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Dipartimento di Sociologia Università Cattolica Gruppo del Sacro Cuore – Milano Interstizi & Intersezioni N N e e w w s s M M A A G G A A Z Z I I N N E E I I n n t t e e r r s s t t i i z z i i & & I I n n t t e e r r s s e e z z i i o o n n i i n n . . 3 3 0 0 S S p p e e c c i i a a l l e e , , M M a a r r z z o o 2 2 0 0 1 1 4 4 “Bellezza è verità, verità bellezza” – questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta. John Keats Morii per la bellezza – ma non m’ero ancora abituata alla mia tomba quando un altro – morto per la verità – nel sepolcro vicino fu adagiato. Piano mi domandò perché ero morta – “Per la bellezza” – gli risposi – e lui: “Io per la verità – è una sola cosa” disse “siamo fratelli”. Emily Dickinson Editoriale – Avviso di Fine serie Les meilleures choses ont une fin, recita un adagio francese, ma in realtà questo è il destino di tutte le intraprese umane, da quelle apparentemente grandi alle piccole. E allora anziché rattristarci facciamo festa, prepariamo una Festschrift online come quella che state iniziando a leggere e che abbiamo predisposto invitando una serie di collaboratori a darci un loro pezzo ad libitum, in cui figurasse però il termine “interstizio”. Con questo trentesimo numero speciale il nostro NewsMagazine conclude la sua Prima serie che si è consolidata in più di un decennio di emissioni online articolate attraverso alcune aree e rubriche specifiche. Complessivamente sono stati pubblicati più di 400 pezzi ad opera di oltre 160 autori diversi, per un insieme stimato di circa 1 milione di caratteri. È in progetto la redazione di un nuovo Index & Thesaurus (dopo quello stampato nel 2011 e relativo ai numeri 1-21), che dovrebbe dar conto dell’insieme dei 30 numeri e dell’attività collaterale svolta, oltre che contenere alcuni scritti di sintesi. Mi sia consentito, per una volta, sottolineare le citazioni in esergo di poeti e autori che accompagnano sin dai primi numeri i miei editoriali. In questo numero, eccezionalmente, la citazione è duplice e riguarda due grandi autori dell’Ottocento. John Keats nel celebre finale della sua Ode su un’urna greca ed Emily Dickinson in una delle sue poesie più folgoranti dicono la stessa cosa, intuiscono cioè la profonda consonanza tra Verità e Bellezza. Non sembri retorico affermare che, anche per un’intrapresa di nicchia delle scienze umane come quella degli Interstizi & Intersezioni, la ricerca della verità che accade nel sociale – specialmente di quella che non è facilmente visibile - e l’attrattiva della bellezza del mondo nelle sue diversissime forme sono state la bussola che ne ha orientato la ricerca scientifica, umanistica e di documentazione relativa. Mi auguro che l’impresa possa continuare con nuove forme, di cui parla anche Cristina Pasqualini nell’articolo immediatamente seguente. I nostri lettori e collaboratori, che ringrazio vivamente insieme ai corrispondenti italiani ed esteri che ci seguono da anni e ci onorano con la loro fiducia, saranno tenuti al corrente degli sviluppi e potranno comunque contattarci per ogni informazione. Un grazie particolare a tutti coloro che con scritti, fotografie e disegni hanno collaborato a questa Festschrift per gli Interstizi & Intersezioni. Gi(ov)anni Gasparini neXus

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Dipartimento di Sociologia Università Cattolica Gruppo

del Sacro Cuore – Milano Interstizi & Intersezioni

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sulla terra sapete, ed è quanto basta. John Keats

Morii per la bellezza – ma non m’ero

ancora abituata alla mia tomba quando un altro – morto per la verità –

nel sepolcro vicino fu adagiato. Piano mi domandò perché ero morta –

“Per la bellezza” – gli risposi – e lui: “Io per la verità – è una sola cosa”

disse “siamo fratelli”. Emily Dickinson

Editoriale – Avviso di Fine serie Les meilleures choses ont une fin, recita un adagio francese, ma in realtà questo è il destino di tutte le intraprese umane, da quelle apparentemente grandi alle piccole. E allora anziché rattristarci facciamo festa, prepariamo una Festschrift online come quella che state iniziando a leggere e che abbiamo predisposto invitando una serie di collaboratori a darci un loro pezzo ad libitum, in cui figurasse però il termine “interstizio”. Con questo trentesimo numero speciale il nostro NewsMagazine conclude la sua Prima serie che si è consolidata in più di un decennio di emissioni online articolate attraverso alcune aree e rubriche specifiche. Complessivamente sono stati pubblicati più di 400 pezzi ad opera di oltre 160 autori diversi, per un insieme stimato di circa 1 milione di caratteri. È in progetto la redazione di un nuovo Index & Thesaurus (dopo quello stampato nel 2011 e relativo ai numeri 1-21), che dovrebbe dar conto dell’insieme dei 30 numeri e dell’attività collaterale svolta, oltre che contenere alcuni scritti di sintesi. Mi sia consentito, per una volta, sottolineare le citazioni in esergo di poeti e autori che accompagnano sin dai primi numeri i miei editoriali. In questo numero, eccezionalmente, la citazione è duplice e riguarda due grandi autori dell’Ottocento. John Keats nel celebre finale della sua Ode su un’urna greca ed Emily Dickinson in una delle sue poesie più folgoranti dicono la stessa cosa, intuiscono cioè la profonda consonanza tra Verità e Bellezza. Non sembri retorico affermare che, anche per un’intrapresa di nicchia delle scienze umane come quella degli Interstizi & Intersezioni, la ricerca della verità che accade nel sociale – specialmente di quella che non è facilmente visibile - e l’attrattiva della bellezza del mondo nelle sue diversissime forme sono state la bussola che ne ha orientato la ricerca scientifica, umanistica e di documentazione relativa. Mi auguro che l’impresa possa continuare con nuove forme, di cui parla anche Cristina Pasqualini nell’articolo immediatamente seguente. I nostri lettori e collaboratori, che ringrazio vivamente insieme ai corrispondenti italiani ed esteri che ci seguono da anni e ci onorano con la loro fiducia, saranno tenuti al corrente degli sviluppi e potranno comunque contattarci per ogni informazione. Un grazie particolare a tutti coloro che con scritti, fotografie e disegni hanno collaborato a questa Festschrift per gli Interstizi & Intersezioni.

Gi(ov)anni Gasparini

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SOMMARIO

Editoriale – Avviso di Fine serie p. 1 di Gi(ov)anni Gasparini Interstizi: tempo di bilanci e di rilanci p. 3 di Cristina Pasqualini Feste come interstizi p. 4 di Francesca Rigotti Le bistrot: un espace interstitiel par excellence p. 4 di Marc Augé Il Corpus Domini a Cuzco: un “interstizio” politico-religioso andino (XVI-XVII sec.) di Ugo Fabietti p. 5 TRA, genealogia di una parola. Ricordi di ordinari interstizi p. 6 di Duccio Demetrio In uno spazio vuoto p. 8 di Piermarco Aroldi Immergersi nel solco profondo p. 8 di Gabrio Forti Non più e non ancora: la mia patria è un aereo? p. 9 di Francesco Mazzucotelli Un giorno senza cellulare p. 10 di Gianni Gasparini Interstizi di Alida Airaghi p. 11 Riflessioni interstiziali sotto forma di racconto di Giovanna Salvioni p. 11 Sottotetto di Marco Ermentini p. 13 Interstizi urbani p. 14 di Gianni Gasparini L’ironie sérieuse della comunicazione organizzativa di Antonio Strati p. 14 Il passaggio all’età adulta: un interstizio sempre più lungo p. 16 di Michela Bolis e Ivana Pais Lifelong learning: imparare negli interstizi p. 16 di Laura Balbo Le quotidien aujourd’hui p. 18 di Cristina Pasqualini Volti di Gerusalemme p. 19 di Claudia Mazzucato La tv interstiziale p. 19 di Nicoletta Polla-Mattiot

