NIM.libri . Numero 8 . Settembre 2007

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IN QUESTO NUMERO: Ted Botha Mongo. Avventure nell’immondizia p. 2 Giuliana Bruno Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema p.3 Milly Buonanno L’età della televisione. Esperienze e teorie p. 4 Gino Frezza Effetto Notte. Le metafore del cinema p. 6 Mario Gerosa Second Life, p. 7 Elio Girlanda La grazia e le maschere del demonio. Il cinema dei Paesi protestanti p. 8 Algirdas Julien Greimas, Joseph Courtés Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, p. 9 Paolo Perulli La città. La società europea nello spazio globale, p. 11 Silvia Pezzoli Comunicazione o fuga? Domande di senso nella modernità disincantata p. 12 Eric G. Wilson Secret cinema. Gnostic Vision in Film p. 13 Rubrica di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it/?q=bookreview Numero 8, settembre 2007 NIM .libri 8

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L'ottavo numero di NIM.libri, rubrica di recensioni di NIM magazine http://www.nimmagazine.it

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IN QUESTO NUMERO:

Ted BothaMongo. Avventure nell’immondizia p. 2

Giuliana BrunoAtlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema p.3

Milly BuonannoL’età della televisione. Esperienze e teorie p. 4

Gino FrezzaEffetto Notte. Le metafore del cinema p. 6

Mario GerosaSecond Life, p. 7

Elio GirlandaLa grazia e le maschere del demonio. Il cinema dei Paesi protestanti p. 8

Algirdas Julien Greimas, Joseph CourtésSemiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, p. 9

Paolo PerulliLa città. La società europea nello spazio globale, p. 11

Silvia PezzoliComunicazione o fuga? Domande di senso nella modernità disincantata p. 12

Eric G. WilsonSecret cinema. Gnostic Vision in Film p. 13

Rubrica di recensioni diNIM - Newsletter Italiana di Mediologiahttp://www.nimmagazine.it/?q=bookreviewNumero 8, settembre 2007

NIM.libri8

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Ted BothaMONGO. Avventure nell’immondizia(Ed. or. Mongo. Adventures in trash, Bloomsbury 2004)Traduzione di Carlo TorielliISBN Edizioni, Milano 2006pp. 224, € 16,00ISBN 88-7638-029-9

Recensione di Karim Ben Hamida

«Potrebbe sembrare francese, cinese, africano, ma invece è slang americano; è una parola coniata aNew York per definire gli oggetti che dopo essere stati buttati via vengono raccolti, ritrovati, salvati.La parola è “mongo”».

Mongo è il titolo del libro-inchiesta, svolta tra le strade e i quartieri della città di New York e dedi-cata alle centinaia di persone che compongono le variegate comunità di collezionisti di mongo. Il librodi Botha ha l’assoluta dignità di un essai di sociologia urbana, in cui si concentrano squarci di viste simul-tanee sulla metropoli americana, sui suoi cambiamenti urbanistici, storici e sociali. Nel corso della letturaemergono suggestioni del pensiero di Michel De Certeau – con la sua concezione “laica” e creativa dellavita sociale quotidiana, fatta di gestualità, azioni disordinate, pensieri liberi, che generano l’invenzione per-manente dell’attualità urbana. Nel suo peregrinare attraverso la città alla ricerca dei raccoglitori di mongo,Botha è anche molto vicino all’approccio di Walter Benjamin, fondato proprio sul concetto-azione dellapasseggiata, del lasciarsi andare attraverso la metropoli. Così pure l’attenzione riservata ai personaggi e alleloro vite “liquide” sembra lambire quella sensibilità benjaminiana, rivolta alle cose minute, ai piccoli even-ti, alle routine e ai débris della vita urbana.

Le avventure nell’immondizia di Ted Botha aiutano a capire che non c’è niente di definitivo o di immu-tabile nella sostanza di quello che per abitudine chiamiamo “spazzatura”. Le merci scadute, recuperate eriutilizzate, cessano di essere immonde. Immondizia e spazzatura non sono altro che concetti fragili, appli-cabili solo alla superficie delle cose, perché le merci hanno sempre una seconda vita, rigorosamente nontrascendente, ma radicata nella quotidianità.

Tuttavia, non è il mongo l’autentico protagonista, ma gli esseri umani, che per varie ragioni lo cercano,lo selezionano, lo fanno proprio: è infatti sulla diversa natura del mongo – cibo, bottiglie rotte, computer etelevisori, libri ecc. – che ogni comunità trova la ragione della propria aggregazione e ogni individuocostruisce una propria identità. Se il mongo è scarto rigenerato, lo è pure l’umanità precaria e interstizialeche popola New York, che vive tanto ai margini quanto negli anfratti del sistema sociale.

Ted Botha fotografa le svariate tribù, differenziate dal tipo di mongo cercato e raccolto, ma accomuna-te tutte dal desiderio ossessivo e compulsivo di recuperare ciò che è stato destinato dalla società “mainstre-am” al garbage. Dai collezionisti di libri agli antiquari-archeologi, dai consulenti informatici ai freegans –coloro che vivono recuperando cibi e avanzi buttati da ristoranti e locali – tutti si rivoltano quotidianamen-te contro la società consumistica.

Analizzando le pratiche quotidiane delle diverse tribù, Ted Botha definisce parzialmente l’immaginedi un sistema capitalistico ormai del tutto autoreferenziale e chiuso nell’ipertrofico circuito del “consu-mo più consumo”. Il mongo è solo in apparenza uno scarto; invece è parte sostanziale del sistema, nellamisura in cui rappresenta l’oggetto pronto per una rimercificazione di 2° livello, con nuove identità diproduzione e di consumo.

Se vogliamo concettualizzarlo, il mongo diventa un’idea chiave per interpretare varie sfaccettaturedel sistema capitalistico globalizzato. Anzitutto esso costituisce un cortocircuito “creativo”, che rigene-ra l’oggetto-merce reinserendolo nel circuito del consumo. Inoltre il mongo è anche un gesto di resi-stenza all’aberrante ritmo sincopato della produzione e del consumo dei beni: se da un lato il mercatolavora per progettare con cura il design degli oggetti, dall’altro serba già l’intento di distruggerne ogni

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segno di individualità, sbarazzandosene e giustificando la procreazione di merci sempre “nuove”.Mongo è tutto ciò che, raccolto dalla strada, viene reinventato nell’identità e nelle funzionalità; oppure sem-plicemente restituito “alla vita di prima”. Mongo è un gesto di redesign dell’immagine e della funzione deglioggetti-merce.

Ted Botha, giornalista, vive e lavora a New York. Scrive per diverse testate, tra cui il New York Times, il LosAngeles Times, il Wall Street Journal, Condé Nast Traveler e Outside. Nel 1990 ha pubblicato Apartheid inMy Rucksack.

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Giuliana BrunoATLANTE DELLE EMOZIONI. In viaggio tra arte, architettura e cinemaBruno Mondadori, Milano 2006.pp. 496, € 58ISBN 88-424-9225-6

Recensione di Daniele Vazquez

Durante la presentazione di questo libro alla sede della Fondazione Olivetti di Roma un ragazzo chieseall’autrice come mai nonostante l’abbondante uso del termine “psicogeografico” e l’evidente debito intel-lettuale con le teorie dei lettristi non fosse stata presa in considerazione la figura di colui che più di ognialtro aveva ispirato la teoria della deriva psicogeografica a Guy Debord, ovvero il diciannovenne GillesIvain. La Bruno accampò scuse che apparivano poco plausibili, come ad esempio il fatto che prima di par-larne avrebbe voluto aspettare che una sua studentessa finisse di realizzare una ricerca in proposito e che,comunque, il gruppo lettrista non aveva figure femminili di rilievo e non rientrava nei suoi interessi e neldiscorso che voleva portare avanti.

