo ciò che non chiude, solo ciò che tiene aperta la storia e, insieme ad essa, il cammino personale e spirituale dei personaggi verso un futuro di pienezza. Nei Promessi sposi, il perdono ha dunque una rilevanza insieme individuale e sociale: è ciò che “fa andar meglio tutte le cose”. La società, insomma, diventa giusta – più giusta – perché, e in quanto, è “perdonata e perdonante”. Apertura e dinamismo in chiave antiretribuzionistica hanno un peso decisivo anche nell’odierno ripensamento delle modalità di prevenzione dei reati: lo stesso finalismo rieducativo della sanzione penale, additato dalla Costituzione e condensato in quel significativo

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“tendere alla rieducazione” di cui all’art. 27 comma 3, preme per l’adozione di risposte al reato che siano soprattutto percorsi di valorizzazione delle risorse e delle capacità anche del colpevole, in vista di una riadesione volontaria alle norme e di una ricucitura della frattura sociale apertasi con l’illecito. A ben vedere, il volto costituzionale del diritto penale contiene un’idea “narrativa”: il colpevole e l’offeso non sono inchiodati a ciò che è stato e la giustizia aspira a porre le condizioni che consentono di proiettarsi in una narrazione aperta al futuro. Claudia Mazzucato

La legge in mare: Melville da Benito Cereno a Billy Budd (16 febbraio 2012, Prof. Francesco Rognoni, Dott.ssa Arianna Visconti) L’opera di Herman Melville da sempre affascina gli studiosi di Law and Literature, non solo per la straordinaria complessità con cui questo autore si è accostato ai temi della giustizia e della legge, ma per il caleidoscopio di raffigurazioni che è stato capace di darne. Dall’incredibile testamento di Bardianna in Mardi (1849), alla parodistica teoria del fast-fish and loose-fish in Moby Dick (1851), dal letargico eppure nevrotico studio legale che fa da sfondo all’enigmatico Bartleby lo scrivano (1853), alla crudezza della vita e della disciplina nella marina militare, rappresentate in White Jacket (1850), dalla sanguinosa e fallimentare ribellione degli schiavi su una nave negriera in Benito Cereno (1855), al dramma di Billy Budd, marinaio (1924, pubblicato postumo), condannato a morte per aver colpito e involontariamente ucciso un superiore che lo aveva gravemente calunniato, la legge è rappresentata di volta in volta nei suoi profili più quotidiani, tragici, ridicoli, grotteschi. Soprattutto in Benito Cereno e in Billy Budd emerge la rappresentazione di una radicale ambiguità, artificialità e arbitrarietà della legge e dei ruoli che essa va a sancire. La messa in scena degli schiavi ammutinati, subita da Cereno e non intuita da Delano fin quasi alla fine del racconto, è l’epitome della forza accecante del pregiudizio, dell’“etichetta”, e dell’opposta, inquietante interscambiabilità di schiavo e padrone, vittima e carnefice, reo e giudice, le cui parti si invertono e confondono nel grigiore delle brume che avvolgono la nave alla deriva. E il conflitto fra apparenza e sostanza, forma e valore, legge

positiva e giustizia è ancora più evidente nel processo a Billy, l’innocente sacrificato sull’altare della rigida disciplina imposta dal codice militare di guerra. Qui si mettono in scena le tre anime della legge: il formalismo, incarnato dal capitano Vere, i diritti fondamentali che dovrebbero darle sostanza, e che reclamerebbero la salvezza di Billy (simbolo della Natura), e la brutale realtà del potere, della forza, di cui ogni legge – e in particolare quella penale – è espressione, incarnata dal maestro d’armi, Claggart, “vittima” della sua vittima. La condanna a morte di Billy segna il trionfo della forma, e più ancora della forza – lo “spirito della guerra” che informa la legge della marina – sulla sostanza e l’equità, tratteggiato coi toni ineluttabili della tragedia. Un grande disincanto sembra pervadere l’opera di Melville: come il presentimento che il delicato equilibrio tra le varie componenti della legge, tra la regola positiva e la giustizia sostanziale, eternamente invocato e perseguito, sia per sempre inattingibile. E che, forse, solo la letteratura possa davvero “fare giustizia”, rappresentando ognuno nella sua nuda verità, ogni vicenda nel crudo concatenarsi degli eventi; semplicemente raccontando – come in Bartleby – l’inesplicabile, ciò che non può essere mai davvero attinto e capito, ma solo sentito e condiviso, in quella comune esperienza dell’umanità che solo la pagina letteraria consente. Arianna Visconti, Università Cattolica – Milano, [email protected]

Limite, trasgressione e responsabilità: riscritture moderne della tragedia antica (19 aprile 2012, Prof.ssa Anna Maria Cascetta, Prof. Francesco D’Alessandro) Il teatro, nel suo aspetto performativo di rappresentazione che intreccia prassi rituale, prassi politica ed espressione artistica, ha costituito in ogni epoca il luogo privilegiato per riflettere, attraverso le vicende e i dialoghi dei personaggi di volta in volta rappresentati in scena, sulle questioni nodali di ogni cultura, sui suoi valori e sui delicati equilibri attraverso i quali regolare, nel modo più soddisfacente, i rapporti all’interno della società. Il genere tragico, in particolare, ha percorso la cultura occidentale attraverso i secoli, come una sorta di ininterrotto “filo rosso”, affrontando, fin dalle sue origini nell’antica Grecia, le questioni strettamente correlate della norma, del limite, della

