NEUROPROTEZIONE CLINICA: L’IPOTERMIA TERAPEUTICA · Sindrome post arresto cardiaco pag. 5 Cenni...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE CHIRURGICHE, ANESTESIOLOGICHE E DELL’EMERGENZA MED/41 TESI DI DOTTORATO NEUROPROTEZIONE CLINICA: L’IPOTERMIA TERAPEUTICA Candidato Relatore Dr.ssa Maria Martelli Prof. Francesco Giunta ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE CHIRURGICHE,

ANESTESIOLOGICHE E DELL’EMERGENZA MED/41

TESI DI DOTTORATO

NEUROPROTEZIONE CLINICA:

L’IPOTERMIA TERAPEUTICA

Candidato Relatore Dr.ssa Maria Martelli Prof. Francesco Giunta

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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Ringrazio il Dr. Francesco Forfori,

il Dr. Giovanni Gori e il Dr. Francesco Bresci

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INDICE

Introduzione pag. 4

Sindrome post arresto cardiaco pag. 5

Cenni storici pag. 7

Meccanismi fisiopatologici pag. 9

Effetti sistemici pag. 16

Termoregolazione pag. 22

Fasi del trattamento ipotermico pag. 25

Tecniche di raffreddamento pag. 28

Monitoraggio della temperatura pag. 32

Fattori predittivi di recupero neurologico pag. 34

Chi “raffreddare” pag. 42

Studio pag. 51

Risultati pag. 60

Discussione pag. 63

Limiti pag. 65

Conclusioni e Prospettive pag. 66

Bibliografia pag. 68

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INTRODUZIONE

La cardiopatia ischemica è la principale causa di morte nel mondo [1]. In Europa la

malattia cardiovascolare rappresenta circa il 40% di tutti i decessi sotto i 75 anni [2].

L’arresto cardiaco è responsabile di oltre il 60% delle morti tra gli adulti per patologia

coronarica [3].

Nel nostro paese le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la principale

causa di morte essendo responsabili del 44% di tutti i decessi.

Tra i pazienti inizialmente rianimati con successo, il danno anossico cerebrale è la

principale causa di morbidità e mortalità. Almeno l’80% dei pazienti che inizialmente

sopravvive ad una arresto cardiaco rimane in coma post-anossico per periodi più o

meno prolungati , circa il 40% entra in uno stato vegetativo persistente e la mortalità ad

una anno è pari all’80% [4].

Una volta ottenuto un ritorno di circolo spontaneo a seguito di una efficace

rianimazione cardiopolmonare si verificano a livello cerebrale complessi meccanismi

che portano ad un danno secondario da riperfusione con ulteriore perdita neuronale ed

un conseguente peggioramento dell’outcome cerebrale [5].

La Neuroprotezione è quel complesso di atteggiamenti e di strategie farmacologiche

messo in atto per contenere il danno encefalico secondario a trauma o ad eventi

ischemici [6].

In questi anni un grande interesse si è concentrato sulle strategie neuroprotettive; una di

queste è l’ipotermia terapeutica. Essa ha dimostrato di migliorare l'outcome dopo

arresto cardiaco tanto che l'European Resuscitation Council e le linee guida

dell'American Heart Association [7, 8] ne raccomandano l'uso dopo tale evento.

Dopo un periodo di ischemia, a livello cellulare avviene una complessa cascata di

processi che inizia dopo pochi minuti dalla lesione e prosegue per più di 72 ore; in

questa finestra temporale le lesioni cerebrali possono essere mitigate da trattamenti

quali l’ipotermia [4].

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SINDROME POST ARRESTO CARDIACO

Il ripristino della circolazione spontanea dopo un’ischemia prolungata di tutto il corpo è

una condizione fisiopatologica nata dal successo della rianimazione cardiopolmonare.

L’alta mortalità, in questi casi, può essere attribuita a un unico processo fisiopatologico

che coinvolge vari distretti. Sebbene l’ischemia prolungata di tutto il corpo sia nociva

per gli organi e per i tessuti, danni ulteriori si verificano durante e dopo la riperfusione

[9-10].

Negovsky ha dichiarato che una complessa fase di rianimazione inizia dopo l’arresto

cardiaco quando il paziente riacquista la circolazione spontanea [11] e, a tal proposito,

ha coniato il termine di “sindrome post arresto cardiaco”.

Secondo l’International Liaison Committee on Resuscitation (ILCOR) [173], tale

sindrome si articola in quattro componenti chiave:

- il danno cerebrale

- la disfunzione miocardica

- la risposta sistemica all’ischemia/riperfusione

- il processo patologico che ha causato l’arresto cardiaco

Il danno cerebrale dopo arresto cardiaco è una causa comune di morbidità e mortalità.

In uno studio di pazienti che sono sopravvissuti alla dimissione dalla terapia intensiva

ma che, successivamente, sono deceduti in ospedale, il danno cerebrale è stato la causa

di morte nel 68% degli arresti cardiaci extraospedalieri e nel 23% di quelli

intraospedalieri [12]. La particolare vulnerabilità dell’encefalo è attribuita alla sua

limitata tolleranza all’ischemia e alla sua risposta alla riperfusione. I meccanismi di

danno cerebrale innescati dall’arresto cardiaco e dalla rianimazione sono complessi e

includono l’eccitotossicità, l’interruzione dell’omeostasi del calcio, la formazione di

radicali liberi, le patologiche cascate di proteasi e le vie di segnale della morte cellulare

[13-15]. Molti di questi fenomeni avvengono in un periodo da ore a giorni dopo il

ripristino della circolazione spontanea. Istologicamente alcune subpopolazioni

neuronali selettivamente vulnerabili nella corteccia, nell’ippocampo, nel cervelletto, nel

corpo striato e nel talamo degenerano in un periodo che va da ore a giorni [16-17].

Dopo l’arresto cardiaco sono state segnalate sia la necrosi neuronale che l’apoptosi. La

durata relativamente prolungata delle lesioni a cascata e i cambiamenti istologici

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suggeriscono un’ampia finestra terapeutica per la strategia neuroprotettiva dopo arresto

cardiaco. Il prolungato arresto può essere seguito da un’insufficiente riperfusione della

microcircolazione nonostante l’adeguata pressione di perfusione cerebrale [18-19].

Questo flusso insufficiente può causare un’ischemia persistente e piccoli infarti in

alcune regioni cerebrali. L’occlusione microvascolare cerebrale che causa il fenomeno

dell’assenza di flusso è stata attribuita a una trombosi intravascolare che si verifca

durante l’arresto cardiaco e, in studi preclinici, si è dimostrata responsiva alla terapia

trombolitica [20].

A dispetto di una microcircolazione cerebrale inadeguata, macroscopicamente, nei

primi minuti dopo l’arresto cardiaco, la riperfusione è spesso iperemica a causa di

un’elevata pressione di perfusione e di un’autoregolazione cerebrovascolare

compromessa [21, 22]. Questo fenomeno può esacerbare l’edema cerebrale e il danno

da riperfusione.

Sebbene il ripristino del trasporto di ossigeno e dei substrati metabolici a livello della

microcircolazione sia essenziale, diverse evidenze suggeriscono che l’iperossia durante

le fasi iniziali della riperfusione possa esacerbare il danno neuronale attraverso la

produzione di radicali liberi e il danno mitocondriale [23, 24].

L’autoregolazione del flusso ematico cerebrale è compromessa subito dopo l’arresto

cardiaco. Durante il periodo subacuto la perfusione cerebrale non è più correlata

all’attività neuronale ma varia con la pressione di perfusione cerebrale [21, 22].

Nelle prime 24-48 ore aumentano le resistenze vascolari cerebrali e decrescono sia il

flusso ematico cerebrale sia il consumo cerebrale di ossigeno e glucosio. Sembra, da

alcuni studi, che durante questo periodo il flusso ematico cerebrale sia adeguato per

soddisfare la domanda metabolica [25].

Altri fattori che possono contribuire al danno cerebrale dopo arresto cardiaco sono la

febbre, l’iperglicemia e le crisi convulsive.

L’ipotermia terapeutica si inserisce nel trattamento della sindrome post arresto

rivestendo un ruolo chiave proprio nell’ambito della neuroprotezione e dimostrandosi

efficace nel ridurre la mortalità in ambito di cure post arresto cardiaco.

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CENNI STORICI

L’ipotermia a scopo clinico ha radici antiche; alcuni documenti ne testimoniano

l’utilizzo tra gli Egizi, i Greci e i Romani. [26-28]

L’interesse clinico cominciò a svilupparsi tra il 1930 ed il 1940 in seguito a

osservazioni e case reports che descrivevano situazioni di vittime di annegamento, in

condizioni di ipotermia, nelle quali le tecniche di rianimazione si erano dimostrate

efficaci anche dopo un periodo prolungato di asfissia [29].

Il primo studio scientifico riguardante l’utilizzo dell’ipotermia terapeutica in pazienti

con traumi cranici gravi fu pubblicato nel 1945 ad opera di un neurochirurgo, Temple

Fay [30].

L’ipotermia è stata successivamente utilizzata negli anni ’50 da Botterell durante

interventi di neurochirurgia per aneurismi cerebrali [31, 32] e da Bigelow in

cardiochirurgia per garantire un certo grado di neuroprotezione in interventi con arresto

di circolo completo in modo da consentire interventi intracardiaci con campo operatorio

esangue [33, 34].

Sempre durante gli anni ’50 Rosomoff ne dimostrò i benefici trattando dei cani con

ipotermia moderata durante o dopo un’ ischemia cerebrale e danno cerebrale traumatico

sperimentale [35, 36].

Benson et al. in uno studio pubblicato nel 1959 su Anaesthesia and Analgesia

descrivono l’outcome di 12 pazienti vittime di arresto cardiaco trattate con ipotermia

terapeutica [37]. La sopravvivenza nel gruppo di intervento è stata del 50% senza

riportare deficit residui. Nello stesso anno viene pubblicato uno studio da parte di

Williams et al. su Annals of Surgery che riporta un tasso di sopravvivenza nei soggetti

trattati pari all’83% contro il 25% dei non trattati [38].

Successivamente, negli anni ’60, Rosomoff insieme a Safar e contemporaneamente

Lazorthes e Campan cominciarono a condurre studi clinici su un piccolo numero di

pazienti [39, 40]. In questi studi veniva abitualmente utilizzata un’ipotermia

relativamente profonda (30°C o temperature inferiori). Risalgono a questi anni inoltre i

primi studi sull’ipotermia terapeutica dopo arresto cardiaco.

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Nonostante risultati promettenti ed incoraggianti questi esperimenti vennero con il

tempo sospesi a causa dei risultati a volte contraddittori e di problemi di gestione del

paziente in contesti privi di unità di terapia intensiva.

L’interesse nei confronti dell’ipotermia terapeutica si riaccese a partire dai primi anni

’80 quando studi sperimentali condotti su animali dimostrarono che i benefici di tale

trattamento erano tali anche a temperature meno estreme, comprese tra i 32 e i 35°C

con effetti collaterali minori rispetto al trattamento ipotermico profondo utilizzato nei

precedenti studi [41-45] .

Alla fine degli anni ’90 furono pubblicati due trials prospettici che hanno aperto la

strada a importanti trials clinici [46, 47].

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MECCANISMI FISIOPATOLOGICI

Si definisce ipotermia una temperatura centrale ≤ 35°C [29].

E’ necessario distinguerla tra “accidentale”, spontanea e non controllata, e “indotta”,

provocata tramite raffreddamento artificiale e controllata, messa in atto con lo scopo di

prevenire o attenuare varie forme di danno neurologico.

In base alla sua entità può essere classificata in [48]:

- lieve se la temperatura corporea è compresa tra 35°C e 32°C

- moderata se la temperatura corporea è compresa tra 32°C e 30°C

- profonda se la temperatura corporea è inferiore a 30°C

Gli esatti meccanismi fisiopatologici coinvolti nei meccanismi neuroprotettivi

dell’ipotermia sono ancora in parte poco noti; cercherò di prendere in considerazione i

principali.

Metabolismo

I meccanismi fisiopatologici correlati alla terapia ipotermica sono stati inizialmente

attribuiti al rallentamento del metabolismo cerebrale ed al conseguente ridotto consumo

di glucosio ed ossigeno.

Le richieste cellulari di glucosio e ossigeno si riducono del 5%-8% per ogni grado

Celsius di riduzione della temperatura [49]. In particolare è emerso che il consumo

cerebrale di ossigeno (CMRO2) diminuisce durante il trattamento ipotermico di circa il

6% per ogni grado centigrado di riduzione della temperatura e questo fenomeno

potrebbe contribuire a ridurre il rilascio di aminoacidi eccitatori e radicali liberi [50].

Nonostante questi dati, gli effetti protettivi del raffreddamento sono di una portata tale

da non essere spiegabili solamente con la sola variazione del metabolismo; altri

meccanismi potrebbero giocare dunque un ruolo importante.

Risposta immunitaria ed infiammatoria

Il danno cellulare indotto da ischemia stimola una serie di risposte immunitarie e

infiammatorie particolarmente rilevanti durante la fase di riperfusione.

Gli astrociti, la microglia e le cellule endoteliali, in seguito alla riperfusione, rilasciano

grandi quantità di mediatori pro-infiammatori come il tumor necrosis factor alpha

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(TNFα) e l’ossido nitrico, NO. I livelli aumentano a partire da ±1h dopo la riperfusione

e rimangono elevati per almeno 5 giorni stimolando l’accumulo di cellule

infiammatorie nel tessuto danneggiato e la comparsa di molecole di adesione sui

leucociti e sulle cellule endoteliali. L’infiltrazione leucocitaria che ne risulta può

aumentare l’estensione del danno tissutale attraverso l’azione fagocitica, la sintesi di

sostanze tossiche e l’ulteriore stimolazione di reazioni immuni.

Alcuni studi mostrano come una lieve ipotermia possa agire nelle fasi precoci tramite

un ritardo fino alla soppressione del rilascio di questi fattori microgliali.

Un possibile meccanismo potrebbe essere il ritardo dell’attivazione del NF-kB. Esso è

un fattore di trascrizione citoplasmatico che, se attivato, penetra nel nucleo cellulare

inducendo la trascrizione di vari geni codificanti i mediatori infiammatori dando così

inizio alla “cascata citochinica” [51, 52].

Un recente studio di Matsui et coll pone l’accento sul possibile coinvolgimento della

protein-chinasi mitogeno attivata p38. Gli autori hanno preso in esame cellule

microgliali in vitro e hanno dosato i livelli di TNF α, IL-6, NO confrontando i campioni

trattati con ipotermia (33°C) con quelli sottoposti a ipertermia (39°C). I risultati

mostrano una riduzione dei livelli di citochine e di p38 nelle cellule microgliali

“ipotermiche” suggerendo il ruolo dell’ipotermia nel ridurre l’attivazione di p38 e

conseguentemente la produzione di citochine p38- correlata. Il fenomeno è tanto

evidente che gli autori propongono di dosare il TNF α e NO per monitorizzare

l’efficacia della terapia [53].

L’ipotesi che l’ipotermia generi un’attenuazione della risposta infiammatoria è

confermata anche da uno studio in cui i livelli sierici di metallo-proteinasi della matrice

MMP9 sono ridotti nei pazienti trattati rispetto ai casi controllo [54].

Uno dei meccanismi di neuroprotezione dell’ipotermia potrebbe dunque essere spiegato

con il ritardo del picco e la riduzione dell’entità dell’espressione delle citochine

proinfiammatorie.

Il danno cellulare dopo un insulto cerebrale comporta l’attivazione dell’ossido nitrico-

sintasi neuronale e la conseguente produzione di ossido nitrico e perossinitrito con

danno al DNA.

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Con il trattamento ipotermico l’ attività della superossido-dismutasi, enzima

responsabile dello “scavenging” del superossido, aumenta e quella del NO-sintasi,

enzima responsabile della sintesi del NO, si riduce [55-57].