Era chiaro che la Bruno non sapeva nulla di Ivain. Certo, nelle sue intenzioni, più che la psicogeografiaè la cartografia sentimentale di Madame de Scudéry il punto di riferimento (ma lo era anche per i lettristi,più di cinquanta anni prima). Allora mi sembrava che quel ragazzo avesse ragione, forse anche per le rispo-ste imbarazzate e sulla difensiva dell’autrice, forse perché Ivain, l’ispiratore segreto dell’architettura con-temporanea, era un diverso, sbattuto in manicomio per trent’anni. Il discorso di genere condotto da donnemolto salottiere e borghesi davanti al discorso di uno schizofrenico mi sembrava non reggere. Inoltre misembrava comico che la Bruno fosse considerata l’inventrice della geografia emozionale e che solo degliignoranti potessero prendere la cosa per una novità.

A distanza di qualche mese devo però dire che la Bruno aveva ragione e quel ragazzo torto. La flânerie,la psicogeografia, il camminare sono stati davvero poco declinati al femminile. Sì, intorno al gruppo lettri-sta vi erano tante ragazze, scappate dalla famiglie, girovaghe e senza avvenire, alcolizzate e sempre a rischiodi finire nei riformatori, ma i suoi protagonisti erano senza dubbio dei maschi. Debord e compagnia, cheavevano cacciato Ivain dal gruppo per delirio di interpretazione e mancanza di coscienza rivoluzionaria,avevano dei modi autoritari tipicamente maschilisti.

Forse la prima a mostrare la debolezza teorica di coloro che riprendono l’uomo della folla di Poe, la flâ-nerie di Baudelarie filtrata e sviluppata da Benjamin o la teoria della deriva di Debord per descrivere lametropoli moderna o i suoi mutamenti postmoderni è stata Rebecca Solnit. La Solnit ha evidenziato tutti ilimiti che la flâneuse ha incontrato nel camminare senza meta e senza scopo, tutti i limiti che ha incontra-to nel voler fare semplici passeggiate per solo il piacere di osservare, tutti i limiti che ha incontrato nel vaga-bondaggio e nel viaggio solitario, tutti gli ostacoli che ha dovuto aggirare per aver osato entrare nel domi-nio dei piaceri anti-utilitari maschili. Il libro della Bruno va oltre le considerazioni della Solnit perché cimostra casi esemplari e riusciti di flânerie al femminile, reali o immaginari poco importa. È un lavoro decli-nato al femminile che colma un vuoto, entra in un territorio solitamente gestito da intellettuali maschi e inquesto senso è davvero una novità.

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Chi diffida dell’aura fashion che circonda questo libro, oppure chi ama il social fashion e preferiscel’aria delle strade a quello dei buoni salotti, dovrà fare uno sforzo, perché oltre le apparenze questo èdavvero un bel libro.

La Bruno attraversa con un’erudizione impressionante (che qualche sua studentessa l’abbia aiutata èscontato ormai e non ha alcuna importanza, significa solo che è un lavoro nato da buone sinergie) diversediscipline: l’arte, l’architettura, il cinema, il design, la moda. E all’incrocio di queste discipline intravede unpassaggio fondamentale, quello dal sightseeing al site-seeing. Il testo straborda di neologismi, propri e altrui,perché l’autrice s’iscrive nell’ampia tradizione dei cultural studies di ultima generazione che, si sa, amamolto creare parole pur non inventando concetti nuovi. Ma in questo caso ci sembra che il termine site-seeing che percorre tutta l’opera sia davvero interessante: si passa dall’attenzione sulla vista e l’ottico perl’interpretazione del paesaggio e dello spazio – sia esso lo spazio del e nel cinema che quello dell’arte o del-l’architettura – all’attenzione su una dimensione tattile, aptica, corporea dei luoghi.

Una visione del genere tende a scardinare il dominio della vista (e del maschile) e aprire interpretazionie scenari inediti della produzione culturale. Ma non si tratta di un’interpretazione campata per aria, astrat-ta, teorizzante: il senso tattile e tattico dei luoghi sembra davvero essere lì in attesa solo di essere raccolto,nascosto, ma neanche tanto, tra le pieghe della memoria e dell’immaginario culturale e artistico, nellemappe emozionali, nelle vedute, nelle immagini dell’archeologia del cinema, nei fotogrammi di tanti film,nelle opere d’arte dal XVII secolo ad oggi, nelle esperienze di tante viaggiatrici o nelle parole di tanti auto-ri maschi che hanno indicato direzioni ma che non sono mai avanzati troppo sul loro stesso cammino. EGiuliana Bruno, coraggiosamente, è davvero la prima a cercare di rintracciare questi indizi e a comporli inun site-seeing d’insieme. Il libro è popolato da donne che si ribellano ai limiti imposti loro, così come evi-denziato a suo tempo dalla Solnit, spesso anche solo trasformando il loro dominio obbligatorio, lo spaziodomestico, privato, intimo, in uno spazio non addomesticato. Voyageuses, flâneuses, psicogeografe, teneresperimentatrici (a volte) del site-seeing, sono la faccia ancora poco esplorata del viaggiare come esperienzaaptica e non esclusivamente come giro turistico, sightseeing, cui oggi è ridotta anche la pratica psicogeogra-fica.

Giuliana Bruno, originaria di Napoli, dal 1980 vive a New York. Professor of Visual and EnvironmentalStudies presso l’Università di Harvard, è autrice di numerosi saggi tra cui il pluripremiato Rovine con vista:Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari (1995). Il suo nuovo libro, Public Intimacy: Architecture andthe Visual Arts, uscirà prossimamente negli Stati Uniti per MIT Press.

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Milly BuonannoL’ETÀ DELLA TELEVISIONE. Esperienze e teorieLaterza, Roma-Bari 2006pp. 197, € 16,00ISBN: 8842080624

Recensione di Francesca Marsilio

Osannata, esaltata, venerata agli albori; poi dannata, imputata di seduzione, additata come “cattiva mae-stra”, rea di aver oltraggiato il solido legame del focolare domestico, la televisione ha significativamentecaratterizzato la vita e le fasi della comunicazione umana. Sin dalla sua prima apparizione, dal luccichioancestrale di luci, immagini in movimento e suoni provenienti da una piccola scatola dalle magiche e fan-tasmagoriche meraviglie, ha fatto il suo ingresso nella vita privata delle persone, rivolgendosi direttamentea “noi”. Ben accolta, ha varcato l’uscio della soglia domestica come il più atteso degli ospiti, acquisendo neltempo il legittimo diritto di membro “naturale” del nucleo familiare (da mamma a Grande Fratello).

Da tali premesse Milly Buonanno considera l’apparizione e poi la diffusione della televisione come feno-meno fondatore di un nuovo periodo delle comunicazioni di massa, tale per cui si possa parlare di una «età

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della televisione», al pari dei mezzi di comunicazione di massa che l’hanno preceduta (scrittura, stampa,cinema, radio) e di quelli successivi (computer-Internet). L’analisi è svolta dall’autrice con minuziosità,facendoci riflettere su quelle che sono le pratiche quotidiane inerenti l’uso del mezzo, che diviene così«addomesticato». Ma la dimensione “ristretta” della tele-visione, della visione a distanza, ha dato vita a duemovimenti apparenti: l’uno della vista, l’altro del nostro agire metaforico, permettendoci di sconfinare oltrele pareti della dimensione privata, proiettandoci verso universi altri, col suo dono incondizionato del«mondo in casa», tra la cerchia ristretta del privato e quella allargata del pubblico.