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trasgressione, della responsabilità, della punizione e declinando, di epoca in epoca, tali categorie secondo le ideologie, le filosofie, le concezioni antropologiche sottese alle diverse culture. Nel ‘900 – il secolo in cui, da un lato, si sgretola quell’orizzonte “assoluto” di senso che ha rappresentato la cornice ideale della nascita della tragedia e, dall’altro, franano rovinosamente le ideologie, rideterminando i contenuti di concetti basilari del genere tragico, come quelli di eroe, limite, trasgressione, colpa, pena, espiazione, catarsi – diversi orizzonti di senso coesistono e interagiscono tra loro e gli stilemi della tragedia vengono riscritti, rovesciati, contaminati. Tuttavia, la rielaborazione delle figure classiche di Oreste, Elettra, Pilade, Edipo e Antigone, interpretati dai loro autori moderni (O’Neill, Pasolini, Testori, Brecht) e dai registi che sulla scena li hanno rappresentati, continua a costituire, come nel passato, un’occasione privilegiata per continuare a riflettere su quelle questioni, che mantengono, pur nelle diversità storica e culturale delle epoche, il loro ruolo cruciale nel delineare l’orizzonte di senso in cui si svolge la vita umana. Pur nella loro autonomia stilistica e concettuale, anche le riscritture moderne della tragedia si mostrano coerenti con la celebre definizione di Goethe (Colloqui con Eckermann, 6 giugno 1824), secondo cui “ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare”. Di questa dimensione del tragico – del suo essere irrimediabile conflitto, privo di soluzioni che possano essere davvero appaganti – alcuni profili si segnalano di particolare interesse: il conflitto tra volontà e destino, libertà e necessità, da un lato; il conflitto tra lex e ius, norma giuridica e legge morale, diritto e giustizia, dall’altro. Tuttavia, nell’affrontare questi irresolubili contrasti, le riscritture moderne della tragedia segnalano dei significativi punti di rottura rispetto alla tradizione antica. Il concetto di “responsabilità”, in particolare, viene ad assumere una connotazione profondamente diversa, passando dall’orizzonte della “responsabilità limitata” – in cui l’eroe deve pur sempre fare i conti con un destino che condiziona fatalmente gli esiti delle sue azioni, quale che sia il comportamento che egli decida in concreto di adottare – a quello della “responsabilità personale”, che toglie all’essere umano anche l’ultimo, pallido alibi per le proprie trasgressioni e

gli chiede conto – “tragicamente”, per l’appunto – delle conseguenze delle proprie azioni. L’uomo, in questa prospettiva, rimane ancora raffigurabile secondo la celebre definizione del primo stasimo dell’Antigone sofoclea – che lo indica come la più “mirabile” e, allo stesso tempo, la più “terribile” di tutte le creature – con la sola, decisiva differenza che, nell’orizzonte della modernità, tutto il peso delle proprie scelte è destinato a gravare esclusivamente sul protagonista. Ecco allora che le atrocità e i massacri del ‘900, rappresentati magistralmente da molti autori teatrali proprio attraverso la rilettura delle tragedie antiche (si pensi, per tutti, all’Antigone di Brecht), pongono drammaticamente l’essere umano di fronte alla responsabilità per aver orientato le proprie energie alla sopraffazione e alla distruzione, invece che all’obiettivo di una prosperità condivisa. La condanna è netta, eppure non chiude ogni spiraglio alla prospettiva di un possibile riscatto. Si affaccia all’orizzonte, infatti, il paradigma del “principio-responsabilità”, che anima alcune tra le più interessanti letture post-moderne della tragedia (Beckett, Pasolini) e che traccia un percorso – in ideale coerenza con le riflessioni del filosofo Hans Jonas – per la possibile catarsi dell’umanità: impegnarsi costantemente, senza risparmio di risorse e di energie, per consegnare intatte, alle generazioni future, le possibilità di mantenimento e sviluppo della vita sul nostro pianeta. Francesco D’Alessandro, Università Cattolica – Milano, [email protected]

La giustizia indifferente: etica e casualità nella cinematografia di Stanley Kubrick (10 maggio 2012, Prof. Gian Battista Canova, Avv. Remo Danovi, Prof. Ruggero Eugeni, Prof. Carlo Enrico Paliero) La cinematografia di Stanley Kubrick dischiude un mondo ricchissimo di spunti per una riflessione intorno alla giustizia, alla genesi dei sistemi penali, alla violenza e al suo controllo: spunti tanto inestimabili quanto inquietanti, soprattutto nel frangente attuale della modernità così incline a istanze emotive securitarie dalle quali scaturiscono il “diritto penale del nemico”, i “pacchetti sicurezza” e le politiche di “tolleranza zero”. Nel cinema kubrickiano vi è una specifica forza, una potenza, consegnata alle immagini e allo sguardo. Si è, cioè, al cospetto di una peculiare “scrittura visiva” in cui quasi immancabilmente viene messo in scena un

