Nicola Spinosi - Manoscritto trovato a Saragozza

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Analisi psicologica del famoso romanzo di Jan Potocki. L'uscita dall'adolescenza del protagonista è rappresentata come un'avventura in una regione misteriosa e piena di seducenti pericoli.

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Nicola Spinosi

Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki

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Il conte polacco Jan Potocki (1761-1815), viaggiatore, diplomatico, archeologo,

storico, frequentatore dei « circoli filosofici parigini », tocca con questo libro

tematiche « irrazionali » (fantasmi, vampiri, succubi) in contrasto con

l’esperienza illuministica accumulata nei suoi soggiorni in Francia

(Caillois,1958 ;p.xii-xiii). Il Manoscritto è un’opera tra giorno e notte. Potocki

vede messi a dura prova i suoi ideali “progressisti” assistendo, lontano dai

cosiddetti circoli filosofici, al manifestarsi del « furore popolare » durante una

rivolta avvenuta in Olanda nel 1787 (Caillois, 1958 ;p.xiii) : anni dopo scrive :

« La libertà sopravvivrà, ma per quel che riguarda la felicità pubblica, questa

generazione non può che dirle addio » (Caillois, 1958 ;p.xv). Dunque il

« progresso politico » lascia qualcosa di scoperto, senti questa, e la « felicità

pubblica » resta lontana. Mi ricorda qualcosa.

Potocki muore suicida : proiettile per la sua pistola, una palla d’argento tolta dal

coperchio d’una teiera e limata con pazienza fino alle dimensioni volute

(Caillois, 1958 ; p.xix). Suicidio premeditato, se non pregustato: la vita come

lavorazione paziente dello strumento per la fine.

Il Manoscritto è un’opera gaiamente carnale con fantasmi e misteri. I misteri,

l’intrigo stesso della trama, della vita, la penombra tra giorno e notte, meritano

di essere considerati, vissuti, accolti. Quel che i fantasmi rappresentano ci

riguarda come la realtà in cui ci muoviamo, è un’altra realtà spaesante, piena di

vita (Alfonso, il protagonista, perde la bussola, la destinazione di partenza, la

sede del suo reggimento, svapora, diventa irreale). E’ dalla pratica di quest’altra

realtà che anche alle persone tormentate, cosiddette nevrotiche, riesce talvolta il

mestiere di vivere.

Il testo, ricordando autori antichi come Apuleio, Petronio, classici come

Boccaccio, come Cervantes, è colmo di fatti e di trame veloci. E’ la stessa velocità

delle fiabe. Potocki e gli altri avevano da raccontare, l’accumulo veloce di storie

(veloci) dipende dalla curiosità, voracità, da una giovinezza del mondo, o, se non

del mondo, del raccontare. La narrativa moderna è più povera di fatti,

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essendone sazia e stufa come chi « ha visto tutto », « ha già mangiato », ed

analizza ogni boccone, lentamente. Felicità degli antichi - noia nostra. E anche la

« psicologia » dei personaggi deriva, nei moderni, dal fatto che essi stanno quasi

fermi. Negli antichi non c’è psicologia. Già in Potocki, per la verità, baluginano i

conflitti del cuore. Al posto della psicologia, gli spettri.

Il narratore anonimo (nell’ambito limitato della premessa) trova il manoscritto

in una casetta fuori mano, abbandonato dai saccheggiatori (è in corso la guerra

napoleonica in Spagna) insieme ad altri oggetti considerati di scarso valore.

Subito egli capisce che si tratta di un libro divertente. Fatto prigioniero dai

nemici, si raccomanda che gli lascino il manoscritto. Per favore, da leggere,

almeno. Un ufficiale dà un’occhiata e scopre che il manoscritto contiene anche la

storia di un suo avo. Il suo è un interesse diverso da quello del prigioniero, ma il

libro li avvicina : i due lavorano a tradurlo in francese. La narrativa può restare

dunque fuori mano, abbandonata, per fortuna, perciò aiuta ad uscire dai ricatti

del presente, guerra, prigionia, distinzione tra nemici e amici, politiche

sciagurate, proprio grazie alla sua extraterritorialità.

