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AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 4 L’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA NEI PROCESSI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO 1 Filippo Danovi Professore Ordinario di Diritto processuale civile, Università degli Studi di Milano Bicocca Sommario: 1. Finalità istruttorie e struttura dei giudizi di separazione e divorzio. – 2. Segue) In particolare: l’istruttoria nella fase presidenziale e i suoi caratteri. – 3. Segue) Dichiarazioni dei redditi e dichiarazioni sul patri- monio: produzioni, ordini e indagini. – 4. L’audizione del minore e la consulenza tecnica d’ufficio avanti al presi- dente. – 5. L’attività istruttoria disposta dal collegio in sede di decisione. – 6. Peculiarità dell’istruttoria in relazio- ne al contenuto dei provvedimenti e delle situazioni sostanziali incise. – 7. Esigenze istruttorie e differenziazione delle tecniche di tutela processuali. – 8. In particolare, la prova della riconciliazione. – 9. Stabilità dei provvedi- menti e correlate peculiarità istruttorie. – 10. Analisi dei tradizionali mezzi di prova e delle loro modalità di assun- zione nella separazione e nel divorzio: la consulenza psicologica. – 11. Cenni in relazione a ulteriori mezzi istruttori. – 12. Segue) L’audizione del minore. – 13. Conclusioni. 1. Finalità istruttorie e struttura dei giudizi di separazione e divorzio Nei processi di separazione e divorzio l’attività istruttoria presenta una serie di rilevanti pecu- liarità e una connotazione specifica rispetto al modello ordinario di cognizione. Un’indagine sul tema si presta peraltro a differenti impostazioni e piani di lettura, sicché un com- piuto inquadramento presuppone “a monte” una preliminare scelta metodologica, volta a individu- are criteri e ambiti di riferimento. Un dato costante è tuttavia rappresentato dall’influenza che sul tema della prova indubbiamente operano i profili caratterizzanti dei giudizi in esame, che investono il piano strutturale/ordinamentale, quello finalistico/teleologico e non ultimo anche quello conte- nutistico, relativo alle situazioni sostanziali oggetto del thema decidendum e incise dai provvedimen- ti del giudice. Da tutti questi punti di vista i giudizi di separazione e divorzio sono invero connotati da elementi e tratti di marcata specialità: seguono un iter processuale ad essi soltanto proprio, mira- no a tutelare beni e valori dotati di particolare valenza e investono dinamiche ed equilibri relazionali e familiari strettamente connessi alla sfera più intima della persona. Vi è dunque in primo luogo la presa d’atto, scontata ma innegabile e significativa, dell’influenza che anche sul tema della prova opera la suddivisione del processo in fasi distinte, aventi un’autonomia funzionale e strutturale ben più marcata di quanto avviene nel processo ordinario di cognizione. In questa prospettiva, la fase centrale per la raccolta del materiale probatorio resta quella istruttoria 1 Testo della relazione tenuta all’incontro di studio “L’attività istruttoria nei processi di separazione e divorzio”, organizzato da AIAF Lombardia a Milano il 1° dicembre 2011.

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AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 

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L’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA NEI PROCESSI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO 

Filippo Danovi Professore Ordinario di Diritto processuale civile, Università degli Studi di Milano Bicocca Sommario: 1. Finalità istruttorie e struttura dei giudizi di separazione e divorzio. – 2. Segue) In particolare: l’istruttoria nella fase presidenziale e i suoi caratteri. – 3. Segue) Dichiarazioni dei redditi e dichiarazioni sul patri-monio: produzioni, ordini e indagini. – 4. L’audizione del minore e la consulenza tecnica d’ufficio avanti al presi-dente. – 5. L’attività istruttoria disposta dal collegio in sede di decisione. – 6. Peculiarità dell’istruttoria in relazio-ne al contenuto dei provvedimenti e delle situazioni sostanziali incise. – 7. Esigenze istruttorie e differenziazione delle tecniche di tutela processuali. – 8. In particolare, la prova della riconciliazione. – 9. Stabilità dei provvedi-menti e correlate peculiarità istruttorie. – 10. Analisi dei tradizionali mezzi di prova e delle loro modalità di assun-zione nella separazione e nel divorzio: la consulenza psicologica. – 11. Cenni in relazione a ulteriori mezzi istruttori. – 12. Segue) L’audizione del minore. – 13. Conclusioni. 1. Finalità istruttorie e struttura dei giudizi di separazione e divorzio  Nei processi di separazione e divorzio l’attività istruttoria presenta una serie di rilevanti pecu-liarità e una connotazione specifica rispetto al modello ordinario di cognizione. Un’indagine sul tema si presta peraltro a differenti impostazioni e piani di lettura, sicché un com-piuto inquadramento presuppone “a monte” una preliminare scelta metodologica, volta a individu-are criteri e ambiti di riferimento. Un dato costante è tuttavia rappresentato dall’influenza che sul tema della prova indubbiamente operano i profili caratterizzanti dei giudizi in esame, che investono il piano strutturale/ordinamentale, quello finalistico/teleologico e non ultimo anche quello conte-nutistico, relativo alle situazioni sostanziali oggetto del thema decidendum e incise dai provvedimen-ti del giudice. Da tutti questi punti di vista i giudizi di separazione e divorzio sono invero connotati da elementi e tratti di marcata specialità: seguono un iter processuale ad essi soltanto proprio, mira-no a tutelare beni e valori dotati di particolare valenza e investono dinamiche ed equilibri relazionali e familiari strettamente connessi alla sfera più intima della persona. Vi è dunque in primo luogo la presa d’atto, scontata ma innegabile e significativa, dell’influenza che anche sul tema della prova opera la suddivisione del processo in fasi distinte, aventi un’autonomia funzionale e strutturale ben più marcata di quanto avviene nel processo ordinario di cognizione. In questa prospettiva, la fase centrale per la raccolta del materiale probatorio resta quella istruttoria

1 Testo della relazione tenuta all’incontro di studio “L’attività istruttoria nei processi di separazione e divorzio”, organizzato da AIAF Lombardia a Milano il 1° dicembre 2011.

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in senso stretto (l’attività di acquisizione e assunzione della prova mantenendo anche in questi casi davanti al giudice istruttore il suo terreno di elezione); del pari, tuttavia, è innegabile che la necessi-tà di un intervento autoritativo anche in limine litis modelli consequenzialmente le esigenze istrutto-rie sin dalle prime battute del processo. In questo senso, diviene naturale la deduzione e formazione della prova già nella fase iniziale avanti al presidente, poiché il fallimento del tentativo di concilia-zione e il dovere di assumere i provvedimenti provvisori e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole impongono al presidente di formarsi un primo convincimento circa i fatti di causa e di adottare le misure più opportune per ovviare quanto meno pro tempore alla situazione di crisi della famiglia. La legge, nell’art. 155 sexies c.c., conferma per tabulas questa interpretazione, stabilendo che il “giudice” (genericamente qualificato) «può assumere» (su istanza di parte o d’ufficio) mezzi di prova «prima dell’emanazione in via provvisoria dei provvedimenti di cui all’articolo 155» 2. Ed è forse superfluo ricordare a questo riguardo che laddove le norme processuali qualificano una de-terminata attività come potere per il giudice, in realtà tendono sempre a configurare in capo a questi un potere/dovere, rientrante tra i generali compiti che istituzionalmente gli appartengono. 2. Segue) In particolare: l’istruttoria nella fase presidenziale e i suoi caratteri  Poste queste premesse, non vi è peraltro dubbio che diversa è la finalità dell’istruttoria che ha luogo avanti al presidente rispetto a quella che si svolge avanti al giudice istruttore. Nel primo caso, l’istruttoria deve ritenersi in funzione dell’emanazione dei soli provvedimenti presidenziali e se da un lato ha quindi un contenuto più limitato (e circoscritto all’ambito delle misure da assumersi in via immediata e urgente), dall’altro presenta carattere sommario, in con-formità alla cognizione con la quale il presidente è chiamato ad assumere i suoi provvedimenti. Per questi motivi, l’istruttoria avanti al presidente non può estendersi ad alcuna indagine inerente domande che possono formare oggetto unicamente della decisione finale. A titolo esemplificati-vo, vale la pena di ricordare che nessun elemento di prova può essere in questo contesto tenuto in considerazione ai fini di un’eventuale successiva pronuncia di addebito e per cercare di escludere ab origine la concessione di un assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole. Dal secondo punto di vista, la sommarietà dell’indagine alla quale il presidente è chiamato fa sì che la stessa non debba necessariamente svolgersi in modo analitico e capillare, e mantenga margini di officiosità e con essa anche di discrezionalità superiori rispetto a quanto avviene d’ordinario (dovendo i provvedimenti provvisori e urgenti fondamentalmente assicurare le esi-genze immediate della famiglia in crisi). Per questo motivo è certamente preferibile adottare un criterio restrittivo e negare ingresso nella fase presidenziale a mezzi istruttori superflui e tali da aggravare inutilmente le esigenze di celerità riconnesse a questa specifica fase 3. 3. Segue) Dichiarazioni dei redditi e dichiarazioni sul patrimonio: produzioni, ordini e indagini  Poste queste premesse, occorre interrogarsi circa il concreto ambito di funzioni istruttorie tipiche

2 Sull’art. 155 sexies c.c. v. ad es. V. CARNEVALE, La fase a cognizione piena, in AA.VV., I processi di separazione e divorzio, II ed., Giappichelli, Torino, 2011, p. 102; L. SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio, in C. CONSOLO (a cura di), Il processo civile di riforma in riforma: comunicazione di atti e intimazione ai testimoni, trattazione della causa, procedimenti cautelari possessori, istruzione preventiva, separazione e divorzio, disciplina transitoria, Ipsoa, Milanofiori, Assago, 2006. 3 Cfr. M.A. LUPOI, Aspetti processuali della normativa sull’affidamento condiviso, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 1073; A. FRASSINETTI, sub art. 155 sexies c.c., in AA.VV., Commentario breve al diritto della famiglia, II ed., Cedam, Padova, 2011, p. 487.

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esercitate dal presidente. Il primo e fondamentale compito al riguardo è quello di esaminare la do-cumentazione allegata agli atti introduttivi e in particolare le dichiarazioni dei redditi delle parti. In-vero, tra le attività complementari alla redazione degli atti introduttivi, le riforme del 2005 hanno sancito per entrambi i giudizi la produzione in limine litis delle dichiarazioni dei redditi delle parti. La chiusa del nuovo art. 706, 3° comma, c.p.c. e l’art. 4, 6° comma, l. divorzio, prevedono espressa-mente che «al ricorso e alla (prima per l’art. 4, 6° comma, l. divorzio) memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi (rispettivamente per l’art. 4, 6° comma, l. divorzio) presentate». In termini generali, quel che è più grave è che l’espressione generica del testo legislativo non precisa di fatto come debba essere qualificata l’attività di produzione dei documenti fiscali, né soprattutto evidenzia le possibili sanzioni per la sua inottemperanza, ciò che renderebbe a pri-ma vista arduo considerare l’attività in esame come espressione di un onere in senso stretto in capo alle parti. A questo riguardo, peraltro, ad evitare di considerare la disposizione legislativa sostanzialmente lettera morta, non si può non assegnarle specifica valenza precettiva, ricono-scendo all’attività in esame carattere obbligatorio e ritenendo quindi che la mancata produzio-ne debba essere tenuta in considerazione dal presidente come comportamento valutabile ai fini dell’emanazione dei provvedimenti provvisori e urgenti 4. Tale conclusione merita di essere tenuta ferma anche se le dichiarazioni dei redditi devono es-sere allegate agli atti introduttivi, mentre in concreto la costituzione formale del convenuto (e, con essa, il deposito della memoria difensiva) potrebbe anche mancare, trattandosi di una fa-coltà e non di un vero e proprio obbligo in questa fase. Se dunque la non obbligatorietà della sua costituzione parrebbe astrattamente legittimare la posizione del convenuto che voglia ri-manere inerte, non si può tuttavia non attribuire al presidente, in funzione delle peculiari esi-genze di causa (e della necessità di pronuncia dei provvedimenti provvisori e urgenti), il pote-re/dovere di sollecitare la produzione della documentazione fiscale anche al coniuge convenu-to, o diversamente assumere i necessari provvedimenti anche in sua mancanza. A questo ri-guardo, tra l’altro, ad evitare che l’apparente lacuna del dettato normativo consenta di fatto al convenuto di presentarsi in udienza senza avere prodotto la documentazione in esame (così rendendo necessario «un rinvio della pronuncia di quei provvedimenti economici che dovrebbero regolare in tempi celeri la vita familiare» 5), si deve ritenere che il giudice possa sempre assegnare un (ottativamente breve) termine al convenuto, riservando i provvedimenti presidenziali all’e-sito di tale produzione. In questo caso, naturalmente, esigenze di simmetria riconnesse al con-traddittorio e al principio di parità delle armi tra le parti impongono l’assegnazione di un ter-mine – se richiesto – all’attore per il deposito di osservazioni e brevi note. In secondo luogo, e passando a un aspetto più propriamente organizzativo, va evidenziato che il richiamo alle «ultime» dichiarazioni dei redditi viene ormai comunemente interpretato dalla maggior parte dei tribunali come richiamo alle dichiarazioni fiscali relative all’ultimo triennio. Purtroppo, peraltro, il valore probatorio delle dichiarazioni dei redditi può essere in alcuni casi relativo e non realmente chiarificatore dell’effettiva situazione della parte. Vi sono casi in cui la dichiarazione dei redditi è addirittura preparata ad artem nell’anno (o negli anni) anteriori alla separazione, anche mediante l’ausilio di professionisti che studiano le misure per far apparire i

4 Così anche M. FINOCCHIARO, DL 35/2005 – Il rito civile. Separazione e divorzio, in Guida al diritto – Il Sole 24 ore, 11 giu-gno 2005, p. 95; A. GRAZIOSI, Osservazioni sulla riforma dei processi di separazione e di divorzio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1127, per il quale addirittura l’importanza che la documentazione in esame può assumere in relazione ai provve-dimenti provvisori, non tanto nell’ipotesi di produzione, quanto piuttosto, paradossalmente, proprio in quella di mancata e ingiustificata produzione, dovrebbe attribuire al presidente il potere di accogliere tout court le richieste economiche della parte che ha diligentemente prodotto le proprie dichiarazioni, a fronte dell’omissione della controparte. 5 Così L. SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio, cit.

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loro assistiti più indigenti in vista della separazione. Le tecniche sono purtroppo svariate: di-smissioni o revoche da alcune cariche sociali nelle società di famiglia, con conseguente o paral-lela riduzione degli emolumenti; mancata distribuzione di utili da parte delle dette società; ac-corgimenti e misure varie per “dirigere” parte degli emolumenti verso soggetti terzi e società fiduciarie; accordi con istituti bancari, scritture private con i propri familiari (con o addirittura senza data certa) attestanti debiti di varia natura (per pretesi risanamenti di donazioni effettua-te anni prima, magari in funzione del matrimonio, che all’improvviso vengono qualificate come prestiti) o addirittura retrocessioni di immobili. In queste ipotesi il presidente spesso non detiene in prima battuta gli strumenti idonei per for-marsi un quadro completo della realtà effettiva della situazione patrimoniale dei coniugi. Merite-vole al riguardo è quindi a mio avviso il rafforzamento della prassi (attualmente adottata soltanto da alcuni tribunali 6) di imporre alle parti in limine litis un’effettiva disclosure mediante una dichia-razione sostitutiva di atto di notorietà completa su tutti i beni, assets e attività ad esse riconducibili. In effetti, il sistema già contempla una norma (l’art. 5, 9° comma, l. divorzio) che impone alle par-ti di «presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale» non soltanto «la di-chiarazione personale dei redditi» ma «ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patri-monio personale e comune», legittimando altresì, in caso di contestazioni, il ricorso a «indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributa-ria» 7. Questa previsione, che la Suprema Corte ha stabilito debba applicarsi anche al processo di separazione, «stante l’identità di ratio riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale dell’assegno» di mantenimento 8, e che nell’opinione di chi scrive ha mantenuto valenza anche dopo la riforma sull’affidamento condiviso, si dimostra prima facie ben più ampia delle norme sul-la “sola” produzione delle dichiarazioni dei redditi (contenute nelle riforme del 2005) e merita quindi una più profonda meditazione e soprattutto un utilizzo più saldo in sede giudiziale, anche da parte del presidente. Sulla base di questa, il presidente ben può quindi iniziare a effettuare le opportune verifiche richiedendo alle parti la produzione di una dichiarazione giurata, da sanzio-nare in caso di omessa o falsa dichiarazione dal punto di vista “cognitivo”, come comportamento valutabile ai fini della decisione, e fatta salva la possibilità, ricorrendone i presupposti, di più inci-sive misure dal punto di vista penale o ex art. 709 ter c.p.c. Qualora «le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate 9, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni ogget-

6 Esemplificativamente si citano le esperienze del Tribunale di Roma, Genova e da ultimo Monza. 7 Sul punto è possibile altresì richiamare la disposizione prevista dall’art. 37, 3° comma, D.P.R. n. 600/1973 per il quale «in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona». In essa, il termine “possesso” ha una valenza differente e decisamente più ampia rispetto all’istituto previsto dall’art. 1140 c.c., potendosi realizzare tramite la semplice disponibilità del bene (in tal senso, C. DE PASQUALE, La riforma del processo di separazione e divorzio. Tutele sostanziali e processuali, testo della Relazione tenuta a Pisa il 15 settembre 2006, che ho potuto consultare nella versione dattiloscritta grazie alla cortesia dell’A). Ancora, si può richiamare l’art. 736 bis c.p.c., che, in rela-zione agli ordini di protezione contro gli abusi familiari consente al giudice di ordinare «ove occorra, anche per mezzo della poli-zia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita, e sul patrimonio personale e comune delle parti». 8 Così Cass., Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344, in Famiglia e diritto, 2006, p. 179, con nota di P. LAI, Polizia tributaria e pote-ri del giudice della separazione per accertare i redditi dei coniugi; Cass., Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4872, ibidem, con nota di A. LIUZZI, Poteri dell’autorità giudiziaria e indagini tributarie anche a carico di terzi; Cass., Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081, in Famiglia e diritto, 2010, p. 373, con nota di D. COSTANTINO, Accertamento dei redditi dei coniugi e poteri ufficiosi del giudice della separazione. 9 V. A. GRAZIOSI, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 cd. sull’affidamento condiviso dei figli, in Dir. famiglia, 2006, p. 1865, se-condo cui il presupposto per l’applicazione della norma deve essere ricondotto all’esistenza di «una significativa discrasia tra le risultanze dei documenti di natura economica prodotti dalle parti e quanto emerge, anche in via indiziaria, da altre acquisizioni pro-cessuali circa il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio o, più in generale, la situazione patrimoniale della famiglia».

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to della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi» (così l’art. 155, 6° comma, c.c.). Il giu-dice, ai fini della determinazione del contributo di mantenimento dei figli, può quindi altresì disporre – sempre d’ufficio – un accertamento della polizia tributaria su redditi, beni e altri ce-spiti patrimoniali riferibili ai genitori, anche se formalmente intestati a soggetti terzi. Per concludere questo profilo, è noto come la funzione rivestita richieda al presidente un parti-colare equilibrio nell’emanazione dei propri provvedimenti. Ciò non toglie che la discrezionali-tà del presidente non debba sempre essere improntata a (eccessiva) prudenza, bensì calibrata in funzione delle particolari circostanze del caso. E così, nelle ipotesi in cui la situazione tra le parti sia decisamente squilibrata, appare opportuno accordare quanto meno in prima fase una maggiore tutela in favore del coniuge “più debole”, sia perché l’esperienza insegna che in linea di principio e quanto meno a determinati livelli le possibilità del coniuge “più forte” sono nei fatti sempre superiori a quelle che effettivamente appaiono in giudizio, sia perché diversamente lo stesso considererà vantaggioso il provvedimento ottenuto con il rischio di vedere frustrata la possibilità di condurre i coniugi, nella fase successiva, ad alcun accordo di separazione. 4. L’audizione del minore e la consulenza tecnica d’ufficio avanti al presidente  Il presidente ha poi anche facoltà di sentire il figlio minore. Ai sensi dell’art. 155 sexies c.c., anzi, egli parrebbe tenuto a questo incombente. Sulla doverosità o meno dell’audizione si avrà modo di ritornare compiutamente in seguito. In ogni caso, per quanto attiene specificamente al con-testo dell’udienza presidenziale, ritengo fondamentale saper operare un discrimine. Ed invero, qualora i disagi lamentati in capo al minore siano lievi, non riterrei che vi sia spazio per alcun approfondimento, rischiando l’eventuale audizione di caricare di ulteriore conflittualità la fase presidenziale e ben potendo ogni necessaria indagine essere differita alla fase istruttoria. Qua-lora invece la situazione si presenti da subito come particolarmente grave, la sola audizione da parte del presidente potrebbe non rivelarsi sufficiente e pare allora più opportuno procedere immediatamente attraverso una consulenza tecnica, allo scopo di assumere con piena cogni-zione degli elementi della vicenda, le necessarie determinazioni sulle contrapposte pretese del-le parti. Ciò anche allo scopo di evitare una innaturale cristallizzazione di dinamiche familiari patologiche e di scongiurare se possibile il verificarsi di forme di disagio o disturbo quale ad es. la c.d. sindrome di alienazione genitoriale 10. La consulenza può certamente in linea di principio essere disposta avanti al presidente. Contro questa prassi non è certamente ostativo il disposto dell’art. 191 c.p.c., laddove letteralmente prevede che la nomina del consulente sia compiuta dal giudice istruttore; in realtà, la norma è stata evidentemente concepita con riferimento al modello del processo ordinario di cognizione (quale risultante nella stesura originaria del codice di rito), in tal modo riferendosi al giudice istruttore quale soggetto investito della direzione del processo sin dal momento iniziale (e per-tanto nei giudizi di separazione e divorzio estensibile per analogia al presidente, dal momento che la nomina del giudice istruttore è successiva allo svolgimento della fase presidenziale). Ritengo peraltro che una consulenza in sede presidenziale possa verosimilmente avere luogo

10 Con tale espressione si fa riferimento a quel particolare disturbo che può verificarsi a seguito del perpetuarsi di particola-ri situazioni di vita e di affidamento (anche in capo a uno dei genitori), ritenendosi che tale situazione, se protratta a lungo e con particolari modalità, si cristallizzi e sclerotizzi, inducendo il minore a una sorta di adattamento inconscio, ed impe-dendo così di riuscire a diagnosticare con precisione quale sia la soluzione davvero preferibile per il minore (cfr. al riguardo ad es. I. BUZZI, La sindrome di alienazione genitoriale, in V. CIGOLI-G. GULOTTA-G. SANTI (a cura di), Separazione, divorzio e affidamento dei figli, II ed., Giuffrè, Milano, 1997, p. 177).

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soltanto per gli aspetti “personali”, relativi alle scelte di vita esistenziali da adottare per i minori, sull’affidamento, sul collocamento e sulle modalità di visita. Per quanto attiene ai profili patri-moniali, il presidente come detto ha ampi poteri di indagine e ben può ai fini dei provvedimenti di sua competenza emanare provvedimenti sommari, che rendono di fatto inutile il ricorso in questa fase a indagini di tipo peritale. In relazione agli aspetti personali, invece, il problema è quello di capire come evitare che possano ulteriormente procrastinarsi situazioni di profondo disagio. E così, qualora dagli atti delle parti emergano elementi concreti che inducono a ritenere insostenibile il clima familiare, poiché ad esempio uno dei coniugi adotta comportamenti for-temente prevaricatori, o perché sia affetto da gravi patologie o dedito all’uso di alcool o sostanze stupefacenti, l’intervento giudiziale non può essere differito e si impone un’immediata risposta, se necessario anche attraverso un’indagine peritale che possa affiancarsi al ruolo del presidente e agevolarlo nel compito di assumere provvedimenti anche rivedibili a breve distanza. 5. L’attività istruttoria disposta dal collegio in sede di decisione  Per concludere l’indagine suddivisa in relazione ai momenti e alle fasi del processo, rimane da considerare il tema della prova disposta dal collegio in sede di decisione. Non è infrequente, infatti, che anche ad esito di una istruttoria accurata, il giudice istruttore riservi al collegio la decisione in merito a ulteriori richieste istruttorie. Tale situazione si verifica in special modo per approfondimenti di particolare complessità, quali possono essere quelli compiuti per il tramite di una consulenza patrimoniale, ovvero di indagini della Guardia di finanza. In linea di principio non sono favorevole a questa linea interpretativa. Al Collegio è bene che la causa sia rimessa nella sua interezza. Talvolta e in casi delicati l’esigenza di un ulteriore appro-fondimento istruttorio può sorgere in un momento successivo e richiedere indagini adeguate, ma anche in questi casi è il giudice istruttore che deve generalmente essere in grado di valutare quanto l’esigenza invocata sia reale ed effettiva ai fini di una completa disamina della causa. La rimessione al tribunale non deve invece servire come sorta di “protezione” da parte dell’organo collegiale circa i dubbi dell’istruttore. Ciò poiché la rimessione in decisione e la successiva ri-messione in istruttoria comportano tempi non indifferenti e un dispendio di attività processuali di fatto inutili, che devono se possibile essere risparmiati. Senza contare, infine, il rischio che il tribunale finisca per accontentarsi delle emergenze istruttorie già acquisite e a trascurare vie di indagine pur sollecitate dalle parti. Per questi motivi, ritengo che detta situazione possa essere legittimata soltanto da quelle esi-genze di graduazione di cui pure si è fatto cenno all’inizio. In altri termini, unicamente laddove il tribunale rilevi che le risultanze del giudizio su aspetti centrali siano parziali e non perfetta-mente concludenti (se – in altri termini e mutuando una locuzione che normalmente si utilizza in relazione a un istituto particolare, il giuramento – è stata raggiunta in giudizio unicamente una semiplena probatio) l’ammissione di ulteriori mezzi di prova da parte del Collegio può re-almente considerarsi congruente. 6. Peculiarità dell’istruttoria in relazione al contenuto dei provvedimenti e delle situazioni sostan‐ziali incise  Da altro punto di vista, la disciplina istruttoria della separazione e del divorzio presenta caratte-ri di specialità anche in relazione alla diversità del contenuto dei provvedimenti da adottare.

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E così, se la formula del già citato art. 155 sexies c.c. appare molto ampia (e per alcuni profili parrebbe autorizzare la spendita di poteri istruttori officiosi come dato generale all’interno del giudizio), non vi è dubbio che la portata della norma debba essere circostanziata e che la stessa non abbia ad esempio ad operare per i provvedimenti che riguardano unicamente i coniugi, per i quali un impulso inquisitorio non può apparire in alcun modo giustificato 11. In questo senso, ad esempio, in relazione alla domanda di addebito non può certamente essere disposta l’assunzione di alcun provvedimento istruttorio d’ufficio; ma analoga soluzione deve valere anche per i provvedimenti relativi al solo coniuge. Diversa è invece la soluzione da adottare per i provvedimenti relativi alla prole, siano essi di na-tura personale ovvero anche patrimoniale, poiché in questi casi l’impulso ex officio è pienamen-te legittimato dall’art. 155 sexies c.c. e trova conforto nell’orientamento ormai consolidato della Cassazione 12. Non solo. Per tutto quanto attiene la sfera che riguarda i minori il potere di ini-ziativa officiosa è in realtà ancor più ampio, potendo derogare anche ai principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato 13. Peraltro, occorre tenere presente che in concreto vi sono dati ed elementi probatori che possono interessare una pluralità di soggetti o addirittura la famiglia in generale e così contemporaneamente tanto le parti quanto i figli minori. Ciò accade ad esempio in particolare per i profili economici, i da-ti reddituali dei coniugi, il loro patrimonio, il tenore di vita goduto dalla famiglia. Ciò significa che ben può accadere che il giudice venga ad assumere anche mezzi istruttori d’ufficio per meglio prov-vedere relativamente alle esigenze dei figli e quindi trovarsi a utilizzare – in forza del principio di ac-quisizione – dette risultanze (legittimamente emerse nel corso del procedimento) anche come ul-teriore strumento di valutazione per i provvedimenti riguardanti il coniuge. L’assunzione di prove ex officio impone due ulteriori precisazioni. In primo luogo, su tutti i mezzi istruttori disposti ex officio il giudice è sempre tenuto a sollecitare il contraddittorio, la cui valenza ha notoriamente carattere trilatero e investe tutti i soggetti del procedimento. In secondo luogo, occorre chiedersi quale sia l’ambito temporale entro il quale possano essere esercitati i poteri officiosi. A questo riguardo, secondo una interpretazione strettamente lettera-le, i nuovi artt. 184, 2° comma e 183, 7° comma, c.p.c. indurrebbero a ritenere che l’ammissione ex officio di mezzi di prova debba necessariamente essere ancorata all’ordinanza di cui all’art. 183, 7° comma, c.p.c., e soltanto in questo frangente temporale, dunque, il giudice potrebbe e-sercitare i relativi poteri 14. A mio avviso, invece, l’indice normativo non dovrebbe avere valore cogente, non valendo a col-locare invariabilmente le iniziative istruttorie ufficiose nello spatium temporis dedicato all’am-missione dei mezzi di prova dedotti dalle parti: il giudice rimane libero di esercitare in qualsiasi momento del processo i propri poteri istruttori, a fronte dei quali la norma garantisce l’attua-

11 Per una lettura più permissiva v. peraltro V. CARNEVALE, La fase a cognizione piena, cit., p. 103. 12 Cfr. sul punto Cass., Sez. I, 10 ottobre 2007, n. 21293, «Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, non è configura-bile un generale potere-dovere del giudice di disporre d’ufficio mezzi istruttori, essendo al giudice consentito di derogare alle regole generali sull’onere della prova solo nei casi in cui tale deroga sia giustificata da finalità di ordine pubblicistico, che ricorrono nel-l’ipotesi di provvedimenti relativi all’affidamento dei figli ed al contributo al loro mantenimento ai sensi dell’art. 155, comma 7, c.c., ma non anche nell’ipotesi in cui si intenda dare dimostrazione della esistenza di comportamenti di uno dei coniugi contrari ai doveri derivanti dal matrimonio»; Cass., Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17043, secondo la quale: «nei giudizi di separazione e di-vorzio i provvedimenti relativi al mantenimento dei figli, in quanto volti alla tutela di interessi sì privati, ma rilevanti per l’ordine pubblico, è consentito al giudice di merito – in deroga ai principi generali – non solo acquisire d’ufficio le prove ritenute necessarie, ma anche adottare d’ufficio i provvedimenti relativi». In senso conforme v. anche Cass., Sez. I, 13 gennaio 2004, n. 270; Cass., Sez. I, 22 giugno 1999, n. 6312. 13 Sul tema sia consentito il richiamo a F. DANOVI, Principio della domanda e ultrapetizione nei giudizi di separazione, in Riv. dir. proc., 1998, p. 729. 14 Così A. GRAZIOSI, Osservazioni sulla riforma dei processi di separazione e di divorzio, cit., p. 1139.

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zione del diritto di difesa, e specificamente alla prova, delle parti 15. E tale soluzione si impone a maggior ragione nel processo di separazione e di divorzio, sia per il dovere del giudice di inter-venire prontamente a tutela dei figli minori, ogni qual volta se ne ravvisi l’opportunità, sia per la particolare modulazione del giudizio, all’interno del quale è doveroso tenere in considerazione dell’evoluzione della situazione personale e patrimoniale delle parti e di tutte le possibili so-pravvenienze in proposito. 7. Esigenze istruttorie e differenziazione delle tecniche di tutela processuali  Salve le eccezioni di cui si è appena parlato, il tema della prova è strettamente correlato al tema della domanda e alla struttura dei provvedimenti. Un problema specifico si pone quindi anche per tutte le ulteriori misure che possono essere assunte nei processi di separazione e divorzio e così ad esempio per le misure ex art. 709 ter c.p.c. A questo riguardo, preliminare rispetto al tema dell’istruttoria è il problema della forma con la quale devono essere irrogate le misure in esame. Nelle ipotesi in cui le stesse siano accordate una cum il provvedimento definitivo e conclusivo del procedimento, non vi è dubbio che le stesse ne costituiscano capi integranti. La forma rimane per-tanto quella legislativamente fissata, id est la sentenza che definisce il giudizio di separazione o di-vorzio, il decreto camerale che pone fine alla richiesta di modifica o revisione delle condizioni di se-parazione o divorzio, il decreto del giudice minorile nei procedimenti per l’affidamento dei figli na-turali (nonché il decreto del giudice tutelare per coloro che ammettono anche tale possibilità). Le misure in esame possono peraltro essere emanate nei processi di separazione o divorzio an-che in via endoprocessuale, con ordinanza da parte del giudice istruttore (oltre che con tutte le forme di provvedimenti temporanei previsti per gli ulteriori procedimenti sopra indicati) 16. A favore di tale soluzione milita una serie concorrente di considerazioni. Da un lato, la finalità di assicurare, tramite la misura sanzionatoria, l’effettività del provvedimento sull’esercizio della potestà o affidamento risulta connaturata all’esigenza di un intervento immedia-to, che sappia intervenire senza dilazione per ovviare ai comportamenti del genitore renitente. Secondariamente, la stessa gradazione che per qualche profilo sussiste tra le misure in esame (quanto meno tra quelle previste al n. 1 e quelle di cui ai successivi n. 2 e 3), fa capire come nel-la prassi ben potrebbe risultare opportuno dapprima un semplice “avvertimento” formale (tramite l’ammonimento di cui al n. 1), per poi rendersi necessaria, in caso di reiterate viola-zioni, una misura più radicale. Anche tale eventualità di una emanazione in progress giustifica la concessione delle misure in corso di causa. Ma soprattutto, e da un punto di vista sistematico, non varrebbe obiettare in senso contrario che le misure in esame, nella parte in cui prevedono conseguenze di matrice anche risarcitoria, incidono su diritti. In questi casi, invero, l’oggetto del processo è in realtà rappresentato dalla controversia sull’affidamento e le misure di cui all’art. 709 ter c.p.c. devono quindi sempre rite-

15 È chiaro infatti che la necessità di una ammissione ufficiosa di prove, pure nei limiti sopra segnati, può sorgere, per il giudice i-struttore, in qualunque momento del processo e talora (come per la prova testimoniale di riferimento) soltanto dopo l’assunzione delle prove proposte dalle parti. Detta soluzione vale del resto anche in termini generali, in relazione allo stesso e-strinsecarsi del processo di cognizione ordinario (cfr. G. TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, Giuffrè, Milano, 2002.). 16 Nello stesso senso F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso. b) profili processuali, in Famiglia e diritto, 2006, p. 388; L. SALVANESCHI, op. cit., p. 372; G. BALENA, in G. BALENA-M. BOVE, Le riforme più recenti del processo civile, Cacucci, Bari, 2006, p. 423; C. CECCHELLA, in C. CECCHELLA-G. VECCHIO, Il nuovo processo di separazione e divorzio, Il Sole 24 ore, Milano 2007, p. 112; S. VERONESI, L’intervento del giudice nell’esercizio della potestà dei genitori, Giuffrè, Milano, 2008, p. 268.

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nersi accessorie rispetto al provvedimento principale sull’affidamento. Così ragionando, vale per entrambi i provvedimenti il principio della possibile anticipazione; principio che in sede di separazione e divorzio trova espressione negli artt. 708 c.p.c. e 4 l. divorzio, per i giudizi di mo-difica nell’art. 710, 3° comma, c.p.c., mentre nei procedimenti per l’affidamento dei figli natura-li è sancito dall’art. 336, 3° comma, c.c. Per quanto concerne l’istruttoria, non vi è dubbio che la sua necessità (e la concreta tipologia con la quale la stessa debba essere effettuata) dipende in larga misura dalla tipologia di com-portamento denunciato e dalla misura con la quale in concreto il giudice intenda sanzionare il comportamento stesso. Nelle ipotesi di danni meramente materiali, la prova potrà essere il più delle volte anche docu-mentale. Laddove invece sia richiesta l’assunzione di una prova orale, la stessa dovrà essere contenuta en-tro i limiti di stretta indispensabilità, a evitare di esacerbare il contenzioso su aspetti comunque collaterali; ma dovrà essere comunque garantita, nella misura in cui il diritto alla prova rappresen-ta una componente essenziale del diritto di difesa della parte, e comunque atteso che il provvedi-mento deve essere concretamente parametrato anche in relazione ai danni effettivamente subiti. Ove invece la relativa istruttoria (che potrebbe profilarsi come necessaria) non possa essere agevolmente compressa entro gli schemi sommari di provvedimenti ordinatori ma richieda – a seconda dei casi – un adeguato apparato di mezzi di prova, più verosimilmente i provvedimenti in esame dovranno tuttavia essere riservati all’esito della finale decisione nel merito. Inoltre, qualora i danni invocati siano di natura più propriamente morale/esistenziale, se da un lato deve sempre ritenersi ammesso un giudizio equitativo del giudice nella loro determinazio-ne, tanto più giustificato in virtù della natura pubblicistica sottesa a tutte le misure in esame, dall’altro la delicatezza del provvedimento consiglia di sottoporre la relativa cognizione al giu-dizio del giudice finale del merito (id est, il collegio). 8. In particolare, la prova della riconciliazione  Una particolare eccezione spendibile nei giudizi di divorzio è quella di avvenuta riconciliazione tra i coniugi, la quale come noto – se fondata – ha l’effetto di provocare, ai sensi dell’art. 157 c.c., la cessazione degli effetti della separazione 17. Invero, ai sensi della norma appena citata, «i coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non e-quivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione». Di conseguenza, si interrompono gli effetti della separazione, e questa «può essere pronunciata

17 Per un’analisi più completa sull’argomento si vedano, ex plurimis, L. MAIONE, Separazione con addebito e riconciliazione solo "formale", in Nuova giur. civ. comm., 2011, p. 181; G. BONILINI, L’assenza di interruzione nella separazione personale tra coniugi quale causa di divorzio, in Fam. pers. succ., 2010, p. 6; R. RUSSO, La coabitazione può essere sufficiente a provare la ri-conciliazione tra i coniugi, in Famiglia e diritto, 2007, p. 888; A. ARLOTTA, I caratteri della riconciliazione, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 1021; G. VALENTE, Le riconciliazione tra coniugi separati, in Famiglia e diritto, 2007, p. 807; M. FIORINI, Semplificato l’onere della prova per chi eccepisce la riconciliazione, in Guida al diritto, 2007, p. 33; E. BELLISARIO, Sulla configu-rabilità dei comportamenti non equivoci incompatibili con lo stato di separazione: dal tentativo di conciliazione al... tentativo di divorzio, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 1285; C. UNGARI TRANSATTI, Solo il ripristino della vita coniugale "corpore et a-nimo" vale riconciliazione attuata mediante comportamento?, in Riv. notar., 2006, p. 501; V. CARBONE, La convivenza speri-mentale di coniugi già separati consensualmente non comporta riconciliazione, in Famiglia e diritto, 2006, p. 23; M. SESTA, Ri-conciliazione, ripristino automatico della comunione legale e opponibilità a terzi di buna fede, in Famiglia e diritto, 2004, p. 254; L. DE CANDIA, L’interruzione della separazione ai fini della pronuncia di divorzio, in Giur. it., 2000, p. 2035; P. IVALDI, Ricon-ciliazione e nuova separazione, in Famiglia e diritto, 2000, p. 364.

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nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione». In proposito, un aspetto senz’altro interessante e allo stesso tempo problematico è rappresen-tato dalla prova della suddetta circostanza, la quale dovrebbe riguardare, in linea di principio, tanto la ricostituzione della comunione materiale e spirituale attraverso comportamenti ine-quivoci e incompatibili con lo stato di separazione quanto l’effettivo ripristino della vita fami-liare e quindi della convivenza. La giurisprudenza dell’ultimo decennio è intervenuta sul tema in molte occasioni, ribadendo in linea generale la necessità che la riconciliazione – intesa quale ricostruzione del consorzio fami-liare, attraverso il complesso dei rapporti familiari e spirituali tra i coniugi che caratterizzano il vincolo familiare – venga accertata attraverso «un’indagine di fatto, da rimettersi al prudente ap-prezzamento del giudice di merito» 18. In particolare, la riconciliazione si verificherebbe in presenza di un completo ed effettivo ripri-stino della convivenza coniugale, che si manifesta attraverso la ripresa del consorzio di vita ma-teriale e spirituale che caratterizza il vincolo matrimoniale. A tal fine, si ritiene che possano rilevare unicamente quelli che la giurisprudenza ha definito «e-lementi esteriori, oggettivi e diretti in modo non equivoco a dimostrare la seria e comune volontà delle parti di ripristinare la comunione di vita» 19. Pertanto, sarebbero esclusi da ogni considerazione sul punto sia eventuali riserve mentali che, soprattutto, gli stati d’animo, i quali – trattandosi di interna corporis appartenenti di fatto alla sfera emozionale e soggettiva della persona – sarebbe-ro oltre tutto di per se stessi difficilmente accertabili. Al contrario, tra gli elementi – esterni e oggettivi – che possono essere oggetto di allegazione, prova e successivo accertamento, appare certamente rilevante il ripristino della coabitazione tra i coniugi, il quale, specie se unitamente ad ulteriori elementi e riscontri, è senz’altro potenzial-mente idoneo a fondare il positivo convincimento del giudice circa l’avvenuta conciliazione. Di recente, proprio la Suprema Corte è intervenuta sul tema, riconoscendo che la convivenza rap-presenta prova dell’avvenuta riconciliazione laddove, oltre a dimostrare una disponibilità alla ricostruzione del matrimonio, si protragga nel tempo 20. In ogni caso, due sarebbero gli effetti derivanti da un siffatto accertamento. In primo luogo, come anche affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’accertamento della ripresa della convivenza sarebbe tale da far presumere la riconciliazione, presunzione ad esempio «non su-perabile dal fatto che i coniugi, dopo la ripresa della convivenza, abbiano frequentato amici non co-muni, o abbiano dormito talora in camere separate, fatti e circostanze, queste, non infrequenti anche quando i coniugi siano legati da indubbia ed intensa affectio» 21. In secondo luogo, e con riferimento alla dimostrazione della circostanza, spetterà al coniuge che ha interesse a negarla (e quindi a ottenere la pronuncia del divorzio) dimostrare che il nuovo assetto posto in essere, per accordi intercorsi tra le parti o per le modalità di svolgimento della vita familiare sotto lo stesso tetto, era tale da non integrare una ripresa della convivenza e quindi da non configurarsi come evento conciliativo. Anche la c.d. “convivenza sperimentale” è da escludere ai fini della prova dell’avvenuta riconci-liazione, posto che, come già ricordato, è necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali caratterizzanti la vita coniugale 22.

