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La corona e le feluche. Influenza regia e amministrazione degli Affari Esteri nell'Italia liberale. Dagli anni della Destra storica alla Grande Guerra. Gerardo Nicolosi Premessa “Al di sopra ancora del presidente del Consiglio in carica, arbitro supremo il re. Veramente, sembrava ormai finito il tempo del secret du roi e delle sue iniziative personali, al di fuori e al di sopra dei ministri. Il 1870 anche da questo punto di vista segnava una svolta da cui non era possibile tornare indietro” 1 . Con queste parole, scritte guardando al ruolo avuto da Vittorio Emanuele II, Federico Chabod toccava uno dei punti nodali della storia dell'Italia liberale e cioè il ruolo assunto dal re nella conduzione degli affari esteri, al quale la lettera dell'art. 5 dello Statuto Albertino affidava una posizione preminente. Questo saggio vuole soffermarsi non tanto sulla figura del sovrano quale agente diretto di politica estera – ciò che costituirebbe un tema a sé, tra l'altro di estremo interesse - quanto piuttosto sulla sua azione indiretta e di influenza nei confronti dell'elemento governativo, nonché sui legami che il corpo diplomatico mantenne con la dimensione regia, che, indipendentemente dall'esistenza o meno di un'azione diretta del re, continuano a sussistere ed a produrre effetti per l'intero periodo che è sotto la nostra osservazione, e cioè quello compreso tra gli anni della Destra storica e la Grande Guerra. Considerando le esigenze di sintesi imposte dalla natura di un volume collettaneo, ci concentreremo sugli aspetti più propriamente istituzionali e soprattutto sugli uomini, ricordandoci ancora di quanto scriveva Chabod che “tanto più è necessario questo cercare gli uomini quando s'abbia a trattare, come nel caso nostro, di storia politica e, soprattutto, di storia dei rapporti politici internazionali: laddove, cioè, non soltanto la personalità generale del singolo politico o diplomatico, le sue idee e il suo programma, ma il suo stile d'azione costituisce elemento mai trascurabile nelle vicende” 2 L'importanza del momento cavouriano. Le parole di Chabod da noi citate in apertura attestano l'esistenza di un ruolo attivo del sovrano che almeno sino al 1870 risulta essere incontrovertibile. Tuttavia, rispetto a questa storia pregressa, è quanto mai necessario sottolineare l'importanza del periodo cavouriano, in cui si forma quello che possiamo definire il primo nucleo di una diplomazia nazionale, le cui caratteristiche meritano delle considerazioni. Si tratta infatti di un momento genetico che prende avvio con le riforme azegliane del 1850, che interessano anche i meccanismi di reclutamento, che progressivamente cambiano il volto dell'amministrazione degli Affari Esteri 3 . Su tale processo riformistico, che fu accompagnato da una vera e propria epurazione di figure legate al periodo pre-quarantottesco, si innestano poi quei fattori direttamente legati alla gestione Cavour, che assume l'interim degli Affari Esteri dal 1855 al 1859 e che affida la macchina dell'amministrazione all'amico e collaboratore Gabalone di Salmour, autore di un importante regolamento del servizio interno approvato dal conte il 22 dicembre 1856. Da un punto di vista più generale, sui caratteri di questo primo nucleo di diplomazia nazionale ha innanzitutto incidenza la personale interpretazione che Cavour dette della carta statutaria, grazie alla quale si può parlare di un passaggio ad un regime in cui il governo comincia ad essere rappresentativo di una maggioranza parlamentare. Si aggiungano poi il forte carattere del leader, il suo rapportarsi al sovrano, con il quale non mancano momenti di contrapposizione anche molto duri, e la tendenza del conte a fidarsi maggiormente di esponenti della borghesia, piuttosto che dell'aristocrazia vicina a corte, ciò che favorisce una prima, timida, emancipazione degli affari esteri dalla tradizionale competenza regia. Lo stesso fatto che la carica di ministro degli esteri viene assunta ad interim dal primo ministro è un segno di questa lenta erosione delle prerogative della 1 F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, II, Bari, Laterza, 1965, p. 705. 2 Ibidem, p. 15. 3 Cfr. R. MOSCATI, Le scritture della Segreteria di Stato degli Affari Esteri del Regno di Sardegna, Roma 1947, pp. 25 ss; Id. , Il Ministero degli Affari Esteri, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 6 ss.

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La corona e le feluche. Influenza regia e amministrazione degli Affari Esteri nell'Italia liberale. Dagli anni della Destra storica alla Grande Guerra. Gerardo Nicolosi Premessa “Al di sopra ancora del presidente del Consiglio in carica, arbitro supremo il re. Veramente, sembrava ormai finito il tempo del secret du roi e delle sue iniziative personali, al di fuori e al di sopra dei ministri. Il 1870 anche da questo punto di vista segnava una svolta da cui non era possibile tornare indietro”1. Con queste parole, scritte guardando al ruolo avuto da Vittorio Emanuele II, Federico Chabod toccava uno dei punti nodali della storia dell'Italia liberale e cioè il ruolo assunto dal re nella conduzione degli affari esteri, al quale la lettera dell'art. 5 dello Statuto Albertino affidava una posizione preminente. Questo saggio vuole soffermarsi non tanto sulla figura del sovrano quale agente diretto di politica estera – ciò che costituirebbe un tema a sé, tra l'altro di estremo interesse - quanto piuttosto sulla sua azione indiretta e di influenza nei confronti dell'elemento governativo, nonché sui legami che il corpo diplomatico mantenne con la dimensione regia, che, indipendentemente dall'esistenza o meno di un'azione diretta del re, continuano a sussistere ed a produrre effetti per l'intero periodo che è sotto la nostra osservazione, e cioè quello compreso tra gli anni della Destra storica e la Grande Guerra. Considerando le esigenze di sintesi imposte dalla natura di un volume collettaneo, ci concentreremo sugli aspetti più propriamente istituzionali e soprattutto sugli uomini, ricordandoci ancora di quanto scriveva Chabod che “tanto più è necessario questo cercare gli uomini quando s'abbia a trattare, come nel caso nostro, di storia politica e, soprattutto, di storia dei rapporti politici internazionali: laddove, cioè, non soltanto la personalità generale del singolo politico o diplomatico, le sue idee e il suo programma, ma il suo stile d'azione costituisce elemento mai trascurabile nelle vicende”2 L'importanza del momento cavouriano. Le parole di Chabod da noi citate in apertura attestano l'esistenza di un ruolo attivo del sovrano che almeno sino al 1870 risulta essere incontrovertibile. Tuttavia, rispetto a questa storia pregressa, è quanto mai necessario sottolineare l'importanza del periodo cavouriano, in cui si forma quello che possiamo definire il primo nucleo di una diplomazia nazionale, le cui caratteristiche meritano delle considerazioni. Si tratta infatti di un momento genetico che prende avvio con le riforme azegliane del 1850, che interessano anche i meccanismi di reclutamento, che progressivamente cambiano il volto dell'amministrazione degli Affari Esteri3. Su tale processo riformistico, che fu accompagnato da una vera e propria epurazione di figure legate al periodo pre-quarantottesco, si innestano poi quei fattori direttamente legati alla gestione Cavour, che assume l'interim degli Affari Esteri dal 1855 al 1859 e che affida la macchina dell'amministrazione all'amico e collaboratore Gabalone di Salmour, autore di un importante regolamento del servizio interno approvato dal conte il 22 dicembre 1856. Da un punto di vista più generale, sui caratteri di questo primo nucleo di diplomazia nazionale ha innanzitutto incidenza la personale interpretazione che Cavour dette della carta statutaria, grazie alla quale si può parlare di un passaggio ad un regime in cui il governo comincia ad essere rappresentativo di una maggioranza parlamentare. Si aggiungano poi il forte carattere del leader, il suo rapportarsi al sovrano, con il quale non mancano momenti di contrapposizione anche molto duri, e la tendenza del conte a fidarsi maggiormente di esponenti della borghesia, piuttosto che dell'aristocrazia vicina a corte, ciò che favorisce una prima, timida, emancipazione degli affari esteri dalla tradizionale competenza regia. Lo stesso fatto che la carica di ministro degli esteri viene assunta ad interim dal primo ministro è un segno di questa lenta erosione delle prerogative della

1 F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, II, Bari, Laterza, 1965, p. 705. 2 Ibidem, p. 15. 3 Cfr. R. MOSCATI, Le scritture della Segreteria di Stato degli Affari Esteri del Regno di Sardegna, Roma 1947, pp.

25 ss; Id. , Il Ministero degli Affari Esteri, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 6 ss.

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corona, che favorisce in qualche modo la formazione di un personale diplomatico sempre più fedele al governo ed al 'suo' ministro, ciò che, transitivamente, equivaleva a dire fedele agli ideali liberali ed unitari. La storiografia è più o meno concorde nel riconoscere però che con la scomparsa di Cavour, il sovrano torna ad occupare una posizione centrale: secondo Filippo Mazzonis, “in assenza di una figura autorevole che lo spalleggiasse o che ridimensionasse gli ampi poteri che gli concedeva lo Statuto, il re poteva e potè imperversare liberamente sulla scena politica nazionale”4. Per ciò che riguarda in particolare la politica estera, come attesta la nostra citazione di apertura, Chabod segna un certo ripiegamento del protagonismo regio soltanto a partire dagli anni Settanta, ciò che non significherebbe ancora una totale astensione dalle questioni e che va messo in relazione anche ai mutati equilibri internazionali che seguono la guerra franco-prussiana, che rendono più difficoltose le manovre dinastiche. Una partecipazione che fu “senza alcun dubbio, meno intensa e attiva di quanto non fosse stata nel periodo intercorso fra la morte di Cavour e la presa di Roma”5. Per gli anni che vanno dal 1861 al 1870, scomparso il 'conte', bisogna mettere in evidenza il grande ascendente che ha acquistato il sovrano sulla classe politica della Destra storica, che era portata ad identificare il Risorgimento con l'azione della monarchia sabauda. Sono anni in cui c'è un forte influsso delle relazioni amicali, parentali e dinastiche nelle relazioni con gli stati esteri e tuttavia non del tutto priva di contrasti tra la corona e i ministri della Destra. Federico Chabod ha ancora una volta sintetizzato da par suo questa situazione, definita di “conflitto ultimo fra la tradizione, monarchico-diplomatico-militare, degli arcana imperii, e le imperiose esigenze del diritto popolare. Da una parte, Lanza e Sella, i borghesi; dall'altra il re, Cialdini e Menabrea, i militari infastiditi dalle preoccupazioni e dai timori di quei borghesi”6. Che ci sia un indietreggiamento a livello sistemico è fuori dubbio. Riguardo al carattere rappresentativo dell'esecutivo, questo si palesa attraverso la revoca di primi ministri indipendentemente dalle maggioranze parlamentari, come avvenne per Ricasoli nel 1862, per Rattazzi nel 1862 e 1867, per Minghetti nel 1864. In particolare per le interpretazioni dell'articolo 5, come ha ben spiegato Mario Caravale in un saggio che risale ormai a molti anni fa, non bisogna dimenticare che la discussione in Parlamento del trattato di alleanza con Francia e Inghilterra legata alla questione d'Oriente nel 1855, voluta da Cavour, costituì un fatto isolato. Trattati di tal tipo tornarono infatti a rientrare nella sfera degli affari riservati nel caso dell'alleanza con la Francia nel 1859, con la Prussia nel 1866, nel caso della Triplice nel 1882, di cui parleremo, sino agli accordi Prinetti Barrère del 1902 ed al Patto di Londra, che addirittura furono portati a conoscenza delle Camere soltanto quando il primo conflitto mondiale stava per concludersi. Riguardo invece a quelli che comportavano modifiche territoriali, che la lettera dello Statuto ne subordinava l'effetto all'assenso delle Camere, per i trattati conclusisi a Zurigo il 10 novembre 1859 di annessione delle province lombarde al Regno sardo, l'esecuzione venne autorizzata con decreto legge, ciò che sul piano formale – spiega Caravale – equivaleva ad una “ulteriore riduzione dell'intervento delle Camere”7. Sul piano specifico poi dei rapporti con l'amministrazione degli esteri, il protagonismo monarchico negli anni seguenti la morte del conte, si esprime con la nomina ministeriale di personaggi a lui fedelissimi, come lo stesso Rattazzi (marzo 1862) o il generale Alfonso La Marmora (settembre 1864-giugno 1866) o Luigi Federico Menabrea (ottobre 1867-dicembre 1869). Oppure, attraverso la nomina nella stessa carica di personaggi poco influenti, tali da facilitare “da dietro le quinte la politica personale del monarca”8, come nel caso dei conti Giuseppe Pasolini (dicembre 1862-marzo 1863) e Pompeo di Campello (aprile-ottobre 1867). Su quest'ultimo, vale la pena citare quanto ha

4 F. MAZZONIS, La Monarchia e il Risorgimento, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 110, al quale si rimanda anche per la

bibliografia sugli aspetti più propriamente costituzionali. 5 F. CHABOD, cit. , pp. 709-710 6 Ibidem, p. 705. 7 M. CARAVALE , Prerogativa regia e competenza parlamentare in politica estera: l'interpretazione dell'art. 5 dello

Statuto albertino, in «Storia e Politica», a. XVII, III, settembre 1978, pp. 413-414 e p. 411. 8 F. MAZZONIS, cit. , p. 113