La storia, narrata nel manoscritto in prima persona da Alfonso Van Worden, ha

luogo nella Sierra Morena, una regione all’epoca ancora selvaggia, difficile,

insidiosa nella realtà dei briganti e nell’irrealtà dei fantasmi. Alfonso, per

raggiungere il suo reggimento, decide di passare dalla Sierra Morena,

nonostante che essa abbia una cattiva reputazione, anzi, proprio per questo,

perché è pericolosa, e lui, un cavaliere, non può aver paura. Un oste lo sconsiglia,

ma che cosa vale per un cavaliere la parola di un oste ? I due servi tremano,

silenziosamente testimoniano che è meglio non avventurarsi, ma Alfonso va,

come Jonathan Harker s’incammina verso il castello del conte Dracula, per

fargli firmare un contratto di acquisto immobiliare, certo, e per il gusto del

proibito, per la nostra lettura. Alfonso deve.

Rimane presto da solo, misteriosamente i due servi scompaiono : è il primo degli

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handicap di cui il viaggio, anzi il gioco, è disseminato. Solo, con il suo senso

dell’onore, con la paura di aver paura, va avanti, perché di tornare indietro non

gli passa « neppure per la mente ». Arrivato ad una locanda, Alfonso legge un

avviso che raccomanda di non passare la notte in quel luogo : ciò ha l’effetto di

invogliarlo. Precisa che vuole sfidare i pericoli non « perché convinto

dell’inesistenza degli spiriti », no: dal padre ha appreso che non sta lì il punto -

che esistano o meno, si tratta di non aver paura. In definitiva mostra un

atteggiamento possibilistico nei confronti dei misteri.

In « Sulle visioni di spiriti », un testo dei Parerga e paralipomena, Schopenhauer

scrive: « Gli spettri, che nel superassennato secolo scorso (...) erano stati

ovunque non tanto esorcizzati quanto proscritti, sono stati riabilitati in

Germania durante questi ultimi venticinque anni (...). E forse non a torto »

(Schopenhauer, 1851 ;p.295). « Tra gli argomenti per la realtà delle apparizioni

di spiriti merita di essere ricordato anche il tono di incredulità con cui esse

vengono esposte di seconda mano dai narratori eruditi, poiché questo tono porta

di regola così chiaramente il segno dello sforzo, dell’affettazione, e dell’ipocrisia,

da lasciar trasparire la segreta fede nascostavi dentro.» (Schopenhauer,

1851 ;p.379). Sembra, quella segreta fede, un’allusione al « superato » culturale

che si rifà presente. Il problema non sta, come per Alfonso, nell’esistenza o meno

degli spiriti, ma nel non aver troppa paura di indagare il loro mondo (narrativo)

e ciò che essi rappresentano.

Alfonso procede a una ricognizione della locanda, dalle cantine alla soffitta :

tutto dev’essere esaminato. Ha paura, ma la nega, sostiene di perlustrare la

locanda « non tanto » per rassicurarsi contro le potenze infernali, quanto per

procurarsi del cibo, d’altra parte ringrazia la fame, che gli permette di non

dormire, e di rimanere all’erta. Intanto prova a dare una spiegazione naturale,

logica, al fatto che i servi sono scomparsi. Insomma, la sparizione è « strana »,

non straordinaria. Il protagonista-narratore, con il lettore, tenta di comporre la

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dissonanza prodottasi. Ma subito avvengono altri due fatti inspiegabili : nella

locanda, pur deserta, una campana suona, ed appare una negra seminuda.

Costei introduce Alfonso al cospetto di due giovani donne.

Se i due servi rappresentavano la sopravvivenza, freno all’ardimento di Alfonso,

preda del senso dell’onore, le due ragazze lo sfrenano. « Vi attendevamo ; se la

paura vi avesse fatto prendere un’altra strada, avreste perso la nostra stima per

sempre » (p.18) . Grazia e seduzione muovono in Alfonso forze più consone a un

cavaliere. Onore e sesso.