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conflitto tra “verbo” e “carne” e dove la parola soccombe a favore dell’immagine da sola capace, secondo Kubrick, di produrre un pensiero “impensabile” attraverso il linguaggio: per esempio, Lolita (1962) racconta della sconfitta della parola rispetto alla sguardo; in Arancia meccanica (1971) l’orrore del guardare è insieme colpa e pena; Shining (1980) è l’iniziazione allo sguardo di uno “spettatore-figlio” di uno “scrittore-padre”; in Full Metal Jacket (1987) le parole diventano puri suoni urlati, fonemi “abbaiati”. Kubrick disegna spesso un universo violento “senza colpa” che il regista pare osservare quasi da “entomologo”, a tratti con fare ironico e demistificatorio, e nel quale la giustizia è ora una “messa in scena” spalancata sul nulla (così in Orizzonti di gloria, 1957, e in Eyes Wide Shut, 1999), ora una macchinazione o “costruzione” formale “geometrica”, asfissiante e ampiamente influenzata dal Caso, in cui l’essere umano è comunque schiacciato (Arancia meccanica, Dott. Stranamore del 1968). Le regole, l’autorità e i sistemi di controllo deputati a garantire l’ordine sono sovente assurdi e grotteschi, del tutto incapaci di rendere davvero giustizia e anzi per primi generatori di violenza. Il controllo è sopraffazione che si contrappone alla violenza del vitalismo, della pura e nuda vita, l’“altra” violenza: si pensi ad Arancia meccanica, ma anche a 2001 – Odissea nello spazio (1968) dove con la comparsa della Ragione nascono la prima arma e il primo omicidio. L’attenzione di Kubrick per le “istituzioni totali” (caserma, manicomio, carcere) con le loro infantilizzazioni e regressioni segnala uno scetticismo che rasenta il nichilismo e finisce per delegittimare ogni sistema di controllo. Il cinema di Kubrick è di grande attualità per l’angosciante assonanza tra le dinamiche dell’ordine che il regista americano rappresenta nei suoi film e le teorie criminologiche tanto in voga, protese verso fitti “contenimenti” e “legami” – controlli, appunto – delle altrimenti ritenute dilaganti propensioni criminose che esse vogliono immancabilmente vedere negli esseri umani. Da esplorare ulteriormente è la riflessione sull’iconofobia del diritto, come uno dei relatori ha voluto definirla. Si ha proprio l’impressione che anche lo sguardo, il sapere che deriva dal senso della vista, abbia una qualche importanza nel cammino che il diritto deve percorrere per incontrare la giustizia, cioè per non essere un sistema chiuso, nevrotico e irrazionale come le macchine, belliche e non, e

le macchinazioni terrificanti dei personaggi dei film di Kubrick. Claudia Mazzucato

Il caso Pinokkio: tra menzogna, violenza e perdono (15 marzo 2012, prof. Gabrio Forti, prof. Giovanni Gasparini, prof. Ruggero Eugeni) La vicenda archetipica e metaforica narrata nelle Avventure di Pinocchio ben si presta ad una riflessione sul rapporto tra norma e trasgressione. Non solo per i tratti emblematici che contraddistinguono il comportamento del burattino, sempre tentato dall’azione istintiva che sovverte regole e richiami pedagogici, ma anche per l’enorme diffusione editoriale di cui tale figura gode tutt’oggi, basti pensare che «la Bibbia del cuore» conta in tutto il mondo più di 200 traduzioni tra lingue straniere e dialetti. Il seminario di incontri Giustizia e letteratura ha quindi previsto una lezione del titolo “Il caso Pinokkio: tra menzogna, violenza e perdono”, nella quale sono intervenuti i professori Forti, Gasparini ed Eugeni. Sulla scorta del suo noto saggio La corsa di Pinocchio (1997), Gasparini ha delineato le caratteristiche distintive del burattino, per esempio la propensione al movimento che si esprime in una corsa vitale e inarrestabile, la capacità di dono e di perdono, l’innata allegria ed anche il coesistere di due progetti contrapposti: da una parte, il divertimento eletto a regola di vita (Paese dei balocchi), dall’altra, l’impegno e lo studio funzionali alla trasformazione in un «un ragazzo perbene». Il «formidabile dinamismo» di Pinocchio è quindi legato a tale ambivalenza di fondo, che lo rende facile preda di violenza ed ingiustizia. Quest’ultima, in particolare, si esprime in una legalità paradossale e rovesciata, che è incapace di distinguere il reato commesso da quello ingiustamente subito. Se nei rappresentanti pubblici della giustizia responsabilità e punizione sono oggetto di un capovolgimento sistematico - sicché è l’innocente ad essere erroneamente punito -, gli episodi di devianza e i propositi di ubbidienza di Pinocchio comportano per lui il continuo rischio di inganno e di morte, esponendolo a tutti gli aspetti terribili e minacciosi del mondo degli adulti. Del volume collodiano sono quindi possibili due letture opposte e in certa misura complementari: quella poetica, creativa e anti-utilitaristica di un burattino che, con le sue caratteristiche, tende a

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costruire un mondo diverso e altro rispetto a quello rappresentato dalle norme degli adulti e dalla loro realizzazione spesso discutibile; e quella dark ed espressionista che vede, proprio in tale mondo, una costitutiva forma di manchevolezza, di ambiguità e un’assenza di certezze affidabili. Dal «legno storto dell’umanità», afferma Isaiah Berlin opportunamente ricordato da Gabrio Forti, non si è mai ricavata una cosa perfettamente diritta. Paola Ponti, Università Cattolica – Milano, [email protected]

1. Incontri La Bellezza. Società, bellezza e valori nel mondo contemporaneo Lo scorso 28 marzo il prof. Giovanni Gasparini ha tenuto, nella sede milanese dell’Università Cattolica, una lectio magistralis sul tema della Bellezza.