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scritto Denis Mack Smith, che riporta le parole di un diplomatico inglese secondo il quale il ministro degli esteri «era così completamente all'oscuro di tutte le questioni che riguardavano il suo ministero da rendere una conversazione con lui sull'argomento una pura perdita di tempo». Conclude Mack Smith che: “Una simile scelta non poteva essere casuale: il re intendeva fare egli stesso il ministro degli esteri allo scopo di annettersi Roma e coronare così il Risorgimento. Che il governo parlamentare potesse uscire indebolito da questi procedimenti non era cosa che contasse poi molto”9. Tuttavia, scomparso Cavour, non era di certo scomparsa la diplomazia cavouriana, gli uomini attraverso ai quali si era sviluppata un'azione tra l'altro coronata dal successo, ciò che costituisce un dato affatto secondario. Guardando all'amministrazione centrale, tale tradizione trovava una sua personificazione soprattutto in Emilio Visconti Venosta, l'ex mazziniano convertitosi alla politica cavouriana che fu segretario generale dal dicembre 1862 al marzo 1863, poi ministro degli Esteri dal marzo 1863 al 1864, dal giugno 1866 all'aprile 1867 ed infine durante un lungo periodo dal dicembre 1869 al marzo 1876. Vero dominus degli affari esteri negli anni della destra storica, non è un caso che nel difficile periodo che portò a 'Roma capitale' volle come segretario generale Isacco Artom, che rivestì tale carica dal novembre 1870 al marzo 1871, altro 'storico' collaboratore di Cavour. Per ciò che riguarda l'amministrazione periferica, invece, non si può non fare riferimento alla figura di Costantino Nigra, saldamente al suo posto quale rappresentante del Regno d'Italia a Parigi sino al 1876, quando fu trasferito a Pietroburgo. Di recente Giuseppe Galasso ha giustamente riaperto la questione sulla minore o maggiore autonomia della figura di Nigra da quella di Cavour, perchè, se è indiscutibile che sia a Cavour che Nigra deve la sua fortuna, è anche vero che la sua carriera prosegue per altri quarant'anni dopo la morte del conte, sempre in posizioni da inner circle e dimostrandosi anche capace di leggere le sollecitazioni del tempo presente in maniera autonoma rispetto al bagaglio di esperienze maturato negli anni di Plombieres. Valgono in questo senso i suoi favori nei confronti della Triplice Alleanza nel periodo in cui fu ambasciatore a Vienna. Una indipendenza di giudizio e di azione di cui d'altronde aveva dato prova nel periodo dell'instaurazione della III repubblica francese, nei confronti della quale mantenne un atteggiamento leale. Probabilmente fu questo, oltre al rapporto speciale che lo legava ad Eugenia, a procurargli l'aperta ostilità del principe Bonaparte, che mosse nei suoi confronti una guerra personale, “venendo anche appositamente a trovare il suocero in Italia [Vittorio Emanuele II] e consigliando addirittura il Visconti Venosta di richiamare il Nigra da Parigi”10. Ha scritto giustamente Galasso, che Nigra “era, in effetti, un autentico liberale della Destra storica quale essa si configurò tra il Piemonte sabaudo e l'Italia unita dagli anni di Cavour a quelli di Lanza, Sella, Minghetti, nel ventennio 1850-1870”11. Al 1870 esiste quindi un corpo diplomatico che si è forgiato nell'unità, che diventa consapevole delle proprie funzioni, capace di assumere posizioni anche contrarie a quelle di Vittorio Emanuele II: è abbastanza indicativo, per esempio, che sia il conservatore De Launay, ambasciatore a Berlino, uno degli ultimi esponenti della più pura tradizione savoiarda - e che evidentemente non era rimasto insensibile alla lezione cavouriana - ad esprimere apertamente tutto il suo dissenso per una entrata in guerra dell'Italia a fianco della Francia nel 1870. L'influenza della corona negli anni della sinistra al potere. Secondo Paolo Colombo, autore di un documentato studio sulle prerogative costituzionali del re d'Italia, riguardo all'attivismo regio in politica estera è possibile individuare due grandi fasi, che sono distinte tra loro dall'avvento della sinistra al potere e dalla fine del regno di Vittorio Emanuele II. Per quanto riguarda la prima fase, Colombo ribadisce la prevalenza di una gestione della politica

9 D. MACK SMITH , Vittorio Emanuele II, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 282. 10 F. CHABOD, cit. , p. 751. 11 G. GALASSO, Nigra: una veduta d'insieme, in L'opera politica di Costantino Nigra, a cura di Umberto Levra,

Bologna, Il Mulino, 2008, p. 188.

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estera ancora di matrice settecentesca, cioè con un forte protagonismo del re, in cui le decisioni regie trovano sicuramente minori ostacoli. Nella seconda fase, si assisterebbe invece ad una crescita dell'esecutivo, che assume un ruolo guida, ma aumentano i conflitti tra re e governo, perchè progressivamente si riducono gli spazi per una politica estera segreta e amministrabile in prima persona dal monarca. Secondo Colombo, quasi paradossalmente, il parlamento rimarrebbe tagliato fuori ancora di più dalle decisioni di respiro internazionale, proprio perché è più viva la sensazione che esso cominci ad essere un soggetto attivo ed autonomo12. In effetti, se gli anni della Destra storica sono caratterizzati da una certa omogeneità tra classe dirigente e classe politica, ciò che, nonostante l'esistenza di momenti di scontro, si riverbera nell'azione lineare e condivisa della diplomazia di Visconti Venosta, negli anni della Sinistra al potere cominciano a registrarsi alcuni fattori di complicazione, ciò che può ancora una volta avere giocato a favore dell'elemento regio. Diciamo innanzitutto che il cambio di guardia al potere non significò alcuno sconvolgimento nel campo della gestione degli Affari Esteri. La critica che Crispi muoveva a Depretis ai tempi della Pentarchia di aver fatto “la politica della Destra con uomini della Destra e non necessariamente peggio della Destra” era sostanzialmente fondata. Possiamo dire che tale continuità da una parte serviva alla nuova classe di governo per tranquillizzare le cancellerie europee, memori del passato rivoluzionario di molti esponenti di governo, una ricerca di legittimazione che non poteva non rivolgersi anche in direzione di casa Savoia, che si esplicava in un atteggiamento quanto mai duttile e conciliante nei suoi confronti e che indirettamente favoriva i suoi propositi di preservare le tradizionali prerogative nel campo degli Esteri e della Guerra. Da parte sua la monarchia aveva ben interpretato la crisi irreversibile della Destra storica, agendo “nella convinzione di trovare tra gli homines novi dell'antico partito democratico collaboratori più docili e malleabili”13. Così, nonostante i propositi di dare realizzazione all'antica idea di una politica estera democratica, che godesse cioè del “consenso dei popoli civili” ed i tentativi di rafforzare l'esecutivo con la normativa sulla presidenza del Consiglio dei ministri14, in realtà il tutto si svolse nel segno di una grande continuità. Primo ministro degli esteri della sinistra fu Luigi Amedeo Melegari, un vecchio mazziniano che del patriota genovese era coetaneo, quindi abbastanza avanti con gli anni da far credere alla scelta di una figura debole tale da favorire il protagonismo regio. Ma il sintomo forse più evidente dei favori nei confronti della monarchia e nello stesso tempo della preoccupazione di tranquillizzare i governi europei fu la destinazione a Londra di Luigi Federico Menabrea in qualità di inviato straordinario e ministro plenipotenziario di prima classe, un ultra moderato inviso agli ambienti della democrazia sin dai tempi quarantotteschi di Gioberti ministro degli Esteri. Interessante figura di intellettuale e politico, reduce di tutte le guerre d'indipendenza, buon conoscitore della 'macchina' degli Esteri per esservi entrato per la prima volta appunto nel 1848, nel 1866 era stato nominato plenipotenziario del re nelle trattative di pace con l'Austria e da quell'anno era stato il primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele II. Dal 1867 al 1869 era stato primo ministro di tre governi in cui l'elemento monarchico era oggettivamente sovrarappresentato ed in cui infatti lo stesso Menabrea tenne saldamente nelle proprie mani gli interim degli Esteri. Di recente, è stato scritto che di fronte ai governi “cortigiani” di Menabrea ed alle polemiche che travolsero l'ultimo suo gabinetto nel 1869, quando Giovanni Lanza era stato designato dalla Camera come suo presidente contro il candidato ministeriale e quindi “in pectore, capo del governo”, si erano evocati “i tempi borgiani”15. Stesso dicasi per la scelta di far reggere la legazione di Parigi al generale Enrico Cialdini, già inviato con credenziali di ambasciatore nel 1870 a Madrid con il compito di favorire la designazione a re di Spagna di Amedeo di Savoia, missione che era stata coronata dal successo. Mentre Nigra fu spedito in un'altra sede affatto secondaria come San Pietroburgo, a Berlino nessuno

12 P. COLOMBO, Il Re d'Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona 1848-1922, Milano, Angeli, 1999, pp. 327 ss. 13 F. MAZZONIS, cit. , p. 130. 14 Si tratta del Regio Decreto 25 agosto 1876, n. 3289 sulle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 15 C. M. FIORENTINO, La corte dei Savoia 1849-1900, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 41.

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si azzardò a toccare un altro conservatore come De Launay ed a Vienna fu riconfermato Carlo Felice Nicolis di Robilant, in quella sede dal 1871 ed altro uomo 'per indole' molto vicino a corte. Appartenente all'alta nobiltà piemontese e membro di diritto del ristretto circolo dell'aristocrazia internazionale – la madre era tedesca, una Truchsess von Waldburg e la moglie austriaca, una Clary-Aldringen - militare di carriera ed anche lui reduce delle guerre d'indipendenza, di Robilant era colui che, tredicenne, ai consigli di un prozio che avrebbe voluto farlo studiare in un collegio militare austriaco aveva risposto: “je ne servirai jamais que mon Roi et ma patrie”. E si può dire che il piglio era rimasto tale, se è vero che nel 1885 quando Depretis lo chiamò alla carica di ministro degli esteri, dopo una resistenza disperata cedette perchè – scrive di Robilant - “il re mi espresse ieri il preciso desiderio in maniera equivalente ad un ordine; e siccome un vecchio soldato come me non discute gli ordini del suo sovrano, ho telegrafato che obbedivo”16. Ciò che rende perfettamente l'idea di quanto contasse l'intervento diretto del re nella nomina dei ministri anche negli anni della sinistra storica e con Umberto I. Stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda i collaboratori di Depretis e poi di Cairoli al ministero. Dopo le dimissioni di Isacco Artom ad alternarsi nella carica di segretario generale del MAE sono Giuseppe Tornielli-Brusati di Vergano, dall'aprile 1876 al giugno 1878 e poi dal dicembre 1878 al luglio 1879 e Carlo Alberto Maffei di Boglio dal giugno al dicembre 1878 e dal luglio 1879 al maggio 1881. Il primo era stato al seguito di Massimo d'Azeglio in missione nelle Romagne durante la prima guerra di indipendenza; entrato in carriera per concorso nel 1859 aveva fatto le sue prime esperienza come segretario di legazione a Pietroburgo e ad Atene, per poi assumere una serie di incarichi di amministrazione interna durante la gestione Visconti Venosta, a partire da quello del 1867 di capo di gabinetto del ministro. Nel 1875 era stato nominato primo maestro onorario delle cerimonie del re. Maffei di Boglio, che aveva per madre una Pes di Villamarina, era entrato in carriera nel 1855, nel 1860 aveva accompagnato in qualità di segretario Cavour in occasione dell'entrata di Vittorio Emanuele II in Toscana e in Emilia ed era poi stato segretario di legazione a Londra con Emanuele Taparelli d'Azeglio17. Si tratta cioè di due funzionari che sono espressione perfetta di quella classe di diplomatici piemontesi e moderati formatisi negli anni della Destra storica alla scuola di Visconti Venosta ed ai quali la nuova classe di governo non esita ad affidare l'amministrazione degli affari esteri. Ed ancora più eclatante, se vogliamo, è la “chiamata” alla carica di segretario generale dal 1881 al 1883, con Mancini ministro, di Alberto Blanc, altro savoiardo cresciuto alla scuola di Cavour, tipico uomo della Destra, capo di gabinetto di un fedelissimo del re come Alfonso La Marnora e già segretario generale di Visconti Venosta. Si aggiunga poi un altro elemento, e cioè una spregiudicata politica di reclutamento di personale diplomatico di estrazione nobiliare. In una Indagine statistica sui funzionari del MAE nel periodo 1861-1915, leggiamo che “il rapporto nobili-borghesi riferito al totale dei funzionari è sempre caratterizzato da una prevalenza dei secondi salvo nel periodo 1877-1887. Dato quest'ultimo che conferma il carattere anomalo del reclutamento della Sinistra e introduce un elemento di squilibrio sul lungo periodo, contraddistinto, invece, da una forte ascesa dei ceti borghesi”18. Contrariamente a quanto ci si poteva attendere, ai tempi della sinistra la carriera è ancora in massima parte rappresentata da funzionari piemontesi, di estrazione aristocratica, di condizione economica agiata ed in collegamento con i ceti burocratici. É di un certo rilievo che a condizionare il dato sia il massiccio ricorso alle nomine ad addetto onorario, stabilite con decreto dal ministro, che interessano sì soltanto i gradi iniziali della carriera, ma in qualche modo hanno un significato politico. Tra gli ingressi di questo periodo, si registra infatti un folto gruppo di giovani rampolli di antiche famiglie dell'aristocrazia piemontese, come i conti Mercurino Arborio di Collobiano, Eugenio Avogadro di Casanova, Paolo Costa di Trinità, Felice della Croce di Doyola, Paolo Falletti di Villa Falletto, Annibale Luserna Rorengo di Rorà, Giulio Rasponi, tutti legati all'aristocrazia di

16 F. CHABOD, cit. , p. 689 e p 764. Su Nicolis De Robilant si veda La formazione della diplomazia nazionale.

Repertorio bio-bibliografico dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri (1861-1915), Roma 1987, ad nomen 17 Su Tornielli e Maffei di Boglio, cfr. ibidem, ad nomina 18 La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Indagine statistica, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello

Stato, 1986, p. 64.

