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Nazioni in fuga alla ricerca dei prossimI miracoli economici Ruchir Sharma Traduzione di Monica Belmondo e Susanna Bourlot

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Nazioniin fugaalla ricerca dei prossimI miracoli economici

Ruchir SharmaTraduzione di Monica Belmondo e Susanna Bourlot

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Ruchir SharmaNazioni in fugaAlla ricerca dei prossimi miracoli economici

Titolo originaleBreakout NationsIn Pursuit of the Next Economic Miracles

Copyright © 2012, Ruchir SharmaAll rights reserved

Redazione e impaginazione: Daiana GaliganiCoordinamento produttivo: Enrico CasadeiGrafica di copertina: AsintotoImmagine di copertina: © Paul Hardy/Corbis

© 2014 Codice edizioni, TorinoTutti i diritti sono riservatiISBN 978-88-7578-401-0

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Indice

VII Prefazione

Capitolo 1 3 Il mito della lunga corsa

Capitolo 2 19 La Cina dopo l’euforia

Capitolo 3 43 Il trucco della grande speranza indiana

Capitolo 4 71 Dio è brasiliano?

Capitolo 5 87 Il Messico e l’economia dei magnati

Capitolo 6 99 In Russia c’è spazio solo in alto

Capitolo 7 115 La posizione ottimale dell’Europa

Capitolo 8 131 La voce monofonica della Turchia

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Capitolo 9 151 Sulla strada della Tigre

Capitolo 10 177 La medaglia d’oro

Capitolo 11 197 L’eterna luna di miele

Capitolo 12 211 Il Quarto mondo

Capitolo 13 251 Dopo l’estasi, il bucato

Capitolo 14 271 Il terzo avvento

289 Epilogo 317 Ringraziamenti 321 Appendice A 323 Appendice B 325 Indice

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Prefazione

È passato molto tempo da quando gli agricoltori hanno abban-donato le “case coloniche” di Delhi. Benché siano tuttora in uso, il loro nome adesso indica le seconde case in cui il ceto abbiente tra-scorre i fine settimana, luoghi di svago alla periferia della città dove stradine sterrate non presenti sulle mappe si snodano attraverso i villaggi poverissimi, per sfociare all’improvviso davanti a residenze sontuose e a giardini immensi, con tanto di fontane e giochi d’ac-qua; una volta mi sono ritrovato in un parco attraversato da una mini linea ferroviaria. È il quartiere degli “Hamptons” di Delhi, il cuore mondano della città, dove gli organizzatori di eventi ricreano la Notte degli Oscar, Broadway, Las Vegas e, per chi ha nostalgia di casa, perfino un paesino del Punjabi, con i camerieri avvolti nei costumi tradizionali.

Una notte nebbiosa di fine 2010 ho partecipato a una di queste feste notoriamente decadenti, con i parcheggiatori che si giostrava-no tra Bentley nere e Porsche rosse, mentre i padroni di casa mi invitavano a provare il manzo Kobe arrivato dal Giappone, i tartufi bianchi dall’Italia, il caviale beluga dall’Azerbaijan. Era difficile par-lare sovrastando il ritmo pulsante della tecno-beat, ma sono riuscito a intrattenere una conversazione con il figlio poco più che venten-ne di questo demi-monde di campagna, un classico esempio del suo genere: impiegato nella società di export del padre (sembra si tratti sempre di “export”), aveva indosso una camicia nera aderente e i capelli a spazzola, fissati con il gel. Dopo aver appurato che ero un investitore di New York rientrato in patria in cerca di opportunità

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ga d’investimento, ha alzato le spalle e ha detto: «Beh, certo. Dove altro andranno i soldi?».

Dove altro andranno i soldi? Ho lasciato la festa intorno a mez-zanotte, ben prima che venisse servita la portata principale, ma quel commento ha continuato a ronzarmi in testa. Come investitore nei mercati emergenti avrei dovuto sentirmi lusingato; dopo tutto, le di-mensioni del fondo della mia équipe sono triplicate nell’ultimo de-cennio, e se la tendenza si fosse protratta, cosa che il giovane viveur sembrava dare per scontata, gli investitori dei mercati emergenti sa-rebbero divenuti i padroni dell’universo.

Invece è tornato a tormentarmi un distico Urdu: «Sono tanto sbalordito della mia prosperità che la mia felicità comincia a render-mi ansioso». Ho cominciato la mia carriera di investitore durante la metà degli anni novanta, quando la crisi colpiva uno dopo l’altro i paesi in via di sviluppo e nel mondo finanziario i mercati emergenti erano considerati problematici. Alla fine di quel decennio alcuni dei miei colleghi ribattezzarono questi asset rimasti orfani con il nome di mercati e-mergenti, con riferimento al loro tentativo di seguire la scia del boom tecnologico statunitense.

Negli ambienti finanziari i mercati emergenti venivano additati come esempio dell’inversione della regola dell’80/20, secondo cui l’80 per cento del profitto si realizza con il 20 per cento dei propri clienti: per gran parte del dopoguerra i mercati emergenti hanno rappresentato l’80 per cento della popolazione mondiale, ma solo il 20 per cento della produzione economica. Negli anni sessanta e settanta, durante l’ascesa dell’America Latina, l’Africa e ampie porzioni dell’Asia versavano in una condizione di declino; quando però, negli anni ottanta e novanta, queste ultime hanno cominciato a crescere a un ritmo sostenuto, le nazioni latino-americane non sono riuscite a coordinare la loro crescita (mentre l’Africa era stata liquidata come il “continente senza speranza”). Fino al 2002 i gran-di investitori – fondi pensione e donazioni alle università dal valore di miliardi di dollari – hanno ritenuto che le dimensioni dei merca-ti emergenti fossero troppo esigue per riuscire a fare la differenza, o che essi fossero semplicemente troppo pericolosi: paesi immensi come l’India erano considerati “il selvaggio est” degli investimenti.

Solo qualche anno dopo ero lì in piedi, nel fumo e nel frastuono martellante, accanto a un ragazzo viziato che si sente sulla vetta del

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onemondo perché suo padre è uno dei trentamila miliardari di Delhi,

con patrimoni calcolati in dollari e in buona parte accumulati solo di recente; ha visto poco del mondo che si estende oltre le case colo-niche isolate, eppure ne sa abbastanza da ripetere ovunque a pappa-gallo quella che è l’opinione generale sui mercati emergenti: «Dove altro andranno i soldi?”.