Mediante un accurato ricorso alle varie teorie e a agli studi sul piccolo schermo, l’autrice ci mostra come,a più voci, si sia giunti ad affermare lo strepitoso e, forse, oltraggioso impatto che il mezzo televisivo haavuto nel ridimensionamento del concetto di luogo: la tv ci catapulta in nessun posto in particolare e in tuttii luoghi in generale. Ma come qualunque mezzo tecnologico, l’età del medium televisivo è stata caratteriz-zata da diverse fasi di penetrazione: all’iniziale fase introduttiva ha fatto seguito una di maggiore crescita,fino ad arrivare alla fase di maturità o dell’«abbondanza», che ha visto il suo rigenerarsi nel momento incui si è appropriata delle nuove tecnologie, passando dal broadcasting al narrowcasting, dalla diffusione“massificata” della televisione generalista a quella “dedicata” della cable tv, pay tv, tv satellitare, tv interat-tiva secondo il passaggio dalla logica trasmissiva del “one-to-many” al “one-to-one”, dalla mono-direzio-ne alla bi-direzione. È anche a partire da queste trasformazioni che molti autori hanno trovato opportunocimentarsi nello studio delle dimensioni sociologiche, cognitive o delle pratiche fruitive del mezzo; laBuonanno ha focalizzato la sua ricerca su quelle inerenti il «flusso, l’occhiata, lo sguardo», muovendosi trale dimensioni della programmazione indistinta, continuativa e unificata (nonostante la suddivisione a fascedel palinsesto) e quella (controversa) dello «sguardo e dell’occhiata», tra maggiore e minore coinvolgimen-to ed interesse durante la fruizione.

Il carattere fascinoso della televisione, dunque, non le permette solo di mostrare e ostentare, ma anchedi creare: crea l’evento, rendendo un fatto più o meno veritiero e reale, degno o meno di visibilità, in un«evento mediale». Nella sua attenta ricognizione, la studiosa analizza scrupolosamente come un fatto/even-to possa acquisire una dignità qualificativa, in termini di medialità, assurgendo a rango di massima convo-cazione dei valori attrattivi e universalistici, fungenti da collante tale da unificare le diversità in una «visio-ne festiva». Come caso esemplare la Buonanno sceglie la cerimonia di beatificazione di Madre Teresa diCalcutta, analizzandone la portata avuta in ambito televisivo in termini di «incoronazione» e ampliando ildiscorso anche a tutti quei prodotti televisivi (le prime tv o le esclusive assolute televisive) caratterizzatidalla liveness.

Nel libro la televisione è inoltre vista anche nella sua nuova veste, quella di medium svecchiato dal feli-ce connubio con le nuove tecnologie, tra memorie lacerate e prospettive futuribili di utopie avveniristiche,tra pratiche comunitarie e pratiche individuali.

Ma al di là degli aspetti propriamente tecnologici che hanno caratterizzato il mezzo, la televisione con-tinua imperitura a svolgere la sua funzione bardica, ossia narrare, raccontar storie; vocazione del mezzo per-fettamente connaturata all’assonanza col termine inglese televison: tell a vision. Elargita con estrema ed(in)cauta sapienza, la televisione ha da sempre dispiegato, mostrando e presentando sul piccolo schermo,la volontà di ostentare il bisogno di rifugio nell’immaginario proprio dell’uomo, dando vita al genere carat-teristico della fiction. La perfetta conoscenza del mondo televisivo permette alla Buonanno di individuare,nelle fiction televisive, delle «realtà multiple» che rappresentano differenti modi di vita, per poi descriverecome «esperienze mediate» alcuni exempla di vita “reale”. La forza derivante dal suo essere un medium dimassa, di attirare e affascinare la massa, ha permesso alla televisione di possedere un potere imperialista,ma ha generato, secondo l’autrice, anche un processo inverso di “indigenizzazione”, per cui si attivano mec-canismi di riappropriazione e rielaborazione da parte di comunità locali dei contenuti universalmentedivulgati. Da questo stesso movimento, infine, procederebbero quelle pratiche di mobilità di certe narra-zioni che, legate a necessità di evasione e insieme di costruzione del senso, dalla letteratura di genere otto-centesca arrivano e crescono con la televisione, che ci assicura quel posto in prima fila nell’unicità dell’of-ferta di esperienza live.

Milly Buonanno, professore ordinario, è docente presso l’Università degli studi “La Sapienza” di Roma diTecniche e analisi delle fiction e Teoria e tecniche del linguaggio radio-televisivo. Dirige il Laboratorio avan-zato di creazione e produzione di fiction del Centro sperimentale di cinematografia e l’Osservatorio sulla

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Fiction Italiana. Autrice di numerosi libri e saggi ha pubblicato, tra le altre cose, L’età della televisione(Laterza, 2006) Controcorrente. Altri modi di vedere la televisione (Mediascape, 2005) Realtà multiple(Liguori, 2004), Le formule del racconto televisivo (Sansoni, 2002), Leggere la fiction (Liguori,1996);Narrami o diva. Studi sull’immaginario televisivo (Liguori,1994). È, inoltre, curatrice dei Rapporti annualidell’Osservatorio sulla fiction italiana, editi dalla Rai-Eri.

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Gino FrezzaEFFETTO NOTTE. Le metafore del cinemaMeltemi, Roma 2006.pp.476, € 29,00ISBN 88-8353-490-5

Recensione di Manolo Farci

Il cinema è una macchina produttrice di metafore audiovisive, incubatrice di regimi simbolici capace diassociare sensi e significati, legare voci e suoni a corpi e icone, ancorare forme e concetti ai vissuti indivi-duali e collettivi. La metaforicità è una pratica espressiva che rimanda a meccanismi semiotici peculiari aogni forma narrativa: è un ponte relazionale che ogni testo costruisce quando sente la necessità di oltre-passare la propria evidenza empirica e discorsiva.

È stato il cinema – più di ogni altra forma espressiva della nostra cultura – ad aver fatto della metaforauna pratica quotidiana e diffusa di negoziazione collettiva dell’esperienza. Lungo i riflessi della superficiefilmica, la consistenza metaforica assume i caratteri di un’eco o una vibrazione sottile: propagandosi sem-pre secondo meccanismi evocativi sotterranei e impliciti, non chiude mai il senso in una forma ben preci-sa, ma lascia un residuo immaginativo aperto al lavoro percettivo e cognitivo dello spettatore. In fondo,ogni metafora è un’interruzione del corso della rappresentazione, apre una crepa dove la significazione ècondotta a nuove possibilità di invenzione.

Il cinema dunque – ed è questo il nodo centrale del libro di Gino Frezza – è dispositivo privilegiato diriproducibilità metaforica di massa, elaboratore audiovisivo di memorie sedimentate nella cultura arcaica emoderna dell’uomo, capace di rilanciare ogni volta la dicibilità mitologica del mondo. Proprio grazie a que-sta sua peculiarità, il cinema ha saputo giocare un ruolo sociologicamente risolutivo all’interno della storia delmezzi di comunicazione e delle forme della produzione culturale del Novecento. Un ruolo destinato a rigene-rarsi nell’attuale fase di passaggio alle tecnologie informatiche e alle forme di convergenza multimediale.