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Interstizi: tempo di bilanci e di rilanci Il Gruppo di lavoro Interstizi & Intersezioni opera all’interno del Dipartimento di Sociologia dell’Universit{ Cattolica di Milano, coordinato da Giovanni Gasparini. Fin dall’origine, esso ha coagulato attorno a sé, in maniera assolutamente naturale e gratuita, l’entusiasmo, l’interesse e la partecipazione di studiosi afferenti a discipline e a scienze diverse, proprio perché la vocazione che lo caratterizza è quella di ragionare, riflettere e fare ricerca sui fenomeni interstiziali della vita quotidiana con un approccio spiccatamente inter- e trans-disciplinare. Il terreno della vita quotidiana e dei fenomeni interstiziali si presta, potremmo dire quasi per sua stessa natura, a una lettura interdisciplinare, e dal confronto con competenze diverse – sociologiche, antropologiche, filosofiche, psicologiche, letterarie, ma anche economiche e giuridiche, solo per citare le principali – trae beneficio, ricchezza, vivacità, oltre che chiarezza e nuova conoscenza. Il 2014 rappresenta per il Gruppo una data significativa, un tempo di bilanci, poiché proprio quest’anno abbiamo festeggiato due ricorrenze. In primo luogo, sono trascorsi 15 anni da quando Gasparini iniziò a studiare in Italia, in maniera pionieristica, i fenomeni interstiziali, pubblicando il volume Sociologia degli interstizi, edito da Bruno Mondadori. Inoltre, proprio quest’anno il Gruppo Interstizi & Intersezioni compie 10 anni. Credo fermamente nel valore della memoria e per questo motivo provo a stilare alcuni primi bilanci, ripercorrendo brevemente la storia del Gruppo e le iniziative più importanti che ha prodotto nel tempo. Mi piace ricordare innanzitutto che il Gruppo degli interstiziali si costituì proprio in seguito al Workshop “Le piccole cose – Interstizi e teoria della vita quotidiana”, seminario organizzato da Gasparini in Universit{ Cattolica il 7 novembre del 2003, con il supporto dell’Associazione italiana di Sociologia – Sezione Vita quotidiana. Questo workshop suscitò molto interesse e curiosità tra intellettuali di appartenenza disciplinare diversa, oltre che tra alcuni giovani ricercatori, me compresa, tanto che pensammo di raccogliere questa energia allo stato nascente in un volume dedicato, Le piccole cose. Interstizi e teoria della vita quotidiana, curato da Gasparini, pubblicato nel 2004 dall’editore Guerini nella collana “Sociologia della vita quotidiana” diretta da Carmen Leccardi. Il Gruppo Interstizi & Intersezioni può vantare una intensa attività seminariale di elevato profilo culturale: mi limito a citare, oltre al primo Workshop già richiamato, quelli su Ecrire entre/scrivere fra. La scrittura tra letteratura, filosofia e scienze sociali, su Tempo e ritmo e sulla Creatività. L’ultimo incontro realizzato in ordine di tempo risale al novembre 2013 e ha avuto per tema La vita quotidiana oggi - Le quotidien aujourd’hui (cfr. il mio contributo Le quotidien aujourd’hui più oltre). Gli esiti dei primi due Workshop citati sono contenuti, tra l’altro, in due numeri monografici di Studi di Sociologia, rivista del nostro Dipartimento. Infine, come è stato ricordato nell’editoriale di questo numero, in questi primi 10 anni il Gruppo ha prodotto 30 numeri del NewsMagazine Interstizi & Intersezioni1, uno strumento “agile” di divulgazione di contenuti e iniziative, che si avvale di una rete internazionale di autorevoli corrispondenti, tra cui Marc Augé, Edgar Morin, David Le Breton, Maurice Aymard, Francois Cheng e molti altri. Ecco allora il tempo dei rilanci. Con l’approssimarsi dell’uscita del trentesimo numero, ho riflettuto e discusso a lungo con Gasparini se proseguire con questa modalità di pubblicazione o adottare altre soluzioni, come ad esempio trasformarla in una rivista online a tutti gli effetti, una rivista internazionale. Questa per noi rappresenta una sfida – dato che come è noto la crisi non ha risparmiato la ricerca scientifica e neppure il settore dell’editoria – ma anche un’opportunit{, perché riteniamo che ci sia la necessit{, in particolare nel panorama culturale italiano, di consolidare ulteriormente questi studi e offrire loro uno strumento scientifico di divulgazione e di confronto. In questa direzione intendiamo esplorare e impegnarci e vi terremo di certo aggiornati sui nostri progressi.

Cristina Pasqualini, Università Cattolica - Milano

1 Tutti i numeri del NewsMagazine sono consultabili al seguente indirizzo:

http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524

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Feste come interstizi2 Non so come abbiate vissuto voi il periodo delle feste di fine anno: io ne ho avvertito fortemente il carattere di sospensione, di interstizialità rispetto alla vita «normale». La festa è un tipico interstizio di tempo, una sorta di intercapedine tra due momenti o eventi. Interstizio inteso sia nel senso spaziale di elemento fisico che si trova in posizione intermedia tra due corpi o due parti, per esempio il sottile istmo che separa e unisce due ampie porzioni di terra; sia in senso temporale, come intervallo o interludio tra una situazione e l'altra, per esempio, durante un viaggio, il tempo della attesa o della sosta. Nonostante l'importanza e la pregnanza del momento interstiziale, come nel caso del tempo della festa, incastonato lì a separare e unire due periodi di lavoro, esso è stato di rado studiato dalla letteratura delle scienze sociali; se ho scelto di parlarne ora è per ricordare l'intuizione che ha portato il sociologo e poeta Gasparini (che firma come Giovanni le opere di sociologia e come Gianni quelle di poesia) a fondare la sociologia degli interstizi, ma soprattutto per celebrare l'imminente uscita del trentesimo numero della prima serie del periodico on-line «Interstizi & Intersezioni», ultimo della attuale forma di Newsletter, iniziato dieci anni fa. Con l'analisi dei momenti interstiziali si intende affrontare il problema del senso da attribuire ad alcune esperienze del quotidiano, piccole e ordinarie, si direbbe, nel gigantesco e globalizzato sistema di relazioni economiche e sociali della società contemporanea. Ma attenzione: piccolo e quotidiano non è qui sinonimo di trascurabile e di insignificante, né tantomeno di rassicurante, ripetitivo, monotono e ordinario; è un piccolo e quotidiano che viene assunto a livello di perturbante, miracoloso, sorprendente, stra-ordinario. Inoltre prestare attenzione agli eventi che stanno in mezzo, entre-deux, in-between, osservare Zwischenräume e Zwischenzeiten (termine che ci permettiamo di inventare) aiuta a comprendere la dinamica di relazioni e scambi tra centro e periferia, scena e sfondo, dettaglio e insieme: illuminante in questo senso è un brano de Le città invisibili di Italo Calvino, che Giovanni Gasparini usa proprio per illustrare lo scarto e il ribaltamento delle posizioni in relazione al mutare della prospettiva e degli interessi. E' il dialogo tra il cittadino della città di Cecilia e il capraio che gli chiede il nome della città dove si trovano: - «Come puoi non riconoscere la molto illustre città di Cecilia?» esclamò il cittadino. «Compatiscimi» – rispose il capraio – «sono un pastore in transumanza. Chiedimi il nome dei pascoli, li conosco tutti, il Prato tra le Rocce, il Pendio Verde, l'Erba in Ombra. Le città per me non hanno nome: sono luoghi senza foglie che separano un pascolo dall'altro...». - «Al contrario di te» - affermò il cittadino - «io riconosco solo le città e non distinguo ciò che è fuori...» (Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 158). Insomma, conclude salutandovi di cuore la vostra Francesca Rigotti, l'attenzione al carattere interstiziale delle cose spinge e abitua a operare sui confini e sui margini guardando la realtà a distanza: e questa è un'ottima condizione per meglio comprenderla.

Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana - Lugano

Le bistrot: un espace interstitiel par excellence Le bistrot est par excellence un espace interstitiel. Je sors de chez moi (par parenthèse voilà une expression qui mériterait d’être interrogée: chez moi) et je m’arrête un instant au bistrot du coin, où j’ai, comme l ‘on dit, mes habitudes. Le garçon, dès qu’il me voit, glisse une tasse sous la machine et met en route un noir serré. Puis il fait glisser vers moi, sur le zinc, la corbeille pleine de croissants dorés, si elle est à quelque distance, pose devant moi une petite assiette avec une serviette en papier, se retourne un instant et me sourit en me

2 Testo disponibile anche in versione audio all’indirizzo http://retedue.rsi.ch/home/networks/retedue/oggilastoria/2014/01/13/feste.html

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tendant la tasse de café: «Ça va ce matin?». Le tout n’a pris que quelques secondes. Je ne suis plus chez moi, mais pas encore ailleurs. Même chose au retour ou plutôt impression symétrique et inverse: à la vue du bistrot, je ne suis pas encore tout-à-fait chez moi, mais déjà plus ailleurs. Que je m’y arrête ou non, le bistrot est là, comme un signe de reconnaissance. Lieu intermédiaire? Pas seulement. Certes, il constitue comme un prolongement de l’espace domestique dans l’espace public (j’y jette chaque matin un coup d’œil sur le journal et échange parfois avec le même garçon quelques mots sur le temps qu’il fait) et, dans l’autre sens, une anticipation du retour chez moi (il ne faut pas que j’oublie de passer au pressing retirer ma veste). Mais il est aussi un lieu en soi, avec son décor et ses acteurs, avec son histoire. Il est un morceau de vie fiché dans la mienne comme dans celle de quelques autres, sans que pour autant nous constituions, par le seul fait de le fréquenter, une communauté, ni même une association ou un «collectif». Mes relations avec le patron ou les employés du bistrot sont facultatives et ne découlent pas d’un ordre symbolique a priori; elles sont aléatoires en ce sens, mais vécues consciemment , de part et d’autre, comme relevant d’une convention implicite. Les employés aussi, et des centaines de clients, ont leur vie à eux, dont j’ignore tout, { partir de laquelle ils imaginent, tout comme moi, ce que signifie leur présence dans le bistrot – interstice dont la signification, sans doute éminemment variable, se laisse donc percevoir à partir des loisirs des uns et du travail des autres. L’interstice: un lieu de lecture possible de ce que des individus partagent sans nécessairement le savoir – et où les notions de consommation, d’échange et de réciprocité se compliquent subtilement

Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi

Il Corpus Domini a Cuzco: un “interstizio” politico-religioso andino (XVI-XVII sec.)