Dalla sua aveva i dati sulle tendenze più recenti: l’afflusso di ca-pitale privato nei paesi in via di sviluppo è passato dai 200 miliardi di dollari l’anno nel 2000 a quasi un trilione di dollari annui nel 2010. Anche a Wall Street tutti gli esperti erano concordi nell’affer-mare che l’Occidente fosse in totale declino, e che quindi i capitali dovessero necessariamente imboccare la strada verso est e verso sud.

Ho pensato anche a quanto questo netto cambiamento di opinio-ne stesse influenzando l’atteggiamento dei politici e degli imprendi-tori nei paesi emergenti. Quando sono andato in Egitto, quasi die-ci anni fa, ero stato trattato come un ospite di riguardo del primo ministro Ahmed Nazif, che aveva invitato decine di fotografi per una sessione fotografica di dieci minuti, e che poi aveva sfruttato la mia faccia sulle pagine dei giornali finanziari per dimostrare che gli investitori stranieri iniziavano a interessarsi al suo paese (faccio un salto in avanti: nell’ottobre 2010, a Mosca, avevo tenuto una pre-sentazione per il primo ministro russo Vladimir Putin, in cui non mi ero espresso in termini propriamente entusiastici sul futuro del suo paese. Alcuni media locali reagirono con sarcasmo, dicendo che la Russia poteva fare a meno dei capitali del mio fondo).

Intorno alla metà dell’ultimo decennio sembrava che chiunque fosse in grado di raccogliere capitali per i mercati emergenti, perfi-no un incapace; mentre, alla fine del decennio, sembrava che solo a un incapace sarebbe mai venuto in mente di farlo. La storia infatti ci insegna che lo sviluppo economico funziona come una partita a scale e serpenti: non c’è un percorso rettilineo verso la vetta e ci sono più serpenti che scale; vale a dire che è più facile cadere che salire. Una nazione può salire scale per uno, due o tre decenni, ma poi finire su un serpente e tornare al punto di partenza, dove magari tutto ricomincia all’infinito, mentre intanto le avversarie la supera-no. È insomma più frequente tornare indietro che arrivare in vetta, i competitor non mancano e solo poche nazioni riescono a smentire le previsioni. Si tratta delle rare nazioni “in fuga”, che si aggiudicano la

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ga partita perché crescono più rapidamente degli avversari che appar-tengono alla loro stessa categoria di reddito: dunque, una nazione con un reddito pro capite al di sotto dei 5000 dollari compete con le rivali dello stesso segmento. Il gioco della crescita sta tutto nel battere le aspettative, e i propri pari.

La sensazione che crescere sia improvvisamente diventato un gio-co facile (dal quale ognuno può uscire vincitore) nasce dai risultati eccezionali degli ultimi dieci anni, durante i quali, di fatto, tutti i mercati emergenti sono cresciuti all’unisono. Ma quella è stata la prima volta – e con tutta probabilità l’ultima – che si è assistito a un’epoca d’oro: nel prossimo decennio difficilmente vivremo qual-cosa di analogo.

Negli ultimi quindici anni ho trascorso una settimana al mese in un luogo il cui mercato fosse considerato emergente, attraversandolo in lungo e in largo, per lo più in auto, incontrando persone di tutti i tipi e calandomi in quella realtà. Come afferma lo scrittore Aldous Huxley: «Viaggiare è scoprire di avere un’idea sbagliata degli altri paesi». Stando in ufficio a leggere fogli excel non si riesce a capire, per esempio, se un certo regime politico percepisca o meno il nesso che intercorre tra buona economia e buona politica.

Nessuno è in grado di stabilire con esattezza le ragioni per cui le nazioni crescano o non riescano a crescere. Non esiste una formu-la magica, ma solo un elenco di ingredienti ben noti: permettere la circolazione di merci, capitali e persone propria del libero mercato, favorire il risparmio e controllare che le banche facciano confluire il denaro in investimenti produttivi; imporre l’autorità della legge e tu-telare i diritti di proprietà; stabilizzare le economie con un bilancio e un deficit della bilancia commerciale modesti; tenere sotto controllo l’inflazione; aprire le porte al capitale straniero soprattutto quando porta in dote la tecnologia; costruire strade e scuole migliori; assi-curare sostentamento ai bambini, e così via. Queste sono conside-razioni meramente astratte, cliché che offrono un lungo elenco di comportamenti possibili, ma non un reale approfondimento circa il modo in cui questi fattori a un certo punto si combinano, generando la crescita in un dato paese in un dato periodo.

Per individuare le nazioni su cui puntare è essenziale viaggiare, cercando di capire quali siano le forze politico-economiche in gioco in quel momento, se vadano nella direzione della crescita e a che

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onevelocità. In un mondo rimodellato dal rallentamento della crescita

mondiale bisogna iniziare a osservare i mercati emergenti uno per uno: questo libro fa il giro del mondo per esaminare quali nazioni abbiano probabilità di prosperare (o di disattendere le aspettative) in questa nuova era caratterizzata da prospettive economiche divergen-ti. Durante il viaggio proporrò alcune semplici regole per individuare i mercati emergenti dotati di grandi potenzialità. Il mio intento è portarvi con me alla ricerca delle nuove nazioni sull’orlo di un boom economico, e rispondere a questo semplice, ma allo stesso tempo difficile, interrogativo: “Dove altro andranno i soldi?”.

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Non tutti gli alberi crescono fino a toccare il cielo.

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Capitolo 1

Il mito della lunga corsa

Se in passato si tendeva a fare quante più previsioni possibili e a pubblicizzare quelle azzeccate, oggi è buona norma fare previsioni proiettate in un futuro tanto lontano che nessuno possa sapere se fossero sbagliate.