La scelta di un argomento così atipico per una lectio tenuta da un professore di Sociologia discende, secondo quanto ha affermato lo stesso Gasparini, dal tentativo di “collegare interstizi e intersezioni tra aree e discipline diverse, anche attraverso una pratica di scrittura a più livelli e in più ambiti disciplinari”. Del resto, come hanno ricordato anche il prof. Domenico Bodega, Preside della Facoltà di Economia, e il prof. Giancarlo Rovati, Direttore del Dipartimento di Sociologia, introducendo la lectio, il prof. Gasparini può vantare una lunga esperienza di ricercatore-scrittore nel campo delle scienze sociali e, insieme, in quello della letteratura, specialmente della poesia. Questa sua peculiarità gli ha permesso di affrontare il tema complesso e polivalente della Bellezza in una prospettiva

pressoché inedita. Innanzitutto, l’argomento è stato contestualizzato all’interno del quadro della società contemporanea, poi ne è stata analizzata la costruzione sociale per arrivare a studiare il rapporto tra l’estetica e l’etica, tra la Bellezza e i valori condivisi o perseguiti dai singoli e dai sistemi sociali. Particolarmente originale è stata la scelta di accompagnare lo svolgimento dell’incontro, nel corso del quale sono intervenuti anche i professori Giampaolo Azzoni, Vincenzo Cesareo, Gabrio Forti e Virgilio Melchiorre, con la proiezione di alcune fotografie (scattate dallo stesso Gasparini) che avevano come soggetto la sede di Largo Gemelli dell’Università Cattolica, presentata nel corso della lectio come “exemplum di bellezza dal vivo”, luogo di bellezza dove “si incontrano felicemente arte, storia e ambiente naturale, cultura e natura per così dire, e dove un ulteriore elemento di valore nel segno della bellezza è rappresentato dalla presenza umana”. Michela Bolis, Università Cattolica – Milano, [email protected] La via per un nuovo umanesimo. Incontro con Edgar Morin Chi lo conosce sa quanto Edgar Morin sia da sempre affezionato all’Italia e alle sue tradizioni (non da ultimo gastronomiche), tanto da auto-definirsi non tanto un ospite, uno “straniero”, ma uno di noi. Se questa è la premessa, non sorprende allora che sia riuscito ancora una volta a riempire il Piccolo Teatro Studio di Milano lo scorso 20 aprile, quando, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “La via. Per l’avvenire dell’umanità” edito da Raffaello Cortina, ha dialogato con il suo amico-fraterno, oltre che discepolo, Mauro Ceruti.

In tanti sono venuti a salutarlo, non soltanto i suoi amici di sempre – Sergio Manghi, oltre alla

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sottoscritta – ma anche tanti giovani. Quest’ultimo, un segnale importante di questi tempi, in cui si dibatte molto sullo scarso peso (demografico, politico e sociale) delle giovani generazioni e di una sostanziale impostazione “gerontocratica” della società italiana. Un esempio interessante e ben riuscito di trasmissione intergenerazionale, in cui i giovani, ascoltando, ricevono gli insegnamenti e l’esperienza di un vecchio maestro e mostrano di essere interessati a reagire, a prendere attivamente in mano il proprio e altrui futuro, attraverso azioni volte a ricreare uno spirito di solidarietà, convivialità e socialità1. Dicevamo, un teatro gremito di persone, attente, silenziose, concentrate a comprendere i tanti messaggi, le tante riflessioni affrontate e argomentate da Morin in una forma linguistica – il fritagnol, ovvero una mescolanza di francese, italiano e spagnolo – che lo rende un intellettuale assolutamente unico, atipico e riconoscibile. Il presente è un tempo di crisi, di più crisi, ha più volte sottolineato Morin, che non fa sconti a nessuno. È evidente che siamo tutti esposti agli stessi rischi di morte e di distruzione di massa (ecologica, ambientale, nucleare, ecc.); che la riuscita materiale della nostra civiltà è stata formidabile producendo altresì un drammatico insuccesso morale, nuove povertà, malessere psichico diffuso, il degrado delle solidarietà. Ecco allora che se l’antico umanesimo aveva prodotto un universalismo astratto, ideale e culturale, il nuovo umanesimo – per dirla con Mauro Ceruti – non può che essere un universalismo concreto,

1 Il giorno sabato 21 aprile, Edgar Morin è stato

intervistato anche da Fabio Fazio all’interno del

programma Che tempo che fa, su Rai Tre.

Per chi fosse interessato all’intervista di Edgar Morin,

può rivederla al seguente indirizzo:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentI

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reso tale dalla comunità di destino irreversibile che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli dell’umanità intera e l’umanità intera

all’ecosistema globale, alla Terra. E, in definitiva, l’invito del poeta Hölderlin ad “abitare poeticamente il mondo”, richiamato da Giovanni Gasparini nell’Editoriale di questo NewsMagazine, è anche uno degli elementi del nuovo umanesimo moriniano. Cristina Pasqualini, Università Cattolica – Milano, [email protected]

2. Libri & Scritti F. Cheng, Oeil ouvert et coeur battant (Desclée de Brouwer, Paris 2012) François Cheng, accademico di Francia che il nostro Newsmagazine si onora di contare tra i suoi Corrispondenti, ritorna con questo volume denso e ispirato sul tema della bellezza già affrontato in precedenza (Cinq méditations sur la beauté, Paris 2006, trad. it.Bollati Boringhieri). Il saggio, che riprende una lezione pronunciata al Collège des Bernardins di Parigi il 5 novembre 2010, reca il sottotitolo “Comment envisager et dévisager la beauté”, che si potrebbe tradurre “Come concepire e come guardare in faccia la bellezza”. Mediatore di culture e di lingue tra Cina e Occidente, Cheng offre in queste pagine una meditazione sulla bellezza che continua a esistere e ad attirarci nel mistero del male nel mondo e che si manifesta come specificità della presenza di ciascun essere accanto a tutti gli altri. La bellezza non è un ornamento superfluo, essa resta essenziale “nella misura in cui partecipa al fondamento della nostra esistenza e del nostro destino”. C’è in particolare la bellezza dell’arte: non tutti sono artisti in senso stretto, ma tutti hanno parte alla bellezza, anche a quelle semplici ma intense manifestazioni di essa nel quotidiano, da quella di un fiore spontaneo a quella dei riflessi del sole che ci illumina o di un bambino che gioca con un adulto. E c’è la bellezza come grazia: “La bontà garantisce la qualità della bellezza; la bellezza irradia la bontà e la rende desiderabile”. Da qui la riflessione si sposta verso la bellezza dei santi – come Francesco d’Assisi, Charles de Foucauld, madre Teresa -, i quali esprimono “una bellezza commovente, consolante, che non deperisce”, una dolcezza luminosa del viso che è segno di trascendenza e trasfigurazione. Dunque, per concludere, si tratta

