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NARRATIVA

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Giulio Angioni

Una ignota compagnia

IL MAESTRALE

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© 2006, Edizioni Il MaestraleRedazione: via Massimo D’Azeglio 8 - 08100 NuoroTelefono e Fax 0784.31830E-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.it

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Una ignota compagnia solo col tempo viene giudicata.

Ognuno ha lingua svelta e ingenerosa verso lo straniero.

Eschilo, Supplici

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E sempre in testa quella filastrocca scioglilingua an-nodalingua dei giochi delle donne alla Lucetta Confe-zioni, delle agnelle nel chiuso delle agnelle. Fissa in te-sta per giorni e notti intere mi svegliavo la mattina pie-no dei cin cin di quella cosa antica milanese che diceva,come diceva?

A Ciaraval gh’è una ciribiciàculaCon cincént cinquanta cinc ciribiciaculit…

Sveglia alle sei, come ogni giorno alla pensione diBrugherio, anche quella mattina di gennaio 1989, sedi-ci, martedì, e Warùi già tornato al suo paese. Meglio al-le cinque e mezzo, per arrivare in tempo alla fermatajumbo-tram, solo senza Warùi, dopo una notte dentroun’acqua scura, nuotando in tutti i modi, e conquisti lariva e l’acqua che azzanna anche la riva ti riafferra, sen-za più fiato nei polmoni, dentro l’acqua nera, giù nel-l’acqua morta, ti risvegli in un grido che nessuno ha maisentito.

I sogni non si adeguano se il giorno è stato allegro.Rifanno il mondo a modo loro, giù di nuovo a lottarecon le acque, dentro il fiume in piena del paese lonta-no di Warùi, albero sradicato che non sente la terra tracarogne di animali, sotto un volo radente di avvoltoio.

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pestato sulla coda, quando non ci badavo, come un gat-to in amore se ci stavo attento. Questo per i rumori. Agliodori ti abitui: perfino al fumo rancido (fumava solo ilCarlino, meno male), che mi piantava in gola quel boc-cone amaro e non andava pù né su né giù: una manyattadi Maasai, diceva Warùi, per dire un ricovero di capre alsuo paese. Ma la pensione di Brugherio per Warùi eral’albero dei marabù. E noi i marabù, io compreso chenon ne ho visto ancora uno, di marabù, attirato sempredal medesimo albero la sera.

Il turnista Caserio anche quell’alba nera ha farfu-gliato in molisano, al miagolio dell’uscio, un mugolio dadonna in amore. Dopo si calmava, si rivoltava e ritorna-va ai sogni in un russare di risacca. Potevo trafficare piùtranquillo.

Dei quattro lì di fianco, due già partiti per i loro traf-fici a quell’ora, dopo genuflessioni col sedere all’aria, Lailah illa ’llah: a scaricare all’ortofrutta, a pulire i cessi o afare i vu’ cumpra’, come l’Abdùlla con le sue Marlbòroal Bar Magenta: vendere o crepare.

Dei più tra loro non ho mai saputo, sempre nel buioche cancella i visi: ci entravano la sera per dormire, lamattina non c’erano già più. Caserio sì, lui c’era quasisempre, la mattina, per coincidenza. Chissà quando Ca-serio li leggeva i suoi giornali porno sadomaso, quei suoisacchi di carne imboscati sotto il letto. La vecchia forselo sapeva: la immaginavo entrarci un attimo per due col-pi di scopa nelle stanze, dove l’intonaco cadeva dal sof-fitto e giù dai muri come petali di fiori secchi. Chissà sequalche volta ci lasciava entrare un po’ di il sole in que-ste stanze a diminuire il senso della polvere ostinata.

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Un sogno così doveva averlo condiviso anche Wa-rùi, laggiù nella sua Africa oramai.

Salire dal pozzo del sonno, su per i nodi di un’astrusafilastrocca, è pesante nei giorni di lavoro, d’inverno, ilmio secondo inverno milanese. Milano, sono qui a Mi-lano, ancora intero, scampato alla piena sulla spondadel risveglio.

Come al neonato il mondo mi fa male ogni mattina.

Giuseppina, meno male, lo swatch che ho ancora alpolso me l’ha regalato con lancette luminose, da guar-dare al buio sollevando il polso su dal mare del sonno.La notte si ritira ma il mattino non ti sveglia qui a Mila-no, ripeteva Warùi, d’inverno quando il buio è resisten-te. Avevamo la sveglia incorporata, io specialmente informa di paura, di non fare in tempo, che ti prende den-tro, certe volte sballa, ti guardi l’ora al polso ed è passataappena mezzanotte. Torna, sonno! Dormi sentendotidormire e sprechi il tempo del riposo. Meglio un Casionero come quello di Warùi che segna il ritmo per ilmezzofondo e la mattina ti sveglia con una canzone, sevuoi, ma niente sveglie alla pensione di Brugherio chericovera solitudini affollate ma tenaci, una vecchia pen-sione, antica, da film in bianco e nero. Nella mia stanzain due, Caserio e io, residui bianchi, ma nella stanza afianco in quattro, sei extracom nell’altra stanza grandelì di fronte, con orari diversi di lavoro e turni strani disonno e di risveglio.

Dunque rumori guai se ne facevi, solo l’indispensa-bile, ma in fretta. Vestirmi nella stanza la mattina, nean-che a dirlo: sapone in tasca e asciugamano in spalla,scarpe in mano, mi materializzavo in corridoio, pianopiano. Ma ogni volta la porta miagolava come un gatto

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il cesso in ballatoio, gelido o bollente secondo la stagio-ne, dove di me non resta che un abbozzo di graffito,quasi un’oscenità con pentimento, in mezzo a scritte indieci lingue, svastiche, cuori, falci e martelli e grida dise-gnate.

Come quando in domeniche di noia, dopo che sidormiva a volontà, nel fumo dei ‘fricani che giocavano ascacchi o a dama turca, d’inverno imbaccucati, in mu-tande d’estate, seduti sul bordo dei letti, sulle ginocchiale scacchiere bruciacchiate dalle sigarette, oppure a po-ker, quando Warùi sfilava le sue carte con le dita lunghee lente in attesa della buona, mentre in un angolo Mi-chel Mal-du-pays risaliva con l’indice sopra una carta ilgrande fiume Senegal per nostalgia: in quei momenti,per farmi compagnia, quando il mio sesso si svegliava,ne prevenivo le tristezze, mi concedevo un po’ la fanta-sia di ritirarmi in mongolfiera: chiuso nel gabinetto e gliocchi alla finestra, potevo immaginarmi appeso ad unpallone, nel cuore di una nuvola, nell’aria senza vento esenza suono, impugnavo il gran sole rosso di marina.

Nei primi tempi alzarmi presto in Lombardia sem-brava ancora più pesante: più che a casa mia, quando almattino presto mamma mi svegliava lamentando profe-zie sull’avvenire mio di perdigiorno e senza voglia di ar-rivare. Già, ma arrivare dove, brontolavo, dove? Con ipiedi a terra giù dal letto, con la testa dritta, almeno lì.

– Pressione bassa al risveglio. Poco male, camperai alungo, va là, che sei di buona razza, – mi aveva detto unmedico a Milano, tastando il polso lento da mezzofon-dista.

Ma il bello era la cura: poltrire un poco a letto appe-na sveglio, o leggere il giornale, fa lo stesso, farsi portare

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La vecchia. Come sempre in corridoio, vigilante, conle labbra in giù, padrona di casa, testa puntuta di trecen-to bigodini, in braccio il gatto scemo, puntuale e sper-luscenta, vestaglia e ciabatte in tinta malva, sotto la lucesmorta però fastidiosa a occhi che venivano dal buio eraccoglievano tristezze sparpagliate in corridoio. Lavecchia controllava il suo lavabo, guardia di sanità nel-l’ora dei risvegli e dei rientri dei suoi dodici inquilini.

Ogni mattina prima di vederla in fondo al corridoiosotto il lume mantenevo speranze di evitare il freddodell’uscita in ballatoio a fare la pipì nel cesso, in quellacasa antica di ringhiera. Volevo farla dentro, nel locali-no del lavabo, una bocca di lupo e un sentore di tana. Lavecchia lo chiamava bagno, lo sgabuzzino con il lussodel lavabo. Se però non uscivi prima in ballatoio, e di lànon veniva una pernacchia solenne di sciacquone, nien-te lavabo. Non era idea da poco farla al caldo, dentro lacoppa di maiolica, lavabo, mica fuori nel freddo di rin-ghiera. Era dolce l’idea, come farla nel sonno da bambi-no, solo che prima è caldo, poi ti sveglia il freddo umi-do, ricordi?

La vecchia in fondo al corridoio proteggeva il suo la-vabo dalla piscia corrosiva di noi beduini e menelik. Poiscompariva, tornava a letto, con il gatto?, sicura ormaiche l’avevamo fatta fuori, nel cesso di ringhiera.

Lavabo lo chiamava, come alla messa grande al semi-nario africano di Warùi, che ci metteva insieme il suo la-tino d’Africa con quel lavabo e con la vecchia in ciabat-tine e bigodini e la vestaglia viola. Lavabo da messa damorto. Lavabo inter innocentes manus meas, recitavaWarùi facendo il rap: cosa vanno a insegnare agli africa-ni. E sempre innocentes sono rimaste le mie manus den-tro il buco del lavabo. Ma non sempre innocentes dentro

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Quella notte il Carlino dev’essere rientrato ubriacocome sempre, gridando la sua opera leghista, voce disciacallo che fiuta carogne nella notte sulla terra di Wa-rùi: il Carlino fratello della vecchia, vecchio anche lui,spirito di patata. Quasi ogni notte ritornava ciucco,pronto alla recita, sempre tale e quale in una lingua mi-sta, col milanese che s’impara subito a Milano, pure ineri. Dal solito bar lo sbattevano fuori alla chiusura, co-sì la recita ogni notte arrivava tra i rumori di Abdùllache partiva e quelli di Caserio che rientrava.

– Andém noi in Africa? – gridava barcollando per ilcorridoio: – Andiamo noi all’Africa? – chiedeva per trevolte, in un recitativo d’opera infiorato di rumori cor-porali, bussando a turno alle tre porte delle stanze dovedormiva già almeno la metà dei pensionanti.

– Noo, in Africa andém minga, – si rispondeva fi-nalmente, dimenticata ormai Faccetta nera cantata daragazzo. Poi cambiava pubblico, si rivolgeva all’usciodella vecchia, sua sorella: – E allora perché i negri vè-gnen chi? Eh? Perché? Perché i xe come i nàpuli, anzipeggio.

Fine del recitativo. Inizia la romanza: – Dìsen tucc,luntan de Napoli se mor, ma po vègnen chi a Milàn.

Pausa. Forse smette. Invece no, riprende in prosa:

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un caffettino sempre a letto, almeno un quarto d’ora diginnastica davanti alla finestra spalancata, lavarsi benema con calma, una doccia non calda, appena tiepida, esolo a questo punto via, alègher, al lavoro: però a piedi,non in macchina, inspirando profondo, giusto ogni cin-que passi, nè di più nè di meno, schivando i fumi fetididel traffico.

Come ha detto ridendo la Signora al mio laboratorio,era un po’ come quell’altro antico suo collega milanese:Il gran dottor Fuiada, che ti medica il cul per una piaga.

Il medico me l’ha perfino scritta questa sua ricetta,me la ricordo ancora, perché ho rivisto troppe volte insogno mattutino un bel caffè fumante col giornale chevenivano a planare dolcemente sul mio letto, rallentati,musicati, come un prodotto che si vanta alla tivù.

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va Warùi, una vita a fare gli uomini felici. Suo fratello lecantava sempre una canzone:

La no me vol più ben… La prega Dio che crepo E inveze stago ben…

Ma i due vecchi si cercavano l’un l’altra ogni mo-mento, come due scarpe vecchie. In quei giorni di feb-bre ogni mattino arrivava col tanfo acido di birra delCarlino che voleva conversare, mi chiedeva com’era lamia terra in mezzo al mare, seduto lì stringendo le pian-te dei piedi con due mani secche: se ci sono le case, vuolsapere, se si mangia con piatti e con posate, oppure è co-me l’Africa dei neri.

Mah, cosa gli dico? E com’è l’Africa dei neri? No,tutto sembrava avere un’altra vita al mio paese: nellafebbre vedevo rami curvi su una spiaggia bianca, l’on-da salata che fa spruzzi contro il Molo di Ponente do-ve corre a sfasciarsi un mare scuro, campi di grano cheil vento fa ondeggiare… Lo accontentavo. Gli raccon-tavo quello che voleva sentire, di banditi e pastori.Non ero bravo come Warùi che raccontava il suo vil-laggio lungo il fiume, dove giocava sulla riva, quando ilfiume non scappa e non fa danni: il fiume che i ragazzifanno a nuoto come prova di coraggio, e Warùi arriva-va sempre primo, si vantava. Della città Warùi non co-nosceva che il rumore, come un fruscio del bosco piùlontano, come la foresta di Githima quando sbuca dal-la notte, sbadigliando, poi la sera si accuccia nel silen-zio. Leggeva le figure nelle nuvole, quando portava ilgregge alla boscaglia, badava ai suoi capretti contro ilfalco e l’avvoltoio.

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– Tel chi, guardate: Milàn l’è un gran Milàn, è purecolorato adesso il gran Milàn.

Veneto, non poteva fare fino in fondo il milanese, ciavvertiva tutti che – Milàn, l’è larg de buca e strett deman – e terminava con lamenti su – Milàn de merda, –sempre che non finisse giù per terra a lamentarsi: – Ma-dona che ciulada, o mamma mia che botta che m’han da-to i menelik, – con voce di cammello moribondo, paroladi Warùi.

Quando già qualcuno si sfogava a mandarlo in varielingue a farsi fottere, ecco la sorella, lo spingeva al suoletto di cucina, e a voce alta che sentissimo anche noi ri-peteva che noi beduini e menelik i xe el nostro pan, be-nedeto!

Del Carlino non c’era solo quel teatro, che ogni nottemi rompeva il primo sonno e mi teneva con due occhispalancati dentro il buio della stanza. Ricordo bene lasua compagnia, nei giorni d’influenza, quando Warùidiceva che sembrava la malaria. Il Carlino mi ha dato ilsuo letto di cucina, l’aspirina e lo sciroppo e mi parlava,mamma quanto parlava: con la bocca sembrava divora-re i pomeriggi, maltrattava l’aria con le braccia e si grat-tava la crapa spelacchiata con due ciocche in fondo alcollo, come barbe di cocco: “Capelli, perduti”, c’erascritto sulla sua carta d’identità, e gli piaceva farcela ve-dere.

Mister Yul Brinner lo chiamavano. Si vantava di ave-re fatto l’amore per tre volte ogni notte di ogni anno, daquando ha cominciato, a sedici anni, e che per tutta lavita non aveva fatto altro che sedurre e piantare ognifemmina esistente sulla terra. Della sorella gli piacevadire male, diceva che era stata una di quelle: come dice-

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Riposavamo spesso in sintonia, ma lui si risvegliavadi un’ottava sopra, anche se nessun gallo a Milano alzala testa a sorvegliare i movimenti del mattino, e troppevolte il sole affonda le sue dita in cenere di nuvole.

Lo immaginavo scendere dal letto con un balzo alle-gro. Quando usciva dal covo coi vestiti sopra il bracciodestro, sembrava un vu’ cumpra’ che mostra la sua mer-ce. Danzava in corridoio a scatti ritmici, da rap, quasicome il mutante Michael Jackson, che però è proprioun tappo; sfoggiava sguardi da pantera, batteva mani epiedi e tutto il corpo ne seguiva il ritmo, con pacche si-lenziose sulle cosce sopra i jeans. Se mi vedeva a torsonudo faceva sempre il gesto di suonare lo xilofono sullemie costole.

Anche Michel senegalese l’avrebbe suonata chissàquanto, l’arpa di zucca misteriosa, se fosse stato altrovee non dalla vecchiaccia di Brugherio, dove si dorme aturno giorno e notte, e fare tutto piano, i sogni s’incro-ciano coi turni.

Mai veduta la faccia di certuni. Ma li riconoscevo,dal passo, dal modo di tossire o di russare, dagli orarid’arrivo e di partenza. Di alcuni conoscevo il sonno me-glio della veglia, ne sapevo gli odori, i rumori, le scarpe,i vestiti, il passo stanco di chi sta per cadere sul letto aseppellirsi.

Di Caserio sapevo quasi solo il farfugliare in molisa-no. Se lo svegliavo nella notte domandava che ora era:l’ora giusta, dicevo, e gli bastava. E se chiedete a me co-m’è l’accento molisano, dico che è un parlare disossato,insonnolito.

Michel senegalese è stato a lungo la sua giacca appe-sa a un chiodo e un paio di scarponi scalcagnati sotto il

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Be’, ma che razza d’Africa: quella per il Carlino era ilpaese veneto ai suoi tempi. E lo fissava a lungo, prende-va le misure di quel nero spilungone, e dopo molto stu-dio gli diceva: – Te però non sei mica come gli altri. No,te non sei mica come gli altri.

– Come gli altri chi? – Gli altri terroni neri.Era diverso sì, Warùi, dagli altri neri. Era meno sper-

duto. E pagava più caro il suo letto, lui che c’era da pri-ma alla pensione, da quando non era ancora l’albero deimarabù, anche se il letto poi non gli bastava, le gambegli sporgevano di fuori.

– No, tu non sei come gli altri, – gli diceva il Carlinocon il viso di buon senso, quando Warùi usciva in tutalucida a colori per il jogging. E io dietro.

Warùi dal giorno dell’arrivo fino all’ultimo ha dor-mito nella stanza a sei letti. Così eravamo in gara ad ar-rivare primi al cesso e al lavabo. Vinceva sempre lui chenon soffriva di pressione bassa e la mattina non sbattevasulle cose come me.

L’ho visto a un risveglio, un grande negro che rien-trava in corridoio dal cesso di ringhiera, tutto allegro dismorfie e di ancheggi e di ammicchi da rapper.

– E la catena non si tira? – sgrida già la vecchia, magià lo sciacquone le risponde con un raglio, preparatoapposta. Il nero mi prende col gomito in mezzo alle co-stole, ride: eccolo lì, Warùi, alto quasi due metri, con ilobi bucati in modo strano, kenyano aspirante dottorein scienze della terra, anche se già diceva di esserlo, dot-tore, e con certuni diceva che lui era americano, di NewYork. C’ero da pochi giorni, lui invece da sei mesi. E miha calato quella sua manona sulla nuca.

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mo, pelato già a trent’anni e una vocina da bambino,strano e meravigliato di ritrovarsi in mezzo ai neri.Guardo lui e poi devo guardare la biondina nella fotosopra il comodino con la mela raggrinzita, e il camioni-sta ride e dice cordialone, voce bianca: – Ti piace, ve’, lamia ragazzola? Proprio bellina, che solo a rivederla mifa sbrodolare. Te’, va’, porcellona, – prende la foto e sela lecca mugolando, come volesse inumidire un franco-bollo. – Si chiama Linda, – dice con gli occhi lucidi.

Non gli piaceva più la tana della vecchia al grossocamionista marchigiano. Prima quella pensione era pergente come lui, per camionisti di passaggio, col lettosempre pronto, un letto a ore. Stavolta era rimasto colsuo camion troppo a lungo lontano da Milano. Al suo ri-torno la pensione era già un dormitorio per i neri: sì maper neri sistemati, gli ha spiegato il Carlino. Era l’ultimavolta che passava, a prendersi le cose: – Africa addio! –ci ha salutato.

Ma ci ha lasciato la foto sopra il comodino, e un’altramela fresca sotto la sua Linda, chissà perché.

E io di tanto in tanto rivedevo nel sogno la biondina.Sognavo che facevo tutto solo il mezzofondo che da sve-glio io facevo con Warùi, lungo la roggia, dove lui rac-contava le piene del suo fiume. Là sulla riva la biondinami faceva gesti lenti e voluttuosi, con la mela in mano, em’invitava a prenderla, pareva; ma io non mi fidavo, vo-levo risparmiarmi delusioni e figuracce. Lei la lanciavacon un giro su se stessa, come un lanciatore di peso allativù, ma rallentato, mi arrivava una boccia di ferro ailuoghi bassi e mi svegliavo dal dolore.

La mela, una domenica mattina l’ho rivista davantialla biondina, oramai tutta secca, quasi un torsolo. L’hopresa, stavo per farci un lancio giù dal ballatoio, verso la

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letto, con due calzini sempre dentro, finché dopo duemesi non ho visto la sua faccia, anzi il suo naso, grande ecomplesso come un nido di termiti. Warùi diceva chelui sì, Michel Kiki, sembrava un marabù, sempre an-noiato e lento, ai margini di gruppi e tra i passanti; que-sto però non si capiva dalla giacca e dalle scarpe: nonsempre ciò che abbiamo ci somiglia, dice Warùi nel suoBaringo Rap, Warùi che la sa lunga, la vita gli ha insegna-to a intuire e gli ha fornito l’arte di scaltrirsi. A Milano ea Brugherio.

E poi l’enorme camionista che per mesi è stato soloquella mela vizza, sotto una foto di ragazza bionda, in-corniciata e sorridente, sul mio comodino, con unascritta sul rovescio. Me la sono riletta molte volte anchealla luce di un fiammifero, o cavandomi gli occhi ad al-tre luci scarse: Studio Fotografico Santarelli, Pennabilli eSant’Agata Feltria (Pesaro-Urbino).

Se sognavo persone, i primi tempi, vedevo solo gentesconosciuta, in luoghi sconosciuti o che non erano maiquelli che cercavo. Ma la bionda e la mela mi venivanoin sogno conoscibili: lei sorridente - di Sant’Agata Fel-tria e Pennabilli, una donna così doveva vivere in unluogo con un nome bello - mi mostrava una mela nellamano, soda però, la mela, non rugosa, e sembrava la of-frisse proprio a me, e invece arriva un tale senza volto eprende lui la mela, perché la stava dando a lui, e insiemese ne andavano; allora io scappavo vergognoso, e la Si-gnora del laboratorio mi gridava dietro che chi ha il culobasso non deve andare dietro a donne col sedere a man-dolino.

Il sogno della bionda e della mela poi è cambiato dalgiorno che è tornato il camionista, una montagna d’uo-

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perdi tempo a guardare fisso dentro nelle cose, per poiscoprirle tristi e complicate?

Stavo già per uscire, quando mi sono accorto chedimenticavo il cartoccio con il pranzo, già preparatodalla sera prima. L’ho notato perché Michel Kiki che ri-entrava infreddolito si è gettato a tracolla la salvietta,con un gesto che a me ricorda ancora quello di gettarsi atracolla la bisaccia, l’antico gesto di mio nonno quandousciva in campagna, mentre io m’infilavo lo zaino con ilibri per andare a cambiarmi tra i banchi di scuola in unsignore, mi diceva nonno.

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roggia là di sotto, ma mi sono bloccato a mezza mossa,l’ho palleggiata a lungo da una mano all’altra: troppo di-stante come mira, quella roggia, ma così rumorosa, sepioveva, che nei miei sogni diventava il fiume in pienadel paese di Warùi.

L’ho gettata nel cesso di ringhiera. Lì nell’acqua lamela è rimasta testarda a galleggiare, anche dopo trecolpi di sciacquone, finché l’ho abbandonata al suo de-stino.

Ma un giorno che di luna stavo meglio, ho presoun’altra mela e l’ho rimessa dove stava prima l’altra,sul comodino, sotto la biondina.

Quella mattina di gennaio, perso il turno al lavaboanche se oramai non ero più in gara con Warùi, sonotornato nella stanza a riporre sapone e asciugamano.Non li avevo usati. A tentoni nel buio trovo il mio ma-glione, la camicia, la giacca e il loden nuovo. Finivo sem-pre di vestirmi in corridoio, senza più tempo per rader-mi e lavarmi. A parte il jumbo-tram, come puoi startenein attesa appena alzato? La sapevo da tempo, io, la fre-nesia della pipì al mattino, da quando ragazzino alla co-lonia di montagna la mattina alla sveglia mi toccava farla fila, e più di un giorno sotto le mutande mi si è fattoun segreto lago di vergogna. Ed ecco ancora adesso miscoprivo un dorminpiedi, un non finito, un pivellino,recluso nel mio corpo, a rimorchio di voglie diventategià ricordo, confuso come un negro appena fuori dallastiva del negriero, parola di Warùi.

Quand’è che si diventa uomini finiti, senza più la miafiacca del risveglio, senza il sospetto che proprio quan-do dormi gli altri fanno le cose più importanti, prendo-no pesci ed altro che per te non resta, e appena sveglio

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Il jumbo-tram già da lontano annuncia che ce l’haifatta sulla fiacca del risveglio. Quando Warùi non lavo-rava con me alla Lucetta Confezioni, un giorno l’ho per-so perché ho seguito a dormire sognando di alzarmi: poivia di furia, invano, e alla fermata i piedi fermi anche nelfreddo, e le mani deluse nelle tasche. Ha subito impara-to anche Warùi, per vincere l’inverno, a battere coi pie-di sulla terra, a fare sbuffi nelle mani a coppa, ad ab-bracciarsi con le proprie braccia, mentre si allunga ilcollo nell’attesa di vedere gli occhi gialli del tram chesbuca dal crepuscolo, dai fumi della nebbia. Sempre dicorsa alla fermata, anche le feste e le domeniche, a spas-so o a fare mezzofondo con Warùi al Parco Lambro, asognare olimpiadi con medaglie, bagnati del più nobilesudore.

Che sei ancora in tempo te lo dicono le sagome diquelli in attesa alla fermata, dove ogni volta senti simpa-tia per chi si leva presto la mattina, d’inverno soprattut-to, al buio. Sul tram mi sistemavo in fondo a finire la toe-letta, a diventare farfalla, da quel bruco che ero, fuoridal bozzolo del sonno. Mi ero già sfregato la faccia conle mani bagnate di vapore, di quello che a Milano d’in-verno tutti sfiatano di bocca come pentole in bollore:meglio ancora se piove o c’è la neve a fiocchi o a mucchi;

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scende, ma il vantaggio di quelli di cintura, rispetto adaltri mezzi cittadini, è che un abitudinario sa chi scendee chi sale alle fermate. Cambiavo posto sette volte lun-go il viaggio, così senza parere, per ritrovarmi semprein punti buoni per guardare le ragazze. Così passava iltempo. Secondo Warùi guardarle almeno, le donne,aiuta a sistemare cose nella testa. Chi assaggia il mieleimpianta un alveare, diceva con sapienza dei suoi avi,all’inizio noiosa per me che pretendevo di spiegargli ilmondo, e invece mi ha fatto riscoprire la saggezza an-che dei miei: nel suo Baringo Rap sentenziano i suoi avicon i miei.

Una domenica saliamo su un autobus deserto, l’auti-sta nascosto da un pannello con pubblicità di spiaggetropicali. Resto senza fiato, non per le spiagge tropicali,ma perché ho partorito con dolore: cosa sarebbe il mon-do senza donne? Warùi si mette a ridere in falsetto afri-cano, e pacche sulla schiena. Avesse anche stavolta unasua massima africana, sul mondo senza donne.

– Tu pensi sempre, pensi troppo, ti fa male: tu vuoispingere l’autobus su cui stai viaggiando, – mi ripetevaEligio con saggezza da tranviere. Anche Warùi mi dice-va che facevo troppo chiasso coi pensieri, che li lasciavocrescere maleducati. Per fortuna i pensieri non è veroche hanno gli occhi per finestre.

Avevo il tempo per pensare lungo il viaggio risaputo,all’andata e al ritorno. Tragitto incorporato, ogni scossae rumore, dove il conducente usava freno e cambio,ogni istante sapevo dove stavo. Allora avevo fretta di ca-pire, facevo le domande un poco a tutti. Nessuno si ac-corgeva delle mie domande, certe volte. Meno Warùi,che mi diceva: – Il giovane dev’essere più astuto nelchiedere che nel rispondere. – Sui mezzi pubblici face-

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poi dentro il tram, per sfregarmi il viso inumidivo le ma-ni di condensa, quella dei finestrini, lo faceva Warùi co-me al villaggio con rugiada d’erba, per risparmiare l’ac-qua in siccità. Tutto di soppiatto, come se i milanesifossero curiosi lì sui tram, loro che non si accorgono diun nero spilungone in tuta verde ginnica: Warùi, che inpiedi tocca il tetto e da seduto non ci sta con quelle gam-be nel sedile. Però anche lui si vergognava di quel fareafricanesco, di boscaglia, nonostante il suo rap america-no, perché certe volte gli veniva da chiedere com’è chequi non si fa almeno un cenno di saluto, tra gente ches’incontra ogni mattina. Certo eravamo simili e diversi:nella sua differenza rivedevo certe cose nostre, ma piùevidenti, perfino nella tenebra della pensione, nella fo-schia dei viaggi e dei risvegli.

Bello andare in jumbo-tram al lavoro, padroni di unapausa senza impegni: molte mattine quella ninnanannadi fermate, di corse e di partenze mi è sembrata un pre-mio di puntulità. E Warùi ci godeva come un matto,canticchiava di rabbia e di piacere, perché un autistabianco lo portava a spasso, lui passeggero negro: i bian-chi che ti servono, ti fai servire, da facchini, camerieri,netturbini, autoferrotranvieri, tutti mestieri che nonfanno i bianchi, in Africa, ma i neri: – Vorrei vedere unpo’ la faccia di mio padre, – diceva poi serio serio.

E c’erano le donne. Mi aggiustavo gli abiti e i capelli,con manovre da gatto, finivo di svegliarmi, cercavo unpunto buono per guardare le ragazze. Di certune sape-vo le abitudini. Qualcuna rispondeva con pudore allemie occhiate, altre con degnazione, certe con rapidacuriosità: cosa c’è di più solidale di guardare chi ti guar-da? Il popolo dei tram è sempre provvisorio, sale e

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basso, un cavallone bianco che trottava in un prato co-me un francobollo, cercavo di distinguere la mia figuradai riflessi del paesaggio che ondeggiavano sul vetro, imovimenti del buio nel buio.

Anche se gli somiglia, non è come il guardarsi deineri e dei bianchi che colpiva a tradimento anche Wa-rùi. Perché un nero, nessuno lo guarda negli occhi, seincrocia gli sguardi, diceva, ma solo di sbieco, comeuna mosca dentro il piatto del vicino. Ma un nero tra ibianchi si sente gli sguardi di tutti, un fascio di sguardipungenti. E forse chissà, nel paese dei bianchi anchel’occhio di Dio, che vede ogni singolo ovunque, lui pu-re non guarda negli occhi i suoi neri, ma dietro: Warùisi sentiva una specie di formicolio tra le scapole, così glicresceva la voglia di dargli un consiglio, al Buondio, co-me fanno un po’ tutti, dovunque, però più da noi, per-ché l’uomo bianco si crede più saggio. Del resto a cheserve un Buondio che non puoi criticare, se il mondogli scappa da tutte le parti?

Io e Warùi tra quegli sguardi vuoti abbiamo fattomolti viaggi insieme. Ma è stato certo lì, tra Brugherio eMilano, che l’ho capito meglio anch’io quanto le donnesono esche, come prendono fuoco pure loro, forse per-ché a Milano hanno perso in bravura di contegno.

Sì ma perché alla Lucetta Confezioni le donne nonerano donne come le altre ovunque, specialmente suljumbo-tram? Erano il mio caffè quelle mattine, e su lapressione, e di sera un riposo, dopo il lavoro.