Può un rito come la celebrazione del Corpus Domini trasformarsi in un interstizio in cui diventa possibile articolare simbolicamente un’opposizione, un’affinit{ e una gerarchia al tempo stesso tra i partecipanti? Quasi certamente sì. Nel Perù del XVI del XVII secolo, alla dominazione politica si accompagnò una sistematica pratica iconoclastica nei confronti delle immagini delle divinità locali da parte degli spagnoli. Le popolazioni reagirono operando una reincorporazione della simbologia e dell’iconografia cattoliche nelle strutture del pensiero religioso andino. La celebrazione della festa del Corpus Domini nella città di Cuzco, l’ex capitale dell’impero inka, metteva in scena una situazione basata in parte sul processo di incorporazione della iconografia cristiana e, in parte, su pratiche simboliche di distinzione, contrapposizione e assimilazione nei confronti degli spagnoli medesimi. In questa occasione, culminante nell’ostia portata in processione in un ostensorio e circondata da prelati e autorit{ coloniali, si instaurava infatti una contesa simbolica tra l’élite spagnola, i discendenti delle famiglie nobili di stirpe incaica e i rappresentati delle comunità andine un tempo sottoposte agli inka. Ognuno di questi tre gruppi vedeva infatti nel Corpus Domini qualcosa di diverso. Per gli spagnoli esso era il segno del loro trionfo politico e religioso. Se quello politico era scontato, quello religioso lo era però di meno. Il Corpo di Cristo doveva simboleggiare (secondo le indicazioni del Concilio di Trento) un “trionfo sull’eresia”, in questo caso l’ “idolatria” andina. Nelle intenzioni degli spagnoli il Corpus Domini doveva appunto sostituire la festa del solstizio d’estate, celebrata dalle comunit{ andine in onore della divinità solare simbolo della regalità incaica. Nel caso della celebrazione del Corpus Domini, però, i discendenti dei dignitari inka (spesso formalmente convertiti) sfilavano negli abiti di fattura andina, portando un disco solare di colore oro, emblema dell’Inka, il dio-imperatore. Rotondo come l’ostia racchiusa nell’ostensorio rifinito in maniera tale da ricordare i raggi promananti da qualcosa di simile al sole (in realtà lo Spirito Santo), il disco dorato impresso sulle vesti degli inka costituiva un segno di autoriconoscimento capace di conformarsi, e di opporsi allo stesso tempo all’ostia cattolica sul piano semiotico. Collocandosi in uno spazio interstiziale ambiguo, i discendenti degli inka potevano

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affermare la loro prossimità agli spagnoli e, al tempo stesso, distinguersi da questi ultimi grazie a un processo logico centrato sul concetto andino di tinkuy, il quale esprime sia l’antinomia sia la fusione dei contrari. Allo stesso tempo, però, i nobili inkari affermavano, con la loro “somiglianza” agli spagnoli, la loro distanza e superiorità nei confronti delle altre componenti della società peruviana che erano state precedentemente assoggettate all’impero incaico. Per queste componenti, la celebrazione del Corpus Domini divenne un’occasione per riaffermare la propria rivalit{ e contrapposizione agli inka da un lato e per ostentare, strategicamente, la propria “vicinanza” agli spagnoli (a fianco dei quali avevano spesso combattuto contro l’impero incaico). Come risulta da alcune testimonianze del XVII secolo, la rivalit{ “etnica” poteva tradursi in aspre contese tra gli ex-soggetti dell’impero inka e i discendenti delle famiglie nobili imperiali. Mentre infatti i nobili inka cercavano, attraverso un processo mimetico centrato sull’accostamento simbolico dell’ostia consacrata al disco solare di riaffermare la propria dignità di dominatori, i loro antichi sottoposti vedevano nelle celebrazioni del Corpus Domini la possibilità di rovesciare il rapporto: di affermare cioè la propria distanza dagli inka cercando con essi un confronto (per lo più simbolico, ma non solo) e di proclamare pubblicamente interstizialmente la propria vicinanza agli spagnoli nemici di questi ultimi. Anche dalla produzione pittorica del “barocco andino” (XVII secolo) raffigurante le processioni del Corpus Dominia Cuzco emerge come la complessa dinamica simbolica che veniva a instaurarsi in quell’occasione si sia riflessa nella disposizione dei personaggi all’interno dei dipinti, nelle loro fattezze diverse e dalle loro diverse vesti cerimoniali. Probabilmente la festa del Corpus Domini a Cuzco fu una di quelle situazioni nelle quali identità, concezioni religiose e visioni del mondo differenti trovavano, ciascuna a suo modo, un’occasione di esprimersi in maniera interstiziale. Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca

TRA, genealogia di una parola Ricordi di ordinari interstizi Interstizi, intercapedini, ovvero, fenditure, fessure. Parole alle quali chiedo ora di raccontarmi quando, e in quali circostanze, mi accadde di impararne il senso. Di apprenderle, facendone una diretta esperienza visiva e sensoriale. O quando iniziai ad usarle nelle mie scritture bambine e successive. Allorché, ad esempio, mi capitò di assimilare la melodiosa cantilena dei: di, a, da, in, con, su, per tra, fra. Ogni volta imbattendomi nel dubbio di scegliere quale di queste ultime congiunzioni avesse più a che fare con interstizi di ogni specie e con fessure di ogni spessore. È meglio dire, o scrivere: “Tra o fra due idee”? “Tra o fra due fratelli?” Tra o fra due case?” Ad ogni modo, quale fosse e sia la risposta esatta, occorrer{ capire se nel mezzo, in quell’evocativo intermezzo della cifra inter, c’è qualcosa o il vuoto. Il brusio o il silenzio, un tempo o uno spazio, un corpo o un ectoplasma, un amore o un’ indifferenza. E via di questo passo. Che ne potevo sapere, allora, che la vita è intrico di relazioni che si accendono, si spengono, sbiadiscono, si rendono clandestine, si fondono insieme? Che gli interstizi sono i luoghi non-luoghi intermedi, intermittenti, transitori del nostro stare al mondo e del mondo stesso? Tentando di mettere tra parentesi tutta la cultura interstiziale insegnataci da Gianni Gasparini, mi limiterò soltanto a ricostruirne i significati, di cui feci esperienza in illo tempore. Man mano che i tasti si muovono, come al solito, grazie alla scrittura - sia essa digitale o manuale - la memoria si snebbia: quale sia il comando che le inviamo. Sa esercitare un potere maieutico, sottile, intimo, durevole, ricompositivo sui nostri ricordi; si rende rabdomante di pensieri, sa ricucire brandelli del passato, sa infilarsi dove mai avresti potuto supporre. La scrittura ha bisogno degli interstizi: degli stacchi tra una parola e l’ altra, per riprendere fiato, per indurci ad immaginarne le omissioni, le censure, le frasi che non siamo riusciti ad inserire nel periodare e che attendono volentieri che qualcuno le