La metaforicità si rinnova nell’innesto tra analogico e digitale: la metafora attiva condizioni patiche chesembrano bene adattarsi alle nuove forme di sperimentazione dei linguaggi della computer animation. Laloro convergenza è testimonianza di un rinnovamento della percezione dell’odierno universo mediale daparte degli spettatori: esperienza essenzialmente ancestrale, che attiene ai corpi e ai loro coinvolgimenti emo-tivi-affettivi. Non a caso, il digitale funziona meglio laddove sa dare forza alla potenza visionaria della meta-fora, rendendo radicale – poiché nato dal nulla dei codici binari e dunque slegato da qualsiasi sfondo mime-tico e referenziale – il processo di identificazione tra pubblico e immagini. Nel linguaggio del digitale, la sin-tassi metaforica diviene il motore che meglio rivela la potenza generativa del mezzo cinematografico, soprat-tutto perché si produce nel gioco dell’assenza, della sottrazione di una unità semantica referenziale, nelloscompaginamento dei riferimenti coerentemente dati da millenni di pratiche espressive umane. Star Wars,Titanic, Matrix, Kill Bill, i film della Pixar dimostrano un uso rinnovato della sostanza metaforica all’internodi una nuova forma tecno-narrativa che, tuttavia, non intende affatto esaurire la fecondità storica e la memo-ria del cinema del passato. Il cinema attuale è ricondotto all’inesausto rilancio dei risultati della precedentefase analogica per sondarne la propria consistenza metaforica e verificarne lo statuto di credibilità.

Queste le premesse teoriche. Ma la peculiarità dell’opera di Frezza è racchiusa soprattutto nella metico-losa e monumentale opera di raccolta di immagini metaforiche direttamente ricavate dall’interrogazione deitesti filmici. Quello che ne deriva è un catalogo di metafore – metafore del corpo, dello spazio e del tempo,oggettuali, della sfera morale, della Matrice – che possono essere lette e consultate in modi trasversali, poi-

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ché non seguono nessun criterio tradizionale di ordine storico, estetico, tassonomico. Nessun debito neiconfronti delle autorevoli storie del cinema: Frezza volutamente dimentica quegli autori che hanno mag-giormente palesato la loro iconografia metaforica, per rintracciare la metaforicità delle immagini laddovequesta è impercettibile, non palese e programmatica, legata alle forme del consumo piuttosto che alle legit-timazioni teoriche e alle letture accademiche. Meglio Zemeckis che Bergman in tal senso.

Un approccio al cinema eterodosso dunque, divertente e divertito, che non nasconde tuttavia una chia-ra direzione di metodo. Lo schema analitico a cui fa riferimento Effetto Notte viene direttamente assuntodagli studi sociosemiotici e antropologici sul cinema che abbandonano ogni attribuzione di un canonemimetico o funzione di rappresentazione all’immagine in movimento. Il mezzo cinematografico prende ilmondo e ne fa testo: il suo linguaggio non è testimonianza della società che lo esprime, ma evidenzia piut-tosto l’esperienza conoscitiva che lo sottende e presume. Per questo il cinema è lo specchio che meglio evi-denzia la necessità metaforica racchiusa in ogni dimensione narrativa del mondo. E ci riesce – al pari e forsepiù di ogni altro medium – perché garantisce ad ogni spettatore la capacità di riannodare le fila della pro-pria esperienza percettiva, attraverso un raffinato gioco di pratiche metatestuali, rimandi, traslazioni. Comesi domandava Derrida: sarà mai possibile parlare al di fuori di questo primordiale movimento di metafo-rizzazione? E cos’è in fondo il cinema se non questa continua opera di rincorsa metaforica?

Gino Frezza, napoletano, insegna Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Salerno. I suoistudi hanno riguardato in particolare i rapporti di integrazione tecnico-mediale fra il cinema, i fumetti, latelevisione, i nuovi media. Ha pubblicato, tra l’altro: L’immagine innocente. Cinema e fumetto americanodelle origini (1978), La scrittura malinconica. Sceneggiatura e serialità nel fumetto italiano (1987), La macchi-na del mito fra film e fumetti (1995), Fino all’ultimo film. L’evoluzione dei generi nel cinema (2001).

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Mario GerosaSECOND LIFEMeltemi, Roma 2007 pp. 264, € 20,50 ISBN 978-88-8353-537-6

Recensione di Sibilla Serra

Con il suo libro “Second Life” Mario Gerosa è il primo in Italia a dedicare al social world più famoso diInternet un’analisi attenta, sebbene di impostazione teorica un po’“light”, dando vita a una vera e propriaguida rivolta ai neofiti, agli appassionati o a chiunque abbia voglia di vivere una “seconda opportunità”.

Creata nel 2003 dal genio di Philip Rosedale, fondatore della Linden Lab di San Francisco, Second Liferimescola modelli precedenti come realtà virtuale, open source, creative commons, Web 2.0 e MMOG peradeguarli in una nuova architettura sincretica. Ormai oltre nove milioni di persone fanno parte di questomondo virtuale interamente edificato, vissuto e amministrato on-line dagli utenti, rappresentati in tredimensioni attraverso il proprio avatar. La registrazione, definita da Gerosa come un «rito di passaggio»,permette all’utente di spogliarsi del proprio ego reale per creare ex novo l’identità del proprio personaggioscegliendo la pelle, il gender, il colore degli occhi e naturalmente gli abiti.

«Se in SL non fai nulla non sei nessuno, ma se non fai nulla e ti vesti in modo anonimo sei meno di nes-suno». Cosicché la brama di emergere dalla massa anonima e di essere qualcuno, in Second Life diventa unimperativo piuttosto che una possibilità. Bellezza, notorietà e ricchezza sono alla portata di ogni “residente”che sia in grado di crearsi un avatar all’ultima moda o intraprendere una delle numerosissime attività com-merciali che possono generare profitti, non solo virtuali. Second Life infatti ha una propria economia – oltreche una propria valuta: i Linden Dollars – che inevitabilmente influenza ed è influenzata da quella reale.Personaggi come Aimee Weber e Anshe Chung ne costituiscono un esempio: la prima è una stilista di abitivirtuali che ha dato vita a *Preen*, il marchio di abbigliamento più famoso del “metamondo”, mentre la

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seconda è proprietaria di un impero immobiliare che le frutta circa 250.000 dollari reali all’anno ed è diven-tata la prima milionaria di Second Life. Ma ci sono anche aziende reali che aprono le loro succursali nelmondo virtuale come l’azienda di informatica IBM, l’agenzia di stampa Reuters o lo stilista Chistian Dior. Ogni utente può dunque comprarsi un auto lussuosa e una casa confortevole, inaugurare una galleria d’ar-te, organizzare un concerto di musica, comprare un nuovo taglio di capelli, cambiare colore della pelle enaturalmente volare, soddisfando il proprio bisogno di apparire.

Se da un lato sembra che Second Life permetta, vivendo la migliore delle vite possibili, di risolvere i pro-blemi e i conflitti che assillano la nostra quotidianità per ripartire da capo nella vita reale, dall’altro è veroanche che quegli stessi conflitti sociali, politici, culturali o ideologici si ripropongono nel virtuale con lastessa intensità.

L’autore si addentra a trecentosessanta gradi in questo “metamondo”, a tratti più vero di quello doveognuno di noi trascorre la propria esistenza, e prende per mano il lettore per condurlo attraverso la moda,il business, i luoghi più trendy, il turismo, i media, l’architettura e l’arte. Sebbene Gerosa utilizzi un taglioper lo più giornalistico, riesce a provocare in chi legge una sensazione di immersione totale nel mondo vir-tuale, determinata non solo dall’accuratezza della descrizione che l’autore fa di Second Life, ma anche dalleparole dei protagonisti a cui è dedicata un’intervista alla fine di ogni capitolo.

