Naturalismo e Alessandrismo nel Rinascimento · 2. La dottrina delle influenze celesti in Dante 98...

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BRUNO NARDI Naturalismo e Alessandrismo nel Rinascimento a cura di Marco Sgarbi TRAVAGLIATO-BRESCIA EDIZIONI TORRE D’ERCOLE MMXII

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Bruno nardi

Naturalismo e Alessandrismonel Rinascimento

a cura di Marco Sgarbi

TRAVAGLIATO-BRESCIA

EDIZIONI TORRE D’ERCOLE

MMXII

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Tutti i diritti riservatiISBN 978-88-96755-08-2

Edizioni Torre d’Ercolevia L. Sturzo, 13

Travagliato (Brescia)www.edizionitorredercole.it

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sommario

Prefazione di Marco Sgarbi 7

naturalismo e alessandrismo nel rinascimento

Parte i. il naturalismo

Premessa 11

i. introduzione

1. Il naturalismo nel pensiero antico e medievale 132. La cosmologia medievale. L’ingresso della scienza peripatetica nell’Occidente latino 20

ii. la scolastica del xiii secolo

1. L’aristotelismo avicennistico 252. Origini dell’averroismo latino 263. Tommaso d’Aquino 304. Il naturalismo del secolo XIII 34 iii. il secolo xiv

1. Introduzione 391.1. I problemi di astronomia. L’infinità dei mondi 391.2. La medicina. Il problema della complexio 411.3. Il principio di individuazione 422. Giovanni Duns Scoto 433. Guglielmo Occam 454. Nicola Oresme 495. Nicola d’Autrecourt 50

iv. rinascimento romanico e rinascimento classico

1. Introduzione 532. Il ritorno di Platone 553. Lo studio delle matematiche nel secolo XV 574. Le dottrine cosmografiche del secolo XV 605. L’eredità del Medioevo 626. Leonardo da Vinci 63

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v. l’astronomia del rinascimento

1. Introduzione 732. Nicolaus Copernico 773. Tycho Brahe 824. Giovanni Keplero 835. I progressi delle scienze naturali 856. Galileo Galilei 87 vi. il naturalismo animistico

1. Introduzione 972. La dottrina delle influenze celesti in Dante 983. L’astrologia 1024. La magia 1055. Il naturalismo animistico dei platonici 1096. I germi della filosofia telesiana 112

Parte ii. l’alessandrismo

Premessa 119

vii. il Problema dell’anima

1. La dottrina aristotelica dell’intelletto 1212. Gli interpreti greci di Aristotele 1272.1. Teofrasto 1272.2. Alessandro d’Afrodisia 1282.3. Temistio 1333. La questione dell’intelletto nell’interpretazione neoplatonica 1363.1. Plotino 1363.2. La Theologia Aristotelis 1394. L’aristotelismo nel mondo arabo 1424.1. I primi contatti con la cultura greca 1424.2. Al-Farabi 1434.3. Avempace 1434.4. Rabbi Moises 1444.5. Avicenna 1454.6. Averroè 1485. Il problema dell’anima nel secolo XIII 152

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5.1. La corrente avicennista agostiniana 1525.2. L’origine dell’anima razionale 1535.3. Sigeri di Brabante 1575.4. Tommaso d’Aquino 161

viii. i Precursori del PomPonazzi

1. Biagio Pelacani da Parma 1672. Il Cardinal Bessarione 1753. Marsilio Ficino e il neoplatonismo cristiano del Rinascimento 1814. Giovanni Pico della Mirandola 1835. L’ambiente culturale padovano sul finire del XV secolo 1886. Il Cardinal Gaetano 191

ix. Pietro PomPonazzi

1. La vita 1972. Gli scritti 2063. Polemiche seguite alla pubblicazione del De immortalitate animae 2114. Lo sviluppo del pensiero pomponazziano 2135. Una Quaestio de anima precedente al De immortalitate animae 2156. Il De immortalitate animae 218