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collochi tra due parentesi, tra due righe, in un dizionario dei vocaboli dimenticati ed esclusi. Negli interstizi della mente dove si sono aggrovigliate. La parola orale non arriva mai a tanto, nemmeno sul lettino dello psicoanalista. Nella velocit{ dell’eloquio gli interstizi vengono annientati, a meno che non sia la lentezza discorsiva a ridar loro una dignit{. L’oralit{ inciampa in se stessa, dinanzi alle circostanze “concrete e vive” del nostro avvalercene solamente per discorrere, aggravando i reciproci malintesi, tracciando solchi incolmabili. Quando invece gli interstizi coltivati sono invece almeno un’ultima possibilit{ di intesa .La scrittura si insinua invece negli interstizi dei miei neuroni (ecco una prima immagine interstiziale, non male) risvegliandoli dall’ assopimento, ricomponendo tracce mnestiche che credevo ormai perdute. Le trattiene e consegna a chiunque voglia interessarsi ad esse. Se, poi, si tratta di andare alla ricerca di termini ascoltati, scoperti, appresi, in relazione ad eventi connessi al fare, più che all’essere, la penna - o chi per essa - si muove lestamente. Stiamo pur certi infatti che questi si saranno radicati nelle “segrete” della nostra coscienza. In attesa di essere risvegliati dalle evocazioni, fortuite o al contrario volontarie, di un pensiero autobiografico che, non accontentandosi delle parole sonore o del pensiero, cercherà la carta, un banale taccuino, per depositarle e per sentirsi autorizzato a ritenersi pienamente tale. Ed eccoci allora agli antefatti e ai fatti. la cui complicità mi permise di aver un iniziale contatto quanto mai tangibile con la nostra parola e i suoi sinonimi. Essa mi rinvia ad una persona, a un luogo, a gesti ripetuti. Mia madre, la nostra casa, le sue e le mie mani in azione. Lei con intenti pedagogici virtuosi o ricattatori, era solita chiedermi spesso di passare e ripassare lo straccio della polvere in quelle mattinate settimanali in cui correnti d’ aria, sbattimenti di tappeti, odori di cera, lenzuola alla finestra annunciavano il giorno dedicato ai “mestieri”. Mi affidava lo strofinaccio, mi mostrava i suoi angoli penduli, con il mandato perentorio di insinuarlo degli interstizi molteplici del pavimento; tra le scanalature dei divani, sotto i letti, nelle intercapedini tra un soprammobile e l’altro. Insomma, in ogni anfratto dove lei non riuscisse a penetrare, o non volesse giungervi, per mettermi alla prova. Non c’erano ancora infatti aspirapolveri in casa, che avrebbero aspirato ogni sudiciume inaccessibile. Se fossi entrato in possesso di un qualsiasi “folletto”, forse la storia di questa parola nella mia storia avrebbe avuto ben altre genesi. La cosa mi divertiva, credo per non più di quindici- venti minuti al massimo. Il premio, anzi la mercede devolutami, all’ insegna della legge umana del do ut des che però non avrei mai imparato del tutto a rispettare, consisteva poi nel portarmi a spasso nel pomeriggio. Il sistema premiante era il dono di tutti gli interstizi che ero riuscito a mondare. Mi sentivo importante, grande, avevo piena signoria su questi territori minuscoli e riposti; aiutavo nelle faccende domestiche e così facendo imparavo a esplorare ogni angolo. Immaginavo che in quelle fessure, nei diversi tra o fra del parquet si insinuassero i rappresentanti di una popolazione misteriosa: la tribù dei microbi, degli avanzi dimenticati, dei coriandoli di carnevale, di qualche anello smarrito. Sognavo di trovare degli interstizi salvadanaio: soprattutto se le pulizie avevano luogo dopo qualche festa di famiglia. Ripulire quindi gli interstizi da ogni impurità credo influisse non poco sulla mia acerba filosofia della parola. L’associazione con quanto di più sporco, infido, insidioso potesse riuscire a penetrare in casa nostra, dovette contrassegnare tuttavia non poco la interpretazione infantile di ogni spazio rimosso dall’attenzione dei grandi. Incominciava a piacermi quanto si presentasse irrilevante, superfluo, recondito. La caccia al sudiciume interstiziale, in verità un dono del cielo, mi avrebbe poi guidato verso luoghi ben diversi. A frugare nelle rughe e nelle pieghe della pelle, nelle tasche degli abiti, nelle pagine dei quaderni dove, dopo le pause della merenda, non mancavano neppure le strette insenature tra un foglio e l’altro: luogo deputato all’accoglienza di briciole e granelli di zucchero. Si trattò ad un certo punto però di scegliere se parteggiare o per le cose che si cercavano aiuto negli interstizi, oppure, per la loro funzione di protezione e nascondimento. Che ne sapevo a quell’et{ di inconscio? Eppure, l’istinto mi condusse a interiorizzare la nozione di ricovero ospitale per ogni prevedibile e inconsueta entità in fuga. Gli interstizi diventavano i luoghi ideali nei quali rifugiarsi in silenzio, per sfuggire ad occhi indagatori, a rumori molesti. Prendevo coscienza giorno dopo giorno che gli interstizi erano in me ora a

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trattenere la polvere del tempo, invitandomi a riporla con cura, ora a ricordarmi che anche la propria vita ha sempre bisogno almeno ogni tanto di una spolverata.

Duccio Demetrio, Università di Milano-Bicocca

In uno spazio vuoto

In uno spazio vuoto della città, qualcuno progetta un parco. In una nicchia, tra due colonne, erge una statua. Qualcun altro, tempo dopo, ne mozza testa e mani. Un altro ancora, dopo altro tempo, aggiunge un segno con la vernice spray. A chi passeggia nel parco, nell’interstizio tra le colonne, appare oggi un’intersezione di gesti: una domanda di compiutezza, una risposta sproporzionata, che ancora non basta.

Piermarco Aroldi, Università Cattolica - Milano

Immergersi nel solco profondo

In una pregevole recensione al volume Giustizia e Letteratura I (Vita e Pensiero, Milano 2012), primo della serie che raccoglie gli esiti del percorso di ricerca avviato nel 2009, a cura del Centro Studi ‘Federico Stella’ dell’Universit{ Cattolica di Milano, il filosofo Roberto Esposito riproponeva quello che chiamerei l’interrogativo “primigenio” (e tipicamente interstiziale) di ogni incontro tra diritto e letteratura. Cosa può mai congiungere il diritto alla letteratura? Un solco profondo sembra separare la fluidità senza confini della scrittura letteraria e la rigidità di un ordine giuridico volto a discriminare la condotta lecita da quella illecita (Diritto & castigo. Quando il romanzo detta legge: viaggio nella colpa, da Kafka a Camus, «La Repubblica», 27 dicembre 2012, p. 43). La domanda sembrava già racchiudere in sé un inizio di risposta e comunque indicare una strada per avventurarsi in un affascinante, quanto insidioso ‘regno intermedio’: ogni progetto di (ri)congiungimento gius-letterario deve soprattutto calarsi nel «solco profondo» che separa ‘mondi’ all’apparenza così alieni, e chiedersi se proprio da tale liquida striscia

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interstiziale non sia gi{ possibile attingere un po’ della «fluidit{ senza confini» che caratterizza la scrittura letteraria, per irrorare le terragne «rigidit{» dell’universo giuridico. Un’ipotesi di lavoro che ha ispirato la stessa denominazione del percorso di ricerca giusletterario menzionato all’inizio è che la Giustizia (o, propriamente, il potenziamento della domanda di Giustizia), sia almeno uno dei prodotti ‘chimici’ risultanti dalla ‘reazione’ prodotta con l’immissione del ‘fluido’ letterario e narrativo sullo strato (relativamente) rigido del diritto. E si tratta di una ‘reazione’ al contempo ‘endotermica’ ed ‘esotermica’, nel senso che essa rilascia nuove energie, ma richiede a sua volta l’immissione di energia per prodursi e il cui risultato sarà comunque la ridistribuzione delle componenti elementari delle ‘sostanze’ di origine. Accostarsi alla letteratura ha infatti richiesto fin dall’inizio, ai giuristi che vi si dedicavano, l’‘energia’ necessaria per venire interpellati da domande complesse, a volte inquietanti, certo mai rassicuranti. Ma ha anche permesso loro di subire la ricaduta delle ‘energie’ prodotte da questa operazione, ossia di vedere rimescolate o almeno portate onestamente allo scoperto le carte delle ‘categorie’ giuridiche, a volte troppo ordinatamente disposte sulla ribollente molteplicit{ dei ‘casi’ umani. Dopo un tale scambio di forze etiche e intellettuali, la Giustizia, come osservava Carlo Maria Martini in pagine memorabili (La giustizia della croce, in C. M. Martini - G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Torino, Einaudi, 2003, p. 55), anche se non si sarà comunque riusciti a definirla, avrà mostrato di essere «più forte del conflitto delle interpretazioni» e sempre capace di risorgere dalle «ceneri del suo dissolvimento nel fuoco dei ragionamenti contrapposti». Tra gli interstizi delle carte ben ordinate del giurista, che in parte la rivelano ma in parte la occultano, la Giustizia «c’è, si muove, emerge» e comunque va ricercata costantemente, asintoticamente, narrativamente. Del resto, come disse una volta lo scrittore austriaco Joseph Roth (lo ricordava Claudio Magris anni fa in un saggio magistrale, Lontano da dove, Einaudi, Torino 1971), il raccontare è un «atto di pietà e di salvezza». Gabrio Forti, Università Cattolica - Milano

Non più e non ancora: la mia patria è un aereo?

Cinque giovani ricercatori italiani che si incontrano a una conferenza internazionale. I discorsi scivolano sulla ricerca, sui pensieri e le ansie delle precarietà, sulle delusioni di un paese che non è fatto per i giovani. Poi si finisce a parlare dei luoghi che ci hanno accolto: ma tu dove ti senti di più a casa? La ricerca in un altro paese è un’esperienza meravigliosa. Il tempo scorre in modo diverso. Vivi con maggiore pienezza le ore e i giorni: è come se riuscissi a succhiare la linfa della vita con la pienezza delle tue forze. Certamente incontri persone e compi esperienze fuori dal comune. Ciascuno di noi ha strategie diverse per arginare la schizofrenia, ma ancor più per resistere all’inevitabile delusione del ritorno, quando rientri in uno spazio e in un tempo scanditi dalla routine banale di ogni giorno. Come scrisse Aldo Busi in un Seminario sulla gioventù: “A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi?” Qualche giorno fa, sono stato a Coira. Al ristorante, la cameriera Alma ha detto: “Ho vissuto per nove anni a Phoenix, Arizona. Quando vivi per nove anni in un posto, non puoi non chiamarlo casa.” Sintesi perfetta. Per me casa è il quartiere dove sono cresciuto e dove ora abito. Non so se ho scelto io per davvero o se la vita ha scelto per me, ma sono contento di mettere le radici in questo luogo. Per me casa è anche il quartiere in cui ho vissuto per lungo tempo a Beirut. Mi sento a casa ogni volta che torno. Riconosco il lastricato per strada, i cavi della luce, la bougainvillea che esce da una recinzione, l’odore di aglio e coriandolo, la ragazza con il velo islamico che si esercita al pianoforte e al violoncello al pomeriggio, gli spazi, gli interstizi, tante cose che mi disturbano quando sono “lì” e che mi mancano tremendamente quando sono “qui”. La porta Mandelbaum è un racconto di Émile Habibi, deputato comunista palestinese nel parlamento israeliano, tutto giocato sul rapporto tra un “lì” futuro pieno di incognite e un “qui” che si lascia alle spalle, intriso di nostalgie: la patria è il mortaio in cui preparare le polpette e la vasca in cui hai fatto il