Le agnelle del laboratorio non riuscivano a piacermiveramente, sul jumbo-tram o sull’autobus invece nonmi riusciva di staccare l’occhio dal bel paio di gambe diuna donna, lasciate vedere più o meno di qua dalla gon-

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vo tutto io, maestro e allievo, il giovane e l’anziano, po-nevo le domande, tentavo le risposte.

Col senno di poi adesso mi rivedo tutto preso da unmistero, e ci portavo dentro anche Warùi: come quan-do e perché ci piacciono le donne. Perché alla LucettaConfezioni ce n’erano cinquanta di ragazze, mica male,le brutte erano rare, anche se si dicevano tra loro certecose: – Quanto sei brutta, ve’: a te, se un uomo mai titocca è il ginecologo. – E la Signora poi non era da but-tare. Sì, ma le donne del laboratorio non mi hanno maiattratto veramente. Come se mi aspettassero ogni gior-no cinquanta mascalzoni e un caposquadra con i baffi ei modi bruschi. No, non era come Eligio immaginava, epure Giuseppina che in silenzio mi faceva la gelosa, perle diavolerie che certo combinavo con le donne alla Lu-cetta Confezioni. Ma fuori del laboratorio, dappertut-to, specialmente sull’autobus, mi accendeva ogni don-na. Quelle che poi si sperdono qua e là man mano che siaddensa la cintura e poi Milano, e poche poi non si ri-vedono: sono abitudinarie, quasi tutte, anche nel postodove siedono. Erano un poco cose mie durante il viag-gio, le donne radunate a profumare la vettura: la brunatimida col viso di chi studia, la biondina con l’aria spau-rita, la mora dritta e rigida dentro un leopardo finto:una t’intenerisce, l’altra sembra che provochi, l’altra tifa gaglioffo, guai a te.

Tutte però lontane, irraggiungibili là dentro, giustoperché là dentro. Così serie se sole, con gli occhi rivoltiin se stesse, come se non vedessero intorno mai niente enessuno. Notano quanto basta a non venirti addosso,che non si siedano nel posto dove siedi, e lo sguardo timuore loro addosso, come un insetto sulla fiamma. Alpeggio seguivo con gli occhi gli alberi radi sotto il cielo

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poi già da molto le cose del mondo si trovano tutte inqualsiasi contrada, anche nel suo villaggio di boscaglia,due ore di matatu da Nairobi, sotto il grande altipianoche precipita di colpo giù da una scarpata mozzafiato.

Nove ore al lavoro tra le donne, tutti i giorni. Sì, conle donne e per le donne. E com’è diverso con questecompagne di lavoro: pietre focaie senza esca, esche sen-za pietra focaia, per dirla con Warùi. Con loro parlavo,scherzavo, una mano ogni tanto a toccare una guancia,una treccia. Beato tra le donne, sicuro, se mi avesserofatto l’effetto di quelle sull’autobus, sul jumbo-tram:beato tra le donne, come diceva Eligio leccandosi i baffi.

Cinquanta ragazze, e io il solo maschio, prima e poidopo i nove mesi quando c’era anche Warùi: tranne ilMarito che veniva ogni tanto a sgridare a casaccio, perla forma, poi subito spariva: – Forza, qui si lavora e ba-sta.

Io tagliavo la stoffa, le ragazze cucivano. Addetto al-la taglierina elettrica, attrezzo delicato, lavoro fino. Ta-gliati i pezzi li distribuivo alle ragazze, in giusta quanti-tà. Non portavo allegria io quando entravo coi pezzi ta-gliati e li distribuivo alle ragazze già chine a cucire, ipiedi tra resti variopinti. Quasi mi nascondevo dietro lapila di pezzi tagliati, guardavo avanti fisso in nessun po-sto: mica bello portare fatica, con occhio e giudizio,senza fare nè figlie nè figliastre.

Ce n’era di ogni parte: le italiane, molte di Terronia,ma pure le straniere, bianche brune e morette, figlie dipovertà e di privazioni, irregolari, gente raccogliticcia,provvisoria. Ma quanto più cambiava, più restava sestesso il chiuso delle agnelle. Non un gran che come la-voro: patate in un sacco. E la Signora, anch’essa una pa-

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na, tirata ogni tanto a velare il mistero, ciò che è megliolasciare supporre, come ogni donna sa senza pensarciquanto me.

Cose da tenersi dentro. Se ne parli fai ridere, se nonhai un Warùi per ragionare. E lui giocava con i terminiper dirlo, e con le doppie effe: differenza, indifferenza,diffidenza, insofferenza, è tutto lì. Ma è la città deibianchi, rifletteva, dei Wazungu… tante vite, che nonhanno nè avranno mai ragione d’incontrarsi, siedonotutte chiuse a fianco a fianco, e infatti non si devono in-contrare, nemmeno se rinchiuse in ascensore, quandodietro ogni sguardo vedi il vuoto che si riempie del ter-rore del nulla da dire o da pensare. E quando ne hai bi-sogno, tutta la gente ti svanisce accanto, ti ignorano co-me nemmeno una pietra ignora un’altra pietra. Nonsoltanto la donna allora pare che ci manchi, come spari-ta dalla faccia della terra, non c’è più nessun senso inquesta vita.

Quando gli ho chiesto come sarebbe il mondo senzapiù le donne, Warùi mi ha parlato di Farishta, l’indianoche al villaggio teneva un suo piccolo putiferio mercan-tile: di Farishta nipote degli indiani risparmiati dai leo-ni che se li mangiavano mentre quei poveracci costrui-vano non so che ferrovia giù in Kenya, per conto degliinglesi. Farishta si dice felice perché ha sette figlie: gliuomini veri, ripete, le fanno per le donne le cose chefanno, lo sappiano o no.

Warùi alle volte citava anche Goethe, sull’eternofemminino che ci tira su, e io sollevavo gli occhi al cielo,se per caso piove: – E invece bisogna pensarci a quelverso tedesco, – insisteva: i tedeschi in Africa hannodomato anche le zebre, per fare la guerra agli inglesi. E

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quattro pareti un po’ scrostate, nel pulviscolo eterno diLucetta Confezioni. Fuori sui mezzi non c’è la Signoraa vigilare, tanto meno il Marito, il grande Vulture.

E un giorno mi hanno eletto giudice di un concorsointerno di bellezza. Prese da un bello spasso nella pausaper il pranzo, mentre fuori cadeva un’acqua lunga conla neve, mi hanno chiesto di scegliere il paio di gambepiù belle del laboratorio, arbitro insindacabile.

Strilli, risate, gridolini. Io però zitto me ne stavoappoggiato a una parete, dentro lo stanzone. Mordic-chiavo il mio pranzo, cercavo un piglio da annoiato in-tenditore, di uno che non si aspetta mai niente di menodi ciò che succede. Però temevo trappole: cammellopiagato rifiuta la sella, direbbe Warùi, e la Floriana cheil gatto scottato teme anche l’acqua fredda.

E invece non avevo proprio niente da temere quellavolta dalle agnelle. Tutto quel sollevare di gonne e disottane, ben studiato, a scoprire ginocchia e coscie ton-de e bianche e nere e brune e cioccolata, sul davanti, didietro (la Simonetta aveva mutandine di leopardo), discorcio e di profilo, e applausi generosi a ogni esibizio-ne, non mi ha fatto impressione.

Nessun effetto, se non di chiedermi perché nessuneffetto, anche se non era proprio come al Parco Solari ilgiorno della mostra dei cani con Warùi, l’avvocatessa ela sua barboncina in ghingheri come una bambina ilgiorno della prima comunione.

Ma il bello era che a un mio parere positivo ci tene-vano, persino la Mariledona Corazziera.

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tata dentro il sacco? Forse anche il Marito era solo unagrande patata nel sacco. Ma lui sempre via, padroneche paga e dispone. Era lui che parava la bocca del sac-co, e noi tutti dentro, poi svelto legava la cima con dop-pio legaccio. In un sacco sai quanto stai male, ma nonsai dove sei.

Sacco stretto, per starci nove ore. E poi gli scherziscemi, le baruffe, i dispetti. Io l’ho creduto a lungo chegli scherzi più loffi le ragazze li pensavano per me. Nonle capivo. Facevo il permaloso e le ragazze ridevano diun riso irrefrenabile: io non ridevo, rinchiuso nel nura-ghe del mio orgoglio. Loro si divertivano, cercavanooccasioni di allegria, facevano come si dice ancora delsomaro al mio paese, che dava calci al cane perché nonli poteva dare al suo padrone.

Me le sentivo tutte contro, il pirla, ed era vero:moltiplicavano le astuzie per mortificarmi, perché iotrasformavo in animosità ciò che sul nascere era solo al-legria senza malanimo, riso lontano dalla beffa, riso didonne insieme. Per giorni meditavo su questa che pen-savo una vigliaccheria delle agnelline: audaci dentro ilgruppo, allegre e casiniste, da sole invece tutte santarel-le, timide e sfuggenti.

Le ragazze sui mezzi di cintura, quelle che incontriper la strada, cose belle di un mondo provvisorio, tilasciano scie di profumo, non puzza di tessuti lavorati,accumulata in ore e ore di cucito, imbastitura, drittofi-lo, bordatura, imbottitura, merlatura, falsatura. Suimezzi non indossano grembiuli cinerini e sulla testafazzoletti impolverati stretti stretti sulla fronte per pro-teggere i capelli, mezze maniche e lunga noia in viso.Non stanno nel ronzio delle macchine da cucire, tra le

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Al capolinea di Piazza Aspromonte si scende com-passati, ma messo piede a terra tutti partono di corsa,come quando calpesti un formicaio. Anche i vecchiettiprendono rincorse, ma smettono più in là di qualchepasso.

Rimangono gli autisti a farsi visita, da una vetturaall’altra, come buoni vicini: dicono barzellette e cerca-no di ridere, finché ripartono. Sul jumbo-tram Warùiun giorno ha urtato con il naso sullo stipite, mentre cer-cava di capire l’ultima battuta di una barzelletta, quellache ci fa ridere ma lui non la capiva quasi mai perchéera ancora il tempo che le cose le accennava con un di-to: sbatte col naso, quella volta al capolinea, incespica,si piega in una corsa sgangherata, sta per finire giù lun-go disteso e poi si drizza su con uno scatto da gazzella:olè, i tranvieri hanno applaudito: chi non ha testa hagambe.

Però ero io il curioso dei tranvieri. Su quelli di Mila-no so parecchio: Eligio fa il tranviere, lavora all’ATM.Quando al mattino aveva il turno giusto, perché finivao cominciava il suo lavoro, io correvo al Deposito Norddi via Leoncavallo, proprio di fronte al mio laboratorio,per stare un poco insieme con l’amico, prendermi in

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ste e scuro alla Lucetta Confezioni. O disfaceva tutti ipezzi mal riusciti e li ripreparava con lo stesso materia-le, se no ripagava l’Avvoltoio per la perdita subita.

Anche Giuseppina allora lavorava a delle cuffie inplastica per doccia, bisognava avvertirla: – Non lo fa-rebbe mai, lo stesso sbaglio, Giuseppina, – dice guar-dandomi severo. Per Giuseppina Eligio stravedeva: –Son padre unico, – diceva. Fatto un corso di lingue,Giuseppina adesso accumulava soldi per andare all’e-stero a far pratica: – Vuoi che non sappia rifinire cuffieda doccia?

Neanche con lui a volte m’intendevo. Eligio sta aMilano da trent’anni, lei ci è nata, milanese di madremilanese: per lei l’isola nostra è una stazione balneare.Eligio e Giuseppina, lui vedovo e lei orfana, stavano aRedecesio, in fondo a un viale lunghissimo di platani,vicino a un laghettino che d’estate un tempo era anchebuono per i bagni. Però c’erano ancora certe carpe,grandi come sottomarini americani.

– Ma tanto non è mai contenta, la Signora, – diceEligio, calmo, senza smettere un attimo di fare i suoipacchetti di monete. Ci voleva ben altro a impressio-narlo: – Ogni moneta ha i suoi parenti stretti, un giornoo l’altro vengono a trovarla, qui nella mia tasca, – mi haspiegato serio. Impacchettava spiccioli con carta dagiornale e li passava a commercianti che hanno semprebisogno di moneta. A me piaceva questa sua bravura:un gesto rapido e la carta già tagliata prima a pezzi giu-sti diventava una guaina, come fatta a macchina. Resta-vo a lungo ad osservarlo: zac e via uno, zac e via due…Mi ricordava sempre il giorno della prima paga, tutta adiecimila: il cuore mi batteva, me li sono contati diecivolte, ho chiesto a Eligio di guardare se ce n’erano di

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pace per davvero il mio caffè dall’automatico, lì nellastalla dei tram gialli, tutti in ordine insieme come mulistanchi.

– Forza, vediamo di aumentare i giri, – mi dicevaEligio, con quelle sue parole da tranviere antico: chenon giravo bene si vedeva, la mattina. Tutti mi conosce-vano al deposito in via Leoncavallo, ero quasi di casa,non mi trattavano da estraneo, al massimo scherzava-no, come uno dei tranvieri che mi salutava sempre conun sardagnùolo mariùolo e fetìente, ma così per ridere,forse per essere gentile. Poi hanno conosciuto ancheWarùi, l’amico nerofumo dell’amico dell’Eligio.

Quella mattina al deposito Eligio era imnpegnato inun lavoro extra: i conti degli spiccioli che ricavava invari modi dagli incassi all’ATM. Contava pile di mone-te da duecento, cinquecento e cento lire, tutte bene inordine. E ci si divertiva, guai a disturbarlo: come gio-casse a dama o a scacchi tutto solo, appollaiato a un ta-volo un po’ scomodo per lui. Poteva farlo a casa oppurein ore di servizio, nelle pause, come certi colleghi, maEligio amava farlo in tempi scelti, in tutta calma, mugu-gnando assorto nel trambusto tutto intorno.

Dovevo avvertirlo di una cosa. Sua figlia Giuseppi-na era di quelle che facevano lavori a domicilio per Lu-cetta Confezioni, con impegno saltuario: l’aveva eredi-tato da sua madre che per i Bolgiani ha lavorato molto alungo, fino a pochi anni prima. Perché la Signora ilgiorno prima aveva rifiutato tutti i pezzi a un’altra lavo-rante a domicilio: cento cuffie da doccia, tutto il lavorodi una settimana. Aveva messo male il nastro per la plis-settatura elastica alle cuffie, secondo la Signora: il gior-no prima suo marito marocchino le aveva riportate tri-

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da, precisa, pareva che incartasse gli avambracci, corticome le pile di monete.

Poteva dirmi tutto quello che voleva, Eligio Zara. Èlui che mi ha trovato quel lavoro alla Lucetta Confezio-ni, vicino al suo deposito ATM. Lui e mio padre eranoamici, tempo fa, da ragazzini. Prima del mio arrivoGiuseppina non prendeva lavoro a domicilio alla Lu-cetta Confezioni, quando faceva il tagliatore un cala-brese. Un giorno l’Avvoltoio l’ha cacciato, il calabrese,e se provavi a chiedere perché, le donne al massimo fa-cevano di quelle loro risatine soffocate.

Viene a sapere, Eligio, che non riuscivano a trovareun tagliatore: prende carta e matita e scrive a casa mia, amia madre e a mio nonno preoccupati del nipote diplo-mato in cerca di lavoro, stufo di fare l’inserzione sul Ba-ratto. Stessa cosa Warùi, con sui giornali il suo willingto work, anche sul Kenya Times che costa caro.

Eligio nella lettera parlava di occasione, garantivalui: fortuna da non perdere. Io mi guardo intorno, ri-fletto e mi decido. Faccio i bagagli e parto per Milano,coi soldi che mia madre ha sistemato nel marsupio sullapancia, religiosamente.

Eligio mi riceve a braccia aperte. Per giorni mi ripeteche il suo nastro dei ricordi gli si avvolge alla rovescia,autoreverse, da quando ha visto me tutto mio padre,morto che non avevo sette anni, morto sotto un trattore:per questo non me l’hanno fatto più vedere, però daquella sera tutti hanno incominciato a dirmi che a miopadre, io, gli assomiglio proprio spiccicato.

E se in casa a Redecesio avesse avuto posto, e non cifosse stata anche la figlia Giuseppina, lui di sicuro mi ciavrebbe preso, in casa sua. E invece son finito dalla vec-chia di Brugherio, su consiglio suo: una pensione buo-

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falsi, lui ha riso e poi me li ha guardati come fanno i cas-sieri nelle banche, rapido e sicuro, controluce. Per cin-quemila lire di quelle monetine Eligio guadagnava cen-to lire: eccoli lì i parenti in visita alle sue monete, e sonosolo i primi.

– Lo sai chi ci vorrebbe, per la tua Signora? – dicesenza ridere: – La tua bisnonna Castragalli, ecco chi civorrebbe. Lei sì che gliela cucirebbe per benino la plis-settatura elastica, là dove dico io, alla Signora.

Io cerco di spiegargli, come se già non lo sapesse findai tempi di sua moglie: il guaio era il Marito, l’Avvol-toio, mica la Signora: – È a lui che piace molto fare ilduro.

Eligio questa volta ha ridacchiato: si era fissato checi avevo un debole, per la Signora. Forse aveva ragione,almeno un poco, perché lei sì che mi faceva un certo ef-fetto, la Signora Bolgiani del laboratorio: non era comele altre lavoranti, certo perché dalle altre era diversa,era padrona, comandava. Warùi com’è che la chiamavala Signora? Wangu Makeri la chiamava, come l’ultimadonna che ha regnato sui Kikuyu, tanti secoli fa, agu naagu, quando le donne facevano l’amore con la guerra ecomandavano sui maschi, là nella terra dei Kikuyu,troppo duramente comandavano, poi l’hanno pagatatroppo cara: ora una moglie vale meno di un trattore.

Eligio ci scherzava sulla mia Signora, ma lui potevadirmi tutto quello che voleva, io non ci badavo, non eramai seccante. E quando mi sgridava al massimo diceva:– Hai preso da tuo padre. – Chissà che cosa.

– Ma sì che glielo dico, sta tranquillo: attenta allaplissettatura. Non la scontenteremo noi la tua Signora.– E ha messo i soldi già incartati in un borsone scuro.Poi si è infilato le due mezze maniche, con mossa rapi-

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Warùi è arrivato d’inverno, in una Lombardia senzalo smalto di una mite sapienza di giardino. Ha guardatosu in cielo, quando è sbucato giù dalla Stazione Centra-le: di allegro, di chiaro, ci ha visto un pallone frenato,verde bianco e arancione nel grigiore di un giorno difebbraio che il sole non riusciva a separare dalla notte,mentre la nebbia saliva dal profondo verso un cielo dialluminio. E ha ricordato le sue madri che piangevano:perché partiva, perché in Italia ci sono i terremoti, c’è lamafia e l’inverno con il sole pallido, gli alberi tristi espogli.

Warùi si è consolato col pensiero che anche il sole,già, proprio il sole, dove più splende fa il deserto. E poisua madre vera aveva fatto un sogno: un uomo in giaccada soldato si allontana nel tramonto, poi la luna bianca.Ne è rimasta triste, perché non è riuscita a dire alla lunanel sogno:

“O luna, il tuo viso gli porti fortuna, quando lontano rivedrai Warùi.”

Perché il destino di chi parte dipende dalla neve incima ai monti della luna, particolarmente il destino diWarùi, che andava in luoghi freddi. Forse anche il mio

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na, ad ogni modo, con riscaldamento, quasi il meglio.Non era ancora l’albero dei marabù, c’era solo Warùidi pelle nera, e si spacciava per americano.

Io non sapevo fare nulla. Ed eccomi a Milano spe-cialista in confezioni per signora. Con un futuro da sti-lista. Sono partito a giugno, quando da noi l’estate fagià tutto secco.

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la saliva che non vuole più bagnare la crosta del suo pa-ne di boscaglia, mentre i pensieri non riescono a salireun po’ più in alto dei disagi di un viaggio senza fine. Epoi quel guardare straniero dei bianchi incomincia ebruciarti la pelle.

Ne aveva viste già tante, Warùi. Era abituato a ripar-tire dall’inizio. Prima seminarista al suo paese, orgoglioe investimento della sua famiglia, poi studente normalein una high school della boscaglia, da ultimo a Nairobi,con la giacca etoniana e i pantaloni a righe strette, gio-cava a cricket come battitore e non sapeva che si stavaallenando a fare l’europeo di un altro tipo.

Poi, nei giorni prima di partire per un posto chechiamano Mlano, suo padre lo guardava molto a lungoe stava zitto, finché un giorno gli ha detto che i Wazun-gu, tutti quanti i bianchi, pensano in modi solo loro: ta-gliano tutto con tagli precisi, quadrati e triangoli esatti,ci godono un sacco. Un modo terribile e bello di mette-re in ordine il mondo: o giusto o sbagliato, o vero o nonvero, o buono o cattivo. Anche Warùi adesso ne parla-va con fascino e timore. Non siete più furbi, nemmenopiù buoni o cattivi, diceva: siete fatti così, non potetepiù essere altrimenti. Ciò che voi non sapete, non vede-te, non sentite, non toccate e non sapete misurare, pervoi non esiste. Ma il più della vita sta altrove, diversa.

Suo padre mischiava i suoi brutti ricordi con questoprogetto del figlio di andare in Europa. Parlando, dasempre suo padre ingannava il timore: e già certi postidell’Asia e d’Europa, Calcutta, Madràs, Birmania, Sou-thampton, Warùi li credeva vicini al villaggio, da picco-lo, perché stava attento alle storie che lui raccontava lasera, fumando sotto la sua zanzariera, trofeo della guer-ra, giallina di fumo e di tempo. Sotto quel tulle, la sera

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destino, dato che ho fatto il primo passo nel Sessanta-nove, proprio il giorno che l’uomo ha messo piede sullaluna, secondo mia madre nell’istante esatto che io sonoriuscito da solo a fare il primo passo sulla terra.

Per questo loro figlio dal piede vagabondo, le madridi Warùi hanno cucito un bel pigiama, come quando èpartito in seminario: allora per pudore, adesso per l’in-verno, però sempre in cotone, con le sue iniziali. E luinella sua attesa del gran giorno, con scherno e suf-ficienza verso il mondo che aveva già deciso di lasciare,vestiva i camicioni più ottimisti con le scritte di univer-sità famose, con gioia anticipata, con orgoglio, come seavesse meriti speciali, quasi non fosse più costretto dallecose e avesse fatto una sua scelta di allegria, come se lainventasse lui l’Europa ricca e popolosa che aspettava,un luogo favoloso, dove ti basta aprire gli occhi attornoe ti diverti. Suo padre gli insegnava a non desideraretroppo certe cose, sennò ci arrivano in ritardo, quandonon ne sentiamo più la voglia: che specialmente in Afri-ca la gente ha desideri sconosciuti, li scopre solo quan-do vede come li sanno soddisfare in altri luoghi.

– E non prendere gusto per il vino, – dice che il pa-dre gli ha gridato, mentre si allontanava carico della va-ligia, già celebrati i riti dell’addio: lo aveva salutato luiper ultimo, con in viso speranze troppo impegnative,con un abbraccio di solenne autorità, dopo aver indos-sato la divisa di gala come ranger del Lake Nakuru Na-tional Park.

A Warùi è sembrato di arrivare in luoghi turbinosi,dopo un viaggio di giorni traballanti, sul mare spiegaz-zato da monsoni alisei e maestrale, per gallerie ferrosesotto i monti, con i denti allegati dalle notti in bianco e

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seria: – Quando sono arrivati, – raccontava il padre, – ibianchi stringevano la Bibbia con due mani, noi la ter-ra; pochi anni dopo i bianchi avevano la terra e noi laBibbia. È la loro magia, così potente che fa crescere isoldi quando dormi. Il nostro dio cammina con le gruc-ce, il dio cristiano in astronave.

Certo che un prete non può propagare il seme dellastirpe che gli passa dentro il corpo. Ma tu vuoi mettere,giù in Africa, vivere in una casa di mattoni, acqua cor-rente, bagno, televisione, generatore di corrente, viag-giare in Honda o in Land Rover, mangiare bene a tavo-la, dormire in un letto tra lenzuola, servito da suorine eda devote, riverito da tutti come Padre. Ma per averetutto questo, mi spiegava Warùi facendo il fondo alParco Lambro, bisogna avere voglie un po’ speciali,chiamata, vocazione. Mentre lui, per esempio, non sen-tiva dolore ai patimenti della Vergine e del Figlio, an-che se si sforzava di commuoversi in ginocchio, fissan-do tutto il dramma in cima al Golgota, dipinto in primopiano sull’altare:

– Holy Mary: Mary, Mery, meri: meri vuol dire navein Kiswahili. Ecco, così mi distraevo, e non riuscivo piùa soffrire con la Madre Dolorosa. – E si è lasciato scivo-lare giù per la scarpata erbosa, rotolando e gridandoavemarie.

Suo padre non è stato mai cristiano. Anche perché,diceva certe volte, vedi come il cristiano sa essere feliceanche quando il fratello lì vicino soffre e si dispera, spe-cialmente se è nero mentre lui è bianco. E una volta si èspinto fino in seminario, ha guardato la messa che Wa-rùi serviva tutto in rosso e bianco, i pizzi della cotta finoai piedi scalzi: – È come una parata militare. Ma ti pia-ce? – gli ha domandato poco dopo. Warùi non ha ri-

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prima di partire lui gli aveva detto: – Ascolta tuo padreseduto sulla stuoia del meriggio della vita. Ascolta: unvecchio vale per quello che è stato, non per quello che è.

Gli ha detto pure, come dirà Warùi nel suo BaringoRap: – La fortuna è bendata, disgrazie e rovine arrivanoa tutti, sia bianchi sia neri. C’è sempre del male sul no-stro cammino e sul nostro star fermi. Ricorda però: akilini mali, il senno è ricchezza.

Lo ha fatto richiamare il giorno dopo: – A un bianconon devi mai lasciar vedere il tuo pene circonciso. – Enon scherzava, perché poi gli ha aggiunto: – Be’, ma allebianche sì, – anzi faceva bene, quantunque a suo padrenon siano mai piaciute queste carni femminili che nonparlano col sole. – E bada che i bianchi s’illudono anco-ra che ciò che ha importanza succede soltanto da loro.

Se lo vedeva andare via senza ritorno: chi vive altrovebeve e mangia cose nuove, rinnova carne e sangue, respi-ra un’aria differente, parla altre lingue, così si fa parentedi altra gente, cibo ed aria comuni fanno comuni il cuoree il cervello: torna a casa ch’è un altro, non trova più i pa-renti di una volta, diversi pure loro in carne sangue esentimenti. Nemmeno lui poteva prevedere che Warùisarebbe ritornato con un calabash pieno di dubbi.

Parlava di suo padre e a me pareva che parlasse dimio nonno. Forse suo padre è meno saggio di mio non-no, diceva Warùi, ma tutti e due sono di quelli chequando ne muore uno è come se bruciasse un’intera bi-blioteca. Ma non è più come una volta, neanche in Afri-ca. Grazie alle biblioteche.

Per suo padre e sua madre e tutti al suo villaggio, sa-rebbe stato meglio se Warùi fosse restato in seminario,anche per imparare la magia dei bianchi, che è una cosa

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io, Babbo Natale? Prima passa alla Upim, ripeteva, allafiera del bianco… così bianco che più bianco non si può,con smorfie e avvitamenti da africano.

Ma il suo destino era segnato: “He shows a real graspof Italian language”, hanno scritto di lui su un registroin seminario, dove si loda pure la sua familiarità colgrande Omero che cantava i tempi quando anche inGrecia c’erano i leoni, e gli eroi che domavano cavalli, edei e dee che girano nel mondo sotto forma di aurora edi rugiada: Dioniso Apollo Venere e le Muse, sotto altrinomi tutta gente già nota tra i Kikuyu, che da costorohanno ascoltato l’armonia del mondo.

Com’è successo a me, anche Warùi l’ha chiamato unamico di suo padre, qui a Milano: uno proprio del Ken-ya, nero di pelle ma italiano, in certo modo. L’ho cono-sciuto anch’io, questo italo-kenyano, con la moglie e lafiglia ch’è un fenomeno. Però non sono neri come glialtri, ce l’hanno quasi scritto sulla fronte: sono neri ita-liani, “neri di guerra” dicono per ridere, o sul serio,chissà. Marito e moglie, lei somala con qualche cosad’italiano, lui figlio di un italiano prigioniero nei campikenyani di Eldoret: nato da una kikuyu che vendeva dinascosto, a quegli strani bianchi, uova di vari uccelli efarina di miglio o di cassava, per certe tagliatelle chemangiavano sognanti. Lui è piccolo e nero, la staturadel padre, la tinta della madre: ma quando morirà, ripe-te lui, salirà in cielo con queste sue caratteristiche a ro-vescio: alto e biondo e con gli occhi azzurro cielo, comesua figlia Sandra, solo uno spruzzo di catrame sulla pel-le, bionda crespa, insomma uno schianto, Sandra Sere-nelli: – Signore e signori, ecco a voi la nera più biancadel mondo col bianco più nero del mondo, – diceva

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sposto: – Se non ci provi gusto, torna a casa: un uomodeve fare quello che gli piace. Chi non è figlio del pre-sente è schiavo del futuro.

Se non lo sa già, quando arriva tra i bianchi un neroimpara subito che non è nato a questo mondo per go-dere. Doveva sopravvivere a Milano. Era un foglio in-colore, disponibile e pronto a ogni scrittura. Bisognavaimparare l’italiano: come si possono vedere cose nuove,stare con loro e farne l’uso giusto, senza saperne il no-me, parlarne come gli altri? Ha smesso subito il falsettoconcitato di africano, per parlare di petto in toni bassi:gli ritornava solo a tratti, se preso alla sprovvista. Oltrea radio ascaro di bocca in bocca, ascoltava la radio e latelevisione attento alla lingua, meno alla borsa che di-scende, all’inflazione che sale coi morti di droga, l’ac-qua alta a Venezia, i sieropositivi, il montepremi al toto-calcio, gli incidenti stradali, il buco nell’ozono e il tassomedio di colesterolo.

Ci hanno pensato anche le ragazze del laboratorio afargli da maestre: – Quel baco del calo del malo, quel bo-co del colo del molo… Forza, continua tu.

La Signora ha tolto fuori le ciribiciaccole di Chiara-valle. Warùi non si negava, s’inceppava e tutti a ridere.Warùi sapeva un po’ d’italiano: a scuola, in seminario, ipadri della Consolata gli facevano leggere gli scritti initaliano di don Allamano, ai più svegli Dante, Manzonie Leopardi, e già diceva frasi come: Lasciate ogni spe-ranza voi ch’entrate. Come parli, frate? Passero solitarioalla campagna, a parte Domenico Modugno che conti-nuava a volare anche da loro nel blu dipinto di blu.

Non sapeva niente di cose come le crociate, di Or-lando e di Goffredo di Buglione. Imparava E chi sono

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Quando non c’era ancora Warùi, riuscivo a fare co-lazione con Eligio, se aveva il turno giusto, prima delleotto, l’ora di entrare alla Lucetta Confezioni, sull’altrolato della via Leoncavallo. A Eligio invidiavo il suo la-voro di tranviere.

– Qui a Milano, se i tranvieri si fermano, la città cadegiù in ginocchio, – si vantava Eligio, e pareva più gran-de nella sua divisa. Esagerava, sulla potenza dei tranvie-ri di Milano. Certo che un tempo avevano anche spaccia prezzi bassi, circoli, posti belli per ferie, asili e scuolee luoghi di ritrovo. Io però gli invidiavo le assicurazio-ni, le sue previdenze, vecchiaia e malattia: tutte coseche noi con le agnelline ce le sognavamo, sul lato oppo-sto di via Leoncavallo a tagliare e cucire Intimo Donna.