Protein-chinasi e geni

La normale attività neuronale è mediata da protein-chinasi molte della quali vengono

distrutte durante ischemia cerebrale. Quest’ultima, infatti, inibisce l’attività della

protein-chinasi II calcio/calmodulina dipendente (CaMKII), una proteina chiave che

media il fenomeno sinaptico e che partecipa alle funzioni di apprendimento e memoria

[58]. L’ipotermia attenua questo processo [59].

Essa inoltre riduce l’inibizione della protein-chinasi C (PKC) e la sua traslocazione

sulla membrana determinate da ischemia [60].

Il gene c-Fos che regola la risposta genetica dei neuroni è attivato dall’ ipotermia dopo

ischemia cerebrale transitoria [61, 62].

Questi studi sottolineano che la temperatura potrebbe avere profondi effetti sugli eventi

associati al danno cerebrale e anche sulla normale elaborazione dei segnali neuronali

coinvolti nel pensiero.

Eccitotossicità

Il termine eccitotossicità descrive il processo attraverso cui il glutammato ed altri

aminoacidi eccitatori causano il danno neuronale.

Lucas e Newhouse [63] hanno descritto per primi la tossicità da glutammato. Sebbene

esso sia il neurotrasmettitore più abbondante nel cervello, l’esposizione a livelli tossici

produce morte neuronale [64].

L’esposizione al glutammato produce danno neuronale in due fasi. Alcuni minuti dopo

l’esposizione, si verifica un rigonfiamento neuronale sodio-dipendente. In seguito

avviene una degenerazione ritardata calcio dipendente. Questi effetti sono mediati sia

da recettori ionofori, denominati in base agli specifici agonisti [N-metil-D-aspartato

(NMDA), kainato e acido α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isossazol-propionico (AMPA)],

sia da recettori legati al sistema del doppio messaggero, chiamati recettori metabotropi.

L’attivazione di questi recettori conduce all’ingresso di calcio attraverso canali sotto il

controllo di recettori oppure ne determina il rilascio dalle riserve intracellulari.

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L’aumento di concentrazione del calcio intracellulare è il fattore scatenante [65] di

numerosi processi che, attraverso una “cascata eccitotossica”, possono condurre al

danno o alla morte cellulare.

I recettori glutammatergici, AMPA e NMDA, sono modulati dall’ipotermia applicata

durante l’ischemia [66]. Globus e coll. [67] hanno dimostrato che l’ipotermia attenua

l’aumento dei livelli extracellulari di glutammato e dopamina dopo ischemia cerebrale

globale. Questi studi sono stati ripetuti in diversi modelli di ischemia indicando che uno

dei meccanismi principali attraverso cui la temperatura influenza la vulnerabilità

neuronale è quello di ridurre l’eccitotossicità neuronale [68, 69] che si verifica nelle

cellule cerebrali durante l’ischemia e la successiva fase di riperfusione, e di modulare

l’omeostasi ionica del calcio.

Apoptosi, caspasi e danno mitocondriale

E’ sempre più chiaro, da modelli sperimentali e dati umani, che le cellule morenti dopo

ischemia cerebrale globale o focale o dopo trauma cranico possono essere classificate

secondo una sequenza morfologica che va dalla necrosi all’apoptosi [70]. L’apoptosi è

una descrizione morfologica della morte cellulare caratterizzata da contrazione cellulare

e da condensazione nucleare, da frammentazione del DNA internucleosomale e dalla

formazione di corpi apoptotici [71].

Viceversa, la cellula che muore per necrosi mostra rigonfiamento cellulare e nucleare

con dissoluzione delle membrane. L’apoptosi necessita di una cascata di eventi

intracellulari per

portare a termine la morte cellulare: pertanto morte cellulare programmata è il termine

attualmente utilizzato per indicare il processo di morte cellulare che conduce

all’apoptosi [72].

Si ritiene che la morte cellulare programmata neuronale possa attuarsi seguendo due vie

separate: una che comporta l’attivazione di una famiglia di cistein-proteasi chiamate

caspasi [73] e l’altra caspasi indipendente [74].

Molti studi hanno mostrato come l’ipotermia sia in grado di prevenire o bloccare quei

processi che portano la cellula che ha subito un insulto ischemico all’apoptosi, agendo

probabilmente in uno stadio precoce del processo [75-77]. Questo effetto sembrerebbe

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mediato da inibitori dell’attivazione delle caspasi e dalla prevenzione della disfunzione

mitocondriale.

Radicali liberi

L’encefalo è un organo “aerobio obbligatorio”; quando l’apporto di ossigeno è inferiore

alla richiesta si determina una cascata di eventi che porta alla produzione di radicali

liberi dell’ossigeno come l’anione superossido (O2-), il diossido d’azoto (NO2-), il

perossido d’idrogeno (H2O2) ed il radicale idrossilico (OH-) che contribuiscono al

danno da ischemia-riperfusione. I radicali liberi inibiscono l’attività delle pompe

ioniche Na/K-ATPasi portando alla dissipazione dei gradienti transmembrana del sodio

e del potassio; sono in grado, inoltre, di ossidare le membrane lipidiche portando ad un

aumento della permeabilità e alla citolisi.

Esiste un sistema antiossidante di protezione cellulare che comprende gli scavenger

enzimatici, la superossido-dismutasi (SOD), le catalasi, la glutatione-perossidasi e i

sistemi non enzimatici. Le SOD permettono la conversione del superossido in perossido

di idrogeno, mentre le catalasi e la glutatione perossidasi trasformano il perossido di

idrogeno in acqua. Questo sistema antiossidante endogeno viene saturato rapidamente

in corso di ischemia severa [29].

L’ipotermia lieve può sopprimere lo stress ossidativo dopo un insulto rallentando la

formazione di radicali liberi e permettendo ai sistemi scavenger di assolvere la propria

funzione [78].

In particolare la produzione post-ichemica dell’anione superossido è attenuata da un

trattamento ipotermico moderato [79, 80].

Barriera ematoencefalica

Le alterazioni della permeabilità della barriera emato-encefalica (BBB) dopo un danno

ischemico acuto consistono nel passaggio, attraverso il sistema vascolare, di acqua,

elettroliti, sostanze di derivazione ematica e potenziali agenti neurotossici all’interno

del parenchima cerebrale. Molti studi hanno dimostrato l'importanza della temperatura

corporea e cerebrale sul distretto microvascolare dopo ischemia cerebrale e trauma.

Il contenuto d'acqua a livello cerebrale è notevolmente ridotto con l'ipotermia dopo

ischemia cerebrale focale [81, 82]. Alcuni studi hanno valutato questo aspetto con la

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risonanza magnetica dimostrando che, in corso da ipotermia, si verifica la riduzione del

coefficiente di diffusione dell’ acqua (edema cellulare) [83].

In studi su modelli di danno post-traumatico, il trattamento ipotermico riduce la

permeabilità della BBB probabilmente attraverso un’azione modulante sulle

metalloproteinasi, enzimi extracellulari che rivestono un ruolo chiave nella distruzione

della BBB [84].

Complessivamente viene riconosciuto all’ipotermia un effetto stabilizzante sulla BBB.

Thermopooling cerebrale

Alcune aree cerebrali, in condizioni fisiologiche, hanno una temperatura

significativamente più alta di altre. Tale fenomeno prende il nome di “thermopooling

cerebrale”. Questo “gradiente termico” può aumentare drammaticamente dopo un

insulto cerebrale tanto che la temperatura delle aree danneggiate può essere superiore di

2°C- 3°C rispetto alle altre zone [49].

L’ipotermia può essere utilizzata per prevenire o mitigare il thermopooling [85].

Attività elettrica cerebrale

Le crisi epilettiche sono comuni nel paziente con danno ischemico cerebrale.

L’ipotermia si è dimostrata efficace nel ridurre l’attività epilettica [49].

Flusso ematico cerebrale

Gli effetti dell’ipotermia sul flusso ematico cerebrale sono controversi.

Nel 1954 Rosomoff e Holaday [86] dimostrarono che un’ipotermia sistemica fino a

25°C riduceva significativamente il flusso ematico cerebrale. Tuttavia, uno studio

condotto da Kuluz e coll. sui ratti con un modello di raffreddamento selettivo cerebrale

a 30°C dimostrò che il flusso ematico corticale misurato con la flussimetria laser

doppler era aumentato al di sopra dei livelli controllo [87]

I cambiamenti cerebrovascolari secondari a raffreddamento sono importanti poiché la

riduzione del flusso ematico cerebrale a livelli critici potrebbe avere effetti avversi sulla

sopravvivenza tissutale e, conseguentemente, sull’outcome funzionale [49].

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Fig. 1, tratta da [49]

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EFFETTI SISTEMICI

L’ipotemia terapeutica comporta alterazioni fisiopatologiche che potrebbero dare

origine a effetti collaterali che, se non adeguatamente controllati, ne annullerebbero gli

effetti benefici. Molti di essi possono essere prevenuti o trattati grazie a un’elevata

qualità di cure delle terapie intensive (attento monitoraggio del bilancio idrico, stretto

controllo degli effetti metabolici come i livelli di glucosio ed elettroliti, prevenzione e

trattamento delle complicanze infettive etc).

Un adeguato trattamento ipotermico implica la conoscenza, prevenzione ed eventuale

trattamento precoce dei suoi effetti collaterali [88]. Essi dipendono in gran parte anche

dal grado e dalla durata dell’ipotermia indotta.

Complicanze cardiovascolari, ad esempio, sono rare per temperature superiori a 30°C

mentre il rischio di aritmie aumenta significativamente per valori inferiori ai 30°C,

limite invalicabile per una sicura applicazione del trattamento.

Il range termico ottimale è stimato tra i 31°C e i 35°C che corripsponde a un grado di

ipotermia lieve-moderata.

Gli effetti dipendono inoltre da fattori correlati al paziente quali l’età, la patologia

sottostante e le comorbidità.

Effetti cardiovascolari ed emodinamici

Inizialmente l’induzione dell’ipotermia, probabilmente a causa dell’incremento delle

concentrazioni plasmatiche di adrenalina e noradrenalina, porta a un aumento del

consumo di ossigeno a livello miocardico la cui conseguenza è quella di aumentare la

gittata cardiaca e la domanda di ossigeno [89].

L’ipotermia inizialmente determina quindi una tachicardia sinusale seguita poi da una

bradicardia dovuta in parte al diminuito metabolismo e in parte a un effetto diretto sul

miocardio. La bradicardia ipotermia-indotta porta a una riduzione della gittata cardiaca

ma, dato che il tasso metabolico diminuisce, anche l'equilibrio tra domanda e offerta è

di solito preservato e migliorato [90].

Il raffreddamento da 37°C a 31°C ha in realtà un effetto inotropo positivo con un

aumento dello stroke volume superiore alla riduzione della frequenza cardiaca che

induce [91]. L’ipotermia, dunque, non diminuisce la contrattilità miocardica né

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determina ipotensione se si mantiene una condizione di normovolemia e le prove

preliminari suggeriscono che può essere tranquillamente utilizzata in pazienti con shock

cardiogeno [90].

Variazioni dell’ECG sono comuni, ma, in contrasto con l’ipotermia profonda

(inferiore/uguale a 30°C), quella lieve-moderata non induce aritmie, anzi, l'evidenza

suggerisce che esse possono essere prevenute e/o più facilmente trattate in condizioni di

ipotermia [90].

Abitualmente, per temperature attorno ai 30°C, la prima forma di aritmia che compare è

una fibrillazione atriale che può essere seguita da flutter o fibrillazione ventricolare per

temperature inferiori a 28°C.

E’ pertanto necessario evitare durante il trattamento che si scenda al di sotto dei 30°C

dal momento che, sotto questa soglia, il rischio di aritmie aumenta in maniera

esponenziale.

L’induzione del raffreddamento può inoltre causare vasocostrizione periferica con un

evidente riduzione del letto vascolare [92] e aumento della pressione venosa centrale

(PVC).Viceversa, durante il riscaldamento, i vasi si dilatano, la PVC si riduce e il

paziente può diventare relativamente ipovolemico.

Pazienti in coma dopo arresto cardiaco spesso sono affetti da una sindrome simile alla

sepsi, “sepsis like syndrome”, in quanto gli alti livelli di citochine circolanti e la

presenza di endotossine nel plasma riducono le resistenze vascolari sistemiche [93.] In

queste persone l’ipotermia potrebbe portare un miglioramento della stabilità

emodinamica.

Studi invasivi ed ecocardiografici durante l’infusione di liquidi freddi per indurre

ipotermia hanno dimostrato che la stabilità emodinamica è preservata [94, 95].

Lo stato volemico, tuttavia, dovrebbe essere strettamente monitorato e sarebbe

opportuno anticipare, al momento del riscaldamento, l’infusione del volume aggiuntivo

necessario per mantenere a livelli adeguati la pressione sanguigna e la diuresi.

Esistono dei rischi di danno miocardico durante il trattamento con ipotermia terapeutica

in pazienti cardiopatici, specialmente nella fase iniziale di induzione, quando è

dimostrato un aumento della frequenza cardiaca e di conseguenza un aumento del

consumo d’ossigeno. D’altra parte esistono forti evidenze, provenienti da studi animali,

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che dimostrano che il trattamento ipotermico, condotto durante o a seguito a un infarto

miocardico, può ridurre la dimensione della zona infartuata [91].

Studi condotti da Mochizuki e coll. sul miocardio di ratti sottoposto a ischemia hanno

dimostrato che anche un’ipotermia lieve (34°C) indotta in ritardo, cioè subito dopo

l’inizio della riperfusione, ha effetto cardioprotettivo mediato da ossido nitrico e da

fosfatidilinositolo-3-chinasi con riduzione della dimensione dell’area infartuale del

ventricolo sinistro [96]

Poduzione di CO2

L’ipotermia riduce la produzione di CO2 e ne altera la solubilità. Pynnönen L,

Falkenbach P. e coll. [97] ne hanno studiato gli effetti concludendo che una

normocapnia ai limiti inferiori è associata a una riduzione della perfusione e

dell’ossigenazione cerebrale e che, viceversa, un valore superiore di pCO2 incrementa la

perfusione e diminuisce il valore di lattato cerebrale. Concludono che un controllo

rigoroso dei parametri ventilatori e della pCO2 è mandatorio durante il trattamento

ipotermico.

Coagulazione

Sebbene l’ipotermia moderata possa ridurre la funzione e la conta piastrinica e alterare

in generale la funzione coagulativa [98, 99] (si stima che essa si riduca del 10% per

ogni grado centigrado al di sotto dei 37°C), essa non risulta responsabile di

complicanze emorragiche negli studi condotti fino ad oggi; questi includono soggetti

con concomitante trauma o somministrazione di eparinoidi e inibitori della

glicoproteina IIb/IIIa [100, 101].

Le alterazioni dei parametri coagulativi sono tuttavia reversibili; essi, infatti, si

normalizzano con il riscaldamento [102].

Mendaci riguardo alla reale funzione coagulativa sono gli esami di laboratorio standard

che prendono in esame solo una parte della cascata coagulativa e che, riportando i

campioni ematici a 37°C, ne sovrastimano l’efficienza.

Per uno studio più veritiero sulla coagulazione bisognerebbe avvalersi del

tromboelastogramma (TEG) che considera la reale temperatura del paziente e che,

esaminando tutte le varie fasi della cascata coagulativa, ne mostra i “punti deboli”

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guidando in modo mirato l’eventuale somministrazione di plasma fresco congelato,

fibrinogeno, piastrine e fattori della coagulazione. Inoltre, grazie alla possibilità di

essere eseguito in parallelo con un campione contenente eparinasi, distingue tra

alterazioni coagulative proprie del paziente e quelle iatrogene indotte dalla

somministrazione di eparina a basso peso molecolare.

Non è da sottovalutare, infine, l’eventualità che il danno cerebrale dopo rianimazione

cardiopolmonare possa portare alla formazione di microtrombi e che questo fenomeno

potrebbe essere attenuato dall’effetto anticoagulante dell’ipotermia [49].

