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1 Natura e definizione del Disturbo di Panico Elisa Faretta e Mariella Dal Farra 1 DEFINIZIONE DEL DISTURBO DI PANICO (DP): I CRITERI DEL DSM-5 Il Disturbo di Panico (DP) rientra nel novero dei Disturbi d’Ansia e ne rappresenta, insieme al Disturbo d’Ansia Generalizzata (DAG), la ma- nifestazione più frequentemente osservabile nella popolazione generale (DSM-5, APA 2013). Il DP è caratterizzato dall’occorrenza ripetuta e inaspettata di attacchi di panico, ovvero dallo sperimentare un senso di paura pervasiva e apparentemente immotivata che raggiunge la massima intensità nello spazio di pochi minuti (criterio A). Durante un attacco di panico (AP), l’individuo manifesta sintomi che possono spaziare dall’ambito somatico – palpitazioni, sudorazione diffusa, tremori, sensazione di non riuscire a respirare liberamente, senso di soffoca- mento, dolore o fastidio alla zona toracica, nausea o disturbi gastrointestinali, giramenti di testa o “testa leggera” o debolezza, brividi o vampate di calore, formicolii (parestesie) – a quello psicologico – senso d’irrealtà (derealizzazio- ne) e/o di distacco/estraniamento da se stessi (depersonalizzazione), paura di perdere il controllo o di “impazzire”, timore di stare per morire. Secondo i criteri del DSM-5, la concomitanza di quattro o più di que- sti sintomi è necessaria per definire l’episodio come AP; in caso contra- rio (meno di quattro sintomi) si parla di attacco “paucisintomatico” (in inglese, fearful spell): il verificarsi di tali episodi, talvolta sperimentati già in età infantile, può rappresentare un fattore di rischio per lo svilup- po di un Disturbo di Panico, o di attacchi di panico, in età adolescen- ziale e adulta.

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Natura e definizione del Disturbo di Panico

elisa Faretta e Mariella dal Farra

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DEFINIZIONE DEL DISTURBO DI PANICO (DP): I CRITERI DEL DSM-5Il Disturbo di Panico (DP) rientra nel novero dei Disturbi d’Ansia e ne rappresenta, insieme al Disturbo d’Ansia Generalizzata (DAG), la ma-nifestazione più frequentemente osservabile nella popolazione generale (DSM-5, APA 2013). Il DP è caratterizzato dall’occorrenza ripetuta e inaspettata di attacchi di panico, ovvero dallo sperimentare un senso di paura pervasiva e apparentemente immotivata che raggiunge la massima intensità nello spazio di pochi minuti (criterio A).

Durante un attacco di panico (AP), l’individuo manifesta sintomi che possono spaziare dall’ambito somatico – palpitazioni, sudorazione diffusa, tremori, sensazione di non riuscire a respirare liberamente, senso di soffoca-mento, dolore o fastidio alla zona toracica, nausea o disturbi gastrointestinali, giramenti di testa o “testa leggera” o debolezza, brividi o vampate di calore, formicolii (parestesie) – a quello psicologico – senso d’irrealtà (derealizzazio-ne) e/o di distacco/estraniamento da se stessi (depersonalizzazione), paura di perdere il controllo o di “impazzire”, timore di stare per morire.

Secondo i criteri del DSM-5, la concomitanza di quattro o più di que-sti sintomi è necessaria per definire l’episodio come AP; in caso contra-rio (meno di quattro sintomi) si parla di attacco “paucisintomatico” (in inglese, fearful spell): il verificarsi di tali episodi, talvolta sperimentati già in età infantile, può rappresentare un fattore di rischio per lo svilup-po di un Disturbo di Panico, o di attacchi di panico, in età adolescen-ziale e adulta.

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L’evenienza di un attacco di panico può verificarsi sia quando la per-sona si trova in uno stato d’ansia sia quando è in condizioni di quiete: tale distinzione consente di differenziare gli AP in “attesi” o “inaspettati”, pro-prio in funzione della presenza (o assenza) di riconoscibili stimoli ansio-geni nell’ambiente, interno o esterno, all’individuo (ad es. guidare da soli in autostrada; avvertire un abbassamento della pressione ortostatica ecc.). Un tipo particolare di attacco di panico “inaspettato” è quello notturno, e cioè il risvegliarsi dal sonno in preda, e a causa di, un AP. Gli attacchi di panico “attesi” non escludono l’eventualità di un Disturbo di Panico ma, per formulare correttamente la diagnosi corrispondente, l’anamnesi deve riportare l’occorrenza di più di un episodio del tipo “inaspettato”.