Ho riso spaventato quando Eligio mi ha detto il miomestiere: che mi dovevo dire fortunato, ed era pure ve-ro, il giorno stesso dell’arrivo, ansioso di domande, inPiazza Duomo con la Giuseppina, dentro la folla deipiccioni crepitanti come raffiche di fuochi d’artificio.Com’erano amichevoli e mansueti quei piccioni, pren-devano il mangiare dalle mani, diversi dalle tortore no-strane paurose (ma un giorno una di loro si è arrischiataa beccare la farina mentre mamma la stava lavorandoper un dolce nel cortile, e poi distratta nel beccare le è

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sempre il padre mettendoci vicino. Non riuscivo a ri-derne. E subito Warùi le è morto dietro, a modo suo,che non sembra impegnarsi e aspettare come il ragno lapreda. Ma Sandra Serenelli aveva fidanzati milanesi dabuttare. E poi Warùi sapeva che il Serenelli non glielaavrebbe data mai, sua figlia, neppure con lobòla di tre-mila vacche, o di un miliardo in soldi nostri: per una fi-glia che non sa più cos’è, questa lobòla.

Serenelli non smette mai di dire che hanno lasciatostrade e figli misti, quei mille e mille italiani prigionieridegli inglesi, presi in Somalia e in Etiopia. Il padre ita-liano è riuscito a trovarlo al suo villaggio, quando già lasua foto era ingiallita e accartocciata dentro la capannadi sua madre, tra gli aromi d’incenso e i fasci di erbebuone. E quando raccontava usava sempre il verbo ri-vedersi, per suo padre, perché fino allora la sua penaera stata il non avere un padre vero, cosa mai capitata aun kikuyu genuino. La madre lo portava sulla grandestrada nuova e gli diceva: – Questa strada è tuo padreche l’ha fatta. – Suo padre era una strada, così è finitoche al villaggio lo chiamavano il Figlio della Strada.Trovato il padre, nella sua testa tutto è andato a posto.E il padre l’ha portato in Lombardia, più di trent’annifa, gli ha dato il suo cognome, Serenelli. Negli anni pas-sati sono stati molto meglio, qui in Italia, quando eranopiù rari come neri, ricordi di Abissinia o di Somalia.Hanno tabaccheria in via Vitruvio. La figlia è un’e-stetista. Volevano bene prima a neri come loro, come asoprammobili carini. Mentre adesso, colpa degli africa-ni, troppi tutti assieme, compreso Warùi.

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tro: tutto il mondo è paese. Un popolo che ha distilla-to questa roba non può essere che grande, anzi il piùgrande, mi diceva, e voi non lo sapete: sembrano con-traddirsi i due proverbi, e invece dicono la verità senzaforzarla, mica come certi filosofi wazungu, cioè nostra-ni, bianchi, che sono dei violenti senza eserciti e perciòs’impadroniscono del mondo costringendolo in ordinimentali.

– Sabato Giuseppina compie gli anni, – dice Eligiomentre io già scappo al mio lavoro.

– Cento di questi giorni. Quanti sono?– Venti, belli tondi. – Allora sì che sabato ci andiamo tutti al divertimen-

tificio, – dico io, – così lo festeggiamo, questo com-pleanno. – Lui chiama così una discoteca. E non ci èmai entrato. Io gli ho chiesto solenne di lasciarmi por-tare Giuseppina, con un rispetto antico per i padri, per-ché gli fa piacere.

– Quella non sa ballare, – si è schermito lui. Io sape-vo però quanto pensava Eligio alla felicità di Giuseppi-na, e poi che la pensava insieme con la mia, anche perconsolarsi dell’età quando la notte serve solo per dor-mire.

– Giuseppina se balla balla bene, – dico io. – Ce n’è di meglio per ballare, non per studiare e la-

vorare. – Questo è vero. Ma il lavoro che fa per la Lucetta

Confezioni, adesso, be’, non è il più allegro. Se ne statroppo chiusa in casa vostra.

– Io sì che vorrei stare chiuso in casa… Guardo l’orologio, fingo fretta: se parte con la lagna

sopra i mali del lavoro di tranviere, stiamo freschi. Mica

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salita sulla mano, lei l’ha sollevata, mi voleva chiamarema è restata zitta, per non spaventarla, tutta meravigliae voglia di farmela vedere).

– Hallo! – mi ha fatto Giuseppina. Io mi volto e leipreme lo scatto per la foto di me con tre piccioni sullamano: – Grazie!

– Questa poi la mandiamo a casa tua, – mi dice Eli-gio. Già, dentro la prima lettera, con la notizia di quelmio lavoro di cucito, bell’erede di nonna Castragalli.

Me l’ha ricordata proprio lui, Eligio Zara, lì in piaz-za tra i piccioni: nonna Castragalli, che sanava i cappo-ni ed altre bestie maschie del paese. Dal modo di te-nersi dei suoi galli molti tiravano gli auspici e ci legge-vano il destino. Con un filo di seta e l’ago piccolo, contatto e con sapienza, era maestra a ricucire tutto quan-to, a cose fatte. E non è facile tenere immobile un belgallo, durante quell’operazione: è come con la taglieri-na, l’attrezzo principale per il taglio, ci vogliono i se-greti del mestiere, i galli ne potevano morire, chissàcon che presagi.

Era più buona la mia colazione con Eligio. Ci spar-tivamo cibo e complimenti, alla maniera antica, e lui disolito mi offriva il caffè dall’automatico: – Sul bocconespartito, l’angelo si siede, – mi diceva, come Warùi co-stante nei proverbi: perché sono comodi i proverbi, so-no lì belli e pronti, tu li dici, fai la tua figura e metti aposto un po’ di mondo. E Warùi ci marciava, con isuoi. Perché eravamo in gara di proverbi, sardi e italia-ni contro i suoi kikuyu e swahili; ed è da lì ch’è nato ilsuo Baringo Rap, cocktail ben shakerato di proverbiesotici ed antichi. Warùi ha meditato a lungo su dueproverbi nostri: paese che vai, usanza che trovi, e l’al-

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abbiamo scambiato frulli e coccole, dopo ragionamentisul futuro, senza calcare sul presente, quello mio, piùdisastrato. Poi Giuseppina ha raccolto papaveri per icapelli, “rossi come papaveri”, e cantava in silenzio trasè e sè.

Le volte successive, proprio niente, non dicevamoniente. Era più forte di ogni altra sensazione, questa dinon poter più dire nulla, e di restare insieme silenziosiper il resto della vita. O è lei che non mi vuole, mi chie-devo, perché sono precario? O non sarà che io sono ri-masto indietro in queste cose? Non riesco a farle nasce-re qualcosa che mi venga incontro.

Ma intanto, quando una donna mi piaceva, non mifaceva mai pensare alla sistemazione nella vita, anzi,tanto più mi piaceva quanto meno mi faceva pensare al-la sistemazione nella vita.

Adesso lo so anch’io che quei silenzi di mio padre edi mia madre, dopo cena, erano i momenti di più gran-de comunione: non il silenzio freddo che pareva a me,ma un modo tutto loro per ridirsi cose che non chiedo-no parole.

E Giuseppina poi è morta, più di un anno fa. Il tem-po è lungo e breve a suo piacere. Adesso è al cimitero diLambrate, questa città dei morti tutta fiori secchi emarmi freddi, dici il nome del morto, ti dicono due nu-meri, del campo e della tomba.

Messa sotto da un’auto, mi hanno detto, e poi pergiorni stesa sopra un letto con i tubi. Ha dato le sue cor-nee per un cieco, dunque sta sotto terra con due buchinelle occhiaie. E quando a Eligio ho domandato se hasofferto, lui non ha risposto. E ho avuto quello stupido

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potevo continuare a lamentarmi di rimessa anch’io, delmio lavoro: me l’aveva trovato proprio lui. – Be’, ci ve-diamo. Avvisa Giuseppina delle cuffie.

Giuseppina. Doveva interessarmi, era quasi un do-vere, ma non è facile capire: mi faceva pensare alla si-stemazione nella vita, come dice mia madre quandoparla di ragazze. Era già tempo di pensare a sistemarminella vita?

La Giuseppina era bellina. Era come si deve, con gliocchi di gazzella, a credere a Warùi. Non mi sembravaneanche milanese, forse perché ogni cosa scivolava allafine sulla sua umiltà sempre ostinata e sorridente.

A me faceva questo strano effetto: quando stavo conlei, e specialmente a casa sua, ma pure in altri posti, dasoli io e lei, mi ritornava in mente quel silenzio lungo diogni sera, dopo cena, di mio padre e mia madre sedutipresso il fuoco. Un silenzio pesante: per me bambinoera soltanto una mancanza di parole da scambiarsi, quelsilenzio serale, dopo cena, presso i resti del fuoco. Inter-minabile. Era lo stesso con la Giuseppina, forse peggio.Io la vedevo come si faceva triste se ero allegro per moti-vi che lei non conosceva: un poco di allegria, sembravadire in quei momenti, vorrei che ti venisse anche da me.

Solo la prima volta, ero da loro a pranzo, mentre incucina preparava i gamberi, gamberi vivi, li metteva inun grosso recipiente, pescava con le mani quelli che sidavano per morti, i più paurosi, li gettava nell’acqua giàbollente, lei parlava e parlava e mi diceva:

– Tu non guardare se ti fa impressione, se no poi nonli mangi. To’, vedi come si tingono di rosso: rossi comegamberi, diciamo qui a Milano.

E dopo pranzo siamo andati a spasso, in camporella,

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Lucetta Confezioni sta di fronte al deposito ATM, invia Leoncavallo, a ventiquattro passi di distanza. Ungiorno forse sembreranno più lontani, senza più con-tatto, con uno degli scherzi del tempo, che nel ricordoaccorcia e allunga anche lo spazio. Nella memoria nien-te rimane al suo posto, se in così poco tempo anche Wa-rùi si cambia nel ricordo. Oggi il Deposito ATM e laLucetta Confezioni li sento vicini da confondersi, fan-no una cosa sola, non li separa la larghezza della viaLeoncavallo, mentre le donne dei tranvieri prendonolavoro a domicilio da Lucetta Confezioni. Certo menodi prima, quando di marocchini non ce n’era.

La mia Milano sta quasi tutta qui. Ma i pochi passitra il portone sempre spalancato del deposito ATM e ilportoncino sempre chiuso di Lucetta Confezioni co-prono una distanza molto grande, quanto quella chesepara l’ATM con migliaia di impiegati dal mio labora-torio di cinquanta ragazzine casiniste.

Superato il portone, quel giorno di gennaio, miaspettavo il profumo un po’ stantio dell’albero già vec-chio di Natale, lì nel corridoio, ma un odore di stoffa li-berata dalla carta da imballaggio subito mi ha detto chec’era l’Avvoltoio, tornato al nido dopo scorrerie.

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pensiero: la morte le è servita a liberarsi delle cuffie ro-gnose da finire, della plissettatura elastica difficile, po-vera Giuseppina.

E poi neppure un fiore alla sua fine, da me, mentrequando era ancora viva, per lei solo silenzio. Così mi èparso, dopo. Come la sera insieme al Palalido, per sen-tire cantare la Makeba, con Warùi e l’intera famigliadell’italo-kenyano Serenelli. Mi aveva messo lei il suofazzoletto nel taschino della giacca buona, le coccheaperte come una magnolia. E quando Miriam Makebaha incominciato quel Malaika! Nakupenda malaika,mentre Warùi ci traduceva le parole e tratteneva tra lesue la mano della Sandra Serenelli:

“Angelo! Angelo mio ti amo, Voglio sposarti e sono senza un soldo: Sono la mia rovina, questi soldi, E io ne ho il cuore a pezzi”

e ci spiegava che quello è un canto di emigranti neriche scendono a scavare diamanti nel Sudafrica, la Giu-seppina mi ha posato adagio la mano sulla mia, ma iomi sono liberato molto presto, ho fatto finta che la ma-no mi serviva per accendere la sigaretta. Anche se nonl’ho accesa perché subito lei mi ha ricordato che là den-tro fumare era vietato.

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Ma le voci arrivavano dal mio stanzino, il posto dellataglierina, laggiù in fondo: era là che qualcosa non an-dava.

Fuori dal bagno ho visto la Floriana: – Bada a te, –diceva la sua faccia, ma con la voce ha fatto il solito sa-luto: – Ciao, Gallo Bruno! – Warùi era Gallo Nero.

Ma l’Avvoltoio allora sta per fare una picchiata su dime? Dal chiuso delle agnelle non giungeva un fiato:

– E chi mai ride o scherza, quando simba ruggisce? –proverbiava Warùi nei casi come questo

E di rimando io: – Grido di volpe ammutolisce ilgregge.

Mi faccio avanti verso lo stanzino, voglio capire intempo qual è il guaio, cosa li fa strillare tutt’e due, mari-to e moglie.

– E quante volte te lo devo dire che la taglierina ognisera si stacca dalla presa, eh, diocarpi? – gridava l’Av-voltoio: – Non voglio più ripeterlo, diocarpi. – Era diCarpi, l’Avvoltoio, e questo del diocarpi era la formameno dura di bestemmia, se non era arrabbiato per dav-vero. Era solo un’arrabbiatura da diocarpi, meno male:– Tu vuoi che se ne vada tutto in vacca, no, qui dentro?Com’è successo l’anno scorso in Viale Monza?

Già, temeva il fuoco più di tutto al mondo: non eraassicurato contro i guai del fuoco. Non erano il suo for-te, le assicurazioni. Di tutti i dipendenti, solo poche ita-liane erano in regola, ma solo loro, e gli facevano daparafulmine per gli altri, in caso d’infortunio special-mente. Per chi veniva e se ne andava, tre mesi, un mese,poi vediamo, chissà che coperture si trovava: in esube-ro e in CIG, si diceva che erano: ce ne ho messo di tem-po per comprendere l’esubero, che mi sembrava un al-bero, forse di sughero, a Warùi invece un nome di li-

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Ogni tanto arrivava la mattina, prima di tutti quanti:sfoggiava diligenze da padrone, dava disposizioni chepoteva risparmiarsi, perché tanto bastava la Signora, osennò la Floriana. Le aveva già scartate proprio lui, sta-volta, due grandi pezze nuove di acetato: l’odore noninganna. Eccoci qua, quest’oggi c’è il lavoro più temu-to, pelle elettrica.

Ero in anticipo, ma con nessuna voglia di finirgli trale grinfie, all’Avvoltoio, nello stanzino della taglierina.Mi sono riparato dentro il bagno, anche per fare un po’di cose che alla mia pensione non mi erano riuscite perla fretta. Avrei potuto farle prima nel deposito ATM,ma non volevo far capire a Eligio quanto si stava sco-modi a Brugherio, in casa della vecchia e del Carlino,perché anche quella è una sistemazione che ha trovatolui, quando non c’erano africani: solo Warùi che sispacciava per dottore, tanto un poco lo era, voleva di-ventarlo.

La voce stridula dell’Avvoltoio mi arrivava fino albagno: non era bella da sentire. Che cosa non gli anda-va? Sembrava una protesta lamentosa. Oggi cominciamale: pelle elettrica e Vulture già in caccia. Sentivo en-trare le ragazze, a una, a due, e ammutolire dopo un’oc-chiata di un’amica che avvertiva del pericolo:

– C’è lo Scompiglio, – e andavano compunte al loroposto, dentro lo stanzone, al chiuso delle agnelle, messiin riga galosce e stivaletti sotto i capi appesi alla sinistradell’ingresso.

La voce ferma della Signora ha cominciato anch’es-sa a sollevarsi in un bisticcio col Marito: lo chiamavaBolgiani, col cognome. Lite in famiglia? Stai attento, al-la larga: dove combattono elefanti tutto quanto all’in-torno vola in aria. Lo sa bene Warùi.

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di chiocciare, imbesuito. Lui ci veniva poco, è naturale,con il telefonino cellulare sistemato con discreto mime-tismo, come un agente segreto, non come lo portaval’Avvoltoio, sceriffo con pistola. Anzi era pure stranoche trovasse il tempo di venire alla Lucetta Confezioniproprio il Falco, da lassù dove ogni agnellina sognavadi arrivare per sfilare da modella. Ma non c’è animalet-to sulla terra che non sappia che il falco sta volando,sempre da qualche parte, vigilante e altissimo nel cieloruota sulla preda, invisibile, si butta come folgore, rag-gio di sole, turbine, è già qui.

Lo temevamo tutti l’Avvoltoio, forse anche la Signo-ra: cinquanta e più paure accumulate su di lui. Lo teme-vo anch’io? Un giorno io, passando per la via Leonca-vallo, me lo son visto rispecchiato in barbieria, oltreuna porta a vetri, all’improvviso, e il suo barbiere lo te-neva per il naso: l’Avvoltoio in un luogo qualunque pergente normale. Anche lui, ho pensato, ha bisogno deglialtri, per farsi aggiustare il riporto sul cranio pelato.

Faceva incursioni e improvvise, il Marito: Scompi-glio, così anche lo chiamavano tutte, in segreto, e in pa-recchi altri modi. Io e warùi lo chiamavamo l’Avvol-toio: – Vàlcia, – brontolava Warùi, – Vàlciurain Vàlcia!

Parole che ho capito solo quando me le ha scritte:Vulture, Vulturine Vulture, e ha incassato la testa nellespalle, sbattacchiando le braccia come ali: – Avvoltoio,Avvoltoio Rapace. – Chiaro, mica come la volta cheparlava di cicale, quando Warùi mi ha chiesto se da noici sono le cicale. Certo, ci sono e si fanno anche sentire,quando il sole è più forte, sono la voce della calura me-ridiana. Volano in mare e in terra, vuol sapere, bianche,le grandi ali larghe? Chi, le cicale? Ce n’è voluto per ca-

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gnaggio, di tribù; la tribù degli esuberi, tutta finita inCIG, Cassa Integrazione Guadagni, che mandava ledonne alla Lucetta Confezioni. E la Signora, per tener-ci buoni: – Siamo d’accordo, no? Perché i soldi deglioneri sociali e cose simili, forse che non è meglio darlisubito in contanti a chi lavora, e non ai grandi ladri giùdi Roma?

– E mùchela, va’ là, – dice la Signora, – ’dess basta,no? – Quel giorno lui però non la mucava: – E piantala,pistola, che qui ci sono già le lavoranti.

– Sei te che me la pianti, ve’! Perché sei te che l’hailasciata ficcata nella presa, ieri sera.

– E se poi anche fosse? Io, ieri sera, ero qui a lavora-re, dopo la giornata, e te fuori a puttane come sempre.

Mi è corso un brivido da cento pezze di acetato, dalcervello alla punta delle scarpe. Niente di nuovo, certo,ma sembrava tutto troppo uguale a quella brutta sera diWarùi.

– Tel chi il Sardegna, – mi fa l’Avvoltoio, quando mivede comparire: – Se non ci pensi te alla taglierina, nonci pensa nessuno, sai, qui dentro, con tutte queste pirledi donnette. Tu ne sei responsabile, diocarpi.

– L’occhio del padrone ingrassa il cavallo, – dice laSignora. Lo diceva sempre. E lo metteva in pratica. Maè il cavallo al lavoro che ingrassa il suo padrone, critica-va Warùi nel localino per il taglio. E non ingrassa solo ilsuo padrone, ma pure chi sta sopra il suo padrone.

Perché il vero padrone di tutta la baracca non eral’Avvoltoio, lui era il socio piccolo, socio maggiore era ilpadrone della griffa, lo stilista famoso: non avvoltoio,falco.

Quando arrivava il Falco, tutto il pollaio la smetteva

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sieme coi suoi simili a dormire. L’albero dei marabù:così Warùi chiamava la pensione di Brugherio, ancheperché così se la sentiva familiare, riposante, con gli al-tri marabù che vivono furtivi dei resti del villaggio mila-nese.

Dell’avvoltoio solitario il Marito aveva il viso e labarbetta, un naso prepotente, proprio a becco, una cra-pa pelata e un collo lungo e mobile, che ogni tanto infos-sava nelle spalle ed aumentava i cuscinetti di grasso nel-la nuca, gli occhi chiari, sempre acquosi, senza centro.Certe volte ansimava pure da seduto. Del vulture nor-male, quando brontolava, aveva il gorgoglio che vienefuori dalla strozza, se ha capito che c’è intorno una caro-gna. Nella voce chissà se c’era somiglianza: mai sentitada noi quella dell’avvoltoio degli agnelli.

In Africa Warùi l’ha visto in caccia, grande avvoltoiosolitario, sopra la boscaglia, da bambino, un giorno digran vento: è piombato improvviso e si è portato via nelvento e nelle nuvole il suo cucciolo, regalo di suo padre.Ricorda ancora i gridi disperati del cagnetto: o forseerano strilli di sorpresa e meraviglia, perché quel suocagnetto amava fare sempre certi salti indiavolati, cosìalti da non credersi, a sproposito, sempre e dovunque,però con eleganza da gazzella. Si chiamava Ranocchio.Warùi mi raccontava come impazziva di entusiasmoquando lo fiutava, gli diceva la voglia di carezze coi suoisalti da non credere, con la lingua fuori, con l’ansia nelrespiro e poi sbavava di gioia e di piacere. E come ab-baiava all’indiano Farishta sulla porta della duka, per-ché ne aveva già capito il suo disprezzo musulmano peri cani.

Meritava di meglio come nome, il suo Ranocchio,perché stava elevando ad arte vera la sua voglia di ac-

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pire che le sue cicale non erano cicale, ma sigalls, seagulls, gabbiani che cavalcano le onde, uccelli delle no-stre nostalgie.

Il Bolgiani però, no, lui il Bolgiani da subito lo ha vi-sto come un avvoltoio, un vulture, come uno che da lo-ro, in Africa, rubava agnelle vive, si era preso il vizio.Assomigliava al nostro, il Bolgiani Avvoltoio delleagnelle del laboratorio, rapace e inaspettato come quel-lo di boscaglia.

L’Avvoltoio alle volte mi faceva un suo discorso. Eroall’inizio, non capivo molto: – Tu sei come si deve, – in-cominciava, – tu sei fatto all’antica, come me, non sei diqueste mezze seghe che ci crescono qui intorno. – In-somma, mi vedeva avvoltoio messo in prova, anchequando non ero il solo gallo nel pollaio. E qualche voltami trattava con cordialità da vecchio zio: secondo luidovevo fargli da aiutante, un alleato, Avvoltoio in se-conda, giocare di furbizia e faccia tosta.

– Tu dàgli retta, – consigliava Eligio, – farà la tua for-tuna. – Certe accontentature, mi spiegava, si devonsempre dare ad un padrone, a un capo, dappertutto.Okay, tanto per stare un poco in pace, certo, diamoglipure retta. Io qui lavoro e basta. Però non ci farò carrie-ra, io, da mezza sega meno che all’antica.

No, non avevo niente, io, dell’Avvoltoio Solitario, ea illudermi di farlo non sentivo crescermi di peso: an-che se quello è come un aquilotto, lonely vulture nel-l’inglese di Warùi, rapido e coraggioso, senza scrupoli,che un capretto lo porta via buttandosi in picchiata,sotto gli occhi del capro e del pastore. No, io davvero aMilano certe volte mi sentivo apprendista marabù,sempre tra i piedi delle donne del villaggio, in cerca dirifiuti e di cascami: poi di sera si mette su un’acacia, in-

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Lite in famiglia dunque stamattina. Io lì zitto in dis-parte: se non ti vuoi bagnare scappa dalla pioggia, dice-va Warùi che qui però ci si è bagnato, fradicio, ed è tor-nato in Africa scappando via dall’Avvoltoio.

L’Avvoltoio si sfogava a mettere altrimenti tuttoquanto la Signora aveva appena sistemato, tanto per farvedere che qui comanda lui, chiaro?

Ma cosa aveva tanto da gridare contro la Signora?Già, si era dimenticata di staccare dalla presa il nostroattrezzo per tagliare: tutto lì. E io che la speravo andatain vacca, la mia taglierina, per essere mandato in offici-na a farla riparare, insomma a fare altro per quel giorno.

Si sfoghino tra loro, così non badano al cavallo: lon-tano dal padrone ingrassa meglio. Fate e disfate, deci-dete voi, fate sporta e corbello, dico io; tosatevi la capraed il caprone, direbbe anche Warùi. Io zitto e mosca. Eperché poi parlare, mettermi dalla parte della moglie,per non dire dell’altro, del Marito? Lui sempre conquell’aria, come a voler dire, e lo diceva, che il Falco sì,poteva anche permettersi il lusso di essere gentile, malui no, lui la Lucetta Confezioni mica la teneva per es-sere gentile: la teneva per farci lavorare, per il bene ditutti, specialmente il nostro. La sua voce scendeva nelsilenzio generale, ci lasciava il segno, scolpita nel grani-

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chiappare al volo le farfalle che gli impolveravano la fac-cia di colori vividi, come di raso fine, e poi perché balza-to su a morire in volo, facendo il più gran balzo della suacarriera breve di cagnetto africano saltatore. Warùi l’a-vrebbe ucciso mille volte, il gran rapace, vulture vulturi-no, quella giornata di gran vento là in boscaglia, e l’harincorso invano, da terra per un pezzo, mentre il ladrovolava verso nuvole color cannella, e suo padre ridevaripiegato sul vincastro d’ebano mau-mau.

Warùi forse per questo non capiva certe cose: adessol’avvoltoio solitario laggiù in Africa è protetto comespecie, bisogna rispettarlo, anche amarlo, dicono, e neportano nuovi dov’è raro: lo insegnano ai bambini nellescuole, insieme all’odio per i bracconieri dell’avorio edel miracoloso corno del rinoceronte. Di tutto il restodel creato certamente sì, però dell’avvoltoio solitario luinon si sentiva protettore: anzi, prima abbandona cielo eterra e meglio è, come i pidocchi, le zanzare malariche,il germe della lebbra e il virus dell’AIDS. Che ne riman-ga al massimo qualcuno, sotto spirito, impagliato, comequello solenne che tenevano in salotto i buoni Padri del-la Consolata, nel vecchio seminario di Nyeri.

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Si è guardato il suo pubblico, che gli fingeva scanda-lo e rossore. Ma la Signora, che quando finalmente suomarito se ne andava certe volte la sentivi sospirare disollievo (Ah, che slargament de coer), la Signora gli hafatto le boccacce, con un gesto così, come per dire cheil Marito oramai per certe cose era buono soltanto acanticchiarle. E questo non è esatto, perché un giornoWarùi lo ha visto in bagno abbrancato a qualcuna chenon ha veduto, coi pantaloni avvolti alle caviglie, e hapensato che anche quella forse era un’usanza strana deiWazungu.

Marito e moglie adesso stanno bisticciando ancheper altro. Per Warùi che non c’è, mi pare. Ed eccolo dame, con una faccia di pane mal cotto: – Non me la con-ta giusta il tuo collega, l’ascaro, il Mau Mau, – dice sof-fiando il naso con venuzze rosse: – Perché non è venutostamattina? Che cos’ha?

– Un polso gli fa male, – dico, – il destro, il polso del-la taglierina. – Con la Signora eravamo d’accordo dinon dirgli che voleva stare via tutto il giorno anche perfesteggiare il compleanno. Ed era vero che il polso de-stro gli faceva male.

– Dài, ma che polso e polso! E dire che lo teniamo inpalmo di mano noi qui il nostro nero, – dice lui toglien-do il cellulare dal foderino al fianco come uno sceriffola pistola.

E riecco la Signora che dietro di lui mi fa l’occhioli-no e un bel sorriso. Mi viene in mente una frase di Wa-rùi: non è mai senza colpe la bellezza. Avrei potuto dir-gliela, metterle in mano questa rosa con la spina.

– Basta, tutti al lavoro – sta gridando l’Avvoltoio:– Sono passate già le otto.

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to, e se gli assensi erano troppi, troncava con un – bravibravi, ’dèss però basta. – Ma se qualcosa non andava amodo suo, come arruffava il suo piumaggio e ci lancia-va la terribile minaccia: – Ah, ma quest’anno sì che lasaltiamo la Cena Aziendale. Non meritate mica nientequi voialtri.

Dunque perché intromettersi, parlare? Era il tuonoe la folgore, quando parlava lui, anche se poi là dentrola vera opinion maker era la Signora.

E se parlavo io, cos’ero? Ero una lampadina polvero-sa, accesa in una stanza piena già di sole, misera, nonserve, nessuno può notarla, e se la nota subito la spegne.

Questo era l’Avvoltoio delle agnelle, delle caprettein gregge nel recinto. Quando veniva lui in laboratorio,dovunque si cacciasse, ne sentivamo gli occhi sulla nu-ca. Faceva il duro, per principio: mai che gli andassebene qualche cosa. Forse se la studiava nello specchioquella faccia, prima di farcela vedere. Quasi sempre.Perché alle volte si mostrava allegro, sia pure a modosuo, generalmente se arrivava una ragazza nuova. E po-teva perfino cantare, da tenore, con quella stessa vocedel Carlino ubriaco alla pensione di Brugherio. Comela volta che ha intonato:

La donna immobile Sul letto stava,Col dito mignoloSe la grattava.Entra il marito,Che sul più belloNe toglie il dito Mette l’u…

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sulla tinta rosa carne di un bel raso, e confrontava i tonirosa delle carni sue con quelle di Warùi sotto le unghiedelle dita lunghe. Le ragazze di là si sono ammutolite.

– O Signur, el par un burdòc, – ha detto lei la primavolta che l’ha visto, e le ragazze lo guardavano con lostupore delle pecore nel gregge, meravigliate per un ca-ne nuovo finito là per caso in mezzo a loro. Però poi laSignora gli ha fatto il primo di quei suoi sorrisi: – Be’, sì,ma un bel burdòc, – ha precisato: – sembra quel fusto,no?, come si chiama, quello che lavorava in Indovinachi viene a cena? – dice al Marito.

Warùi l’aveva già capito che burdòc voleva dire qual-che bestia tipo scarafaggio, bello nero. L’Avvoltoio in-vece, secondo lui perché tanto Warùi non lo capiva,con un sorriso sotto i baffi da sergente scozzese un po’carogna, si rivolge alla moglie il giorno che lo ha vistoarrivare per la prima volta, e teneva un giornale sotto ilbraccio: – Diglielo te che noi qui ne abbiamo già abba-stanza carta igienica.

Warùi mi ha mormorato in un orecchio: – Io glispacco la faccia a quello lì. – Ed è stato profeta. Perònon ci faceva mica tanto caso, lui. Come quando un’al-tra volta l’Avvoltoio ha chiesto, fingendosi inquieto: –Ma non sarà che a volte il nero stinge in questo rasochiaro?

E non faceva caso a quell’altra fesseria che ripetevaspesso, l’Avvoltoio: – Ci abbiamo un nero, adesso, malavora bene.

L’Avvoltoio credeva di leggergli in faccia un disap-punto che non c’era, quando lui gli diceva queste cose:– Perchè ti accendi tanto? – gli chiedeva.

– E chi si accende? – diceva a me Warùi, però a me

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Però nessuno aveva atteso la voce del padrone permettersi al lavoro al proprio posto. Neanche io. Nean-che la Signora.

Donna bella, la Signora, grande, bionda, sbrigativa.Aveva la sua età, ma le sfiorivano più tardi che alle altre lerose della giovinezza. Mi piaceva trovarmela intorno sullavoro, coi suoi gesti saggi, con quei lampi negli occhi.

