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SEPARAZIONE E DIVORZIO Curatore: Maria Elena Casarano martedì 15 marzo 2016 Contributi di: Valentina Azzini, Marco Borriello, Maria Elena Casarano, Alessandra Castellino, Angelo Greco, Raffaella Mari, Maria Monteleone, Noemi Secci, Vincenzo Rizza.

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SEPARAZIONE E DIVORZIO

Curatore: Maria Elena Casarano martedì 15 marzo 2016

Contributi di: Valentina Azzini, Marco Borriello, Maria Elena Casarano, Alessandra Castellino, Angelo Greco, Raffaella Mari, Maria Monteleone, Noemi Secci, Vincenzo Rizza.

SEPARAZIONE E DIVORZIO

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SOMMARIO

Presentazione: ................................................................................................................................. 4

INTOLLERABILITA’ DELLA CONVIVENZA ..................................................................................... 5

L’ABBANDONO DEL TETTO CONIUGALE di Maria Elena Casarano ......................................... 5

LA SEPARAZIONE DI FATTO di Maria Elena Casarano ........................................................... 8

TEMPI E MODI PER SEPARARSI E DIVORZIRE ......................................................................... 11

LA SEPARAZIONE CONSENSUALE ......................................................................................... 11

Il DIVORZIO ............................................................................................................................... 16

IL DIVORZIO IMMEDIATO ......................................................................................................... 18

SEPARAZIONE E DIVORZIO SE MANCA L’ACCORDO ........................................................... 19

LA MODIFICA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ...................................... 20

L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE ........................................................................................... 22

COS’E’ E COSA COMPORTA .................................................................................................... 22

LE CAUSE .................................................................................................................................. 22

IL TRADIMENTO di Maria Elena Casarano ................................................................................ 24

LA RELAZIONE PLATONICA SU FACEBOOK di Vincenzo Rizza............................................. 29

Il REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA ............................................................................ 31

LA COMUNIONE DEI BENI ........................................................................................................ 31

LA SEPARAZIONE DEI BENI .................................................................................................... 34

COMUNIONE O SEPARAZIONE: COSA SCEGLIERE? di Valentina Azzini ............................. 36

Il FONDO PATRIMONIALE ........................................................................................................ 37

FONDO PATRIMONIALE E DIVORZIO: un vincolo a tempo indeterminato? di Vincenzo Rizza 41

GLI EFFETTI ECONOMICI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO ........................................ 43

L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DIVORZILE PER IL CONIUGE di Maria Elena Casarano43

LA RIVALUTAZIONE DEGLI ASSEGNI di Maria Elena Casarano ............................................. 49

Il TFR di Marco Borriello ............................................................................................................ 51

Il CONIUGE SEPARATO NON HA DIRITTO AL TFR MATURATO DALL’ALTRO di Alessandra

Castellino .................................................................................................................................... 52

DOPO LA SEPARAZIONE CHI PAGA TUTTE LE SPESE LE BOLLETTE E LE RATE? di Maria

Elena Casarano .......................................................................................................................... 54

IMU TARI E TASI: CHI LE PAGA IN CASO DI SEPARAZIONE? di Alessandra Castellino ....... 57

LE DETRAZIONI FISCALI .......................................................................................................... 58

GLI ASSEGNI FAMILIARI .......................................................................................................... 63

A chi spettano in caso di separazione o divorzio? di Alessandra Castellino ............................... 63

Assegni familiari: possono coprire parte del mantenimento? di Maria Elena Casarano ............. 64

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LA TUTELA DEI FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE E IL DIVORZIO .............................................. 65

L’ASCOLTO DEL MINORE di Maria Elena Casarano ................................................................ 65

L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI ........................................................................ 70

Criteri per la determinazione di Maria Elena Casarano .............................................................. 70

LE SPESE STRAORDINARIE PER I FIGLI di Raffaella Mari ..................................................... 73

IL MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI di Maria Monteleone ...................................... 77

L’AFFIDAMENTO DEI FIGLI: condiviso o esclusivo? di Maria Elena Casarano ........................ 79

LA CASA FAMILIARE .................................................................................................................... 87

A CHI SPETTA IN CASO DI SEPARAZIONE? di Maria Elena Casarano .................................. 87

CAMBIO DELLE SERRATURE: E’ LECITO? di Maria Elena Casarano ..................................... 92

IL PRELIEVO DI BENI DALLA CASA CONIUGALE DOPO LA SEPARAZIONE di Maria Elena

Casarano .................................................................................................................................... 94

Il CAMBIO DI RESIDENZA CON I FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE di Maria Elena Casarano 97

LE PROVE NEL PROCESSO (Mantenimento e addebito) .......................................................... 105

COME FARE PER PROVARE I GUADAGNI IN NERO DEL CONIUGE di Maria Elena Casarano

.................................................................................................................................................. 105

Delega delle indagini alla polizia tributaria: solo a discrezione del giudice ............................... 108

LA PROVA DELL’INFEDELTA’ AI FINI DELL’ ADDEBITO ...................................................... 110

POSSIBILE L’ADDEBITO PER TRADIMENTO VIRTUALE? di Angelo Greco ......................... 111

LA TUTELA DEL CREDITO DEL CONIUGE SEPARATO/DIVORZIATO .................................... 113

SE IL CONIUGE NON VERSA IL MANTENIMENTO: CHE FARE? di Maria Elena Casarano . 113

L’ORDINE DI PAGAMENTO DIRETTO AL TERZO di Maria Elena Casarano ......................... 116

REVOCABILITA’ DEL PASSAPORTO AL GENITORE CHE NON VERSA IL MANTENIMENTO

di Maria Elena Casarano .......................................................................................................... 118

MANTENIMENTO DEL MINORE: SE NON PAGA IL GENITORE SPETTA AI NONNI ........... 119

I DIRITTI SUCCESSORI .............................................................................................................. 120

CONIUGI SEPARATI: CHE ACCADE IN CASO DI MORTE E SUCCESSIONE EREDITARIA? di

Angelo Forte ............................................................................................................................. 120

PENSIONE DI REVERSIBILITA’ SEPARATI E DIVORZIATI, A CHI SPETTA? di Noemi Secci

.................................................................................................................................................. 121

Il DRITTO DI ABITAZIONE SULLA CASA CONIUGALE di Maria Elena Casarano ................ 123

L’ASSEGNO DI DIVORZIO A CARICO DELL’EREDITA’ di Maria Elena Casarano ................. 124

GLI STRUMENTI PER L’ACCORDO ........................................................................................... 127

LA MEDIAZIONE FAMILIARE di Maria Elena Casarano .......................................................... 127

LA PRATICA COLLABORATIVA di Maria Elena Casarano ...................................................... 129

LA RICONCILIAZIONE DEI CONIUGI ......................................................................................... 132

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PRESENTAZIONE:

Il presente lavoro è concepito e realizzato con lo scopo di affrontare, con approccio eminentemen-

te pratico, il tema della separazione e del divorzio, attraverso una raccolta delle guide e degli arti-

coli più rappresentativi pubblicati a riguardo dal portale “La Legge per Tutti”.

Il lavoro è strutturato in capitoli partendo dal problema della INTOLLERABILITA’ DELLA CONVI-

VENZA (causa primaria delle istanze di separazione) e delle conseguenze da essa scaturenti pri-

ma che i coniugi si rivolgano al giudice (abbandono del tetto coniugale e separazione di fatto) per

finire con il tema della RICONCILIAZIONE e dell’ACCORDO dei coniugi e degli strumenti paragiu-

ridici (mediazione familiare e pratica collaborativa) utili per il loro raggiungimento.

I vari capitoli si soffermano specificamente su TEMPI e MODALITA’ PER SEPARARSI, DIVOR-

ZIARE e MODIFICARE le condizioni della separazione e del divorzio sia in caso dei procedura

consensuale (ricorso al giudice, negoziazione assistita, procedimento al Comune) che giudiziale;

sul REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA e gli effetti della separazione e del divorzio su

quello prescelto; sull’ ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE e i suoi presupposti e conseguenze;

sugli EFFETTI ECONOMICI e FISCALI di separazione e divorzio (assegno di mantenimento, spe-

se e oneri gravanti sui coniugi separati e divorziati); sulla TUTELA DEI FIGLI sia in merito agli

aspetti patrimoniali (mantenimento e spese straordinarie) che personali (ascolto e forme di affida-

mento); sui presupposti e le conseguenze dell’assegnazione della CASA CONIUGALE e sul pro-

blema del trasferimento coi figli dopo la separazione; sul tema delle PROVE NEL PROCESSO sia

con riguardo al tema dell’addebito (prova della infedeltà coniugale) sia alle richieste economiche

(prova dei redditi effettivi percepiti dai coniugi); sulle forme di tutela in caso di MANCATO VER-

SAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO per coniuge e figli da parte del soggetto obbli-

gato al versamento; sui DIRITTI SUCCESSORI spettanti al coniuge separato e divorziato.

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INTOLLERABILITA’ DELLA CONVIVENZA

In presenza di motivi che rendono intollerabile la vita coniugale (infedeltà, disinteresse, violenze),

non sempre la scelta dei coniugi è quella di ricorrere al giudice per separarsi. A volte si decide di

lasciare la casa coniugale o di separarsi di fatto. Con quali conseguenze?

L’ABBANDONO DEL TETTO CONIUGALE

di Maria Elena Casarano

E’ facile che la decisione di lasciare la casa coniugale venga presa con una certa dose di legge-

rezza.

Conseguenze sul piano penale

Anche se l’abbandono del tetto coniugale non costituisce più un reato, si tratta in ogni caso di un

errore in quanto la legge penale [1] punisce la condotta di chi abbandona il “domicilio domesti-

co” quando da essa derivi una violazione degli obblighi di assistenza familiare, cioè di quegli ob-

blighi connessi non solo al mantenimento economico dei membri della famiglia, ma anche a quelli

di assistenza morale.

La norma penale fa riferimento non solo al comportamento del coniuge ma anche del genitore il

quale lasci la casa o porti una condotta contraria alla morale della famiglia.

Non è, tuttavia, sufficiente ad integrare il reato un temporaneo allontanamento dalla casa fami-

liare, perché comunque occorre la volontà di non far ritorno a casa per un tempo indeterminato

sottraendosi, al contempo, ai doveri di assistenza morale e materiale nei confronti dei familiari.

La pena prevista in questo caso è quella della reclusione fino a 1 anno o la multa da 103 a 1032

euro.

A riguardo, la Cassazione ha, però, chiarito che l’ abbandono del tetto coniugale è punibile come

reato solo se alla base dell’allontanamento manca una giusta causa; posto, infatti, che il reato si

perfeziona solo se il soggetto si sottrae agli obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti

del coniuge abbandonato, ha evidenziato che, poiché – per l’evoluzione del costume sociale – la

qualità di coniuge non è più una condizione permanente, ma modificabile per la volontà anche di

uno solo di rompere il matrimonio, “la manifestazione di tale volontà può essere idonea a inter-

rompere senza colpa e senza effetti penalmente rilevanti taluni obblighi, tra i quali quello della

coabitazione” [2].

In altre parole, affinché l’abbandono del tetto domestico non sia punibile, occorre che la scelta di

andar via si basi su una giusta causa (che naturalmente deve essere provata) che abbia reso in-

tollerabile la convivenza familiare; si pensi, a riguardo, ai litigi ricorrenti fra i coniugi, al subire vio-

lenze fisiche o psicologiche di varia natura, alla violazione dell’obbligo di fedeltà del partner, alla

continua invadenza di altri familiari nelle scelte della coppia.

A riguardo, il deposito di una domanda di separazione al tribunale costituisce di per sé giusta

causa di allontanamento e non integra più il reato.

Resta, in ogni caso, ferma la condizione di non far mancare al familiare (e quindi anche i figli) il

necessario supporto economico e morale.

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Conseguenze sul piano civile

Anche sotto il profilo civile, la scelta di lasciare la casa può avere delle conseguenze che, nello

specifico, scaturiscono dal fatto che uno degli obblighi che derivano dal matrimonio è quello alla

coabitazione [3].

Val la pena precisare, a riguardo, che la condotta dell’allontanamento non può essere punita

quando la scelta di non abitare sotto lo stesso tetto sia approvata dai coniugi, i quali sono natu-

ralmente liberi di concordare insieme l’indirizzo della vita familiare [4] (si pensi alla scelta di tutti

coloro che accettano di lavorare in un’altra città, riunendosi con la famiglia solo nei w.e.).

Diversamente, qualora manchi il consenso reciproco, l’abbandono della casa familiare costituisce

di per sé violazione di un obbligo matrimoniale e di conseguenza è causa di addebito della sepa-

razione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza.

Alla pronuncia di addebito consegue, quale immediato effetto pratico, la perdita dell’eventuale

diritto a un assegno di mantenimento ma non (ove ne sussistano i presupposti economici) il diritto

di ricevere gli alimenti che – a differenza dell’assegno di mantenimento – presuppongono uno sta-

to di effettivo bisogno e l’impossibilità di poter provvedere ai bisogni di vita essenziali.

L’addebito è escluso quando la parte che abbia abbandonato il domicilio domestico provi che tale

abbandono:

– sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge (come nel caso di violenze perpetra-

te da quest’ultimo)

– o sia intervenuto quando l’intollerabilità della convivenza si sia già verificata e ne sia, perciò, un

semplice effetto: si pensi al caso in cui il rapporto sia connotato da frequenti litigi domestici con la

suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniu-

gi [5].

In pratica, dinanzi ad una richiesta di addebito, chi ha abbandonato la casa coniugale dovrà pro-

vare, analogamente a quanto avviene in sede penale, la sussistenza di una giusta causa di al-

lontanamento e che esso è stato solo la conseguenza di una preesistente situazione di intollera-

bilità della convivenza.

Tale preesistente intollerabilità può consistere anche nella semplice disaffezione al matrimonio

che abbia reso incompatibile la coabitazione. Come ha infatti chiarito la Cassazione a più riprese

[6] l’abbandono del tetto coniugale non comporta una dichiarazione di addebito della separazione

quando ormai la disgregazione della famiglia è irreversibile.

L’unico caso in cui è ammissibile l’abbandono del tetto coniugale senza necessità di addurre ulte-

riori prove è quello in cui sia stata proposta domanda di separazione.

In tal caso il consiglio rimane quello di:

– attendere la prima udienza nella quale il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere se-

paratamente (sempre che la situazione oggettiva non lo sconsigli, come appunto nel caso di vio-

lenze in famiglia);

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– o concordare col coniuge per iscritto l’allontanamento di uno dei due dalla residenza.

In tali ipotesi, infatti, è da escludere la possibilità che la circostanza dell’allontanamento possa es-

sere utilizzata ai fini di una richiesta di addebito.

In tutti gli altri casi, l’abbandono volontario e definitivo della casa familiare da parte di uno dei co-

niugi, implica di fatto la cessazione degli obblighi connaturati alla convivenza, sicché grava su chi

si è allontanato l’onere di provare che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di

una situazione d’intollerabilità della coabitazione [7]. Prova che, peraltro, è richiesta in forma an-

cor più rigorosa quando l’allontanamento riguardi pure i figli, dovendosi specificamente e adegua-

tamente dimostrare, anche riguardo a essi, la situazione d’intollerabilità [8].

Se si lascia la casa dopo la separazione

L’ allontanamento può produrre delle conseguenze sul piano civile quando sia posto in essere

dopo la separazione.

Non è infrequente, ad esempio, che l’assegnatario della casa familiare, pur potendo avere la piena

disponibilità dell’immobile, scelga di trasferirsi altrove insieme ai figli. A riguardo, la legge [9] pre-

vede espressamente che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che

l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”.

Il venir meno, tuttavia, non è automatico ma deve essere oggetto di una espressa richiesta di re-

voca dell’assegnazione, dinanzi alla quale il giudice deve verificare che il provvedimento richiesto

non contrasti con i preminenti interessi della eventuale prole affidata o convivente con

l’assegnatario.

Se, poi, è il figlio maggiorenne (convivente col genitore assegnatario) a lasciare la casa, tale

circostanza determinerà il diritto dell’altro genitore a chiedere – anche in questo caso – la revoca

del provvedimento di assegnazione dell’immobile.

Affinché non venga meno il diritto all’assegnazione occorre, infatti, che sia mantenuto fermo tra

assegnatario e figli il requisito della coabitazione; ciò in quanto l’assegnazione della casa familia-

re richiede la necessaria persistenza di una luogo inteso come centro degli affetti, degli interessi e

delle consuetudini in cui si esprime e, si è espressa, la vita familiare. Dunque, essa è disposta dal

giudice con lo scopo di assicurare ai figli una sorta di continuità con detto ambiente; ove ciò non

sia possibile in quanto i figli si siano allontanati da tale dimora, l’assegnazione non avrebbe più ra-

gion d’essere [10] .

[1] Art 570 cod. pen.

[2] Cfr. Cass. sent. n. 12310/12.

[3] Art. 143 cod. civ.

[4] Art. 144 cod. civ.

[5] Cass. n. 4540/11.

[6] Cass. sent. n. 16285/13, n. 2183/13; Cass. n. 2011/11.

[7] Cass., sent. n. 2059/12.

[8] Cass. n. 10719/13.

[9] Art. 337-sexies cod. civ.

[10] Cass. sent. n. 4555/12.

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LA SEPARAZIONE DI FATTO

di Maria Elena Casarano

In generale, la legge disciplina in via esclusiva la separazione legale (consensuale o giudiziale che

sia); al contrario, la separazione di fatto (cioè l’interruzione della convivenza coniugale posta in

essere da marito e moglie in via di fatto) non determina, in via automatica, delle conseguenze giu-

ridiche e quindi legittima ciascun coniuge a domandare in qualsiasi momento la ripresa della con-

vivenza.

Efficacia della scrittura privata

Ciò non esclude che i coniugi possano sottoscrivere una scrittura privata: in tal caso, essa prove-

rebbe la sussistenza di un comune accordo in merito alla separazione, mettendo al riparo ciascu-

no dall’ eventuale rischio di una successiva domanda di separazione con addebito, tesa ad attri-

buire la responsabilità all’altro della rottura del matrimonio.

Come abbiamo visto, infatti, l’abbandono della casa coniugale posto in essere senza giusta causa

determina conseguenze sia sul piano civile che penale, salvo il caso in cui sia stata depositata

una domanda di separazione al tribunale o, quantomeno, sia stato informato il coniuge

dell’intenzione di lasciare il domicilio coniugale e di separarsi, motivando con una lettera le gravi

ragioni della propria scelta (condizioni queste che rappresentano una giusta causa di allontana-

mento).

Nello specifico, i coniugi, prima ancora di rivolgersi al giudice, possono mettere nero su bianco un

accordo con cui regolamentare la loro separazione. Si tratta, cioè, di un contratto valido a tutti gli

effetti, se pur entro determinati limiti.

Possono quindi ben essere possibili tanto degli accordi anteriori, che contemporanei, ma anche

successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell’atto notarile. Si

pensi al caso in cui marito e moglie, nelle more della fissazione dell’udienza di separazione con-

sensuale, decidano già di dividersi i mobili e gli arredi della casa coniugale.

Contenuto degli accordi

La libera negoziabilità delle parti è, tuttavia, da escludersi con riferimento ai diritti e doveri coniu-

gali di carattere non patrimoniale, quali la fedeltà, la coabitazione, l’assistenza morale e la collabo-

razione, come pure con riferimento ai diritti di libertà e i diritti personalissimi dei componenti la

famiglia: gli sposi, infatti, non possono derogare ai diritti e doveri previsti dalla legge per effetto del

matrimonio (cosiddetta clausola di ordine pubblico) [1].

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Per quanto riguarda, invece, i rapporti patrimoniali tra coniugi, la Cassazione ha ribadito proprio

di recente la piena validità della clausola o del contratto di trasferimento di immobili tra i coniugi

[2]. Al pari vi è un generale pieno diritto di ciascun coniuge a rinunciare al mantenimento; tuttavia,

è da considerare indisponibile il diritto agli alimenti [3] che presuppone, invece, uno stato di biso-

gno. Ciò in quanto il diritto al sostentamento minimo e basilare vuole proprio garantire la tutela del-

la personalità di ciascun membro della famiglia e pertanto deve essere sottratto al potere disposi-

tivo dei coniugi.

L’accordo sui figli

Esso non potrebbe riguardare il loro affidamento, né tantomeno esonerare uno dei genitori dal-

la responsabilità e dal diritto/dovere (nel primario interesse del figlio alla bigenitorialità) di cura,

educazione, istruzione e mantenimento della prole.

Con particolare riferimento, invece, alle questioni di natura economica riguardante i figli (minori

o maggiorenni non economicamente autonomi), una recente pronuncia [4] ha chiarito che è valido

l’accordo intervenuto tra i coniugi in occasione della separazione di fatto, riguardante non solo i

contributi di mantenimento provvisori per la moglie, ma anche quello per il figlio minore anche

senza ratifica del giudice, per lo meno nella misura in cui esso cui non metta a repentaglio il bene

di figli.

In altre parole se l’accordo quantomeno non prevede una situazione peggiorativa o addirittura

ne prevede una migliorativa, esso è pienamente valido.

Tale accordo, in ogni caso, non impedisce ai coniugi:

– di rivolgersi al giudice della separazione in un momento successivo per chiederne

l’omologazione

– oppure di chiedere congiuntamente al giudice delle misure a tutela dell’unione coniugale di deci-

dere a riguardo [5]. La legge, infatti, dà la possibilità ai coniugi che stanno attraversando una crisi

familiare di rivolgersi al giudice senza formalità affinché adotti la soluzione che reputa più adegua-

ta alle esigenze della famiglia. Tale domanda è preclusa alle parti quando sia già stata depositata

una domanda di separazione.

In conclusione è possibile, nell’attuale situazione di crisi (e in vista di una decisione ponderata su

una futura separazione) che i coniugi si accordino, mettendolo nero su bianco, per

l’allontanamento da parte di uno dei due da casa familiare e su una disciplina provvisoria del man-

tenimento del coniuge e dei figli. Un simile accordo metterebbe entrambi al riparo dal pericolo di

una successiva domanda di separazione con addebito, ma non potrebbe avere ad oggetto (anche

solo nel senso di limitarli) i diritti indisponibili derivanti dal matrimonio o dalla filiazione (fedeltà, as-

sistenza morale e materiale, collaborazione, libertà e status personale, responsabilità e affidamen-

to dei figli).

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Resta comunque che la scrittura così formulata non avrebbe – in caso di mancato rispetto – il me-

desimo valore di un provvedimento, anche provvisorio, del giudice e pertanto costringerebbe la

parte interessata ad instaurare una procedura più lunga e articolata per la sua attuazione: si pensi

al caso in cui la moglie dovesse frapporre ostacoli al marito ad una serena frequentazione dei figli

(l’affidamento del minore non potrebbe, infatti, costituire oggetto di accordo, dovendo sempre pas-

sare dall’omologazione del magistrato), come pure all’ipotesi in cui il marito non dovesse versare

puntualmente alla donna il mantenimento concordato.

[1] Ai sensi dell’art. 160 cod.civ.

[2] Cass. sent. n. 24621/2015.

[3] Disciplinato dagli artt. 433 e ss. cod. civ.

[4] Tribunale d’appello di Lugano sent. del 25.02.15.

[5] Ai sensi dell’art. 145 cod. civ.

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TEMPI E MODI PER SEPARARSI E DIVORZIRE

In Italia, non si può divorziare immediatamente: prima, infatti, di poter cancellare definitivamente il

matrimonio è necessario prima passare dalla separazione, che rappresenta, quindi, una sorta di

“gradino” anteriore al divorzio. I due procedimenti sono pressoché simili e le regole per l’uno val-

gono anche per il secondo.

Attualmente, se c’è l’accordo di entrambi i coniugi su tutti gli aspetti economici e personali (quella

che un tempo si chiamava “consensuale”), ci si può separare o divorziare, o rivedere le precedenti

condizioni, in tre forme diverse.

In altre parole, la coppia deve avere trovato l’intesa sull’assegno di mantenimento, divisione dei

beni, assegnazione del tetto, collocamento dei figli e visite settimanali.

Diversamente, in mancanza di accordo, si procede sempre in tribunale (con quella che comu-

nemente vie detta “la via giudiziale”) alla presenza degli avvocati e con una causa che, a volte, ol-

tre che costosa può anche durare diversi anni.

Non si può divorziare se prima non sono passati almeno 6 mesi dalla data della separazione (se

è stata consensuale)e 1 anno se è stata giudiziale. Il passaggio è obbligato.

La differenza tra separazione e divorzio è che se la prima sospende soltanto gli effetti del matri-

monio (restano in vita i diritti successori, salvo in caso di addebito), con il secondo cessano defini-

tivamente.

LA SEPARAZIONE CONSENSUALE

La separazione, gradino necessariamente anteriore per poter poi divorziare, può essere consen-

suale o giudiziale. Nel primo caso i coniugi trovano un accordo su tutti gli aspetti, economici e per-

sonali, per poter procedere ad essa; nel secondo caso, invece, non essendo riusciti a conciliare le

rispettive posizioni (su tutto o parte delle questioni attinenti alla separazione) ricorrono al giudice

che provvede con sentenza, all’esito di una normale causa (cosiddetta separazione giudiziale).

Vantaggi

I vantaggi della separazione consensuale sono diversi. Innanzitutto le parti evitano laceranti con-

flitti giudiziali, che spesso si trascinando per lunghi anni, con indubbie ripercussioni sulla loro

stessa qualità di vita. Da un punto di vista giuridico, però, i benefici sono ancora più evidenti. Infat-

ti, oltre ad evitare i costi e i tempi del giudizio di separazione, i coniugi possono procedere al

divorzio dopo solo 6 mesi (nel caso di separazione giudiziale, invece, il tempo si raddoppia: è

necessario attendere un anno).

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Inoltre, chi opta per la separazione consensuale può evitare di passare dal tribunale. In particolare

può procedere alla separazione consensuale in Comune, senza bisogno di avvocati alla separa-

zione consensuale mediante negoziazione assistita dei rispettivi avvocati. L’accordo può essere

stipulato anche se la coppia ha avuto figli o è previsto il passaggio di proprietà di uno o più immo-

bili.

Non in ultimo, la coppia che procede con una separazione consensuale può abbandonare prima

e più facilmente la stessa abitazione. Se, infatti, nelle ipotesi giudiziali è sempre più opportuno at-

tendere la prima udienza (quella che si svolge davanti al Presidente del Tribunale), nel caso in cui

le parti abbiano raggiunto un accordo preventivo, possono già formalizzare l’interruzione della

convivenza e sospendere così alcuni effetti del matrimonio.

Le modalità

Ci si può separare consensualmente scegliendo una delle seguenti tre procedure:

- 1) Ricorso in Tribunale

La domanda di separazione deve essere proposta al tribunale del luogo dell’ultima residenza co-

mune o, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio. Se il coniuge

convenuto risulta irreperibile la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domici-

lio del ricorrente.

Il ricorso è normalmente presentato da entrambi i coniugi (ricorso congiunto).

Al ricorso devono essere allegati i seguenti documenti:

– certificato di residenza di entrambi i coniugi;

– estratto per riassunto dell’atto di matrimonio;

– stato di famiglia dei coniugi.

Alcuni tribunali pretendono le ultime dichiarazioni dei redditi presentate, altri tribunali invece non le

ritengono necessarie (ad esempio il tribunale di Milano).

L’interessato deve depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale competente.

Non c’è un limite di tempo: trattandosi di diritti imprescrittibili, ciascuno dei coniugi può presentare

la domanda in ogni momento.

Nei 5 giorni successivi al deposito del ricorso, il presidente fissa con decreto una udienza presi-

denziale di comparizione dei coniugi davanti a sé, che si deve tenere entro 90 giorni dal deposito

del ricorso.

All’udienza davanti al presidente i coniugi devono comparire personalmente: la loro presenza fisi-

ca è necessaria affinché prestino il loro consenso alla separazione davanti al giudice.

Il presidente sente i coniugi congiuntamente e tenta di conciliarli per ristabilire l’unione. Nella pras-

si tutto avviene in un’unica udienza.

Quando il tentativo di conciliazione fallisce, il presidente fa redigere il verbale di separazione.

Il verbale viene letto e sottoscritto da entrambi i coniugi.

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Il verbale di separazione viene trasmesso al tribunale. Si apre una fase alla quale i coniugi non

devono più partecipare: essa va avanti d’ufficio. Lo scopo di questa fase è arrivare

all’omologazione, ossia al controllo dell’accordo e delle sue clausole. L’omologa viene effettuata

dal tribunale in composizione collegiale (cioè con 3 giudici tra i quali il presidente) in camera di

consiglio (cioè a porte chiuse) su relazione del presidente e previo parere del P.M. Alla omologa-

zione non partecipano né i coniugi né l’avvocato o gli avvocati.

Ottenuta l’omologazione il verbale acquista efficacia legale e viene comunicato alle parti.

Se non ci sono figli, il tribunale effettua un controllo solo formale dell’accordo e delle clausole che

riguardano i rapporti tra i coniugi, verificando che esse non siano contrarie a norme imperative,

all’ordine pubblico e al buon costume.

Se invece ci sono figli, il tribunale entra nel merito dell’accordo limitatamente alla parte che riguar-

da i figli, nel loro preminente interesse. Il collegio, in particolare, è tenuto a verificare se è salva-

guardata la posizione dei figli e se gli accordi possono, in qualche modo, negare o limitare pesan-

temente il rapporto personale con un genitore, o ledere il diritto alla bigenitorialità del minore, o il

rapporto con i parenti di uno dei due genitori.

Il procedimento si esaurisce in una sola udienza, veloce e informale, davanti al Presidente del Tri-

bunale. Questi tenta inizialmente una conciliazione tra le parti (che ha spesso più un valore pu-

ramente formale). In caso di fallimento, passa immediatamente alla lettura dell’accordo raggiunto

tra le parti e lo fa firmare, dichiarando la separazione. Il procedimento, che dal deposito del ricor-

so, richiede al massimo 3 o 4 mesi (anche se il termine dipende dal carico di lavoro del magistra-

to), termina con l’omologazione del consenso da parte del tribunale. Da questo momento la sepa-

razione acquista efficacia legale.

È possibile che i coniugi abbiano ciascuno un proprio difensore, così come è possibile avere un

unico professionista che segua l’intera procedura (con conseguente dimezzamento delle spese);

– 2) In Comune, davanti al Sindaco

Questa modalità di separazione è possibile solo se:

- la coppia non ha avuto figli

- e, negli accordi, non è previsto il trasferimento di immobili.

Le parti si presentano davanti al Sindaco (o altro ufficiale di stato civile da questi delegato) che

tenta una conciliazione. Fallito il tentativo, dà un altro appuntamento alle parti in Comune, dopo 30

giorni, in modo da dare loro la possibilità di riflettere sulla scelta. Quindi, al secondo incontro, pro-

cede alla separazione.

La procedura è gratuita e veloce, non richiede la presenza di avvocati (sebbene le parti possono

comunque scegliere di farsi assistere comunque). Non c’è bisogno di arrivare in Comune con un

accordo già scritto.

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Nella procedura al Comune i coniugi devono andare personalmente?

Separazione o divorzio sono possibili al Comune anche delegando qualcun altro al posto proprio

che vada a firmare l’accordo. È quanto chiarito dal Tribunale di Milano con una recente sentenza

[1]. In tal caso, infatti, si può conferire procura speciale a un terzo (un avvocato, ma anche un

parente o chiunque altro) che, in sua sostituzione, si rechi dal Sindaco a confermare l’accordo di

separazione o divorzio. Ricordiamo infatti che questa speciale procedura è consentita solo quando

le parti abbiano raggiunto un’intesa su tutti i punti del distacco, sia quelli patrimoniali (per esempio,

il mantenimento) che personali. L’importante è non aver avuto figli e non disporre trasferimenti di

immobili.

L’ufficiale di stato civile non può rifiutarsi di procedere perché alla lettura dell’atto consensuale

manca uno dei due coniugi, sia questi il marito o la moglie. Se è vero che le parti possono munirsi

di una procura speciale nel caso di separazione o divorzio davanti al giudice, ciò a maggior ragio-

ne è possibile anche nel procedimento che si svolge in Comune per la cessazione degli effetti civili

del matrimonio. Del resto, chi ottiene la procura speciale può svolgere, in sostituzione del soggetto

rappresentato, tutte le attività che quest’ultimo dovrebbe porre in essere davanti all’autorità ammi-

nistrativa. Non vi sono, quindi, preclusioni neanche in ambito di diritto di famiglia.

E d’altronde, se le procedure alternative al tribunale devono assicurare agli utenti del servizio le

stesse possibilità di agire che sarebbero loro riconosciute davanti al giudice, non si vede perché

escludere la possibilità di una procura speciale che, invece, in tribunale è consentita. Diversamen-

te il risultato sarebbe invece quello di disincentivare il ricorso alle procedure semplificate piuttosto

che favorirlo.

Insomma: le procedure di degiurisdizionalizzazione devono distinguersi per la “semplificazione” e,

pertanto, devono consentire un maggiore ricorso agli strumenti alternativi piuttosto che irrigidirne

l’accesso.

[1] Trib. Milano, sent. del 19.01.2016.

– 3. Con Negoziazione assistita dagli avvocati

In tal caso, tutta la procedura è gestita dagli avvocati del marito e della moglie (non è possibile un

unico avvocato). In pratica, i rispettivi difensori redigono un atto con il quale regolano i rapporti del-

le parti successivi al divorzio.

È necessario l’accordo di entrambi i soggetti (quindi è possibile solo per il divorzio consensuale) e

un avvocato per parte. È percorribile anche se ci sono figli minori o maggiori incapaci economica-

mente o portatori di handicap.

La procedura è veloce visto che l’intesa raggiunta con l’assistenza dei legali, dopo essere stata

trasmessa al Pm (che, se non ci sono figli si limita a un controllo formale, mentre se i figli ci sono

valuta la rispondenza dell’accordo ai loro interessi) viene inviata all’ufficiale di stato civile del Co-

mune entro 10 giorni;

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Contenuto dell’accordo di separazione consensuale

Ogni accordo di separazione deve avere un contenuto minimo essenziale:

– il consenso alla separazione, e quindi all’interruzione della convivenza;

– se ne sussistono i presupposti, l’assegnazione della casa familiare;

– gli obblighi di mantenimento del coniuge;

– in caso di figli minori i coniugi devono decidere e regolare il loro affidamento e mantenimento.

Nel contenuto eventuale i coniugi possono disciplinare l’assetto economico dei rapporti tra loro.

Possono stabilire regole relative al godimento e alla proprietà dei beni di cui hanno usufruito nel

corso del matrimonio, inclusi gli eventuali trasferimenti immobiliari.

Possono anche regolare la permanenza dell’animale domestico presso l’una o l’altra abitazione e

le modalità che ciascuno dei proprietari deve seguire per il suo mantenimento (non essendo

l’animale una cosa, ma un essere senziente).

Nella separazione consensuale le parti sono libere di determinare la misura dell’assegno di

mantenimento in base a quanto da queste ritenuto congruo e opportuno. Il giudice non verifica,

infatti, se esistono i presupposti di legge per il riconoscimento del mantenimento a favore di un

coniuge e a carico dell’altro, ma si limita a prendere atto della volontà delle parti, sostanzialmente

fidandosi di una quantificazione operata nel contraddittorio e in merito alla quale vi è il pieno ac-

cordo dei coniugi.

Ciò però non vale nel caso in cui vi siano figli. L’accordo di separazione consensuale riguardante

questi ultimi, infatti, dovrà superare il vaglio dell’autorità giudiziaria (tanto nel caso di separa-

zione consensuale davanti al giudice quanto in quella mediante negoziazione assistita). Qualora

l’accordo non dovesse risultare consono agli interessi dei figli, il giudice potrebbe rifiutarne

l’omologazione. Per esempio, i coniugi non potrebbero prevedere la rinuncia all’assegno di man-

tenimento per i minori se questi vivono con la madre che non guadagna o guadagna poco.

Gli effetti

Dal momento in cui il tribunale omologa l’accordo dei coniugi la separazione consensuale produce

i suoi effetti personali e patrimoniali: si attenua il vincolo matrimoniale in attesa che le parti deci-

dano di porre fine al loro matrimonio con il divorzio oppure decidano la riconciliazione.

In particolare:

– se i coniugi erano in comunione dei beni, passano a un regime di separazione dei beni;

– si acquisisce lo status giuridico di coniugi separati, ma la moglie può continuare a usare il co-

gnome del marito.

Si può quindi dare esecuzione all’accordo in relazione a quanto stabilito per la casa familiare e per

il mantenimento del coniuge economicamente più debole.

In caso di figli, si procede all’esecuzione degli accordi relativi al loro affidamento e al loro mante-

nimento.

Inoltre se uno dei due coniugi dovesse decedere durante il periodo di separazione, l’altro sarebbe

suo erede.

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Proprio perché finalizzata a realizzare un accordo tra le parti, la separazione consensuale non può

mai essere con addebito, neanche se uno dei due coniugi ha posto comportamenti contrari alle

regole del matrimonio. Quindi, chi volesse addebitare la separazione all’altro, dovrebbe necessa-

riamente far ricorso alla separazione giudiziale.

L’accordo della separazione consensuale è modificabile?

Gli accordi presi in sede di separazione non sono vincolanti per il successivo divorzio, sicché le

parti potranno stabilire di comune accordo un differente assetto degli interessi. Se tale accordo

non si raggiunge, si procederà al divorzio giudiziale.

È anche possibile, tra la separazione e il divorzio, procedere alla modifica delle condizioni di sepa-

razione (per esempio, chiedendo al giudice un aumento o una diminuzione dell’assegno di mante-

nimento) ma solo a condizione che ricorrano ulteriori circostanze non presenti al momento della

separazione (si pensi alla perdita di lavoro di uno dei due coniugi).

Gli accordi tra coniugi successivi all’omologazione sono legittimi. ma per essere validi devono es-

sere compatibili con il verbale omologato e devono disciplinare un aspetto da esso non considera-

to oppure devono contenere clausole che specificano il contenuto dell’accordo stesso.

Non è consentito ai coniugi incidere sull’accordo omologato con soluzioni alternative non soggette

al controllo del giudice.

Il DIVORZIO

Quali sono i tempi per poter divorziare?

A seguito delle modifiche del 2015 [1], per divorziare è necessario attendere tempi più brevi ri-

spetto al passato, ossia solo:

– 12 mesi se le parti si sono separate giudizialmente, ossia – non avendo trovato un accordo – a

seguito di una normale causa in tribunale;

– 6 mesi se, invece, le parti si sono separate consensualmente: la separazione consensuale può

essere stata, indifferentemente, sia quella avvenuta in tribunale, davanti al Presidente (cosiddetta

separazione consensuale di tipo classico), sia quella davanti all’ufficiale di Stato Civile (separazio-

ne in Comune), sia quella fatta allo studio degli avvocati (cosiddetta negoziazione assistita).

Se ci sono figli, le cose cambiano?

No, la presenza di figli non cambia i tempi che bisogna attendere, dopo la separazione, per poter

divorziare. Influisce però sul tipo di procedura da prescegliere per separarsi: non ci si potrà, infatti,

divorziare in Comune.

Per divorziare resta necessario prima separarsi?

Si. La nuova legge non elimina quindi la fase di separazione, attraverso la quale bisogna sempre

passare prima di poter sciogliere in via definitiva il matrimonio, ma la abbrevia drasticamente.

Se la causa di separazione dura più anni, posso nel frattempo divorziare?

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Si. Qualora la coppia abbia optato per una separazione giudiziale e la durata di questa si stia pro-

traendo oltre i 12 mesi necessari per potersi divorziare, si potrà nel frattempo attivare anche il giu-

dizio di divorzio. I due giudizi cammineranno così su binari paralleli.

Quando si scioglie la comunione tra i coniugi?

Rispetto al passato viene anticipato lo scioglimento della comunione dei beni (per chi l’ha scelta):

essa non avverrà più con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, ma

scatterà dal momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati (nella

separazione giudiziale) o dalla sottoscrizione del processo verbale di separazione (nella separa-

zione consensuale).

Quale procedura si può adottare per divorziare?

Attesi 6 (se la separazione è stata consensuale) o 12 mesi dalla separazione (se è stata giudizia-

le), ci sono tre diverse possibilità (tutte equivalenti e con gli stessi effetti) per sciogliere definitiva-

mente il matrimonio:

–1. presentare ricorso in tribunale: è il procedimento tradizionale che, se trova l’accordo di en-

trambi i coniugi, si risolve in una sola udienza. In tal caso il ricorso deve contenere le condizioni su

cui marito e moglie si sono accordati. I coniugi possono utilizzare anche lo stesso avvocato.

La domanda congiunta di divorzio deve essere depositata in tribunale e deve contenere nel detta-

glio le condizioni relative a figli e rapporti economici su cui marito e moglie si sono accordati. Il

giudice, sentiti i coniugi e verificati i presupposti di legge, pronuncia la sentenza di divorzio che

viene annotata nel registro dello Stato civile.

Se, invece, manca l’accordo, è necessario il giudizio per l’accertamento dei relativi obblighi e di-

ritti;

–2. avviare una negoziazione assistita dai propri avvocati: l’iter è identico a quello illustrato per la

separazione consensuale;

– 3. recarsi davanti all’ufficiale dello stato civile del Comune, anche senza avvocati. Anche in

questo caso, come nel precedente, è necessario l’accordo di entrambe le parti (quindi è possibile

solo per il divorzio congiunto). Anche qui, l’iter è lo stesso descritto per la separazione (consen-

suale).

[1] L. 55/2015.

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IL DIVORZIO IMMEDIATO

Se, come abbiamo detto, per ottenere il divorzio occorre, di norma, aver prima passato la fase del-

la separazione, vi sono però alcuni casi nei quali la legge sul divorzio del 1970 consente il divorzio

immediato [1].