La seconda caratteristica clinica del DP (criterio B) consiste nello svi-luppare una preoccupazione costante (di durata non inferiore a un mese) relativa al possibile verificarsi di nuovi attacchi di panico e/o nell’ado-zione di comportamenti disfunzionali volti a controllare tale timore (ad es. evitare di svolgere esercizio fisico o di trovarsi in situazioni/ambienti poco familiari ecc.). Coerentemente, il DP si presenta spesso in co-mor-bilità con il disturbo agorafobico, tanto che la precedente edizione del DSM (DSM-IV-TR, APA 2000) prevedeva due possibili declinazioni del Disturbo di Panico: “con” o “senza” Agorafobia.

Nella presente edizione, dove viene ribadito come il DP tenda a presen-tarsi in associazione con altri Disturbi d’Ansia, e in particolare con l’Ago-rafobia, le due entità nosologiche sono però classificate e descritte come indipendenti. Nel Disturbo di Panico, frequente è inoltre la co-morbilità con i Disturbi Depressivi, il Disturbo da sintomi somatici e con l’uso improprio di sostanze.

In circa il 30% dei casi, dopo i primi AP compare una fase di “pola-rizzazione ipocondriaca” nel corso della quale si manifesta la paura o la convinzione di essere affetti da una malattia fisica grave, il che induce la persona a sottoporsi a numerosi accertamenti fisici e strumentali. In alcu-ni pazienti, il timore delle malattie fisiche si cristallizza in fobia e tende ad assumere un decorso cronico. A questa può associarsi la paura dei possi-bili effetti collaterali dei farmaci (farmacofobia), con l’esito di interferire con la compliance del paziente.

In questi casi, la diagnosi differenziale rispetto al Disturbo da Ansia di Malattia (DAM) non è sempre facile, anche perché l’attacco di panico

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non è un sintomo che si manifesta esclusivamente nel DP: può infatti pre-sentarsi anche nel DAM in risposta all’esacerbarsi della preoccupazione per il proprio stato di salute. Tuttavia, mentre il soggetto affetto da DP può preoccuparsi del fatto che gli attacchi di panico riflettano la presenza di una malattia medica, la sua ansia si manifesta di solito in concomitanza a quella sviluppata per altri tipi di eventi, situazioni o attività; nelle perso-ne con DAM, invece, tale preoccupazione è univoca. Giova inoltre consi-derare la qualità del sentimento ansioso, che nel DP tende a essere acuto ed episodico, mentre nel DAM è tipicamente persistente e duraturo.

Più in generale, la diagnosi differenziale richiede un certo grado di at-tenzione rispetto agli altri Disturbi d’Ansia: ad esempio, nel caso in cui si siano verificati soltanto attacchi di panico paucisintomatici “inaspettati”, è opportuno considerare la diagnosi di Disturbo d’Ansia con altra specifi-cazione o di Disturbo d’Ansia senza specificazione. Se invece gli AP sono completi, ma “attesi”, è importante prestare attenzione al tipo di situazione suscettibile di elicitarli (ad es. situazioni sociali nel Disturbo d’Ansia So-ciale, oggetti o situazioni fobigene nella Fobia specifica e nell’Agorafobia, preoccupazione eccessiva e diffusa nel caso dell’Ansia Generalizzata, se-parazione da casa o dalle figure di attaccamento nel Disturbo da Ansia di Separazione).

Gli attacchi di panico (Fig. 1.1) possono infatti presentarsi nell’ambito di qualsiasi Disturbo d’Ansia, così come nel contesto di altri Disturbi mentali (ad es. Disturbi Depressivi, Disturbo da Stress Post-Traumatico) e di alcu-ne condizioni mediche (ad es. patologie cardiache, respiratorie, vestibola-ri). Secondo il DSM-5, in questi casi l’AP deve essere rilevato come “spe-cificatore” (ad es. “PTSD con attacchi di panico”), a differenza di quanto avviene nella diagnosi di Disturbo di Panico, dove invece si configura come criterio.

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Figura 1.1 – L’Attacco di Panico: criterio nel dP; specificatore nell’ambito di altre diagnosi.