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bucato per tutta la vita. “Qui” o “lì”? Alla fine, il posto in cui mi sento più tremendamente a casa non è né qui né lì. Il posto in cui mi sento più a casa è l’aereo che mi porta da Milano a Beirut. Strano. Gli aeroporti sono considerati sempre l’archetipo del non luogo. È vero. Ma l’aereo, no. È sempre un luogo di incontri. Ogni passeggero ha una storia interessante da raccontare: basta che ti togli le cuffie dalle orecchie. Intersezioni di partenze e di arrivi. Mi piace terribilmente quella sensazione di sospensione. Dove quello che hai lasciato alle spalle è passato, ma non abbastanza passato per essere trasfigurato dalla nostalgia e dall’assenza. Dove quello che hai davanti a te è futuro, ma un futuro a portata di mano. Dlin dlon. Stiamo volando sopra Cipro. Il campanello annuncia che stiamo iniziando la discesa. Allacciare le cinture. Come nella chiusura del romanzo La traduttrice di Rabih Alameddine: “Inspiro profondamente, l’ossigeno dell’attesa.”

Dedicato a Paolo, Erica, Viviana, Francesco, a Michal, al cameriere Emilio, alla musica di Lena. Una serata nel giardino dei limoni, una di quelle serate che si ricordano per tutta la vita. Francesco Mazzucotelli, Università di Pavia

Un giorno senza cellulare Per le nuove tecnologie non nutriva grande simpatia, ma si era adattato ad usare anche lui un telefono cellulare: non certo uno smartphone con internet ma un semplice samsung a conchiglia di quelli à la page sette-otto anni fa, che non aveva mai voluto cambiare nonostante le condizioni deprecabili della parte superiore e che utilizzava con i familiari e pochi amici a cui aveva dato il suo numero. Diceva di preferire al cellulare il telefono fisso dell’epoca di Meucci e Bell, o al limite le comunicazioni più rallentate della posta elettronica. Ma, alla fine, il cellulare lo usava sempre di più anche lui,. Era inevitabile, vivendo nella società della rete. Una domenica decise di fare un esperimento che gli parve coraggioso: astenersi per un giorno intero dall’uso del cellulare oltre che del computer, passando la giornata fuori casa. Sarebbe stato uno stacco, un interstizio di un giorno soltanto nel flusso inarrestabile della comunicazione. Si alzò presto e mentre i familiari dormivano scrisse un biglietto in cui avvisava che da mattina a sera sarebbe stato irreperibile: lasciò il telefonino bene in vista su un mobiletto dell’ingresso, e uscì accolto da una spessa nebbia. Le prime ore passarono tra una specie di esaltazione e vecchi tic. Per strada ogni cinque minuti si tastava addosso e si chiedeva in quale delle dodici o tredici tasche di pantaloni-giacca-cappotto avesse deposto lo strumento, e se lo avrebbe sentito qualora avesse squillato con il suo inconfondibile motivo vivaldiano: poi si ricordava con un sospiro di sollievo che il cellulare era rimasto a casa. Sopravveniva una sorta di momentanea euforia, alternata con la preoccupazione che chi avesse voluto comunicare con lui non avrebbe potuto farlo in quel giorno speciale. E poi, a dire il vero, si sentiva inerme in un mondo di gente armata, nudo come un verme di fronte agli incerti della vita quotidiana: come avrebbe fatto se avesse dovuto chiamare urgentemente un pronto soccorso, o se gli fosse successo qualcosa di sgradevole per strada? Senza contare che, ora che si era messo a guidare la macchina, avrebbe sempre potuto capitargli un incidente, e allora il telefonino sarebbe servito. Last but not least, non poteva neppure chiamare nessuno dei suoi amici per augurargli buona domenica, come era solito fare a voce o con un sms. Ad ogni modo, superate dopo qualche ora le ansie da deprivazione telefonìnica, cominciò a sentirsi meglio, come chi si affranca da una dipendenza compulsiva. Notò con piacere che non perdeva più il tempo quotidianamente dedicato a cercare il cellulare nelle tasche o nelle borse, specialmente quando squillava per strada o in metrò. Un altro vantaggio collaterale consisteva nell’abolizione degli sms: ne veniva di rimbalzo una rivalutazione della scrittura a mano su cahiers, agende, schede, pezzi di carta e post-it, e secondariamente un possibile incremento della corrispondenza per lettera, con tanto di buste e francobolli. Ma soprattutto poteva inaugurare in quella domenica un nuovo stile di relazioni che sarebbe stato soltanto faccia a faccia, di persone e corpi che s’incontrano in uno spazio fisico e non

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virtuale. E poi ne sarebbero venute – pensava - energie rinnovate per godere della concentrazione e del silenzio. Ora attraversava un parco cittadino: molti camminavano parlando al cellulare a voce alta, altri facevano jogging o erano seduti con qualcosa che pendeva dall’orecchio per ascoltare musica. Nonostante la sua buona volontà, non riuscì a stabilire alcun contatto diretto con chi lo sfiorava fisicamente ma era altrove, chiss{ dove, con la mente e l’attenzione. Decise di andare a trovare una vecchia amica che conosceva nel quartiere. Arrivato davanti al portone, si accorse di non avere il codice di accesso: cercò automaticamente il cellulare per chiamare, ma subito si ricordò di esserne privo. Ripiegò su una seconda conoscenza: qui il citofono recava in chiaro il nome, ma nessuno rispose. Gli sembrò un segno che non si possono più fare le improvvisate, quelle sorprese di quando suonavi alla porta di qualcuno che non ti aspettava e che ciononostante ti sapeva accogliere a braccia aperte. Il sole invernale era tramontato con un ultimo dardo rosseggiante, quasi un interstizio colorato tra le caligini incombenti, e anche il suo esperimento di digiuno telefonico era al termine. Rientrato a casa, trovò il samsung sul mobile dove lo aveva deposto. Lo prese in mano e lo aprì, ansioso di vedere gli sms arrivati, le chiamate senza risposta di chi lo aveva cercato, i messaggi lasciati in segreteria. Nulla. Nessuno lo aveva chiamato. Nessuno si era accorto della sua assenza per un giorno dai flussi planetari della rete. Si lisciò la barba brizzolata e si mise a ridere. Rideva, rideva di gusto. Anche il cellulare – ora l’aveva capito - è una roba da ridere. Gianni Gasparini

Interstizi Se, tra asse e asse di una staccionata rimangono fessure, magri interstizi da cui scrutare l'oltre, e ciò che si nasconde: non per spiare, no; ma in modo che lo sguardo indaghi altre radure, indizi del diverso... Appoggiamo la fronte, osserviamo l'aperto. Di là dall'orizzonte non c'è solo deserto.

Alida Airaghi, scrittrice

Riflessioni interstiziali sotto forma di racconto Era sempre vicino al campo di grano che si fermava a pensare, seduto su una panca, abbastanza malandata, che chissà come era stata sistemata lì. Non un pensare definito e faticoso, ma un lasciarsi andare a mille pensieri intrecciati e indistinguibili, dolci nell’atmosfera quasi estiva e densa di forza. Talvolta,all’improvviso, anche angosciosi, quando un semplice suono lontano o un minimo cambiamento di luce facevano emergere l’oscurit{ che sta nel fondo di ognuno di noi, dando corpo all’impressione di non avere più tempo, di non essere stati, di non poter essere mai, in una struggente volontà di annientamento calata nel nulla. C’erano anche i ricordi. Volti e sentimenti trattenuti dentro che aspettavano solo di espandersi. Una vita, la sua, in profondità, ma sempre a margine, un margine pesante, una esclusione. Senza un vero perché, o forse per la sua diversit{, che tra l’altro non si esprimeva a voce alta e battagliera, ma mitemente, quasi chiedendo scusa. Ma a un certo punto si era impuntato, e aveva deciso di tornare ad essere quello che era ed era stato, di