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servizio e molto vicini a corte. Come dire: un altro servizio reso a casa Savoia. Possiamo quindi affermare che l'urgenza di legittimazione della sinistra di governo trova riscontro nelle esigenze di conservazione delle prerogative regie nel campo della politica estera. Indicativa a tal proposito, per come sia maturata e per le sue stesse modalità di svolgimento, è la missione diplomatica presso le principali capitali europee che nel settembre 1877 viene affidata a Francesco Crispi, il cui vero scopo è quello di sondare Bismarck sulla disponibilità di un alleanza tra Italia e Germania, alleanza diretta non soltanto contro la Francia, di cui si temeva un'involuzione reazionaria tale da poter giustificare un attacco nei nostri confronti, ma anche anti-austriaca, ipotesi questa ritenuta subito irricevibile da parte del cancelliere tedesco. In quella occasione Crispi comunicò le sue impressioni non solo direttamente al presidente del consiglio, ma anche al re. L'11 settembre 1877 scriveva a Vittorio Emanuele II: “Coteste mie congetture svanirebbero, qualora la Francia abbandonasse le sue male abitudini, giungesse a costituire un regime di libertà, e smettesse per sempre il brutto gioco delle rivoluzioni e dei colpi di stato, dai quali nulla può sorgere di stabile e duraturo, la violenza ai tempi nostri non potendo essere buona arte di governo”19. Ma ancora più interessanti per quel che ci riguarda sono le parole che Crispi rivolge al re in chiusura: “Nei 29 anni di regno V.M. ha saputo con la sua intelligenza e il suo coraggio superare difficoltà ben più gravi di quelle prevedute ed ha saputo evitare pericoli di maggior entità. Il suo senno, la sua esperienza le suggeriranno quello che converrà fare in previsione degli avvenimenti, intesi i consiglieri responsabili della Corona”20. Quindi senza alcun rimando alla struttura degli Affari Esteri, che rimane del tutto tagliata fuori rispetto allo scopo principale della missione. Dopo l'importante colloquio avuto con Bismarck, il 20 settembre successivo infatti Crispi comunicava a Depretis: “ti avverto che nulla ho detto a Launay delle nostre pratiche con lui essendomi soltanto limitato a discorrere dell'art. 3 del Codice Civile”, ciò che costituiva lo scopo ufficiale della missione secondo le istruzioni che Crispi aveva ricevuto da Melegari21. E de Launay, come sappiamo, non era certo l'ultimo arrivato, ma il decano della diplomazia italiana. A dimostrazione di quanto si diceva sopra sulla necessità di legittimazione della sinistra, il 26 settembre Depretis scriveva a Crispi: “Il tuo viaggio avrà questo risultato: la diplomazia ha cominciato a conoscerci, a renderci giustizia, a trattare apertamente con noi. Fummo lungamente cospiratori per l'unità del nostro paese, siamo stati rispettati come deputati di parte liberale, ora otterremo di essere apprezzati come uomini di governo”22. E sull'altra sponda, la monarchia manteneva ancora una posizione centrale. Con la fine del regno di Vittorio Emanuele II si registrerebbe sì un calo irrimediabile del «grado di accettabilità» di una politica estera di proprietà esclusiva del monarca, ciò che però ancora una volta non eliminerebbe le vecchie prerogative, anzi, spingerebbe la sfera monarchica a confinare sempre di più la propria azione nell'ambito delle affinità dinastiche23. Uscito dalla scena terrena il 're galantuomo', l'atto più significativo in questo senso fu il viaggio a Vienna di Umberto I nell'autunno del 1881, che avvia la preparazione alla Triplice, un'alleanza che, secondo quanto ha scritto Salvatorelli, rispondeva sostanzialmente a due motivi: “il desiderio della dinastia di appoggiarsi alle grandi monarchie continentali, considerati come baluardo contro la temuta influenza repubblicana, e la reazione nazionale all'occupazione francese di Tunisi”24 Il significato ambivalente della parentesi crispina. Nell'ambito delle due grandi fasi di cui sopra, distinte dall'ascesa della Sinistra al potere e dalla morte di Vittorio Emanuele II, rispetto alle quali possiamo parlare di una sostanziale continuità, il 19 F. CRISPI, Politica estera. Memorie e documenti raccolti e ordinati da T. Palamenghi-Crispi, Milano, Treves, 1914,

p. 19 20 Ibidem, p. 20 21 Ibidem, p. 32. Ufficialmente infatti Crispi avrebbe dovuto stipulare accordi con le diplomazia europee affinchè l'art.

3 del codice civile italiano fosse riconosciuto anche in territorio estero. 22 Ibidem, p. 51 23 Cfr. P. COLOMBO, cit. , p. 327. 24 L. SALVATORELLI , La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, Milano 1939, p. 11.

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periodo crispino costituisce senz'altro un momento critico dei rapporti sovrano – gabinetto – diplomazia. Prima di entrare nel merito delle riforme apportate dallo statista siciliano all'amministrazione degli Affari Esteri è necessario soffermarsi brevemente sul rapporto tutto personale che Crispi aveva con l'istituzione monarchica. Come è noto Crispi nasce politicamente come repubblicano e cospiratore, ma dal 1864 la sua conversione alla monarchia è sincera. Vanno però tenute nel giusto conto le parole che Mazzini rivolse al vecchio sodale in quella circostanza: “conosco troppo il vostro passato e vi so d'ingegno troppo arguto, per ammettere un solo istante che voi siate oggi monarchico di fede, monarchico teoricamente, monarchico come lo erano settant'anni addietro gli uomini della Vandea”25. La scelta di Crispi – giudicata senza mezzi termini 'opportunistica' da Mazzini – si giustificava in primo luogo con la necessità del raggiungimento dell'unità nazionale. Successivamente, la monarchia sarebbe diventata lo strumento per il suo consolidamento, secondo una visione del sistema politico in cui il governo avrebbe assunto una posizione centrale con l'obiettivo del rafforzamento dell'ordine statuale. Ma il retroterra mazziniano e democratico accompagnò sempre lo statista siciliano e negli anni della maturità politica continuava a manifestarsi nel sostegno convinto all'idea di una 'monarchia popolare'. Per quanto riguarda invece le relazioni con Umberto I, Arturo Carlo Jemolo sottolineava acutamente il rapporto tutto particolare che si instaura tra Crispi ed un sovrano “più giovane di lui di venticinque anni”, un re “ch'egli ha assistito all'avvento al trono, cui ha fatto assumere il titolo di 'primo', e ch'è il primo re di casa Savoia prosciolto da vincoli regionali, non assillato da nostalgie piemontesi”26. Crispi amava affermare di essere un amico del re, ma non un suo servitore, il che rende l'idea di quale fosse il suo atteggiamento nei confronti della monarchia. I giudizi di Crispi su re e monarchia riportati da Jemolo sono spesso contraddittori, specchio – come d'altronde avverte l'autore – di un carattere umorale che risentiva molto del 'momento'. Da essi traspare comunque un'idea molto alta dell'istituzione monarchica, ma non sacrale della persona del re – “gli uomini della Vandea credevano nel diritto divino; voi no”, gli aveva ricordato Mazzini. “Un buon re è un fortunato accidente”, sosteneva infatti Crispi citando Pietro il Grande, re che poteva quindi anche essere soggetto non degno della sua missione. La possibilità di un re debole rendeva necessario la solidità delle istituzioni statuali: “Bisogna dunque che le istituzioni siano tali che il governo proceda anche quando manca cotesto fortunato accidente, e che vi sia sul trono o un pazzo come Giorgio III, o una donna come Vittoria”. Sbagliavano quindi coloro che pensavano che la monarchia consistesse nel re, perchè la monarchia era “nelle istituzioni, nelle abitudini, negl'interessi, in tutto ciò che moralmente e politicamente le circonda e le dà forza”27. Ciò tuttavia non significava affermare che l'uomo non avesse importanza: “ove manchi l'uomo, il governo monarchico è più debole del repubblicano, anzi non ha ragione di essere, imperocchè la sua ragione di essere è nella solidità”. Guardando a quanto era avvenuto in Italia, secondo Crispi tutto era andato bene sino a quando il re aveva agito d'accordo con i rivoluzionari per il compimento dell'unità, ma i “guai” erano cominciati con la presa di Roma, cioè a 'missione compiuta'. Ed infatti non mancarono giudizi anche severi su Umberto I, criticato anche per ragioni personali, come per la nomina di Cairoli a primo ministro nel 1878, quando invece avrebbe voluto essere proprio Crispi a continuare il discorso intrapreso con Bismarck per impostare un'altra linea al congresso di Berlino, e per la nomina di Rudinì nel 1891, quando la Triplice a suo avviso si sarebbe dovuta rinegoziare e non semplicemente rinnovare. Tuttavia anche Crispi avvertì il fascino del sovrano, “ma con quasi certezza può dirsi che in Crispi l'affetto superò la stima: e fu un po' l'affetto paterno, indulgente, di un vecchio conscio della propria forza e della propria intelligenza che molto crede di perdonare a chi ritiene più debole di sè”, scrive efficacemente Arturo Carlo Jemolo28. Oltre al suo personale rapporto con il sovrano, bisogna poi considerare che per lo statista siciliano il rafforzamento del potere esecutivo passava anche dalla restituzione “al legittimo titolare delle

25 G. MAZZINI , A Francesco Crispi (1864), ora in Scritti Politici di Giuseppe Mazzini, a cura di T. GRANDI e A.

COMBA, UTET, Torino 2005, p. 971 26 A. C. JEMOLO, Crispi, Vallecchi, Firenze 1922, pp. 87-88. 27 Ibidem, p. 88 28 Ibidem, p. 92.

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prerogative che gli spettavano”, come ha messo in evidenza Daniela Adorni in un saggio di qualche anno fa. Si trattava cioè di una strategia che voleva “amplificare, almeno formalmente, la funzione del re in quanto capo dell'esecutivo, ma al contempo rivestire l'azione ministeriale di quell'autorità e di quell'autorevolezza che solo l'iniziativa sovrana poteva conferirle”29. In ogni caso, siamo nell'ambito di una concezione del sistema politico in cui l'esecutivo avrebbe dovuto agire libero dai condizionamenti delle camere, nonostante non sia possibile configurarla al di fuori della prassi parlamentare. Se si guarda all'idea che Crispi aveva dei rapporti esecutivo-parlamento tenendo sullo sfondo la sua concezione dell'istituzione monarchica ed i suoi rapporti con il sovrano, bisogna poi tener presente che per ciò che concerne strettamente la conduzione della politica estera, lo statista siciliano fu colui che addossò su di sé oltre alla carica di primo ministro e quella di ministro dell'Interno anche l'interim degli Esteri, una concentrazione di potere mai vista dai tempi di Cavour e sicuramente non troppo gradita al sovrano. L'azione riformatrice di Crispi in qualità di ministro degli Esteri è stata attentamente studiata in alcuni saggi molto documentati30, dai quali emerge appunto che in rapporto all'interpretazione dell'art. 5, egli si mosse su un terreno tradizionale ed in continuità rispetto al passato per ciò che riguardava il rispetto del segreto diplomatico nelle trattative internazionali, ribadendo l'incompetenza del parlamento a discutere materie che riguardavano la politica estera. Basti citare al proposito il trattato concluso il 2 maggio 1889 con l'Abissinia che fissava l'estensione dei possedimenti italiani in Africa orientale, ratificato dal re il 29 settembre successivo, che precede il regio decreto 1° gennaio 1890 di istituzione della Colonia Eritrea, secondo una procedura che aveva totalmente escluso le camere, tanto che il trattato veniva comunicato loro dal governo soltanto nel marzo 189031. Si trattava di un'altra sconfessione del suo passato 'rivoluzionario' e della condanna mazziniana della diplomazia segreta. Rispetto alla diplomazia in sé, bisogna poi ricordare come il giudizio di Crispi non fosse mai stato positivo. Per certi versi, sono da considerare i suoi stessi tratti caratteriali, che lo facevano uomo del tutto distante da quel mondo. Le parole più incisive in questo senso le ha forse scritte Salvemini, che notava come Crispi fosse umanamente portato a lanciarsi “a testa bassa contro gli ostacoli – perfetto temperamento giacobino – invece di girarli con prudenza temporeggiatrice, come faceva Depretis, o di trattarli con spigliatezza ironica da gran signore, come faceva Robilant”. Crispi “portava nell'azione diplomatica gli stessi squilibri di pensiero, le stesse intemperanze di linguaggio, che s'incontrano ad ogni passo nei suoi discorsi parlamentari, sia di oppositore sia di uomo di governo, e che provocavano, durante le discussioni, tumultuosi incidenti, per lo meno inutili” 32. Ed ancora: “Il vero Crispi fu un uomo sincero, ombroso, vulcanico, incapace di eufemismi diplomatici, avvezzo a parlar violento, sensibile alla lode, più sensibile all'offesa [...]”33. Si aggiunga poi che al pregiudizio dei tempi mazziniani era succeduta una vera e propria diffidenza, fondata soprattutto su un giudizio di inefficienza, maturata negli anni della sinistra al potere dopo gli insuccessi del congresso di Berlino e della mancata partecipazione all'occupazione dell'Egitto. Come è stato scritto, è negli anni di Mancini al governo che in Crispi è già presente “una nuova concezione della diplomazia”, perchè “una politica di grandezza presupponeva un rinnovamento e potenziamento della diplomazia”. Da qui l'idea di un rinnovamento anche nelle attitudini e nel

29 D. ADORNI, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze, Olschki, 1999, p. 63 30 Sull'azione di Crispi al MAE si veda F. GRASSI ORSINI, Il Ministero degli esteri: la diplomazia, in Le riforme

crispine. Amministrazione statale, “Archivio Isap”, n. 6, t. I, Milano, Giuffrè, 1990: Id. , Il primo governo Crispi e l’emigrazione come fattore di una politica di potenza, in Gli italiani fuori dall’Italia , a cura di B. Bezza, Milano, 1983, L. V. FERRARIS, L'amministrazione centrale del Ministero degli Esteri nel suo sviluppo storico (1848-1954), Firenze 1955, pp. 32-38; E. SERRA, La diplomazia in Italia, Milano, Angeli, 1984; V. PELLEGRINI (a cura di), Il Ministero degli Affari Esteri, in L'amministrazione centrale dall'Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, a cura di G. MELIS, Bologna, Il Mulino, 1992

31 Nei confronti di chi lo accusava di aver violato l'art. 5 dello Statuto, Crispi si giustificò dicendo che non si trattava di un trattato che implicasse modificazioni del territorio nazionale, ma di quello coloniale. Cfr. su questo punto in particolare M. CARAVALE , cit. , p. 412. 32 G. SALVEMINI , La politica estera di Francesco Crispi, Roma, 1919, p. 41. 33 Ibidem, pp. 46-47