Sennonché, obbedendo alla legge paterna dell’onore, il narratore entra in una

regione scabrosa. Le due ragazze, sorelle, si dichiarano cugine di Alfonso, eppure

lui amoreggia con loro, sono musulmane, e lo provocano a lasciare la religione

cristiana ; in più, sono donne o spiriti ? « Una persona superstiziosa avrebbe

potuto aspettarsi di vedere le belle dileguarsi ».

Alfonso tenta di controllare la superstizione, non solo ha paura. Filtrato dal

senso dell’onore, s’accumula materiale prezioso. Sprofondato in sogni o realtà

erotici con le due cuginette, non sa se ciò che prova è vero o no, poi si sveglia :

disteso sotto una forca, due cadaveri accanto, opina di sognare ancora, ma un

realissimo avvoltoio lo convince, artigliandolo.

Nessuno, intendo il lettore e il cavaliere, sa che cosa sta succedendo, come, dove.

Alfonso si ritrova, rispetto al punto cui era arrivato, la locanda, indietro, difatti

vicino alla forca era già passato. Gioco dell’oca, contrattempi, ripetizioni, marce

indietro, penitenze, pedaggi da pagare, fortune e sfortune. Sembra che Alfonso

sia punito per essersi sfrenato, con le due donne, materia “diabolica” che finisce

in carne putrefatta : due cadaveri.

Il cavaliere si solleva, si muove, scorge dei viaggiatori che transitano vicino, li

chiama, ma quelli scappano, credendolo un fantasma. « Mi parve che le leggi

dell’onore mi obbligassero più che mai a passare per la Sierra Morena. Il lettore

forse si sorprenderà di vedermi così preoccupato della mia gloria, e così poco

degli avvenimenti del giorno precedente ; ma questo modo di pensare era ancora

un effetto dell’educazione ricevuta, come si vedrà dal seguito del mio racconto »

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(pp.28-29). Arriva, non senza essersi mangiato la colazione dei viaggiatori

scappati, ad un eremo: lo accolgono l’eremita e un “indemoniato” orbo di un

occhio, Pacheco, che sembra un doppio di Alfonso, infatti racconta un’avventura

che somiglia a quella appena descritta, due donne, due demoni, non sa cosa.

« Quando fui solo, il racconto di Pacheco mi tornò alla mente. Vi trovai molte

affinità con le mie avventure ». Alfonso riflette, sembra orientarsi sull’ipotesi che

le cuginette siano demoni tentatori. Coricato con la benedizione dell’eremita e il

conforto della ragione, voci ora lo chiamano fuori; sono le sorelline, lo tentano,

lo provocano : « vieni un po’ fuori », « ci vengo subito », che diamine, è l’onore,

ma la porta è chiusa, l’eremita ha previsto il disturbo diabolico. Costernato,

Alfonso si scusa con i fantasmi, con le voci. Fair play.

Al mattino rifiuta la confessione, non vuol tradire la parola data alle sorelle, la

notte prima. « Credete agli spettri o non ci credete ? », domanda l’eremita. No,

ma.

Da dove viene il senso dell’onore di Alfonso ? Dal padre, militare maniaco. « A

Madrid non si faceva un solo duello di cui mio padre non regolasse il

cerimoniale ». In un registro il padre raccoglie tutti i casi in cui il “punto

d’onore” è messo in discussione, tipo : deve un gentiluomo considerarsi offeso se

il suo dipendente mandato per un messaggio viene malmenato nella casa del

gentiluomo destinatario del messaggio ? Passa l’evento per il punto d’onore ? Lo

tocca ? Il padre di Alfonso ha una risposta per ogni quesito, basata sui

precedenti. E’ un’autorità. Per prendere un’importante decisione (si tratta di

lasciare l’esercito per entrare in possesso del suo feudo nelle Ardenne, dopo la

morte del fratello maggiore, o di rinunciare al godimento della proprietà) egli si

affida ai dodici cavalieri che secondo il suo registro hanno sostenuto il maggior

numero di duelli (più duelli più giudizio). « Temo che il mio giudizio mi faccia

difetto, o meglio, che sia offuscato da qualche sentimento di parzialità » (p.42).