Quando lei m’insegnava l’uso della taglierina, e iorubavo l’arte coi miei occhi, tutto sbilenco come l’anal-fabeta a scrivere la firma, o quando mi mostrava comesi usano i cartamodelli, lei non faceva complimenti: misospingeva con un colpo d’anca, mi si appoggiava ad-dosso con quel seno (“ahi, le Colline di Ngong”, so-spirava Warùi), mi parlava a due dita dalla faccia e a memancava il fiato, non capivo più niente delle sue lezio-ni: – Vedi, questo è un bel raso beige, questo è un avo-rio antico, questo è bianco mattino.

Io sentivo le onde che venivano a investirmi, un al-tro campo elettrico potente, da starsene alla larga.

Ma non potevo starmene alla larga. Facile schivare ipericoli più grandi, ma non quelli normali di ogni gior-no. Tra di noi certe volte si formava un silenzio cosìgrande che subito ci affrettavamo a frantumarlo. Lei cigiocava, fingeva che io avessi il potere di impaurirla, im-pressionarla, e dopo di rassicurarla. Come giocava be-ne: mandava certe occhiate da bruciarmi, almeno fino aquando non doveva accendere la taglierina e tendere ledita a quella lama. I fuochi poi si spengono da soli.

E un giorno che faceva ancora la maestra di tagliocon Warùi, gli ha mollato un cazzotto, poi un altro e unaltro ancora, tutti sonori e ben dosati, per richiamarlo auna più vigile coscienza delle cose, mentre scherzava

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tremendo quella prima notte, e le altre pure, però laprima è la peggiore: lui ti dice magari non temere, nonti farà male, basta che stiamo attenti, e poi però gliprende quella furia e mal caduco, e noi giù sotto a sop-portare, finché di colpo pùffete, si sgonfiano sul puntoche incominci a pensare che non è poi mica tanto male.

O quando invece fanno fiasco, anche questo succe-de, eccome se succede, allora guai a farsi accorgere chenoi ci siamo accorte: non c’è niente che offenda mag-giormente il tuo maschietto. Sono fatti così, ci tocca fin-gere, dobbiamo sopportare gli assalti e le cilecche.

Dopo che Simonetta se n’è andata, forse a far la vita,proprio finita male, la portava ad esempio, molto spes-so, e concludeva: – Quando una donna apre le gambeper denaro, dopo la prima volta… non ne esce più: ba-sta, finito, – e si dava i colpetti di striscio sulle mani.

Ed è così che la Signora - ma questo non l’ha dettoquella volta, non alle ragazze dentro lo stanzone - lo di-ceva in segreto ad un’amica, lì nello stanzino, e in quelmomento arrivo io, così la sento lamentarsi di tutte lesue notti a gambe aperte, disperatamente pensando aun altro uomo. Ahi, cosa si dicono le donne. Mi spa-ventavo delle donne, io, mi veniva un magone. Ma poimi consolavo almeno di una certa gelosia: l’AvvoltoioBolgiani non usciva niente bene da questa gran filoso-fia cavata da vent’anni di esperienza coniugale.

– All’età vostra, – ci ha detto un giorno la Signora atutti e due, – un uomo deve mettere ai mariti più cornache può, così più tardi, quando tocca a lui uomo sposa-to, perché la tocca a tutti, non crediate, le sue corna lesopporta più sereno.

E Warùi le ha risposto che però lei non doveva limi-

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solo, e mi spiegava che se fosse stato vero, si sarebbesciolto di rabbia in una settimana, perché lui è lungo,altrimenti in un giorno, lì a Milano.

– Tu sei il mio tipo, – gli confidava invece la Signora,seria perfino, gli occhi accesi. E gli ha spiegato che an-che lei per lui sicuramente era il suo tipo: certo, natura-le, perché si sa che per un nero un tipo come lei, pelledorata, era il meglio del meglio a questo mondo.

Warùi se la guardava con un viso saggio, perché an-che se parlava della taglierina, aveva un’aria come se di-cesse cose molto più importanti. Sorrideva pensosa,fingeva di volergli scompigliare un po’ i capelli, poi sene andava rapida di là, dava ordini e sgridava le ragaz-ze, con le mani ad anfora sui fianchi: – Che si fa qui, sidorme?

Si portava ad esempio, la Signora, ed era un bell’e-sempio sul lavoro, ma da non seguire: – Vogliamo met-tere, – ragionava Warùi, – lavorare ubbidendo o invecedecidendo, lavorare a salario oppure per profitto, nonc’è paragone: te lo deve spiegare un africano?

– No, non c’è bisogno, tu bongobongo ci arrivibuon ultimo a spiegarcelo.

Alle ragazze la Signora dava sempre i suoi consigli,anche se non volevano, su tutto e specialmente sui co-stumi sessuali di noi maschi: fuochi di paglia, fragili, di-ce che siamo, l’amore e pure il sesso viene e va e magarinon ritorna, negli uomini. Le cose che si dicono, le don-ne, tra di loro.

Come le raccomandazioni alla Romina quando stavaper sposarsi: vergine si sposava, guarda un po’, l’unica aMilano, e la Signora le diceva stai attenta, sì, l’uomo è

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– Forza Warùi, continua col tuo rap che ti fa bene.Io, chi sono io? Io sono un corpo estraneo, già nella

mira di anticorpi della vostra razza. Prima però di libe-rarvi del mio corpo nero, una cosa la voglio: parlare auna donna e non vederle in faccia la curiosità per il be-stione africano tutto pene, con donne e uomini potertrattare senza più il sospetto che ti scansino come unodi quelli che sollevano nuvole di seme scuro che minac-cia ogni donna nata sotto questo cielo.

Cose così, leggende e miti, solo se dette e ancora piùse ripetute, si costruiscono una loro verità, solida, lavo-rata col fuoco e col martello, liscia e puntuta come unazagaglia. Tu arrivi qui, ed ecco interi sciami di parole tipungono la pelle come vespe scocciate dentro il nido.

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tarsi a fargli la lezione, visto che c’erano già tutti i pre-supposti per la pratica. E lei, subito vinta dal rossoredelle donne bionde: – Un nero non può dire certe cosead una bianca, – ha detto dura. Warùi le ha chiesto scu-sa: con una riverenza un po’ solenne del suo lungo cor-po, una mano posata sulla schiena, l’altra sul petto do-v’è il cuore.

Suo padre gli ha insegnato che è più saggio non la-sciarsi andare a criticare una persona appena se n’è an-data. Ha aspettato due ore, poi Warùi si è sfogato. Per-chè gli faceva rabbia che il povero negro qui tra i bian-chi serve così bene a farci sentire superiori, anche per imigliori tra di noi.

E voi per ricompensa, mi spiegava, voi che siete i mi-gliori, eccovi lì che fate grandi sforzi per scoprire anchein noi gli aspetti positivi, per poterci inquadrare alme-no tra gli uomini, noi neri; e guarda il risultato: sappia-mo usare il pugno per talento naturale, a danzare e aboxare siamo tutti dei campioni, sappiamo pure corre-re e saltare. Oscillava danzando, svolgendosi e avvol-gendosi come una molla, poi si faceva un viso duro,batteva l’aria con i pugni, poi correva da fermo, mipuntava coll’indice: – E dai tuoi sforzi per trovarmi gliaspetti positivi, quelli miei personali, di me Warùi Kihi-ka, cosa ne viene fuori, eh?

– Che ogni tanto hai bisogno di sfogarti.Già. Ma quella favola, prosegue lui, quella dei neri

tutti chiusi in certe voglie cieche, mossi solo da istintielementari? Eccoci qui senza morale, incapaci di qual-che tenerezza, perché un sesso smisurato ci trascina, ciincanaglia: eccomi qua, io sono quello che ti stuprerà lafiglia…

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Non m’ingannava il fiuto, quando quella mattina so-no entrato nel laboratorio: pelle elettrica, per ore, forseanche il pomeriggio. E senza più Warùi.

Era un taglio di raso, raso dappoco per le sottovesti:quando si deve srotolare dalle pezze, o si piega sul tavo-lo per strati, quando lo si maneggia in quelle quantità,allora il raso si elettrizza per l’attrito, sembra una cala-mita, l’elettricità ti passa nei vestiti, ti si attacca alla pel-le, sfrigola come una friggitora da fast food per patatine,poi si fa strada tra la pelle e gli abiti, ragnatela in facciacamminando per il bosco. La ragnatela puoi spazzarlavia, l’elettricità del raso invece ti aderisce al corpo, ti av-volge nel suo fuoco fatuo, non si spegne, ma varia la suaforza come il fuoco contro vento. E se fa caldo, allorasudi freddo, e se fa freddo, il freddo ti entra dentro finoin fondo, quasi rigenerandosi sotto la pelle.

Fin dagli inizi della mia memoria, certi abiti mi piz-zicano la pelle: da bambino pareva che correndo mi ar-rivassero frecce sulla schiena, di arcieri misteriosi.Adesso so perché.

Una sera d’inverno milanese, alle cinque già buio, èmancata la luce mentre srotolavo una gran pezza di ace-tato: il mio stanzino è diventato un fuoco d’artificio discintille. Entra la Carmelina, la nostra piccinina di quat-

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la mattina dovevo tagliare duecentocinquanta pezzi persottovesti.

Questo voleva dire cinquecento scosse srotolando ilraso, le più forti, cinquecento più blande ripiegandosul tavolo il tessuto, duecentocinquanta per dividere ipezzi già tagliati, e tante scosse secondarie ad ogni sfre-gamento del tessuto su se stesso. Non riuscivo a non fa-re questi conti. Sentivo i peli raddrizzarsi prima ancorad’iniziare:

– Immagina di fare i movimenti per togliere o indos-sare maglie e maglie, ma per ore, di fibre sintetiche… –cercavo di spiegare a Giuseppina. Lei mi guardava conla testa ad altro.

E un giorno che dovevo fare un taglio di trecentosottovesti di quel tipo, l’Avvoltoio mi ha detto di nonfare quella faccia. Quale faccia? Quella del gatto quan-do vede arrivare il cane del vicino, ha detto lui. E miguarda così da capo a piedi, e se ne viene fuori tutto al-legro con questo bel ragionamento: che io dell’elettrici-tà dell’acetato non dovevo aver paura. E perché? Ecco-le lì, le storie di Milano per dividersi in terroni e polen-toni, mai capite: – Te, di tutta questa elettricità da sfre-gamento di fibre sintetiche, cosa t’omporta? Te non seimica proprio un terroncello, come quel tagliatore cheavevamo prima: lui era un calabrese, propi del tac, capi-to? – e si toccava il tacco di una scarpa: – Per forza luifaceva da perfetta presa di terra, e come un parafulmi-ne le scosse le beccava tutte lui, qua dentro.

– Ah sì, l’è propi inscì, va’ là, pòr el me nano! – si èmessa a pigolare la Signora: marito e moglie in grandeaccordo, finalmente. Però io non ridevo. Tecnicamentepoi era anche falso, me l’ha spiegato Eligio, che da tran-

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tordici anni, di Barletta, vede lo sfavillio, si mette a urla-re e scappa via strillando: aveva visto il diavolo, non lafiniva più di raccontare com’ero avvolto nelle fiammedell’inferno.

Solo a guardarle, come sempre, quelle pezze faceva-no ribrezzo, pronte scartate dal Bolgiani.

– Tu volevi trovare il vello d’oro, quando hai fatto ibagagli per Milano, e invece ti aspettava il raso elettri-co, – dice un giorno Warùi per fare il nero colto, tantolui non l’aveva mai sentita elettrica la pelle. Perciò dice-va che alle volte è un vantaggio averla nera. Nemmenol’Avvoltoio ne soffriva, neanche la Signora: non c’è bi-sogno di essere neri. Pare che siamo in pochi a risentir-ne. E se vedeva me fare le smorfie, l’Avvoltoio diceva: –Tutte balle, va’ là.

E adesso l’Avvoltoio se ne stava ancora dentro lostanzino, tra conti e brontolii. E io dovevo srotolare.Ma perché non va via per fatti suoi? Ci ha i fatti suoi,no, lo dice sempre.

Il primo accendersi di pelle elettrica, le prime onda-te, sono quasi piacevoli alle volte. Poi partono le scosse,quelle vere, dopo un po’ che si srotola. E ci vuole espe-rienza per tenerle a freno. Certe volte mi succedevaquasi di nitrire, starnutivo, starnutivo a lungo con furo-re. Di là nello stanzone le ragazze mi contavano a granvoce gli starnuti, tutte in coro: se superavo il dieci mibattevano le mani.

E l’Avvoltoio che non se ne andava, ancora a traffi-care. Non potevo sfogarmi a brontolare. O lavorarecon più circospezione. Duecentocinquanta pezzi: quel-

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Sud. Rideva maligno, proprio cattivo, si batteva le manisulle cosce, quando sentiva come qui ci rinfacciamocerti vizi, proprio come da loro, tra Kikuyu, Masai,Luo, Samburu e tutti gli altri: – Però non è una cosa se-ria, qui da voi, – mi ha detto un giorno, in pieno foo-ting, quando la gente guarda e fa sorrisi consenzientiverso un negro che corre con un bianco, cose che si ve-dono in tivù: no, non è una cosa seria, non è come da lo-ro, per fortuna nostra: – Non svegliate il leone quandodorme!

Non è facile fare l’africano, nè in Africa nè qui. Glimanca solo di essere preso in queste beghe tribalisticheitaliane. Se sapeste, dice! Anche per questo vanno viada tutte quelle Afriche infelici. Sappiamo sappiamo, glidicevo sudando al parco Lambro.

Marito e moglie ancora sempre là, quel giorno, leiravanando tra matasse e modelli di cartone, lui conti-nuando a brontolare che mai niente andava bene quan-do lui non sorvegliava, mentre io guadagnavo un po’ ditempo a preparare tavolo, cartamodelli, gesso, forbici,la taglierina: col metro intorno al collo, al modo di zioMurtas al paese, dentro la sua bottega o sotto il pergo-lato, l’ultimo nostro sarto, ma vissuto abbastanza pervedere suo figlio abbandonarlo e riciclarsi commer-ciante, vendere abiti fatti e arricchirsi. O giù da Warùicome Karegi il sarto di boscaglia, che ancora fa all’aper-to il suo lavoro, sotto un albero solitario della febbre,albero chino sulla terra come un gigante innamorato,con la macchina mossa dal pedale, tra polli e marabù:contro quell’albero, per evitare il sarto intento al suolavoro, Warùi un giorno è andato a sbattere con una bi-cicletta presa in prestito, sul sentiero sterrato e polvero-

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viere se ne intende: – È una belva selvatica, la correnteelettrica, è imprevedibile, piena di capricci. Lo saiquanto un buon elettricista all’ATM può arrivare a sop-portare in scosse elettriche? Stende un elefante. Dipen-de da come uno si dispone: se la lascia passare, senzanessuna resistenza, la corrente corre, è la corrente, pas-sa tranquilla, non trova pretesti per far male, che sia al-ternata o statica continua. Non reagire, non farla accor-gere di te.

Quella volta, novellino, non ho saputo ribattere alBolgiani. Potevo dirgli che lui era il più adatto a farsiquel lavoro, l’Avvoltoio, lui del terrone non aveva nien-te, era di Carpi; oppure la Signora, di origine montana,Alpi di Valtellina: – A minchionata, minchionata e mez-zo, – ripeteva Eligio. E Warùi commentava che padro-ne o capo, meno è spiritoso e più si pensa divertente:perché il padrone o il capo o il superiore crede che que-sta è parte della sua funzione, lo pensa un ornamentodel suo grado. Guai se non badi ai suoi umori.

Ma la Signora no, garantisco, era diversa, mica per-ché di lei conservo anche ricordi da arrapato, di quellida citare con Warùi il poeta latino che diceva, come di-ceva? Pertundo tunicam palliumque. Chissà che stoffausavano allora. La Signora, svelta di lingua, lo spiritoper lei non era un modo per invadere l’intimità dei di-pendenti. Aveva certe sue risorse femminili, caso mai.A forza di restare insieme, anche lo spirito bisognatrangugiarselo in silenzio, certe volte, perché il padro-ne, il capo, il superiore, fanno in fretta a non stare più algioco che hanno incominciato loro stessi, se non gliconviene.

– Affari loro, – diceva Warùi di tutte queste guerrefra tribù locali, terroni e polentoni e leganord e Nord e

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pre al suo paese: con un dito non schiacci i tuoi pidoc-chi. E a questa massima africana non ho mai saputocontrapporne una nostrana, meglio solo che male ac-compagnato.

Eccola, lo sapevo: ai primi strappi già sentivo i ca-pelli raddrizzarsi, non era più il tessuto a crepitare, ma ipeli del mio corpo. Mi sentivo i vestiti già incollati sullapelle, sul davanti. Ho digrignato i denti. Ma c’era ormaigià tanta stoffa srotolata da tagliare cinquanta sottove-sti, taglia quarantotto, taglie grosse quel giorno: – Lavecchia ordinazione dalla Svezia, – dice la Signora, inpunta per salire in altezza.

Adesso se ne vanno finalmente, tutti e due: lei den-tro lo stanzone, là dalle ragazze, lui sotto in magazzino,giù in cantina. Non resta che aspettare che si sciolgal’accumulo di elettricità da sfregamento. Ero nella nor-ma, nel solito.

Ho misurato cento pezzi con il metro a nastro (a ri-poso intorno al collo alla maniera di zio Murtas, allamaniera di Karegi), ma con calma, attento a non spre-care. Li ho messi in pila bene in ordine sul tavolo: giàpronto per il taglio. Ho sistemato al posto giusto il car-tamodello, sulla pila di stoffa messa a strati. Momentodelicato, il risparmio di tessuto dipende dal modo dipiazzare il modello sulla stoffa. E se sai risparmiare, telo dice quanto ne resta fuori dal modello. Gli scarti so-no sempre da evitare, e poi devi anche riciclarli, se li fai.Quasi ogni giorno l’Avvoltoio controllava sfridi, scam-poli e spazzatura di noi tagliatori.

Con un frego del gesso a fianco del modello, seguen-done la sagoma, segni la strada che poi segue la lamacircolare della taglierina. Momento delicato, ma nonpericoloso, sicuramente meno del lavoro che faceva bi-

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so, e Karegi ha temuto che il suo svenimento fosse mor-te. E invece eccoti qui a fare il mestiere di Karegi, senzal’ombra dell’albero in amore che si china sulla madreterra, senza polli ma solo marabù, e poi ti spacci perdottore in geologia, per un americano: – Ma perché di-ci sempre che sei americano?

– Mica sempre. Solo per riposarmi. È duro fare sem-pre l’africano.

Di là nello stanzone una ragazza si è messa a cantic-chiare una canzone di amori sfortunati, ma di colpo hataciuto, qualcuna le avrà detto statti zitta, c’è ancora loScompiglio, il Vulture.

Non riuscivano a stare a lungo senza canti, le ragaz-ze, o senza musica: di radio, di cassette, e non si tollera-va l’egoismo delle cuffie. Per la Signora andava bene, seperò si sentiva roba di suo gusto, sul vecchiotto; all’Av-voltoio invece non andava, storceva sempre il muso, seera in buona, altrimenti strillava che diocarpi qui c’ètroppa confusione.

Così, quando raramente non c’era più nessuno deipadroni, facevano scoppiare certi Johnny B. Goode dadiscoteca: Go! go! Johnny go! go! e là nel mio stanzinoimmaginavo che non fossero agnelline, ma che si dime-nassero contente con le tette e i sederi messi in mostra.

Bisogna srotolare. E le due sentinelle sempre lì nellostanzino: – Chiamo la piccinina? – ho chiesto alla Si-gnora, solo così, per prendere tempo, tanto la Carmeli-na per quel taglio non serviva.

– Chi fa per sè fa per tre, – s’intromette il Marito.Lo diceva sempre. Già, tutto il contrario che da loro,brontolava Warùi: meglio almeno in due, dicono sem-

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La taglierina è in moto. Momento forte. Eligio, solo a sentire la parola teoria si sente male.

Tutto perché per lui teoria significa sei o sette bocciatu-re all’esame per fare il conduttore all’ATM. Lo stessoper me è la parola taglierina, certe volte tagliare, tran-ciare, fare a fette. Mi viene da proteggermi le mani, dacontarmi le dita alla sinistra.

Eccola lì, solenne, senti la nota fissa di quando nonlavora: ziiin, che poi nel taglio si fa cupo, passando perle e, le a, le o fino alle u per risalire a ziiin quando ti fermiin pausa. La taglierina elettrica è l’attrezzo principaledel lavoro. Non la temevo solamente: le portavo rispet-to, l’ammiravo spesso, così bella e potente, me la sentivoamica, certe volte, e la mattina, per saluto, stringevo conla mano la sua lama fredda per goderne un piacevole ri-brezzo. Mi sentivo importante grazie a lei. Così era pureper Warùi: – Hanno un sacco di cose da farsi perdonare,ma ai bianchi in queste cose tanto di cappello, – dice cheavrebbe detto Karegi della taglierina.

– Orca, ma sembra un’arma, – ha detto il primogiorno che l’ha vista, e ha subito filosofato che per forzaquello era un attrezzo per un uomo: la donna conun’arma è come un uomo che maneggia l’ago e il filo.Già, ma la Signora è una maestra, con la taglierina, ho

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snonna Castragalli. E poi la puoi ripetere, finché la sa-goma è perfetta, finché lo scarto è minimo: tutto testa eniente forza.

Un taglio senza sbavature risparmia lavoro alle ra-gazze e a chi lavora a domicilio. Di gesso ce n’è semprequanto vuoi, non te lo lesina nemmeno l’Avvoltoio, an-che se a volte ti riduci la faccia a mozzarella, come unbianco gelato di spavento, mi diceva Warùi con facciaschifa, figurarsi il bel nero rovinato.

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mani per sfregarle, prima di prendere la panga o dipartire con la jembe, o di chinarsi a mungere la primacapra. Io gli dicevo che non c’era proprio niente di tipi-co africano: io l’ho visto fare al mio paese. Ma Warùi,lasciato in Africa lo sputo, ci aveva aggiunto quel suosguardo da chirurgo: ne aveva solo due, di mani, e diecidita, meglio tenerlo sempre a mente, con la taglierina:

– Pole pole, piano, vacci piano, tafadhali: brava, così,non correre, qui gira a destra, attenzione alla curva –cantilenava quando il taglio si faceva impegnativo:– Piano, più piano, pole pole.

Ed ecco nel momento più importante, ci poteviscommettere, sento arrivare Carmelina, accompagnan-do a squarciagola la canzone che di là cantavano le don-ne, perché anche loro si sfogavano così dell’Avvoltoioandato via: – Le imbastitrici hanno finito, sono senzataglio, – entra strillando sulla melodia della canzone.

– Che si grattino, allora, – le diceva Warùi nel suo ki-kuyu, che per la Carmelina era soltanto: – Non seccare.

Bisognava sbrigarsi, darci sotto, altrimenti la Signo-ra di là dallo stanzone cominciava lo scherzo di chia-marmi a modo suo, confondendo le isole italiane: – Ehi,quando arriva quest’oggi il ferribbotto? – Oppure conun grido modulato, quasi alla Tarzan, per Warùi: – Ehi-là, dalla foresta! Ci manca la materia prima.

Questi solleciti però non mi scocciavano soltanto,ero costretto a rendermi più conto del mio tempo di la-voro. Quello non passa mai quando ci badi: la pentolanon bolle se la guardi. Appeso alla parete c’era lì davan-ti un orologio elettrico speciale, vecchio, senza più bat-terie: – Ha un’aria un po’ africana, – ripeteva Warùi,perché non lo segnava, si beffava del tempo: diceva

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detto io; certo, e anche Karegi lo era pure lui con ago efilo, considera Warùi, ma questo non vuol dire.

Non è uno scherzo: la taglierina elettrica richiedeperfezione. Farci la mano è poco, bisogna farla diventa-re parte del tuo corpo, non aggiunta smontabile alla ma-no: così diventa naturale, e solo quando il corpo fa dasolo, senza più sforzi di attenzione, come un mulo chesa la strada da seguire, solo allora ti fidi nel lavoro. Di-versamente è come camminare stando attento ai musco-li che muovi: chi camminerebbe? Io l’ho imparato lì chesono le abitudini normali che ci salvano la vita, e noi poile incolpiamo di volerci dominare.

Quando dicevo a Eligio queste cose, lui mi parlavadi un amico conducente all’ATM, sette ore di volantetutti i giorni: così anche a piedi gli viene da evitare i sen-si unici e se vuol guardare indietro, per esempio unadonna appena sorpassata, invece di voltarsi leva gli oc-chi allo specchietto retrovisore, che non c’è più perchénon c’è nemmeno la vettura.

Io sul lavoro brontolavo, attento al taglio, mi facevoaiutare dalla lingua, chiedevo aiuto ai denti ed alle lab-bra, ammiccavo con smorfie, incitavo e sgridavo quel-l’attrezzo: Warùi anche con suoni e con parole che daloro si usano per gli animali da condurre, lo blandiva elodava quando tutto andava bene.

Warùi, prima di cominciare con il taglio, si sfregavale mani, lento lento, le sollevava bene aperte avanti agliocchi, ne guardava il dorso, il palmo e poi di nuovo ildorso, come i chirurghi al cinema, anzi, come un mon-do-mogo che allontana gli spiriti malvagi e li sprofondain acque fonde e silenziose: o forse meglio, mi spiegava,questa è una mossa antica ereditata da antenati pastorie agricoltori che da millenni sputano sul palmo delle

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I ditali non servono, le dita devono essere ben libe-re, più agili, per tenere la stoffa dove passa la lama dellataglierina. Quando tagli, nessuna distrazione. A sinistrale curve sono più pericolose, quando la mano a voltepassa sotto l’avambraccio: tu con la destra tieni, spingie dirigi la tua taglierina, con la sinistra sulla pila di tes-suto, ben premuta, piatta, perché prenda la lama senzasalti e non ti tranci via di netto un dito.

Ma non c’è solo il pericolo dei tagli sulla carne: que-sta è la rogna principale, certamente, per il tagliatore.Perché per il padrone il gran pericolo è sprecare la suadi stoffa, o tutto quanto un taglio: metri di raso rovinatisvirgolando, per pochi passi fuori dalla strada. La Si-gnora e il Marito erano maestri in riutilizzo degli scam-poli. E non ti perdonavano la perdita di stoffa: salassinel salario, lo sbaglio si pagava in trattenute, l’orribileparola, dice Warùi quando l’ha imparata, trattenuta:serpente in mezzo all’erba secca, anzi, biscione milane-se col bambino in bocca, come nello stemma, l’astuziafatta bestia, succhiabimbi: gli stemmi non s’inventanoper caso, mamma mia, neanche a Milano che non haserpenti, meno il biscione dello stemma.

– Qui non ci cresce niente, – predicavano. Non cresce?, mi chiedevo, quando con l’italiano mi-

lanese anch’io ero soltanto dietro a cominciare, comediceva oscuramente la Signora, e mi stordiva coi suoidedali di frasi mai sentite, e se mi brontolava un ma va’là, io le chiedevo – dove? – e tutte quelle chiacchieredelle ragazze sulle loro limonate, in auto e in camporel-la, i primi tempi mi facevano pensare a bibite d’agru-me. – Non cresce niente, qui. – Crescere? Certo che quinon cresce la cassava, non crescono le fave e neanche ilgrano, che avanzi non ne dà se c’è il mestiere.

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sempre un’ora sua, che non aveva niente a che vederecol sole o con la radio, se non due volte al giorno. Nonlo degnava nessuno di uno sguardo, però certe volte ame serviva nelle tattiche per imbrogliare il tempo di la-voro. Perché devi resistere alla tentazione di guardarel’orologio. Troppo lunghe diventano le ore di chi guar-da orologi sul lavoro, già di buon mattino: ti riprende lanoia, si corrono più rischi.

E rischi mica tanto da scherzare. Io con la taglierina,le ragazze con aghi, forbici, macchine puntute da cuci-re, elettriche, elettroniche. Tra le ragazze c’era semprequalcuna che faceva un ahi!, e scuoteva la mano, mette-va un dito in bocca e lo succhiava. E poi assicurata c’erasolo la Floriana, gran parafulmine dei rischi del padro-ne, non dei lavoranti.

Bruciati subito i primi stupori, dopo aver fattol’apprendista che non mette in discussione le pratichepiù misteriose del maestro, Warùi nel suo mestiere è di-ventato subito famoso, perfino a Carpi nei laboratoripiù importanti, tanto che giù in Emilia sul giornale han-no scritto meraviglie, di questo negro esperto tagliato-re, uscito il giorno prima dalla giungla: – Quello li valefino all’ultimo centesimo, i soldi che gli pago, – gli hafatto dire quel giornale, all’Avvoltoio.

Dopo un anno e mezzo anch’io però ci avevo ancoradieci dita, come mamma le ha fatte, mai raschiato suun’unghia con la lama dell’attrezzo. Neanche i più bra-vi tagliatori, quelli espertissimi di Carpi, neanche loropare riescano a durare molto tempo con le dita tutte in-tere. La mano sinistra della Signora ha cento cicatrici, ele sue unghie sminuzzate già da tempo non sono più leunghie di una donna come lei. Fanno impressione.

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Ho dovuto farmi una cultura, o meglio un’arte, inriutilizzo degli sfridi. Poi l’ho insegnata anche a Warùiquando è arrivato alla Lucetta Confezioni. Perché lastoffa rovinata non la puoi nascondere.

Come nei primi tempi, la volta che ho provato abuttare tra i rifiuti un taglio d’acetato fatto a pezzi, sba-gliato nel tagliarlo, uscito fuori strada in una curvaparabolica. Volevo farla franca, come una donna colfrutto inaspettato dell’amore. Anche perché sapevoche in quei giorni l’Avvoltoio era partito per un po’fuori Milano. Però quando è tornato, piombato giù incantina, me l’ha scoperto dentro il mucchio dei rifiuti,quelli veri, ed è tornato su da me, sparato come un av-voltoio che si cala sulla preda: quasi sento l’aria sferza-ta dalle ali, il gorgoglio, e mi ha ficcato il coso sotto ilnaso: – Questo cos’è.

– La paga di tre giorni, – dico calmo io. L’Avvoltoio mi guarda molto serio, meravigliato

quanto me dell’improvvisa audacia del mio dire: poi mifa sì col becco adunco, la molla già allentata: – Già, l’haicapito anche da solo. E bravo sardegnolo, sei di buonarazza te, va’ là.

– Questo già lo diceva il capitano al Tamburino Sar-do, – dico io tranquillo, mentre però me la facevo sotto.

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Poi ti arriva Warùi e tocca a te spiegare a lui la storiadegli avanzi e degli scarti: lo scarto tu lo butti, l’avanzosi riusa: c’era la busta degli scarti, sulla destra, e quelladegli avanzi alla sinistra del tavolo da tagliatore. Cre-scono tutti e due, scarti ed avanzi: mentre gli avanziavanzano, pronti a ricominciare un loro ciclo, gli scarticosa fanno? Scartano? Come i cavalli e i pacchi? Ma ipacchi non si scartano da soli… Lui già parlava quattrolingue: con quattro lingue in bocca uno s’impappina,soffoca facilmente.

Anch’io però lo so quanto Warùi che le cose e i fattisfidano il linguaggio: mancano le parole, non ci sono onon vengono. Ma Warùi, lui sì che la provava intera,questa sfida eterna, costretto a intendere e a spiegarsi inuna lingua nuova: quando le tue parole sembrano mo-rire sulle labbra, cadono nel silenzio, trafitte dallosguardo di chi non si sforza di capire. E così resti am-mutolito con i gesti aggrovigliati alle parole, preso den-tro un agguato dell’incomprensione, ti scopri senzasuoni per le cose più normali, quando non è più veroche una parola tira l’altra.