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costume diplomatico, niente più “feste di corte”, ma un personale che, oltre al compito di “rappresentare il paese”, avrebbe dovuto “informare, svolgere attività di intelligence” e soprattutto “far sapere quello che vogliamo, e dove vogliamo arrivare”34. Per quello che più ci riguarda, Crispi accusava il corpo diplomatico della Destra storica – e quindi anche della Sinistra, data la continuità già da lui criticata – di essere stato “più sensibile agli interessi della Corona che a quelli del Paese” e di avere la tendenza a sottrarre la politica estera non solo al controllo del Parlamento – ciò su cui sostanzialmente concordava - ma anche a quello del governo35, il che andava esattamente in senso contrario alla sua concezione dell'azione governativa, che puntava ad un distacco netto dai retaggi dinastici. Da un'analisi d'insieme dei provvedimenti normativi riguardanti l'amministrazione degli Esteri risulta infatti evidente una volontà di accrescimento del potere ministeriale che si risolve inevitabilmente in un tamponamento dell'influenza regia. Nella sua concezione è il gabinetto il vero nucleo propulsore dell'azione diplomatica. La stessa natura della normativa che segna il processo riformatore crispino, caratterizzata da una selva di regolamenti, circolari, ordini di servizio, “istruzioni spesso redatte in tono imperioso” - come ha scritto Enrico Serra36 - dà l'idea di questa centralità ministeriale. Evitando in questa sede di procedere ad una ricostruzione dettagliata delle riforme in questione37, segnaliamo che da esse questa volontà di rendere il servizio diplomatico più rispondente alle esigenze di un governo responsabile risulta evidente. Con le leggi 25 e 29 dicembre 1887, veniva sostanzialmente depotenziata la figura del segretario generale, le cui funzioni amministrative venivano affidate al sottosegretario – nuova figura introdotta in tutti i ministeri con la legge 12 febbraio 1888 –, che nel caso specifico era il crispino Abele Damiani, mentre quelle più propriamente politiche e diplomatiche venivano assegnate al capo di gabinetto, il fido Carlo Pisani Dossi, uno degli ispiratori della riforma38. L'istituzione di cinque divisioni al capo delle quali furono posti tutti funzionari di fede crispina e l'abolizione dei ruoli di Direttore generale degli affari politici e degli uffici legislativi e di Direttore generale dei consolati e del commercio favorivano una ristrutturazione della macchina burocratica a tutto servizio dell'elemento governativo. A guardar bene, l'assorbimento da parte del gabinetto del ministro di tutte le principali e più riservate funzioni, così come stabilito dall'Ordinamento del Ministero annesso al R.D. 25 dicembre 1887, non rispondeva soltanto ad esigenze funzionali. Difficile infatti non vedere nella ristrutturazione organizzativa la volontà politica di colpire in pieno l'assetto di potere di stampo venostiano fondato sull'asse monarchia-classe di governo della Destra storica-diplomazia e di cui figura centrale di equilibrio era appunto il segretario generale del ministero, giudicato ora però un inutile diaframma tra l'elemento ministeriale e l'amministrazione. É interessante notare, tra l'altro, come oltre alle figure di cui sopra, Crispi si dotasse di un segretario particolare scelto tra le nuove leve del servizio diplomatico, e cioè Edmondo Mayor des Planches, entrato in servizio in seguito a concorso nel 1875, che sarà un altro dei componenti della 'banda crispina'. Tra le molte disposizioni varate nel periodo in questione, che andrebbero valutate nell'insieme perchè rispondono ad un disegno organico di riforma, alcune hanno, nell'ottica che a noi più ci riguarda, più importanza di altre. Va citato in questo senso il regolamento del concorso di ammissione alle varie carriere del Ministero emanato con rd 27 settembre 1887 e successivamente emendato con i regi decreti 2 dicembre 1888 e 27 febbraio 1890, che avrebbe dovuto preludere ad una unificazione delle carriere. Regolamento in cui per la prima volta non si fa menzione della

34 F. GRASSI ORSINI, Il Ministero degli esteri: la diplomazia..., cit. , pp. 81-83 35 Così R. MORI nella sua Politica estera di Francesco Crispi (Roma, 1973) citata in F. GRASSI ORSINI, cit. , p. 83 36 E. SERRA, La diplomazia in Italia, Milano, Angeli, 1984, p. 31. 37 Oltre ai provvedimenti citati nel testo, vanno ricordati il regolamento di disciplina per gli impiegati

dell'amministrazione centrale, delle legazioni e dei consolati approvato con RD 24 giugno 1888, n. 5503; l'istituzione di una carriera d'ordine presso le cancellerie diplomatiche e consolari approvata con RD 6 agosto 1889, n. 6347; le modifiche alle norme sulla disponibilità, l'aspettativa, i congedi e il collocamento a riposo adottata con legge 11 luglio 1889, n. 6233 e il regolamento di esecuzione di questa legge approvato con R.D. 28 novembre 1889, n. 6581. Vedi E. SERRA, La diplomazia..., cit. , pp. 28-35.

38 Su Pisani Dossi, si veda E. SERRA, Alberto Pisani Dossi diplomatico, Milano, Angeli, 1987.

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rendita e ciò per “privilegiare le qualità personali e professionali dei funzionari”39. Del tentativo di spezzare il vincolo censitario vi è traccia anche nella disposizione contenuta nel RD 29 marzo 1888 che aboliva gli addetti onorari, ciò che costituiva un “preciso segnale: la cancellazione di ogni residuo privilegio di nascita e di censo ancora esistente nella carriera diplomatica e la riaffermazione che ad essa si accedeva soltanto per concorso fondato sul merito”40. Quasi superfluo sottolineare che questo tipo di provvedimenti significava una ulteriore limitazione alle possibilità della Corona di esercitare il tradizionale potere di influenza sul personale addetto agli affari esteri. Per quanto riguarda la politica del personale, infatti, non si può dire che essa fu priva di conseguenze. Le ripercussioni più eclatanti si ebbero forse nell'amministrazione interna, dove vero 'padrone del campo' si dimostrò essere Pisani Dossi, grazie ai provvedimenti del quale avevano perso il loro ruolo due funzionari di 'peso' quali Augusto Peiroleri e Giacomo Malvano, due piemontesi entrati in servizio l'uno in anni cavouriani e l'altro nel 1862. La vicenda di Giacomo Malvano è esemplare dell'atteggiamento di Crispi e del suo entourage nei confronti della tradizione. Entrato nella carriera interna a soli ventuno anni, formatosi in seno al gabinetto ed alla divisione politica, dove fu a stretto contatto con Visconti Venosta, suo vero 'maestro', e con Isacco Artom, al quale fu legato anche dal senso di appartenenza alla comunità ebraica, Malvano, uomo della Destra piemontese, era passato indenne attraverso il cambio di classe politica. Anzi, negli anni della sinistra al potere aveva consolidato la sua posizione al ministero, tanto è vero che con la 'partenza' di Visconti Venosta e l'arrivo di Giulio Melegari alla Consulta nel 1876, era 'tornato' agli affari politici. Fu Cairoli, poi, nel luglio del 1879, a promuovere Malvano, addirittura ritoccando l'ordinamento del MAE e mettendolo a capo di una neo-istituita Direzione generale degli affari politici e degli uffici amministrativi – proprio quella che poi Crispi abolirà - che in pratica aveva assunto le funzioni di un gabinetto, con accresciute competenze sia di natura prettamente politica che amministrativa. Una promozione che non era comunque passata inosservata, suscitando critiche sia a destra che a sinistra e molto probabilmente è già in questi anni che si apre quel contenzioso con Crispi che porterà all'allontanamento del segretario generale del MAE, carica alla quale arrivò nel 1885 con Depretis e che rivestì per pochissimo tempo, dal 2 luglio al 16 ottobre di quell'anno, a causa della caduta del ministero, ma che continuava a svolgere de facto. Malvano infatti aveva avuto modo di visionare il progetto di riforma messo a punto da Pisani Dossi proprio in quell'anno, progetto di cui poi si servì in parte Crispi. Come ha scritto Enrico Serra, “il progetto di Pisani, tutto volto all'avvenire, non era fatto per piacere ad un esponente della tradizione burocratica piemontese”, che “non volle né firmarlo, né approvarlo, provocando così nel Pisani Dossi un risentimento che sfocerà in una violenta ostilità”41. Come ho già scritto in altra sede, nel dissidio Crispi-Malvano è da vedersi lo scontro tra due opposte concezioni della diplomazia: da una parte, il sostenitore di una svolta modernizzante ma in cui la superiorità dell'elemento politico rendeva il diplomatico un esecutore obbediente e quasi passivo delle istruzioni del governo, dall'altra, il difensore delle prerogative della carriera e della specialità dell'ordinamento degli affari esteri, diffidente nei confronti delle ingerenze prevaricanti dell'elemento politico. D'altronde, già dal 1878, Malvano aveva esternato all'amico Alberto Pansa la preoccupazione per “questi tempi di diplomazia estemporanea”, in cui si correva il rischio di trovarsi per capo “un dilettante qualsiasi tolto al seminario di Montecitorio”42. Fatto sta che nell'aprile 1888 Malvano veniva 'spedito' alla punitiva sede di Tokio in qualità di inviato straordinario e ministro plenipotenziario, destinazione

39 Da notare però che la disposizione aveva dato conseguenze negative, «in quanto allo stesso tempo era stato

mantenuto il tirocinio gratuito di due anni», ciò che metteva in grave imbarazzo coloro che provenivano da famiglie non agiate, tanto che Blanc avrebbe fatto approvare un ulteriore provvedimento che prevedeva l'introduzione di un assegno di sede anche per gli addetti in prova, Cfr. F. GRASSI ORSINI, Il Ministero degli esteri: la Diplomazia..., cit. , pp. 144-143.

40 Ibidem, p. 94. 41 E. Serra, Alberto Pisani Dossi..., cit. , p. 25. 42 Mi permetto di citare da G. NICOLOSI, Malvano Giacobbe Isacco (Giacomo), in Dizionario Biografico degli Italiani,

Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. LXVIII (2007), pp. 287-291, voce alla quale rimando per l'intera sua vicenda biografica.

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poi mai raggiunta dal funzionario. Caduto Crispi, nel febbraio 1891 Malvano fu richiamato in servizio in qualità di segretario generale del MAE, carica che, con il ritorno dello statista siciliano al potere, lasciò di sua spontanea iniziativa con lettera al ministro Blanc del 19 dicembre 1893. Si trattò insomma di un dissidio irrimediabile – tanto è vero che negli ambienti politici e diplomatici andò diffondendosi la voce che quando Crispi entrava al ministero ne usciva Malvano, e viceversa. Un dissidio che giovò molto a Malvano nel momento in cui Crispi cadde in disgrazia, quando venne interamente sbandato l'entourage dello statista siciliano, compreso Pisani Dossi: questa volta infatti fu lui ad essere 'spedito' da Malvano nel maggio del 1896 a Rio de Janeiro come inviato straordinario e ministro plenipotenziario, così come d'altronde era successo nel 1891, quando, caduto Crispi, era stato inviato a Bogotà, sempre da Malvano. Un contenzioso che era sfociato in un vero e proprio odio personale: nel 1901, pochi mesi dopo il suo collocamento a riposo, Pisani Dossi, a commento di un brutto sogno notturno, scriveva tra le sue Note azzurre: “uccido a colpi di pietra un aspide di una specie velenosissima. Mi sembrò ad un tratto che l'aspide prendesse le sembianze del giudeo Malvano”43. Un dissidio che era anche indicativo di un atteggiamento poco riguardoso nei confronti della tradizione e, se vogliamo, anche degli ambienti di corte, visto che Malvano era un buon borghese, ma ad essi certamente molto vicino, assiduo frequentatore del salotto romano di Ersilia Caetani Lovatelli, figlia del duca di Sermoneta, e di cui in famiglia si amava ricordare, almeno secondo quanto scrive il pro-nipote Paolo Vita Finzi, che suonasse “il pianoforte a quattro mani con la regina Margherita”44. Ma, d'altronde, è noto come Margherita nutrisse una particolare stima anche nei confronti di Crispi45 Stante il suo manifesto desiderio di rinnovamento della carriera, si può dire però che Crispi alla fine sia stato più 'diplomatico' nei riguardi dell'amministrazione periferica e soprattutto dei capi missione dell'inner circle. Si guardò bene infatti dal rimuovere personaggi molto in vista come De Launay da Berlino, che probabilmente pensava di scavalcare così come aveva fatto ai tempi dei colloquio con Bismarck nel 1877, o come Nigra da Vienna, che giudicava anche personaggio simbolo di un'alleanza con la Francia ormai superata dai tempi e che nemmeno tanto intimamente personalmente aborriva. Fabio Grassi Orsini ha ben descritto la 'vicinanza' che però va registrata tra il ministro e il grande diplomatico, basata su un rispetto reciproco sul quale si riverberava il ricordo della “comune partecipazione, pure da posizioni diverse, al moto nazionale”46. Stesso dicasi per il 'vecchio' Menabrea, troppo vicino a corte per essere rimosso, mentre nei riguardi di Blanc mostrò rispetto. Sarà Blanc, infatti, a rivestire la carica di ministro degli esteri dal 1893 al 1896, quando Crispi rinunciò all'interim, ciò che, a parte la mutata situazione politico-parlamentare e le stesse difficoltà di formazione di quel ministero, danno da pensare ad una concessione nei confronti della Real Casa o perlomeno ad un gesto pacificatore nei confronti dell'apparato amministrativo. Tanto più che Blanc era da molti ancora considerato come un 'filofrancese' e lo stesso Domenico Farini aveva chiaramente espresso al primo ministro le sue perplessità riguardo a quella nomina, avvertendolo di “diffidare” di lui, di cui tra l'altro aveva un pessimo giudizio47. Non ebbe remore invece nei confronti di Luigi Corti, un protetto del re, in servizio al ministero dal 1846, richiamato bruscamente da Londra proprio agli esordi della gestione Crispi, che non gli perdonava la remissività dell'azione italiana a partire dal 1878, ma che soprattutto voleva dimostrare “che a lui

43 C. DOSSI, Note azzurre, II, Milano, Adelphi, 1964, pp. 887-888.

44 P. VITA-FINZI, Giorni lontani. Appunti e ricordi, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 35. Sulle frequentazioni di Malvano dei salotti aristocratici romani si veda C.M. FIORENTINO, La corte dei Savoia (1849-1900), Bologna, Il Mulino, 2008, p. 124. 45 Per esempio in D. FARINI, Diario di fine secolo, I, Bardi, Roma 1961, p. 432 e 435. 46 F. GRASSI ORSINI, Il Ministero degli esteri: la diplomazia, cit. , pp. 111-112. 47 Al 15 dicembre 1893 Farini annotava: “Il ministero è fatto. É uno strano amalgama; Crispi, Saracco, Sonnino,

Boselli, Blanc, Mocenni, Morin, M. Ferraris, Calenda V. Il Crispi, che si lascia chiudere fra uomini di cui non ha la maggioranza, ed alcuni per giunta infidi, parmi allucinato [...] Blanc è un ubriacone infido. In Senato l'anno scorso, col suo discorso sulla Triplice, anzi contro, e contro le spese militari, fece ridere per modo sconnesso ed inintelligibile”, D. FARINI, Diario di fine secolo..., cit. , p. 365-366.

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sarebbe riuscito quello svecchiamento della carriera che i settori più dinamici della società richiedevano, vincendo le resistenze della corona”48. Così come non esitò a rimuovere da Pietroburgo l'ambasciatore Giuseppe Greppi, che, milanese di nascita, aveva iniziato la sua carriera nel servizio austriaco, per poi essere ammesso nel 1859 nel servizio diplomatico sardo, ed i ministri Filippo Oldoini da Lisbona, entrato nei ruoli nel 1849, ed Ulisse Barbolani da Monaco di Baviera, che proveniva dalla diplomazia borbonica, ma al servizio del MAE già dal 1861.

In particolare per il marchese Oldoini, si trattava di un vero colpo nei confronti dei legami dinastici: a Lisbona dal 1867, sposato in seconde nozze con Carlotta Amalia de Moraes Sarmiento, il cui salotto era un rinomato circolo politico, Oldoini era in ottimi rapporti con il re del Portogallo Luigi I di Braganza, sposato con Maria Pia di Savoia, il quale lo considerava un “amico di famiglia”. Nonostante Oldoini si fosse rivolto al ministro della Real Casa ed anche alla contessa di Castiglione per cercare di evitare il provvedimento, Umberto non riuscì ad evitare il richiamo, in pratica subendo il suo licenziamento49.