18 V. Cass., Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165. 19 Cfr. Cass., Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314. In senso conforme si vedano anche Cass., Sez. I, 15 marzo 2001, n. 3744 e Cass., Sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2217. 20 Cfr. Cass., Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21001. 21 V. Cass., Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314. 22 Cfr. Cass., Sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497. V. anche Cass., Sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427.

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Per concludere, occorre ricordare che per sopperire in parte alle difficoltà di un siffatto accer-tamento, il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 sul nuovo ordinamento dello Stato Civile ha previ-sto all’art. 69, lett. f) che negli atti di matrimonio si faccia annotazione anche «delle dichiara-zioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione» 23. Ove ciò avvenga, la rela-tiva prova sarà in giudizio più agevole e quasi in re ipsa, risultando da adeguata certificazione amministrativa, potendosi in tali ipotesi eventualmente opporre unicamente la natura simulata di detta dichiarazione, sia pure con le relative difficoltà di prova e con il dubbio che gli effetti della simulazione potrebbero comunque non essere considerati idonei a inficiare di per sé il va-lore certificativo di tale annotazione. In ogni caso, dovrebbe essere compito del difensore – laddove interpellato sul potenziale effetto della nuova situazione – illustrare alla parte anche tale possibilità, anche se non è da escludere che talvolta le situazioni stesse siano dal punto di vista personale così particolari e sovente anche poco nitide da non poter essere identificate in modo tassativo entro categorie precise e inoppugnabili. 9. Stabilità dei provvedimenti e correlate peculiarità istruttorie  Ulteriore tema di rilievo che investe la prova nei giudizi di separazione e divorzio è quello che mette in relazione l’attività istruttoria con le peculiarità formali e strutturali dei provvedimenti giudiziali. Nell’ampio ed eterogeneo ventaglio di provvedimenti che il giudice è chiamato ad assumere vi sono infatti provvedimenti che dal punto di vista sistematico risentono in misura significativa della categoria generale nella quale vengono ad essere inscritti e per i quali pertan-to anche la prova assume particolari connotazioni. Così, ad esempio, mentre il capo della sen-tenza relativo allo status ha natura costitutiva ed è tendenzialmente l’unico ad acquisire almeno in linea generale la stabilità propria della cosa giudicata (peraltro con la particolare eccezione sopra indicata della riconciliazione in relazione alla separazione), assai differente è il discorso in relazione ai provvedimenti in ordine al mantenimento. Gli stessi sono infatti condanne in futu-ro, mirano a soddisfare obbligazioni di durata, e la relativa pronuncia è oltre tutto sempre rebus sic stantibus (e soggetta a potenziale modifica ex art. 710 c.p.c. e art. 9 l. divorzio). In questi casi, non è possibile immaginare di applicare le regole ordinarie sulle preclusioni endopro-cessuali e deve quindi ritenersi sempre possibile l’allegazione (e la prova) di fatti nuovi, autorizzan-do così di fatto una dilatazione delle tradizionali scansioni processuali in relazione allo stesso evol-versi delle situazioni sostanziali protette, ovvero del substrato fattuale sulla base del quale il giudice è chiamato ad emanare i provvedimenti. Sotto questo profilo, dunque, anche la prova risente del regime di stabilità del provvedimento ed è chiamata ad assicurare una più effettiva rispondenza del-la situazione di fatto all’ambito della valutazione finale da sottoporre al giudice 24. In questo senso deve essere letta ad esempio la prassi consolidata in diversi tribunali di ordina-re alle parti, in corso di causa e soprattutto prima della precisazione delle conclusioni, il deposi-to anche delle ulteriori dichiarazioni dei redditi medio tempore presentate, di eventuali nuovi bilanci societari, della documentazione inerente investimenti mobiliari, la vendita di beni im-mobili o la dismissione di altri cespiti. Sul fronte delle domande di carattere personale deve invece considerarsi legittima (e opportu-na) la produzione, anche successivamente allo spirare dei termini per le memorie istruttorie, di

23 Per un approfondimento sul tema si veda P.E. MERLINO, Separazione personale tra i coniugi, riconciliazione e regime patrimo-niale della famiglia: osservazioni in margine al d.p.r. n. 396 del 2000 (nuovo ordinamento dello stato civile), in Giust. civ., 2006, p. 421; R. MONTANO, Annotabilità dell’intervenuta riconciliazione dei coniugi sull’atto di matrimonio, in Dir. eccl., 2001, p. 65. 24 Sul tema cfr. D. AMADEI, Scansione delle udienze, preclusioni e procedimento di separazione e divorzio, in Giur. it., 2000.

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documentazione o ulteriori istanze volte a verificare l’evoluzione della situazione dei figli mino-ri, ai fini ad esempio di modificare il calendario di frequentazioni disposto in via interinale o nei casi più gravi l’adozione di provvedimenti di carattere più incisivo. In tutti questi casi, che ovviamente devono anche in qualche misura contemperare il rispetto del principio di ragionevole durata del processo (per il quale non si può certamente pensare ad un prolungamento sine die del giudizio), da un punto di vista della tecnica processuale l’unico profilo da tenere costantemente in considerazione è quello del rispetto del principio del contraddittorio. 10. Analisi dei tradizionali mezzi di prova e delle loro modalità di assunzione nella separazio‐ne e nel divorzio: la consulenza psicologica  Passando ai tradizionali mezzi istruttori propri della separazione e del divorzio, un primo im-portante richiamo è alla consulenza tecnica di ordine psicologico. Detto istituto presenta connotati specifici, poiché sua caratteristica è quella di svilupparsi non soltanto nella constatazione di fatti o accadimenti, ma di attitudini ed elementi interni della personalità, al fine di studiare e valutare le dinamiche relazionali tra i diversi soggetti del con-flitto familiare. Per lo stesso motivo, la consulenza è chiamata altresì a fornire una chiave di let-tura e di interpretazione dei dati acquisiti durante le indagini. In questa prospettiva, dunque, la consulenza psicologica assume pressoché sempre carattere più propriamente deducente (o giu-dicante), che meramente percipiente 25: l’ausilio richiesto dal giudice al consulente non si limita infatti alla mera acquisizione di dati, ma si esplica in una valutazione professionale e tecnica de-gli stessi, in funzione di una decisione sulle domande svolte in causa dalle parti, o di quanto comunque costituisce, ex auctoritate, oggetto del giudizio 26. Per altro verso, si assiste all’interno del processo civile a una sempre maggiore specificazione e diffe-renziazione delle indagini psicologiche, che possono fondamentalmente ricondursi a consulenze di tipo psichiatrico e consulenze psicologiche in senso stretto, alle quali si aggiunge un’ampia gamma di ul-teriori esami psicodiagnostici, disposti soltanto di rado autonomamente, mentre più spesso impie-gati come ulteriore approfondimento dell’indagine psicologica, e al fine di confermare (o anche modulare e temperare) i risultati raggiunti in tale sede. Da questo punto di vista il consulente d’ufficio può ampliare l’ambito della propria indagine sottoponendo le parti e i figli minori a tests psicodiagnostici, al fine di ottenere una più completa diagnosi delle personalità individuali, ed una più precisa comprensione degli aspetti relazionali intercorrenti tra gli stessi. I tests somministrati si distinguono normalmente in due categorie: tests di livello (id est di intel-

25 Per questa distinzione (al cui proposito già G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1913, p. 837, aveva evidenziato come il consulente –allora perito– non debba limitarsi a relazionare il giudice sulle constatazioni di fatti compiute, ma debba altresì fornirgli le induzioni che devono trarsi dai fatti esaminati) cfr. M. VELLANI, voce Consulen-za tecnica nel diritto processuale civile, in Digesto disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, p. 526; B. CAVALLONE, Le iniziative probatorie del giudice: limiti e fondamento. Ispezione giudiziale e consulenza tecnica, ora in Il giudice e la prove nel processo civile, Cedam, Padova, 1991, p. 240 (che ricorda in particolare il frequente accostamento, nella dottrina germanica più risalente, del consulente percipiente al testimonio); L. MONTESANO-G. ARIETA, Diritto processuale civile, vol. II, Giappichelli, Torino, 1997, p. 151. Cfr. altresì S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II, p. 102 (laddove evidenzia la distinzione astratta tra il peritus testis e il peritus arbiter, per quanto rilevando che normalmente nella stessa elencazione e descrizione dei dati oggetto della consulenza si evidenzia il ricorso alle regole di esperienza, e così in definitiva un giudizio del consu-lente), e L. FRANCHI, Del consulente tecnico, del custode e degli altri ausiliari del giudice, Maggioli Editore, Napoli, p. 686 (che, nel criticare la sostituzione della previgente terminologia di perizia, distingue il consulente che “consiglia”, da quello che “non consiglia”, ma “constata”). 26 Per la possibile non coincidenza, nei giudizi riguardanti i minori, dell’oggetto del giudizio con quanto espressamente ri-chiesto dalle parti, sia consentito il rinvio a F. DANOVI, Principio della domanda e ultrapetizione nei giudizi di separazione, cit.

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ligenza; ad es. il test di Wais) e tests proiettivi (volti cioè ad approfondire la personalità attraver-so un esame mirato maggiormente all’inconscio; tra questi quelli applicati con maggiore fre-quenza sono in particolare il test di Rorschach, quello di Sachs, e il T.A.T. (Thematic Appercec-tion Test), nonché per i minori i tests di Blaky, Duss e C.A.T.) 27. Questi esami vengono raramente effettuati dallo stesso consulente, essendo più opportuno il ricorso a un esperto psicodiagnosta 28; in quest’ipotesi, è comunque necessario che il consulen-te abbia cura di riportare nella propria relazione finale i tests applicati, e le relative tabelle di ela-borazione, nonché di richiamare e valutare le conclusioni formulate dall’esperto 29, motivando la propria adesione (o meno) ai risultati raggiunti nell’indagine testistica 30. L’indagine del consulente psicologo, per quanto non rigidamente preordinata e in linea di principio liberamente organizzabile (sia in quanto espressione di attività di tipo professionale, sia soprattutto a motivo delle infinite variabili delle problematiche sottese a verifiche di questo genere) trova nondimeno una precisa linea direttiva e di orientamento nel quesito sottoposto dal giudice. A questo riguardo, e malgrado la varietà delle espressioni e delle formule impiegate, l’elemento pressoché costante nella prassi è costituito dal riferimento, quale obiettivo finale dell’indagine, all’interesse del minore. Quanto ai modi di esplicazione dell’indagine peritale, essi possono considerarsi nel loro com-plesso orientativamente strutturati sulle informazioni rese dai soggetti dell’indagine, attraverso colloqui, audizioni, “interviste”, ovvero ancora tests attitudinali, di livello e proiettivi. Il colloquio rappresenta senza dubbio il più frequente strumento di indagine al quale si fa ricor-so nelle consulenze aventi per oggetto modifiche della capacità di agire, della potestà o dell’af-fidamento dei minori. Esso risulta nel complesso assimilabile al colloquio clinico di indirizzo psicoanalitico, dal quale nelle sue linee di fondo deriva; per determinati profili, tuttavia, e se-gnatamente con riferimento alla causa originante e allo scopo diretto dell’indagine, esso pre-senta maggiori analogie e affinità con i colloqui di tipo selettivo 31. Come già accennato, infatti, nelle consulenze psicologiche l’obiettivo diagnostico dominante si identifica nello studio delle relazioni intercorrenti tra i diversi soggetti del conflitto, così impo-nendo un’analisi non già soltanto molecolarmente diretta, allo studio della personalità del sin-golo, bensì di tipo “sistemico”, rivolta al gruppo familiare nel suo complesso. Del resto, un ap-proccio di tipo “sistemico” viene ormai considerato compatibile anche rispetto agli schemi concettuali psicanalitici, sostituendo all’analisi psicodinamica dell’individuo lo studio, sempre dinamico, delle interazioni tra i diversi soggetti posti in relazione. Ciò, tuttavia, con alcune innegabili diversità. La perizia psicologica, ad esempio, deve espli-carsi in un ambito temporale limitato e necessariamente ristretto, in considerazione della stessa logica del processo e soprattutto della necessità di intervenire con immediatezza in si-tuazioni di vita alterate nei propri equilibri fisiologici, al fine di evitare che le stesse possano

27 Cfr. E. PROTETTÌ-M.T. PROTETTÌ, La consulenza tecnica nel processo civile, Giuffrè, Milano, 1999. 28 Ciò sia in considerazione del fatto che il consulente psicologico non necessariamente deve avere una formazione professio-nale tale da consentirgli di effettuare con perizia la somministrazione dei tests, sia per l’idea spesso presente dell’opportunità che le valutazioni del test siano effettuate da un soggetto estraneo all’indagine sulle parti, per evitare che i risultati dei tests stessi possano essere interpretati per avallare necessariamente il convincimento già formatosi nella mente del consulente. 29 V. Cass. 9 gennaio 1973, n. 10, in Foro it., 1973, I, c. 2533 ss. In dottrina cfr. S. COSTA, Manuale di diritto processuale civi-le, Utet, Torino, 1980, p. 348. 30 V. Cass. 9 aprile 1975, n. 1302. 31 Cfr. al riguardo PROTETTÌ-PROTETTÌ, op. cit., che individuano i diversi profili che lo distinguono dal colloquio psicoana-litico vero e proprio.

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rimanere sfornite da una precisa regolamentazione giuridica 32. Anche per questo motivo, nelle perizie psicologiche aventi per oggetto l’affidamento, il collo-camento o le modalità di visita dei minori, che hanno funzione valutativa piuttosto che tera-peutica, può risultare vantaggioso l’utilizzo di metodologie proprie della terapia della famiglia a indirizzo sistemico 33. In tal modo, potranno essere più agevolmente compresi eventuali disagi, anche di grave entità, frequenti tra i componenti del nucleo familiare in crisi, in una visuale di superamento del punto di vista classico che al contrario approfondirebbe il disturbo mentale in sé, indipendentemente dalla condizione ambientale circostante. Così operando, va precisato che eventuali sintomatologie psichiatriche presenti nei membri della famiglia talvolta altro non rappresentino che una forma di adattamento “logico” a un sistema relazionale deviante e illogi-co, e di conseguenza possano essere comprese e “accettate”, nella presumibile convinzione che, ponendo fine al disequilibrio proprio del contesto generale, le stesse vengano stemperate e il soggetto riesca a ritrovare il proprio naturale equilibrio. Per converso, nei casi in cui il consulente avverta l’esigenza di un vero e proprio intervento pro-grammatico, necessario allo scopo di fornire un sostegno ai membri della famiglia e ristabilizzarne l’equilibrio, risulta fondamentale il consiglio (rectius l’indicazione), di sottoporre i minori (nonché eventualmente i genitori) ad un sostegno terapeutico, per supportare in modo programmatico nel tempo le carenze della capacità educativa riscontrate: tale parere, per quanto in sé non vincolante, esplica comunque efficacia all’interno del processo, sia pure in via indiretta e riflessa 34. Sempre dal punto di vista della funzione, ma sotto altro profilo, è dato constatare come l’effetto della consulenza tecnica in materia psicologica possa in concreto esorbitare dai limiti tradizio-nali e risultare più estesa di quanto sarebbe suo compito istituzionale. Al riguardo, infatti, pur dovendo essere ribadita, anche per quanto attiene alla consulenza psi-cologica, la caratteristica generale della consulenza tecnica di rappresentare un mezzo inam-missibile ove richiesto meramente ad explorandum, in quanto inidoneo (a dispetto del suo ca-rattere anche officioso) ad esonerare la parte dall’onere della prova 35, è dato riscontrare come nella fattispecie in esame detto principio subisca un naturale temperamento. Invero, nella ma-teria delle indagini psicologiche, il compendio degli elementi che il consulente acquisisce ed elabora risulta non soltanto già dal punto di vista oggettivo estremamente diversificato ed insu-scettibile di una rigorosa classificazione e catalogazione (tale da imporne la preliminare allega-zione agli atti di parte), ma soprattutto, laddove preordinato a risolvere questioni inerenti al-l’affidamento dei figli minori, ricollegato a quella parte dell’oggetto del giudizio svincolata dal principio della domanda, e conseguentemente anche dal principio dispositivo in senso stretto, in tal modo finendo con il fornire al processo dati da utilizzare in funzione della decisione an-che se in ipotesi non supportati a latere da alcuna risultanza istruttoria, o in ipotesi neppure da allegazioni agli atti di causa.

32 E ciò anche dal momento che rappresenta interesse primario del minore, il reperimento di una relazione affettiva equili-brante e continua, non può vivere per troppo tempo in situazioni di incertezza conteso da genitori che, inevitabilmente, lo coinvolgono nei propri drammi. 33 Cfr. sul punto P. WATZLAWICK, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1978; G. BEAVIN, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976; M. SELVINI PALAZZOLI, Paradosso e controparadosso, Milano 1975. 34 La mancata presa in considerazione delle prescrizioni impartite dal consulente può infatti essere considerata dal giudice quale elemento idoneo a modificare ad esempio la situazione di affidamento del minore in precedenza disposta. 35 E conseguentemente l’impossibilità in capo alla parte di utilizzare la consulenza come mezzo esclusivo per assolvere l’onere della prova sulla stessa incombente, in difetto del ricorso ad ulteriori mezzi istruttori che ne giustifichino il ricorso (sul punto cfr. ad es. S. SATTA, op. cit., p. 100; C.M. BARONE, voce Consulente tecnico, in Enc. giur. Treccani, p. 5; VELLANI, voce Consulenza tecnica, cit., p. 526. In giurisprudenza si vedano, ad es., Cass., Sez. I, 14 febbraio 1980, n. 1058; Cass., Sez. III, 13 dicembre 1979, n. 6513; Cass., Sez. III, 10 novembre 1979, n. 5806; Cass., Sez. III, 13 novembre 1978, n. 5192; Cass., Sez. III, 3 maggio 1978, n. 2055; Cass., Sez. III, 23 marzo 1978, n. 1411; Cass., Sez. III, 26 luglio 1977, n. 3340).

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Per altro verso, poi, nonostante la consulenza di regola persegua unicamente il fine di accertare le relazioni tra i soggetti del conflitto familiare e suggerire proposte per i nuovi assetti di equilibrio emozionale e relazionale che la separazione e il divorzio devono istituire, può talvolta accadere che tramite la consulenza emergano risultanze in astratto ausiliarie e di supporto nei confronti di ulteriori istanze avanzate in causa dalle parti. Si pensi, ad esempio, alla diagnosi della personalità di uno dei coniugi, e in specie all’individuazione della vessatorietà e della prevaricazione proprie del suo comportamento, che talvolta possono risultare dalla consulenza; in questi casi, le risultan-ze dell’indagine espletata assumono indiretto rilievo anche per comprovare e suffragare la do-manda di imputazione della responsabilità della separazione formulata in causa da una delle parti attraverso la richiesta di addebito, beninteso a condizione che esse non risultino isolate, ma costi-tuiscano conferma di quanto autonomamente provato con i mezzi istruttori ordinari 36. Nei giudizi di separazione e divorzio la figura del consulente tecnico d’ufficio ha col tempo acqui-sito un ruolo di sempre maggiore rilevanza. La legge prevede che il consulente abbia facoltà di as-sistere il giudice nel compimento dei singoli atti istruttori e nell’intero svolgimento del processo, compiere indagini, fornire chiarimenti e riferire al giudice in camera di consiglio. Il consulente viene considerato quale ausiliare del giudice, non solo nel rispondere al quesito tecnico-scientifico formulatogli, ma nell’assistere e nel collaborare allo svolgimento della fase istruttoria. Al riguardo, se da un lato raramente il consulente fa uso di tali facoltà, limitandosi a svolgere il suo operato al di fuori delle aule giudiziarie 37, si verifica comunque una sempre maggiore inte-grazione e commistione tra l’ausilio che lo stesso deve fornire al processo e quello che egli trae dal processo 38; da un lato accanto al tradizionale compito del consulente di aiutare l’organo decidente a formare il proprio convincimento si assiste anche a una funzione orientatrice dello stesso svolgimento dell’attività istruttoria da parte del giudice 39; dall’altro il consulente assiste alla formazione del convincimento giudiziale tramite la lettura degli atti e l’eventuale raccolta di ulteriore materiale probatorio, in tal modo procurandosi anche ulteriori elementi di indagine e di verifica, anche ai fini del compito affidatogli. Non è un caso, del resto, che con sempre maggiore frequenza si assista a consulenze nelle quali, più che una semplice raccolta di dati e ad una “fotografia” della situazione in un determinato contesto storico, viene richiesto altresì un monitoraggio delle dinamiche familiari in periodi di tempo ripetuti e più o meno lunghi, in questo modo consentendo di esprimere con maggiore precisione quella percezione della realtà che costituisce lo scopo dell’indagine peritale 40.

36 Ciò che può avvenire, in altri termini, unicamente in quanto la relazione peritale offra elementi aggiuntivi ulteriori per la valutazione delle risultanze di determinate prove. 37 Cfr. ad es. S. SATTA, op. cit., p. 109. 38 Cfr. F. CARNELUTTI, Diritto e processo, in Trattato del processo civile (diretto da Carnelutti), Napoli, 1958, p. 81, laddove ricorda che il consulente deve in linea di principio operare non indipendentemente dal giudice, ma “attraverso di lui”. Con riferimento alle consulenze di tipo psicologico, l’opportunità di rendere quanto più possibile intensa la collaborazione tra giudice e consulente è stata sottolineata ad es. da A. DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici con-cernenti i minori nelle procedure civili ed il ruolo dello psicologo, in P. DUSI, Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore, Giuffrè, Milano 1990, p. 196; A.C. MORO, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, Bologna, 1996, p. 340. 39 In termini generali, cfr. C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, vol. II, Giappichelli, Torino, 2011, p. 167. Nell’ambito del diritto di famiglia, in particolare, le risultanze della consulenza tecnica (normalmente disposta prima del compimento di ulteriori attività istruttoria) possono contribuire ad orientare il giudice istruttore nel giudizio di ammissibi-lità e rilevanza delle deduzioni istruttorie formulate dalle parti, inducendolo a ritenere irrilevanti, o comunque superati, e-ventuali capitoli di prova formulati dalle parti a sostegno di domande in ordine alle quali sia intervenuta la consulenza. Sot-to altro profilo, come rileva A. DELL’ANTONIO, Spazi e ruoli dello psicologo nelle procedure civili, in A. MESTITZ (a cura di), La tutela del minore tra norme, psicologia ed etica, Giuffrè, Milano, 1997, p. 272, il consulente ha facoltà di sollecitare l’intervento di ulteriori organi (quali ad esempio i servizi sociali) per aiutare a ristabilire dinamiche familiari maggiormente consone all’interesse del minore e favorevoli al suo sviluppo psicologico. 40 Cfr. al riguardo le osservazioni di M. CARPIGNANO, Osservazioni sulle consulenze tecniche, d’ufficio e di parte, relative a separa-zioni ed affidamento dei figli, in Dir. famiglia, 1997, p. 1571 che pur manifestando dubbi di principio sull’opportunità di attribui-

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In questo contesto deve essere esaminata l’attività di lettura e di esame degli atti di causa da parte del consulente. Questa attività, che talvolta i consulenti trascurano, o quanto meno pospongono all’audizione delle parti e dei minori (ritenendo maggiormente corretto un approccio alla “mate-ria viva” oggetto della consulenza scevro da preconcetti e da rappresentazioni esterne), assume al contrario una importanza rilevante. Se infatti è vero che l’attività del consulente, e i risultati della sua indagine, non sempre sono necessariamente vincolati alle concrete domande proposte dalle parti (poiché, come detto, l’affidamento dei figli e le ulteriori questioni agli stessi relative prescin-dono dal principio della domanda, è irrilevante sotto questo profilo che il consulente debba ne-cessariamente conformarsi a domande in concreto spese nel processo, potendo e dovendo lo stesso comunque agire secondo quanto ritenuto opportuno nel superiore interesse del minore), è tuttavia altresì innegabile che il consulente d’ufficio agisce all’interno del processo, e deve pertan-to per quanto possibile rispettare la logica di questo rispondendo conformemente ad essa 41. Il consulente è infatti legato ad un preciso mandato ricevuto dal giudice mediante la formulazione del quesito, ed in questa prospettiva la lettura di tutto il materiale scritto di causa può comunque agevolare la formulazione di conclusioni maggiormente coerenti, e conseguentemente anche sot-toponibili con minore facilità a contestazioni o censure 42. Per altro verso, occorre ricordare altresì che una lettura attenta degli atti può agevolare il con-sulente a ricollegare determinate risposte rese dalle parti al contesto generale del conflitto in essere, nonché permettergli di reperire dati e indicazioni utili, quali ad esempio il riferimento ad eventuali terzi, presenti nella vita del nucleo familiare ormai disgregato ed in particolare in quella dei figli minori della coppia, il cui esame potrebbe rivelarsi fondamentale per meglio comprendere la situazione in atto e formulare le opinioni richieste 43. In altri casi, poi, può ancora accadere che agli atti di causa sia allegata anche documentazione proveniente da servizi sociali o altri organi “imparziali” che abbiano in passato preso parte alla vita della famiglia o dei minori, formulando giudizi, consigli, opinioni. L’attività di questi orga-ni, se ovviamente non può ritenersi sostitutiva della perizia, può certamente offrire a questa ul-teriori elementi di spunto, permettendo quanto meno di dilatare lo spettro temporale di inda-gine attraverso la raccolta di dati pregressi. In definitiva, pertanto, appare fortemente raccomandabile che il consulente esamini attenta-mente gli atti di causa, eventualmente anche successivamente ai primi colloqui con i soggetti periziandi, ma sempre prima della stesura definitiva dell’elaborato peritale. Sotto il profilo dell’esame dei soggetti, la questione maggiormente dibattuta consiste nel verifi-care se l’audizione dei minori possa essere svolta dal consulente d’ufficio singolarmente, esclu-dendo dal colloquio anche i consulenti di parte; nonché nello stabilire se e come possa altri-menti essere salvaguardato il rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio 44.

re alle consulenze psicologiche anche il compito di “incidere direttamente, cioè nel corso stesso della loro esecuzione, sulle persone e sulle dinamiche relazionali che si stanno osservando”, riconosce tuttavia il “valore psicoterapeutico” indiretto che la consulenza psicologica finisce quasi sempre con l’esplicare, anche se non diretta di proposito a tal fine. 41 Cfr. G. SERGIO, Bambini contesi e processo civile: il contributo della psicologia per la tutela dei minori, in A. MESTITZ (a cura di), La tutela del minore tra norme, psicologia ed etica, cit., che qualifica l’attività del consulente psicologo come giudizializzata, rite-nendo che essa risponda più ai principi del processo che a quelli della scienza e della professione dello psicologo. 42 Conforme M. CARPIGNANO, op. cit., p. 1570. 43 È evidente, peraltro, che se il consulente può disporre del potere di richiedere informazioni e chiarimenti a terzi coinvol-ti nella vicenda familiare, lo stesso non dispone ovviamente di poteri coercitivi di sorta al riguardo. Per altro verso, poi, an-che le eventuali informazioni assunte non possono essere considerate nell’ambito del processo come dotate della valenza propria delle prove testimoniali, né essere in tal senso utilizzate ai fini della decisione (in termini generali cfr. al riguardo S. SATTA, op. cit., p. 112; C.M. BARONE, voce Consulente tecnico, cit., p. 6; in giur. v. Cass., Sez. III, 8 maggio 1979, n. 2615). 44 In linea generale, per il necessario rispetto di tali principi anche nell’ambito della consulenza tecnica v. E.T. LIEBMAN, Ma-nuale di diritto processuale civile. Principi, V ed., Giuffrè, Milano, 1992, p. 351; M. VELLANI, voce Consulenza tecnica, cit., p. 532.

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In generale, infatti, il consulente d’ufficio ha facoltà di compiere le indagini anche da sé solo, ma in tal caso «le parti possono intervenire alle operazioni in persona o a mezzo dei propri consu-lenti tecnici e dei difensori, e possono presentare al consulente, per iscritto o a voce, osservazioni e i-stanze» 45. Di regola, qualora le parti abbiano ritenuto di avvalersi della facoltà loro concessa dalla legge, la presenza dei consulenti di parte alle operazioni viene ritenuta indispensabile per assicurare il rispetto del contraddittorio, e, con esso, la regolarità della consulenza. Per quanto riguarda le indagini psicologiche su minori, pur non essendovi alcuna disposizione che espressamente deroghi la regola generale, si ritiene generalmente necessario agire con estrema sen-sibilità e prudenza, dovendo l’audizione del minore attuarsi mediante strumenti e metodologie a-deguate a preservarne il diritto all’integrità psicologica, ad evitare che dalla consulenza possano es-sere riportate conseguenze negative sull’equilibrio psicoevolutivo interno del periziando 46. Per questo motivo, nonostante parte della dottrina consideri de iure condito insopprimibile fa-coltà per i consulenti di parte presenziare alle operazioni peritali 47, alcuni consulenti d’ufficio preferiscono sentire i minori personalmente, anche senza l’intervento dei consulenti di parte. La legittimità di una simile prassi, motivata da ragioni di opportunità, pare concretamente so-stenibile sul piano del diritto positivo, non tanto svalutando il ruolo dell’audizione del minore, considerandola sede ove non si realizzerebbe direttamente il convincimento giudiziale, e rite-nendo allo scopo sufficiente (in mancanza di strumenti alternativi 48) la salvaguardia del con-traddittorio (id est il confronto con i consulenti di parte) all’atto della discussione degli elabo-rati peritali contenenti i risultati delle indagini 49, quanto piuttosto ove si rifletta sul particolare status della persona sottoposta ad esame. Invero, avendo l’audizione per oggetto un minore, le regole applicabili risentono ovviamente della disciplina generale relativa alla figura del minore nel processo. In questa prospettiva, non si può non ricordare come ogni decisione riguardante i minori prescinda dalla domanda

45 Tanto dispone l’art. 194 c.p.c.; e ciò viene altresì ripreso dall’art. 201 c.p.c., nella determinazione delle facoltà concesse ai consulenti di parte. 46 In questa prospettiva, l’audizione del minore viene usualmente qualificata in termini di “problema”, rappresentando una situazione per lo stesso potenzialmente foriera di elementi ansiogeni e di ulteriori tensioni; sotto questo profilo, in partico-lare, non bisogna dimenticare che la consulenza psicologica tende spesso ad indagare (nel minore ma così anche nelle per-sone adulte) aspetti della personalità che non sempre il soggetto scientemente riconosce, o meglio ancora accetta, e per-tanto il rischio latente rimane sempre quello che dall’esame emerga una componente di aggressività e reattività negativa-mente direzionata (cfr. ad es. A. DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici concernenti i minori, cit., p. 191; ID., Consulenza tecnica e ascolto del minore nelle procedure della separazione giudiziale, in C. SARACENO-M. PRADI (a cura di), I figli contesi. L’affidamento dei minori nella procedura di separazione, Unicopli, Milano, 1991, p. 107; M. CARPI-GNANO, op. cit., p. 1568). Tali problemi sono del resto accentuati dalla considerazione che purtroppo, anche a motivo dell’alto grado di soggettività proprio delle interpretazioni dei dati acquisiti nel corso dell’indagine, i consulenti di parte sovente non assumono un atteggiamento imparziale e volto a tutelare esclusivamente l’interesse del minore, bensì si pale-sano portatori degli interessi del proprio assistito, in tal modo perdendo la funzione anche moderatrice che, a motivo della specifica professionalità che rivestono, dovrebbero perseguire (A. DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici concernenti i minori, cit., p. 191). 47 E. PROTETTÌ-M.T. PROTETTÌ, op. cit., p. 135. 48 Si pensi ad esempio ai vetri unidirezionali, da alcuni consulenti utilizzati per contemperare le esigenze del minore con quelle delle parti di poter assistere al colloquio per mezzo dei propri consulenti. Sotto altro profilo nelle fattispecie in esa-me si potrebbe ricorrere alla registrazione e alla trascrizione del colloquio, mettendo a disposizione dei consulenti di parte tali riproduzioni meccaniche dell’audizione del minore. 49 G. CHIOVENDA, op. cit., p. 838, aveva sottolineato (sia pure al diverso fine di ammettere la delega del perito a terzi per il compimento di singole operazioni) la precisa distinzione intercorrente tra la perizia vera e propria, intesa come “giudizio tecnico pronunziato sui dati raccolti”, e le operazioni peritali preparatorie, consistenti in quella ampia gamma di operazioni di raccolta di elementi e dati da utilizzare per esprimere il giudizio tecnico richiesto. In questa prospettiva, tuttavia, sarebbe comunque arduo configurare l’audizione diretta come mera operazione preparatoria, in quanto lo svolgimento del collo-quio, e attraverso questo la raccolta diretta dei dati (pur presentando un connotato segnatamente “materiale”) influisce in maniera evidente sul giudizio tecnico finale del consulente stesso.

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espressa di una parte 50, e come il giudice stesso possa procedere all’audizione del minore sepa-ratamente. Per tale motivo, non vi è ragione per negare il conferimento di tale potere in via ana-logica anche al consulente d’ufficio, che del giudice rappresenta in definitiva la longa manus sot-to il profilo tecnico-scientifico 51. In virtù dell’art. 194 c.p.c., la giurisprudenza ritiene inoltre che il consulente d’ufficio possa rivol-gersi (sia pure con limitazioni, non essendo ovviamente dato delegare integralmente l’incarico ricevuto dal giudice), anche d’ufficio, per ricerche o indagini di particolare complessità o delica-tezza, a esperti o istituti specializzati, operanti anche in assenza dei consulenti di parte, a condi-zione unicamente che i risultati cui detti terzi pervengano possano essere oggetto di controllo da parte di questi ultimi 52; dal che si desume, a maggior ragione, che, ove lo ritenga necessario, egli ben possa svolgere le operazioni (almeno in parte) senza la presenza dei consulenti di parte. Così ragionando, le facoltà dei consulenti di parte assumono il connotato di onere piuttosto che diritto vero e proprio 53, e deve pertanto ritenersi che, ove il consulente d’ufficio richieda ai con-sulenti di parte di astenersi dall’essere presenti ai colloqui con il minore, esponendo i motivi che lo hanno indotto al convincimento dell’opportunità di una tale scelta, i consulenti di parte siano vincolati all’opinione manifestata dal consulente d’ufficio. Ove ciò si verifichi, il rispetto del diritto di difesa potrà comunque essere salvaguardato relazionando puntualmente i consu-lenti di parte degli esiti dell’audizione, e consegnando loro qualsiasi prova (ad es. tests o altro) eseguita sul minore, affinché gli stessi possano svolgere le loro osservazioni, e sia consentita, anche prima della stesura della relazione peritale, la discussione sui risultati dell’audizione. L’esigenza di approfondimento che attraverso la consulenza psicologica si intende soddisfare non esaurisce il bisogno, avvertito nei processi aventi ad oggetto lo stato delle persone e i rapporti di famiglia, di una specializzazione ad ampio raggio, che coinvolga tutti i soggetti chiamati a parteci-pare al conflitto giudiziario. Anche il ruolo del giudice è profondamente mutato in questo campo, naturale riflesso di quella autonomia strutturale propria della materia in esame, che consente sot-to diversi profili di superare schemi e principi fondamentali del processo di cognizione 54. Se tali prerogative non incidono sulle regole generali dell’ammissione della consulenza tecnica (per sua natura sempre comunque esperibile anche d’ufficio) le stesse assumono tuttavia un preciso significato in ordine ad ulteriori profili, e segnatamente all’idoneità della consulenza tecnica a fornire elementi di valutazione svincolati dal contesto probatorio quale risultante dal-le iniziative istruttorie delle parti.

50 Si vedano in dottrina C.M. BIANCA, Commentario al diritto italiano della famiglia (diretto da G. CIAN-G. OPPO-A. TRABUC-CHI), tomo VI, I, Cedam, Padova 1993, p. 373; M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio. Il dato normativo. I problemi interpretati-vi, Utet, Torino, 1995, p. 58; M. MANTOVANI, La separazione personale dei coniugi (artt. 150-158 c.c.), Cedam, Padova, 1983, p. 240; E. GRASSO, La pronuncia d’ufficio. I. La pronuncia di merito, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 176-177; C. MANDRIOLI, Separa-zione per ordinanza presidenziale?, in Riv. dir. proc., 1972, p. 204.; A. PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in E. ALLORIO (di-retto da), Commentario del codice di procedura civile, vol. I, 2, Utet, Torino 1973, p. 1053; F. TOMMASEO, sub art. 4 l. 898/1970, in Commentario al diritto italiano della famiglia, Cedam, Padova, p. 284. In giurisprudenza si vedano, tra le altre, Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185,; Cass., Sez. I, 23 agosto 1990, n. 8582; Cass., Sez. I, 27 febbraio 1990, n. 1506, Cass., Sez. I, 15 febbraio 1985, n. 65; Cass., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5267; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1983, n. 693. 51 Cfr. al riguardo le riflessioni di V. DENTI, Perizie, nullità processuali e contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1967, p. 405; ID., Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, p. 427, laddove rileva (sia pure annotando tale fenomeno in termini negativi) come l’inquadramento sistematico della consulenza in un contesto differenziato rispetto a quello dei mezzi di prova veri e propri, e la sua rappresentazione come mero strumento di supporto del giudice, producano altresì la naturale e indiretta conseguenza di indurre a svalutarne il carattere contraddittorio, rendendola «strumento per la integrazione delle conoscenze del giudice al di fuori della sua sede naturale, che è lo svolgimento dialettico dell’istruttoria». 52 V. Cass., Sez. lav., 8 luglio 1983, n. 4628; Cass., Sez. III, 5 dicembre 1985, n. 6099. 53 V. Cass., Sez. I, 12 luglio 1979, n. 4020. 54 Si pensi in particolare alla più volte ricordata facoltà di emanare, anche d’ufficio, ogni provvedimento ritenuto opportu-no nell’esclusivo interesse del minore, in tal modo derogando non solamente al principio della domanda, ma altresì al principio dispositivo in senso stretto.

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In ogni caso, deve essere tenuto fermo che il compito del consulente non deve sconfinare nella valutazione giuridica del materiale di causa, prerogativa esclusiva dell’organo giudicante; il parere del consulente non può mai vincolare il giudice, che è soltanto tenuto a dare adeguata motivazio-ne della propria decisione, e quindi anche, eventualmente, del suo dissenso su quanto espresso dal perito. A questo proposito, e al fine di evitare che la decisione del magistrato possa essere fa-cilmente esposta a censure in sede di gravame, si rivela opportuna, se non indispensabile, non so-lamente una specializzazione delle competenze, tramite l’istituzione (così come avviene in alcuni tribunali) di sezioni appositamente preordinate al contenzioso familiare 55, ma altresì lo studio della psicologia giuridica da parte degli organi giudiziari a quello preposti 56. Sotto altro profilo, anche l’interpretazione del ruolo del difensore nei giudizi coinvolgenti mi-nori, ancora strettamente collegata alla visione tradizionale dell’avvocato come portatore uni-camente delle istanze del proprio assistito, dovrebbe essere in qualche modo temperata, in ar-monia con l’esigenza di tutelare l’interesse dei minori 57. Un siffatto temperamento presupporrebbe per altro non solamente una specializzazione in questo settore del diritto 58, ma altresì una particolare sensibilità, nonché un approfondimento dello studio di scienze non propriamente giuridiche quanto piuttosto sociali, che abbiano co-me scopo quello di far comprendere alla parte assistita tutti gli interessi in gioco, al fine di valu-tare i propri diritti in una prospettiva non già unidirezionale, bensì inserita nel generale conte-sto familiare, ed interagente con i diritti altrui. Da questo tipo di approccio deriva come prima e più ovvia conseguenza che l’avvocato che o-pera nell’ambito del diritto di famiglia sia legato ancor più strettamente all’osservanza dei prin-cipi deontologici, sia nella conduzione della propria difesa (e in particolare nella stesura degli atti), che nei rapporti con i colleghi e con i consulenti 59.