indice dei nomi 224

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marco sgarbi

Prefazione

Nel presente volume si raccolgono a stampa, per la prima volta, le dispense dei corsi universitari di storia della filosofia tenuti da Bruno Nardi negli anni accademici 1948/1949 e 1949/1950 presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma.1 I corsi di Nardi, intitolati rispettivamente “Il naturalismo del Rina-scimento” e “L’alessandrismo nel Rinascimento”, hanno avuto sino ad oggi scarsa circolazione; infatti, esistono poche copie circolanti delle dispense: un esemplare per corso nella Biblioteca della Fa-coltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma e qualche esemplare circolante fra amici e parenti, nonché presso gli studenti che ebbero la fortuna di frequentare quelle lezioni.

La pubblicazione di queste due dispense in un sol volume è do-vuta alla stretta unità tematica dei due corsi che lo stesso Nardi non manca di segnalare. Naturalismo e alessandrismo sono due tratti complementari che caratterizzano la filosofia del Rinascimento.

Pur essendo passato più di mezzo secolo dalle lezioni di Nardi, leggendo i suoi appunti, mi sono trovato di fronte ad una “sapienza antica” capace di trasformare le vicende della filosofia del Rinasci-mento in un grande romanzo filosofico e di far rivivere i protago-nisti di un’epoca che ha segnato indelebilmente la cultura europea, come pochi autori come Eugenio Garin, Tullio Gregory e Cesare Vasoli sono riusciti a fare.

Non escludo che alcune tesi proposte da Nardi nelle sue dispen-se siano oggi datate, so però per certo che nessuna di esse è supe-rata. La forza di queste lezioni sta nell’affrontare la storia della filosofia del Rinascimento attraverso l’analisi delle grandi questio-ni e dei grandi problemi che l’hanno segnata, ricostruendo la loro origine e mostrando il loro destino. Le lezioni di Nardi sono perciò ancora oggi utili, non solo per gli studenti universitari che di questa “sapienza antica” hanno purtroppo oggi poca esperienza, ma anche per la metodologia con la quale sono affrontati gli argomenti.

Nessuno meglio di uno dei più importanti storici italiani della

1. Le dispense qui raccolte riproducono fedelmente il testo di Nardi. Sono state mantenute sia le citazioni bibliografiche interne al testo che le note a piè pagina. Si è provveduto all’ag-giornamento di alcuni riferimenti bibliografici. Si è intervenuto, solo talvolta, nella format-tazione dei paragrafi, nella punteggiatura e nell’ortografia per rendere più leggibile il testo.

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filosofia, qual è Cesare Vasoli, ha potuto valutare meglio l’opera di Nardi: «Nardi, nel suo lungo itinerario intellettuale e nonostante i suoi rapporti con Gentile, mantenne sempre la piena libertà di ricerca e concepì la storia della filosofia come una indagine che esigeva metodi sicuri, il totale rispetto dei testi e il rifiuto di ogni forzatura che ne falsasse i significati genuini ed originali […] il suo contributo resta fondamentale per intendere come i veri mae-stri aristotelici del Cinquecento italiano difendessero fermamente le loro “conclusioni” razionali, del tutto separate e indipendenti dal discorso “dialettico-retorico” dei teologi ai quali erano però co-stretti a lasciare l’oscuro dominio delle “leggi” e l’insegnamento della fides cristiana, necessaria per governare la vita ed i “costumi” del “volgo”».2

A conclusione di questa breve prefazione il mio ringraziamento speciale va a coloro che hanno seguito la pubblicazione di questo volume: gli eredi di Nardi, nella persona di Elide Tornaboni, e il professor Tullio Gregory che, da giovane assistente si era occupato tanto premurosamente di curare queste dispense.

L’edizione delle lezioni di Bruno Nardi è stata possibile gra-zie ad una fellowship generosamente concessa dalla Fritz Thyssen Stiftung für Wissenschaftsförderung. A questa istituzione i miei più sentiti riconoscimenti.

2. C. Vasoli, Due “interpreti” del Pomponazzi: Francesco Fiorentino e Bruno Nardi, in M. sgarbi (cur.), Pietro Pomponazzi. Tradizione e dissenso, Olschki, Firenze 2010, pp. 497, 505.