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– Che guerra? Quale guerra è poi questa di tuo pa-dre? – vuole sapere l’Avvoltoio.

– L’ultima, mondiale.L’Avvoltoio rimane a bocca aperta, corruga un po’ la

fronte, la sicurezza gli si stacca come un guscio: anchestavolta sta cercando qualcosa in fondo alla memoria,come con me e col Tamburino Sardo, poi fa di nuovoun grande sì con il testone:

– Tuo padre, era un àscaro, in guerra?– Askàri?– No, cosa c’entra Ascari? Era un àscaro, àscaro?– Sì, askàri, soldato, guardia armata.L’Avvoltoio s’illumina, sembra rifatto a nuovo. Lo

guarda fisso dentro gli occhi. Già, perché? Perché, cosìho capito dopo, un ascaro ha salvato la vita di suo padre,in Abissinia: – A un ascaro devo la vita, ricòrdatelo sem-pre, – dice che gli diceva da bambino. E gli spiega chelui mica gli avrebbe fatto fare il tagliatore, se non fosseche il padre gli ha insegnato che i neri valgono qualcosa.

– Tu, comunque, – ha terminato l’Avvoltoio, – ricòr-datelo bene, anche tu sei un ascaro, da noi: qui regnadisciplina ed ubbidienza, chiaro?

– Aye, aye, Sir, – gli ha risposto Warùi con piglio mi-litare. E lui contento fa un grugnito di piacere, okey.

L’Avvoltoio a Warùi chiedeva spesso com’è dalle sueparti, com’è fatta ‘sta Africa, ma poi non l’ascoltava.Quel giorno l’ha ascoltato. Così Warùi gli ha racconta-to cose come che lui, per dire, le case di pietre e di mat-toni le ha scoperte a Milano per la prima volta, che inAfrica si vive a cielo aperto oppure dentro grotte com-plicate, piene di spiriti dei morti:

– Sì, di spiriti: fanno la guardia ai bei giardini di dia-mondi, no, come si dice… di diamanti.

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Lui corruga la fronte e si fa duro: mi sembra di averperso più terreno di quanto non ne avessi guadagnato.Ma lui è in cerca di qualcosa, sembra che l’ha trovata,mi pianta l’indice davanti al naso e ride soddisfatto:certo, anche all’Avvoltoio ancora implume il suo mae-stro aveva letto il libro Cuore.

E dalla paga quella volta non mi ha tolto propi niént,propi nagòtt, come tutta ridente mi ha annunciato pocodopo la Signora, venuta per ripetermi la predica suspreco e riutilizzo, a me che in fondo ero un brav fioeu.Non la finiva più, parlando quasi solo in milanese, e miha mostrato come dagli avanzi di raso ottenevi mutan-dine, da quelli di velluto tanti rivestimenti di cerchiettiper fermacapelli, nastri da tutto quanto rimaneva. Vi-sto? Fantasia ci vuole, per non far crescere la roba.

E io ci ho messo fantasia: più di una volta, se non po-tevo cavarmela altrimenti in riutilizzo degli sfridi, inta-scavo gli scampoli più imbarazzanti, poi li passavo aEligio per la Giuseppina. Poi lei li riciclava nel lavoro adomicilio. Restava tutto in casa.

Anche nel riciclaggio Warùi è diventato subito uncampione, meglio che nel taglio. Il giorno che hannoscritto di lui su quel giornale, giù in Emilia, l’Avvoltoiogli ha detto: – Anche di bianchi, non ce n’è mica molticome te.

– Questa cosa, sì, la ricordo bene, la dicevano a volteanche a mio padre, in guerra, i capi inglesi, – dice Wa-rùi, che appunto poco prima si era messo in tasca unbello scampolo di raso come fazzoletto: come un taleNjuguna al suo paese, che rubava il letame appenasparso sopra i campi di Bwana Mitchell, poi lo spargevanella shamba sua.

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l’annata. E se ti stanchi e ti distrai, il mondo informe einutile riprende il sopravvento.

Ma i bianchi vogliono le cose nonostante il mondo, adispetto del sole e della pioggia, vogliono raddrizzar legambe ai cani, poi anche agli sciacalli. E ci riuscite pure,qualche volta. Certo: perché sentirsi primi della classe avolte serve, serve eccome. Sta tutto ancora lì il vantaggiodella razza bianca.

Warùi era partito, con uno dei discorsi complicatiche faceva al Parco Lambro, trottando o stravaccati alsole o sotto un albero pomeridiano, mani sotto la nucae con il viso al cielo.

Ma ve l’immaginate voi la fabbrica che riesce autilizzare tutte le braccia, tutti i cervelli disponibili, senon sono capaci di occupare neanche i giovani migliorisempre in cerca di lavoro? Eppure tutto ci era scarsopiù di adesso, in Africa. E se erano scarse anche le brac-cia, ciascuno a modo suo dava una mano, anche la non-na già decrepita, sdentata e curva da migliaia di fardelli,poteva sorvegliare un po’ la casa, un neonato, andarecoi più piccoli a far legna, a coglier erba per la capra.Degli animali tutto si sapeva utilizzare, tutto, da vivi epoi da morti: anche lo sterco, da vivi, come letame o perfar fuoco, e ogni parte minima del corpo poi da morti.Delle messi nemmeno si buttava nulla: le stoppie eranopascolo, cibo e strame la paglia, per le bestie, becchimeper galline i rimasugli. E poi in cucina certi piatti, e purebuoni, le donne li facevano coi resti, tanto era l’appli-carsi a come adoperare ogni cascame, così poco pensa-vano a buttare. Le galline imparavano a pulire dapper-tutto, in gara con gli uccelli in libertà, altro che gli spaz-zini, la nettezza urbana. Anche della gallina ogni donnaafricana sa sfruttare tutto quanto: le piume per cuscini,

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– Come pipistrelli? E per vestirvi?Vestirsi? Di vestirsi laggiù non c’è bisogno. Non è

come a Milano: si vive come Adamo e sua moglie primadella mela.

– Ma dài, neanche le tose? – domandava sgranandogli occhi acquosi. Dopo spiegato che cos’è una tosa,Warùi gli raccontava che le giovani si vestono soltantodi collane e di bracciali di corallo, e in testa fiori veri, ese fa freddo, di notte qualche volta, ma di rado, si si-stemano addosso un gonnellino di rafia e giunchi gio-vani.

– Come i fiaschi? Già, ma le vecchione? Le vecchie tutte a mare, in pasto ai pesci. Prima però

le si ubriaca di birra fino a perdersi, così le vecchie van-no a morte con i canti e con le danze. I vecchi maschi in-vece no, perché hanno saggezza ed esperienza.

Forse il Bolgiani un poco gli credeva, a parte queigiardini di diamanti: se ci fossero stati per davvero, l’uo-mo bianco li avrebbe già scoperti e saccheggiati. Certoperò che gli ascari ci sono, c’erano per lo meno.

Gli àscari, gli àscari: e quella volta l’Avvoltoio ha fat-to a tutti una sua predica sui meriti degli ascari, fedeli ecoraggiosi, ubbidienti e tenaci. Così riabilitava l’africa-no, chissà poi da che cosa.

– E vogliono insegnare a non sprecare a un africano, ituoi Bolgiani? – protestava Warùi quando hanno fatto ilpredicozzo pure a lui, ma preventivo: questa sì ch’ènuova, come insegnare a nuotare al coccodrillo. Fannoridere. Però era molto serio. Perché in Africa sì che nonsi spreca proprio niente, niente in Africa è dato perscontato: acqua, cibo, calore, luce, vesti e riparo, tuttecose che devi procurarti, ogni giorno dell’anno e del-

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facessero la concorrenza ai fiumi d’asfalto delle strade eai laghi d’asfalto dei parcheggi: – Mamma mia, ma qui ètutto città.

E dice che gli è parso di avere sempre avuto una spe-cie di pianta di quei luoghi nella testa, come se sciami esciami di pensieri e desideri proprio suoi ci si aggirasse-ro da sempre, in quei luoghi mai visti e mai sentiti.

– Questo non lo capisco, – ha detto Eligio.– Lei viene in Africa, – dice Warùi, – vedrà che mi

capisce.– Cosa capisco in Africa?– Che siamo uguali tanto quanto diversi.Scala di marcia, Eligio, e liscia il pelo a un furgonci-

no. Sono discorsi che non ama. Gli manca solo questo,farsi un po’ d’Africa anche lui, come suo padre con ilduce.

Poi Warùi ha cercato di spiegare a grandi gesti e unmare di parole, lì in macchina al ritorno, perché lo ave-va detto che qui tutto è città: se in bene o con spavento,perché si è ricordato un’altra volta di suo padre che di-ceva che per vivere nella città dei bianchi un nero devesubito imparare l’arte bianca di avere sempre ragione,la loro irresistibile magia di aver ragione a torto. Così ilnero si perde tra le molte radici dell’albero di mi-kongoi. Ma è Dio che ha fatto la campagna, l’uomo lacittà, e la città non basta a se stessa, la campagna sì, ba-sta e avanza.

– Ah, questo è vero, – dice Eligio: – Mica scemo tuopadre. È proprio vero.

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le penne come arnesi per spalmare, e i gusci d’uovo co-me cibo che si aggiunge al suo becchime. Un corno di-ventava tazza, un osso manico, ornamento, e un nerboun bel frustino. Lo stesso per le piante di ogni genere:quello che non serviva, nè a uomini né a bestie, si usavaper far fuoco, era fibra da intreccio, impiastro o infusoper guarire, ornamento di donna o della casa.

È il bisogno che muove ingegni dappertutto. Ma losapete voi da dove nasce il male? Dallo spreco. Chi sausare ogni bene avrà la terra fertile, fertile la donna, fer-tile il bestiame. Chi col poco non fa, col molto non fameglio. In Africa teniamo ancora alla sapienza delle co-se scarse, e a voi chissà quanto ci vuole a costruirvi unasapienza di quest’abbondanza.

Cose così diceva quando si scaldava. Magari poi sivergognava, si scusava: – Eh, la nostalgia.

Diceva di imitare il dire di suo padre, cerimonioso eserio, che racconta sotto un palmizio a mezzogiorno.Ma le diceva giuste, mica è scemo. A recita finita, ungiorno l’ho guardato fisso in faccia: – Senti, ma è megliol’Africa o Milano?

Lui è rimasto zitto. Ma so cosa pensava: sarebbe me-glio l’Africa, pensava, però col meglio di Milano. E pro-va a dargli torto. Stavamo andando in auto in cima alMottarone, quella volta, in gita con Eligio e Giuseppi-na: coi grandi panorami e finalmente il cielo intero, sen-za palazzi a ritagliarlo a quadri e a striscioline.

Era l’ora che il sole si fa tondo, diventa un disco lu-minoso che si abbassa, bianco, rosso, arancione. Losguardo dilagava sugli abeti che s’impuntano nel cielo,su laghi valli isole e città, borghi paesi e monti punteg-giati di case come greggi al pascolo. E lì Warùi ha dettoforte la famosa frase, nonostante che fiumi e laghi veri

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– Un bel mestiere, veramente elettrizzante, – ridevail cappellano dei tranvieri, e io stonato e fuori tempoaccompagnavo quella sua risata.

Un’idea di Eligio, andare a trovare il cappellano.Un’idea che per mesi mi volava intorno con colori difarfalla o che ronzava fastidiosa come una mosca. Neavevo già parlato con Warùi durante il footing, quandolui non aveva più lavoro, dopo San Vittore e la sua sto-ria con l’avvocatessa, però aveva sempre la sua tuta diacetato verde come il mare nostro, verde speranza. Enon sentiva inimicizie, per niente e per nessuno.

Ci vado, non ci vado? E per darmi la carica, per au-mentare i giri, Eligio mi faceva le lodi del buon prete:un vero dritto, conferenziere di gran fama, piacevole eprofondo nello scritto, attento all’operaio, persino al-l’immigrato: – Oh, anche come preti a Milano noi tran-vieri abbiamo il meglio, – si vantava.

È stato circa un anno prima di quel giorno di gen-naio, durante il primo inverno milanese. Eligio mi ci haspinto quasi a calci, a cercare un aiuto per trovare un la-voro in altro luogo, in regola con tutte le assicurazioni eprevidenze. E senza pelle elettrica: – Io con quella nonduro mica a lungo, – gli dicevo.

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– Comunque, non è vero?, noi qui siamo ben dispo-sti ad aiutarti. Tutti son benvenuti. E Padre Antonio èdisponibile a elargire, sempre, quando è giusto.

E mi ha fatto sperare in un appuntamento con la se-gretaria personale del Dottor Vogogna. Mai sentitoparlare del Dottor Vogogna? O benedetta Africa, nonhai sentito mai parlare del Dottor Vogogna? Ma il Dot-tor Vogogna è un personaggio che nel campo dell’indu-stria sta su in posti di massima importanza, davanti agliuomini e davanti a Dio. E della Chantillon, mai sentitoparlare della Chantillon?

– Di quella sì, mi pare… – ho detto incerto, perchémi ricordava qualche cosa.

– Ma sì, figliolo, la grande azienda che produce inmezzo mondo fibre tessili.

Ah sì, c’è scritto sulle pezze di acetato del miolaboratorio, Chantillon. Però non gli ho detto che lepezze Chantillon sono molto elettriche.

E poi tirava ancora in ballo l’Africa: i conti nontornavano. Che cosa c’entra l’Africa? Finché a un certopunto, insomma, si è capito chiaro: mi aveva preso perun marocchino, extracomunitario, un vu’ cumpra’. Hochiarito l’equivoco e il buon padre ha sorvolato, ha fat-to diventare Eligio tutto rosso, perché ha detto ma dav-vero?, sì va be’, ma insomma siamo lì, nevvero: Africa oSardegna, se non è zuppa è pan bagnato, non è vero?Ma Eligio lì a far no con tutto il corpo.

Dunque il Dottor Vogogna è un grande capo. E vi-sto poi che io sono già pratico del ramo tessile, potevoben sperare di contribuire alle fortune della grandeazienda, anzi grande famiglia, guidata dal Dottor Vogo-gna. Non era proprio il bel lavoro che cercavo? Sotto ilDottor Vogogna si lavora in regola, come i tempi esigo-

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– Ma cercare di meglio chi te lo proibisce? – m’inco-raggiava Eligio.

Warùi già mi sfotteva all’africana. Però mi hannoconvinto: – Le parole ben dette stanano il serpente, –ha concluso Warùi.

A padre Antonio ho raccontato di quel mio lavoro.Sulla mia pelle elettrica ci ho pure balbettato, nella fo-ga. Gli ho detto delle nove ore al giorno, più la mezz’o-ra per le pulizie dopo smontato, a turno con le donne.E poi che ormai ci avevo fatto già otto mesi: se ci restom’insabbio.

– Ma no, per carità, figliolo caro, tienilo bene strettoil tuo lavoro: i tempi sono duri, duri per tutti quanti. Ela terra dei campi, non è vero figliolo, in Africa sta benpiù in basso del tuo tavolo da tagliatore.

Questa della bassezza della terra, in Africa, non l’hocapita subito. Lo diceva severo: perché la vita di unocome me a Milano cambia da così a così, e mi mostravail palmo e dopo il dorso della mano, o viceversa, non hoancora capito il verso che migliora.

– Io sono diplomato, – ma il cappellano non mi hadato retta.

– Sei in così bella compagnia, figliolo benedetto! – siriferiva alle ragazze, spiritoso, non mi metteva in guar-dia dalle donne, come fanno i preti poco dritti. Ma no,sarebbe troppo stupido lasciare la Lucetta Confezioni.E poi, che ingratitudine, verso chi mi aveva appena ti-rato su come da un pozzo fetido e profondo. Perché sisa, non tutte le possibilità ci sono aperte, non è infinitoper nessuno, questo mondo: le speranze degli uominitraboccano dall’orlo.

Gratitudine, ingratitudine, rimuginavo. La gratitu-dine che c’entra?

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vuole laureare in scienze naturali. Lei mi guardava estava zitta, I negri le facevano impressione.

– Be’, ha ragione, – sosteneva Warùi: perché se ibianchi fanno schifo in Africa, con quel pallido corpofuori posto, qui fanno impressione proprio i neri, per laragione opposta. Mah, chissà: sarà così forse fino aquando il mondo non avrà molta più gente fatta comela Sandra Serenelli.

– O con i soldi in banca, – dico io: – quelli son moltomeglio per sbiancare il corpo. Ma non sei tu che dici nelBaringo Rap che il mondo è bello giusto perché vario?

– Oggi la penso come te. Non sei contento?Spesso dicevo ch’ero stufo di essere diverso, alla Lu-

cetta Confezioni, quando Warùi non c’era ancora: no, ilmondo non è bello perché vario, mica sempre.

– Tròvalo bello, è meglio, – mi diceva lui, – tanto re-sti lo stesso quel che sei.

E così un giorno la Mariledona Corazziera salta sustrillando come punta che mi vogliono al telefono.

Me, al telefono? Neppure a lei sembrava vero: la pri-ma volta da otto mesi che stavo alla Lucetta Confezioni.Per me il telefono faceva il paio con il gatto che dormi-va quasi sempre sullo stesso tavolino, senza svegliarsimai, ma il telefono sì, strillava, finché la Marilede loprendeva, come per blandirlo. Stavolta la gridava aiquattro venti, la strana novità: – Lo vogliono al telefo-no: una donna! – proclama la voluminosa Marilede, si-cura dell’effetto che l’annuncio produceva. E infatti,tutte lì curiose, pausa di meraviglia.

Io vengo avanti calmo e imbarazzato. E mi vergognoancora se ricordo come ho messo a rovescio quell’affa-

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no del resto, e nessuno dovrebbe lamentarsene, nevve-ro, perché la previdenza non è poi lontana dalla Provvi-denza, che non guarda in faccia a nessuno, tanto menoalla tinta della pelle.

Non prometteva niente lui, io non dovevo illudermi,sia chiaro, anche se il Dottor Vogogna è uomo tantopio, e poi tutto casa azienda e chiesa, mica se ne trova-no più di quelli come lui, specialmente nei posti più im-portanti… Benissimo, d’accordo: lui prenderà subito icontatti con la segretaria, la signora Savoia: – Se riescoa combinarti un bell’incontro col grand’uomo, ti avver-tirò al laboratorio, – ha poi concluso, tutto miele.

L’idea di andare da quel pezzo grosso mi rimesco-lava. Ho detto al cappellano di non disturbarsi. Luiha tagliato corto: – Vedrai che sarà un’esperienza inte-ressante, l’incontro col Dottore. Non la potrai dimen-ticare.

– Ti ha preso per un marocchino. Così impari, – hadetto Eligio appena via.

– Imparo cosa?– A fartela con gli africani.– Guarda che mi ci hai messo proprio tu, qui a Mila-

no e a Brugherio, in mezzo agli africani.Ecco, l’avevo detto. Non doveva saperlo, lui, che la

pensione di Brugherio ormai era già l’albero dei mara-bù. Sapeva di Warùi, lo conosceva bene, anche se nongli ho mai detto ch’era finito a San Vittore.

A Eligio io parlavo poco di Brugherio, a Giuseppinaancora meno. Però raccontavo di Warùi a tutti e due, dicome questo negro mi sembrava una gran testa. C’eraWarùi, lì dalla vecchia, potevo starci anch’io. Ma neparlavo soprattutto a Giuseppina, le dicevo che qui si

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Teso all’appuntamento, temevo solo la lunghezzadei tre giorni da aspettare. E poi lì dentro la curiosità,che dappertutto è femmina, si sa, nasceva all’improvvi-so e senza scopo, si gonfiava di colpo, poi allo stessomodo si sgonfiava. Come quei palloncini che la Carme-lina produceva tutto il giorno con la gomma americana.

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re sull’orecchio: certo per l’emozione, e poi era la pri-ma volta che toccavo un telefono così, tutto d’un pezzo,piccolino, coi numeri nascosti sotto il piede, di un colo-rito rosa, come una lampada da tavolo. Per poco nonbuttavo a terra la gran boccia del Cinese, il pesce giallocon le pinne nere. Le donne ridacchiavano, la Mariledeme lo ha messo sull’orecchio e sotto il naso, sbrigativa,così ho saputo finalmente che al telefono c’era la segre-taria del grand’uomo, la signora Savoia: mi fissava uncolloquio, nientemeno che col Dottor Vogogna: – Fratre giorni, va bene?

Sono rimasto a bocca aperta, come il Cinese lì davan-ti, mi è uscito appena un sì. Avevo il cuore in gola, comela sera prima a Redecesio, sulle montagne russe con laGiuseppina, quando è arrivata di colpo la discesa.

E la Signora mi filava, mi puntava attenta, con unpezzo di stoffa nella bocca, nel gesto di spezzare il filocon i denti e invece quella volta lei non lo spezzava.

Dopo un po’ già di là nel mio stanzino, eccola chearriva, la Signora: – Così ci abbiamo i filarini, non è ve-ro?

– Filarini? E cosa sono?– Be’, fai lo spiritoso, ma vedi che non ti chiamino al

laboratorio i tuoi filarini. Qui il lavoro cresce, lo sai be-ne.

Per l’appunto. E io devo restare abbottonato.– La ci voleva pure questa, ci voleva, – se ne va di-

cendo: – La mi va mica giù, la me va propi minga giò.Che razza di parola, filarini! Però una cosa io l’ave-

vo già capita: la storia della visita al Dottor Vogognaconveniva tenerla per me, a scanso di guai che non po-tevo prevedere, ma che c’erano, e più insidiosi quandonon li vedi.

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E così una mattina di febbraio, quasi un anno prima,col benestare del Bolgiani infinocchiato con la scusa diuna visita dal medico, per la pressione bassa, no?, losanno tutti, sono salito dal Dottor Vogogna, nel più cen-tro del centro di Milano, giusto in Corso Monforte, ve-stito del mio meglio e con l’ombrello appeso al braccio.Temevo di apparire un contadino rivestito a festa, maWarùi mi ha fatto un gesto di totale approvazione: gli ri-cordavo uno dei Wa-benzi di Nairobi quando scendonoa messa appena fuori dall’United Kenya Club, niente-meno.

Ci sono andato insieme con Warùi disoccupato, e inpiù con uno stiramento a una gamba, mentre a Milanonevicava: la sua prima neve, che faceva Milano tuttanuova, sprofondata in un sogno mai sognato. I fiocchidondolavano nell’aria, silenziosi, grandi come i piùgrandi petali di fiori e la città si raccoglieva stranamen-te zitta, sotto il bianco incredibile, leggermente pesan-te, morbido, tiepido, che gli è parso annunciare un’im-minente meraviglia, mia privata.

Sul marciapiede io mettevo i piedi sulla neve intatta,con circospezione, tanto Warùi veniva lento e zoppi-cante: forse mi porta bene, sono il primo a toccarla, e se

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mente atteso. La signora Savoia mi ha dato un sorriso euna stretta di mano: una signora proprio tutta apposto,intorno ai cinquant’anni, se guardavi bene, prodottomilanese: – Dunque lo manda Padre Antonio. Bene be-none.

– Quanti anni hai? – mi ha chiesto abbandonando illei così distinto che pareva un presagio di chissà che co-sa: – Venti, ventuno? – Mica le interessava. Dice chedevo attendere soltanto un attimino, poi subito il Dot-tore mi riceve.

E mi accompagna lungo un corridoio, così lungoche ho tutto il tempo di trovarmi in tasca il fazzolettoraggrumato dalla volta precedente che ho indossato l’a-bito migliore, pensare di fuggire, lasciar perdere, faredietrofront, tornare nella neve, ripassare il mare: – En-tra pure qua. Siediti e aspetta che il Dottore ti chiami dipersona, appena può riceverti. D’accordo? Bene beno-ne, e quando avrai finito col Dottore, ripassa lì da me.Mi raccomando.

Che mi raccomandava la signora, le dita che gioca-vano col giro di perline bianche? Mah, forse di stare at-tento a tutto il legno color miele lucido, magnifico, làdentro: una sala quadrata tutta in legno, pareti, soffittoe pavimento, profumata, con tante sedie intorno a untavolo infinito, e gli schienali altissimi e pomposi. Mison lasciato avvolgere dal buon odore, dal bel caldo.Cose così finora io le avevo viste forse solo nelle chiese,a parte al cinema e in tivù, non sospettavo io che unostudio, un luogo di lavoro potesse essere solenne comeil coro di una chiesa, come una grande sagrestia di duo-mo antico. Fuori s’è udito pure un suono di campane,come in giorno di festa. Poi si è aperta una porta: in tut-to quel gran legno non l’avevo vista, e si è affacciata sor-

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faccio i miei passi con lo schiocco uguale, l’incontro miva bene.

Eravamo in anticipo, di molto. C’è una chiesa anti-ca, là vicino: dunque è davvero facile al grand’uomo fa-re casa, chiesa e azienda. C’ero già stato con Eligio,quando ai primi tempi mi portava a vedere i monumen-ti di Milano, piazze chiese e palazzi pieni di marmi esanti, sotto cupole e cuspidi solenni contro il cielo: –Guarda, – diceva Eligio. Io guardavo.

Prima di entrare al palazzo Chantillon ci siamo af-facciati nella chiesa. Warùi si è fatto un bel segno dicroce, con una cura mai veduta, mica uno svolazzo, unfiocco senza nastro qui davanti al petto, come qui fan-no tutti. Ci siamo messi in fondo.

Per la navata ciondolava un prete: ci ha guardato inun modo, non come cani in chiesa, ma così, due tipistrani così a mezza mattina, per un attimo, prima di far-ci un sorrisino pallido, come di approvazione e benve-nuto. C’era ancora un cestino, lì in un angolo, con unGesù Bambino tutto nudo, sulla paglia di plastica, resi-duo del Natale: mi è parso infreddolito. E allora io, perla riuscita dell’impresa, ho gettato monete dentro lacassetta delle offerte, con un bel rumore: uno, due, tre,ma sì, quattro.

Warùi si è sistemato in chiesa ad aspettarmi, sedutosu una panca con i pugni chiusi sui ginocchi, a riposarela sua gamba e a misurare un po’ le differenze tra le chie-se di Mlano e quelle di boscaglia, e Dio dappertutto.

Nel nobile riquadro del portale spalancato ho fattostop perché ero teso e pauroso, poco reale: cambio ca-nale, vado via? Ho respirato a fondo, sette volte.

Però poi di sopra mi son sentito confortato, degna-

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provengo da famiglia buona, e quanto è nobile la terradei miei padri, a parte questo inconveniente dei seque-stri di persona, be’, lasciamo perdere. Vuole sapere seanche qui nella metropoli lombarda resto fermo ai buo-ni insegnamenti ricevuti nel paese: – Ma sì, – ha conclu-so da sè, – hai la faccia pulita di altri tempi, – e mi è ri-masto il dubbio se volesse dire che ho una faccia da fes-so. E argomentava poi che la pratica e la fede religiosasono tutto, e così è sempre stato in ogni luogo per tene-re un ordine nel mondo. Già, vediamo bene quanti guaihan combinato quelli là, quelli che avevano deciso chebisogna farne a meno: l’oppio dei popoli, dicevano, einvece l’oppio è stata proprio quella loro sciocchezza dirivoluzione.

Aveva l’aria di essere al corrente dei più grandi e se-greti misteri della vita, e me li rivelava, gratis. Certo,pensavo, ma vediamo qual è il mio posto in questogrande ordine del mondo.

La raccomandazione è di evitare cattive compagnie.E parlando parlando io non ho capito se le cattive com-pagnie sono i drogati, o forse le donne, tutte o soltantoquelle di facili costumi, che poi non sai nemmeno seson donne, le creature notturne in gonne argentee ecalzamaglie a rete, con grandi borse dondolanti, quelleche Warùi credeva si chiamassero le donne a ore, finchéha capito che erano a minuti e ci si fa l’amore come unsalasso antico, per rilassare la tensione delle vene e peròpoi ti chiedi dov’è più tormento, in un amore insoddi-sfatto o nell’amore soddisfatto in questo modo. Ah sì,mi sono accorto che aspettava una risposta: gli ho assi-curato che ci stavo attento, ci ho aggiunto il mio rifiutodi ogni azione che stia fuori dall’ordine del mondo.

Mi ha intrattenuto forse in tutto un quarto d’ora. Di

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ridente ancora lei, la signora Savoia: – Togliti il cappot-to, pòra stela, dammi qua. Tieniti pronto che il Dottorefra poco ti riceve.

Chiude appena la porta ed ecco un’altra aprirsenesul fondo, invisibile anch’essa fino a quel momento.Tutto silenzio, tutto vellutato: le porte qui non cigola-no. Un signore alto e bianco di capelli, calmo, severo,mi si è fatto avanti: lui non sorrideva, ma mi ha dato unapacca sulle spalle e mi è sembrato che nessuno primami avesse dato pacche sulle spalle.

– Ita novas? – dice serio e gagliardo.E io senza parole, già perse tutte quelle preparate: –

Non c’è male, – mormoro confuso.Lui mi sta già dicendo che ama molto la mia terra. E

prima di rendermene conto sono già seduto nello stu-dio col Dottor Vogogna, proprio davanti a lui accomo-dato su un divano grande come un furgoncino: se l’an-ticamera mi ricordava il coro di una chiesa antica, il suostudio sembrava il luogo dell’altare, fiori e statue com-prese, dipinti e finestroni drappeggiati: lì al mio fiancoc’era la statua bianca di un Cupido che teneva gli occhisotto l’ala, un altro che spiava dietro all’ospite, e certipesciolini nuotavano dentro la lana del tappeto.

Ci si stava bene, al caldo, a parte lo stridore che facevala poltrona ad ogni movimento, e dunque stavo immobi-le diritto, come uno che ha inghiottito il palanchino.

Il Dottore, lui non mi sorrideva, così solenne e me-sto: pareva che il sorridere l’avesse delegato tutto quan-to alla Savoia. Però non mi pareva più di stare con unpezzo grosso a chiedere favori, ma come ad una festa, aqualche cerimonia.

Il Dottor Vogogna mi sta già dicendo di sapere che

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vedermele a suo agio, senza storcersi il collo per guar-darle: accavallavo a turno le due gambe, così avevo ungesto sicuro da ripetere, senza pernacchie della miapoltrona.

Eccolo adesso in piedi all’improvviso, sempre me-sto, e anch’io mi tiro su, ma quasi a malincuore, perchéaspettavo altro, e lui con pacche e pacche sulle spalle(tante pacche così qualcosa dovevano pur significare):– In gamba ne’, sardegnolo – anche per lui dovevo esse-re un diretto discendente del Tamburino Sardo.

Fuori aspettava la Savoia: mancava solo Nizza perrifare il vecchio Regno di Sardegna, cunservet Deus suRe. E la signora aveva un altro minutino indaffarato dadonarmi: – Com’è andata? – mi ha chiesto delegandosial sorriso: – Bene, vero? Visto che uomo buono? Nondimentichi niente? Il tuo soprabito?

– Ah sì, grazie. L’ho lasciato di là… – stavo quasi perdire – in sagrestia. – Ma l’ombrello è rimasto veramentenella chiesa, con Warùi. E sì che nevicava quando sonouscito, fitto fitto, come un televisore fuori banda, per lamia meraviglia di isolano che la neve la vede quasi soloin cima ai monti, come i compaesani di Warùi: Kiliman-jaro, Monte Kenya, dove danzano gli angeli, dicono lo-ro, oppure i diavoli, a seconda, tra neve pietre e nuvo-laglia, perché anche loro sanno dare un senso a questomondo coi suoi alti e bassi.