Tuttavia, la possibilità che l’ipotermia porti a un numero superiore di complicanze

emorragiche non è supportata dai dati emersi negli studi clinici [103].

Infezioni

Le infezioni raramente insorgono quando il periodo di raffreddamento è inferiore a 24

ore ma diventano più frequenti se esso si prolunga per oltre 24 ore. Sembra dunque che

le infezioni siano lievemente più comuni nei pazienti in fase post-rianimatoria

sottoposti a raffreddamento per 24 ore [104] ma non in quelli analogamente trattati solo

per 12 ore [105].

La diminuita sintesi di insulina e la relativa insulinoresistenza che si verificano in

seguito a trattamento ipotermico potrebbero contribuire a incrementare il rischio di

infezione.

L’incidenza di polmonite (circa il 50%) [106, 107] non è diversa da quella riscontrata

nei pazienti non sottoposti a ipotermia. [104, 108].

Diuresi

L’induzione del raffreddamento, portando a vasocostrizione periferica, riduzione del

letto vascolare e aumento della pressione venosa centrale, determina un aumento della

diuresi.

Questo fenomeno può esser particolarmente marcato nei pazienti con trauma cranico

rispetto ai pazienti con coma post-anossico dato che il diabete insipido e la

somministrazione di mannitolo possono esacerbare la perdita di liquidi.

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Ne consegue che lo stato volemico del paziente deve essere valutato e trattato

attentamente tenendo in considerazione il previsto aumento del letto vascolare con

riduzione delle resistenze periferiche che avviene durante la fase di riscaldamento.

Alcuni studi clinici, infatti, rivelano che la mancanza di attenzione verso questa

alterazione della volemia ha portato a spiacevoli effetti collaterali [109].

La diuresi iniziale, insieme agli scambi tra compartimenti intra ad extra cellulari, può

causare ipopotassiemia, ipofosfatemia, ipocalcemia e ipomagnesiemia in fase di

raffreddamento seguite da iperpotassiemia durante quella di riscaldamento [110, 111].

E’ necessario dunque garantire un attento monitoraggio ed eventuale correzione degli

elettroliti durante queste fasi di passaggio. Il magnesio, in particolare, sembra svolgere

un ruolo particolarmente importante nel prevenire il danno da riperfusione.

Vari studi sostengono che un supplemento di magnesio può svolgere un ruolo protettivo

e suggeriscono di mantenerne i livelli nella parte alta del range plasmatico in tutti i

pazienti con danno neurologico [112, 113].

Altri effetti metabolici

L’ipotermia diminuisce la sensibilità all’insulina e la secrezione di tale ormone

portando all’iperglicemia. L’iperglicemia è associata ad un aumentato tasso di infezioni,

di insufficienza renale, di critical illness neuropathy e a varie altre complicazioni,

mentre lo stretto monitoraggio dei valori glicemici all’interno delle terapie intensive è

associato ad una riduzione della morbidità e della mortalità [114, 115].

Durante la fase di riscaldamento è possibile che si verifichino condizioni di ipoglicemia

dal momento che la sensibilità all’insulina e la sua secrezione aumentano con

l’incremento della temperatura.

L’ipotermia porta ad una lieve acidosi in conseguenza dell’aumento del metabolismo

lipidico e alla produzione di glicerolo, acidi grassi liberi, chetoni e lattati e a un

innalzamento temporaneo e reversibile delle amilasi sieriche il cui significato non è

chiaro [7].

Brivido

Il brivido può comparire durante il trattamento ipotermico portando a un aumento del

metabolismo e alla produzione di calore [7].

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Può comportare, infatti, un aumento del consumo di O2 dal 40% fino al100% [116],

effetto poco desiderabile soprattutto in pazienti con danno neurologico.

In pazienti intubati e ventilati il brivido può essere contrastato con la sedazione ed

eventualmente con l’utilizzo di miorilassanti e magnesio solfato [129].

Clearance dei farmaci

L’ipotermia induce una riduzione della clearance della creatinina e altera la

farmacocinetica dei farmaci; quest’ultimo fenomeno è aggravato dal fatto che gli

enzimi che li metabolizzano sono altamente termosensibili.

La clearance di molte sostanze è dunque ridotta in corso di ipotermia e questo dovrebbe

indurre a diminuire proporzionalmente la dose somministrata.

Alcuni studi dimostrano che le concentrazioni plasmatiche e la durata di azione di

alcuni farmaci sono aumentati durante il trattamento ipotermico. Ad esempio i livelli

plasmatici di propofol risultano aumentati del 30% e quelli del fentanyl del 15% con

soli 3°C di ipotermia.

Tortorici et al. in un lavoro pubblicato nel 2007 su Critical Care Medicine hanno

documentato una riduzione importante dell’attività dei sistemi enzimatici basati sul

citocromo P450 ed hanno analizzato gli effetti su vari farmaci estesamente utilizzati in

terapia intensiva [117]. L’ipotermia terapeutica lieve-moderata diminuisce del 7-22% la

clearance sistemica dei farmaci metabolizzati dal citocromo P450 per ogni grado

centigrado al di sotto dei 37°C.

I prolungati effetti farmacologici potrebbero avere delle ripercussioni sui tempi di

risveglio ed estubazione [88, 118]. La potenza e l’efficacia di alcuni farmaci risultano

inoltre diminuite.

Controindicazioni all’applicazione dell’ipotermia:

Generalmente riconosciute ma non universalmente accetate: severa infezione sistemica,

insufficienza multiorgano, preesistente coagulopatia (la fibrinolisi non è una

controindicazione) [7].

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TERMOREGOLAZIONE

La termoregolazione è un meccanismo fisiologico che, tramite processi di produzione e

di dispersione del calore, tende a mantenere costante la temperatura dell'organismo in

un range di 36.8 ± 0,4 °C. In condizioni normali la temperatura corporea varia durante

il giorno, secondo un ritmo circadiano, di 0,6 °C risultando più bassa al mattino e più

alta nel tardo pomeriggio o in prima serata [119].

Nell'organismo la produzione di calore deriva dai processi ossidativi del metabolismo

energetico, dall’attività muscolare e dall’alimentazione. Le perdite di calore avvengono

in gran parte (70%) tramite irradiazione e conduzione e, secondariamente, attraverso il

sudore, la respirazione, la defecazione e la minzione. Ogni volta che si verificano

variazioni della temperatura ambientale l'organismo mette in atto risposte di tipo

somatico, endocrino, comportamentale e soprattutto neurovegetativo, attraverso le quali

vengono adeguate la dispersione e la produzione di calore. I meccanismi attivati dal

freddo sono l'attività muscolare (brivido), la secrezione di adrenalina, noradrenalina e

ormone tireotropo, la vasocostrizione dei capillari cutanei, l’orripilazione; essi tendono

a diminuire le perdite di calore. Al contrario sono attivate dal caldo la vasodilatazione

cutanea, la sudorazione e la secrezione ipofisaria di ormone tireotropo con conseguente

rallentamento del metabolismo e, quindi, della produzione di calore. L'insieme dei

meccanismi riflessi termoregolatori è integrato dall'ipotalamo. Nell'ipotalamo anteriore

esiste un centro termolitico costituito da un gruppo di neuroni sensibili ad aumenti di

temperatura di 1-2°C e capaci di reagire ad essi con l'attivazione dei meccanismi di

dispersione termica. Lesioni a livello dei nuclei dell'ipotalamo anteriore determinano

ipertermia. Nell'ipotalamo posteriore e laterale esiste un centro termogenetico, costituito

da neuroni che risentono delle diminuzioni della temperatura ambiente reagendo a esse

con l'attivazione dei meccanismi conservativi e produttivi del calore.

Per comprendere meglio la termoregolazione ricordo i meccanismi di trasferimento di

calore.

- L’irraggiamento è il trasferimento di calore tra le superfici separate di due elementi

con differenti temperature tramite radiazione infrarossa senza contatto diretto e

senza un mezzo di trasferimento interposto

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- La conduzione è il trasferimento di calore direttamente da una superficie ad un’altra

adiacente. La perdita di calore dipende dalla superficie di contatto

- La convezione è il trasferimento di calore dalla superficie all’aria circostante

- L’evaporazione è la perdita di calore tramite evaporazione di acqua ( nel nostro caso

da cute e polmoni)

Nel corpo umano, oltre che attraverso la produzione di sudore (evaporazione), la perdita

di calore avviene tramite la convezione, la conduzione e l’irraggiamento. La quantità di

perdita di calore dipende dal gradiente di temperatura, dalla superficie esposta e dalla

conduttività termica. Il grado di conduzione dai vasi sanguigni periferici all’esterno,

inoltre, dipende dal coefficiente di diffusione, determinato dalle caratteristiche del

tessuto. Ad esempio il tessuto grasso isola in misura tre volte maggiore rispetto al

tessuto muscolare; ne consegue che i soggetti obesi tendono a disperdere calore molto

più lentamente rispetto a quelli magri e, dunque, l’induzione dell’ipotermia in soggetti

obesi tramite raffreddamento esterno richiede tempi maggiori.

Riguardo al tessuto muscolare esistono ulteriori differenze tra vari gruppi muscolari

nell’intensità e nel tempo d’insorgenza del brivido: i muscoli del tronco, infatti,

presentano un’insorgenza precoce ed un’intensità maggiore del brivido rispetto ai

muscoli degli arti.

La capacità e l’efficacia dei meccanismi di controllo della temperatura corporea

diminuiscano con l’età. I pazienti giovani reagiscono precocemente e con maggiore

intensità ed efficacia ai cambiamenti della temperatura corporea rispetto ai pazienti più

anziani. Questi ultimi hanno inoltre un minore tasso metabolico, spesso un Body Mass

Index (BMI) inferiore e risposte vascolari meno intense (minore vasocostrizione).

Complessivamente l’induzione dell’ipotermia nei pazienti più giovani è più difficoltosa

e spesso richiede dosi maggiori di sedativi. A riposo ed in circostanze normali, il 50-

70% della perdita di calore nei pazienti svegli avviene tramite irraggiamento.

In pazienti sedati in terapia intensiva, la maggior parte della perdita di calore avviene

tramite irraggiamento e convezione. Quando si vuole raffreddare attivamente un

paziente di solito si tende a facilitare la convezione e/o la conduzione e il passaggio di

calore verso il compartimento periferico. La sedazione e l’eventuale impiego di

miorilassanti limitano l’insorgenza del brivido e, per riduzione delle resistenze

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periferiche, aumentano il flusso ematico verso la periferia facilitando il trasferimento di

calore dal compartimento centrale (tronco e testa) verso la periferia.

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FASI DEL TRATTAMENTO IPOTERMICO

Il trattamento ipotermico si articola in tre fasi: induzione, mantenimento e

riscaldamento [120] .

La fase di induzione inizia con l’avvio del trattamento ipotermico e finisce con il

raggiungimento del target termico stabilito.

Studi su animali dimostrano che il raffreddamento precoce porta a miglioramento

dell’outcome [121]. Nonostante il progresso tecnologico in materia di presidi per il

raffreddamento di superficie e l’introduzione di cateteri vascolari per il “core cooling”,

è richiesto ancora un periodo da due a tre ore per raggiungere la temperatura di 32°C-

34°C [88].

Studi su animali suggeriscono che il raffreddamento iniziato durante l’arresto cardiaco

potrebbe facilitare il ritorno alla circolazione spontanea [122, 123].

Diversi studi hanno dimostrato che l’ipotermia può essere iniziata nella fase

extraospedaliera [124] ma finora non ci sono sufficienti studi sull’uomo che correlino il

tempo di raggiungimento della temperatura target con un outcome migliore. A

conferma di ciò, uno studio di Wolff B e coll. [125] ha osservato che il rapido

raggiungimento del target termico era un fattore indipendente dall’outcome

neurologico.

Vale la pena comunque ricordare che nello studio HACA [104] continuavano ad esserci

effetti benefici sull’oucome rispetto ai pazienti normotermici anche nei casi in cui sono

state necessarie 8 ore per raggiungere la temperatura target. Tenendo in considerazione

quanto appena detto, Castrén e coll. [126] raccomandano di iniziare il trattamento

ipotermico, una volta presa la decisione di attuarlo, “as early as possible”, il prima

possibile.

Il tempo di induzione dell’ipotermia è correlato a fattori paziente-dipendenti (natura

della patologia sottostante, età, sesso, BMI, grado di vasodilatazione), alle misure di

prevenzione del brivido e della produzione di calore endogena e ai presidi utilizzati.

Il raffreddamento iniziale è facilitato dalla sedazione, eventualmente associata al blocco

neuromuscolare, che evita l’insorgenza del brivido [127] e facilita la vasodilatazione dei

distretti periferici con maggiore dispersione di calore. Anche il magnesio solfato,

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naturale antagonista del recettore NMDA, può essere somministrato per ridurre i brividi

[128].

Alcuni studi su animali [129], inoltre, dimostrano che esso fornisce un ulteriore effetto

neuroprotettivo in combinazione con l’ipotermia. Può essere infuso alla dose di 5

grammi in 5 ore in modo da coprire il periodo di induzione dell’ipotermia.

La fase di mantenimento è il periodo compreso tra il raggiungimento del target termico

e l’inizio del riscaldamento. La sua durata ottimale è sconosciuta. Molti studi, tra cui

HACA [104], hanno mantenuto la temperatura target per 24 ore, altri invece, come lo

studio Bernard [105], per 12 ore. Neonati dopo arresto cardiaco sono stati trattati per 72

ore ed è possibile che anche adulti con grave danno da riperfusione indotto da ipossia

possanno beneficiare di un trattamento più prolungato [130, 131].

Castrén [126] nelle linee guida scandinave del 2009 raccomanda di mantenere la

temperatura target per 24 ore.

Durante questo periodo è importante adottare un metodo efficace di raffreddamento che

mantenga la temperatura al target prestabilito evitandone pericolose fluttuazioni che da

un lato potrebbero inficiare il trattamento ipotermico e dall’altro esporrebbero il

paziente a temibili effetti collaterali.

La fase di riscaldamento è il periodo necessario, dopo il trattamento ipotermico, per

tornare alla normotermia. Anche in questo caso, così come durante il raffreddamento, le

concentrazioni plasmatiche di elettroliti, il letto vascolare e il tasso metabolico possono

cambiare rapidamente. Il ripristino della normotermia deve essere raggiunto lentamente

[132]. Diversi studi suggeriscono che, in ambito clinico, maggiore attenzione deve

essere posta sulla velocità di riscaldamento al fine di ottenere gli effetti ottimali dal

trattamento ipotermico. I benefici di un lento ritorno alla normotermia sono confermati

anche dalla letteratura relativa all'uso dell’ ipotermia nella chirurgia cardiaca e alle sue

potenziali implicazioni sull’esito neurocognitivo del paziente. Grigore et al. [133]

hanno dimostrato come un lento processo di recupero della normotermia dopo il bypass

cardiopolmonare si traducesse in una migliore performance cognitiva a 6 settimane

dall’intervento cardiochirurgico rispetto a quella osservata con un riscaldamento più

rapido.

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La velocità ottimale di riscaldamento non è nota, tuttavia attualmente in letteratura è

ritenuto valido un innalzamento di 0,25-0,5°C ad ogni ora. [134, 7]; in tal modo il

rebound ipertermico dovrebbe essere evitato.

Il ritorno alla normotermia può essere ottenuto in modo passivo interrompendo il

raffreddamento e coprendo il paziente, oppure con l’ausilio di device specifici, esterni

(come coperte e materassini ad aria calda etc) o invasivi (come infusione di liquidi

caldi, cateteri intravascolari etc).

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TECNICHE DI RAFFREDDAMENTO

L’uso dell’ipotermia nei pazienti dopo arresto cardiaco è universalmente accettato. Due

studi multicentrici randomizzati e controllati hanno dimostrato un significativo

miglioramento neurologico nei pazienti trattati con ipotermia dopo molte ore dal danno

neurologico e i cui ritmi d’esordio erano stati la fibrillazione e la tachicardia

ventricolare [104, 105].