MARCO SGARBI

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PARTE PRIMA

IL NATURALISMO

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PREMESSA

Quando si parla del naturalismo del Rinascimento, avviene spesso di sentir confondere o, per lo meno, mescolare insieme due cose non soltanto distinte, ma profondamente diverse: quel natura-lismo matematico, meccanicistico che tende a cogliere nei fenome-ni della natura i rapporti puramente quantitativi che formano come lo schema e la legge uniforme dell’accadere dei fatti naturali; e un’altra specie di naturalismo che concepisce la materia come do-tata di vita, di forze occulte, alla cui esplicazione è dovuto l’acca-dere stesso dei fatti naturali. Matematico e meccanicistico è il na-turalismo galileiano che concepisce la natura come un libro scritto in caratteri matematici, e quello cartesiano che spiega i fatti fisici riducendoli tutti a movimento di masse che hanno per proprietà es-senziale e fondamentale l’estensione. Invece, il naturalismo telesia-no, bruniano e campanelliano è un naturalismo metafisico, perché concepisce la materia animata da una forza invisibile che esprime dal seno della gran madre ogni essere che viene all’esistenza.

Al naturalismo matematico va ricondotta la fisica moderna, ga-lileiana e cartesiana, la quale, contentandosi di conoscere come e secondo quali leggi accadono i fenomeni naturali, e rinunciando a conoscere il perché e le ragioni ultime di tutte le cose, ha sgombra-to il campo della ricerca scientifica da pregiudizi e preoccupazioni ingombranti, ed ha creato mezzi precisi di misurazione e di calcolo che hanno permesso all’uomo di valutare con esattezza le forze della natura, di prevederne il corso, di determinarne la capacità, di sottometterle e asservirle.

Il naturalismo metafisico, all’opposto, non solo non è mai stato capace di suggerire all’uomo alcun mezzo efficace per domare le forze della natura, ma il più spesso l’ha condotto ad una fatalisti-ca rassegnazione, oppure gli ha consigliato pratiche illusorie, riti, scongiuri ed esorcismi che erano atti ad agire piuttosto sull’imma-ginazione che non sul corso degli eventi naturali.

Il meraviglioso progresso della scienza moderna consiste nell’essersi venuta progressivamente liberando dagli idola del na-turalismo animistico e metafisico.

Il quale non di meno ha avuto anch’esso la sua funzione storica; non pratica, ma teorica, in quanto lo spirito umano trasferendo sé al centro stesso della natura, ha tentato di risolvere questa nello spirito, com’è avvenuto consapevolmente nel Romanticismo.

Scopo di questo corso di lezioni sul naturalismo del Rinasci-

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mento è mettere in evidenza il contrasto fra questa duplice corrente naturalistica, il progressivo svincolarsi della scienza da ogni pre-giudizio metafisico da un lato, e l’orientamento sempre più eviden-te del naturalismo metafisico verso la soluzione della natura nello spirito, dall’altro.

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I

INTRODUZIONE

1. il naturalismo nel Pensiero antico e medievale

Il contrasto, evidentissimo nel pensiero del Rinascimento, fra naturalismo matematico e naturalismo animistico metafisico, trae la sua origine da una duplice concezione della natura, che risale alla filosofia presocratica. Per quanto contrastanti, le due specie di naturalismo son state sempre confuse fin dal loro manifestarsi. Uf-ficio dello storico è quello di districare quello che nella realtà appa-re avviluppato e confuso, per renderlo intelligibile e giustificarlo.