Questo è il modello di ragione che Alfonso si trova a dover adattare sotto

l’influsso delle sue avventure, dell’incertezza, dell’offuscamento.

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Il ritratto del padre di Alfonso è comico, e non è l’unico : il tema del padre che

indirizza il figlio qui si ritrova spesso - ridicolizzato. Prescrizioni fatte per essere

trasgredite. Padri da essergli grati. « Finalmente nacqui. A tre anni tenevo già un

piccolo fioretto, e a sei potevo tirare un colpo di pistola senza battere ciglio »,

così Alfonso. Finalmente nacqui. Mai sentito. Non è sublime?

Alfonso è affidato a un maestro d’armi e a un educatore. Un bel giorno torna

dai genitori : « Mio padre, benché lieto di vedermi, non si abbandonò però a

dimostrazioni che avrebbero potuto compromettere (...) la gravedad. Mia madre

invece mi bagnò di lacrime ». (p.48) . Si festeggia il figlio. Dopo cena, davanti al

fuoco, Van Worden invita il maestro di Alfonso a leggere una delle “tante storie

meravigliose” che stanno in quel suo “grosso volume”. Si tratta di un racconto di

fantasmi (“Trivulzio da Ravenna”, p.49-51). Sul più bello della lettura Van

Worden interrompe e domanda ad Alfonso: “Al posto di Trivulzio avreste avuto

paura?”. Il ragazzo, ancora ignaro della mania del padre, risponde che avrebbe

avuto una paura “enorme”. S’accende l’ira, Van Worden a stento è fermato dai

presenti, terribile sarebbe altrimenti la punizione. Alfonso muore di vergogna, e

impara a nascondere i suoi sentimenti.

Impara qualcosa che oggi è fuori moda.

Hierro, il maestro di scherma, propone di togliere ad Alfonso la paura dei

fantasmi provandogli che non esistono. Giammai! Van Worden blocca il

malcapitato ricordandogli che il giorno prima gli ha mostrato una storia di

fantasmi scritta dal suo bisavolo, sottintendendo che Hierro sta offendendo la

memoria del bisavolo. Si apre un gustoso duetto: posizioni rigide, una di tipo

etico, l’altra di tipo “scientifico”, due mentalità si scontrano, quella del culto del

coraggio (direbbe Borges) e quella del culto della ragione.

Nel suo viaggio a handicap il cavaliere imparerà che i fantasmi esistono e non

esistono, e che per questo se ne può avere la mente confusa, proprio per la loro

elusività.

Le battute che si scambiano Van Worden e Hierro mostrano la natura ossessiva

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e inquisitrice del primo: “Monsignore, io non smentisco il bisavolo di Vostra

Eccellenza” – “Che cosa intendete con ‘non smentisco’? Non sapete che questa

espressione suppone la possibilità di una smentita da voi data al mio bisavolo?”

– “Monsignore, so bene di valere troppo poco perché Monsignore il Vostro

bisavolo potesse desiderare di trarre da me una qualsiasi soddisfazione” –

“Hierro, che il cielo vi preservi dal fare delle scuse, perché queste

presupporrebbero un’offesa.” (pp.51-52).

La sera successiva si legge ancora una storia (“Storia di Landuccio da Ferrara”,

pp.53-54), il padre di nuovo interrompe, e domanda ad Alfonso se al posto del

protagonista avrebbe avuto paura. Il ragazzo, istruito dai fatti del giorno prima,

risponde: “Mio caro padre, vi assicuro che non avrei provato il più leggero

spavento”.