La stima di prevalenza a 12 mesi per il Disturbo di Panico è di circa il 2-3% nella popolazione generale, con un’incidenza doppia presso le femmine ri-spetto ai maschi (2:1). Per quanto riguarda la variabile età, la prevalenza del DP è bassa prima dei 14 anni (< 0,4%), aumenta gradualmente nell’adole-scenza, raggiunge il picco nell’età adulta e decresce dopo i 64 anni (< 0,7%). L’età media dell’esordio si colloca fra i 20 e i 24 anni. Se non adeguatamente trattato, il DP tende a cronicizzarsi. Il decorso può presentare importanti oscillazioni nelle sue manifestazioni sintomatologiche: alcune persone accu-sano attacchi di panico sporadici, talvolta intervallati da anni di latenza, men-tre altre riferiscono sintomi gravi e continuativi. Di conseguenza, la remis-sione sintomatologica risulta spesso incompleta e le recidive sono frequenti.

Il DP è associato ad alti livelli di disabilità sociale, lavorativa e fisica (DSM-5, APA 2013). È un tipo di Disturbo che tende ad accrescere il tasso di ideazione e di rischio suicidario, così come il numero di esami medici richiesti e di visite al Pronto Soccorso (ad es. perché la persona colta da AP teme di stare avendo un arresto cardio-circolatorio). Il DP si configura per-

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tanto come un Disturbo potenzialmente invalidante e di norma “costoso”, tanto per l’economia psichica del soggetto quanto a livello sociale, dove la ricaduta è sia diretta (numero di prestazioni non pertinenti erogate dal SSN) sia mediata (ad es. frequenti assenze dal posto di lavoro, che possono condurre a disoccupazione o, presso i più giovani, al drop-out scolastico).

Considerando l’insieme di questi dati si comprende perché il DP sia stato ampiamente studiato, con particolare attenzione all’efficacia degli interven-ti impiegati nel trattarlo. Sulla base di una meta-analisi condotta da NICE (National Institute for Health and Care Excellence 2011), i trattamenti evi-dence-based (ovvero, di efficacia comprovata) per il DP sono di tre tipi: la psicoterapia, la farmacoterapia e l’auto-aiuto. La prassi migliore prevede di prospettare al paziente tutte e tre le opzioni, in modo che la sua preferenza possa essere tenuta in considerazione. In termini di mantenimento dei ri-sultati nel tempo, NICE sottolinea tuttavia come “gli interventi dimostrati-si più stabili sono, in ordine decrescente: la psicoterapia; la farmacoterapia (classe degli anti-depressivi); l’auto-aiuto” (NICE 2011, p. 26).

Nell’ambito dell’intervento psicoterapeutico, l’indicazione elettiva è per la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC), articolata in sedute a frequenza settimanale per una durata massima di quattro mesi. La TCC, anche nei suoi sviluppi più recenti, che prevedono un contatto minimo fra paziente e terapeuta (ad es. Terapia Cognitivo-Comportamentale Computerizzata, TCCC) è quindi selezionata da NICE come scelta pre-ferenziale fra i trattamenti psicoterapeutici.

Per quanto riguarda la farmacoterapia, “gli antidepressivi dovrebbero esse-re gli unici farmaci impiegati sul lungo periodo per la gestione del Disturbo di Panico, con particolare riferimento agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors, SSRI) e ai triciclici (Tricyclic Antidepressant, TCA)” (NICE, p. 27). Le benzodiazepine sono inve-ce controindicate, così come i sedativi antistaminici e i farmaci anti-psicotici. L’auto-aiuto, terza opzione per il trattamento del DP, è ricondotto nell’alveo dell’approccio Cognitivo-Comportamentale sotto forma di TCCC (ad es. mo-duli di auto-aiuto somministrati tramite internet), in sinergia con i gruppi di mutuo-auto-aiuto e all’esercizio fisico.