È evidente che il naturalismo matematico ci riconduce alla con-cezione pitagorica della natura come numero. Chiunque s’accinge a ordinare la propria esperienza, abbisogna di un concetto unitario che è il principio generatore dell’ordine; poiché ordinare vuol dire ridurre ad unità quello che appare molteplice vario e perfino con-traddittorio. Così gli Ionici tentarono di ridurre ad un solo principio (ἀρχή) tutta la realtà, additando questo principio ora nell’acqua, ora nell’indistinto o infinito, ora nell’aria. Per Eraclito questo prin-cipio, dal quale si generano tutte le cose e al quale tutte ritornano, è il fuoco. Ma ciò che colpisce il filosofo di Efeso è il periodico nascere e morire delle cose, in un ciclo cosmico che si ripete infi-nite volte e che consta di due momenti essenziali: la via all’in giù (processo catodico) e la via all’in su (processo anodico). Il catodo e l’anodo formano il periodo, ossia il ciclo eterno nel quale si attua la lotta degli opposti in un divenire senza fine. L’infinità del divenire è ricondotta ad unità per mezzo del concetto di periodo. L’infinità del divenire è dominata da una legge o λόγος che è la ragione stessa del divenire. Nel fuoco eracliteo, dal quale tutto deriva e nel quale tutto si risolve, si comincia perciò a intravedere un principio di razionalità: il λόγος.

Il λόγος eracliteo diventa il numero (ἀριϑμός) dei Pitagorici. Numero è moto periodico dei corpi celesti ognuno dei quali ha una propria rivoluzione perfettamente calcolabile e apparentemente in-variabile; numero è l’alternarsi del giorno e della notte in una dura-ta periodicamente costante; numero l’avvicendarsi delle stagioni. E il numero di movimenti celesti sembra imprimersi negli organismi che vivono sulla terra coi loro periodi di nascita, di sviluppo, di de-clino e di morte. Anzi chi osserva la struttura degli organismi di una

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stessa specie o di una stessa razza non tarda a scoprire, attraverso la varietà, l’identità e l’invariabilità di certi schemi fondamentali, e la costanza delle proporzioni fra le diverse parti degli organismi. Tutto questo condusse i Pitagorici ad affermare che il numero è l’essenza di tutte le cose. E poiché il numero (ossia l’invariabilità di certi rapporti) è il fondamento dell’armonia nella musica, armo-nia parve il mondo ai Pitagorici, i quali s’adoperarono perfino a dimostrare l’esistenza di una analogia tra gli spazi interplanetari e gli intervalli dell’ottava musicale.

In tal modo, poiché il numero è l’essenza di tutte le cose, il mondo appariva, come più tardi a Galileo, un libro scritto a carat-teri matematici. E i Pitagorici s’applicarono allo studio della mate-matica per decifrarlo. Anzi fecero della matematica, come suona il vocabolo nel suo significato etimologico (μανϑάνω), la disciplina, cioè la scienza per eccellenza, e la ritennero strumento indispensa-bile per conoscere la natura.

La fisica pitagorica è un tentativo d’interpretazione matematica della natura. Come il numero è l’essenza delle cose, così i rapporti fra i numeri e la proprietà delle figure geometriche divennero rap-porti tra le cose e le proprietà dei corpi. Gli schemi della matema-tica costituirono così le forme a priori dell’esperienza fisica, e le leggi del numero leggi della natura. E siccome il numero, nella sua astrattezza, rappresenta l’uniforme e l’invariabile al di là del mol-teplice e del vario, la natura apparve dominata da leggi universali e immutabili. Il numero così era veramente λόγος, cioè ragione e legge, e la matematica posta a fondamento della conoscenza della natura, faceva della Physica un scienza che non si limita a consta-tare quello che via via accade e colpisce i nostri sensi, ma cerca la legge dell’accadere e la ragione universale e necessaria dei feno-meni naturali.

Questa interpretazione pitagorica della natura come numero, ha reso importanti servizi alla fisica ed ha una gloriosa storia di scoper-te, dall’Antichità al Rinascimento, quando si rinnovò liberandosi da concetti estranei che l’avevano inquinata, e dal Rinascimento ai giorni nostri. Dal giorno in cui Platone pose ai matematici il grande problema, quali moti circolari si dovessero prendere per spiegare le apparenze (φαινόμενα), tutte le ipotesi furono discusse e ventilate, da quelle di Filolao e di Eudosso a quelle di Eraclide Pontico, di Aristarco di Samo, di Apollonio, d’Ipparco e di Tolomeo. Dalla ri-presa di queste discussioni nel Rinascimento, verranno fuori, come vedremo, la teoria copernicana e quella di Tycho Brahe.