Alfonso conclude il racconto dei suoi trascorsi all’eremita: “Ho avuto la sfortuna

di essere separato dai miei domestici” - è l’onesta formula che usa per riferire gli

ultimissimi fatti, la misteriosa sparizione dei due servi. Si chiude davanti

all’incalzare del sant’uomo, per non tradire le due cugine “diaboliche”, ma

anche per la diffidenza che lui gli suscita. “Mio padre mi ha ordinato di credere

ad Innigo <il maestro di teologia> in tutti i campi che hanno rapporto con la

nostra religione” (p.56). Secondo tali convinzioni gli indemoniati non esistono

più, dunque Pacheco non è indemoniato, “può aver perso l’occhio in un’altra

maniera”, non per opera di una bestia diabolica.

Lasciato l’eremo, subito Alfonso è preso dall’Inquisizione. “Conosci due

principesse di Tunisi? O piuttosto due infami streghe, esecrabili vampiri e

demoni incarnati? Non dici niente. Che si facciano venire quelle due infanti della

corte di Lucifero!” (p.61). Ecco, in carne ed ossa le due sorelline. Sono fantasmi?

Certo si spostano lungo piani diversi di realtà, di verosimiglianza.

Dall’edizione completa del Manoscritto sappiamo che tutto, tutto quanto, è una

messa in scena per mettere alla prova Alfonso. Ma questa, da cui leggo, è

l’edizione ridotta, dunque siamo ancora nel cuore del fantastico (Caillois, 1965)

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– nel cuore dell’errore? Ma, dato che gli errori, forme preliminari di verità

sempre parziali, non finiscono di prodursi, il fantastico continua a confonderci,

ad incantarci. Come il senso dell’onore e il culto del coraggio.

E’ difficile vivere per un cavaliere, dunque, ma l’intreccio s’arricchisce.

L’Inquisizione repentinamente è resa innocua dall’irruzione sulla scena di forze

contrarie: il bandito Zoto e i suoi. Costoro liberano Alfonso e le due sorelle. Tutti

sono “al servizio e al soldo dello Sceicco dei Gomelez”. Una Gomelez è anche la

madre di Alfonso. Islamismo e Cristianesimo s’incrociano in questa Spagna dei

miracoli, hanno reciproche parentele cui non si può sfuggire.

Con il suo coraggio Alfonso si è guadagnato la dedizione di Zoto e delle cugine,

la considerazione dello sceicco, ma è tenuto d’occhio anche dai suoi superiori del

reggimento. Essi gli fanno pervenire una lettera di sospensione di tre mesi a

causa della fuga dal tribunale dell’Inquisizione. Dove non arriva la Chiesa,

arriva l’Esercito, ma Alfonso non cede, anzi si perde nella contemplazione del

paesaggio, che ora non è più solo “selvaggio”, ma anche bello: “Sentii che stavo

innamorandomi della natura”.

Veniamo al racconto fatto da Zoto, figlio di omonimo. Zoto padre diventa

brigante un po’ per accontentare i capricci della moglie snob, un po’, forse, per

sfuggirle – si dà logicamente alla macchia. Brigante, ma fedele alla parola data.

Una volta un notabile lo paga per eliminare un rivale che a sua volta lo paga per

eliminare il primo. Equanime, Zoto li uccide entrambi. Il padre di Alfonso

avrebbe approvato. Il ragazzo è confuso: “ Egli <Zoto> non aveva cessato di

vantare l’onore, la delicatezza, la puntigliosità onesta di gente per la quale la

forca sarebbe stata una pena troppo lieve. L’abuso di queste parole (...) mi

confondeva tutte le idee.” (p.73). Effettivamente vediamo, nella storia di Zoto,

un’educazione all’onore nel brigantaggio che è uguale e di segno contrario

rispetto a quella (onore nella cavalleria) che si rileva nel caso di Alfonso. Cos’è

l’onore, se è così importante anche per un bandito? Una bussola.