Ma che ci fossero dei riguardi nei confronti di casa Savoia, con la quale d'altronde Crispi capiva di non deteriorare eccessivamente i rapporti, è confermato dalle sostituzioni operate, in cui certamente si tenne conto del gradimento di Umberto. Lo suggeriscono l'invio a Londra di Robilant, 'uomo del re', ma stanco e malato – morirà nell'ottobre del 1888 - che Crispi pensava forse di 'scavalcare', grazie anche alla presenza a Grosvenor Square di Tommaso Catalani, già in pessimi rapporti con Corti ed invece molto vicino a Mayor e Pisani Dossi. Oppure la sostituzione di Greppi a Pietroburgo con Maurizio Marocchetti, già ministro a Copenaghen, funzionario di modesta levatura, ma figlio di uno scultore di corte al quale Umberto era legato. Ed ancora più indicativa in questo senso sembra la sostituzione a Lisbona con Luigi Avogadro di Collobiano, già da noi citato, di famiglia vicinissima ai Savoia, una nomina che sembra un'altra concessione a Umberto, probabilmente per riparare al torto fatto al marchese Oldoini, scomparso un anno dopo il provvedimento. Così come dovette avere lo stesso significato politico la promozione a Londra di Tornielli-Brusati, di cui abbiamo già sottolineato la vicinanza a corte, ma funzionario dotato di buone qualità e che Crispi stimava50

Anche per la politica del personale ci siamo limitati a riportare qui soltanto alcuni movimenti più significativi in rapporto all'oggetto della nostra analisi. In realtà, soprattutto se si prendono in considerazione anche i provvedimenti riguardanti la carriera consolare, altro settore al quale fu assegnata una precisa importanza politica51, il periodo di Crispi alla Consulta fu caratterizzato, almeno nei propositi, da grandi cambiamenti. Ai fini del nostro discorso, diciamo però che la parentesi crispina assume un significato ambivalente. Da una parte, nella ricerca di una “nuova” diplomazia, Crispi con le sue riforme ha indubbiamente agito nel senso di un ulteriore esautoramento delle tradizionali prerogative regie. Dall'altra, la sua concezione “tedesco-austriaco imperiale” - così la chiamava Jemolo – del sistema politico, cui faceva da corollario una personale interpretazione del regime parlamentare, in cui le camere non avrebbero dovuto avere il potere di rovesciare i gabinetti, ed in cui la corona era considerata come essenziale fonte di legittimazione di una incisiva azione di governo - “Lo Statuto serba al re governo ed imperio, e non può essere altrimenti”, sosteneva Crispi52 - non poteva permettere un eccessivo sganciamento da essa. Mantenendo la storia della diplomazia italiana sullo sfondo, non avventurandoci cioè in improponibili comparazioni, ci sembra che sia proprio questa diversa attitudine costituzionale a marcare la differenza rispetto al momento cavouriano, quando era stata la parlamentarizzazione del sistema a giocare a favore dell'erosione del potere regio.

Un altro aspetto di grande importanza da mettere in evidenza è che l'ondata riformatrice crispina,

48 F. GRASSI ORSINI, Il Ministero degli esteri: la diplomazia..., p. 114. 49 Ibidem, p. 120. 50 Ibidem, cfr. pp. 121 ss. 51 In particolare per questo aspetto, M. CACIOLI, La rete consolare nel periodo crispino, Roma 1988. 52 Parole citate da A.C. Jemolo, cit. , p. 97.

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caratterizzata dal poco tatto diplomatico che il ministro e il suo entourage ebbero nei confronti della burocrazia ministeriale, e soprattutto la resistenza che questa tenacemente oppose ad essa – caso Malvano docet - favorì un ulteriore consolidamento dello spirito di corpo nelle stanze della Consulta e la presa di coscienza di una specialità funzionale che qualsiasi governo avrebbe dovuto riconoscere. A ciò si aggiunga che le derive parlamentaristiche e l'instabilità degli esecutivi che segnano il sistema politico italiano, così evidenti dopo l'eclissi della Destra storica – l'ultimo 'lungo' incarico alla Consulta era stato quello di Visconti Venosta - facevano sì che il corpo preposto alla cura degli affari esteri guardasse all'istituzione monarchica quale fattore di maggiore stabilità e affidabilità rispetto alla volubilità delle compagini ministeriali.

Dal ritorno di Visconti Venosta alla Grande Guerra.

Con l'ordinamento Caetani del 15 marzo 1896 la struttura dell'amministrazione centrale messa in piedi con le riforme crispine veniva cancellata. Così come è già stato segnalato, il volto della diplomazia italiana continuò ad essere quello di sempre, dato anche che il reclutamento del periodo 1888-1896 non aveva risposto alle aspettative di chi aveva cercato di mutarne i connotati. É vero che negli anni in questione per la prima volta la componente piemontese scendeva sotto il 15% del totale dei funzionari, ma per quanto riguarda la loro estrazione sociale, la maggioranza continuava ad essere reclutata tra la nobiltà, sebbene, come vedremo, fosse in corso un lento mutamento sociologico. L'abolizione della rendita, infatti, che nelle intenzioni avrebbe dovuto favorire un imborghesimento della selezione, produsse effetti irrisori53. Il segno più evidente del ritorno alla normalità era l'arrivo alla Consulta di Emilio Visconti Venosta, nuovamente ministro degli Esteri dal 1896 al 1898 e poi dal 1899 al 1901. Difficile non vedere questa rentrèe come un atto particolarmente gradito alla Corona, che segnava, dopo la bufera crispina, un ritorno tra i binari della tradizione. La storiografia ha messo in evidenza come la nuova guida di Visconti Venosta significasse anche un riequilibrio della linea di politica estera, nel senso di una fuoriuscita dalla politica di potenza di Crispi e della ricerca di un nuovo rapporto con Francia e Gran Bretagna pur nel rispetto della Triplice54. “Triplicismo corretto” è stato definito da Salvatorelli, il quale però ne sottolineava anche la condivisione, se non addirittura la promozione da parte di casa Savoia: “La monarchia italiana fece la politica estera che credette e con uomini di sua fiducia (tipica la scelta di Tittoni); e questo vale per il regno di Vittorio Emanuele III quanto e più per quello di Umberto I – scrive Salvatorelli - e il nuovo orientamento (occidentale) della politica italiana – dovuto, secondo talune affermazioni estere, alle pressioni dei partiti di sinistra – s'iniziò con l'accordo italo-francese del dicembre 1900 firmato da Visconti Venosta uomo di destra, e proseguì col Prinetti e col Tittoni, uomini di destra anch'essi e di fiducia del monarca”55

Una 'vocazione politica attiva' è infatti registrabile anche con Vittorio Emanuele III, che dopo la crisi di fine secolo ed il regicidio di Monza è più che mai motivato nel ribadire la centralità istituzionale della Corona. Enrico Serra in uno dei suoi studi su questo momento della politica estera italiana ha riportato alcuni giudizi di Camille Barrère su Vittorio Emanuele III dai quale traspare con evidenza come questi fosse sempre al corrente dei principali affari internazionali del paese, un “sovrano sagace, avveduto e poco incline a seguire ciecamente i sentieri battuti”, scriveva Barrère, tanto che l'ambasciatore francese “aveva imparato a non sottovalutarne l'acutezza e la grande influenza sullo svolgimento della politica estera”56. Il tono agiografico di un saggio di Gioacchino Volpe del 1939 sul re d'Italia non inficia la validità di alcune considerazioni relative a questo protagonismo di re Vittorio e dei suoi favori nei confronti del revirement in direzione di

53 F. GRASSI ORSINI, La diplomazia italiana agli inizi del secolo XX, in M. Petricioli (a cura di), Verso la svolta delle

alleanze. La politica estera dell'Italia ai primi del novecento, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2004, pp. 102-103.

54 Su questo frangente della politica estera italiana restano di grande valore le ricostruzioni di E. SERRA, La questione tunisina da Crispi a Rudinì ed il colpo di timone della politica estera dell'Italia, Milano, Giuffrè, 1967; Id, Camille Barrère e l'intesa italo-francese, Milano, Giuffrè, 1950; Id. , L'intesa mediterranea del 1902: una fase risolutiva dei rapporti italo-inglesi, Milano 1957.

55 L. SALVATORELLI , La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, Milano, ISPI, 1939, p. 12; s 56 E. SERRA, Camille Barrère..., cit. , pp. 103-104.

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Francia e Gran Bretagna promosso da Visconti Venosta. Secondo Volpe, questo atteggiamento era giustificato, per quanto riguarda la politica interna, dalla necessità di “disarmare” i repubblicani italiani, “che sempre nella Francia un po' confidavano”, e per ciò che concerne la politica estera, dall'esigenza di rendere più elastici i rapporti con gli Imperi centrali e riconquistare maggiore libertà di azione57. Un indirizzo che il sovrano caldeggiava anche per la sua poca simpatia nei confronti soprattutto dell'Austria: non bisogna dimenticare che l'incarico nel 1901 a Zanardelli - “figlio di quella Brescia che dal 1849 si considerava il centro dei nemici dell'Austria” - oltre a dimostrare che la Corona non sarebbe stata passivamente succube delle maggioranze parlamentari, aveva avuto un significato fortemente anti-triplicista. Un irredentismo di fondo che viene negli anni alimentato dalla pressione austriaca sui Balcani, area di tradizionale interesse per casa Savoia. Anche se – come ha notato Serra – sarebbe un errore considerare Vittorio Emanuele III un “filo-francese”, in quanto “in politica estera e forse solo in questo campo, egli era un tipico Savoia, cioè privo di sentimentalismo e di idealismi”58. In una monografia su Vittorio Emanuele III dei primi anni Settanta, invece, il giudizio riguardo al colpo di timone della politica estera italiana è netto. Scrive infatti Silvio Bertoldi: “aveva deciso lui le iniziative di riavvicinamento alla Francia già caldeggiate dal ministro degli Esteri di suo padre, Visconti Venosta, e realizzate dal ministro suo, Prinetti”59. Mentre Romano Bracalini, in un saggio dedicato a re Vittorio, mette in evidenza come egli si fosse lasciato guidare più “dai suoi sentimenti antiaustriaci, prima che antitriplicisti”60. Il suo attivismo in politica estera ed in questa direzione è comunque indubbio, attestato anche dai viaggi intrapresi dal sovrano nell'estate del 1902 a Pietroburgo, Berlino e Parigi. Tornando all'affermazione di Salvatorelli, ci soffermiamo dunque su alcuni tratti dell'attività di questi “uomini di fiducia del re” nel loro rapportarsi all'amministrazione degli Esteri ed alla diplomazia. Riguardo agli aspetti organizzativi, l'ultima gestione di Visconti Venosta si segnala per la rinuncia ad ogni possibile ritocco all'impalcatura burocratica del MAE, per il procrastinare di ogni intervento di riforma, anche di quelli che ormai erano imposti dalle necessità dei tempi nuovi. Una strada del tutto opposta a quella ricercata più o meno tenacemente da tutti i governi sin dalla metà degli anni Settanta. Priorità fu invece quella di riportare fiducia soprattutto nella sfera decisionale della politica estera italiana: “Se la diplomazia continuava a perpetuare il mito della Destra storica e di Visconti Venosta – scrive Grassi Orsini - lo faceva non tanto per nostalgia del tempo perduto ma perchè le ultime gestioni di Visconti Venosta, dopo le rotture crispine e le conseguenti rappresaglie, avevano creato un clima più disteso tra ministro e Corona e di maggiore fiducia tra il titolare della Consulta e gli ambasciatori nelle grandi capitali. Questi ultimi tornarono ad essere i più ascoltati consiglieri del ministro. Di questo clima si era giovata anche l'Amministrazione centrale. Il segretario generale aveva ripreso il suo ruolo di coordinamento e la “carriera interna” la direzione degli uffici”61 Se guardiamo al ritratto che di Visconti Venosta fece Chabod nella sua storia della politica estera italiana, che lo tratteggia come un esempio di sobrietà e di cautela, si è naturalmente portati a sostenere che non ci sarebbe stato soggetto più indicato per riparare al 'terremoto' crispino. Certo non mancava chi, in piena età giolittiana, ne avvertiva ormai una certa inadeguatezza dei compiti, probabilmente in relazione all'età avanzata, che trasformava in limiti quelli che invece erano stati i tratti essenziali del suo stile diplomatico. Così quando fu nominato delegato italiano alla conferenza di Algeciras nel 1906, all'età di settantasette anni, nomina che era stata commentata favorevolmente anche all'estero, Guiccioli annotava nel suo diario che si trattava “di un'ottima scelta”, non solo per ciò che egli valeva realmente, ma anche “per ciò che tutti credono valga”. E aggiungeva: “Visconti Venosta è un po' come la Madonna della Consolata, ai cui miracoli credono, a Torino, anche coloro che non credono in Dio. Io, che lo conosco bene da moltissimi anni, sono il primo ad ammirare in lui l'ingegno, il tatto, la finezza, la grande cultura e il raro buon senso; ma non sono convinto che

57 G. VOLPE, Vittorio Emanuele III, Roma, ISPI, 1939, pp. 66 ss.. 58 E. SERRA, Camille Barrère..., cit. p. 105 e p. 104. 59 S. BERTOLDI, Vittorio Emanuele III, Torino, UTET, 1971, p. 232. 60 R. BRACALINI , Il re vittorioso, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 70 61 F. GRASSI ORSINI, La diplomazia italiana agli inizi del secolo XX, cit. , p. 105.