La visione proiettata su un orizzonte temporale molto lungo è il fondamento di alcune delle previsioni più influenti del nostro tempo, quelle che vedono nell’immenso potere economico di Cina e India del diciasettesimo secolo il germe della loro rinascita nel 2030 e che le dipinge, nel 2050, come potenze mondiali dominanti. Nel 1600 Cina e India rappresentavano rispettivamente oltre un quarto e poco meno di un quarto del PIL mondiale: benché il loro peso sia consi-derevolmente diminuito da allora, la visione di lunghissimo periodo trascura i difficili secoli recenti, nella convinzione che le vicende del diciassettesimo secolo siano la garanzia dei risultati futuri. L’estrapo-lazione generalizzata è diventata un punto fermo per tutti quelli che – aziende, politici e intellettuali di alta levatura pubblica – ritengono che questo sia il secolo del Pacifico o addirittura dell’Africa. Ho rice-vuto di recente da un’importante società di consulenza un rapporto in cui si prevede che la Nigeria potrebbe essere una delle prime dieci economie mondiali entro il 2050. Certo, potrebbe anche essere, ma da qui al 2050 può accadere di tutto.

Per ironia della sorte le visioni proiettate su un orizzonte tempo-rale tanto lungo acquistano un peso crescente persino a Wall Stre-et, dove il tempo in genere tende a contrarsi fino ad azzerarsi. Per esempio, la durata media di un investimento azionario negli Stati

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1 Uniti (questo vale tanto per i piccoli quanto per i grandi investitori) si è progressivamente ridotta negli anni, passando da un massimo di sedici anni, alla metà degli anni sessanta, a meno di quattro mesi al giorno d’oggi1. Intanto, americani ed europei hanno freneticamente riversato fiumi di denaro nei paesi in via di sviluppo, sulla scorta delle previsioni relative al 2050: i capitali confluiti nei loro mercati azionari sono aumentati del 92 per cento tra il 2000 e il 2005, per arrivare a un sbalorditivo 478 per cento nel periodo 2005-2010. Molti investitori sembrano allettati dall’idea che i loro investimenti siano ben radicati in un passato remoto e nel lontano futuro, ma agli investitori o alle società, nel mondo reale, riesce difficile dire ai propri clienti di ripassare tra quarant’anni per controllare gli utili sui capitali investiti. Le previsioni sono preziose, anzi, imprescindibili per la pianificazione; ma non ha granché senso parlare di un futuro proiettato oltre, al massimo, i cinque o i dieci anni.

Il decennio è l’arco temporale più lungo durante cui è ancora possibile individuare dei modelli chiari nel ciclo economico mondia-le, che convenzionalmente dura all’incirca cinque anni, da una fase discendente a quella successiva. Buona parte delle persone dotate di senso pratico si proietta su un orizzonte non superiore a uno o due cicli economici, oltre il quale le previsioni spesso diventano obsolete per la comparsa di nuovi competitor (Cina all’inizio degli anni ot-tanta), nuove tecnologie (internet nei primi anni novanta), o nuovi leader (le elezioni ricorrono in genere all’incirca ogni cinque anni). La visione di lunghissimo periodo deve gran parte della sua popo-larità agli storici e ai commentatori economici, ed è diventata oltre-modo influente anche negli ambienti imprenditoriali; nella realtà, però, quasi tutti i direttori generali proiettano le visioni strategiche su un arco temporale di tre, cinque o al massimo sette anni, e i gran-di investitori istituzionali valutano i risultati sui rendimenti a uno, tre e cinque anni. Per quanto ciascuno di noi sia attratto dal fascino speculativo della futurologia, nessuno è in grado di fare previsioni credibili per il prossimo secolo e, aspetto ancor più importante, di assumersene la responsabilità.

1 In tutto il libro «ora» e «oggi» si riferiscono alle migliori informazioni disponibili alla fine del 2012, ultimo decennio agli anni 2000-2010, mentre le espressioni «l’ultimo anno» o «gli ultimi cinque anni» coprono dalla metà del decennio fino alla fine del 2012.

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rsaOggi stiamo vivendo un momento molto significativo. Nel mezzo

secolo appena trascorso, l’inizio di ogni decennio è stato caratteriz-zato da una svolta fondamentale nell’economia e nei mercati mon-diali, provocata dalla mania collettiva per una grande idea, un nuovo fattore di cambiamento in grado di rimodellare l’economia mondiale e generare enormi profitti. Negli anni settanta andavano per la mag-giore grandi aziende statunitensi come la Disney, le cui azioni erano state le più scambiate negli anni sessanta; nel 1980 il piatto forte erano le risorse naturali, dall’oro al petrolio; nel 1990 era il Giappo-ne, e nel 2000 la Silicon Valley. C’era sempre qualche scettico che da dietro le quinte ammoniva che altri cambiamenti avrebbero preval-so sull’idea del momento: che l’impennata dei prezzi del petrolio si sarebbe rivelata autodistruttiva, strangolando l’economia mondiale, che una proprietà immobiliare a Tokyo non potesse valere più di tut-to lo stato della California, che le azioni delle start-up tecnologiche improduttive con quotazioni a quattro cifre fossero inverosimili. Ma quando la mania collettiva ha toccato livelli simili, erano tali e tanti i miliardi di dollari investiti in queste nuove iniziative che pochi erano inclini a dare ascolto alle Cassandre di turno.

Quasi tutti i guru e i previsori tendono a dare alle persone ciò che vogliono, vale a dire strane ragioni per credere di appartenere alla cerchia di quelli che contano. Per un certo periodo la mania sembra avere un senso, finché tutto il castello non si sgretola: in tutti i boom postbellici citati, la bolla si è sgonfiata nei primi cinque anni del decennio successivo.

Il 2003: l’anno del miracolo

All’inizio del 2010 la mania erano i grandi mercati emergenti, e soprattutto la convinzione che le economie di Cina, India, Brasile e Russia avrebbero continuato a crescere allo stesso ritmo sorpren-dentemente rapido del decennio precedente. Benché sia stato un pe-riodo d’oro unico e forse irripetibile, è considerato dai più il nuovo parametro di riferimento con cui i paesi più poveri devono misurare la propria crescita. La mania per i mercati emergenti ha avuto inizio con la Cina, che a cominciare dal 1978 e per due decenni ha vissuto una crescita rapida, ma incostante, con percentuali variabili tra il 4 e

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1 il 12 per cento annuo, finché, nel 1998, si è stabilizzata su una cresci-ta ininterrotta dell’8 per cento o più l’anno (quasi come se il numero 8, considerato in Cina il numero fortunato, fosse anche diventato una regola ferrea della sua economia).