I dati forniti da NICE sono parzialmente contraddetti dalla meta-ana-lisi condotta da Bandelow et al. (2015) sull’efficacia dei trattamenti per i Disturbi d’Ansia. La revisione della letteratura ha preso in considera-

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zione 232 articoli, che includevano 234 ricerche per un totale di 37.333 pazienti coinvolti. Lo studio ha messo a confronto gli effetti ottenuti dagli interventi farmacologici, psicoterapeutici e combinati in rapporto ai tre principali Disturbi d’Ansia (Disturbo di Panico, Disturbo d’Ansia Ge-neralizzata e Disturbo d’Ansia Sociale). Il dato più rilevante ottenuto da quest’analisi è che “la maggior parte degli psicofarmaci impiegati nel trat-tamento dei Disturbi d’Ansia sortisce effetti significativamente migliori delle psicoterapie, e i risultati sono conseguiti in un periodo di tempo comparativamente più breve” (Bandelow et al., pp. 188-189).

Per quanto riguarda il tipo di psicoterapia, «la meditazione Mindfulness determina l’effetto più consistente. Gli interventi basati sulle tecniche di ri-lassamento risultano quantitativamente più efficaci degli interventi compor-tamentali individuali (TCC ed esposizione), che a loro volta lo sono di più della TCC di gruppo. L’esercizio fisico, le terapie “non-faccia-a-faccia” [ad es. TCCC], PDTh, EMDR e IPT hanno tutte dimostrato di avere un minore effetto pre-post trattamento» (ibidem, p. 186). Bandelow et al. concludono asserendo che «se si considerano gli effetti pre-post trattamento, le psico-terapie non si differenziano dal placebo. Questi sorprendenti risultati non possono essere spiegati dall’eterogeneità delle condizioni, dalla presenza di bias o da effetti riconducibili ai beliefs dei ricercatori» (ibidem, p. 190).

Tuttavia, in accordo con i dati pubblicati da NICE, la ricerca sottolinea anche come le psicoterapie, e in particolare la TCC, mantengano il loro ef-fetto nel tempo anche dopo la fine dell’intervento, «mentre i pazienti trattati solo farmacologicamente manifestano una recrudescenza dei sintomi d’ansia quando smettono di assumere i farmaci» (ibidem, p. 190). È possibile inter-pretare l’apparente difformità di questi risultati considerando che il tratta-mento farmacologico è una terapia sintomatica, diretta ad alleviare le mani-festazioni psico-fisiche del disturbo nel qui e ora, dunque in una prospettiva di tipo “sincronico”. La psicoterapia è invece volta a modificare le condizioni che hanno determinato l’insorgenza e il mantenimento dei sintomi in una prospettiva diacronica che ha come obiettivo la trasformazione del sistema in senso più ampio.

Tale interpretazione è confortata da un recente studio sugli effetti a lungo termine della psicoterapia (TCC + Guided Mastery Therapy) condotto su un campione di pazienti affetti da DP con Agorafobia (Hoffart et al., 2016). Il follow-up, uno dei più estesi mai documentati, è stato effettuato a 18 anni

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dalla fine dei trattamenti e ha rilevato un miglioramento della sintomatolo-gia riferita per entrambe le tipologie d’intervento. Secondo gli Autori, questi risultati evidenziano il ruolo-chiave dei convincimenti (beliefs) di tipo cata-strofico – oggetto d’intervento sia da parte di TCC sia della Guided Mastery Therapy – in qualità di mediatori di cambiamento sul lungo periodo.

A parte questo, pochi studi hanno esaminato la stabilità dell’efficacia del-la TCC nel tempo. Ad esempio, secondo Beurs et al. (1999), mentre alcuni pazienti mostrano una remissione dopo un trattamento breve, altri hanno bisogno di interventi aggiuntivi o prolungati. Inoltre, secondo Barlow et al. (2000), la combinazione di TCC e farmacoterapia potrebbe aumentare il rischio di recidiva dopo la fine del trattamento. Nel caso della sola farma-coterapia, un follow-up di cinque anni indica che solo il 45% dei pazienti trattati consegue una completa remissione (Woodman et al., 1999).

Coerentemente, Ost et al. (2004) affermano che sussista «un ampio margine di ottimizzazione per lo sviluppo di metodologie TCC applicate al DAP, in quanto solo il 60% dei pazienti trattati all’interno di studi spe-rimentali controllati (fra quelli pubblicati al 1990) hanno conseguito un miglioramento clinico significativo.» La letteratura riporta infine un tasso di drop-out fino al 24% nel caso dell’esposizione (Marks et al., 2004) e fino al 26% nel caso della TCC, a prescindere dalle tecniche impiegate (Bakker et al., 2002). La ricerca suggerisce che i soggetti affetti dalle for-me più severe di DP siano quelli maggiormente propensi a interrompere questo tipo di trattamento (Hunt & Andrews, 1992).

