Nella periferia di Tac

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Un racconto Singolare di Raffaele Riba

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singolari

NELLA PERIFERIA DI

TAC

RAFFAELE RIBA

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Nell’autunno del 1986 l’aria era più secca e Natan non sapeva ancora che avrebbe smesso di frequentare molte più persone di quante si sarebbe immaginato. Di loro avrebbe comunque ricordato il numero di telefono, la data del compleanno e se mai fossero state all’estero. Per sempre.

Nell’autunno del 1986, alla luce gialla di un faro d’angolo, le ultime ballate trattenevano i movimenti dei pochi rimasti: quattro uomini con la giacca dalle spalline imbottite che speravano ogni notte, la gamba di una vecchia signora seduta a guardare le danze e

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qualche ragazza provata dall’alcol ma tenuta in piedi da jeans molto aderenti.

Quelle persone saranno lì anche adesso, le ragazze ad aspettare il principe azzurro e i quattro uomini un preservativo di cristallo anche se, su quello spiazzo un po’ parcheggio un po’ balera, l’apparizione di un forestiero non era in grado di soddisfare le illusioni accumulate in secoli di povera gente. Ora come allora.

Tra loro, ma fuori di loro, Natan ballava fino a farsi uscire di dosso l’ultima goccia di sudore. Sollevava nubi di polvere come facevano i nativi per invocare la pioggia, come quando i bufali solcavano le praterie pestandosi per raggiungere i pascoli. Natan ballava, morso dal movimento, incurante dei principi azzurri, incurante delle speranze occasionali che tenevano svegli tutti gli altri.

Poi, quando il gestore messicano decideva che l’apocalisse dei disperati era giunta, spegneva il faro giallo come un dio veterotestamentario, pur sapendo che Natan poteva continuare finché voleva, lui che la musica ce l’aveva in testa e degli altri non si

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accorgeva ancora. In quella traballante periferia Natan veniva

chiamato Tac. Alla gente abituata a vederlo sembrava che su di

lui gravasse una nube di insetti, mosche e cavallette che lo mordevano a sangue. E invece non c’era mai niente. Natan viveva in uno scatto continuo, come per allontanare qualcosa che non c’è. Natan era moto perpetuo, energia dispersa, fastidio che si muove.

Natan veniva chiamato Tac, perché lì tutti dicevano che era la prima cosa che veniva da dire vedendolo, l’unico modo per accettare con lo scherno disumano ma partecipe di tutte le periferie quella nuvola di tic che era Natan detto Tac.

Natan la sua malattia l’ha scoperta da solo. Al campeggio dove abitava c’era poca gente anche

d’estate. Lui tagliava l’erba e puliva i cessi. In cambio aveva parcheggiato la roulotte che suo zio gli aveva regalato per toglierselo di torno e aspettare qualche turista da sfidare a ping pong. Sul tavolo da gioco

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erano passati cileni, austriaci, norvegesi e americani, russi e cinesi. Natan li aveva battuti tutti, uno dopo l’altro. Qualcuno scommetteva da bere, qualcun altro pochi spiccioli o una cassetta con canzoni da viaggio. Un giorno, in una sfida memorabile con il tedesco più basso che avesse mai visto, Natan vinse un tamburello di latta rosso e bianco perché con la racchetta in mano era inatteso e letale come la corrente che ogni giorno lo esauriva senza andarsene mai.

Al campeggio i quotidiani arrivavano solo in alta stagione e nei pochi giorni in cui Sebastian, il proprietario, non si alzava chiedendosi veramente chi fosse e cosa ci facesse lì.

In una mattina del tardo ottobre del 1986, Natan lesse per la prima volta della Sindrome di Tourette.

Dopo aver chiuso il giornale con il tonfo di una Bibbia, decise che sarebbe andato all’estero per sottoporsi alle cure di un neurochirurgo di nome Oliver Sacks.