55 O quanto meno, nei casi in cui per ragioni oggettive (dimensioni ridotte del tribunale o altro) ciò non possa avvenire, una scelta dei giudici, predeterminati a svolgere tali funzioni (come ad esempio non è infrequente, in alcuni tribunali mi-nori, la consuetudine di far trattare le cause di diritto di famiglia dal presidente del tribunale, anche dopo la fase presiden-ziale, in funzione di presidente istruttore). Ha da ultimo rilevato al riguardo G. SERGIO, Consulenze, relazioni tecniche, ap-porti dei componenti provati in tema di affidamento e di adozione dei minori, in Dir. famiglia, 1999, p. 358, come l’interesse del minore, oggetto della consulenza e più in generale del giudizio di merito nel suo complesso, rappresenti fenomeno da valu-tarsi non esclusivamente da un punto di vista psicologico, bensì anche etico-sociale, culturale e ambientale, essendo la real-tà della famiglia costituzionalmente disciplinata in un contesto così inquadrato. Ne consegue la pericolosità della formula-zione di quesiti giudiziari generici, che deleghino la soluzione del problema interamente al consulente, residuando sempre, a fianco alla valutazione psicologica, una serie di aspetti di merito di competenza del giudice, per i quali si rende pertanto in concreto necessaria una particolare sensibilità ed esperienza. 56 Conformi L. GRASSO, op. cit.; A. DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici concernenti i minori, cit., p. 197; ID., L’opinione del minore nei procedimenti giudiziari, in Studi in onore di Rescigno, Milano, 1998, vol. V, p. 882. A questo proposito può ricordarsi come in alcuni casi l’esigenza di mantenere il necessario grado di approfondimento tecni-co-scientifico in sede decisoria sia avvertita dal legislatore attraverso il ricorso ad un particolare strumento: l’integrazione dell’organo giudicante mediante l’inserimento di esperti, scelti in relazione alla particolare natura della controversia (V. DENTI, Scientificità della prova, cit., p. 423). È quanto ad esempio accade nei giudizi avanti al Tribunale per i minorenni, nel quale il Collegio giudicante è composto, in aggiunta ai magistrati ordinari, di due membri laici, un uomo e una donna, qua-lificati come esperti e scelti fra soggetti benemeriti dell’assistenza sociale, cultori di biologia, psichiatria, antropologia cri-minale, pedagogia e psicologia (artt. 2, R.d.l. n. 1404/1934 e 50 ord. giud.). 57 Concorde A. DELL’ANTONIO, La consulenza tecnica d’ufficio su quesiti psicologici concernenti i minori nelle procedure civili ed il ruolo dello psicologo, cit., p. 194. 58 Cfr. al riguardo ad es. le diverse relazioni presentate al primo Congresso dell’Associazione italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori tenutosi a Roma, e pubblicate in Famiglia e diritto, 1995, pp. 79 e 178, sotto il comune titolo L’avvocato nelle procedure di tutela della famiglia. 59 Non vi è infatti purtroppo nessuna regola, ad eccezione del divieto di espressioni sconvenienti ed offensive di cui all’art. 89 c.p.c., che sanzioni l’utilizzo di affermazioni screditanti ed offensive negli atti di causa; anche tale norma, per altro, ha trovato nella prassi scarsa applicazione, dal momento che alla richiesta della parte di cancellazione delle espressioni ritenute sconve-nienti ed offensive, e di una condanna per il danno subìto, è estremamente raro che faccia seguito una pronuncia affermativa da parte del giudice. Questa situazione è del resto originata anche dalla considerazione che il giudice, pur essendo incaricato

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In tale prospettiva, tra difensore e consulente tecnico dovrebbe in particolare intercorrere una stretta collaborazione, esplicantesi in un rapporto di totale lealtà, volto a non nascondere al-cunché, e ad individuare congiuntamente le soluzioni più armoniche ed equilibrate nei con-fronti di tutti i componenti della famiglia. Così ragionando, e se pure in linea di principio i legali dovrebbero poter intervenire allo svolgi-mento delle operazioni peritali (ad eccezione di quei casi in cui, come detto, il consulente d’ufficio intenda compiere l’audizione dei soggetti – specie minori – da solo), occorre tener pre-sente che nell’esame dei minori la presenza di ulteriori soggetti (per di più se astrattamente “mo-tivati” ad ottenere dal minore un determinato comportamento o determinate risposte) costitui-sce una notevole fonte di disagio per il minore stesso; mentre nell’esame delle parti, la presenza del legale acuisce naturalmente la tensione e la conflittualità, essendo naturale che la parte identi-fichi nel legale avversario l’estrinsecazione processuale delle rivendicazioni del coniuge. Per questi motivi, anche qualora la presenza del legale alle operazioni peritali sia ammessa, co-stituisce precisa regola deontologica preavvertire sia il consulente che la controparte della pro-pria intenzione di presenziare alle operazioni peritali, così da “provocare” un contraddittorio anticipato sulla questione, ed evitare situazioni di giustificato imbarazzo da parte del consulen-te che si trovi costretto a procedere in presenza unicamente di un difensore. 11. Cenni in relazione a ulteriori mezzi istruttori  Una disamina dell’istruttoria nella separazione e nel divorzio rende opportune alcune specifi-cazioni anche in relazione a ulteriori mezzi di prova. Così ad esempio, in relazione alla prova statisticamente più utilizzata, id est la testimonianza, il particolare thema decidendum (e correlato thema probandum) proprio dei giudizi in esame sol-lecita alcune particolari riflessioni. E così ad esempio, la necessità di provare comportamenti che talvolta non hanno una indiscu-tibile e tassativa qualificazione ma assumono una valenza diversa a seconda delle relazioni e de-gli stati d’animo, porta sovente i difensori a tentare di rappresentare capitoli di prova intrinse-camente valutativi. A questo riguardo, è invece opportuno all’atto della deduzione cercare di relazionare con precisione la prova ai fatti che si ritengano utili ai fini della decisione; sarà poi compito degli atti difensivi finali quello di far emergere, dalla conferma resa in sede di deposi-zione testimoniale, la valenza dei singoli fatti ai fini delle richieste avanzate in causa. A volte i giudici della famiglia tendono a stigmatizzare, siccome sintomatica di una inutile con-flittualità, l’indicazione di un numero elevato di capitoli di prova; a questo proposito è tuttavia innegabile che alcune domande presuppongono l’esame di una pluralità di comportamenti o elementi di riscontro non preventivamente limitabili. Si pensi a questo riguardo non soltanto alla domanda di addebito (che postula una indagine che oltre tutto risente anche in modo si-gnificativo del personale sentire del magistrato), ma altresì alle domande di carattere economi-co, le quali richiedono una articolata indagine anche sul tenore di vita pregresso della famiglia. Ed è parimenti vero che dati come quello appena considerato possono emergere con maggiore nitore quanto più numerose sono le circostanze dimostrate. Sarebbe estremamente utile, poi, un intervento particolarmente rigoroso da parte del giudice

della direzione del processo, troppo spesso e per motivi facilmente comprensibili, da un lato non è in grado di evitare le a-sprezze anche verbali e i comportamenti a volte pesantemente ingiuriosi che vengono assunti davanti a lui, dall’altro e di fondo non ritiene comunque utile sanzionarli nella sentenza, ad evitare l’ulteriore inasprirsi dei comportamenti tra le parti.

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circa l’attendibilità o inattendibilità del teste. Nella prassi si assiste a volte del tutto disarmati a deposizioni che prima facie risultano compiacenti, e che poi nella dispersione temporale del giudizio (e talvolta anche approfittando del cambiamento del giudice) rimangono agli atti sen-za alcun richiamo di quanto avvenuto. Da questo punto di vista il significato dell’oralità impor-rebbe una immediata lettura dei comportamenti del testimone, e una particolare severità da parte del giudice nello stigmatizzare atteggiamenti poco rispettosi e testi già preparati, come del resto l’art. 256 c.p.c. specificamente consente. Talvolta, se le deposizioni dei testi vertono su aspetti centrali e risultano del tutto incompatibili sarebbe poi opportuno utilizzare l’istituto del confronto tra testimoni, che il nostro legislatore ha indicato nell’art. 254 c.c. ma che risulta di fatto pressoché sconosciuto alla prassi. In alcune ipotesi, poi, anche l’ispezione dell’abitazione può essere richiesta, qualora ad esempio si tratti di verificare una stabile convivenza di uno dei coniugi. Da ultimo, anche le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero o più in generale il comportamento processuale delle stesse può costituire un valido elemento di lettura da parte del giudice. Il sistema dispone come noto di una norma generale, l’art. 116 c.p.c., per la quale le dichia-razioni e i comportamenti sono utilizzabili come argomenti di prova. Il giudice della separazione e del divorzio dovrebbe tenere conto di tale possibilità più sovente di quanto accada nella prassi. 12. Segue) L’audizione del minore  Il tema dell’ascolto del minore, del suo inquadramento giuridico e dei suoi presupposti legitti-manti è sempre stato al centro dell’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza e ha dato adito a dubbi e interpretazioni anche diversificate, favorite dalle peculiarità dell’istituto, intriso di valutazioni di natura psico-pedagogica 60, dal pluralismo delle fonti di riferimento, non sempre oltre tutto di inequivoco tenore, e ancor più dalle differenze tra i modelli proces-suali che l’ordinamento configura nel vasto settore del contenzioso familiare. Anche dal punto di vista della sua funzione, l’ascolto del minore rappresenta una figura sui generis, non interamente riconducibile ai tradizionali strumenti dell’interrogatorio libero o della testimo-nianza 61, anche se certamente finalizzato a soddisfare esigenze di matrice lato sensu istruttoria.

60 Sull’ascolto del minore la letteratura è vastissima. Si vedano ad es. A. DELL’ANTONIO, Ascoltare il minore. L’audizione dei minori nei procedimenti civili, Giuffrè, Milano, 1990; ID., La partecipazione del minore alla sua tutela. Un diritto misconosciuto, Giuffrè, Milano, 2001, p. 97; A. FINOCCHIARO, L’audizione del minore e la convenzione sui diritti del fanciullo, in Vita not., 1991, p. 834; A. GRAZIOSI, Note sul diritto del minore ad essere ascoltato nel processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, p. 1281; P. VERCELLONE, La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo e l’ordinamento interno italiano, in Minori giusti-zia, 1993, p. 124; R. THOMAS-M. BRUNO, I provvedimenti a tutela dei minori, Giuffrè, Milano, 1996, p. 1; G. MANERA, L’ascolto dei minori nelle istituzioni, in Dir. famiglia, 1997, p. 1551; M-L. DE LUCA, L’ascolto del minore nel processo civile co-me diritto e come strumento probatorio, in Minori giustizia, 1998, p. 64; S. GIULIANO, L’audizione del minore infradodicenne e la pronuncia di adottabilità, in Famiglia e diritto, 2001, p. 155; A. LIUZZI, L’ascolto del minore tra convenzioni internazionali e normativa interna, ibidem, p. 679; A. GRECO, Ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano, in Studium Iuris, 2003, p. 231; G. MAGNO, L’ascolto del minore: il precetto normativo, in Dir. famiglia, 2006, p. 1273; P. RE-S. VICINI, L’ascolto indiretto del minore: indagini dei Servizi Territoriali, ibidem, p. 1294; P. PAZÉ, L’ascolto del bambino nel procedimento civile minorile, i-bidem, p. 1334; G. CESARO, L’ascolto del minore nella separazione dei genitori: le riflessioni della difesa, in Minori giustizia, 2006, p. 157; ID., L’ascolto del minore nella separazione dei genitori: dalle convenzioni internazionali alla legge sull’affido condi-viso, in Legalità e giustizia 2006, p. 267; M. BRIENZA, L’ascolto del minore: la prospettiva del giudice, ibidem, p. 242; L. FADI-GA, Problemi vecchi e nuovi in tema di ascolto del minore, in Minori e giustizia, 2006, p. 133; P. MARTINELLI, Spunti di aggior-namento sugli ascolti del minore, ibidem, p. 152; M. PERSIANI, L’ascolto del minore: pregi e ambiguità di una norma condivisibile e necessaria, ibidem, p. 164; P. RONFANI, Le buone ragioni a sostegno della pratica dell’ascolto, ibidem, p. 147; M. ROVACCHI, L’audizione del minore nei procedimenti di separazione e divorzio, in Il civilista, 2007, p. 13. 61 Sul punto la dottrina è concorde: v. ad es. A. GRAZIOSI I processi di separazione e di divorzio, Utet, Torino, 2008, p. 51; P. PAZÉ, op. cit., p. 1341; A. DELL’ANTONIO, La partecipazione del minore alla sua tutela, cit., p. 148; G. DE MARZO, L’af-

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Con l’importante pronuncia 21 ottobre 2009, n. 22238 62, le Sezioni Unite hanno segnato un preciso indirizzo e fornito una chiave di lettura al quesito, vivamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza, circa l’obbligatorietà o meno dell’audizione del minore nei processi della crisi della famiglia. La Suprema Corte ha sposato l’interpretazione apparentemente più garantista, in favore dell’obbligatorietà dell’ascolto, raccogliendo il plauso di quanti riassumono gli etero-genei problemi gravitanti intorno al tema nello snodo – pur centrale – del diritto del minore di far sentire la propria voce nel processo. Purtroppo, tuttavia, la soluzione data dalla Cassazione deve essere attentamente analizzata, a evitare di ingenerare l’illusione di una valenza superiore a quella che in realtà le deve essere propria. Secondo la Suprema Corte, in particolare, le norme (internazionali e interne) che regolano la materia imporrebbero oggi che i minori siano previamente ascoltati nei processi aventi ad og-getto l’affidamento e la regolamentazione del diritto di visita con i genitori, e comunque in tutti i giudizi destinati a regolare in via esclusiva o prevalente gli interessi primari di cui gli stessi sia-no portatori. Secondo la ricostruzione offerta, l’audizione sarebbe necessaria in quanto i minori, anche qua-lora non siano parti del procedimento, devono considerarsi titolari di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori e per tale motivo assumono sempre la qualifica di parti in senso so-stanziale. Di conseguenza – sempre ad avviso della Corte – il mancato ascolto del minore che abbia compiuto dodici anni, o anche di età inferiore laddove dotato di capacità di discernimen-to, integrerebbe una violazione del principio del contraddittorio e dei canoni regolatori del giu-sto processo, sanzionabile sul piano processuale con la nullità del provvedimento. Al riguardo, l’indagine deve necessariamente muovere dal dato normativo. A questo proposito, dopo anni di sostanziale disinteresse (se si eccettua il riferimento «prudenziale» inserito nel 1987 nella legislazione speciale del divorzio 63) il nostro legislatore processuale ha in tempi re-centi finalmente introdotto una disposizione di carattere generale, l’art. 155 sexies c.c. 64. La norma ha colmato una vera e propria lacuna, resa ancor più stridente se raffrontata al panorama internazionale, che aveva da tempo sottolineato la centralità del tema dell’ascolto del minore 65.

fidamento condiviso. I. I profili sostanziali, in Foro it., 2006 c. 92; M.A. LUPOI, op. cit., p. 1074; M.G. DOMANICO, L’ascolto del minore nei procedimenti civili, relazione al seminario della Camera Minorile di Milano, in www.minoriefamiglia.it, p. 2. 62 Tra i commenti alla pronuncia cfr. M. FINOCCHIARO, Un adempimento ritenuto inderogabile da assolvere con le modalità più convenienti, in Guida al diritto, 2009, n. 48, p. 44; A. GRAZIOSI, Ebbene sì, il minore ha diritto di essere ascoltato nel proces-so, in Famiglia e diritto, 2010, p. 364; M. G. RUO, “The long, long way” del processo minorile verso il giusto processo, in Dir. famiglia, 2010, p. 119; A.R. EREMITA, Sull’audizione dei figli minori nei processi di separazione e di divorzio, in Il giusto proces-so civile, 2010, p. 235; V. LONG, Ascolto dei figli contesi e individuazione della giurisdizione nel caso di trasferimento all’estero dei figli da parte del genitore affidatario, in Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 312; ID., Le conseguenze processuali del mancato a-scolto del minore, in Minori giustizia, 2009, p. 245; S. TARRICONE, Le S.U. civili e la giustizia minorile: nuovi passi verso l’ef-fettività della tutela impartita, tra fonti interne e spazio giuridico sovranazionale, in Dir. famiglia, 2010; F. DANOVI, L’audizione del minore nei processi di separazione e divorzio tra obbligatorietà e prudente apprezzamento giudiziale, in Riv. dir. proc., 2010, p. 1415 ss. 63 In forza del quale l’audizione avrebbe dovuto avvenire soltanto ove il Presidente lo avesse ritenuto «strettamente necessario». 64 La norma, introdotta dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, per effetto dell’art. 4, 2° comma, della stessa legge deve ritenersi ap-plicabile non soltanto alla separazione, ma altresì ai processi di divorzio, ai giudizi di invalidità del matrimonio e ai proce-dimenti relativi all’affidamento della prole nata fuori del matrimonio. Sul tema sia consentito il rinvio a F. DANOVI, Il pro-cedimento di separazione e di divorzio alla luce delle ultime riforme normative, in AA.VV., Le prassi giudiziali nei procedimenti di separazione e divorzio, Utet, Torino, 2007, p. 153; ID., L’affidamento condiviso: le tutele processuali, in Dir. famiglia, 2007, p. 1921. 65 Due sono le Convenzioni fondamentali in materia: la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176), che all’art. 12 stabilisce il diritto del minore di essere ascoltato nel processo, prevedendo che una sua audizione possa essere disposta nell’ambito di «ogni procedura giudiziaria o amministrativa» che lo riguardi, e richie-dendo, quale unica condizione, la capacità di discernimento (in argomento v. A. GRAZIOSI, Note sul diritto del minore ad es-sere ascoltato nel processo, cit., p. 1281; A. DELL’ANTONIO, La Convenzione sui diritti del fanciullo: lo stato di sua attuazione in

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A differenza delle disposizioni internazionali, che pongono l’accento sul diritto del minore ad essere ascoltato, sempre peraltro demandando al legislatore il compito di definire i presupposti dell’audizione e le possibili ragioni ostative, l’art. 155 sexies c.c. pare in effetti esprimere una più forte carica precettiva. Il tenore della norma, strutturata in termini (almeno a prima impressio-ne) imperativi 66, ha quindi portato diversi commentatori a considerare l’audizione del minore – quanto meno ultradodicenne – ormai imprescindibile 67, inducendo una parte della dottrina addirittura a configurarlo alla stregua di vera e propria «condizione di procedibilità del giudi-zio» 68. Con la conseguenza che una sua eventuale omissione si ripercuoterebbe sul provvedi-mento del giudice (ordinanza presidenziale ovvero sentenza in sede di separazione e divorzio; decreto nei giudizi di modifica; ancora decreto in caso di procedimenti relativi alla prole natu-rale) sotto forma di vizio di nullità insanabile, rilevabile con le forme proprie dei mezzi di im-pugnazione per esso previsti (reclamo ex art. 708, 4° comma, c.p.c., nel primo caso; appello, nel secondo; reclamo camerale nelle restanti ipotesi). Questo essendo lo stato della normativa, occorre verificare se l’interpretazione che configura in termini di necessità l’audizione del minore debba realmente ritenersi rispondente – da un pun-to di vista sistematico – ai principi che informano l’ordinamento processuale. A questo riguardo, il primo argumentum apportato dalla Corte è quello relativo all’oggetto del processo: e qui le Sezioni Unite hanno peccato in qualche misura di presunzione, poiché l’aspetto non è privo di insidie, attese le intrinseche difficoltà legate al reperimento di un uni-voco inquadramento sistematico per i processi che a vario titolo possono dare vita a decisioni riguardanti i minori. Inevitabile, pertanto, finire a questo riguardo per incespicare, assumendo a paradigma realtà troppo eterogenee tra loro: sussistono innegabili e marcate differenze tra i giudizi che hanno direttamente ad oggetto lo status dei minori e altre tipologie di processi in cui la posizione del fanciullo viene in considerazione soltanto come promanazione di una di-versa (e dominante) forma di tutela giurisdizionale.

Italia, in Dir. famiglia, 1997, p. 246) e la Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 25 gennaio 1996 (ratificata dall’Italia con l. 20 marzo 2003, n. 77 e per la quale cfr. M. LUCARELLI-C. GALLO, La tutela del mi-nore, Forlì, 2005, p. 41; G. SERGIO, Dopo la ratifica della Convenzione di Strasburgo del 1996: i diritti del bambino tra prote-zione e garanzie. Novità e prospettive, Relazione tenuta il 28 marzo 2003 al Convegno di Padova «I diritti del bambino tra protezione e garanzie. Verso la ratifica della Convenzione di Strasburgo», p. 10). Quest’ultima, all’art. 3 ribadisce il diritto in capo al minore capace di discernimento di essere consultato ed esprimere la propria opinione in tutti i procedimenti che lo riguardano e detta ulteriori fondamentali disposizioni all’art. 5 e all’art. 6. In forza di queste, e rispetto alla Convenzione di New York, viene attuato un rafforzamento dell’ambito di tutela del minore e soprattutto viene a chiare lettere enunciato il principio che il diritto del minore non attiene unicamente all’ascolto, bensì alla conoscenza delle facoltà connesse alla dife-sa, così da poter valutare come in concreto esercitarle. Alle due Convenzioni deve poi aggiungersi l’art. 23 del Regolamento CE n. 2001/2003, per il quale le decisioni relative alla responsabilità genitoriale sono riconosciute solo se, salvo casi di urgenza, la decisione è stata resa garantendo al minore la possibilità di essere ascoltato. 66 Anche chi ha sollevato serie perplessità in proposito (G. SERVETTI, Affido condiviso. Prime osservazioni e nodi problemati-ci, in www.minoriefamiglia.it) non ha mancato di rilevare la tendenza che parrebbe derivare dalla formula impiegata dal le-gislatore («il presente indicativo, secco, e la scelta di non utilizzare la diversa formula “può disporre”»). 67 F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 397; G. DE MARZO, L’affidamento condiviso. I. Profili sostanziali, cit.; A. GRAZIOSI, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 c.d. sull’affidamento condiviso dei figli, cit., p. 1865 ID., I processi di separazione e di divorzio, cit., p. 46; C. CECCHELLA, op. cit. 68 Così A. GRAZIOSI, Profili processuali della l. n. 54 del 2006, cit., p. 1865; ID., I processi di separazione e di divorzio, cit., p. 49, per il quale, ad evitare incostituzionali disparità di trattamento, l’audizione dei figli minori ultradodicenni o comunque ca-paci di discernimento dovrebbe essere riconosciuta e resa obbligatoria anche nella separazione consensuale e nei divorzi su domanda congiunta. Non ritengo peraltro che tale interpretazione sia realmente obbligata, sia in quanto dal punto di vista sistematico mi pare tuttora da prediligere l’interpretazione più “liberale”, sia poiché soprattutto laddove vi sia l’accordo dei genitori e il giudice non rilevi alcun motivo per discostarsi da esso, imporre come necessaria l’audizione del minore com-porta un’ingiustificata sofferenza per il minore stesso, oltre che un inutile dispendio di economie processuali.

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Per i primi (ai quali possono essere ascritti i procedimenti di adottabilità/adozione e i giudizi de potestate) la Cassazione si era già più volte espressa per l’obbligatorietà dell’audizione 69. Ma non è un caso, perché trattasi di processi in cui l’elemento centrale del quale si disquisisce è rappresenta-to dalla stessa identità giuridica del minore; e non a caso ancora è per gli stessi processi che si è po-sto il più ampio problema della rappresentanza tecnica del minore, necessaria per estrinsecare compiutamente il suo diritto di difesa e così garantire il rispetto del principio del contraddittorio 70. Nei processi di separazione, divorzio, affidamento dei figli naturali e nei relativi procedimenti di modifica 71, invece, la situazione si presenta diversamente. In queste ipotesi, la decisione sull’affidamento e sulle modalità di frequentazione (a prescindere dall’impatto sul minore, pur sempre significativo anche se più ridotto, in quanto non incidente direttamente sul relativo sta-tus) rappresenta una sorta di verifica interna, di talché la figura e posizione del minore anche ove coinvolta rimane sfumata rispetto a quella delle parti del processo. Vi è poi un ulteriore profilo dal quale è dato dissentire, ed è rappresentato dall’idea per la quale i minori debbano necessariamente essere ritenuti «portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori»; invero, se da un lato il conflitto di interessi tra il minore e il genitore non può considerarsi in re ipsa ma soltanto eventuale, occorre d’altro lato anche considerare che, laddove pure conflitto di interessi vi sia, non è certo l’istituto dell’audizione a poterlo per sé so-lo risolvere, non essendo lo stesso in tali ipotesi in grado di soddisfare pienamente la tutela del principio del contraddittorio e riemergendo allora l’esigenza di una più compiuta difesa della posizione del fanciullo 72. Ancora, neppure l’eventuale attribuzione in capo al minore della qualifica di parte sostanziale, comporta come necessaria conseguenza la pretesa obbligatorietà dell’audizione. In proposito, non può farsi a meno di considerare che il nostro sistema processuale non prevede necessaria-mente che ogni parte in senso sostanziale debba per ciò solo essere sentita nel processo. Basti pensare alle fattispecie – pur eccezionali – di legittimazione straordinaria (nelle quali il sostitui-to, ove non litisconsorte necessario, non partecipa al processo), o, più in generale, alle ipotesi dei terzi aventi causa o portatori di situazioni sostanziali dipendenti, che sono soggetti all’efficacia della sentenza ma non per questo devono ipso iure essere sentiti nel processo (il lo-ro intervento essendo ai sensi dell’art. 105, 2° comma, c.p.c. meramente eventuale e rimesso alla loro discrezionale valutazione). In realtà, nella sentenza n. 22238/2009 la Suprema Corte non ha mancato di delineare un a-spetto che rimane centrale nella soluzione del problema. E così, contrariamente all’opinione di quella parte della dottrina che configura l’audizione come tappa obbligatoria e imprescindibile dell’iter processuale, la Corte non ha mancato di precisare come la stessa debba essere disposta salvo che ciò possa arrecare un qualsivoglia danno al minore.

69 E ciò in particolare nelle pronunce ricordate dalla decisione in commento: Cass., Sez. I, 9 giugno 2005, n. 12168; Cass., Sez. I, 21 marzo 2003, n. 4124; Cass. 13 luglio 1997, n. 9802. 70 Per i procedimenti relativi alla dichiarazione di adottabilità del minore e per i giudizi de potestate (limitativi o ablativi del-la potestà genitoriale) la l. 28 marzo 2001, n. 149 di riforma dell’adozione ha prescritto la presenza di un apposito difensore anche per il minore. La scelta operata appare in questo caso giustificata dal grado d’incidenza dell’intervento giudiziale sul-lo status e sulle situazioni sostanziali di cui il minore è titolare (sul tema v. F. TOMMASEO, Rappresentanza e difesa del minore nel processo civile, in Famiglia e diritto, 2007, p. 409; ID., La disciplina processuale dell’adozione di minori, in Famiglia e diritto, 2008, p. 197; cui adde F. DANOVI, Il difensore del minore tra principi generali e tecniche del giusto processo, in Dir. famiglia, 2010, p. 243). 71 Non va dimenticato in proposito che è per l’appunto da uno di questi che origina la decisione delle Sezioni Unite in commento, sicché le argomentazioni espresse in termini generali peccano della mancata attenzione alle differenze funzio-nali e strutturali che contraddistinguono i diversi «tipi» di procedimenti che possono coinvolgere la sfera del minore. 72 Anche A. GRAZIOSI, Ebbene sì, il minore ha diritto di essere ascoltato nel processo, cit., p. 370, sottolinea che l’audizione del minore non può avere il significato di «metterlo in condizione di difendersi nel senso tecnico del termine».

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Così operando, la Corte ha posto l’accento su un nodo centrale: quante volte, in effetti, in sede ap-plicativa un ascolto affrettato finirebbe per accentuare la conflittualità tra i genitori e finanche per aumentare il rischio di provvedimenti non realmente sintonici con il reale interesse del minore? L’audizione è un momento estremamente delicato e come tale deve essere attentamente pondera-ta: non può essere gestita in un’ottica di indiscriminata applicazione e senza adeguate precauzioni. Ragionando in questi termini, dunque, non può escludersi la perdurante sussistenza di un mar-gine di discrezionalità giudiziale nella valutazione quanto meno delle circostanze e degli ele-menti ostativi all’ascolto. Ed invero, la considerazione per la quale l’audizione – per quanto ge-stita correttamente e con le dovute cautele – possa comunque rivelarsi uno strumento invasivo per il minore, induce tuttora a configurare come più confacente un’interpretazione volta a mantenere come centrale il diritto del minore a essere sentito, senza per questo insistere su un preteso correlato e indiscriminato dovere del giudice. La legge stessa, nella misura in cui ha ricondotto alla clausola generale dell’interesse del minore il ruolo di principio informatore (ai sensi dell’art. 155, 2° comma, c.c. il giudice è chiamato ad adottare «ogni altro provvedimento relativo alla prole»), attenua il preteso automatismo del fe-nomeno dell’ascolto, riconoscendo in capo al giudice il potere/dovere di decidere responsa-bilmente e con ponderazione di procedere all’audizione ovvero di evitarla, laddove la stessa ri-sulti nella fattispecie anche solo potenzialmente pregiudizievole. In effetti, nei procedimenti di cui si discute ogni situazione rappresenta un mondo a sé, per il quale non possono valere regole preconizzate assolute. Per questo motivo soltanto la soluzione che riconosce al giudice il potere di orientare la decisione in un senso piuttosto che in un altro fa salve entrambe le esigenze confliggenti in subiecta materia (quella di evitare un pregiudizio al minore e quella di rispettare il bisogno per il minore di essere ascoltato). In un quadro di sintesi, quindi, le conclusioni alle quali la Cassazione è ormai pervenuta sono certamente apprezzabili da un punto di vista programmatico e di “politica del diritto”, ma se da un lato necessitano di essere circostanziate tenuto conto della perdurante specialità dei diffe-renti procedimenti intorno ai quali la giustizia minorile si sviluppa, dall’altro impongono una più coerente attenzione al ruolo dell’autorità giudiziaria, che rimane fondamentale nella valuta-zione del potenziale pregiudizio che l’audizione può arrecare. Affinché dunque possa realizzarsi compiutamente quella “tutela globale” 73 del minore alla qua-le l’ordinamento aspira, il suo ascolto risulta sicuramente determinante e in quanto tale deve condividersi l’idea per la quale l’audizione è certamente opportuna, laddove possibile. Imporla tuttavia come automatica pare una soluzione eccessiva. Né può essere il richiamo al principio del contraddittorio a legittimare un bisogno incondiziona-to di coinvolgere il minore nel processo, dal quale lo stesso deve per quanto possibile essere pre-servato. Tenuto conto dei principi generali, è piuttosto sulle garanzie del diritto del minore a esse-re ascoltato che deve essere appuntata l’attenzione e soltanto il giudice resta l’organo dotato del potere di valutare di volta in volta (non soltanto in relazione alla capacità di discernimento 74, ma anche alle variabili del giudizio, quali le risultanze emerse, la conflittualità tra i genitori e i segnali di disagio manifestati dal minore) le peculiarità del caso sottoposto al suo esame 75. Analogamen-

73 F. TOMMASEO, Processo civile e tutela globale del minore, in Famiglia e diritto, 1999, p. 583. 74 Al di sotto dell’età di dodici anni, per la quale il legislatore ha dettato un criterio aprioristico, il giudizio su tale capacità, intesa come acquisizione delle competenze concettuali per riconoscere e valutare razionalmente i dati provenienti al di fuori della propria sfera personale, così da comprendere ciò che è per sé utile ed esprimere una linea di pensiero autonoma e scevra da influenze esterne, non può che essere demandato al giudice. 75 Nello stesso senso v. anche C. DE PASQUALE, op. cit.; M.A. LUPOI, Aspetti processuali della normativa sull’affidamento con-diviso, cit., p. 1075.

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te, è sempre il giudice che è chiamato a determinare – tra le differenti modalità con le quali l’au-dizione può svolgersi – come la stessa nella fattispecie debba in concreto avvenire 76. Anche que-sto aspetto presuppone un margine di discrezionalità che non può essere trascurato. Resta peraltro fermo, e sotto questo profilo si può leggere l’apporto determinante della deci-sione delle Sezioni Unite, che mentre l’audizione del minore può essere ora disposta senza ne-cessità di una specifica motivazione del provvedimento (e finanche in assenza di una previa i-stanza di parte), l’eventuale posizione di dissenso da parte del giudice rispetto alla richiesta formulata da una parte dovrà essere necessariamente e adeguatamente motivata 77. In questo modo potranno considerarsi rispettati i principi del giusto processo, nella prospettiva non già soltanto di un’efficiente amministrazione della giustizia, ma soprattutto di adeguata tu-tela delle particolari situazioni soggettive sostanziali in esso coinvolte. 13. Conclusioni  In conclusione, si sono evidenziati diversi aspetti essenziali dei processi di separazione e divor-zio che permeano profondamente la disciplina dell’attività istruttoria. Tra questi la specialità e la specificità del rito, la particolarità delle situazioni sostanziali protette, le particolari esigenze di tutela di interessi metaindividuali, dei quali sono portatori i figli minori, e più in generale del valore sociale della famiglia. Tutti questi profili indubbiamente rafforzano i poteri istruttori del giudice, sia sotto il profilo dell’iniziativa, sia dal più generale punto di vista della discrezionalità e dell’estrinsecarsi del suo libero convincimento. In questo senso l’autorità giudicante è tenuta da un lato alla costante ricerca di un equilibrio, dovendo per quanto possibile anche adoperarsi per riequilibrare – per quanto riguarda le di-namiche familiari – una situazione patologica e di sofferenza, e d’altro lato ad affrontare la con-duzione del giudizio con un grado di incisività se possibile superiore rispetto al giudizio ordina-rio. Ciò ad evitare che i precetti e le statuizioni giudiziarie, soprattutto laddove incidenti sulla sfera personale dei figli minori, possano rimanere lettera morta. In questo senso, nell’istruttoria il giudice può anche adottare una sorta di principio di gradua-zione, in forza del quale i diversi mezzi esperibili vanno visti come convergenti e complementa-ri verso un fine unico, ma in relazione a situazioni sostanziali e a esigenze che talvolta variano e si modificano nel tempo necessario per lo svolgimento del giudizio. Il tutto, naturalmente, nel rispetto dei fondamentali principi che reggono il nostro processo civile e dei canoni portanti del “giusto processo”, e in sintonia quindi con i valori propri del nostro ordinamento costitu-zionale e con i principi espressi dalle fonti sovranazionali che regolano la materia.

76 Per le diverse possibili forme di audizione (ascolto diretto o indiretto, consulenza tecnica, incarico ai servizi sociali) sia consentito il rinvio a F. DANOVI, L’affidamento condiviso: le tutele processuali, cit., p. 1921. Sul tema hanno acquistato nella prassi applicativa una sempre maggiore rilevanza i Protocolli elaborati ed adottati da diversi Tribunali della Repubblica. 77 La decisione della Corte di cassazione in particolare configura una specifica necessità di motivazione nel caso in cui sia «l’eventuale assenza di discernimento dei minori che possa giustificarne l’omesso ascolto». Riterrei tuttavia che la motivazione debba riguardare ogni profilo circa la mancata audizione, non unicamente con riferimento alla capacità di discernimento del minore, quanto piuttosto dell’interesse dello stesso generalmente inteso (nello stesso senso v. già F. TOMMASEO, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, cit., p. 397; M.G. RUO, op. cit., p. 130).

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ESIGENZE ISTRUTTORIE E TUTELA DELLA PRIVACY NEI PROCESSI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO 

Filippo Danovi Professore Ordinario di Diritto processuale civile, Università degli Studi di Milano Bicocca Sommario: 1. L’attività istruttoria nella separazione e nel divorzio tra profili inerenti la persona e poteri officiosi del giudice. – 2. Il giudizio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori. – 3. Processi di separazione e divorzio e atipicità della prova. – 4. Prove atipiche e prove illecite. – 5. Esigenze istruttorie e privacy. – 6. La tesi della incon-dizionata applicazione della prova. – 7. Analisi dei casi più frequentemente ricorrenti. – 8. Conclusioni. 1. L’attività istruttoria nella separazione e nel divorzio tra profili inerenti la persona e poteri officiosi del giudice  Nei processi di separazione e divorzio l’attività istruttoria è connotata da aspetti di marcata spe-cialità. In particolare, sotto il profilo dell’oggetto del procedimento, le domande concretamen-te spendibili presentano una stretta interrelazione con l’ambito personale e di vita dei soggetti coinvolti nella crisi della famiglia, siano essi gli stessi coniugi protagonisti del giudizio ovvero i figli che vengono a subire gli effetti dei relativi provvedimenti. Sotto questo profilo è quindi sempre più avvertita l’esigenza di reperire un punto di incontro e di e-quilibrio tra la concomitante necessità da un lato di un’indagine istruttoria accurata (come tale fina-lizzata alla ricostruzione della verità dei fatti e delle circostanze utili ai fini della decisione), e dall’al-tro del rispetto della sfera intima della persona, dei suoi diritti fondamentali e interessi esistenziali. In relazione alle parti (i coniugi), tale equilibrio dipende essenzialmente (se non unicamente) dal valore che si intenda assegnare al diritto alla prova e dai confini e limiti che lo stesso può in-contrare in relazione alla sfera privata dell’individuo (nella presa d’atto e valutazione di supe-riori ragioni anche di ordine metaindividuale che si ricollegano ad essa). A questo riguardo, è in effetti sempre indispensabile anche soffermarsi sull’individuazione del bene tutelato nei giudizi in oggetto, analizzando quali siano attualmente – nella proiezione processuale – il significato e la valenza del matrimonio, considerato in sé e nel suo riflesso con i diritti del singolo, e ciò alla luce dei frequenti richiami costituzionali alla persona, al matrimonio e alla famiglia ma tenuto conto del mutamento sociale avvenuto dagli anni ’40 del secolo scorso ad oggi. In altri termini,

1 Testo della relazione tenuta all’incontro di studio “I limiti della prova in relazione alla tutela della privacy nei procedimenti di separazione e divorzio”, organizzato da AIAF Lombardia a Milano il 16 febbraio 2012.

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e come sempre avviene per quanto attiene alla dinamica delle relazioni familiari, anche in que-sto campo è estremamente delicato contemperare le aspettative del singolo con una lettura co-stituzionalmente orientata delle norme di legge e degli interessi in contesa. Queste considerazioni appaiono rilevanti ad esempio in relazione all’attività processuale volta a supportare la domanda di addebito. Spesso, invero, per tutelare un bene giuridico, come il dovere di fedeltà o quello di collaborazione, e così per stigmatizzare pretese condotte illecite di uno dei coniugi, una prassi giudiziaria lassista finisce di fatto per autorizzare l’altro coniuge a offrire ele-menti di prova non solamente atipici, ma altresì derivanti da comportamenti parimenti irrispetto-si della legge. A questo riguardo, dovrebbe forse in via preliminare operarsi una meditata rifles-sione sulla perdurante legittimità e attualità dell’istituto dell’addebito, valutandone la risponden-za al complessivo balance of interests sotteso alla crisi della famiglia. La struttura dell’addebito, in effetti, lo rende un istituto asimmetrico e probabilmente incostituzionale, perché sicuramente più penalizzante per il coniuge economicamente più debole (che in sua mancanza avrebbe diritto a essere riconosciuto titolare di un assegno personale) che per quello più forte. La valutazione dei comportamenti e così il necessario giudizio relativo all’addebito sono inoltre non soltanto diffici-li, in quanto si pretende di condensare attraverso pochi dati la realtà di una vita, ma anche relativi, perché risentono fortemente di variabili non preconizzabili dal punto di vista temporale e territo-riale, fra le quali può venire a incidere addirittura anche il personale sentire del magistrato. A que-sto proposito, sarebbe utile ricercare anche strade alternative, riservando un apparato sanzionato-rio unicamente nei casi più gravi e conclamati di violazione di diritti, ma permettendone il ricorso a entrambi i coniugi in identica misura e soprattutto con identici effetti e conseguenze, indipen-dentemente dalla loro forza economica e dalle richieste spendibili nel processo. Diverso è chiaramente il discorso nell’ipotesi di provvedimenti relativi ai figli minori. In questo caso, alla ricerca dell’equilibrio sopra indicato si affianca l’ulteriore fondamentale rilievo per il quale l’autorità giudicante viene comunque in ultima analisi a essere investita di poteri di inda-gine più incisivi, proprio in quanto finalizzati alla tutela di quel fondamentale valore che è rap-presentato dall’interesse superiore del minore. In questo ambito, dunque, l’attribuzione di po-teri di iniziativa officiosa in capo al giudice è una strada non soltanto pressoché obbligata ma del tutto condivisibile, pur nella consapevolezza di arrivare a sacrificare (almeno in parte) i tra-dizionali canoni del processo, come il principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e – per quanto segnatamente attiene all’impulso istruttorio – la regola generale consacrata nell’art. 115 c.p.c. 2. Per tali ragioni l’art. 155 sexies c.c. – introdotto dalla l. n. 54/2006 – consacra ormai per tabulas gli ampi poteri istruttori di cui dispone il giudice chiamato ad adottare provvedimenti relativi ai minori, consentendogli di assumere mezzi di prova su istanza di parte o anche d’ufficio, nonché di procedere in ogni caso all’audizione dei figli.