FENOMENOLOGIA DEL PANICOL’impatto letteralmente deflagrante dell’AP è caratterizzato da una ra-pidità che non lascia spazio all’elaborazione simbolica: è una reazione immediata, nel senso che non viene “mediata” da un pensiero (magari ossessivo o depressivo), da una parola (come nei disturbi di conversione) o da un’azione (ad es. gli “agiti” tipici delle sindromi borderline); si tratta di un sintomo che si manifesta direttamente a livello fisico, rispondendo con un repentino aumento dell’arousal fisiologico (reazione di “attacco e fuga”) a un disagio di carattere psicologico. «In altre parole,» come riportato dal DSM-5, «l’inizio dell’attacco di panico è il punto in cui vi è un improvviso aumento del disagio piuttosto che il punto in cui si è sviluppata inizialmente l’ansia» (pp. 247-248).

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La percezione del pericolo scatena nel nostro corpo e nella nostra psi-che una reazione finalizzata ad aumentare il più possibile le probabilità di sopravvivenza: si tratta della risposta di “Fight or Flight” (letteralmente, “combattere o fuggire”), una reazione specifica caratterizzata da diverse fasi. La prima consiste in un aumento dell’attivazione del sistema orto-sim-patico, che diviene prevalente su quella del parasimpatico:• sul piano fisiologico, l’attivazione del simpatico determina il rilascio di ca-

tecolamine (noradrenalina ed epinefrina) da parte della midollare del sur-rene. A loro volta, le catecolamine stimolano la secrezione dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH) e, conseguentemente, della corticotropi-na stessa (ACTH), determinando la diffusione nel sangue di ormoni quali il cortisolo (noto come “ormone dello stress”) e altri glucocorticoidi che cau-sano aumento della frequenza cardiaca, accelerazione del ritmo respiratorio e altre reazioni preparatorie al compito bio-evolutivo di “Fight or Flight”;

• sul piano neurologico, queste reazioni determinano una parziale disat-tivazione del livello corticale (pensiero “astratto”) a favore di quello “limbico” (pensiero “operativo”): il cervello inizia a funzionare se-condo modalità più arcaiche, ma anche maggiormente funzionali alla sopravvivenza. Questo avviene perché la sub-attivazione corticale fa-cilita gli automatismi e il ricorso a pattern comportamentali istintivi (o “di base”), molti dei quali di natura inconscia o “procedurale”.

L’esigenza primaria dell’organismo in questa fase è quella di soddisfare l’accresciuto bisogno energetico attraverso un incremento dell’apporto di ossigeno. I meccanismi fisiologici coinvolti sono dunque, in prima istanza:• l’aumento della frequenza respiratoria;• l’aumento dell’ampiezza respiratoria attraverso la dilatazione bronchiale.L’esito è una maggiore disponibilità di ossigeno nel sangue che determina:• aumento del tono muscolare;• riduzione dei tempi di reazione;• parziale anestesia somatica (minore sensibilità al dolore, alla fame, alla

sete e alla stanchezza);• acuirsi delle sensorialità uditiva e visiva;• diminuzione della capacità di ragionamento “astratto”.

A livello psicologico, si amplifica il senso del pericolo, che viene sogget-

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tivamente vissuto come paura. A sua volta, la paura aumenta lo stato di attivazione creando un feedback positivo (sinergia) fra psiche e corpo.

L’effetto complessivo consiste in una focalizzazione attentiva, senso-riale e cognitiva su pochi elementi per volta (monitoring), ma importan-ti ai fini dello svolgimento del compito bio-evolutivo di “Fight or Flight”. Ad esempio, se il compito è quello di uscire rapidamente da un edificio in fiamme, il campo visivo si restringerà per concentrarsi soltanto sulle possibili vie di fuga (visione “a tunnel”).

Nel caso in cui all’aumento dell’arousal non corrisponda un impiego atti-vo dello stesso, ad esempio perché la persona è impossibilitata a muoversi, o perché la percezione del pericolo deriva da dinamiche psichiche interne piuttosto che da un agente esterno identificabile, si innesca una reazione di-fensiva di secondo livello che prende il nome di “Freezing” (letteralmente, “congelamento”): una risposta di marca dissociativa (emotiva e/o cognitiva e/o sensoriale) che isola temporaneamente la persona da quello che sta suc-cedendo. Di nuovo, si tratta di una reazione funzionale al contesto poiché, se fosse totalmente presente a se stessa, la persona verrebbe sopraffatta dalle circostanze in maniera forse definitiva e permanente.