E allora si può definire Second Life un sogno utopico o una rappresentazione metaforica della vita reale?Mario Gerosa non dà alcuna risposta definitiva ma lascia che sia il lettore a crearsi una propria personaleinterpretazione.

Mario Gerosa è giornalista e capo redattore della rivista «AD Architectural Digest». Ha una laurea in archi-tettura e si occupa di virtuale. Nel 2006 ha pubblicato con Aurélien Pfeffer Mondi virtuali (Castelvecchi).È inoltre Membro del Omnsh (Observatoire des mondes numeriques en sciences humaines) e ha lanciatoil Progetto per preservare il patrimonio dell’Architettura Digitale.

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Elio GirlandaLA GRAZIA E LE MASCHERE DEL DEMONIO. Il cinema dei Paesi protestantiCadmo, Fiesole 2006pp. 180, € 15,00ISBN 88-7923-334-3

Recensione di Guido Vitiello

Sull’esistenza di un’“etica protestante” e sul ruolo cruciale che essa giocò alle origini del mondo moder-no e capitalistico in cui tuttora viviamo, non c’è che da rimettersi all’autorità del padre della sociologia. Mache dire di un’“estetica protestante”? C’è forse una sensibilità per le arti caratteristica della fede evangeli-ca, un gusto nato sulla scia della Riforma? È difficile dubitarne: basterebbe, a farne risaltare i contorni, trac-ciarli sullo sfondo dell’estetica della Controriforma. Laddove l’arte dei Papi era sontuosa e illusionistica,quella dei cristiani riformati prediligeva sobrietà e povertà di materiali, dismettendo ori ed orpelli; se il cat-tolicesimo tridentino promuoveva sia pure con qualche cautela il culto delle immagini, la fede evangelica –e segnatamente la calvinista – recuperava un poco del sospetto veterotestamentario nei confronti delle sacreraffigurazioni, quando non sposava apertamente l’iconoclastia.

Proprio nel solco delle tesi weberiane su calvinismo e capitalismo, il regista e studioso di cinema ElioGirlanda sostiene che “si può ipotizzare un forte impulso dato dal protestantesimo anche al cinema”. Lo“spirito della Riforma”, con la sua cifra culturale ed estetica, avrebbe plasmato fin dalle origini la Settimaarte. In che modo, però? A questa domanda il libro di Girlanda offre molte e sfaccettate risposte, lancian-do in apertura un’affascinante ipotesi sul secolo di cinema che abbiamo alle spalle: “Si può interpretare lastoria del cinema occidentale come una guerra di religione? Come una lotta costante tra le due confessio-ni del cristianesimo, la cattolica e la protestante, a colpi di apologetica con il denaro dei tycoon america-

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ni?”. L’interrogativo è accattivante e ambizioso; forse troppo ambizioso, così come il sottotitolo del libro:Il cinema dei Paesi protestanti – dove si allude a una famiglia di cui fanno parte Stati Uniti, Germania,Danimarca, Svezia e tanti altri paesi dell’Europa settentrionale. E qui sorge un primo problema: la parola“protestante” vuol dire cose talmente diverse in ciascuna di queste regioni che ci si chiede se l’ipotesi ini-ziale possa davvero essere perseguita con rigore: cos’hanno in comune gli austeri luterani del Nordeuropacon gli sgargianti pentecostali della Bible Belt, i fanatici dell’Apocalisse con certi protestanti iper-secolariz-zati che s’incontrano in Germania o nel Regno Unito? Girlanda non ignora queste differenze, e anzi le riba-disce spesso; cionondimeno, a differenza di chi scrive, ritiene che il termine ombrello “protestantesimo”possa essere usato ugualmente in modo fruttuoso.

L’analisi è articolata per temi (Bibbia e Parola; Gesù e Redenzione; Anticristo e Apocalisse; Demonio ePeccato; Pastore e Fede; Grazia e Arte), per ciascuno dei quali l’autore presenta una carrellata di film e diautori, commentandoli a volte con grande sottigliezza. Il libro è più convincente laddove riesce a isolarel’elemento innegabilmente protestante nell’estetica e nell’ideologia di alcuni cineasti, soprattutto europei –la nota giansenista in Bresson, quella luterana in Dreyer, l’iconoclastia (civettuola) di Von Trier e delDogma95 – o nelle figure ricorrenti di alcune cinematografie nazionali, come quella del “pastore” nel cine-ma scandinavo. Quando lo sguardo si allarga agli Stati Uniti, per forza di cose l’analisi perde mordente;come isolare, infatti, l’“ingrediente” del protestantesimo dai mill’altri con cui è andato confuso? Come met-tere nel conto dello “spirito della Riforma” archetipi narrativi le cui origini andrebbero ricercate in strati-ficazioni secolari della cultura americana se non lato sensu occidentale? Così, quando Girlanda si dedica al“religioso implicito” di certi film americani (la sposa di Kill Bill come “maschera sexy di Cristo” che risor-ge per vendicarsi contro i suoi nemici, Terminator come saga “cristica e messianica”), ci coglie il sospettoche queste risonanze dimostrino qualcosa di ben più grande dell’influsso protestante sul cinema: vale adire, che la Scrittura ebraico-cristiana è il “grande codice” dietro grandissima parte delle narrazioni occi-dentali. È la tesi di Northrop Frye, grande teorico della letteratura, che Girlanda peraltro cita. Se si fossemosso con più decisione nel suo solco, forse ne sarebbe scaturito un libro più persuasivo.

Elio Girlanda è regista, critico e docente di cinema a Scienze della Comunicazione presso l’Università diRoma “La Sapienza”.

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Algirdas Julien Greimas, Joseph Courtés(a cura di Paolo Fabbri)SEMIOTICA. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio(ed. or. Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, 1979-2007)Bruno Mondadori, Milano 2007pp. 416, € 32,00ISBN 978-88-6159-003-8

Recensione di Franciscu Sedda

Dovendo recensire “il Dizionario di Greimas” (come comunemente lo si appella) mi è sembrato neces-sario, greimasianamente necessario, aprire il mio dizionario della lingua italiana e andare a verificare la voce“dizionario”: giusto per capire se ci si capisce, se si sta parlando la stessa lingua, se tutti questi dizionari (e“definizioni” di dizionari) si corrispondono. E la risposta è ovviamente negativa, o almeno, parzialmentetale. Una sottile, decisiva differenza (forse implicita in quel termine – “ragionato” – che Greimas e Courtésusano per qualificare e specificare il loro dizionario?) si annida fra i modi in cui questi dizionari descrivo-no se stessi, e pare essere proprio la differenza che distingue il “senso comune” da un progetto che è al con-tempo “a vocazione scientifica” e “strutturalista”.

Il Dizionario della lingua italiana descrive se stesso (e sostanzialmente tutti i dizionari) come “un lessi-co”, “un insieme di termini”, un deposito di conoscenze acquisite il cui ordine riposa quasi esclusivamen-

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te su un principio estrinseco, l’ordine alfabetico. Il Dizionario di Greimas, al contrario, realizza e ribadiscein pratica un suo intrinseco principio teorico cardine: ogni semiotica è “un reticolo relazionale” (cfr. voceCategoria) o, detto differentemente, il principio evidenziato da Hjelmslev, per cui sono le relazioni a costi-tuire e definire i termini e non il contrario. La semiotica dunque come scienza delle (co-)relazioni.

Non solo. Il Dizionario semiotico sembra costruire le sue relazioni, i suoi percorsi, per meglio evidenzia-re gli spazi vuoti, i luoghi di una ricerca da fare. C’è molta meno definizione del “dato e acquisito” di quan-to non sembri, di quanto generalmente ci si aspetta da un dizionario.