I numeri e le figure geometriche vengono considerati dalla men-

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te umana, nella loro astratta realtà, come oggetti. Proiettandoli nella natura, e servendosi di essi come modelli o paradigmi per unificare e ordinare l’esperienza sensibile, le sensazioni e le mutevoli espe-rienze si raccolgono in oggetti che partecipano della stessa immu-tabilità dei numeri e delle figure e ne acquistano le proprietà, sì che i rapporti e le leggi dei numeri e delle figure diventano leggi e rap-porti delle cose naturali. Per mezzo della matematica lo spirito si oggettiva nella natura. Anzi i numeri e le figure tendono a solidifi-carsi nelle cose, come avverrà nell’atomismo democriteo; giacché gli atomi altro non sono che piccole masse dotate, come più tardi i corpi per Cartesio, di proprietà geometriche e meccaniche.

Questa concezione matematica e meccanicistica della realtà naturale è alla base della fisica classica da Archita di Taranto a Galileo, da Archimede a Cartesio. La caratteristica fondamentale di questa concezione pitagorica della natura è quella di semplifi-care la conoscenza dei fenomeni naturali fermando l’attenzione sul come i fenomeni accadono e rinunziando a conoscere il perché, sul rapporto quantitativo e trascurando le qualità.

Ma le qualità trascurate non tardano a prendere la rivincita; né lo spirito umano sa rassegnarsi a ignorare il perché dei fenomeni.

Le qualità sono anch’esse un dato insopprimibile della nostra esperienza da ordinare. Il moto, cioè il divenire, è cangiamento non soltanto quantitativo, ma anche qualitativo. A spiegare appunto il cangiamento, il nascere e il morire, Empedocle introdusse nell’es-sere una molteplicità qualitativa, costituita dalle quattro radici che sono i quattro elementi della fisica antica, dedotti dalle quattro combinazioni del caldo e freddo e del secco e umido:

E per mezzo dell’azione che un elemento esercita sull’altro ten-

tò di spiegare il divenire fisico. Ma presto Empedocle s’accorse

secco = Fuoco

umido = Aria

secco = Terra

umido = Acqua

Caldo

Freddo

INTRODUZIONE

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che quest’azione reciproca non era possibile, senza una reciproca attrazione o repulsione tra gli elementi. Perciò, come Talete, a spie-gare in che modo tutte le cose derivano dall’acqua, aveva attribuito all’acqua la vita (ilozoismo), così Empedocle spiega l’attrazione e la repulsione tra gli elementi per mezzo di due sentimenti vitali: l’amore e l’odio. Nasce in tal modo quella specie di naturalismo vitalistico o ilozoistico che si contrappone direttamente al naturali-smo matematico e meccanicistico dei pitagorici.

Dal riconoscimento di essenziali differenze qualitative tra gli esseri del mondo, muove anche Anassagora. Non quattro come per Empedocle, ma infinite sono le differenze qualitative tra i sensi onde traggono origine gli esseri che appaiono via via nel mondo. Ma supponendo che tutte le particelle, di cui ogni essere è formato, esistessero da principio tutte mescolate insieme, in quella «rudis indigestaque moles» che Esiodo (esiodo, Theogonia, 116) chiamò χάος, e che Anassagora chiama la «mescolanza» (μῖγμα), il filosofo di Clazomene, a spiegare i movimenti, simili a quelli del setaccio e del vaglio, che gli parvero necessari a spiegare la separazione delle particelle similari (ὁμοιομέρειαι) e la formazione delle cose, introdusse un νοῦς ordinatore che dà origine a questi movimenti e imprime ad essi una direzione. In tal modo, al rigido meccanicismo atomistico si sostituiva una concezione teleologica o finalistica del-la natura che si svilupperà nel pensiero di Platone, d’Aristotele e dello Stoicismo.