Questa esperienza dissociativa viene di solito descritta con frasi del tipo: «Mi trovavo lì, ma era come se fossi da un’altra parte», «Mi sentivo come se fossi fuori dal mio corpo e mi vedessi agire dall’esterno», «Le cose intorno a me sembravano strane, irreali» oppure «Ho inserito il pilota automatico» o ancora «Ero in stato di shock». Anche espressioni del tipo: «Ho visto qualcosa che sembrava reale, ma che invece non lo era» e «Ho percepito un odore particolare, anche se sapevo che non c’era» segnalano che la persona ha vissuto (o sta vivendo) un’esperienza dissociativa.

Altri sintomi indicativi dello stato di “Freezing” sono: • le amnesie (“Non riesco a ricordare i particolari di quello che è acca-

duto”, “Sono rimasto sconvolto da qualcosa ma non ricordo cosa”);• le alterazioni della percezione corporea («Non ho sentito dolore

quando sono stato colpito, anche se sapevo che doveva fare male», «Alcune parti del mio corpo sembravano distorte: erano più grandi o più piccole del solito»);

• le alterazioni sensoriali («Ho udito/sentito/visto qualcosa che sembra-va reale, ma che invece non c’era»);

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• le alterazioni nella percezione del tempo («Non saprei dire quanto è durato», «Era come se il tempo si fosse fermato»).

Per quanto riguarda lo specifico dell’Attacco di Panico, in assenza di una risposta motoria proporzionale all’incremento dell’arousal, l’iperp-nea comporta un aumento della pressione dell’ossigeno (PO2) con con-seguente sbilanciamento del rapporto fra questa e la pressione parziale dell’anidride carbonica (PCO2), che si traduce in una forma di alcalosi metabolica, sperimentata come fame d’aria (dispnea), sensazione di co-strizione faringea e/o senso di soffocamento.

Allo scompenso dell’equilibrio acido/base (innalzamento del pH) l’or-ganismo risponde mettendo in atto meccanismi di compensazione, fra cui la vasocostrizione cerebrale, a cui possono corrispondere:• sensazioni di capogiro;• sensazioni di squilibrio statico;• svenimento o sensazione di stare per svenire.

Contemporaneamente, l’aumento delle molecole d’ossigeno presenti nel san-gue – trasportato attraverso le emoglobine in tutto l’organismo – comporta un super lavoro da parte dell’apparato cardiocircolatorio, e in particolare del muscolo cardiaco, che aumenta il volume sistolico (quantità di sangue nei vasi), la gittata (pressione sanguigna) e la frequenza delle sue contrazioni.

I sintomi che ne conseguono, molto frequenti durante l’attacco di pa-nico, sono:• tachicardia;• palpitazioni;• dolori precordiali o senso di oppressione toracica (simile a quella pro-

vata in caso di coronaropatia);• sensazioni improvvise di caldo o freddo.

A sua volta, il sangue verrà indirizzato (tramite il meccanismo della dif-ferenziazione delle resistenze arteriose regionali) verso particolari settori corporei quali i muscoli (soprattutto quello cardiaco) e il cervello.

Ne conseguono varie reazioni fra cui:• vasocostrizione periferica cutanea: contrazione dei muscoli piliferi

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(piloerezione e “pelle d’oca”), pallore cutaneo (particolarmente visi-bile al volto), sudorazione (da presumibile riflesso arcaico legato all’e-missione di stimoli olfattivi respingenti e, forse, per le mani, con effetti sulla presa), sensazioni di brivido (di freddo) e vampate di calore (tut-te legate a tale ipotesi di tipo arcaico);

• interessamento della muscolatura liscia del tratto gastrointestinale: si tratta di distretti corporei che, in quanto legati alla digestione, rivesto-no, dal punto di vista di un’ergonomizzazione energetica, un’importan-za minore: vengono cioè ad assumere un ruolo gerarchicamente subor-dinato in queste situazioni di emergenza, ma con possibili conseguenze a livello fisiologico quali sensazioni di tensione o crampi addominali;

• svuotamento della vescica e dell’ampolla rettale: il possibile e a volte incontrollato svuotamento dell’ampolla rettale e/o della vescica urinaria per la decontrazione dei rispettivi muscoli detrusori può essere conside-rato quale un riflesso filogeneticamente acquisito, finalizzato a rendere il soggetto più agile e a minimizzare il rischio d’infezione in caso di ferita;

• infine, la diminuzione della salivazione produce una sensazione di “secchezza delle fauci”, mentre l’aumento del tono muscolare può determinare tremore agli arti.