La signora Savoia era già andata e ritornava, col sor-riso e col loden: – Tieni, è un piccolo regalo del Dotto-re, – dice mentre mi mette perentoria qualche cosa inuna tasca del cappotto: – A mani vuote da qui non se neva nessuno, mai. E salutami tanto Padre Antonio.

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domande il granduomo me ne ha fatte molte, e avevaun modo di guardarmi e di riflettere, prima di farmele,un poco imbarazzante, come se si chiedesse: – Ma saràall’altezza? – Ha continuato con i suoi consigli: lavora-re sodo, soprattutto.

– Io, è questo che voglio. – E bravo, allora: andat bene. – E un piccolissimo

sorriso si è affacciato con le due parole in quel suo sar-do da turista. Mi ha informato che lui è piemontese, epoi che il fascino del male è questa seducente agevolez-za che presenta la sua strada, e però poi si scopre che èimpossibile percorrerla all’indietro, la via del male.

Ad ogni modo, per quanto riguarda un’assunzionenella grande famiglia Chantillon, be’, si vedrà. Intantoio dovevo fare bene il mio dovere dove stavo, e confida-re molto… in chi, sentiamo un po’? Nella Divina Prov-videnza, dice senza aspettare la risposta, con un tonoche non annunciava altre parole su quel tema.

Avrei voluto dirgli di quel mio diploma: chissà, que-sto forse importava. Ma non ho detto niente dello stu-dio: secondo Eligio non facevo bene a dirgli che volevoandare all’università, fare filosofia: non conviene, biso-gna saper stare al proprio posto, se si lavora si lavora,poi si vede.

E adesso, a che cosa mi servono tutte le astuzie pre-parate con Eligio e con Warùi? Ma la cosa più stranaera quel suo guardare senza fine le mie scarpe, le suolespecialmente. Me le sbirciavo anch’io, senza parere:magari sono sporche sotto, per via della neve, gli rovinoi tappeti, ce ne sono di belli e molto grandi. Erano purescarpe nuove, le avevo messe un’altra volta solamente.Però il Dottore continuava a guardarmi le mie suole.Per cortesia gli davo corda, seduto in modo che poteva

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Sono di nuovo nella neve più irreale, cresciuta nelfrattempo su Milano tutta nuova e differente. Provo imiei passi sul tappeto infido, mi fermo al primo andro-ne e cerco in tasca il dono del grand’uomo: un bloccodi biglietti, di tagliandi: sembrano del cinema, forse dadiscoteca, gialli, verdi e marrone. In mezzo c’era scrittoun grande e nero Buono per.

Preferivo del cinema. Si andava spesso al cinema, aquel tempo, con Warùi, anche per scarsità di telescher-mi, dove stavamo noi, sui luoghi del lavoro e del riposo.A me piaceva la magia del telo bianco, come l’ha dettoun giorno anche Warùi: li pensava così, gli schermi alcinema, teloni bianchi, come il telone di Munira al suovillaggio, nato lenzuolo per dormirci a letto, e invece sianimava di figure, e il fumo delle sigarette rivelava sa-lendo i raggi della proiezione in mezzo al buio, come iraggi del sole tra le nuvole.

Warùi preferiva le rivisitazioni, i cicli per autore:Bergman, Bunuel, ma specialmente quelli del neoreali-smo, i vecchi film di Germi, di Antonioni, De Sica, Ros-sellini. Anche perché a Warùi sembrava di scoprirciun’Italia meno complicata, e quasi di tornare al suopaese, anche se in bianco e nero. Ha parlato per giorniintorno a Rocco e i suoi fratelli.

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Gli ha vomitato sulle scarpe: non era indietro nelmangiare.

Il giorno della visita al Vogogna siamo andati a pran-zare in latteria. Ci andavo spesso, a cena in genere, soloo con Warùi. Era una vecchia latteria, l’ultima con quelnome, dicono: scodelloni di latte per due soldi, e paneda inzuppare a volontà, servito in tavoli di marmo daun donnone sbrigativo, così, sempre alla buona. Peròmangiavi quanto basta a uscirtene coi piedi saldi sullaterra più di quando ci eri entrato: – Anche stavolta ce losiamo ben riempito, – commentava Warùi: diceva cheogni volta si faceva il ventre come un soldo, e allora ri-nasceva la sua infanzia pastorale, venuta su col latte.Faceva come il padre, che dopo ogni pasto usava dire,sfregandosi il ventre contento:

– Anche stavolta è pieno. – Perché gli era successopresto di sentire fame, e in guerra, da King’s African Ri-fle, di attendere il porridge mal cotto che a volte nem-meno arrivava. E adesso una birra è abbastanza per far-gli ripetere storie di guerra, dei grandi Mau Mau, deigiorni prodigiosi dell’Uhuru, della liberazione.

– Siamo in un bel casino, – mi diceva Warùi seduti inlatteria, il giorno della visita al Vogogna. E masticavataciturno, fissando il suo bicchiere. Risaliva di tono esosteneva che però, si sa, chi ce l’ha piena non capiscechi ha la pancia vuota.

In quel periodo guadagnava poco. Cantava il rapnelle balere di periferia, nel cinturone, riusciva anche aspacciarsi per americano. La sera del debutto l’hannofatto aspettare quattro ore, mentre se la faceva sotto,

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Anche se poi è stato al cinema, nel buio, un giornoche non c’ero, che un tipettino pallido, occhialuto, hainiziato a toccarlo in una gamba, come un ragno visci-do. Poi lo ha seguito a lungo fuori per le strade, canesenza padrone: – Si fa l’amore? – gli diceva, con un ghi-gno da film di Pasolini: – Tu sei oro, oro nero, oro uma-no. Perché non dici niente? Sei un senegalese? – finchéuna forza interna misteriosa lo ha costretto a colpirlocon spavento.

Un passante in penombra li guardava: – Cosa diavo-lo… – si è messo a borbottare, e aveva quella faccia, co-me quelli che ti dicono: – Ma andate a lavorare.

Warùi lo ha prevenuto: – Ci vado subito, domani,perché io lavoro, io, – gli ha gridato, quasi, ma in kiku-yu, perché diventi vile e permaloso, quando sei disprez-zato in terra d’altri.

Quello lo guarda più severo, tutto perplessa dignità,riprende il suo cammino, scuotendo il capo e dice: – Etornatene un poco a casa tua!

Poi dopo alla pensione, nel corridoio al buio, Warùiha incespicato contro un coso floscio, orribile, immobi-le per terra. Si è chinato a toccare: un uomo, sdraiatosulla schiena, di traverso. La lampadina color malva siera fulminata. Ha riaperto la porta dell’ingresso, per fa-re entrare luce dal di fuori: era il Carlino, troppo ubria-co, non più capace della solita commedia e di arrivareal letto di cucina: lo guardava ridendo da lì sotto, a boc-ca aperta, gli occhi lucidi, lucertola sul dorso. Warùi loaiuta a sollevarsi, con fatica, se lo carica addosso, lui silascia fare come una capra malandata: – L’è minganiént, sono solo brillo, – ripeteva: – Ero solo un po’ in-dietro nel mangiare.

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zo per Brugherio, è finito arrestato, forse meglio ferma-to, insomma preso nella rete, per detenzione e spacciodi stupefacenti. Non gli ho mai chiesto se era vero. Si èfatto qualche tempo a San Vittore: tramite lui ho vistoanch’io lo schifo di quei luoghi.

Però durante i giorni lunghi della cella i suoi compa-gni parlavano di cose che lui non capiva, li guardava co-me guardava il sordo del villaggio quando non riesce acapire che succede; e non capiva i pensieri espressi otrattenuti del suo gip (Warùi lo percepiva come jeep, einfatti era proprio fuori strada come giudice per le in-dagini preliminari): capiva solo che i pensieri avuti finoallora ormai non gli bastavano.

– Io ci sono per sbaglio a San Vittore, – ripeteva atutti.

Gli altri però ridevano: – Fa’ minga el bamba. – E glidicevano che sbagli non ce n’era, specialmente i suoi si-mili, quelli che vengono da tutte le Afriche a battere inastuzia noi altri rammolliti dal benessere.

Glielo ha spiegato poi l’avvocatessa, una solo d’uffi-cio, gratuito patrocinio, la prima volta che ci è andataper colloquio, per dirgli i suoi diritti, quelli che lui pro-babilmente non sapeva: – Quello che so, – dice Warùitentando di scherzare, – è che noi, qui, di diritti non neabbiamo molti da ignorare. – E la signora l’ha guardatocon un viso nuovo, mentre gli spiegava che lei era gra-tis. Che di quel guaio a casa sua lui non doveva neanchescrivere, tanto sarebbe uscito prima che una lettera ar-rivasse. L’hanno prosciolto in istruttoria.

È uscito di galera e non sapeva cosa fare, nemmenodove andare: licenziato dal posto al Biffi Scala, alla pen-sione di Brugherio non aveva più il suo letto. Così, do-po che lo ha imbrogliato un tale che piazzava i neri nei

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quattro ore, poi ha cantato sei minuti sei: gli era restatosolo il batterista, senza più rullante, quattro gatti a sen-tire il suo Baringo Rap di lingue miste; alla fine ho ap-plaudito solo io e gli hanno dato cinquemila lire. Ma glifaceva bene, abbaiare di rabbia e di piacere. Era l’epo-ca, quella, del meglio e del peggio:

– Ho visto molto peggio al mio paese, – mi diceva,oppure: – Io ne ho viste di meglio giù da noi. – Cosìprevedibile che gli rubavo anch’io questi commentidalla bocca. Ma gli serviva a mettere un po’ d’ordinenel mondo.

Quando ha posato la scodella sopra il marmo, quelmezzogiorno in latteria, Warùi ha richiamato l’atten-zione del donnone che serviva, forse perchè mostravagli occhi tutti spenti: – Scusi, le posso chiedere una co-sa? – dice con voce strana, e si guarda furtivo alle suespalle, chissà poi perché. Lei lo ha squadrato diffiden-te. Warùi ha precisato: – Il suo mestiere, a lei, le piace?

Se lo è guardato male, come le avesse dato una ma-nata sul sedere. Di nuovo indifferente, se ne va.

Quando ritorna per portarci il pane: – A me no, – gliha detto, poggiando le due mani sopra il marmo, quasia sfidarlo: – Ma guarda che domande. E te, cosa fai dimestiere?

– Io sono il console del Kenya qui a Milano, – diceserio Warùi, aprendole il sorriso più ampio che poteva,perché si sa che ai bianchi piacciono i bei denti candidisu facce nere.

Aveva fatto il cameriere al Biffi Scala, si vantava lui,ma non era che sguattero, garzone di cucina. E nellaparte marcia della notte, tornando dal lavoro, in unaparte marcia di Milano andando a prendere il suo mez-

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giorno che Warùi, stravaccato in panchina, leggeva unlibro complicato, di geologia. Con il guinzaglio dellabarboncina infilato dentro al polso, con quel libro lì da-vanti al naso, non badava ad altro. E non vedeva che labarboncina, già in calore, se la disputavano i cani di pas-saggio, liberi nel parco o che tiravano il guinzaglio di-sperati. Una vecchia si è messa a protestare, invocava lasquadra buoncostume. Io sono arrivato in quel momen-to, ho visto la cagnetta attaccata in modo inestricabile aun bastardo, ho riscosso Warùi, si è reso conto della tre-sca della cagna scostumata: tra l’altro aveva perso il cal-do scialle che l’avvocatessa aveva messo intorno al suopancino delicato. Abbiamo riso molto.

A casa poi Warùi ha raccontato tutto quanto alla suaamica, solo così per ridere, della cagnetta scostumata,ma lei ha cominciato a impallidire, gli ha rovesciato ad-dosso insulti che Warùi non sospettava.

E Warùi non capiva, di nuovo non capiva. Stavoltanon capiva che lei non sopportava l’idea dei bastardiche le avrebbe scodellato la cagnettina sua di granderazza, per colpa di Warùi. Però Warùi rideva, rideva epoi ridendo si è trovato un’altra volta sulla strada, a cer-care di vivere come viveva prima dell’arresto.

Eh sì, considerava: dappertutto le donne hannosempre questa fissazione, di farsi fare figli o di evitarli.

La vecchia l’ha ripreso alla pensione di Brugherio.

– In Kenya fa un bel caldo in questi mesi, – dice luiquando usciamo nella neve.

– Ma tu… – gli faccio all’improvviso, poi scarto laquestione con un gesto della mano. Era un’idea da me-ditare.

– Be’, allora? – dice lui distratto.

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locali, l’ha preso in casa sua l’avvocatessa, provvisoria-mente.

E invece c’è rimasto qualche mese. Già, che cosa gliserviva, più di un po’ d’affetto, nei primi giorni doloro-si della sua strana libertà? Da quella bella casa comodaWarùi usciva quasi solo per portare al passeggino unapreziosa barboncina, tutto solo. Ma con l’avvocatessausciva spesso, anche se aveva già vent’anni più di lui.Non soltanto a letto, se lo portava sempre dietro, se locovava con due occhi: – È così bello, – ripeteva, – a co-minciare dal suo nome: Warùi, Warùi, sembra una nin-nananna, una carezza, e quando mette in mostra queisuoi denti bianchi candidi… e gli occhi indiavolati, nonvi paiono proprio quelli di Stokely Carmichael di BlackPower, ve ne ricordate?

Warùi taceva ironico. O se parlava lo faceva con pa-role misurate, ma taglienti, perché aveva imparato amettere le spine nel suo dire, a mostrare ridendo il den-te dell’ingegno, come piaceva a lei e alla sua gente, incompagnia, certe volte portando uno jallabah lungo ebianco per abito da sera.

Come la sera che tornando a piedi soli loro due, leloro ombre sono state spinte in avanti dai fari di unamacchina: è un’auto che rallenta, gli si affianca, da den-tro dicono qualcosa, strafottenti. Sono in molti. Leis’innervosisce, battagliera. Quelli ripartono ridendo esmarmittando. Poi tornano di nuovo dal di dietro, lan-ciano valutazioni dell’anatomia della signora. Stavoltala compagna trema di paura. Warùi le fa coraggio: – Cisono io, – le ha detto in un sussurro.

– Per l’appunto, – ha detto dura, ostile.

Ma la storia è finita per colpa della barboncina, un

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studiare e lavorare. Tutta una fregatura, storia scema didonne…

Io lo ascoltavo. Su quella donna io però non losmentivo. E del resto quel giorno avevo fatto fiasco colgrand’uomo, a parte i Buoni per da decifrare.

E lì Warùi riprende una sua vecchia fantasia disoc-cupata, di organizzare safari in motocross, da Momba-sa al Turkana lungo la Rift Valley e le bassure dove iltuono è sempre sterile: la pioggia evapora già prima diarrivare sulla terra, però le resta forza per fare arcobale-ni sul deserto… Ma lui è troppo fesso, aggiunge subito,non le può fare certe cose: perché gli dà fastidio, non ri-esce a sopportarlo, lui, come la loro terra viene offertaai turisti imbellettata, travestita, e i suoi compatrioti introppi lì a elemosinare compere di ventagli fruste scac-ciamosche scudi maasai e soprattutto le sculture di artenegra messe sotto terra ad invecchiare.

Già, però non è la sola, come patria in belletto perturisti, voglio dirgli. Ma ho lasciato perdere.

Sono tornato alla mia idea. Tanto per non speraretroppo nel Dottor Vogogna, proprio una volta comequella, dopo un fiasco totale a fare il pizzaiolo (chi l’hamai visto un pizzaiolo nero?), ecco, io gli ho propostodi tentare anche lui alla Lucetta Confezioni: come ta-gliatore.

E poi giocando con le briciole sul marmo, in latteria,ci è nata pure la speranza che noi due si poteva ripren-dere a studiare, dandoci il cambio a turno sul lavoro, luila sua geologia, io la filosofia. Qualcosa ci mancava, co-me a tutti, come sempre.

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– Ma tu, quando facevi il cameriere al Biffi Scala, tucome lo vedevi il tuo lavoro?

– Cosa vuoi dire? Io non ti capisco. – Quello che tu facevi, ti sembrava… sensato? – Io ero solo sguattero, – fa lui quasi seccato, quasi

torvo. E gli è venuto un viso come quando pensava inqualche lingua incomprensibile, lo sguardo misterioso,prendendo a calci i cumuli di neve.

Lui diceva di fare il cameriere al Biffi Scala, in queisuoi primi tempi milanesi, perché l’aveva subito capitoche quel ristorante era di classe, che gli faceva onorepresso i bianchi. Visto che c’era, Warùi si promovevacameriere. Anche Eligio promuove dattilografe le colf,stavolta per delicatezza.

– Non so cosa pensavo, – ha aggiunto finalmente: – ioso che mi dà i brividi, pensare che potevo andare avan-ti a questo modo, Milano o non Milano.

– Già, ma che cosa? Il mestiere di sguattero, o il vi-zio di vantarti che facevi il cameriere, al Biffi Scala?

– Il mestiere di sguattero, l’animo dello sguattero, losciacallo in spirito: meglio disoccupato, come adesso.

No, non era meglio, si vedeva. Lo diceva per stizza.Non l’avevo mai visto così duro. Warùi era speciale perla calma. E quando s’infuriava mi pareva dispiaciuto,gli si addolcivano le ingiurie sulle labbra. E il peggioche diceva, lo diceva in inglese, la puzza sotto il naso,ma per gioco:

– What’s your penis whorth? – diceva certe volte,squadrandomi come se trovasse divertente che ci fosseal mondo un tipo come me.

Stavolta era diverso. Non gli piaceva ricordare lafaccenda, specialmente la storia dell’avvocatessa: tuttaun’illusione, se pensava così di continuare negli studi,

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Me l’ha spiegato Eligio che cos’erano i tagliandiBuoni per: buoni per una mensa, un luogo mai sentito,a Porta Garibaldi, e una decina di altri buoni per un al-bergo diurno a Porta Ticinese, barba, capelli e doccia.

Un giorno siamo andati a Porta Garibaldi, Warùi eio, quando già quella prima nevicata si squagliava infanghiglia, arata dalle ruote delle auto, e ne restavanodei mucchi sporchi qua e là dove ristagnano le ombrelunghe dell’inverno. Andiamo un po’ a vedere, mi sondetto, già pronti due tagliandi Buoni per.

Ci siamo andati a cena, per pranzo era distante: allaLucetta Confezioni c’era appena un’ora per il pranzo.Io lo portavo in un cartoccio, quasi sempre. AncheWarùi. E se faceva bello, si andava pure a spasso, do-po, mentre certe ragazze uscivano coi loro filarini. Disera invece c’era tutto il tempo per andare a casa, chil’aveva.

Io qui mi sbaglio, non può essere, avrò capito male,mi sono detto appena entrato: Mensa di San Vincenzo,così c’era scritto fuori sulla porta, su una targa in pietra.Non mi diceva niente sul momento San Vincenzo, di-pinto bello grande a una parete, dentro il refettorio.Non ci voleva tanto per capire, con tutti i poveretti cosìsporchi e malandati, bocche umide e scheggiate: se il

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stribuiscono, le vivandiere del Buondio, ma la domeni-ca ti servono la roba calda, seduti a tavola, con strilli digioia e di appetito.

– E vuoi vedere che di settimana santa gli lavano an-che i piedi, ai poveretti, – immagina Warùi: come face-va il vescovo di Nyeri in seminario a una dozzina di pa-stori samburu macilenti.

Ad affettati in faccia quasi la prendevo la pia dama,mentre guardava noi con qualche meraviglia, non coldisgusto pio che riservava ai suoi barboni: ecco perchégli altri ospiti là dentro ci guardavano curiosi: – Sonobarboni bianchi, da panchina, – dice Warùi tranquillo esorridente: – Ce ne andiamo? Sennò faccio il razzista.

Lui ci scherzava, io non ci riuscivo. Tutti i miei Buo-ni per li ho regalati ad un barbone, un grande vecchio, –di Luino – diceva ogni momento: Luino, ma dov’è Lui-no? Ci si è attaccato subito alle costole, non ci mollava.Stava con uno giovane, ma questo non apriva mai labocca per parlare, se non l’usava per mangiare ci tiravasolo certe smorfie di disgusto, qualche volta con gestiche dicevano che mica era d’accordo, scrollava il capoavvolto in un passamontagna: non se lo toglie mai, im-maginavo, neanche i mezzi guanti.

Il vecchio ci voleva raccontare la sua vita, a puntate,lunga e complicata, e in dialetto varesotto: grande zonadi funghi il Varesotto, diceva rivelando due teneri occhiazzurri da bambino, in fondo a quella faccia sporca dibarba e di capelli. Il suo compagno faceva quelle suetremende smorfie di rifiuto, con gli occhi sporgenti chemangiando gli si spalancavano tanto che temevo gli ca-dessero nel piatto, e poi si è messo a borbottare che ora-mai la luna è già cambiata, l’ha ripetuto cento volte,

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potere nel mondo s’imponesse con i denti, guai ai bian-chi, coi loro denti guasti, dice il Baringo Rap. Solo vec-chi barboni, forse fatti dal vino e dal tabacco:

– Ohi ohi, dove siamo finiti?– Siamo in un vecchio film all’italiana, – dice Warùi:

in un film triste in bianco e nero. Nemmeno un marabùtra quella gente. Bianchi così Warùi ne aveva visti soloal cinema, nel film Miracolo a Milano, per esempio, co-mico, commovente, quello sì, ma solo al cinema. Ci sia-mo messi in fondo a una fila, io davanti e lui dietro: –Chissà se vale qui la convenzione di Ginevra, – diceWarùi, e si mette le mani riunite sulla testa, sorride tut-to in giro con comica umiltà da prigioniero. Io gli ho as-sestato un calcio in uno stinco.

L’avessero saputo a casa mia, che andavo per sfamar-mi in certi posti, mia madre avrebbe pianto per un me-se, per questo figlio grande e grosso mantenuto dalla ca-rità di zitellone che portano anche i pacchi alle famigliedi ubriaconi e carcerati.

Da non credere. Ma chi l’accetta subito che la mo-derna carità di quel granduomo non era altro che lavecchia carità di San Vincenzo?

– Be’, fanno la carità, ce n’è bisogno, no? – mi fa Wa-rùi. Carità, carità: la vera carità è solo la giustizia, ripe-teva mia madre che invocava la pensione, dopo la mor-te di mio padre. E lo diceva pure il nonno, anche se nonaveva un suo vincastro d’ebano mau-mau.

Non ho toccato la mia confezione di affettati misti edi pagnotte dentro sacchetti in plastica ben sigillati.Una delle pie dame me le ha piazzate sotto il naso, gen-tile e autoritaria, mentre intorno i barboni abbracciava-no il piatto di carta con amore, come per trattenerlo seno scappa, con le posate in plastica. Di norma di-

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essere la mosca presa ragnatela, mentre lui mi guardavafisso dentro gli occhi, come un vecchio struzzo, dirà poiWarùi. E di colpo i rumori e le voci si son fatti lontani esconosciuti.

No, meglio l’antica latteria, dove pagavo con i soldimiei e gli ubriachi al massimo mi rifilavano brandellidelle loro frasi vuote. È meglio il pasto solitario del so-maro, che soffoca la sua amarezza in una balla di fieno edi silenzio. Warùi mi ha dato retta, anche lui trasognatopiù che offeso: qui bisogna andarsene. E salutiamo infretta: il giovane risponde, vivace finalmente, ci dà lamano ed una smorfia per sorriso. Il vecchio non saluta.

Mystery madman, victim of a cruel charade, canta Wa-rùi ritmando in heavy metal, mentre usciamo. Ma il vec-chio non ci molla, ci sta dietro, il vecchio senza il giova-ne. E adesso cosa vuole, a parte continuare a raccontar-ci la sua vita? Mi sono ricordato gli altri dieci buoni peril diurno in Porta Ticinese: ce li avevo in tasca, potevodargli pure quelli. Mi fermo, si ferma pure lui, ci guardafisso, spalanca gli occhi spaventato e scappa rinculandoe di traverso su alla mensa delle dame, gridando chissàcosa in varesotto, sul marciapiede scivoloso di nevi-schio, come una carta zuppa che guastava il ricordo del-la prima solenne nevicata.

Quella sera ci siamo ubriacati.Ma una curiosità però mi resta ancora, di tutta quel-

la storia del Vogogna: perché il grand’uomo mi guarda-va così tanto le suole delle scarpe.

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perché lì il vecchio si è arrabbiato e gli gridava che queigiorni erano il meglio per i funghi, e l’altro a bofonchia-re pet de lup, peti di lupo ormai ci crescono soltanto. Eno, gridava il vecchio: c’era la luna buona, giusto inquei giorni. Difatti la luna buona gli ha portato tutti imiei Buoni per della beneficenza meneghina.

Ci voleva iniziare alla sua concezione della vita: la le-gava al destino dei funghi delle valli varesine ed alle fasie agli andamenti più segreti della luna: la luna, i funghie i laghi prealpini, così ho capito io, legati tutti insiemeda reciproche influenze, che poi determinavano il de-stino di quelli come lui, insieme alle maree, al livellodell’acqua dentro i pozzi, nei laghi e nelle vene sotterra-nee.

– E l’acqua della pioggia? – ho chiesto io. Be’, no, la pioggia c’entra poco, è un accidente che

non conta, non influisce sulla quantità dell’acqua com-plessiva, e neppure dei funghi nelle valli.

– E la neve?Faccenda complicata, ancora da studiare. – E il vino? – chiede Warùi maligno. Il vino? Conta quando è giù nelle cantine, sotto ter-

ra, nel regno delle muffe e dei fermenti. Capito? Già, ifermenti: – I fermenti sono viventi? – ci chiede il vec-chio tra le smorfie terribili del giovane che forse temealtri segnali del destino. E noi lì seri e zitti. E ci ripetela domanda: – Sì, i tuoi fermenti sono viventi, – gli faWarùi.

– Bravo, Faccetta Nera! – Sono queste le cose da sa-persi, là sotto si giocano i destini delle acque, e poi delmondo in conseguenza, sotto terra, giù in cantina, neipozzi e in fondo ai laghi: questa è la vera ecologia.

Io lo ascoltavo affascinato e mi è montata la paura di

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– Taaglioo! – gridava la Signora, sempre nei puntimeno adatti a farci fretta, come la pubblicità nel filmche ha appena incominciato a interessarti alla tivù.

Anche quella mattina la Signora ha ripetuto il suostrillo lungo tutto a onde: – Taagliooo! – dopo la terzavolta che mandava a dirmi con la piscinina di sbrigarmia finire col mio taglio.

– Arriva! – gridavo, tanto da coprire i rumori di qua-rantacinque macchine da cucire marca Pfaff: Pfaff,quarantacinque volte Pfaff, dipinto grosso in pancia adogni macchina. Nessuno ci riusciva a dirlo bene, mai,quel Pfaff, però era così adatto a farci un bello sbuffo difatica: Pfaff.

– Arriva! – Un taglio di cinquanta sottovesti è pron-to da spartire ad ogni Pfaff.

Quasi mai mi chiamavano per nome, sul lavoro.Strillavano quel Taaglioo! Però il mio nome è Tore, To-re Melis che poi sarebbe Salvatore: – Salvatore salvatutti, salva l’anima dei prosciutti, – cantilenava sempreCarmelina. È il momento di dirlo, perché qui il mio no-me, Tore, ha un poco a che vedere con il resto. Di nomime ne davano parecchi, al mio laboratorio, certuni spi-ritosi, divertenti e strani, come quello che un giorno mi

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E che ci andavano rinfronzolite, odorose e pimpan-ti, con un petto nuovo sollevato fino al naso (ma io en-travo in nuove crisi: anche così rifatte rimanevanoagnelline, mi dicevano meno che al laboratorio, comedonne).

La prima volta ci ero andato in jeans, con scarpebianche da pallacanestro e una T shirt della ColumbiaUniversity comprata dall’Abdùlla prima che migrasse afarsi la stagione sulle spiagge romagnole. Si stava lì al-l’aperto, sotto pampini e grappoli di un pergolato.

Mentre in raso nero la Signora offriva a tutti i suoisorrisi con tartine, anche le mani finalmente in alta te-nuta di anelli e di unghie laccate, un tuono solitario hascosso cielo e terra e l’eleganza del Bolgiani in doppio-petto bianco e fermacravatta d’oro; poi una trombad’aria ha scompigliato tavoli e tovaglie e tovaglioli ac-cartocciati nei bicchieri e ha fatto volare il solo cappel-lino. Subito l’acquazzone ci ha spinto tutti nell’interno.Io mi sono bagnato più di tutti, perché ho recuperato ilcopricapo di Floriana che gridava e inseguiva il suocappello azzurro, che rotolava via, rimbalzava tirandosidietro il Salvatore, con applauso finale al coraggioso.

L’Avvoltoio non faceva più sforzi per nascondere ilsuo umore da naufragio. Dava ordini imbronciati ai ca-merieri che spostavano i tavoli al coperto, mentre l’ec-citazione della festa aveva preso tutti gli altri. Finchénon ha bevuto, l’Avvoltoio. Verso la fine poi si è fattomolto brillo, con la rosa all’occhiello e col riporto stesoda un orecchio all’altro, ha fatto un brindisi per cele-brare i buoni affari, felice come un bimbo tra i giocatto-li. Annusando la rosa sul risvolto della giacca bianca:

– Io non sono orgoglioso, – confessa con orgoglio,– ma io, dove piscio io nasce una rosa, perché ci ho

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ha dato la Floriana, la Signora ha approvato e mi è ri-masto addosso lungo tempo.

È successo così. La prima volta, proprio al mio pri-mo ingresso dentro lo stanzone, col gran fascio di pezzigià tagliati, pezzi da distribuire alle ragazze, un po’ aciascuna, ecco che la Floriana intona un vecchio canto:proprio lei, tra tutte la più seria, primo perché era ve-dova, anche se così giovane, e poi perché veniva subitodopo la Signora, badava a tutto se non c’era la Signoranè il Marito, stava dietro alle nuove, con tutte aveva au-torità da amica anziana. Con voce forte e chiara, soprail brusio scontento che di colpo si levava ad ogni arrivodel fascio di fatica dentro lo stanzone, la Floriana ha in-tonato: “È arrivato l’Ambascia-Tore… – e giù tutte a ri-dere, compresa la Signora. La Carmelina non dimenti-cava mai di ricantarla poi per mesi e mesi, ogni voltache io ricomparivo sulla soglia:

È arrivato l’Ambascia-Tore, Sui campi e sulle valli…

Di giochi di parole con i nomi le donne ne facevanoogni tanto. Il mio si prestava. Potevo diventare il Ta-glia-Tore, per esempio. Questo è facile: ma ce n’ho mes-so ad accettare Ambascia-Tore, fino a che per caso me loha fatto accettare la Floriana, la notte a casa sua.

Difatti una volta all’anno la griffa e i Bolgiani c’in-vitavano tutti ad una cena in trattoria, prima della chiu-sura dell’estate, quindici giorni a mezzo agosto: – Tantde fa bala’ i tosànn, – come diceva per modestia la Si-gnora, – per far ballare le ragazze, – spiegava in italiano,– che lavorano tanto, che lavuren semper.

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lo sapeva già da radio ascaro: Jerry Essan Masslo, delSud Africa, quasi un compaesano.

– I terroni li ammazzano, noi gli diamo lavoro, – dicela Signora con un viso da crocerossina.