2 La regola indicata nell’art. 115 c.p.c., che fa salvi i casi previsti dalla legge, è considerata dalla dottrina maggioritaria come un riferimento alle ipotesi eccezionali e tipizzate nelle quali al giudice è consentito disporre d’ufficio i mezzi di prova (cfr. ad es. V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1979, p. 238; S. LA CHINA, Diritto processuale civile. Le disposi-zioni generali, Giuffrè, Milano, 1991, p. 631). Invero, stando all’impostazione tradizionale, detta disposizione codifichereb-be il principio dispositivo “in senso processuale” volto a monopolizzare a favore delle parti l’acquisizione del materiale probatorio necessario per la decisione, che andrebbe distinto dal principio dispositivo “in senso sostanziale” di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c., riconducibile al potere di disposizione delle parti in ordine al rapporto sostanziale. In questo senso si veda M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Giuffrè, Milano, 1962, p. 357. Secondo C. MANDRIO-LI, Corso di diritto processuale civile, ed. minor, VII ed., vol. I, Giappichelli, Torino, 2009, p. 71, inoltre, il nostro ordinamen-to si ispira a un sistema che si potrebbe definire “dispositivo attenuato” atteso che pur affermando genericamente il vincolo del giudice alle offerte di prova delle parti non manca di fare salvi i “casi previsti dalla legge” che costituiscono importanti eccezioni. Il tutto, peraltro, salvo per quanto attiene l’introduzione delle prove da parte del P.M. e con esclusione dei mo-delli processuali speciali come quello del lavoro e quelli della separazione e del divorzio.

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2. Il giudizio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori  Nella centralità della fase istruttoria, il primo compito dell’autorità giudicante è rappresentato dal controllo di ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori dedotti ex utriusque latere. Sotto questo profilo è particolarmente importante sottolineare il ruolo del giudice, perché esso può (e deve) rappresentare il filtro per il corretto dispiegarsi delle richieste istruttorie in relazione non unicamente alle finalità perseguire dalle parti ma altresì al necessario rispetto delle norme e dei principi di legge. In termini generali, il controllo preliminare si configura in modo diverso a seconda che investa una prova precostituita ovvero una prova costituenda. Invero, mentre per le prove costituende è previsto un vaglio immediato, ciò non accade per le prove precostituite, le quali entrano nel pro-cesso in virtù di un semplice atto (il deposito) di parte. Ciò non significa che per queste ultime non debba configurarsi un giudizio di ammissibilità e rilevanza. Di regola, tale giudizio avviene comunque, con la sola particolarità di essere postergato a un momento successivo, in sede di de-cisione; ma proprio in relazione al tema in analisi, ad evitare un uso (o il tentato uso) distorto del-la prova, potrebbe sovente risultare fondamentale, da parte del giudice, un segnale immediato circa l’inammissibilità (o comunque irrilevanza) della documentazione eventualmente prodotta da una parte in spregio a norme di legge o in violazione del diritto alla riservatezza della persona. Ciò per scongiurare pericolose suggestioni circa il materiale prodotto, e ferma restando una finale decisione in proposito da parte del tribunale al momento della decisione. In effetti, il controllo sull’ammissibilità della prova consiste in un giudizio di legalità, essendo il giudice chiamato ad accertare la sussistenza di tutte le condizioni alle quali l’ordinamento su-bordina l’esperimento del mezzo istruttorio (ovvero i requisiti della fonte e del mezzo di prova e i requisiti concernenti l’iter procedimentale di assunzione); ne consegue che è primario com-pito del giudice quello di intervenire immediatamente laddove abbia a ritenere che la prova si ponga in contrasto con le prescrizioni di legge. Quanto al giudizio di rilevanza, esso implica invece una valutazione sull’utilità della prova nel giudizio di fatto e ai fini della decisione. Sotto questo profilo, il fatto non è mai rilevante in quanto tale (nella sua esistenza oggettiva), bensì in funzione del processo e in particolare del ruolo ad esso assegnato nella fattispecie in contesa. Di conseguenza, il giudizio di rilevanza del-la prova implica da un lato l’individuazione dell’effetto giuridico che con la sua domanda la par-te si prefigge e, dall’altro, la specificazione del contributo che il fatto prospettato, alla stregua degli elementi di diritto applicabili, è idoneo a prestare per la produzione di quell’effetto giuri-dico 3. In questo senso, anche la qualificazione giuridica del fatto può divenire componente es-senziale del giudizio di rilevanza della prova 4. Si consideri ancora che il vaglio di ammissibilità e rilevanza investe tutti i fatti del giudizio, e co-sì anche i fatti secondari. Non merita invero condivisione l’assunto per il quale dovrebbero ri-tenersi rilevanti le sole prove che attengano ai fatti principali, poiché la rilevanza della prova deve essere stabilita sulla base di un criterio più ampio di quello della giuridicità ed essere de-terminata in forza di qualunque nesso atto a individuare un potenziale collegamento, sul piano

3 Cfr. V. ANDRIOLI, op. cit., p. 653 ss. 4 Al riguardo, è stato peraltro rilevato come non si possa comunque ridurre il giudizio di rilevanza a un giudizio di diritto e la rilevanza della prova alla “giuridicità” del fatto che ne costituisce l’oggetto. In questo senso si veda L. LOMBARDO, La prova giudiziale, Giuffrè, Milano, 1999, p. 375. Di diverso avviso è, invece, P. CALAMANDREI, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1955, I, p. 173 ss., che sostiene che «il giudizio di rilevanza è un giudizio di diritto, attinente al merito, che contiene già, in nuce, la decisione definitiva (…)» in quanto esso «valuta in anticipo il costrutto giuridico che si po-trebbe trarre dalla riuscita della prova proposta».

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logico o argomentativo, tra il fatto posto a oggetto della prova e gli elementi che nel loro com-plesso integrano il thema probandum 5. Il concetto di rilevanza coinvolge pertanto quello di re-lazionalità e implica la sussistenza di un rapporto logico/argomentativo tra due fattori, costitui-ti dall’oggetto della prova e dall’ambito del thema probandum, con la conseguenza che la prova deve considerarsi rilevante se il fatto su cui essa verta rappresenti un elemento concretamente utilizzabile per la verifica del factum probandum 6. In dottrina è discusso se debba ritenersi sussistente un ordine logico tra il giudizio di rilevanza e quello di ammissibilità della prova. Secondo alcuni autori, il profilo della rilevanza dovrebbe considerarsi prioritario rispetto a quello dell’ammissibilità poiché «se una prova è irrilevante non ha senso chiedersi se essa sia o no giuridicamente ammissibile, poiché la sua acquisizione sarebbe comunque inutile: di conseguenza il criterio di ammissibilità opera soltanto nel senso di escludere dal processo prove che sarebbero rilevanti per l’accertamento dei fatti» 7. Altra parte della dottrina, in-vece, ritiene che il giudizio di ammissibilità debba precedere quello di rilevanza «nel senso che il giudice deve chiedersi se una prova è rilevante solo dopo che l’abbia giudicata ammissibile» 8. Secondo una tesi intermedia non si potrebbe invece individuare alcun ordine di priorità tra i due profili, con la conseguenza, che il giudizio di rilevanza e giudizio di ammissibilità della pro-va «camminano di pari passo, mediante un processo di progressivo avvicinamento alla decisione sull’ammissione della prova: dopo un primo approssimativo giudizio di rilevanza, è opportuno che il giudice prenda subito in considerazione il profilo dell’ammissibilità della prova dedotta, per poi ri-tornare a vagliarne più approfonditamente la rilevanza, dopo che essa è stata ritenuta ammissibi-le» 9. Quest’ultima impostazione appare condivisibile se solo si consideri che non è possibile scindere, nell’ambito del provvedimento che pronuncia sull’ammissione dei mezzi istruttori, il percorso logico che il giudice ha ritenuto caso per caso di compiere in relazione ai profili qui in considerazione. In questo senso, dunque, ammissibilità e rilevanza rappresentano due elementi entrambi simultaneamente indispensabili per l’acquisizione della prova nel processo. Inoltre, se il profilo della rilevanza gioca un ruolo più esteso a livello di congruenza della decisione rispetto al-le domande delle parti, l’ammissibilità rappresenta un aspetto imprescindibile in un processo che aspiri ad essere definito “giusto” ai sensi dell’art. 111 Cost. Non è un caso, pertanto, che i due giudizi siano stati affiancati dal legislatore in un contesto temporale unitario. Anche da questo punto di vista, in relazione al tema di indagine non è probabilmente possibile indi-viduare una regola generale e onnicomprensiva, ma come linea di orientamento può certamente considerarsi preferibile che il giudice abbia ad applicare un controllo più rigoroso in ordine all’ammissibilità della prova (impedendo così in radice l’assunzione di mezzi istruttori che appaiano prima facie contrari alla legge), ed eventualmente più aperto in ordine alla rilevanza, provocando l’eventuale prova inutile conseguenze unicamente in termini di economia processuale, ma non già di distacco o violazione dell’iter processuale dallo schema normativo prefissato per legge.

5 Cfr. L. LOMBARDO, op. cit., p. 375; N. MANNARINO, La prova nel processo, Cedam, Padova, 2007, p. 233. 6 Al fine di valutare la rilevanza della prova il giudice dovrà, quindi, accertare se e quale tipo di rapporto è possibile rinveni-re tra la proposizione che enuncia l’oggetto della prova e quella che costituisce il thema probandum, facendo riferimento al “soggetto” e al “predicato” delle due proposizioni. In questo senso si veda L. LOMBARDO, La prova giudiziale, cit., p. 376; M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1992, p. 233. 7 Cfr. M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 337. 8 Cfr. G. VERDE, La prova nel processo civile (profili di teoria generale), in Riv. dir. proc., 1998, p. 14. 9 Cfr. L. LOMBARDO, La prova giudiziale, cit., p. 374, nota 125. Sul punto si veda, inoltre, Cass., Sez. I, 15 giugno 2000, n. 8164 secondo la quale «il giudizio sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova proposti dalle parti, che il giudice di merito deve compiere (…) prima di decidere sull’ammissione, consta di due valutazioni che, per un verso, non sono entrambe sempre ne-cessarie (…) e, per altro verso, non sono legate in termini di priorità l’una all’altra (…) ben potendo il giudizio sulla non ammis-sibilità essere conseguente alla ritenuta irrilevanza della prova in relazione al “thema decidendum”».

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3. Processi di separazione e divorzio e atipicità della prova  In via del tutto generale, la locuzione “prova atipica” designa la prova “differente” dai tipi e modelli legali previsti dal codice 10. Ad una più attenta analisi, peraltro, emerge come l’e-spressione si presti a definire almeno due realtà tra loro distinte: non soltanto dunque la prova non prevista dalla legge ma altresì le deviazioni da uno schema probatorio preesistente. Nel primo caso si parla anche di “prova innominata”, con riferimento alla fonte di convincimento di cui il giudice si avvale, per richiamare uno strumento probatorio non previsto dalla legge (es. scritti di terzi, perizia stragiudiziale, sentenza usata come mezzo di prova). Nell’altro, il termine prova atipica è volto invece a connotare il diverso modo attraverso il quale la prova viene as-sunta: il factum probandum, pur essendo oggetto di un mezzo istruttorio tipico, non viene in-trodotto in giudizio secondo l’iter di acquisizione tipico e previsto dal diritto, ma attraverso un procedimento diverso (un esempio potrebbe essere quello dell’ispezione non verbalizzata, id est acquisita senza rispettare i criteri formali previsti dalla legge, ed introdotta quindi successi-vamente dal giudicante attraverso un suo processo logico/razionale che le parti non hanno fa-coltà di verificare). I problemi posti dalle prove atipiche sono essenzialmente due e relativi alla loro ammissibilità ed efficacia. Dal primo punto di vista, un’interpretazione restrittiva considera tuttora vigente nell’ordinamento un principio di tassatività nel catalogo dei mezzi di prova 11. La tesi prevalente è tuttavia ormai di segno opposto, ritenendo le prove atipiche sicuramente ammissibili (ed effi-caci). Le ragioni a sostegno di questa tesi sono numerose e meritano di essere, sia pur sinteti-camente, ricordate. In primo luogo, non vi è nell’ordinamento alcuna norma di chiusura, per cui non vi sarebbero le basi giuridiche per configurare un principio vincolante di tassatività delle prove 12. Altro ar-gomento che viene addotto per sostenere l’ammissibilità delle prove atipiche è dato dal richia-mo all’indizio come mezzo di convincimento 13. Ancora, non si può non tenere conto dell’evo-luzione delle tecniche e dei mezzi per dimostrare i fatti. Alcuni, ma questo pare l’argomento più debole, hanno anche sostenuto che, alla luce dell’art. 189 c.p.p., potrebbe ritenersi sussistente un principio generale di apertura del catalogo delle prove 14. Inoltre, la giustificazione circa l’ammissibilità delle prove atipiche nel nostro ordinamento viene individuata da altra parte del-la dottrina rifacendosi al concetto di irreversibilità delle acquisizioni istruttorie, secondo cui la raccolta del materiale istruttorio da sottoporre al giudice per la decisione avrebbe carattere

10 La letteratura in tema di prove atipiche è assai vasta. Fra le opere principali si possono annoverare: M. TARUFFO, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, p. 389 ss.; B. CAVALLONE, Critica della teoria delle prove atipiche, in Riv. dir. proc., 1978, p. 725 ss., ora in ID., Il giudice e la prova nel processo civile, Cedam, Padova, 1991, p. 335 ss.; L. MON-TESANO, Le «prove atipiche» nelle «presunzioni» e negli «argomenti» del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, p. 233 ss.; G. TARZIA, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Riv. dir. proc., 1984, p. 639 ss.; S. CHIARLONI, Rifles-sioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1986, p. 836 ss., ora anche in ID., Formalismi e garanzie (Studi sul processo civile), Giappichelli, Torino, 1995, p. 193 ss.; G.F. RICCI, Le prove atipiche, Giuffrè, Milano, 1999; G. MAERO, Le prove atipiche nel processo civile, Cedam, Padova, 2001; A. CARRATTA, Prove e convincimento del giudice nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2003, p. 27 ss.; B. CAVALLONE, Prove nuove, in Riv. dir. proc., 2006, p. 35 ss.; L. ARIOLA, Le prove atipiche nel processo civile, Giappichelli, Torino, 2008; L. LOMBARDO, Profili delle prove civili atipiche, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 1447 ss. 11 Per tutti si veda G. LASERRA, Critica delle cosiddette «prove innominate», in Giur. it., 1960, I, 1, c. 838 ss. 12 In questo senso si vedano M. TARUFFO, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., p. 389 ss.; M. CAPPEL-LETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Giuffrè, Milano, 1962, p. 270 ss. 13 Cfr. M. TARUFFO, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, p. 393 ss.; ID., Note per una riforma del diritto delle prove, p. 271; S. CHIARLONI, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, p. 851 ss. 14 Sul punto si veda G. F. RICCI, Le prove atipiche, cit., p. 130.

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unidirezionale, nel senso che, una volta pervenuto agli atti, anche in modo irregolare o atipico, quel materiale dovrebbe in ogni caso essere preso in considerazione per decidere 15. Infine, e questo rappresenta probabilmente l’argomento più forte sotto il profilo delle garanzie proces-suali, il diritto alla prova è ormai comunemente visto come una componente essenziale e in-sopprimibile del diritto di azione e così pure del diritto di difesa e presuppone – in assenza di contrarie norme limitanti – il suo più completo estrinsecarsi a tutela delle ragioni fatte valere dalla parte in giudizio 16. Anche e soprattutto dall’esame degli orientamenti giurisprudenziali 17 emerge poi come il pro-blema dell’ammissibilità delle prove atipiche sia definitivamente risolto in senso affermativo. A queste prove, in particolare, si tende a riconoscere efficacia anche se attenuata, sotto forma di meri argomenti di prova. 4. Prove atipiche e prove illecite  Poste queste premesse, può quindi introdursi il tema delle prove c.d. illecite 18, premettendo al riguardo che la tematica, pur evidenziando contiguità e punti di contatto con quella delle prove atipiche, merita di essere mantenuta separata. Invero, altro è discorrere di prova non disciplina-ta espressamente dal legislatore e altro di prove assunte in violazione di disposizioni di legge (e segnatamente delle norme e principi che regolano l’istruzione probatoria, l’ammissibilità e l’assunzione del materiale probatorio). Ciò significa che le considerazioni sopra riportate in tema di prove atipiche non possono ne-cessariamente e automaticamente estendersi a mezzi di prova pure rientranti nel catalogo legi-slativo, ma assunti in spregio a norme e regole di diritto. La contrarietà della prova alla legge si presta oltre tutto anch’essa a molteplici letture, avuto riguar-do alla valenza polisemica del termine prova, idonea a rappresentare l’oggetto della prova, il risulta-to probatorio finale, ovvero più semplicemente le sue modalità di acquisizione o assunzione. In relazione ai primi aspetti, le prove che – pur risultando rilevanti ai fini del giudizio – sono

15 B. CAVALLONE, Critica della teoria delle prove atipiche, cit., p. 717. 16 Per tutti si veda M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto delle prove, in Riv. dir. proc., 1986, p. 261. 17 «Nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, è ammessa la possibilità che egli ponga a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata moti-vazione della relativa utilizzazione, rimanendo, in ogni caso, escluso che tali prove «atipiche» possano valere ad aggirare preclu-sioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sareb-bero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali» (così Cass., Sez II, 5 marzo 2010, n. 5440). In questo senso si vedano anche altre pronunce ove l’ammissibilità delle prove atipiche nel nostro ordinamento viene data per acquisita: Cass., S.U., 23 giugno 2010, n. 15169 ove si legge che «le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite possono essere liberamente contestate dalle parti (…) atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui va-lore probatorio è meramente indiziario e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo»; Trib. Ivrea 14 maggio 2008, n. 73, in Foro padano, 1, p. 255; Trib. Tivoli 30 no-vembre 2006, in Redazione Giuffrè, 2007; Cass., Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642; Cass., Sez. lav., 27 marzo 2003, n. 4666 ove si legge che «nell’ordinamento processuale vigente, in forza del principio di cui all’art. 116 c.p.c., il giudice può legittimamen-te porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo, con il solo limite di dare congrua motivazione dei criteri adottati per la sua valutazione»; Trib. Roma, 20 maggio 2002, in Giur. di Merito, 2002; Cass., Sez. III, 26 settem-bre 2000, n. 12763 viene esplicitato che «nell’ordinamento processuale vigente, manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova. Ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico riser-vato al giudice di merito e non censurabile i sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo». 18 Sul tema cfr. G.F. RICCI, Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, p. 34 ss.; S. ANGELONI, Le prove illecite. Disciplina e rilevanza giuridica delle prove illecite nel processo civile, penale e del lavoro, Cedam, Padova, 1992.

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state formate al di fuori di esso e acquisite con metodi illegittimi ovvero atti che comportino la violazione di diritti costituzionalmente protetti devono certamente considerarsi illecite. Nel-l’ultima accezione, invece, si configura una prova illecita ogni qualvolta il mezzo istruttorio tenda ad aggirare, superare o pretermettere indebitamente norme di legge sull’acquisizione e assunzione delle prove. Per quanto attiene al regime delle prove illecite, il nostro sistema processuale civile, a differenza di quello penale 19, non conosce una specifica disposizione volta a vietarne l’utilizzo, con la con-seguenza che detta regola deve essere rinvenuta nel contesto generale dell’ordinamento. In proposito, spesso viene richiamato il rilievo secondo il quale «purtroppo, non è escluso che la prova inammissibile e invalidamente acquisita, una volta percepita dal giudice, lasci una traccia in-delebile: il fenomeno psicologico è irreversibile; ci si deve quindi appagare della mediocre risorsa of-ferta dal controllo della motivazione» 20. Parimenti si registra una certa tendenza in giurispru-denza a salvare gli esiti di alcune acquisizioni, pur se irregolari 21. L’assenza di un divieto di utilizzazione normativamente previsto potrebbe quindi anche portare a inferire l’esistenza di una regola implicita e contraria per cui tutto ciò che emerge dall’istrut-toria possa in qualche modo essere tenuto in considerazione ai fini della decisione. In questo senso, anche il tentativo di “salvare” in diverse ipotesi la prova anche irregolarmente assunta, è purtroppo sovente riscontrabile nella giurisprudenza 22. Tutto ciò rende legittimo domandarsi se nel processo civile possa veramente parlarsi di una sorta di irretrattabilità delle risultanze istruttorie, comunque acquisite. Dalla giurisprudenza sopra richiamata emerge come la stessa non fondi le sue decisioni sulla base di un presunto principio di irretrattabilità, ma abbia per lo più l’interesse a rendere la fase istruttoria il più possibile agile. Pertanto, si potrebbe sostenere che se è vero che il giudice può comunque rimanere psicologi-camente condizionato dal materiale istruttorio irregolarmente pervenutogli, è parimenti vero che ciò non può significare un’automatica legittimità dello stesso. Certo, su questi problemi svolge una sua incidenza anche il tema relativo al rapporto fra lo strumento processuale e l’accertamento della verità; e su questo presupposto occorre doman-darsi se da tale anelito possa effettivamente inferirsi l’ammissibilità delle prove non soltanto a-tipiche ma altresì contra ius. A tal fine merita condivisione la tesi secondo la quale il fine della ricerca della verità deve consentire al giudice di utilizzare ampi spazi di indagine (riducendo, pertanto, le regole di esclusione dei mezzi di prova), ma non già di legittimare strumenti assun-ti in violazione delle norme di legge. Ne consegue la necessità di qualificare come inammissibili o inutilizzabili le prove acquisite in violazione della legge. In questo senso, autorevole dottrina ha evidenziato come sussista nell’ordinamento costituziona-le un’implicita regola di esclusione atta a prescrivere, in modo automatico e incondizionato,

19 Il codice di procedura penale, a seguito della riforma del 1988, contiene disposizioni specifiche (artt. 189 e 191) che consentono l’utilizzo delle prove c.d. atipiche, pongono espliciti divieti probatori e sanciscono l’inutilizzabilità delle prove illegittime o acquisite in violazione dei diritti stabiliti dalla legge. 20 Cfr. F. CORDERO, Il procedimento probatorio, ora in Tre studi sulle prove, Giuffrè, Milano, 1963, p. 120, nota 37. 21 In questo senso si veda G.F. RICCI, Le prove atipiche, Giuffrè, Milano, 1999, p. 130. Per l’opinione contraria v. invece V. DENTI, Interrogatorio formale di parte non legittimata a confessare, in Giur. it., 1960, c. 863 ss., che non reputa inefficaci le ri-sultanze dell’interrogatorio reso da una parte che non era legittimata a confessare; M. CAPPELLETTI, Efficacia di prove ille-gittimamente ammesse e comportamento della parte, in Riv. dir. civ., 1961, p. 185 ss., che ritiene che il giudice non possa esi-mersi dal valutare le risultanze dell’interrogatorio o del giuramento, anche se illegalmente ammessi. 22 Al riguardo un esempio interessante è rappresentato dall’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 246 c.p.c., il cui disposto viene considerato un limite non già di ordine pubblico bensì nell’interesse delle parti, con la conseguenza che la deposizione resa in violazione del medesimo viene considerata affetta da semplice nullità relativa sanabile. In questo senso si veda Cass. Sez. III, 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14587; Cass., Sez. II, 15 giugno 1999, n. 5925; Cass. 3 luglio 1984, n. 3912; Cass. 18 aprile 1984, n. 2509; Cass. 31 gennaio 1983, n. 850; Cass. 10 febbraio 1987, n. 1425.

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l’inutilizzabilità di queste prove 23. Detta regola troverebbe in particolare la sua fonte normativa nei principi del giusto processo enucleati dall’art. 111 Cost. In questa prospettiva, in effetti, affin-ché il processo possa qualificarsi come “giusto” è indispensabile che tutto il corso del suo svolgi-mento rispetti e preservi i valori fondamentali espressi in quelle disposizioni di legge che secondo l’incipit della disposizione appena richiamata ne costituiscono l’ineludibile fonte regolatrice 24. Aderendo a questa impostazione, del tutto condivisibile per ragioni non già di formalismo bensì di garantismo, il mezzo di prova anche tipico ma assunto in difformità a prescrizioni normative (anche sostanziali) deve ritenersi viziato di nullità e conseguentemente privo di efficacia rappresentativa 25. Fermo quanto sopra, resta ancora da verificare come detta nullità possa essere rilevata. Al ri-guardo, è possibile riscontrare un’opinione difforme in dottrina e in giurisprudenza. Ed invero, se nella prima si ritiene che le violazioni in tema di ammissibilità o assunzione dei mezzi di pro-va possono ritenersi non sanabili ex art. 157 c.p.c. essendo funzionali alla formazione del con-vincimento del giudice 26, in giurisprudenza è invece possibile riscontrare un’opinione diffusa secondo la quale tali nullità avrebbero carattere relativo, poiché deriverebbero dalla violazione di norme stabilite non già per ragioni di ordine pubblico quanto unicamente nell’interesse delle parti 27. In questa prospettiva, il regime di rilevabilità viene configurato in termini decisamente più restrittivi, non consentendo il rilievo d’ufficio di tali forme di nullità ma unicamente ad o-pera della parte interessata e nella prima difesa successiva al loro verificarsi nel giudizio. 5. Esigenze istruttorie e privacy  In tema di diritto alla riservatezza, le indicazioni legislative per la loro lacunosità non possono considerarsi sufficienti a chiarire i molteplici dubbi che si pongono all’interprete. In particolare, il sistema probatorio predisposto nel codice civile risulta fortemente inadeguato perché anco-rato a quello che era il contesto presente all’epoca della sua emanazione. Il d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione di dati personali), d’altro canto, non è in grado di tenere il passo con il costante e inarrestabile progresso tecnologico, rappresentato principalmente, an-che se non in modo esclusivo, dalla crescente diffusione del documento informatico. In relazione al Codice della privacy, dando per acquisite le conoscenze relative alle nozioni di trattamento 28, dati personali 29 e dati sensibili 30, ritengo opportuno occuparmi dell’informativa

23 In questo senso L.P. COMOGLIO, Le prove civili, Utet giuridica, Torino, 2004, p. 51. 24 Cfr. anche L. ARIOLA, Le prove atipiche nel processo civile, Giappichelli, Torino, 2008, p. 126. 25 Cfr. L. ARIOLA, op. cit., p. 124. 26 Cfr. A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1999, p. 465. 27 In questo senso Cass., S.U., 13 gennaio 1997, n. 264 ove si legge che «Le nullità concernenti l’ammissione e l’espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pub-blico, bensì nell’esclusivo interesse delle parti e, pertanto, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice ma, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi»; Cass., Sez. III, 18 luglio 2008,, n. 19942; Cass., Sez. III, 9 gennaio 2002, n. 194. 28 Definito dall’art. 4, d.lgs. n. 196/2003 come «qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’au-silio di strumenti elettronici, concernente la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’ela-borazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la dif-fusione, la cancellazione, la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati». 29 Definiti dall’art. 4, d.lgs. n. 196/2003 come «qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od as-sociazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale». 30 Definiti dall’art. 4, d.lgs. n. 196/2003 come «i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni reli-giose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere re-ligioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale».

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preliminare e del consenso. In particolare, l’art. 13, d.lgs. n. 196/2003 richiede che l’interessato sia preventivamente informato sulle finalità e le modalità di trattamento dei dati, sulla natura obbligatoria o facoltativa del loro conferimento e sulle conseguenze del rifiuto di rispondere; tale obbligo non si applica tuttavia qualora i dati siano trattati ai fini dello svolgimento di inve-stigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro per-seguimento. Allo stesso modo, sebbene l’art. 23, d.lgs. n. 196/2003 ammetta il trattamento dei dati personali soltanto previo consenso dell’interessato, lo stesso non è necessario quando il trattamento è necessario ai fini dello svolgimento di investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Per i dati sensibili, invece, il d.lgs. n.196/2003 impone una tutela più rigorosa, prevedendo che possano essere oggetto di trattamento solo con il con-senso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante; anche in questo caso peraltro, quando il trattamento è necessario ai fini dello svolgimento di investigazioni difensive o per fa-re valere un diritto in sede giudiziaria, i dati possono essere oggetto di trattamento anche senza consenso, previa autorizzazione del garante e purché i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Le norme appena citate chiariscono quindi che è possibile una deroga alla privacy solo quando ciò è necessario per tute-lare un diritto di pari rango. È infatti evidente che, se la controparte fosse informata dell’in-tenzione del ricorrente di compiere attività investigative per acquisire prove da utilizzare nel corso di un giudizio, da un lato cambierebbe il proprio comportamento e dall’altro negherebbe il consenso al trattamento dei dati. Sul tema si è espressa di recente anche la Suprema Corte 31, affermando che «in tema di tratta-mento dei dati personali, i dati oggetto di trattamento, ai sensi degli artt. 4 e 11 d.lg. 30 giugno 2003 n. 196, vanno gestiti rispettando i canoni della correttezza, pertinenza e non eccedenza, rispetto alle finalità del nuovo loro utilizzo, ma non è necessario, ai sensi dell’art. 24 d.lgs. n. 196 cit., il consenso dell’interessato ove i dati stessi siano impiegati per le esigenze di difesa in giudizio e negli stretti limiti in cui ciò sia necessario. Ne consegue che, in riferimento ai dati rappresentati da documenti consegna-ti in copia dalla parte al proprio legale per la relativa utilizzazione nel processo di divorzio per cui era stato conferito il mandato e dalla corrispondenza tra legale e cliente, con la revoca del mandato difensivo non cessa il diritto di utilizzo, in capo al predetto legale, degli stessi dati, pur nel processo, diverso da quello presupposto, nel quale si faccia valere il diritto di credito per il pagamento degli emolumenti professionali nel frattempo non pagati». Nel caso in cui i dati personali siano trattati in violazione della disciplina appena vista, questi non potranno essere utilizzati, ma la validità, efficacia e utilizzabilità di atti, documenti e provvedi-menti nel procedimento giudiziario basato su tali atti resteranno disciplinate dalle pertinenti di-sposizioni processuali in materia civile e penale. Secondo la Cassazione 32, infatti, «alle disposizio-ni che regolano il processo deve essere attribuita natura speciale rispetto a quelle contenute nel codice della privacy […], ne consegue che se l’atto processuale che contiene il dato personale altrui risulta po-sto in essere nell’osservanza del codice di rito, non è configurabile alcuna lesione del diritto alla privacy». Tuttavia, se in ambito penale il legislatore ha previsto l’inutilizzabilità delle prove ac-quisite in violazione di disposizioni di legge, in ambito civile non c’è nessuna previsione in tal senso; la valutazione circa l’ammissibilità di tali prove è quindi in ultima analisi rimessa al giudice. Punto di partenza del ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte è costituito dalla rilevanza attribuita dal legislatore al diritto di agire e di difendersi in giudizio, diritto che, costituzional-

31 V. Cass., S.U., 8 febbraio 2011, n. 3033. 32 V. Cass., S.U., 8 febbraio 2011, n. 3034

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mente garantito, legittima la previsione di deroghe rispetto al regime ordinario, al fine di assi-curarne l’effettiva tutela. Lo stesso d.lgs. n. 196/2003 detta alcune disposizioni di favore per chi intende tutelare in sede giudiziaria le proprie ragioni, stabilendo, ad esempio, che è escluso il diritto di opposizione al trattamento dei dati da parte dell’interessato previsto dall’art. 7, quando il trattamento avvenga per l’esercizio del diritto in sede giudiziaria e che il trattamento di dati personali non presup-pone il consenso dell’interessato ove il trattamento avvenga per difendere un diritto in sede giudiziaria, e sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo ne-cessario al loro perseguimento. In questo quadro normativo viene data continuità all’orientamento già espresso in precedenti pro-nunce 33 e favorevole alla derogabilità della disciplina dettata a tutela dell’interesse alla riservatezza dei dati personali quando il relativo trattamento sia esercitato per la difesa di un interesse giuridi-camente rilevante, e nei limiti in cui ciò sia necessario per la tutela di quest’ultimo interesse. A questa soluzione era già pervenuta la giurisprudenza di merito, escludendo la necessità del con-senso del titolare dei dati personali ove il trattamento di essi fosse necessario per far valere o di-fendere un diritto in sede giudiziaria, risultando in tal caso la valutazione circa la misura del bilan-ciamento tra i contrapposti diritti coinvolti già chiaramente espressa dal legislatore stesso 34. Tale conclusione è resa possibile dal riconosciuto carattere di specialità che rivestono le dispo-sizioni che regolano la prova nel processo rispetto a quelle contenute nel codice della privacy, nei confronti delle quali, quindi, nel caso di divergenza, le prime devono prevalere, ferma re-stando la necessità di trovare nel procedimento civile il luogo di composizione delle diverse e-sigenze (di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo), ove queste non do-vessero risultare pienamente coincidenti. In sostanza, secondo la Corte, quando le modalità attuative del provvedimento giurisdizionale si pongono nel pieno rispetto delle norme del codice di rito, non vi è spazio per far valere pre-sunte violazioni delle norme a tutela della riservatezza. In conclusione, se è astrattamente legittima l’utilizzazione di dati personali per esigenze di giu-stizia, e se l’atto processuale che li contiene risulta essere stato posto in essere nell’osservanza del codice di rito, non è in linea di principio configurabile una lesione del diritto alla privacy, in quanto eventuali richieste finalizzate ad assicurare adeguata tutela sul punto ben possono (e anzi devono) essere proposte al giudice istruttore, che nella fase di emanazione del provvedi-mento potrà tuttavia adottare le eventuali misure ritenute utili al riguardo. 6. La tesi della incondizionata applicazione della prova  Se nella prospettiva appena considerata si potrebbe quindi ritenere che nei procedimenti rela-tivi a separazione e divorzio vi sia in sostanza un’incondizionata ammissibilità dei mezzi di pro-va anche atipici, per la particolare valenza dei diritti sottesi agli stessi e per le finalità della sepa-razione, tale ragionamento non appare però interamente condivisibile. Questo non solo perché

33 Cfr. Cass. 30 giugno 2009 n. 15327, in Riv. crit. dir. lav., 2009, p. 695, con nota di D. BONSIGNORIO, Riservatezza e rap-porto di lavoro: gli obblighi del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. come “limite esterno” al diritto del lavoratore alla privacy; in Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 71, con nota di A. SITZIA, Privacy del lavoratore, poteri del datore di lavoro ed interessi conflig-genti: un contemperamento è possibile?; Cass., Sez. III, 11 febbraio 2009, n. 3358; Cass., Sez. I, 15 maggio 2008, n. 12285; Cass., sez. III, 24 maggio 2003 n. 8239. 34 Cfr. Trib. Milano 8 novembre 2005, in Giustizia a Milano, 2005, p. 75; App. Roma 23 ottobre 2000, in Danno e responsa-bilità, 2001, p. 1067, con nota di U. IZZO, La responsabilità dello Stato per il contagio di emofilici e politrasfusi: oltre i limiti del-la responsabilità civile; Trib. Bari 12 luglio 2000, in Foro it., 2000, p. 2989, con nota di A. PALMIERI, Il contemperamento tra privacy e diritto di difesa: una pluralità di criteri in relazione alla natura dei dati.

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nei giudizi di cui si discute gli aspetti di rilevanza pubblicistica convivono con altri di natura meramente privatistica, ma anche in quanto il diritto alla riservatezza rappresenta comunque un diritto fondamentale della persona, in quanto tale tutelato “a monte” dalla stessa carta costi-tuzionale. In particolare, oltre agli artt. 2 e 3 Cost., che garantiscono “i diritti inviolabili del-l’uomo” e “pari dignità sociale” a tutti i cittadini, vi sono ulteriori disposizioni a carattere speci-fico, come gli artt. 13 (libertà personale), 14 (inviolabilità del domicilio), 15 (inviolabilità della corrispondenza) e 21 (libertà di manifestazione del pensiero), che rafforzano la valenza fon-damentale degli aspetti inerenti la vita del singolo e la sua privacy. Di conseguenza, diritti di tale rango non possono certamente essere limitati o compressi in modo arbitrario, così come né il matrimonio, né la convivenza stabile, possono di per sé soli valere a escludere il rispetto della privacy dei singoli coniugi 35. A mio avviso, nella valutazione circa l’ammissibilità delle prove atipiche, bisogna quindi tenere conto di vari elementi, tra cui il tipo di diritti e situazioni da tutelare, il ruolo del giudice, la tipo-logia di cognizione esercitabile dal magistrato e il ruolo delle parti per un utilizzo responsabile dello strumento processuale. In questo senso deve essere adottato un metro di giudizio diverso a seconda che l’elemento di prova riguardi i figli, con l’attribuzione al giudice di poteri istruttori più ampi in modo da salvaguardare l’interesse del minore ad ogni costo, o riguardi soltanto a-spetti relativi all’addebito o anche provvedimenti temporanei e urgenti. Bisogna poi analizzare alcune ipotesi particolari, in relazione alle diverse fasi e attività proces-suali. Nella fase introduttiva, al fine di emanare i provvedimenti temporanei e urgenti nel-l’interesse di prole e coniugi, il legislatore sancisce l’obbligo di allegare al ricorso e alla memoria difensiva, nonché di presentare all’udienza di comparizione, la dichiarazione personale dei red-diti e ogni documentazione relativa ai loro redditi e patrimoni personale e comune. A questo proposito, nella comprovata esigenza di una disclosure effettiva e quanto più possibile ampia, il Tribunale di Monza 36 in linea con le prassi già sperimentate da alcuni Tribunali, ha ad esempio recentemente adottato una particolare procedura che consente di conoscere la generale situa-zione economica e patrimoniale delle parti, disponendo che, a far tempo dal 1° aprile 2012, nei giudizi di separazione personale non consensuale e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, il ricorrente e il resistente depositino, oltre a dichiarazione dei redditi e CUD, anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in cui andranno indicati elemen-ti come attività lavorativa e altre fonti di reddito, proprietà immobiliari, beni mobili registrati, esistenza di contratti di locazione, iscrizione a circoli ricreativi, sportivi o culturali, iscrizione dei figli a scuole o università non pubbliche con indicazione della retta annua, collaboratori

35 In questo senso, Cass., Sez. V, 8 novembre 2006, n. 39827. 36 Così recita il decreto del Trib. Monza 10 gennaio 2012: «Nei giudizi di separazione personale (non consensuale) e di scio-glimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio (non consensuale) il ricorrente con il ricorso ed il resistente con la memoria di costituzione depositano oltre alle dichiarazioni dei redditi e al CUD dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con le seguenti indicazioni:attività lavorativa ed ogni altra fonte di reddito (retribuzione ed eventuali benefit aggiuntivi, reddito da lavoro auto-nomo, eventuali partecipazioni societarie, ed in quale misura, pensione, canoni di locazione, indennità a qualsiasi titolo); redditi netti annui relativi agli ultimi tre anni e redditi netti mensili percepiti negli ultimi sei mesi; proprietà immobiliari elencate singo-larmente indicando la tipologia (abitazione, uffici, negozi, terreni agricoli, aree edificabili), l’anno di acquisto, l’ubicazione, la su-perficie e la destinazione (se rimasti nella disponibilità, se abitati da componenti del nucleo familiare, se concessi in comodato a terzi oneroso o gratuito e nel primo caso il compenso); proprietà di beni mobili registrati (per le autovetture tipo, l’anno di acqui-sto, il canone leasing o la rata di finanziamento, l’importo dell’assicurazione e del bollo e per le imbarcazioni la tipologia a vela o a motore e la lunghezza nonché il canone annuo del rimessaggio); collaboratori domestici con indicazione del nominativo, della re-tribuzione e dell’importo mensile dei contributi assicurativi e previdenziali; esistenza di mutui o finanziamenti, causale e specifi-cazione della durata de rimborso e del canone mensile; esistenza di contratti locativi (precisando le località in Italia o all’estero) per case di abitazione-vacanza, il canone annuo corrisposto, l’anno di acquisizione e la durata; l’iscrizione a circoli ricreativi o sportivi o culturali per sé o per i figli con indicazione dell’esborso associativo annuo; iscrizione dei figli a scuole o Università non pubbliche con indicazione delle rette annue e spese accessorie».