Dati successivi su un gran numero di pazienti dopo infarto miocardico hanno mostrato

come la dimensione della zona infartuata risultasse ridotta nei pazienti che erano stati

raffreddati al di sotto di 35°C prima dell’angioplastica [135] suggerendo così che tempi

di raffreddamento più rapidi possano migliorare l’outcome dei pazienti.

Esistono numerose metodiche di raffreddamento che complessivamente possono essere

divise in due grandi gruppi: “non inasive” che agiscono tramite raffreddamento esterno

e “inasive” che agiscono tramite raffreddamento interno [136].

E’ verosimile che sia necessaria la combinazione di più metodiche per attuare il

trattamento ipotermico [126]. Non possono essere raccomandati specifici metodi dal

momento che vi sono solo pochi studi che ne comparano applicabilità ed efficacia [137,

138] e non ci sono dati che indicano che una particolare tecnica di raffreddamento

aumenta la sopravvivenza rispetto ad un’altra; tuttavia, i dispositivi invasivi consentono

un controllo più preciso della temperatura rispetto a quelli esterni [137].

Non invasive

- Impacchi di ghiaccio e / o asciugamani bagnati: semplici, poco costosi, utilizzabili

anche in ambito extraospedaliero. Richiedono più tempo per raggiungere la

temperatura desiderata, possono provocare ferite locali e lesioni da decubito, sono

poco efficaci nelle persone con un maggiore strato adiposo, permettono fluttuazioni

della temperatura con scarso controllo durante la fase di mantenimento e possono

richiedere più impegno per il personale infermieristico che deve provvedere alla

frequente sostituzione.

- Placche adesive refrigerate: agiscono per contatto con la cute prelevando calore dal

corpo; sono impiegabili facilmente anche sul territorio e abbassano la temperatura di

circa 3°C / h.

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- Coperte e materassi di raffreddamento ad aria o ad acqua: sono facili da applicare ed

efficaci. Sfruttando la conduzione, sono influenzate dalla vasocostrizione periferica

e dall’estensione della superficie di contatto; diventano maggiormente efficaci se

circondano il paziente. Non sono adatti ad un uso extraospedaliero.

- Artic Sun ™ simula il principio dell'immersione in acqua, fornendo un alto

trasferimento di energia e un controllo preciso della temperatura. Nell'Arctic Sun ™

circola acqua a temperatura controllata attraverso le placche a trasferimento di

energia, in risposta alle condizioni attuali del paziente. Un sofisticato algoritmo di

controllo fa aumentare o diminuire la temperatura dell'acqua circolante per

raggiungere una determinata temperatura target del paziente.

Invasive

- Infusione rapida 30 ml/Kg di cristalloidi a 4°C in 30’: riduce la temperatura centrale

di circa 1.5°C [7]. E’ una metodica facile, economica e veloce per indurre il

raffreddamento. Bernard et al. [105] hanno descritto questa modalità per indurre

rapidamente l’ipotermia: la temperatura è stata portata da 35.5°C a 33.8°C entro 30

minuti senza effetti collaterali. Risulta pertanto un metodo rapido, sicuro ed efficace

per induzione dell’ipotermia; non è tuttavia sufficiente nella fase di mantenimento,

durante la quale deve essere utilizzato in combinazione con altre tecniche. Kliegel et

al., infatti, hanno ottenuto risultati analoghi somministrando liquidi freddi per via

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endovenosa confermando quanto detto in precedenza ma hanno precisato che,

sebbene questo trattamento sia ottimale per l’induzione dell’ipotermia [139], non

risulta tuttavia sufficiente nella fase di mantenimento [140]. Polderman ha

esaminato la fattibilità, la velocità e le complicazioni dell’infusione di 1500 ml di

soluzione salina allo 0,9% somministrata in 30 minuti in pazienti non affetti da

shock cardiogeno. Dai risultati emerge che la temperatura dopo 30 minuti si riduce

da 36.9°C ± 1.9°C a 34.6°C ±1.5°C fino ad arrivare a 32.9°C ± 0.9 °C dopo 60

minuti. Monitorando in continuo la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, i

parametri emogasanalitici, i livelli sierici di piastrine, elettroliti e globuli bianchi

non si sono evidenziati significativi effetti collaterali [88]. Questa metodica, inoltre,

merita particolare attenzione se utilizzata in pazienti con insufficienza ventricolare

sinistra e renale.

- Gastrolusi con infusione di 500 ml di acqua sterile fredda ogni 15’ attraverso

sondino nasogastrico (SNG): porta ad un raffreddamento lento e può provocare

diarrea.

- Sonda transnasale di raffreddamento: è un dispositivo portatile che utilizza cateteri

nasali attraverso i quali viene iniettato un liquido freddo. Sfrutta il fatto che lo strato

osseo che separa le cavità nasali dal tessuto encefalico è molto sottile e funziona

come scambiatore di calore. Nello studio condotto da Castrén e coll. [141] il

RhinoChill™ è risultato essere un metodo sicuro, associato ad una significativa

riduzione del tempo necessario per raggiungere il target ipotermico. Gli effetti

collaterali sono stati discromie nasali e, in una percentuale inferiore di casi,

enfisema periorbitario, epistassi e sanguinamento periorale.

- Cateteri intravascolari (10-14F): posizonati nella vena femorale o succlavia, sono

dotati di due o tre palloncini riempiti di soluzione fisiologica, a temperatura

regolabile, spinta da una pompa/refrigerante esterna; inducono l’ipotermia in modo

molto efficace e rapido e ne assicurano la stabilità durante la fase di mantenimento.

Sono però presidi costosi, caratterizzati dalle complicanze del catetere venoso

centrale [142] e non utilizzabili in ambito extra-ospedaliero [139.]. Mancano tuttavia

dati sulla sicurezza nell’uso a lungo termine (>24h) [138].

- Circolazione Extra Corporea: prevede l’incannulazione della vena e arteria femorale

con successiva introduzione di 2 cateteri fino a raggiungere l’atrio destro e l’aorta.

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Vengono prelevati dal catetere venoso 40 ml/kg di sangue al minuto che vongono

raffreddati, ossigenati e reinfusi attraverso il catetere arterioso bypassando cuore e

polmoni. Questa metodica è consente una rapida di induzione dell’ipotermia, un

preciso controllo termico e consente di raffreddare il paziente senza una sedazione

profonda o l’utilizzo di bloccanti neuromuscolari; trattasi tuttavia di un metodo

molto complesso, costoso e praticabile solamente in centri specialistici [143].

- Elmetti refrigeranti: nuovi approcci prevedono l’uso del raffreddamento cerebrale

selettivo anche se è improbabile che il raffreddamento locale del capo produca

ipotermia cerebrale quando c’è un’adeguata perfusione con sangue caldo di

provenienza centrale [144]. Il capo può comunque essere una sede efficace per

rimuovere il calore dal corpo [145].

- Trattamento con paracetamolo: può servire in modo complementare per indurre

ipotermia nei pazienti con febbre non di origine centrale.

Castrén et al. nelle linee guida del 2009 [126] affermano, in definitiva, che la strategia

di raffreddamento deve essere rapida, efficace e sicura e che non vi sono specifiche

tecniche che possono essere raccomandate. Ogni struttura ospedaliera dovrebbe

utilizzare il metodo o la combinazione di metodi che si adatta meglio alle infrastrutture,

alla logistica, alle risorse finanziarie e ai piani di trattamento.

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MONITORAGGIO DELLA TEMPERATURA

Il sito dove la temperatura viene misurata assume notevole importanza per la gestione

del paziente da trattare con ipotermia, in quanto ogni singolo sito di misura possiede le

proprie caratteristiche. E’ necessario mantenere la temperatura del paziente nel range

“terapeutico” e contemporaneamente porre attenzione a non sconfinare al di sotto di un

certo grado di ipotermia per non incorrere in gravi effetti collaterali [88].

Si conoscono vari siti con i relativi presidi per la misurazione della temperatura:

- Catetere in arteria polmonare: riflette accuratamente e velocemente le variazioni

della temperatura cerebrale. Ha un basso rischio di errori di misura e di

dislocamento ma è un sistema invasivo con le complicanze associate alle procedure

di posizionamento. Deve essere rimosso dopo 72-96 h.

- Sonda esofagea: è di facile posizionamento e riflette abbastanza velocemente le

variazioni della temperatura. Ha un rischio moderato di dislocarsi (nello stomaco) e

di interferire con il sondino naso-gastrico con conseguenti erronee misurazioni della

temperatura.

- Sonda vescicale: è di facile posizionamento, tuttavia la misura può essere inficiata

se la produzione di urina è scarsa.

- Sonda rettale: è di facile posizionamento ma ha alto rischio di dislocazione ed è

inaffidabile in caso di diarrea.

- Sonda timpanica: è facile da usare e sfrutta un sito facilmente accessibile ma è poco

affidabile e non consente una misurazione in continuo.

- Termometro ascellare: è facile da usare e non necessita l’inserimento di sonde ma è

completamente inaffidabile per il gradiente di temperatura tra core e periferia

(vasocostrizione cutanea). Non è dunque da utilizzare in corso di trattamento

ipotermico.

Gli studi che si focalizzano sul sito di misurazione ottimale sono carenti.

Tuttavia, pochi mesi fa Knapik et al., in uno studio prospettico osservazionale, hanno

preso in esame un gruppo di 12 pazienti sottoposti a ipotermia e ad ogni rilevazione

hanno misurato la temperatura tramite tre presidi diversi: il catetere di Swan-Ganz in

arteria polmonare, la sonda nasofaringea e il catetere vescicale. Hanno registrato e

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analizzato un totale di 1728 misurazioni (144 per paziente) per un periodo di 48 ore

cosiderando come temperatura di riferimento quella rilevata tramite Swan-Ganz . Dai

risultati è emerso che le tre tecniche prese in esame fornivano valori termici simili

[146].

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FATTORI PREDITTIVI DI RECUPERO NEUROLOGICO

L’obiettivo della pratica clinica è sempre quello di portare il paziente al pieno recupero

della coscienza a delle funzioni. Tutti i soggetti con arresto circolatorio di durata

superiore a 1-2 minuti saranno in coma al momento della diagnosi iniziale, tuttavia

alcuni di questi possono riprendersi e svegliarsi. Sfortunatamente, molti di coloro che

sopravvivono ad un arresto cardiaco entrano in uno stato vegetativo permanente [147] o

“di minima coscienza”[148].

Il danno neurologico risulta la causa di morte per due terzi dei pazienti ricoverati in

terapia intensiva dopo arresto extra-ospedaliero e per un terzo di quelli ammessi dopo

arresto intra-ospedaliero [7].

Sarebbe necessario trovare un sistema per predire l’outcome neurologico che possa

essere applicato sul singolo paziente dopo la ripresa del circolo. Molti studi si sono

focalizzati sui fattori predittivi di un “poor oucome” a lungo termine (stato vegetativo o

decesso) basati sull’esame clinico e su dati laboratoristico-strumentali che possano

documentare il danno cerebrale irreversibile permettendo quindi ai medici di limitare le

cure e interrompere il supporto artificiale delle funzioni vitali. Le implicazioni di questi

fattori prognostici sono così importanti che dovrebbero avere una specificità del 100%

(nessun falso positivo, nessun individuo che potrebbe avere un buon outcome

nonostante la previsione di un “poor outcome” ) [7].

Il tema della prognosi dopo arresto cardiaco è controverso per tre principali motivi:

1. Molti studi sono alterati da una “previsione fai da te” con un trattamento che

raramente si continua per un periodo di tempo e per un numero di pazienti

sufficiente a fornire una reale stima della quota di falsi positivi per ogni fattore

prognostico.

2. Molti studi includono così pochi pazienti che, pur essendo dello 0% la quota di

falsi positivi, non raggiungono neanche un intervallo di confidenza del 95%.

3. Molti studi sui fattori prognostici sono stati intrapresi prima dell’implementazione

dell’ipotermia terapeutica, che rende questi test meno affidabili.

Come Oddo e Rossetti ammettono in un articolo di giugno u.s. [149], l'ipotermia

terapeutica altera l’accuratezza prognostica. Pertanto, i parametri per la previsione

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dell’outcome, validati dall’Accademia Americana di Neurologia prima

dell’introduzione dell’ipotermia terapeutica, necessitano di ulteriori aggiornamenti.

E’ per questo motivo che, di seguito, cercherò di passare in rassegna i principali fattori

prognostici predittivi di recupero neurologico universalmente riconosciuti, mettendone

in evidenza la validità prima e dopo “l’era ipotermica”.

Esame neurologico

Non ci sono segni clinici che, a meno di 24 ore da un arresto cardiaco, possano predire

un “poor oucome” (CPC 3-4-5) [7].

Nei pazienti adulti in stato di coma dopo un arresto cardiaco che non sono stati trattati

con ipotermia e che non hanno fattori confondenti (ipotensione, sedazione,

curarizzazione), l’assenza bilaterale di riflessi fotomotore e corneale a 72 ore

dall’arresto è predittiva di “poor outcome” [150].

L’assenza del riflesso vestibolo-oculare a 24 ore così come un GCS motorio di 1 o 2 a

72 ore sono segni clinici meno affidabili. Altri segni come il mioclono non sono

raccomandati per predire l’outcome. Può essere molto difficile la diagnosi differenziale

tra stato epilettico mioclonico e sindrome di Lance Adams, patologia che si riscontra

nei pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco con mioclono ma funzioni intellettive

conservate, a prognosi assai migliore [151].

Come riportato da Oddo et al. [149], l’ipotermia ritarda il recupero della risposta

motoria e può rendere inaffidabile la valutazione clinica.

Semaniego et all [152] pongono l’accento su studi recenti che hanno utilizzato

l’ipotermia terapeutica riportando casi di pazienti in cui la risposta motoria era assente o

in estensione (GCS motorio 1-2) dopo 3 giorni e che hanno avuto successivamente

recupero della coscienza. L’ipotermia e l’uso associato di sedativi e bloccanti

neuromuscolari potrebbe ritardare il recupero neurologico e influenzare la tempistica

delle variabili prognostiche.

A Lund è stato condotto uno studio su 102 pazienti vittime di arresto cardiaco trattati

con ipotermia dal 2004 al 2008. Trentatre di questi presentavano un GCS ≤ 7 dopo 72

ore dal ripristino della normotermia. Dopo 6 mesi tre di questi (quasi un paziente su

dieci) presentavano un buon outcome neurologico con CPC 2.

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Crisi epilettiche

Crisi epilettiche convulsive colpiscono il 5-15% degli adulti che recuperano una

circolazione spontanea dopo arresto cardiaco e il 10-40% di quelli che rimangono in

coma [153]. Le crisi epilettiche incrementano fino a tre volte il metabolismo cerebrale

[154] amplificando il danno; si rende pertanto necessario un trattanento precoce ma non

ci sono studi che indirizzino verso un impiego in via profilattica dei farmaci

anticonvulsivanti.

Fino a poco tempo fa, crisi convulsive prolungate o uno stato epilettico erano associati a

una cattiva prognosi [155, 156].

Edgren e coll., in un importante studio [155], hanno documentato che uno stato

epilettico persistente ancora dopo 72 ore dall’arresto cardiaco era associato a un valore

prognostico predittivo negativo del 100%.

Langhelle e coll. in uno studio in quattro diverse regioni della Norvegia, hanno

associato le le crisi convulsive ad una più alta mortalità [156] .

Queste evidenze appartengono all’era “pre-ipotermica” ma una questione ancora poco

chiara è quanto l’ipotermia terapeutica inluenzi la prognosi, in presenza di questi segni

clinici, sia in termini di sopravvivenza che di funzione neurologica.

Di seguito vi presenterò come esempio un articolo che conferma quanto detto.