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egli possieda energia e fermezza di carattere proporzionate alle altre qualità. Egli è fatto per presiedere maestosamente all'importante ufficio di lasciare l'acqua correre per la china”62. Eppure la sua presenza alla Consulta negli anni a cavaliere del secolo ebbe come effetto quello di trasmettere alle nuove generazioni di diplomatici chiamati ad affrontare le sfide dei tempi nuovi la migliore tradizione della politica estera italiana, quella coronata dal successo dell'unificazione nazionale, una tradizione diplomatica di cui prudenza, ponderatezza, equilibrio ne costituivano l'intima sostanza. Difficile non vedere la nomina di Giulio Prinetti a capo degli esteri nel 1901 come un bilanciamento in senso conservatore del ministero Zanardelli-Giolitti e quindi particolarmente 'caldeggiato' dalla Corona. Da non sottovalutare che anche questa nomina fu vista come un ulteriore segnale di allontanamento dalla Triplice, di cui Prinetti si era apertamente dichiarato 'antico avversario' alla Camera nel 189163. Lombardo di Merate, industriale e uomo d'affari, Prinetti era espressione degli ambienti imprenditoriali più dinamici dell'Italia del Nord, facendo parte in epoca crispina del gruppo che si era riunito attorno alla rivista «L'Industria», assieme a Pio Borghi, Giovan Battista Pirelli, Ernesto de Angeli, Carlo Erba, Carlo Ginori, Corradino Sella ed altri, ma appartenendo all'anima liberista di esso, di cui fu espressione il Circolo per gli interessi commerciali, industriali e agricoli nato nel 188764. Già ministro dei lavori pubblici con di Rudinì nel 1897, la nomina in seno ad un gabinetto di sinistra gli costò non poche critiche negli ambienti conservatori, quindi anche tra i suoi stessi amici e parenti, come lo zio senatore Carlo Prinetti. La presenza di Prinetti alla Consulta fu di breve durata, ma di un certo rilievo, e non solo perchè, ponendosi in linea di continuità con la politica di Visconti Venosta, riusciva a concretizzare significativi passi in avanti in direzione di Francia e Gran Bretagna pur rispettando il vincolo triplicista, ma anche per i provvedimenti presi nei confronti della struttura del MAE, alla quale è da presumere che egli si rapportò con spirito organizzativo imprenditoriale e modernizzante. Oltre all'istituzione nel 1901 del Commissariato dell'emigrazione, vennero creati un Ufficio Diplomatico, un Ufficio Coloniale ed un Ispettorato delle Scuole Italiane all'estero, con conseguente riordino dell'amministrazione centrale in cinque uffici autonomi e cinque divisioni con competenza per materia65. Se si guarda attentamente 'tra le righe' della riforma si nota come la modernizzazione della struttura del MAE venisse ricercata sia attraverso la creazione di organi 'speciali', confacenti alle esigenze internazionali del Paese, sia attraverso una nuova dislocazione funzionale del personale, secondo la quale la burocrazia 'interna' avrebbe dovuto espletare ruoli più propriamente tecnici, mentre il fulcro dell'amministrazione sarebbe stato rappresentato dal personale diplomatico, al quale Prinetti avrebbe voluto affidare i compiti di natura politica dell'ufficio di nuova istituzione, che infatti andava a sostituire la Divisione degli Affari politici, che tradizionalmente costituiva il 'cuore' del ministero. In sostanza, anche Prinetti mostrava una certa insofferenza e forse anche diffidenza nei confronti del vecchio personale della carriera interna, dei Malvano, dei Bianchini, appunto il capo della Divisione politica, proveniente dalla carriera borbonica, dei Vaccaj, il capo degli Affari commerciali entrato in servizio nel 186966 e, molto probabilmente, voleva raggiungere lo stesso scopo di Crispi, semplicemente agendo in maniera meno traumatica, dati i precedenti. Ma anche Prinetti, la cui carriera politica fu bruscamente interrotta da un attacco apoplettico che lo porterà alla morte nel 1908, non ebbe tempo per modificare gli equilibri interni del MAE.

62 A. GUICCIOLI, Diario di un conservatore.., p. 314 63 E. SERRA, Camille Barrère..., cit. , p. 106. 64 Cfr. A. M. BANTI, Storia della borghesia italiana. L'età liberale, Donzelli, Roma 1996, p. 170. In particolare sulla

sua presenza alla Consulta si veda P. PASTORELLI, Giulio Prinetti ministro degli esteri, in «Nuova Antologia», 1997, fasc. 2197.

65 Gli uffici erano il Diplomatico, della Cifra e del Telegrafo, Coloniale, Commissariato dell'Emigrazione, Ispettorato generale delle scuole italiane all'estero. Le divisioni erano per Affari commerciali, Affari privati e del Contenzioso, Personale, Biblioteca e registrazione, Ragioneria. Cfr. L. V. FERRARIS, L'amministrazione centrale..., cit. , p. 43; F. GRASSI ORSINI, La diplomazia italiana agli inizi del secolo XX, cit. , p. 110.

66 Su Domenico Bianchini e Giulio Vaccaj si rimanda a La formazione della diplomazia nazionale. Repertorio bio-bibliografico, cit. , ad nomina.

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Per quanto riguarda Tittoni, che fosse ben visto da casa Savoia è indubbio, anche per la conoscenza diretta che di lui dovette avere Vittorio Emanuele III, ancora Principe di Napoli, ai tempi in cui Tittoni svolgeva ufficio di prefetto della città partenopea, carica che ricoprì dal 1900 al 1903. Anche Giolitti conobbe Tittoni nelle vesti di prefetto. A proposito del suo gradimento a corte disponiamo di quanto scrive Giovanni Ansaldo: “Tittoni, uscito da una famiglia di grandi fattori della campagna romana salita in fortuna, educatosi in Inghilterra, imparentato per matrimonio con gli Antona-Traversi lombardi, inglesissimo di modi, di simpatie e di pose, fu conosciuto da Giolitti quando era prefetto a Napoli; e fatto ministro, forse su designazione del re, che aveva saputo della ottima impressione fatta a Gaeta da Tittoni su Edoardo VII” 67. Anche per il periodo giolittiano quindi, nonostante l'indubbio salto di qualità determinato dal decreto Zanardelli 466 del 1901 sulle attribuzioni del gabinetto e la progressiva parlamentarizzazione del sistema, si può dire che il sovrano continua ad avere grande influenza negli affari di politica internazionale e nelle nomine del personale ad essi preposto. Vi è certo da considerare il buon rapporto di fiducia che legò Vittorio Emanuele III a Giolitti, che ne apprezzava la doti politiche, il senso della realtà, la competenza amministrativa, l'assenza di retorica, il gusto per la vita ritirata e familiare, la lontananza da ogni fasto e non ultimo il fatto che il primo ministro fosse piemontese, “uomo della sua terra, anzi della 'provincia granda', serbatoio da secoli di funzionari fedeli alla sua casa”. Inoltre il re potè sicuramente apprezzare la strategia giolittiana di coinvolgimento istituzionale dei partiti popolari e quindi di avvicinamento alla monarchia. Per parte sua Giolitti era un sincero monarchico - “monarchico per ragionamento, non per misticismo legittimista”, scrive ancora Ansaldo – ed anche per questo convinto che il suo ruolo non dovesse limitarsi a quello di “un commesso esclusivo del signore del Quirinale” 68. Un 're borghese' e democratico che però non rinunciava alla tradizionale riserva regia, avendola già fatta valere, dopo Prinetti, quando volle l'ammiraglio Morin a capo della Consulta nel 1903 ed ora non si sa quanto suggerendo quella di Tommaso Tittoni, che fu ministro dal 1903 al 1905, anno in cui fu riconfermato anche da Fortis, e poi dal 1906 al 1909. Scrive Bracalini che la scelta di Tittoni fu dovuta ad “influenze femminili, ossia della regina Margherita preoccupata dell'inasprimento dei rapporti con le potenze centrali. Ma la mossa del re – continua Bracalini – dimostrava anche che egli voleva a quel posto un gerente che eseguisse gli ordini e non un ministro che facesse di testa propria”69. Non sappiamo se ciò sia vero, ma è certo che la nomina sorprese gli ambienti della diplomazia, poco inclini ad accettare personaggi estranei alla carriera e tanto più se provenienti da quella prefettizia: “in materia di politica estera molti si mostrano ancora perplessi circa la competenza di Tittoni”, scriveva Guiccioli sul suo diario il 15 febbraio 190470. Ma quanto fa scrivere invece Giolitti nelle sue memorie a proposito di quella nomina è indicativo di una visione non del tutto scevra da critiche nei confronti della burocrazia ministeriale e forse anche rivelatrice del corretto rapporto che secondo il primo ministro – e i suoi collaboratori - avrebbe dovuto instaurarsi tra esecutivo e amministrazione. Così infatti si legge nelle sue memorie: “Al Ministero degli Esteri io avevo preso il Tittoni, allora prefetto a Napoli. Anche codesta nomina dette luogo a grandi attacchi, perchè pareva strano che si affidasse il Ministro degli Esteri a chi fino al momento di assumerlo non aveva avuto pratica di cose diplomatiche. Ma il fatto era che la carriera diplomatica non presentava allora alcuno che, oltre le particolari esperienze della diplomazia, possedesse le qualità necessarie per adempiere le funzioni di ministro e sostenere le discussioni richieste dal regime parlamentare, alle quali il Tittoni si era allenato nella sua carriera di deputato [...] Che poi non fosse un concetto errato chiamare alle responsabilità della politica estera uomini nuovi alla diplomazia, ma che avessero già dato prova di intelligenza e capacità nel campo politico generale, lo dimostrò il Tittoni

67 G. ANSALDO, Il ministro della buonavita. Giolitti e i suoi tempi, Milano, Longanesi, 1963, p. 268. Sulla politica

estera di Tittoni si rimanda a F. TOMMASINI, L'Italia alla vigilia della guerra. La politica estera di Tommaso Tittoni, Bologna, Zanichelli, 1935.

68 Ibidem, p. 217 69 R. BRACALINI , cit. , p. 72 70 A. GUICCIOLI, cit. , p. 294.

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stesso, che nelle sue funzioni diplomatiche, sia come ministro sia come ambasciatore, riuscì certamente uno dei più stimati; ed anche l'esperienza susseguente ha dimostrato che, a parte qualche eccezione, riesce meglio ad un uomo parlamentare di valore di diventare un buon diplomatico, che ad un buon diplomatico di acquistare le qualità necessarie al parlamento”71. Questo omaggio all'homo parlamentaris, in cui non c'era alcun riferimento ad una possibile influenza regia riguardo la nomina, non era certo un omaggio alla specialità della funzione diplomatica. Ma quello che più colpisce dell'affermazione di Giolitti è il riferimento alla mancanza tra i ranghi della diplomazia di soggetti idonei a rivestire in quel dato momento la carica di ministro, che fa pensare ad un certo pregiudizio, e soprattutto nei confronti della carriera interna, se si pensa alla presenza tra i suoi ruoli di Giacomo Malvano, che per esperienza e competenza proprio nel periodo giolittiano sarà indicato dai più attenti osservatori come il ministro degli esteri de facto, quindi certamente in possesso dei requisiti richiesti, anche politicamente, perchè simbolo della opposizione a Crispi e della “restaurazione” di Visconti Venosta, e che tra le altre cose Giolitti conosceva benissimo da anni, essendosi laureato all'università di Torino nel suo stesso anno di corso. Pregiudizio suo o degli ambienti vicini a Vittorio Emanule III non sappiamo, ma presumibilmente di Malvano non si apprezzava più la 'prudenza' venostiana, in tempi in cui la politica estera italiana richiedeva maggiore intraprendenza. Ne è rivelatore il passo di una lettera che il segretario generale invia ad Alberto Pansa nel 1905, in cui avvertiva con preoccupazione il cambiamento di clima e le mire espansionistiche di inizio secolo, comunicando all'amico le difficoltà di contribuire a mutare una tendenza che “si spiega[va] col desiderio del successo”, ma dinanzi alla quale non avrebbe rinunciato a far la sua parte di “codino impenitente”72. Certo è che la carriera interna, di cui Malvano era espressione umana vivente, subì un duro colpo proprio negli anni di Tittoni a capo della Consulta, autore di una riforma dell'amministrazione centrale che prevedeva in sostanza la sua abolizione, stabilita con RD 9 giugno 1907, quando si riducevano a due le carriere ministeriali, quella diplomatica e quella consolare. Con RD 9 aprile 1908, n. 241, invece, si procedeva ad un ridisegno della struttura del MAE, con la reintroduzione del gabinetto del Ministro e l'istituzione di un gabinetto del Sottosegretario, carica abolita con l'ordinamento Caetani. Con molta avvedutezza, Tittoni pensò bene di rafforzare la posizione del segretario generale, al quale venivano assegnati nuovi uffici, mentre veniva abolito l'Ufficio diplomatico istituito da Prinetti73. Se si pensa al naufragio dei precedenti tentativi, la riforma di Tittoni può essere considerata come un capolavoro di sagacia politica, per la capacità appunto di superamento della resistenza dell'elemento burocratico. Si pensi soltanto a cosa potè avvenire in seno alla commissione ministeriale incaricata di studiare i provvedimenti di riordino del MAE, di cui faceva parte anche Malvano, che sollevò non poche eccezioni alla fusione della carriera interna con quella diplomatica. Malvano infatti preferì proprio non vedere gli effetti della riforma: nominato il 20 giugno 1907 presidente della I sezione del Consiglio di Stato, l'8 settembre dello stesso anno andò a riposo, dopo più di quarant'anni di intensa carriera. Già matura nei tempi, frutto anche della solidità della maggioranza giolittiana, la riforma questa volta era stata il risultato di una visione lucida degli equilibri tra le varie componenti della macchina amministrativa e tra questa e i vertici decisionali, non esclusa la Corona. Innanzitutto, Tittoni agì in maniera del tutto differente a quella di Crispi, muovendosi con molta circospezione durante i primi mandati, quando fu impegnato soprattutto in un rimodellamento delle missioni all'estero in parte 71 G. GIOLITTI , Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945 (III^ ed), p. 189. 72 Lettera di Malvano a Pansa del 1 aprile 1905 citata in G. NICOLOSI, Malvano..., cit. 73 Al segretario generale vennero affidati anche l’ufficio cifra; l’ufficio apertura, distribuzione, spedizione corrispondenza e l’ufficio stampa e traduzioni, di nuova creazione. L'amministrazione prevedeva poi la presenza di una Direzione generale degli Affari generali, suddivisa in due divisioni: personale e cerimoniale (Div I) e Ragioneria ed Economato, Archivio storico, Biblioteca (Div II); una Direzione generale affari politici, articolata su tre divisioni con compiti separati per aree geografiche; più contenzioso e legislazione; una Direzione generale Affari commerciali e privati e delle Regie Scuole all’estero, articolata su tre divisioni più l’Ispettorato delle Scuole all’estero ed una Direzione centrale degli Affari coloniali suddiviso in due uffici più il Commissariato dell’emigrazione. Cfr. L. V. FERRARIS, cit. , pp. 44-45.