Ciò può avvenire qualora - dopo la celebrazione del matrimonio – uno dei coniugi sia stato con-

dannato in via definitiva, anche per fatti commessi in precedenza:

– all’ergastolo o a pena superiore ai 15 anni, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici

e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;

– a qualsiasi pena, se i reati commessi sono incesto, delitti sessuali o per induzione, costrizione,

sfruttamento, favoreggiamento della prostituzione;

– a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno di coniuge o

figli;

– a qualsiasi pena, in caso di lesione personale aggravata, violazione degli obblighi di assistenza

familiare, maltrattamenti in famiglia, circonvenzione di incapaci, attuati contro coniuge o prole.

Nel secondo e nel terzo caso, il divorzio immediato può essere richiesto anche se l’altro coniuge

sia stato assolto per vizio totale di mente (e il giudice del divorzio ne accerti l’inidoneità a mante-

nere o ricostituire la convivenza familiare); il processo si sia concluso con sentenza di non doversi

procedere per estinzione del reato (che il giudice ritenga sussistere) o la causa d’incesto si sia

conclusa con proscioglimento/assoluzione per mancanza di pubblico scandalo.

Insomma, come dire, in tutte queste ipotesi che, a prescindere dalla punizione del colpevole, il fat-

to è stato comunque accertato ed è quest’ultimo che rileva nel giudizio sulla “pericolosità” del co-

niuge.

Si può, ancora, richiedere il divorzio immediato qualora:

– l’altro coniuge straniero abbia ottenuto divorzio all’estero o all’estero abbia contratto nuovo ma-

trimonio;

– qualora il matrimonio non sia stato consumato o sia passata in giudicato la sentenza di rettifi-

cazione di attribuzione di sesso.

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Il procedimento

A chiedere il divorzio immediato possono essere tanto i due coniugi congiuntamente, che uno

solo di essi. In entrambi i casi, la procedura è identica a quella della separazione.

In particolare:

– divorzio richiesto da entrambe le parti: i coniugi fissano le condizioni della separazione, del

mantenimento e dei rapporti con i figli con ricorso al Tribunale. Il giudice, in un’unica udienza, ten-

tata la conciliazione, autorizza il divorzio, valutando anche l’interesse degli eventuali figli;

– divorzio richiesto da uno solo dei coniugi: in tal caso, si apre una vera e propria causa, prima

della quale il Presidente del tribunale fissa i provvedimenti temporanei e urgenti. Quindi si passa

alla raccolta delle prove e, infine, alla decisione.

[1] Art. 3 l. 898/1970.

SEPARAZIONE E DIVORZIO SE MANCA L’ACCORDO

Non sempre separazioni e divorzi avvengono perché entrambi i coniugi raggiungono un accordo

circa il fatto di non vivere più insieme; esistono anche casi in cui, a fronte della volontà di uno dei

due di separarsi o divorziare, l’altro invece vorrebbe ancora rimanere insieme. E anche casi in cui

l’opposizione allo scioglimento del vincolo deriva da semplice intento ostruzionistico, non dettato

tanto da amore, ma dalla volontà di complicare la strada della libertà all’ex.

In tal caso, perciò, occorrerà presentare ricorso al giudice mediante un avvocato. Sarà poi il tri-

bunale a pronunciare la separazione o lo scioglimento degli effetti civili del rapporto coniugale, an-

che nonostante il dissenso dell’altro coniuge o la sua assenza dal processo (cosiddetta contuma-

cia).

Nello stesso giudizio, quindi, il magistrato deciderà tutte le questioni conseguenti alla separazione

o al divorzio: obbligo di mantenimento, assegnazione della casa coniugale (solo se in presenza di

prole), affidamento dei figli e loro mantenimento, diritti di visita, ecc. Si tratta di provvedimenti a cui

il giudice non può sottrarsi solo perché uno dei due coniugi faccia ostruzionismo e, dunque, il pro-

cesso andrà avanti anche contro la sua volontà.

L’indissolubilità del matrimonio, infatti, riguarda solo “l’ordine morale cattolico” e “l’ordinamento

canonico”. Di conseguenza, esso non rileva sugli effetti civili del matrimonio concordatario, né può

ostruire il diritto – strettamente personale ed irrinunciabile – riconosciuto a moglie e marito dalla

legge italiana, di separarsi o divorziare (ossia di far cessare gli effetti civile del matrimonio) [1].

La mancata collaborazione di uno o di entrambi i coniugi all’accordo di separazione impedisce,

dunque, solo la possibilità di intraprendere la via (più veloce ed economica) della cosiddetta sepa-

razione consensuale che, peraltro, in assenza di figli e di passaggi di proprietà di immobili, può ef-

fettuarsi anche in Comune, senza bisogno di avvocati. In alternativa (e sempre che vi sia il con-

senso di marito e moglie) si potrebbe intraprendere anche la via della negoziazione assistita, una

soluzione concordata che passa per la firma di un accordo con l’assistenza dei rispettivi avvocati,

ma senza il tribunale.

[1] Cass. ord. 23.09.015 – 11.01.2016

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LA MODIFICA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO

A uno o entrambi i coniugi che abbiano ottenuto un provvedimento di separazione o di divorzio

(sia a seguito di un accordo congiunto, sia a seguito di una causa [1]) è consentito chiedere al

giudice di modificare o revocare le condizioni in esso contenute [2].

Requisiti per la richiesta di modifica

La richiesta di modifica o revoca di questi provvedimenti dipende, tuttavia, da alcune condizioni:

– che sussistano giustificati motivi;

– che tali giustificati motivi siano sopravvenuti rispetto all’iniziale provvedimento di separazio-

ne/divorzio. Essi, quindi, devono costituire fatti nuovi e non preesistenti alla separazione o al di-

vorzio, anche se non siano stati presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo;

– che essi modifichino la situazione rispetto alla quale era stata emessa la pronuncia di separa-

zione/divorzio;

– che le nuove circostanze siano definitive e quindi non legate a fatti contingenti;

– che il provvedimento con cui il giudice ha pronunciato la separazione/divorzio sia divenuto defi-

nitivo, ossia non sia più impugnabile dalle parti [3].

Ciò in quanto il codice civile [4] ricollega la revoca o la modifica dei provvedimenti adottati dal giu-

dice in tema di separazione al sopravvenire di “giustificati motivi“. Il procedimento infatti, non si ca-

ratterizza quale revisione del precedente giudizio, e quindi rivisitazione delle determinazioni già

adottate nella causa di separazione, ma come un nuovo giudizio, finalizzato ad adeguare la re-

golamentazione dei rapporti – anche economici – tra i coniugi al mutamento della situazione di fat-

to; ma ad una sola condizione: che tale modificazione incida realmente sulle loro condizioni patri-

moniali, determinandone uno squilibrio profondo [5].

In presenza delle predette condizioni, questa domanda può essere formulata in ogni tempo.

Oggetto di modifica

La richiesta di modifica potrà riguardare:

– le questioni patrimoniali attinenti alla sola coppia che quelle relative ai figli(come la misura

dell’assegno di mantenimento, i criteri di ripartizione delle spese tra le parti);

– le questioni personali, come quelle attinenti alle modalità di affidamento e di visita dei figli.

Come si propone la domanda

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L’istanza di modifica segue regole analoghe a quelle previste per la domanda di separazione e di-

vorzio.

Sicché, ove essa sia presentata da solo uno dei coniugi, sarà possibile il solo ricorso al giudice

il quale dovrà:

– accertare se, e in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio raggiunto

tra le parti;

– adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale;

– rimodulare le questioni diverse da quelle economiche (per esempio: modalità degli incontri geni-

tori-figli) sulla base delle nuove esigenze emerse.

Ove, invece, i coniugi abbiano raggiunto un accordo, in tal caso essi potranno alternativamente:

- depositare ricorso congiunto in tribunale,

- usufruire della procedura della negoziazione assistita,

- sottoscrivere i nuovi accordi direttamente davanti al Sindaco, sempre che però non ci siano figli

minori, maggiorenni non autosufficienti o portatori di grave handicap e non riguardino patti di tra-

sferimento patrimoniale.

[1] Cass. S.U. sent. n. 23866/2013.

[2] Art. 710 cod. proc. civ.

[3] Art. 9, L. n. 898/1970.

[4] Art. 156 ult. c. cod. civ.

[5] Trib. Trani, sent. del 20.70.2012.

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L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE

COS’E’ E COSA COMPORTA

Quando marito e moglie hanno avuto, durante la vita coniugale, comportamenti contrari ai do-

veri derivanti dal matrimonio (coabitazione, fedeltà, assistenza morale e materiale), il giudice

della separazione può imputare loro la responsabilità per la rottura dell’unione coniugale. Si trat-

ta del cosiddetto addebito, provvedimento tipico dei procedimenti di separazione giudiziale (quelli

cioè che si instaurano quando, i coniugi, non trovando tra loro un accordo, ricorrono al giudice).

Non è indispensabile che il Tribunale si pronunci sull’addebito della separazione: non è necessa-

rio, cioè, davanti al giudice, che la responsabilità della separazione sia necessariamente attribuita

all’uno o all’altro coniuge. Ciò però può avvenire su richiesta di uno dei due.

Dall’altro lato, viceversa, la separazione può anche essere addebitata ad entrambi i coniugi.

Come detto, l’addebito della separazione presuppone che il coniuge si sia reso responsabile di

una grave violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio.

Conseguenze

Il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione:

– non ha diritto all’assegno di mantenimento (che gli dovrebbe garantire un tenore di vita ana-

logo a quello che aveva durante il matrimonio), ma non perde quello agli alimenti, che gli possono

essere concessi solo in caso di effettivo bisogno e in ammontare sufficiente solo a garantirgli i mi-

nimi di sussistenza (e non, invece, lo stesso tenore di vita avuto in costanza del matrimonio, come

è, invece, il caso dell’assegno di mantenimento);

– in caso di decesso dell’altro coniuge, ha diritto solo a un assegno vitalizio (commisurato alle

sostanze ereditarie e al numero di eredi) soltanto se già titolare di un assegno alimentare e nei li-

miti dell’importo di detto assegno;

– ha diritto alla pensione di reversibilità solo se titolare di assegno alimentare;

– ha diritto all’indennità di anzianità e di preavviso che gli deve essere corrisposta dal datore di la-

voro del coniuge deceduto, solo se titolare di assegno alimentare.

LE CAUSE

(Alcuni esempi):

Violenza

La violenza domestica è gravissima ed è da sola causa risolutiva del rapporto coniugale. Per que-

sta ragione, anche un solo episodio di percosse esclude la normalità fisiologica del quadro rela-

zionale interno alla coppia, perché afferma la supremazia di una persona su di un’altra e discono-

sce la parità della dignità di ogni persona, come principio base dei diritti costituzionali [1].

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Abbandono della casa (vd. sopra)

L’abbandono della casa coniugale costituisce causa di addebito della separazione (conseguendo-

ne il venir meno della convivenza), salvo che il coniuge provi di aver lasciato il tetto a causa

dell’altrui comportamento, o che la decisione sia stata presa nel momento in cui l’intollerabilità del-

la prosecuzione della convivenza fosse già in atto. Questa prova, però, va valutata in modo più ri-

goroso se l’allontanamento riguarda anche i figli [2].

Furto

Scatta l’addebito per il coniuge dedito al gioco e autore di furti del denaro familiare, anche se

l’altro, per un periodo, ha tollerato le violazioni. Nel caso specifico, il coniuge tradiva la moglie e

frequentava assiduamente case da gioco. Di qui, l’uscita di molto denaro, sottratto al ménage fa-

miliare. La moglie, sperando nel cambiamento del marito, aveva accettato il comportamento, fin-

ché questi commise il reato di falsità in titoli di credito a suo danno. Allora la donna decise di sepa-

rarsi e chiedere l’addebito [3].

Nascita di un figlio da altra relazione

La nascita di un figlio da un’altra donna, a matrimonio in corso, non basta a far scattare l’addebito.

Nel caso esaminato, la crisi era iniziata molto prima della relazione extraconiugale. Né era stato

sufficiente a provare il ripristino dell’unione coniugale il fatto che marito e moglie fossero stati in

seguito in vacanza insieme: da questa vacanza non si potevano trarre elementi sufficienti a dimo-

strare il recupero del profilo spirituale del vincolo e il solo legame materiale si risolveva “in un si-

mulacro di vita coniugale” [4].

Gelosia

È escluso l’addebito per il coniuge che lascia il tetto coniugale, per via di un matrimonio bianco.

L’abbandono dalla casa familiare non costituisce infatti violazione degli obblighi familiari da cui

possa conseguire l’addebito, se il coniuge che l’ha posto in essere provi l’anteriorità della crisi ri-

spetto all’allontanamento. Nella specie, la condotta era motivata dal comportamento della moglie

che rifiutava di avere rapporti sessuali con il marito da circa dieci anni [5].

Dipendenza

No all’addebito della separazione al coniuge alcolista se l’altro era a conoscenza della dipendenza

già prima del matrimonio. Secondo i giudici, infatti, non è possibile obbligare nessuno a sottoporsi

a trattamento sanitario; inoltre, se il marito era già a conoscenza dello stato di salute della moglie

e, nonostante ciò, l’ha sposata, le difficoltà successive non possono essere sicuramente poste a

fondamento della pronuncia di addebito [6].

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Carriera

Niente addebito alla moglie che, per salvaguardare la carriera, rifiuta di seguire il marito. Infatti se

la moglie non si trasferisce per non perdere il proprio posto di lavoro, non le si può addebitare la

separazione. E questo anche se, facendo tale scelta, è consapevole che il matrimonio potrebbe

andare alla deriva. Si tratta infatti di una decisione che, secondo i giudici, non può essere conside-

rata causa generatrice dell’intollerabilità della convivenza [7].

[1] C. App. Palermo sent. del 12.06.2013.

[2] Trib. Treviso sent. n. 1212 del 28.06.2013.

[3] Cass. sent. n. 5395 del 7.03.2014.

[4] Cass. sent. n. 27730 dell’11.12.2013.

[5] Cass. sent. n. 2539 del 5.02.2014.

[6] Cass. sent. n. 28228 del 18.12.2013.

[7] Cass. sent. n. 13026 del 10.06.2014.

IL TRADIMENTO

di Maria Elena Casarano

Se è vero che l’adulterio non costituisce più – come un tempo – un’ autonoma figura di reato [1],

tuttavia esso continua a rappresentare uno dei motivi più frequenti di separazione delle coppie.

Quando è necessaria la prova del tradimento

Perché la domanda di separazione sia accolta non è, tuttavia, necessario fornire al giudice la pro-

va dell’adulterio: è sufficiente infatti che siano intervenute tra i coniugi incomprensioni (anche solo

scaturenti dal venir meno della fiducia nell’altro) tali da rendere intollerabile la vita coniugale.

La prova dell’infedeltà è invece indispensabile quando il coniuge tradito, oltre alla separazione,

voglia ottenere anche l’addebito [2]: ossia la dichiarazione con cui il giudice attribuisce la respon-

sabilità della rottura del matrimonio al coniuge fedifrago.

Tale pronuncia, infatti, comporta nei confronti di quest’ultimo la perdita dell’eventuale diritto ad un

assegno di mantenimento (che gli dovrebbe garantire un tenore di vita analogo a quello avuto du-

rante il matrimonio), così come una forte attenuazione dei diritti successori: infatti, al coniuge cui è

stata addebitata la separazione spetta solo il diritto a un assegno vitalizio se al momento della

apertura della successione egli godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.

Quando la prova dell’infedeltà non rileva ai fini dell’addebito

Non sempre, tuttavia, l’adulterio, se pur provato, può dar luogo all’addebito.

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Se è vero, infatti che la pronuncia di addebito si basa sulla violazione di uno dei doveri nascenti

dal matrimonio (quale appunto quello di fedeltà), tuttavia è anche necessario al contempo che sia

data prova al giudice di un rapporto di causa-effetto tra l’infedeltà e la separazione.

In parole semplici, ai fini della pronuncia di addebito occorre che il giudice accerti che il tradimento

sia stata la vera causa della rottura tra marito e moglie.

In mancanza di tale prova, nessuna responsabilità potrà essere attribuita al coniuge fedifrago.

Cosa deve accertare il giudice

Nello specifico, occorre provare non solo che tradimento vi sia stato, ma anche che esso abbia

provocato l’ intollerabilità della convivenza [3] o la lesione di diritti della personalità del coniuge

(come quello alla dignità, all’onore e alla reputazione) [4]; si pensi, ad esempio, al caso in cui, pur

essendosi esso manifestato in un singolo episodio, tuttavia abbia provocato una grave offesa

all’altro coniuge per il fatto di essersi consumato proprio nella casa coniugale [5].

Se, perciò, la crisi tra i coniugi sia stata antecedente all’infedeltà tale per cui, ad esempio, la con-

vivenza tra marito e moglie aveva già una natura meramente formale (per la mancanza del neces-

sario legame affettivo tra i coniugi), in tal caso il giudice potrà escludere l’addebito; in questa ipo-

tesi, infatti, il tradimento non costituisce il motivo dell’intollerabilità della convivenza ma una sua di-

retta conseguenza [6].

A riguardo, la Suprema Corte ha ribadito come la pronuncia di addebito da parte del giudice non

può basarsi solo sull’inosservanza dei doveri coniugali, ma che occorre la prova che la irreversibi-

le crisi coniugale sia riconducibile esclusivamente al comportamento contrario, in modo volontario

e consapevole, a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi [7].

Nel verificare l’inesistenza di un diretto collegamento tra infedeltà e crisi coniugale, il giudice dovrà

svolgere un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi

i coniugi da cui evincere la preesistenza di una crisi coniugale in un contesto di vita caratterizzato

da una convivenza tra marito e moglie puramente formale [8].

Si pensi, ad esempio, al caso in cui uno dei coniugi ponga in modo ingiustificato il rifiuto di consu-

mare rapporti sessuali con l’altro e quest’ultimo poi lo abbia tradito.

Irrilevanza della tacita accettazione del coniuge

Secondo la giurisprudenza, inoltre, anche quando sia stata tollerata l’infedeltà del coniuge ciò non

impedisce la richiesta di addebito; ciò che rileva, infatti, è che il partner tradito non sia più stato in

grado di sopportare l’infedeltà sicché essa, per quanto tollerata durante il matrimonio, abbia rap-

presentato la causa della rottura del legame [9].

Il fatto, perciò, che il coniuge abbia chiuso gli occhi per anni davanti all’adulterio, magari sperando

in un cambiamento dell’ex, non giustifica il rigetto della richiesta di addebito.

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Esempi

Riportiamo di seguito una panoramica di situazioni di infedeltà ritenute dalla giurisprudenza motivo

di addebito:

– aver intrapreso una relazione extraconiugale che abbia portato il coniuge fedifrago ad allonta-

narsi dall’ex, così privandolo della necessaria assistenza durante la malattia [10];

– relazione adulterina dalla quale sia nato un figlio [11];

– tradimenti scoperti in seguito ai quali i coniugi hanno tentato di recuperare il rapporto, fino alla

scoperta di una nuova infedeltà [12];

– numerosi episodi di infedeltà aggravati da forti litigi e da violenza fisica da cui sia derivato

l’allontanamento del coniuge fedifrago dalla casa coniugale [13];

– aver intrapreso una relazione extraconiugale sfociata in una convivenza di dominio pubblico a

seguito del trasferimento del coniuge fedifrago in altra città per motivi di lavoro [14];

– esercizio diretto della prostituzione da parte del coniuge [15];

– relazione extraconiugale omosessuale [16].

Addebito per infedeltà apparente

Vi sono, poi, alcuni comportamenti che rilevano ai fini dell’addebito pur non costituendo adulterio

in senso stretto; ciò in quanto essi sono comunque ritenuti ingiuriosi nei confronti del coniuge an-

che in ragione della percezione che di essi ne ha la società.

Si parla in tal caso di” infedeltà apparente” di cui sono un classico esempio le relazioni platoniche.

Tali comportamenti si caratterizzano [17] per il fatto che la condotta di un coniuge:

– provochi nell’altro e nei terzi il fondato sospetto del tradimento;

– sia posta in essere con l’intenzione e la consapevolezza di ledere l’onore e la dignità del coniu-

ge;

– rechi un pregiudizio alla dignità personale del coniuge anche in relazione al contesto sociale di

appartenenza e alla sua sensibilità.

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Esempi

Riportiamo qui di seguito, a titolo esemplificativo, alcuni casi di infedeltà apparente ritenuti dalla

giurisprudenza rilevanti ai fini dell’addebito:

– il comportamento di un coniuge portato avanti in modo tale da far supporre a terzi l’esistenza di

una relazione extraconiugale anche se essa non si sia realmente verificata [18];

– la relazione intrapresa da uno dei coniugi subito dopo l’allontanamento dalla casa coniugale in

concomitanza con l’inizio della causa di separazione che dia luogo a plausibili sospetti di tradi-

mento [19]; – approcci fisici insistenti posti in essere pubblicamente, se pur non accompagnati da

rapporti sessuali;

– la forte attrazione provata da uno dei coniugi nei confronti di una persona e tale da aver portato

all’allontanamento dalla casa coniugale per diverso tempo [20];

– l’appuntamento, dopo la intrapresa riconciliazione dei coniugi, con persona con la quale si era

convissuto durante la separazione dal coniuge [21];

– la relazione platonica che per gli aspetti esteriori con cui è coltivata e l’ambiente ristretto di fre-

quentazione dei coniugi, dà luogo a verosimili sospetti di infedeltà, provocando offesa all’onore e

alla dignità dell’altro coniuge [22];

– l’infedeltà del coniuge rimasta allo stadio di mero tentativo solo per il sentimento non corrisposto

da parte del terzo [23].

Come provare l’adulterio

Nel giudizio di separazione, il problema delle prove che si possono utilizzare in causa è partico-

larmente delicato, non solo per la difficoltà in sé di documentare al giudice situazioni che di norma

sono vissute nell’intimità e non platealmente, ma anche per i limiti che la legge pone alla ricerca di

tali prove.

Tuttavia, se di norma l’utilizzo di dati personali di un soggetto ha sempre bisogno del consenso di

quest’ultimo (si pensi all’esibizione in Tribunale di registrazioni, foto, ecc.), ciò non vale anche nel

caso in cui si agisce allo scopo di tutelare un proprio diritto (come, appunto, avviene quando un

coniuge voglia dimostrare la relazione extraconiugale dell’altro).

Non vi è perciò alcuna violazione della privacy da parte del marito o della moglie che, sospettando

di essere tradito, scelga di far pedinare il coniuge da un investigatore privato e usare le “prove” nel

corso del giudizio di separazione al fine di ottenere la dichiarazione di addebito. Le prove docu-

mentali ottenute anche a mezzo di agenzie di investigazione sono, infatti, ammesse nel processo

se pur con un limite: quello che chi le abbia procurate sia sentito come testimone e, quindi, riferi-

sca di persona al giudice quanto ha visto e fotografato.

Il giudice può anche valutare ai fini della prova le dichiarazioni da testimoni che non abbiano avuto

conoscenza diretta della relazione adulterina, così come può dare rilevanza alla testimonianza del

figlio.

Attenzione però: la lesione del diritto alla privacy non può spingersi fino al punto di violare la cor-

rispondenza del coniuge; pertanto, non sarebbe possibile, al fine di procurarsi la prova

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dell’adulterio, frugare nella posta o tra le email o gli sms ricevuti dal coniuge. Curiosare nella posta

dell’ex coniuge costituisce, infatti, un vero e proprio reato.

Una volta provato l’adulterio, spetterà poi al coniuge che voglia evitare l’addebito provare che la

relazione extraconiugale sia sopravvenuta in un contesto familiare già disgregato (per un appro-

fondimento leggi: Separazione: col tradimento onere della prova invertito).

[1] La Corte Costituzionale con le sentt.n.126/1968 e n.147/1969 ha dichiarato illegittimi gli artt. 559 e 560 cod. pen.

che rispettivamente prevedevano il reato di “adulterio” a carico della moglie (che comportava la pena della reclusione

fino a un anno) e il reato di “concubinato” a carico del marito (per il quale era stabilita la pena della reclusione fino a

due anni).

[2] Ai sensi dell’art. 151 cod. civ., il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e

ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contra-

rio ai doveri che derivano dal matrimonio.

[3] Cass. sent. n. 27730/13, 8512/06, 13431/08, 17643/07, 13592/06, 8512/06 e Trib. Milano 8.04.11.

[4] Cass. sentt. n. 8929/13; 15557/08; 3511/94, Trib. Brescia 14.10.06.

[5] C. App. Firenze sent. n. 500/05.

[6] Cass. sentt. n. 8675/13; 16089/12; 18175/12; 9074/11.

[7] Cass. sent. n 21245/2010 e 14042/08.

[8] Cass. sent. n.8675/13.

[9] Cass. sentt. n. 5395/14; n. 4305/14;n. 10273/04; n 5090/04 e 18132/03.

[10] Cass. sent. n. 1893/14.

[11] Cass. sent. n. 929 del 17.01.14 e Trib. Bologna sent. del 25.10.07.

[12] Cass. sent. n. 4305 del 24.02.14.

[13] Cass. sent. 14386/13 .

[14] Cass. sent. n. 8285 del 4.04.13.

[15] Cass. sent. n.20256/06.

[16] Cass. sentt. n.19114/12; n. 7207/09; Trib.Brescia sent. del 14.10.06.

[17] Cass. sent. n. 6834/98 e 7156/83.

[18] Cass. sent. n. 29249/08.

[19] Cass. sent. n. 6834/98.

[20] Cass. sent. n. 23939/08.

[21] Cass. sent. n. 26/91.

[22] Cass. sent. n. 15551/08 e C. App. Perugia, sent. 28.09.94.

[23] Cass. sent. n. 9472/99.

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LA RELAZIONE PLATONICA SU FACEBOOK

di Vincenzo Rizza

Lo sviluppo incontrollabile di social network come Facebook o Whatsapp e le molteplici possibilità

della comunicazione telematica, rendono oltremodo attuale il tema del tradimento platonico non

concretatosi in una vera e propria relazione adulterina, e degli effetti che esso riverbera dal punto

di vista giuridico sulle dinamiche familiari.

Si potrebbe affermare che secondo il modo di pensare ordinario il tradimento è di per sé motivo di

separazione, sia perché viola il dovere di fedeltà, sia perché mina fin dalle fondamenta la fiducia

ed il rispetto reciproci che dovrebbero essere i presupposti di qualunque rapporto di coppia.

La Cassazione nella sua giurisprudenza assume, invece, atteggiamenti più riflessivi ritenendo che

l’effetto della relazione extraconiugale sull’addebito della responsabilità della separazione deve

essere valutato nel caso concreto per determinare il peso che esso ha avuto nella crisi coniugale:

per esempio, una crisi già conclamata e nella quale l’affetto familiare sia già venuto meno per altre

cause, non consente di considerare il tradimento come motivo della separazione.

Sul terreno dell’onere della prova si afferma che una volta che l’un coniuge abbia dimostrato la re-

lazione dell’altro, graverà su quest’ultimo di dimostrare che il matrimonio era già in crisi per altre

cause, evitando così l’addebito a suo carico della responsabilità [1].

A prescindere dal giudizio morale sul tradimento operato attraverso le chat, gli SMS, le telefonate,

non v’è dubbio che la questione assuma una sua originalità nel caso in cui questi comportamenti,

spesso messi in atto tra persone residenti in luoghi lontani, non abbiano implicato anche incontri

diretti tra i protagonisti e quindi nel caso in cui non vi siano stati rapporti sessuali e la relazione si

sia mantenuta nei limiti della riservatezza sociale.

Sul punto è possibile rinvenire un precedente specifico della Cassazione secondo il quale

l’addebito non può discendere da una relazione platonica e svolta in modo da non recare alcuna

offesa alla dignità ed all’onore del marito per le modalità discrete con cui si era svolta [2].

La sentenza propone, nella sua motivazione, l’orientamento prima indicato secondo il quale occor-

re, preliminarmente, accertare se il tradimento abbia avuto un’incidenza sostanziale sulla com-

promissione del rapporto coniugale.

Essa afferma il principio secondo cui il giudizio sull’addebito della responsabilità deve procedere

secondo una valutazione non solo dell’esistenza dell’adulterio, ma anche degli aspetti esteriori con

cui è coltivata la relazione, in modo da accertare se essa dia luogo nell’ambiente in cui vivono i

coniugi a plausibili sospetti di infedeltà, e comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge.

Nella specie – afferma la Suprema Corte – i giudici d’appello hanno correttamente escluso che lo

scambio interpersonale, extraconiugale, avesse potuto assumere i concreti connotati di una rela-

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zione sentimentale adulterina e, comunque, fosse traducibile in contegni offensivi per la dignità e

l’onore del marito. Il legame intercorso tra la moglie e l’estraneo, infatti, si era rivelato platonico e

si era sviluppato solo telefonicamente o via internet, data anche la notevole distanza tra i luoghi di

rispettiva residenza. Tra l’altro non era stato provato in giudizio il coinvolgimento sentimentale di

lei, sebbene fosse stata prodotta una lettera d’amore che dimostrava ineluttabilmente

l’infatuazione di lui.

Per la Cassazione, dunque, il tradimento, per essere rilevante ai fini della responsabilità della se-

parazione, deve essere concretato con comportamenti tangibili e comunque suscettibili di pregiu-

dicare l’onore dell’altro.

La Consulta si mette al passo con i tempi disegnando la legittimità di un rapporto interpersonale

molto libero ed in linea con la molteplicità delle occasioni di incontro offerte dalla comunicazione

telematica.

Quest’atteggiamento di tolleranza non si spinge, però, a legittimare comportamenti che vadano al

di là del flirt, della “relazione di simpatia o di amoreggiamento leggero, superficiale, temporaneo e

avventuroso, caratterizzato da atteggiamenti sentimentali adottati senza un reale impegno o pro-

getto” per usare la definizione di Wikipedia, visto il tema.

Se è vero, però, che il codice civile impone il principio generico di buona fede nell’esecuzione dei

contratti, a maggior ragione si può sostenere che tale obbligo esiste nel “contratto nuziale”: un

contratto che, più di qualunque altro, si caratterizza per l’esigenza di rapporti corretti e trasparenti,

al di là di ciò che può pregiudicare la reputazione o essere negativamente apprezzato “dall’occhio

sociale”.

Di là dagli ermellini di Piazza Cavour un giudice ben più severo, in definitiva, è l’unico capace di

giudicare la legittimità etica di certi comportamenti: la propria coscienza.

[1] Cass. sent. n. 11516 del 23.05.2014

[2] Cass.sent. n. 8929 del 12.04.2013.

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IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA

LA COMUNIONE DEI BENI

La separazione personale tra i coniugi determina lo scioglimento della comunione legale dei beni.

Questo effetto decorre, in caso di separazione consensuale, dall’omologazione del verbale di se-

parazione; tra l’udienza presidenziale e il decreto di omologazione permane il regime di comunio-

ne legale.

Ciascuno dei coniugi può quindi liberamente disporre dei beni oggetto della comunione nei limiti

della quota, senza il consenso dell’altro.

La separazione di fatto tra i coniugi non ha l’effetto di sciogliere la comunione

Se i coniugi hanno scelto il regime della separazione dei beni al momento della celebrazione del

matrimonio (o successivamente), la loro separazione personale o il loro divorzio non hanno in li-

nea di principio alcun effetto sui loro beni personali: essi restano nella proprietà o nella disponibili-

tà del coniuge che li ha acquistati. Tuttavia per i beni acquistati durante il matrimonio bisogna di-

stinguere tra beni mobili e immobili perché molti sono i problemi nati nella pratica dal fatto che i

coniugi non riescono a provare la proprietà del bene.

Come si sceglie il regime patrimoniale?

Il regime di comunione legale dei beni si applica in automatico all’atto del matrimonio, senza

bisogno di alcuna comunicazione da parte dei coniugi. Se questi, dunque, nulla dichiarano a ri-

guardo del proprio regime patrimoniale, opera la comunione. Al contrario, per optare per la sepa-

razione dei beni è necessario effettuare apposita dichiarazione ricevuta dal notaio o ufficiale di

stato civile.

Dire che i coniugi sono “in comunione dei beni” significa approssimativamente che su tutti i beni

acquistati dopo la data del matrimonio, entrambi vantano la proprietà. Tuttavia, nella comunione

legale fra i coniugi, a differenza di quanto accade in quella ordinaria, non vi sono quote e non è

ammessa la partecipazione di soggetti terzi alla stessa.

In pratica i coniugi sono solidalmente titolari dei beni e dei diritti in comunione. Il singolo coniuge

non è titolare di una quota indivisa pari al 50% dei beni, ma è titolare di diritti unici e pieni sul be-

ne.

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Quali beni entrano nella comunione legale dei coniugi?

La comunione legale tra i coniugi non si estende a tutti i beni. Vi fanno parte i seguenti beni e diritti

(attività):

a- tutti i beni ed i diritti acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi durante il matrimo-

nio (salvo quanto di seguito esposto per particolari casi). Quanto acquistato durante il matrimonio

rientra nella comunione anche se l’acquisto è effettuato con denaro proveniente dall’attività lavora-

tiva di uno dei coniugi;

b- i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi;

c- i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi;

d- le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.

Tuttavia, mentre i beni indicati alle lettere a) e d) entrano direttamente in comunione (cosiddetta

comunione attuale), quelli indicati alle lettere b) e c) vi entrano solo eventualmente allo scioglimen-

to della comunione (cosiddetta comunione residuale).

I beni che uno dei coniugi acquista non per atto negoziale ma per usucapione o accessione (ac-

quisti a titolo originario) rientrano nella comunione legale a condizione che l’effetto dell’acquisto si

realizzi durante il matrimonio.

Quali beni non rientrano nella comunione legale dei coniugi?

Non rientrano nella comunione, e pertanto restano nella piena proprietà di ciascun singolo coniu-

ge, i seguenti beni:

a- di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto

reale di godimento;

b- acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando

nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;

c- di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori. Si tratta, ad esempio, del

vestiario e degli accessori, come anche dei beni utilizzati per gli interessi e svaghi personali (hob-

by).

Il valore del bene (anche rispetto alle condizioni economiche della famiglia) dovrebbe essere irri-

levante al fine di valutare se un bene è personale o in comunione, rilevando solamente la finalità

dell’acquisto; tuttavia, l’acquisto di un bene di particolare valore potrebbe essere inteso come in-

vestimento piuttosto che per uso personale;

d- che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di

un’azienda facente parte della comunione. Per svolgimento di attività professionale deve intender-

si sia l’attività professionale in senso stretto (quale quella del medico, dell’avvocato, dell’ingegnere

ecc.) che quella subordinata;

e- ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale

della capacità lavorativa (per es. la pensione di invalidità);

f- acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, pur-

ché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.

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È possibile escludere singoli beni dalla comunione?

I coniugi che abbiano optato per il regime della comunione legale dei beni possono escludere dal-

la comunione medesima singoli beni acquistati dopo il matrimonio. Ciò è possibile per i beni im-

mobili e per i beni mobili registrati (per es. auto). Per poter escludere l’altro coniuge dalla compro-

prietà del singolo bene è necessario che quest’ultimo partecipi all’atto di acquisto e da tale atto ri-

sulti espressamente l’esclusione con apposita dichiarazione.

Il coniuge non acquirente deve intervenire nell’atto di acquisto per dichiarare che l’acquisto è

escluso dalla comunione; in questo modo manifesta di essere a conoscenza di questo fatto.

In caso di acquisto di beni mobili, il coniuge può rendere la dichiarazione di aver acquistato con

ricavato di vendita di bene personale, senza particolare forma e anche oralmente ma è preferibile

che adotti la forma scritta per poterne dare prova in caso di necessità.

Se un coniuge vuole acquistare separatamente anche un solo bene che ordinariamente rientre-

rebbe nella comunione, deve stipulare con l’altro coniuge una convenzione matrimoniale deroga-

toria del regime di comunione. Non è invece sufficiente che indichi nell’atto che l’acquisto avviene

separatamente.

Si può vendere a terzi la propria comproprietà in comunione?

Il coniuge non può cedere a terzi la quota sulla massa dei beni comuni né, si ritiene, cedere unila-

teralmente la propria quota su singoli beni.

I terzi non possono espropriare la quota di comunione ma c’è comunque una responsabilità co-

mune.

Che succede coi creditori se uno dei coniugi ha dei debiti?

Per i debiti del singolo coniuge risponde prima quest’ultimo coi suoi beni personali e, se questi non

sono sufficienti, anche i beni in comunione ma nella misura della metà del credito; per i debiti co-

muni risponde il patrimonio in comunione e, se questo non è sufficiente, i beni personali di ciascun

coniuge nella misura della metà del credito. Pertanto i creditori personali del coniuge possono ag-

gredire, in via sussidiaria, i beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del co-

niuge obbligato.

Per esempio: se Tizio, sposato con Caia, ha contratto un debito per l’acquisto della propria auto di

lavoro, i creditori devono prima tentare di aggredire i beni personali di Tizio e, non riuscendovi,

possono aggredire i beni in comunione (per es. la casa), ma nei limiti del 50%.

I debiti che ciascun coniuge ha contratto prima del matrimonio sono debiti personali del coniuge.

Sono debiti comuni quelli assunti nell’interesse della famiglia, indipendentemente dalla natura or-

dinaria o straordinaria della relativa operazione.

Per i debiti contratti congiuntamente dai coniugi essi rispondono dei debiti comuni in via principale

con i beni della comunione e, in via sussidiaria, con i propri beni personali.

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Come avviene il pignoramento di un bene della comunione?

Nel momento in cui il creditore intende espropriare, per crediti personali di uno solo dei coniugi, un

bene della comunione, deve pignorare il bene per intero e non per la metà e deve fare trascrivere

il pignoramento contro entrambi i coniugi. All’atto della vendita o dell’assegnazione (a seconda del

tipo di esecuzione forzata intrapresa) si verifica lo scioglimento della comunione limitatamente al

bene pignorato e il coniuge non debitore ha diritto a ottenere la metà della somma lorda ricavata

dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione e pertanto il Giudice

assegna il ricavato della vendita, al lordo delle spese, per il 50% al coniuge non debitore.

Che succede se uno dei coniugi fallisce?

La sentenza che dichiara il fallimento di uno dei coniugi determina lo scioglimento della comunio-

ne legale con effetto dal deposito. Da tale momento i coniugi sono in separazione dei beni; i beni

che ricadevano nella comunione legale sono in comunione ordinaria fra i coniugi fino a quando

non procedano consensualmente o giudizialmente, alla divisione che può essere richiesta anche

dal curatore fallimentare.

Cos’è la comunione convenzionale?

In alternativa alla comunione legale e alla separazione dei beni, i coniugi possono scegliere il re-

gime intermedio della comunione convenzionale; in assenza di scelta si applica la comunione le-

gale.

Con la comunione convenzionale dei beni i coniugi disciplinano ogni singolo aspetto patrimoniale

dei loro rapporti; possono ad esempio convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità dei beni

acquistati durante il matrimonio ma tale convenzione riguarda sempre il regime complessivo e non

può essere limitata a beni specifici che sarebbero compresi nella comunione legale.

La comunione convenzionale si fonda essenzialmente su modifiche convenzionali al regime della

comunione legale, con l’ampliamento o il restringimento dei beni che ricadono in comunione e del-

le modalità di amministrazione.

La comunione convenzionale può coesistere con:

– un patto di famiglia;

– l’esistenza di un’impresa familiare.

LA SEPARAZIONE DEI BENI

Quando i coniugi vogliono conservare la titolarità esclusiva dei beni che acquisteranno durante il

matrimonio devono esplicitamente dichiarare nell’atto di matrimonio, o eventualmente anche in

una dichiarazione congiunta successiva, che optano per il regime della separazione dei beni.

Se i coniugi non formulano alcuna dichiarazione la legge prevede che in via automatica si applichi

il regime della comunione dei beni; in tal caso tutti beni che vengono acquistati da ciascuno di es-

si, durante il matrimonio, fanno parte della comunione, anche se non sono stati acquistati in co-

mune, e non ne possono disporre autonomamente.

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Se i coniugi optano per la separazione dei beni, ciascuno di loro ha invece il godimento e

l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo.

Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni esclusivi dell’altro o com-

pie atti relativi a essi, risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti.

Se uno dei coniugi amministra i beni dell’altro in base a una procura e con l’obbligo di rendi-

conto sui frutti, è responsabile secondo le regole del mandato.

Se invece con la procura non è stato fissato l’obbligo di rendiconto dei frutti, a richiesta dell’altro

coniuge o allo scioglimento del matrimonio, deve consegnare i frutti esistenti e non risponde di

quelli consumati.

È possibile con l’accordo o con la non opposizione dell’altro coniuge l’amministrazione e il godi-

mento congiunti del bene di cui uno solo di essi sia titolare esclusivo.

Se il coniuge gode dei beni dell’altro, è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario; deve

quindi usare l’ordinaria diligenza, non deve mutare la destinazione del bene e lo deve restituire

quando ne ha terminato l’uso.

Dei beni mobili in uso al nucleo familiare ciascuno dei coniugi può provare la proprietà esclusiva

con ogni mezzo; ma se nessuno di essi è in grado di dimostrare la propria titolarità esclusiva, il

bene si presume di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.

Per quanto riguarda invece i beni immobili, solitamente, questa regola non può valere, avvenen-

do l’acquisto anche con un’intestazione formale all’acquirente.

Se il coniuge non intestatario dell’immobile volesse invece dimostrare che l’intestazione è fittizia o

che il coniuge intestatario si sia prestato a un’interposizione reale, non potrebbe provarla con ogni

mezzo (ad esempio testimoni o giuramento). Dovrebbe semmai dimostrare che il coniuge si è ob-

bligato a ritrasferire all’altro il bene acquistato: e questo obbligo deve risultare, a pena di nullità, da

atto scritto. Solo la dimostrazione di avere smarrito incolpevolmente tale atto può consentire il ri-

corso ad altri mezzi di prova.

I coniugi in regime di separazione dei beni rispondono ciascuno dei propri debiti con i rispettivi

creditori che possono quindi aggredire solo i beni di cui sono titolari esclusivi.