Nel Fedone platonico, Socrate mentre rende omaggio alla sco-perta anassagorea della mente ordinatrice, rimprovera Anassagora di non aver tratto tutto il vantaggio che poteva dalla sua scoperta, e di continuare a parlare dei movimenti che si ritengono sufficienti a spiegare la formazione di ogni cosa particolare. Per Socrate invece ogni cosa è quella che si esprime per mezzo della definizione. Ora la definizione propria di ogni cosa è la sua ragione ideale, il suo concetto o λόγος. Di ogni essere v’è un concetto che esprime la ragione ideale e l’essenza propria. Come il numero dei Pitagorici rappresenta le cose sotto l’aspetto quantitativo, così il concetto so-cratico esprime l’essenza delle cose come soggetto di qualità.

Le idee platoniche rappresentano le qualità del mondo sensibile sub specie aeternitatis. Le cose che ci appaiono più o meno belle in quanto partecipano della bellezza, più o meno grandi in quanto par-tecipano della grandezza, più o meno bianche, dolci ecc., in quanto partecipano in diversa misura della bianchezza, della dolcezza, e via di seguito. Anzi i cavalli sono cavalli per la loro equinità, le querce sono querce per la partecipazione all’eterna essenza della

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quercia per sé, l’animale è tale per la partecipazione dell’essenza dell’animalità, l’uomo per l’essenza dell’umanità, e via discorren-do.

Ciò che è più notevole nel platonismo è che la dialettica delle idee è modellata sui rapporti logici che intercedono fra i numeri e fra le figure geometriche. Come il triangolo è una specie di poli-gono, e il poligono come genere comprende in sé tutte le specie di poligoni, (triangolo, quadrangolo, pentagono ecc.), e come l’iso-scele, l’equilatero e lo scaleno sono le sottospecie del triangolo; allo stesso modo l’idea del vivente (genere) comprende in sé le due specie del vegetale e dell’animale; e ognuna di queste specie è genere per rapporto alle sottospecie di quercia, castagno, pino ecc., oppure di cavallo, bue, cane ecc. Come il numero, considerato nel-la sua astrattezza matematica, è universale, necessario ed eterno, cioè concepito fuori da ogni determinazione spaziale e temporale, così l’essenza ideale di ogni cosa è concepita come iperurania, cioè fuori da quelle determinazioni spaziali e temporali che si trova-no soltanto entro i limiti della sfera cosmica racchiusa dal cielo (οὐρανός).

La dialettica platonica, al pari della logica aristotelica che ne deriva, è modellata, dunque, sulla logica matematica. Per i Pitago-rici la matematica costituisce lo strumento per conoscere la natura; per Platone questo strumento è la dialettica.

Aristotele ha cercato di superare il dualismo platonico, rima-nendo però nei limiti e nella direzione del pensiero socratico. Lo Stagirita rileva subito l’inutilità dell’idea platonica: concepita come separata (χωριστής, iperurania, cioè al di fuori dello spazio e del tempo), essa è incapace di spiegare il mondo sensibile ed in-firma il valore della stessa nostra conoscenza. L’idea, come causa non spiega nulla in quanto eterna ed immutabile, mentre le cose eterne nascono e muoiono senza trovare nella idea la causa del loro divenire; l’idea come modello (παράδειγμα) del mondo implica la mitica figura del demiurgo; l’idea come essenza non si comprende come possa concepirsi fuori delle cose singole e infirma la validità del conoscere in quanto, conoscendo l’idea, non potremmo affer-mare di conoscere la realtà che ci circonda. Critica non meno acuta Aristotele muove all’atomismo di Democrito. Si è visto come ne-gli ultimi atomi di Democrito si fossero solidificate le figure della geometria pitagorica e come essi, intesi per postulato quali masse indivisibili, costituissero i primi elementi di tutte le cose. Aristotele critica, prima delle idee platoniche, il concetto di atomo democri-teo: questo, egli osserva, non è affatto indivisibile anche se di fatto