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anche imposto dall'esistenza di personale anziano. Evento simbolo fu il pensionamento di Nigra nel 1904, che aveva già presentato le sue dimissioni a Prinetti, che le aveva respinte, così come in un primo momento fece anche Tittoni, a dimostrazione della cautela di cui sopra. A Vienna fu inviato al suo posto il duca Avarna di Gualtieri, appartenente a famiglia di antica nobiltà siciliana, che era entrato in carriera nel 1866 in seguito ad esame di concorso e che fu indicato dallo stesso Nigra come suo successore. Tra il 1904 ed il 1906-1908 Tittoni era stato promotore di un grande movimento di personale che coinvolge sedi di ogni ordine di importanza ed al termine del quale l'inner circle risultò essere completamente rinnovato. Limitandoci appunto alle sedi più importanti, a Berlino, dopo l'uscita di scena di De Launay, nel novembre del 1906 fu destinato Alberto Pansa, piemontese e vicino alla corte, che era entrato in carriera nel 1865 per esame di concorso e che ebbe opportunità di formarsi al seguito di Visconti Venosta, di cui era stato segretario, di Maffei di Boglio ad Atene, Tornielli Brusati a Belgrado e di Corti quando questi era a Costantinopoli. Pansa arrivava da Londra, dove dal 1906 al 1910 la missione italiana ebbe a capo Antonino di San Giuliano, sul quale torneremo. A Parigi la situazione rimase invariata sino al 1908, quando scomparve Tornielli Brusati, sostituito dal conte Giovanni Gallina, entrato in serivizio nel 1880 in seguito a concorso, altro piemontese figlio di un magistrato della camera dei conti che era stato anche ministro dell'Interno e delle Finanze con Carlo Alberto prima del 1848. A Costantinopoli, al posto di Obizzo Malaspina di Carbonara, fu inviato dal 1904 il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, che resse la missione sino al 1910, quando fu inviato a Londra da Guicciardini per sostituirvi di San Giuliano. Imperiali rappresenta un altro esempio di diplomatico appartenente alla 'generazione dell'Unità', cresciuto cioè alla luce degli eventi che hanno favorito il consolidamento nazionale e internazionale dell'Italia. Proveniva da una famiglia borbonica – il padre era un funzionario che si era dimesso per lealtà agli antichi sovrani -, anche se Guglielmo aveva abbracciato senza riserve gli ideali liberali, dimostrando attaccamento alla dinastia dei Savoia, alla quale rimase sempre vicino, un legame 'ideologico' che si consolida grazie anche al matrimonio con Maria Giovanna Colonna, figlia di Edoardo, principe di Summonte e di Paliano, e di Maria Serra di Cassano dei duchi di Cardinale, famiglie che avevano molto influenza a corte. Era entrato in carriera nel 1882 con Mancini in seguito a concorso, in cui risultò primo, ed aveva avuto opportunità di formarsi addirittura con De Launay a Berlino e Menabrea a Parigi, prima di raggiungere altre importanti sedi74. A Pietroburgo, veniva collocato a riposo Roberto Morra di Lavriano nel 1904 e sostituito con Giulio Melegari, il figlio di Luigi, che era entrato al MAE come addetto onorario e poi aveva 'regolarizzato' la sua posizione nel 1879 in seguito a concorso, mentre a Madrid, Luigi Avogadro di Collobiano veniva sostituito con Giulio Silvestrelli, al quale non mancavano certo le credenziali, essendo stato con Menabrea e Robilant a Londra e con Nigra e Greppi a Pietroburgo, ma la cui nomina provocò molti rumors negli ambienti politici e della carriera, non solo perchè Silvestrelli era un ex crispino, molto legato alla destra romana, ma anche perchè figlio di una sorella di Tittoni75. Al di là di possibili atti di nepotismo, ciò che si nota nella politica del personale di Tittoni è un atteggiamento di favore nei confronti degli ambienti dell'aristocrazia romana e 'papalina', il segno tangibile del lento esaurirsi della questione romana, ma che è stata vista specificamente anche come uno strumento della strategia giolittiana nei confronti del mondo cattolico76. É certo comunque che le nomine, soprattutto negli alti gradi, venivano ancora attentamente vagliate dalla Corona. Ottimo osservatorio del grande movimento del 1908 è il diario di Alessandro Guiccioli da noi più volte citato, in ottimi rapporti personali con casa Savoia, al tempo ministro di seconda fortemente interessato ad una promozione in una prestigiosa sede europea. Dalle pagine di

74 Cfr. F. GRASSI ORSINI, Guglielmo Imperiali di Francavilla, in Dizionario Biografico degli Italiani, ad nomen; Id,

Vita diplomatica di Guglielmo Imperiali, in G. IMPERIALI, Diario 1915-1919, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 3-67,

75 Sul grande movimento di Tittoni si rimanda a F. GRASSI ORSINI, La diplomazia agli inizi del secolo XX..., cit. in particolare prg 4, pp. 125 ss.

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quel diario, si deduce che l'intero movimento diplomatico dovette avere un avallo regio, tanto che alla data del 5 maggio si può leggere: “Verso sera mi arriva un telegramma cifrato di Tittoni [...] che dice: 'dopo conferito col Re e con Giolitti circa l'imminente movimento, duolmi non essere in grado di proporti un'ambasciata. Il posto migliore che rimarrà vacante è Bruxelles. Ti prego di telegrafarmi subito se sei disposto ad accettarlo o se preferisci restare a Belgrado'. Ho risposto subito così: 'Ragioni di dignità personale crudelmente offesa non mi permettono di accettare altro posto che un'ambasciata'”. E poco tempo dopo, in occasione di un incontro avuto con il Sovrano annota: “Trovo il nostro Re, come sempre, perfettamente al corrente di tutte le questioni, e informato anche del mio caso personale, di cui mi parla con infinita benevolenza”77. Con Regio Decreto 30 giugno 1908, Guiccioli sarà inviato a Tokio con credenziali di ambasciatore, nomina in una sede lontana, ma che, come gli spiega personalmente Tittoni, gli avrebbe facilitato il passaggio in una sede europea. I buoni rapporti tra Corona e Consulta in età giolittiana non sono certo destinati ad interrompersi con il marchese Antonino di San Giuliano, che assume la guida degli Esteri una prima volta dal dicembre 1905 al febbraio del 1906, con Fortis, pochi mesi in cui però riesce ad impostare la linea di condotta italiana alla conferenza di Algeciras, quando decide di affidarsi ancora una volta a Visconti Venosta, in sostituzione di Silvestrelli, indicato da Tittoni in vista di una posizione marginale dell'Italia. La nomina di un grande nome della diplomazia europea, gli fece guadagnare i complimenti di Camille Barrère, che giudicò l'atto come un “coup de maître”78. Una seconda volta, di San Giuliano fu ministro degli Esteri dal marzo 1910 al 16 ottobre 1914, giorno della sua scomparsa, nei gabinetti Luzzatti, Giolitti e Salandra, periodo ben più fervido di avvenimenti ed in cui si assiste alla consacrazione dell'Italia come piccola potenza coloniale, con tutte le conseguenze del caso per ciò che riguarda l'amministrazione e l'articolazione della macchina diplomatica. Riguardo alla considerazione di Giolitti nei confronti di Antonino di San Giuliano, ritorniamo ancora alla felice penna di Giovanni Ansaldo, che descrive con finezza alcuni tratti del rapporto che dovette esistere tra i due uomini politici : “Per di San Giuliano, gran signore siciliano, di estrazione ben più antica ed illustre di Tittoni, dotato di quella sprezzatura del tratto, che viene dalla consuetudine del gran mondo, studiatissimo simulatore di pigrizia, Giolitti dovette sentire una attrazione analoga a quella che aveva sentito per Fortis: si è sempre attirati da certe arti di vita diverse dalle proprie. E Di San Giuliano, antideschissimo di fondo, pure gli dava forse maggiore garanzia di Tittoni di sapere sempre salvaguardare la formale ortodossia triplicista”79. É lecito pensare che minore distanza dovesse esistere tra di San Giuliano e re Vittorio, considerando l'antica nobiltà del marchese siciliano, discendente di una famiglia, i Paternò, di origine provenzale-catalana dell'XI secolo giunta in Sicilia al seguito dei normanni. Figlio di Benedetto e di Donna Caterina Statella e Moncada, il giovane Antonino era cresciuto in una famiglia in cui non erano mancati gli ideali liberali ed antiborbonici, soprattutto da parte di paterna - la madre era figlia del principe di Cassaro, primo ministro di re Ferdinando – tanto che Benedetto di San Giuliano venne fatto nominare Senatore del regno da Vittorio Emanuele II80 . Anche Di San Giuliano era un estraneo alla carriera, ma, come ha scritto uno dei suoi primi biografi, era arrivato alla Consulta “con una preparazione specifica, tecnica quale forse nessun altro uomo politico italiano aveva accumulato sino allora nel settore della politica estera”, frutto di una cultura sedimentata, che aveva cominciato a formarsi nella ricca biblioteca di famiglia, e poi di studi successivi, che lo portarono anche alla collaborazione con «Giornale d'Italia», di viaggi, contatti, ottime frequentazioni, “una fitta rete di amicizie con diplomatici e personalità dell'industria

77 A. GUICCIOLI, cit. , p. 336. 78 F. CATALUCCIO, L'età giolittiana nella diplomazia di A. Di San Giuliano, in I personaggi della storia del

Risorgimento, a cura di R. RAINERO, Milano, Marzorati, 1976, p. 547. Dello stesso autore si veda il più esteso Antonio Di San Giuliano e la politica estera italiana dal 1900 al 1914, Firenze, Le Monnier, 1935

79 G. ANSALDO, Il ministro..., p. 268. 80 Sulle origini familiari e sulla giovinezza del futuro ministro, si veda la bella monografia di G. FERRAIOLI, Politica e

diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 19-39

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e del commercio”81. Per quanto riguarda il gradimento del re, sembra non ci siano dubbi: nel periodo in cui era politicamente vicino a Sonnino, aveva avuto modo di entrare in contatto con il sovrano, con il quale condivideva “molti convincimenti, oltre a una cultura vastissima”. Il re lo aveva lodato per la sua attività come ministro delle Poste e gli aveva anche esternato alcune impressioni sulla possibilità di uno sviluppo dell'Italia in campo internazionale. Scrive Ferraioli che “in definitiva, San Giuliano e Vittorio Emanuele apparvero ragionare all'unisono: per loro l'Italia aveva un grande avvenire nell'arena internazionale, purchè fosse stato perseguito con passi mirati”82. Anche in occasione della seconda nomina, quella nel governo Luzzatti, che di San Giuliano inizialmente aveva rifiutato per non far parte di un gabinetto non guidato direttamente da Giolitti, le “vive pressioni del re” furono determinanti, ciò che “pone in rilievo come San Giuliano fosse ormai divenuto uno statista che godeva dell'assoluta fiducia di Vittorio Emanuele III”83. Le due esperienze ministeriali furono inframmezzate dalla carica di ambasciatore a Londra dall'ottobre 1906 al novembre 1909 e poi a Parigi dal novembre 1909 al marzo 1910. Nomina 'politica' che in pratica si scambiò con Tittoni, che lo aveva preceduto a Londra e che lo seguì a Parigi, cartina di tornasole di come i vertici decisionali coltivassero una speciale cura nei riguardi dell'area verso il quale andò spostandosi il baricentro della politica estera italiana a partire dalla svolta del secolo. Due sedi prestigiose in pratica 'blindate' dall'elemento politico, il che destava una certa perplessità negli ambienti diplomatici. Nel suo diario annota, ancora, un interessato Guiccioli: “San Giuliano è stato nominato Ambasciatore a Londra. Me l'aspettavo. La scelta non è certamente cattiva; ma questo posto che Tittoni e San Giuliano vanno scambiando tra loro costituisce un fenomeno nuovo e poco confortante della nostra attuale vita politica e diplomatica”84. Rispetto alla nostra tesi, il periodo di permanenza a Londra di Antonino di San Giuliano è di grande importanza. La sua fu un'azione indubbiamente positiva, certo facilitata dall'interesse 'mediterraneo' della Gran Bretagna, ma, come ha scritto Giovanna Martelloni, di San Giuliano si mostrò l'uomo giusto “a modificare un certo atteggiamento delle sfere governative inglesi”, che mostravano una tradizionale simpatia per il Bel Paese, ma stentavano a considerare l'Italia capace di imporsi come una “grande potenza europea e come uno dei fattori della situazione internazionale”, criticandone la debolezza militare e l'incertezza dei propositi politici, come scriveva il nostro ambasciatore a Tittoni nel dicembre del 190985. Di San Giuliano si sforzò di correggere quel giudizio, tessendo una fitte rete di contatti nel mondo politico, diplomatico ed intellettuale inglese, frequentando l'alta società della capitale britannica, ma anche gente di ogni livello sociale e puntando alla diffusione di una nuova immagine dell'Italia, più consona al ruolo che egli pensava le spettasse. Parte qualificante della sua missione furono indubbiamente gli ottimi rapporti che di San Giuliano riuscì a stabilire personalmente con Edoardo VII, che nella primavera del 1909, in occasione di un viaggio mediterraneo del sovrano inglese, riuscì ad avere come ospite nel palazzo di famiglia a Catania. Per quel che ci riguarda, è veramente significativo che il diplomatico di San Giuliano, anche in seguito alla frequentazione degli ambienti londinesi, pur non rinunciando ad ogni sforzo per far conoscere all'estero un'Italia 'moderna', scrivesse a Tittoni nel 1907: “i rapporti tra sovrani e dinastie...[sic] pur senza avere la potenza di modificare il corso della storia, possono però, nella politica pratica e quotidiana, anche in affari di qualche importanza, esercitare maggiore influenza di quanto generalmente si creda”86. In effetti, erano ancora pochi coloro che ne dubitassero. Comunque, anche di san Giuliano volle lasciare segno della sua presenza nella storia dell'organizzazione del MAE, che venne modificata agli esordi del suo secondo mandato con RD 1° agosto 1910, n. 607, interventi non molto rilevanti, come nota Ferraris, ma piuttosto miranti «ad una migliore organicità e sistematicità nella ripartizione dei servizi». Interventi tra i quali va però

81 F. CATALUCCIO, L'era giolittiana..., cit. , p. 540 82 G. FERRAIOLI, cit. , p. 195. 83 Ibidem, p. 317. 84 A. GUICCIOLI, cit. , p. 320. 85 Citato in G. MARTELLONI, Il marchese Di San Giuliano all'ambasciata di Londra (1906-1909), in La formazione

della diplomazia italiana, a cura di L. PILOTTI, Angeli, Milano 1989, p. 496. 86 Ibidem, da una lettera a Tittoni dell'ottobre 1907, p. 500