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di meditare sull’invito conclusivo di Cheng, che suona così: “Dobbiamo salvare le bellezze che ci vengono offerto e così saremo salvati con esse. Per fare ciò occorre, come fanno gli artisti, porsi in un atteggiamento di accoglienza, o anche, nella scia dei santi, mettersi in una postura di preghiera. In tal modo potremo disporre dentro di noi di uno spazio vuoto di vigile attesa e di apertura empatica, a partire dal quale saremo in grado di ritrovare ciò che d’inatteso e d’insperato accade”. Giovanni Gasparini, Università Cattolica – Milano, [email protected] B. Bryson, Breve storia della vita privata (Ugo Guanda Editore, Parma 2011) A partire dall’esplorazione della sua dimora inglese, un’ex-canonica vittoriana situata in uno sperduto villaggio del Norfolk, l’autore, Bill Bryson, propone un insolito viaggio tra le pareti domestiche. Il suo intento è quello di dedicarsi, almeno per una volta, alle cose ordinarie, quotidiane, che quasi sempre riteniamo secondarie e non degne di seria considerazione. A guidare l’autore è l’idea che in ogni angolo della nostra casa, in ogni interstizio della nostra vita privata, sia possibile trovare traccia di ciò che è cambiato nella storia. “Le case sono dei magazzini estremamente complessi. Ciò che ho scoperto, con mia grande sorpresa – afferma Bryson – è che qualunque cosa succeda nel mondo, qualsiasi cosa venga scoperta, creata o aspramente contesa, in un modo o nell’altro, finisce sempre dentro a casa tua”. L’autore ripercorre così tutte le stanze della sua abitazione, esaminando il ruolo che ciascuna di esse ha svolto nell’evoluzione della vita privata. Analizza il nostro microcosmo domestico fatto di cucine, salotti, sale da pranzo, bagni, camere da letto, ma anche di luoghi più interstiziali, come atrii e scale, e da lì prende spunto per mostrare come è cambiato, negli ultimi centocinquant’anni, il nostro rapporto, per esempio, con il cibo, il sonno, le malattie, la vita di coppia e l’educazione dei figli. Quello di Bryson è un curioso e interessante viaggio dentro casa che racconta, per esempio, perché i mobili hanno questo nome, perché le forchette hanno quattro rebbi, perché in ogni cucina ci sono sale e pepe e non altre spezie; ma lo racconta a partire dalla storia, perché “le case non sono rifugi dalla Storia, ma sono i luoghi in cui la Storia finisce”. Michela Bolis

Giovanni Gasparini, Melting pot (Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2012) Bruno Forte, nella prefazione a questo libro di versi di Giovanni Gasparini, parla di “poesia militante”, di “evento di pura donazione”, di “voce del nostro presente” e, in conclusione, con la definizione più puntuale e perspicace, di “soffio profondamente evangelico della sua proposta”. In effetti, anche per chi non conoscesse la ricca produzione in versi e in prosa, di teatro e di saggistica, dell'autore, le quattro sezioni che compongono il volume da subito evidenziano un loro timbro di sensibile e oblativo sguardo sul mondo, sulla storia, sulla natura. E' lo sguardo riconoscente di chi sa di aver ricevuto, con la vita, un regalo enorme, gratuito e incondizionato, e desidera rendere grazie con le parole per il dono avuto. Il primo, fondamentale grazie è dunque alla voce esile, lieve, misconosciuta della poesia: che sa farsi tuttavia “ coro polifonico grandioso” nella testimonianza eccelsa dei poeti più grandi e amati. Accanto a loro, Gasparini propone “una parola sola/ che spicchi sullo sfondo”, e sappia distinguersi per limpidezza “Nel melting pot di voci/ fuse insieme agglutinate” della comunicazione banale, ibrida, addirittura volgare che invade cervelli e cuori nella quotidianità invasiva dei cellulari, dei media, del bla bla insignificante in cui tutti ci costringiamo. Al poeta spetta quindi questo compito di obbligarsi a “un guizzo...uno scatto... un semplice salto... una corsa a perdifiato nel bosco/ per gridare sottovoce/ che il cielo - solo il cielo-/ è la patria di tutti”. E ad aprire montalianamente varchi, maglie rotte nella rete del grigiore delle abitudini giornaliere, può essere qualsiasi cosa: un'ombra che ci sfiora “nella calca del metrò”, il suono di un flauto che proviene da una finestra, una luce viva che “batte sul dorso dei libri”...Insomma “un segno minimo/ di lietezza e levità”, il “dono insperato/ di una parola nuova”: il miracolo dell'apparizione di un fiore che sboccia in montagna, il ricordo di un amore lontano, un perdono concesso o ottenuto, la memoria dei propri cari che non ci sono più. E anche il dolore, che libera e scioglie i cuori induriti: “Il pianto è la mite/ forza del cosmo/ che spunterà lance e fucili”. Basta, al poeta e a chi crede nei doni dello spirito, “qualcosa/ una brezza forse/ un soffio insistente”, “ il tempo-soffio/ di una poesia di puro niente”. Alida Airaghi, scrittrice, [email protected]