Addentrarsi veramente nel Dizionario di Greimas non significa dunque mandare a memoria conoscenzeassodate attraverso un lessico difficile e oscuro. È piuttosto pratica di un insieme: partendo da uno qualun-que dei suoi punti e percorrendolo nei suoi rinvii si seguono i molteplici sensi che esso traccia, ci si impa-dronisce della rete concettuale che (al di là e ben oltre le singole denominazioni) esso stende per catturare ilmondo (il mondo del senso). Non a caso mentre nessuno legge i dizionari (al massimo qualcuno li “consul-ta”) questo Dizionario si può leggere. In mezzo a tanti esperimenti di ipertesti abortiti il Dizionario diGreimas, dal 1979 a oggi, continua a mantenere (come conferma questa nuova edizione italiana nuovamen-te curata e nuovamente introdotta da Paolo Fabbri, che ingloba nuovi nodi della rete e nuove “voci” dellaricerca semiotica) la sua dinamicità interna, il suo farsi comprendere solo da chi non si limita a leggere sin-gole definizioni ma a costruire trame e campi di senso in cui i termini iniziano a significare, a risuonare, inrelazione.

Se ci siamo soffermati su questo aspetto apparentemente ovvio per chi fa semiotica e conosce ilDizionario è perché crediamo che ancora oggi questa differenza determini una parte delle incomprensionifra la semiotica greimasiana e chi batte altri campi, ad esempio quello degli studi sulla comunicazione.Ancora oggi infatti il “dialogo” (quando c’è) fra la semiotica e le scienze della comunicazione in senso stret-to, si basa spesso sulla semplice importazione di singoli termini evocativi (e spesso ampiamente sorpassatidalla stessa teoria semiotica) che vengono totalmente staccati dall’“economia” teorica entro cui sono nati ehanno dato risultati: segno, simbolo, testo, codice, codifica, decodifica, linguaggio, denotazione, connota-zione e così tanti altri perdono il loro valore relazionale per diventare delle realtà quasi-ontologiche. Conl’effetto che lo studioso di comunicazione si trova a usare strumenti decontestualizzati e depotenziati (maforse questo è il male minore…dai malintesi spesso nascono ottime cose) e la semiotica, per una specie dieffetto retroattivo, appare fatta di “paroloni” inutili che sono al contempo concetti monolitici, descrizionibanali di una realtà, con il corollario che poi si ha buon gioco a dire che “la realtà è molto più complessadi come ce la descrivono i semiotici”.

È forse nell’incomprensione del fattore relativo e relazionale della semiotica e del suo metalinguaggioche si annida la causa di questo dialogo incerto, di questo sguardo diffidente, di un rapporto segnato dal-l’ironia o dall’indifferenza da parte di discipline affini?

Il fatto che nei corsi di comunicazione si usi lo schema (proto-semiotico) di analisi delle fiabe di Proppma poi si rifiuti o ignori l’avanzamento fatto da Greimas proprio a partire dalla rielaborazione di Propp,dal raffinamento, dall’approfondimento e dalla generalizzazione del modello “narratologico” in una com-piuta teoria della “narratività” è abbastanza eloquente di come si opera il depauperamento della ricercainterdisciplinare. È come se gli studiosi di semiotica per rafforzare le loro analisi dei prodotti mediali chia-massero in causa lessici, storie e teorie dei media della prima metà del ‘900 facendo finta che poi non si siaelaborato nulla di nuovo e di meglio: se usassimo come strumento e metro delle teorie della comunicazio-ne la teoria dell’“ago ipodermico” o del “proiettile magico” non sarebbe difficile fare pessime riflessioni suimedia o avere buon gioco nel dire che la mediologia non ha una visione granché elaborata della realtà…

C’è un problema pratico, ovviamente. Per riuscire a instaurare dialoghi fruttuosi bisogna leggersi reci-procamente: vale a dire ascoltarsi davvero, volendo capire la diversità (e il meglio) dell’altro. Eppure, essen-do il mondo della ricerca nello stato che sappiamo, il tempo per leggere non c’è o non è mai abbastanza:specialmente il tempo per avventurarsi fuori dalle proprie tradizioni, dai propri campi, dalle proprie urgen-ze. Il Dizionario ragionato di Greimas e Courtés non “ammicca”, non si presenta “persuasivo”, apparente-mente respinge, ma proprio per ciò obbliga a ragionare con la semiotica: benché non semplice può esserel’inizio di un vero dialogo. Sicuramente può divenire (per molti già lo è) uno strumento di riferimento perragionare in profondità sui linguaggi.

Algirdas Julien Greimas (1917-1992) è uno dei fondatori della semiotica. È stato direttore di ricerca

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dell’Ecole pratique des Hautes Etudes di Parigi dal 1965 al 1986. Tra le sue pubblicazioni in lingua italia-na: Del senso (Bompiani, Milano 1984); Miti e figure (Progetto Leonardo, Bologna 1995); Semantica strut-turale (Meltemi, Roma 2000); Semiotica delle passioni (Bompiani, Milano 1996); Dell’imperfezione (Sellerio,Palermo 2004)

Joseph Courtés ha insegnato Linguistica all’Università di Toulouse-Le-Mirail. È stato direttore del Centropluridisciplinare di semiolinguistica testuale del CNRS. Tra le sue opere: Analyse sémiotique du discours(Hachette, Paris 1991); Du lisible au visible: initiation à la sémiotique du texte et de l’image (De BoeckUniversité, Bruxelles 1995) e La sémiotique du langage (Armand Colin, Paris 2005).

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Paolo PerulliLA CITTÀ. La società europea nello spazio globaleBruno Mondatori, Milano 2007pp. 181, € 14ISBN: 978-88-424-2051-4

Recensione di Luca Massidda

Pensare la città significa – ancora e inevitabilmente – pensarla attraverso Simmel. Pensarla attraversoSimmel significa pensarla come «spazio per il conflitto». È questo il solco (urvuum) che l’autore ha inizial-mente bisogno di tracciare per dare senso ai molteplici s-confinamenti con cui descriverà l’ambigua evolu-zione della forma urbana, dalla città moderna a quella dei bit.

Se il conflitto è l’oriente e il porto da cui prende il largo questa movimentata navigazione, tra tutte le«coppie di concetti in tensione permanente con l’origine della città» che l’autore-timoniere scruta è certa-mente quella chiusura-apertura a costituirne l’attraente nord.

È su quest’asse infatti che si è sempre giocata la partita dell’abitare la città, dalla polis alla megalopoli, daPlatone a Gottmann. È l’energia scaturita dalla tensione tra queste due opposte polarità che ha da sempredato forma alla spazialità urbana, incarnandosi in una moltitudine di dualità di differente astrazione: mer-cato versus oikos, nella ricostruzione tipologica weberiana (ricalcata poi dall’antitesi sovranità – circolazio-ne di Foucault); comunità versus società, non solo nel nostalgico rimpianto di Tönnies ma anche e soprat-tutto nelle ambigue reciprocità tra libertà e anomia, tra riserbo e coinvolgimento in cui si imbatte ancoraSimmel, anticipando Nancy che nella lontananza losangelena ribalta l’ordine dei fattori svelando la comu-nità come ciò che accade a partire dalla società; stato versus processo, che è anche dire razionalità pubbli-ca orientata allo scopo contro razionalità processuale, policy-making contro sense-making (Weick), ilPrincipe di Macchiavelli contro quello petit di Saint-Exupéry.