L’insieme di queste reazioni, conseguenti come abbiamo visto all’aumen-to dell’arousal e all’impossibilità di “scaricarlo” in un compito di tipo motorio, concorre a suscitare nel soggetto che ha un attacco di panico il timore di un’imminente “dissoluzione” fisica e mentale.

A livello emotivo, la persona prova un’ansia intensa, non derivabile psi-cologicamente, con concomitanti sensazioni d’impotenza, estremo disa-gio e terrore che spesso culminano nella paura di morire, “impazzire” o perdere il controllo delle proprie azioni.

Il passaggio dall’attivazione fisiologica al timore panico sperimentato a livello psicologico è mediato dal sistema limbico, che “traduce” le sen-sazioni di malessere-benessere categorizzandole in emozioni quali paura, rabbia, sorpresa ecc. A livello neurologico, il DP è infatti correlato ad al-cune peculiarità del sistema nervoso centrale, con particolare riferimento ai sistemi neurotrasmettitoriali GABAergico, noradrenerigico e serotoni-nergico della corteccia prefrontale, del locus coeruleus, del nucleo del rafe

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mediano e, appunto, del sistema limbico. Gli studi più recenti sui corre-lati neurali del DP tendono a concentrarsi su quest’ultimo: una struttura complessa, collocata in sede sottocorticale, deputata all’elaborazione delle emozioni e degli stati affettivi, nonché alle loro manifestazioni vegetative e somatiche. All’iper-eccitazione del sistema limbico corrisponderebbero, a livello psico-comportamentale, le reazioni di paura e di panico.

In particolare, il locus coeruleus (parte del sistema limbico, organizzazio-ne noradrenergica) è intimamente interconnesso ai sistemi serotoninergici e GABAergici, dai quali riceverebbe impulsi inibitori (Murri et al., 1998). Contemporaneamente, le afferenze serotoninergiche provenienti dai nuclei del rafe innervano alcune aree del sistema limbico (locus coeruleus, amig-dala, ippocampo) coinvolte nelle emozioni di ansia, di paura e di panico.

L’interconnessione fra i sistemi noradrenergico e serotoninergico (quest’ultimo con azione inibitoria sul locus coeruleus) potrebbe contri-buire a spiegare l’efficacia delle molecole di classe SSRI e TCA (entrambe serotoninergiche) che, come abbiamo visto, costituiscono l’indicazione farmacologica d’elezione per il DP.

Recentemente, Mawson (2005) ha proposto una revisione della risposta di “Fight or Flight”, intesa come risposta preferenziale al pericolo presso gli esseri umani. Secondo questo Autore, la revisione della letteratura relativa al panico di massa evidenzia come la risposta forse più tipica a una va-rietà di minacce percepite non sia “né combattere né fuggire” ma piuttosto l’affiliazione, ovvero il cercare la vicinanza di persone e/o luoghi familiari, anche quando questo comporti il permanere in una condizione di pericolo.

Secondo il modello da lui elaborato (Social attachment model, Mawson, 1978, 1980) la separazione da una figura di attaccamento può infatti co-stituire uno stimolo avversativo pari se non maggiore all’essere esposti a un pericolo contingente, il che spiegherebbe perché, in presenza di una minaccia, le persone tendano in primo luogo a cercare le persone di ri-ferimento per poi tentare di fuggire in gruppo. Di converso, in questa prospettiva, la separazione o il distanziamento dalle figure d’attaccamen-to potrebbe rappresentare, su base filogenetica, un trigger suscettibile di elicitare l’attacco di panico.

Page 13: Natura e definizione del Disturbo di Panico6 cAPITOLO 1 - nATuRA e deFInIzIOne deL dIsTuRbO dI PAnIcO zione 232 articoli, che includevano 234 ricerche per un totale di 37.333 pazienti

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