Ognuno di essi tuttavia mantiene l’obbligo di concorrere con le proprie sostanze, anche con quelle

di cui è titolare esclusivo, alle esigenze dell’altro coniuge e dei figli. In ragione di questo, quando

uno dei coniugi abbia assunto nei confronti di terzi delle obbligazioni nell’interesse della famiglia

l’altro coniuge, anche se in regime di separazione dei beni, può essere chiamato ad adempiere

solidalmente queste obbligazioni.

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COMUNIONE O SEPARAZIONE: COSA SCEGLIERE?

di Valentina Azzini

Quando ci si sposa è necessario dichiarare quale regime patrimoniale si intende scegliere per la

famiglia che, con il matrimonio appunto, si andrà a costituire.

Durante la celebrazione del matrimonio, civile o religioso, i coniugi sono tenuti a precisare se vo-

gliono la separazione dei beni, mentre se tacciono scatta automaticamente la comunione dei beni.

Infatti il “regime legale”, ossia quello he la legge considera quale scelta “standard”, è quello della

comunione dei beni.

Scegliendo la comunione legale, tutti i beni acquistati dopo la data delle nozze sono di proprietà di

entrambi i coniugi in uguale misura, anche se sono stati acquistati solo da uno di essi.

In regime di comunione cadono però anche i debiti, che vengono quindi condivisi dai coniugi.

Restano estranei alla comunione solo determinati beni espressamente indicati dalla legge: ad

esempio l’eredità acquisita da uno dei coniugi, oppure i beni necessari per l’esercizio della profes-

sione.

Con il regime di separazione dei beni, invece, ciascun coniuge sarà titolare esclusivo del bene da

lui acquistato, anche se l’acquisto avviene durante il matrimonio e debiti di ciascun coniuge non

ricadranno anche sull’altro.

Contro

I problemi relativi alla comunione dei beni sono molteplici e sorgono soprattutto in caso di separa-

zione:

– spesso, ad esempio, è difficile distinguere tra beni posseduti prima o acquistati dopo il matrimo-

nio e provare quindi chi ne sia il solo proprietario;

– i soldi utilizzati per ristrutturazioni e migliorie degli immobili sono difficili da quantificare e dividere

in sede di separazione;

– è difficile provare che le donazioni fatte in modo non ufficiale, ad esempio dai genitori di uno dei

due coniugi, appartengono a questo soltanto;

– se il coniuge che esercita un’attività commerciale autonoma si è attribuito dei beni che non

c’entrano con l’attività, intestandoli alla ditta, questi anche se di fatto appartengono al patrimonio

comune, saranno riconosciuti soltanto al coniuge in questione;

– è difficile stabilire la proprietà di uno solo dei coniugi di alcuni beni personali, come i gioielli;

– se uno dei coniugi è titolare di un’impresa e fallisce o comunque matura debiti nei confronti di

fornitori e dipendenti, i creditori potranno pignorare i beni, anche se per metà di proprietà dell’altro

coniuge, che con quei debiti non ha nulla a che fare.

Pro

I vantaggi della separazione dei beni sono invece molteplici e immediati:

– la separazione conviene quando uno dei due coniugi ha già usufruito degli sconti sulle imposte

prima casa e vuole mantenere l’immobile; se in questo caso la famiglia vuole acquistare un altro

immobile, si potrà ugualmente usufruire dell’imposta agevolata di registro al 3% o dell’Iva al 4%;

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– se uno dei due coniugi esercita un’impresa commerciale, la separazione dei beni conviene per-

ché, in caso di fallimento, si salvano comunque i beni posseduti dall’altro coniuge, che non vengo-

no così coinvolti nel fallimento stesso;

– se uno dei due coniugi ha dei figli da un altro matrimonio, la separazione dei beni col nuovo ma-

trimonio, eviterà al coniuge rimasto in vita, alla morte dell’altro, di litigare con i figli dell’altro per

l’eredità.

È comunque sempre possibile modificare il regime patrimoniale scelto al momento delle nozze,

ma questo si potrà fare solo con l’assistenza di un Notaio, con i costi che ciò comporta. [1] Artt. 177 e 178 cod. civ.

[2] Art. 191 cod. civ.

Il FONDO PATRIMONIALE

Cos’è La coppia sposata, anche in regime di separazione dei beni, può istituire un fondo patrimoniale su

beni mobili o immobili (per come meglio vedremo a breve): col fondo patrimoniale non si vende,

né si dona il bene, ma lo si “mette al riparo”, entro determinati limiti, dalle aggressioni dei credi-

tori, pur rimanendo detto bene nella titolarità del precedente intestatario (se la coppia è in regime

di comunione, il bene rimane al 50% di entrambi). Per questo, nell’ambito dei mezzi di tutela del

patrimonio, il fondo è certamente preferibile rispetto alla donazione o alla vendita: il bene, infatti,

non esce fuori dalla disponibilità del proprietario.

Dunque il fondo patrimoniale può considerarsi come un patrimonio di destinazione, separato dai

beni dei singoli coniugi, ossia un fondo costituito con determinati beni per far fronte esclusivamen-

te ai bisogni della famiglia. In particolare, i beni del fondo sono funzionali al soddisfacimento degli

obblighi di assistenza reciproca e di mantenimento, educazione e istruzione dei figli: per realizzare

tale finalità il codice civile stabilisce che nessun creditore può pignorare i beni immessi nel fondo

patrimoniale. Con una sola eccezione: se la spesa che ha dato origine al debito è conseguenza di

uno dei bisogni della famiglia, il relativo creditore potrà pignorare il fondo patrimoniale. Tanto per

fare un esempio: poiché gli oneri condominiali sono una spesa inerente a un bene essenziale per

la famiglia – la casa – il condominio potrà pignorare l’immobile inserito nel fondo patrimoniale; così

le spese di istruzione per i figli, le tasse sull’abitazione, ecc.

Chi può costituire il fondo patrimoniale?

Possono costituire il fondo patrimoniale:

– ciascuno o entrambi i coniugi sposati;

– un terzo.

Non può costituire il fondo la coppia di conviventi.

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Quali beni possono essere inseriti nel fondo patrimoniale?

Sono oggetto di fondo patrimoniale i beni immobili, i mobili iscritti in pubblici registri e i titoli di cre-

dito. Non possono essere oggetto del fondo, invece, l’azienda e i beni futuri.

Nel fondo patrimoniale può essere conferito il diritto di proprietà sui beni immobili, sui mobili iscritti

in pubblici registri e sui titoli di credito; dubbi sussistono sull’attribuzione di altri diritti reali limitati

(uso, abitazione, servitù, enfiteusi, usufrutto ecc.).

Come si costituisce il fondo patrimoniale?

Se costituito da uno o da entrambi i coniugi, è necessario l‘atto pubblico con la presenza irrinun-

ciabile dei testimoni; se costituito da un terzo, è necessario l’atto pubblico oppure il testamento (in

tutte le sue forme: dunque, non necessariamente il solo testamento pubblico, ma anche l’olografo,

il segreto o i testamenti speciali).

La costituzione del fondo patrimoniale per atto tra vivi, effettuata dal terzo, si perfeziona con

l’accettazione dei coniugi. L’accettazione può essere fatta anche con atto pubblico posteriore.

In quanto convenzione matrimoniale, il contratto costitutivo del fondo patrimoniale deve essere

annotato a margine dell’atto di matrimonio, con l’indicazione della data del contratto, del notaio

rogante, delle generalità dei contraenti. Inoltre:

– qualora si tratti di beni immobili o beni mobili registrati, l’atto va trascritto nei pubblici registri. Tut-

tavia, l’opponibilità del fondo ai creditori opera a partire dalla semplice annotazione dell’atto a

margine dell’atto di matrimonio, non rilevando a tal fine la trascrizione. Se l’annotazione della con-

venzione all’atto di matrimonio è successiva all’iscrizione ipotecaria o al pignoramento il fondo pa-

trimoniale non è opponibile al creditore procedente. Allo stesso risultato si perviene quando il pi-

gnoramento sia successivo all’annotazione, ma l’ipoteca sia stata iscritta in precedenza, in quanto

con l’iscrizione sorge immediatamente per il creditore il potere di espropriare il bene con prevalen-

za rispetto ai vincoli successivi;

– qualora si tratti di titoli di credito, essi devono essere vincolati rendendoli nominativi (ciò è ne-

cessario, ovviamente, qualora non lo siano già, ma abbiano la forme dei titoli all’ordine o al porta-

tore); inoltre, si deve procedere all’annotazione del vincolo sul titolo stesso e nel registro

dell’emittente.

L’azione revocatoria

Il fondo patrimoniale – così come ogni altro atto di disposizione dei propri beni (v. donazione, ven-

dita, trust, ecc.) – può essere oggetto di revocatoria da parte dei creditori: in pratica, entro 5 anni

dalla data di costituzione del fondo, ogni creditore che riesca a dimostrare che il debitore ha agito,

istituendo il fondo, al solo scopo di frodare le ragioni dei creditori, può far sì che il fondo stesso

venga (nei suoi confronti) dichiarato inefficace. Con la conseguenza che i relativi beni ivi inseriti

saranno pignorabili.

Tale azione revocatoria viene concessa a tutti i creditori per debiti anteriori alla costituzione del

fondo (e non per quelli successivi). Inoltre, la possibilità della revocatoria vale per qualsiasi tipo di

creditore e non solo per quelli nati da spese per esigenze della famiglia.

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La prova che il fondo è stato creato solo per frodare le garanzie dei creditori si dà semplicemente

dimostrando che il debitore non ha altri beni, di pari o superiore valore, sui quali il creditore può

agire con l’esecuzione forzata.

Limite alla costituzione del fondo

La costituzione ad opera di uno solo dei coniugi o di un terzo è soggetta, in caso di successione,

ad azione di riduzione della legittima, qualora leda la quota dei legittimari del costituente; allo

stesso modo, la costituzione di fondo patrimoniale non può essere imposta a un legittimario.

Con una recente riforma, è stato previsto che la pignorabilità dei beni inseriti nel fondo patrimo-

niale non richiede la previa azione revocatoria se il creditore, purché sorto prima della costitu-

zione del fondo stesso, abbia trascritto il proprio atto di pignoramento entro 1 anno dalla trascri-

zione del fondo nei pubblici registri. In pratica, il regime di opponibilità del fondo patrimoniale può

essere così sintetizzato:

– entro 1 anno dalla costituzione del fondo, è sempre possibile il pignoramento dei beni del fondo,

da parte dei creditori, a condizione che questi abbiano trascritto, nell’anno successivo alla costitu-

zione del fondo medesimo, il proprio atto di pignoramento;

– superato l’anno, e per i successivi 4 anni (per un totale di 5 anni dalla data di costituzione del

fondo), è sempre possibile l’azione revocatoria.

Modificabilità della composizione del fondo

È consentito l’ampliamento del novero dei beni oggetto del fondo patrimoniale, adottando le stes-

se modalità di forma con le quali si è costituito il fondo (l’atto pubblico con la presenza irrinunciabi-

le dei testimoni, se costituito da uno o entrambi i coniugi; l’atto pubblico o il testamento in tutte le

sue forme, se costituito da un terzo); si ritiene consentita anche la riduzione dei beni oggetto di

fondo patrimoniale, purché non vi siano figli minori.

Dunque, non per tutti i creditori vale la regola del divieto di pignoramento dei beni immessi nel

fondo patrimoniale, ma solo per quelli contratti per esigenze differenti dai bisogni familiari.

Di recente la Cassazione ha allargato notevolmente il concetto di “spese per i bisogni della

famiglia” ricomprendendovi anche i debiti dell’attività lavorativa di uno dei due coniugi quando è

con essa che il nucleo familiare si mantiene. Si comprende, così, che la funzione di tutela del fon-

do si sta gradualmente sgretolando.

A chi spetta la titolarità dei beni sul fondo?

La proprietà dei beni del fondo spetta a entrambi i coniugi, salvo che nell’atto di costituzione sia

diversamente stabilito.

L’amministrazione dei beni del fondo, a prescindere dalla titolarità (congiunta o di uno solo dei co-

niugi) è regolata dalle norme sulla comunione legale (art. 168, comma 3, c.c.). Pertanto:

– gli atti di ordinaria amministrazione e la rappresentanza in giudizio spettano disgiuntamente a

entrambi i coniugi;

– gli atti di straordinaria amministrazione, se non è stato diversamente disposto nell’atto di costitu-

zione, devono essere compiuti congiuntamente da entrambi i coniugi;

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– in tale ultima ipotesi, però, se vi sono figli minori, non si possono alienare, ipotecare, dare in pe-

gno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale senza l’autorizzazione del giudice che può

rilasciarla nei soli casi di necessità o di utilità evidente.

I frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia.

Si può vendere un bene inserito nel fondo patrimoniale?

Salvo che sia stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, i beni del fondo patrimonia-

le possono essere alienati, ipotecati, dati in pegno o comunque essere vincolati solo con il con-

senso di entrambi i coniugi e in presenza di figli minorenni con l’autorizzazione concessa dal giu-

dice nei soli casi di necessità od utilità evidente.

Il provvedimento autorizzativo viene emesso dal giudice in camera di consiglio.

Limiti al pignoramento dei beni nel fondo patrimoniale

Come detto in precedenza, sui beni del fondo e sui frutti di essi potranno agire in via esecutiva,

con un pignoramento, solo i soggetti il cui diritto di credito sia sorto per il soddisfacimento dei bi-

sogni della famiglia e i soggetti il cui credito sia stato contratto per scopi estranei al soddisfacimen-

to della famiglia, ma che in buona fede ignorino tale circostanza. Ciò vale sia se il creditore è sorto

prima che dopo la costituzione del fondo.

L’esecuzione sui beni e sui frutti degli stessi non può aver luogo per debiti che il creditore cono-

sceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. L’onere di provare

l’estraneità del credito ai bisogni familiari e la consapevolezza del creditore grava sui coniugi.

Separazione e divorzio: quali effetti sul fondo?

Il fondo cessa di esistere con l’annullamento del matrimonio o il divorzio sempre a condizione

che non ci siano figli minorenni; se invece ve ne sono, il fondo cessa con il raggiungimento, da

parte loro, della maggiore età.

Non determinano, invece, lo scioglimento del fondo la separazione giudiziale dei beni o la separa-

zione personale dei coniugi o il fallimento di uno di essi (peraltro, in tale ultima ipotesi, il fondo pa-

trimoniale è acquisito alla massa fallimentare per soddisfare i soli creditori che avrebbero diritto di

agire su tali).

Quando a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del

matrimonio il fondo si scioglie, venuti a maggiore età tutti i figli, il giudice – considerate le condi-

zioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza – può attribuire ai figli medesimi,

in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.

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FONDO PATRIMONIALE E DIVORZIO: un vincolo a tempo indeterminato?

di Vincenzo Rizza

La progressiva perdita di importanza dell’istituto del Fondo patrimoniale aggravata dalla possibilità

di pignoramento entro l’anno dalla sua costituzione, discende anche da alcune caratteristiche che

consigliano estrema prudenza prima di costituirlo.

È stata già introdotta dal Governo la norma che prevede la pignorabilità del bene facente parte del

Fondo patrimoniale entro un anno dalla sua costituzione [1]. Ciò significa che il creditore non avrà

bisogno di instaurare una causa per dimostrare che la costituzione del Fondo era stata adottata

quale misura per proteggere un bene – normalmente la casa coniugale – da eventuali procedure

esecutive. Chi ha un credito potrà agire sul bene direttamente senza dover prima passare da un

Tribunale se l’azione viene iniziata entro l’anno dalla stipula presso il notaio del relativo atto pub-

blico.

La nostra legislazione tende oramai a togliere significato ad un istituto che era stato introdotto

nell’ordinamento insieme alla riforma del diritto di famiglia intervenuta nel 1975 [2] e che aveva

previsto, tra l’altro, il regime legale della comunione dei beni se i coniugi non avevano optato al

momento del matrimonio, o successivamente, per quello della separazione dei beni.

Vi erano già, però, alcune controindicazioni all’utilizzo di questo istituto che, spesso, non vengono

sufficientemente valutate prima di istituire il Fondo patrimoniale e che, successivamente, possono

portare i coniugi a pentirsi di aver stipulato questo tipo di atto, apparentemente di grande utilità per

proteggere alcuni beni nel caso in cui gli affari di uno degli interessati avessero cominciato ad an-

dar male.

Una delle conseguenze più gravose – a parte il pesante vincolo che costringe ad andare dal Giu-

dice per modificarlo qualora se ne ravvisi la necessità – previste dal Codice Civile riguarda il caso

dell’esistenza di figli minori.

Il Codice [3] che regola l’ipotesi della sua cessazione, stabilisce che il Fondo patrimoniale si estin-

gue in seguito all’annullamento del matrimonio, dello scioglimento o della cessazione degli effetti

civili del matrimonio. E se questa potrebbe sembrare una conseguenza logica del venir meno dello

scopo dell’istituto, che è quello di destinare dei beni ai bisogni della famiglia, molti non fanno in

genere caso ad un altro effetto, anch’esso previsto dal medesimo articolo nel secondo comma: se

vi sono figli minori, il vincolo dura fino a che essi non hanno raggiunto la maggiore età.

Non è raro il caso di coniugi divorziati che, sebbene abbiano sciolto definitivamente il loro matri-

monio con il divorzio, si trovano legati al vincolo costituito quando le cose andavano bene, per

molti anni ancora dopo aver cessato qualunque rapporto. Se vi sono più figli, occorre che tutti ab-

biano raggiunto la maggiore età. E questo potrebbe ancora non bastare!

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Intanto occorre dire che per modificare la struttura del Fondo patrimoniale occorrerà rivolgersi al

Tribunale dei Minorenni e questo implica già un procedimento complesso e costoso, nel quale è

necessario rivolgersi ad un avvocato. Secondo molti studiosi ed anche per alcuni Tribunali, inoltre,

il Fondo perdura anche oltre la maggiore età dei figli, se essi non hanno raggiunto l’autosufficienza

economica. La stessa disciplina applicata in materia di alimenti: i genitori, infatti, possono essere

obbligati a corrisponderli anche dopo i diciotto anni, se i figli non hanno raggiunto l’indipendenza

economica.

Si tratta di situazioni nelle quali, in definitiva, i coniugi si troveranno per molti anni a non poter di-

sporre del bene, sebbene il matrimonio sia cessato da tempo.

E se questo è già un effetto della legislazione esistente, non è da escludere che ulteriori interventi

possano ulteriormente peggiorarla.

Attenzione, dunque: il rimedio potrebbe essere peggiore del male!

[1] L. 17/05/1975 n.151

[2] Decreto legge n. 83/2015 del 27.06.2015

[3] Art. 171 cod. civ.

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GLI EFFETTI ECONOMICI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO

L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DIVORZILE PER IL CONIUGE

di Maria Elena Casarano

Spesso la parola “mantenimento” è usata per riferirsi a situazioni diverse.

Una cosa è, infatti, l’assegno di mantenimento, una cosa quello divorzile e altra cosa ancora sono

gli alimenti. Pur avendo, infatti, tutti questi benefici una funzione assistenziale del coniuge, essi

hanno, tuttavia, alla base diversi presupposti. Cerchiamo allora di fare chiarezza.

L’assegno di mantenimento

L’assegno di mantenimento [1] è un importo periodico dovuto da un coniuge all’altro dopo la sepa-

razione e trova la sua fonte nel reciproco dovere di solidarietà tra marito e moglie previsto dalla

legge [2]. Esso è legato al fatto che la separazione non fa cessare il vincolo del matrimonio ma lo

sospende semplicemente.

Tale assegno vuole permettere al coniuge (che non abbia mezzi sufficienti per sostenere un teno-

re di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio) di adeguarsi alle nuove condizioni di vi-

ta derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare.

Dunque, la legge non si riferisce allo stato di bisogno del soggetto più debole bensì alla insuffi-

cienza di risorse economiche idonee ad assicurargli la conservazione del tenore della vita coniu-

gale e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stessa.

Ove, invece, il coniuge versi in uno stato di bisogno vero e proprio, egli potrà richiedere all’altro

di versargli gli alimenti, ossia quell’importo necessario a far fronte ai bisogni di vita primari. Gli

alimenti possono essere chiesti da chiunque anche al di fuori del giudizio di separazione e divor-

zio, a prescindere dall’eventuale sentenza di addebito e indipendentemente dall’età del richieden-

te (ne abbiamo parlato in questo articolo: “Stato di bisogno di familiari anziani: alimenti, come e da

chi ottenerli”).

L’assegno divorzile, ossia quello dovuto da uno dei coniugi dopo il divorzio, si basa, sulla definitiva

chiusura di ogni legame tra le parti.

Per tale motivo, pur essendo anch’esso finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita

goduto durante la vita matrimoniale, ai fini del suo riconoscimento la legge richiede la sussistenza

di requisiti più severi (vedi dopo): non basta, dunque, la mancanza di adeguati redditi, ma occorre

anche che si trovi nella oggettiva impossibilità di procurarseli.

Ciascuno di questi benefici, vanno espressamente richiesti in giudizio sicché il giudice (a differen-

za di quanto avviene per l’assegno di mantenimento per i figli) non potrebbe disporli se non gli sia

stata fatta esplicita istanza tal senso.

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Quali sono i requisiti per aver diritto all’assegno di mantenimento?

In caso di separazione dei coniugi, la legge [1], ai fini del riconoscimento dell’assegno, fa riferi-

mento a due precise condizioni.

Quella che l’eventuale beneficiario:

– non abbia ricevuto una pronuncia di addebito a seguito del giudizio di separazione (cioè che il

giudice non l’abbia ritenuto responsabile del fallimento del matrimonio) per aver tenuto una con-

dotta contraria ai doveri coniugali;

– non disponga di “adeguati redditi propri“.

Attenzione però: disponendo l’obbligo di versamento dell’assegno, il giudice deve cercare di rie-

quilibrare le posizioni economiche dei coniugi, permettendo ad entrambi i coniugi (e non solo a

quello più debole) di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio, se com-

patibile con l’attuale reddito complessivamente disponibile oppure (ove ciò non sia concretizzabile)

consentire un tenore di vita che si avvicini il più possibile a questo.

Cosa deve valutare il giudice?

Con tale obiettivo, il giudice dovrà valutare, anche avvalendosi dell’ausilio di un consulente tecni-

co, “le circostanze e i redditi dell’obbligato”, accertando:

– quale sia stato il tenore di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio e se i mezzi economici di

cui dispone il richiedente gli permettano di conservarlo anche in assenza dell’assegno;

– la sussistenza o meno di una disparità economica tra le parti attraverso l’analisi dei redditi deri-

vanti dall’attività lavorativa anche, cosiddetta “in nero” di ciascuna (in caso di disoccupazione del

richiedente, l’attitudine a svolgerla tenuto conto dell’età, della salute e dell’eventuale esperienza

lavorativa acquisita), il possesso di titoli, depositi e conti correnti;

– ogni utilità, diversa dal denaro, valutabile in termini economici: si pensi alla titolarità di immobili

che producono reddito, all’assegnazione della casa coniugale (utilità valutabile in misura pari al ri-

sparmio della spesa necessaria per godere dello stesso immobile a titolo di locazione), ecc.;

– le spese gravanti su ciascuno dopo la separazione, ad esempio il mutuo sulla casa coniugale, il

canone di locazione o il mutuo su una nuova casa, la presenza di figli nati da un’altra relazione, le

spese sanitarie ove vi sia una malattia cronica, ecc.

Stabilendo la misura dell’assegno, il giudice – come dicevamo – dovrà cercare di riequilibrare

l’eventuale disparità economica delle parti: l’attribuzione dell’assegno al coniuge economicamente

più debole non dovrà, infatti, provocare effetti analoghi sull’altro.

Si comprende bene, allora, come tale compito non sia certamente facile anche tenuto conto che,

di norma, l’elemento in maggiore discussione nelle cause di separazione è costituito proprio dalla

verifica del reale patrimonio e reddito di marito e moglie.

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Pertanto il magistrato dovrà:

– in un primo momento (ai fini della pronuncia dei provvedimenti provvisori pronunciati alla prima

udienza presidenziale) svolgere una cognizione sommaria della documentazione depositata dalle

parti

– e, di seguito, nel corso della causa, valutare ogni prova documentale e testimoniale che lo con-

duca alla stima non solo del pregresso tenore di vita dei coniugi, ma anche della loro attuale ed ef-

fettiva condizione economica, anche avvalendosi dell’ausilio della polizia tributaria. Tale indagine

potrà anche portare a smentire le risultanze documentali inizialmente prodotte.

Assegno di divorzio: i requisiti per il riconoscimento

Come dicevamo in premessa, ai fini del riconoscimento di tale assegno, poiché col divorzio il le-

game coniugale si scioglie in modo definitivo, la legge richiede dei requisiti più severi.

Non è sufficiente, infatti, che l’ex coniuge non abbia mezzi adeguati, ma occorre anche che non

possa procurarseli per ragioni oggettive.

A riguardo, si registra negli ultimi tempi una maggior rigidità da parte dei giudici i quali non solo

sembrano circoscrivere il riconoscimento dell’assegno ai casi di comprovata impossibilità a

procurarsi un reddito da parte del coniuge più debole, ma anche riguardo alla prova che questi

dovrà fornire a riguardo.

Non basta, insomma, domandare l’assegno dichiarandosi, ad esempio, casalinga; bisognerà, in-

vece, dimostrare in giudizio la propria effettiva incapacità economica: prova tanto più difficile quan-

to più giovane sia l’età di chi richiede l’assegno e quanto minori siano stati gli anni di matrimonio

(di tanto abbiamo parlato, di recente nell’articolo: “Divorzio: addio mantenimento della moglie”).

Cosa deve valutare il giudice?

La legge sul divorzio [3] elenca in modo più dettagliato i requisiti (corrispondenti alle “circostanze”

e ai “redditi” di cui all’assegno di mantenimento) dei quali il giudice deve tener conto ai fini del ri-

conoscimento e della quantificazione dell’assegno divorzile. Essi, tuttavia, non costituiscono un

elenco tassativo, potendo il magistrato valutarne solo alcuni.

Si tratta in particolare:

– della durata del matrimonio: la brevità dell’unione rende più debole il vincolo familiare da cui

scaturisce l’obbligo di versare l’assegno; in altre parole, un matrimonio durato poco non può costi-

tuire una sorta di “assicurazione a vita” per il coniuge più debole, il quale potrà sì aspettarsi di ri-

cevere un assegno dall’ex ma certamente di importo ridotto rispetto a quanto previsto. Tra l’altro,

la Cassazione ha chiarito [4] che il diritto all’assegno viene meno nei casi in cui il matrimonio sia

stato celebrato solo formalmente senza poi dar vita ad alcuna comunione materiale e spirituale tra

i coniugi per volontà e colpa del coniuge che richiede l’assegno;

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– del contributo personale fornito alla vita famiglia durante il matrimonio: si pensi alla donna

che pur non avendo mai lavorato abbia comunque consentito per anni al marito un notevole ri-

sparmio in quanto si sia sempre occupata della cura della casa e dei figli [5]. Tale contributo deve

essere stato effettivo e non potrebbe certamente ritenersi sussistente nel caso in cui la donna, pur

essendo sempre rimasta in casa, si sia abitualmente avvalsa dell’aiuto di colf e di baby sitter, pe-

sando parimenti sul bilancio familiare;

– del contributo economico fornito alla conduzione familiare durante il matrimonio: in tal caso il

giudice dovrà più che altro fare riferimento alle risultanze emerse a riguardo nel giudizio di sepa-

razione;

– delle condizioni dei coniugi, ossia della loro attuale situazione patrimoniale e personale (e i

suoi riflessi sul piano economico): si pensi all’instaurazione di una nuova famiglia da parte del co-

niuge che dovrebbe versare l’assegno oppure al subentro di gravi problemi di salute che riducono

la capacità lavorativa di uno dei due;

– delle ragioni della decisione, cioè dei comportamenti, anche processuali, che hanno portato al-

la definitiva conclusione del rapporto coniugale: si tratta comunque di un criterio che di norma vie-

ne ritenuto marginale nei giudizi di divorzio in quanto, di solito, in tale sede non trovano ingresso

prove attinenti alle cause del fallimento del matrimonio. Fa eccezione il caso in cui vi sia stato di-

vorzio immediato senza separazione, come, ad esempio, quando il matrimonio non è stato con-

sumato.

L’assegno di divorzio deve uniformarsi a quello di separazione?

A volte accade che in sede di divorzio, venga confermato al coniuge richiedente un assegno di-

vorzile di misura pari a quello di mantenimento riconosciuto con la sentenza di separazione.

Ciò non deve rappresentare una regola generale, per quanto accada non di rado che l’assegno di

mantenimento sia preso dal magistrato a parametro di quello divorzile.

In realtà, come chiarito dalla Suprema corte [6], la diversa natura dei due assegni fa sì che il giu-

dice non possa riconoscere l’assegno di divorzio motivandolo solo in base alla condizione econo-

mica dei coniugi al momento della separazione, ma richiede la necessaria valutazione delle attuali

condizioni attuali dei coniugi, accertando se il coniuge più debole si trovi nella impossibilità ogget-

tiva di procurarsi mezzi adeguati al proprio sostentamento.

Potrebbe ben darsi, quindi, che l’assegno divorzile abbia un importo diverso (maggiore o minore)

rispetto a quello di mantenimento o anche che il giudice ritenga che siano venuti meno i presup-

posti per il suo riconoscimento.

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Esistono dei modi per calcolare l’assegno?

Non esistono dei criteri matematici che consentono il calcolo esatto dell’assegno e, pertanto, il

giudice dispone di una certa discrezionalità a riguardo: come abbiamo visto, infatti, sono molti i

fattori che il giudice deve valutare ai fini del riconoscimento del beneficio e, soprattutto, dipendono

da molteplici variabili.

In ogni caso, alcuni specifici studi hanno permesso la realizzazione di tabelle utilizzate in molti tri-

bunali che fanno riferimento a uno specifico modello di calcolo (cosiddetto MoCAM: Modello

Calcolo Assegno Mantenimento) che, attraverso un software, consente di calcolare l’ammontare

dell’assegno sia per il coniuge (nei casi di separazione e divorzio) che per i figli (anche nel caso di

rottura di una unione di fatto).

Il coniuge può rinunciare all’assegno?

In generale la rinuncia all’assegno è sempre possibile, purché riferita solo all’assegno di manteni-

mento personale e non a quello per i figli e d’altronde, come dicevamo, il giudice può disporlo solo

se vi sia una espressa richiesta in tal senso.

Rimane fermo il fatto che tale rinuncia vale con riferimento alle condizioni di autosufficienza esi-

stenti al momento della separazione e non preclude in assoluto che ove esse mutino (si pensi ad

un problema di salute che non permetta al soggetto di poter lavorare) il coniuge possa chiedere al

giudice che l’assegno gli venga versato.

L’assegno può essere modificato?

Ciascuno dei coniugi può sempre chiedere, anche indipendentemente dall’altro, la modifica (nel

senso di un aumento, di una riduzione o anche di una revoca) dell’assegno. Tale richiesta deve

comunque essere motivata e basarsi su una circostanza che abbia modificato i presupposti della

precedente provvedimento (si pensi al caso di perdita del posto di lavoro o alla nascita di un figlio).

Quando si perde il diritto all’assegno?

Il diritto all’assegno (a seconda dei casi, di mantenimento o divorzile) viene meno:

– se l’avente diritto subisce l’addebito della separazione per aver assunto dei comportamenti con-

trari ai doveri derivanti dal matrimonio (fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale, colla-

borazione nell’interesse della famiglia). In tal caso, rimane fermo il diritto ad ottenere dal coniuge

gli alimenti qualora versi in stato di bisogno;

– in caso di mutamento delle condizioni di reddito richieste dalla legge per averne diritto e tali

da consentire al coniuge beneficiario dell’assegno di mantenere un tenore di vita analogo a quello

avuto durante il matrimonio;

– se dopo la separazione, interviene la riconciliazione dei coniugi; attenzione però: in tal caso

non sarebbe sufficiente provare che i coniugi abbiano continuato a convivere anche dopo che il

giudice li ha autorizzati a vivere separatamente;

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– se, ottenuto il divorzio, l’avente diritto contrae nuovo matrimonio, in quanto in tale ipotesi i do-

veri di assistenza e solidarietà coniugale si trasferiscono sul nuovo coniuge: peraltro, poiché le

nuove nozze non costituiscono una circostanza soggetta a valutazione discrezionale (in quanto ri-

levabili da semplice indagine anagrafica), il coniuge obbligato potrà cessare di versare l’assegno

senza rivolgersi al giudice per ottenere la revoca della pronuncia che lo disponeva [7];

– se il beneficiario dell’assegno intraprenda una nuova convivenza, indipendentemente dal fatto

che in seguito la relazione possa rompersi: come, infatti, chiarito di recente dalla Cassazione [8] la

formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determina la perdita defi-

nitiva dell’assegno divorzile in quanto “una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale,

libera e consapevole da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli, dovreb-

be essere necessariamente caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle

vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del

rapporto tra conviventi”.

In tal caso, tuttavia, la cessazione del diritto non è automatica, ma il coniuge interessato a non

versare più l’assegno dovrà sottoporre la sua istanza di revoca alla valutazione del giudice, pro-

vando le circostanze della stabilità della nuova relazione intrapresa dall’ex;

– in caso di morte del coniuge obbligato al versamento.

In tale ipotesi, il beneficiario dell’assegno ha diritto ad altre forme di tutela economica sia sul piano

previdenziale che successorio, come ad esempio la pensione di reversibilità e l’assegno a carico

dell’eredità.

La prescrizione degli assegni

Assegno di mantenimento

Il diritto al pagamento dell’assegno di mantenimento ha ad oggetto prestazioni autonome, distinte

e periodiche da pagare in termini inferiori all’anno per cui il termine di prescrizione è di 5 anni de-

correnti dalle singole scadenze di pagamento [1].

Tale infatti è la disciplina prevista dal codice civile [2] secondo cui si prescrive in cinque anni (…)

in generale tutto ciò che deve pagarsi periodicamente entro un anno o in termini più brevi.

Il termine riguarda le singole rate e inizia a decorrere dalle singole scadenze di pagamento delle

prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento. Dunque

la prescrizione non decorre dalla data della pronuncia della sentenza di separazione [3].

La prescrizione diventa però di 10 anni se, tra le parti, sorge contestazione sull’obbligo di corri-

spondere uno o più mensilità e se sull’esistenza di tale obbligo si va davanti al giudice: il magistra-

to, infatti, accerta l’obbligo di pagare la somma con sentenza che, una volta divenuta definitiva,

garantisce un diritto di durata decennale. In tali casi, infatti, si applica il termine di prescrizione del-

le sentenze e di tutti i provvedimenti del giudice che è di dieci anni.

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La prescrizione dell’assegno divorzile

Le stesse regole viste per la prescrizione dell’assegno di mantenimento valgono per quello divorzi-

le. Il credito relativo al pagamento dell’assegno dei figli e del coniuge ha ad oggetto prestazioni

periodiche da pagare in termini inferiori all’anno per cui il termine di prescrizione è di 5 anni decor-

renti dalle singole scadenze di pagamento.

La prescrizione decennale si applica solo se sorge contestazione sull’obbligo di corrispondere uno

o più ratei e se sull’esistenza di tale obbligo intervenga l’accertamento giudiziale sul quale si formi

il giudicato.

[1] Cass. sent. n. 13414/2010.

[2] Art. 2948 n. 4 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 7981/2014, n. 6975/2005.

LA RIVALUTAZIONE DEGLI ASSEGNI

di Maria Elena Casarano

La rivalutazione Istat rappresenta un meccanismo di aggiornamento dell’importo (indicato in sen-

tenza) relativo al mantenimento in favore del coniuge e/o della prole.

L’aggiornamento Istat costituisce un vero e proprio obbligo stabilito dalla legge [1] sul divorzio, ma

che – per via analogica – viene esteso anche alla separazione.

Che funzione svolge?

La rivalutazione dell’assegno di mantenimento ha il duplice scopo:

– di adeguare l’importo dovuto al coniuge a un parametro che tiene conto del costo medio della vi-

ta, ossia del prezzo medio di un dato genere di beni (come pane, latte, eccetera) di solito rappre-

sentativi del consumatore medio;

– di conservare il potere d’acquisto dell’assegno (ad esempio: se oggi con un euro si può acqui-

stare un litro di latte fresco, il prossimo anno occorrerà un euro e dieci centesimi per lo stesso ac-

quisto).

È consigliabile, perciò, adeguare in modo periodico la somma indicata in sentenza per non trovar-

si, poi, a dover versare un importo che potrebbe risultare gravoso e inaspettato.

Quando va fatta la rivalutazione?

L’adeguamento deve essere fatto ogni anno a partire dal mese indicato dal provvedimento di se-

parazione, di divorzio o modifica delle condizioni economiche di uno o dell’altra.

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Come si effettua il calcolo

Per calcolare la rivalutazione dell’importo dovuto al coniuge, la legge prende come riferimento il

parametro FOI, ossia l’indice dei prezzi al consumo per Famiglie di Operai e Impiegati [2] al netto

dei consumi dei tabacchi.

Sono reperibili su internet molti programmi abilitati al calcolo automatico della rivalutazione; uno

dei più semplici è http://www.rivaluta.it/assegno-di-mantenimento.htm che è pubblicato dall’Istat;

si tratta di un servizio gratuito online per il calcolo delle variazioni percentuali tra gli indici mag-

giormente utilizzati per i fini previsti dalla legge.

Sarà sufficiente inserire rispettivamente le date della consegna del primo assegno di mantenimen-

to e quella per la quale si vuole ottenere la rivalutazione e richiedere il calcolo al programma. Si

otterrà, così, l’importo dovuto, comprensivo di rivalutazione. Tale importo costituirà la base per

calcolare la rivalutazione dell’anno successivo.

Che succede se l’obbligato non versa la somma rivalutata?

A quest’obbligo, spesso, il coniuge tenuto a versare il mantenimento non dà la necessaria impor-

tanza, spesso limitandosi a versare all’ex solo l’importo indicato nel provvedimento di separazione

o divorzio.

Si tratta di un grave errore. Il mancato versamento, infatti, della somma dovuta all’ex a titolo di ri-

valutazione dà diritto a quest’ultimo di rivolgersi a un avvocato per richiedere gli arretrati e gli inte-

ressi maturati sulle somme non versate nei cinque anni precedenti. Il termine di prescrizione può

essere interrotto (ricominciando a decorrere per altri cinque anni o per il periodo di legge) con una

semplice raccomandata a. r. in cui si chiede il pagamento ed – eventualmente – si specifica in

modo espresso che si interrompe la prescrizione.

Nello specifico, il beneficiario dell’assegno potrà:

– prima rivolgere all’ex una formale diffida ad adempiere entro un determinato termine (di solito 10

giorni), indicando l’esatto calcolo degli importi maturati;

– di seguito, nell’ipotesi di mancato riscontro, potrà procedere (tramite un legale) alla notifica di un

atto di precetto, senza che occorra una preventiva domanda al giudice finalizzata a stabilire

l’ammontare della somma rivalutata;

– infine, in caso di mancato pagamento, potrà dar luogo ad una procedura espropriativa (cioè

espropriando beni mobili o immobili del debitore) oppure con un pignoramento presso terzi (cioè

espropriando le somme di cui il debitore sia a sua volta creditore, come lo stipendio, la pensione

ecc.).

[1] Art. 5 comma 7, L. n.898 del 1.12.1970.

[2] La rivalutazione viene calcolata tenendo in considerazione l’indice FOI pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale periodi-

camente e nel sito dell’ISTAT.

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Il TFR

di Marco Borriello

Dopo una vita dedicata al lavoro, il dipendente ha diritto non soltanto alla pensione ma anche alla

cosiddetta liquidazione, ossia il TFR, acronimo che sta per trattamento di fine rapporto. Ebbene,

se il lavoratore è stato sposato, l’ex coniuge ha diritto ad una percentuale della medesima. Si trat-

ta di una previsione normativa, a tutela della ex “metà”, che si affianca a quelle già previste dalla

famosa legge sul divorzio, come, ad esempio, la previsione di un assegno divorzile.

Quand’è che spetta all’ex coniuge il Tfr?

La legge [1], in primo luogo, presuppone che la coppia abbia già divorziato. Non è sufficiente, ad

esempio, che marito e moglie siano in regime di separazione personale. È necessario, pertanto

che sia avvenuto lo scioglimento del matrimonio, il quale, secondo la legge, coincide con il divor-

zio e non con la semplice separazione, anche se legalmente accertata.

In secondo luogo, l’ex coniuge deve percepire un assegno divorzile: se non ne ha diritto oppure ha

ricevuto tale contributo in un’unica soluzione, egli non potrà avere la quota di Tfr.

Infine, l’altra “metà” deve essere rimasta nubile o celibe e quindi, più semplicemente, non

dev’essersi risposata. Attenzione, a tal proposito: la sola convivenza dell’ex coniuge, con un’altra

persona, non impedisce di ricevere la quota di Tfr prevista dalla legge.

A quanto ammonta la percentuale di Tfr dovuta all’ex coniuge?

Sempre secondo la legge citata, la percentuale dovuta ammonta al 40% del Tfr.

Come si calcola la percentuale del Tfr dovuta al coniuge divorziato?

Abbiamo visto che, la percentuale in questione ammonta al 40%. Il calcolo in questione, però, de-

ve essere rapportato agli anni di matrimonio. La legge e la sua interpretazione corrente, però, non

prendono in considerazione solo il periodo in cui le cose andavano bene nella coppia, ma anche

quello successivo e più tormentato della separazione.

In altri termini, bisogna considerare il Tfr maturato durante il matrimonio e la successiva separa-

zione legale, sino alla sentenza di divorzio.

Facendo un esempio pratico, se sino allo scioglimento del matrimonio, il lavoratore ha maturato un

Tfr pari a 100, l’ex coniuge avrà diritto a 40. Ovviamente, il Tfr maturato negli anni successivi al di-

vorzio sarà di esclusiva competenza e diritto del lavoratore.