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Dopo il racconto di Zoto, protetti dal favoloso palazzo sotterraneo del brigante,

Alfonso e le cugine fanno l’amore. Sono cadute le cinture di castità, il coraggio di

Alfonso è premiato, ma egli deve rinunciare alla croce: una delle ragazze gliela

taglia via dal collo, al suo posto una treccia fatta dei capelli suoi e della sorella.

Cede il cavaliere, cadono le riserve, il desiderio accumulato in tante pagine può

pervenire alla sua meta. Ma suona la mezzanotte. Avviene qualcosa che sembra

ripetere la scena dell’Inquisizione. Confusamente, oniricamente. Irrompe lo

sceicco dei Gomelez, ordina ad Alfonso: “devi farti maomettano o morire”

(p.102). L’islamismo cessa di essere trasgressione, diventa un comando. Appare

Pacheco, fa segni, le due sorelle lo scacciano, che ci fa, l’indemoniato pentito,

insieme allo sceicco?

Lo sceicco Gomelez ordina ad Alfonso di bere il liquido di una coppa, se non

vuol morire di morte vergognosa, se non vuole trovarsi in compagnia degli

impiccati. Il ragazzo sospetta che la coppa contenga un veleno, che gli si stia

proponendo un suicidio onorevole, cosa gradita a un cavaliere colpevole di aver

deflorato due fanciulle sue cugine. Il padre sicuramente approverebbe. Alfonso

dunque beve, ma non muore affatto. In compenso si trova indietro alla casella de

Los Hermanos, gl’impiccati. Di nuovo sotto la forca.

Questa storia, da aprire a caso per leggere uno dei numerosissimi racconti che

essa contiene, ha a che fare con l’ uscita dall’adolescenza. Mi viene in mente La

linea d’ombra di Conrad, altro polacco giramondo. La Sierra Morena, come la

bonaccia, la malattia, le superstizioni per il protagonista conradiano,

rappresentano esperienze difficili ma nutrienti. Passatala, non si torna più

indietro, secondo Conrad. Si è diversi, vinti o vincitori, oppure perplessi,

dubitanti. L’evolversi è una ricca tendenza, ma la ripetizione è in agguato, si

torna sotto la forca.

Nel romanzo non sono i contenuti a confondere, gai fasti e nefasti carnali, ma la

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struttura ripetitiva. Troviamo tante storie di giovani che partono, via dalla

famiglia, come Robinson Crusoe. Il viaggio principale è quello di Alfonso,

viaggio cornice, che tiene tutti gli altri insieme, e da essi trova spinte per le sue

modificazioni rispetto al punto di partenza. I viaggi secondari ripetono e

riassumono, come sottolineature, il viaggio principale. La ripetizione della figura

centrale del romanzo (movimento, arresto, movimento) consente, nel suo rifarsi

presente, non tanto una conferma della situazione passata, quanto un

rinnovamento. Rinnovamento del protagonista, che per esempio dopo aver fatto

l’amore non si ritrova più, ad un certo momento, in compagnia della putredine

morta, ma rinnovamento anche del tema del racconto. Pian piano si respira più

libertà, anche se talvolta ci sono passi “indietro”.

La ripetizione, o ripetitività, che appare affliggente, negativa nella prospettiva

del “progresso”, ha invece in sé la potenzialità positiva di rifondarci, di

indebolire gli eccessi della ragione e della volontà . Così ci si modifica.

Parecchi anni fa la storia di Alfonso attirò la mia attenzione insieme all’idea che

il senso dell’onore (di cavaliere) fosse una stoltezza da superare. Invece, per dirla

con l’ I King (Wilhelm, 1923), era in questione la mia « stoltezza giovanile ».

L’onore è pur sempre un appiglio, un riferimento : abbiamo in effetti bisogno di

qualcosa per discernere nel mare di eventi, o, se vogliamo, nel mare delle pagine

a stampa, il sì e il no. Il forse. L’anche, l’oppure. Abbiamo bisogno di una

bussola, o di ciò che riteniamo esserlo.