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recuperare idealismi e convinzioni da cui si era separato pensando (quanto si era sbagliato!) di dover andare incontro ad altri anche a costo di sacrificare la propria essenza più vera. Il sole era caldo sulle guance e sul collo, un’aria leggera passava sopra le spighe piccole e verdi. Quando il grano del campo fosse maturato… Ma era un futuro così vicino e dunque fragile! Eppure era come una promessa, quando il grano fosse maturato… Come se quel sole e quella brezza fossero in grado di fare magie, di aiutarlo a capirsi e a capire l’esistenza delle cose. Nel campo l’aria giocava leggermente sul tappeto di spighe. Il suo fruscio come una eco di mondi lontani o alieni, di benevoli misteri irrisolti. Come una mano carezzevole sulle guance, come un richiamo infinito verso un infinito trasparente e giocoso. Il campo sarebbe diventato una distesa fulva, ricca di sfumature dorate che avrebbero catturato la luce del sole. Forse non le avrebbe viste, forse non sarebbe più passato di lì, o comunque non si sarebbe più fermato. O forse no. Il ronzio di tante piccole vite lo acquietava sempre, esistenze quasi invisibili eppure animate da una grande e diligente voglia di vivere bene la propria forse unica giornata. Essere un moscerino, di una delle tante specie che gli stavano intorno, avvolto dal tepore del sole, appagato dalla microscopica porzione di cibo ingoiata, felice come il moto del cosmo, come il distendersi della polvere stellare. Eppure lui non era propriamente infelice. Forse era solo alla ricerca del senso delle cose. Perché qui e ora? Perché così e non altrimenti? Interrogativi che l’umanit{ si pone da sempre e che da sempre non hanno una vera risposta. Qualche volta passavano persone, sole o in compagnia. Persone frettolose che utilizzavano la scorciatoia,oppure mamme con bambini, nonni coi nipoti, ragazzi in gruppo. In quella atmosfera sospesa e pacificante era piacevole vederli e salutarli. E ascoltare brandelli dei loro discorsi. “Non dovevi uscire lasciandomi solo!”, “Ma se volevi scappare fin dal principio!!!”, “No, e non così, poi ho dovuto uscire anch’io!”. “Certo che la formica dorme….”. “Sono verdi perché non sono ancora mature. Poi diventano gialle, e coi chicchi si fa il pane. Tutti i pani!” “Ah, proprio adesso! Pronto, si, sto andandoci in tutta fretta. No, no.Ci risentiamo appena sono l{”. Anche il suo telefonino squillava, lo richiamava alla coscienza, con un motivetto gradevole e non invadente che sembrava perdersi e sfarsi nell’aria. Ma era soprattutto l’immobilit{ totale del suo corpo e del suo pensiero, a cui arrivava qualche volta, ad affascinarlo. Come se diventasse erba, come se diventasse terra, polvere, come se fosse l’ala di un grande uccello (forse un corvide, forse un rapace?), un refolo d’aria calda…..o l’azzurro del cielo, o una nuvola trasparente. Nel caldo immobile etere. In un interstizio di ricomposizione dell’universo. Presentendo la dolcezza della morte, niente altro che una grandiosa comprensione finale e un inizio di espansione gioiosa. Subito però si affacciavano nitide nella sua memoria, procurandogli una fitta in tutto il corpo, le migliaia di immagini di guerra che gli archivi ufficiali e quelli personali della nostra mente conservano indelebilmente; guerre passate o contemporanee, sempre immagini di corpi abbandonati in tutti i luoghi della convivenza civile e molto spesso nei campi, di volta in volta pieni di neve, con alte erbe, sabbiosi, con messi mature. Con spighe come quelle del “suo” campo, innocenti, a fare da letto e da cortina protettiva. Il male come una macchia sul sole, come una sete infinita, un inaridimento di ogni cellula vitale. Il male. E sentirsi impotenti. Immagini e pensieri si susseguivano, e per un tratto non c’era più calore, non più brezza, non più la dolcezza dello spaesamento, solo il buio senza appello. C’era in ogni caso una fine, come un risveglio all’improvviso, o addirittura un vero soprassalto per un rumore vicino. Passi, una voce alta, un richiamo, i clacson delle automobili sullo sfondo. E un sollievo timoroso. Che non cancellava la sensazione sterminatrice di avere sbagliato tutto e perso tutto, di non avere né consistenza né valore, di non avere più scampo.

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Ma le spighe verdi e gentili erano lì a rassicurarlo, sussurrando di una vita vegetale integra e piena di echi. E sarebbe venuto, nonostante tutto e sempre, il giorno nel quale, avvicinandosi, già da lontano avrebbe scorto un bagliore d’oro sotto l’oro del sole. Le spighe sarebbero state alte, robuste e flessuose. Allora avrebbe potuto, anche se per un tempo fuggevole, sentire nel cuore il canto del grano maturo, l’armonia della pienezza, le note soavi del puro e possente germinare: tutto sarebbe stato libertà e bellezza, fratellanza e giustizia tra cielo e terra e tutti gli esseri viventi.

Giovanna Salvioni, Università Cattolica - Milano Sottotetto Il tetto è un elemento di lunga durata e spesso è costituito da materiali, ad esempio vecchie travi di rovere lavorate ad ascia, che funzionano meglio rispetto a quelli nuovi. Inoltre è una parte dimenticata mentre è una vera e propria quinta facciata dell’edificio e un elemento importantissimo che ne permette la conservazione. Gli spazi dei sottotetti sono sempre interessanti: gli ambienti sono bassi e angusti, occupati da materiali vari, mobili dimenticati, vecchi bauli, cianfrusaglie, ricordi di famiglia. Nelle vecchie case dove non si buttava via niente sono veri e propri preziosi archivi della memoria, contenitori di cose segrete e preziose. L'accesso a volte è difficoltoso, spesso le finiture sono approssimative, insomma sono luoghi da esplorare in silenzio e con circospezione armati di una torcia facendo attenzione a non sbattere la testa. Sono veri e propri spazi interstiziali.

Disegno: Il sottotetto della chiesa di S. Maria in Bressanoro a Castelleone CR, attribuita al Filarete

Purtroppo di sottotetti non ce ne sono quasi più, la voracità immobiliare gli ha divorati e trasformati in redditizie e patinate mansarde abitabili. Sciagurate leggi emanate da una

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politica ingorda e nichilista ne ha decretato la fine: basta spreco di spazio, è finita la ricreazione, tutto deve rendere! Così si è persa la parte metafisica delle case, spesso la parte più preziosa e adatta al silenzio, alla contemplazione e ai pensieri alti; la riserva del pensiero delle case, il luogo dei sogni, Il luogo dove vedere più in là.

Marco Ermentini, architetto Interstizi urbani

Io ho un quaderno e un computer una matita e per la tastiera dieci dita come dieci mani per raccontarmi al mondo Io ho mille parole e anche di più per la strada parlo da solo fingo di essere al cellulare per tranquillizzare i passanti ho un amico immaginario come il cavaliere a cui scriveva il piccolo Pessoa per prepararsi agli eterònimi che sarebbero stati la sua ossessione e postmortem la sua fortuna (io prego per lui così infelice senza Ofelia) E così io vado per le vie di città cercando piccoli angoli di verde ritagli scampoli bribes interstizi tra i marciapiedi e le case dove spunti qualcosa di vivo e quando sono a casa mi concentro sul computer per una poesia che non esce con quei versi folgoranti che mi vennero all’incrocio mentre ero in macchina e dovetti ripartire così non potei annotarli erano bellissimi ma li ho dimenticati Gianni Gasparini, Università Cattolica - Milano

L’ironie sérieuse della comunicazione organizzativa Quando, l’anno scorso, usciva il mio libro La comunicazione organizzativa (Carocci, 2013), non immaginavo quanto mi avrebbero ancora appassionato i paradossi comunicativi delle interazioni tra singolo individuo, pluralità di organizzazioni e mondi virtuali. Una vicenda in particolare mi sembra curiosa da raccontare in questo numero speciale di “Interstizi”, perché è carica di una suspense a tratti grottesca che richiama anche altri temi