A conferma di quanto sopra, è rilevante segnalare il case report pubblicato da Sunde e

coll. [157]. Gli autori riportano il caso di un uomo di 50 anni, colpito da IMA e da

molteplici episodi di FV prima e durante la procedura angioplastica, sottoposto a

trattamento ipotermico di 24 ore con ricovero in terapia intensiva e assistenza

rianimatoria invasiva. Documentano la presenza di uno stato epiliettico refrattario alla

fenitoina e al clonazepam, tale da richiedere trattamento con fenobarbital anche dopo

nove giorni dall’arresto cardiaco con TC cranio e RM encefalo normali. Descrivono

come, dopo molti giorni, superate le complicanze infettive, il paziente abbia iniziato a

riacquistare gradualmente la coscienza e a collaborare in maniera più efficace tanto da

essere decannulato e posto in respiro spontaneo dopo 42 giorni, da eseguire

normalmente test mnemonici dimostrando il recupero delle funzioni intellettive e

fisiche dopo 9 mesi e da tornare alla propria attività lavorativa dopo un anno

dall’arresto cardiaco. L’EEG mostrava sporadici spike subclinici nelle regioni frontali e

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per questo al soggetto fu prescritta terapia antiepilettica, senza tuttavia crisi

clinicamente significative.

In conclusione, nella cosiddetta “era ipotermica”, deve essere rivisto anche il valore

prognostico della persistenza delle crisi epilettiche con la relativa tempistica.

Markers biochimici

L’enolasi neurone specifica (NSE) è l’isomero gamma dell’enzima glicolitico

citoplasmatico enolasi. La sua presenza è stata rilevata nei neuroni e nelle cellule del

neuroectoderma. Il danno neurologico e le alterazioni della barriera emato-encefalica ne

causano il rilascio nel liquido cefalorachidiano e nel torrente ematico; valori aumentati

di NSE sono stati riportati in seguito a vari tipi di danno neurologico.

Molti studi sono finalizzati a individuare il cut-off del livello sierico di NSE che possa

essere correlato con l’outcome neurologico nei pazienti sopravvissuti ad arresto

cardiaco.

Nello studio PROPAC pubblicato su Neurology nel 2006, Zandbergen et al. [150]

avevano mostrato che tutti i pazienti con NSE >33 μg/l sia a 24 che a 48 che a 72 ore

dopo arresto cardiaco aveveno un outcome neurologico sfavorevole.

Le linee guida pubblicate nel 2006 dall’American Academy of Neurology [158]

indicavano un valore soglia di NSE sierico superiore a 33 μg/l come predittivo di “poor

outcome”; si deve tenere in considerazione però il fatto che esse si basavano solo su

studi condotti su pazienti non sottoposti a ipotermia.

Molti autori hanno continuato a studiare il valore predittivo di NSE sull’outcome

neurologico.

Oksanen et al. ad esempio hanno preso in esame 90 pazienti trattati con ipotermia;

hanno confermato il cut off di 33 μg/l del NSE a 48 ore come predittivo di “poor

outcome” ma hanno posto l’attenzione sull’importanza del gradiente di incremento (6.4

μg/l) tra la ventiquattresima e la quarantottesima ora ammettendone l’alta specificità ma

la moderata sensibilità come marker di outcome a 6 mesi [159].

Un lavoro di Rundgren et al. [160] ha preso in esame pazienti sopravvissuti ad arresto

cardiaco (trattati con ipotermia a 33°C per 24 ore indipendentemente dalla causa o dal

ritmo di presentazione) e ne ha analizzato i livelli sierici di NSE dopo 2, 24, 48, 72 ore

dall’arresto. Dai risultati è emerso che un valore sierico di NSE a 48 ore >28 μg/l così

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come un aumento superiore a 2 μg/l tra la ventiquattresima e la quarantottesima ora

erano correlati con una prognosi neurologica sfavorevole (CPC3-4-5) e che NSE a 48

ore era associato ad una più alta sensibilità (67%) se comparato con NSE a 72 ore

(50%).

Tiainen et al. [161] hanno condotto uno studio sui predittori biochimici di danno

neurologico in pazienti trattati con ipotermia lieve-moderata. I pazienti con buon

outcome neurologico presentavano una riduzione dei livelli di NSE durante il

trattamento, dato probabilmente indice dell’attenuazione del danno secondario nei

pazienti ipotermici rispetto ai normotermici.

Steffen et al. [162], in un interessante lavoro pubblicato su Critical Care 2010, hanno

preso in esame il valore sierico di NSE dopo 72 ore dall’ammissione in terapia

intensiva e l’outcome alla dimissione in pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco

suddividendoli in due gruppi: uno storico (133 pazienti) non sottoposto a ipotermia e

uno (97 pazienti) trattato con ipotermia; ambedue i gruppi hanno ricevuto il medesimo

trattamento intensivo. Dai risultati è emersa, nel “gruppo ipotermia”, una proporzione

significativamente più alta con buon recupero neurologico (CPC 1-2) anche per valori

sierici di NSE compresi tra 20 e 80 μg/l, mentre pazienti con NSE > 80 μg/l hanno

avuto un esito neurologico sfavorevole (CPC 3-4-5) in entrambi i gruppi. La relazione,

dunque, tra valori sierici di NSE e outcome neurologico è risultata significativamente

modificata dal trattamento ipotermico.

Anche Oddo [149] ammette che l’ipotermia altera il valore predittivo di marker sierici

come NSE, che un buon recupero neurologico può avvenire nonostante livelli di NSE >

33 μg/l e che questo valore limite non deve essere usato per “guidare” la terapia.

Vi sono due aspetti da considerare che rendono ancor più difficoltosa l’identificazione

di un valore soglia. Il primo è l’uso di kit diversi per il dosaggio di NSE nei vari

laboratori in assenza di uno standard internazionale che ne renda possibile la

comparazione dei risultati tra centri differenti [162, 163].

Il secondo è che NSE risulta contenuto in gran quantità nei globuli rossi e nelle

piastrine e, dunque, l’emolisi ne aumenta il livello ematico. Johnsson et al [164] hanno

documentato alti livelli di NSE nei pazienti sottoposti a bypass cardiopolmonare

derivanti, per la maggior parte, dal rilascio degli eritrociti emolizzati.

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In definitiva, dal momento che i dati sulla predittività di NSE (cut off, timing, ecc.)

sono ancora limitati, molti autori consigliano di non affidarsi a un’unica misurazione e

di non considerare il suo valore ematico come unico determinante di prognosi [162].

La S-100B è una proteina legante il calcio. Ne esistono due sottotipi: la forma αβ è stata

trovata nelle cellule astrogliali; la forma ββ nelle cellule di Schwann e in alcune cellule

neoplastiche, melanociti, adipociti e condrociti. Aumentati livelli sierici della proteina

S-100B sono stati riscontrati dopo danno neuronale.

Così come per NSE, anche per S-100B sono in corso molti studi finalizzati a stabilirne

la predittività, il valore soglia e il timing di campionamento.

Oddo et al [149] ammettono che il trattamento ipotermico ne altera il valore predittivo.

Shinozaki et al. in un lavoro pubblicato su Resuscitation nel 2009 [165] hanno correlato

il livello sierico di S-100B all’outcome neurologico e hanno individuato come cut off

all’ingresso, a 6 e a 24 ore rispettivamente un valore di S-100B di 1,41, 0,21 e 0,05

ng/ml con una specificità del 100%, identificando S-100B come predittore di outcome

neurologico nelle 24 ore successive all’arresto cardiaco più affidabile di NSE.

Sono necessari, tuttavia, ulteriori studi per chiarirne il valore predittivo “nell’era

ipotermica”

Studi elettrofisiologici

Nel 2006 l’American Academy of Neurology [158] identificava come fattore

prognostico di outcome sfavorevole, pur ammettendone l’insufficiente accuratezza, un

quadro elettroencefalografico di soppressione generalizzata a meno di 20 μV, di burst

suppression o di attività epilettiforme generalizzata a 24-72 ore dall’arresto cardiaco.

Queste conclusioni si basavano su studi condotti in pazienti non sottoposti a ipotermia,

trattamento che altera la clearance dei farmaci sedativi che a loro volta interferiscono

con l’elettroencefalogramma (EEG). Saranno dunque necessari ulteriori studi per

chiarire questo aspetto.

Oddo et al, [149], pur raccomandando un approccio multimodale di prognosi,

affermano che l’EEG può essere eseguito durante il trattamento ipotermico o subito

dopo e che un pattern “reattivo” dopo arresto cardiaco predice fortemente un buon

recupero neurologico.

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Nel 2006 l’American Academy of Neurology [158] asseriva che l’assenza bilaterale

della risposta corticale N20 (l’onda impiega 20 millisecondi ad arrivare alla corteccia

cerebrale dalla periferia) dopo stimolazione del nervo mediano ai potenziali

somatosensoriali (PESS) eseguiti in pazienti (non trattati con ipotermia) in coma dopo

24 ore dall’arresto cardiaco, fosse predittiva di outcome neurologico sfavorevole (CPC

3-4-5).

Nell’era ipotermica non vi sono studi che identifichino fattori realmente predittivi di

outcome in pazienti in coma nelle prime 24 ore dall’arresto cardiaco. E’ noto che i

PESS non sono influenzati dai sedativi ma non è escluso che la temperatura possa

interferire sulla latenza con cui l’impulso dalla periferia arriva alla corteccia cerebrale.

Leithner et al. [166] in uno studio pubblicato su Neurology 2010 mostrano come un

paziente con assenza bilaterale di N20 dopo 3 giorni dall’arresto cardiaco abbia poi

recuperato completamente le sue funzioni neurologiche; gli autori esprimono quindi la

necessità di rivalutare il valore prognostico dell’assenza bilaterale di N20 ai PESS in un

più ampio studio prospettico raccomandandosi di non decidere di interrompere le

terapie in base alla sola presenza di N20.

Imaging

Molte metodiche di imaging (risonanza magnetica [MR], tomografia computerizzata

[CT], tomografia computerizzata a emissione di singolo fotone [SPECT], angiografia

cerebrale, doppler transcranico, medicina nucleare, spettroscopia nel vicino infrarosso

[NIRS] ) sono state studiate per determinarne l’utilità nel predire l’outcome negli adulti

sopravvissuti ad arresto cardiaco [167].

Attualmente non ci sono studi di livello I o II che supportino l’utilizzo di una metodica

di imaging per predire l’outcome in pazienti in coma sopravvissuti ad arresto

cardiaco[7].

Complessivamente gli studi sulle metodiche di imaging sono limitati dal numero esiguo

di campioni, dalla variabilità del momento di esecuzione, dall’assenza di un confronto

con un metodo standardizzato di prognosi e dalla precoce interruzione delle cure. L’uso

di routine delle metodiche di neuroimaging, nonostante l’enorme potenziale, non è

ancora raccomandato a scopo prognostico [167].

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In definitiva, tutta la letteratura specialistica raccomanda un approccio multimodale di

prognosi [7, 126, 149, 152] basato sulla concordanza di vari test indipendenti tra loro e

raccomanda, nell’era ipotermica, di non iniziare a determinare la prognosi prima di 72

ore dopo l’arresto cardiaco onde evitare precoci interruzioni delle terapie in pazienti che

potrebbero ancora raggiungere un recupero neurologico [126].

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CHI “RAFFREDDARE”

Nel 2002 sono stati pubblicati dal New England Journal of Medicine due rilevanti studi

prospettici, controllati e randomizzati, sull’utilizzo dell’ipotermia terapeutica in pazienti

sopravvissuti ad arresto cardiaco (Randomized Controlled Trial, RCT). I due studi sono

stati condotti dall’Hypothermia After Cardiac Arrest Study Group (HACA) in Europa

[104] e da Bernard et al. a Melbourne, in Australia [105].

Lo studio europeo HACA [104] , multicentrico e randomizzato tramite sistema

informatico, ha reclutato, da 9 centri in 5 paesi europei, 275 pazienti in coma dopo

arresto cardiaco, con fibrillazione ventricolare o tachicardia ventricolare senza polso

come ritmo di presentazione, e li ha randomizzzati in due gruppi: uno (137 persone)

trattato con ipotermia terapeutica (target 32°C-34°C) e l’altro (138 persone) mantenuto

in condizione di normotermia, entrambi con pazienti di età compresa tra i 18 e i 75 anni,

con intervallo tra arresto e ripristino della circolazione spontanea non superiore a 60

minuti. Dallo studio sono stati escluse tutte le persone in coma per altre cause (farmaci,

traumi e accidenti cerebrovascolari), in condizioni di ipotermia <30°C all’arrivo e le

donne in gravidanza. L’ipotermia è stata mentenuta per 24 ore e il successivo

riscaldamento è avvenuto in maniera passiva per un periodo non inferiore a 8 ore.

L’obiettivo è stato quello di valutare, a distanza di 6 mesi, l’oucome neurologico

favorevole (valutato come categoria 1 e 2 della Pittsburgh Cerebral Performance

Categories Scale, CPC) e la mortalità dei due gruppi, mettendoli a confronto.

I risultati hanno dimostrato che, dopo 6 mesi, vi era una mortalità significativamente

inferiore nel gruppo trattato con ipotermia (41%) rispetto a quella del gruppo

normotermico (55%). La mortalità a 6 mesi è stata dunque di 14 punti percentuali più

bassa nei pazienti “ipotermici”, portando gli autori ad affermare che per prevenire un

decesso dovrebbero essere trattati con ipotermia sette pazienti (Number Needed to

Treat, NNT7).

Dai risultati è emersa inoltre, a 6 mesi, una percentuale superiore (55%) di persone con

buon recupero neurologico (CPC 1-2) tra i trattati rispetto a quella (39%) del gruppo dei

normotermici. In base ai dati, dovrebbero essere trattati con ipotermia 6 pazienti per

prevenire un oucome neurologico sfavorevole (Number Needed to Treat, NNT6).

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Soppravvivenza nei gruppi normotermici e ipotermici [104]

Non sono state riscontrate sostanziali differenze in termini di complicanze tra i due

gruppi pur essendo segnalato un trend, non statisticamente significativo, verso un

maggior numero di infezioni nei pazienti ipotermici.

Lo studio australiano, di Bernard et al. [105], ha preso in esame un gruppo di 77

pazienti in coma dopo arresto cardiaco, con fibrillazione ventricolare come ritmo di

presentazione, e li ha randomizzzati in due gruppi: uno (43 persone) trattato con

ipotermia terapeutica e l’altro (34 persone) mantenuto in condizione di normotermia

(37°C). Dallo studio sono stati esclusi i maschi minorenni, le donne con meno di 50

anni di età (per la possibilità di gravidanza), tutte le persone con shock cardiogeno e

tutti coloro che erano in coma per altre cause (farmaci, traumi e accidenti

cerebrovascolari). Il target termico è stato cosiderato raggiunto alla temperatura centrale

di 33°C, l’ipotermia è stata mentenuta per 12 ore e il successivo riscaldamento attivo è

iniziato alla diciottesima ora e terminato alla ventiquattresima.

L’obiettivo è stato quello di valutare e confrontare tra i due gruppi l’oucome alla

dimissione dall’ospedale; in particolare è stato assegnato un “good outcome” ai pazienti

dimessi a casa o in centri riabilitativi e un “poor oucome” a quelli avviati verso strutture

di cura per lungo-degenti o deceduti in ospedale.

Dai risultati è emerso che l’utilizzo dell’ipotermia terapeutica nel trattamento dei

pazienti comatosi sopravvissuti ad arresto cardiaco ha apportato dei benefici in termini

di outcome neurologico valutato alla dimissione dall’ospedale (21 su 43, 49%, dimessi

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a casa o in centri di riabilitazione vs 9 su 34, 26%, nei non trattati, p 0.011) e di

mortalità (22 su 43, 51%, negli ipotermici vs 23 su 34, 68%, nei normotermici) sebbene

quest’ultimo dato non raggiunga la significatività statistica (P 0.145).

Outcome alla dimissione dall’ospedale [105]

Non sono stati inoltre osservati effetti collaterali clinicamente significativi in termini di

aritmie, infezioni ed estensione del danno miocardico.