Nel calcolare la percentuale del Tfr dovuta all’ex coniuge, come si considerano gli oneri fi-

scali?

Come chiarisce la Suprema Corte di Cassazione [2], la quota di competenza del coniuge divorzia-

to deve essere calcolata sulla somma effettivamente dovuta e percepita dal lavoratore e non sulla

somma, cosiddetta, “lorda”, cioè gravata dagli oneri fiscali.

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In caso contrario, sarebbe ingiustificatamente riconosciuta una percentuale su un importo concre-

tamente non ricevuto, con illegittimo aggravio a carico del lavoratore.

Durante il matrimonio ho chiesto ed ottenuto un anticipo del Tfr: lo stesso deve essere cal-

colato nella quota dovuta?

Assolutamente no. La Cassazione, a tal proposito, ha precisato che il calcolo della quota di Tfr

dovuta all’ex coniuge del lavoratore, deve essere effettuato al netto degli anticipi richiesti ed otte-

nuti dallo stesso, in costanza di matrimonio [3]. Tra questi, anche quelli percepiti durante la sepa-

razione personale legale dei due.

L’anticipo in questione, quindi, non deve essere preso in considerazione per stabilire la percentua-

le dovuta al coniuge divorziato.

Qual è il motivo? La Suprema Corte spiega che gli anticipi predetti diventano di esclusiva apparte-

nenza del lavoratore nonché parte del suo patrimonio personale.

È importante sapere che, questa regola si applica unitamente a quella principale: bisogna sempre

considerare solo il Tfr in rapporto alla durata del matrimonio e della successiva separazione lega-

le, sino alla sentenza di divorzio.

Sono già divorziata e mio marito ha appena percepito il Tfr: come faccio a vedere ricono-

sciuto il mio diritto alla percentuale di legge?

Se suo marito non vuole cedere in alcun modo e non c’è accordo tra di voi, non le resta che rivol-

gersi ad un legale che, in nome e per suo conto, agirà in Tribunale affinché venga accertato, rico-

nosciuto e quantificato il suo diritto in merito.

[1] Art. 12bis Legge 898/1970.

[2] Cass. ord. n. 24421/2013 del 29.10.2013.

[3] Cass sent. n. 19427/2003, n. 19046/2005, n. 24421/2013.

Il CONIUGE SEPARATO NON HA DIRITTO AL TFR MATURATO DALL’ALTRO

di Alessandra Castellino

La Legge sul divorzio [1] riconosce al coniuge divorziato, purché titolare di assegno periodico di

mantenimento e non risposatosi, il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto maturato

dall’altro coniuge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche nel caso in cui tale

indennità sia maturata prima della sentenza del divorzio. Tale quota è riconosciuta nella misura

del 40% riferibili agli anni di matrimonio coincidenti con il rapporto lavorativo. Nella determinazione

della durata del matrimonio, si tiene conto anche dell’eventuale periodo di separazione legale,

mentre nessuna rilevanza è riconosciuta alla cessazione della convivenza tra i coniugi [2].

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Eguale diritto non è riconosciuto al coniuge separato. Ed invero, le norme sull’istituto della separa-

zione non prevedono in alcun modo la partecipazione di un coniuge all’indennità di fine rapporto

percepita dall’altro e la giurisprudenza, intervenuta più volte in materia, ha escluso l’applicazione

di un’interpretazione estensiva della norma contenuta nella legge sul divorzio [1], che possa con-

sentirne l’applicazione anche al coniuge separato.

La giurisprudenza ha infatti precisato che il diritto alla quota del TFR dell’atro coniuge sorge solo

quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, ma

non anche quando sia maturata precedentemente ad essa [3].

Pertanto, se il coniuge separato cessa di lavorare dopo la pronuncia di separazione ma prima

dell’instaurazione del giudizio di divorzio, egli di fatto può disporre liberamente delle somme rice-

vute a titolo di indennità di fine rapporto e l’altro coniuge non può pretendere alcunché, anche se

titolare di assegno di mantenimento.

La giurisprudenza ha anche escluso la possibilità per il coniuge di pretendere una quota delle

eventuali anticipazioni sul TFR percepite dall’altro coniuge in costanza di separazione, essendo

ormai dette somme entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto [4].

Conseguenza di quanto detto è che il coniuge separato potrà pretendere una quota del TFR

dell’altro coniuge soltanto se, al momento della maturazione dell’indennità di fine rapporto, egli

abbia già depositato ricorso per divorzio dinanzi la cancelleria del tribunale competente.

Tuttavia, se il coniuge percepisce il TFR in costanza del giudizio di separazione, il giudice dovrà

tenerne conto nella determinazione della sua situazione economica e quindi ai fini della quantifi-

cazione dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge.

Qualora, invece, il coniuge separato percepisca il TFR dopo la pronuncia della separazione, ma

prima della presentazione della domanda di divorzio, l’altro coniuge sarà legittimato a chiedere

una revisione dell’assegno di mantenimento, atteso che la riscossione dell’indennità di fine rappor-

to da parte di un coniuge comporta di fatto una modifica della situazione economica rispetto a

quella esistente al momento in cui fu pronunciata la separazione.

[1] Art. 12 bis Legge n° 898/1970.

[2] Cass. sent. n. 1348 del 31.01.2012.

[3] Cass. sent. n. 25520 del 16.12.2010.

[4] Cass. sent. n. 24421 del 29.10.2003.

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DOPO LA SEPARAZIONE CHI PAGA TUTTE LE SPESE LE BOLLETTE E LE

RATE?

di Maria Elena Casarano

Nel momento in cui una coppia decide di separarsi, uno dei problemi più spinosi e motivo di attrito

è la suddivisione delle spese e i debiti ancora pendenti sulla famiglia. Chi dovrà pagare tasse e

bollette? Chi beneficerà delle detrazioni sui beni acquistati insieme?

Se i coniugi avevano scelto il regime della separazione dei beni, ognuno di essi – anche con la

sentenza di separazione – conserva la proprietà, l’amministrazione e il godimento di ogni bene

acquistato prima e durante il matrimonio. In questo caso, il problema dei “conti in sospeso” si ri-

solve facilmente: chi ha acquistato o si è obbligato coi creditori resta responsabile delle proprie

spese e ne subisce tutte le eventuali conseguenze: per cui sarà questo stesso che dovrà conti-

nuare a pagare rate, bollette, bollettini, tasse, ecc. (si pensi, ad esempio, alle spese relative

all’auto utilizzata dalla famiglia o alle rate da pagare per l’acquisto di un mobile).

Se i coniugi, pur avendo scelto il regime di separazione, avevano cointestati dei beni, o dei titoli o

il conto corrente, essi dovranno trovare un accordo di divisione. Altrimenti, si dovrà procedere alla

divisione effettuata dal giudice.

Se, invece, i coniugi erano in regime della comunione dei beni (il che comporta la contitolarità

dei beni acquistati, anche separatamente, durante il matrimonio), la comunione medesima cesse-

rà quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separatamente. Nel momento in cui la comunione

si scioglie, i coniugi potranno procedere alla divisione del patrimonio di proprietà comune. Ogni

cosa dovrà essere distribuita in parti uguali: sia l’attivo (costituito non solo dai beni acquistati, ma

anche dai risparmi di ciascuno dei coniugi, frutto del patrimonio e del lavoro personale di ognuno)

che le passività (finanziamenti, crediti al consumo, mutui).

I beni che non sono divisibili (come l’auto) potranno essere venduti per poi spartire tra le parti la

somma ricavata.

Chi deve pagare i debiti in caso di comunione dei beni?

Nel caso siano stati contratti dei debiti dai coniugi durante il matrimonio è necessario fare una di-

stinzione tra i debiti assunti dai coniugi prima e dopo la separazione.

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1) Debiti sorti prima della separazione

Con riferimento ai debiti contratti insieme dai coniugi e che riguardino:

– spese compiute nell’interesse della famiglia (per esempio, quelle relative all’istruzione dei figli),

– obblighi assunti dai coniugi e gravanti sui beni comuni al momento dell’acquisto (per esempio,

finanziamenti legati all’acquisto di beni, mutui sulla casa coniugale),

– doveri derivanti dall’amministrazione degli stessi beni (per esempio, le spese condominiali),

nel caso in cui il coniuge tenuto al pagamento non vi provveda, i creditori potranno aggredire solo i

beni che sono ricompresi nella comunione (e non quelli personali). Nel caso di debiti contratti dal

singolo coniuge nell’interesse della famiglia, i creditori possono rivalersi sui beni della comunione

fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.

Se i beni comuni non sono sufficienti a coprire i debiti, i creditori potranno agire sui beni personali

di ciascun coniuge per un importo pari alla metà del credito.

2) Debiti sorti dopo la separazione

Nel caso in cui i debiti siano stati contratti dopo la separazione, i creditori potranno aggredire i sin-

goli beni di ciascun coniuge che li abbia contratti e non più quelli in comune o quelli dell’ex.

Attenzione: se i coniugi non abbiamo ancora diviso i beni in comproprietà rientranti nella comunio-

ne, i creditori potranno comunque aggredire anche questi ultimi fino a metà del valore (ossia solo

per la parte spettante al coniuge debitore).

Si pensi, ad esempio, ad una casa in comproprietà: se, dopo la separazione, non è stata venduta

per dividerne il ricavato, i creditori potranno rivalersi su di essa (instaurando una procedura espro-

priativa sull’intero bene) per i debiti contratti anche dopo la separazione da uno dei due coniugi,

chiunque esso sia.

Chi deve pagare le bollette?

Le spese ordinarie sulla casa coniugale (manutenzione ordinaria, bollette, spese condominiali or-

dinarie) gravano su chi occupa la casa, poiché è quest’ultimo che fruisce dei servizi ai quali tale

spese fanno riferimento.

Chi deve pagare le spese straordinarie degli immobili?

Le spese straordinarie, invece, come quelle relative alle ristrutturazioni sull’immobile cointestato,

dovranno invece essere divise a metà da ciascuno.

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Chi deve pagare il mutuo e chi beneficia delle relative detrazioni?

Il mutuo sulla casa va pagato dal soggetto a cui risulti intestato il contratto con la banca.

Se i coniugi hanno contratto insieme un mutuo per l’acquisto della casa familiare, dividendo tra lo-

ro i costi di tale impegno, in caso di separazione consensuale in cui abbiano stabilito che

l’appartamento spetti in proprietà a uno solo dei due, il coniuge che sia divenuto unico proprietario

dell’immobile sarà tenuto al pagamento delle rate del mutuo e avrà diritto alla detrazione fiscale

sugli interessi passivi dell’intera somma.

La detrazione degli interessi sul mutuo stipulato per l’acquisto dell’abitazione principale spetta al

coniuge acquirente e intestatario del contratto di mutuo, anche se l’immobile è adibito ad abitazio-

ne principale di un suo familiare; è considerato “familiare” anche il coniuge separato, finché non

intervenga l’annotazione della sentenza di divorzio. Pertanto il coniuge proprietario, trasferitosi

dopo la separazione, può continuare a beneficiare della detrazione.

In caso di divorzio, il beneficio della detrazione spetta al coniuge trasferito per la quota di compe-

tenza solo se nell’immobile continuano ad abitare i figli.

E le spese di ristrutturazione e per l’acquisto di mobili?

Nel caso in cui la coppia separata o divorziata abbia fatto svolgere dei lavori di ristrutturazione sul-

la casa familiare, beneficiando delle detrazioni previste (che possono essere suddivise in diverse

annualità), le quote di detrazione continuano a spettare al coniuge proprietario dell’immobile, an-

che se non ne sia assegnatario.

In ogni caso é possibile estendere il beneficio anche al coniuge assegnatario dell’immobile a se-

guito della sentenza di separazione, anche se non titolare del diritto di proprietà, purché abbia so-

stenuto e siano rimaste a suo carico le relative spese [2].

Autonomia dei coniugi sugli accordi economici

Resta in ogni caso fermo il diritto delle parti di disciplinare come meglio credono i propri rapporti

economici, depositando in tribunale un ricorso congiunto per la loro separazione, o anche di rag-

giungere un accordo (che il giudice dovrà solo omologare) in corso di causa.

In mancanza di accordo dovrà decidere il giudice.

L’unico limite è costituito dagli accordi relativi ai figli ai quali la legge riserva una tutela maggiore e

pertanto dovrà essere il giudice a valutare che tali accordi siano rispondenti all’interesse della pro-

le.

[1] Introdotta dal DL 201/11, cosiddetto “Salva Italia” convertito in legge n. 214/11.

[2] Circolare 12/Edel 3 maggio 2013 dell’Agenzia delle Entrate.

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IMU TARI E TASI: CHI LE PAGA IN CASO DI SEPARAZIONE?

di Alessandra Castellino

Se il rapporto affettivo tra marito e moglie può terminare, i coniugi non possono tuttavia separarsi

e prendere “semplicemente” ciascuno la propria strada: molteplici sono le conseguenze da affron-

tare tra cui quella di stabilire a chi compete continuare a vivere nella casa che è stata l’abitazione

familiare.

Qualora vi siano figli, la nuova normativa sull’affidamento condiviso [1] prevede che il godimento

della casa familiare sia attribuito tenendo conto, in via prioritaria, dell’interesse della prole la quale

deve risentire nella minor misura possibile della rottura dell’unità familiare [2].

Per tale ragione, il legislatore prevede che nella casa familiare continuino ad abitare i figli e con lo-

ro uno dei genitori (che di solito è la madre) pur dovendo entrambi i genitori provvedere al mante-

nimento della prole in misura proporzionale ciascuno al proprio reddito [3].

A chi spetta però pagare gli oneri tributari gravanti sulla casa familiare?

Mediante il provvedimento di assegnazione della casa, sentenza o decreto di omologazione, il co-

niuge assegnatario diviene titolare di un vero e proprio diritto di abitazione e dunque unico desti-

natario degli obblighi tributari.

Poiché, però, la legge di stabilità del 2014 ha eliminato l’IMU relativamente alla prima casa (ricol-

legando la nozione di prima casa a quella di residenza), il coniuge assegnatario non sarà oggi te-

nuto a pagare l’Imposta municipale aggiunta sull’immobile in cui vive con i figli [4].

Ad ogni buon conto l’agevolazione ora indicata è tutt’altro che reale perché il legislatore ha ben

pensato di sostituire all’IMU sulla prima casa, la TASI cioè la Tassa sui servizi indivisibili.

Presupposto per l’applicazione della TASI è il possesso o la detenzione a qualunque titolo di im-

mobili: ciò significa che il coniuge assegnatario si ritroverà a dovere sostenere in via esclusiva

l’obbligo tributario in quanto unico occupante, insieme ai figli, della casa familiare.

Cosa accade, però, al coniuge non assegnatario che sia titolare del diritto di proprietà su altro im-

mobile presso il quale ha trasferito la propria residenza? Alla luce delle considerazioni prima

esposte, il coniuge non assegnatario non dovrà pagare l’IMU sulla nuova abitazione, a meno che

non si tratti di immobile di lusso, ma si troverà a dover pagare anch’egli la TASI.

Le stesse considerazioni valgono per la TARI, cioè la Tassa sui rifiuti, che dovrà essere pagata

soltanto da chi abita nell’immobile.

A questo punto, altro quesito che spesso si pone riguarda il caso in cui il coniuge non assegnata-

rio proprietario dell’immobile in cui vive sia anche proprietario esclusivo o comproprietario insieme

alla moglie della casa familiare: come dovrà considerarsi per lui quest’ultima? Equivarrà a secon-

da casa sulla quale sarà tenuto a pagare l’IMU?

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Sul punto non vi sono dubbi: poiché l’immobile viene utilizzato dall’ex moglie quale abitazione

principale del nucleo familiare sulla quale la stessa vanta un diritto reale di godimento, cioè il dirit-

to di abitazione, ai fini tributari la casa familiare non potrà essere considerata seconda casa ed il

coniuge non assegnatario non sarà tenuto, quindi, a versare l’IMU.

[1] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affidamento condiviso dei figli”.

[2] Art. 155 quater, co. 1, cod. civ.

[3] Art. 155, co. 4, cod. civ.

[4] D.L. 31.08.2013, n. 102 convertito in L. 28.10.2013, n. 124.

LE DETRAZIONI FISCALI

Come abbiamo visto, esistono due tipi di separazione: quella consensuale, in cui i coniugi sono

d’accordo su come regolare i loro rapporti e chiedono che il Tribunale prenda atto della loro volon-

tà, e quella giudiziale, dove non esistono accordi preventivi tra i coniugi ed è il Tribunale che deci-

de, dopo gli opportuni accertamenti, le condizioni della separazione.

Ai fini fiscali, i due tipi di separazione sono trattati allo stesso modo. Diversi effetti sui contri-

buenti derivano invece dalla sentenza di divorzio, il cui procedimento può avere inizio dopo 6 mesi

o un anno dalla separazione.

1 | Assegni di mantenimento (per coniuge e figli)

Il contribuente che versa periodicamente assegni al coniuge può portarli interamente in dedu-

zione dal proprio reddito imponibile, a condizione che sia intervenuta la separazione legale ed ef-

fettiva, l’annullamento o il divorzio, che l’importo sia pari a quello determinato dal giudice (compre-

se le rivalutazioni) e che le somme siano pagate periodicamente e non in unica soluzione. In caso

di separazione di fatto, dunque, l’eventuale versamento volontario di assegni non fa sorgere alcun

diritto alla deduzione.

Per quanto riguarda il mantenimento dei figli, poiché entrambi i genitori devono continuare a

provvedervi, il genitore cui non siano stati affidati dovrà contribuire economicamente al loro so-

stentamento, versando al genitore affidatario un assegno determinato dal giudice in base ai rispet-

tivi redditi e alle esigenze dei figli. Ma gli assegni di mantenimento per i figli non sono deducibili

dal reddito imponibile. Pertanto, è necessario che nel provvedimento del giudice che dispone il

pagamento a favore dell’ex coniuge e dei figli siano chiaramente indicati i due importi distinti. Se

non c’è questa distinzione, l’assegno è da considerare destinato per metà ai figli.

Di conseguenza il coniuge che lo versa avrà diritto a dedurre la metà dell’importo totale.

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Come usufruire delle deduzioni

Per poter usufruire delle deduzioni, occorre presentare al Caf l’atto del giudice e inserire l’importo

nei quadri del 730 o dell’Unico tra gli oneri deducibili dal reddito.

Il coniuge che percepisce gli assegni di mantenimento deve inserirli nella dichiarazione dei redditi,

visto che sono imponibili ai fini Irpef. La parte dell’assegno destinata al mantenimento dei figli non

è imponibile, quindi non deve essere dichiarata né dai figli né dal coniuge che li ha in affidamento.

Per il calcolo della no tax area (la quota di reddito esente Irpef) gli assegni di mantenimento, pur

essendo assimilati ai redditi da lavoro dipendente, non possono usufruire dell’incremento di dedu-

zione di 4.500 euro previsto per questa tipologia di reddito.

Quindi nel caso in cui il coniuge percepisca redditi solo sotto forma di assegni di mantenimento,

calcolerà la sua no tax area utilizzando esclusivamente la deduzione base di 3.000 euro e non po-

trà sfruttare le detrazioni da lavoro dipendente (4.500 euro).

2 | La dichiarazione congiunta

In caso di separazione o divorzio non è possibile presentare la dichiarazione congiunta. Se invece

arriva il rimborso di un credito Irpef risultante da una precedente dichiarazione congiunta, l’importo

può essere attribuito per la quota di sua competenza a ciascun coniuge personalmente (trovate gli

importi sulla copia del 730 che avete presentato). Per far questo bisogna dare comunicazione

scritta della separazione legale o del divorzio all’Amministrazione Finanziaria.

3 | La liquidazione del Tfr

In caso di cessazione del rapporto di lavoro, l’altro coniuge separato non ha diritto a parte del Tfr,

che invece spetta in caso di divorzio a favore del coniuge che percepisce un assegno di manteni-

mento, nella misura del 40% del Tfr maturato negli stessi anni in cui i due erano sposati.

Se per esempio il rapporto di lavoro è durato 20 anni e il matrimonio 5 anni, all’ex coniuge spetta il

40% del Tfr maturato nei 5 anni. Il Tfr subiranno la tassazione prevista normalmente per questi

redditi.

4 | Familiari a carico

Il fisco stabilisce che il genitore può considerare a carico i figli se, singolarmente, producono reddi-

ti lordi annui inferiori a 2.840,51 euro, anche se non conviventi.

In caso di divorzio o separazione, i figli possono essere dichiarati a carico da entrambi i genitori

nella percentuale da essi concordata, indipendentemente da chi li ha in affidamento. L’unico vin-

colo è che la somma delle percentuali di carico dei figli fra i coniugi sia sempre 100%.

È bene ricordare che in caso di separazione e divorzio non è possibile usufruire per i figli a carico

della detrazione per coniuge mancante, prevista invece quando l’altro genitore è deceduto o non

ha riconosciuto il figlio.

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Detrazioni e deduzioni per gli oneri e le spese sostenute per i figli (spese mediche, di istruzione,

assicurazioni, ecc.) sono utilizzabili dal genitore che dichiara i figli a carico. Se gli ex coniugi stabi-

liscono di dichiarare i figli a carico di entrambi al 50 %, possono, in sede di dichiarazione dei reddi-

ti, decidere di spartirsi oppure no le spese detraibili/deducibili sostenute per i figli.

Anche il coniuge effettivamente e legalmente separato può essere considerato come “altro familia-

re a carico” del dichiarante. Quando invece subentra il divorzio, l’ex coniuge non può mai essere a

carico.

5 | La casa familiare

La casa familiare normalmente viene assegnata a uno solo dei coniugi, a prescindere dalla effetti-

va quota di proprietà personale. Se ci sono figli, di preferenza la casa familiare spetta al genitore

al quale vengano affidati o presso il quale sono collocati.

Se la casa è in affitto, il contratto viene trasferito a nome del coniuge che vi rimane ad abitare. Se

non ci sono figli, generalmente la casa resta al coniuge che ne è proprietario o che è titolare del

contratto di locazione; se la casa è intestata a entrambi i coniugi, sono loro o il giudice a decidere

a chi assegnarla, salvo dividerla (se è possibile), oppure venderla su accordo delle parti.

6 | Irpef

In caso di separazione, se l’abitazione principale della coppia (cointestata) viene assegnata a un

solo coniuge, entrambi possono continuare a dichiarare la casa come principale, usufruendo della

deduzione totale del reddito riferito a essa.

In caso di divorzio, il coniuge trasferito può comunque continuare a dichiarare l’immobile come

abitazione principale nella percentuale di sua proprietà solo se vi dimorano i suoi figli.

In entrambe le situazioni, il coniuge trasferito non deve risiedere in altro alloggio di sua proprietà,

che diventerebbe automaticamente sua abitazione principale.

Le stesse regole valgono nel caso in cui l’immobile sia intestato esclusivamente al coniuge al qua-

le non è stata assegnata la dimora familiare.

7 | Interessi sui mutui

La detrazione degli interessi passivi sul mutuo stipulato per l’acquisto dell’abitazione principale

spetta all’intestatario del contratto di mutuo, anche se l’immobile è adibito ad abitazione principale

di un suo familiare. Il titolare del contratto di mutuo è, appunto, di norma, il proprietario

dell’immobile.

Nel caso di separazione legale, anche il coniuge separato, finché non intervenga l’annotazione

della sentenza di divorzio, rientra tra i familiari. Pertanto, il coniuge trasferito può continuare a usu-

fruire della detrazione.

In caso di divorzio, al coniuge che ha trasferito la propria dimora abituale spetta comunque il be-

neficio della detrazione per la quota di sua competenza se nell’immobile hanno la propria dimora

abituale i figli (la legge parla infatti di parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo).

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8 | Spese di ristrutturazione

Nel caso in cui la coppia che si separa/divorzia abbia effettuato lavori di ristrutturazione edilizia

sulla casa familiare, usufruendo delle detrazioni previste (che possono essere ripartite in diverse

annualità), le quote di detrazione continuano a spettare anche al coniuge trasferito. Sempre che,

ovviamente, mantenga la proprietà dell’immobile.

9 | Imposta sulla casa e sui rifiuti

L’imposta sulla casa ormai cambia ogni anno. Ad oggi, nel caso di una separazione sarà il coniu-

ge che si è visto assegnare la casa e che quindi la abita concretamente, a dover pagare la TASI,

non conta a chi dei due coniugi appartenga la casa. Nel caso invece della casa in affitto, paga il

proprietario con contributo variabile del locatario.

Come la TASI, anche l’IMU ricade sul coniuge che ha il diritto abitativo della casa familiare, ovvero

su colui che si è visto assegnare in sede di separazione la casa. Non si ripropone infatti la situa-

zione che si aveva con la vecchia ICI quando era il coniuge legittimamente proprietario del bene a

dover ottemperare al pagamento della tassa.

Al coniuge assegnatario rimangono gli obblighi di pagamento connessi alla Tassa rifiuti , che viene

richiesta direttamente dal Comune mediante invio di bollettino o di F24 precompilato.

Il trasferimento di immobile tra coniugi Se, all’atto di separazione o del divorzio, il marito vuol cedere alla moglie (o viceversa) la sua pro-

prietà su un immobile, non dovrà più pagare l’imposta di registro e di bollo. È questo il frutto di un

nuovo orientamento sposato dalla Cassazione di recente [1]. Il vantaggio è netto: in questo modo,

nel caso di una coppia in regime di comunione dei beni, il coniuge potrà cedere all’altro il proprio

50% senza doversi svenare per via delle tasse. Tali trasferimento sono infatti tutti esenti.

Se, poi, ci si vuole separare o divorziare senza neanche passare dal tribunale, il tutto potrà essere

effettuato presso lo studio dell’avvocato, con il procedimento di negoziazione assistita, con cui, da

poco tempo, è possibile porre fine al matrimonio in via consensuale.

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Niente imposta di registro e di bollo

Non scontano dunque l’imposta di registro e di bollo tutti gli atti posti in essere dai coniugi con gli

accordi di separazione, anche con il trasferimento di beni immobili e mobili, destinati a sfociare di

lì a poco nella fine del matrimonio voluta dalle parti. Il beneficio fiscale in commento, previsto dalla

legge del 1987 [2], non spetta più solo per gli atti posti in essere in attuazione degli obblighi con-

nessi all’affidamento dei figli, al loro mantenimento e a quello del coniuge oltre al godimento della

casa familiare. E ciò perché nel frattempo è cambiato il contesto normativo: da una parte la nego-

ziazione assistita dagli avvocati per separazione consensuale, divorzio e modifica delle condizioni,

dall’altra la legge sul divorzio breve attribuiscono di fatto al consenso dei coniugi un valore ben più

pregnante rispetto a quello che aveva in passato. I recenti interventi di “degiurisdizionalizzazione”,

si legge in sentenza, hanno ridotto di molto l’intervento del giudice in materia di diritto di famiglia,

in procedimenti segnati da una vasta area di diritti legati allo status di coniuge e alla tutela della

prole. Pertanto deve riconoscersi il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separa-

zione.

L’unico appiglio che ha il fisco per recuperare l’imposta è quello di dimostrare che la separazione

o il divorzio non è effettivo, ma siglato solo per una finalità elusiva: una prova estremamente diffici-

le che potrebbe essere fornita, per esempio, se i due coniugi continuano a risiedere nello stesso

immobile e uno dei due continua a percepire gli assegni per il nucleo familiare.

Nulli gli avvisi di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate

È quindi nullo l’avviso di liquidazione, notificato dall’Agenzia delle Entrate, relativo alla registrazio-

ne del trasferimento della proprietà sull’immobile avvenuto in attuazione degli accordi di separa-

zione. Quale che sia la forma che i negozi assumano, tutti gli atti frutto di accordi relativi al proce-

dimento di separazione o divorzio possono allora godere dell’esenzione di imposta.

[1] Cass. sent. n. 3110/16 del 17.02.2016.

[2] Art. 19 della legge 74/1987 di cui alla normativa nel testo conseguente alla sentenza della C. Cost. n. 159/99.

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GLI ASSEGNI FAMILIARI

L’assegno per il nucleo familiare è una prestazione che è stata istituita per aiutare le famiglie dei

lavoratori dipendenti, dei parasubordinati e dei pensionati. L’assegno spetta in misura diversa in

rapporto al numero dei componenti e al reddito del nucleo familiare.

A chi spettano in caso di separazione o divorzio?

di Alessandra Castellino

Il genitore affidatario o convivente con i figli minori ha diritto a percepire gli assegni per il nucleo

familiare, anche nel caso in cui ne sia titolare l’altro coniuge, in aggiunta all’assegno di manteni-

mento, se non diversamente stabilito in sede di separazione o divorzio.

In caso di separazione o divorzio, gli assegni famigliari spettano solo al coniuge cui il giudice ab-

bia affidato i figli, anche se a percepirli sia l’altro coniuge [1]. Lo stesso principio si applica tanto

nel caso di affidamento esclusivo che condiviso. Tale principio è stato chiarito in una circolare

dell’Inps [2].

Pertanto, il genitore non affidatario o non convivente con i figli, che percepisce gli assegni familiari,

deve corrispondere tali somme all’ex coniuge, al quale di fatto spettano, in aggiunta all’assegno di

mantenimento e indipendentemente dall’ammontare di quest’ultimo.

Nonostante la legge sia chiara, spesso il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori

che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro omette di versarli all’altro genitore,

cui spettano, pensando che l’unico obbligo a cui è tenuto sia quello di versare l’assegno di mante-

nimento per i figli economicamente non autosufficienti.

In realtà gli assegni familiari per i figli minori da un lato, e l’assegno di mantenimento dall’altro (sia

esso stabilito dal giudice o di comune accordo dalle parti con la separazione/divorzio consensua-

le) hanno natura e funzioni diverse. I primi fungono da “integrazione alimentare”, per cui non pos-

sono che essere percepiti dal genitore che di fatto provvede al mantenimento dei figli. Al contrario,

l’assegno di mantenimento costituisce il contributo fornito dal genitore non convivente con i figli al

mantenimento, all’istruzione ed all’educazione di questi ultimi, la cui misura viene calcolata in pro-

porzione alla capacità reddituale del genitore.

Tuttavia, in sede di separazione o divorzio, i coniugi possono addivenire ad accordi diversi, rico-

noscendo al genitore che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro la possibilità

di trattenerli, stabilendo comunque la misura dell’assegno di mantenimento in considerazione della

somma percepita a titolo di assegni familiari dal genitore obbligato al mantenimento.

È chiaro, dunque, che il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori, che trattiene

per sé gli assegni familiari, non versandoli all’ex coniuge, commette il reato di “appropriazione in-

debita”, incassando del denaro non proprio ma dell’altro genitore e che ha percepito per conto di

quest’ultimo [3].

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Pertanto, il coniuge affidatario o convivente con i figli minori che non ha mai ricevuto dall’ex gli as-

segni familiari potrà rivolgersi al tribunale per ottenere il rimborso delle somme indebitamente trat-

tenute dall’altro coniuge. Ad ogni modo, la richiesta di rimborso deve essere limitata alle somme

percepite dall’ex coniuge nel decennio precedente, attesa l’applicazione del termine di prescrizio-

ne decennale.

[1] Art. 211 della Legge 19 maggio 1975 n. 151

[2] Circolare n. 210 del 7.12.1999.

[3] Cass. sent. n. 694/85 del 01.02.1985.

Assegni familiari: possono coprire parte del mantenimento?

di Maria Elena Casarano

Il mantenimento e gli assegni familiari sono due tipi di proventi separati e distinti e pertanto non

possono essere considerati parte del mantenimento dovuto da un genitore. Tuttavia a tale princi-

pio è possibile derogare.

Innanzitutto va precisato che, secondo la legge [1], dopo la separazione dei coniugi, il genitore al

quale sia stata affidata la prole ha diritto a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi

abbia diritto per via del proprio lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge.

Questo significa che il genitore convivente con i figli, a seguito della separazione, ha diritto a chie-

dere che vengano versati direttamente a lui gli assegni familiari fino a quel momento corrisposti

dall’Inps all’altro coniuge che faceva parte del nucleo familiare.

Va, inoltre, detto che al momento della separazione, il giudice non è tenuto a includere

nell’importo del mantenimento quanto già percepito da uno dei genitori a titolo di assegni familiari.

Con la conseguenza che nel momento in cui il magistrato stabilirà l’importo dell’assegno, lo farà

per intero e non potrà decurtare da esso quanto già un genitore riceve a titolo di assegni familiari.

Ciò non toglie, tuttavia, che i coniugi siano liberi di concordare in senso diverso nel caso in cui

decidano di separarsi consensualmente.

I coniugi, infatti, possono prevedere, tra le clausole degli accordi per la separazione consensuale,

che la somma che un coniuge è tenuto a versare all’altro per il mantenimento dei figli sia com-

prensiva degli assegni familiari, il cui ammontare andrà detratto da quanto dovuto nel caso in cui

essi siano percepiti direttamente dal coniuge cui sia affidata la prole.

Ad esempio, ipotizziamo che il marito debba versare un assegno di mantenimento di 250 euro alla

moglie cui sia stata affidata la prole e che questa percepisca già gli assegni familiari che, suppo-

niamo, ammontino in 130 euro. In tal caso il padre, obbligato al mantenimento dei figli, dovrà ver-

sare un importo di 120 euro e non più di 250.

[1] Art. 211, L.19.5.75 n. 151.

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LA TUTELA DEI FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE E IL DIVORZIO

L’ASCOLTO DEL MINORE

di Maria Elena Casarano

Quando una coppia di genitori si separa è quasi inevitabile che, se ci sono figli minori, questi deb-

bano essere ascoltati dal giudice sulle questioni che li riguardano. Il momento dell’ascolto (che

rappresenta oltre che un dovere per il giudice anche un vero e proprio diritto per il figlio) viene

spesso guardato dai genitori con diffidenza e sospetto, come se si trattasse di una situazione in

grado di nuocere in qualche modo alla prole. In realtà, l’ascolto è uno strumento di tutela per il f i-

glio, attraverso il quale egli partecipa alla assunzione delle decisioni che lo riguardano; per questo

motivo esso non va visto né come una sorta di “interrogatorio” né come una testimonianza (in

quanto non è rivolto all’accertamento di fatti), ma semplicemente alla presa d’atto (con modalità

che a breve vedremo) delle opinioni ed emozioni manifestate dal minore in un determinato mo-

mento storico, e potremmo dire critico, della famiglia.

Le norme che prevedono l’ascolto

L’ascolto del minore, oltre che previsto in numerose norme internazionali [1], ha trovato nel nostro

Paese la sua prima disciplina giuridica nell’ambito delle procedure di adozione e affidamento [2]

che prescrivono l’ascolto del minore che ha compiuto i 12 anni, così come quello di età inferiore in

considerazione della sua maturità e capacità di comprendere il significato delle proprie afferma-

zioni (cosiddetta capacità di discernimento).

Attualmente, l’obbligatorietà dell’ascolto è anche prevista anche nelle procedure contenziose (cioè

quelle in cui i genitori siano in contrasto) di separazione/ divorzio e per quelle relative

all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio [3]; per esse la legge prevede, infatti, che prima

dell’emanazione, anche in forma provvisoria, dei provvedimenti riguardanti la prole [4] “il giudice

dispone l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore ove capace

di discernimento”.

Nel caso in cui, invece, i genitori siano d’accordo (quindi la procedura sia consensuale), “il giudice

non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo” [5].

Dunque, oggi (salvo alcuni casi che a breve vedremo) il minore deve essere sempre ascoltato

nell’ambito di qualsiasi procedura che lo riguardi [6].

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Quali sono le procedure che riguardano il minore?

Quando, però si parla di procedimenti che riguardano il minore bisogna distinguere tra quelle pa-

trimoniali (ad esempio il contrasto tra i genitori sulla misura dell’ assegno di mantenimento o sul

rimborso delle spese straordinarie) e quelli relative alla sua persona.

Proprio di recente, infatti, il Tribunale di Milano [7] ha chiarito che le norme che prescrivono

l’obbligatorietà dell’ascolto del minore si riferiscono alle situazioni in cui debbano essere assunti

provvedimenti su questioni diverse da quelle economiche. Ciò, secondo il giudice meneghino, se

pur non espressamente previsto dalla legge, lo si può evincere tuttavia dalla norma che (in tema di

prescrizioni del giudice tutelare circa l’educazione e l’amministrazione del minore) [8], prevede

espressamente che il magistrato debba procedere all’ascolto del fanciullo solo quando debba de-

cidere su questioni “di vita” di quest’ultimo (dove vuole vivere, che tipo di studi intraprendere, che

arte o mestiere imparare) e non invece su tutte le altre questioni di carattere patrimoniale (spese

di mantenimento, alienazione di beni, ecc.).

Come deve avvenire l’ascolto?

Quanto alle modalità con le quali va effettuato l’ ascolto, la legge [9] prevede che il minore è

ascoltato dal Presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo ri-

guardano, anche con l’ausilio di esperti (come psicologi dell’età evolutiva).

Nello specifico, le modalità di ascolto possono essere di due tipi:

– diretto (quando l’audizione da parte del giudice avviene in udienza, eventualmente, anche con

un ausiliario esperto)

– o indiretto (cioè totalmente delegato ad un ausiliario anche nell’ambito di un Consulenza tecni-

ca d’ufficio).

Indipendentemente dalle modalità prescelte, esistono una serie di raccomandazioni che rappre-

sentano l’“ABC” della procedura dell’ascolto e che il giudice, e tanto più l’esperto che lo affianca,

hanno il dovere di osservare, tenendo in debito conto l’età del minore, il quale:

– deve essere messo al corrente in precedenza (meglio se dai genitori o dal suo eventuale curato-

re o tutore) del colloquio che avrà con il giudice e/o il suo delegato e di come esso si svolgerà;

– al momento della convocazione non deve essere costretto a lunghe attese: pertanto, chi effettua

l’ascolto è tenuto alla puntualità;

– deve essere adeguatamente informato sulle motivazioni per cui è stato richiesto l’incontro e del

fatto che il giudice (o il suo delegato) potrà non mantenere il segreto su quanto emerso dal collo-

quio;

– deve ricevere l’opportuna accoglienza, allo scopo di essere messo a suo agio;

– deve aver dedicato un tempo congruo per potere raccontare il suo vissuto e rispondere alle

domande che gli vengono poste: è quindi impensabile che le audizioni di diversi minori siano ca-

denzate tra di loro in modo ravvicinato, potendo ciascuna richiedere tempi assai differenti;

– deve essere ascoltato attraverso un linguaggio semplice e il più possibile adeguato alla sua

età;

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– non deve subire alcun tipo di pressioni: non bisogna, quindi, prospettarli la risposta già nella

domanda, tentando di fargli confermare qualcosa che chi ascolta già conosce, ritiene assunto o

valuta come la soluzione migliore per lui;

– deve essere ascoltato in un luogo adeguato, né troppo affollato (come un’aula di pubblica

udienza) né desolato; la stanza dell’ascolto deve essere, quindi, accogliente e attrezzata con crite-

ri finalizzati ad evitare al minore il trauma dell’impatto con l’istituzione giudiziaria e rendere così più

agevole l’acquisizione delle sue dichiarazioni. Per questo, molti tribunali hanno predisposto delle

specifiche aule, munite di sistemi di audio e video ripresa e di specchio unidirezionale che consen-

te agli eventuali soggetti presenti in una stanza adiacente di assistere all’ascolto. Il giudice, infatti,

può autorizzare i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore ed il pubblico mini-

stero a partecipare all’audizione; tutti questi soggetti possono proporre argomenti e temi di appro-

fondimento prima dell’inizio dell’ adempimento.

Il contenuto del colloquio (che dovrà riferire anche il contegno avuto dal minore) può essere ripro-

dotto in un verbale scritto oppure essere video registrato.

Quando si può evitare di ascoltare il minore?

Esistono, in ogni caso, delle situazioni nelle quali il giudice può rinunciare all’audizione del figlio.

- Una di queste è quella in cui il minore, avendo meno di 12 anni, non sia ritenuto capace di di-

scernimento. Tale capacità non va confusa con quella di intendere e di volere, meglio nota in

ambito penale (dove il minore di 14 anni non è imputabile e si presume incapace di comprendere il

significato delle leggi penali e le conseguenze di legge di una determinata condotta) ma essa rap-

presenta una categoria psico- giuridica che fa riferimento alla capacità del minore di elaborare au-

tonomamente idee e concetti, di avere opinioni proprie e di comprendere gli eventi. Il giudice potrà

valutare la sussistenza o meno di tale capacità anche disponendo, prima di ascoltare il minore,

una osservazione (attraverso un colloquio clinico-valutativo) da parte di un perito. Di solito comun-

que, tale capacità viene ritenuta sussistente quando il bambino abbia raggiunto l’età scolare.

- Altra ipotesi di esclusione è prevista quando l’ascolto contrasti con l’interesse del minore: ne

è un esempio tipico il caso in cui il figlio sia già stato sentito in altre occasioni su questioni per lui

molto dolorose e in grado di porlo in uno stato d’ansia (come violenze fisiche o psicologiche subite

o anche assistite).

- Ancora, il giudice può evitare l’ascolto del minore quando questo sia manifestamente super-

fluo; tale situazione viene di norma individuata in tutti quei casi in cui i genitori abbiano raggiunto

un accordo sulle questioni di vita dei figli; in tali casi, infatti, si presume che sussista (al pari di

quanto avviene nella vita quotidiana di una coppia non separata) la capacità dei genitori di trovare

le soluzioni che maggiormente tutelino la prole. Ciò non toglie che – poiché il giudice, anche in ca-

so di accordo, non è tenuto ad omologare condizioni relative ai figli che ritenga potenzialmente

dannose per gli stessi – egli possa comunque decidere di procedere all’audizione (cosa che, di so-

lito, tuttavia, non avviene).