Ho letto spesso, almeno nella versione parziale, il Manoscritto. Dev’essere stato

l’ovvio desiderio di goderne. Questo libro tuttavia può essere riletto per

coglierne il mistero, se non nel significato, almeno nella fisionomia. Tzvetan

Todorov nel suo trattato sulla letteratura fantastica (1970; pp.29-32, 47,81,132-

140) tratta ripetutamente del romanzo di Potocki, proponendolo come modello

del genere. Scrive e riscrive del Manoscritto, lo abbandona per poi tornare a

riprenderlo, come luogo dell’incertezza, del fantastico inafferrabile, irriducibile

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alle categorie della narrativa « del soprannaturale ». Il lettore spaesato, indeciso

(i fantasmi ci sono o prendono vita dalla fantasia ?), di cui scrive Todorov, è

Todorov stesso, al punto che viene voglia di sostenere che La letteratura

fantastica sia stato scritto per costruire una bussola nell’elusivo paesaggio

potockiano, pur assaporandone i piacevoli dubbi. Così anch’io, con Todorov e

chissà quanti altri lettori - tra i quali Luis Bunuel (1982; p.220) - vago contento

per la Sierra Morena, insieme al protagonista, Alfonso Van Worden, giovane

capitano delle Guardie Vallone.

Le teorie di Tzvetan Todorov (1970) sul Manoscritto trovato a Saragozza

risentono della parzialità dell’edizione ai tempi disponibile, quella curata da

Roger Caillois (1958). In effetti anche la mia lettura di trenta anni fa, qui

revisionante, è ricavata da tal edizione (1965). L’edizione completa (1990) – 720

pagine contro 255, e 66 « giornate » contro 14 - permette di sciogliere il

dilemma ghost-story/sogno, gosth-story/allucinazione. Non si tratta, almeno per

quanto riguarda l’intera vicenda di cui è protagonista e narratore Alfonso Van

Worden, né di spiriti, né di sogni, né di altri fenomeni “psichici”, ma di occasioni

organizzate da un potente sceicco allo scopo mettere alla prova Alfonso in vista

del suo nobile e dovizioso futuro. Ciò nonostante molto mistero rimane. I

racconti (di racconti) su spiriti e simili infatti nel Manoscritto abbondano.

Nella nostra vita abbiamo sempre a che fare con “edizioni parziali”, prima che

arrivi quella definitiva.

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Bibliografia.

Bunuel, L. (1982)Dei miei sospiri estremi, trad. it., Rizzoli, Milano 1983.Caillois, R. (1958)“Prefazione a J.Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza”, trad. it., Adelphi, Milano 1965.Potocki, J. (1813 a)Manoscritto trovato a Saragozza, a cura di R.Callois, trad. it., Adelphi, Milano 1965. Potocki, J. (1813 b)Manoscritto trovato a Saragozza (versione integrale a cura di R. Raddrizzani), trad. it., Guanda, Parma 1990.Raddrizzani, R. (1990)“Introduzione a J.Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza”, trad.it. Guanda, Parma 1990.Schopenhauer, A. (1851)Parerga e paralipomena, trad. it, Boringhieri, Torino 1963.Todorov, T. (1970)La letteratura fantastica, trad. it., Garzanti, Milano 1977.Trevi M. , Romano, A. (1975) Studi sull’Ombra, Marsilio, Venezia-Padova.Wilhelm, R. (a cura di) (1923)I King, trad. it., Astrolabio, Roma 1950. Meno remota, l’edizione Adelphi (Milano) propone una diversa traslitterazione del titolo: I Ching.

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Nicola Spinosi ([email protected]) ha tentato di trasmettere lo spirito della critica sia insegnando nell'ambito dell'università di Firenze (1972-2012), sia lavorando come psicanalista. Ha pubblicato su carta molti articoli su riviste italiane, ed alcuni libri (ve n'è traccia in Internet). Da ultimo ha reso pubblici tramite Scribd sue traduzioni da Kafka, da Proust, e suoi scritti di critica letteraria.