Ma nel dna della coppia apertura/chiusura sono anche iscritte le caratteristiche dominanti di quegli spae-samenti digitali che con rinnovata irruenza stanno modificando la fisionomia dell’abitare contemporaneo: aquell’interiour perfetto che è l’utopia si sovrappone la permeabilità instabile dell’e-topia/entropia (Castells;Scott); la presunta fissità dello spazio fisico si cortocircuita con la trascendenza in potenza dello spazio flui-do (ancora Castells); l’arrogante disporre della griglia incontra il totale essere a disposizione della rete.

Il rischio era quello di cedere alla tentazione di risolvere tutte queste dicotomie, di iscriverle in un rap-porto di causa/effetto, nella linearità temporale di un ante-/post-, di neutralizzarle riconducendole all’ipo-tetica rivoluzione di una frattura epistemologica, alla fine della storia.

Ma la lezione simmeliana era un vaccino troppo efficace per cadere nel tranello e così Perulli sembranon dimenticarsi mai che l’anomalia è paradigmatica e l’ambivalenza irrisolvibile: ogni chiusura ha una fallada cui filtra un raggio di luce, ogni apertura rivela un limite a cui ci aggrappiamo nei momenti di terrore esmarrimento, la rete può stringere le sue maglie e intrappolarci, la griglia abbandonarsi al delirio della ver-tigine newyorchese. E la vera utopia sembra risiedere nella capacità di connettere in un rinnovato spazio

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pubblico lo spazio dei flussi e quello dei luoghi.Raffreddo i miei entusiasmi e cerco di fare il bravo recensore: quello di Perulli è un ottimo libro, pieno

di spunti, i riferimenti richiamati sono moltissimi, ma la ricchezza non si traduce comunque in approssima-zione e se a volte si vorrebbe che la scrittura si fermasse un po’ più a lungo su qualche concetto, ciò acca-de più per la curiosità suscitata nel lettore che non in ragione delle sbrigative argomentazioni dell’autore.Certamente un prezioso strumento nella mani dello studioso e dello studente questo di Perulli; peccato soloper la colpevole assenza di una bibliografia finale: l’indice dei nomi e i riferimenti alla francese non sonoinfatti sufficienti a mettere ordine nella ricchezza dei testi citati.

Paolo Perulli insegna Sociologia economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Filosofia pressol’Accademia di Architettura di Mendrisio. Ha insegnato a Cambridge (Mass.) e a Parigi, all’IstitutoUniversitario di Architettura di Venezia e all’Università del Molise. Tra le sue pubblicazioni: La città dellereti (Bollati Boringhieri, Torino 2000); Piani strategici (Franco Angeli, Milano 2004).

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Silvia PezzoliCOMUNICAZIONE O FUGA? Domande di senso nella modernità disincantataMediascape edizione, Firenze-Roma 2006pp. 318, € 12,00ISBN 978-88-89240-11-3

Recensione di Francesca Marsilio

Porsi domande, interrogare se stesso, questionare sulla natura della propria esistenza e sulla costruzio-ne e ricerca del suo essere nel mondo, della propria identità, dell’esigenza di libertà: ecco alcuni dei mag-giori dilemmi che hanno attanagliato l’individuo moderno, costantemente teso ad una ricerca di libertà perl’affermazione di sé come singolo ed essere sociale. Da tali enigmi parte il lavoro affrontato dalla ricercatri-ce fiorentina Silvia Pezzoli.

Se ricercare la libertà ha da sempre costituito, prima che un obbligo morale, un’esigenza vitale ciò nonha corrisposto necessariamente al raggiungimento di un approdo sicuro quanto all’apertura di un nuovoquestionare: sulla natura del proprio essere finito, congiunto alla consapevolezza che egli stesso ha avuto disé in relazione al carattere transitorio della sua esistenza. Dopo aver sfatato il mito della propria onnipo-tenza, l’individuo si è dovuto confrontare con la consapevolezza della realtà della morte. Da qui la doman-da che costituisce il titolo del testo in questione: comunicazione o fuga?

Comunicazione intesa nel suo vociare di significati: di comunione, di condivisione, di «intendimento trami-te la ragione». Ma anche passaggio in termini di una maggiore evoluzione dell’individuo, ormai disancorato daun ordine sociale rigido, superstizioso, retaggio del sistema chiuso proprio del credo religioso. L’acquisizionedi coscienza, connessa ad una maggiore considerazione di sé come soggetto, ha costituito il terrapieno su cuiegli ha dato inizio al percorso formativo (ossia di acquisizione della forma) tale da distinguerlo dai suoi simili.

Il carattere problematico della comunicazione emerge, dunque, dall’evidenza delle differenze tra i singoli,valutati negli aspetti della molteplicità e delle contraddizioni. Ciò ha corrisposto anche ad un maggior deside-rio, nonché necessità di libertà, concepita nella duplice prospettiva della libertà di e da, a cui è collegabile ilbisogno e l’obbligo dell’autopoiesi. Se ciò ha generato da un lato un’accentuazione del processo di persona-lizzazione, dall’altro si è giunti ad una maggiore spersonalizzazione, in termini di desoggettivizzazione, nell’in-terrogativa evidenza della loro coesistenza. La dubbiosa irrisolutezza di tanto questionare spinge la Pezzoli adaffidarsi a cinque miti su cui riflettere: Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, Faust, Frankenstein.

La comunicazione implementa, inoltre, altri quesiti (risolti o meno) inerenti l’etica, concetto a cui faseguito quello di comportamento/azione, necessari a (ri)definire l’essere in relazione alla società e al pas-saggio dalla tradizione alla modernità: dall’etica dei principi all’etica della necessità; da quella del consumoall’etica della responsabilità, sino ad un’etica dell’investimento.

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Si giunge così al secondo termine di disgiunzione del titolo, “la fuga”: fuga da chi e/o da cosa? L’autricela intende nell’accezione di disimpegno nella costruzione del sé e dalla necessità di farlo. La fuga è, pertan-to, fuga tecnologica, del farmaco, del benessere, da noi stessi, consumistica.

Il lavoro parte da tali premesse “disincantate” e dagli interrogativi dell’individuo di fronte alle suddetteincontrovertibili realtà, dal confronto con l’esperienza della morte e, in generale, del dolore. Sono questedomande iniziali che aprono il varco alla disillusione di un uomo ormai giunto alla fine del gioco di costruzio-ne di senso del sé nella realtà, ormai cosciente della propria finitudine e finitezza, vista nella duplice relazionedi desiderio e memoria, una «memoria del bisogno» determinante nella formazione della propria identità nono-stante il crescente affermarsi di tendenze “lotofagiche”; la nascita, la malattia, la vecchiaia, la morte restanoancora allora passaggi obbligatori, tappe imprescindibili dell’esistenza individuale e, così, il legame tra memo-ria e morte viene analizzato come “politica” di riattivazione del reincanto, strategia presente nonostante la pron-tezza dell’individuo a scansarsi di fronte a tale palesamento, ovvero di fronte alla malattia e alla morte.

Il libro nasce come lavoro di ricerca sociale sul campo il cui materiale va dai miti alle notizie giornalisti-che relative a omicidi e suicidi giovanili fino ad interviste sui temi della ricerca. La metodologia utilizzata peraffrontare queste ultime è stata la narrazione autobiografica, che ha permesso alla ricercatrice di penetrarenel Lebenswelt, nel mondo della vita quotidiana dei soggetti di studio, al fine di poter meglio carpire le “veri-tà nascoste” con le quali essi si sono confrontati durante la loro esistenza. Ma tale aspetto non è altro che ilpunto di approdo di un processo la cui origine corrisponde alla costruzione in fieri che l’individuo ha edifi-cato della propria identità, portando anche a ridefinire il concetto stesso di comunicazione in rapporto allafinitezza, alla morte, che secondo la studiosa tende ad annullarsi all’evidenza dell’una o dell’altra, portandoad una «condanna di senso» di noi stessi e relegando alla comunicazione una missione salvifica.