- Un ultimo caso in cui l’obbligo dell’ascolto viene meno si ha quando sia proprio il figlio a rifiutare

l’audizione. Quello del figlio ad essere ascoltato, infatti, è innanzitutto un suo diritto e ad esso cor-

risponde anche la facoltà del minore di non avvalersene. Risulta evidente (specie nei casi in cui i

genitori si “contendono” l’affidamento o la collocazione della prole) il forte rischio di condiziona-

mento dei minori da parte di uno o dell’altro dei genitori volti a rifiutare l’ascolto e ad ostacolare il

rapporto del figlio con l’ex partner.

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Se il giudice non c’è: la negoziazione assistita

La necessità di ascoltare il figlio potrebbe sorgere (se pure per semplice opportunità) anche in una

procedura di negoziazione assistita dove - lo ricordiamo - sono i coniugi insieme agli avvocati, a

lavorare insieme alla redazione di una convenzione di separazione, divorzio o modifica delle con-

dizioni ad essi relativi, prima di trasmetterla al p.m. per l’autorizzazione e di seguito al Comune di

competenza.

In questi casi, dunque, il giudice, neppure nella persona del p.m. può ascoltare il minore (ma

semmai solo negare l’autorizzazione all’accordo ove lo ritenga in contrasto con gli interessi del fi-

glio).

Potrebbero, allora, essere gli stessi avvocati a procedere all’ascolto dei figli per avere un quadro

più completo delle ipotesi di accordo tra i genitori?

A riguardo, il nuovo codice deontologico forense ha previsto una serie di divieti per l’avvocato [10]:

- quello di procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la

responsabilità genitoriale,

- quello assoluto (cioè anche se il consenso vi sia)di ascoltare il minore quando vi sia un conflitto

di interessi con chi esercita la responsabilità genitoriale;

- quello di procedere, nelle controversie in materia familiare che coinvolgano un minore, ad ogni

forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse (per un appro-

fondimento leggi: Ascolto del minore: la deontologia dell’avvocato).

Risulta quindi evidente che, in tutti quei procedimenti in cui vi sia una contrapposizione su que-

stioni riguardanti i minori e per le quali si suppone che i genitori stiano cercando una soluzione in-

sieme ai propri avvocati (come appunto avviene nelle separazioni) questi ultimi non potranno

ascoltare i figli minori.

Nulla vieta, tuttavia, ai genitori di incaricare concordemente un esperto affinché proceda

all’ascolto; ciò potrà avvenire tanto più facilmente se – nella stessa procedura di negoziazione – si

sia scelto avvalersi di un percorso di mediazione familiare o di pratica collaborativa.

[1] La Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata dall’Ital ia con

legge 27 maggio 1991, n. 176), la Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 25 gen-

naio 1996 (ratificata dall’Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77), la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione

europea del 7 dicembre.2000 , il Regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, la Convenzione dell’Aja del

25 ottobre 1980 (ratificata dall’Italia con la legge 15 gennaio 1994, n. 64) .

[2] Disciplinate dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 poi modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149.

[3] Vecchio art. 155-sexies cod. civ. (nel testo inserito dalla legge 14 febbraio 2006, n. 54), oggi art. 337-octies, ( a

seguito della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e il D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154.

[4] Art. 337 ter cod. civ.

[5] Art. 337-octies del cod. civ. come riformato dalla legge 219/2012.

[6] Art. 315 bis. cod. civ.: “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di d i-

scernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”.

[7] Trib. Milano ord. 20.03.14.

[8] Art. 371 n. 1) cod. civ. aggiunto dal D.Lgs 154/2013.

[9] Art. 336 bis. cod. civ.

[10] Art. 56 Cod. deont. forense, approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato nella G.U. del 16 ottobre 2014 ed in vigore

dal 15 dicembre 2014.

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Niente ascolto dei figli sulle questioni economiche

Nei procedimenti di separazione e divorzio tra i coniugi, l’obbligo per il giudice di disporre

l’audizione del figlio minore riguarda solo le questioni che possano incidere sugli interessi perso-

nali di quest’ultimo. Pertanto, è esclusa l’audizione del bambino per le questioni economiche come

il diritto all’assegno di mantenimento. Al contrario, deve disporsi (sempre che il figlio abbia com-

piuto dodici anni) per le questioni relative alle modalità dell’affidamento e alla collocazione.

Questo non esclude la possibilità di audizione del minore anche nei casi in cui si proceda alla

semplice revisione delle condizioni di separazione o divorzio, ma purché, appunto, non si verta

sulle questioni meramente economiche [1].

Questa è la conseguenza del recente decreto legislativo che ha modificato il diritto di famiglia[2].

Tra le disposizioni modificate, infatti, vi è quella che riguarda il minore sotto tutela [3]. Nella norma

in esame è previsto che il giudice assuma, d’intesa con il tutore, i provvedimenti circa l’educazione

del minore e l’amministrazione del suo patrimonio.

Dunque, la legge ha voluto precisare che l’obbligo dell’ascolto del minore è relativo solo alle que-

stioni “di vita” del bambino: ossia dove questi voglia vivere, che studi intenda fare, che mestie-

re/arte imparare. Resta quindi esclusa l’audizione per le questioni che riguardano il mantenimento,

l’amministrazione del patrimonio e le eventuali imprese/società.

Il legislatore ha infatti ritenuto contraria all’interesse del minore [4] l’audizione di quest’ultimo in

processi che abbiano ad oggetto solo questioni economiche e patrimoniali.

[1] Trib. Milano, sent. del 20.03.2014.

[2] D.lgs. 154/2013.

[3] Art. 371 cod. civ.

[4] Art. 336-bis cod. civ.

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L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI

Criteri per la determinazione

di Maria Elena Casarano

Il problema della quantificazione dell’assegno dovuto per il mantenimento dei figli parte del genito-

re che lascerà la casa familiare rappresenta uno dei problemi più spinosi insieme a quello relativo

alle modalità di affidamento dei figli (vd. dopo.).

C’è un modo per stabilire come esso vada calcolato?

Per dare risposta a questa domanda occorre partire dalla lettura della norma [1] che, in tema di

provvedimenti economici relativi ai figli in caso di separazione tra i genitori, prevede che ciascuno

dei genitori (salvo diversi accordi tra di loro) è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli in mi-

sura proporzionale al proprio reddito. Il giudice stabilisce, quando necessario, la corresponsione di

un assegno periodico che va determinato considerando:

– le esigenze attuali del figlio;

– il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori;

– i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

– le risorse economiche di entrambi i genitori;

– la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

Il dovere di mantenimento gravante su entrambi i genitori impone di far fronte a molteplici esigen-

ze dei figli, che non sono soltanto l’obbligo alimentare, ma vanno estese anche all’aspetto abitati-

vo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predi-

sposizione, fin quando l’età dei figli lo richieda, di una organizzazione domestica stabile, in grado

di rispondere alle loro specifiche necessità di cura e di educazione [2].

L’accertamento dei redditi effettivi

Nell’ambito di un procedimento in tribunale dove manchi l’accordo sull’entità dell’assegno (e quindi

sia stata intrapresa una causa vera e propria tra i genitori) sin da subito il giudice è tenuto ad una

prima valutazione, se pur sommaria, degli elementi offerti dalle parti, con lo scopo di stabilire, in

primo luogo, il pregresso tenore di vita della coppia e le loro attuali condizioni patrimoniali e di

reddito.

Non può, infatti, certamente attendersi l’esito della causa per stabilire quanto un genitore debba

versare all’altro affinché provveda ai bisogni dei figli. Quanto deciso, tuttavia, in questa prima fase

non ha nulla di definitivo, ben potendo essere modificato in relazione alle prove emerse in seguito.

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Si tratta di una valutazione che, spesso, pone la necessità che il giudice non si fermi solo alle di-

chiarazioni dei redditi presentate; ciò può accadere, nello specifico, quando esse contrastino con

l’effettivo stile di vita delle parti per come dimostrato dalla parte interessata a ricevere l’assegno (si

pensi al possesso in capo al coniuge di auto di lusso, viaggi costosi, ecc.). Sicché, quando le in-

formazioni di tipo economico fornite dai genitori non sono sufficientemente documentate, il giudice

può disporre un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto in contestazione,

anche se intestati a persone diverse.

A riguardo, le recenti novità legislative [3] hanno attribuito al giudice – nell’ambito di tutti i proce-

dimenti di famiglia – la piena facoltà di ricavare informazioni sul patrimonio, il reddito e il tenore di

vita dei coniugi e provvedere alla ricerca di beni con modalità telematiche, anche accedendo alle

banche dati dell’Agenzia delle Entrate o inviando alla stessa richieste in tal senso.

Il magistrato, infatti, deve effettuare una ripartizione del reddito familiare al fine di ripristinare le

condizioni economiche precedenti alla separazione, sulla base di un principio di “proporzionalità”

con l’obiettivo di assicurare ai figli un tenore di vita il più possibile vicino a quello goduto quando la

famiglia era unita.

Criteri generali di riferimento

Non esistono dunque dei criteri di calcolo dell’assegno espressamente indicati dalla legge, ma i

giudici di solito applicano dei criteri di massima, tenendo conto di quanto previsto dalla legge e

dagli orientamenti giurisprudenziali prevalenti; allo scopo, essi tengono conto sia redditi percepiti

da ciascuno dei due coniugi (incluse eventuali rendite finanziare), sia del valore locativo mensile di

eventuali proprietà immobiliari, ivi compresa l’incidenza dell’assegnazione della casa coniugale e il

numero dei figli a carico e conviventi.

Naturalmente tali criteri sono orientativi in quanto ogni magistrato ha un ampio margine di discre-

zionalità nel determinare la misura del mantenimento, il cui risultato va personalizzato e adattato

alle specificità del caso concreto (come il fatto che, l’assegno sia destinato, oltre che al manteni-

mento dei figli, anche a quello del coniuge).

È possibile, ad esempio, che il giudice stabilisca un assegno di misura differenziata per ciascun

figlio in ragione dell’età e delle specifiche esigenze (di solito secondo un criterio di proporzione in-

versa all’età).

I modelli di calcolo

Partendo, comunque, dai criteri indicati dalla legge [1] e dalla giurisprudenza maggioritaria, alcuni

Tribunali hanno elaborato dei loro parametri di calcolo: ad esempio il Tribunale di Firenze, insieme

alla Facoltà di Economia, ha elaborato un Modello per calcolare l’assegno di mantenimento (Mo-

CAM), il Tribunale di Palermo, allo stesso scopo, ha elaborato un software pubblico (scaricabile

dal sito www.giustiziasicilia.it) e il Tribunale di Monza, ha predisposto nel 2008 delle Tabelle (ac-

quisite quale strumento di riferimento in numerosi fori) che riassumono le ipotesi più ricorrenti e le

possibili risposte alle richieste di mantenimento formulate da parte di uno dei coniugi (sia per sé

che per i figli).

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Tali tabelle, in particolare, conducono ad un criterio di liquidazione “di massima” di un assegno pa-

ri ad un quarto del presunto reddito dell’obbligato (in ipotesi di assegnazione della casa coniugale

al coniuge richiedente) ovvero pari ad un terzo (nella più rara ipotesi di non assegnazione) che,

però, potrà essere rispettato, solo dopo un opportunamente soppesato la complessiva situazione

patrimoniale evidenziata in giudizio (si pensi al caso in cui gravi ancora un mutuo sulla casa co-

niugale).

Ad esempio, se al genitore collocatario della prole e assegnatario della casa coniugale non venga

riconosciuto alcun assegno di mantenimento, la liquidazione del contributo al mantenimento dei

figli potrà prevedere, in una situazione di reddito medio (operaio/impiegato: € 1.200,00 / 1.600,00

mensili per 13 o 14 mensilità) e sempre che non vi siano particolari condizioni da valutare (si pensi

a proprietà immobiliari, depositi o conti correnti di una certa entità), una quantificazione

dell’assegno di questo tipo:

– in presenza di un solo figlio: circa il 25 per cento del reddito;

– in presenza di due figli: 40 per cento del reddito;

– in presenza di tre figli: assegno pari al 50 per cento del reddito.

Si tratta, in ogni caso, di esemplificazioni che, nelle dovute proporzioni, possono applicarsi anche

a situazioni di redditi ben più alti. Infatti, per la quantificazione dell’assegno di mantenimento dovu-

to ai figli, la capacità economica di ciascun genitore va determinata con riferimento al patrimonio

complessivo di entrambi, costituito, oltre che dai redditi di lavoro, da ogni altra forma di reddito o

utilità (come ad esempio il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione

societaria, altri proventi di qualsiasi natura) [4].

I diversi accordi dei genitori

Se questi sono gli orientamenti generali, non va dimenticato che la legge [1] prevede comunque la

possibilità che il giudice tenga conto di “diversi accordi liberamente raggiunti dalle parti”, ed in

questo senso si aprono per i genitori molte strade.

Una di queste è rappresentata, solo per fare un esempio, dal fatto che l’obbligo di mantenimento

dei figli può essere adempiuto anche attraverso un accordo che preveda, in sostituzione o in con-

corso con un assegno periodico, l’attribuzione ai figli della proprietà di beni mobili o immobili [5].

Soluzione questa, più facilmente ipotizzabile nel caso in cui l’altro genitore abbia una adeguata

autosufficienza economica.

[1] Art. 337 ter cod. civ.

[2] Cfr. Cass. sent.. 3974/2002.

[3] DL n. 132/14, conv. con L. n. 162/14.

[4] Cfr. Cass. sent. n. 6872/99.

[5] Cfr. Cass. sent. n. 3747/06.

[6] Art. 158 cod. civ e art. 711 cod.. proc. civ.

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LE SPESE STRAORDINARIE PER I FIGLI

di Raffaella Mari

È sempre problematico, per i genitori separati e in continuo conflitto, stabilire cosa rientri nelle

spese ordinarie per il sostentamento del figlio (cui normalmente deve provvedere il genitore pres-

so cui la prole è collocata o cui è affidata) e spese straordinarie (che, al contrario, devono essere

sostenute al 50% da entrambi gli ex coniugi).

La legge, forse per garantire ai giudici una soluzione, di volta in volta, più consona al caso concre-

to, non elenca né distingue con precisione le spese attinenti al soddisfacimento dei bisogni della

prole, tra “spese straordinarie” e “spese ordinarie”.

È dunque il giudice che deve individuare, per quanto possibile in modo analitico e dettagliato nel

caso in cui sorgano contrasti tra i genitori, quali spese vadano considerate nell’una o nell’altra ca-

tegoria. Li dove, infatti, si parli di “spese ordinarie” il genitore non collocatario (o non affidatario)

della prole vi contribuisce già attraverso il mantenimento diretto ossia con l’assegno periodico di-

sposto a suo carico; ma tale inglobamento non vale invece per le “spese straordinarie“.

Una sentenza del Tribunale di Roma [1] fissa un parametro di distinzione tra le due categorie di

spese e, in particolar modo, con riferimento ai corsi privati dei figli.

I giudici ritengono che le “spese straordinarie” non possano mai ritenersi comprese in modo forfet-

tario all’interno della somma da corrispondersi con l’assegno periodico; diversamente si rischie-

rebbe di recare pregiudizio al minore [2]. Così, nelle “spese ordinarie” si considerano comprese

quelle destinate a soddisfare i bisogni quotidiani del minore, ed in quelle “straordinarie“, invece, gli

esborsi necessari a far fronte ad eventi imprevedibili o addirittura eccezionali, ad esigenze non

rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli minori fino a quel momento, o comunque spese

non quantificabili e determinabili in anticipo o di non lieve entità rispetto alla situazione economica

dei genitori [3].

Le aule di tribunale definiscono “straordinarie” le spese: “non ricorrenti e, comunque, non prevedi-

bili in anticipo sempre che di apprezzabile importo, ad esclusione di natura voluttuaria (ossia per

bisogni ludici, non strettamente necessari) [4].

Ciò che spesso il genitore non collocatario (o non affidatario) del minore contesta all’altro, innanzi

ad una richiesta di rimborso di spese già effettuate, è il fatto che la spesa medesima non sia stata

decisa di comune accordo ma, al contrario, in modo unilaterale ed arbitrario, cosicché nulla a lui

può essere addebitato. Ecco che, allora, si parla a riguardo di “scelte straordinarie” che sono ap-

punto quelle che vanno prese di comune accordo.

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Le scelte straordinarie

In proposito è fondamentale specificare come tra “scelte straordinarie” e “spese straordinarie” non

sussista un’assoluta ed automatica coincidenza.

Non sempre, infatti, una spesa straordinaria è conseguenza di una “decisione straordinaria”, cioè

“di maggior interesse”. Al contrario, più frequente è invece che una “scelta straordinaria“, riguar-

dante qualsiasi profilo della vita del minore (scolastico; ludico; sanitari; ecc.), comporti una “spesa

straordinaria” [5].

Illuminante è, a riguardo, una recente pronuncia della Cassazione [6] secondo cui: “l’affidamento

congiunto presuppone un’attiva collaborazione dei genitori nell’elaborazione e la realizzazione del

progetto educativo comune”. Le singole decisioni, quanto meno di quelle più importanti, è neces-

sario che vengano assunte sulla base di effettive consultazioni tra i genitori, e quindi con il consa-

pevole contributo di ciascuno di essi. In altre parole, le “scelte straordinarie” devono essere sem-

pre prima concordate.

Ne discende che il genitore che richieda all’altro il rimborso di spese sostenute per il minore deve

dimostrare al giudice di aver provveduto a consultare preventivamente l’ex coniuge, al fine di otte-

nere il consenso all’atto. Così, per esempio, all’iscrizione della prole presso un “istituto privato“.

L’istituto privato

Nel caso concreto, quindi, l’iscrizione della minore ad una scuola privata, come qualsiasi altra de-

cisione di “maggiore interesse”, si deve assumere concordemente da parte di entrambi i genitori e

con il comune consenso. In caso, invece, di assenza di qualsiasi consultazione del genitore non

collocatario esclude che lo stesso possa essere solo richiamato per rimborsare il 50% della spesa

straordinaria che ne consegue.

Le spese straordinarie

Tuttavia, la Cassazione [7] ha stabilito che il coniuge affidatario non ha l’obbligo di informare e

trovare un previo accordo con l’altro per la determinazione delle spese straordinarie (nella specie,

spese di soggiorno negli U.S.A. per la frequentazione di corsi di lingua inglese da parte di uno

studente universitari di lingue). Il coniuge non affidatario, pertanto, è obbligato a rimborsare la sua

parte qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.

Ne consegue che, nelle scelte “di maggior interesse” della vita quotidiana del minore – quali, di

regola, quelle attinenti alla sua istruzione, ciascun genitore, in ogni caso ed in ogni tempo, ha un

autonomo potere di attivarsi nei confronti dell’altro per concordarne le eventuali modalità, e, in di-

fetto, ricorrere all’autorità giudiziaria.

Dopo questa breve precisazione, è necessario individuare gli attuali indirizzi giurisprudenziali nella

tipizzazione delle diverse tipologie di spese.

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Spese scolastiche educative

Per quanto riguarda quelle maggiormente attinenti al profilo scolastico/educativo del minore, dun-

que, i giudici riconducono tra le “spese ordinarie“, anche se parametrate nell’arco di un anno e non

di carattere giornaliero, quelle effettuate per l’acquisto di libri scolastici, di materiale di cancelleria,

dell’abbigliamento per lo svolgimento dell’attività fisica a scuola, della quota di iscrizione alle gite

scolastiche.

Tutto ciò, ovviamente, basandosi sulla considerazione che la frequenza scolastica da parte del

minore non è qualcosa di eccezionale ed imprevedibile ma, al contrario, di obbligatorio e fonda-

mentale.

Anche le spese mensili per la frequenza scolastica con annesso semi-convitto è stata considerata

una “spesa ordinaria” in relazione al normale standard di vita seguito dal minore fino al momento

della crisi familiare.

Per quanto riguarda, invece, i viaggi studio all’estero [8] e le ripetizioni scolastiche o gli sport [9] la

giurisprudenza li riconduce più frequentemente alla categoria delle “spese straordinarie“.

Esigenze sanitarie

L’altra categoria di esborsi particolarmente rilevante è quella concernete le esigenze sanitarie del-

la prole le quali, a seconda della loro natura, vengono a volte ricomprese nelle “spese ordinarie”

ed altre volte qualificate come “spese straordinarie”.

A titolo esemplificativo rientrano tra le prime, secondo quanto risulta da innumerevoli pronunce dei

giudici, le cosiddette “cure ordinarie“, come le visite pediatriche, l’acquisto di medicinali da banco o

comunque di uso frequente, visite di controllo routinarie [10]. Anche quanto necessario a garantire

cura ed assistenza al proprio figlio disabile non può che ritenersi “spesa ordinaria” essendo desti-

nata, invero, a soddisfare i bisogni quotidiani del ragazzo in relazione alla specificità della sua si-

tuazione [11].

Diversamente vengono qualificate come “straordinarie” le spese concernenti un improvviso inter-

vento chirurgico, dei trattamenti psicoterapeutici, dei cicli di fisioterapia necessari in seguito ad un

incidente stradale od altro ed, infine, quanto erogato per acquistare un paio di occhiati da vista al

minore o l’apparecchio ortodontico [12].

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Divertimento

La vita del minore, ovviamente, si compone anche di essenziali momenti ludici e di svago che i

genitori, nei limiti ovviamente della loro situazione economico-reddituale, sono chiamati a soddi-

sfare. Basti citare ad esempio l’acquisto di un computer o quello di un motorino, qualificate come

“spese straordinarie“, od anche le somme necessarie per giungere a conseguire la patente di gui-

da ed a pagare, successivamente, eventuali contravvenzioni dovute a violazione del codice della

strada da parte dei figli [13].

[1] Trib. Roma sent. n. 23353/2013.

[2] Cass. civ., n. 9372, del 08 giugno 2012, nella parte in cui si afferma che: “… la soluzione di includere le spese

straordinarie, in via forfettaria, nell’ammontare dell’assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi in netto con-

trasto con il principio di proporzionalità sancito dall’articolo 155 cod. civ. E con quello dell’adeguatezza del manteni-

mento, poiché si introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta d i alea incompatibile con i

principi che regolano la materia”.

[3] Cass. sent. n. 7672, del 19.07.1999; Cass. sent. n. 6201, del 13.03.2009; Cass. sent. n. 23411, del 04.11.2009.

[4] Tribunale di Catania, ord. 11.10.2010; il Tribunale di Catania già il 04 novembre 2008, definiva le spese straordina-

rie come: “quelle connotate dal requisito dell’imprevedibilità che non ne consente l’inserimento nell’assegno mensile, il

quale copre le normali esigenze di vita quotidiana ma non gli esborsi (eventualmente anche periodici) dettati da esi-

genze specifiche non quantificabili ex ante proprio perché non rientranti nella consuetudine di vita avuto riguardo al

livello sociale del nucleo familiare”).

[5] Cass. sent. n. 4459, del 05.05.1999; Cass. sent. n. 26570 del 17.11.2007; Cass. sent. n. 2189, del 20.012009.

[6] Cass., sent. n. 10174, del 20.06.2012.

[7] Cass. sent. n. 19607/2011.

[8] Cass. sent. n. 19607/26/09/2011.

[9] Trib. Roma, sent. n. 147, del 2013.

[10] Trib. Catania, sent. del 04.12.2008; C. App. Catania, sent. del 29.05.2008 e 05.12.2011.

[11] Cass. civ. sent. n. 18618/2011.

[12] Trib. Perugia, sent. n. 967/2011.

[13] Trib. Ragusa, sent. n. 278/2011; Trib. Ragusa sent. n. 243/2011.

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IL MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI

di Maria Monteleone

L’obbligo di mantenimento da parte dei genitori perdura oltre la maggiore età dei figli qualora co-

storo non siano in grado di provvedere in modo autonomo alle proprie esigenze di vita, né si siano

ancora essenzialmente svincolati dall’habitat domestico.

Non è possibile prefissare un termine di durata dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni.

In generale, l’obbligo cessa quando il figlio raggiunge l’indipendenza economica o costruisce una

nuova famiglia autosufficiente. L’obbligo termina anche quando, pur essendo stato messo nella

condizione di farlo, il maggiorenne non ha saputo o non ha voluto – per sua scelta o per sua colpa

(per es. trascuratezza) – raggiungere l’autonomia economica dai genitori.

Il giudice, nel disporre l’assegno di mantenimento, deve valutare la diligenza del figlio nella ricerca

di un’occupazione al termine degli studi [1]. Pertanto il tribunale può estinguere il diritto alla corre-

sponsione dell’assegno qualora la condizione di non autosufficienza economica del giovane sia

dipesa da una sua inerzia o rifiuto ingiustificato.

In caso di separazione tra i coniugi

Al raggiungimento della maggiore età del figlio, il coniuge onerato del mantenimento (in caso di

separazione tra i coniugi) non può autonomamente provvedere ad autoridursi o eliminare del tutto

il contributo che versa al figlio; al contrario, egli deve instaurare un giudizio davanti al giudice, vol-

to ad ottenere la modifica delle condizioni di separazione o divorzio [2].

Infatti il solo raggiungimento della maggiore età del figlio o la sua acquisita autosufficienza eco-

nomica non liberano, in automatico, il genitore onerato dal versargli il mantenimento; perché ciò

avvenga è necessario un provvedimento del giudice [3].

L’assegno di mantenimento non è più dovuto qualora il figlio maggiorenne abbia iniziato con carat-

tere di stabilità un’attività lavorativa conforme alla professionalità acquisita [4].

Quando si raggiunge l’indipendenza economica?

Secondo l’orientamento più recente, affinché venga meno l’obbligo dei genitori di mantenere il fi-

glio, non è sufficiente che questi abbia trovato un impiego stabile, ma è addirittura necessario che

tale impiego sia adeguato alle sue attitudini e aspirazioni. Pertanto, il figlio ha diritto a essere man-

tenuto dai genitori anche se ha rifiutato una sistemazione lavorativa non adeguata a quella cui so-

no rivolti la sua preparazione, le sue attitudini e i suoi effettivi interessi [5].

In alcuni casi, i giudici hanno ritenuto che non è sufficiente a esonerare il genitore dall’obbligo di

mantenimento l’offerta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio; solo il

rifiuto – privo di una valida giustificazione – di una offerta del tutto idonea rispetto alle concrete e

ragionevoli aspettative del giovane [6] esonera il genitore dall’obbligo di mantenimento.

Quanto all’onere della prova, spetta al genitore dimostrare, davanti al giudice, l’avvenuto raggiun-

gimento dell’indipendenza economica del figlio, percependo un reddito corrispondente alla profes-

sionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato, oppure che egli si sottrae volon-

tariamente allo svolgimento di un’attività lavorativa adeguata [7].

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Se il figlio perde la propria indipendenza economica ha nuovamente diritto di essere man-

tenuto dai genitori?

Se il figlio ha trovato un impiego stabile che lo ha reso economicamente autosufficiente, ma poi lo

perde, non risorge l’obbligo di mantenimento per i genitori; l’obbligo infatti si è estinto definitiva-

mente con il raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio [8].

Il figlio disoccupato non può quindi reclamare l’assegno di mantenimento; ma, se ne ricorrono i

presupposti, può chiedere la corresponsione degli alimenti. L’obbligo alimentare è diverso da quel-

lo di mantenimento, in quanto può ricorrere in capo al genitore anche quando sia cessato il se-

condo. Occorre, però, che vi sia un vero stato di bisogno del figlio che obbliga i genitori a fornirgli

quanto necessario per vivere.

L’obbligo di mantenimento cessa quando il figlio si sposa?

L’obbligo di mantenimento cessa quando il figlio maggiorenne contrae matrimonio e crea un nuo-

vo nucleo familiare, salvo persista lo stato di bisogno e la necessità di mezzi di sostegno per vive-

re. In un caso recente, infatti, la Cassazione ha obbligato una coppia al mantenimento della loro

figlia maggiorenne nonostante si fosse sposata, poiché sia lei che il neo marito erano ancora stu-

denti, privi di autonomia economica e ancora conviventi con i genitori [9].

Chi è legittimato ad agire per ottenere l’assegno di mantenimento?

Nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti per l’assegno di mantenimento, ma il genitore obbligato

non vi provveda, possono agire in giudizio il figlio maggiorenne o l’altro genitore. In particolare, se

il figlio non convive più con il genitore, è lui l’unico creditore dell’assegno, e quindi l’unico legittima-

to ad agire per ottenerlo [10].

Se, invece, il figlio non ha abbandonato la casa familiare e convive con il genitore affidatario, il

quale continua a provvedere direttamente ed integralmente al suo mantenimento, sono ugualmen-

te legittimati sia il figlio che il genitore [11]. Infatti, il genitore convivente resta legittimato ad ottene-

re dall’altro genitore anche l’assegno di mantenimento a proprio favore, a titolo di rimborso di

quanto già anticipato per mantenere il figlio [12].

In ogni caso, il giudice può prevedere che il genitore onerato del mantenimento versi direttamente

l’assegno al figlio e non all’ex che convive con questo.

[1] Cass. sent. n. 1506/1990 e n. 1353/1998.

[2] Cass. sent. n. 13184 del 16.06.2011.

[3] Trib. Modena, sent. del 23.02.2011.

[4] Trib Modena, sent. del 27 gennaio 2011.

[5] Cass. sent. n. 4765/2002.

[6] Cass. sent. n. 4616/1998.

[7] Cass. sent. n. 14123/2011.

[8] Cass. sent. n. 19589/2011.

[9] Cass. sent. n. 1830 del 26 gennaio 2011.

[10] Trib. Trani, sent. n. 440/2008.

[11] Cass. sent. n. 2934/1999.

[12] La legittimazione del genitore convivente con il figlio maggiorenne è quindi diversa dalla legittimazione del figlio di

maggiore età. La prima è fondata sulla continuità dei doveri gravanti su uno dei genitori nella persistenza della situa-

zione di convivenza, l’altra invece trova fondamento, nella titolarità del diritto al mantenimento.

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L’AFFIDAMENTO DEI FIGLI: condiviso o esclusivo?

di Maria Elena Casarano

Nell’ultimo decennio si è passati da un sistema che dava prevalenza, dopo la separazione,

all’affidamento ad un solo genitore (di solito la madre) ed in via subordinata ad entrambi (cosiddet-

to affidamento congiunto), ad un sistema nel quale – recependo i principi già enunciati a livello in-

ternazionale [1] – l’affidamento ad entrambi i genitori (cosiddetto condiviso) rappresenta la regola

ordinaria [2].

Si è voluto, così, assicurare ai minori il diritto alla bigenitorialità, ossia a mantenere, anche a se-

guito della crisi familiare, un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere

da loro cura, educazione, istruzione e assistenza morale e di conservare rapporti significativi con

tutti i parenti di ciascun ramo genitoriale [3].

A questo scopo il giudice deve:

– valutare in via prioritaria la possibilità che essi restino affidati ad entrambi i genitori (come avve-

niva prima della separazione della coppia)

– oppure stabilire a quale dei due essi vadano affidati [4].

Dunque, l’affidamento ad un solo genitore (cosiddetto esclusivo) rappresenta l’eccezione che

potrà essere praticata solo quando l’affidamento all’altro si riveli, per le più svariate ragioni (che a

breve vedremo), contrario all’interesse dei figli minori [5].

Quanto enunciato rappresenta un principio di carattere generale che va applicato con riferimento a

tutti i figli e, perciò, non solo nell’ambito di procedimenti di separazione o divorzio dei genitori, ma

anche di quelli di regolamentazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio. Principio,

peraltro, rafforzato a seguito della più recente riforma sulla filiazione [6] che ha totalmente parifica-

to la figura dei figli, eliminando la pregressa distinzione tra quelli naturali (cioè nati da coppie non

coniugate) e legittimi (in quanto nati da coppie di fatto).

Che significa avere l’affido esclusivo dei figli?

Di solito, si è istintivamente indotti a pensare che il genitore al quale il giudice abbia affidato i figli

in via esclusiva possa decidere su tutto ciò che li riguarda senza dover interpellare l’altro. In realtà

le cose non affatto in questi termini.

Cerchiamo allora di fare chiarezza.

Già prima della riforma sulla filiazione, si era detto che anche se l’affido ad un solo genitore non

esclude l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, le decisioni di maggiore interesse per i figli

non possono essere assunte da entrambi i genitori se uno dei due non abbia affatto (o la abbia in

forma ridotta) idoneità educativa; in questi casi, perciò, all’affidamento ad un solo genitore deve

inevitabilmente conseguire l’esercizio esclusivo della potestà [7].

Tale conclusione è stata poi cristallizzata con l’entrata in vigore la legge che ha sancito

l’uguaglianza giuridica di tutti i figli [6]. Sicché oggi:

– il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva – salva diversa disposizione del giudice – ha

l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi, con l’obbligo di attenersi alle condi-

zioni stabilite dal magistrato;

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– il genitore al quale non sono affidati i figli ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione

ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiu-

dizievoli al loro interesse;

– entrambi i genitori, salvo che non sia un diverso provvedimento, devono adottare insieme le de-

cisioni di maggiore interesse per i figli [8].

Rimane, dunque, ancora oggi la necessità che le decisioni importanti siano prese da entrambi i

genitori, sicché, in presenza di motivi di particolare gravità che rendano del tutto impraticabile la

decisione congiunta sulle questioni di maggior interesse per la prole, il genitore affidatario potrà,

semmai, richiedere un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale [9].

Il diritto di visita dei minori se l’affido è esclusivo

Quando i figli minori sono affidati ad un solo genitore, l’altro conserva il pieno diritto a frequentarli.

In tal caso, fatti salvi i casi in cui alla base del provvedimento di affido esclusivo vi sia una grave

inidoneità genitoriale (si pensi ad esempio al caso in cui la prole abbia subito violenze dal genito-

re), il giudice dovrà sempre indicare i modi e i tempi di permanenza del minore presso il non affi-

datario, dovendo in ogni caso tener conto del diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato

e continuativo sia con la madre che con il padre [10].

A chi spetta decidere sulla forma di affido?

Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo dei figli minori

[11].

Ma attenzione! Le motivazioni alla base di tale richiesta devono essere adeguatamente provate.

In altre parole non basterà che il genitore fondi la propria domanda sul semplice timore, o anche la

convinzione, che l’altro genitore non sia in grado di assumersi le responsabilità derivanti dal suo

ruolo, ma dovrà dar prova di come la condotta di quest’ultimo abbia pregiudicato, o possa fonda-

tamente pregiudicare il futuro benessere dei figli.

Nel caso in cui, infatti, l’istanza di affido esclusivo si riveli palesemente infondata, il giudice potrà:

– prendere dei provvedimenti nell’interesse dei figli che tengano in debito conto del comportamen-

to del genitore richiedente (come quella di affidare il figlio solo all’altro genitore),

– condannare, anche d’ufficio (cioè senza che gli sia formulata una espressa richiesta) chi richiede

l’affido al risarcimento del danno da responsabilità aggravata (con una somma determinata in via

equitativa) per aver agito in giudizio con mala fede o colpa grave [12].

In altre parole, una richiesta di affido esclusivo priva di fondamento (magari formulata solo per ri-

picca nei confronti dell’ex) potrebbe addirittura avere un effetto boomerang nei confronti del geni-

tore che l’abbia formulata. Come ha, infatti chiarito il Tribunale di Milano [13], il comportamento

processuale del genitore che mantiene ferma la richiesta di affido senza fornire elementi a soste-

gno della sua domanda,” limita fortemente il libero esplicarsi del diritto dell’altro genitore ad alleva-

re il figlio ed è contrario ai doveri di lealtà”.

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Affido esclusivo: quando?

Il giudice, dunque, ha piena facoltà di derogare al criterio generale di affidamento dei figli minori

ad entrambi i genitori, disponendo quello in favore di un solo genitore.

Tale autonomia decisionale, tuttavia, non è assoluta e incondizionata; la scelta del magistrato, in-

fatti, deve essere supportata da una corretta motivazione [5], mancando la quale il genitore inte-

ressato potrebbe legittimamente decidere di impugnare il provvedimento.

Il criterio che il giudice deve seguire – come affermato dalla giurisprudenza costante [14] – è quel-

lo della cosiddetta motivazione in negativo. In parole semplici si tratta di questo: poiché l’affido

condiviso rappresenta la regola rispetto a quello esclusivo, per poter derogare ad esso, non basta

che la decisione di affido ad un solo genitore si fondi sulla valutazione “in positivo” della idoneità

del genitore affidatario (che nulla dice in merito alle capacità genitoriali dell’altro), ma occorre an-

che che il giudice fornisca una motivazione “in negativo” sulla:

– inidoneità educativa del genitore che si vuole escludere dall’analogo esercizio della responsa-

bilità sui figli

– e non rispondenza all’interesse della prole della modalità ordinaria di affidamento condivi-

so.

Ad esempio: è stata annullata una decisione che aveva negato l’affidamento condiviso ad una

madre, condannata per calunnia nei confronti dell’altro genitore, in quanto il giudice non aveva

motivato la inidoneità educativa della donna, quale genitore non affidatario [15]. I cattivi rapporti

tra i genitori, infatti, non rappresentano (come a breve vedremo) una prova di inidoneità genitoriale

tale da giustificare la scelta dell’affido esclusivo.

L’affido esclusivo può essere previsto con accordo?

Come ribadito in diverse pronunce [16] la regola dell’affido condiviso non ammette deroghe

neppure nell’ambito di un accordo prodotto in un procedimento consensuale. Ciò in quanto, il giu-

dice, nel momento in cui decide in merito al tipo affidamento deve avere come obiettivo primario

l’esclusivo interesse dei minori a ricevere l’istruzione, le cure e l’educazione di entrambi i genitori.

Il magistrato, dunque, salvo che non ravvisi fattori di rischio o di pericolo per una serena crescita

dei figli (si pensi al caso in cui un genitore, consapevole del proprio stato di forte dipendenza

dall’alcool, si dichiari in favore dell’affido esclusivo all’altro genitore, sentendo di poter costituire un

pericolo alla incolumità dei figli) non è in alcun modo vincolato da una eventuale richiesta congiun-

ta dei genitori di affido esclusivo ad uno solo di loro.

Tale principio vale per ogni genere di accordo che riguardi i figli che il giudice non è tenuto ad

omologare nel momento in cui esso contrasti con il loro interesse; i provvedimenti sui figli minori ,

infatti, possono essere assunti anche d’ufficio, cioè senza che nessuno dei genitori formuli una

espressa richiesta a riguardo (si pensi al caso in cui il tribunale decida di affidare a terze persone

un minore che vive in una situazione di particolare degrado).

I casi più frequenti di richiesta di affido esclusivo

Sono molte le richieste di affidamento esclusivo dei figli da parte dell’uno o dell’altro genitore sulle

quali i giudici si trovano a dover decidere.

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Prima di procedere ad un esame delle più ricorrenti (ma anche le più problematiche), è bene chia-

rire che il magistrato è tenuto a valutare la inidoneità genitoriale (in grado giustificare la deroga

all’affidamento condiviso) in modo oggettivo.

In parole semplici, la decisione del giudice deve tener conto di qualunque situazione, comporta-

mento o condizione personale (anche involontaria) che imponga di tutelare l’equilibrio e lo svi-

luppo psicofisico dei figli (si pensi a situazioni di malattia psichica, alcolismo, tossicodipendenza).

Ma se vi sono situazioni nelle quali può apparire con maggiore evidenza l’inadeguatezza del ruolo

genitoriale (ad esempio nel caso di violenza perpetrata sui figli) ve ne sono altre, di certo assai più

frequenti, per le quali la scelta sul tipo di affidamento non appare altrettanto scontata.

Esaminiamo di seguito le più ricorrenti:

1.La conflittualità tra i genitori: l’affidamento condiviso alternato.

Un principio ribadito in numerose pronunce [17] è che la litigiosità tra padre e madre non rappre-

senta di per sé una condizione di inidoneità genitoriale e, di conseguenza, non giustifica

l’affidamento esclusivo. Si è detto, infatti, che far dipendere la scelta sul tipo affidamento dal rap-

porto (più o meno armonico) esistente tra padre e madre separati, finirebbe col subordinare il pri-

mario diritto dei figli a vivere pienamente la bigenitorialità alla qualità dei rapporti che vi sono fra

padre e madre, i quali potrebbero anche (cosa che spesso avviene) usare il conflitto per limitare la

piena relazione dell’ex con i figli.

Dunque, l’eventuale ostacolo all’affido condiviso, va individuato solo nell’ambito del rapporto diret-

to tra il singolo genitore e il minore, quando vi sia una concreta situazione di pregiudizio o anche di

mero disagio per il figlio stesso tale da giustificare una limitazione alla regola generale dell’affido

ad entrambi i genitori.

Vi sono, tuttavia alcune pronunce in senso contrario che, in presenza di un alto grado di litigiosità

dei genitori giustificano:

– la scelta dell’affido esclusivo ritenendo che il grave conflitto tra gli adulti possa rappresentare un

serio pericolo per l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli (specie se in tenera età) [18]

– o forme differenti di affidamento condiviso, come quella dell’affidamento alternato.

Di che si tratta? Per capirlo occorre fare riferimento ad un recente provvedimento col quale il Tri-

bunale di Ravenna [19], dinanzi ad una situazione di forte conflitto fra i genitori, ha disposto

“l’affidamento condiviso dei figli ai genitori con collocamento alternato settimanale a rotazione an-

nuale dei periodi presso gli stessi”.

Il Tribunale ha precisato che a questo tipo di collocamento conseguono gli obblighi per ciascun

genitore nei periodi di rispettiva permanenza del figlio:

– di provvedere al mantenimento diretto del minore, fatta eccezione delle spese di natura straordi-

naria gravanti su padre e madre in parti uguali

– nonché di garantire all’altro almeno un contatto telefonico al giorno con il minore.

Il provvedimento in questione è apparso, sulla base delle conclusioni della ctu disposta nel caso

concreto, l’unica soluzione in grado di tutelare al massimo la tranquillità e serenità del minore (di

soli 6 anni) minacciata dal serio rischio che la forte litigiosità dei genitori, inasprita nelle occasioni

di contatto tra loro, potesse ripercuotersi sulla serenità del figlio.