Il cellulare ha richiamato altrove il Falco. Quando il cibo nei piatti e sulla tavola non era più

che resto (ma sfamerebbe il suo villaggio per due gior-ni, so che Warùi lo sta pensando), e mentre anche lechiacchiere non erano che scampoli di festa, io fissavouna stampa ingiallita appesa a una parete della tratto-ria: Garibaldi sbarca a Luino, c’era scritto sotto. E ho ri-cordato il mio barbone della mensa delle dame pie (“Iosono di Luino”, ripeteva), a Porta Garibaldi: ancoralui, Garibaldi, con la camicia rossa e l’obbedisco. ComeJomo Kenyatta al suo paese, mi ha istruito Warùi: comeJomo Kenyatta, appeso in ogni scuola di boscaglia; e miha insegnato cosa c’era scritto nella sua, di scuola di bo-scaglia: Kenyatta torna a Gatundu da Maralal:

– Sarà lo stesso per Mandela, chissà quando, ma sa-rà, – dice aggiungendo nel suo piatto al verde di lattugail giallo del budino e il nero di un’oliva: è la loro bandie-ra, di quelli di Mandela, dell’African National Con-gress. E ha sollevato il suo bicchiere per un brindisi,per conto suo, rivolto a Garibaldi che discende da unbarcone: – Harambee! – mi ha gridato col fiato nell’o-recchio: il grido dei suoi padri, il nostro Fortza paris! si-gnifica lo stesso: Forza insieme! Ce lo gridavamo a mez-zofondo, io nella sua, lui nella mia lingua, per sentircicomplici alle prese con la stessa sorte da cercare di fre-gare. E che il mondo è piccolo.

Ma poi davanti ai resti tremolanti di crème caramel,mentre arrivavano fumanti le tazzine del caffè, Warùiha raccontato a tutti le feste che si fanno al suo paese,

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culo, io. – Risate, applausi, tutti uniformi al clima checreava lui, mani tese alla torta che arrivava. L’Avvoltoiorovescia la sua testa all’indietro sulla spalliera della se-dia, tutto rosso, gli occhi gli schizzano dal capo, ranto-la, tossisce e finalmente, vinto l’accesso di quel buonu-more, mentre si asciuga il molto sudore sulla pocafronte, continua raccontando che in famiglia, ai tempisuoi, se si mangiava un pollo era perché qualcuno eramalato, il pollo o chi se lo mangiava. Giusto come danoi, si dice, scommetto pure da Warùi, capre compre-se, ancora oggi.

In fatto di culi l’Avvoltoio si vantava di capire sem-pre subito quali leccare e quali invece sono da prenderea pedate. Non so dire degli altri, ma non avevo dubbisulla qualità del mio. E l’Avvoltoio continuava a tirarfuori quelle sue saggezze, per attizzare l’allegria comeun monello. Ma era un’allegria senza colori.

L’anno seguente invece l’Avvoltoio non era anfitrio-ne, era ospite anche lui: avevamo l’onore di cenare colgran capo della griffa. E c’era anche Warùi: – Non ti farnotare, – gli diceva il Bolgiani, scherzando già dopo gliaperitivi, sempre in attesa che arrivasse il Falco, – nonpulirti la bocca con l’angolo della tovaglia: non mi farsfigurare, fai l’àscaro per bene, siamo intesi.

– Aye aye, sahib, – gli rispondeva Warùi. Il grande capo ha fatto un salto lì da noi quando era-

vamo già alla frutta, però è riuscito a dare un look tuttodiverso a quella festa, già distesa e pacifica di vino.

– Hanno ammazzato un nero, – se n’è uscito serio,accennando a Warùi, grattandosi con l’indice nel cen-tro della testa, – l’altra sera, giù in Campania, in un pae-se…”

– Villa Literno: si chiamava Jerry, – dice Warùi che

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del marito. Mi sento importante. Con quella sbornia dasmaltire ride e piange, piange e ride, mi si aggrappa ad-dosso per star su, o quasi avesse freddo nella notte afo-sa di agosto: – Guarda, la luna è doppia, – ripeteva,chissà se per il vino o per le lacrime.

Mi dice la sua vita, io la mia, sentendoci compresi inogni sfumatura di parole. Vedova a ventitré anni è ri-masta la Floriana, senza figli, e ha cominciato a lavorarealla Lucetta Confezioni, dopo la morte del marito, chele ha lasciato questa casa milanese.

L’ho accompagnata fino a casa, a piedi, in via Pado-va, tornava bene a tutt’e due. L’alcol l’abbandonava aondate lente, come una pianta zuppa che si secca al sole.Era già tardi e la Floriana mi ha pregato di salire. Ormaiera la solita Floriana, senza bisogno di portarmi dentroai suoi tormenti. Mi ha fatto vedere la sua casa, e parlavae diceva: cercava un contegno conveniente, chissà qua-le. Si vedeva l’orgoglio di mostrarmi la sua casa, monu-mento dei tempi più felici, così piena, così a posto: en-trando mi ha costretto ad andare alla deriva sopra patti-ni di feltro, sul pavimento appena lucidato con la cera.Sul bel divano c’era una enorme bambola seduta, comeusano le spose al mio paese. Ha graduato la luce nel sa-lotto, ha detto che il suo tavolino era di noce siciliano.Sono andato nel bagno. Quando sono tornato, le hodetto come stavo dalla vecchia e dal Carlino. Lei miascoltava seria, ma le risate soffocate diventavano sba-digli di stanchezza: – Scusami, sono i resti della sbornia.Però tu come fai a stare con i neri, la notte lì a dormire?

Boh? Ci stavo e basta. È questione di grana, no? So-lo dormendo in certi posti si poteva contare su un pro-getto come il nostro, mio e di Warùi: con risparmi al-

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muovendosi in un rap seduto e in piedi: feste per balla-re e feste per cantare, feste per parlare e feste per tace-re, feste per litigare e per riconciliarsi, pubbliche e pri-vate, serie o soltanto per giocare, sobrie o soltanto perla sbronza.

La Signora ascolta e ride con il viso chino sui mali in-curabili del mondo

L’anno prima, in trattoria da Renzo, finito il tempo-rale, ridi e chiacchiera, tra il lavorare di forchette, sbat-tere di bicchieri, brindisi alla salute di ciascuno, sugoleccato con le dita, ecco che la Floriana beve troppo,perché voleva ridere e scherzare insieme agli altri, manon ci riusciva. La Floriana mi ha scelto come cavaliere.E così dopo il brindisi dell’Avvoltoio, mentre alcuniballavano, mentre già le ragazze sedevano sulle ginoc-chia dei loro fidanzati, siamo usciti insieme nella nottenuovamente calda e maestosa dopo il temporale, laFloriana e io, fuori a passeggio per Milano, sotto il cielostellato e con la luna, io e lei soli: – Dalle mie parti sonocosì tutte le notti estive, – le dicevo.

– San Lorenzo, – ripeteva lei, vedendo in cielo stellefilanti che non c’erano. Si lasciava condurre con lamansuetudine di un’agnellina un po’ malata. Ero la pri-ma volta fuori con una ragazza, lì a Milano, in pienanotte. A pochi passi dall’allegra compagnia, già ce neseparava un continente, solo con la Floriana in abito diseta, non volevo lasciarla andare via.

Ci siamo allontanati dal ponte della ferrovia, dalluogo dei barboni, più in là degli zingari che dicono pe-ricolosi, accampati nei prati di via Palmanova. E la Flo-riana a un certo punto fa le stesse riflessioni: la primavolta che anche lei usciva con un uomo, dopo la morte

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me in trance e se n’è andata via nella sua stanza. Molto alungo, troppo a lungo.

Un cantuccino nel vinsanto l’ho tuffato io da solo,seduto nell’attesa con le mani in mano. Finché ho ini-ziato a muovermi e a guardare tutto attorno.

Mi avvicino alla porta dove lei è sparita, mi ritrovotra le mani la maniglia, sto già per bussare, resto a guar-dare nella camera da uno spiraglio, non riesco a nonspiare: la Floriana di dentro tutta nuda si rispecchia in-tera sull’interno di un’anta dell’armadio, a mezza luce.Come staccare gli occhi dalla doppia bianca nudità,dalle braccia snelle, dalle scapole piane e dalla curvatu-ra delle spalle, dal movimento della schiena curva e dal-la spaccatura tra le natiche rotonde. Ho il fiato corto,non farti sentire. Eccola che prende posizioni differen-ti: si guarda e mostra un seno tondo, il ventre, il trian-golo scuro tra le cosce. Non ho più fiato mentre lei gio-ca con i seni, lenta e molle, si accarezza i capezzoli coipalmi delle mani, piano piano, gli occhi chiusi, premela lingua contro il labbro superiore, poi si struscia i ca-pezzoli tra gli indici ed i pollici, teneramente, in unmassaggio interminabile, finché s’irrigidisce sulle pun-te, sollevando il viso, gli occhi chiusi, e manda un mu-golio profondo e lungo: – Bruno, mio Bruno…”

La Floriana è tornata dopo mari di attesa, vestita inmodo meno complicato, più dolce nel viso. Stavo perdirle che lì a me sarebbero bastate solo briciole di quel-la tenerezza dedicata a un fantasma: – Mi dispiace la-sciarti, – dico invece, com’era mio dovere, separare lenostre solitudini.

Floriana ha aperto le palpebre di una veneziana, l’hatirata su e ha spalancato la finestra al cielo della notte. E

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l’antica, che un tempo erano un vanto, al mio paese.Oggi sono una stravaganza marabù. Tanto la notte tuttisiamo scuri, come i gatti. E poi un letto è sempre un let-to per chi è stanco e solo, specialmente d’inverno, in at-tesa del caldo che ti arriva a poco a poco, dentro len-zuola che all’inizio sono fredde, poi via nel sonno, viada tutto, ed è più bello abbandonare luoghi tristi, men-tre i muri traballano nel buio, raccogli gambe e bracciae solo la mattina poi ritrovi il bandolo di te fatto a ma-tassa, lasci che il corpo si riformi adesso qui.

Lei mi ascoltava tutta assorta. Avrei voluto dirle tut-to molto meglio. Ma è a questo punto che è cambiatotutto. L’ha ripresa il ricordo del marito. Mi parlava dilui, solo di lui: – Perché è un’ambascia ancora tanto for-te, per la maniera della morte specialmente, non ti dicodi cosa, e mi pregava, mi pregava di rompergli la testacol piccone: così pregava Bruno, poveruomo, in quel-l’ambascia.

Mi mostrava quanto era bello e giovane il suo Bru-no, nella foto del ciondolo formato cuore che portavaappeso al collo, posato lì tra i seni, con una ciocca deicapelli del marito. Guardavo i seni e poco il suo ritrat-to. Ormai però ci si era messo lui di mezzo, poverino, ilmorto: una delle due fedi le ballava all’anulare.

Perché siamo impacciati? Io non voglio tornarmenea Brugherio. E lei non vuole stare sola il resto dellanotte?

Lei cerca in un armadio, poi di là in cucina, mi offrei cantuccini da tuffare nel vinsanto, da una caraffa ma-dida di frigorifero: – Son cantuccini, comperati dal Binia Siena sotto il Duomo, perché son nata a Siena, sullelastre… Ma tu guarda cosa vado a dire, giusto a te, – e siè interrotta, mi ha riguardato spaventata, si è alzata co-

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La Signora: – Taaglioo!– Dove so io ti taglio, – brontolava Warùi fingendosi

scocciato. E un giorno mi ha spiegato la circoncisione,anche delle donne, mi ha detto com’è fatta una donnacirconcisa, poverina. Mi ha parlato di Wanja che facevail servizio alle fanciulle, al suo villaggio, cose da nondirsi qui a Milano.

– Siete selvaggi veramente – dico io, e lui fa un risodi pudore, però non rispode, il viso come quando pen-sava in una lingua solo sua. Poi mi ha spiegato che ilclitoride amputato, pestato in un mortaio di granito,impastato con bava di rospo e farina di cassava, se lomangia lo sposo il giorno delle nozze. Mi prendi? Faicon me come col Marito, quando gli racconti un’Africabalzana? Del resto è stato lui che mi ha spiegato che co-s’è una mestruazione, non come nei libri e nei silenzidelle donne.

Si lavorava sodo con due taglierine, nove ore al gior-no: in compagnia, ci scambiavamo pure la pazienza,mica solo l’aiuto nei lavori delicati. Uno tagliava per lenostre donne, l’altro per il lavoro a domicilio, a settima-ne alterne. E si parlava, molto più che al footing che ri-chiede fiato, e ai primi tempi mi faceva dolere la milza.Parlando lo portavo al mio paese, lui mi portava in

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ha cominciato a guardarmi in modo nuovo, come se di-cesse: che fa questo pivello in casa mia, stanotte? Cosìho pensato che dicevano i suoi occhi, senza più sorriso,e il loro azzurro uguale al cappellino mi è sembrato unmuro invalicabile di ghiaccio. Mi sono chiesto anch’iola stessa cosa, mentre lei diceva: – Be’, ma è stata pro-prio una bella festa.

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to. Che succede? C’era chi dava intorno volantini, testerapate e borchie strafottenti. Sul marciapiede oppostolui se li guardava e all’improvviso le ragazze comincia-no a strillare, lo chiamano sbracciandosi dalle finestre:– Torna subito dentro, – gridava la Signora, – non mifare il pirla, te, grand e ciula, vieni via, che tu non c’entriniente. – E la Floriana: – O grullo, bada a te, chè questaè la mattina della tratta. Fra poco ci fa caldo costaggiù.

Stesse facce di donne come quando bambino era fi-nito in un recinto di torelli il giorno della castrazione.Per non vederle e non sentirle, le facce e quelle vociesagerate delle donne, si è messo a passeggiare lungo ilmarciapiede, avanti e indietro, per curiosità.

La via Leoncavallo in quel momento si è bloccata, iltraffico strozzato: quattro tram gialli fermi sui binari, inuscita e in entrata dal deposito ATM. Poi si è sentito unurlo incattivito di sirena che sembrava mandato giù daDio che legge dentro i cuori. Warùi non ha fatto in tem-po a capire che cos’era e già l’urlio gemeva lamentoso lìdavanti. Un’Alfa della pula si è fermata stridendo, sonoschizzati giù tre poliziotti: a Warùi sono parsi mi-nacciosi, troppo armati. Non era il posto adatto a chi ègià stato a San Vittore, a un extra non ancora regolare.Si è ritrovato nella notte dell’arresto: – Qui bisognascappare, – si diceva, ma restava incantato a osservare.

Trambusto non ce n’era. Ma poi c’è stato un fuggifuggi, all’improvviso. Così gli è parso. Qualcuno adessogli dà uno spintone. Scappa, scappa. E si è trovato al-trove, in Mama Ngina, braccato da quell’altra polizia.La rabbia gli montava in corpo, e la paura che non chie-de più ragione. Un elicottero ronzava sopra il centro diNairobi. Picchiavano non provocati, i poliziotti: – Moimurder, Moi murder, murder, murder! – hanno gridato

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Africa, più spesso e molto a lungo: gazzelle e jacaranda,il fiume e i coccodrilli, lentisco mirto e agnello arrosto, iserpenti distesi a digerire lentissime agonie. Come seicurioso, diceva, mai visto uno così: qui tutti credono disapere tutto su di noi, dell’Africa, del mondo, ti fannola lezione. Si ragionava, si paragonava, nessuno si tene-va per sè i propri pensieri. Lui tirava un salario di unmilione: mandava al mese a casa solo centomila lire, chein shilingi diventava già un salario da contabile kenya-no, mantiene una famiglia, se c’è anche un po’ di sham-ba per le donne. Con un milione ci farebbe un anno, al-l’università di Nairobi, tutto compreso. Mi diceva chein Africa non lo spendono in cibo ed in vestiti ciò che sispreca qui in deodoranti. E gli ronzava sempre in testaquesto calcolo, di quanto sprecano a Milano in deodo-ranti, accidenti! A me lo ripeteva forse troppo spesso, eche qui tutto viene fuori dal petrolio, quello che sporcae quello che pulisce, da loro invece ancora tutto dallaterra, anche la speranza.

E un giorno dell’autunno milanese, rosso e giallo neiviali e dentro i parchi, Warùi resta lontano dal laborato-rio nella pausa pranzo: intrappolato in incidenti intor-no al Centro Sociale Leoncavallo. Lui stava andandonon ricordo dove, quando sul lato opposto della strada,per tutta la larghezza del portone, quello d’ingresso neldeposito, davanti alle due grandi tende di lamine diplastica colore latte che i convogli impazienti entrandoa volte spingono col muso, proprio davanti c’erano duetipi che tenevano disteso uno striscione: MOVIMEN-TO ANTAGONISTA.

Lì vicino stazionavano tranvieri, in divisa e in bor-ghese, curiosando. C’era un carabiniere pigro e annoia-

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calci da scarponi, oppure già arrestato a San Vittore,due foto, davanti e di profilo, impronte digitali, toglier-si cinta e lacci delle scarpe: proprio come la notte del-l’arresto, e in più pestato e in una cella a pane e acqua.

Ma Warùi camminava ragionando, già più calmo elontano dal trambusto. I passi calmi schiariscono le idee.Riprende le misure. Sciopero? Chi sciopera a Milano?

– Gli scioperi: voglia di lavorar sàltami addosso, – di-ceva sempre l’Avvoltoio. Oppure: – Si permettono illusso di far scioperi, tutti meno uno come me. – Un suoritornello, quando c’erano scioperi e vertenze. Se peròun giorno si mettessero a far sciopero quelli come lui,eh! allora sì che i padroni del vapore capirebbero, per-ché vedrebbero chiaro chi è che tira avanti la carrettaqui in Italia, anzi nel mondo.

Queste cose a Milano si fanno per i soldi, non comeda loro, contro il governo. Warùi si era beccato unoschiaffo da sua madre il giorno che al villaggio ha rac-contato dello sciopero a Nairobi, da studente: gli hamollato uno schiaffo ben riuscito, la sua vera madre,quasi spiccando un salto per centrarlo sulla guancia: –Dio solo sa come abbia fatto questo spilungone a uscirefuori da quel corpicino, – ha detto il padre serio serio,per alleggerire.

Però sua madre ha sentenziato: – Ne dovrai pascola-re tu di capre, e consumarti gli occhi sui tuoi libri, primadi andare contro i nostri capi. – Sua madre gli ha inse-gnato presto le cose da sapere. Anche su ricco e povero.

– Ricchi e poveri non sono necessari: meno di chi co-manda e chi ubbidisce, – dice Warùi nel suo BaringoRap.

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gli studenti contro il loro Moi, il presidente despota maamico degli americani, e della Regina Elisabetta. Gio-vani e uomini maturi si lasciavano picchiare e via getta-ti sopra i camion come bestie. Bisognava fuggire persalvarsi dai bastoni lunghi degli agenti, e dai cassoni diquei camion.

Sotto l’androne scelto per riparo, una vecchiettabianca e piccolina, le palme sulla faccia, mormoravatremando le parole strane: – Scemà Israel… Adonai…Adonai. – Poi è finito in un cortile, poco distante dalNew Stanley Hotel: un cortile sporco di piume, di buc-ce di cocomero e verdura, sangue, puzza di orina, mo-sche, muri di pietra macchiati di grasso, e il sole e so-prattutto la paura, mentre una donna in stracci cogliecose per il fuoco, e i topi tutto intorno.

– Circolare! – ha ordinato una voce. Era il carabinie-re pigro, rivitalizzato. Non bisogna cacciarsi nei pastic-ci: al laboratorio non poteva più tornare, strada blocca-ta. Ed è fuggito. Correva a perdifiato. Si è fermato ametà della via Costa. Dal petto gli saliva un rantolo rab-bioso, gli occhi se li sentiva già bagnati. Automobilistiscocciati, in coda da minuti, facevano domande, ma luinon capiva. Ha ripreso la corsa verso Porta Venezia,verso i bastioni che biancheggiano là in fondo come lanave grande che verrà a salvarti… Ma perché sto cor-rendo? Sto correndo per niente e in nessun posto, co-me una capra pazza. Fermati, ragiona… Si è messo alpasso. Dunque gli scioperi sono così. Non sono cosebelle, neppure a Milano.

Alla Lucetta Confezioni io mi chiedevo cosa gli saràsuccesso. Temevo gli skinheads. Me lo vedevo preso a

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Non ha arricchito mai nessuno neanche lì il lavoro, mai.Eh sì, ma se fa pena il povero, il ricco certamente muoveinvidie. E l’invidia è un pericolo. L’abbondanza di po-chi invoglia il ladro. Il ricco stupido si vanta, il ricco fur-bo si lamenta come fa il Bolgiani. Questo ti dice ovun-que l’esperienza, distillata col tempo e la pazienza.

Poi ne parlavo con Eligio, che ha l’esperienza dell’e-tà: – Se non ho visto tutto, ho visto molto, io, – si lamen-tava e si vantava tutto insieme. E ritornava spesso allasua voglia di curarsi i reumatismi: tutti mali buscati collavoro di tranviere, con quelle porte aperte a sbuffi ognimomento, correnti fredde e nebbia nei polmoni. Lostudio, certamente, quando ci si è nati, quello è il me-glio, ripeteva: – All’ATM tu saresti impiegato, stipendiobuono e piedi caldi.

Ma la finiva sempre lanciando quel suo vecchio in-dovinello, su chi è il padrone vero del duomo di Milano:– Eh, dimmi un po’ chi è, eh?

Io gli lasciavo la soddisfazione di rispondere che i pa-droni veri del duomo di Milano sono i piccioni.

Solo a me Warùi ha raccontato il resto di quel giorno,di come se ne andava a passeggio per Milano, dopo la fu-ga dalla via Leoncavallo. Si è ritrovato ai giardinetti pub-blici, ornati dei colori dell’autunno, già le due passate.Telefona al laboratorio: – Lucetta Confezioni buongior-no, – fa la Marilede, e la Signora dice spaventata di tor-narsene al lavoro: se viene suo marito sono guai.

Fuori della cabina lo ha colpito un odore di leoni, lìvicino: già, lo zoo. Warùi si è fatto avanti nei giardini.Aveva voglie nuove, voleva stare in pace per pensare.Anche perché, diceva, soltanto dopo che le hai fatte, oalmeno viste, certe cose, forse incominci un po’ a capirle.

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Ci abbiamo ragionato a lungo, nei giorni dopo gli in-cidenti in via Leoncavallo, nello stanzino al taglio conWarùi. Ed è tornato al suo problema del mondo divisoin due: quattro gatti ricchi, millanta topi poveri. Gli horaccontato di Lolloi Marongiu, che ripeteva sempre almio paese: – Senza i ricchi, chi dà lavoro ai poveri? Cene vorrebbero di più, di ricchi, qui da noi. – Warùi nonha riso. E dicendo e parlando risultava che in fondo so-no ricco anch’io, lui invece povero, Warùi, anche se lasua paga era la stessa. Mi ci arrabbiavo, i conti non tor-navano. Dicevo: – Sputi nel piatto dove mangi, – comese un nero non l’avesse mai sentita questa fesseria.

– Come muore il ricco? – mi chiedeva mia madre dabambino, e io mi torcevo nei tormenti, con le mani arti-gliate ad afferrare. – E il povero? – Mi componevo inun’attesa di delizie.

Il povero è simpatico ma costa. Warùi in seminarioha scritto su San Francesco che sposa Madonna Pover-tà, proprio in kikuyu, e le sue madri, quando l’ha letto atutti poi in vacanza a casa sua, non volevano credereche un bianco fosse povero, e per scelta. E Cristo nonha fatto il falegname e ha predicato il verbo ai pescato-ri? Le sue parole si perdevano nella boscaglia. Suo pa-dre ne intercettava qualcuna, veniva a dirgli: – Chi èpovero risulta scemo, bianco o nero che sia.

Ci piangeva miseria anche il Bolgiani, lui che i suoisoldi li teneva dappertutto, in banca, addosso, in testa epure nelle palle, e però gli piaceva dire che era povero,sempre in difficoltà: – Eh, lo so io che cosa passo!

Ma i vecchi in Africa ricordano i bei tempi quando laricchezza era salute e molti figli, prima del bianco e del-la prepotenza, quando tutti formavano un gran tutto,ognuno aveva e sapeva ciò che tutti sapevano e avevano.

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sta sotto un’ala e se ne andava intronato alla deriva. Wa-rùi se la godeva, mentre il cigno fluttuava perplesso nelsilenzio verde. Però un guardiano dei giardini, mimetiz-zato chissà come, sbuca al punto giusto e documenti,verbale, va be’ niente ammenda, solo il predicozzo, el’invito finale a ritornare a casa sua.

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Nessuno era a quell’ora nei giardini, nè vecchietti nèdonne con bambini. Meglio così, perchè se non ci vaicon la ragazza, e non sei un bambino o un vecchietto,non vai di giorno al parco, qualcosa t’impedisce di se-derti a una panchina. Ma quel giorno, nei giardini de-serti si è introdotto per pensare in pace, seduto e fermocome un quadro, guardando il dondolio di un’altalena,vuota, mossa solo dal vento… non come il vecchiopneumatico al villaggio, tenuto da due funi a un ramod’albero, con nugoli di ragazzini sempre intorno.

Poi si è incantato agli animali nel laghetto, si figuravadi cacciarli, docili, abbondanti: tutta la selvaggina, i pe-sci che bucavano le acque ed afferravano il mangiare.Immaginava la sorpresa dei vecchi cacciatori di bosca-glia, se messi all’improvviso nei giardini milanesi, contutto il ben di Dio tenuto per bellezza, messo lì solo daguardare. Stava lì immobile coi gomiti sulla spalletta delponte sul canale che fluisce nel laghetto, curvo a guar-dare le anatre e i cigni che venivano giù lenti lungo lacorrente: interessato alle loro usanze.

Perché c’era anche là, sull’acqua del laghetto, chi lafaceva da padrone sui compagni, specialmente nelgruppo delle anatre e dei cigni: sempre il primo a man-giare, e agli altri un po’ di avanzi, se ce n’era. Warùi haindividuato il più solenne e prepotente, un grande ci-gno bianco, che si era già ingozzato a spese altrui: equando gli è passato proprio sotto il ponticello, gli ha ti-rato sul capo un sassolino, scelto apposta, misurato. L’a-nimale ha mandato un gridolino, si è subito spogliatodella boria, scimunito, Warùi ha rivoltato le sue taschedi ogni fondo di briciole e altre cose, più presto che po-teva, e li ha buttati ai sudditi del prepotente, che primanon lasciava mai mangiare: mentre adesso teneva la te-

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– Taaglioo!– Eccolo, arriva!E arriva per davvero un taglio nuovo, bello ab-

bondante che ce n’è per tutte. Anche per chi non vuole,come mi succedeva con la Simonetta. Quel giorno digennaio era quasi un anno dal fattaccio.

A lungo ho consegnato i pezzi in blocco a Simonet-ta: – Ecco, fai tu le parti: torno di là per l’altro taglio, –le dicevo. E Simonetta zitta, neanche mi guardava, gliocchi dietro il tendaggio dei capelli, a volte con spallineesagerate (“pare Cristo in croce, se sta in piedi”, dicevala Floriana). L’incarico però me lo accettava: era unmodo per muoversi un pochino, per smettere di staresempre curva sul lavoro. La Signora sapeva e la Floria-na comprendeva.

Secondo lei doveva perdonarmi molte cose, Simo-netta, specialmente una. Era davvero lamentona. Ma-gonava ogni volta, quando le davo la sua parte di lavoro:come se fossi io a farla faticare. E a un certo punto hamagonato troppo: le davo sempre i pezzi più difficili,diceva, glieli sceglievo apposta, calcolati. Non soltantoio, anche Warùi: – A cosa diavolo gli servirà la testa, aquello lì! – gli ha detto un giorno alla distribuzione.

– A tenere le orecchie separate, – le ha risposto Wa-rùi.

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no gli uomini, pirlone, – diceva per me solo: – Dài, vie-ni via, smettila di gridare, – e mi spingeva verso lo stan-zino, dicendo le sue massime solenni: nell’uomo il gri-do è maschera della menzogna, e l’ira fa più male delmale che la muove.

E poi, terza cosa e più importante: la Signora, spe-cialmente lei, ci aveva l’abitudine, diceva sempre quellafrase, certe volte sul serio, certe volte per ridere, se unaragazza le sembrava in luna storta: – L’è minga nurmal,la g’avrà i so robb.

Il silenzio pesava sul recinto delle agnelle. Nessunapiù fiatava, figurarsi cantare. Stavano imbastendo, lemacchine lì mute come per minaccia.

Questa faccenda dei so robb, che cosa strana: o davaloro troppo da parlare oppure troppo da tacere. Nonera come al solito, quando silenzi lunghi si formavanoper caso, oppure per stanchezza, e d’estate di colpo ri-sentivi il fruscio del ventilatore che girava su se stessocome un passero ferito; poi una sospirava, si sporgevadi lato a fare confidenze alla vicina.

Il giorno dopo il fidanzato della Simonetta mi facevala posta, vicino alla Lucetta Confezioni. Lo conoscevoun po’ di vista, ci salutavamo: un ferraiolo brescianogrande e grosso, alto quanto Warùi, quasi due metri,ma Warùi nei suoi panni ci starebbe quattro volte: condue braccia così, che con un pugno ti procura l’effettodiscoteca, suoni e luci gratis. Aveva un collo il Gianni,che quando girava la faccia sembrava girarsi con il cor-po intero.

Fumava. Mi vede e butta via la cicca, la schiacciacon un piede e aspetta fermo, petto in fuori, dandosi

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Ma un altro giorno, appena le consegno il suo lavo-ro, fa uno scatto stizzita, e poi tra sé e sé, ma in un modoche abbiamo sentito tutti quanti: – Taglia-merda, – sibi-la tutta accesa.

Be’ no, questo non lo doveva dire. La merda è sem-pre merda, a parte quella negra che puzza di più, dice ilBaringo Rap.

– Senti tu, – le ho detto, preso oramai dalle parole,da quelle che si servono di noi, le vediamo arrivare mi-nacciose, non riusciamo a schivarle e le tiriamo fuori,proprio quelle che non vorremmo dire mai: – Senti unpo’, tu, ci vuoi fare un favore? Quando ti vengono i torobb, rimani a casa tua, non ci venire a rompere le pallea tutti quanti.

– Cavolo, ha parlato! – dice nel gran silenzio la Flo-riana. La Simonetta ha già richiuso la tenda dei capellisullo sguardo, porta alla gola le due mani, mentre il lab-bro le trema in piccoli sussulti, come per trattenere unriso sconveniente.

Oddio, che marronata! Le mie parole sono serpi fu-riose che è impossibile fermare. E io lì ancora a dire, aesagerare, a contraddirmi, mentre la Floriana mi fa len-ti gesti di diniego, come a un bambino capriccioso.

– Ma che male c’è? – dicevo spaventato: – È semprelei che rompe l’anima, però, la Simonetta… Sono soloparole, – ripetevo, – non ne muore nessuno”: certo, an-che se Simonetta non doveva buttarmelo sul muso atradimento, quell’insulto, manco fossi il Bolgiani ca-pintesta. Le parolacce dette da ragazze mi torcono lostomaco, spiegavo.

– Da noi le donne mica parlano così, – mi ha datoman forte Warùi, venuto ad aiutarmi, e forse esagerava,tanto non gli credevano: l’Africa, figurarsi: – E nemme-

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– Che cosa? – Ma te, di me non hai proprio paura? Oh sì che lo temevo. Be’, intanto, se il nemico ti at-

tacca tu ripieghi, questa è legge. Però il ripiegamento èla manovra più difficile. Ma certo, ero già più che pron-to a fare le mie scuse a tutti quelli offesi dalla frase ma-ledetta.