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domestici, mutui o finanziamenti. Tale prassi è, a mio avviso, non soltanto legittima ma sicu-ramente virtuosa e dovrebbe per tale motivo essere estesa anche ad altri Tribunali. Sempre nella fase preparatoria sorge inoltre un problema relativo alla tutela della privacy in re-lazione alla notifica degli atti introduttivi, che spesso vengono notificati per esteso e non in bu-sta chiusa e sono raccolti da terzi. Non vi è dubbio che tale prassi sia da un punto di vista astrat-to del tutto ammissibile, in quanto è la legge stessa ad autorizzare tale modalità di notifica, ma, considerando la fairness processuale, sarebbe certo più corretto per il difensore del ricorrente adoperarsi con il collega avversario per ricevere la conferma dell’elezione di domicilio della par-te presso di lui così da provvedere alle necessarie notifiche al suo studio. Nella fase istruttoria, invece, se le informazioni economiche fornite dalle parti non sono sufficien-ti, la legge consente al giudice di richiedere alla polizia tributaria un accertamento sui redditi e beni oggetto della contestazione 37. Bisogna sempre tenere in prioritaria considerazione la neces-sità di evitare danni irreparabili per il minore, per cui è possibile che, seppure la prova della con-dotta pregiudizievole risulti da atti formalmente non inquadrabili a pieno titolo come prove, il giudice decida comunque di valutarli ai fini dell’emanazione di provvedimenti a tutela della prole. 7. Analisi dei casi più frequentemente ricorrenti  Generalmente, le prove che le parti intendono raccogliere nel corso dei giudizi di separazione e divorzio investono due macroaree: notizie volte ad accertare il patrimonio e lo stile di vita della controparte, ai fini dell’assegno di mantenimento e per questioni essenzialmente economiche, e notizie dirette a provare eventuali situazioni di infedeltà o di grave violazione degli obblighi matrimoniali, ai fini di un eventuale addebito. Tra i casi maggiormente ricorrenti, possono esserne ricordati alcuni, ovviamente soltanto in via esemplificativa. E così, alcuni comportamenti particolarmente gravi sono ad esempio l’installazione nell’a-bitazione o nell’autovettura del coniuge di apparecchi per intercettazioni o gps per tracciabilità automobili. Entrambe le fattispecie sono da considerare illecite, come confermato dalla Corte di Cassazione 38, che ha condannato un marito che aveva fatto istallare in casa un apparecchio volto a intercettare le telefonate della moglie, in quanto «risponde del reato previsto dall’art. 617-bis c.p. il coniuge che installa un radio registratore allo scopo di intercettare le comunicazioni telefoniche dell’altro coniuge con terzi, nella situazione conflittuale indotta dalla separazione già in atto». Un’altra fattispecie tipica riguarda lo svolgimento di indagini investigative. In questo caso, si ri-tengono ammissibili le fotografie o registrazioni effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico, inammissibili invece quelle effettuate in luoghi privati, in quanto in questo caso prevale il diritto alla riservatezza e l’apprensione dei dati delle persona deve quindi ritenersi contra legem. Tuttavia, il confine tra luogo pubblico e luogo privato è quanto meno discutibile, come rilevato anche dalla giurisprudenza 39, essendosi ad esempio affermato che non deve considerarsi illecito scattare foto

37 Cfr. l’art. 5, 9° comma, l. divorzio e l’art. 155, ultimo comma, c.c. 38 V. Cass., Sez. V, 2 dicembre 2003, n. 46202 e Cass., sez. V, 11 febbraio 2003, n. 12698 e Cass., Sez. V, 23 gennaio 2001, n. 12655. 39 Cfr. Cass., Sez. VI, 1 dicembre 2008, n. 40577: «La ripresa fotografica da parte di terzi lede la riservatezza della vita privata ed integra il reato di cui all’art. 615-bis, cod. pen., sempre che vengano ripresi comportamenti sottratti alla normale osservazione dall’esterno, essendo la tutela del domicilio limitata a ciò che si compie in luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ad estranei. Ne consegue che se l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere libe-ramente osservata senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza.» e Corte Cost. 16 maggio 2008, n. 149: «il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riser-

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di nascosto alla moglie e al suo amante nel cortile della casa di quest’ultimo, perché il cortile, es-sendo visibile dagli estranei, non rientrerebbe nell’ambito di tutela delle norme sulla privacy. Sempre in questo ambito vanno poi evidenziati i problemi relativi all’invasione della sfera di privacy di eventuali terzi e alla correlata possibilità di utilizzo della prova. In effetti, può anche ac-cadere che il documento ammesso (e valutato come prova dal giudice civile) leda il diritto alla privacy di un terzo soggetto anch’esso ritratto, che quindi decida di intraprendere un’azione pe-nale a sua tutela. In questa evenienza, unicamente nell’ipotesi in cui il giudizio penale si è già con-cluso con sentenza irrevocabile di condanna il documento deve ritenersi inutilizzabile in sede ci-vile; diversamente, se i due procedimenti (che hanno tempi e percorsi differenti) sono parallela-mente pendenti, il giudice civile non è certamente tenuto a sospendere il processo e ad attendere l’esito del procedimento penale e quindi potrebbe utilizzare il materiale come prova, con il ri-schio tuttavia che questo sia successivamente qualificato come illecito. Diverso ancora è il problema del possibile utilizzo della prova testimoniale per confermare il con-tenuto di relazioni/dichiarazioni scritte, anche di contenuto investigativo, già depositate in atti. In questi casi la prova orale è in linea di principio ammissibile ma sarebbe sempre opportuno un rigoroso controllo da parte del giudice sull’effettiva attendibilità del teste, eventualmente anche mediante domande a chiarimento inerenti l’attività svolta e i compensi per questa percepiti. Nel caso in cui sia la corrispondenza ad essere prodotta come prova, se questa è diretta a entrambi i coniugi non sorgono problemi in relazione al diritto alla riservatezza. Diversamente, se il materiale è indirizzato a un solo coniuge, non si può in linea di principio configurare appropriazione indebita ex art. 616 c.p. nel caso in cui il materiale sia stato trovato in casa, e quindi liberamente a disposizione del coniuge che lo ha prodotto 40 (anche se talvolta viene ritenuta una ulteriore linea di discrimine a questo riguardo nelle modalità di accesso della parte al documento). Per quanto riguarda l’acquisizione di tabulati telefonici, sms e messaggistica istantanea (msn-skype), un’eventuale carenza materiale potrebbe essere superata attraverso la richiesta al giudi-ce di ordinare alla compagnia telefonica l’esibizione dei tabulati ed eventualmente la trascrizio-ne dei messaggi sms 41. Tuttavia, va rilevato che non tutti i sistemi di messaggistica istantanea consentono di recuperare la cronologia delle conversazioni e alcuni sono muniti di strumenti di difesa particolarmente elaborati contro le intrusioni, che rendono impossibile ricostruire la cronologia una volta che questa è stata cancellata. Per i messaggi e-mail si pongono ulteriori problemi, relativi ad esempio alla provenienza della comunicazione, con particolare riferimento all’autenticità dei messaggi e, in assenza di un si-stema di firma elettronica qualificata, alla loro riconducibilità al presunto autore.

vatezza se l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, possa essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti (ad es. chi si ponga su un balcone prospiciente la pubblica via), negli stessi limiti, l’attività così liberamen-te osservata può essere videoregistrata, per confluire, successivamente, nel coacervo probatorio». 40 Cfr. anche Cass., Sez. V, 29 marzo 2011, n. 35383: «Integra il reato di rivelazione del contenuto di corrispondenza la con-dotta di colui che produca, nel corso di un giudizio di separazione, corrispondenza inviata alla moglie attestante le condizioni pa-trimoniali di quest’ultima, senza che possa ravvisarsi una giusta causa scriminante laddove non si accerti che solo attraverso tale rivelazione fosse possibile contrastare le richieste del coniuge controparte». 41 Cfr. Cass., Sez. V, 22 ottobre 2008, n. 46454: «Il reato di trattamento illecito di dati personali, già previsto dall’art. 35 l. 31 di-cembre 1996 n. 675 (ora previsto, in rapporto di continuità normativa, dall’art. 167 d.lg. 30 giugno 2003 n. 196), non è configurabile allorché ricorrano le condizioni di cui alla clausola limitativa introdotta dall’art. 5, comma 3, d.lg. n. 196 del 2003, secondo cui il trat-tamento di dati personali se effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali "è soggetto all’applicazione del presente codi-ce (ergo, il codice della privacy) solo se i dati sono destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione" (da queste premesse, in una fattispecie in cui gli imputati si erano introdotti abusivamente nella rete informatica del gestore telefonico Tim e avevano acqui-sito i dati del tabulato telefonico di una persona per raccogliere prove da fornire alla committente circa l’infedeltà del marito, la Corte, mentre ha rigettato il ricorso relativamente al reato di cui all’art. 615 ter c.p., ha annullato la condanna limitatamente al reato di cui all’art. 35 l. n. 675 del 1996, apprezzando come nel caso concreto difettasse la destinazione dei dati raccolti alla comunicazione siste-matica o alla diffusione, per essere stati questi acquisiti per fini esclusivamente personali della committente)».

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Analogamente, con riferimento ai social network, si riscontra una diffusione sempre più ampia e un utilizzo spesso incontrollato, con invio di messaggi di dominio pressoché pubblico volti a coltivare relazioni spesso non compatibili con il dovere di fedeltà. Le statistiche e i vari media riportano al riguardo una singolare crescita del numero dei divorzi che sarebbero causati dai social network (ormai assestati secondo quanto è dato leggere al 22% in Italia e addirittura al 33% nel Regno Unito). A questo riguardo, ci si chiede dunque se sia possibile usare quanto emerge on line ai fini di un’eventuale domanda di addebito. La produzione della relativa docu-mentazione è in questi casi a mio avviso ammissibile, ove il materiale sia stato reperito attraver-so un semplice e legittimo accesso in rete. Piuttosto, e come per le e-mail, si pongono in questi casi problemi per l’autenticità e la provenienza del documento, in quanto non è possibile ri-chiedere perizie calligrafiche e non è mai del tutto certa la genuinità delle comunicazioni né la loro provenienza. È peraltro possibile deferire alla parte l’interrogatorio formale per chiedere conferma che i messaggi siano effettivamente stati dalla stessa inviati. Passando ad altro argomento, il fatto che le visure catastali, immobiliari e PRA riguardino dati disponibili su banche dati online non dovrebbe invece creare interferenze con il diritto alla ri-servatezza, che non viene in linea di principio leso, ferma restando ovviamente la necessità che ciò accada allo scopo di far valere un diritto in sede giudiziaria. Sempre per quanto riguarda l’informativa di carattere economico, come visto in precedenza, la dichiarazione dei redditi deve essere depositata in modo tempestivo con il primo atto difensivo e, quindi, la parte potrà produrre anche la dichiarazione dei redditi avversaria, purché ne sia en-trata in possesso in modo legittimo. Vi sono poi agenzie specializzate nel sistema del c.d. rintraccio conti correnti, ovvero il reperi-mento del nominativo delle banche sulle quali il soggetto detiene conti o deposito. Qualora la parte dovesse fornire tali dati, è comunque opportuno che il difensore provveda a fare richiesta al giudice di un ordine di esibizione ai terzi, evitando una produzione diretta che potrebbe es-sere considerata illegittima 42. Ancora, può accadere che una parte decida di chiamare a testimoniare i colleghi di lavoro, o il datore stesso, per cercare di screditare la controparte o per avere indicazioni circa comporta-menti da questa tenuti. In queste ipotesi, laddove il teste non dovesse essere in grado di ri-spondere su alcun capitolo e chiarisse la sua totale estraneità alla vicenda, il giudice – ove ulte-riori circostanze confermino un intento di screditare mediante la chiamata del teste la parte, diffondendo notizie altrimenti riservate – potrebbe tener conto di tale comportamento come argomento di prova ex art. 116, 2° comma, c.p.c. Infine, per quanto riguarda le relazioni mediche, si tratta di dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute della controparte, per cui bisognerebbe sempre verificare quale diritto (tra quello alla riservatezza e quello in funzione del quale la relazione viene prodotta) debba considerarsi preva-lente. A questi fini, la parte può sempre sollecitare al giudice un’ampia assunzione della prova; in particolare, deve ritenersi ammessa la richiesta di CTU non soltanto psicologica, ma anche ad esempio medica e tossicologica per valutare l’adeguatezza del genitore a occuparsi del figlio mi-nore in relazione alle sue condizioni di vita e di salute 43. Ritengo invece che siano in linea di prin-

42 Cfr. Trib. Milano 17 febbraio 2009: «Non costituisce illecito trattamento di dati personali e rientra nella ipotesi di cui agli art. 46 e 47 d.lg. 196 del 2003 (trattamenti per finalità di giustizia) la notifica a terzi, da parte dei difensori di una parte di un giudizio, di un provvedimento del giudice di ordine di esibizione di documentazione contabile e bancaria, effettuata mediante e-strazione di copia autentica del provvedimento, senza omissione dei dati personali ivi contenuti». 43 Cfr. M.G. RUO, Tutela dei figli e procedimenti relativi alla crisi della coppia genitoriale nella giurisprudenza della Corte Euro-pea dei Diritti dell’Uomo, in Dir. famiglia, 2011, p. 1020: «Le decisioni relative all’idoneità del genitore all’accudimento del fi-glio, o alla relazione con lo stesso non possono fondarsi su discriminazioni di carattere generale e relative alla condizione personale di quel particolare genitore, ma su elementi concreti, obiettivi e ragionevoli che valgano ad escludere nel caso concreto la sua idoneità».

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cipio da rigettare eventuali richieste di consulenze volte a inferire dal preteso stato di salute del coniuge elementi legittimanti un eventuale addebito della separazione. Ciò soprattutto in quelle ipotesi in cui vengono contestati avvenimenti e disagi anche lontani nel tempo e risalenti all’infanzia del coniuge per cercare di comprovare comportamenti problematici o destabilizzanti. In questi casi, invero, la scelta consapevole operata con il matrimonio dovrebbe superare in linea di principio una possibile rilevanza di tali aspetti ai fini di una pretesa unilaterale lettura del falli-mento della vita coniugale. Qualora la parte sia (legittimamente) in possesso di documentazione medica riservata, è co-munque sempre opportuno richiedere al giudice in via preventiva una specifica autorizzazione alla relativa produzione. 8. Conclusioni  L’indagine sinora svolta ha evidenziato la perdurante assenza di una normativa unitaria e organica realmente idonea a disciplinare con certezza le relazioni e i rapporti tra le esigenze istruttorie che sorgono nei processi di separazione e divorzio e la tutela della riservatezza della persona. Di qui la difficoltà intrinseca di fornire risposta ai problemi sempre più numerosi che la prassi presenta. Il codice della privacy, pur meritevole nella enunciazione dei principi, rappresenta purtroppo sotto questo profilo ancora una normativa a sé stante, per la quale sarebbe necessario un coor-dinamento con le regole generali in materia di prove e con la disciplina speciale prevista per la separazione e divorzio. Allo stato, se da un lato risulta quindi indispensabile mantenere come parametro di riferimento (e come sicura identificazione dei comportamenti antigiuridici) le norme penali che tutelano la riservatezza della persona, dall’altro non si può non sottolineare come una legittima acquisizio-ne della prova presuppone il rispetto dei canoni generali del giusto processo (e in primis il con-traddittorio), e altresì di un comportamento processuale improntato a fairness e quanto più ri-goroso possibile. Da questo punto di vista, non si può che rafforzare la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti (art. 116, 2° comma, c.p.c.) e di disporre di un apparato sanzionatorio (quale risultante in particolare dall’art. 96 c.p.c.) volto a censurare ogni comportamento irrispettoso e antigiuridico della parte.

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DIRITTO ALLA RISERVATEZZA E PROFILI PENALI. IN PARTICOLARE, UTI‐LIZZABILITÀ DELLA PROVA ACQUISITA MEDIANTE LA COMMISSIONE DI UN REATO NEI PROCESSI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO 

Iolanda Campolo Avvocato del Foro di Milano Sommario: 1. La necessità per il difensore di riconoscere le prove acquisite mediante la commissione di un reato. – 2. Relazioni familiari e diritto alla riservatezza. – 3. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.). – 4. I delitti concernenti le conversazioni telefoniche (artt. 617 e 617 bis c.p.). – 5. Il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.). – 6. Il reato di illecito trattamento di dati personali (art. 167, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196). – 7. L’uso di investigatori privati. 1. La necessità per il difensore di riconoscere le prove acquisite mediante la commissione di un reato  Prima di entrare nel merito dell’oggetto specifico di questo intervento, è opportuna una breve premessa che riguarda soprattutto, ma non solo, i giudizi di separazione e divorzio. Le modalità attraverso le quali le parti si procurano mezzi di prova da spendere nel processo civile devono essere oggetto di particolare approfondimento da parte del difensore, allo scopo di valutare correttamente l’opportunità di utilizzare la prova medesima in giudizio. A prescin-dere, infatti, dalla più ampia tematica relativa alla produzione processuale di documenti ottenu-ti illecitamente, la presenza nel fascicolo di causa di una prova acquisita, ad esempio, per effetto della commissione di un reato rischia di esporre il soggetto che si è procurato la prova a gravi ripercussioni sotto il profilo penale. L’obiettivo di una efficace strategia difensiva nell’ambito del procedimento civile deve quindi essere mediato dal difensore attraverso una visione di più ampio respiro che gli consenta di guardare oltre gli esiti del giudizio in corso, e di valutare tutte le possibili conseguenze di una determinata scelta processuale sulla posizione complessiva del proprio assistito. Viceversa, saper riconoscere una prova acquisita dalla controparte contra legem (ai sensi, in partico-lare, della legge penale) può essere di supporto per predisporre le opportune reazioni in sede penale a tutela del cliente che rivesta la qualità di persona offesa dal reato. Ciò nell’ottica anche di vagliare

1 Testo della relazione tenuta all’incontro di studio “I limiti della prova in relazione alla tutela della privacy nei procedimenti di separazione e divorzio”, organizzato da AIAF Lombardia a Milano il 16 febbraio 2012.

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l’opportunità di depositare nel giudizio civile l’eventuale querela presentata alla Procura della Re-pubblica allo scopo di ridimensionare l’efficacia probatoria della prova illecitamente acquisita. Sotto quest’ultimo profilo, una corretta interpretazione delle norme penali da parte del difen-sore di colui che assume di essere persona offesa da un reato richiede attenta ponderazione. Se-condo quanto disposto dall’art. 368 c.p., accusare taluno – mediante una denuncia o una que-rela rivolta all’autorità giudiziaria – di un reato sapendolo innocente configura il delitto di ca-lunnia. Reato, questo, punito, fatte salve eventuali aggravanti, con la pena della reclusione da due a sei anni e per di più procedibile d’ufficio, sicché anche eventuali successive ricomposizio-ni bonarie con la controparte resterebbero senza effetto, e il procedimento penale seguirebbe inesorabilmente il suo corso. Ecco perché buona prudenza imporrebbe di resistere sempre alla tentazione di “modellare” il contenuto di una querela, magari addomesticando un po’ la realtà dei fatti, allo scopo di ren-derla funzionale a perseguire gli interessi specifici del giudizio civile. Pena il rischio di una con-tro-querela per calunnia dagli esiti potenzialmente dirompenti. Poiché dunque, a differenza di quanto avviene nel diritto civile, nel diritto penale vige il divieto di analogia (sancito dall’art. 25 Cost.), è necessario maneggiare con cura le norme penali sia per proteggere il nostro assistito dal rischio di un successivo procedimento penale (se, ad e-sempio, si accerta che egli ha prodotto un documento da lui stesso ottenuto commettendo un reato), sia per tutelarlo adeguatamente in caso di eventuali comportamenti criminosi da parte degli avversari in giudizio. Ora, è noto che un fatto può integrare gli estremi di un determinato reato solo quando tutti gli elementi costitutivi descritti dalla norma incriminatrice sono presenti nel caso di specie. Le norme del codice penale che saranno oggetto del presente intervento, ossia quelle che configu-rano violazioni del diritto alla riservatezza, contengono una descrizione molto articolata delle condotte che costituiscono reato, sicché si impone al difensore una particolare cautela allor-quando si trova a valutare la “fonte” della prova prodotta in giudizio per capire se un reato è stato commesso o meno. 2. Relazioni familiari e diritto alla riservatezza  Nell’esperienza comune sono tutt’altro che infrequenti le interferenze tra le dinamiche familia-ri e la privacy dei singoli, soprattutto quando si tratta di dimostrare l’infedeltà del coniuge ovve-ro l’effettivo reddito e/o la situazione patrimoniale di quest’ultimo. Per arrivare a scoprire l’infedeltà del partner oppure per sapere se questi ha dissimulato la reale consistenza del suo patrimonio al fine di contenere gli oneri di mantenimento, non è raro che il cliente cerchi egli stesso elementi di prova all’interno della casa coniugale dove, per definizio-ne, l’accesso ad informazioni riservate è particolarmente agevolato dalla convivenza e dall’as-senza di barriere oggettive all’intromissione nella sfera riservata altrui. Sotto questo profilo, costituisce principio di diritto consolidato e condiviso dalla giurispruden-za di legittimità penale quello secondo il quale «i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi, ma ne presuppongono anzi l’esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di pie-na e pari dignità; tanto vale anche in caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza» 2.

2 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 23 maggio 1994, Innocenti, in Cass. pen., 1995, 1209.

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Il matrimonio non determina quindi, di per sé, alcuna compromissione (tanto meno l’elimina-zione) del diritto alla riservatezza che compete a ciascuno dei familiari. Ciò premesso, bisogna però individuare correttamente i confini di tale diritto alla privacy e la portata di eventuali deroghe. In linea di principio, la condotta del coniuge che impieghi (acquisisca, conservi, comunichi) dati personali del consorte per tutelare un proprio diritto in giudizio è legittima e non punibile. Esiste infatti una precisa deroga alle regole comuni contenute nel c.d. Codice della privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) – le quali impongono sempre un preventivo consenso dell’interessato al trattamento dei propri dati personali – quando il trattamento medesimo avviene esclusivamente per la finalità di far valere o difendere un diritto in giudizio e per il periodo strettamente necessa-rio al loro perseguimento (cfr. art. 24, 1° comma, lett. f), d.lgs. n. 196/2003). La regola è generale e vale giocoforza anche per gli avvocati e i loro ausiliari. Anche per quanto riguarda i dati c.d. sensibili (ovvero quelli «idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sin-dacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale», art. 4, 1° comma, lett. d), d.lgs. n. 196/2003), a fronte della ordinaria necessità del consenso dell’interessato e della previa autoriz-zazione del Garante, qualora il trattamento sia necessario al fine della difesa di un diritto in sede giudiziaria e sia pur sempre circoscritto entro i limiti della necessità, della pertinenza e non ecce-denza, si può procedere al trattamento anche senza il consenso dell’interessato. Nel caso di dati c.d. ultrasensibili, cioè idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale del tito-lare, valgono gli stessi principi di cui sopra; tuttavia, il trattamento è consentito a patto che il dirit-to che s’intende far valere in giudizio sia di rango pari a quello dell’interessato, cioè un altro dirit-to di natura inviolabile o relativo ad una libertà fondamentale. In casi siffatti, l’invocazione di un generico diritto di difesa non è sufficiente a giustificare la violazione dell’altrui riservatezza (a tale proposito, con provvedimento dell’8 gennaio 2004 il Garante della Privacy, chiamato a giudicare se poteva configurarsi una violazione della riservatezza nella condotta di un coniuge che, allo sco-po di ottenere la modifica delle condizioni economiche del provvedimento di separazione perso-nale, aveva prodotto in giudizio una raccolta di fotografie e relazioni investigative volte a provare l’infedeltà del coniuge, ha ritenuto illegittimo il trattamento dei dati da parte del coniuge troppo “invadente”. Il Garante, in particolare, ha ritenuto che la produzione in giudizio di materiale “sen-sibile”, e il conseguente sacrificio della privacy dell’altro coniuge, non fossero affatto controbilan-ciati dall’esigenza di tutelare diritti di natura meramente patrimoniale 3). 3. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.)  Ciò premesso sul piano generale, il codice penale contiene diverse fattispecie di reato che met-tono in gioco il diritto alla riservatezza nell’ambito dei rapporti tra coniugi. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata, ad esempio, vieta l’uso di qualunque mezzo di riproduzione visiva o sonora (cioè di qualsivoglia strumento in grado di scattare una fotografia, registrare un video o una conversazione vocale, basti pensare a cosa possono fare gli odierni cellulari), volto ad ottenere indebitamente immagini e/o notizie di terzi nei luoghi di “privata dimora”. Di tali notizie è vietata anche, come è ovvio, l’indebita rivelazione a terzi. Secondo la formulazione letterale della norma, è tutelato il diritto alla riservatezza dell’interessato

3 Cfr. www.garanteprivacy.it, doc. web n. 1086296.

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nei luoghi di “privata dimora”: sono quindi pacificamente esclusi i luoghi pubblici (strade, piazze, ecc.) e anche quelli aperti al pubblico come i ristoranti, i pubblici uffici, i bar o i negozi. Cosa debba intendersi per “privata dimora” lo ha chiarito nel tempo l’interpretazione giurispru-denziale, che oggi identifica un luogo di privata dimora come ogni luogo ove l’interessato espli-chi, anche solo temporaneamente, la propria sfera intima e privata. In altre parole, ogni luogo ove egli goda di uno ius excludendi nei confronti di tutti gli altri: la propria abitazione, ovviamente, ma anche lo studio professionale o una camera d’albergo per il tempo in cui egli vi dimora. Non costituisce, viceversa, luogo di privata dimora l’abitacolo di una autovettura sulla pubblica via. A questo proposito, si rinviene nella casistica della Corte di Cassazione più di una decisione su epi-sodi simili nei quali l’imputato/a aveva installato sulla macchina dell’ex partner un cellulare con suoneria disattivata e con impostata la funzione di risposta automatica, in modo da consentire la ri-presa sonora di quanto accadeva nell’automobile stessa. La Corte di Cassazione, intervenuta su di-versi casi analoghi 4 ha sempre assolto gli imputati sul presupposto, per l’appunto, che l’automobile di per sé non costituisce luogo di privata dimora (il che esclude la configurabilità dell’art. 615 bis c.p.) e che per di più, nel caso di registrazione di una conversazione telefonica dell’occupante della macchina con un terzo, non essendo in grado il congegno di captare le conversazioni di entrambi gli utilizzatori del telefono, il fatto non integra neppure il reato di installazione di apparecchiature atte ad intercettare conversazioni telefoniche, su cui infra (art. 617 bis c.p.). Perché si configuri il reato in questione, in ogni caso, l’apprensione di notizie o immagini della sfera privata altrui deve avvenire “indebitamente”. È importante, a questo proposito, una precisazione: è sempre consentita la registrazione di conversazioni da parte di uno degli interlocutori della conversazione stessa, così come la ripre-sa audio/video eseguita da colui che è parte della situazione rappresentata (salva ogni respon-sabilità di eventuali illecite rivelazioni a terzi, nei limiti di cui si dirà di qui a breve); viceversa, deve ritenersi sempre vietata dalla legge penale anche solo la mera registrazione audio/video, così come l’intercettazione telefonica, di conversazioni che altri stanno intrattenendo con terzi. Più nel dettaglio, si è esclusa la sussistenza del reato de quo nel caso di colui che, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, aveva provveduto a filmare in casa propria rapporti intimi avuti con la convivente in quanto «l’interferenza illecita prevista e sanzionata dall’art. 615 bis c.p. è quella pro-veniente dal terzo estraneo alla vita privata e non già quella del soggetto che, invece, sia ammesso – sia pure estemporaneamente – a farne parte, mentre è irrilevante l’oggetto della ripresa, considerato che il concetto di “vita privata” si riferisce a qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riserva-to» 5. Nel caso di specie, in particolare, era emerso in giudizio che la ripresa video, seppure svolta all’insaputa della donna, non era mai stata resa pubblica o diffusa a terzi, sicché nessuna responsabi-lità penale poteva ravvisarsi a carico dell’imputato per avere ripreso immagini che concernevano anche la sua persona, e svoltesi in un ambiente riservato sia a lui che alla convivente. Viceversa, con decisione recentissima 6, in un caso pressoché analogo a questo, l’imputato è stato invece ritenuto colpevole del reato a lui ascritto (art. 615 bis, 2° comma, c.p.) perché la ripresa audio-video del rapporto sessuale avuto con la propria convivente, mentre costei era all’oscuro della ripresa stessa, era stata poi diffusa su internet dopo la fine della relazione sentimentale. In buona sostanza, in casi di questo genere, la captazione delle immagini è legittima ma non lo è la diffusione indebita delle stesse a terzi.

4 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 6 marzo 2009 n. 28251 in CED Cass. pen., 2009, rv 244196; Cass. pen., Sez. V, 23 ottobre 2008, n. 4926, in Cass. pen., 2010, 11, 3845; Cass. pen., Sez. V, 30 gennaio 2008, n. 12042 in Resp. civ. e prev., 2008, 12, 2486. 5 Cass. pen., Sez. V, 28 novembre 2007 n. 1766, in Cass. pen., 2008, rv 239098. 6 Cfr. Cass. pen., Sez. III, 12 gennaio 2012, n. 7361, in Diritto e Giustizia online del 29 febbraio 2012.

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Fatta eccezione per i casi – senz’altro più problematici – in cui l’autore della registrazione sia per così dire parte integrante della “scena”, è certo che il reato di interferenze illecite si configu-ri sempre e comunque nel caso di indebita registrazione, da parte di un coniuge, di conversa-zioni che, in ambito domestico, l’altro coniuge intrattenga con un terzo 7. Si trattava, in quel caso, di una intercettazione ambientale a tutti gli effetti nel domicilio dome-stico; il fatto che l’imputato stesse registrando una conversazione che stava comunque avve-nendo in casa propria è stato ritenuto dalle corti di merito e dalla Corte di Cassazione del tutto irrilevante, trattandosi di una conversazione intercorrente tra terzi che avevano diritto a che questa rimanesse privata. Ciò che, infatti, si ritiene rilevi ai fini della configurabilità del reato è la violazione della riservatez-za domiciliare – in quel momento – della persona offesa, non la disponibilità di quel domicilio anche da parte dell’autore dell’indebita intercettazione né il suo rapporto di convivenza coniugale con la vittima. Il fatto che quella fosse anche casa sua non autorizzava, in buona sostanza, l’imputato a registrare senza permesso le conversazioni della moglie convivente con un terzo. A questo proposito, la Corte Costituzionale, con la sentenza 16 maggio 2008, n. 149, ha preci-sato – proprio in tema di inviolabilità del domicilio (sub art. 14 Cost.) – che affinché scatti la protezione garantita dall’art. 14 non è sufficiente che un certo comportamento venga tenuto in luoghi astrattamente configurabili come privata dimora; occorre altresì che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi. Per contro, se l’azione – pur svolgendosi in luoghi di privata dimora – può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti (ad esempio, il balcone posto sulla pubblica via; il cortile visibile dalla strada) il titolare del domicilio non può evidentemente accampare alcuna pretesa alla propria riservatezza perché, di fatto, è come se si trovasse in un luogo aperto al pubblico. 4. I delitti concernenti le conversazioni telefoniche (artt. 617 e 617 bis c.p.)  Per quanto riguarda la tutela della riservatezza nelle comunicazioni telefoniche, il codice penale contiene due norme diverse riferite a fattispecie differenti: l’art. 617 (cognizione illecita di comuni-cazioni telefoniche) e l’art. 617 bis (installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazio-ni telefoniche). Si tratta, come detto, di due fattispecie distinte, sanzionando la prima la condotta di chi prende conoscenza – fraudolentemente – e/o rivela il contenuto di comunicazioni inter a-lios, mentre la seconda disposizione punisce colui che predispone strumenti atti a intercettare conversazioni altrui. Ciò anche a prescindere dalla effettiva ricezione delle altrui comunicazioni. Anche in questo caso, così come nel caso del delitto di illecite interferenze, il reato può essere commesso solo da soggetto diverso rispetto a chi fa o riceve la telefonata, giacché tecnicamente l’intercettazione telefonica è solo quella non diretta a colui che registra o ne prende cognizione, ma solo quella che consente la registrazione o la presa di cognizione di una conversazione tra altre persone. Sotto questo profilo, in tema di rapporti tra coniugi, ancor prima della riforma del diritto di fa-miglia (figurarsi oggi), si affermava l’inesistenza di uno ius corrigendi, neppure implicito, in ca-po al marito nei confronti della moglie, né il diritto di controllare fraudolentemente le telefona-te e la corrispondenza della moglie, pur se tale attività sia stata ispirata dal fine di accertare la sospetta infedeltà 8.

7 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 8 novembre 2006, n. 39827, in Riv. pen., 2007, 3, p. 264. 8 Cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 1974, 128399.

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5. Il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.)  Il tema è evidentemente assai spinoso e assai ricorrente in ambito familiare. È fuor di dubbio che nessuno possa legittimamente controllare, prendere conoscenza o divulgare i contenuti delle comunicazioni inviate o ricevute dai familiari, ad eccezione del diritto dei genitori, nell’ambito delle proprie potestà, di controllare la corrispondenza dei figli minori. Del resto, la libertà e la segretezza della corrispondenza vengono espressamente qualificate dall’art. 15 Cost. come diritti inviolabili dell’uomo, sicché è chiaro che nessuna deroga può esservi in questo contesto al di fuori dei casi espressamente individuati dalla legge. L’art. 616 c.p. costituisce, per l’appunto, la norma penale posta a presidio dei valori costituzio-nali sopra evidenziati e prevede due distinte condotte: la presa di conoscenza di corrisponden-za chiusa e la rivelazione, senza giusta causa, di corrispondenza (sia chiusa che aperta). Sotto questo profilo, si badi che persone offese del reato di cui all’art. 616 c.p. possono essere indiffe-rentemente sia il mittente che il destinatario della posta “violata”, sicché entrambi sono legitti-mati a proporre querela alla Procura della Repubblica. Ai fini della sussistenza del reato, la comunicazione di cui si prende abusivamente conoscenza deve essere attuale (non lettere risalenti nel tempo, dunque) e personale (cioè indirizzata ad una persona determinata). Con riferimento alla prima delle fattispecie descritte dalla norma incriminatrice (ovvero la pre-sa di cognizione di corrispondenza altrui), deve trattarsi di corrispondenza qualificabile come “chiusa”; deve risultare evidente cioè la volontà del mittente (o del destinatario) che quel mes-saggio resti visibile solo per quest’ultimo (non solo una busta fisicamente chiusa, ma – come oggi frequentemente può accadere – anche un messaggio di posta elettronica su un indirizzo protetto da password 9). A questo proposito, in una celebre sentenza della V sezione della Cassazione penale 10 si affer-ma a chiare lettere che la corrispondenza deve ritenersi tutelata in sé, perché essa stessa è segre-ta per espressa previsione di legge, a prescindere dalla segretezza o meno del suo contenuto, sicché deve ritenersi inibito al coniuge di prendere visione della corrispondenza indirizzata all’altro, senza il consenso espresso o tacito di quest’ultimo, anche se in ipotesi il contenuto del-la corrispondenza non sia un segreto per lui. Viceversa, più restrittiva è la disposizione contenuta al 2° comma dell’art. 616 c.p. che vieta di rivelare il contenuto della corrispondenza altrui, a prescindere che si tratti di corrispondenza chiusa o aperta, a meno che non si sia in presenza di una “giusta causa”. È questa, con ogni evi-denza, la fattispecie di reato che potrebbe venire in gioco allorquando si decida di produrre nel giudizio civile la corrispondenza indirizzata (o inviata) al coniuge, perché è chiaro che la pro-duzione in giudizio costituisce senz’altro “rivelazione” penalmente rilevante secondo il dispo-sto dell’art. 616 c.p. Il tema ruota allora intorno alla identificazione dei corretti confini di siffatta “giusta causa”, che sola può privare di rilevanza penale la condotta contestata. Per molti anni l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione è stato nel senso di ritene-re non punibile il coniuge che nell’ambito del giudizio di separazione producesse corrispon-denza inviata alla moglie, orientamento coltivato per primo 11 in un procedimento nel quale il marito aveva prodotto in giudizio documentazione bancaria inviata alla moglie. Il Supremo

9 Cass. pen., Sez. V, 11 dicembre 2007 n. 47096, in Cass. pen., 2008, 12, 4669. 10 Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 1997, n. 8838 in Cass. pen., 1998, 2361. 11 Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 1997, cit.

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Collegio ha affermato in quella decisione che, non essendo la nozione di giusta causa stata for-nita dal legislatore, essa deve dunque essere affidata al concetto generico di giustizia che la lo-cuzione stessa presuppone, e che il giudice deve determinare di volta in volta con riguardo alla liceità – sotto il profilo etico-sociale – dei motivi che determinano il soggetto ad un certo com-portamento. Deve trattarsi di motivi oggettivamente rilevanti perché il fine o motivo dell’agen-te, per sé solo, non può considerarsi giusta causa. In quel caso la corrispondenza violata era stata prodotta nel giudizio di separazione quale mez-zo di prova per contrastare l’altrui richiesta di assegno di mantenimento; ne conseguiva, se-condo il Collegio, che la produzione aveva uno scopo difensivo e che non era possibile preten-dere che un soggetto fosse posto nell’alternativa di non poter tutelare un proprio legittimo in-teresse o di commettere un delitto mediante la rivelazione del segreto epistolare. L’imputato era stato così mandato assolto. Tale principio consolidato è stato tuttavia drasticamente ribaltato di recente 12. La Suprema Corte cambia, dunque, decisamente orientamento e l’esigenza di produrre la corrispondenza in giudizio allo scopo di difendersi cessa di essere una “giusta causa” ai sensi e per gli effetti del-l’art. 616 c.p. Il concetto di giusta causa, sostiene la Corte in quest’ultima decisione, presuppone che la pro-duzione in giudizio sia l’unico mezzo a disposizione per contrastare le richieste dell’altro co-niuge. In assenza di prova in questo senso, deve ritenersi che il coniuge avrebbe potuto – ex art. 210 c.p.c. – chiedere al giudice di ordinare all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o altro. Perché ci sia giusta causa, non basta quindi che l’intento del coniuge non sia riprovevole, ma è necessario che non vi fossero altre soluzioni praticabili per poter esercitare il proprio diritto in giudizio. 6. Il reato di illecito trattamento di dati personali (art. 167, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196)  Anche il Codice in materia di protezione dei dati personali contiene norme incriminatrici a protezione del diritto alla riservatezza. In particolare, l’art. 167 del citato testo normativo puni-sce chiunque compia un trattamento di dati personali in violazione delle norme contenute nel Codice medesimo. È piuttosto difficile, in ragione della disciplina generale che regola il trattamento dei dati per-sonali, che questa norma incriminatrice possa trovare applicazione nei rapporti fra coniugi. Ciò nondimeno, è accaduto che un investigatore privato sia finito imputato in un procedimento penale per essere stato incaricato di introdursi nel sistema informatico di un noto gestore tele-fonico, attraverso il computer dell’ufficio presso l’agenzia investigativa in cui lavorava, allo sco-po di estrarre dati di traffico telefonico riferiti al numero di telefono del marito della commit-tente, la quale voleva raccogliere prove dell’infedeltà di quest’ultimo. L’accesso era avvenuto una sola volta e, per l’appunto, al solo scopo di trovare prove della presunta infedeltà 13. Secon-do la Corte di Cassazione, le particolari modalità del fatto concreto rendevano operativa la clausola limitativa di cui all’art. 5, 3° comma, del Codice in materia di protezione dei dati per-sonali secondo cui «il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusiva-mente personali è soggetto all’applicazione del presente codice solo se i dati sono destinati ad una co-

12 Cass. pen., Sez. V, 29 marzo 2011, n. 35383. 13 Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 2008, n. 46454, in Guida al diritto, 2009, 7, 80.

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municazione sistematica o alla diffusione». La presenza di uno scopo esclusivamente personale perseguito dalla committente escludeva così, secondo il Supremo Collegio, la sussistenza del reato contestato. 7. L’uso di investigatori privati La decisione sopra ricordata fornisce lo spunto per qualche breve accenno alla figura degli in-vestigatori privati. Le norme contenute nel Codice della privacy valgono ovviamente anche per questi ultimi. Sul punto è bene ricordare che il Garante della Privacy ha rilasciato un’autorizzazione c.d. generale (segnatamente la n. 6/2002, pubblicata sulla G.U. 9 aprile 2002, n. 83) proprio per il tratta-mento dei dati sensibili da parte degli investigatori privati (più precisamente, l’autorizzazione è concessa a “persone fisiche e giuridiche, istituti, enti, associazioni ed organismi che esercitano un’at-tività di investigazione privata autorizzata con licenza prefettizia”). Trattandosi di autorizzazione generale, i soggetti che rientrano nel relativo ambito di applicazione (ossia gli investigatori muniti di licenza) non devono presentare alcuna richiesta di autorizzazione ogni volta che si trovino a trattare dati personali altrui, ma sono solo tenuti a rispettare il provvedimento genera-le e a conformare la propria attività a quanto ivi prescritto. Sinteticamente, è bene tener presente che la citata autorizzazione generale prevede quanto segue:

• gli investigatori possono trattare dati sensibili solo dietro conferimento di un incarico scritto finalizzato a far valere o difendere un diritto in giudizio;

• i dati in questione possono essere comunicati unicamente al soggetto che ha conferito l’in-carico e possono essere conservati per un periodo non superiore a quello strettamente neces-sario per eseguire l’incarico ricevuto;

• i dati idonei a rivelare lo stato di salute possono essere diffusi solo se è necessario per finalità di prevenzione, accertamento o repressione dei reati;

• i dati relativi alla vita sessuale non possono essere diffusi.

Agli occhi della legge penale poi, gli investigatori privati non sono affatto diversi da qualsivoglia privato cittadino. Costoro – pur essendo professionisti muniti di apposita licenza rilasciata dal Prefetto secondo le norme del TULPS – soggiacciono infatti a tutti i limiti previsti per il citta-dino per così dire comune. Ciò che non è consentito a quest’ultimo dalla legge penale non è consentito neppure agli inve-stigatori privati professionali. Ora, nell’espletamento delle attività tipicamente poste in essere dagli investigatori privati, fa-cilmente essi possono venire a conoscenza di dati personali. Si può dire che proprio le caratte-ristiche peculiari di tale professione rendono facile l’interferenza con la sfera riservata altrui (basti pensare alle attività di rilevamento a distanza, audio e/o video). Non potendo beneficia-re delle prerogative riconosciute agli organi di polizia giudiziaria, gli eventuali mezzi di prova da costoro assunti dovranno, dunque, essere valutati dal difensore con lo stesso rigore adottato per le prove acquisite direttamente dai propri assistiti.