A partire dal 2003, anno poco considerato che però segna un punto di svolta nei destini del mondo, la buona sorte all’improvvi-so tocca di fatto tutte le nazioni emergenti: una categoria di paesi definibile in molti modi diversi, ma che in questo caso si riferisce, in linea di massima, ai paesi con un reddito procapite inferiore a 25.000 dollari2. Tra il 2003 e il 2007 il loro PIL è in media raddop-piato, passando dal 3,6 per cento dei due decenni precedenti al 7,2 per cento, una tendenza che ha interessato quasi tutti i paesi in via di sviluppo. Nel 2007, anno dei record, l’economia è cresciuta in 180 dei 183 paesi del mondo, con un tasso superiore al 5 per cento in 114 paesi, un numero doppio rispetto ai circa 50 paesi dei due decenni precedenti. I tre esclusi, le Fiji e i due paesi cronicamente sull’orlo della bancarotta, ovvero lo Zimbawe e la Repubblica del Congo, sono stati l’eccezione che conferma la regola. La marea crescente ha sospinto una nazione dopo l’altra attraverso una serie di fasi evolu-tive di norma difficili: in Russia, per citare l’esempio più eclatante, il reddito medio annuo è aumentato vertiginosamente da 1500 dollari a 13.000 dollari nell’arco di un decennio.

Si è trattato della crescita più rapida e più coinvolgente a cui il mondo abbia mai assistito. Ma, aspetto ancor più inusuale, queste economie hanno preso il volo proprio quando l’inflazione, sempre in agguato nei periodi di crescita rapida, diminuiva ovunque. Il numero delle nazioni che ha sconfitto l’inflazione – riuscendo a contenere l’aumento annuo dei prezzi al di sotto del 5 per cento – è passato da 16 nel 1980 a 103 nel 2006. È la stessa situazione di forte crescita e bassa inflazione vissuta dall’America negli anni novanta nel pe-riodo della cosiddetta Goldilocks economy (“economia di Riccioli d’oro”), ma con un ritmo molto più rapido e una diffusione su scala planetaria, che ha coinvolto buona parte dell’Occidente. Tutte le na-zioni hanno raccontato all’unisono la storia di un successo stabile e veloce, e molti osservatori sono rimasti a guardare con incondiziona-

2 Si veda l’appendice A, che riporta l’elenco completo dei mercati emergenti.

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rsato ottimismo: le nazioni emergenti erano diventate come tante Cine,

o così sembrava. L’illusione, che in gran parte persiste tuttora, è alimentata da una

spiegazione del boom molto in voga, secondo cui i mercati emer-genti si sarebbero affermati perché hanno imparato la lezione dalla crisi del peso messicano e da quella russa e asiatica degli anni no-vanta, tutte nate dall’impossibilità di rimborsare un debito estero di dimensioni esorbitanti. A cominciare dalla fine degli anni novan-ta, però, queste nazioni debitrici e in passato irresponsabili hanno sanato i conti in rosso e sono divenute creditrici, nel momento in cui le ex nazioni creditrici, Stati Uniti in testa, hanno cominciato a sprofondare nei debiti. Dunque i paesi in via di sviluppo erano pronti, come mai prima di allora, a trarre vantaggio dalla circola-zione mondiale di persone, capitali e merci innescata dalla caduta del comunismo nel 1990.

L’ex presidente George W. Bush racconta una storia su Vladimir Putin che illustra lo stravolgimento intervenuto nell’economia mon-diale. A metà del 2011, in occasione di una conferenza alle Bahamas, moderavo un dibattito a cui partecipava il presidente Bush, il quale ci riferì che quando nel 2000 aveva incontrato per la prima volta il leader russo, la Russia stava lottando per riprendersi da una profon-da crisi monetaria, e Putin era ossessionato dall’indebitamento del suo paese. All’inizio del 2008, invece, l’economia russa era in piena espansione, il bilancio nettamente in attivo e il primo argomento di cui Putin voleva discutere era stato il valore dei titoli statunitensi garantiti da ipoteca che, di lì a breve, sarebbero crollati nella crisi del debito: Putin aveva spostato la sua attenzione dalla riduzione dell’in-debitamento russo all’acquisizione di informazioni sul rischio di detenere debito americano, e si dimostrava oltremodo sicuro dell’e-spansione economica della Russia. Il leader russo, che in occasione di una precedente visita a Washington aveva avuto modo di vedere Bar-ney, il terrier di Bush, anni dopo nel mostrargli il suo labrador nero commentò: «Vede, è più grande, più forte e più veloce di Barney».

Un crescente sentimento di fierezza si faceva strada in tutti i paesi emergenti, e il decremento del loro debito pubblico era il segno tan-gibile di un’evoluzione reale. Alcuni paesi (compresa, per una volta, la Russia di Putin) stavano imparando a spendere in modo oculato, e investire in istruzione, comunicazione e sistemi di trasporto neces-

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1 sari a per incrementare la produttività, fattore chiave per una cresci-ta forte a fronte di bassi livelli d’inflazione. Passò però inosservato l’elemento più importante che si celava dietro il boom: il fiume di denaro facile (easy money) che aveva inondato il mondo.

Quegli stessi facili guadagni che hanno spianato la strada alla Grande recessione del 2008, alimentando la bolla immobiliare ame-ricana, continuano a fluire liberamente; oggi, però sono le banche centrali a erogare capitali, nel tentativo di ritornare ai tassi di cre-scita dell’ultimo decennio (comunque insostenibili). Ora, è evidente che malgrado le banche centrali possano stampare tutta la moneta che vogliono, non hanno voce in capitolo circa la sua destinazione: questa volta gran parte del denaro è confluito in futures speculativi sul petrolio, proprietà immobiliari di lusso nelle principali capitali finanziarie e altri investimenti improduttivi che hanno generato un problema inflativo nei paesi in via di sviluppo, minando il potere d’acquisto dei consumatori in tutto il mondo (i quali, con l’aumen-to del prezzo del petrolio dovuto alla speculazione, ora spendono una quota record del loro reddito per coprire i costi di fabbisogno energetico).