Dopo la pubblicazione di questi studi, l’attenzione internazionale sul tema

dell’ipotermia è progressivamente cresciuta fino ad arrivare al 2003 quando l’Advanced

Life Support Task Force dell’International Liaison Committee on Resuscitation

(ILCOR) ha pubblicato un Advisory Statement [168], sulla scorta delle nuove evidenze

in materia, raccomandando un trattamento ipotermico di 32°C-34°C per 12-24 ore nei

pazienti adulti non coscienti dopo arresto cardiaco extraospedaliero da fibrillazione

ventricolare, ammettendone il possibile effetto benefico anche in ambito

intraospedaliero e per altri ritmi di presentazione.

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Polderman nel 2004 raccomanda (livello I) il trattamento ipotermico in caso di

encefalopatia post-anossica dopo arresto cardiaco da ritmi defibrillabili e in caso di

asfissia perinatale [169, 170].

Nel 2005 Laurent et al. [171] pubblicano un lavoro in cui prendono in esame 61

pazienti dopo arresto cardiaco extra-ospedaliero da fibrillazione ventricolare o asistolia

suddivisi, in modo random, in tre gruppi: uno controllo, uno trattato con

l’emofiltrazione e l’altro con l’emofiltrazione associata all’ipotermia. Gli autori

concludono che l’emofiltrazione potrebbe migliorare la prognosi e che la combinazione

di questo trattamento con l’ipotermia dovrebbe essere valutato in studi più ampi.

Le linee guida ILCOR pubblicate nel 2005 [172] raccomandano di raffreddare fra 32°C

e 34°C per 12-24 ore pazienti adulti privi di coscienza al ripristino della circolazione

spontanea dopo arresto cardiaco extraospedaliero da fibrillazione ventricolare

(indicazione di classe IIa , evidenza di classe I). Allo stesso modo riconoscono utile tale

terapia nei pazienti con un arresto extraospedaliero secondario a ritmo non defibrillabile

o avvenuto in ambito intraospedaliero (indicazione di classe IIb, evidenza di classe II).

Nel 2008 la ILCOR pubblica un interessante lavoro sulla “sindrome post arresto

cardiaco” in cui considera l’ipotemia come potenziale trattamento del danno

neurologico [173].

Sono noti vari studi sull’applicazione dell’ipotermia a persone vittime di arresto

cardiaco con ritmo di esordio non defibrillabile. Questi pazienti hanno un oucome

significativamente peggiore rispetto alle vittime di arresto cardiaco con ritmo di esordio

defibrillabile (FV/TV) [173, 174] ma dalla letterarura emerge che potrebbero trarre

comunque beneficio dal trattamento ipotermico.

Idrissi et al. [145] nel 2001, osservando 30 pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco

indotto da PEA o asistolia di cui 16 sottoposti a ipotermia e 14 appartenenti al gruppo

controllo, hanno dimostrato che i livelli di lattato plasmatico e la quota di estrazione di

ossigeno sono ridotti in pazienti raffreddati con un elmetto refrigerato.

Nel 2003 Nolan et al. [168] hanno contemplato l’ipotermia come trattamento di

possibile utilità anche per arresti cardiaci intraospedalieri o indotti da altri ritmi (non

FV).

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Sei studi con gruppi controllo storici [107, 108, 175-178] hanno documentato l’effetto

benefico dell’ipotermia applicata ai pazienti in coma dopo arresto cardiaco

extraospedaliero con qualsiasi ritmo di presentazione.

Castrén et al. nelle linee guida scandinave del 2009 [126], sebbene ammettano che

benefici accertati del trattamento ipotermico riguardino solo i pazienti con una FV come

ritmo d’esordio, raccomandano l’utilizzo di una moderata ipotermia anche nei pazienti

in coma che presentano fin dall’inizio un’attività elettrica senza polso (PEA) o asistolia.

Nel 2009 Nielsen et al. [179] prendono in esame 986 pazienti incoscienti dopo arresto

cardiaco extraospedaliero trattati con ipotermia e ne valutano l’outcome neurologico

alla dimissione, dopo 6 mesi e dopo un anno. Uno degli aspetti interessanti di questo

lavoro è che, a distanza di un anno, i pazienti con ritmo di presentazione in PEA o

asistolia hanno una percentuale non trascurabile non solo in termini di sopravvivenza

(25% e 27% rispettivamente) ma anche di recupero neurologico: hanno infatti un good

oucome (CPC1-2) 46 (21%) dei 217 pazienti con l’asistolia come ritmo di

presentazione e 15 (23%) dei 66 con PEA come ritmo di presentazione. Queste

percentuali non solo risultano più elevate rispetto ad altri studi dell’era pre-ipotermica

[180-182] ma confermerebbero l’indicazione a estendere il trattamento ipotermico

anche a pazienti con ritmi di esordio non defibrillabili. Quest’ultimi hanno, comunque,

un outcome neurologico peggiore rispetto a coloro che hanno avuto un ritmo di esordio

defibrillabile (56% good outcome). Gli autori ammettono che il danno neurologico

sembra dipendere più dalle cause di arresto, dal tempo di anossia e dalla qualità della

rianimazione cardiopolmonare piuttosto che dal ritmo di esordio e che pertanto risulta

ragionevole estendere il trattamento con ipotermia alle vittime di arresto cardiaco “non-

FV” nonostante che esse siano gravate da una prognosi peggiore.

Sono da segnalare due studi non randomizzati che indicano il possibile effetto benefico

dell’ipotermia sulle vittime di arresto cardiaco avvenuto anche in ambito

intraospedaliero [134, 142]

Per quanto concerne l’applicazione del trattamento ipotermico ai pazienti con shock,

Oddo et al. [183] hanno condotto uno studio prospettico da dicembre 2004 a ottobre

2006 su 74 persone vittime di arresto cardiaco extraospedaliero con vari ritmi di

presentazione (sia FV che non FV come asistolia e PEA). Di questi, il 46% era in

condizione di shock. Dai risultati è emerso che il tempo di ripristino della circolazione

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spontanea (non il ritmo di esordio né la presenza di shock) è un predittore indipendente

di sopravvivenza alla dimissione e potrebbe essere utile per identificare i pazienti che

più beneficiano di un raffeddamento attivo.

Studi randomizzati, controllati e multicentrici condotti sui neonati a termine o con

un’età gestazionale superiore alle 36 settimane con encefalopatia post-ischemica

moderata-severa trattati con ipotermia (33.5°C-34.5°C) hanno mostrato che il

raffeddamento riduce significativamente la mortalità e la disabilità neuroevolutiva a 12

mesi [130, 131, 184, 185].

Il raffreddamento sistemico o selettivo del capo producono risultati simili [145].

Le linee guida ERC del 2010 [186, 187] raccomandano di trattare con ipotermia

controllata, se possibile, i neonati a termine o peritermine con encefalopatia ipossico-

ischemica moderata-severa seguendo i protocolli utilizzati nei trials clinici randomizzati

(iniziare entro 6 ore dalla nascita, continuare per 72 ore e riscaldare in almeno 4 ore).

Per quanto riguarda l’estensione del trattamento ipotermico anche ai bambini, uno

studio osservazionale [188] né supporta né sconsiglia l’utilizzo dell’ipotermia

nell’arresto cardiaco pediatrico e ammette la necessità di condurre uno studio

randomizzato e controllato.

Nelle European Resuscitation Council Guidelines for Resuscitation del 2010 [189] gli

autori affermano che i bambini che riacquistano una circolazione spontanea ma che

rimangono in coma dopo arresto cardiopolmonare, potrebbero trarre beneficio da un

raffreddamento a 32°C-34°C (temperatura centrale) per almeno 24 ore, che non

dovrebbero essere attivamente riscaldati a meno che la temperatura centrale scenda al di

sotto dei 32°C e che, successivamente, il ritorno alla normotermia dovrebbe avvenire

molto lentamente a 0.25-0.5°C/h. Attualmente è in corso uno studio multicentrico su

bambini vittime di arresto cardiaco intra ed extraospedaliero (www.clinicaltrials.org).

Sull’applicazione dell’ipotermia alle donne in gravidanza, attualmente la letteratura non

fornisce dati significativi. Si segnala tuttavia che Rittenberg et al. [190] hanno

pubbilcato un case report su una donna di 35 anni alla tredicesima settimana di

gestazione vittima di arresto cardiaco testimoniato in ambito extraospedaliero da

fibrillazione ventricolare. La paziente è stata trattata con ipotermia a 33°C per 24 ore ed

è stata dimessa con un lieve deficit neurologico (CPC 2). Alla trentanovesima settimana

di gestazione le è stato praticato il cesareo: il bambino è nato con un Apgar di 8-9 e i

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test per lo sviluppo neurologico sono risultati appropriati per l’età sia alla nascita sia a

due mesi.

L’impiego dell’ipotermia nel trauma cranico è, ancora oggi, oggetto di studio. Un

trattamento ipotermico a 33°C per 24 ore si è dimostrato efficace nel migliorare

l’outcome neurologico in uno studio [100] monocentico su 82 pazienti. Tuttavia studi

successivi [191, 192] e meta-analisi [193-195] non ne hanno confermato il beneficio.

Attualmente è in corso uno studio multicentrico randomizzato sull’utilizzo

dell’ipotermia anche nei pazienti con trauma cranico (www.eurotherm3235trial.eu).

Per quanto riguarda l’estensione del trattamento ipotermico al paziente vittima di un

politrauma, attualmente la letteratura non fornisce dati significativi. Fukudome et al.

[196] affermano che l’ipotermia potrebbe essere un approccio terapeutico efficace per

un’emorragia traumatica altrimenti letale.

Trattamenti organizzati dopo arresto cardiaco con particolare attenzione a programmi

multidisciplinari che si focalizzino sull’ottimizzazione emodinamica, neurologica e

metabolica (includendo l’ipotermia terapeutica) possono migliorare la sopravvivenza

alla dimissione dall’ospedale tra le persone che riacquistano una circolazione spontanea

dopo arresto cardiaco sia intra che extraospedaliero [108, 197, 198].

Nel 2010 su Circulation [199] vengono pubblicate le raccomandazioni

dell’International Consensus on Cardiopulmonary Resuscitation and Emergency

Cardiovascular Care Science in cui gli autori affermano che l’ipotermia terapeutica

migliora l’outcome dopo arresto cardiaco extraospedaliero testimoniato da fibrillazione

ventricolare nell’adulto e dopo un insulto ipossico-ischemico nel neonato;

raccomandano inoltre che gli adulti in coma al ripristino della circolazione

spontanea,(non rispondono in modo significativo ai comandi verbali) dopo arresto

cardiaco extraospedaliero da fibrillazione ventricolare devono essere raffreddati a 32°C-

34°C per 12-24 ore; aggiungono infine che l’ipotermia terapeutica potrebbe portare

beneficio anche a pazienti adulti con un arresto extraospedaliero secondario a ritmo non

defibrillabile o avvenuto in ambito intraospedaliero.

Nelle European Resuscitation Council Guidelines for Resuscitation 2010 [200] il IV

anello della catena della sopravvivenza è costituito dalle “Post resuscitation care”, cure

post rainimatorie finalizzate a preservare le funzioni vitali con particolare attenzione,

come risulta dalle icone colorate, al cuore e al cervello.

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Nelle stesse linee guida, Deakin et al. [7] raccomandano l’utilizzo dell’ipotermia

terapeutica nei pazienti adulti in coma dopo arresto cardiaco extraospedaliero da

fibrillazione ventricolare e Richmond [187] nei neonati con asfissia perinatale. Deakin

et al. precisano che l’estensione di queste raccomandazioni ad altre categorie di pazienti

(con altri ritmi d’esordio, con arresto cardiaco intraospedaliero o pazienti pediatrici)

sembra ragionevole anche se supportata da un livello inferiore di evidenza.

Nelle linee guida dell’American Heart Association del 2010, Peberdy et al. [8]

ammettono che rimangono dei dubbi sulle indicazioni specifiche, sui tempi, sulla

durata, sui metodi di induzione, mantenimento e ripristino della normotermia

dell’ipotermia terapeutica. Affermano, però, che il danno cerebrale e l’instabilità

cardiovascolare sono i maggiori determinanti della sopravvivenza dopo arresto cardiaco

[12] e, dal momento che l’ipotermia è l’unico trattamento dimostratosi efficace nel

migliorare il recupero neurologico, “it should be considered for any patient who is

unable to follow verbal commands after ROSC”, esso dovrebbe essere preso in

considerazione per ogni paziente che, una volta ripristinata la circolazione spontanea,

non riesce ad eseguire comandi verbali.

Aggiungono, inoltre, che il paziente dovrebbe essere trasportato in un centro che renda

possibile questa terapia in aggiunta alla riperfusione coronarica e ad altre cure “goal-

directed” post arresto.

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In conclusione, vi sono ancora molte “zone grige” sull’argomento “ipotermia

terapeutica” e lo scenario rimane, ad oggi, incerto. Non sono state definitivamente

identificate le categorie di pazienti eleggibili per tale trattamento né la tempistica e la

profondità dell’ipotermia stessa.

In ultima analisi, tenendo presente le raccomandazioni delle linee guida attualmente

presenti in letteratura, appare importante ricordare anche ciò che Castrén et al.

affermano nelle linee guida scandinave del 2009 [126]; gli autori infatti raccomandano

il trattamento ipotermico, dopo ripristino della circolazione spontanea, in pazienti in

coma dopo arresto cardiaco da qualsiasi ritmo di presentazione “if active treatment is

decided”, se è stato deciso un trattamento attivo. Le normali considerazioni etiche, lo

stato pre-morboso, il tempo totale di anossia e le condizioni generali dovrebbero far

decidere se il trattamento attivo è indicato oppure no.

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STUDIO

Disegno

Lo studio condotto è di tipo monocentrico, prospettico, caso controllo con controllo

storico.

Pazienti

Sono stati arruolati nello studio pazienti vittime di arresto cardiaco sia intra che

extraospedaliero, da causa cardiogena e non, con ritmo di esordio defibrillabile (FV/TV

senza polso) e non defibrillabile (PEA/asistolia) ricoverati presso la U.O. Anestesia e

Rianimazione Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana dal 2008

al 2010.

Bracci di studio

Sono stati presi in esame due gruppi di pazienti.

- Gruppo “dei casi”: trattato, unitamente ai protocolli standard di cure intensive, con

ipotermia terapeutica secondo modalità prestabilite nello studio e formato da

pazienti, ricoverati presso la U.O. Rianimazione Pronto Soccorso dal 1 gennaio

2008 al 31 dicembre 2010, vittime di arresto cardiaco sia intra che extraospedaliero,

da causa cardiogena e non, con ritmo di esordio defibrillabile (FV/TV senza polso) e

non defibrillabile (PEA/asistolia).

- Gruppo “controllo”: storico, formato da pazienti ricoverati presso la U.O. Anestesia

e Rianimazione Pronto Soccorso dal 1 gennaio 2002 al 31 dicembre 2005 vittime di

arresto cardiaco sia intra che extraospedaliero, da causa cardiogena e non, con ritmo

di esordio defibrillabile (FV/TV senza polso) e non defibrillabile (PEA/asistolia) che

sono stati trattati secondo i protocolli standard di cure intensive e che sono stati

succcessivamente selezionati per lo studio utilizzando gli stessi criteri di inclusione

ed esclusione previsti per i pazienti trattati con ipotermia.

I due gruppi sono stati quindi selezionati utilizzando gli stessi criteri di inclusione ed

esclusione, tratti dalla letteratura di merito [104, 105, 107, 126, 145, 179, 183].