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3. Arte & Comunicazione Famiglie Tradizione Narrazione, Itinerario d’arte e spiritualità E’ stata inaugurata il 21 maggio 2012 una mostra di arte contemporanea che è possibile visitare fino al 15 giugno lungo lo scalone d’onore dell’Università Cattolica. Si tratta di un’iniziativa promossa dal Centro Pastorale e dall’Istituto di Storia dell’Arte in omaggio al tema della famiglia, che proprio in questi giorni viene celebrato con numerose iniziative le quali culmineranno nel VII Incontro mondiale delle famiglie e con la visita di Papa Benedetto XVI a Milano. Nella mostra sono presentati i lavori di alcuni artisti dei nostri giorni che operano in particolare nel campo della fotografia e del video e che hanno affrontato la tematica famigliare da differenti punti di vista. Nei trittici in bianco e nero di Mario Cresci le famiglie lucane di Matera ritratte ci offrono la possibilità di riflettere sul concetto di tradizione e di famiglia come ambito di trasmissione delle radici e delle origini. Giovanni Chiaramonte lavora invece sul colore e coglie nei suoi scatti luminosi momenti di quotidianità famigliare in due luoghi differenti: la spiaggia di Gela, da cui proviene la sua famiglia, e il parco della Guastalla a Milano, città in cui vive. Paola di Bello presenta in questa esposizione due scatti tratti dall’ampio ciclo Framing the community, che ritrae famiglie di quartiere in numerose città, sia italiane che straniere; l’artista intende immortalare i vari nuclei famigliari davanti alla normalità del proprio quartiere come si fa normalmente di fronte ad un monumento. Sua è anche la produzione video intitolata Videorom, che crea un collegamento fotografico tra alcuni rom che vivono a Milano e la loro famiglia di origine rimasta in Romania. Il video è uno strumento molto utilizzato anche da Adrian Paci, artista albanese che vive e lavora da molti anni a Milano. La famiglia nei suoi due video presenti in mostra non emerge solo come contenuto della sua operazione artistica bensì anche come protagonista, nelle vesti della piccola figlia Jolanda. È lei a raccontare il non facile passaggio dall’Albania all’Italia che la sua famiglia ha vissuto per sfuggire ad una situazione politica ed economica che nel ’97 stava collassando. L’ultimo video che è possibile vedere in mostra è firmato da una coppia di artisti, Nicola Pellegrini e Ottonella Mocellin, i quali attraverso immagini e parole cercano di far conoscere le proprie

famiglie di origine alla piccola Rosa Dao, la bimba vietnamita adottata che si può ammirare nella foto capovolta in cima allo scalone. Lucia Gasparini, dottoranda, Università Cattolica - Milano, [email protected]

Leonardo, pittore alla corte di Milano (National Gallery, Londra, novembre 2011 / febbraio 2012) Leonardo da Vinci, uomo e genio del Rinascimento, è sicuramente il prototipo dello studioso trasversale e – se mi è concesso - “interstiziale” ante litteram, punto di riferimento ideale di ogni riflessione e tentativo di sfuggire agli specialismi per affermare l’unità di arte e scienza, così come di branche differenti del sapere scientifico e tecnico. Leonardo è diventato oggi anche una delle massime icone di una fruizione di massa dell’arte: basti pensare ai milioni di persone che si affollano ogni anno per vedere e fotografare La Gioconda al Louvre, o anche soltanto alle mille persone provenienti da tutto il mondo che quotidianamente riescono a visitare velocemente L’Ultima cena, conservatasi a Milano presso S.Maria delle Grazie. A Leonardo è stata dedicata una notevole mostra organizzata a Londra dalla National Gallery, che “soltanto” trecentomila persone hanno potuto visitare (il biglietto costava 16 sterline, ma i prezzi ai bagarini hanno raggiunto cifre astronomiche). Molti altri – tra cui io stesso – hanno potuto assistere, a mostra ormai chiusa, alla proiezione contemporanea in parecchie sale di tutto il mondo di un filmato di cento minuti, Leonardo Live, che rappresenta una visita guidata alla mostra di Londra condotta da Mirella Frostrup e Tim Marlow con interviste ai responsabili dell’esposizione e a parecchi altri ospiti inglesi invitati alla serata inaugurale. (Rinvio al catalogo Leonardo da Vinci painter at the court of Milan, a cura di L.Syson e L.Keith, National Gallery Co., London 2011). Il documentario consente di vedere comodamente e a distanza ravvicinata i quadri di Leonardo esposti – sette, di cui due prestati dall’Italia, oltre a un cartone leonardesco – e opere di altri autori a coronamento di una mostra dedicata agli anni in cui Leonardo fu a Milano alla fine del Quattrocento. Gli inglesi hanno presentato con grande enfasi questa su Leonardo come “la mostra del secolo”, fantastica e irripetibile in futuro. A parte l’azzardo contenuto in questa previsione quando mancano ancora 82 anni alla fine del secolo, mi ha colpito

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sgradevolmente nel documentario l’impostazione rigorosamente anglofila data ad un evento che comunque trattava di Leonardo a Milano, e cioè in una città che fortunatamente è viva e vitale anche oggi, cinquecento anni dopo la partenza di Leonardo, una città che di lui conserva una memoria cospicua (basti pensare oltre all’Ultima cena, che nessuna mostra al mondo potrà mai ospitare, al Ritratto di musico dell’Ambrosiana, prestato appunto a Londra, al Codex atlanticus e ad altre testimonianze artistiche e scientifico-tecniche leonardesche). Una città che almeno nella serata inaugurale, quella fatta oggetto del film distribuito in tutto il mondo, avrebbe potuto offrire come gesto di condivisione culturale il saluto del suo sindaco, la presenza di uno studioso di storia dell’arte leonardesca o di un esperto autorevole dell’Ultima cena… Ma questi sono particolari che sfuggono evidentemente alla sensibilità di chi soffre nei confronti degli altri paesi europei di un senso di distacco e forse di un anacronistico complesso di superiorità (del tipo “il continente è isolato”) che purtroppo non sembra essere solo un luogo comune. Giovanni Gasparini