Il libro si fonda, in ultimo, su quanto Giovanni Bechelloni definisce nella postfazione «un apparenteparadosso», una contrapposizione tra linea teorica e linea empirica, tra esperienza mediata e teorizzata edesperienza immediata e praticata. In ragione di tale considerazione la chiosa al testo analizza i temi affron-tati in termini di discrasie temporali, modernità e modernizzazioni, pensiero meridiano e realtà concreta.“Comunicazione o fuga?”... Equivarrebbe a dire, riprendendo l’interrogativo shakespeariano: «essere onon essere?». «Questo è il problema!», ammetterebbe Amleto.

Silvia Pezzoli è docente di Sociologia dei Processi Culturali al Corso di laurea in Media e giornalismo e diCultural Studies alla Laurea Magistrale in Comunicazione Strategica dell’Università di Firenze. Si occupadi tematiche connesse alla modernizzazione, con attenzione al processo di costruzione dell’identità e allacrescente individualizzazione dell’individuo moderno.

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Eric G. WilsonSECRET CINEMA. Gnostic Vision in FilmContinuum International Publishing Group, 2006174 pagine, $ 19.95ISBN: 0-8264-1797-3

Recensione di Guido Vitiello

«Se Basilide avesse fatto un film», assicura Eric G. Wilson, «sarebbe stato eXistenZ, un non-film sullanon-esistenza». Basilide, maestro gnostico vissuto ad Alessandria d’Egitto nel secondo secolo dopo Cristo,non ebbe ahinoi la chance di imbarcarsi alla volta di Hollywood, per comprensibili ragioni d’anagrafe; for-tuna che ci ha pensato, un paio di millenni più tardi, il canadese David Cronenberg. Cosa accomuna, secon-do Wilson, l’antica eresia e certo cinema moderno, soprattutto di fantascienza? È presto detto: gli gnosticicredevano che il mondo materiale non fosse altro che una messinscena allestita da un funesto demiurgo,una trama di illusioni da cui occorreva disbrigliarsi per giungere alla conoscenza e all’illuminazione.L’iniziato che avesse intuito la natura ingannevole di questo mondo poteva accedere alla pienezza e ram-memorarsi della sua origine e destinazione divina; laddove tutti gli altri, gli uomini “ilici” intrappolati nel-

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l’illusione della materia, perivano nell’ignoranza. Allo stesso modo, la fantascienza moderna è ossessionatadall’idea che la realtà quale la conosciamo sia una simulazione elettronica ordita da qualche potere cospi-ratorio – oscure multinazionali, potenze aliene o società segrete.

Alcuni film recenti, suggerisce Wilson, hanno dato forma a questa ossessione: The Matrix (1999) anzi-tutto, ma anche Vanilla Sky (2001), Donnie Darko (2001) o Dark City (1998). L’autore individua inoltre altredue grandi famiglie, che ripropongono in veste cinematografica concezioni che furono proprie delle prin-cipali derivazioni moderne della gnosi: la cabala e l’alchimia. Film cabalistici, dove il superamento della cor-ruzione del mondo materiale è ottenuto tramite la costruzione di un nuovo Adamo immarcescibile eimmortale – il Golem – sono per esempio Blade Runner (1982), Robocop (1987) o A.I. (2001); film imper-niati sulla trasmutazione alchemica della materia in spirito sarebbero invece, tra gli altri, Blue Velvet (1986),American Beauty (1999) o Altered States (1980).

Molto si potrebbe eccepire sulla legittimità di questa cornice teorica, e non vogliamo tediare il lettore sulperché e il percome una categoria nata nell’ambito della storia delle religioni, quella di gnosi, sia stata tantoabusata negli ultimi decenni. Tutto, all’incirca, è stato etichettato come “gnostico” da qualcuno; tanto che, iro-nizzava il grande studioso dello gnosticismo Ioan Petru Couliano, gli antichi eresiarchi sarebbero stupiti elusingati nell’apprendere quale strabiliante successo postumo hanno ottenuto le loro scuolette per happy few.Sarebbe però riduttivo negare qualunque valore euristico al richiamo di Wilson allo gnosticismo. Film aper-tamente gnostici, che si rifanno in modo diretto alle concezioni dell’antica eresia, ce ne sono senz’altro – bastipensare a Stigmate (1999) o a Mary (2005), che pure Wilson non cita. E tra quelli che cita sarebbe difficile,per esempio, negare a The Truman Show (1998) la patente di gnosticismo. Il film di Peter Weir riprende puntoper punto il capovolgimento, in chiave anti-jahvista, che alcune scuole gnostiche come la naassena operavanosul racconto biblico del Paradiso Terrestre: il malvagio creatore tiene schiava la sua creatura in un Eden fasul-lo impedendogli l’accesso al frutto della conoscenza – dunque il serpente è il vero liberatore.

Non per caso il film trae ispirazione da Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick; il quale fu divoratore ditesti gnostici, data la naturale consonanza tra le sue personali paranoie e le antiche concezioni esoteriche.Non bisognerà stupirsi, allora, di trovare elementi gnostici in tutti i film ispirati a Dick – cioè in metà delgrande cinema di fantascienza degli ultimi trent’anni. A questo proposito, le pagine dedicate a BladeRunner sono tra le migliori del libro. E convince anche la rilettura gnostica di un film come The Matrix,che a Dick deve molto. Il film dei Wachowski, per Wilson, addita all'abissale divinità anteriore a tutti i nomie le forme, al vero dio superiore, al demiurgo ingannatore: “Vedere The Matrix in un cinema porta a coglie-re di sfuggita questa divinità gnostica, non nelle immagini in movimento impresse sulla celluloide ma nelloschermo bianco, assenza di ogni colore e fondo di tutte le tonalità. The Matrix è un film che elimina il film”.

Altre volte Wilson s’imbarca in analogie meno felici. Annoverare l'innocuo EdTV (1999) tra i film “aper-tamente gnostici” è un grossolano abbaglio; definire Blow-Up (1966) “un’esplorazione gnostica di comeuna cultura consumata dall’apparenza sconfigge il reale” è poco più che una boutade. O ancora: la letturache Wilson offre di Blue Velvet è tra le cose migliori del libro, ma parlarne come di un film “alchemico”,con tanto di corrispondenze tra l’evoluzione del protagonista e le fasi dell’opus – nigredo, albedo, rubedo –è una forzatura. Una forzatura di cui, peraltro, non v’era necessità: non tutti i film sulla trasformazione inte-riore devono essere “alchemici”, non tutti i film sui robot sono ipso facto “cabalistici”, e soprattutto, nontutti i film che esplorano il rapporto tra realtà e apparenza vanno messi in conto all’antica eresia… a menodi voler riconoscere il primo maestro gnostico, o protoeresiarca, in Georges Méliès.

Eric G. Wilson, studioso del romanticismo angloamericano e dei suoi rapporti con l’immaginario scientifi-co, insegna alla Wake Forest University, in North Carolina. Tra i suoi libri, The Spiritual History of Ice:Romanticism, Science, and the Imagination (2003) e The Melancholy Android: On the Psychology of SacredMachines (2006).

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Redazione:Mario Pireddu ([email protected])Marcello Serra ([email protected])

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