INTRODUZIONE

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è individuo, perché avrà sempre, per quanto piccolo, una forma poliedrica e manca di una interiore unità. Questa osservazione è fondamentale: ciò che determina l’unità di più elementi materia-li è l’atto spirituale che ne permette la comprensione. L’atomo di Democrito ha una certa estensione ed una certa figura geometrica (σχήμα) e precisamente quest’ultima dovrebbe costituire l’unità: orbene ciò sarebbe vero se esistesse nell’atomo un principio di in-telligibilità, ma tale principio di unificazione interiore, tale forma l’atomo di Democrito non ha. Il principio di unificazione che il fi-losofo di Abdera pone in noi, bisogna portarlo, deporlo nella realtà esterna, altrimenti interiore unità non esiste. Dopo questa doppia critica l’idea si dimostra efficace solo se portata nell’intimo della materia (ὕλη) come principio unificatore. Aristotele dunque non rinnega l’idea, il che avrebbe rappresentato un ritorno al relativi-smo presocratico, nega piuttosto ad essa quel carattere di realtà separata che all’idea aveva attribuito Platone. Per Aristotele la ma-teria per sé stessa è indeterminata e di conseguenza inconoscibile, poiché conoscere è unificare e distinguere: ciò che rende possibile determinare e quindi conoscere la materia è l’εἶδος, la forma, l’es-senza ideale delle cose. Sicché la sostanza vera, quella che davvero è ed opera, è il composto indivisibile di materia e forma, ἡ σύνολος οὐσία. Si può comunque dire che il mondo aristotelico non è pu-ramente meccanico: la materia è ordinata dall’idea, può dirsi tutta fosforescente di intelligibilità; per questo Aristotele non avrà nes-suna difficoltà a spiegare come la natura influenza lo spirito uma-no, mentre il problema rimane insolubile per ogni concezione dua-listica. Con lo Stagirita lo spirito si è posto al centro della natura; un giorno la natura sarà tutta risolta nello spirito: processo questo che dovrà avvenire fuori dal naturalismo meccanicistico perché qui l’intelletto si è estraniato da se medesimo nella contemplazione dei numeri, delle forme e non vede nei fenomeni che il giuoco, lo svi-luppo di tali forme. La caratteristica del naturalismo aristotelico è che esso costruisce il mondo esterno per mezzo delle idee platoni-che proiettate nella natura: le specie e i generi che Platone aveva posto nell’iperuranio sono da Aristotele inserite nella realtà fisica; l’idea diviene l’essenza delle cose e conserva il suo carattere di immutabilità (ἡ κατὰ τοῦ λόγου οὐσία). È qui il limite del naturali-smo aristotelico e il pregiudizio più grave che rendeva impossibile la comprensione della teoria dell’evoluzione:1 Platone infatti non

1. Cfr. J.a. ZahM, Evoluzione e dogma, Ufficio della Biblioteca del Clero, Siena 1896, pp. 83-123.

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aveva distinto l’idea di valore (per esempio giustizia) e il concetto empirico (per esempio cavallo) e ad entrambe aveva dato i mede-simi caratteri iperuranei; quando Aristotele fece dell’idea l’essenza delle cose, concepì egualmente immutabili specie e generi sicché il cavallo diviene una specie assoluta, immutabile e non si riesce a comprendere come possa derivare da altro organismo di altra spe-cie: il moto delle specie diventa inspiegabile.

È opportuno rilevare che l’immobilità delle idee platoniche di-pende dal fatto che esse sono modellate sui numeri pitagorici e sulle figure geometriche, sicché essere «non accipiunt nec magis nec minus», hanno la stessa fissità dei numeri e delle figure geome-triche: ogni specie è sempre identica a sé stessa, invariabile e im-mutabile; e il medesimo carattere hanno le essenze di Aristotele.

Si forma così un naturalismo che considera opera specifica della scienza cogliere le essenze riposte nelle cose. Nel Rinascimento la scienza per acquistare un serio valore dovrà rinunciare alla ricerca delle essenze riposte e tornerà alla concezione pitagorica e demo-critea che si limita alla ricerca della legge, dei rapporti quantitati-vi. La concezione stoica della natura è un insieme di naturalismo quantitativo e formalistico aristotelico e di pensiero schiettamente eracliteo.