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menzionata per la sua importanza l'istituzione del Ministero delle Colonie (R.D. 20 novembre 1912) e la conseguente soppressione della Direzione generale degli Affari coloniali87. Gli anni che vanno dal 1910 al 1914, anche in considerazione dei gravosi impegni internazionali dell'Italia, tra i quali l'impresa libica, fermamente voluta dal ministro degli Esteri, sono però ricordati come quelli in cui fu dato “un energico scossone all'atmosfera di routine” che albergava alla Consulta: Di San Giuliano, che si avvalse di Giacomo De Martino come segretario generale, volle una nuova politica del personale, con l'invio di ministri e consoli di migliore preparazione in sedi tradizionalmente considerate di secondaria importanza, con particolare riguardo all'Asia minore, Macedonia, Albania, paesi arabi del Mediterraneo, considerati i più adatti a valorizzare i giovani ed a testare il loro spirito d'iniziativa. In più, sono anni di grande mobilitazione di tutto il personale, letteralmente sommerso da telegrammi e missive, con i quali veniva sollecitato “ad operare, a studiare, a capire”88. Fu con uno di questi telegrammi che il ministro poco prima della sua scomparsa dettò, , l'11 agosto 1914, le istruzioni ad Imperiali per il patto di Londra, ritenendo di San Giuliano, in omaggio alla sua esperienza ed anche per gli ottimi rapporti che lo legavano agli ambienti politici inglesi, che il governo britannico avrebbe dato maggiori garanzie di segretezza delle trattative. La gestione di San Giuliano insomma fu perfettamente consona alle aspettative di casa Savoia, non per niente Vittorio Emanuele III rimase sempre convinto che la sua uscita di scena costituì un grave danno per il Paese: «il più illuminato uomo di Stato che abbia avuto l'Italia, dopo Cavour» ricordava il sovrano, «il quale morì per disgrazia dell'Italia proprio nel momento in cui la Nazione aveva maggiore bisogno di lui»89. La complessità del periodo che si apre dopo la scomparsa di Antonino di San Giuliano, ci suggerisce di evitare di prendere in esame la gestione Sonnino, che arriva alla guida degli Esteri dopo il breve interim di Salandra nei primi giorni di novembre del 1914 e che mantiene la carica sino al giugno del 1919. Un approfondimento dei rapporti corona-esecutivo-parlamento e di quelli tra i vertici decisionali e la diplomazia, nonché una analisi della stessa organizzazione del MAE durante il periodo bellico presentano aspetti di grande interesse e meriterebbero una trattazione a sé stante. In questa sede, ci limitiamo soltanto a segnalare che se si guarda alla storia pregressa è da presumere che l'evento bellico spingesse ancor più il sistema verso una aderenza al dettato letterale dell'art. 5. Possiamo dire infatti che in sostanza di questo si trattò, a partire dall'ingresso dell'Italia nel conflitto a fianco delle potenze dell'Intesa: in questo senso, la condotta del sovrano nel maggio del 1915 fu decisiva, quando respingendo le dimissioni di Salandra in pratica sanzionava la scelta dell'intervento. Scrive Luciano Monzali nella prefazione ai diari di Albertini, che “Vittorio Emanuele III aveva seguito attentamente i negoziati condotti da Sonnino e aveva dato il beneplacito alla conclusione dell'accordo con la Triplice Intesa. L'annullamento del patto di Londra avrebbe comportato anche la sconfessione dell'operato del re, provocando una crisi dinastica che nessuno in quel momento auspicava”, tanto è vero che il direttore del «Corriere della Sera» “plaudì alla decisione del re di rifiutare le dimissioni del governo Salandra ed esaltò la decisione dell'Italia di entrare in guerra”90. Ne era ben cosciente un osservatore più che informato come Imperiali, che alla data del 17 maggio 1915 annotava entusiasticamente sul suo diario: “Sua Maestà non ha accettate le dimissioni del 87 L.V. FERRARIS, cit. , p. 47 88 F. CATALUCCIO, L'era giolittiana... , p. 556, in cui viene riportato anche un ricordo di De Martino, inviato a

Costantinopoli nel 1911 in qualità di incaricato d'affari: “Di San Giuliano versava a fiotti telegrammi sulle nostre ambasciate, per prevedere tutto, per parare a qualunque ostacolo”.

89 G. FERRAIOLI, cit. , p. 11. Si veda anche p. 317-318. 90 L. MONZALI (a cura di), prefazione a L. ALBERTINI, I giorni di un liberale. Diari 1907-1923, Bologna, Il Mulino

2000, p. 32. A proposito di Albertini e l'intervento non può non citarsi il suo Le origini della guerra del 1914, Milano, Bocca 1942-1944. Si veda anche L. ALDROVANDI MARESCOTTI, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario (1914-1919), Milano, Mondadori, 1937. Per quanto riguarda invece gli aspetti più propriamente diplomatici dell'entrata in guerra dell'Italia, devono essere ricordati i classici M. TOSCANO, Il Patto di Londra, Bologna, Zanichelli, 1934; ID. , Origini e vicende della prima guerra mondiale, Milano, Giuffrè, 1963; ID. , Gli accordi di San Giovanni di Moriana. Storia diplomatica dell'intervento italiano, Milano, Giuffrè, 1963. Per quanto riguarda gli studi più recenti va segnalato P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana 1914-1943, LED, Milano 1997

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Ministero. Evviva il Re, geloso custode dell'onore e degli interessi d'Italia». E qualche giorno dopo, apprese le notizie delle manifestazioni interventiste dilaganti in tutto il paese, sottolineava con soddisfazione: «Confortantissime invece le manifestazioni della nazione”91 Per quanto riguarda Sonnino poi, non si può dimenticare che egli era pur sempre l'uomo del Torniamo allo Statuto, in cui aveva sostenuto che il Re impersonava “lo Stato in tutti gli elementi suoi più necessari e normali”, nella tutela dei quali aveva “una funzione attiva e non passiva”; il re rappresentava “la tradizione di governo, la continuità nell'azione dello Stato, la stabilità dei suoi ordinamenti”; sintetizzava “l'interesse generale della patria tanto nel presente che nel futuro” ed ancora, il “Principe dinastico” nella nostra costituzione rappresentava “l'elemento continuo, permanente dello Stato considerato come un organismo complessivo, di fronte agli elementi temporanei, mutevoli, contingenti nello spazio e nel tempo, rappresentati dagli elementi elettivi” e quindi anche dai governi che di questi in prevalenza furono composti92. Sebbene quello scritto appartenesse in effetti ad altri tempi, è difficile pensare che Sonnino avesse dimenticato del tutto di agire, in fondo, come un 'ministro del re', tanto più in un momento di massima emergenza nazionale, quando usualmente i poteri dello stato convergono a difesa dell'entità statuale, ed in cui era chiamato ad agire in un campo di tradizionale competenza regia. Ma, ripetiamo, questa è una storia che meriterebbe una analisi a sé stante. Conclusioni Possiamo quindi sostenere che un rapporto di influenza tra corona e amministrazione degli Affari Esteri in Italia caratterizza in maniera costante tutto il periodo preso in esame. Esso tuttavia non ha un andamento lineare, ma è ad intensità variabile, e ciò indipendentemente dall'evoluzione del sistema costituzionale, che vede l'azione del governo sempre più svincolarsi da quella del sovrano. Ci sono cioè dei momenti di 'ritorno' di fattori dinastici e di contrazione dell'autonomia ministeriale. Risulta infatti che tale variabilità sia soprattutto dipesa dalle diverse interpretazioni che del sistema nel suo complesso e quindi del proprio ruolo hanno dato i soggetti che si sono succeduti nell'ambito della sfera decisionale della politica estera. Riguardo alla progressiva parlamentarizzazione del sistema, bisogna ribadire che gli affari esteri rimangono a lungo ancora sottratti all'influenza diretta delle camere e piuttosto confinati nel quadrilatero corona-presidenza del consiglio-ministro degli esteri-diplomazia. Sarebbe errato tuttavia non riconoscere al Parlamento una importante incidenza indiretta, soprattutto quale cassa di risonanza degli interessi e degli umori delle classi dirigenti e quindi con delle ricadute sia per ciò che riguarda gli indirizzi generali che per gli aspetti più propriamente amministrativi: l'azione di Visconti Venosta tra gli anni Sessanta e Settanta fu sorretta da una omogeneità di vedute nell'ambito della classe politica, di cui la diplomazia è segmento, che trovava espressione nelle maggioranze della Destra storica, così come l'opposizione ai provvedimenti crispini più radicali è lecito pensare che fu possibile grazie ad una sponda parlamentare della burocrazia ministeriale e le riforme Tittoni e Di San Giuliano che prepararono ad nuovo ruolo internazionale dell'Italia sarebbero rimaste carta bianca senza il supporto della maggioranza giolittiana. Il fatto che il re non rinunciasse alle tradizionali prerogative, non impedì alla diplomazia di conformarsi progressivamente come un corpo tecnico abilitato a rappresentare gli interessi del Paese e soprattutto di acquistare una autoconsapevolezza della propria specialità funzionale. Possiamo dire che essa costituiva una élite politico-amministrativa la cui coesione derivava da affinità politico-culturale, rispetto alla quale gli ideali liberali erano considerati come la leva del “riscatto” nazionale, e da una vicinanza tecnica ai destini del giovane stato unitario. Sul rapporto privilegiato che a lungo si stabilisce con l’istituto monarchico pesarono inizialmente fattori

91 G. IMPERIALI, Diario..., cit. , p. 160. 92 UN DEPUTATO (S. SONNINO), Torniamo allo statuto, ora in Scritti e discorsi extraparlamentari, Bari-Roma, Laterza,

1972, pp. 589-590. Su Sonnino, si veda PL. BALLINI (a cura di), Sidney Sonnino e il suo tempo, Firenze, Olschki 2000, soprattutto i saggi di H. ULLRICH, Un profilo parlamentare: il deputato, il leader e di G. SABBATUCCI, Sonnino e Giolitti

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dinastici, ai quali poi andò accompagnandosi il riconoscimento dell'azione nazionale di casa Savoia ed infine una nuova lealtà fondata su basi politico-ideologiche, che aveva come retroterra l'adesione alla causa liberale e risorgimentale. Inoltre, sarebbe giusto definire la diplomazia come un’aristocrazia politico-amministrativa, più che sociale, dato che da essa l’elemento borghese non era rimasto estraneo, soprattutto nel momento della sua formazione, quando Cavour volle circondarsi di collaboratori provenienti soprattutto dalla borghesia, di cui Nigra, figlio di un chirurgo dell’alto canavese, rimane forse il caso più illustre. Per l'elemento nobiliare, invece, in un contesto come quello italiano dove esso è privo di una caratterizzazione nazionale, bisogna riconoscere come la conversione al nuovo ordine rappresentò un passaggio epocale, che interessò le giovani generazioni, soprattutto meridionali, che si inseriscono nella più alta burocrazia statale ora per motivi politici, ora per semplice volontà di rimanere classe dirigente. Su questo aspetto, rimangono significative le pagine finali dei «Vicerè» di De Roberto in cui il principe Consalvo, che come è noto è la trasposizione letteraria della figura di Antonino Di San Giuliano, rivolgendosi alla vecchia zia Donna Ferdinanda, irriducibile borbonica, molto crudamente le dice: “Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto per la prima volta deputato, mio padre mi disse: 'Vedi? Quando c'erano i Vicerè, gli Uzeda erano Vicerè; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento'” ed ancora: “In politica, Vostra eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi...Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni...Di qui a ottant'anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia...Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl'interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l'ha travolta...Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!”93. Ed infatti, molte antiche famiglie se ne servirono, così come d'altronde anche le istituzioni si servirono di loro. Da un punto di vista sociologico, dopo la parentesi cavouriana, la nobiltà caratterizza la carriera, con una impennata negli anni della sinistra storica – proprio quelli che portarono il principe Consalvo-Antonino Di San Giuliano in Parlamento. La diplomazia muta definitivamente il proprio volto soltanto in età giolittiana, quale risultato dell’allargamento delle basi sociali della classe dirigente e del compimento del processo di nazionalizzazione delle élites. É in questi anni che il processo di selezione di una diplomazia nazionale giunge a compimento. Guardando ai dati dell'Indagine statistica già da noi citata “si può dire che il regime giolittiano sia stato in grado di produrre un sistema di diplomazia nazionale coerente con le sue premesse liberali. Tutti gli indici concordano nel disegnare un profilo della diplomazia contrassegnato da connotati 'progressivi'”94. Diminuisce infatti la componente piemontese, con una crescita di quella laziale, campana e siciliana, mentre la borghesia raggiunge valori quasi equivalenti a quelli dell'aristocrazia, anche se è necessario precisare che “non si tratta di una democratizzazione perchè, ovviamente, l'apertura non avviene, né poteva avvenire, nei confronti delle classi popolari e piccolo-borghesi, anche se queste ultime non sono completamente assenti” 95. Guardare alla monarchia, infine, significava per la diplomazia rimanere lontani dagli equilibri mutevoli del Parlamento e dall'instabilità dei governi, che pure vengono serviti fedelmente nell'interesse generale del Paese, ciò che è segno di una sorta di a-politicità funzionale della diplomazia, rafforzata da procedure di reclutamento rigide e da logiche fortemente endogene di avanzamento interno, a seconda dei momenti non perfettamente aliene da influenze “politiche”, ma di certo in misura inferiore rispetto ad altre amministrazioni dello stato. Questo legame con la

93 F. DE ROBERTO, I Vicerè, Milano, Garzanti, 1994, p. 649. Sulla trasposizione letteraria della figura di A. Di San

Giuliano si veda F. GRASSI, Antonino di San Giuliano, la crisi di fine secolo e le origini dell'imperialismo italiano, in A.L. DENITTO, F. GRASSI, C. PASIMENI, Mezzogiorno e la crisi di fine secolo: capitalismo e movimento contadino, Lecce, Milella, 1978.

94 La formazione della diplomazia nazionale 1861-1915. Indagine statistica, cit. , p. 105. Si vedano anche i commenti ai dati pp. 106 ss.

95 Ibidem, p. 109.

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monarchia, che ora possiamo definire politico-ideologico ed assieme tecnico-funzionale, cioè inerente alla natura istituzionale della diplomazia, sarà pronto ad emergere al momento del crollo del fascismo, in quel piccolo drappello di funzionari del ministero che seguirono il re a Brindisi, piuttosto che Mussolini a Salò, con l'intenzione di salvaguardare la continuità giuridica dello Stato, indipendentemente dal giudizio sulla persona del re, e da quella sede avviare la ricostruzione di quello che sarà poi il Ministero degli Esteri dell'Italia democratica. In uno scritto di qualche anno fa, l'ambasciatore Carlo Marchiori a proposito di questa pagina drammatica di storia italiana, ricordava tra questi funzionari il vice console Alessandro Capece Minutolo di Bugnano, allontanatosi da Bruxelles, riparato in Spagna e poi salvatosi per un pelo alla frontiera franco-spagnola di Irun inseguito dai tedeschi di guardia al posto di dogana. Era fuggito con nascosta sotto la camicia la bandiera del consolato, “un gesto romantico di sapore risorgimentale che gli avrebbe potuto costare la pelle” - scrive Marchiori96. Un caso esemplare della vicenda che qui abbiamo tentato di ricostruire e che a quel punto era ormai giunta al suo crepuscolo.

96 C. MARCHIORI, Renato Prunas. Il ritorno dell'Italia sulla scena internazionale, in «Rivista di studi politici

internazionali», LXIX, 3, luglio-settembre 2002, p. 431.