4. Vita quotidiana Riflessioni sulla cultura Dal precedente contributo, apparso sul numero 23 di NewsMagazine, riprendiamo alcuni spunti di riflessione sulla cultura e i suoi percorsi. Già si è detto quanto appaia difficile ragionare su che cosa costituisca oggi cultura. Dalla scuola elementare all’Università, i sentieri consolidati di costruzione della cultura tradizionale si perdono in tracciati incerti e poco condivisi. Proviamo a immaginare le fonti immediatamente accessibili di cultura oggi: che cosa ci sostiene, dove trovare nutrimento e soddisfazione di questo bisogno, considerato imprescindibile e non negoziabile per chiunque abiti la Terra. Posto che ogni società fonda i suoi valori e dunque la sua cultura dentro sistemi e strutture a volte distanti, nelle nostre società sappiamo che cosa fosse cultura (almeno fino alla postmodernità), ma fatichiamo a ragionare su che cosa sia cultura ai nostri giorni. Sembra richiesto un “sapere saputo”, ma poco chiaro nella sua costruzione (perché questo genera conflitto), che sta là sullo sfondo, che non necessita di manutenzione e implementazione (tutto quanto richiede cura e applicazione non

gode di buona reputazione), che si esprime in una confusa aura di appartenenza a qualche gruppo vago. Permane solo la competenza specifica professionale (almeno ci auguriamo: che gli ingegneri progettino ponti che non cadano, case che non crollino), anche questa messa a dura prova da fatti recenti e lontani. Ma sulla competenza specifica in qualche misura ci si accorda, difficile è invece discutere sul “resto”. Che cosa insegnare, che cosa mettere nei “programmi”, parola magica e insensata per quel che concerne l’educazione, la formazione, il sapere in senso proprio: psicologia, letteratura, storia, sociologia, architettura, arte? Religione? Materie “pratiche”? La cultura è lettura, danza, conversazione, relazione? Si è colti quando si sta (si è stati) seduti a lungo a leggere, oppure si passeggia conversando di acute e profonde, intime e sublimi questioni? Anche l’ambito, il luogo della cultura è importante, i gesti che la caratterizzano, il movimento che l’accompagna, l’ambiente in cui si dipana. Fino ai nostri giorni la cultura ha avuto i suoi luoghi: ancora oggi si fatica a considerare generatore di cultura un luogo diverso dai silenziosi ambulacri di una biblioteca e un Campovolo non sembra essere adatto alla nascita di eventi “culturali”. Eppure, e il riferimento non è al Papa (al quale, solo perché è lì, si riconosce una capacità generativa di una cultura propria, quella religiosa), ma a tutti coloro che riempiono spazi immensi e destinati ad altra funzione con un concerto o un evento che ha della cultura i tratti propri, benché non sacralizzati e silenti (anzi!) della tradizione. Forse il problema è tutto qui: la cultura oggi si nutre di sostanze diverse da quelle che abbiamo sempre considerate necessarie (e non mutuabili) e la ricerca di nuovi scenari culturali ha solo mosso i primi passi. Silvia Cortellazzi, Università Cattolica – Milano, [email protected]

Rubrica “Città (e luoghi) interstiziali” Accra: interstizio di umanità Benché sia la prima volta che vado in Ghana, dopo un anno fatto di conoscenze di amici ghanesi, di racconti sulla loro terra e frequentazioni di feste e ricorrenze nazionali, la sensazione che provo, quando l’aereo tocca a terra è quella di essere arrivato a casa. Vengo contagiato dall’emozione del mio compagno di

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viaggio, conosciuto durante il volo, che non vede l’ora di abbracciare i suoi cari dopo un anno di lavoro in Italia. Cerco di immedesimarmi nelle sue sensazioni, sensazioni di una vita migrante, transnazionale, interstiziale che da tempo cerco di capire e scoprire. Divento impaziente di vedere con i miei occhi ciò che ho visto ormai molte volte in foto e al tempo stesso mi assale la paura che tutto sia diverso da come l’avevo immaginato. Akwabaa! Benvenuto! E’ la prima cosa che leggo quando esco dall’aeroporto mentre vengo accolto da Edward, fratello di un amico ghanese, con un caloroso “You are welcome!”. Queste stesse parole me le sentirò ripetere svariate volte durante il mio soggiorno in Ghana: è la frase con cui ci si presenta quando si conosce una persona nuova. Ogni volta avranno l’effetto di farmi sentire accolto nel vero senso della parola. Comincia così la mia conoscenza di Accra. Accra si presenta come un interstizio da diversi punti di vista: da quello storico a quello architettonico, da quello umano a quello commerciale. Storicamente la città ha visto l’alternarsi di dominazioni coloniali (portoghese, svedese, olandese, francese, danese e inglese) e di una tenace lotta per l’indipendenza che ha fatto del Ghana il primo stato africano a divenire indipendente nel 1957, sotto la guida di Kwame Nkrumah. Questo passato lo si ritrova nelle costruzioni architettoniche della città: dalle fortezze coloniali di Osu Castle, Ussher Fort e James Fort alle costruzioni di stile sovietivo dell’epoca della guerra fredda come Indipendence Square; dalla moderna Flagstaff House, sede del presidente della repubblica, il mausoleo di Nkrumah fino al National Theatre costruito dai cinesi nel 2001. Accra è una città di emigrazione ma anche di immigrazione. Dalla capitale ghanese partono quotidianamente voli per l’Europa e l’America dove si trovano i membri della diaspora. Poiché il Ghana è uno dei pochi paesi africani classificati dall’UNDP come a “medio sviluppo”, Accra è la destinazione principale di flussi migratori interni all’Africa: Togo, Benin, Nigeria, Niger, Ciad sono le principali provenienze dei nuovi abitanti di Accra che si incontrano per le strade. Proprio su quelle stesse strade invase da automobili e tros-tros (pullmini per il trasporto locale) di seconda mano importanti principalmente da Germania e Olanda sui cui spesso sono ancora bene in vista i recapiti dei proprietari originari. Frigoriferi, computer, scarpe, abiti e ogni genere di altro oggetto tutti di