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ATTI ISTRUTTORI E CONCLUSIVI NEL GIUDIZIO DI APPELLO 

Giuseppe De Rosa Presidente presso la Corte d’Appello di Venezia Sommario: 1. L’attività istruttoria in appello. – 2. Comparse conclusionali. – 3. Attività istruttoria e giudizio ca-merale. 1. L’attività istruttoria in appello  L’attività istruttoria nel giudizio di secondo grado è oggetto della previsione dell’art. 345 c.p.c., così come modificato dalla novella legislativa 18 giugno 2009, n. 69. La previsione del comma III della norma citata dispone che, avanti alla Corte d’Appello, «non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti salvo che il Collegio non li ritenga indispen-sabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giu-ramento decisorio». E, andrebbe aggiunto, anche se la norma non lo prevede espressamente, è sempre possibile chiedere la CTU, che non è un mezzo istruttorio, ma che non può, ovviamen-te essere utilizzata per introdurre surrettiziamente, documenti nuovi nel processo. La norma ha cristallizzato in via definitiva il principio dell’eccezionalità dell’istruttoria avanti al Giudice del gravame, eliminando in via definitiva il dubbio sulla libera producibilità di nuovi documenti secondo il principio, ampiamente discusso anche in dottrina, secondo cui l’unico limite avrebbe riguardato le prove costituende e non quelle costituite. Si è trattato di un percorso che via via ha limitato l’ambito della cognizione del giudice di secondo grado, la quale in origine era amplissima, posto che non solo le parti avevano la possibilità di pro-porre nuove eccezioni, ma anche quella di produrre nuovi documenti e di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova. Unica sanzione era quella per cui, ove le deduzioni avessero potuto esse-re fatte avanti al Giudice di primo grado, ciò avrebbe avuto riverbero sulle spese di giudizio. Prima di esaminare la norma è utile ricordare che il profilo della cognizione istruttoria del Giudi-ce d’Appello non può mai essere disgiunto dalle valutazioni che debbono essere fatte sul giudizio stesso di secondo grado, giudizio con carattere strettamente devolutivo e contenuto nel limite delle censure fatte alla decisione di primo grado, la cui connotazione concettuale è delineata dalla

1 Testo della relazione tenuta al Corso di aggiornamento in Diritto di famiglia, organizzato da AIAF Veneto, Treviso, 26 ottobre 2011

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Suprema Corte di Cassazione secondo cui «la regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pro-nunziato, enunciata all’art. 112 c.p.c. dev’esser letta in coordinamento con il principio jura novit curia, secondo il quale spetta al giudice il potere – dovere di conoscere e determinare le norme applicabili nella fattispecie senza vincoli o limitazioni scaturenti dalle indicazioni delle parti, fermo soltanto il rispetto dei fatti materiali posti a fondamento della domanda … dall’altro, i confini posti all’ambito del giudi-zio di gravame dagli specifici motivi d’impugnazione precludono al giudice adito esclusivamente d’estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel thema deci-dendum esposto nei motivi d’impugnazione, di guisa che, se il principio del tantum devolutum quantum appellatum non può dirsi violato da una decisione fondata su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ma coerente col significato sostanziale di questi, a maggior ragione deve ritenersi legittima la decisione adottata sulla base di pertinenti argomentazioni in diritto anche solo in-dotte dalle ragioni prospettate nel motivo d’appello ma non adeguatamente sviluppate dalla parte» 2. Va, allora, detto, ai fini che qui interessano che in primo luogo l’ammissibilità dell’appello è su-bordinata alla valutazione puntuale della specificità dei motivi di impugnazione (art. 342, 2° comma, c.p.c.). Per poter essere considerati specifici i motivi devono tradursi in precise contestazioni delle ar-gomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata, in modo da consentire di individuare con precisione la violazione di legge denunciata e lo scopo può dirsi raggiunto solo quando l’argomentazione dedotta, se fondata, priverebbe di base logica la motivazione della sentenza nella parte impugnata. Tale indirizzo interpretativo può mettersi in relazione con la rilevabilità d’ufficio della mancanza di specificità dei motivi di appello, comportante l’inam-missibilità, non sanabile attraverso l’accettazione del contraddittorio della controparte. Se, da un lato, il limite dell’ammissibilità dell’appello è costituito dalla specificità dei motivi di impugnazione, dall’altro esso è costituito dall’eventuale novità delle domande e delle eccezioni formulate, posto che, a mente dell’art. 345 c.p.c., le parti non possono disporre alcuna mutatio pena, anche qui, l’inammissibilità dell’impugnazione. L’appello non consente l’esame dello jus novorum. In altri termini «il divieto dello “jus novorum” non concerne soltanto le allegazioni in fatto, e l’indicazione degli elementi di prova, ma anche (e so-prattutto) la specificazione delle “causae petendi” fatte valere in giudizio come sostegno delle azioni e delle eccezioni […] non vi era stata una semplice precisazione di una tematica già acquisita al giu-dizio a sostegno dell’eccezione, ma l’inserimento di una nuova prospettazione, di una nuova “causa petendi”, ancorché fondata sulle stesse circostanze di fatto» 3. La mutatio libelli è rilevata d’ufficio dal giudice di secondo grado e, in mancanza, in sede di legittimità, poiché il divieto di proporre domande nuove in appello costituisce una preclusione all’esercizio della giurisdizione ed il suo mancato rispetto, integrando violazione dei principi del doppio grado di giurisdizione e del contraddittorio, rappresenta una violazione di norma di ordine pubblico. Conseguentemente irrilevante è l’eventuale accettazione del contraddittorio da parte dell’avversario. Ricorre, invece, emendatio libelli, che non integra domanda nuova, in caso di diversa qualificazione giuridica dei fatti costitutivi, di specificazione della domanda, di limitazione del petitum. Questione, questa che si collega al fatto che il thema decidendum è quello che risulta dalla cognizione perfezio-nata in primo grado attraverso le domande e le eccezioni delle parti formulate e provate nei termini processuali. È ormai consolidato, dopo anni di pronunce in senso contrario, l’orientamento che ri-tiene applicabile anche al contumace il principio secondo cui le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado si intendono rinunciate, se non espressamente riproposte in appello

2 Cass. 5 aprile 2011, n. 7789. 3 Cass. 22 dicembre 2010, n. 23614.

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(art. 346 c.p.c.). La tesi tradizionale era fondata sull’effetto devolutivo dell’appello, quella nuova (a partire da Cass. n. 7316/2003) ritiene che non si possa attribuire alla parte rimasta inattiva ed e-stranea alla fase di appello una posizione di maggior favore e che si possa imputare anche al contu-mace una presunzione di mancanza di interesse alla decisione 4. Anche in questo caso, l’inter-pretazione della norma processuale esclude che il giudice esamini questioni rispetto alle quali la parte ha dimostrato disinteresse, con risparmio di attività processuale. Tale principio, tuttavia, va contemperato con il fatto che l’apparente disinteresse della parte rispetto alle proprie conclusioni non ha automaticamente lo stesso significato, sia nel caso in cui si tratti di domande od eccezioni, sia nel caso in cui si tratti più specificamente di istanze istruttorie. Sul punto la Corte di Cassazione ha precisato come «in tema di “nova” in appello, occorre tenere distinto il regi-me delle istanze istruttorie da quello delle domande ed eccezioni (come, del resto, è reso palese dalla strut-tura dell’art. 345 cod. proc. civ., che separatamente disciplina le une dalle altre), con la conseguenza che le istanze istruttorie, non accolte in primo grado e reiterate con l’atto di appello, le quali non vengano ripro-poste in sede di precisazione delle conclusioni, devono reputarsi rinunciate, a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata, così da esonerare il giudice del gravame dalla valutazione sulla relati-va ammissione o dalla motivazione in ordine alla loro mancata ammissione» 5. Ciò a differenza di quanto accade per domande ed eccezioni la cui rinuncia richiede l’attività d’interpretazione del Giudice sull’effettiva volontà delle parti. Precisa, infatti, la Corte che «seppure la mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni definitive, soprattutto allorché queste siano prospettate in modo specifico, di domande o eccezioni precedentemente formulate implica normal-mente una presunzione di abbandono o di rinuncia alle stesse, detta presunzione, fondandosi sull’in-terpretazione della volontà della parte, deve essere esclusa qualora il giudice del merito, cui spetta il compi-to di interpretare nella loro esatta portata le conclusioni, le richieste e le deduzioni delle parti, ravvisi ele-menti sufficienti, o dalla complessiva condotta processuale della parte o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle specificamente formulate, per ritenere che, nonostante la materiale omissione, la parte abbia inteso insistere nelle istanze già avanzate» 6. A titolo d’esempio vale ricordare che la Corte di Cassazione ha precisato che «sebbene sia consentito al giudice rilevare d’ufficio la nulli-tà del contratto anche quando ne sia stata domandata la risoluzione per inadempimento, tale rilievo resta precluso quando sulla questione della validità del contratto si sia formato il giudicato, anche implicito. Quest’ultimo, a sua volta, si forma in tutti i casi in cui il giudice di primo grado, accogliendo la domanda di risoluzione, abbia per ciò solo dimostrato di ritenere valido il contratto, e le parti in sede di appello non abbiano mosso alcuna censura inerente la validità del contratto» 7. In questi limiti, dunque, l’attività istruttoria in appello deve fare i conti con il principio della c.d. unicità o non frazionabilità della prova. Il principio di frazionabilità delle prove rende inammissibile in appello la prova testimoniale che, anche in modo indiretto, sia preordinata a “contrastare” le risultanze di quelle già dedotte e as-sunte in primo grado 8. «nel vigore dell’art. 345 nuovo testo cod. proc. civ., non è possibile proporre i-stanza di verificazione ex art. 216 cod. proc. civ. per la prima volta in appello con riferimento ad una scrittura privata prodotta in primo grado e in quella sede disconosciuta ai sensi dell’art. 214 stesso codi-ce, atteso che verrebbe altrimenti stravolto il disegno generale della scansione dei tempi processuali, qua-le costruito dal legislatore con la novella di cui alla legge n. 353 del 1990» 9.

4 Da ultimo, Cass. n. 23489/2007. 5 Cass. 27 aprile 2011, n. 9410. 6 Cass. 6 marzo 2006, n. 4794. 7 Cass. 20 agosto 2009, n. 18540. 8 Cass. 30 gennaio 2006, n. 1873. 9 Cass. 5 settembre 2006 n. 19067

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Un’istanza istruttoria è nuova e, pertanto, inammissibile quando riguardi un mezzo istruttorio mai esperito in primo grado, ancorché il fatto da provare sia già stato oggetto di un diverso mezzo istruttorio, o quando si tratti di un mezzo istruttorio già esperito, ma in relazione a fatti diversi da quelli oggetto della prova richiesta in appello. Le prove dedotte in primo grado, ma tardivamente dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 184 c.p.c., sono, quindi, deducibili in appello nei soli limiti segnati dal requisito dell’indispen-sabilità. Sarebbero, pertanto, nuove le prove non prodotte in primo grado, le prove con oggetto privo di relazione con quello della prova già esperita in primo grado, le prove costituite da un mezzo diverso da quello esperito in primo grado. In relazione, invece, al giudizio di indispensabilità è stato evidenziato che essa può essere intesa come semplice idoneità a provare i fatti di causa, ma implica l’impossibilità, per la parte su cui grava l’onere probatorio, di fornire la prova con altri mezzi, ad esempio con documenti, esibiti per la prima volta in appello, o con argomenti tratti da prove già assunte. Sono stati ritenuti ammissibili in quanto indispensabili: i mezzi di prova la cui mancata assunzione in primo grado è dipesa dall’aver il giudice ritenuta assorbita la domanda o la questione cui inerivano quelli re-lativi alle questioni di diritto sollevate dalle parti per la prima volta in appello o poste dal giudi-ce d’appello ex officio in applicazione della regola iura novit curia. Sarebbe, peraltro, ammissibile – secondo una tesi ampiamente condivisa – anche l’integrazione delle deduzioni istruttorie svolte in primo grado, ovverosia la deduzione di mezzi di prova non solo rilevanti ma necessari per la conoscenza di un fatto e quindi decisivi per il giudizio. Sareb-bero, pertanto, indispensabili quei mezzi di prova concernenti fatti la cui mancata considera-zione ha direttamente influito sulla decisione impugnata. La formula dell’art. 345 c.p.c. precisa che sono ammissibili i mezzi di prova ritenuti indispensa-bili ovvero quelli che la parte non ha potuto produrre per causa a sé non imputabile. Ne deriva che nell’ipotesi di remissione in termini istruttoria non necessita il requisito dell’indispensabilità, bastando solamente il giudizio di rilevanza (ad esempio, nel caso in cui certi fatti siano divenuti rilevanti per avere la decisione di primo grado accolto una prospettiva giuridica diversa da quella prospettata dalle parti). In ogni caso, però, il requisito dell’indispensabilità non può essere considerato utilizzabile per ammettere mezzi di prova in relazione ai quali sia stata espressamente dichiarata una decaden-za durante il procedimento di primo grado e non può comportare «violazione della parità delle armi tra le parti, si che, ad esempio, il collegio non può ammettere la prova indispensabile richiesta da una parte senza ammettere la controprova che l’altra parte abbia richiesto sugli stessi fatti oggetto della prima». Dovendosi anche ricordare che «il principio di irrinunciabilità della prova tra i vari gradi di giudizio non è stato soppresso in conseguenza dell’intervenuta abrogazione dell’art. 244 c.p.c., comma 2, ma rafforzato dalla previsione contenuta nell’art. 345 c.p.c. novellato, in base alla quale anche per le prove testimoniali vale il principio della inammissibilità della nuova prova in ap-pello, che può essere ammessa solo in quanto – senza alterare il regime delle preclusioni – ritenuta dal giudice indispensabile ai fini della decisione, sempre che il fatto che si vuole provare sia stato già dedotto nel corso del giudizio di primo grado» 10. L’indispensabilità necessariamente deve apprezzarsi in relazione alla decisione stessa e al modo in cui essa si è formata. Se, dunque, la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni probatorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova perché funzionale alle sue ragioni, automaticamente si deve escludere che la prova sia indispensabile. In tal caso, se la decisione si è formata prescin-

10 Cass. 21 gennaio 2004, n. 901.

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dendone, è imputabile alla negligenza della parte non avere introdotto nel processo la prova che bene avrebbe potuto introdurvi, secondo una condotta processuale ispirata all’assicura-zione del massimo di possibilità di azione e difesa. In altri termini, non si può prospettare come indispensabile la prova che tale appariva o poteva soggettivamente apparire – al di là della sua concreta efficacia ed utilità – durante lo svolgimento del contraddittorio in primo grado e pri-ma della formazione delle preclusioni probatorie. Se lo si consentisse, le preclusioni probatorie diverrebbero inutili. L’indispensabilità deve, quindi, confrontarsi con il tenore della decisione. Le Sezioni Unite hanno voluto accogliere la diffusa opinione secondo la quale sarebbero indi-spensabili, e pertanto ammissibili in appello indipendentemente dalla dimostrazione della de-cadenza incolpevole, i mezzi di prova che, nel quadro delle risultanze istruttorie, appaiono ido-nei ad orientare in modo determinante il convincimento del giudice ai fini della conferma o della riforma della sentenza impugnata 11. L’autorevolezza delle Sezioni Unite non è tuttavia ba-stata a ricondurre a unità le posizioni, che offrono tuttora un panorama variegato. Il principale contrasto attiene il rapporto fra questo requisito e l’altro «titolo di accesso» della prova in appello, della non imputabilità alla parte dell’omessa o della tardiva offerta della prova in primo grado. Le citate Cass., S.U., nn. 8203-8202/2005, – che del resto hanno dalla loro la lettera della norma – assumono che i due titoli di ammissibilità in appello siano alternativi, per cui solo la prova nuova indispensabile è senz’altro ammissibile. Ricostruito in questo senso, il concetto di indispensabilità non collide con un impianto processuale imperniato sulle preclu-sioni e si presenta anzi perfettamente armonico. L’indispensabilità richiesta dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., non può significare la mera rile-vanza dei fatti dedotti a prova (che ovviamente è condizione di ammissibilità di ogni mezzo istruttorio), ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale. Il potere discrezionale del giudice non può, quindi, essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado e non può essere esercitato allo scopo di sanare decadenze già verificatesi. Pertanto valgono i seguenti principi: l’ammissibilità della prova ritenuta indispensabile è su-bordinata alla espressa domanda delle parti; dell’esercizio del potere il giudice deve dar conto con la motivazione; tale provvedimento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Inoltre, l’atto introduttivo dell’appello costituisce, a pena di decadenza, il limite per le richieste, sempre che, nel caso di documenti, la formazione non sia successiva. Al riguardo la Suprema Corte ha affermato che «la mera produzione di un documento in appello, volta che si consideri l’onere di allegazione delle ragioni di doglianza sottese al principio di specificità dei motivi di appello espresso nell’articolo 342 c.p.c., non comporta automaticamente che il contenuto del documento rien-tri nell’ambito di quanto, in ossequio al principio devolutivo, il giudice d’appello è tenuto ad esami-nare, occorrendo che alla produzione si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato ai fini di integrazione della ingiustizia della sentenza di primo grado impugnata» 12.

11 V. RUFFINI, nota a Cass., S.U., 8202 e 8203 / 2005, in Corr. giur., 2005, p. 929. 12 Cass. 7 aprile 2009, n. 8377.

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2. Comparse conclusionali  Anche davanti al Giudice dell’appello gli atti conclusionali appaiono necessari e funzionali alla tutela del diritto di difesa delle parti, tanto che la Cassazione sanziona con la nullità la sentenza pronunciata dal Giudice del gravame che abbia omesso di concedere i termini per le conclu-sionali 13, fermo restando che gli atti conclusivi non possono contenere domande ed eccezioni non riproposte con citazione o comparsa di costituzione in appello. A titolo di completamento ricordo che la memoria di replica prevista dall’art. 190 c.p.c. deve essere presa in considerazione dal giudice indipendentemente dalla circostanza che la contro-parte abbia o meno depositato una propria comparsa conclusionale 14. 3. Attività istruttoria e giudizio camerale  Va premesso che il rito camerale – ormai residuato solo per i procedimenti genericamente de-finibili di famiglia in base al d.lgs. n. 150/2011 (restano in ogni caso ferme le disposizioni proces-suali in materia di procedure concorsuali, di famiglia e minori), compresi i procedimenti in tema di delibazione di sentenza straniera o riconoscimento di provvedimenti di giurisdizione volon-taria che devono essere definiti nelle forme del rito sommario di cognizione – è stato più volte censurato sotto il profilo della legittimità costituzionale ed idoneità alla tutela dei diritti fon-damentali delle parti, ma altrettanto spesso tale eccezione è stata respinta dalla Corte costitu-zionale, ove non si fosse violato il principio di ragionevolezza, posto che il diritto di difesa è ampiamente assicurato e la processualizzazione del rito particolare, pur in presenza di poteri inquisitori del Giudice, non appare incompatibile con la Carta fondamentale. In sintesi, come afferma la Corte costituzionale con la sentenza n. 543/1989, la scelta del rito camerale è prerogativa del legislatore nell’ambito della sua discrezionalità, ove lo ritenga mag-giormente idoneo alla tutela dei particolari interessi coinvolti. Ciò che appare essenziale è che il giudizio camerale destinato alla tutela dei diritti si concluda con un provvedimento che, in esito ad un completo contraddittorio, abbia carattere di stabilità, sia cioè un giudicato implicito. Occorre fare una premessa di metodo ai fini che qui interessano, distinguendo i procedimenti camerali in senso stretto, ad esempio quello di cui agli artt. 708, ultimo comma, c.p.c. o 710 c.p.c., dai procedimenti che vengono decisi con rito camerale pur avendo carattere più squisitamente contenzioso, come nell’ipotesi dell’appello contro le sentenze di separazione e divorzio. La questione ha base nella decisione già citata della Corte costituzionale che, prendendo le mosse dal dubbio sollevato in ordine alla compatibilità del rito camerale con la tutela dei diritti di difesa delle parti in tema di impugnazione delle sentenze di separazione, afferma che non si può ritenere violato il diritto di prova, perché, a parte il considerare che esso ha già avuto modo di esplicarsi compiutamente nel giudizio di primo grado, va rilevato che anche nel rito camerale in appello è possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere alla formazione di qualsiasi pro-va costituenda, purché il relativo modo di assunzione, comunque non formale ed atipico, risulti, da un lato, sempre compatibile con la natura camerale del procedimento, e, d’altro lato, non violi il principio generale dell’idoneità degli atti processuali al raggiungimento del loro scopo. Quindi, pur in presenza di un procedimento ad istruttoria eventuale come lo indicava la Corte,

13 Cass. 5 aprile 2011, n. 7760. 14 Cass. 17 marzo 2009, n. 6439.

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andava osservato che «in un sistema istruttorio nel quale alla limitazione dell’iniziativa probatoria della parte corrisponde un più incisivo potere ufficioso del giudice, rimane egualmente assicurata la pos-sibilità di accertamento dei fatti controversi. È da ritenersi poi pienamente garantita l’assistenza del di-fensore, in quanto è nel sistema, anche a proposito dei procedimenti speciali, che la parte si possa far rappresentare o comunque assistere da un difensore» (Corte Cost. sent. n. 543/1989). In tema di appello camerale, la linea dettata dalla Corte costituzionale è stata seguita dalla Cas-sazione, che in diverse pronunce ha sostenuto che «nel giudizio di divorzio in appello – che si svolge secondo il rito camerale, ai sensi dell’art. 4, dodicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74) – l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in came-ra di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo con-traddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti camerali» 15. Tuttavia, per completezza di esposizione, va segnalato che con una recentissima decisione 16 la Corte ha fatto retromarcia, richiamando espressamente anche in tema di appello camerale l’applicazione dell’art. 345 c.p.c. A differenza di quanto accade nell’ambito dei procedimenti a definizione camerale, in quelli più strettamente camerali la problematica si atteggia in modo diverso. Per il reclamo avverso i provvedimenti presidenziali di cui all’art. 708 c.p.c. vale il principio, af-fermato molte volte da varie Corti d’appello, secondo cui esso costituisce uno strumento pro-cessuale atipico ed eccezionale, necessario a correggere i provvedimenti caratterizzati da erro-neità immediatamente percepibile alla luce degli atti esistenti, poiché, al di là di ciò, resta salvo, con gli approfondimenti istruttori successivi, il potere del G.I. di adeguare il provvedimento al-lo stato delle cose 17. Per i reclami invece di cui agli artt. 710 e 739 c.p.c., fatto riferimento al principio di cui all’ultimo comma dell’art. 738 c.p.c., appaiono ammissibili le nuove prove ed i nuovi documenti al fine di dimostrare la sussistenza delle nuove circostanze che possono giu-stificare la richiesta di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, ovvero i giustifica-ti motivi di cui all’art. 9, l. n. 898/1970 e succ. modif. o quanto indicato dall’art. 155 ter cc., in tema di separazione personale. Norma, tuttavia, che sembrerebbe escludere la necessità di nuove circostanze o giustificati motivi per giungere alla modifica della statuizioni esistenti, te-nuto conto che secondo la Suprema Corte «nel procedimento in materia di ricongiungimento fa-miliare, che si svolge secondo il rito camerale, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile, anche in sede di reclamo, sino all’udienza di discussione in camera di con-siglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contradditto-rio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti camerali» 18.

15 Cass. 27 maggio 2005, n. 11319. 16 Cass. 10 gennaio 2011, n. 367. 17 Secondo App. Ancona 30 gennaio 2009, «l’ottica cognitiva “allo stato degli atti” deve necessariamente basarsi sulle evidenze documentali già acquisite e sulle evidenze desumibili dalle dichiarazioni delle parti in sede di comparizione, oltre che, se del caso, su obiettivi fattori di prova logica che siano evidenti “prima facie”, mentre invece non potrà effettuarsi una valutazione organica ed esaustiva delle rispettive esigenze e risorse delle parti, giacché tale valutazione organicamente esaustiva presuppone il compimento della istruttoria, che andrà portata avanti – eventualmente con accertamenti di natura tecnica – da parte del G.I. nominato, con esclusione di ogni approfondimento storico o tecnico che è riservato alla apposita fase istruttoria»; App. Firenze 9 aprile 2010, in Foro it., 2010, c. 2199, ha precisato che il reclamo si giustifica solo nei casi in cui sia necessario «… modificare provvedimen-ti temporanei ed urgenti che per la loro abnormità o manifesta non rispondenza alle emergenze della causa già evidenziatesi siano oggettivamente in grado di danneggiare le parti anche nel breve lasso di tempo che separa di norma l’udienza presidenziale dalla prima udienza di comparizione». 18 Cass. 25 gennaio 2007, n. 1656.

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PRASSI “VIRTUOSE” E MODALITÀ DI REDAZIONE DELLE MEMORIE ISTRUTTORIE 

Cesare Fiore Avvocato del Foro di Milano Sull’argomento “atti istruttori e regime probatorio” si sono scritti fiumi di parole. La dottrina si è occupata ampiamente del tema, ogni giorno i magistrati pronunciano decisioni in merito, gli avvocati scrivono copiosi atti, le parti raccontano innumerevoli fatti. In occasione di un incontro di studio sul processo civile organizzato dall’Osservatorio sulla giu-stizia civile di Torino e dalla formazione decentrata del CSM (tenutosi a Torino il 7 ottobre 2010), le modalità per la formulazione delle istanze istruttorie delle parti, per l’opposizione alle istanze istruttorie avversarie e per la decisione sulla loro ammissione da parte del giudice, sono state oggetto di alcuni interventi tesi a stimolare prassi “virtuose” e condivise da parte dei magi-strati e degli avvocati. In quell’incontro i giudici hanno lamentato la lunghezza delle memorie istruttorie, “tali da impor-re repliche lunghissime e impegnativo lavoro di valutazione della rilevanza” ed evidenziato come “nella norma venga ammesso un numero di capitoli di prova limitassimo rispetto alla richiesta”, sollecitando “l’utilizzo di strumenti diversi dalla prova testimoniale” (intervento della Dott..ssa Luciana Dughetti, delegata dal Presidente del Tribunale di Torino, Dott. Algostino). Alcuni av-vocati intervenuti nella stessa occasione hanno invece sottolineato l’esigenza di redigere gli atti in forma chiara e sintetica, così da favorire la concentrazione e la rapidità dello studio della causa, e di formulare capitoli di prova testimoniale ammissibili e utili al fine del decidere. Il lavoro scaturi-to da quel dibattito e confronto è stato poi inserito nel Protocollo per la redazione degli atti pro-cessuali civili, approvato nel 2011 dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Torino, e poi recepito dal Coordinamento nazione degli Osservatori, nell’assemblea del 28/29 maggio 2011. In effetti, tutti gli avvocati sanno che le parti spesso omettono fatti rilevanti ovvero non indica-no la presenza di testimoni ovvero si fanno scrupolo di chiedere la disponibilità a testimoniare di persone presenti, ma ovviare a questi problemi è compito che ogni legale saprà risolvere co-noscendo il proprio cliente. È il lavoro successivo che è proprio del giurista: scremare i fatti raccontati e concentrarsi su quelli utili al decidere. Tale compito deve partire della necessità di evitare quelle allegazioni finalizzate e/o utili solo alla psiche del cliente rappresentato ovvero atte a creare il colpo ad effetto che caratterizzi la fattispecie singola. Capitolare dieci episodi, anche singolari, ma non probanti né qualificanti, non caratterizza il fascicolo di causa. Se proprio si ritiene utile dare una connotazione partico-lare alla fattispecie, è sufficiente capitolare una sola circostanza rilevante, affinché la causa as-suma quella peculiarità che permette al giudice di meglio comprendere e ricordare la fattispe-cie. Ricordo di una causa di separazione nella quale la moglie, fingendo di uscire di casa con l’im-permeabile, si nascose nell’armadio per sorprendere il marito con l’amante.

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Orbene, capitolando «Vero che la signora … in data … si nascose nell’armadio della camera da letto della casa coniugale dalle ore … alle ore …», si caratterizzò la fattispecie e si trasformò quel caso nella “causa della moglie nell’armadio”, sicché ancora oggi il magistrato ricorda il fascicolo e la circostanza. Di contro, se si fossero capitolati altri nove episodi particolari, la singola peculiarità si sarebbe confusa con le altre, così perdendosi l’effetto mnemonico, utilità predominante della capitola-zione. Dunque, l’unico, anche se non esclusivo, elemento idoneo per l’avvocato è quello dello scopo della prova e della sua incidenza sul thema decidendum, con particolare attenzione alla situazio-ne caratterizzante. Dottrina e giurisprudenza, infatti, assolutamente pacifiche sul punto, ritengono che l’am-missibilità 1 e la rilevanza della prova vadano valutati con riferimento all’astratta idoneità del mezzo a provare una circostanza rilevante ai fini della decisione 2. Per inciso, bisognerebbe mutuare dai colleghi penalisti una metodologia loro propria: l’av-vocato dovrebbe sempre porre domande di cui conosce la risposta, tenendosi pronto a conte-stare – in caso di sorpresa – altri elementi che mettano alle strette il testimone e lo riportino al-la risposta prevista. In tutti i casi, prima di accingersi a scrivere una memoria istruttoria bisognerebbe rileggersi il fascicolo tutto, osservando i documenti, rileggendo gli appunti presi sui racconti della parte, riesaminando gli atti per focalizzare i fatti pacifici, quelli comprovati documentalmente, ciò che manca del puzzle fattuale ricostruendo, valutando se l’unica fonte di prova possibile sia quella testimoniale e vagliando quali fatti possano essere confermati dai testi ovvero dedotti dal giudi-cante in base al raggiungimento della prova su altri fatti contigui per cronologia o logica ed, in-fine, valutando se convenga affidarsi alla capacità di testimoniare di alcuni soggetti. Svolto tale lavoro sarà facile seguire le regole indicate dal protocollo di Torino 3: 1) capitola-zione unitaria; 2) contestazione e deduzione tuzioristica; 3) scopo della prova; 4) indicazione specifica dei testi e relativa incapacità. Sarà ugualmente facile scrivere e capitolare procedendo per punti allo scopo di facilitare la scel-ta del giudicante tra le opposte tesi con cognizione del caso. L’atto verrà naturalmente scritto titolando gli argomenti con identificazione della finalità pro-batoria, indicando i documenti di riferimento per ogni capitolo, nonché il teste chiamato a de-porre sul singolo fatto. Si raggiungerà così l’effetto vero della memoria istruttoria per consequenzialità, esplicitando lo scopo perseguito, con percepibile linearità dell’iter argomentativo, specificando le richieste suddivise per punti, evitando ridondanze e ripetizioni, premettendo e concludendo con uno schema riassuntivo. Si ritiene utile riportare alcuni esempi di atti (ovviamente non per esteso) utili a focalizzare come le indicazioni e le argomentazioni fino ad ora enunciate si risolvano nella pratica del no-stro lavoro quotidiano con l’assunzione di una nuova veste mentale.

1 La Suprema Corte ha ribadito, in diverse occasioni, che «l’ammissibilità attiene al rispetto delle norme che stabiliscono mo-dalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova», mentre il giudizio di rilevanza va svolto verificando la sussistenza del «nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda o dell’eccezione» (v. Cass. n. 14386/1999). 2 Cass. n. 14386/1999, Cass. n. 9640/1999, Cass. n. 5313/1998, Cass. n. 3380/1995. 3 Protocollo per la redazione degli atti processuali civili dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile del Tribunale di Torino, in http://www.osservatorino.it/documenti/modelli/atti/protocollo.generale.pdf.

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Esempio n. 1: trattasi di memoria istruttoria ex art. 183, 5° comma, n. 2, c.p.c. L’avvocato che scrive l’atto capitola per argomenti e titola la prima circostanza. 1) «Sull’addebitabilità della separazione». L’avvocato deduce: «l’onere probatorio … ci pare possa essere assolto con la dimostrazione di due circostanze … avendo controparte dato atto … dell’esistenza di una relazione intrapresa dopo qua-ranta anni di matrimonio dal signor….: a) il signor … dichiara che è stato lui a parlarne alla moglie, b) sostiene che la relazione non sarebbe la causa della disgregazione familiare, già molto prima il legame affettivo sarebbe venuto meno. A) Per quel che riguarda il primo aspetto … si chiede ammissione di prova per testi e per interroga-torio sui seguenti capitoli di prova: i) Vero che nell’agosto del 2006 la deducente, dopo alcuni giorni di assenza del marito da casa, seppe dalla figlia …, che egli probabilmente era in montagna nell’appartamento X di cui è proprietario; ii) vero che la signora si recò all’appartamento in montagna, suonò, il marito venne ad aprire e le dis-se di non poterla ricevere perché stava ospitando una persona; iii) vero che la signora entrò ugualmente nell’appartamento e scoprì che il signor … era in compa-gnia di …; iv) vero che fu in quell’occasione che il signor … confessò di avere una relazione con la signora e di-chiarò di voler andare a vivere con lei. B) Quanto all’eccezione del signor …. cioè che il matrimonio era da tempo una mera formalità e che i coniugi da molti anni neppure dormissero nella stessa camera, senza accettare l’inversione dell’o-nera di prova … si chiede l’ammissione della prova testimoniale su tale circostanza i) “Vero che fino ad agosto 2007 i coniugi hanno sempre dormito nella stessa camera da letto” si in-dica a teste la figlia dei coniugi signora zzz». 2) Sull’assegno. L’avvocato deduce: «il cospicuo assegno richiesto al tribunale si giustifica tenendo conto, come ave-vamo scritto in ricorso …, quattro indicatori giurisprudenziali: i) della durata della vita matrimoniale; ii) della circostanza che la signora non gode di redditi propri e non è in grado di procurarseli; iii) del fatto che ha contribuito in maniera molto significativa alla costituzione dell’ingente patrimo-nio familiare; iv) della circostanza che il marito gode di redditi molto elevati, sicché elevato è stato sempre il tenore di vita della famiglia. La circostanza sub i) è pacifica poiché il matrimonio risale al 1966. la circostanza sub ii) è ammessa da controparte; la circostanza sub iii) viene ugualmente ammessa da controparte; la circostanza sub iv) viene contestata dal marito il quale desume un deterioramento sensibile delle di-sponibilità degli ultimi anni … ma viene smentito dalla documentazione allegata relativa all’utilizzo di macchine di lusso nella disponibilità del marito, alla iscrizione a esclusivo circolo cittadino, al man-tenimento delle molteplici seconde case in campagna con tenuta, in montagna e al mare, alla recente donazione di un immobile alla figlia, all’effettuazione di annuali viaggi all’estero da parte dei coniugi. Qualora tutto ciò non bastasse non si può che insistere per ammissione di Consulenza tecnica ineren-te la redditualità. In subordine è per mero tuziorismo si deducono capitoli di prova per interrogatorio e testi concernen-ti la collaborazione prestata dalla signora nell’attività commerciale del marito, sottolineando come tali capitoli possano non trovare ammissione in caso di raggiungimento della prova secondo quanto già esposto».

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Come si può rilevare da tale lettura, l’avvocato ha specificato nella memoria le richieste dedotte per punti, esplicitato lo scopo perseguito, delineato l’iter argomentativo, evitato ripetizioni e ridondanze. Certo è che il magistrato abbia letto, valutato e si sia sentito coadiuvato: l’avvocato si è in que-sto caso avvicinato alla pronuncia di una sentenza favorevole. Di contro, elenco una serie di errori tipici, che ognuno di noi avrà letto negli atti avversari (e anche nei propri), ma che nell’esempio riportato stranamente si trovavano concentrati in un unico atto. Gli errori da evitare nella redazione dei capitoli possono essere così sintetizzati: 1. uso di aggettivi 2. omesso riferimento temporale 3. valutazioni 4 4. omesso riferimento a fatti 5. domandare fatti riferiti 5 6. domandare intenzioni 7. contenuto documentale 8. capitoli negativi. Esempio n. 2 di memoria istruttoria ex art. 183, 5° comma, n. 2, c.p.c., con il commento di controparte in replica. 1. «Vero che l’abitazione della signora … è ordinata e curata sia nella pulizia che nell’estetica”. Replica “tralasciando discorsi filosofici per quanto riguarda i concetti dell’estetica, vien da sorridere all’idea di una CTU che valuti la pulizia e l’ordine»; 2. «Vero che il signor … ha ripetutamente frequentato la signora Paperina». Replica: «Sicuramente vero: si vedono tutti i giorni al lavoro. Dato per pacifico 6». 3. «Vero che la minore … ha un ottimo rapporto con la madre». Replica: «Capitolo inammissibile, poiché valutativo, a meno che non si intenda interrogare la CTU, dott.ssa X, sul punto … ovvero leggere la relazione della CTU a pag. 5, riga 10, che afferma: la mi-nore parla e pensa come la madre». 4. «Vero che la signora … è sempre stata attenta alla salute della figlia, sia mentale che fisica». Replica: “Capitolo inconferente, generico, privo di riferimenti comportamentali e valutativo». 1. «Vero che il signor … ha più volte espresso a … la sua preoccupazione per la salute mentale della minore (chiesto alla minore)». Replica: «capitolo inammissibile, poiché relativo a circostanza de relato (da notarsi che è stata e-sperita CTU che ha valutato le problematiche della minore, ordinandone al Giudice una valutazione in ordine alle cure mediche)».

4 Cfr. Cass. civ. n. 5/2001. La Suprema Corte ha precisato che «il principio secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi, deve essere inteso nel senso che il testimone non deve dare un’inter-pretazione del tutto soggettiva o indiretta delle circostanze di fatto ed esprimere apprezzamenti tecnici o giuridici su di esso, ma ciò non comporta, peraltro, che egli non possa riferire anche il convincimento sul fatto e le sue modalità derivatogli dalla sua stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla deposizione dei fatti». 5 “Rilevanza sostanzialmente nulla”: così si esprime la Cassazione nella sentenza n. 8358/2007. Nello specifico «simile te-stimonianza potrebbe spiegare una qualche efficacia probatoria alla sola rigorosa condizione che circostanze oggettive o soggettive ad essa estrinseche ne confortino la credibilità» (conf. Cass. n. 6620/2008). 6 Cass. n. 14880/2002, Cass. n. 13814/2002 che evidenziano quanto i fatti allegati possono essere considerati pacifici, sen-za la necessità di darne prova, quando l’altra parte li abbia esplicitamente ammessi ovvero abbia impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento ovvero si sia limitata a contestare esplicitamente e specifi-catamente alcune circostanze.

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2. «Vero che la signora X voleva separarsi dal marito». Replica: «altro capitolo inammissibile poiché riguardante intenzioni. Si produce stato di famiglia della signora …(ancora sposa convivente)». 3. «Vero che Minni è stata assente da scuola per problematiche mediche, attestate da certificato medico». Replica: “capitolo inammissibile poiché relativo a prova documentale la cui valutazione può essere solo oggetto di CTU». 4. «Vero che il signor … non portava avanti il suddetto progetto». Replica: «Capitolo inammissibile, poiché negativo». Infine evidenzio l’ultimo capitolo che riprende l’insieme degli errori sopra riportati: 1. «Vero che non le venne più comunicato nulla». Replica: 2. «senza soggetto, senza oggetto, doppia negazione, senza riferimento temporale … senza senso». Per inciso: dei 68 capitoli dedotti con la memoria, il Giudice non ne ha ammesso alcuno, nean-che quelli che oggettivamente potevano essere considerati ammissibili. Esempio n. 3: la memoria istruttoria di replica, ex art. 183, 5° comma, n. 3, c.p.c. Si cita quale esempio il lavoro di altro avvocato che, dopo la lettura copiosa dei capitoli avversi, deduce: «Vien da dire, ancora una volta, che l’elefante ha partorito il topolino. Per le ragioni che spiegheremo ci sembra, infatti, che ci siano solo due capitoli ammissibili e rilevanti, il 45) e il 56). Non possiamo, purtroppo, esimerci da un’analisi dettagliata, ma nella speranza di semplificare il lavo-ro del Tribunale, abbiamo cercato di riepilogare le nostre eccezioni e richieste nello schema riportato». L’avvocato, infatti, riduce l’ammissibilità dei capitoli con poche, pacifiche, ma essenziali, consi-derazioni: i) «I 61 capitoli di prova avversari avrebbero potuto essere ridotti da controparte a 28 se solo avesse considerato che per giurisprudenza pacifica i comportamenti che violano i doveri matrimoniali pos-sono rilevare quali cause di addebito solo se abbiano causato la frattura del rapporto coniugale». ii) «I fatti risalenti agli anni ’60, narrati dai capitoli 1 e 7 o quelli risalenti agli anni ’80 dei capitoli successivi, ci pare che ragionevolmente possano essere considerati esclusi dalle cause della frattura del rapporto coniugale. Addirittura sono narrati degli episodi che precedono la celebrazione del matri-monio». Sulla base di simili deduzioni l’avvocato riepiloga i capitoli per argomenti con colori diversi ai fini di uno schema riepilogativo posto a conclusione dell’atto, con poche osservazioni arriva a dedurre: «di tutti i capitoli, pochissimi, forse quattro o cinque, risultano dedotti secondo i criteri di cui l’art. 244 c.p.c., cioè mediante formulazione in articoli separati dei fatti sui quali ciascuna delle parti dev’essere interrogata. I capitoli avversari sono, infatti, per lo più un coacervo di circostanze e di valutazioni, che violano palesemente le prescrizioni della norma appena citata». In poche parole «si salvano da eccezioni di inammissibilità e rilevanza gravi, a nostro parere due soli capitoli il 45) e il 56), come abbiamo già detto. Alcuni (…) possono comunque considerarsi ammissibili». «Tuttavia, indipendentemente da una semplificazione argomentativa dei criteri di inammissibilità, non ci si può esimere da una valutazione dettagliata dei capitoli ex adverso dedotti, contestando sin-golarmente e specificatamente la rilevanza e l’ammissibilità degli stessi come segue». (Segue riepilogo per capitoli singoli). Ritengo personalmente che l’atto esaminato sia uno dei tanti capolavori dell’avvocatura nasco-sti negli archivi, perché riassume in sé buon senso, pratica giudiziaria, applicazione del diritto, chiarezza espositiva e supporto all’attività del magistrato. Un esempio da imitarsi.