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che mi sono cari, quali la dimensione estetica, l’improvvisazione e il tempo delle dinamiche organizzative (vedi i NewsMagazine 5/2006, 11/2008, 17/2010). Inoltre, è una vicenda che avvalora le riflessioni critiche evocate con la metafora della comunicazione organizzativa in quanto contraddizione, prospettata da Linda Putnam e Suzanne Boys [‘Revisiting Metaphors of Organizational Communication’, in S. R. Clegg, C. Hardy, T. B. Lawrence, W. R. Nord (eds.), The Sage Handbook of Organization Studies, Sage, London, 2nd ed., pp. 541-76]. La metafora della contraddizione mette in risalto che la comunicazione organizzativa è autorità e incongruenza, comando e paradosso, controllo e incomprensione, dialogo e incompatibilità; in una parola, è un groviglio di tensioni e di linguaggi differenti che interagiscono dando fondamento alla quotidianità della vita di lavoro nelle organizzazioni. La vicenda è presto detta: una prestigiosa industria fotografica del Nord Europa intende ritirare dal mercato i primi esemplari dell’ultimo apparecchio fotografico professionale prodotto al fine di verificare e correggere l’esistenza di un difetto. Il tutto comincia con un email, quindi, in cui mi si avverte di ciò. Che fare, fidarsi di internet e del mondo virtuale? L’apparecchio è costoso, per cui chiedo conferma al servizio assistenza cui l’industria in questione mi ha fidelizzato. In verit{, avrei potuto chiedere al mio rivenditore di fiducia, ma sono a Parigi, mentre lui sta a Trento. Per questo, propongo all’operatrice del servizio clienti il ritiro a Parigi, pur se il mio profilo nei loro archivi elettronici è con l’indirizzo di Trento. Atto secondo:“Anche noi abbiamo i nostri problemi burocratici”. L’agenzia degli aeroporti di Parigi che provveder{ al ritiro deve innanzitutto consegnarmi la scatola predisposta dall’industria fotografica. Ma non si fa viva, in nessun modo, per giorni e giorni. L’operatrice del servizio clienti continua a darmi scadenze che vanno a vuoto e non sa come raccapezzarsi, dipende dalla ditta francese. L’intreccio di mail si arricchisce ora di telefonate internazionali. Finché una mattina, una telefonata: com’è che non mi hanno trovato a casa? È la ditta che deve provvedere al ritiro, certo; non quella di Parigi, bensì la sua omologa in Italia. Sono passati, a Trento, come previsto, anche se a mia insaputa. È il grottesco della comunicazione organizzativa? Fidarsi o temere il furto della costosa macchina fotografica? E poi, come hanno trovato il mio numero telefonico di Parigi? Glielo ha fornito un mio giovane collega, quando hanno chiamato in Dipartimento. Non trovandomi a casa, mi hanno cercato su internet, dove compaio per via dell’università. Il mondo del digitale è entrato appieno nella comunicazione organizzativa. Concordo allora una soluzione per quanto incerta a Trento: “Non le posso dire niente di sicuro sul ritiro” - mi si dice – “sa, anche noi abbiamo la nostra burocrazia!” Nulla di più sociologico, penso. Atto finale: All’unisono (o quasi). D’un tratto, i tempi organizzativi cambiano ritmi e cadenze: la ditta francese arriva, consegna la scatola, ritorna, ritira il pacco, lo consegna direttamente al reparto dell’industria fotografica che tempestivamente provvede alla manutenzione e me ne comunica tempestivamente le tappe. Sono circa le 16.00, appena rientrato a casa, a Trento, suonano alla porta, è il giorno della consegna come previsto. No, è l’operatore della ditta italiana, è venuto a ritirare la macchina fotografica. Che dire? Ironia della comunicazione organizzativa, non appena questi se ne va via per le scale, ecco che si apre la porta dell’ascensore e compare l’operatore dell’altra agenzia, la terza attivata: mi consegna la macchina fotografica revisionata. Ci sono volute più di tre settimane, una settantina di email, una decina di telefonate. Ma non è finita, la comunicazione organizzativa mi stupir{ ancora. L’indomani, sempre verso le 16.00, mi telefona l’operatore della ditta italiana: “È pronto il pacco da ritirare? No? Allora annullo l’operazione?”, mi domanda con un tono che mi sembra sinceramente preoccupato. Antonio Strati, Università di Trento e PREG-CRG, École Polythecnique - Parigi

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Il passaggio all’età adulta: un interstizio sempre più lungo Secondo l’ultimo Rapporto sulla Coesione Sociale che riprende dati Istat del 2012, i giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono in famiglia con almeno un genitore sono circa 7 milioni. Rispetto al totale, 3,8 milioni hanno un’et{ compresa tra i 18 e i 24 anni et{, ma ben 3,1 milioni sono giovani tra i 25 e i 34 anni. In altre parole, nel 2012, nella fascia d’et{ 25-34 anni, vivono ancora nella famiglia di origine il 52% dei maschi e il 35% delle femmine. Del resto, molte ricerche sottolineano che, dalla metà degli anni settanta in poi, con un’accentuazione negli ultimi anni, il passaggio verso la condizione adulta appare sempre più caratterizzato da una posticipazione di tutti gli eventi lifemarkers (in particolare, matrimonio e nascita del primo figlio) e dalla diffusione di un modello che prevede per i giovani un periodo interstiziale, di “moratoria” e, più in generale, una sostanziale reversibilità delle proprie scelte di vita. Se in alcuni Paesi europei la posticipazione del matrimonio si è tradotta in un aumento delle convivenze more uxorio e delle singleness, in altri, Italia compresa, tale modello si è concretizzato nella permanenza dei giovani nella famiglia d’origine, con un consistente innalzamento dell’et{ in cui si raggiunge l’emancipazione. La spiegazione del cosiddetto fenomeno della “famiglia lunga” è legata a una molteplicit{ di fattori: l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, le difficoltà incontrate dai giovani per entrare nel mondo del lavoro e la condizione di precarietà del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni. Certamente negli ultimi quattro anni l’effetto di questi fattori è stato anche accentuato da una congiuntura economica sfavorevole che ha contribuito a diffondere un senso di precarietà e di incertezza, pesando inevitabilmente sulla decisione di formare una famiglia. In realtà, né i processi di scolarizzazione superiore, né le trasformazioni del sistema occupazionale risultano in Italia più consistenti che nei paesi nord-europei, ma mentre in questi ultimi la posticipazione e la precarizzazione dell’inserimento lavorativo hanno trovato forme di compensazione in specifiche politiche pubbliche, che hanno introdotto nuovi elementi di sicurezza e quindi forme di autonomia economica dai genitori, in Italia questo non si è verificato e l’unica struttura che funzioni da barriera rispetto ai rischi di povertà e di marginalità sociale per i giovani continua a essere la famiglia. Da questo punto di vista, la specificit{ del caso italiano appare l’effetto più che delle trasformazioni del sistema occupazionale, del fatto che tali trasformazioni non si sono accompagnate ad un mutamento delle politiche pubbliche in grado di compensare, o almeno di attutire, i nuovi elementi di precariet{, portando a un inevitabile ampliamento temporale dell’interstizio del passaggio all’et{ adulta.

Michela Bolis e Ivana Pais, Università Cattolica – Milano Lifelong learning: imparare negli interstizi Lo diamo per scontato che nel vivere abbiamo molto da imparare: nell’infanzia, con la rapidità e la straordinaria creatività che hanno i bambini; si impara nelle varie fasi del percorso scolastico, questo lo si dà per scontato. E poi via via in esperienze formative di tanti tipi per accedere alle diverse collocazioni professionali; nella fase attuale, nel campo delle “nuove tecnologie”. Ma anche nel tempo libero si accede in tante forme ad occasioni di formazione. Dicendo lifelong learning (parola che da anni ricorre nel linguaggio delle istituzioni europee e internazionali) si porta uno sguardo diverso sul significato di questa esperienza, mettendo a fuoco soprattutto la fase della vita adulta: l’apprendere appunto va avanti nelle nostre vite e si realizza in tante forme. Si impara nelle scelte relative al percorso occupazionale (nelle circostanze del “lavoro” e anche, certo, del “non-lavoro”); in circostanze, che possono essere molto diverse ma che ci riguardano tutti, della vita pubblica; nelle vicende private, anche: la vita di coppia; i figli, poi i nipoti; i genitori, arrivati a quella fase del vivere che riguarda anche noi e che, a un certo momento, si fa vicina.

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Abbiamo il riferimento all’adult learning: dunque si tratta di fasi del vivere, e circostanze, caratterizzate da aspetti specifici del contesto attuale. Un dato certo più visibile che in epoche passate. E comunque ci interessa capire – e approfondire, anche; e forse ridefinire- appunto questo nostro imparare per come è emerso all’attenzione, e per come lo viviamo. Su come si formino le conoscenze e i saperi si è molto riflettuto, e sono temi al centro di studi di diverse discipline: in particolare le scienze della formazione, la psicologia, le scienze cognitive, anche la sociologia. C’è molto da mettere a fuoco. Aggiungo: non si è adulti tutti allo stesso modo. Siamo esposti, andando avanti nel vivere, a cambiamenti in parte prevedibili; ma anche a svolte inattese. Possono essere esperienze pesanti, dolorose. Ci sono momenti di svolta: in alcuni casi, certo, fortunati. Ci è richiesto di “attrezzarci”. Di saper affrontare, ridefinire: di imparare, dunque. Senza soluzioni preconfezionate, senza sicurezze rispetto a passaggi e sviluppi successivi. Vorrei dirlo così: si è collocati, nel percorso del vivere come in un complesso patchwork. Cosa prendere, cosa scartare, come orientarci: se accettare le divagazioni, le distrazioni, gli incontri fortuiti. Le svolte, le incertezze. Ci si trova a farsi domande a ridefinire la direzione e il senso del nostro vivere. Ci si ferma: anche di questo c’è bisogno. E poi si va avanti. Non si tratta di esperienze di singoli individui: è una dimensione collettiva. Guardando ai passaggi, alle scelte, a come via via ricostruiamo il percorso delle nostre vite, l’imparare è una dimensione centrale: però certo non l’imparare tradizionale (nella scuola, in istituzioni e fasi designate appunto a fornire risorse “formative”). Se e come si impara: è utile farci questa domanda. Imparare negli interstizi Ci sono molti possibili “incroci” tra la chiave di lettura che propongo e le analisi, le definizioni e gli approfondimenti che negli anni scorsi – con la messa a fuoco degli interstizi - ci sono stati proposti. Al centro, e questo tratto accomuna la dimensione interstiziale al lifelong learning, le esperienze della vita quotidiana. Richiamo alcune parole – meglio, dimensioni e riferimenti a condizioni del nostro vivere – che suonano come le più adeguate per la mia lettura dell’imparare: i passaggi, le frontiere, le soste; anche distanza, vuoto (Gianni Gasparini, La vita quotidiana. Interstizi e piccole cose, Cittadella, Assisi, 2009). Nell’insegnamento scolastico, e nei testi della “didattica” ufficiale, non li troviamo. Ma per il nostro imparare abbiamo bisogno, appunto, di metterli in luce: descrivono momenti ed esperienze della vita di ciascuno di noi. Non l’imparare come una strada dritta (e lunga, certo) davanti a noi. Ci sono le soste; anche, i vuoti. E si tratta di andare oltre frontiere e confini (o quelli che così vengono definiti nella cultura “ufficiale”. Ancora: in questo imparare, rendiamocene conto, si cambia (Laura Balbo, a cura di, Imparare, Sbagliare, Vivere. Storie di Lifelong Learning, FrancoAngeli, Milano, 2013). È un’esperienza che ciascuno nel suo vivere affronta (o invece sceglie di non affrontare). Nelle diverse fasi che siamo abituati a riconoscere come tappe di un percorso (l’infanzia, la giovinezza, la vita adulta, la vecchiaia, che si susseguono secondo un ordine, e con modalità, specifiche appunto di ciascuna fase) le molteplici esperienze degli interstizi sono tutte tasselli del nostro inevitabile, ma anche costruttivo, positivo, imparare e cambiare. Alcuni richiami ancora agli scritti sulla dimensione degli interstizi che tutto questo hanno reso visibile: “giocare”; “perdere”; “passare”; “sognare”; “mentire”, anche. Ci sono le “esperienze al margine” e i “mondi paralleli”. E si tratta di “trovare il punto di equilibrio”. Passaggi che tutti viviamo: un tessuto del vivere quotidiano che sperimentiamo, ed elaboriamo anche. Mi chiedo: ha senso continuare a guardare ai e alle “giovani”, alle e agli “anziani” (come li definiamo oggi)? Penso che sarà diverso, e forse più complesso, più interessante, osservare tutto questo quando a vivere i diversi passaggi saranno le future generazioni. Si arriverà forse a ridefinirla, la nostra adultità. Laura Balbo, Università di Padova