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Criteri di inclusione

- Arresto cardiaco testimoniato (anche da laici)

- Arresto cardiaco sia intra che extra ospedaliero

- Ritmo di presentazione defibrillabile e non

- Causa di arresto cardiogena e non

- Età ≥ 18 anni

- GCS ≤ 8 con GCS motorio ≤ 5 dopo 10 minuti dal ripristino della circolazione

spontanea

- Tempo massimo tra l’arresto e il ripristino della circolazione spontanea di 60 min

- Ripresa stabile della circolazione spontanea

Criterio di inclusione specifico per il gruppo dei “casi”

- Curva termica mantenuta secondo protocollo di studio

Criteri di esclusione

- Arresto cardiaco non testimoniato

- Ripristino delle funzioni neurologiche (il paziente obbedisce a comandi verbali)

- Stato di coma preesistente

- Età ≤ 18 anni

- Sanguinamento intracranico in atto

- Politrauma a rischio medio-alto di sanguinamento o con emorragia in atto

- Coagulopatia

- Insufficienza epatica o renale (forme croniche ed avanzate)

- Stato settico preesistente

- Intervento recente di chirurgia maggiore (< 72 ore)

- Ipotermia preesistente ≤ 30 °C

- Stato gravidico

- Prosecuzione delle cure configurabile come accanimento terapeutico

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Fonte dei dati

I dati sono stati ricavati dall’analisi delle cartelle cliniche di pazienti ricoverati presso la

U.O. Anestesia e Rianimazione Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliero-

Universitaria Pisana.

Obiettivo dello studio

L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare l’efficacia del trattamento ipotermico

in termini di mortalità e outcome neurologico a 6 mesi nella U.O. Anestesia e

Rianimazione Pronto Soccorso.

Sono stati oggetto di valutazione la mortalità alla dimissione dalla terapia intensiva

[179] e l’outcome neurologico a 6 mesi [104, 179] dall’arresto cardiaco valutato

secondo la Pittsburgh Cerebral Performance Categories Scale [201].

Sono stati oggetto di analisi i suddetti end point sia per i pazienti del gruppo “controllo”

(storico) che per quelli del gruppo “dei casi” (trattato con ipotermia) e sono stati messi a

confronto.

Analisi statistica

Per l’analisi della significatività statistica tra gruppi, sia per quanto riguarda la mortalità

alla dimissione dalla terapia intensiva sia per l’outcome neurologico a 6 mesi

dall’arresto cardiaco, è stato utilizzato il test χ2 di Pearson.

Protocollo di trattamento

Il protocollo di trattamento relativo all’ipotermia terapeutica condotto presso il Reparto

di Anestesia e Rianimazione Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria

Pisana ha ricalcato le evidenze che emergono dalla letteratura, articolandosi in varie

fasi:

• Fase 0: territorio, fase extra-ospedaliera, non sempre presente;

• Fase 1: induzione dell’ipotermia terapeutica, in Pronto Soccorso o in altro reparto;

• Fase 2 : mantenimento dell’ipotermia, in Rianimazione;

• Fase 3 : ripristino della normotermia, in Rianimazione;

• Fase 4 : prosecuzione del trattamento intensivo, in Rianimazione;

• Fase 5 : follow up a 6 mesi dall’arresto cardiaco.

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Fase 0 - Extra-ospedaliera

Questa fase, riguardante la stabilizzazione delle funzioni vitali (secondo gli algoritmi di

trattamento previsti dalle linee guida dell’American Heart Association) e il trasporto in

Pronto Soccorso, non è sempre stata presente nel nostro studio dal momento che esso ha

coinvolto anche pazienti vittime di arresto cardiaco intra-ospedaliero.

Fase 1- Pronto Soccorso o altro reparto

In questa fase è stata raggiunta la stabilizzazione delle funzioni vitali (se non ancora

raggiunta nella fase extra-ospedaliera o se l’arresto cardiaco è avvenuto in ambito intra-

ospedaliero) e programmata la prosecuzione dell’iter diagnostico-terapeutico.

Durante questa fase è avvenuto il reclutamento dei pazienti secondo i criteri di

inclusione ed esclusione precedentemente descritti, con l’inizio e/o la prosecuzione del

trattamento secondo le linee guida dell’American Heart Association con l’induzione

dell’ipotermia terapeutica.

Di seguito verranno presi in esame dettagliatamente i vari aspetti di questa fase.

• Airway: intubazione oro-tracheale (se paziente in coma e se non già eseguita) o

dispositivo per assicurare la pervietà delle vie aeree

• Breathing: conferma del corretto posizionamento del dispositivo per la gestione delle

vie aeree e dell’efficacia della ventilazione e ossigenazione; ventilazione meccanica

tale da mantenere pO2 > 100 mmHg e pCO2 35-45 mmHg

• Circulation: compressioni toraciche, accesso venoso, ECG 12 derivazioni, valutazione

del ritmo, eventuale defibrillazione, rianimazione cardiopolmonare e

somministrazione di farmaci secondo ACLS fino al ripristino della circolazione

spontanea (PAS >90 mmHg, PAM >60 mmHg con riempimento volemico e/o amine)

• Diagnosis: identificazione e trattamento delle cause che hanno portato all’arresto

cardiaco. In caso di ECG a 12 derivazioni suggestivo di IMA con sopraslivellamento

del tratto ST (STEMI) con indicazione alla PTCA, la rivascolarizzazione ha avuto la

priorità assoluta. L’ipotermia è stata indotta durante la procedura o in seguito alla

rivascolarizzazione, una volta ricoverato il paziente in Rianimazione, con

raggiungimento della temperatura target entro 4 ore dalla ripresa della circolazione

spontanea.

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E’ stato previsto che in nessun modo l’induzione del trattamento ipotermico ritardasse

il trasporto del paziente in sala di emodinamica per l’esecuzione della coronarografia

nel caso in cui il collega cardiologo-emodinamista ne ponesse indicazione (aspetto

ecocardiografico, instabilità elettrica e/o emodinamica, sintomatologia suggestiva di

IMA, etc.) né procrastinasse e/o ostacolasse le manovre rianimatorie, la

stabilizzazione dei parametri vitali e, in genarale, l’iter diagnostico-terapeutico.

Il completamento della fase diagnostica ha previsto: esami di laboratorio tra cui

emocromo con formula, profilo biochimico (Glicemia, Elettroliti, indici di

funzionalità renale ed epatica), profilo coagulativo, enzimi di miocardiocitonecrosi

(CPK tot/CKMB, Troponina), Emogasanalisi arteriosa ed esami strumentali tra cui Rx

Torace, ecocardiogramma e TC cranio (da eseguire appena possibile).

• Disability: valutazione neurologica, Glasgow Coma Scale, valutazione dei rilessi

pupillari.

Il paziente che soddisfa i criteri di inclusione nel protocollo precedentemente descritti,

viene arruolato nello studio. Si provvede dunque a opportuna sedazione con

midazolam 0.12mg/kg/h e/o propofol 3-6 mg/kg/h e fentanyl 2 mcg/kg/h ed eventuale

miorisoluzione con cisatracurio 0.03 mg/Kg/h; si avvia l’induzione dell’ipotermia.

• Hypothermia: il trattamento ipotermico è stato articolato in tre fasi: induzione,

mantenimento e ritorno alla normotermia.

Induzione dell’ipotermia

L’intervallo di tempo massimo tra il ritorno alla circolazione spontanea e l’inizio del

trattamento ipotermico è stato fissato a 90 minuti cercando, in accordo con la

letteratura, di iniziare il trattamento ipotermico quanto prima possibile [126].

L’intervallo di tempo massimo tra il ritorno alla circolazione spontanea e il

raggiungimento della temperatura target (inizio della fase di mantenimento) è stato

fissato a 4 ore [104].

La temperatura target è stata stabilita in un range compreso tra 32°C e 34°C [7, 104].

La induzione del trattamento ipotermico è stata prevista tramite rimozione degli abiti

e infusione per via e.v. di cristalloidi a 4°C al dosaggio di 30 ml/kg in 30-40 minuti

quando consentito dalle condizioni del paziente. Alternativamente o in associazione a

un’infusione di dosaggio inferiore di liquidi freddi, è stata prevista l’applicazione di

borse ghiacciate su inguini, ascelle e collo e/o coperte ad aria fredda sul corpo del

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paziente in tutti quei casi in cui la ridotta funzionalità cardiaca non avrebbe consentito

un carico volemico.

E’ stata presa in esame la temperatura esofagea rilevata tramite sonda termica

posizionata nel terzo medio a 32-34 cm di profondità.

Fase 2 - Rianimazione: mantenimento dell’ipotermia

Una volta raggiunta la temperatura target di 32°C-34°C, è iniziata la fase di

mantenimento della durata prestabilita di 24 ore [104] durante la quale la temperatura

del paziente doveva costantemente essere mantenuta all’interno del range prefissato

tramite la combinazione di più tecniche di raffeddamento.

Sono stati previsti: impacchi ghiacciati su inguini, ascelle e collo, esposizione del

corpo a ventilatori, applicazione di coperte ad aria fredda, di materassini con liquido di

raffreddamento e infusione supplementare, quando consentito e necessario, di

cristalloidi a 4°C.

Durante questa fase il paziente è stato ricoverato in Rianimazione Pronto Soccorso.

Sono stati assicurati:

- Sedoanalgesia (0.12mg/kg/h e/o propofol 3-6 mg/kg/h e fentanyl 2 mcg/kg/h ) e

curarizzazione (cisatracurio 0.03 mg/Kg/h)

- Monitoraggio: in continuo di ECG, SpO2, pressione arteriosa non invasiva (NIBP) e

invasiva (IBP), pressione venosa centrale, temperatura esofagea tramite sonda

termica posizionata nel terzo medio a 32-34 cm di profondità; ogni ora delle pupille

e della diuresi; ogni 3 ore di emogasanalisi arteriosa (con lattati) e glicemia; ogni 6

ore degli enzimi di miocardiocitonecrosi (CPK tot/CKMB, Troponina) e BNP; ogni

12 ore esami di laboratorio tra cui emocromo con formula, profilo biochimico

(glicemia, elettroliti, indici di funzionalità renale ed epatica) e profilo coagulativo;

entro 72 ore dosaggio di enolasi neurone specifica (NSE) e Prot-S100.

- Rx torace: dopo tecniche invasive che richiedano un controllo e quando ritenuto

opportuno dal rianimatore

- Ecocardiogramma: all’ingresso, dopo 1 giorno e quando ritenuto opportuno dal

cardiologo

- EEG: in continuo quando possibile; altrimenti durante ogni fase del trattamento

ipotermico, in V giornata e dopo eventuali crisi epilettiche (crisi elettriche all’EEG)

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- Doppler transcranico: ogni 8 ore per escludere ipertensione endocranica

- Ventilazione meccanica invasiva

- Cateterismo venoso centrale in vena succlavia o giugulare interna

- Cateterismo arterioso con incannulamento, se possibile, dell’arteria radiale dopo test

di Allen

- Profilassi antibiotica con amoxicillina e acido clavulanico al dosaggio di 2,2 gr e.v.

ogni 8 ore per la prevenzione di polmoniti da ab-ingestis

- Monitoraggio delle infezioni con colturali di sorveglianza (broncoaspirato, urine e

tampone rettale)

- Riduzione dell’apporto enterale (10 ml/h) per le minori esigenze metaboliche con

l’unico obiettivo di preservare il trofismo della mucosa intestinale riducendo il

rischio di traslocazione batterica

- Controllo delle eventuali aritmie con cordarone (900-1800 mg/die in infusione

continua e.v.) o lidocaina (bolo ev di 1 mg/Kg seguito da infusione continua 100

mg/h per 24 ore)

Sono stati messi in atto tutti gli accorgimenti terapeutici per mantenere:

- temperatura costantemente all’interno del range di 32°C - 34°C

- normale equilibrio acido-base con pH compreso tra 7,35 e 7,45

- adeguata ossigenazione ( pO2 ≥ 100 mmHg e SpO2 94-96%) evitando l’iperossia

- normocapnia (pCO2 35-45 mmHg)

- normali livelli ematici di potassio (target sierico di 4 mEq/L ), degli altri elettroliti

(sodio, cloro, calcio e magnesio) e dei lattati (o con trend in diminuzione)

- glicemia tra 80 e 140 mg/dl tramite la somministrazione in infusione continua di

insulina secondo protocollo interno al reparto

- stabilità emodinamica con pressione venosa centrale tra 10 e 12 mmHg e pressione

arteriosa media compresa tra 65 e 100 mmHg attraverso supporto aminico e

mantenimento della normovolemia con correzione del bilancio idrico

- diuresi > 1ml/Kg/h - testa sollevata sul tronco di 30°

- estremità (piedi e mani) coperte con teli asciutti per ridurre gli stimoli a partenza dai

termocettori periferici

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Fase 3 - Rianimazione: riscaldamento

Dopo 24 ore di ipotermia è iniziata la fase di ripristino della normotermia con un

riscaldamento controllato. La sua velocità è stata fissata a 0,25-0,5°C per ogni ora. Per

questa terza fase è stata prevista una durata di 8-12 ore [104] e, di conseguenza, un

periodo di 36-40 ore dal ripristino della circolazione spontanea al completamento del

riscaldamento.

Esso può essere ottenuto in modo passivo controllato tramite l’applicazione di lenzuola

e coperte sul corpo del paziente; se dopo 12 ore dall’inizio la temperatura interna

risultava ancora inferiore ai 36°C, è statoprevisto l’utilizzo di metodiche di

riscaldamento attivo come dispositivi esterni (coperte ad aria calda) e/o infusioni di

liquidi tiepidi.

Anche durante tutta questa fase è stata assicurata un’adeguata sedoanalgesia con

eventuale curarizzazione e il monitoraggio in continuo della temperatura tramite sonda

esofagea con attenzione a evitare in modo assoluto il rebound ipertermico.

Per le alterazioni metaboliche, idroelettrolitiche ed emodinamiche tipiche del

riscaldamento, anche durante questa fase sono stati mantenuti tutti i sistemi di

monitorizzazione e gli accorgimenti terapeutici della fase di induzione e mantenimento

dell’ipotermia precedentemente descritti.

Fase 4 - Rianimazione: prosecuzione del trattamento intensivo

Terminata la fase di riscaldamento del paziente, è iniziata la fase di mantenimento della

normotermia e di prosecuzione delle cure intensive, che nel protocollo di studio è stata

fissata a 3 giorni (5 giorni dall’arresto cardiaco). Il prolungamento di questa fase

rispetto alle indicazioni della letteratura (72 ore) è giustificato dall’influenza del

trattamento ipotermico sulla clearance dei farmaci e sul timing di predittività degli

indici prognostici.

All’inizio di tale periodo è stata prevista la sospensione della sedoanalgesia e della

curarizzazione per consentire “periodi finestra” atti a valutare lo stato neurologico del

paziente secondo il Glasgow Coma Scale e la presenza dei riflessi di tronco.

Sono stati contemplati, quando necessari, sia un monitoraggio sia un trattamento

intensivo con tutti gli accorgimenti precedentemente descritti per assicurare buona

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ossigenazione e normocapnia, stabilità dei parametri vitali con mantenimento della

perfusione cerebrale, controllo della glicemia e degli stati convulsivi.

Fino a 72 ore dall’ingresso è stato previsto un rigido controllo della temperatura con

eventuale trattamento degli stati febbrili con infusione di liquidi freddi e antipiretici nel

caso in cui la temperatura interni superasse i 37°C. Qualora dopo 36 ore dall’arresto

cardiaco il paziente si presentasse in coma, è stata prevista l’esecuzione di un EEG a

48-72 ore per escludere crisi elettriche potenzialmente responsabili dell’alterazione

dello stato neurologico.

Nelle ore successive fino alla V giornata è stata prevista la valutazione neurologica

secondo il Glasgow Coma Scale e l’analisi dei riflessi di tronco nonché l’esecuzione, se

necessaria, di studi elettrofisiologici (PESS, PEA) e di accertamenti radiodiagnostici

(TC cranio e/o RM encefalo).

Fase 5 - Follow up

A 6 mesi dall’arresto cardiaco è stata prevista una valutazione dello stato neurologico

[104].