L’afflusso di denaro facile è conseguente al profondo cambiamen-to nella percezione statunitense dei “tempi duri”: mentre in passato le recessioni erano considerate una fase naturale – sgradevole ma inevitabile – del ciclo economico, una nuova concezione ha comin-ciato a farsi strada nell’economia Goldilocks degli anni novanta, quando, dopo molti anni consecutivi di solida crescita, è cominciata a circolare la voce che la Federal Reserve avesse causato l’arretra-mento del ciclo economico. Sotto la guida di Alan Greenspan e del suo successore, Ben Bernanke, la Fed aveva reindirizzato la propria azione dalla lotta all’inflazione e all’appianamento del ciclo econo-mico alla pianificazione della crescita: i bassi tassi d’interesse statu-nitensi e l’incremento dell’indebitamento divennero i capisaldi della crescita americana, e l’aumento del debito interno totale cominciò a offuscare l’aumento del PIL. Negli anni settanta occorreva un dolla-ro di debito per generare un dollaro di crescita del PIL statunitense, negli anni ottanta e novanta ne servivano 3, mentre ne sono serviti 5 nell’ultimo decennio: l’indebitamento americano è diventato sempre meno produttivo e sempre più concentrato su ingegneria finanziaria e consumismo.

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rsaIl debito statunitense è diventato dunque il pilastro, sempre più

vacillante, del boom mondiale. I tassi d’interesse bassi hanno traina-to la crescita negli Stati Uniti, obbligando le banche centrali dell’in-tero globo ad abbassare i propri, allo stesso tempo alimentando un incremento esplosivo della spesa statunitense in consumi, che ha fatto aumentare le esportazioni dai mercati emergenti. Non è un caso che essi abbiano cominciato a lievitare a metà del 2003, dopo i drastici tagli dei tassi d’interesse americani – finalizzati a sostenere la ripresa dopo l’esplosione della bolla tecnologica di due anni pri-ma – che generarono un’ondata mondiale di denaro facile, riversa-tosi soprattutto nei mercati dei paesi in via di sviluppo. Negli anni novanta i capitali privati nei mercati emergenti rappresentavano il 2 per cento del loro PIL; nel 2007 arrivarono a toccare il 9 per cento di un PIL ben più alto.

Ora il castello di carte del credito è crollato, vittima della Grande recessione, e in Occidente si parla di una “nuova normalità”, deli-neata dal rallentamento della crescita nel momento in cui le grandi economie lottano per ripianare debiti esorbitanti. In questo decennio si prevede che la crescita reale del PIL dei paesi ricchi si ridurrà di un punto percentuale, al 2- 2,5 per cento negli Stati Uniti e all’1-1,5 per cento in Europa e Giappone. Ciò che gli osservatori non hanno capito, però, è che anche i mercati emergenti si trovano ad affrontare una “nuova normalità”, malgrado non siano pronti ad accettare una simile realtà: con il rallentamento della crescita interna le nazioni ricche compreranno meno da nazioni come Messico, Taiwan e Ma-lesia, le cui economie sono trainate dalle esportazioni. Nei mercati dei paesi in via di sviluppo l’incidenza sul PIL del saldo commerciale medio è pressoché triplicata durante il boom, suscitando nuovi pro-clami sui benefici della globalizzazione; ma dal 2008 il commercio è ritornato sui valori del passato, al di sotto del 2 per cento. I mercati emergenti trainati dalle esportazioni, ovvero quasi tutti, dovranno trovare un nuovo modo per crescere a ritmi sostenuti.

La soglia dei 4000 dollari

Non si tratta di un semplice cambiamento stagionale, bensì di un mutamento radicale della dinamica che da alcuni decenni a questa

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1 parte ha guidato l’ascesa dei mercati emergenti. Le leggi fondamen-tali della gravità economica stanno già riportando sulla terra Cina, Russia, Brasile e altri big: la prima legge è quella dei grandi numeri, secondo cui più un paese è ricco, più è difficile far crescere veloce-mente la sua ricchezza nazionale.

La Cina e molti altri grandi mercati emergenti stanno seguendo un modello di crescita improntato alle esportazioni simile a quello adottato da Giappone, Corea del Sud e Taiwan dopo la Seconda guerra mondiale. Tali economie in piena espansione cominciarono a rallentare, passando da un tasso di crescita del 9 o 10 per cento al 5-6 per cento circa, quando il reddito pro capite raggiunse il seg-mento superiore dello scaglione di reddito intermedio (che secondo la definizione della Banca Mondiale corrisponde a un reddito pro ca-pite di 4000 dollari o più, attualizzati). Il Giappone raggiunse quella soglia alla metà degli anni settanta, il Taiwan e la Corea del Sud nei due decenni successivi. È bene sottolineare che sono gli esempi di maggior successo nella storia dello sviluppo economico, e che come tali rappresentano la casistica più ottimistica.

In tutte e tre le situazioni il primo segnale allarmante di un ral-lentamento fu quella che gli economisti chiamano inflazione struttu-rale: l’improvviso moltiplicarsi delle rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori, indice di una progressiva riduzione della manodopera disponibile da impiegare con salari minimi negli stabilimenti di pro-duzione delle merci destinate all’esportazione. La Cina ha superato quota 4000 dollari nel 2010, in concomitanza con l’ultima ondata di scioperi indetti dai lavoratori per rivendicare gli aumenti salariali; eppure molti osservatori credono ancora che la Cina possa superare la soglia dei 4000 dollari con una crescita vicina alle due cifre.

Parallelamente, avendo perso fiducia nel dinamismo degli Stati Uniti e dell’Europa (e in parte per disperazione) gli investitori occi-dentali guardano a est e a sud: nel 2009 e 2010 centinaia di miliardi di dollari si sono riversati nei fondi dei mercati emergenti senza fare alcuna distinzione, o quasi, tra Polonia e Perù, India e Indonesia. Questa macromania – l’ossessione per le macro tendenze globali – si fonda sul presupposto (rivelatosi esatto perlomeno durante gli anni del boom) che conoscere i grandi movimenti dell’economia mondia-le sia l’unico requisito per valutare una determinata classe di attività. Come conseguenza, i prezzi delle azioni in tutti i mercati emergenti

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rsadominanti hanno fluttuato con sincronismo crescente e, nella prima

metà del 2011, lo scarto tra i mercati azionari con andamento mi-gliore e quelli con andamento peggiore tra quei paesi è stato di soli 10 punti percentuali: il più basso di sempre, e una pericolosa mani-festazione del comportamento del gregge. È, inoltre, lo stesso errore che il mondo ha compiuto nella fase antecedente la crisi asiatica del biennio 1997-1998, quando tutte le “tigri” asiatiche emergenti veni-vano viste, in un modo o nell’altro, come un nuovo Giappone. Oggi molti tra analisti e investitori, incoraggiati dagli operatori di mercato di Wall Street e dai best-seller, hanno grandi idee sullo spostamento della ricchezza da Occidente a Oriente e sulla futura convergenza di nazioni ricche e povere (credono, cioè, che il reddito medio dei paesi emergenti stia raggiungendo a gran velocità quello dei paesi ricchi). Si tratta di un ottimo espediente per vendere, ma distorce la realtà dei fatti dal momento che i mercati emergenti non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro.