seconda mano e tutti importati dall’Europa si possono trovare in ogni anfratto tra le case tipiche dei pescatori e i moderni edifici bancari e mettono in luce la realtà di una città crogiolo di umanità differenti. Francesco Marini, dottorando, Università Cattolica – Milano – [email protected]

Trieste

La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto,

alla mia vita pensosa e schiva (U. SABA)

La Trieste in cui son nato era davvero un interstizio: dopo la seconda guerra mondiale la voleva ancora (timidamente) l'Italia che, pur avendo finito la guerra dalla parte 'giusta', risultò perdente e la voleva con forza la Yugoslavia che aveva pure combattuto un po' da una parte e un po' dall'altra, ma abilmente risultava fra i vincitori. Nessuno chiese ai triestini (italiani per oltre il 90%) che ne pensassero; i grandi crearono un finto staterello, il Territorio Libero di Trieste (TLT) con un pezzetto della provincia di Trieste: metà fu dato da amministrare 'provvisoriamente' a Tito che lo pulì etnicamente e se lo tenne per sempre; l'altrà metà fu governata fino al 1954 da inglesi e americani, preoccupati più che il porto di Trieste non diventasse russo che dei sentimenti degli abitanti. Poi nessuno pensò a democrazia, autodeterminazione, ecc. Non ci fu un parlamento del TLT. Nel '53 i giovani triestini manifestarono per l'Italia e furono presi a fucilate, ammazzati fino in chiesa. Nel '54 la farsa finì e Trieste tornò all'Italia fra il gaudio dei triestini e degli italiani che avevan fatto la guerra del '15 per liberare Trento e Trieste. Perché contava Trieste? Fino al '700 era un porticciolo di pescatori che, per salvarsi fra due grandi potenze, la Serenissima e il Sacro Romano Impero, aveva scelto di darsi all'Austria che appunto nel '700 la valorizzò come porto, con norme di favore, e la trasformò da interstizio a uno dei maggiori porti del Mediterraneo, il principale dell'Impero. Ma il sentimento nazionale nato nell' '800 portò Trieste a desiderare di partecipare al Risorgimento; così nel 1918 la città con gran parte delle terre italiane d'oltre Adriatico riuscì a passare all'Italia. Negli stessi anni Trieste emergeva anche letterariamente: Saba, Slataper e Svevo si imponevano in ambito non solo nazionale: questo e altro fece di Trieste una città speciale, ponte fra l'Italia la cultura centroeuropea,

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esempio di impegno morale. Fu il coronamento di un sogno, ma il porto serviva poco a un'Italia che di porti ne ha da vendere. All'inizio del '900 Trieste era sede di banche, assicurazioni, compagnie di navigazione, enti collegati; ed era un importante centro di commerci. In un secolo è diventata sempre più marginale, vi nasce poca gente, i giovani van via (ma arrivano cinesi e serbi); in 50 anni ha perso il 20% della popolazione, ma non il proprio fascino; si ritrova nuovamente concorrente di Venezia, ora nel turismo e nella cultura. La speranza di ritornare il porto di una grande area, oggi tutta nella UE, cozza contro la decadenza di infrastrutture, la mancanza di investimenti, l'ottusità di politici che pensano di trasformare il glorioso monumentale porto in un'area da speculazione edilizia. Giorgio Baroni, Università Cattolica - Milano, [email protected]

Pubblicazioni recenti

M. Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

D. Demetrio, I sensi del silenzio, Mimesis – Accademia del silenzio, Milano 2012.

L. Gobbi, G. Lanzone, M. Morace, cur., L’impresa del talento, Nomos, Busto A. 2012.

G. Mascheroni (ed.), I ragazzi e la rete. La ricerca EU Kids Online e il caso Italia, Editrice La Scuola, Brescia 2012.

L. Migliorati, L. Mori, cur., L’enigma della memoria collettiva, QuiEdit, Verona 2011.

E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Cortina, Milano 2012.

N. Polla-Mattiot, Pause, Mimesis – Accademia del silenzio, Milano 2012.

I nostri recapiti: Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.2547

Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.3976

Redazione:

Piermarco Aroldi, Giampaolo Azzoni, Giovanni Gasparini, Ivana Pais, Cristina Pasqualini

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I corrispondenti:

Stefano Albarello (Musica); Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Domenico Bodega, Università Cattolica – Milano (Organizzazione aziendale); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Gabrio Forti, Università Cattolica – Milano (Diritto penale e Criminologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa). Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.ais-sociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano (http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524). Il contenuto degli articoli è liberamente riproducibile citando la fonte.

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Numero chiuso il: 8 giugno 2012