La scala che è stata usata, come nello studio HACA [104], è la Pittsburgh Cerebral

Performance Categories Scale [201] che individua 5 classi di stato neurologico:

- CPC 1: buona funzione neurologica con completo recupero (paziente cosciente,

sveglio, capace di lavorare)

- CPC 2: disabilità neurologica moderata (paziente cosciente e neurologicamente

capace di svolgere le attività della vita quotidiana e di lavorare almeno part-time)

- CPC 3: disabilità neurologica severa (paziente cosciente ma dipendente dagli altri

per svolgere le attività quotidiane a causa della ridotta funzione neurologica)

- CPC 4: coma o stato vegetativo (paziente che non presenta alcuna interazione con

l’ambiente)

- CPC 5: exitus

Come ampiamente descritto in letteratura [104, 179] i pazienti (oggetto di valutazione a

6 mesi) sono stati suddivisi in due macrogruppi:

- good outcome: pazienti in classe CPC 1 e 2

- poor outcome: pazienti in classe CPC 3, 4 e 5

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RISULTATI

Sono stati osservati 37 pazienti del gruppo “storico” vittime di arresto cardiaco

testimoniato negli anni compresi tra il 2002 e il 2005 e 46 pazienti del gruppo “trattato

con ipotermia” vittime di arresto cardiaco testimoniato negli anni compresi tra il 2008 e

il 2010.

Di quest’ultimo gruppo sono state arruolate nello studio 41 persone a causa

dell’impossibilità di mantenere il protocollo prestabilito di trattamento ipotermico.

Caratteristiche dei pazienti

Genere: nel gruppo “storico” 63% di sesso maschile (37% femminile), nel gruppo

“trattato con ipotermia” 65% di sesso maschile (35% femminile).

Età mediana: 64,5 anni (min 22, max 92) per il gruppo “storico”, di 67,5 anni (min 18,

max 89) per il gruppo “trattato con ipotermia”; la differenza di età tra i due gruppi non

risulta significativa (p 0.79).

controlli n=37 trattati n= 41

num. % num. %

extraospedaliero 28 75,6 34 82,9

Ambito

intraospedaliero 9 24,4

7 17,1

p=0,6092

Ritmo

defibrillabile 19 51,3 29 70,7

non defibrillabile 18 48,7 12 29,3

p=0,1276

Causa

IMA 24 64,8 24 58,6

aritmia 6 16,2 8 19,5

respiratoria 5 13,5 7 17,1

altre 2 5,5

2 4,8

p=0,9371

L’arresto cardiaco è avvenuto in ambiente extra-ospedaliero nel 75,6% dei casi (24,4%

intra-ospedaliero) nel gruppo “storico” e nel 82,9 % dei casi (17,1% intra-ospedaliero)

nel gruppo “trattato con ipotermia”.

Il ritmo di presentazione dell’arresto cardiaco è stato: defibrillabile (FV/TV) nel 51,3%

dei casi nel gruppo “storico” (48,7% PEA/asistolia/altro) e nel 70,7% dei casi nel

gruppo “trattato con ipotermia” (29,3% PEA/asistolia/altro).

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Nel gruppo “storico” la causa dell’arresto è stata: infarto miocardico acuto nel 64,8%,

aritmia nel 16,2%, insufficienza respiratoria nel 13,5%, altra causa nel 5,5% dei casi.

Nel gruppo “trattato” la causa dell’arresto è stata: infarto miocardioco acuto nel 56,8%,

aritmia nel 19,5%, insufficienza respiratoria nel 17,1%, altra causa nel 4,8 % dei casi.

Dal momento che le differenze in merito a età e genere del campione, causa di arresto

cardiaco, ritmo di presentazione e ambito di arresto non risultano significative, i due

gruppi possono essere considerati omogenei per le caratteristiche sopra citate.

Tempo medio di degenza in terapia intensiva: 9,45 giorni per il gruppo “storico”; 8,02

giorni per il gruppo “trattato”.

Mortalità

La mortalità alla dimissione dalla terapia intensiva è stata pari al 73% nel gruppo

“storico” e al 51,2% nel gruppo “trattato” (p 0.049).

Outcome neurologico a 6 mesi

È stato valutato l’outcome neurologico dopo 6 mesi dall’arresto cardiaco dei pazienti

dimessi vivi dalla terapia intensiva.: 10 su 37 per il gruppo “storico” e 20 su 41 per il

gruppo “trattato”.

Hanno avuto un good outcome a 6 mesi (identificato con CPC 1-2) 5 dei 10 pazienti

(50%) dimessi vivi dalla terapia intensiva del gruppo “storico”, ovvero il 13,5% degli

appartenenti a questa categoria (37) e 13 dei 20 pazienti (65%) dimessi vivi dalla

terapia intensiva del gruppo “trattato” (p 0.694) ovvero il 31,7% degli appartenenti a

questa categoria (41).

Di tutti i pazienti con good outcome a 6 mesi (18 persone), il 72,2% (13 pazienti) è stato

trattato con ipotermia, il 27,8% ( 5 pazienti) con le cure standard (p 0.694).

Hanno avuto un poor oucome a 6 mesi (identificato con CPC 3-4-5) 5 dei 10 pazienti

(50%) dimessi vivi dalla terapia intensiva del gruppo “storico”, ovvero il 13,5% degli

appartenenti a questa categoria (37) e 7 dei 20 pazienti (35%) dimessi vivi dalla terapia

intensiva del gruppo “trattato” (p 0.694), ovvero il 17,1% degli appartenenti a questa

categoria (41).

Di tutti i pazienti con poor outcome a 6 mesi (12 persone), il 58,3% (7 pazienti) è stato

trattato con ipotermia, il 41,7% (5 pazienti) con le cure standard (p 0.694).

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Di tutte le persone dimesse vive (30) dalla terapia intensiva, il 66.7 % (20 pazienti) è

stato trattato con ipotermia, il 33,3% (10 pazienti) con le cure standard (p 0.694).

controlli n=37 trattati n= 41

num. % num. % Deceduti in ICU 27 73 21 51,2 p=0,049 CPC 1-2 a 6 mesi 5 13,5 13 31,7 CPC 3-5 a 6 mesi 5 13,5 7 17,1

p=0,694

Sono stati valutati gli eventi avversi clinicamente significativi in termini di:

- aritmie: 4 su 37 pazienti (10,8%) nel gruppo controllo vs 5 su 41 pazienti (12,2%)

nel gruppo trattato;

- infezioni: 10 su 37 pazienti (27%) nel gruppo controllo vs 14 su 41 pazienti (34,1%)

nel gruppo trattato;

- sanguinamenti: 11 su 37 pazienti (29,7%) nel gruppo controllo vs 15 su 41 pazienti

(36,5%) nel gruppo trattato.

controlli n=37 trattati n= 41 num. % num. %

Sanguinamenti 4 10,8 5 12,2 Infezioni 10 27 14 34,1 Aritmie 11 29,7 15 36,5

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DISCUSSIONE

Questo studio nasce dall’esigenza di valutare l’efficacia del trattamento ipotermico in

termini di mortalità alla dimissione dalla Terapia Intensiva e di outcome neurologico a

6 mesi nella U.O. Anestesia e Rianimazione Pronto Soccorso.

La scelta di valutare anche la mortalità alla dimissione, e non solo il recupero

neurologico a 6 mesi, è stata dettata principalmente da due motivi: il primo è che la

condizione di vita o di morte non è un argomento aperto all’interpretazione e, di

conseguenza, è nullo il rischio di classificare un paziente in una categoria errata; il

secondo è che un periodo di 6 mesi potrebbe non essere sufficiente per la

stabilizzazione definitiva del recupero neurologico.

Dallo studio è emerso quanto segue.

I due gruppi di pazienti, come mostrato in tabella, sono omogenei per età, genere,

luogo, ritmo di presentazione e causa di arresto cardiaco.

La mortalità in Terapia Intensiva, in linea con la letteratura [104, 105], è risultata ridotta

in modo statisticamente significativo (p 0.049) nel gruppo dei pazienti sottoposti a

trattamento ipotermico rispetto a quella del gruppo controllo. Nel valutare questo dato è

necessario porre l’accento sul fatto che, in questo studio, la mortalità del gruppo

“trattato” è stata confrontata con quella di un gruppo storico sottoposto alle cure

intensive standard in anni precedenti. Questo determina un bias (non quantificabile e

dovuto al progresso delle conoscenze scientifiche, delle disponibilità strumentali e delle

competenze del personale medico e infermieristico) che potrebbe determinare una

sovrastima di questo risultato.

La percentuale di pazienti con outcome neurologico favorevole (CPC 1-2) a 6 mesi

dall’arresto cardiaco è risultata maggiore nel gruppo trattato con ipotermia rispetto a

quella del gruppo controllo. Questo dato è in linea con la letteratura anche se, nel nostro

studio, non raggiunge la significatività statistica (p 0.694) a causa dell’esiguità del

campione.

Anche per questo risultato vale quanto detto a proposito della mortalità: l’outcome

neurologico a 6 mesi del gruppo trattato, infatti, è stato confrontato con quello di un

gruppo “storico” di pazienti ma nel corso degli ultimi anni sono stati compiuti numerosi

progressi nel trattamento intensivo del paziente critico e l’ipotermia terapeutica

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potrebbe rappresentare solamente uno dei determinanti del miglioramento dell’outcome

nei pazienti vittime di arresto cardiaco, in uno scenario più complesso di progresso

globale delle cure intensive.

L’incidenza di eventi avversi clinicamente significativi valutati in termini di

sanguinamenti, infezioni e aritmie, è stata simile nei due gruppi. Nel nostro studio,

dunque, non si è registrato un aumento delle suddette complicanze attribuibile al

trattamento ipotermico.

Le tecniche di raffreddamento utilizzate sono state artigianali (infusione di liquidi

freddi, coperte ad aria e impacchi ghiacciati su inguini, ascelle e collo). Non è stato

possibile in due casi rispettare il tempo di induzione previsto e in tre mantenere la

temperatura target; questi cinque casi sono stati esclusi dallo studio.

In sette casi (inclusi nello studio) è stato molto indaginoso rispettare il protocollo di

ipotermia prestabilito, con aggravio di lavoro del personale infermieristico. E’ emersa

duque, per la U.O. Anestesia e Rianimazione Pronto Soccorso, la necessità di adottare

devices specifici al fine di assicurare, ai pazienti meritevoli di trattamento, un’induzione

rapida dell’ipotermia terapeutica, un mantenimento costante del target termico e un

riscaldamento controllato; quest’ultimo, infatti, è oggetto di attenzione da parte di molti

studi e potrebbe rivestire un ruolo chiave nel trattamento ipotermico.

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LIMITI

Il primo limite di questo studio è determinato dalla natura retrospettiva dell’analisi del

gruppo controllo che riduce il valore metodologico della comparazione.

Il limite determinato dalla storicità del campione controllo comporta varie conseguenze.

La prima, come già descritto in precedenza, è rappresentata dalla presenza di un bias

(non quantificabile e dovuto al progresso negli anni delle conoscenze scientifiche, delle

disponibilità strumentali e delle competenze del personale medico e infermieristico) che

potrebbe comportare una sovrastima dell’efficacia del trattamento ipotermico. Questo

potrebbe essere, infatti, uno dei determinanti - ma non il solo responsabile - del

miglioramento dell’outcome nei pazienti vittime di arresto cardiaco in uno scenario più

complesso di progresso globale delle cure intensive. Si tratta dunque di un aspetto che

potrebbe ridimensionare, nel nostro studio, la riduzione della mortalità e il

miglioramento dell’outcome neurologico indotti dall’ipotermia che emergono dai dati.

La seconda conseguenza è che il gruppo controllo non ha avuto un monitoraggio

continuo della temperatura (rilevata ogni 4 ore). La rilevazione in continuo della

temperatura, infatti, in quegli anni non era né oggetto di studio né una procedura

standard, e, benché gli episodi febbrili siano stati tempestivamente trattati, non è

verosimilmente possibile asserire che i pazienti siano stati rigorosamente normotermici.

Un ulteriore limite è rappresentato dall’esiguità del campione che non consente di

raggiungere una significatività statistica per quanto riguarda il miglioramento

dell’outcome neurologico a 6 mesi.

E’ opportuno inoltre sottolineare il fatto che attualmente non vi sono studi che

dimostrino con certezza che dopo 6 mesi da un arresto cardiaco vi sia una definitiva

stabilizzazione del recupero neurologico.

Non bisogna infine trascurare il fatto che il disegno dello studio non è randomizzato né

in cieco.

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CONCLUSIONI E PROSPETTIVE

In accordo con i dati presenti in letteratura [104, 105], da questo studio è emersa, in

termini di mortalità alla dimissione dalla Terapia Intensiva e di outcome neurologico a

6 mesi, l’efficacia dell’ipotermia terapeutica in pazienti che si presentavano privi di

coscienza dopo arresto cardiaco, con qualsiasi ritmo di presentazione, trattati nella

U.O. Anestesia e Rianimazione Pronto Soccorso.

L’ipotermia non è stata associata ad un aumento delle complicanze emorragiche,

infettive e aritmiche, rispetto al gruppo storico di controllo trattato con cure intensive

standard.

La mortalità in Terapia Intensiva, in linea con la letteratura, è ridotta nel gruppo dei

pazienti sottoposti a trattamento ipotermico rispetto a quella del gruppo controllo,

risultato che raggiunge la significatività statistica (p 0.049).

La percentuale di pazienti con outcome neurologico favorevole (CPC 1-2) a 6 mesi

dall’arresto cardiaco è risultata maggiore nel gruppo trattato con ipotermia rispetto a

quella del gruppo controllo. Questo dato, in linea con la letteratura, non raggiunge

tuttavia una significatività statistica (p 0.694) a causa dell’esiguità del campione.

In questi anni è emersa inoltre la necessità, nella U.O. Rianimazione Pronto Soccorso,

di utilizzare device specifici per assicurare a tutti i pazienti il trattamento ipotermico

secondo un protocollo prestabilito senza gravare sul personale infermieristico.

Aspetti ancora scarsamente definiti risultano essere la temperatura target ottimale di

raffreddamento del paziente, la durata della fase di mantenimento, la velocità del

riscaldamento e le categorie di pazienti da sottoporre a ipotermia terapeutica.

Questi ultimi due aspetti, in particolare, sembrano rivestire un ruolo chiave per lo

sviluppo di studi futuri sul trattamenti ipotermico. La velocità di riscaldamento, infatti,

potrebbe rivelarsi di importanza fondamentale per il ruolo neuroprotettivo

dell’ipotermia e l’estensione del trattamento a nuove categorie di pazienti secondo

criteri di inclusioni più ampi (bambini e donne in gravidanza) potrebbe aprire nuovi

orizzonti terapeutici.

Anche gli indici prognostici potrebbero essere oggetto di studi futuri atti a determinarne

la validità timing-correlata nella nuova “era ipotermica”.

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Potrebbe infine rivelarsi molto utile prolungare oltre l’anno il periodo di follow up sia

per studiare meglio il timing di stabilizzazione del recupero neurologico sia per

analizzare con maggiore attenzione anche la sfera delle alterazioni della personalità.

Dato il riconoscimento del ruolo neuroprotettivo dell’ipotermia terapeutica per i

pazienti vittime di arresto cardiaco, emerge la necessità, confermata dalla letteratura

[202], di centralizzare i pazienti vittime di arresto cardiaco verso strutture che siano in

grado di assicurare il trattamento ipotermico secondo protocolli condivisi da varie

figure professionali (medico del servizio di emergenza territoriale, infermiere,

cardiologo, emodinamista, anestesista-rianimatore ecc.) e che permettano, in ultima

analisi, di raccogliere in modo omogeneo dati per lo sviluppo di studi futuri.

Per definire meglio il trattamento ipotermico anche in termini di target termico, di

tempistica delle varie fasi, di criteri di inclusione, di complicanze e di predittività degli

indici prognostici, emerge la necessità di condurre uno studio prospettico, controllato

e randomizzato su un campione ampio e omogeneo di pazienti.

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