Tanto per cominciare, queste nazioni si collocano a diversi stadi di sviluppo. Russia, Brasile, Messico e Turchia, con un reddito medio annuo superiore ai 10.000 dollari, hanno un potenziale di crescita molto minore rispetto a India, Indonesia o Filippine, paesi in cui il reddito medio è ben al di sotto dei 10.000 dollari. E redditi elevati non si traducono necessariamente in forza tecnologica: l’Ungheria rientra nello stesso segmento di reddito del Brasile e del Messico, ma mentre il 90 per cento degli ungheresi può usare i servizi di te-lefonia mobile, ciò è consentito solo al 40 per cento dei brasiliani e messicani.

Il peso dell’indebitamento dei mercati emergenti varia in maniera considerevole: persino Cina e Corea del Sud, recenti casi di successo, sono gravate dalla pesante incidenza sul PIL dei prestiti personali e dei finanziamenti alle aziende, proprio come molti paesi sviluppa-ti in difficoltà. Il sudcoreano tipico ha più di tre carte di credito e un’esposizione debitoria superiore al reddito medio annuo, mentre meno di un brasiliano su tre possiede una carta di credito. La vulne-rabilità dei mercati emergenti nei confronti dei problemi che toccano l’Occidente si manifesta sotto molteplici forme: molti paesi asiatici dipendono ancora dalle esportazioni verso l’Occidente, laddove di-versi paesi dell’Europa orientale tendono maggiormente ad affidarsi ai prestiti dell’Occidente per finanziare la propria crescita.

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1 Non tutti gli alberi crescono fino a toccare il cielo

Si è verificata una battuta d’arresto nelle riforme che in origine avevano instradato molti paesi in via di sviluppo verso un futuro da paesi “emergenti”. Dopo la riforma del mercato libero promossa da Deng Xiaoping nei primi anni ottanta, la Cina ha continuato a in-trodurre una riforma radicale ogni quattro o cinque anni, e ciascuna nuova apertura – in primis alla privatizzazione dell’agricoltura, poi all’imprenditoria privata, e infine alle aziende straniere – ha dato nuovo slancio alla crescita. Ma quel ciclo si è concluso.

La fede smisurata nei casi divenuti emblema di una crescita forte nell’ultimo decennio non tiene conto delle alte probabilità di non avere successo: solo un numero esiguo di nazioni riesce a mantenere una crescita rapida sul lungo periodo. Le mie ricerche dimostrano che, nel corso di un qualunque decennio a partire dagli anni cin-quanta, in media solo un terzo dei mercati emergenti è riuscito a crescere con un tasso annuo del 5 per cento e oltre; meno di un quarto di essi ha mantenuto quel ritmo per due decenni, e un decimo per trent’anni. Solo sei paesi (Malesia, Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia e Hong Kong) hanno mantenuto quel tasso di crescita per quattro decenni (e due di essi, Corea del Sud e Taiwan, addirittura per cinque). Negli ultimi dieci anni, eccezion fatta per Cina e India, tutti gli altri paesi che sono riusciti a mantenere un tasso di crescita del 5 per cento, dall’Angola alla Tanzania, dall’Ar-menia al Tajikistan, sono rientrati in questa categoria per la prima volta. Per molti versi il “tasso di mortalità” dei paesi è alto quanto quello delle società quotate in borsa: solo quattro società (Procter & Gamble, General Electric, AT&T e DuPont) figurano nel listino dell’indice Dow Jones delle prime trenta azioni industriali americane dagli anni sessanta a oggi. Pochi favoriti rimangono ai vertici per un decennio, e un nucleo ancor più ristretto resiste per molti decenni; individuare quei pochi è più arte che scienza.

Nel giro di alcuni anni la “nuova normalità” nei mercati emer-genti somiglierà molto a quella vecchia degli anni cinquanta e ses-santa, quando la crescita media era prossima al 5 per cento, e la corsa procedeva al suo usuale ritmo convulso. I decenni successivi sono stati caratterizzati da una crescita insolitamente debole o forte: negli anni ottanta e novanta i mercati emergenti sono cresciuti in

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rsamedia del 3,5 per cento, oppressi dal crollo dell’Unione Sovietica e

dal susseguirsi di crisi finanziarie che hanno coinvolto molti paesi (dal Messico alla Thailandia, alla Russia). Ne è seguita poi una fase espansiva: il boom del decennio scorso alimentato – o meglio, sovra-limentato – dalla grande disponibilità di liquidità, che sta scemando con l’aumento dei costi per finanziare la crescita. Quando una bolla finanziaria si sgonfia può riprendere volume solo dopo che i suoi ricordi sono svaniti; tuttavia, considerata la gravità della Grande re-cessione del 2008, è assai improbabile che nel prossimo decennio si ecceda ancora nell’indebitamento incontrollato.

Tornare a tassi di crescita da mercati emergenti come quelli degli anni sessanta non significa ripristinare quel Terzo mondo fatto di nazioni cupe e arretrate, ultima ruota del carro e destinate a rima-nere tali. Negli anni cinquanta e sessanta Cina e India, i più grandi mercati emergenti, lottavano per crescere. Nazioni come l’Iran, l’I-raq e lo Yemen hanno vissuto molti periodi di crescita sostenuta che, però, hanno subito una violenta battuta di arresto con lo scoppio della guerra (e oggi di essi si ricordano più i conflitti che la situazione finanziaria). Il caos ha messo in ombra lo sviluppo di luoghi come la Corea del Sud e il Taiwan, entrambi con potenzialità all’inizio sottovalutate. Pur non disponendo di dati affidabili sulla crescita dei mercati emergenti anteriori al 1950 si può affermare che, mai come nell’ultimo decennio, un così alto numero di nazioni ha fatto regi-strare una crescita tanto rapida, e protratta per un periodo così lun-go. Eppure gli analisti continuano ad aspettarsi che in tutto il globo si compia il miracolo della convergenza di massa.