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2.La distanza tra le residenze dei genitori e il trasferimento di residenza

In linea generale, si esclude che la distanza tra i luoghi di residenza dei genitori possa essere di

per sé motivo per derogare all’affido condiviso [20].

Sta di fatto che essa rappresenta una situazione che presenta forti problemi pratici.

Il Tribunale per i Minorenni di Bologna, ad esempio, in una delle prime decisioni sul punto [21], ha

evidenziato che il diritto dei minori alla bigenitorialità (espressamente riconosciuto dalla legge

sull’affidamento condiviso) limita in modo significativo il diritto costituzionale di chiunque di fissare

la propria residenza in qualunque parte del territorio nazionale, o all’estero.

Non di poco conto è poi il fatto che, se da un lato i genitori dovrebbero assumere di comune ac-

cordo la decisione sulla residenza abituale dei figli anche in caso di separazione, trattandosi di

una decisione” di maggior interesse” ( insieme a quella su istruzione, educazione e salute),

dall’altro lato la stessa legge prevede che “in presenza di figli minori, ciascuno dei genitori ha

l’obbligo di comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento

di residenza o di domicilio [22], dovendo – in mancanza – risarcire il danno eventualmente verifi-

catosi all’altro o ai figli per la difficoltà di reperire il soggetto.

Dunque, l’unico obbligo gravante sul genitore che decide di trasferirsi è quello di darne comunica-

zione all’altro, ma null’altro.

Come conciliare queste due norme? Sul punto è intervenuta, proprio di recente, la Cassazione

con alcune pronunce [23] che hanno chiarito come, il giudice non può imporre ad alcuno dei geni-

tori di rinunziare al progetto di trasferirsi, che –come dicevamo – rappresenta un diritto garantito

dalla Costituzione; egli può solo prendere atto delle decisioni a riguardo e regolarsi di conseguen-

za nell’assumere i provvedimenti sull’affido e il collocamento della prole nell’esclusivo interesse di

questa (possiamo pensare, ad esempio, a dei provvedimenti che disciplinino con cadenza diffe-

rente da quella infrasettimanale il diritto di visita del genitore che non collocatario).

In altre parole, se pure la scelta di uno dei genitori di trasferire altrove la residenza coi figli è insin-

dacabile , il giudice deve valutare se la collocazione presso l’uno o l’altro dei genitori risponda al

prioritario interesse della prole.

3.Nuova famiglia o nuova relazione dell’altro genitore

Anche la circostanza che l’altro genitore abbia inserito il figlio nella sua nuova famiglia non giustifi-

ca la deroga all’affido condiviso; a riguardo, il Tribunale di Milano, ad esempio, ha affermato [24]

che l’inserimento graduale da parte dei genitori separati dei nuovi partner nella vita dei figli nati

dalla precedente unione, corrisponde al loro benessere, sempre che tuttavia i genitori abbiano la

premura di far comprendere ai minori che i nuovi compagni non sostituiscono l’altro genitore.

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Si è anche escluso che la circostanza che un genitore viva una relazione omosessuale sia motivo

per escludere l’affido condiviso, a meno che non venga provato che tale contesto familiare si tra-

duca in comportamenti dannosi per il bambino. I giudici hanno affermato, infatti, che

l‘omosessualità non esprime in sé alcuna inidoneità genitoriale; non ci si può, dunque, limitare ad

evocare in giudizio modo generico ed astratto possibili ripercussioni negative sul piano educativo

e sulla crescita del minore, senza allegare prove concrete (come certezze scientifiche o dati di

esperienza) a fondamento della propria tesi. In tal caso, infatti, la richiesta di affido esclusivo sa-

rebbe basata sul mero pregiudizio che la vita del minore in una famiglia composta da una coppia

omosessuale sia di per sé dannosa per un suo sano sviluppo [25].

4.Il coinvolgimento del figlio nella fede religiosa

Anche in tema di educazione religiosa dei figli, si è detto che l’eventuale cambiamento della fede

religiosa da parte di uno dei genitori può incidere sull’affidamento nel caso in cui l’educazione se-

condo i principi del nuovo credo si riveli pregiudizievole all’interesse del minore in quanto effettua-

ta in modo tale da avere un’incidenza (anche in ragione dell’età) sul suo processo evolutivo. Nel

caso specifico, semmai, il giudice, nel disporre l’affido condiviso dei figli minori, può prevedere –

nell’interesse di questi – specifiche prescrizioni e divieti a carico dei genitori (ne abbiamo parlato in

questo articolo: “La separazione può incidere sull’educazione religiosa dei figli?”).

Ad esempio, non è stato ritenuto di ostacolo all’affido condiviso il comportamento di una madre

collocataria di un minore preadolescente, divenuta testimone di Geova, che intendeva educare il

figlio secondo il nuovo credo; in tal caso, il giudice ha confermato il provvedimento col quale aveva

imposto alla donna di non coinvolgere il figlio nella propria scelta religiosa [26].

5.Il totale disinteresse (morale e materiale) del genitore: l’affido superesclusivo

La Cassazione, in molte pronunce [27], ha ritenuto un chiaro indice di inidoneità genitoriale in gra-

do di giustificare la revoca dell’affido condiviso, il comportamento del genitore che non adempia

all’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio minore, si disinteressi completamente del suo

benessere, non si preoccupi di conoscere, né tantomeno soddisfarne i bisogni, non ne rispetti la

sensibilità.

Pertanto, è stato ritenuto legittimo disporre l’affidamento esclusivo o confermarne il permanere

(anche in sede di successiva richiesta di modifica) quando il genitore non collocatario:

– abbia mancato di versare l’assegno di mantenimento

– o sia stato discontinuo nell’esercizio del diritto di visita.

Con riferimento a tale situazione di totale disinteresse per il figlio, i giudici hanno parlato per la

prima volta di affido superesclusivo.

Questo rappresenta una forma di affido che concentra tutto l’esercizio della responsabilità genito-

riale sull’altro genitore, sicché (in deroga a i principi generali) anche le scelte di maggior interesse

per la prole (come quelle sulla salute e sulla istruzione)sono assunte solo dal genitore affidatario

per evitare che la rappresentanza degli interessi del minore possa essere pregiudicata anche con

riferimento a questioni di particolare importanza.

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Il genitore non affidatario, in tal caso, conserverà:

– la responsabilità genitoriale nel tempo trascorso con i figli

– il potere-dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione

– il potere di fare ricorso al giudice nei casi in cui il genitore affidatario assuma delle decisioni pre-

giudizievoli per la prole.

6.Il rifiuto del figlio di incontrare un genitore

Nel caso in cui sia il figlio a rifiutare l’incontro con il genitore, in genere viene data prevalenza alle

ragioni del minore, a prescindere dalla circostanza che il rifiuto possa o meno essere stato indotto

dal genitore con cui il minore convive. In pratica, poiché l’affidamento esclusivo può essere dispo-

sto solo nell’ interesse dei figli, il giudice può ben escludere l’affido condiviso quando il minore

manifesti il fermo rifiuto di incontrare il genitore [28].

È bene chiarire, tuttavia, che un tale provvedimento non viene mai assunto senza che il giudice

abbia prima tentato ogni strada per il recupero del rapporto tra il genitore e figli (con l’intervento

dei servizi sociali e l’invio in mediazione familiare).

[1] Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la L. 27 maggio 1991, n. 176 nel

Preambolo recita: “Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un

ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione” e nell’art. 9, comma 3: “Il minore ha diritto di in-

trattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contra-

rio all’interesse preminente del fanciullo” e Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa

esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77) che individua nel minore un soggetto non più incapace di provvedere a se

stesso e necessariamente oggetto di decisioni altrui, ma una persona titolare di una serie di diritti e protagonista delle

sue scelte esistenziali.

[2] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso

dei figli”.

[3] Art. 155, comma 1, cod.civ.

[4] Art. 115, comma 2, cod.civ.

[5] Art. 155-bis cod. civ. e 337–quater cod. civ.

[6] Legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154.

[7] Trib. Roma, l 5.10 2012.

[8] Art. 337-quater co. 3 cod. civ.

[9] Art. 330 cod. civ.

[10] Trib. Roma, 26.10. 2012.

[11] Art. 337 quarter co.2 cod. civ.

[12] Ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.

[13] Trib. Milano, 4.03. 2011.

[14] Cfr. Cass. sent. n. 16593/08; n. 26587/09, n. 24526/10; n. 12308/10; n. 9632/15.

[15] Cass. sent n. 24841/10.

[16] Cfr. Trib. Bologna, 29.05. 2007; Trib. Bari, 10.10. 2008; Trib. Messina, 25.01. 2011 Trib. Varese, 21.01. 2013.

[17] Cfr. Cass. sent. n. 6129/15; n. 1730/15; n. 7477/14; n. 21591/12; n. 5108/12; 1777/12; n. 11062/11; n. 16593/08 e

nella giurisprudenza di merito cfr.: Trib. Milano, Sez. 20.03. 2013; Trib. Milano, 13.02.2013; Trib. Roma, 10.01. 2013;

C. App. Napoli 19.03 2010; Trib. Milano, 7.01. 2010; C. App. Bologna 24.11.2008; Trib. Firenze, 22.04.2006; C. App.

Ancona, 22.11. 2006; C. App. Caltanissetta, 29.07.2006.

[18] Trib. Bassano del Grappa, 1.03.2013; C. App. Bologna, 26.02. 2010.

[19] Trib. di Ravenna, ord. del 15.01. 2015.

[20] Cfr. Cass. sent. n. 24526/10; Trib. Messina, 12.10. 2010; C. App. Caltanissetta, 29.07.2006.

[21] Trib. Min. Bologna, 6.02.2007.

[22] Art. 337 sexies.

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[23] Cass., sent. n. 9633/15 del 12.05.15; e n. 6132/15 del 26.03.15.

[24] Trib. Milano, 23.03. 2013.

[25] Cfr. Cass. sent. n. 601/13; n. 16593/08.; Trib. Bologna, 15.07.2008.

[26] Cass. sent. n. 9546/12 e n. 24683/13.

[27] C. App. Bologna, 7.05. 2008; Trib. Napoli, 23.09. 2008 ; Cass. sent. n. 26587/09; Trib. Verona, 11.02. 2009; Trib.

Milano 2.02.2010; Trib. Milano, 10.02.2010 ; Trib. Novara, 11.02.2010; Cass. sent. n. 20075/11; Trib. Roma,

25.11.2013; Trib. Vicenza, 2.04.2013; Trib. Bologna, 13.05. 2014.

[28] Cass. sent. n. 18867/11 del 15.09.11.

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LA CASA FAMILIARE

A CHI SPETTA IN CASO DI SEPARAZIONE?

di Maria Elena Casarano

La legge [1] prevede che in caso di separazione, il godimento della casa familiare debba essere

attribuito tenendo conto, in via prioritaria, dell’interesse dei figli e che dell’assegnazione il giudice

tenga conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di

proprietà. Il provvedimento di assegnazione, come pure quello di revoca, sono trascrivibili e oppo-

nibili a terzi.

Si tratta di una formulazione piuttosto generica che lascia aperto lo spazio a molti interrogativi.

Cercheremo, quindi, in questo articolo di dare risposta ai più ricorrenti.

Cosa si intende per casa familiare?

Quando la legge parla di casa familiare, si fa riferimento:

– sia all’immobile nel quale si è articolata la vita della famiglia prima della separazione

– sia all’insieme e all’organizzazione di beni mobili in esso contenuti, quali elettrodomestici, ar-

redi, attrezzature e servizi (si pensi ad esempio all’uso del garage), preordinati alle esigenze di uti-

lizzo dell’assegnatario del bene.

Se ne deduce che il criterio dell’assegnazione non si applica:

– né alle seconde case nelle quali la vita familiare non ha carattere continuativo (come quella usa-

ta per le vacanze) e ai beni in esse contenuti

– né ai beni strettamente personali o quelli necessari alle personali esigenze del coniuge (si pensi

ad esempio agli strumenti necessari per la professione o per particolari bisogni di salute) [2].

Quali sono i presupposti per l’assegnazione?

Secondo la giurisprudenza prevalente [3], l’assegnazione della casa coniugale a uno dei due co-

niugi viene effettuata dal giudice non come misura assistenziale per il coniuge economicamente

più debole, ma solo per tutelare i figli; può quindi ben essere prevista anche rispetto al coniuge

che guadagna di più. Infatti lo scopo dell’assegnazione non è quello di tutelare il tenore di vita di

chi ha minor reddito, ma solo quello di garantire ai figli di continuare a vivere nello stesso ambien-

te domestico in cui sono cresciuti quando i genitori erano uniti.

Va comunque segnalato un orientamento (seppur minoritario) secondo il quale, poiché il codice

civile dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo “prioritariamente” conto

dell’interesse dei figli, il giudice potrebbe assegnare l’immobile anche a quel coniuge separato (a

cui, però, non sia stata addebitata la separazione) non affidatario della prole, nel caso in cui questi

abbia una necessità prioritaria. Sul punto ci siamo soffermati in questo articolo: “Assegnazione

della casa coniugale: può favorire solo il coniuge più debole?”.

Di solito, tuttavia il godimento della casa familiare viene attribuito:

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– al genitore che abbia avuto l’affidamento esclusivo della prole;

– al genitore collocatario dei figli minori, nel caso – ordinario – in cui gli ex abbiano l’affido condivi-

so;

– al genitore che convive con figli maggiorenni, sempre che questi non abbiano ancora raggiunto

l’autosufficienza economica.

La scelta del giudice è obbligata?

La presenza di orientamenti discordanti (seppur l’uno prevalente rispetto all’altro) lascia desumere

che il giudice ha, comunque, un potere discrezionale nel decidere sulla assegnazione.

Ciò significa che egli potrebbe anche scegliere di non assegnare l’immobile al genitore con cui vi-

vono i figli qualora:

– le circostanze del caso concreto lo convincano che una composizione globale di tutti gli interessi

coinvolti nella crisi familiare possa essere meglio realizzata attraverso l’allontanamento dei figli e

del genitore con essi convivente dalla casa in cui la famiglia viveva unita [4]: possiamo, a riguar-

do, pensare al caso in cui l’ambiente domestico rappresenti per i minori un luogo poco sicuro o

fonte di ricordi dolorosi;

– ritenga di dover dare priorità alle esigenze (ad esempio di salute) del genitore non affidatario o

collocatario dei figli (ne abbiamo parlato in questo in questo articolo: “Assegnazione casa coniuga-

le: non sempre segue l’affidamento dei figli”).

Cosa succede se non ci sono figli?

In assenza di prole, il giudice della separazione non potrà pronunciarsi sulla assegnazione della

casa che rimarrà di proprietà del legittimo titolare o – in caso di comproprietà – dovrà essere ven-

duta, data in locazione o divisa.

L’assegnazione incide sui rapporti economici?

L’assegnazione segue i predetti criteri a prescindere dal titolo di proprietà di uno o dell’altro genito-

re sull’immobile e ciò implica che il genitore che dovrà andar via di casa possa esserne anche il

legittimo proprietario (o comproprietario).

Situazione questa che crea da un lato un indubbio beneficio all’assegnatario, e dall’altro un altret-

tanto indiscutibile svantaggio al titolare del bene, in quanto:

– egli subirà la privazione del godimento sull’immobile;

– dovrà sostenere spese non indifferenti per soddisfare le proprie necessità abitative;

– subirà un pregiudizio derivante dalla diminuzione del valore del bene (derivante dalla impossibili-

tà di godimento), ove volesse venderlo.

A bilanciamento di questa situazione, la legge [1] prevede che dell’assegnazione il giudice tenga

conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di

proprietà.

Ciò significa, in parole semplici, che, qualora decida di assegnare l’immobile a chi non ne sia pro-

prietario (o comproprietario) il giudice dovrà tener conto di tale circostanza al momento della de-

terminazione dell’eventuale assegno in favore del coniuge assegnatario; assegno che dovrà, di

conseguenza essere ridotto o anche escluso.

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Perciò da un lato il magistrato dovrà soppesare la indubbia utilità economica costituita dalla casa

familiare e dall’altro la consistenza delle “risorse economiche di entrambi i genitori” (patrimonio,

redditi da lavoro, ecc.), senza dimenticare che, in ogni caso, sull’assegnatario peseranno tutta una

serie di spese inerenti all’utilizzo del bene assegnato.

L’assegnazione quanto dura?

L’assegnazione della casa non dura “a vita”. Essa può, infatti, venire revocata, quando ricorrano i

seguenti presupposti:

– i figli raggiungano una loro autonomia economica o cessino di convivere stabilmente con il

genitore assegnatario dell’immobile [5]: in questi casi, il ritorno solo saltuario del figlio presso

l’abitazione, come per i weekend, raffigura un rapporto di semplice ospitalità da parte del genitore

e, come tale, esclude il diritto di abitare la casa familiare;

– altro caso è quello in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare nella casa: si pensi al caso

in cui egli sia costretto ad un trasferimento dettato da motivi di lavoro oppure preferisca, per sem-

plice comodità, anche economica, trasferirsi dalla famiglia;

– ulteriore caso è quello in cui l’assegnatario intraprenda una nuova relazione e vada a convivere

stabilmente con il nuovo compagno/a oppure si risposi; in questo caso, tuttavia, la Cassazione, ha

affermato che la decisione sulla assegnazione della casa coniugale non vada esclusa a priori, ma

debba essere esaminata caso per caso, tenendo conto in via prioritaria dell’ interesse della prole.

In tutti questi casi, il diritto all’assegnazione non viene meno in via automatica, ma dovrà essere

formulata un’apposita istanza al giudice, corredata dalle prove a fondamento della stessa.

Che succede se la casa è in comodato?

Capita spesso che l’immobile che costituisce la casa familiare sia stato concesso alla coppia in

comodato d’uso (spesso dai genitori di uno dei due) per soddisfare le esigenze abitative della fa-

miglia. In tal caso, come ha chiarito di recente la Cassazione a sezioni unite [6], tali esigenze non

possono intendersi cessate con la separazione dei due comodatari; quando vi sono figli, infatti, ri-

mane ferma la necessità di soddisfare le loro necessità abitative.

I giudici supremi hanno perciò affermato che, in questa ipotesi, la lunga durata e la stabilità che

caratterizza le esigenze abitative di un nucleo familiare escludono che si possa applicare la disci-

plina sul comodato precario (che prevede il diritto del comodante di chiedere la immediata restitu-

zione del bene in qualsiasi momento e senza necessità di uno specifico motivo).

In pratica, anche se le parti contraenti non abbiano stabilito un termine di durata, se il comodato

ha ad oggetto un immobile destinato alle esigenze abitative della famiglia, esso deve intendersi un

comodato di lunga durata, soggetto alle regole del comodato tradizionale.

Ciò implica che chi abbia concesso la casa in comodato può chiedere il rilascio dell’immobile solo

quando:

– cessino le esigenze abitative della famiglia (non quindi con la separazione);

– quando sorga un suo bisogno urgente e imprevisto di riavere l’immobile.

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Che succede se la casa è in locazione?

Se gli ex vivevano in affitto, l’assegnazione farà succedere l’assegnatario nel contratto di loca-

zione stipulato dal coniuge (o convivente)/conduttore [7]. In pratica, il provvedimento del magistra-

to, provocherà:

– una cessione legale del relativo contratto di locazione in favore dell’assegnatario;

– l’estinzione del rapporto di locazione sul primo conduttore (coniuge/convivente);

– l’acquisizione da parte dell’assegnatario di tutti i diritti e doveri derivano dal contratto.

Il diritto di succedere nel contratto di locazione della casa familiare, tuttavia, cesserà nel caso in

cui l’immobile in questione ceduto, dopo la separazione non venga utilizzato per soddisfare le esi-

genze della famiglia.

Che succede se la casa viene venduta?

In questo caso bisogna distinguere l’ipotesi in cui la vendita sia successiva o precedente a prov-

vedimento di assegnazione.

Se, dopo il provvedimento (anche provvisorio del tribunale), il proprietario vende la casa a terzi,

l’assegnazione della casa prevale sempre sul terzo che abbia acquistato l’immobile:

– per i primi nove anni se il provvedimento di assegnazione non è stato trascritto nei pubblici regi-

stri immobiliari

– ed anche oltre nel caso in cui vi sia stata la trascrizione.

Se il proprietario vende l’immobile prima del provvedimento di assegnazione, in tal caso, la suc-

cessiva assegnazione della casa all’altro genitore prevarrà sul nuovo acquirente se questi era a

conoscenza dello stato di fatto o di diritto in cui si trovava l’immobile. Ciò vale anche nel caso in

cui l’assegnatario e collocatario della prole sia convivente e non coniuge. Dunque, anche

l’acquirente della casa che abbia regolarmente trascritto l’atto di compravendita prima del provve-

dimento di assegnazione del tribunale, potrà vedersi per così dire “scavalcato” dal successivo as-

segnatario della casa [8].

Quali sono le possibili modalità di assegnazione?

L’assegnazione può avere ad oggetto solo l’abitazione (insieme ad oggetti e arredi) nella quale si

è articolata la vita familiare prima della separazione; ciò allo scopo di garantire stabilità alla prole,

non allontanandola dal proprio habitat domestico e dalle consuetudini di vita avute durante la coa-

bitazione della famiglia unita.

Ciò non toglie che, specie quando la coppia riesca a trovare un accordo, sia senz’altro possibile

che il giudice ammetta modalità differenti di assegnazione rispetto a quella tradizionale (cioè dell’

immobile inteso nella sua globalità e ad uno solo dei genitori).

L’assegnazione, infatti, deve proporsi come primario obiettivo quello di tutelare l’interesse dei figli,

tra cui rientra senz’altro quello di conservare, nonostante la separazione, rapporti paritari e signifi-

cativi con ciascun genitore.

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In quest’ottica possono essere previste diverse modalità di assegnazione, quali:

a– la cosiddetta assegnazione parziale della casa, attraverso la sua suddivisione in due unità

abitative distinte e separate. Questa forma di assegnazione è da escludersi in due casi:

– se le dimensioni o la struttura non ne consentano la divisione;

– quando tra la coppia vi sia una forte conflittualità;

b– l’assegnazione della casa al figlio mentre i genitori si alternano nell’abitarvi [9]: una scelta

che può alleviare nel minore il senso del distacco e consentirgli di mantenere una maggiore stabili-

tà per la conservazione delle sue ordinarie consuetudini di vita, senza bisogno di spostarsi con pe-

riodicità nella residenza dell’altro genitore;

c– l’assegnazione a chi tra gli ex non sia collocatario dei figli; ciò sarà possibile ove possa es-

sere utilizzato un diverso immobile (come ad esempio la casa dei nonni) di cui la coppia abbia la

disponibilità: soluzione che potrà evitare al proprietario di sostenere i costi di un nuovo alloggio;

d– infine, il giudice potrà anche decidere di non assegnare l’immobile, ove la coppia opti per la

vendita o l’affitto della casa familiare, finalizzata all’acquisto di due immobili distinti.

In un’ottica di accordo, tra l’altro, gli ex potranno redigere una lista di beni, specificandone la rela-

tiva titolarità o escludendone dal godimento dell’assegnatario alcuni, di norma compresi

nell’arredo della casa coniugale [10].

Il magistrato, in altre parole potrà autorizzare le soluzioni più svariate in merito all’assegnazione

(anche eventualmente assunte nell’ambito di una negoziazione assistita), se le ritenga rispondenti

agli interessi dei figli, ma – in mancanza di accordo – non potrà che decidere con riferimento alla

casa familiare e ai beni in essa contenuti, senza poter considerare l’utilizzo di diversi immobili.

[1] Art. 337 sexies cod. civ.

[2] Cfr. Cass. sent. n. 7303/83 e Cass. sent. n. 5793/93.

[3] Cfr Cass. sent. n. 15367 del 22.07.15; sent. n. 18440 del 01.08.2013.

[4] Cfr. Cass. sent. n. 376/99.

[5] Cass., ord. n. 13295 del 12.06.14.

[6] Cass. Sez. Unite, sent. n. 20448 del 29.09.2014.

[7] Art. 6 L. n. 392 1978.

[8] Cass. sent. n. 17971 dell’11.09.2015.

[9] Cfr. Trib. Varese, decr. n. 158/2013; Trib. Milano, decr. del 16.09.2013.

[10] Cass. sent. n. 5189/98.

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CAMBIO DELLE SERRATURE: E’ LECITO?

di Maria Elena Casarano

Quando tra due coniugi, a causa dei continui litigi, la convivenza diventa insopportabile, spesso il

desiderio è quello di andar via da casa. Abbiamo già parlato (quando abbiamo affrontato il tema

dell’abbandono del tetto coniugale) dei possibili rischi legati al fatto che questa scelta sia compiuta

in modo troppo istintivo. Si tratta, inoltre, di una scelta spesso compiuta da chi non ha un titolo sul-

la casa familiare (come la proprietà o un contratto di locazione o di comodato).

Ma cosa accade quando a non tollerare più la convivenza sia, invece, il coniuge proprietario della

casa familiare? Di fronte a situazioni di forte crisi, egli può ritenersi autorizzato a cambiare le ser-

rature per impedire al coniuge di rientrare in casa? La risposta è negativa: si tratta di un compor-

tamento arbitrario e con precise conseguenze.

Conseguenze sul piano civile

Infatti, fino a quando il giudice non abbia emesso un provvedimento di separazione con cui auto-

rizzi i coniugi a vivere separatamente e assegni a uno dei due la casa familiare, il proprietario

dell’immobile non ha alcun diritto di cambiare la serratura di ingresso; infatti, ciascun coniuge ha

un preciso diritto, garantito dalla Costituzione [1], a godere della casa, indipendentemente dalla

titolarità di essa, fino a quando non intervenga la pronuncia del giudice.

In parole più semplici, anche se i coniugi vivono sotto il tetto coniugale da “separati in casa” anche

chi non sia proprietario dell’immobile conserva su di esso, in ogni caso, il diritto di abitazione. Tale

diritto non viene meno neppure se l’altro coniuge si sia allontanato da casa di sua spontanea vo-

lontà.

Ma quali possono essere le conseguenze, sul piano giuridico, della scelta di un coniuge di cam-

biare la serratura di casa? Innanzitutto, l’altro potrà rivolgersi al giudice per riottenere, attraverso

una specifica azione (la cosiddetta “azione di reintegrazione”[2]), il possesso del bene; potrà

quindi essere autorizzato a tornare in casa.

Ciò non potrà avvenire quando, ad esempio, nel procedimento di separazione vi sia stata

l’assegnazione alla moglie e ai figli della casa familiare di proprietà del marito; in tal caso, infatti,

questi non avrà diritto a chiedere la reintegra nel possesso nei confronti della moglie che abbia

cambiato la serratura, qualora intenda rientrare nell’appartamento per prelevare, ad esempio, dei

beni personali [3].

Ma non è tutto: il coniuge cui sia stato impedito l’accesso alla casa familiare potrà chiedere anche

il risarcimento per il conseguente danno riportato (si pensi alla necessità di trovare una nuova e

adeguata soluzione abitativa).

A riguardo, il Tribunale di Pisa [4], ha condannato una moglie a versare al marito 3.700 euro per il

danno non patrimoniale provocatogli per aver sostituito la serratura di casa, approfittando della

sua assenza: tale condotta, a parere del giudice, aveva gravemente leso il diritto di godimento del

coniuge della casa familiare.

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Conseguenze sul piano penale

Cambiare arbitrariamente la serratura di casa espone anche a conseguenze sul piano penale; a

riguardo, la Cassazione [5], con una pronuncia di poche settimane fa, ha condannato per il reato

di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”[6] un uomo che aveva sostituito la serratura

dell’appartamento in comproprietà, impedendo alla moglie di accedervi; e questo, nonostante la

donna si fosse volontariamente allontanata da casa preannunciando la volontà di separarsi.

Il coniuge, anche in una situazione di convivenza intollerabile, non può sostituire la serratura di in-

gresso della casa familiare; per farlo, dovrà necessariamente attendere il provvedimento del giudi-

ce sulla domanda di separazione e sempre che la sentenza gli assegni la dimora.

In caso contrario, il coniuge che abbia impedito l’accesso all’altro coniuge ne risponderà sia sul

piano civile che penale.

[1] Art. 2 Cost.

[2] Art. 1168 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 6348/91.

[4] Trib Pisa, sent. n. 273 del 13.3.13.

[5] Cass. sent. n. 413 del 29.01.14.

[6] Art. 392 cod. pen.

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IL PRELIEVO DI BENI DALLA CASA CONIUGALE DOPO LA SEPARAZIONE

di Maria Elena Casarano

Quando il giudice pronuncia la separazione, assegnando la casa familiare a uno dei due coniugi

[1] (di norma, a chi abiterà stabilmente con la prole), attribuisce sempre l’appartamento insieme a

tutti quei beni (mobilio, suppellettili, elettrodomestici) e servizi (si pensi ad esempio all’uso del

garage) necessari ad assicurare l’ordinaria organizzazione della vita familiare [2], a prescindere

da chi ne sia il proprietario.

Così facendo, la legge vuole garantire ai soggetti che rimangono ad abitare la casa coniugale (il

coniuge e/o i figli) la continuità delle abitudini domestiche nel luogo che ha costituito – prima della

separazione – l’habitat familiare.

La “casa familiare” è il centro delle consuetudini, degli interessi e degli affetti in cui si esprime e si

articola la vita familiare, e si identifica unicamente con quell’immobile che ha costituito il centro di

aggregazione della famiglia durante la convivenza coniugale [3].

Beni esclusi dall’assegnazione

Va da sé che il criterio dell’assegnazione non è esteso:

– alle seconde case (come, ad esempio, l’appartamento al mare o in montagna) e ai beni in esse

contenuti, utilizzate in maniera temporanea o saltuaria, e nelle quali la vita domestica non ha ca-

rattere continuativo;

– ai beni strettamente personali o quelli che soddisfano le particolari esigenze del coniuge (si

pensi ad esempio agli strumenti necessari per la professione o per particolari bisogni di salute):

possono essere prelevati dalla casa familiare senza che occorra alcuna specifica autorizzazione

dell’ex coniuge né, tantomeno, del magistrato.

Facoltà di diverso accordo

Ciò posto, i coniugi possono redigere, di comune accordo, una lista di beni, specificandone la rela-

tiva titolarità o escludendone dal godimento dell’assegnatario alcuni, di norma compresi

nell’arredo della casa coniugale [4].

In altre parole, la volontà dei coniugi sulla divisione dei beni prevale su qualsiasi provvedimento

del giudici: i coniugi hanno la possibilità di stabilire concordemente che alcuni beni (specie se di

proprietà di uno solo di loro) vadano a chi dei due dovrà lasciare la casa.

Tale accordo, in caso di separazione consensuale, può essere inserito nel ricorso per ottenere la

separazione o essere stilato in una scrittura separata; potrà anche essere raggiunto in un momen-

to successivo, qualora la separazione, da giudiziale, si trasformi in consensuale.

In caso contrario, invece, rimane fermo il provvedimento di assegnazione secondo le modalità de-

cise dal Tribunale.

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Conseguenze del prelievo di beni non autorizzato

È da considerarsi illegittimo il comportamento dell’ex coniuge non assegnatario dell’immobile che

porti via oggetti o altri beni dalla casa familiare senza che vi sia stato uno specifico accordo in tal

senso. In particolare, non solo, a seguito di una azione in sede civile [5], egli dovrà restituire i beni

al legittimo detentore (in virtù del provvedimento di assegnazione del Tribunale) ma, dinanzi ad

una denuncia dell’ex, dovrà risponderne anche in sede penale.

Secondo la Cassazione [6], infatti, il coniuge che non prenda di buon grado la pronuncia del giudi-

ce e si appropri – prima di lasciare la casa assegnata all’ex – di una serie di beni (oggetti di arre-

do, suppellettili o elettrodomestici) si procura un ingiusto profitto e deve rispondere del reato di

appropriazione indebita [7].

Stesso principio, tuttavia, vale nel caso opposto: quello cioè in cui il coniuge assegnatario

dell’immobile impedisce all’altro di ritirare i propri effetti personali dalla casa familiare.

In tal caso, infatti, sarà il coniuge che rimane in casa a trarre un ingiusto profitto dal godimento di

beni esclusi dalla titolarità personale, perché appartenenti all’altro.

Quando è escluso il reato

Attenzione: questo comportamento non è sempre punito dalla legge penale in quanto il reato è

escluso se il prelevamento di beni avvenga a danno del coniuge “non legalmente separato”, ossia

prima della sentenza di separazione [8].

La legge penale, infatti, non punisce alcuni comportamenti (di norma qualificati come reati) quan-

do sono posti in essere tra congiunti, in quanto suppone che esista tra le parti quel sentimento di

solidarietà familiare (che i giuristi chiamano “affectio familiaris”) che costituisce la base della vita

matrimoniale.

Ma cosa avviene se la sottrazione dei beni è compiuta dopo che il Presidente del Tribunale ha au-

torizzato i coniugi a vivere separati (assegnando la casa a uno dei due), ma non ha ancora pro-

nunciato la sentenza di separazione?

Il problema è stato affrontato in alcune pronunce dalla Cassazione [9] in cui si afferma che, anche

in questo caso, il coniuge che ha prelevato i beni non è punibile dalla legge penale in quanto la

causa di separazione non si è conclusa definitivamente con una sentenza.

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In parole semplici, il reato non sussiste se il fatto è avvenuto quando la causa di separazione era

ancora in corso o quando non era ancora stato omologato il verbale della separazione consensua-

le; in queste fasi, i coniugi non sono ancora considerati separati dalla legge.

Appare evidente l’inadeguatezza del sistema che finisce col privare di una opportuna tutela penale

il coniuge (e/o i figli) assegnatario dell’immobile in una fase (a volte lunga anni) estremamente de-

licata dei procedimenti di separazione e nella quale, spesso, le parti sono accecate dai reciproci

rancori per via del giudizi in corso.

[1] Art. 337 ter cod. civ.

[2] Cass. sent. n. 7303/83 e Cass. sent. n. 5793/93.

[3] Cass. sent. n. 8667/92.

[4] Cass. sent. n. 5189/98.

[5] Si può ipotizzare, in questi casi, l’esperimento di un’azione esecutiva per la consegna di beni mobili (ai sensi degli

artt. 605 e ss. cod. proc. Civ.) o di un’azione di reintegrazione e di manutenzione nel possesso (ai sensi dell’art. 703

cod. proc. civ.) o, ancora, di un giudizio ordinario per il risarcimento del danno (specie nel caso in cui l’assegnatario

abbia dovuto ripristinare i beni sottratti alla famiglia acquistandone di nuovi).

[6] Cass. sent. n. 11276 dell’11.03.13.

[7] L’art. 646 cod. pen. Recita: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o

della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la re-

clusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni….”.

[8] Art. 649, c. 1, n. 1, cod. pen.

[9] Cass. sent. n. 34866/2011 e n. 46153/13.

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Il CAMBIO DI RESIDENZA CON I FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE

di Maria Elena Casarano

Quando da una relazione nascono dei figli, la separazione della coppia è molto spesso fonte di

contrasti legati al luogo in cui i minori resteranno ad abitare. Accanto al problema ricorrente di chi

debba essere il genitore cui spetta la casa familiare, non di rado i conflitti scaturiscono dalla ne-

cessità del genitore collocatario o affidatario della prole di trasferire altrove la propria residenza.

Spesso le motivazioni del trasferimento sono legate al bisogno di ritornare nella propria città

d’origine per poter godere del maggior sostegno da parte della famiglia oppure sono connesse ad

una proposta di lavoro che consentirebbe al genitore di realizzarsi anche sul piano professionale.

Il trasferimento insieme al figlio è lecito?

Che il cambio di residenza sia dettato da una necessità effettiva o da un semplice desiderio poco

importa; ogni cittadino ha, infatti, il pieno diritto (garantito dalla nostra Costituzione [1]) di libera

circolazione e di scelta del luogo di residenza con lo scopo di realizzare le proprie aspirazioni lavo-

rative e sociali, senza poter subire limitazioni da parte dell’autorità giudiziaria (fatta eccezione per

quelle legate a motivi sanitari e di sicurezza).

Tale piena libertà, tuttavia, incontra dei limiti nella volontà dello stesso genitore di attuare il proprio

trasferimento insieme ai figli. Il cambio di residenza del minore (detto in gergo tecnico “rilocazio-

ne”), appartiene, infatti, a quelle decisioni di maggior interesse che i genitori hanno il dovere di as-

sumere di comune accordo proprio al fine di salvaguardare il benessere della prole.

Significativa appare, a riguardo, una pronuncia [2] che ha sottolineato come “dovere primario di un

buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genito-

riale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile,

consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, de-

ve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuo-

re del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne.

L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto

sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato

non a parole, ma in termini concreti”.

Quando occorre l’accordo dei genitori?

Nel caso in cui un genitore, senza aver ottenuto il consenso dell’altro, trasferisca altrove la resi-

denza insieme al figlio minore, egli viola perciò quelli che sono dei principi fondamentali in materia

di affidamento, compiendo un atto illegittimo.

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Ciò vale sia nel caso di affido condiviso [3] che di affido esclusivo [4], in quanto, anche in tale se-

condo caso, i genitori hanno il dovere di adottare insieme le decisioni di maggiore interesse per i

figli, tra cui quella della residenza abituale [5]. Anche in caso di affido esclusivo, infatti, la respon-

sabilità in capo ad un solo genitore incontra sempre un limite nella necessità che egli si attenga al-

le condizioni stabilite dal magistrato e nel diritto/dovere del genitore non affidatario di vigilare

sull’istruzione ed educazione dei figli, con piena facoltà di rivolgersi al giudice qualora ritenga che

siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.

Come fare se l’altro genitore non da il consenso al cambio di residenza?

Nel caso in cui, pertanto, l’altro genitore non approvi la scelta dell’ex di trasferirsi, l’interessato do-

vrà presentare una specifica domanda al giudice del luogo di residenza abituale del figlio al fine di

ottenere l’autorizzazione alla rilocazione del minore tramite la modifica delle condizioni della sepa-

razione, del divorzio o dei provvedimenti assunti riguardo a minori nati fuori dal matrimonio [6].

La medesima domanda potrà essere presentata anche dal genitore che, conoscendo l’intenzione

dell’ex di attuare il cambio di residenza del figlio, voglia appunto impedirlo.

Ciascun genitore potrà ovviamente opporsi a tale richiesta motivando le ragioni del dissenso.

Il tribunale dovrà decidere compiendo una serie di valutazioni finalizzate ad assumere la soluzione

più rispondente all’interesse del fanciullo.

Con tale obiettivo, il giudice dovrà ascoltare entrambi i genitori nella prioritaria ricerca di una solu-

zione consensuale della questione. Ove questa non venga raggiunta, il giudice potrà nominare un

esperto (generalmente uno psicologo) affinché, dopo aver ascoltato il minore, rediga una relazione

indicando la soluzione, a suo avviso, più adeguata al caso.

Conseguenze sotto il profilo civile

Se però il trasferimento sia comunque attuato, il genitore che sia stato forzatamente allontanato

dal figlio potrà rivolgersi al giudice del luogo di residenza abituale del minore [7] affinché assuma

gli opportuni provvedimenti a riguardo. Infatti, tra i requisiti di idoneità genitoriale richiesti ad un

genitore affidatario della prole un ruolo assai importante è costituito dalla capacità di questi di ri-

conoscere le esigenze affettive del minore, mostrandosi capace di “preservargli la continuità delle

relazioni parentali attraverso il mantenimento, nella sua mente, della trama familiare, al di là di

egoistiche considerazioni di rivalsa sul coniuge” [8].

L’allontanamento arbitrario, pertanto, costituisce una grave inadempienza a seguito della quale il

giudice potrà [9] decidere di:

– modificare i provvedimenti in vigore, anche tramite un’inversione dell’affidamento e/o colloca-

mento dei figli (in favore del genitore ingiustamente allontanato dalla prole) e, nei casi più gravi di-

chiarare la decadenza dalla responsabilità genitoriale;

– ammonire il genitore inadempiente;

– disporre a carico di quest’ultimo un risarcimento sia nei confronti del genitore leso che della pro-

le;

– sanzionare il genitore con un’ammenda.

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Attenzione a non lasciar trascorrere del tempo…

Se quanto detto è senz’altro vero, non va però sottovalutato il fatto che, nella individuazione del

genitore presso il quale sarà collocato il figlio, il criterio primario di riferimento per il giudice è sem-

pre rappresentato dal benessere del minore, con specifico riferimento alle consuetudini di vita da

questi acquisite.

Ciò significa, all’atto pratico, che qualora il trasferimento si già stato attuato senza consenso (né

dell’altro genitore né del giudice) e, di conseguenza, il fanciullo si sia già radicato nel nuovo conte-

sto abitativo, il magistrato – nel primario obiettivo di far prevalere l’interesse del figlio ad un corret-

to e sereno sviluppo della sua personalità – potrà comunque decidere di non allontanarlo dal nuo-

vo luogo di abituale residenza; un nuovo trasferimento, infatti, rischierebbe di destabilizzare il mi-

nore che abbia già acquisito delle nuove consuetudini di vita. Tutto ciò, naturalmente, fermo re-

stando il diritto dell’altro genitore di poter frequentare il figlio con regolarità [10].

La residenza abituale del minore

A riguardo, la giurisprudenza [11] è costante nel ritenere che la residenza abituale del minore va-

da individuata nel luogo in cui il minore, per qualsiasi motivo e grazie ad una durevole e stabile

permanenza (ancorché di fatto) trova e riconosce il centro dei suoi legami affettivi non solo

parentali originati dalla sua quotidiana vita di relazione (si pensi al legame di amicizie connesso al-

la frequentazione scolastica). Pertanto, anche se il trasferimento sia stato deciso da un solo geni-

tore, l’indugiare dell’altro nel rivolgersi al giudice al fine di ottenere il rientro del minore non può

che favorire il consolidarsi della nuova situazione giuridica [12].