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Le quotidien aujourd’hui La vita quotidiana oggi è il titolo del seminario organizzato dal Gruppo Interstizi & Intersezioni in Università Cattolica di Milano lo scorso novembre 2013. Un tema di grande attualità per le scienze sociali, sul quale hanno dialogato magistralmente Marc Augé e Giovanni Gasparini, accompagnati nella riflessione da Ugo Fabietti. Da questo confronto internazionale ne è uscita ancora più rafforzata l’idea dell’importanza del quotidiano, inteso come ambito di studio “assolutamente degno di nota”, un “osservatorio privilegiato” in particolar modo per i cultori delle scienze umane e sociali. Strade battute in passato e possibili future piste di ricerca: di questo si è parlato. Se circoscriviamo lo sguardo all’Italia, non si possono non constatare i tanti esiti positivi conseguiti dalla sociologia della vita quotidiana in questi ultimi decenni. Si è compiuta una vera e propria svolta culturale, poiché è stata quasi definitivamente messa a tacere l’idea, così diffusa e radicata nella nostra cultura, che ciò che è quotidiano è residuale, marginale, poco importante, attendendo perlopiù alla sfera del privato. In realtà, sono sempre più persuasa che la vita quotidiana rappresenti oggi, non soltanto un oggetto interessante per le scienze sociali, ma anche un luogo dove indagare fenomeni diversi dal quotidiano, ma ad esso connessi. Questo per diverse ragioni. Innanzitutto, la nostra vita quotidiana negli ultimi dieci anni è stata interessata da cambiamenti molto significativi. Le trasformazioni sociali e culturali assieme alla crisi economica, ad esempio, hanno inciso e incidono anche sulle pratiche più semplici, sulle routine del nostro vivere. Il quotidiano oggi fa problema, è problematico. Occuparsi pertanto del quotidiano, e in particolare di fenomeni interstiziali della vita quotidiana – adottando una prospettiva di questo tipo –, richiama la necessità di un ribaltamento prospettico, ponendo al centro dei propri studi e interessi di ricerca anche ciò che è marginale, chi vive ai margini del sistema. Infine, una ragione mi è stata suggerita dal Commissariato Onu per i rifugiati – che ha lanciato i mesi scorsi un sondaggio sulle paure degli italiani e la nuova campagna Routine is fantastic per l’aiuto dei rifugiati – che rivaluta la routine della vita quotidiana e ci fa riflettere su quanto sia importante e per nulla banale per le persone. Questo si rende ancora più evidente se pensiamo a chi non ce l’ha, a chi non ce l’ha più, a coloro a cui le guerre e le catastrofi naturali l’hanno rubata, ingiustamente.

Penso in particolar modo alla vita quotidiana della popolazione siriana, stravolta dalla guerra che dura oramai ininterrottamente da tre anni. Penso ai tanti profughi scampati ai bombardamenti, che adesso vivono nei campi profughi allestiti nei confini della Siria. Penso alle famiglie che si riparano dal freddo in minuscole tende, alle donne che cucinano all’aperto il poco cibo che riescono a procurarsi. Penso ai bambini che corrono scalzi tra il

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fango vestiti di stracci, che non vanno più a scuola. Anche questa è vita quotidiana, per quanto sconcertante. E lo sguardo interstiziale arriva fin lì.

Cristina Pasqualini

Volti di Gerusalemme

“Tuttavia senti: ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all'estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell'ossicino, l'uomo verrà ricreato al momento delle resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l'ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercalo. L'ho dichiarato disperso finché l'ho visto... Subito quell'idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un'altra persona” (David Grossman, Che tu sia per me il coltello).

Claudia Mazzucato, Università Cattolica - Milano

La tv interstiziale C’è un paese dove il sole sorge su tutti i tetti, tranne uno. Un paese dove il tempo – non quello degli orologi, ma quello dei barometri – mette tra parentesi una e una sola casa, lasciandola senza. Senza luce, senza calore, senz’alba, senza tramonto, immersa nel ghiaccio perenne. Finché un omino strambo e solitario, che sa bene cosa vuol dire la mancanza, salverà la sua vicina di neve, senza dire una parola. C’è una piazza dove un uomo trascorre le sue giornate a guardare statue viventi, perfettamente mute e immote. A forza di contemplarle, un giorno, si innamora di una di esse, ma diviene a sua volta l’oggetto d’amore di un’altra statua immobile e palpitante, che lo guarda guardare la sua amata… Tre soldati si aggirano nel deserto, in piena notte, alla ricerca di un elicottero abbattuto dal nemico. Quando lo trovano, il pilota è sparito, ma ha lasciato un segnale per loro, che li conduce a un edificio circondato da truppe nemiche. Si introducono di soppiatto, cercando di non fare il minimo rumore, sperando di liberare il loro compagno. Appena dentro

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l’edificio, i tre soldati si trovano dinanzi a una scena incredibile: un uomo e una donna si sono rifugiati lì e giacciono addormentati, con un neonato in una mangiatoia ricoperta di fieno.

Si chiamano “Ten minute tales”, piccole storie da dieci minuti, affidate ad alcuni dei più noti registi e produttori riconosciuti ai Bafta e agli Emmy. Favole sperimentali, perché girate per una tv avvezza ai talent show e ai serial, ai quiz e ai rotocalchi, assai meno ai corti d’autore e ancor meno al cinema muto. Favole interstiziali perché raccontano la poesia e il valore del silenzio in un mondo sempre più rumoroso, dove s’incrociano sguardi ed emozioni senza bisogno di chiedere una parola che li squadri da ogni lato. Prodotti dalla BBC, sono stati un inaspettato successo in Inghilterra, al punto che ne verrà prodotta una nuova serie. In Italia sono andati in chiaro su LaEffeTv. Una scelta controcorrente, che usa le potenzialità comunicative del mezzo televisivo al servizio della sua negazione. In una società che ipercomunica, dire di meno è voler dire di più. Questi mini film muti si collocano “tra” cinepanettoni e kolossal, si pongono “di lato” o piuttosto “in mezzo”, occupando uno spazio infinitesimale, sono l’eccezione. Circondati da talk show e maratone di parole, musica e spot, si trovano in quel “mentre” in cui si può ascoltare con gli occhi, narrare senza voce, fermarsi per capire e capirsi in silenzio. Persino davanti a uno schermo tv.

Nicoletta Polla-Mattiot, Accademia del silenzio

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I nostri recapiti:

Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.2547

Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.3972

I corrispondenti:

Stefano Albarello, musicista (Musica); Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Domenico Bodega, Università Cattolica – Milano (Organizzazione aziendale); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, scrittore, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Gabrio Forti, Università Cattolica – Milano (Diritto penale e Criminologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, scrittore (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, medico (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana - Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facolt{ Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana - Lugano (Viaggio); Serena Vitale, Università Cattolica – Milano (Letteratura russa).

Il contenuto degli articoli è liberamente riproducibile citando la fonte.

Numero chiuso il: 3.03.2014