Nel frattempo, decine di nazioni emergenti continuano ad essere tali anche dopo molti decenni, o perché non sono riuscite a darsi lo slancio necessario per crescere in maniera sostenuta, oppure per-ché il loro sviluppo è entrato in una fase di stallo nel momento in cui sono diventati paesi a reddito intermedio. Malesia e Thailandia sembravano sul punto di emergere come nazioni ricche fintanto che il capitalismo clientelare su cui sono imperniati i loro sistemi non ha provocato il crollo finanziario del 1998: da allora, la loro cre-scita è stata deludente. Negli anni sessanta Filippine, Sri Lanka e Birmania erano considerate le future tigri dell’Asia Orientale, ma la loro crescita si è notevolmente affievolita ben prima che potessero raggiungere il segmento di reddito del ceto medio, ovvero 4000 dol-

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1 lari circa già citati. L’incapacità di sostenere la crescita è la tendenza generale che con ogni probabilità si riaffermerà anche nel prossimo decennio.

Se da un lato l’India viene spacciata per la Cina del futuro, dall’al-tro sussiste la probabilità che possa regredire e diventare il nuovo Brasile: considerato in anni recenti una superpotenza regionale in ascesa, dall’esame dei parametri fondamentali in realtà esso risulta essere l’anti-Cina, avendo preferito dare la priorità alla creazione di uno stato assistenziale piuttosto che alla costruzione di strade e reti wireless, come avviene in una moderna economia industriale. Un difficile decennio attende le nazioni la cui crescita è dipesa dall’e-splosione dei prezzi di materie prime come il petrolio e i metalli pre-ziosi, vale a dire Russia e Brasile (che, negli ultimi dieci anni, hanno rappresentato due dei maggiori mercati azionari del mondo).

Il prossimo decennio è costellato di promesse interessanti, che non si possono individuare guardando alle nazioni più acclamate degli ul-timi dieci anni nella speranza che raggiungano nuovi livelli record: le stelle che brilleranno sono le nazioni oggi in fuga, ovvero quelle che saranno in grado di sostenere un’espansione rapida – eguagliando o addirittura andando oltre le più rosee aspettative – e di attestarsi sui tassi di crescita medi del loro segmento di reddito. Per una nazione come la Repubblica Ceca, che si colloca nella fascia di reddito di 20.000 dollari e più, un incremento del PIL del 3-4 per cento rappre-senterebbe una crescita esplosiva, mentre per la Cina, che rientra nel segmento inferiore ai 5000 dollari, un tasso che non raggiunga il 6-7 per cento segnerebbe una fase recessiva.

Una delle grandi vicende economiche del secolo non è tenuta nella giusta considerazione: sono in tanti, infatti, a non prendere sul serio l’Unione Europea e a vederla come un “museo a cielo aper-to”. In realtà, nonostante abbia vissuto una grave crisi del debito alla fine del 2011, è anche un modello stabilizzante a cui si ispira-no alcuni dei nuovi paesi membri – Polonia e Repubblica Ceca, in particolare – che appartengono a quella rara categoria di nazioni determinate a farsi strada per entrare a far parte dell’élite ricca; non è detto che i paesi membri dell’UE di piccole dimensioni siano tutti assimilabili alla Grecia.

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rsaLe regole del gioco

Per individuare le nazioni su cui puntare la prima regola sta nel prendere coscienza del continuo mutamento dei regimi economici, vale a dire di quei fattori che alimentano la crescita in un deter-minato paese in un qualsiasi periodo dato. Ogni nazione ha le sue regole di funzionamento, diverse a seconda del rapido mutamento delle circostanze. I regimi economici sono come i mercati: quando vanno bene tendono a sforare, creando le condizioni che favoriscono la loro stessa fine. L’opinione pubblica tende a percepire la realtà con un certo ritardo: prima che le regole di un regime siano state codificate dagli esperti e approfonditamente dibattute sui mezzi di comunicazione, è probabile che esso sia già in declino. Questa dina-mica corrobora la legge di Goodhart (parente prossimo della legge di Murphy), enunciata da Charles Goodhart, ex consulente della Banca d’Inghilterra: quando un indicatore economico è troppo diffuso, per-de il proprio valore predittivo.

In un periodo di cambiamenti come quello attuale, con la do-lorosa fine dell’epoca d’oro del denaro e della crescita facili, è nor-male rimanere ancorati a idee e regole antiquate, a quelle nozioni che minimizzano o giustificano i rischi potenziali; una tendenza ben esemplificata dall’idea che le misure basilari di stimolo economico – riduzione dei tassi d’interesse e aumento della spesa pubblica – possano porre termine a un ciclo economico non soltanto negli Stati Uniti, ma anche nei paesi in via di sviluppo. I leader dei mercati emergenti hanno continuato ad attribuirsi il merito dei periodi di espansione, scaricando sull’Occidente la responsabilità dei momenti difficili: una tendenza allarmante ancora piuttosto diffusa alla fine del 2011, quando molti di loro imputavano un qualsiasi rallenta-mento nei mercati emergenti al contagio dell’Europa, dimentichi del fatto che all’inizio fossero stati i prestiti erogati dalle banche europee il motore propulsore dello sviluppo.

Un’altra idea desueta è legata all’ascesa dell’analisi demografica nel settore della consulenza finanziaria. Dato che il boom della Cina è stato in parte alimentato dall’ingresso sul mercato del lavoro di una generazione di giovani particolarmente numerosa, oggi è nato un piccolo esercito di consulenti che passano al setaccio i dati dei censimenti, alla ricerca di mini-boom demografici analoghi che pos-

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1 sano essere interpretati come un indicatore del prossimo grande mi-racolo economico. Queste previsioni spesso muovono dall’assunto che quei lavoratori abbiano l’istruzione e le competenze necessarie per poter essere impiegati, e che i governi riescano a trovare loro un’occupazione remunerativa. Il che ha avuto senso, per un breve periodo, in un mondo in cui tutte le economie stavano crescendo sospinte dalla marea favorevole. Le condizioni economiche però mu-teranno, come sempre accade.