Ad esempio, con particolare riferimento ai casi di sottrazione internazionale (ossia di trasferimen-

to illegittimo del minore attraverso una frontiera o di permanenza in un Paese diverso da quello di

residenza abituale), per abitualità della residenza viene considerata, in caso di trasferimento lecito

(cioè attuato previo consenso dell’altro genitore), la durata di tre mesi, e in caso di trasferimento

illecito, la durata di un anno [13].

Il consiglio, quindi, in questi casi, è di non temporeggiare nel rivolgersi al tribunale (che dovrà es-

sere quello del luogo di residenza abituale) affinché assuma le decisioni del caso; il rischio po-

trebbe essere infatti – al di là di possibili sanzioni comminate al genitore inadempiente – quello

che il magistrato possa ritenere la nuova residenza una condizione maggiormente rispondente al

bisogno di stabilità del minore.

Conseguenze sotto il profilo penale: la sottrazione del minore

Ci sono poi situazioni in cui il trasferimento di residenza, attuato da uno dei due genitori (in gene-

re, ma non necessariamente, quello presso cui sono collocati i figli in modo prevalente) in modo

arbitrario (se non a volte anche in modo ingannevole) può essere punito dalla legge penale.

Nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, infatti, il codice penale disciplina una serie di fi-

gure di reato [14] che si caratterizzano proprio per la condotta della sottrazione di minore al geni-

tore che ne esercita la responsabilità genitoriale (entrambi, quindi, nei casi più frequenti in cui

l’affido è condiviso).

Le norme, nello specifico puniscono chiunque (e quindi anche uno dei genitori) sottrae un minore

al genitore esercente la responsabilità su quest’ultimo:

– portandolo via con sé in modo da allontanarlo dal domicilio stabilito,

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– o anche trattenendolo presso di sé.

La legge, infatti, vuole tutelare:

– da un lato il diritto del genitore alla libera e piena esplicazione della funzione genitoriale e

– e dall’altro quello della prole a veder garantito il suo interesse a ricevere le cure e l’educazione

da parte di entrambi i genitori [15].

Viene punita, pertanto, la condotta che abbia l’effetto di impedire all’altro genitore di poter attuare

le diverse manifestazioni connesse al proprio ruolo, quali le attività di cura e assistenza, la vici-

nanza affettiva, la funzione educativa.

Dunque, affinché la sottrazione del minore sia punita non rileva tanto il fatto che l’altro genitore sia

stato o meno avvertito del trasferimento ma che, nella pratica, egli sia posto nella condizione di

non poter esercitare appieno il proprio ruolo genitoriale a causa della distanza che si frappone tra

lui e il figlio.

Come chiarito, infatti dalla Suprema Corte [16] il reato non sussiste quando la sottrazione sia du-

rata per un tempo limitato, tale da non compromettere in modo incisivo l’interesse delle parti alla

reciproca frequentazione. Ad esempio, in un caso nel quale la sottrazione era durata due settima-

ne la Corte ha ritenuto di non punire per il reato in questione una madre che si era allontanata con

la figlia [17], mentre ha ritenuto punibile la condotta del genitore che si era allontanato per alcuni

mesi a molti chilometri di distanza dalla città di residenza [18].

Inoltre tale condotta può subire in sede penale una doppia condanna perché, se operata quando

già esiste un provvedimento del tribunale che disciplina la collocazione e l’affidamento dei figli, il

genitore inadempiente potrà rispondere contestualmente del diverso reato di mancata esecuzione

dolosa di un provvedimento del giudice [19].

È sufficiente comunicare all’ex la nuova residenza?

Ciò detto, vien da chiedersi, tuttavia, come debba leggersi la norma (di recente introduzione [20])

secondo la quale, in presenza di figli minori:

– ciascuno dei genitori ha l’obbligo di comunicare all’altro l’avvenuto cambiamento di resi-

denza o di domicilio entro il termine perentorio di trenta giorni

– e la mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a cari-

co del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto.

Si tratta di una sorta di autorizzazione al trasferimento di residenza da parte di un genitore subor-

dinato alla comunicazione all’altro nei termini di legge?

In realtà non vi sono pronunce che possano far pensare che il legislatore abbia inteso avallare

d’improvviso la condotta di uno dei genitori (senz’altro condannabile e tipica dei contesti di conflit-

tualità di coppia) di escludere l’altro da decisioni importanti riguardo alla vita dei figli.

La nuova disposizione sembra, invece, riferirsi ai cambi di residenza (o domicilio) nell’ambito

dello stesso comune o, in ogni caso, a distanze tali da non interferire sulla possibilità dell’altro

genitore di partecipare pienamente alla vita dei figli.

Ove ciò non avvenga e il genitore attui un trasferimento del tutto arbitrario, l’altro avrà pieno diritto

di rivolgersi al giudice per come poc’anzi illustrato.

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Criteri per la decisione del giudice

Nel decidere sull’istanza di cambio di residenza del figlio minore, il giudice – pur disponendo di

un’ampia discrezionalità – è tuttavia tenuto ad attenersi a specifici criteri, individuati e collaudati

nella letteratura (nazionale internazionale) di settore riguardante la rilocazione a distanza dei figli.

È quanto ha chiarito il Tribunale di Milano [21] con una pronuncia che torna ad utile riferimento per

la loro individuazione in quanto – senza la pretesa di elencarli in modo esclusivo ed esaustivo (at-

teso che essi sono comunque strettamente legati alla singola fattispecie) – li individua nel dettaglio

affinché essi guidino il magistrato nella pronuncia di un provvedimento che, nel rispetto della legge

[22]:

– sia adottato nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole;

– garantisca a quest’ultima il suo diritto a mantenere con entrambi i genitori un rapporto equilibrato

e continuativo;

– permetta alla prole di conservare rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

Ecco di seguito gli otto criteri individuati dal giudice meneghino:

1. I motivi del trasferimento

Il giudice deve innanzitutto esaminare le ragioni che sono alla base del trasferimento del genitore

presso cui sono collocati i figli (sia anche in modo prevalente): tali ragioni devono essere sostan-

ziali e non basate (in via esclusiva) da occasioni lavorative più remunerative o dal fatto che il mu-

tamento dell’ambiente sociale sia in grado di offrire all’adulto (e a lui soltanto) maggiore sicurezza

rispetto a quella offerta dall’ambiente di attuale residenza.

Nel caso di specie, ad esempio, la richiesta di trasferimento da parte della madre non aveva come

scopo quello di ottenere migliori chance economiche o anche di progressione in carriera a discapi-

to del proprio ruolo genitoriale, bensì era basata sulla più radicale esigenza di garantirsi la stabilità

lavorativa (poiché la donna, insegnante precaria, sarebbe entrata in ruolo definitivo).

2. Le garanzie di frequentazione genitore non collocatario/figli

Il magistrato, inoltre, deve valutare con quali tempi e modalità il genitore che intende attuare il tra-

sferimento è in grado di garantire la frequentazione tra il genitore non collocatario e la prole: essi -

sottolinea la pronuncia -devono essere realisticamente fattibili e non costringere il genitore ad uno

stravolgimento delle proprie abitudini di vita o anche ad affrontare sforzi economici insostenibili o

comunque sproporzionati ai propri redditi; nel caso in esame la non eccessiva distanza tra le due

città (Novara e Ravenna) poteva consentire la frequentazione della minore (frequentante le scuole

medie) col genitore non collocatario -anziché per intervalli settimanali – per interi w.e. e periodi di

festività scolastica.

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3. La disponibilità del non collocatario a trasferirsi

D’altro canto, tuttavia, il giudice deve anche considerare la eventuale manifestata disponibilità dal

genitore non collocatario anche al proprio trasferimento, con lo scopo di mantenere la propria fun-

zione genitoriale: scelta che – evidenzia la pronuncia – certamente non può essere forzata ma

che, ove non sia esclusa (in quanto razionale e possibile), permette al giudice:

– da un lato di valutare la volontà e capacità del genitore di mutare i propri riferimenti sociali e la-

vorativi con lo scopo di mantenere solido il legame con i figli

– e dall’altro di accertare che la scelta al trasferimento del genitore collocatario non abbia come

unico scopo quello di ostacolare (se non di danneggiare) il rapporto dei figli con l’altro genitore.

Nel caso di specie, ad esempio, appariva decisivo l’atteggiamento assunto in sede processuale

dai due genitori: la donna, infatti, pur formulando con forte decisione la richiesta di avere con sé la

figlia, non escludeva al contempo – seppur in via subordinata – che la minore fosse collocata

presso il padre con articolazione dei tempi e dei modi di frequentazione. Al contrario il padre

escludeva del tutto la possibilità di collocazione della figlia presso la madre, nella ferma convinzio-

ne che il miglior interesse per la minore fosse quello di rimanere nella città di attuale residenza. At-

teggiamenti questi letti quale indice:

– da un lato di maggiore capacità della madre – in quanto verosimilmente legata in maggior misu-

ra alla quotidianità con la figlia – di cogliere maggiormente tutti gli aspetti sottesi dalla difficile de-

cisione

– e dall’altro di mancanza da parte del padre di piena capacità di valutazione del problema nella

sua complessità.

4. Le possibilità che il minore conservi i rapporti i parenti

Ancora, il magistrato deve verificare in che modo il trasferimento possa salvaguardare e garantire

le relazioni del figlio con le altre figure familiari e affettive di riferimento (zii, nonni, ecc.) che defini-

scono l’identità familiare del minore, preservando la memoria e riconoscibilità delle proprie origini

geografiche, sociali e culturali: è naturale che ove il minore non abbia mai coltivato rapporti signifi-

cativi con queste ultime per il giudice non si porrà la necessità di garantire la conservazione di tale

rapporto. Nel caso sottoposto all’esame del tribunale meneghino, il trasferimento della minore

avrebbe comportato la possibilità di maggiore frequentazione (fino ad allora sacrificata) dei nonni

materni in quanto residenti nella città di rilocazione.

5. Le possibili ripercussioni sul minore

Altro criterio di riferimento (e strettamente connesso al quello riguardante le ragioni del trasferi-

mento) è costituito dalla valutazione – anche in prospettiva – da parte del magistrato dei possibili

effetti del trasferimento sul figlio in relazione al suo necessario bisogno di stabilità ambientale,

emotiva, psicologica e di relazione: allo scopo, il giudice avrà il compito di valutare se la richiesta

di trasferimento del genitore possa o meno essere definitiva o anche soggetta alle continue esi-

genze del genitore collocatario.

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6. Il nuovo contesto sociale e familiare

Ancora, il giudice deve analizzare le caratteristiche dell’ambiente sociale e familiare in cui il genito-

re collocatario (o affidatario) vuole trasferirsi rispetto a quelle del luogo di attuale residenza: si

pensi da un lato alla profonda diversità esistente tra una circoscritta realtà di paese e quella di una

città metropolitana e dall’altro all’eventualità che il minore possa contare comunque nella nuova

realtà su figure di riferimento: nel caso di specie, ad esempio, il trasferimento non avrebbe com-

portato un cambiamento radicale per la minore in quanto si trattava di due contesti sociali assai

simili (Novara-Ravenna) e per giunta la donna tornava a vivere nella realtà territoriale della propria

famiglia d’origine e quindi la minore avrebbe comunque coltivato i rapporti con le figure parentali di

riferimento materno.

7. L’età dei figli

Ulteriore parametro di riferimento per il magistrato è costituito dall’età della prole. Tanto più piccolo

è il figlio, infatti, tanto più facilmente rischia di venire compromessa la sua possibilità di mantenere

un significativo legame con il genitore non collocatario; ciò specie quando l’età della prole non ab-

bia ancora consentito di sviluppare un legame significativo con uno o con entrambi i genitori (si

pensi ad un bambino in tenerissima età che necessita di un rapporto quotidiano e –potremmo dire

– epidermico per creare un contatto effettivo con i genitori): dunque, il giudice dovrà concentrare la

sua analisi non soltanto sulle qualità della rapporto già in atto, ma anche su quelle potenziali di

suo sviluppo. Nel caso in esame si trattava –come accennato – di minore in età adolescenziale la

quale aveva manifestato di avere un legame radicato anche con il padre.

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8. Le dichiarazioni del minore

Altro elemento di sostanziale importanza nella decisione in esame è rappresentato dalla volontà al

trasferimento eventualmente espressa da minore in sede di ascolto [23]: tanto più grande è il fi-

glio, infatti, tanto più elevato potrà ritenersi il suo livello di maturazione e di sviluppo psicofisico.

Nel caso di specie, peraltro, la figlia, in sede di ascolto pur esprimendo il suo sano timore all’idea

di un cambiamento radicale di vita, non aveva escluso l’idea di poterlo attuare.

[1] Art. 16 Cost.

[2] Trib. Bari, decr. 10.03.09.

[3] Trib. Milano, decr. 17.06.14.

[4] Cass. Sez. Un., sent. n. 11915/14 del 28.05.14.

[5] Art. 316, co. 1 cod. civ.

[6] Art. 710 cod. proc. civ., art 337 quinquies cod. civ., art. 9 L.898/70.

[7] Art. 337-quater, co. 3, cod. civ.

[8] Cass. sent. n. 24907/08.

[9] Ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ.

[10] Così Cass. sent. n. 13619/10.

[11] Cfr. Cass. sent. 3798/08; Cass. sent. n. 19544/03.

[12] Cfr. Decr. Trib. Milano del 5.06. 2015, Cass sent. n. 11915/2014; n. 18541/2014.

[13] Regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e

all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.

[14] Previste negli art. 573, 574 e 574 bis cod pen .

[15] Cass. sent. n. 17799 del 6.02.14

[16] Cass. sent. n. n.33452 del 27.07.14.

[17] Cass., sent. n.. 22911/13.

[18] Cass. sent. n. 21441/2008.

[19] Art. 388 cod. pen.

[20] Art. 337 sexies cod. civ. introdotto dal decr. lgs n.154/13.

[22] Art. 709 ter cod. proc. civ.

[23] Art. 573 e 574 cod. pen.

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LE PROVE NEL PROCESSO

(MANTENIMENTO E ADDEBITO)

COME FARE PER PROVARE I GUADAGNI IN NERO DEL CONIUGE

di Maria Elena Casarano

Capita spesso che, nei giudizi di separazione o divorzio nei quali si debba determinare il diritto e la

misura di un assegno di mantenimento, la situazione patrimoniale dichiarata dai coniugi non corri-

sponda a quella reale. Sia il marito che la moglie, infatti, possono avere interesse a nascondere le

loro reali diponibilità economiche; il primo al fine di sottrarsi all’obbligo di versare il mantenimento

alla ex e quest’ultima allo scopo di ottenerlo in misura maggiore di quanto non le spetti in realtà.

Cosa prevede la legge

La legge, a riguardo, dispone come unico onere a carico dei coniugi quello di allegare all’atto in-

troduttivo della domanda di separazione copia delle ultime dichiarazioni dei redditi presentate [1].

In aggiunta a tale prescrizione, alcuni Tribunali invitano le parti (di solito nei provvedimenti di fis-

sazione dell’udienza presidenziale) a depositare ulteriori documenti (come ad es. visure al Pra,

estratti dei conti correnti bancari, ecc.) o una autocertificazione relativa al patrimonio.

Ma tutto questo spesso non basta.Occorre, invece, fornire al giudice elementi ulteriori tali da far

presumere anche i guadagni in nero dell’ex.

Solo attraverso una visione globale e veritiera delle disponibilità economiche di ciascun coniuge,

infatti, il giudice potrà determinare una misura dell’assegno (di mantenimento e divorzile) il più

equa possibile.

In questi casi, tra l’altro, la tutela della privacy e della riservatezza sui dati sensibili cede il passo

alla necessità che sia assicurato il mantenimento della prole e del coniuge economicamente più

debole.

Per tale ragione il giudice ha un ampio potere di valutazione delle prove nell’ambito dei procedi-

menti riguardanti la tutela della famiglia e non è tenuto a considerare in via esclusiva i documenti

ufficiali esibiti agli atti.

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Le indagini

Le parti, perciò, possono svolgere un’autonoma attività di indagine (anche avvalendosi di investi-

gatori privati) al fine di acquisire i documenti e le informazioni necessarie a provare i redditi reali e

l’effettivo stile di vita del coniuge (viaggi, abiti costosi, collaboratori familiari). In mancanza di pro-

va, invece, le domande potrebbero non essere accolte dal giudice.

In base, infatti, al principio dell’onere della prova [2] deve essere la parte che ne ha interesse a

fornire al giudice elementi tali da indurlo a ritenere plausibile che le disponibilità e i redditi del sog-

getto, siano in realtà, superiori rispetto a quanto risulti dai documenti esibiti.

Il rapporto redatto dall’investigatore, tuttavia, non può essere utilizzato come prova all’interno del

processo. Occorre, invece, che quest’ultimo sia chiamato a testimoniare davanti al magistrato

(prova orale, dunque, e non documentale) sui fatti stessi [3]. Pertanto, la semplice produzione in

giudizio del dossier del detective non è sufficiente a dimostrare al giudice le risultanze in esso con-

tenute.

Qualora, poi, le informazioni fornite al giudice risultino carenti o tra loro contrastanti, il magistrato

potrà chiedere alla polizia tributaria [4] di svolgere le opportune indagini; esse, per espressa

previsione di legge [5], potranno estendersi anche a prestanome di beni o attività riconducibili ad

uno dei coniugi, grazie ai quali l’ex potrebbe aver occultato il proprio patrimonio.

L’interessato potrà anche chiedere al giudice di ordinare l’esibizione di determinati documenti a

terzi soggetti (come ad esempio il datore di lavoro, la banca presso la quale in cui il coniuge ha un

conto corrente, ecc.) al fine di verificare la misura del patrimonio, così come potrà chiedere che

vengano sentiti in giudizio come testimoni persone in grado di fornire informazioni utili ad accerta-

re quale sia l’effettivo lavoro svolto dal soggetto (anche se “in nero”).

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Ma non basta. A tale potere di indagine del magistrato, nei casi in cui dalla documentazione agli

atti emergano dati reddituali incompleti o contrastanti con lo stile di vita prospettato, la riforma del-

la giustizia [6] ha affiancato quello di avvalersi dell’ufficiale giudiziario e dei suoi nuovi poteri di ri-

cerca telematica [7] attraverso il ricorso all’Anagrafe tributaria.

In altre parole, se al fisco risulta una situazione di scarsezza di mezzi di sostentamento, ma il co-

niuge riesce a dimostrare che l’ex conduce uno stile di vita incompatibile con le entrate dichiarate,

il giudice dovrà tenerne conto nel determinare l’assegno di mantenimento (sia per l’ex che per la

prole) [8]. Ciò in quanto la decisione del giudice è discrezionale e non vincolata dalla documen-

tazione fiscale alla quale si può, semmai, attribuire solo un valore indiziario [9].

[1] Art. 706 cod. proc. civ.

[2] Art. 2697 cod. civ.

[3] Trib. Milano, ord. dell’08.04.2013.

[4] Le indagini di polizia tributaria previste dalla normativa, in caso di giudizio di separazione, solo per la tutela della

prole, possono, in realtà, essere effettuate anche ai fini della tutela del coniuge economicamente più debole. In parti-

colare la Cassazione ha stabilito che, “anche in materia di separazione dei coniugi deve ritenersi applicabile l’art. 5 c.

9 L. 898/1970, il quale prevede, in tema di riconoscimento e quantificazione dell’assegno divorzile, che in caso di con-

testazioni il Tribunale possa disporre indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, avva-

lendosi, se del caso, anche della Polizia Tributaria. Peraltro l’esercizio di tale potere rientra nella discrezionalità del

giudice di merito, che non è tenuto ad avvalersene ove ritenga compiutamente provata aliunde la situazione economi-

ca delle parti, ma ove non se ne avvalga non può rigettare le domande per mancata dimostrazione della situazione

economica delle parti” (Cass. sent. n. 14081/09).

[5] È lo stesso art. 337 ter ult.co. cod. civ. a stabilire che, se le informazioni di carattere economico fornite dai coniugi

non risultano sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui

beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

[6] D.l. 132/2014, art. 19, c. 5.

[7] Il nuovo art. 492 bis cod. proc. civ. prevede che l’ufficiale giudiziario, tramite il collegamento telematico diretto alle

banche dati delle pubbliche amministrazioni o a quelle a cui le pubbliche amministrazioni hanno accesso (come

l’anagrafe tributaria, l’archivio dei conti correnti bancari ed degli altri rapporti finanziari, il P.R.A. e le banche dati degli

enti previdenziali), potrà acquisire “informazioni rilevanti per individuazione di cose e crediti da pignorare, comprese

quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti”.

[8] Trib. Caltanissetta, sent. del 25.07.2014.

[9] Cass. sentt. n.11517/2014 e 3905/2011.

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Delega delle indagini alla polizia tributaria: solo a discrezione del giudice

Come abbiamo visto, tra i criteri in base ai quali il giudice fissa l’ammontare dell’assegno di man-

tenimento o di divorzio, il principale peso è attribuito:

– da un lato, allo scarso reddito del beneficiario (di norma, la moglie) che non gli consente di

mantenere lo stesso tenere di vita goduto durante il matrimonio;

– dall’altro l’effettiva possibilità economica del coniuge onerato di garantire il mantenimento

dell’altro: è chiaro che non ha senso affermare che alla moglie spetti un mantenimento di mille eu-

ro per continuare ad avere lo stesso stile di vita che aveva quando viveva insieme al marito, se lo

stipendio di quest’ultimo arriva appena a mille euro.

Insomma, il modo migliore per farsi un’idea di come il giudice effettua il calcolo è pensare a una

bilancia: su un piatto mette il reddito della moglie e sull’altro pone quello del marito, dal quale pe-

rò decurta tutte le spese necessarie alla sua sopravvivenza (come l’affitto per un nuovo apparta-

mento dove andare a vivere, se la causa è stata assegnata alla moglie). Lo scopo di tale opera-

zione è quella di eliminare tutte le sproporzioni di reddito esistenti tra i due.

Il problema, però, come anticipato, sorge laddove il reddito del coniuge onerato sia composto da

diverse voci e non da quelle di lavoro dipendente, facilmente individuabili. Si pensi a un uomo

che abbia diverse proprietà immobiliari, alcune di queste date in affitto; che detenga azioni, obbli-

gazioni e un cospicuo patrimonio mobiliare che gli frutti in termini di rendite e interessi; o ancora al

libero professionista la cui dichiarazione dei redditi sia decisamente inferiore rispetto all’effettivo

reddito percepito.

Ebbene, in questi casi, la legge prevede [1] che il giudice possa chiedere alla polizia tributaria di

effettuare le ulteriori indagini necessarie per accertare, concretamente, le possibilità economiche

del coniuge che dovrà versare il mantenimento.

A riguardo, tuttavia, la Cassazione [2] ha precisato che, tutte le volte in cui il giudice del merito ri-

tenga già provata l’insussistenza di redditi da parte del coniuge obbligato, può direttamente proce-

dere al rigetto della domanda di mantenimento, anche senza avere prima disposto accertamenti

d’ufficio attraverso la polizia tributaria. Infatti, tali accertamenti non possono avere una valenza

esplorativa, non possono, cioè, sostituire quello che è un onere tipico delle parti: quello della rac-

colta delle prove ai fini della decisione. La dimostrazione dei propri diritti spetta ai soggetti coinvolti

nella causa e non può essere delegata agli ausiliari del giudice. La polizia tributaria potrebbe allo-

ra fungere da sola integrazione tutte le volte in cui la parte richiedente non sia riuscita, per proprie

impossibilità, a procurarsi la prova dei propri “sospetti” sui redditi dell’ex.

Dunque, il conferimento dell’incarico alla polizia tributaria rientra nella discrezionalità del giudi-

ce; non si tratta di un adempimento obbligatorio, imposto a semplice istanza di parte. È necessa-

rio comunque che il giudice abbia valutato come superflua tale indagine, per via dei dati istruttori

già acquisiti e ritenuti sufficienti all’emissione della sentenza.

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Lo stesso principio era già stato affermato da una sentenza della Suprema Corte di qualche anno

fa [3]: in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento in sede di divorzio, l’esercizio del

potere del giudice che, può disporre — d’ufficio o su istanza di parte — indagini patrimoniali avva-

lendosi della polizia tributaria, costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova;

pertanto l’esercizio di tale potere discrezionale non può sopperire alla carenza probatoria della

parte onerata, ma vale ad assumere, attraverso uno strumento a questa non consentito, informa-

zioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito, incompleto o non completabile attraverso gli

ordinari mezzi di prova. Pertanto la relativa istanza avanzata dalla parte e la contestazione di par-

te dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge tenuto al predetto mantenimento devono

basarsi su fatti specifici e circostanziati.

Il diniego del giudice a valersi della polizia tributaria deve essere collegato a una valutazione sulla

superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti [4]. [1] Art. 5, comma 9, della legge n. 898 del 1970.

[2] Cass. sent. n. 14050 del 7.07.2015.

[3] Cass. sent. n. 2098 del 28.01.2011.

[4] Cass. sent. n. 11415 del 22.05.2014.

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LA PROVA DELL’INFEDELTA’ AI FINI DELL’ ADDEBITO

Come abbiamo visto, perché l’infedeltà possa essere causa di responsabilità e, quindi, di “addebi-

to”, è necessario che essa sia stata il motivo principale a determinare la crisi coniugale. Se, inve-

ce, questa era già in atto e il rapporto adulterino è solo l’effetto di un’unione già sgretolatasi in pre-

cedenza, al coniuge fedifrago non può essere recriminato nulla: nessuno può essere obbligato a

restare fedele a una persona che non lo ama più.

All’atto pratico, è la parte tradita che deve subito dimostrare l’infedeltà del coniuge. Infatti la legge

presume già in partenza che l’infedeltà sia la causa della rottura, vista la gravità della condotta.

La palla, quindi, passa all’altra parte che, se vuole evitare la condanna, deve dimostrare, a sua

volta, l’anteriorità della crisi rispetto all’accertata infedeltà, ossia la preesistenza di una crisi già ir-

rimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. In

mancanza di questa prova resta a suo carico l’addebito.

La tutela della privacy

Sebbene la regola generale sia quella secondo cui, qualora vengano utilizzati i dati personali di un

soggetto, c’è sempre bisogno del previo consenso di quest’ultimo (per esempio: fotografie, regi-

strazioni, ecc.), ciò non vale se chi recupera tali dati agisce per tutelare un proprio diritto in

tribunale (così, appunto, potrebbe essere il caso della moglie che voglia dimostrare la relazione

extraconiugale del marito).

Ma attenzione: la lesione della privacy non può spingersi sino a commettere reati come la viola-

zione della corrispondenza. Pertanto la moglie non potrebbe frugare nella posta o tra le email o gli

sms ricevuti dal marito al fine di procurarsi le prove del suo tradimento [1] ; tale comportamento è

illecito e l’eventuale risultanza – sostiene la Cassazione [3] – non potrebbe avere ingresso nel

processo.

L’investigatore privato

Al pari, nella causa contro il coniuge fedifrago può avere un ruolo determinante la relazione

dell’investigatore privato. A riguardo la Cassazione [2] ha ritenuto ammissibili le prove del tradi-

mento fornite attraverso tabulati telefonici, foto e resoconti di un detective.

È bene, però, avvertire che l’orientamento dei giudici è anche quello di non dare valore al sempli-

ce “report” dell’agenzia investigativa, in quanto si tratta di un atto di parte, formato peraltro fuori

dal processo.

I report delle agenzie investigative – da cui si evince il tradimento del coniuge – non possono co-

stituire una prova nel giudizio civile di separazione [3]. Per la dimostrazione al giudice del rapporto

fedifrago, il detective deve essere sentito come testimone e, quindi, andare a ripetere davanti al

giudice ciò che ha visto e fotografato.

In altre parole, il rapporto dello 007, da cui emergono i pedinamenti, gli appostamenti, le registra-

zioni possono entrare nel processo civile solo rispettando il principio del contraddittorio, ossia

dando la possibilità alla controparte di difendersi. E ciò avviene solo chiamando a testimone

l’investigatore.

[1] Cass. sent. n. 585 del 9.01.2014.

[2] Cass. sent. n. 11516/14.

[3] Trib. Milano, ord. dell’08.04.2013.

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POSSIBILE L’ADDEBITO PER TRADIMENTO VIRTUALE?

di Angelo Greco

Facebook può essere usato come prova? Una bella domanda, ma la risposta non è così immedia-

ta come sembra.

Inutile dirlo: Facebook è nato per “rimorchiare” e tale – in buona parte – è rimasto per molta gente.

Così i tradimenti che si consumano nelle quattro pareti telematiche del social network sono

all’ordine del giorno.

Ed ecco il primo quesito: la relazione virtuale di amorosi sensi (quella cioè, scoperta prima ancora

dell’atto carnale) può fondare una richiesta di addebito a carico del partner “provolone”? La rispo-

sta è stata fornita più volte dalla Cassazione [1]: secondo i giudici, perché possa scattare la con-

danna al mantenimento del coniuge tradito, non è necessario un adulterio fisico vero e proprio, ma

è sufficiente porre in essere un comportamento che offenda la dignità e l’onore dell’altro coniuge.

Quindi, il rapporto platonico, se anche non raggiunge il tradimento in senso biblico, è vietato. Detto

in parole ancora più crude: se il vostro partner vi becca mentre chattate con allusioni sessuali

chiare, può chiedere la separazione e farvela pagare cara.

La prova del tradimento: la chat

Appurato che il tradimento virtuale è vietato, il problema – come sempre – è la prova, ossia come

dimostrare al giudice che c’è stato il comportamento fedifrago.

Ed ecco il secondo quesito: si può chiedere al tribunale di ordinare, all’altra parte in causa, di mo-

strare tutte le proprie conversazioni in chat e la messaggistica privata? Secondo il tribunale di

Santa Maria Capua Vetere, la risposta è negativa [2]. Chat, conversazioni e messaggi privati sul

social network sono coperti da privacy e neanche il giudice civile potrebbe violare questo segreto.

Qualcuno ritiene anche che si possa procedere ad ispezioni [3], ma solo in casi davvero eccezio-

nali e solo se indispensabili ai fini del decidere. In ogni caso, tali attività non potrebbero violare se-

greti tutelati dalla legge come, appunto, quello della corrispondenza (tale è, infatti, la chat privata).

Ma se a recuperare questi dati segreti non è un ordine del giudice, ma il partner? Se quest’ultimo,

di nascosto, è riuscito a entrare nel profilo utente del coniuge, a criptare le relative password, a

“fotografare” tutte le conversazioni private? La risposta, a nostro giudizio, dovrebbe essere sem-

pre la stessa: il divieto di utilizzare le prove acquisite illegalmente ricade su qualsiasi tipo di impie-

go, anche quello rivolto alla tutela dei diritti in processo. Ma non è stato questo l’orientamento del

tribunale di Torino dell’anno scorso [4], secondo cui le prove acquisite con “intercettazioni non au-

torizzate” possono essere usate per tutelare dei diritti non necessariamente costituzionali.

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Stato e fotografie

Al contrario delle chat private (considerate come corrispondenza privata), lo “stato” di Facebook, i

post, la cosiddetta “situazione sentimentale” e le eventuali fotografie pubblicate sul proprio profilo

possono essere utilizzate come prova. E ciò vale anche se tali “documenti scottanti” sono coperti

da privacy e visionabili solo da un numero ristretto di persone [2]. In altre parole, se le impostazio-

ni di account sono “chiuse”, esse comunque si intendono pubbliche e, pertanto, possono essere

usate come prova in un processo.

Ciò ovviamente non vale solo per i tradimenti, ma anche per altri comportamenti illeciti come la dif-

famazione, la calunnia, l’offesa al proprio datore di lavoro, ecc.

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LA TUTELA DEL CREDITO DEL CONIUGE SEPARATO/DIVORZIATO

SE IL CONIUGE NON VERSA IL MANTENIMENTO: CHE FARE?

di Maria Elena Casarano

La legge prevede una tutela nel caso in cui il coniuge tenuto al mantenimento non versi quanto

impostogli dal giudice. Ecco, dunque, tutto ciò che si deve sapere a riguardo per potersi tutelare.

Procurarsi un titolo

Se non si possiede ancora un titolo (ciò può avvenire quando la separazione non sia stata ancora

formalizzata davanti al giudice) che quantifichi l’ammontare della somma da versare, allora occor-

re attivarsi per procurarselo.

Il primo passo da fare è quello di rivolgersi a un legale per il deposito di una domanda di separa-

zione attraverso una delle modalità indicate nel primo capitolo.

Anche nel caso in cui i coniugi non trovino un accordo ( e quindi occorra intraprendere una causa

vera e propria) il giudice dovrà stabilire già a seguito della prima udienza (cosiddetta presidenzia-

le) la misura – anche se provvisoria - dell’assegno.

Se l’assegno è dovuto per i figli nati fuori dal matrimonio, si tratterà di una domanda specifica-

mente rivolta a stabilire il contributo dovuto dall’altro genitore.

Diffida

Una volta ottenuto il titolo per agire, è consigliabile inviare una diffida al genitore inadempiente

(sempre fatta tramite un avvocato), ricordandogli l’importo dovuto e non versato da quest’ultimo

nonché rinnovando l’invito a provvedere entro un termine (in genere 15 giorni).

Arretrati

Nella diffida è anche possibile chiedere al genitore inadempiente non solo il pagamento delle

somme non versate, ma anche quello relativo ai mancati aggiornamenti ISTAT dell’assegno (vd.

dopo).

La richiesta va fatta entro cinque anni (ad es. nel settembre 2013 si possono richiedere gli arretrati

che si riferiscono fino al maggio 2008, ma non prima).

Va detto, però, che per azzerare questo periodo di prescrizione e far decorrere nuovamente i cin-

que anni, è sufficiente una richiesta scritta (fatta con raccomandata a.r. o tramite posta elettronica

certificata). In tal caso gli avvocati dicono che la “prescrizione” si interrompe e il termine ricomincia

a decorrere da capo.

In seguito, sulla base della risposta ottenuta dal genitore inadempiente, si potrà decidere che pas-

si ulteriori compiere.

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Rimedi sul piano penale

Qualora emerga che il genitore inadempiente si stia sottraendo volontariamente al proprio obbligo

per ragioni di “ripicca”, potrà sporgersi una denuncia penale contro di lui per il reato di “violazione

degli obblighi di assistenza familiare” [1]. In esso può incorrere “chiunque, abbandonando il

domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle

famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla patria potestà, o alla qualità di coniuge”.

Esso comporta, in caso di condanna, la reclusione fino a un anno. Il genitore, poi, costituendosi

parte civile nel procedimento penale potrà ottenere il mantenimento e le somme pregresse in sede

di esecuzione della sentenza.

Si può essere processati anche perché, nell’arco di meno di un anno, non si corrispondono a co-

niuge e /o prole poche mensilità. Se però, nel procedimento, l’imputato dimostra che tale somma

sia stata versata successivamente e che il ritardo è stato dovuto a difficoltà economiche (si pensi

al lavoro di un autonomo, soggetto alle fluttuazioni del mercato), si può ottenere un regime di favo-

re consistente nella immediata archiviazione del procedimento penale per “particolare tenuità del

fatto” [2].

Per poter beneficiare della “non punibilità per tenuità del fatto”, è dunque necessario:

– provvedere al più presto al pagamento della somma, anche se in ritardo;

– non ripetere l’omissione per troppi mesi.

Se, quindi, la condotta sia stata occasionale e che le conseguenze del ritardato pagamento non

siano particolarmente gravi, vi sono tutte le condizioni per l’applicabilità della causa di non punibili-

tà della particolare tenuità del fatto. Dette condizioni sono:

– l’offesa di particolare tenuità

– il comportamento non abituale del reo.

Rimedi sul piano civile

Se l’assegno è dovuto per i figli e dovesse emergere, poi, da parte del genitore obbligato, una

concreta impossibilità al pagamento per ragioni oggettive (come la perdita di lavoro o problemi di

salute), la strada migliore sarebbe quella di chiedere il contributo dei parenti ascendenti (vd.

dopo).

Che significa questo? Se da un lato la legge prevede che debbano essere, in primo luogo, i geni-

tori a provvedere al mantenimento dei figli, dall’altro, qualora essi non abbiano i mezzi necessari

per farlo, saranno tenuti a provvedere “gli altri ascendenti legittimi o naturali (in special modo i

nonni), in ordine di prossimità [3].

2. Altra strada percorribile, è quella di ricorrere al giudice civile affinché risolva le “controversie

insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamen-

to” dei figli [4].

Il coniuge potrà depositare, a mezzo di un legale, un ricorso a tribunale del luogo di residenza del

minore.

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In tal caso, il giudice, convocate le parti e constatate da parte del genitore gravi inadempienze o

comportamenti che comunque arrechino pregiudizio al minore, potrà modificare i provvedimenti in

vigore e anche congiuntamente:

– ammonire il genitore inadempiente;

– disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

– disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

– condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria,

da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”.

In caso di mancato pagamento, su richiesta dell’interessato/a, il giudice potrà:

– disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e

– ordinare ai terzi (come il datore di lavoro), che una parte delle somme dovute al coniuge obbliga-

to vengano versate direttamente agli aventi diritto.

Se il genitore tenuto al pagamento dovesse risultare formalmente disoccupato e nullatenente, la

cosa migliore da fare sarà quella di procurarsi le prove di eventuali attività svolte al nero.

In ogni caso il giudice ha sempre il potere di richiedere alla polizia tributaria di indagare sui redditi

e sui beni oggetto della contestazione (proprio allo scopo di individuare attività non dichiarate e fi-

scalmente rilevanti) [4].

3. Il coniuge che abbia in mano il titolo e che abbia accertato l’esistenza di beni mobili, immobili o

di somme di denaro nella titolarità dell’ex, potrà intraprendere la strada dell’esecuzione forzata

nei confronti di quest’ultimo.

Essa può consistere nel pignorare i beni mobili del debitore (come ad esempio l’arredamento di

casa), gli eventuali immobili o ancora le somme di denaro di cui il egli sia creditore (come ad

esempio, lo stipendio o il denaro depositato su un conto bancario).

[1] Art. 570 cod. pen.

[2] Art. 131-bis cod. pen.

[3] Art. 148 cod.civ.

[4] Art 709 ter cod. proc. civ.

[5] Art. 337 ter cod. civ. e art. 5 L. 898/70

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L’ORDINE DI PAGAMENTO DIRETTO AL TERZO

di Maria Elena Casarano

Tra gli strumenti a disposizione del coniuge qualora quello obbligato a versare l’assegno di man-

tenimento si sottragga ai propri obblighi c’è l’ordine di pagamento diretto al terzo, che consente di

ricevere il mantenimento con un effetto molto simile a quello risultante da un pignoramento (pres-

so terzi), pur avendone caratteristiche differenti.

Si tratta di uno strumento considerato fra i più idonei a garantire il soddisfacimento di un credito

periodico come quello derivante dall’obbligo di mantenimento, in quanto permette di “scavalcare”

l’inerzia dell’obbligato. Esso è previsto non solo nella ipotesi di separazione e divorzio, ma anche

in una serie di casi (come il mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio) in cui il familiare viene

meno all’obbligo di prestare il sostegno economico alla famiglia.

Separazione

Se per effetto della separazione, il tribunale ha stabilito a vantaggio di uno dei coniugi il diritto ad

un assegno di mantenimento [1], in caso di inadempienza dell’obbligato, il giudice può disporre –

su richiesta dell’avente diritto – il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai

terzi (ad esempio, al datore di lavoro), tenuti a corrispondergli anche periodicamente somme di

danaro, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto [2].

A riguardo, la Cassazione [3] ha ribadito che – anche se la norma fa riferimento solo ad “una par-

te” delle somme – in realtà non vi sono limiti quantitativi alla misura [4]. In altre parole, il magistra-

to può legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo quando

questa copra per intero la misura economica determinata in sede di separazione.

Con riferimento, poi, ai “terzi” assoggettabili alla procedura, la legge si riferisce a tutti i soggetti te-

nuti a versare periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, e perciò non solo al datore

di lavoro privato, ma anche agli enti pubblici (pur eroganti prestazioni pensionistiche), ai conduttori

degli immobili nella titolarità dell’obbligato ed ogni altro soggetto che debba versare periodicamen-

te somme al coniuge inadempiente (ad esempio chi debba pagare una somma rateale quale

adempimento di un debito).

Affinché, dunque, possa essere emanato l’ordine del giudice, è sufficiente che sussistano due

condizioni:

1. che il coniuge obbligato vanti nei confronti di terzi un credito che abbia ad oggetto il versamen-

to, anche periodico, di somme di denaro (ivi compresi proventi di attività lavorativa, assegni pen-

sionistici) [5];

2. sia accertato l’inadempimento o il non puntuale adempimento dell’obbligo, pure se con pochi

giorni di ritardo rispetto alla scadenza imposta, se esso faccia dubitare in modo fondato della tem-

pestività dei pagamenti futuri [6]. Dunque, non occorre che l’inadempimento sia stato grave, ma

bastano anche semplici ritardi.

Tale previsione si estende anche all’ipotesi in cui l’inadempimento riguardi il contributo per il man-

tenimento dei figli e nell’ipotesi di separazione consensuale [7].

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In parole semplici, il Tribunale rivolge un ordine di pagamento a chi deve delle somme all’obbligato

(ad esempio il datore di lavoro), il quale dovrà versare direttamente all’ex coniuge beneficiario del

mantenimento l’importo dell’assegno dovuto, prelevandolo dallo stipendio. Il terzo sarà anche te-

nuto a corrispondere l’annuale aggiornamento Istat, senza che sia necessario un ulteriore ordine

del giudice.

Divorzio

Anche nell’ambito del divorzio, la legge prevede il diritto di ottenere somme di denaro che terzi so-

no tenuti a corrispondere all’obbligato [8]. Ma in tal caso non può essere emesso un ordine al ter-

zo direttamente dal giudice, ma l’ex coniuge creditore deve prioritariamente seguire una via stra-

giudiziale sia per ottenere il proprio mantenimento che quello dovuto alla prole.