Al di sopra dei cinquantasei cieli e delle corrispondenti intelli-genze separate, Aristotele aveva posto la Prima Intelligenza, detta anche Primo Motore immobile: questa era l’unica forma separata, puro pensiero sempre in atto. Gli Stoici muovono al Primo Motore le stesse critiche che lo Stagirita aveva formulato per le idee pla-toniche: essi negano la separazione della Prima Intelligenza e la riuniscono al cosmo di cui diventa forma immanente, il λόγος. La natura è così avviata da un pensiero che è pensiero divino; si può parlare di spiritualizzazione della materia, di panteismo, non come alcuni Stoici fanno, di materialismo.

L’universo è tutto «rationalis ac volubilis Deus» come dice Ci-cerone; i singoli esseri sono parti di un unico organismo, formano la «consentiens cognatio rerum». Siamo evidentemente fuori dal concetto pitagorico della natura; si delinea una visione vitalistica, animistica che darà la possibilità di riassorbire la materia nello spi-rito. Anche Epicuro finì per divinizzare il mondo fisico; egli infatti, pur dichiarando di volersi ricollegare alla concezione pitagorica e democritea, non può fare a meno di porsi il problema morale che è problema della libertà; e proprio per salvare la libertà dell’uomo, dà all’atomo una sua libertà ed è chiaro che con questo l’atomo non appartiene più al mondo fisico meccanicistico, ma è divinizzato.

INTRODUZIONE

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2. la cosmologia medievale. l’ingresso della scienzaPeriPatetica nell’occidente latino

Il Cristianesimo non ha una propria concezione della natura perché questa non è considerata in sé stessa, ma come opera di Dio; le cause seconde sono mediocremente esaminate e si preferi-sce risalire direttamente alla volontà del Creatore che tutto gover-na: «l’ordine naturale si appoggia a un ordine soprannaturale da cui dipende come dalla sua origine e dal suo fine».2 Per questo per il Cristianesimo non esiste il caso; il fortuito non è assolutamen-te concepibile per chi vede nel mondo un ordine razionale: «nihil igitur casu fit in mundo» dice S. Agostino (sant’agostino, De di-versis quaestionibus octoginta tribus, q. 24). Così pure nessuna difficoltà solleva il miracolo: in effetti il maturare delle spighe non è meno miracoloso della moltiplicazione dei pani operata da Gesù. Assolutamente parlando, la natura è tutto un miracolo e solo la continuità ed omogeneità dei fenomeni non provoca meraviglia; è la rarità di un fatto che ci stupisce: «illud mirantur homines, non quia maius est, sed quia rarum est» (sant’agostino, In evangelium Ioannis, XXIV, 1). Nel miracolo, Dio opera direttamente anziché servirsi di cause seconde: esso non può quindi dirsi contro natura, essendo questa ordinata dalla volontà stessa di Dio.

Tuttavia non può dirsi che nei pensatori cristiani dei primi se-coli dell’era volgare manchi assolutamente una concezione della natura, piuttosto si tratta sempre di concezioni elaborate fuori del Cristianesimo oppure di origine esclusivamente ebraica.

I primi Padri della Chiesa parlano spesso del mondo con termini mutuati dalla Bibbia che ci riconducono alla primitiva visione del creato propria dei libri veterotestamentari.

La antica cosmologia ebraica, affine a quella di altri popoli se-miti come i Babilonesi, non si trova organicamente esposta in alcun libro del Vecchio Testamento e si deve piuttosto ricostruire tramite gli elementi spesso vaghi e contraddittori che si trovano sparsi qua e là nella letteratura biblica canonica ed extracanonica.3 Presso gli antichi Ebrei l’universo, raffigurato come la casa del ricco signore, è diviso in tre piani: 1) il sotterraneo cosmico è la Sceòl luogo dove senza speranza di ritorno si rifugiano le anime dei trapassati, va-

2. é. gilson, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 1947, p. 248.

3. Per la cosmologia biblica cfr g. riCCiotti, L’apocalisse di Paolo siriana. La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante, Morcelliana, Brescia 1932.

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