In un modo o nell’altro tutte le regole discendono dalla com-prensione dell’attuale regime economico, e cercano di riconoscere il ritmo del cambiamento stabilendo se esso si stia muovendo in dire-zioni produttive o distruttive, e stia generando una crescita equili-brata nelle categorie di reddito, nei gruppi etnici e nelle regioni geo-grafiche, o dando luogo a squilibri precari. Che la nuova prosperità a Varsavia sia considerata noiosa e discreta, quando invece lo stile di vita dell’élite moscovita è ostentato e pacchiano non è solo una bizzarria culturale, bensì il segno che la Polonia ha di fronte a sé un futuro più serio rispetto alla Russia, perché sta spendendo in manie-ra più oculata. Tuttavia, è anche vero che i titoli che annunciano a tutta pagina la scelta di una data azienda di intraprendere la strada dell’internazionalizzazione non sempre sono un segnale positivo: in paesi come il Messico o il Sudafrica, nei quali il mercato dei beni di consumo è ancora sottosviluppato, la scelta di internazionalizzare da parte delle aziende può essere un brutto segno se così facendo inten-dono voltare le spalle al loro paese, e dimostrare di non condividere il modo in cui i politici gestiscono l’economia nazionale.

Per di più, il fatto che a Rio tutto – dal Bellini (un cocktail a base di pesca e champagne) alla corsa in taxi – sembri costare una fortu-na non è soltanto una sgradevole sorpresa per i turisti europei, ma è anche indice della sopravvalutazione del real, la moneta brasiliana, e la dimostrazione della regola generale secondo cui una valuta a buon mercato è segno di forza competitiva. L’economia brasiliana è diventata corposa e lenta proprio quando l’afflusso di capitali liqui-di estremamente mobili (hot money3) ha sopravvalutato il real ren-dendolo non competitivo. Quindi, il fatto che il Bellini costi tanto,

3 Nel linguaggio economico, capitali che si spostano rapidamente da un mercato all’altro per perseguire maggiori rendimenti o per essere convertiti in una valuta

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rsaoltre ad essere un segno di debolezza del Brasile, è la dimostrazione

della forza dei concorrenti, persino di una ripresa potenziale a De-troit, nel momento in cui gli Stati Uniti riacquistano competitivi-tà nei confronti dei principali mercati emergenti. Dal 2001, dopo aver perso un terzo del proprio valore rispetto alle valute dei suoi principali partner commerciali, verso la metà del 2011 il dollaro americano ha toccato il tasso più basso aggiustato all’inflazione dai primi anni settanta.

In genere l’opinione pubblica è sempre un passo indietro rispet-to al prossimo grande cambiamento nel panorama economico, ed è invitabile concludere che il pessimismo prevalente nei confronti degli Stati Uniti sia, forse, eccessivo. Nell’ultimo decennio diverse valute dei principali mercati emergenti si sono apprezzate rispetto al dollaro – in primis il real brasiliano – principale motivo per cui la quota USA delle esportazioni mondiali, dopo un calo protratto, ha toccato il fondo nel 2008 con l’8 per cento e da allora è lentamente risalita. La dipendenza energetica degli Stati Uniti dall’estero è dimi-nuita in maniera costante, passando dal 30 per cento di un decennio fa all’attuale 22 per cento, grazie alla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio e shale gas4, e allo sviluppo di nuove tecnologie estratti-ve. Superata la Russia, gli Stati Uniti sono oggi il primo produttore mondiale di gas naturale, e da qui a cinque anni potrebbero ritornare ad essere uno dei principali esportatori di energia. Ai punti di forza fondamentali dell’America – fra cui la rapidità dell’innovazione in un mercato altamente competitivo – si deve la ripresa del comparto energetico e l’estensione della sua leadership nel settore delle tecno-logie. Tutte le ultime novità, dai social network al cloud computing sembrano emergere ancora una volta dalla Silicon Valley o da nuove tecnopoli in ascesa come Austin, in Texas. Laddove alcuni fra i gran-di mercati perderanno lustro nel prossimo decennio, gli Stati Uniti potrebbero dare prova di buona capacità di recupero.

più stabile. Sul mercato interno, i capitali hot sono utilizzati per impieghi a brevis-sima scadenza. [N.d.R.]

4 In tutto il libro verrà usato questo termine, o in alternativa il più generico gas naturale, in quanto la comunità scientifica italiana sta ancora interrogandosi sull’i-doneità della dicitura gas di scisto (in uso sui maggiori canali di informazione, ma da molti ritenuta fuorviante) e di quella corrente gas da argille (meno nota), senza peraltro aver ancora escluso l’ipotesi di mantenere la dicitura inglese. [N.d.R.]

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1 Per avere una visione davvero onnicomprensiva dei mercati emergenti, il mio approccio consiste nel monitorare tutti i parametri: i livelli di reddito pro capite come le classifiche dei primi dieci mi-liardari, i discorsi dei politici radicali, il tasso di cambio applicato al mercato nero, le abitudini di viaggio degli uomini d’affari locali (per esempio se movimentano i capitali nel loro paese o in paesi offsho-re), i margini di profitto dei grandi monopoli e le dimensioni delle seconde città del paese (le capitali di dimensioni smisurate spesso sono sintomatiche dell’eccessiva concentrazione di potere nelle mani dell’elite politica). Si tratta di un approccio basato non sulla teoria o sui numeri, bensì sull’esperienza acquisita sul campo. Ognuno se-condo il proprio stile, tutti i grandi investitori operano nello stesso modo: acquisiscono i dati macroeconomici, poi sbarcano nel pae-se interessato e tastano il terreno per farsi un’idea dell’ambiente; la gente del luogo è la prima a sapere. Nel 2003 la mia équipe si è resa conto che l’afflusso di denaro facile dal mondo stava per invadere il Brasile quando i cambiavalute al mercato – che prima chiedevano una maggiorazione per i dollari – all’improvviso cominciarono ad attribuire al real quotazioni superiori al tasso di cambio ufficiale.

Una prospettiva leggermente diversificata sulle singole nazioni forse non aveva tanta importanza fino a dieci anni fa, quando le economie dei paesi in via di sviluppo rappresentavano meno del 20 per cento dell’economia globale e appena il 5 per cento della capita-lizzazione del mercato azionario mondiale. Nel 2011 i mercati emer-genti costituivano quasi il 40 per cento dell’economia globale e poco meno del 15 per cento del valore del mercato azionario mondiale. Al giorno d’oggi quelle economie hanno assunto dimensioni tali che non possono più essere raggruppate in una categoria marginale, e riusciamo a capirle solo esaminandole come singole nazioni.