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ILLECITO ENDOFAMILIARE E PROVA DEL DANNO 

Lalage Mormile Avvocato del Foro di Palermo, Ricercatrice di Diritto privato presso l’Università di Palermo Ormai consolidato è l’approdo giurisprudenziale secondo cui accanto ai rimedi tipici del diritto di famiglia il danneggiato del c.d. illecito endofamiliare, ossia dell’illecito civile che si consuma nel contesto di una relazione familiare, può pretendere la tutela risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c. 1. Si tratta di un traguardo sancito dalla Cassazione all’esito di un lungo iter elaborato dalle corti di merito e caratterizzato da soluzioni alterne, oscillanti fra la difficoltà di superare l’ostacolo rappresentato dalla specialità delle misure tipiche previste dal diritto di famiglia e la necessità di evitare che l’ambito familiare diventi uno spazio immune dalle comuni regole civi-listiche e in particolar modo da quelle risarcitorie 2. È un traguardo che, d’altra parte, risponde ad un’istanza di effettività della tutela giuridica, particolarmente avvertito in un ambito delle relazioni private in cui ad essere in gioco sono soprattutto interessi di natura personale ed esi-stenziale, e per questo difficilmente sottoponibili agli strumenti che, in altri contesti negoziali, favoriscono e assicurano, in modo diretto e/o indiretto, la loro realizzazione 3.

1 Si deve a Cass. civ. 10 maggio 2005, n. 9801 la statuizione in ordine al definito ingresso della tutela risarcitoria in caso di illecito consumato nel contesto della relazione familiare. La sentenza è stata commentata da molti Autori. A titolo esempli-ficativo si veda SESTA, Diritti inviolabili della persona e rapporti familiari: la privatizzazione “arriva” in Cassazione e FACCI, L’illecito endofamiliare al vaglio della Cassazione, entrambi in Famiglia e diritto, 2005, p. 367 ss. Prima della pronuncia della Suprema Corte non v’era un orientamento giurisprudenziale uniforme. Alcuni giudici negavano il rimedio risarcitorio, stante la ritenuta autonomia degli istituti di diritto di famiglia e la specialità di strumenti quali l’addebito che, si riteneva, non potessero cumularsi con la domanda risarcitoria. In questo senso Cass. civ. 22 marzo 1993, n. 3367 e 6 aprile 1993, n.4108, entrambe in www.dejure.giuffre.it. Altra parte della giurisprudenza segnalava l’inesistenza di ostacoli al riconosci-mento della generale tutela aquiliana alla ricorrenza di tutti i presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c. Così, ad esempio, Trib. Firenze 13 giugno 2000, in Danno e responsabilità, 2001, p. 741 ss. con nota di DE MARZO e Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, p. 2290 ss. Questo indirizzo è stato definitivamente sancito dalla recente Cass. civ. 15 settembre 2011, n. 18853 che si è pronunciata proprio in ordine ad una fattispecie relativa alla ritenuta incompatibilità fra abbandono di una domanda di separazione giudiziale con richiesta di addebito e successiva istanza risarcitoria di una moglie per il danno ingiusto provocato dalla relazione extraconiugale intrattenuta dal marito con modalità riconosciute particolarmente offensive. 2 D’altra parte era già risalente l’indirizzo della dottrina italiana che auspicava il superamento della c.d. “immunity doctri-ne” nei rapporti familiari. La bibliografia sul tema è immensa. Per tutti si rimanda a S. Patti, Il declino della immunity doctri-ne nei rapporti familiari, in Riv. dir. civ., 1981, IV, p. 378 ss. In generale, sul tema della responsabilità civile nelle relazioni familiari v. RESCIGNO, Immunità e privilegio, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 440 ss e PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Mila-no, 1984. Per una recente riflessione v. CAMILLERI, Illeciti endofamiliari e sistema della responsabilità civile nella prospettiva dell’European Tort Law”, in Eu. e dir. priv, 2010, p. 145 ss. 3 È noto come uno degli aspetti più problematici dell’“adempimento” dei doveri di natura personale che caratterizzano il legame familiare è rappresentato dalla loro incoercibilità e dall’impossibilità di sottoporli a misure esecutive. Del tutto ina-deguati sono infatti gli strumenti che in qualche occasione si è ritenuto di poter prendere in prestito dal diritto processuale comune. Si pensi all’esecuzione del diritto di visita, cui si è tentato di dare attuazione utilizzando lo strumento dell’esecuzione per consegna e rilascio di cui all’art. 605 c.p.c. o dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare di cui all’art. 612 e ss. c.p.c. Sul punto v. SESTA, La violazione della modalità di affidamento e i rimedi di cui all’art. 709 ter c.p.c., relazione tenuta al V Congresso Giuridico Forense, Roma, 2010 e i precedenti giurisprudenziali ivi richiamati. Piuttosto si potrebbe

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È ormai pacifico che la relazione parentale non possa in alcun modo rappresentare una scrimi-nante di un comportamento che, se realizzato fra estranei, giustificherebbe certamente la rea-zione da parte dell’ordinamento. Il baricentro si è cioè spostato dalla necessità di preservare l’unità della famiglia quale valore in sé, in questo senso impermeabile alla possibilità di ingeren-ze esterne e, in linea di massima, di controlli, all’esigenza di favorire e garantire che l’unità non divenga l’altare su cui sacrificare i diritti fondamentali del singolo componente. In questa pro-spettiva la sanzione civilistica diviene lo strumento atto a garantire il pieno sviluppo della per-sona anche all’interno della relazione familiare e completa il compendio dei rimedi speciali e tipici indicati nel contesto codicistico. Il pieno accesso delle regole aquiliane nel contesto familiare solleva, però, diversi problemi di ordine sistematico. Il c.d. illecito endofamiliare sottopone infatti il tradizionale sistema della responsabilità civile ad una fortissima tensione. Si tratta di un illecito che presenta alcune in-dubbie peculiarità, prime fra tutte il fatto che si realizza non fra soggetti svincolati da qualsiasi obbligo giuridico, ma, al contrario, fra individui legati da una relazione caratterizzata da specifi-ci doveri ma anche dall’affidamento reciproco determinato dal vincolo affettivo 4. Sotto questo profilo il comportamento posto in violazione dei diritti e dei doveri che derivano dal matrimonio sembrerebbe configurare un inadempimento piuttosto che un illecito, e, in quanto tale, dovrebbe essere presieduto dalle regole sulla responsabilità contrattuale (rectius, da inadempimento) 5. In questa prospettiva il profilo d’indagine riguarda allora la possibilità di sussumere la violazio-ne dei doveri e degli obblighi che derivano dal matrimonio all’interno della categoria dell’ina-dempimento, concettualmente legata alla mancata esecuzione della prestazione oggetto del-l’obbligazione, necessariamente connotata dal carattere della patrimonialità 6. È questa la ra-gione, non confessata ma facilmente intuibile, che ha suggerito il richiamo dell’art. 2043 c.c., piuttosto che dell’art. 1218 c.c. in tema di responsabilità del debitore 7. Un rinvio non scevro di conseguenze anche di ordine pratico e non sempre dagli esiti del tutto condivisibili.

oggi riflettere, in caso di inadempimento di obblighi di natura personale nelle relazione familiari, sulla possibile applicazio-ne dell’art. 614 bis c.p.c. Sul punto si rimanda a GRAZIOSI, L’esecuzione forzata, in GRAZIOSI (a cura di), I processi di separa-zione e di divorzio, Milano, 2011, p. 274 ss. In generale sul rimedio di cui all’art. 614 bis c.p.c. si rimanda a MAZZAMUTO, La comminatoria di cui all’art. 614 bis e il concetto di infungibilità processuale, in Eu. e dir. priv., 2009, p. 947 ss. 4 È noto come secondo la dottrina tradizionale il discrimine fra l’ambito della responsabilità contrattuale e di quella extra-contrattuale è dato dalla presenza o meno di un pregresso legame obbligatorio sussistente fra i protagonisti dell’illecito, le-game che non deve necessariamente individuarsi nel contratto, ma in qualsiasi obbligazione cui il soggetto è tenuto nei confronti della controparte, ad es. per la particolare specificità della qualità rivestita. Su questi temi tradizionali è d’obbligo il richiamo a CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 455 ss. 5 Così NICOLUSSI, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Eu. e dir. priv., 2008, p. 238 che avverte circa le incoerenze dogmatiche cui va incontro la tendenza ad applicare le regole della responsabilità extracontrattuale all’ambito familiare. 6 Cfr. art. 1174 c.c. che individua l’essenza della obbligazione nella patrimonialità, ossia nella suscettibilità della prestazione posta a suo oggetto ad essere economicamente valutabile. Sotto questo profilo il terreno d’indagine è dunque destinato ad allargarsi, perché riguarda la stessa possibilità di far sopravvivere il concetto di obbligazione nell’ambito del negozio familia-re. Il vincolo giuridico che nasce dal matrimonio, almeno secondo la connotazione attualmente assunta nel contesto sociale di riferimento, si caratterizza per un intreccio inestricabile di libertà individuali e obblighi reciproci, orientati dal dovere di solida-rietà quale motivo principe che deve connotare i reciproci comportamenti. In definitiva il negozio familiare presenta certa-mente delle specificità che lo rendono irriducibile all’obbligazione tout court considerata. Sulla peculiarità dei negozi familiari e sulla ricostruzione del loro contenuto, v. PALMERI, Il contenuto atipico dei negozi familiari, Roma, 1999. 7 Alcuni Autori suggeriscono una diversa ipotesi ricostruttiva, partendo dalla verifica e considerazione dell’articolato contenuto del rapporto obbligatorio, connotato non solo dai c.d. obblighi di prestazione ma anche da quelli di protezione. Accanto, cioè, all’ob-bligo di prestazione primariamente dedotto in obbligazione, a vincolare le parti sono una serie reciproca di doveri di protezione dell’altrui sfera giuridica. Le parti del rapporto obbligatorio non solo antagonisti, ma soggetti che per realizzare il loro interesse in-dividuale collaborano reciprocamente. È proprio attraverso l’obbligo di protezione, di cui è intrisa la relazione familiare, che le re-gole sull’inadempimento possono penetrare anche nel contesto del diritto di famiglia. Sul punto v. NICOLUSSI, op. cit., p. 961.

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Un esempio è offerto proprio dalla recente pronuncia del settembre 2011 8. In essa, dopo avere affrontato il profilo della compatibilità degli strumenti tipici del matrimonio con la tutela gene-rale dei diritti, non escludendo che un determinato comportamento possa rilevare sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di na-tura patrimoniale sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana, la Cassazione innesta gli ultimi approdi in tema di risarcimento del danno non patrimoniale 9 al particolare contesto di riferimento, verificandone la sussistenza dei singoli presupposti. Posto, dunque, che la domanda dell’attrice concerneva il risarcimento dei danni non patrimo-niali subiti a causa della violazione da parte del marito dell’obbligo di fedeltà, la Suprema Corte verifica se la fattispecie possa rientrare nell’ultima delle tre ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale individuate dalle Sezioni Unite 10, che richiede la sussistenza di tre diverse condi-zioni: la rilevanza costituzionale dell’interesse leso (e non del pregiudizio sofferto); la gravità della lesione, «nel senso che l’offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità come impone il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. 11»; la non futilità del danno, che deve rivestire «una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante 12». Individuati i filtri che consentono di selezionare le pretese meritevoli di considerazione, la Corte continua osservando che «nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell’altro, di separarsi e di divorziare in attuazione di un diritto individuale di libertà ricon-ducibile all’art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divor-zio». In questa prospettiva, «se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matri-moniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conse-guenze giuridiche … non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sé ad integrare una re-sponsabilità risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta, né tanto meno del terzo che al su detto ob-bligo è del tutto estraneo». Dunque, «quanto alla responsabilità per danni non patrimoniali … perché possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell’ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione, di un diritto costituzionalmente protetto e … del danno che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne de-riva – obiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà – di per sé non risarcibile costitu-endo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromis-sione di un interesse costituzionalmente protetto». Ciò, a detta della Corte, può verificarsi «in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge, lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità», ovvero ove «l’infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella viola-zione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto».

8 Cass. civ. 15 settembre 2011, n.18853, in http://www.personaedanno.it. 9 La trama motivazionale della pronuncia è rappresentata da un vero e proprio travaso nel particolare contesto di riferi-mento dei risultati suggeriti da Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972 in tema di danno non patrimoniale. 10 Com’è noto, le Sezioni Unite del 2008 hanno offerto un quadro ricostruttivo del danno non patrimoniale nella direzione della sua razionalizzazione all’interno di tre differenti categorie “puramente descrittive”: il danno morale, quale danno con-seguente al reato, le ipotesi legali di risarcibilità del danno non patrimoniale e i casi in cui il fatto illecito violi in modo grave diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale. Al di fuori delle fattispecie tipiche, dunque, la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di interessi non individuati ex ante dalla legge ma oggetto di una selezione rimessa ex post al giudice. 11 Così Cass. civ. 15 settembre 2011, n. 18853, cit. 12 Così Cass. civ. 15 settembre 2011, n. 18853, cit.

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In sostanza, se il coniuge a causa dell’infedeltà subita riesce a dimostrare di aver patito un pre-giudizio alla salute (depressione, nevrosi, ansia, ecc.) o riesce a dimostrare che l’infedeltà è sta-ta perpetrata con modalità tali da essere idonea a ledere la dignità (è stata, ad esempio, sfaccia-tamente palesata), avrà diritto al risarcimento, precluso negli altri casi. Oltre alla salute, dunque, l’interesse di rilevanza costituzionale che potrebbe essere eventual-mente leso dalla violazione di un obbligo di natura familiare è la dignità. Il rimedio risarcitorio non sarà così precluso solo ove il fatto sia tale da comportare un’aggressione alla dignità del co-niuge, considerato dunque l’interesse costituzionale leso e in quanto tale idoneo a qualificare la sua lesione in termini di ingiustizia. Aggressione che, nel ragionamento della Corte, si desume-rebbe dalla gravità della condotta. Come a dire che il tradimento scoperto anche se non palesa-to, se non tollerato, potrà integrare uno di quei “fatti” che legittimano la domanda di separa-zione ai sensi dell’art. 151 c.c. e/o la richiesta di addebito, ma non anche la pretesa risarcitoria, in quanto inidoneo a ledere, in misura seria, la dignità del compagno e/o della compagna. Naturalmente si è ben consapevoli delle difficoltà che incontrano gli interpreti nell’affrontare la spinosa problematica della risarcibilità e della prova dei danni non patrimoniali. Ciò nonostan-te non ci si può esimere dall’avanzare alcune osservazioni. Gli specialisti del diritto di famiglia e soprattutto gli avvocati che con i componenti della relazione hanno un rapporto diretto, sanno bene come la crisi matrimoniale rappresenti comunque un momento di indubbia sofferenza e difficoltà, per i coniugi e per tutti i componenti della famiglia più o meno direttamente coinvolti. È altresì noto come la violazione di quei doveri che per l’istituto matrimoniale rappresentano i pilastri del negozio giuridico, connotandolo imprescindi-bilmente e distinguendolo dai c.d. rapporti familiari di fatto, è fonte di un complesso di sentimen-ti negativi, sofferenze, difficoltà più o meno intense che incidono sull’esistenza dell’individuo. Per rimanere nel contesto della violazione dell’obbligo di fedeltà, ritenere che l’accesso al risar-cimento sia condizionato dall’accertamento della sussistenza di una lesione della salute signifi-ca dover concludere che la sofferenza interiore non idonea a tradursi in un’affezione psico-fisica rilevante e accertabile sul piano medico-legale sia destinata a rimanere priva di ristoro, a meno che il coniuge fedifrago sia stato così poco lungimirante da palesare la propria relazione. Come se, allora, la lesione della dignità del coniuge dipendesse non tanto dal tradimento del-l’esclusività matrimoniale, ma dalle modalità esteriori di tale tradimento. Come se una relazio-ne extraconiugale scoperta ancorché se non esteriorizzata e, per usare le parole della Cassazio-ne, non trasmodante «in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione», non sia idonea a ledere la dignità del coniuge tradito. La scelta di innestare l’art. 2043 c.c. nell’ambito dei rapporti familiari ha, dunque, importanti im-plicazioni, di ordine dogmatico ma anche sul piano applicativo e, sotto questo profilo, soprattutto con riguardo all’onere probatorio che l’attore dovrà assolvere per vedere accolta la sua domanda, in un contesto in cui è già di per sé difficile fornire la prova della violazione subita. Limitando, almeno per il momento, l’indagine all’illecito endofamiliare fra coniugi 13 e, in partico-

13 Le istanze risarcitorie possono derivare anche dalle disfunzioni del rapporto di filiazione, riguardo al quale il ragiona-mento è destinato a complicarsi ulteriormente per l’evidente antinomia, presente nel sistema, fra un modello di acquisto dello stato di filiazione naturale fondato su un atto di autonomia, che presuppone, dunque, la libertà di scelta e la respon-sabilità che comunque deriva dal solo fatto della procreazione ex art. 30 Cost. La giurisprudenza non ha infatti mostrato al-cuna difficoltà ad accordare il risarcimento del danno al figlio giudizialmente riconosciuto per il reiterato disinteresse mo-strato dal padre nei suoi confronti che, oltre a non averlo mai voluto riconoscere aveva omesso del tutto di contribuire al suo mantenimento e di adempiere ai doveri genitoriali. In questo senso Cass. civ. 7 giugno 2000, n. 7713, in Famiglia e di-ritto, 2001, p. 159 ss con nota di DOGLIOTTI, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esisten-ziale. Sul tema v. PALADINI, L’illecito dei genitori nei confronti dei figli. L’area di immunità in questo genere di illecito. Spunti di diritto comparato. Lo ius corrigendi nella prassi giurisprudenziale italiana. Il danno al nascituro, in www.personaedanno.it.

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lar modo alla violazione del dovere di fedeltà, è ben noto come già la semplice prova dell’av-venuto tradimento non sia per nulla agevole, e ciò nonostante l’ampiezza oggi assunta da tale do-vere, descritto non solo come esclusività fisica ma come assoluta dedizione al coniuge, rispetto per le sue esigenze e necessità, di guisa che anche la semplice amicizia potrebbe essere idonea ad integrarlo. Una difficoltà resa ancor più complessa dall’assenza di una descrizione tipica del con-tenuto dei singoli obblighi che derivano dal matrimonio e dunque dalla necessità per il giudice di anteporre all’accertamento della violazione la stessa valutazione del contenuto che quei coniugi, e non in generale tutti i coniugi, hanno inteso dare a quella specifica relazione, esercitando la loro piena autonomia che si esplicita nel momento in cui si concorda l’indirizzo della vita coniugale 14. Il passaggio dal piano della valutazione generale all’esame della fattispecie costringe il giudice ad un tipo di indagine ancor più complicata rispetto a ciò che avviene in ambito contrattuale. L’accertamento della violazione deve infatti essere preceduto dalla verifica delle modalità effetti-ve con cui i coniugi hanno inteso attuare i doveri descritti negli artt. 143, 144 e 147 c.c. Non dun-que l’accertamento tout court di un tradimento, ma l’indagine circa la rilevanza che quel compor-tamento assume nel contesto di quella specifica relazione matrimoniale. Ci si sposta, cioè, sul contenuto del tacito accordo sull’indirizzo della vita familiare che sta alla base di ogni relazione coniugale e per la cui ricostruzione potranno essere invocate, accanto ai mezzi di prova più diffusi ma spesso non perfettamente confacenti alla specifica natura dell’accertamento 15, le presunzioni. Così è noto, e la letteratura socio-psicologica in materia è cospicua, che, secondo l’id quod ple-rumque accidit la scoperta di un tradimento comporta sempre un pregiudizio alla sfera personale del partner, particolarmente intenso se sull’esclusività coniugale i coniugi hanno fatto particolare affidamento, condizionando le loro reciproche aspettative e scelte. Se il discrimine che segna la rilevanza giuridica del pregiudizio, consentendo l’accesso al rimedio risarcitorio nel caso in cui esso non si traduca in una affezione e dunque in una conseguenza oggettivamente valutabile, è la valutazione della possibile connotazione in termini di “gravità” del comportamento posto in esse-re, tale gravità deve però essere accertata non in assoluto, secondo i parametri comuni – per cui potrebbe ritenersi grave solo ciò che è palesato all’esterno e che si traduce in un’offesa oggettiva-mente percepibile – ma avendo riguardo allo specifico interesse violato nel contesto di quella specifica realtà familiare. Vi sarebbe cioè una certa analogia con la valutazione della gravità dell’inadempimento cui il giudice è tenuto per poter accordare il rimedio della risoluzione del contratto, ove il parametro di riferimento è rappresentato dall’interesse del creditore all’adem-pimento 16. Analogia ancora più evidente se si considera che, almeno secondo l’originaria impo-stazione codicistica, anche il rimedio della separazione giudiziale appare condizionato alla previa valutazione di una situazione oggettiva che renda impossibile la prosecuzione della convivenza, dunque ad una verifica “esterna” rispetto alla mera manifestazione di volontà del coniuge. Giudi-zio che poi, nella prassi, si appiattisce sulla constatazione che già la stessa manifestazione di vo-

14 Di ciò mostra di essere consapevole la Suprema Corte ove nell’indicare quale ulteriore criterio selettivo di accesso alla tutela risarcitoria la necessità che la violazione del dovere di fedeltà dia luogo alla lesione della salute o della dignità del co-niuge, la contestualizza indicando nelle “modalità” di commissione del fatto e nel riferimento “alla specificità della fattispe-cie” gli indici da tenere in considerazione nella valutazione della fattispecie concreta. 15 Un altro aspetto particolarmente spinoso in tema di accertamento dei danni non patrimoniali riguarda l’ambito di applica-zione della testimonianza. Il testimone è infatti chiamato a riferire circostanze di fatto e per questo tale strumento probatorio mal si presta in un contesto in cui ad essere oggetto di accertamento sono i pregiudizi alla sfera personale dell’individuo, ossia i perturbamenti, i disagi, le sensazioni negative che l’individuo subisce a causa dell’illecito. Pur restando sul piano della ricostru-zione dei fatti, per desumere da questi le conseguenze pregiudizievoli che normalmente accadono, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, nelle vicende di natura familiare le circostanze possono il più delle volte essere riferite solo da familiari, anch’essi affettivamente coinvolti nella vicenda e la cui testimonianza è, dunque, particolarmente problematica. 16 Cfr. artt. 1453 e 1455 c.c.

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lontà del coniuge di volersi separare è sintomatica di tale impossibilità; con la conseguenza che sul piano dell’accertamento si innesta necessariamente la valutazione soggettiva della “gravità” dei fatti che rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza. Nel danno endofamiliare v’è dunque una variabile che obbliga ad un adattamento dell’approdo raggiunto sul fronte delle regole che presiedono al risarcimento del danno non patrimoniale e che sotto certi aspetti provoca un corto circuito in ogni ragionamento. In tutte le statuizioni sul tema, la valutazione secondo i parametri di cui all’art. 2043 c.c. comporta una duplice verifica della stessa condotta, una volta analizzata quale essa è, ossia quale condotta qualificata dalla specifica relazione in cui si consuma, e una volta spogliata da ogni elemento qualificante. Inve-ro, la condotta antigiuridica che in quanto tale, dunque quale condotta qualificata, legittime-rebbe immediatamente il rimedio risarcitorio se valutata alla luce delle regole della responsabi-lità da inadempimento, deve superare prima il setaccio dell’ingiustizia del danno 17 e poi, se il pregiudizio lamentato è di natura non patrimoniale, quello della gravità della condotta. Il primo filtro impone, così, la ricerca spasmodica dell’interesse leso meritevole di tutela in quanto di rilevanza costituzionale, non ravvisato nell’interesse reciproco al rispetto dei doveri imposti dal matrimonio, che derivano da semplice legge ordinaria, ma piuttosto nella dignità del partner, come se questa non dipendesse proprio dal rispetto di quei doveri. A questo punto, essendo la dignità bene non suscettibile di valutazione economica, si adotta l’ulteriore criterio di selezione richiesto in tema di danno non patrimoniale per verificare se la lesione all’interesse leso possa dirsi grave, dunque intollerabile e meritevole di tutela. In questo caso, però, la con-dotta viene dequalificata. La prospettiva familiare è cioè accantonata e il parametro di valuta-zione adesso scelto è eteronomo rispetto alla relazione affettiva; è l’astratto riferimento a ciò che è grave secondo la coscienza sociale prevalente in un particolare momento storico e pre-scinde da ciò che è grave per quella specifica congregazione familiare. Riepilogando, la valutazione attraverso la lente del danno ingiusto è effettuata avendo riguardo allo specifico interesse non dell’individuo, ma del membro della relazione familiare; la condotta viene poi decontestualizzata allorché se ne valuta la sua gravità, con la conseguenza di giungere alla soluzione che sarà il giudice a dover stabilire quando la violazione di un dovere di natura fa-miliare supera la soglia della tollerabilità in un contesto dominato da doveri di solidarietà. Con il rischio tangibile che il coniuge, ancorché gravemente compromesso nella sua sfera esistenziale a causa della scoperta di un’infedeltà, appresa nonostante gli artifizi del partner ben attento a non farsi scoprire, può solo sperare di ammalarsi per poter accedere alla tutela risarcitoria. D’altra parte, della previa valutazione della condotta in termini di antigiuridicità non si può certo prescindere. È fin troppo ovvio, infatti, che trascorrere del tempo pubblicamente in compagnia di qualcuno o intrattenere una relazione affettiva non può in alcun modo configurare un compor-tamento illecito in quanto tale. Lo può divenire solo se si è, appunto, già partner di una relazione affettiva, particolarmente qualificata se fondata sul rapporto matrimoniale ma comunque fonte di

17 In questa prospettiva, peraltro, la ricerca dell’interesse costituzionalmente protetto leso dalla violazione del dovere fami-liare, non può prescindere dall’art. 29 Cost. La norma offre espressamente una copertura costituzionale ai «diritti della fa-miglia come società naturale fondata sul matrimonio». A differenza della conclusione cui giungono i giudici della Suprema Corte, ben consapevoli dell’offesa di per sé insita nella violazione dei doveri derivanti dal matrimonio, ritenuta però di per sé non giuridicamente rilevante «costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria», è proprio il riconosci-mento dei diritti della famiglia a far assumere la specifica rilevanza costituzionale alle situazioni giuridiche soggettive che dal matrimonio derivano. Ma anche a prescindere dalla rilevanza costituzionale dei diritti della famiglia e dunque dalla si-cura risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla loro lesione grave, la previa relazione giuridica intercorrente fra le parti consente di individuare anche nel principio di solidarietà l’interesse meritevole di protezione. Un valore implici-to nel riconoscimento di una famiglia ordinata sul principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi di cui all’art. 29 Cost. oltre che espressamente sancito nell’art. 2 Cost.

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reciproco affidamento ancorché derivante da una relazione di fatto impostata sulla reciproca e-sclusività 18. Così un comportamento che, altrimenti, illecito non potrebbe mai essere, è idoneo ad assumere tale rilievo proprio perché consumato all’interno di una precisa relazione giuridica, di rilevanza costituzionale e specificamente connotata dal dovere di solidarietà che, a ben vedere, si sostanzia proprio nei precisi obblighi individuati negli artt. 143, 144 e 147 c.c. Sotto il profilo della descrizione delle condotte, infatti, non è possibile ipotizzare un comporta-mento idoneo ad essere qualificato quale illecito che non rappresenti già di per sé violazione di uno dei doveri che derivano dal vincolo matrimoniale nella declinazione concreta autonoma-mente fattane dai coniugi 19. In questo contesto, sembra abnorme ritenere che debba essere ri-messa ad una fonte esclusivamente eteronoma la valutazione di ciò che deve considerarsi tollera-bile per spirito solidaristico e ciò che non lo può essere, non dovendosi ignorare la valutazione e l’importanza che gli stessi coniugi attribuiscono al comportamento adottato. Un appiglio oggettivo a tale valutazione in termini di intollerabilità è offerto proprio dalla de-terminazione manifestata di ricorrere al “rimedio” della separazione 20. D’altra parte, come si è detto, il giudizio spesso implicito sulla precondizione necessaria al rimedio, ossia l’accerta-mento dei «fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza» non prescinde mai dalla considerazione della valutazione soggettiva delle parti. Così, se quella violazione è stata la causa o comunque una concausa dell’impossibilità di prose-guire oltre nel legame matrimoniale, vuol dire che essa è intollerabile e, se foriera di danno, me-ritevole di ricevere una risposta eventualmente anche sul piano risarcitorio. A prescindere, dunque, dalla scelta del paradigma di riferimento (inadempimento o illecito a-quiliano), la violazione dei doveri che derivano dal matrimonio è comunque elemento della fattispecie di danno. Il problema non è, cioè, dato dalla prova degli elementi a monte del danno (inadempimento o fatto doloso o colposo cagionevole di danno ingiusto) 21, quanto, piuttosto, del danno conse-guenza. Nella prospettiva offerta, la valutazione della gravità dell’offesa quale ulteriore requisito

18 Si ritiene che le medesime considerazioni potrebbero farsi con riguardo alla violazione dei doveri che i membri della fa-miglia di fatto si sono autoposti. Naturalmente in questo caso sarà particolarmente complessa la prova del contenuto dell’accordo, il più delle volte tacito, e dunque della loro volontà di mutuare le regole tipiche del rapporto di coniugio. 19 Anche l’esempio dell’esercizio della libera determinazione della donna di sottoporsi ad un intervento di interruzione volon-taria della gravidanza conferma la prospettiva scelta, nonostante l’indirizzo contrario della giurisprudenza. Si tratta, natural-mente, della manifestazione di un diritto individuale della donna, espressamente riconosciuto dalla legge, il cui esercizio sa-rebbe, secondo l’orientamento prevalente, di per sé inidoneo a provocare un danno ingiusto, dunque risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. Ciò se valutato al di fuori della relazione affettiva. La valutazione della legittimità dell’esercizio di quel diritto nel contesto della relazione familiare impone, invece, la considerazione degli altri interessi in gioco, primo fra tutti del marito e dell’indirizzo familiare con lui concordato, di guisa che se quell’indirizzo comprendeva la determinazione positiva in ordine al-la possibilità di divenire genitori, la scelta della donna, naturalmente non coercibile e dunque non assoggettabile ad alcun in-tervento oppositivo esterno, potrebbe però rilevare sia ai fini dell’addebito della separazione, ricorrendone gli altri presupposti richiesti dall’art. 151 c.c., sia ai fini dell’eventuale obbligazione risarcitoria. Naturalmente in questo caso l’indagine è ancor più complessa, perché a venire in considerazione quale contrappeso ai diritti nascenti dall’accordo sull’indirizzo della vita familiare sono diritti fondamentali della persona, anch’essi di rilevanza costituzionale, quale quello di autodeterminarsi in relazione alle scelte che riguardano la propria salute. Un altro esempio di conflitto fra diritti e doveri di natura familiare e diritti fondamentali si ha in caso di sopravvenuta scoperta da parte di un coniuge, in costanza di matrimonio, della propria omosessualità a seguito della quale si assume la determinazione di separarsi. In questo caso se certamente non è addebitabile una separazione fondata sulla sopravvenuta scoperta di un’identità prima sconosciuta, lo è l’avvenuta violazione dell’obbligo di fedeltà che resta tale a prescindere da tipo di relazione extraconiugale, omo o eterosessuale. Per un’attenta riflessione sugli aspetti problematici posti dal conflitto fra diritto all’identità e solidarietà familiare v. PLAIA, Il comportamento omosessuale del coniuge tra invalidità, addebi-to della separazione e responsabilità endofamiliare, in Famiglia e diritto, 2009, p. 565 ss. 20 Naturalmente quando sia la parte che ha subito l’illecito a manifestare la volontà di separarsi. 21 Anche la valutazione soggettiva del comportamento posto in violazione del dovere matrimoniale, in quanto comunque concernente una condotta qualificata, conduce necessariamente ad un giudizio di colpevolezza, dal momento che, salvo le ipotesi di incapacità sopravvenuta, è difficilmente concepibile una violazione incolpevole degli obblighi reciproci.

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di risarcibilità del danno non patrimoniale e criterio che consente di valutare quando il piatto della bilancia pende sotto il peso dell’intollerabilità piuttosto che sotto quello della solidarietà, deve essere effettuata avendo come parametro di riferimento l’incidenza che la violazione ha determinato sulla prosecuzione della convivenza. È dunque certo che la richiesta risarcitoria deve presupporre l’intervenuta separazione dei co-niugi o, quanto meno, l’avvio del relativo procedimento. Esso si pone, infatti, quale dato obiet-tivo dal quale desumere il superamento del limite di tolleranza rispetto alla violazione dei dove-ri derivanti dal matrimonio, nella declinazione fattane dagli stessi coniugi. Tutt’al più la lettura oggettiva della “gravità” del comportamento perpetrato dal coniuge “inadempiente” potrà e-ventualmente rilevare quale parametro di quantificazione del risarcimento 22. Bisogna a questo punto interrogarsi se la soluzione proposta finisca per rappresentare un surrogato della pronuncia di addebito. Non v’è dubbio, infatti, che se l’addebito è il risultato della sequenza: violazione del dovere che deriva dal matrimonio – intollerabilità della convivenza; e se, almeno sul fronte del danno non patrimoniale, la sequenza è: violazione del dovere che deriva dal matri-monio – gravità della condotta, a sua volta desunta dalla sua intollerabilità e dalla sua incidenza sulla rottura del menage familiare, le due sequenze finiscono sostanzialmente per sovrapporsi. Ma è proprio a questo punto che il cerchio si chiude. Probabilmente è infatti giunto il momen-to di riflettere sull’ormai vetustà dell’istituto dell’addebito, la cui permanenza nelle maglie di un sistema sempre più improntato sul principio della responsabilità che può derivare da scelte e-spressione di libertà individuale ma non per questo scevre da conseguenze lesive e meritevoli di tutela, provoca disfunzioni soprattutto sul piano applicativo.

22 È noto come la funzione della responsabilità civile sia quella satisfattoria e non quella punitiva. Le regole civilistiche, a differenza di quelle penali incentrate sulla valutazione dell’autore dell’illecito, guardano al danneggiato e mirano al ripristi-no della situazione precedente al pregiudizio subito. Per tale ragione generalmente nessuna incidenza ha la valutazione del comportamento dell’autore dell’illecito, fonte della medesima obbligazione parametrata sul danno conseguenza a prescin-dere dalla valutazione dell’elemento soggettivo (dolo o colpa). Nella prassi giurisprudenziale, però, la gravità della condot-ta rileva quale indice cui parametrare la quantificazione del risarcimento dovuto. In questo modo, però, è evidente come la responsabilità devi dalla sua funzione tipica e assuma un’anima punitiva tradizionalmente ad essa estranea. È noto d’altra parte come sia proprio il terreno degli illeciti endofamiliari a rappresentare uno dei contesti di riferimento in cui si è avviata la riflessione in ordine ai c.d. danni punitivi.

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GLI ULTIMI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI SULLA PROVA IN MATE‐RIA DI ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE 

Lorenza Cracco Avvocato del Foro di Padova A norma dell’art. 151, 2° comma, c.c., nel pronunziare la separazione dei coniugi, il giudice di-chiara, «ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto», in considerazione del comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio previsti dall’art. 143 c.c., a quale dei coniugi debba essere addebitata. Secondo la costante giurisprudenza, non qualsiasi violazione dei predetti doveri può giustifica-re l’addebito della separazione, ma solo quelle violazioni che per la loro reiterazione e gravità abbiano concretamente determinato l’intollerabilità della convivenza tra i coniugi. La pronuncia di addebito della separazione presuppone quindi che venga fornita in giudizio la prova di tali comportamenti, che devono necessariamente costituire la causa efficiente della frattura del rapporto di coniugio 1. Qualora manchi la prova di tale nesso eziologico, ovvero si dimostri che la crisi coniugale è in-tervenuta per ragioni ulteriori e diverse, magari anche antecedenti alla violazione dei doveri na-scenti dal matrimonio, il giudice non potrà accogliere la domanda di addebito. Posti tali principi, occorre soffermarsi sulla prova dell’addebitabilità. Il coniuge che propone la domanda di addebito deve sempre provare l’esistenza del nesso di causalità tra i comportamenti posti in essere in violazione dei doveri coniugali ex art. 143 c.c. e la crisi del matrimonio? La risposta ci viene data dalla recentissima sentenza della Corte di Cassazione 14 febbraio 2012, n. 2059 che ha rafforzato i precedenti orientamenti giurisprudenziali sul punto 2, riaffer-mando il principio di diritto, già enunciato in precedenti pronunce, secondo il quale è onere di colui che propone la domanda di addebito provarne i fatti costitutivi, ovvero:

– la sussistenza dei comportamenti contrari ai doveri coniugali ad opera dell’altro coniuge; – l’efficacia causale degli stessi nel determinare la crisi del matrimonio.

Tale regola è destinata, tuttavia, a subire un’attenuazione nel caso in cui la violazione dei doveri coniugali, stabiliti in capo ai coniugi dall’art. 143 c.c., consista nell’inosservanza del dovere di fedeltà o nell’abbandono unilaterale, definitivo ed ingiustificato della casa coniugale. Per la Suprema Corte questi due comportamenti – che da un’analisi della casistica rappresen-tano le ragioni più frequenti di richiesta di addebito – costituiscono una «violazione partico-

1 Cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. I, 27 giugno 2006, n. 14840; Cass. Civ., Sez. I, 11 giugno 2005, n. 12383. 2 Secondo la regola generale sulla distribuzione dell’onere della prova tra le parti di cui all’art. 2697 c.c.

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larmente grave» dei doveri coniugali, tale da poter essere considerata circostanza sufficiente a determinare ex se l’addebito della separazione 3. In altre parole, qualora le predette violazioni siano provate dalla parte che richiede l’addebito, si presume che abbiano esse stesse determinato l’intollerabilità della convivenza. Senza fornire un’espressa qualificazione giuridica, la Cassazione assume che in questi particolari ca-si sussista una vera e propria presunzione relativa, quanto alla sussistenza dell’incidenza causale dell’infedeltà e dell’abbandono del tetto familiare in ordine alla crisi del rapporto matrimoniale. La parte che richiede l’addebito esaurisce interamente il proprio onere probatorio fornendo la pro-va dei comportamenti illeciti tenuti dal coniuge, e il giudice potrà legittimamente fondare la propria pronuncia di addebito sulla base di dette prove, senza incorrere in un vizio di motivazione. Per contro, incombe sul coniuge che resiste alla domanda di addebito l’onere di provare, qua-lora non emerga dagli atti di causa, l’anteriorità delle vere cause dell’intollerabilità della convi-venza rispetto alle violazioni dei doveri coniugali contestati e provati dalla controparte: solo in questo modo potrà superare la presunzione dell’esistenza del nesso causale ed impedire la pro-nuncia di addebito a suo carico 4. Che la prova venga ripartita in tale misura, risponde, secondo la Corte, alla logica del buon sen-so, oltre che ai principi generali del diritto in tema di onere probatorio. A norma dell’art. 2697 c.c., spetta a chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Nel caso della domanda di addebito, dovranno essere provate le ragioni che hanno provocato l’intollerabilità della convivenza, in un momento ante-riore all’accertata violazione dei doveri coniugali. La Cassazione, quindi, afferma il principio che colui che propone la domanda di addebito, in-vocando le violazioni sopra esposte, esaurisce l’onere probatorio con la sola prova dei compor-tamenti contrari ai doveri coniugali tenuti dal coniuge e non anche dell’incidenza causale degli stessi sulla crisi coniugale.

Giurisprudenza Cass., Sez. I Civile, 14 febbraio 2012, n. 2059 Separazione – Infedeltà – Abbandono della casa famigliare – Addebito. Il coniuge che provi l’abbandono volontario e definitivo della residenza familiare da parte del-l’altro, senza che questi abbia proposto domanda di separazione, non deve ulteriormente pro-vare l’incidenza causale di quel comportamento illecito sulla crisi del matrimonio. Un simile comportamento, infatti, implica di fatto la cessazione della convivenza e degli obblighi ad essa connaturati, gravando dunque sulla parte che si è allontanata l’onere di offrire la prova contra-ria, e cioè che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di una situazione d’in-tollerabilità delle coabitazione. Infatti, l’unico caso in cui è ammissibile l’abbandono del tetto coniugale, come previsto dalla L. 151/1975 che ha integrato l’art. 146 del c.c., è quello in cui sia stata proposta domanda di separazione.

3 Cass. Civ., Sez. I, 7 dicembre 2007, n. 25618. 4 Cfr., in senso conforme, Cass. Civ., Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17056.