E’ dunque il creditore, in questo caso, per il tramite del proprio avvocato, a doversi fare parte atti-

va.

Nello specifico, all’ex coniuge va prima formulata una richiesta di pagamento tramite raccoman-

data A.R. Decorsi inutilmente trenta giorni senza che questi vi abbia provveduto, deve essere no-

tificato al terzo datore di lavoro (o debitore di altre somme) il provvedimento con il quale il giudice

ha statuito l’obbligo di versamento periodico, insieme all’invito a versare direttamente il dovuto al

beneficiario del mantenimento.

Tale richiesta potrà essere formulata non solo in base ad una sentenza di divorzio, ma anche di

un provvedimento di revisione delle condizioni dello stesso o di pronunce emesse dal giudice della

fase istruttoria della causa.

Nel caso in cui anche il terzo si sottragga alla richiesta, l’avente diritto può promuovere una proce-

dura esecutiva direttamente nei suoi confronti.

In questo caso, a differenza delle ipotesi precedenti, la legge prevede un limite al prelievo delle

somme, nella misura massima della metà dell’importo dovuto al coniuge obbligato, comprensivo di

assegni ed emolumenti accessori. Tale limite, tuttavia, non riguarda le somme periodiche non de-

rivanti da attività lavorativa (ad esempio i canoni di locazione).

Qualora, al momento della notifica al terzo, risulti già un pignoramento sul credito del coniuge ob-

bligato, il giudice dell’esecuzione dovrà provvedere a ripartire le somme fra i vari creditori (il co-

niuge avente diritto al mantenimento, creditore procedente ed eventuali altri creditori intervenuti

nella procedura esecutiva).

[1] Art. 156, c. 5, cod. civ.

[2] Art.156, c. 6, cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 23668/06.

[4] Cass. sent. n. 12204/1998; Cass. sent. n. 1398/2004.

[5] Cass. sent. n. 159/79; Cass. sent. n. 13630/92.

[6] Cass. sent. n. 1095/90.

[7] Con la sent. n. 144/83, la Corte Cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 156, c. 6, cod. civ., nella par-

te in cui non prevede che l’ordine al terzo di pagare agli aventi diritto in caso di inadempienza del genitore relativa al

mantenimento dei figli sia applicabile anche alla separazione consensuale.

[8] Art. 8, l. n. 898/70.

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REVOCABILITA’ DEL PASSAPORTO AL GENITORE CHE NON VERSA IL

MANTENIMENTO

di Maria Elena Casarano

Non sempre, tuttavia, gli strumenti a disposizione dell’avvocato per “fare pressione” sul coniuge

inadempiente sortiscono l’effetto sperato; ciò può avvenire quando, ad esempio, non vi siano beni

da pignorare o non risulti un reddito del coniuge, in quanto proveniente per lo più da attività “in ne-

ro”.

Ma c’è un rimedio che pochi conoscono e che può costituire un valido strumento di pressione per

il genitore inadempiente, specie nel caso in cui questi, per motivi di lavoro o di piacere, sia solito

recarsi all’estero.

Se, infatti da un lato esiste, per ogni cittadino, un diritto sacrosanto sancito dalla Costituzione, os-

sia quello alla libertà “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi” [1], tale diritto, tutta-

via, può trovare, in taluni casi, dei limiti, come quando ci si sottragga al proprio obbligo di assi-

stenza economica nei confronti della prole.

Infatti, in presenza di figli minori è necessario il consenso all’espatrio da parte dell’altro genitore o,

in mancanza, l’autorizzazione del giudice tutelare [2].

Pertanto, qualora un genitore non adempia agli obblighi alimentari nei confronti della prole e sca-

turenti da una pronuncia del giudice, l’altro potrà decidere:

– di non dare il proprio consenso al rilascio del passaporto

oppure (se l’abbia già fatto),

– di revocare il consenso già prestato tramite una semplice dichiarazione in questura.

In questi casi, il genitore che si veda negare o revocare il consenso al passaporto sarà costretto a

rivolgersi al giudice tutelare, il quale convocherà davanti a sé entrambi i genitori per valutare, sul-

la base delle loro dichiarazioni, se dare o meno la propria autorizzazione all’espatrio.

[1] Art. 16 Cost.

[2] Art. 3 Legge 21 novembre 1967, n. 1185 come modificata dalla L. n. 3 del 16.01.03.

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MANTENIMENTO DEL MINORE: SE NON PAGA IL GENITORE SPETTA AI

NONNI

Quando il genitore separato non mantiene il figlio, a pagare devono essere i nonni: l’obbligazione

relativa ai mezzi di sostentamento nei confronti dei minori è fondamentale e, in base ai principi co-

stituzionali [1], è possibile riaffermare che se i genitori non possono farsene carico dovranno esse-

re gli ascendenti (nonni, bisnonni).

Infatti, in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento posto a carico di uno dei due geni-

tori verso il figlio, se il genitore collocatario o affidatario è impossibilitato da solo a provvede-

re all’integrale soddisfacimento di tutte le essenziali esigenze di vita del minore, diviene allora

possibile esigere il pagamento (in via sussidiaria) dagli ascendenti (i nonni) dello stesso minore,

che verranno obbligati a fornire al genitore i mezzi necessari per l’adempimento del dovere di so-

stentamento.

Condizione, dunque, per poter agire nei confronti dei nonni è che il genitore che si occupa dei figli

non sia indipendente economicamente: insomma, non deve avere le risorse economiche necessa-

rie per la sopravvivenza sua, ma soprattutto dei bambini.

In questi casi, con un procedimento cautelare in forma abbreviata, è possibile ricorrere al giudice e

chiedere che emetta l’ordine di pagamento [2], introdotto dalla recente riforma della filiazione [3].

Del resto, è la stessa Costituzione italiana che pone, tra i principi fondamentali, il dovere e diritto

dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di

incapacità dei genitori – con tale intendendosi, quindi, anche quella economica – la “legge” preve-

de che siano assolti tali compiti da altri soggetti: siano essi pubblici, ma soprattutto, prioritariamen-

te, individuati all’interno della famiglia stessa di origine. E quindi, i nonni in primo luogo.

[1] Art. 30 Cost.

[2] Art. 316bis cod. civ.

[3] D.lgs. n. 154/13.

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I DIRITTI SUCCESSORI

La separazione legale, che allenta il legame tra coniugi, non elimina i diritti di successione in caso

di decesso del marito o della moglie. Pertanto, se uno dei due decede dopo la sentenza di sepa-

razione e prima di quella di divorzio, l’altro è suo erede secondo le normali regole del codice civile.

L’unico caso in cui non si ha l’effetto della successione è qualora, nella separazione, sia stato di-

chiarato l’addebito e la sentenza sia passata in giudicato. In altre parole, il tribunale deve aver ac-

certato che la rottura del matrimonio si è verificata per colpa di uno dei due coniugi (dichiarando,

appunto, a carico di questi il cosiddetto addebito).

CONIUGI SEPARATI: CHE ACCADE IN CASO DI MORTE E SUCCESSIONE

EREDITARIA?

di Angelo Forte

Sono spesso poco conosciute le regole in tema di successione ereditaria nell’ipotesi in cui questa

si apra, con la morte di un coniuge, nell’intervallo (spesso lungo) fra la sentenza di separazione,

già pronunciata, e quella di divorzio.

In questo caso, tutt’altro che raro, la legge [1] stabilisce che il coniuge separato abbia gli stessi ed

identici diritti successori del coniuge non separato, salva l’ipotesi in cui la separazione gli sia

stata addebitata.

Tale completa equiparazione ai fini successori fra coniuge separato (senza addebito) e coniuge

non separato vale se la morte di uno dei coniugi avvenga prima del momento in cui diviene defini-

tiva la sentenza che pronuncia il divorzio, cioè prima che la sentenza di divorzio non possa più

essere impugnata con l’appello.

Se, quindi, la morte di un coniuge separato avviene prima di tale momento, l’altro coniuge (al qua-

le la separazione non sia stata addebitata) eredita, in assenza di testamento:

1- ed in assenza di altri eredi, la metà del patrimonio del coniuge defunto [2],

2- in presenza di un solo figlio eredita un terzo del patrimonio stesso (un altro terzo spetta al fi-

glio),

3- se infine, sempre in assenza di testamento, vi siano più figli, a questi spetta complessivamente

la metà del patrimonio del defunto ed al coniuge superstite un quarto [3].

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Nel caso, invece, in cui il coniuge defunto abbia fatto testamento, egli, ferme restando le quote

sopra indicate (cosiddette quote legittime che sono intangibili), può destinare liberamente a chi

vuole le parti restanti (quote cosiddette disponibili).

Si precisa, infine, che il coniuge superstite al quale la separazione sia stata addebitata, ha diritto,

se l’altro decede prima che la sentenza di divorzio divenga definitiva, solo ad un assegno vitalizio

e solo se all’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto [4].

[1] Art. 548 cod. civ.

[2] Art. 540 cod. civ.

[3] Art. 542 cod. civ.

[4] Art. 548, 2° comma, cod. civ.

PENSIONE DI REVERSIBILITA’ SEPARATI E DIVORZIATI, A CHI SPETTA?

di Noemi Secci

La pensione di reversibilità, o pensione ai superstiti, è una prestazione che l’Inps liquida ai con-

giunti dell’assicurato deceduto, che può essere lavoratore o pensionato.

Il trattamento spetta al coniuge, fino a un determinato limite di reddito, ai figli, sino a 26 se studenti

universitari, o senza limiti se inabili, e in mancanza, ai genitori over 65 senza pensione o ai fratelli

ed alle sorelle inabili.

La pensione in caso di secondo matrimonio

Il problema della spettanza dell’assegno sorge in caso di più matrimoni, poiché la pensione deve

essere ripartita tra più coniugi: non ci si sposa più una volta sola, difatti, ormai sono sempre più

frequenti le ipotesi che vedono una seconda famiglia, o una famiglia di fatto.

Nel caso di un nuovo matrimonio, il secondo coniuge ha, ovviamente, pari diritto al primo, in meri-

to alla pensione di reversibilità: il trattamento, allora, deve essere diviso tra i due soggetti.

Reversibilità e separazione

Attenzione: non in tutti i casi il primo coniuge ha diritto all’assegno, ma solo laddove sia separato

senza addebito e titolare di un assegno di mantenimento a carico del coniuge deceduto, sempre

che quest’ultimo risulti assicurato all’Inps prima della sentenza di separazione.

Reversibilità e divorzio

Il coniuge divorziato, invece, avrà diritto alla pensione ai superstiti se titolare di assegno di divor-

zio, purchè l’ex coniuge deceduto risulti iscritto all’Inps prima della sentenza di divorzio. Inoltre,

l’ex coniuge non deve aver contratto nuovo matrimonio: in questo caso, si perde il diritto alla pen-

sione di reversibilità, ma viene liquidata, una tantum , una somma pari al trattamento percepito

moltiplicato per 26 [1].

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Reversibilità: ripartizione tra due coniugi

Nei casi in cui il lavoratore o pensionato deceduto abbia contratto un nuovo matrimonio, come

poc’anzi esposto la pensione di reversibilità deve essere divisa tra i due coniugi: la ripartizione è

effettuata dal giudice, su richiesta delle parti, con una sentenza motivata.

Il criterio fondamentale di ripartizione è quello temporale, ma la recente giurisprudenza ha affer-

mato che non sia corretto basarsi solo su parametri matematici, e che vi sono delle situazioni che

possono influire sulla determinazione della percentuale spettante.

Pertanto, anche se la legge [2] indica soltanto il criterio della durata del rapporto, come unico pa-

rametro, al criterio possono essere applicati dei correttivi basati sulla situazione di entrambi i co-

niugi.

Inoltre, la nozione di durata del rapporto non è univoca, e si presta a molteplici interpretazioni: se-

condo il vecchio indirizzo giurisprudenziale, si doveva far unicamente riferimento alla durata legale

del matrimonio. La giurisprudenza più recente, tuttavia, considera e valuta altri elementi, purché

collegati ai fini solidaristici della pensione di reversibilità, come la convivenza prematrimoniale e

l’ammontare dell’assegno divorzile: è importante, difatti, che il giudice tuteli, tra le due posizioni

contrastanti, quella del soggetto economicamente più debole.

[1] Inps Circ.84/2012.

[2] Art. 5, L.. 898/1970.

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Il DRITTO DI ABITAZIONE SULLA CASA CONIUGALE

di Maria Elena Casarano

Di regola, per legge, al coniuge separato (purché non responsabile della rottura del matrimonio)

spettano gli stessi diritti successori del non separato [1]. Tale principio, tuttavia, non si applica an-

che al diritto di abitazione sulla ex casa coniugale.

Infatti, con il venir meno della coabitazione, a seguito della separazione e l’impossibilità di indivi-

duare una casa adibita a residenza familiare, cessa anche il diritto di abitazione in favore del

coniuge superstite. Ciò in quanto tale diritto è condizionato all’effettiva esistenza, al momento

dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare; tale situazione non ri-

corre quando è cessato lo stato di convivenza tra i coniugi.

Riguardo, la Cassazione [2] ha chiarito il diritto di abitazione sulla casa coniugale e di uso dei mo-

bili da parte del coniuge superstite [3] ha ad esclusivo oggetto l’immobile in concreto adibito a re-

sidenza familiare, da identificarsi nella casa in cui i coniugi hanno coabitato stabilmente prima del-

la morte di uno dei due, organizzandovi la vita domestica [4].

Questo principio si basa non tanto sulla volontà di tutelare l’interesse economico del coniuge su-

perstite a disporre di un alloggio, quanto su altri interessi morali legati alla conservazione dei rap-

porti affettivi e consuetudinari con la residenza familiare: ad esempio, quello alla conservazione

della memoria del coniuge scomparso, al mantenimento del tenore di vita e delle relazioni sociali

goduti durante il matrimonio [5].

Ebbene, nel caso di separazione, esiste una oggettiva impossibilità di individuare una casa

adibita a residenza familiare, essendo venuto meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini

dell’attribuzione del diritto di abitazione, vale a dire la convivenza.

Pertanto, il coniuge superstite non può vantare nessun diritto di abitazione sull’ex casa familiare, a

seguito della separazione personale, qualora sia anche cessato lo stato di convivenza tra i coniu-

gi.

Tale diritto potrebbe tutt’al più essere riconosciuto nel raro caso in cui, nonostante la separazione,

questi abbia continuato a coabitare con l’ex.

[1] Art. 548, c. 1, cod. civ.

[2] Cass. sent. n. 22456 del 22.10.2014.

[3] Ai sensi dell’art. 540 cod. civ., al coniuge è riservata, a titolo di legittima, una quota pari alla metà del patrimonio

dell’altro, salve le disposizioni dettate in caso di concorso con i figli dal successivo art. 542 cod. civ., il quale prevede

in favore del coniuge la riserva della quota di un terzo, in caso di un solo figlio, e di un quarto in caso di più figli. Ai

sensi del secondo comma dello stesso art. 540 cod. civ., al coniuge superstite sono riservati il diritto di abitazione sul-

la casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.

[4] Cass. sent. n. 4088/2012.

[5] Corte Cost. sent. n. 310/89.

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L’ASSEGNO DI DIVORZIO A CARICO DELL’EREDITA’

di Maria Elena Casarano

Di norma, con il divorzio, vengono meno tutti i diritti ereditari che la legge collega allo stato di co-

niuge. Ciò significa che il divorziato ha la possibilità di partecipare alla successione dell’ex, ormai

defunto, solo se questo lo abbia nominato nel proprio testamento.

Esiste, però (anche in mancanza di una espressa disposizione testamentaria) la possibilità per il

divorziato superstite di partecipare alla successione dell’ex consorte, ricevendo un assegno a ca-

rico dell’eredità (altrimenti detto assegno successorio). Vediamo nello specifico di cosa si tratta e a

quali condizioni è possibile ottenerlo.

Natura e finalità dell’assegno

L’assegno successorio [1] è un assegno periodico che il giudice, dopo la morte dell’ ex coniuge,

può porre a carico degli eredi (legittimi o testamentari) in favore dell’ex superstite, purché sussi-

stano determinate condizioni (che vedremo a breve).

Tale assegno vuole garantire quel regime di solidarietà familiare nato con il matrimonio tutte le vol-

te in cui non sia possibile sostenere in altro modo l’ex coniuge che si trovi in stato di bisogno [2].

Si tratta, in pratica, di un assegno con una natura alimentare, finalizzato ad assicurare all’ex di

sopperire al venir meno dell’assegno di divorzio conseguente alla morte dell’obbligato. Esso co-

munque non rappresenta una trasformazione dell’assegno divorzile ma un obbligo autonomo degli

eredi che deve essere espressamente riconosciuto dal giudice [3].

Dalla natura alimentare dell’assegno successorio, derivano alcune conseguenze, quali:

– l’indisponibilità (e perciò l’impossibilità di trasmetterlo ad altri soggetti);

– l’imprescrittibilità (cioè la possibilità di richiederlo in qualsiasi momento ove ne ricorrano i pre-

supposti);

– la possibilità di chiederne la rivalutazione monetaria.

Presupposti per ottenere l’assegno

Per aver diritto all’assegno successorio, occorre che l’ex coniuge superstite si trovi al contempo

nelle seguenti condizioni:

1) gli sia stato già riconosciuto il diritto a un assegno di mantenimento divorzile;

2) versi in stato di bisogno;

3) dopo il divorzio non si sia risposato e non lo faccia in seguito;

4) non abbia già ricevuto con il divorzio il mantenimento attraverso una erogazione in unica solu-

zione (cosiddetto una tantum).

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Lo stato di bisogno

Nell’ambito dei suddetti presupposti, merita un approfondimento quello relativo allo stato di biso-

gno, trattandosi di una condizione che può essere oggetto di diverse interpretazioni.

Tale stato, pur non coincidendo con quello di assoluta povertà, viene – di norma – individuato in

una situazione peggiore rispetto a quella in cui manchino le disponibilità idonee a conservare il

precedente tenore di vita (presupposto, invece, per il riconoscimento di un assegno divorzile). Es-

so, infatti, deriva dall’insufficienza delle risorse economiche del superstite in rapporto alle sue esi-

genze esistenziali primarie “che non possono rimanere insoddisfatte se non a costo di deteriora-

mento fisico e psichico” [4].

In altre parole, nonostante la natura di tale assegno sia analoga a quella degli alimenti, l’entità del

bisogno va valutata in relazione al contesto socio – economico del superstite e del defunto e non

con riferimento alle norme generali in tema di sostegno dell’indigenza [5].

Di conseguenza, tale stato di bisogno sarebbe configurabile anche nei casi in cui l’ex coniuge

possa far fronte in modo temporaneo alle proprie esigenze di vita, alienando beni mobili di valore

(come gioielli, argenteria, ecc.) [6].

In ogni caso, spetta al giudice la prudente valutazione in merito alla sussistenza o meno di tale

condizione che, tuttavia, deve essere dedotta e provata dal soggetto interessato ad ottenere il

predetto beneficio.

Tale stato di bisogno deve, inoltre, perdurare nel tempo, sicché il diritto all’assegno successorio si

estingue col suo venir meno e sorge nuovamente, ove tale stato si ripresenti.

Quantificazione dell’assegno

Per determinare la misura dell’assegno, il giudice deve tener conto non solo dei criteri previsti dal-

la normativa in tema di diritto agli alimenti [7] quali la proporzione del bisogno di chi li domanda e

le condizioni economiche di chi deve somministrarli, ma anche di specifici ulteriori elementi,

espressamente previsti dalla legge [1]:

– il numero, la qualità e le condizioni economiche degli eredi: con possibile valutazione e attribu-

zione dell’obbligazione in misura differenziata per i singoli eredi;

– il tenore di vita che era garantito dall’assegno divorzile;

– l’eventuale godimento da parte del richiedente della pensione di reversibilità;

– il valore dell’asse ereditario.

Tutti questi elementi devono essere valutati con riferimento alla situazione esistente al momento in

cui la ripartizione deve essere effettuata [8].

In ogni caso, poiché tale assegno deve considerarsi un onere a carico degli eredi, il suo ammonta-

re non potrà mai superare il valore delle sostanze ereditarie; sicché, se vi sia una eredità passiva

(cioè costituita da debiti), l’ex superstite nulla potrà pretendere.

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Su accordo delle parti – ed è quello che in genere avviene nella prassi – la corresponsione

dell’assegno a carico dell’eredità può avvenire in un’ unica soluzione: ove ciò avvenga al benefi-

ciario sarà preclusa la possibilità di avanzare qualsiasi richiesta futura, anche nel caso in cui su-

bentri nuovamente lo stato di bisogno.

Come proporre la domanda

Poiché il diritto al mantenimento da parte dell’ex coniuge (attuato tramite il riconoscimento di un

assegno divorzile) ha natura strettamente personale e si estingue con la morte dell’obbligato, al

verificarsi di questo evento non sorge in via automatica alcun trasferimento a carico degli eredi di

corrispondere l’assegno all’ex superstite.

Occorre, quindi, che l’interessato si faccia parte attiva e formuli una espressa domanda giudiziale

(con l’assistenza di un avvocato) in tal senso; sicché la sentenza che accerta il diritto ad un asse-

gno successorio non ha effetti retroattivi, ma li produce a partire da quel momento.

La domanda va proposta davanti al tribunale (in composizione collegiale) del luogo di apertura

della successione e , avendo ad oggetto un diritto di natura alimentare, può essere quindi presen-

tata in qualunque momento sopravvenga l’eventuale stato di bisogno (non ha, quindi, termini di

prescrizione).

Essa non richiede, ai fini di una valida proposizione, la necessità di esperire un preventivo tentati-

vo di mediazione o di negoziazione assistita.

L’assegno dovrà essere corrisposto in misura proporzionale alle rispettive quote ereditarie.

In caso di morte di uno dei soggetti obbligati a corrispondere l’assegno, il beneficiario potrà pre-

sentare una nuova domanda al giudice al fine di ad ottenere un aumento della quota a carico degli

altri obbligati.

[1] Art. art.9-bis delle l. 898/70: “1. A colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla corresponsione periodica di som-

me di denaro a norma dell’art. 5, qualora versi in stato di bisogno, il tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attr i-

buire un assegno periodico a carico dell’eredità tenendo conto dell’importo di quelle somme, della entità del bisogno,

dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro

condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi patrimoniali previsti dall’art. 5 sono stati soddisfatti in un i-

ca soluzione. 2. Su accordo delle parti la corresponsione dell’assegno può avvenire in unica soluzione. Il diritto

all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora risorga lo

stato di bisogno l’assegno può essere nuovamente attribuito”.

[2] Cass. sent. n. 1253 del 27.01.2012.

[3] Cass. 10557/96; Cass. n. 6045/81.

[4] Così Cass., 17 giugno 1992.

[5] Cass. sent. n 1253/12 e n. 9185/04.

[6] Trib. Pavia, 13 maggio 1993.

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GLI STRUMENTI PER L’ACCORDO

Il desiderio di riprendere in mano la propria vita, specie a seguito di un doloroso percorso coniuga-

le, spesso si scontra con l’amara necessità di dover delegare, a un soggetto estraneo alla famiglia

(un avvocato o un giudice), decisioni invece personali: decisioni, cioè, che attengono alle le emo-

zioni e la gestione della nostra vita (doversi disfare di un bene che ha un valore affettivo; quando,

dove e come vedere i figli; vendere quella casa in cui si conservano i propri ricordi…).

È quanto accade a quelle coppie che decidono di separarsi percorrendo la strada giudiziale, ma

che e’ possibile evitare ricorrendo alla mediazione familiare e alla pratica collaborativa.

LA MEDIAZIONE FAMILIARE

di Maria Elena Casarano

La mediazione familiare è stato espressamente prevista quale strumento di risoluzione dei conflitti

familiari giudiziari dalla legge sull’affidamento condiviso [1] che ha stabilito che: “Qualora ne ravvi-

si l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei

provvedimenti riguardo ai figli per consentire che i genitori, avvalendosi di esperti, tentino una

mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse mora-

le e materiale dei figli” [2].

Dunque si tratta di uno strumento che la legge prevede ad espressa tutela della prole, ma al quale

i coniugi in procinto di separarsi (anche senza avere figli) ben possono fare ricorso per favorire

eventuali accordi di separazione o divorzio o per tentare la riconciliazione.

Che cos’è la mediazione familiare

La mediazione familiare è un percorso che offre a chiunque si trovi a vivere un momento di con-

flitto familiare (e perciò non solo a due coniugi) uno spazio e un tempo per ritrovare un dialogo ri-

spettoso, un momento di ascolto reciproco, l’opportunità di far emergere i propri bisogni, riuscendo

a guardare – al contempo – a quelli dell’altro.

Ruolo del mediatore

Tutto questo avviene alla presenza di un terzo imparziale, il mediatore appunto, che non è né un

giudice, né uno psicoterapeuta, né uno psicologo, né un avvocato (e, se lo è, non ne riveste il ruo-

lo in quel momento). Il mediatore è qualcuno che, a seguito di uno specifico percorso di formazio-

ne, ha imparato a fare un uso prezioso di alcuni strumenti, indispensabili per aiutare le parti in

conflitto a spogliarsi della maschera che indossano ogni giorno per proteggere se stessi (come

un po’ tutti facciamo) e che finisce con cancellare le persone con i propri problemi.

Il mediatore deve essere capace di accogliere, di sentire piuttosto che pensare, di ascoltare dando

il giusto contenuto alle parole (troppo spesso cariche di rabbia), di essere neutrale, cioè capace di

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stare al contempo sia con uno che con l’altro, di dare confidenzialità agli incontri, facendo da un

lato sentire ai mediati che possono farcela, dall’altro nel trasmettere loro la necessaria fiducia nei

mediatori.

Strumenti tutti questi necessari per affrontare diversi tipi di conflitto (quelli scolastici, sul luogo di

lavoro, in ambito penale, intergenerazionali) perché, in realtà, anche se si sente parlare spesso di

mediazione “familiare”, la mediazione in realtà è una sola, perché i mediatori non guardano

all’aggettivo che la accompagna (scolastica, penale, ecc.).

Il mediatore fa un po’ da cassa di risonanza di ciò che accade nella stanza, specchiando le emo-

zioni senza porsi l’obiettivo della risoluzione della crisi, bensì quello della restituire ai mediati una

responsabilità che appartiene solo a loro, proprio attraverso l’accettazione del conflitto.

Il ruolo degli avvocati

Nella stanza di mediazione l’avvocato non può entrare e non è neppure detto che ve ne sia uno;

ben possono, infatti, le parti rivolgersi ad un mediatore senza avere alcuna intenzione di farsi cau-

sa, ma solo volendo risolvere un momento di crisi personale.

È importante, tuttavia, che quando un avvocato esiste (in quanto è in corso un procedimento giu-

diziario) egli sappia rispettare i tempi necessari a far procedere il percorso di mediazione e sap-

pia accogliere le soluzioni che le parti siano riuscite a trovare insieme (per riportarle negli atti del

processo), senza sminuirle o ostacolarle (cosa che, purtroppo non sempre avviene), ma solo tra-

ducendole con linguaggio giuridico.

In altre parole, gli avvocati dovrebbero sempre agire come se fossero stati davvero presenti nella

stanza di mediazione, supportando le decisioni raggiunte dai propri clienti durante gli incontri.

Analogamente, nella stanza non entra neanche il giudice il quale, anche nel caso in cui abbia di-

sposto l’invio in mediazione delle parti, potrà essere solo informato dell’esito positivo o negati-

vo delle sedute ma non dei suoi contenuti, che resteranno confidenziali.

A chi rivolgersi

Quando l’invio in mediazione non viene suggerito dal giudice che, in tal caso, invia le parti, presso

l-ufficio di mediazione civile e penale di competenza, i coniugi possono liberamente individuare un

centro di mediazione tra i numerosi presenti sul territorio.

Spesso si tratta di un servizio gratuito offerto ai cittadini dal Comune di appartenenza quale soste-

gno alle famiglie in difficoltà; in ogni caso, anche il ricorso a centri privati ( e quindi a pagamento)

comporta, di solito, esborsi più che sostenibili, per cui vale senz’altro la pena tentare la strada del-

la mediazione prima di affrontare quella lunga e, certamente, assai più costosa di un giudizio

dall’esito incerto.

[1] Art. 2 della legge n. 54/2006.

[2] Tale previsione, prima contenuta nell’art. 155 sexies cod. civ., è ora prevista all’art. 337 octies co. 2 cod. civ . a

seguito della totale parificazione delle tutele previste per i figli nati sia fuori che dentro il matrimonio.

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LA PRATICA COLLABORATIVA

di Maria Elena Casarano

Abbiamo visto che al mediatore familiare può anche rivolgersi chi sta attraversando un momento

di crisi senza, tuttavia, aver intenzione di far ricorso al giudice.

Quando, invece, qualcuno decide di andare in giudizio, egli per prima cosa cerca un avvocato,

affinché tuteli i suoi interessi: può trattarsi dei coniugi che decidono di separarsi o divorziare, dei

nonni che vogliano veder tutelato il proprio diritto a frequentare i nipoti, della coppia che intenda

regolamentare il mantenimento e l’affido di un figlio. Tutti questi soggetti non possono che indivi-

duare nell’avvocato il loro primo interlocutore.

Ebbene, la scelta della pratica collaborativa permette di affrontare un momento delicato della pro-

pria vita (come un giudizio di separazione, ma non solo) avvalendosi dei preziosi strumenti offerti

dalla mediazione familiare e da altre specifiche competenze professionali, ma avendo sempre al

proprio fianco la necessaria figura dell’ avvocato [1].

Di che si tratta?

Dopo aver dato rispettivamente al proprio avvocato di fiducia la disponibilità a seguire il percorso

collaborativo, la coppia e gli avvocati sottoscrivono un accordo di collaborazione in cui ogni

soggetto si impegna al rispetto di alcune regole che costituiscono la base di questo nuovo proce-

dimento: riservatezza, trasparenza, cooperazione, fiducia. In sostanza, si gioca a carte scoperte

e tutte le informazioni utili vengono messe sullo stesso tavolo.

Tutti si impegnano a un dialogo costruttivo e si propongono un unico obiettivo, quello di rag-

giungere un accordo globale, soddisfacente e duraturo. Una regola fondamentale del percorso

collaborativo consiste nell’impegno di ciascuna parte a non minacciare cause.

Il risultato è possibile perché si lavora in team: ciascuna parte non guarderà l’altra e il suo avvo-

cato come avversari, perché nello spirito collaborativo non ci sono battaglie da vincere, né sconfitti

o vincitori, ma c’è al contrario un’estrema collaborazione tra i protagonisti, tutti impegnati nel rag-

giungimento dell’obiettivo prefissato.

Il coach

Se le parti riescono a dialogare, è possibile che bastino anche i soli avvocati collaborativi a con-

sentire il raggiungimento dell’accordo; ma se nella coppia non c’è dialogo o questo è difficile, sarà

necessaria la presenza di qualcuno che aiuti le parti a concentrarsi sul comune obiettivo, come un

mediatore familiare o uno psicologo (a volte necessari – se non indispensabili – per aiutare i

genitori a gestire gli effetti laceranti che il conflitto ha generato sui figli).

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Questioni economiche

Se le questioni economiche sono complesse, ci si potrà avvalere della professionalità di un com-

mercialista, anch’egli formato alla pratica collaborativa il quale, sulla base dei problemi e delle esi-

genze rappresentate dai coniugi, consiglierà la soluzione fiscalmente più adeguata alla specifi-

ca situazione familiare.

Tutte queste figure (avvocati, psicologo o mediatore, commercialista) entreranno a far parte del

team, vincolandosi al rispetto delle regole prima indicate.

Se l’accordo fallisce

Se le parti (o una di loro) non rispettano le regole (il che è l’anticamera di una causa), gli avvocati

rinunceranno al mandato impegnandosi a non seguire più i propri clienti qualora questi ultimi

decidano di andare davanti al giudice. Naturalmente questo porta ciascuno a concentrarsi

sull’obiettivo-accordo senza il timore di ricevere, per così dire, “colpi bassi”, anche perché i docu-

menti esibiti nel corso degli incontri non potranno essere utilizzati in un eventuale giudizio.

In pratica, si tratta di un metodo che incoraggia tutti i soggetti coinvolti nel procedimento ad affron-

tare i problemi scaturiti dalla crisi, senza antagonismi e con metodi costruttivi, e che permette di

dare il giusto spazio sia alle questioni economiche che a quelle emotive della coppia e dei figli

coinvolti.

Perché conviene

Innanzitutto perché i tempi della giustizia non sono quelli di cui le famiglie (specie quelle in cui vi

sono bambini o adolescenti) hanno bisogno per riprendere in mano la propria vita e ricominciarla

con modalità nuove per tutti. Un processo può durare anche sette-otto anni; al contrario, grazie al

procedimento collaborativo, le parti sono in grado di raggiungere un accordo in pochi mesi.

Inoltre, anche la decisione finale da parte del giudice può essere in molti casi la causa di ulte-

riori conflitti nel contesto della famiglia, non solo perché presa da un soggetto che nulla conosce

della storia delle parti (e perciò difficilmente saprà rispondere ai bisogni di ciascuno), ma anche

perché i lunghi anni trascorsi fra studi di avvocati e aule di udienza spesso finiscono col minare

l’equilibrio psicologico delle coppie e dei loro figli.

I costi

La scelta del percorso collaborativo consente una possibilità di risparmio rispetto a una separa-

zione giudiziale. Ciò non toglie che essa sia preferibile in tutti quei casi in cui (specie se ci sono

figli) la separazione consensuale (quella cioè sulla base di accordi predisposti con l’ausilio

dell’avvocato e poi omologati dal giudice) si poggia solo sulla volontà di fare presto, di risparmiare,

ma soprattutto di non aver a che fare troppo a lungo con l’ex. Ebbene, gli accordi che nascono su

queste basi hanno spesso un “effetto boomerang”: dopo qualche tempo si torna dagli avvocati

perché non si è soddisfatti e si vuole modificare tutto. E allora dov’è il risparmio?

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Cosa cambia rispetto alla negoziazione assistita?

Abbiamo visto - parlando (nel cap. II) dei diversi modi per separarsi o divorziare consensualmente

- che le recenti riforme hanno introdotto uno strumento alternativo al tradizionale ricorso congiunto

in tribunale: la negoziazione assistita dagli avvocati.

Ebbene, la pratica collaborativa trova nella negoziazione assistita la sua massima espressione,

proprio perché fa delle parti coinvolte i veri protagonisti dell’intero procedimento, nel rispetto di

quei principi di lealtà e correttezza che devono essere alla base di ogni negoziazione; tuttavia,

essa rappresenta – potremmo dire – una “marcia in più” rispetto alla negoziazione pura e sem-

plice, in quanto la arricchisce di strumenti ulteriori (quali il possibile ricorso a professionisti diversi

dai soli avvocati) e di regole di collaborazione (si pensi solo al dovere dell’avvocato di rinunciare al

mandato ove non siano rispettati gli impegni) maggiormente in grado di non far perdere di vista al-

le parti l’obiettivo dell’accordo.

All’atto pratico, quindi, i coniugi potranno scegliere il percorso collaborativo:

- sia che intendano percorrere la strada tradizionale del ricorso congiunto al tribunale,

- sia che decidano di avvalersi della negoziazione assistita.

[1] Il metodo collaborativo è nato negli anni ’90 grazie alla sensibilità di un familiarista americano (Stuart Webb) che

comprese quanti danni può provocare ad una famiglia una separazione condotta lontano dai principi del rispetto e del-

la collaborazione non solo fra i coniugi, ma anche fra i loro avvocati. Da allora sono moltissimi coloro che, sia negli

Stati Uniti che in molti paesi europei, hanno scelto di percorrere questa strada con risultati soddisfacenti. In Italia, il

metodo collaborativo è praticabile già da qualche anno grazie al lavoro di formazione dei professionisti e di diffusione

della cultura collaborativa svolto dai due istituti presenti sul territorio: l’Associazione Italiana Professionisti Collaborativi

(AIADC) e l’Istituto Italiano di Diritto Collaborativo (IICL).

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LA RICONCILIAZIONE DEI CONIUGI

Non sempre la separazione porta inevitabilmente al divorzio.

In primo luogo perché i coniugi potrebbero rimanere separati a vita, senza procedere anche al

successivo scioglimento del matrimonio: la legge, infatti, pone solo un termine minimo di 6 mesi

(nel caso di separazione consensuale) o di 1 anno (nel caso di separazione giudiziale) per poter

accedere al successivo divorzio, ma non prevede un termine massimo – per così dire – di “sca-

denza” degli effetti della separazione.In secondo luogo i coniugi separati possono sempre fare

marcia indietro e, dopo la separazione, tornare nuovamente “sposati” come prima.

È quello che si chiama riconciliazione [1]. Del resto è proprio questo lo scopo del doppio gradino

“separazione prima – divorzio dopo”: la pausa di riflessione serve a consentire agli sposi di poter

valutare con attenzione la propria scelta ed, eventualmente, revocarla in qualsiasi momento, fa-

cendo cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice.

Quando si può fare

La riconciliazione può avere luogo anche durante il giudizio di separazione. In tal caso può ri-

sultare dal verbale di riconciliazione oppure se non è indicata nel verbale si desume dall’estinzione

del procedimento per mancato compimento delle attività processuali.

Sicuramente la riconciliazione può intervenire anche dopo la pubblicazione della sentenza di se-

parazione (o dopo l’omologazione dell’accordo di separazione).

Come ci si riconcilia?

I coniugi possono riconciliarsi:

– tacitamente, con un comportamento incompatibile con lo stato di separazione;

– espressamente: dichiarando in un accordo scritto di volere riprendere la normale vita matrimo-

niale e ripristinarne tutti i doveri.

Perché possa parlarsi di riconciliazione è necessario che sia ricostituita l’unione coniugale.

All’accordo deve conseguire il ripristino di fatto della vita familiare. Rilevano i gesti e i comporta-

menti concreti ed effettivi dei coniugi: marito e moglie devono dimostrare la loro disponibilità a ri-

prendere la convivenza e a costituire una rinnovata comunione (si privilegiano quindi elementi og-

gettivi e non i dati psicologici, difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei senti-

menti).

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La coabitazione

La semplice coabitazione fra ex non vale a interrompere il processo dei sei mesi o dell’anno di se-

parazione ai fini del divorzio e non è sinonimo di riconciliazione; è invece necessario il ripristino

della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del matri-

monio [2].

Quindi alla semplice ripresa della coabitazione deve essere equiparata anche la coabitazione per

inerzia o quella dettata solo da ragioni meramente materiali, dovute a fattori economici o logistici o

di altra natura (si pensi a uno dei due coniugi che non abbia i soldi per poter andare a vivere in af-

fitto e abbia fatto domanda di alloggio popolare, mentre, nel frattempo è ospitato in casa dell’ex).

Non devono quindi riprendere le relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il

superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e

che si concretizzino in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione.

La prova della riconciliazione

Se uno dei due coniugi chiede il divorzio, l’altro può opporsi dando prova che, dopo la separazio-

ne, è intervenuta la riconciliazione. Tale prova ha come oggetto gli elementi esteriori, oggettivi e

diretti inequivocabilmente alla seria e comune volontà di ripristinare la comunione di vita. Il

coniuge che vuole provare la riconciliazione deve quindi cercare di dimostrare che si sono verifica-

ti fatti quali l’aver ripreso la convivenza, l’avere ripreso i rapporti sessuali, lo svolgimento in comu-

ne di una vita sociale, frequentando parenti ed amici o trascorrendo le vacanze insieme (se ciò

non avviene solo per il bene dei figli), che rispecchino la volontà non equivoca dei coniugi di ripri-

stinare integralmente sia la convivenza materiale sia l’unione spirituale che è alla base della con-

vivenza ed è caratteristica della vita coniugale.

In particolare per provare la riconciliazione:

– è necessaria una ripresa concreta e durevole della convivenza coniugale e della comunione spi-

rituale e materiale fra i coniugi: come detto non è sufficiente una temporanea ripresa della coabi-

tazione, specie se per ragioni di convenienza;

– non è sufficiente la nascita di un figlio in costanza di separazione: da questo fatto non si può

desumere implicitamente la riconciliazione, in quanto non basta un semplice rapporto sessuale,

ma occorre la restaurazione vera e propria del nucleo familiare e non il mantenimento di frequenti

rapporti, anche sessuali, fra i coniugi;

– non sono sufficienti le visite giornaliere al coniuge separato bisognoso di cure.

SEPARAZIONE E DIVORZIO

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La dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile

Sebbene la riconciliazione, per essere ufficializzata, non necessita del ricorso al giudice, è co-

munque necessaria, per rendere la riconciliazione opponibile ai terzi, una dichiarazione davanti

all’ufficiale di stato civile, presso il Comune dove fu celebrato il matrimonio o presso il Comune

dove il matrimonio fu trascritto.

L’ufficiale di stato civile iscrive la dichiarazione negli archivi dello stato civile e la annota a margine

dell’atto di matrimonio.

Gli effetti della riconciliazione

Gli effetti della riconciliazione sono:

a) quanto ai rapporti con il coniuge: la ripresa in vigore dei diritti ed i doveri connessi al matri-

monio e la cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento;

b) in relazione al procedimento di separazione:

- l’abbandono della domanda di separazione se è ancora in corso il giudizio di separazione;

- l’interruzione del termine di 1 anno o di 6 mesi (a seconda se la separazione è stata giudiziale o

consensuale) a partire dal quale è possibile richiedere il divorzio;

- il ripristino della presunzione legale di paternità: quindi il figlio nato entro i 180 giorni da quando i

coniugi tornano insieme si presume concepito durante il matrimonio;

- il ripristino della comunione legale tra coniugi se da loro scelto come regime patrimoniale durante

il matrimonio, fatta salva una diversa convenzione.

I coniugi possono “revocare” la riconciliazione in ogni momento e presentare una nuova do-

manda di separazione.

[1] Art 157 cod. civ.

[2] Cass. sent. n. 19535/14.