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Cass., Sez. I Civile, 24 febbraio 2011, n. 4540 Separazione – Allontanamento dalla residenza familiare – Rilevanza ai fini della dichiarazione di addebito. In tema di separazione dei coniugi, l’allontanamento unilaterale di uno di essi, comportando l’impossibilità della coabitazione, costituisce di per sé violazione di un obbligo matrimoniale e possibile causa di addebito, sempre che non sia avvenuto per giusta causa in quanto conse-guenza di una situazione di incompatibilità della convivenza. In tal caso, non essendo cagione ma effetto della crisi coniugale, va esclusa la dichiarazione di addebito a carico del coniuge che si sia allontanato, senza necessità di verificare se il comportamento dell’altro costituisca o meno violazione dei doveri coniugali. Cass., Sez. I Civile, 7 dicembre 2007, n. 25618 Separazione – Addebito – Violazione obbligo di fedeltà – Mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità del-la prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valuta-zione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza me-ramente formale. Cass., Sez. I Civile, 3 agosto 2007, n. 17056 Separazione – Addebitabilità In tema di separazione personale dei coniugi, l’abbandono della casa familiare, di per sé costi-tuisce violazione di un obbligo matrimoniale, non essendo decisiva la prova della asserita esi-stenza di una relazione extraconiugale in costanza di matrimonio. Ne consegue che il volonta-rio abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazio-ne, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che si provi – e l’onere incombe a chi ha posto in essere l’abbandono – che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intolle-rabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto.

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SULLA PROVA DELLO STATO DI ABBANDONO DEL MINORE 

Alberto Figone Avvocato del Foro di Genova, Docente alla Scuola di Specializzazione per le professioni legali presso l’Università degli Studi di Genova Sommario: 1. Una premessa. – 2. Considerazioni generali. – 3. La valutazione del giudice. – 4. Recenti orienta-menti della Corte di Cassazione. – 5. L’ascolto del minore e la presenza del difensore. 1. Una premessa  Come è noto, l’art. 8 della l. n. 183/1984 (e successive modifiche) subordina la declaratoria dello sta-to di adottabilità del minore all’accertamento della situazione di abbandono. A sua volta l’abbando-no fa riferimento ad una privazione di assistenza morale e materiale, da parte dei genitori o dei paren-ti tenuti a provvedervi, purché non sia dipesa da causa di forza maggiore di carattere transitorio. Molto si è discusso in dottrina ed in giurisprudenza circa la definizione di stato di abbandono, già a far data dalla prima legge sull’adozione di minori del 1967, che si esprimeva in termini analoghi 1. In oggi possono dirsi raggiunti alcuni punti fermi. 2. Considerazioni generali  Il comportamento del genitore, considerato come indice per la rilevazione dello stato di ab-bandono, può essere commissivo od omissivo. Non è necessario che sia configurabile un com-portamento antigiuridico, connotato da un atteggiamento doloso o colposo; deve infatti aversi riguardo alla situazione obiettiva di pregiudizio in cui versa il minore, pure a prescindere da re-sponsabilità genitoriali. Quanto ai comportamenti commissivi, rilevano tutte le forme di violenza sui minori (fisica, sessua-le, morale); si tratta di situazioni che frequentemente integrano ipotesi di reato. Va pure evidenzia-to lo sfruttamento del lavoro del minore, tale da cagionare in lui grave sofferenza. Qualche volta la violenza non è diretta ai minori, o soltanto ad essi ma da un genitore nei confronti dell’altro o reci-procamente (si parla allora di violenza assistita). Evidente il conflitto che si crea nel minore, po-tenzialmente assai nocivo per il suo sviluppo psichico. Naturalmente decisivo sarà il prudente ap-prezzamento del giudice nel distinguere tra situazioni che richiedano soltanto limitazione o deca-

1 Cfr. per un primo riscontro, in prospettiva generale, DOGLIOTTI, Adozione di maggiorenni e minori, in Il Codice Civile commentato, fondato da Schlesinger, Milano, 2002; DOGLIOTTI-FIGONE-MAZZA GALANTI, Codice del minore, Torino, 2009.

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denza dalla potestà con allontanamento del minore, ovvero del genitore violento da quelle che in-vece, per la loro gravità e irrevocabilità, suggeriscano di sciogliere ogni legame con la famiglia. Talora invece non si tratta di violenza, ma di trasmissione, con il proprio esempio o con l’esor-tazione (ma pure in questo caso potrebbe configurarsi una costrizione) di valori inaccettabili: l’induzione al furto, all’accattonaggio, alla prostituzione, ecc. In questo caso la cautela del giu-dice dovrebbe essere maggiore, tenuto conto della cultura, dei costumi di collettività diverse dalle nostre, per le quali certi comportamenti sarebbero privi di elementi di negatività. Più frequentemente si riscontrano peraltro comportamenti omissivi. Trascuratezza, malnutri-zione, cattiva cura dell’igiene personale e ambientale, disinteresse per la frequenza scolastica o per la salute del minore, ecc. Accanto a queste situazioni ve ne sono altre, strettamente connesse con l’ambiente di vita del mino-re, oggetto di specifica ed attenta valutazione da parte del giudice. Basti pensare all’abitare in dimo-ra familiare insalubre o fatiscente, a problematiche legate a patologie acquisite o congenite dei geni-tori (tossicodipendenza, alcolismo, malattia mentale), o ancora a malattie fisiche (disagi mentali, gravi menomazioni). Lo stato di adottabilità (quale atto prodromico alla futura adozione) presup-pone un doveroso bilanciamento tra il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della fami-glia d’origine (come si esprime l’art. 1 della l. n. 183/1984) ed il suo superiore interesse a non subire pregiudizi in una crescita serena ed armoniosa; ne consegue che, specie in questi casi, la valutazione del giudice dovrà essere attenta e puntuale. Le situazioni di indigenza o di patologie genitoriali di per sé non possono certo essere indice di una situazione di abbandono, se non accompagnate da quei comportamenti, commissivi ovvero omissivi in precedenza rappresentati. 3. La valutazione del giudice  Più volte in dottrina e giurisprudenza si è affermato che la valutazione del giudice deve essere duplice, oggettiva e soggettiva: la gravità e l’irreversibilità della situazione, e ancora la gravità sulla persona del minore. Potrebbe esservi una situazione grave, ma non irreversibile, dovuta ad un improvviso e momentaneo abbandono del genitore (malnutrizione, cattiva igiene, ecc.), ma anche non grave, ma irreversibile (si pensi ad esempio al disinteresse ovvero all’opposizione alla frequenza scolastica). Quanto all’incidenza di tali situazioni sullo sviluppo psicofisico del minore, va osservato che talora essa è del tutto evidente, senza necessità che i danni preannunciati si concretizzino; per provvede-re è sufficiente una prognosi circa la possibilità (o la probabilità) che essi sopravvengano o che (più in generale) lo sviluppo del fanciullo si realizzi in modo del tutto insufficiente e disarmonico. Alla luce di quanto si è osservato emerge che l’elemento della forza maggiore (ostativa alla de-claratoria dello stato di adottabilità) non riveste più la rilevanza che il legislatore del 1983 gli attribuiva. Forza maggiore (nozione tradizionalmente penalistica) fa riferimento ad una “vis” alla quale non si può resistere. Nella materia adozionale si dovrebbe invece fare riferimento ad una diversa e particolare nozione, che trova i suoi presupposti nella peculiarità del rapporto ed il suo decisivo punto di riferimento nell’esigenza di assicurare comunque al minore, abbando-nato in modo duraturo e irreversibile, una nuova famiglia. La forza maggiore, per assumere rilevanza deve presentare un carattere transitorio, potendo soccor-rere in tale ipotesi il diverso istituito dell’affidamento etero-familiare, ovvero quello della limitazio-ne della potestà. Dunque la forza maggiore (e la relativa valutazione) riveste oggi assai minore im-portanza che in passato: il giudice, ove ritenga che ricorra una situazione di pur grave, ma momen-tanea privazione di cure, aperta alla probabilità di sviluppi positivi, non pronuncia l’adottabilità. Sta di fatto che non è agevole fornire indicazioni di tipo generale in ordine alla tempestività della situa-zione, dovendosi ogni valutazione basare sui tempi del bambino, ovviamente diversi con la crescita.

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4. Recenti orientamenti della Corte di Cassazione  La sussistenza (o meno) dello stato di abbandono rappresenta una valutazione del giudice di meri-to che – se congruamente motivata – sfugge al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione. Il Supremo Collegio peraltro, in questi ultimi anni ha avuto occasione di pronunciarsi sul pun-to, con decisioni assai significative che si inquadrano nell’ambito di quanto già in particolare esposto. Si ritiene opportuno dar conto delle più recenti decisioni. In primo luogo, si è ribadito che sussiste lo stato di abbandono ogni qualvolta si accerti l’ina-dempimento dei genitori a garantire al figlio il normale sviluppo psicofisico, sì da far apparire l’elisione del rapporto familiare come strumento necessario per evitare al minore un più grave pregiudizio; integra dunque lo stato di abbandono anche una situazione di fatto che osti allo sviluppo psicofisico equilibrato del minore (nella specie, una forte conflittualità tra i genitori di un minore e i rispettivi nuclei familiari di origine, che già si era verificata in occasione di un pre-cedente affidamento familiare ai nonni) 2. E ancora, si è affermato che sussiste lo stato di ab-bandono quando i genitori non sono in grado di assicurare al minore quel minimo di cure ma-teriali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabile per la formazione della sua personalità ed il suo sviluppo (nella specie, entrambi i genitori avevano riconosciuto il figlio, dopo che era già stato dichiarato lo stato di abbandono, ottenendone inizialmente la revoca, senza peraltro alcun senso di responsabilità e progettualità) 3. Lo stato di abbandono non può essere escluso per il solo fatto che al minore siano prestate le cure materiali essenziali da parte dei genitori (o dei parenti entro il quarto grado), dovendosi verificare se l’ambiente familiare sia in grado di fornire risorse adeguate alla crescita del figlio; sulla base di tale presupposto la Corte Suprema ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato lo stato di abbandono di un minore, il cui padre – astretto in carcere – e la madre erano stati giudicati gravemente inadeguati alla funzione genitoriale, mentre i nonni materni avevano mantenuto un comportamento rinuncia-tario ed omissivo 4. Ed ancora, si è ritenuto sussistere lo stato di abbandono in un caso in cui era stato accertato che i genitori, dai quali erano già stati allontanati i primi quattro figli, vivevano in una situazione di degrado e di deprivazione, per quanto supportati dai servizi sociali 5. A for-tiori lo stato di abbandono è configurabile a fronte di comportamenti violenti e di soprusi reite-rati verso il figlio (privazione del cibo, imposizione di orari anomali per il dormire, ecc.) 6. Va da sé che generiche disponibilità dei genitori o dei parenti a farsi carico del minore, prive di qualsiasi concretezza, non possono far venire meno lo stato di abbandono 7. A fronte delle pronunce or ora richiamate, che hanno valorizzato il diritto del minore ad una cre-scita serena ed equilibrata, ve ne sono altre che – sulla base di una valutazione ponderata degli in-teressi contrapposti – hanno privilegiato il diritto del minore stesso a crescere nell’ambito della propria famiglia. La Suprema Corte, confermando la decisione di merito, ha così ritenuto legitti-ma la revoca dello stato di adottabilità del figlio di persona tossicodipendente, in base al rilievo che costei aveva completato un programma di disintossicazione ed intrapreso un lavoro 8. 5. L’ascolto del minore e la presenza del difensore  Come è noto, in base all’art. 8, ultimo comma, l. n. 184/1983 (introdotto con l. n. 149/2001,

2 Cfr. Cass. 21 marzo 2010, n. 7961. 3 Cfr. Cass. 28 aprile 2008, n. 10809. 4 Cfr. Cass. 10 agosto 2006, n. 18113. 5 Cfr. Cass. 28 giugno 2006, n 15011, ma v. altresì in termini Cass. 12 maggio 2006, n. 11019. 6 Cfr. Cass. 29 ottobre 2005, n. 21100. 7 Cfr. Cass. 28 febbraio 2006, n. 4408; Cass. 22 gennaio 2000, n. 1107; Cass. 22 gennaio 2000, n. 1108 8 Cfr. Cass. 14 aprile 2006, n. 8877.

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entrato in vigore solo nel 2007), il procedimento di adottabilità deve svolgersi, sin dall’inizio, con l’assistenza legale del minore o dei genitori o degli altri parenti che abbiano mantenuto con lui rapporti significativi. A sua volta l’art. 10 della medesima legge prevede in particolare che, all’atto di apertura del procedimento, il presidente debba invitare i genitori a nominare un di-fensore di fiducia, altrimenti provvede alla nomina di un difensore d’ufficio. Questi soggetti, assistiti dal difensore, possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal Tribunale, pren-dere visione degli atti (previa autorizzazione del giudice) e depositare memorie. La Corte di Cassazione ha già avuto modo di pronunciarsi sul punto. Si è così affermato che genitori e parenti possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal Tribunale, ossia a qualunque atto d’indagine che il giudice ritenga di eseguire, per iniziativa propria o delle parti, al fine di verificare se sussista lo stato di abbandono, comprendendo anche le indagini e le ope-razioni affidate ad operatori specializzati (ivi compresi, dunque, i servizi). Nel contempo si è escluso che questa partecipazione possa estendersi all’audizione del minore, ciò in quanto detta audizione non rappresenta una testimonianza o un atto istruttorio, volto ad acquisire una risul-tanza paragonabile all’una o all’altra soluzione; bensì un momento formale del procedimento, deputato a raccogliere le opinioni del minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto 9. La Su-prema Corte manifesta la propensione a che l’audizione del minore abbia a svolgersi in modo da garantire il diritto del minore ad esprimere la propria opinione «con tutte le cautele e le moda-lità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti». Sul punto possono muoversi critiche: spiace constatare come la presenza del difensore all’ascolto possa configurarsi come uno strumento potenzialmente limitativo della libera espressione del minore. Non possono che richiamarsi i vari protocolli che nelle singole realtà giudiziarie sono sta-ti elaborati in maniera condivisa tra l’organo giudiziario e le associazioni operanti nel campo del diritto di famiglia e minorile, volte a garantire la più ampia espressione del minore, nel contesto dei diritti del genitore e delle parti coinvolte nel procedimento di adottabilità. Escludere a priori il difensore dei genitori legittima una arcaica visione del giudice minorile, giudice (e quindi terzo) e nel contempo garante dei diritti del minore. È da ritenere allora che anche l’ascolto debba neces-sariamente svolgersi alla presenza non solo del giudice e del rappresentante del minore (avvocato o curatore che sia), ma pure del difensore dei genitori, stante l’indubbia incidenza che una pro-nuncia di stato di abbandono può comportare. Né può ritenersi equivalente all’audizione reale ed effettiva, la possibilità (questa si riconosciuta dall’ordinamento) di poter prendere visione dell’incombente, se videoregistrato, oppure delle relative verbalizzazioni. Come noto, esiste infat-ti tutta una comunicazione non verbale, rappresentata dalla gestualità o dai silenzi del minore, a volte ben più eloquente di quanto il minore stesso afferma e che ben può perdersi nella riprodu-zione dell’audizione con mezzi meccanici o, addirittura, in forma scritta. Si confida che in un futuro l’orientamento giurisprudenziale possa mutare, in una prospettiva che riesca a coniugare al meglio i diritti del minore con quelli dei genitori e degli altri parenti. Ovviamente tutti gli incombenti processuali, diversi dall’audizione del minore, che dovessero essere posti in essere al di fuori della preventiva comunicazione ai genitori (ed al loro difensore) sarebbero inficiati da nullità, che si rifletterebbe sulla stessa pronuncia, che avesse definito il procedimento 10.

9 Cfr. Cass. 26 gennaio 2001, n. 1838; Cass. 26 marzo 2010, n. 7282. 10 Cfr. Cass. 25 settembre 2005, n. 20625.

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LA PROVA NEL PROCEDIMENTO DI DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PA‐TERNITÀ 

Giulia Sapi Avvocato del Foro di Milano Sommario: 1. Premessa. – 2. Le indagini ematologiche e genetiche. – 3. Il caso di esumazione della salma. – 4. Conseguenze sul piano ereditario. 1. Premessa  La ricerca della paternità naturale si basa sul principio della libertà della prova. L’art. 269, 2° comma, c.c. dispone infatti che la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo. Conseguentemente il giudice di merito può legittimamente trarre il proprio con-vincimento, in ordine all’esistenza di un rapporto di filiazione, da risultanze probatorie dotate di mero valore indiziario 1. L’unico limite posto dal legislatore è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., che afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il pre-teso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione. Peraltro tali circostanze, in concorso con altri elementi probatori, anche presuntivi, ben possono essere uti-lizzate dal giudice a sostegno del proprio convincimento in ordine alla sussistenza della paterni-tà 2. Al riguardo la Suprema Corte, nell’affermare detto principio, ha altresì ammesso che l’art. 269 c.c. «a maggior ragione non preclude l’utilizzazione, quanto meno come fonte sussidiaria di prova, di testimonianza de relato, la cui attendibilità e rilevanza vanno verificate in concreto nel quadro di una valutazione globale delle risultanze di causa, specialmente quando i fatti riferiti siano stati appresi dai testi in epoca non sospetta» 3. Nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità, in considerazione dell’indisponi-bilità del diritto fatto valere, non potrà, ai sensi dell’art. 2739 c.c., essere disposto il giuramento decisorio o suppletorio 4. Quanto poi alla confessione, essa, pur non avendo efficacia di prova

1 V. Cass. 20 marzo 1998, n. 2944, in Famiglia e diritto, 1999, 40, confermata da Cass. 17 novembre 2000, n. 14910, in La Tribuna, Archivio Civile, 2001, 9, 1026. 2 Si veda Cass. 21 febbraio 2003, n. 2640, in La Tribuna, Archivio Civile, 2003, 12, 1349. 3 Cass. 9 giugno 1995, n. 2550, in Giust. civ. Mass., 2006. 4 Cass. 26 febbraio 1996, n. 2465, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 466.

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piena ex art. 2733, 2° comma, c.c., può tuttavia essere valutata dal giudice come elemento di prova, al pari di ogni altro comportamento delle parti. Tale sistema probatorio vige tanto nei giudizi avanti il Tribunale ordinario quanto in quelli a-vanti il Tribunale per i Minorenni. Si deve ricordare che la competenza nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità spetta, ai sensi dell’art. 9, 2° comma, c.p.c., al Tribunale ordinario. In tal caso legittimato attivo sarà il presunto figlio, rispetto al quale, ai sensi dell’art. 270 c.c., l’azione per ottenere che sia di-chiarata giudizialmente la paternità naturale è imprescrittibile. Nel caso egli sia morto prima di averla proposta, l’azione può essere promossa dai suoi discendenti legittimi, legittimati o natu-rali riconosciuti, entro il termine di decadenza (non soggetto a sospensioni e interruzioni) di due anni dalla morte. Se invece il figlio muore dopo aver esperito l’azione, questa può essere proseguita dai suoi discendenti. A tale riguardo dottrina e giurisprudenza ritengono che i di-scendenti agiscano iure proprio, facendo valere il proprio interesse personale alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, e non iure ereditario 5. Qualora l’accertamento dello status di figlio naturale riguardi un minore, l’azione dovrà essere promossa, nel suo interesse, dinnanzi al Tribunale per i Minorenni, dal genitore esercente la potestà, o dal tutore. In tale secondo caso dovrà essere richiesta, ex art. 374 c.c., l’autorizza-zione del Giudice Tutelare, il quale potrà anche nominare un curatore speciale, che «una volta nominato è parte necessaria in ogni fase e grado del giudizio medesimo» 6. La giurisprudenza ha chiarito che non è necessario che il genitore dichiari espressamente di agire in nome e per conto del figlio o comunque nell’interesse dello stesso, ma si rende sufficiente che, dal contesto complessivo del ricorso, emerga che il ricorrente agisca nell’interesse del minore 7. Tale interesse, presupposto indispensabile per l’attribuzione della paternità naturale, secondo la Corte di Cassazione, deve essere valutato con riferimento a circostanze concrete, «quali il benefico ampliamento della sfera affettiva sociale ed economica del minore, che può essere escluso dall’accertata condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole al figlio e tale da motivare la decadenza dalla po-testà sullo stesso, ovvero dalla provata esistenza di gravi e fondati rischi, per gli equilibri affettivi e patolo-gici del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale» 8. Ai sensi dell’art. 273 c.c. è inoltre necessario il consenso del minore ultrasedicenne per pro-muovere o per proseguire l’azione. Rispetto a tale previsione la Suprema Corte ha da tempo af-fermato che «il consenso del minore divenuto ultrasedicenne nel corso del giudizio … costituisce re-quisito del diritto all’azione, integratore della legittimazione del genitore, la cui mancanza deve esse-re rilevata anche d’ufficio dal giudice, in quanto importa l’improseguibilità del giudizio e preclude la pronunzia di merito.» 9. Con riguardo al momento della valida prestazione del consenso è stato chiarito che «il consen-so del minore ultrasedicenne alla promozione od alla prosecuzione del giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale può intervenire, quale elemento integratore della capaci-tà processuale, anche dopo che sia stato eccepito il suo difetto», dovendo il giudice verificarne «la sussistenza al momento della decisione» 10.

5 LUCCIOLI, L’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, relazione tenuta all’incontro di studio Diritto civile e penale della famiglia, Catania, 19-21 aprile 2007. 6 Cass. 4 maggio 1995, n. 4857, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 216. 7 V. tra le altre Cass. 29 maggio 1999, n. 5259, in Giust. civ. Mass., 1999, 1216, Cass. 13 aprile 2001, n. 5526, in La Tribuna, Archivio Civile, 2002, 2, 243. 8 Cass. 23 febbraio 1996, n. 1444, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24. 9 Cass. 10 aprile 1998, n. 3721, in Giust. civ. Mass., 1998, 786, Cass. 22 aprile 2000, n. 5291, in Il Sole 24 ore, Guida al diritto, 2000, 24, 53 . 10 Cass. 2 marzo 1993, n. 2576, in Foro it., 1996, I, c. 254, e Cass. 6 maggio 1995, n. 4982, in Giust. civ. Mass., 1995, 958.

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Tale ripartizione di competenze tra il Tribunale per i Minorenni e il Tribunale ordinario, introdotta dalla l. n. 184/1983, che ha modificato l’art. 38 disp. att. c.c., ha inizialmente creato alcune incertezze, sia in punto di rito applicabile, che riguardo alla competenza terri-toriale. Entrambe le questioni sono state risolte dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con una prima pronuncia hanno affermato l’applicabilità del rito camerale ai procedimenti di status avanti il Tribunale per i Minorenni 11, e con una pronuncia successiva hanno stabilito che, nel giudizio di dichiarazione di paternità naturale riguardante i minori, la competenza territoriale va determinata sulla base del foro di residenza del convenuto, e non con riferimento al luogo di residenza del minore, trattandosi di procedimento contenzioso 12. 2. Le indagini ematologiche e genetiche  Le indagini ematologiche e l’esame del DNA sono oggi il mezzo di prova ritenuto più idoneo per l’attribuzione della paternità di un soggetto 13. Il progresso scientifico e l’evoluzione delle ricerche in campo biologico, che hanno permesso di raggiungere elevatissimi gradi di probabilità della paternità, sino a sfiorare il limite della certez-za assoluta 14, hanno indotto la giurisprudenza di legittimità a ritenere gli accertamenti emato-logici e genetici un mezzo ordinario di prova, e non più uno strumento eccezionale, da ammet-tere solo ove non sia altrimenti possibile accertare i fatti di causa. Fondamentale per lo sdoganamento di tali indagini scientifiche nei giudizi di dichiarazione di paternità naturale è stata la nota sentenza n. 6400/1980, con la quale la Suprema Corte affermò che «in tema di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale il venir meno dell’elen-cazione tassativa delle ipotesi in cui l’azione era consentita nella previgente disciplina dell’art. 269 c.c., ed alla illimitata ammissibilità dei mezzi di prova deve corrispondere l’opportunità di acquisire il maggior numero di dati possibili, specie di quelli che offrono un riscontro obiettivo, fermo restando che la loro attendibilità rimane sottoposta alla valutazione del giudice» 15. Da allora l’orientamento della Corte di Cassazione è stato di assoluto favore nei confronti della CTU ematologica, anche in contrasto con i generali principi vigenti nel nostro ordinamento in materia di consulenza tecnica. Infatti, se di norma il consulente tecnico ha il compito di valutare i fatti già accertati o dati per esistenti, dovendo il giudice escludere la CTU «qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova» 16, viceversa nei procedimenti relativi al-l’accertamento della paternità la Suprema Corte ammette oggi la consulenza tecnica ematica, prescindendo da tali limiti relativi all’onere della prova, e ciò in quanto, come detto, la ritiene

11 Cass., S.U., 19 giugno 1996 n. 5629, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. 12 Cass. Sez. Unite 7 febbraio 1992, n. 1374, in Foro it., 1992, I, c. 679, che afferma che: «in materia di azione di dichiara-zione giudiziale di paternità e maternità naturale, riguardante minori … la competenza territoriale spetta al tribunale per i mi-norenni del luogo di residenza del convenuto». Tale interpretazione è stata anche confermata da Corte Costituzionale 19 giugno 1998, n. 228, in Cons. Stato, 1998, II, p. 798. 13 Cass. 17 febbraio 2006, n. 3563, in Fam., pers. e succ., 2006, 6, p. 557. 14 La giurisprudenza ritiene indice di sufficiente certezza una percentuale superiore al 99,97%, ma con tali strumenti di in-dagini si raggiunge una probabilità pari anche al 99,99%. In ogni caso non si esclude il valore indiziario di percentuali infe-riori al fine di integrare gli altri elementi probatori acquisiti nel processo. 15 Cass. 11 dicembre 1980, n. 6400, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. 16 Da ultimo cass. 8 febbraio 2012, n. 1769, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24.

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«lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’accertamento del rapporto di filiazione» 17. La giurisprudenza ha più volte affermato che nell’azione di accertamento giudiziale della pater-nità «il giudice non è tenuto a seguire alcun ordine gerarchico o cronologico nell’ammissione ed as-sunzione dei mezzi di prova ben potendo egli disporre, senza ulteriori passaggi, una consulenza tecni-ca d’ufficio di natura ematologico-immunogenetica, sulle cui conclusioni, unitamente agli altri ele-menti probatori acquisiti, può fondare la propria decisione» 18. Il ricorso alle prove ematologiche è comunque sempre rimesso alla libera valutazione del giudi-ce, che – ne consegue – può ritenerle superflue ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il suo convincimento 19. L’esame del DNA può essere disposto dal giudice su istanza di parte, ovvero d’ufficio 20, e, fer-ma restando l’inviolabilità della persona e l’incoercibilità del prelievo ematico, il rifiuto ingiusti-ficato di sottoporsi all’esame ematologico costituisce comportamento valutabile ai sensi del 2° comma dell’art. 116 c.p.c. 21. Ha più volte affermato la Suprema Corte che «il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116, se-condo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la na-tura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso geni-tore naturale … non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal compor-tamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in op-portuna correlazione con le dichiarazioni della madre» 22. Nel contesto delineato, a parere di chi scrive, sembra lecito domandarsi se tale mezzo istrutto-rio possa essere disposto dal giudice anche in assenza di qualunque altra allegazione probatoria, seppur meramente indiziaria, relativa non solo alla sussistenza del preteso vincolo di paternità, ma anche alla relazione tra la madre ed il preteso padre al tempo del concepimento, esoneran-do di fatto in toto l’attore da ogni onere probatorio. La giurisprudenza non sembra essersi espressa con chiarezza sul punto. Peraltro, appare del tutto condivisibile l’opinione di chi ha sostenuto la possibilità, quanto meno, di una condanna ex art. 96 c.p.c., in caso di esito negativo del test 23. Si ritiene infatti che la funzio-ne di protezione del convenuto da iniziative temerarie, vessatorie o comunque infondate – che era stata posta dal legislatore a fondamento della previsione di cui all’art. 274 c.c., oggi abrogato –

17 Cass. 17 febbraio 2006, n. 3563, cit. 18 Cass. 2 luglio 2007, n. 14976, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. Peraltro si segnale che alcuna giurisprudenza di merito ha anche ammesso la possibilità per il giudice di disattendere le risultanze dell’esame ematologico nel caso in cui queste non trovino riscontro negli elementi acquisiti durante l’istruttoria. (v. Trib. per i minorenni L’Aquila, 8 novembre 2000, in Famiglia e diritto, 2001, p. 549). 19 Cass. 25 febbraio 2002, n. 2749, in Famiglia e diritto, 2002, p. 315. 20 Si ritiene che la giurisprudenza ammetta tale possibilità in forza della previsione dell’art. 118 c.p.c. secondo cui l’ispezione può essere disposta anche ex officio. 21 Si veda tra le altre Cass. 27 agosto 1997, n. 8059, in Famiglia e diritto, 1998, p. 79, che ha affermato: «nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) naturale, in tema di prova, se la volontà di sottoporsi al pre-lievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiu-to, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c.». 22 Cass. 24 marzo 2006, n. 6694, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. 23 GAZZONI, “Una sentenza con motivazione suicida da inumare (figlio naturale dichiarato, cadavere esumato e testamento revo-cato”, in Diritto di famiglia e delle persone, 2008/4.

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debba ancora essere perseguita. La stessa Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità del giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, ha affermato che «L’evoluzione della disciplina procedimentale del giudizio di ammissibilità ha … totalmente vanifica-to la funzione in vista della quale tale procedimento era stato originariamente previsto dal legislatore, e cioè la protezione del convenuto da iniziative «temerarie e vessatorie» perseguita attraverso la som-marietà e la segretezza della cognizione», che si presta invece «ad incentivare strumentalizzazioni, oltre che da parte del convenuto, anche da parte dello stesso attore che, attraverso una accurata pro-grammazione della produzione probatoria, è in grado di assicurarsi, non essendo il provvedimento di inammissibilità suscettibile di passare in giudicato, una reiterabilità, a tempo indeterminato, della i-stanza di riconoscimento, con la conseguenza che, proprio a fronte di iniziative effettivamente vessato-rie, il convenuto potrebbe non esserne mai definitivamente al riparo» 24. In tal modo verrebbe adeguatamente garantito il bilanciamento dei diversi interessi in questio-ne: il diritto all’identità del figlio da un lato, e i diritti fondamentali della persona del presunto padre dall’altro. Diversamente, l’indiscriminato ricorso alle indagini ematologiche e genetiche, anche in assen-za del minimo indizio sulla paternità del convenuto, rischia di comportare un aggravamento della posizione processuale del preteso padre, tale da porre dei dubbi di legittimità costituzio-nale. Al riguardo è stata anche sottolineata la disparità di trattamento, rispetto alla filiazione (sia na-turale che legittima), che il nostro ordinamento riserva ai due genitori. Se la donna può benefi-ciare del diritto al parto anonimo, opponibile, ex art. 28, 7° comma, l. sull’adozione, anche al figlio ultraventicinquenne che intenda conoscere l’identità dei propri genitori biologici, vice-versa l’uomo non può rifiutare la paternità 25. Tale discriminazione di genere tra il padre e la madre era presente anche nell’ordinamento francese, che tuttavia nel 2005 ha deciso di porvi rimedio, favorendo la tutela del diritto allo status, e ha così abrogato la previsione dell’art. 325 code civil relativa al diritto della madre di non essere nominata, con la conseguenza che oggi l’azione di ricerca del rapporto di filiazione è ammissibile anche nei confronti della madre che abbia scelto il parto anonimo 26. Si segnala che la Corte Costituzionale, se non sul punto, ha però avuto modo di pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c. nella parte in cui non prevede a favore del padre garanzie analoghe a quella prevista per la madre dalla legge sulla interruzione della gravi-danza. La Consulta ha ritenuto la questione sollevata manifestamente infondata, affermando che l’interesse della donna non può essere assimilato all’interesse di colui che intenda sottrarsi alla responsabilità genitoriale, negando la propria volontà alla procreazione, atteso che nel caso della dichiarazione giudiziale di paternità l’interesse prevalente è quello del figlio 27. 3. Il caso di esumazione della salma  In caso di intervenuto decesso del presunto padre, la domanda per la dichiarazione di paternità naturale può essere proposta, ai sensi dell’art. 276 c.c., nei confronti dei suoi eredi. In merito all’individuazione di questi ultimi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono

24 Corte Cost. 10 febbraio 2006, n. 50, in Corr. giur., 2006, 4, p. 497. 25 FERRANDO, “Il disconoscimento di paternità”, in Quaderno Aiaf, 2006/2, 51. 26 CARBONE, in “Commentario del codice civile della famiglia”, a cura di Luigi Balestra, Milano, 2010, p. 522. 27 Corte Cost. 20 luglio 1990, n. 341, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. V. anche Cass. 15 marzo 2002, n. 3793, in Giust. civ. Mass., 2002, p. 461.

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state chiamate a comporre il contrasto interpretativo in ordine alla possibilità o meno di inclu-dere in detta categoria gli eredi degli eredi del preteso padre. Con sentenza 3 novembre 2005 n. 21287 le Sezioni Unite, ritenendo insuperabile il dettato lette-rale dell’art. 276 c.c., hanno affermato che «contraddittori necessari, passivamente legittimati, in or-dine alla azione per dichiarazione giudiziale di paternità naturale sono, ex art. 276 c.c., in caso di mor-te del genitore, esclusivamente i “suoi eredi”, e non anche gli eredi degli eredi di lui od altri soggetti, co-munque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, cui è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi» 28. Restando in tema di legittima-zione passiva, ci si è posti il problema della sussistenza o meno di un litisconsorzio necessario del-la madre, nel giudizio di dichiarazione di paternità naturale promosso dal figlio (maggiorenne) nei confronti del preteso padre, rispetto al quale l’orientamento della giurisprudenza è ormai da anni consolidato nel ritenere che il rapporto di filiazione naturale sia «strutturato separatamente con riguardo a ciascuno dei genitori naturali individualmente, senza che sia previsto il litisconsorzio ne-cessario dell’altro genitore … La madre, esclusa la qualità di contraddittore necessario, ha soltanto la facoltà di intervenire, come chiunque vi abbia interesse, ai sensi dell’art. 276 c.c.» 29. Con riguardo alla prova del rapporto di filiazione nel caso di intervenuto decesso del presunto padre, l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è favorevole all’esumazione del cadavere dello stesso, al fine di prelevarne il DNA 30 e ciò anche laddove siano trascorsi nu-merosi anni dalla morte. Si segnala una pronuncia relativamente recente 31, con la quale la Suprema Corte ha cassato la de-cisione della Corte d’Appello di Catania, la quale non aveva disposto la CTU genetica ritenendo che «l’indiscutibile divergenza» delle risultanze probatorie offerte dall’attore «rende ultroneo e de-fatigatorio l’eventuale espletamento delle indagini ematologiche e genetiche, dovendosi, tra l’altro, con-siderare che l’avvenuto decesso già da moltissimi anni sia del presunto padre che della madre naturale rende le indagini, oltre che assai dispendiose e difficoltose, quasi certamente insuscettibili di condurre a risultati di relativa certezza o, comunque, di elevato grado di probabilità» 32. Il giudice di legittimità ha al contrario affermato che «il decesso del presunto padre (e nella specie anche della madre naturale) non è di ostacolo all’esperimento, previa esumazione delle salme, di tale prova scientifica» 33. Inoltre, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha precisato che «il quadro proba-torio – per come riferito dalla stessa sentenza impugnata – si caratterizza per il fatto che la doman-da giudiziale, pur non manifestamente infondata, è stata rigettata, non per totale mancanza di pro-ve 34, ma solo in riferimento alla non univocità e alla discordanza tra gli elementi acquisiti» 35. Come viene sottolineato nella citata pronuncia, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo – nell’affrontare un caso di richiesta di prelievo di campioni del DNA dalla salma di un uomo nell’ambito di un’azione di accertamento della paternità – ha affermato la centralità del diritto

28 Cass. S.U., 3 novembre 2005, n. 21287, in Foro it., 2006, 3, p. 740. 29 Cass. 4 dicembre 1989, n. 5340 e Cass. 30 marzo 1994, n. 3143, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. 30 Cass. 9 giugno 2005, n. 12166, in CED Cassazione, 2005, Cass. 16 aprile 2008, n. 10007, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24. 31 Cass. 16 aprile 2008, n. 10007, cit. 32 Si fa presente che nel caso di specie la CTU non era stata richiesta dall’attore, che aveva fondato la propria domanda so-lo su prove testimoniali relative alla fama e al tractatus, salvo poi ricorrere in Cassazione, sostenendo l’illegittimità della motivazione con la quale il giudice del gravame aveva escluso di disporre le indagini ematologiche d’ufficio. 33 Cass. 16 aprile 2008, n. 10007, cit. 34 Dal che si potrebbe cercare di desumere che, in caso di totale mancanza di prove, correttamente il giudice dovrebbe e-scludere le indagini ematologiche e genetiche. 35 Cass. 16 aprile 2008, n. 10007, cit.

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di conoscere la propria discendenza (ricompreso nel più ampio diritto all’identità), che secon-do la Corte di Strasburgo non può ritenersi venir meno con l’avanzare dell’età, nonché la scarsa invasività del prelievo di campioni di DNA dalle spoglie del defunto 36. In ogni caso, anche l’esumazione del cadavere non può essere imposta coattivamente dal giudi-ce, atteso che, così come il preteso padre deve dare il consenso al prelievo ematico, dovendosi tutelare la libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost., altrettanto gli eredi devono dare il con-senso all’esumazione o estumulazione, posto a tutela del loro diritto alla pietà per i defunti, anch’esso di rilevanza costituzionale ex art. 2 Cost. Tuttavia anche in tal caso il rifiuto immotivato può essere apprezzato dal giudice ai sensi del-l’art. 116 c.p.c. Nel caso di decesso del preteso padre naturale, un’alternativa all’esumazione del cadavere, per poter comunque giungere all’accertamento del rapporto di filiazione, è quella di effettuare le indagini genetiche sugli eredi, convenuti in giudizio 37. Peraltro, la possibilità di esperire tale indagine è subordinata alla specificità del caso concreto, in quanto diverse sono le tipologie di esami genetici eseguibili, a seconda del sesso delle perso-ne il cui DNA deve essere comparato. Laddove il preteso figlio naturale sia di sesso maschile, potrebbe essere sufficiente che tra gli eredi del presunto padre vi sia un maschio, così da poter esperire il test del profilo genetico dei polimorfismi del cromosoma Y (trasmesso a ogni figlio maschio dal proprio padre), che per-metterebbe di accertare, con elevati gradi di probabilità, il legame biologico tra i due fratelli. Qualora invece a promuovere l’azione di dichiarazione di paternità naturale sia un individuo di sesso femminile, sarà necessaria la presenza, tra i convenuti, di un’altra femmina, onde poter fare ricorso al test del profilo genetico dei polimorfismi del cromosoma X, con il quale si com-parano i profili di DNA delle due sorelle. Tuttavia, in questo secondo caso, per poter raggiun-gere soddisfacenti livelli di probabilità, si dovrebbe aggiungere alla comparazione anche il DNA della madre di almeno una delle due donne, per poter ritenere che il cromosoma X in comune sia quello trasmesso dal padre. 4. Conseguenze sul piano ereditario  Risulta di immediata evidenza che la pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità com-porti conseguenze successorie di non poco conto, in particolare se tale pronuncia interviene in un periodo successivo alla morte del genitore naturale. L’orientamento della giurisprudenza è infatti consolidato nel ritenere che «il termine decennale di prescrizione del diritto di accettare l`eredità stabilito dalla norma dell`art. 480 cod. civ., decorre per il figlio naturale, nell`ipotesi di dichiarazione giudiziale del rapporto di filiazione, dalla data di tale dichiarazione, se successiva all`apertura della successione, e non dalla data di quest`ultima, in quanto, pur retroagendo gli effetti della dichiarazione giudiziale di paternità al momento della aper-tura della successione, il figlio naturale versa nell`impossibilità giuridica e non di mero fatto di accet-tare l`eredità del genitore fino a quando tale dichiarazione non è pronunciata» 38. Peraltro, tale assetto normativo è certamente gravoso per i coeredi, laddove l’azione per l’ac-certamento della paternità naturale venga promossa dal figlio numerosi anni dopo l’apertura

36 Sentenza 13 luglio 2006, Jaggi c. Svizzera. 37 Cass. 16 aprile 2008, n. 10051, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24. 38 Cass. 12 marzo 1986, n. 1648, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24, Cass. 8 gennaio 2010, n. 1, in Il Sole 24 ore, Mass. Rep. Lex24

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della successione, atteso che l’azione di cui all’art. 269 c.c. è imprescrittibile, così come, ai sensi dell’art. 533, 2° comma, c.c., è imprescrittibile l’azione di petizione di eredità. Resta da capire se possa essere opposta l’intervenuta usucapione dei singoli beni, secondo quanto previsto dallo stesso art. 533, 2° comma, c.c. Per ammettere che l’usucapione possa decorrere contro il preteso figlio naturale è possibile fare riferimento ad una pronuncia della Suprema Corte che, pur avendo respinto l’eccezione (in quanto nel caso di specie era stata invocata l’usucapione abbreviata), aveva ritenuto idonea all’interruzione civile dell’usucapione la domanda di rilascio di beni ereditari proposta dai figli del de cuius, in pendenza del giudizio di accertamento del loro stato di figli naturali, dando così implicitamente atto che l’usucapione stava maturando 39. Diversamente opinando, gli eredi del de cuius verrebbero a trovarsi in un’intollerabile situazio-ne di incertezza giuridica, in netto contrasto con i principi posti alla base delle norme sul diritto di proprietà, oltre che in una posizione di netto svantaggio rispetto al preteso figlio naturale.

39 Cass. 21 marzo 1990, n. 2326, in Foro it., I, c. 2182, v. anche Trib. Modena 13 ottobre 2005, n. 1809, pubblicata sul sito della Fondazione Forense modenese dell’Ordine degli Avvocati di Modena.