Io però non sapevo del vantaggio più grosso sul ne-mico, e ne ho sfruttato un altro, che ha funzionato per-ché già il vantaggio grosso funzionava per suo conto: ilnerboruto si era messo in testa che coi sardi non sischerza, tutti sanguinari, stai attento al coltello.

– Ostia, bada che ti ritrovi con quei denti rotti in ter-ra, – mi fa il vendicatore.

Warùi è arrivato a questo punto, coi suoi sorrisi seri:– Be’, ma sentite, – ci propone, calmo dentro, come fa-ceva il padre con quei gelidi pesci degli inglesi, – andia-mo un po’ in quel bar: tra noi, tra voi uomini è facile ca-pirsi.

Il bresciano nicchiava: cosa c’entra il negro? E lìWarùi ha sfoderato un italiano straordinario, mentre citrascinava verso il bar: gliel’ha spiegato meglio che po-teva, e non per istruirlo, che non si stava comportandomica bene: che toccava a Warùi, semmai, di fare il morodi Venezia, con gelosie da Otello, non a lui, che non eraafricano e poi terrone ancora meno, ma un bel bre-sciano delle valli, figurarsi, un gran camuno: uno cheviene da quel luogo famoso per le statue in legno, tantoè vero che da lì tutti i santi arrivano perfino al suo pae-se, in Africa Orientale, pensa un po’…

Manca il fiato al gigante, e pure l’equilibrio: – Porcavacca! – dice fissandolo negli occhi. Al cinema, a unascena così segue una musica gagliarda, squilli di tromba

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pugni a turno sulle mani. Mi sbarrava la strada con ilcorpo. Da lontano sembrava proprio uno da far cam-biare marciapiede a Cassius Clay, ma da vicino poi, ec-co che te l’apriva con due occhi timidi e indecisi, quasitonti: mica poteva permettersi di più una lavorante diLucetta Confezioni, come fidanzato, neanche la Simo-netta in minigonna e calzamaglia a rete.

La Floriana aveva spedito la Carmelina ad avvertir-mi che il bresciano mi aspettava per suonarmele. Eccola piscinina che mi corre incontro, gridando a pochipassi dal bresciano: – Adesso il Gianni te le suona. Co-sì impari. Statti accorto, mamma mia, che quello ti sde-rena.

Sul marciapiede il nerboruto mi fa un cenno con ildito prepotente, io stringo il labbro con i denti e quel-lo inizia col suo birignao di Valcamonica:

– Te a me ci hai qualcosa da spiegare. – A te? – e una mano mi corre nella tasca per sentire

il fazzoletto, perché già immagino le sanguinose conse-guenze di una botta. Da piccolo un buffetto bastava asalassarmi.

– Sì, a me, e anche ad altri ci hai qualcosa da spiega-re, te, mondo cane.

– Sì, ma che cosa? – Stai bene attento te: è già da ieri che dò fuori da

matto, io, per questa storia. – Mi dispiace, – dico io, e aspetto che mi arrivi quel-

la voglia di guerra che mi scatta ogni volta che mi attac-cano. Ma rinculo davanti alla sua faccia. Lo scatto belli-coso non arriva.

– Be’, ti dispiace e basta? – insiste lui. – E che cos’altro? – Fa’ mica il turlurù.

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– Eh, che sarà mai stato? – ha detto a tutte la Signorail giorno del bresciano, – el bumbardament de Gorla? –Già, perché la Simonetta non aveva lavato i panni spor-chi in casa, ci aveva messo di mezzo il fidanzato, a farestupidisie lì a due passi dal laboratorio.

Poi è venuto l’Avvoltoio. È stato un po’ a sentire, si èsubito scocciato delle donne che volevano ridirla tutteinsieme, ha fatto le spallucce e ha comandato: – Basta,ve’! Qui si lavora e basta.

E si è mostrato anche da me nello stanzino, conun’aria curiosa, quasi divertita, un poco complice. Si èfatto raccontare: – Tutte vaccate, – ha detto subito, to-gliendo il suo telefono dalla fondina. – Tutto alla donnadevi dire, se le fa piacere, mai la verità.

Via lui, arriva la Signora, con la solennità dei grandieventi. E giù la grande predica: diceva cose che all’ini-zio non capivo, dove però c’entrava anche il Marito,che quando lei aveva quei so robb, non la cercava mai,la notte a letto, per rispetto. E io sempre più zitto, an-che perché il Marito non riuscivo a pensarlo mentrecerca la Signora nella notte, a letto, lui che secondo menon aveva neanche il buon senso di volerle bene.

– Son cose delicate, queste qui, – ha poi concluso: –per maschi e femmine son cose delicate, dappertutto:anche da voi sicuramente, – ha detto rivolgendosi a Wa-rùi: – La natura le ha volute segrete ed invisibili, e cosìdevono restare. Non bisogna scherzarci mica tanto.

E chi ci scherza? Io stavo zitto, punivo la mia lingua,se lo meritava. E la Signora mi guardava male, per quelsilenzio tristo, puerile.

– Se partoriste voi, voialtri uomini, non sareste cosìsconsiderati, – ha detto la Signora andando via, su a ca-sa sua.

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e canto di violini. Bravo Warùi, l’hai steso, anche se pri-ma l’ho sfiancato io. E il gran camuno è lì come il ghe-pardo giovane che in caccia si ritrova in una macchiasconosciuta, senza più la preda, là dalle parti di Warùi.

Beviamo un sorso e lui bevendo segue le mie mosse,come cercando aiuto per capire, con quelle sopracci-glie sempre uguali.

– Sì, te però hai offeso la mia ragazza, – dice beven-do il brandy che gli avevo offerto: – E anche la madre lehai offeso, te lo dico io: ce l’hanno su con te, se tu nonlo capisci.

– Io capisco e mi scuso, se ci tieni. A me però nonchiedi com’è andata?

– A te?– Be’, c’era anche lui, no? – dice Warùi. Ormai ero inservibile alla sua vendetta. Ma ecco la

Signora, che arriva col suo passo tutto a onde, impu-gnando il ventaglio, mi prende per un braccio e mi tra-scina come un discolo di figlio alla Lucetta Confezioni:– Vien via pirlone! Quello lì ti pesta. E anche te, – dice aWarùi, – finché diventi bianco. – E invece io m’impun-to, convalescente già dalla paura. Mi concedo il piaceredi resistere, fingo la voglia di vedermela col nerboruto,anche se dentro valuto certe viltà non degne della famadegli avi.

– Glieli dò io l’onore e la vendetta! – brontolo fin-gendo di strapparmi dalla stretta piacevole della Signo-ra, giocando al coraggioso per dovere:

– Kefu, pezzo d’ignorante, – dice Warùi come can-tando un rap, – non sa che con i neri certe cose i bianchile fanno sempre in gruppo, specialmente di notte, in-cappucciati.

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petrolio che oscillava, seduti in cerchio con le coetaneedai seni già puntuti, sopra i letti di fango alla thingira, egli sciacalli urlavano alla luna in cima alle colline.

E poi da loro molti le bastonano, mogli figlie e sorel-le, così imparano ubbidienza e soggezione. Di donnecome queste, indipendenti, gli uomini da loro non sa-prebbero che farsene, ne avrebbero paura, le odiereb-bero, sicuro. Gli uomini da loro non hanno il dovere diessere cavalieri, servizievoli.

Raccontava dei tempi al seminario: delle avvertenzesui pericoli del sesso e delle donne. E ce ne ha messoper capire e cominciare a preoccuparsi dell’impuritàdella sua indole africana, finché non ha imparato a farsiassolvere, per poi peccare ancora.

E altre storie d’Africa. Come una che suo padre ri-peteva molto spesso, se ricordava certe feste antichedell’iniziazione: la storia della figlia del famoso BwanaMitchell, ricco di terre rosse comperate con una canzo-ne: di quando in un cortile c’era un mucchio di terric-cio, dove suo padre ci ha scavato quasi un segreto di fa-miglia, il giorno che si è messo a sgomberare, perchécaricando col badile sul carretto salta fuori una grandequantità di pezzettini di cotone, bruni di sangue antico.Non c’era gente intorno in quel momento. Temeva discoprire chissà cosa.

Ed ecco proprio allora arriva la giovane MemsahibMitchell a cavallo, bella come una rosa di giardino. Lachiama a testimonio per mostrarle quella strana novità.Memsahib Mitchell si fa tutta rossa, non dice una paro-la, rimonta sul cavallo e scappa via.

E ce n’ha messo il padre di Warùi a intendere chequelle cose provenivano da lei, dai primi tempi dei so

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Di là nello stanzone, poco dopo, nel gran silenzio siè levata chiara la voce di Floriana:

O giardinieraTu sei la mia sposa:Dammi una rosa Del tuo giardin.Non posso dartelaChe c’è il marchese:A fine meseTe la darò.

L’hanno cantata per un pezzo, anche le rockettare.L’ho spiegata a Warùi che ha fatto solo un soffio picco-lo dal naso, un suo modo di ridere: – Be’, però, menomale, – ha detto poi.

– Meno male che cosa?– Meno male che questa fesseria l’hai detta tu, non

io.Ci sono rimasto male. Finché non ho capito: l’avesse

detta lui, quanto pasticcio in più sarebbe nato. Solo chelui non era scemo come me: lo diceva così, per cortesia.

– Come sono le donne al tuo paese? – domandavo aWarùi.

– Sono diverse, ma anche uguali, – cerca di spiegar-mi, poi fa spallucce. Forse, dice, sono meno complica-te, però chi le capisce veramente? Non lui. Forse per-ché era stato in seminario, rifletteva, dunque ha guar-dato poco al suo villaggio le ragazze fare il bagno al fiu-me. E poi a tempo debito non ha mai fatto parte dellaleva dei giovani iniziati al suo villaggio, nelle notti distorie, quando si raccoglievano la sera, sotto il lume a

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Meno di un mese dopo la mia grande offesa a lei e atutto il parentado, è stato in un momento come l’altroche la Simonetta, mentre distribuivo i pezzi da cuciredentro lo stanzone, si è chinata e piegata con un ahi!,all’improvviso, e ha spaventato tutte le agnelline: sottole si è formata una pozzanghera di sangue, e ci hannospinto via per non vedere, me con la Carmelina, mentrela Simonetta già sveniva con due occhi bianchi.

E quando la mettevano sull’ambulanza, mi fa la Car-melina: – Visto cos’era, tu, che non capisci niente?

– Cos’era cosa? – chiedo io. Me l’ha spiegato lei, la Carmelina, che quello era un

aborto, povera Simonetta. Vedi quanto ti sbagliavi sulmarchese.

Poi mi è successo di sentire la Signora quando hafatto il predicozzo a Simonetta, il giorno che è tornata alavorare, reduce dalla clinica, e sempre così poco rad-dolcita dall’amore: – Ricordati che te il tuo capitale cel’hai lì tra le gambe, – le diceva: – E allora fatti furba etienle strette, quando non ti conviene, le tue gambe.

La Signora mi ha visto che ascoltavo: – Fatti gli affa-ri tuoi, te, – mi ha detto rossa in viso.

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robb, perché chissà cosa temeva che le stesse capitandodentro il corpo. Povera donna bianca, troppo male ini-ziata, così msungo, come umiliata da un’oscura vergo-gna di esser donna.

Ahi, le donne! Ci ragioniamo insieme. Qualcosa vie-ne fuori, da due teste diverse. Per esempio, che sì, forseprincipalmente per questa novità che capita alle donneall’improvviso, sì, per i so robb, lo sanno meglio loro co-me vivere con garbo. Rivestono di grazia la natura. Per-fino se in catene, una donna è capace di farsene orna-mento, come le antiche vedove coi panni neri. Lo san-no per istinto: questo è il modo sensato di restare almondo: mai allontanano da sè, come un contagio, labellezza, come facciamo troppo spesso noi, con un sog-ghigno, vergognosi, impacciati, spaventati.

Vivere con grazia è vivere senza che se ne veda la fa-tica. Spesso una cosa bella sembra nata per miracolo:più fatica ci metti, più sembra che ti sia venuta senzasforzo, così da un giorno all’altro, come il fiore chespunta in mezzo all’erba gialla appena arrivano le piog-ge, quasi il giorno stesso, dopo che la sua pianta è statamesi ad ingiallire sulle bionde savane di Warùi.

Parlavamo di loro in questo modo, quella volta,mentre le donne stavano di là tutte in silenzio, sprofon-date in se stesse. Sentivo che tra loro dominava un arca-no, per me troppo difficile da cogliere.

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Quella mattina il gioco contro il tempo mi riuscivamale, solo senza Warùi che a quell’ora se la stava spas-sando con la Serenelli. E così a un certo punto non misono trattenuto, ho controllato l’orologio al polso: ec-colo, ti sta bene, così impari, neanche due ore tutte in-tere hai lavorato stamattina. L’ho sfilato dal polso condispetto, il tenta-Tore. Mi son guardato intorno per unposto dove metterlo, nasconderlo. E l’ho infilato sottoun mucchio di modelli per le taglie rare, i meno usati.Davo le spalle al tempo e alla durata: senza pericolo chelo guardassi, per debolezza o distrazione, laggiù in fon-do, sullo scaffale più lontano.

Anche se sai di non avere addosso l’orologio, fai lostesso la mossa di guardarlo, ti cerchi l’ora al polso. Conle abitudini del fare, coi ricordi del corpo io m’inventa-vo tranelli contro il tempo, la noia, la fatica. Non biso-gna notare come il tempo passa. Cercavo di dimenticar-lo. Per questo mi proibivo di guardare l’orologio.Quando ti riesce d’imbrogliare il tempo, puoi procurar-ti la sorpresa di scoprire ch’è già ora di staccare, mentredentro ti sembra che devi faticare ancora molto.

Non sono giochi facili, io la pensavo un’arte raffina-ta. Non è come col tempo che misuri a giorni, mesi, an-ni, il tempo della vita, che da sè solo si stiracchia o si ac-

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ti e confusi. Non solo per la fama, che non guasta, maperché specialmente era inscì bel, poi ricco da non cre-dersi, ammucchiava i miliardi: ne aveva chissà quanti dilaboratori come il nostro, palazzi interi in viale Monza,ristoranti di lusso giù in Riviera, e pure scapolo. Eratroppo là dentro, era il mare versato in un bicchiere.

Sentivo chiara la sua voce allegra che scherzava di lànello stanzone. Era di compagnia, lui conosceva benele sue gallinelle, le imbesuiva tutte quante, e gli manda-vano sorrisi, tanti bei sorrisi in forma di cuore.

Un datore di lavoro pieno di grazia, ecco cos’era ilFalco, lo stilista, lui che vedeva fin nel cuore delle don-ne: anche se socio insieme all’Avvoltoio Solitario, eragentile per davvero, non era come l’altro.

– Lui quasi il nome se lo merita: datore di lavoro, –rifletteva Warùi. Perché aveva un rovello: le lingue sonosimili, ma certe volte, ciò che una lingua ti nasconde,l’altra lo rivela. Per esempio, se io sento ripetere piove arovescio, mi domando: com’è possibile che l’acquascenda alla rovescia, forse da sotto in su? Oppure quan-do sento dire il pelo dell’acqua, questo com’è possibile?Ma il peggio è quando senti cose come datori di lavoro.Allora dico, stai attento: non sono mica loro che ti dàn-no del lavoro, loro lo prendono il lavoro, lo comprano elo usano. Tutto il contrario, insomma, e poi tutto fun-ziona in armonia con questo equivoco di fondo. Saràpure un pensiero da africano, ma a lui, questo di dire chei padroni son datori di lavoro, pare uno stratagemma perconfondere le cose.

Però il padrone della griffa, lo stilista, il Falco, eraun padrone un po’ speciale. Warùi diceva che lo ha scel-to per mestiere, di essere gentile, allegro e compagno-ne. Lui sì che se scherzava le faceva singhiozzare di risa-

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corcia nel ricordo e così dici sembra ieri, mentre ripen-si a cose capitate più di un anno prima, e dici invecesembra un secolo di cose capitate l’altro ieri. Per im-brogliare il tempo di lavoro c’è bisogno del corpo e del-la mente, metterli in combutta, fare loro giocare un gio-co a nascondino. Molti gesti hanno una loro volontà, ela mente li segue anche distratta, mi spiegava Warùicon precisione da scienziato.

Cosa succede, quando riesci a passare cinque orecon l’idea che ne sono passate solo due? Ne sei conten-to, sia che lavori a cottimo o a giornata, e la capacità dilavorare resta fresca e disponibile, quasi ne fossero pas-sate veramente solo due, non cinque o sei, di ore: hai in-finocchiato la memoria, perché il tempo non è solo unacosa da orologi e calendari, è un modo tutto tuo di farei conti con la vita. Da bambino in campagna, Warùicercava d’ignorare il grande sole. Difficile però sfuggi-re alla sua luce, che all’equatore dice sempre l’ora senzasbalzi di stagione, alba alle sette, alle sette tramonto,sempre uguale: – Però sai com’è bello. Miliardi d’inset-ti e di uccelli salutano il giorno all’inizio e alla fine. De-vi venire giù a vedere.

– Sì, devo venire, – gli dicevo. E andavo in Africacon lui, sempre più spesso, lì nello stanzino. Ancheadesso, a fatica. E per tenere in scacco pure il tempo,insieme con lo spazio, io nascondevo l’orologio. Anchese le ragazze tengono la radio sempre accesa: grandeaiuto, se la radio non desse così spesso il segnale orario.

Verso le undici, come per premio, ecco che arriva lostilista, il grande capo, che quando compariva le ragaz-ze sembravano pollastre quando in cielo vola il falco,però non spaurite, eccitate: sussurri ritenuti, passi svel-

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dicevo io, ché tanto m’importava poco, in questo sen-so, delle agnelle.

– Va’ là che te le stai facendo tutte quante, a una auna, tutto zitto e buono, ci scommetto.

E così un giorno al solito teatro il Falco ci ha infilatoquesta scena nuova: – Senti un po’ – mi fa, – come si chia-ma la moretta nuova, tutta bella flessuosa e riservata?

– Agata, si chiama.– Quanti anni ha?– Diciotto anni. – Già. A me però non me la dài a bere, tu, con la tua

flemma. Te la sei riservata, quella, mica scemo. – Affari miei, – gli faccio io, ultimativo. – Ahiahiahi, che ho indovinato! – si è messo a can-

ticchiare, si mordeva la mano, mi faceva per gioco altreminacce, gli occhi ridenti. E se n’è andato come sempretutto allegro, baciandosi la punta delle dita per salutoalle ragazze.

Chissà quante di quelle sue datrici di lavoro nonaveva nè visto nè notato, lui che ogni giorno aveva in-torno le modelle. Agatinha però si faceva notare.

Erano affari miei, difatti: perché Agatinha aveva fat-to effetto su di me, le stavo dietro, le facevo la corte, ap-pena assunta alla Lucetta Confezioni. Non era ancoraun’agnellina, era come una che s’incontra lì per caso,nuova, come sull’autobus, per strada. E come le ragazzedentro l’autobus, Agata non mi guardava ancora in fac-cia, ma se non poteva fare a meno di vedermi, non pro-vavo la pena di riuscirle trasparente, e il suo sguardosembrava chiedermi regali troppo belli per poterli do-mandare. Al solo movimento della gonna mi sentivo untaglio della taglierina nelle viscere.

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te le agnelline. Così era sempre, quando veniva in visitada noi.

Ogni volta passava anche da noi, nello stanzino. E cidiceva un paio di cosette, sempre quelle, nel suo modocortese ed allegrone. Warùi diceva che la fantasia laconsumava tutta nelle sue creazioni di alta moda.

– To’, la mia Africa, – ci salutava entrando lì nellostanzino: – Jambo, Kenya.

– Sijambo, Mzee.– Hakuna matata.Lì si esauriva il suo kiswahili da safari, mentre Warùi

rimuginava che lui è un kikuyu, non un maasai, kikuyudi boscaglia. Anche per lo stilista giramondo lui dovevaessere un maasai, e poi guerriero, come si finge ognikenyano col turista bianco. Ma perché allora non glicontrollava le orecchie e gli incisivi, come sa fare ogniturista al Masai Mara? Era un propagandista del paesedi Warùi: ci aveva scalato montagne, pescato in torrentie cacciato in savane, cavalcato in deserti e ammiratoanimali selvaggi nei parchi.

Poi gli parlava sempre di neri molto bravi neglisport: pugilato, atletica, podismo. In quel periodo cel’aveva con il Camerun, rivelazione nei mondiali di cal-cio qui in Italia.

– Me li sponsorizzo, in campo col mio marchio. – Bene, così stavolta vince l’Africa. – Eh, ’sagerato! Tocca all’Italia, no?– Con lei vincono i neri, ci scommetto. – Ma noi facciamo tifo per l’Italia, noi! – diceva a me. Si guardava in giro, poi diceva: – Voi però state be-

ne, qui da noi, dite la verità, con tutte queste belle man-ze là.

– Quelle? Sono già tutte prese. Sono prese da lei, –

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occhi puntati su Agatinha nuova: Com’è ridotto que-st’uomo per te, Agata…, strillava la piccinina entrando lìda noi nello stanzino. Agata non parlava quasi mai. Pre-sa da attese e da incertezze dell’inizio, i primi giorni im-parava lavorando. Tutte la stuzzicavano nel suo silenzio.

Però neppure alla Lucetta Confezioni risa e cantidurano per sempre: tutto si spegne a poco a poco, soloqualcuna mormora il motivo solitaria. Il tempo tornalento. C’erano giorni che passavano interi in malumo-re, tutte scontrose e serie, nessuna più cantava, la radiostava spenta, era come un contagio misterioso: certevolte sembrava una ripicca contro l’Avvoltoio, che nonc’era ma c’era più che mai. Warùi se lo spiegava con ilclima, con il tempo del giorno: anche l’aria ha bisognodi variare, si fa musona oppure allegra, come noi.

Poi un giorno di sole che giocava con la polvere distoffa giù dalle finestre, ecco Agatinha all’improvviso,con gli occhi sempre fissi sul cucito, in un silenzio lun-go delle ore stanche, se n’è uscita a cantare, chiara enetta, con trilli e appoggiature al posto giusto:

Com’è gentilLa notte a mezzo april:È azzurro il ciel,La luna è senza vel…

Tutti in ascolto e meraviglia, perfino le più rocketta-re. Poi un applauso più di quando starnutivo dieci vol-te: perché era nera, la Agatinha, nera di Mozambico,non era mica nata all’ombra della Scala. Finito il cantocome una vendetta, è ritornata zitta per più giorni,tranquilla e laboriosa.

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Forse lo avrei giurato in tribunale, io, di non avereavuto mai un debole per una del laboratorio. Sarei statosincero: la memoria mi aveva sistemato le cose in que-sto modo. Legittima difesa? Non la volevo collocare trale agnelle, la tenevo in disparte, fuori dal recinto, den-tro l’autobus. E poi c’è stata Giuseppina, che tornava acadere sotto un’auto nei miei sogni di rimorso.

Ecco però che adesso ricompare, tutta intera, Agata,Agatinha, giovane come l’acqua di sorgente, da sottoun doppio fondo del ricordo, che s’inganna e cancella,anche solo a distanza di due anni. E poi si dice: questo èsenno di poi. Ma quando poi le fai domande un po’ in-discrete, la memoria risponde anche insolenze.

– Come ti chiami? – avevo chiesto invece ad Agatin-ha, il primo giorno del suo arrivo, anche se lo sapevo,mi era sembrato subito un bel nome, e io le avevo anti-cipato il mio:

– Io sono Tore, Tore Melis, – per aprire una strada edare prima di ricevere.

– Agata, Agatinha, – ha risposto Agatinha, offrendomila mano, e mi è venuta voglia di baciarla, come facevanogli antichi.

Ai tempi di Agatinha, le ragazze ascoltavano pergiorni un loro nastro, sempre quello: Agata, canzonevecchia, riscoperta perché era arrivata lei da pochi gior-ni, che benché nera arrossiva sentendola cantare, conl’ago si bucava mani e dita, le dita dalle unghiette lun-ghe e rosa:

Tu mi tradisci, Agata.Guarda, stupisci…

E tutte quante dietro a canticchiare, a ridacchiare, gli

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– Già, tutti lo dicono: però la fanno, per denari. – Tudo é questao de dinheiro.Warùi ci si arrabbiava, però faceva pure finta, per-

ché con l’Agatinha ci potevo parlare più di lui ch’è unafricano, quasi compaesano: tutta colpa dei bianchi,che ci fanno parlare come loro, protestava.

– E perché non parlate in africano?Macché, non si sarebbero capiti. – Ma forse allora è servito a qualche cosa pure il

bianco, giù da voi.Warùi ha riso… E comunque, il dinheiro, il denaro:

Warùi ci ha riparlato di suo padre che diceva sempreche il denaro si va a prenderlo dov’è, non è uccello dipasso, devi andargli dietro. E ha detto che si fanno sa-lassi pure al cielo, qui, coi soldi, e i cuori ci si svuotano:i bianchi mettono le loro vite in una banca, non hannopiù pensieri, quelli lavorano per loro. E se uno restasenza soldi, qui tra i bianchi, è come se davvero fossesenza testa e cuore.

– E ha ragione, é verdade.

Per lei ho speso tempo e soldi destinati ad altri sco-pi, prima di tutto per andare insieme fino in fondo avia Ripamonti, a casa del diavolo, ogni sera, per nonpoche sere: due mezzi e un pezzo a piedi e infine il 24jumbo-tram. Agatinha, lei sì ragazza d’autobus davve-ro, viveva laggiù in fondo con sua madre e col fratello.Ma fino a casa sua non si lasciava accompagnare, eneanche fino all’ultima fermata, centocinquanta metriprima. Mi pregava, faceva il viso duro, mi ordinava discendere almeno una fermata prima della sua. Mi so-spingeva quasi fuori di vettura, poi mi dava un sorriso,una stretta di mano. Io restavo impalato e non capivo:

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Warùi aveva chiesto ad Agatinha: – Da dove vieni in Mozambico?– Maputo. – Perché sei a Milano?– E tu perché? – Io giro il mondo. – Afortunado.Io, come già facevo così spesso con Warùi, subito le

ho chiesto: – Com’è il tuo paese?– Bonito, è bello… e povero, la gente soffre sempre. – Povero ma bello – dico io, – come te.Warùi le si è messo a parlare di suo padre, manco a

dirlo: – Mio padre è stato anche da voi, quando era inguerra con gli inglesi, proprio a Lourenço Marques…

– Maputo.– No, Lourenço Marques.– Maputo.– Sì, però lui diceva Lourenço Marques.– E tu no, hoje em dia é Maputo.– Scusa. Maputo, d’accordo. Mio padre diceva sem-

pre che lui è sbarcato nel porto di Lourenço… di Ma-puto. – E le ha spiegato che suo padre credeva che gliinglesi fossero immortali, finché ha scoperto che mori-vano anche loro, per davvero, anzi forse con gusto, agiudicare dall’impegno a fabbricare marchingegni am-mazzagente, bianca e di ogni colore:

– Anche a mio padre Winston Churchill non ha avu-to da offrire che lacrime e sangue, – così è tornato mo-nocolo al villaggio di boscaglia, e lì diceva a tutti che al-la guerra prendeva la mira con l’occhio perduto, infalli-bile, poteva anche mettere anelli alle dita del sole.

– La guerra… non è bella: la guerra è… per il dena-ro.

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disponi in altro modo, e nello sforzo c’è sempre qual-che cosa che riaffiora, al di là delle frasi, e poi sprofon-da tra una lingua e l’altra.

– Com’è che parli così bene l’italiano quando canti?– le ho domandato il primo giorno lungo il viaggio.

– Io, fu così… Sono qui per studiare il canto lirico. – Canto lirico: è una cosa che costa.Lei fa cenno di sì, certo che costa. E quanto costa?– Nao é barato, é caro, demasiado.– E per i soldi vieni alla Lucetta Confezioni. – Nao é bastante.– E invece del bel canto lirico ci impari le canzoni

antiche della nostra Floriana.Le ho detto che era bello che studiasse canto; che

anche Warùi e io stavamo risparmiando per lo studio,lui per finire l’università, io per incominciarla, se vabene.

Agatinha sorride, poco convinta, con le parole alminimo. Parla pochissimo, risponde niente, spessosorride, è già rispondere. Io parlo più di lei, ma nonvuol dire.

Mi sono fatto una cultura intorno all’opera e al belcanto, grazie a lei, e per non sfigurare. Avrò ascoltatoventi volte il primo atto di Bohème, soltanto quello, suimezzi pubblici, dividendo con lei le cuffie del suo walk-man: stava studiandosi la parte di Mimì, piangeva sem-pre quando Mimì canta che i fiori che lei fa non hannoodore.

E un giorno l’Agatinha ha raccontato la storia com-plicata di una loro eredità, divisa male, giù a Maputo, diliti tra parenti, proprio una dolorosa storia di dinheiro,dopo la morte di suo padre. Suo padre era un po’ ricco,forse quanto i Bolgiani, non quanto il Falco della grif-

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– Sai, scendi, tens que sair, – diceva nel suo portoghesea volte chiaro e a volte troppo oscuro. Io quasi mi of-fendevo sulle prime, resistevo. Poi la mandavo al dia-volo, quando mi ritrovavo messo a terra, scaricato, ilcuore freddo sotto un vento gelido di smarrimento, elei in vettura continuava la sua corsa a testa china den-tro il jumbo-tram: quella con me ha già chiuso, basta,finito, acabado. Io non mi faccio coglionare. Ma poi latampinavo con la fantasia, fino a casa sua, e anchedentro casa.

Il giorno dopo daccapo, sembrava che i miei occhinon avessero mai smesso di vederla: tornavo a dare sen-so a tutto in relazione a lei, ricominciavo a domandarmichissà cosa aveva in testa, perché faceva questo e quel-lo. E la domenica poi io la chiamavo al telefono con igettoni che finiscono: ma immaginarsi la conversazio-ne, senza mani e viso.

E però sono io, riconoscevo, sono io che non ho ge-sti per saperla amare. Io non avevo pratica, mi ronzava-no frasi nella testa, ma le labbra restavano cucite. Leavevo regalato il miglior ciondolo d’avorio comperatodall’Abdùlla di Brugherio: lei quando mi vedeva loprendeva in mano, un gesto sempre uguale, e ogni voltale gambe mi tremavano. Alla Lucetta Confezioni vive-vo ogni momento come se da lei mi arrivasse un profu-mo, che non potevo smettere di respirare.

Sull’autobus si chiacchierava solo a spizzichi, mi-schiavamo i linguaggi tra una spinta e un urto, nelle orepiù ostiche di punta. Cercavo di proteggerla, lei troppooffesa per il pigia pigia che durava fino a casa. Quandorideva lei ridevo anch’io: già tutto era più semplice, co-sì. Ci guardavamo intenti per capirci, provando e ripro-vando in varie lingue. Richiami indietro le parole e le

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ni? E questo è quello che a Maputo vi dovrebbe arran-giare tutto quanto? Lei mi ha spiegato con impegno:qui a Milano, sua madre e suo fratello dicono che lei adivertirsi non ci va con chi le salta, devono sapere, con-cedere il permesso. Lei mi guarda decisa, vuole saperese ho capito.

– Ma tuo fratello, da me che cosa vuole, un belgelato?

Agata si è messa a piangere, a singulti, rigirava la fac-cia per nascondersi, la sprofondava nel segreto compli-cato della sua borsa di ragazza, faceva turbinare aschiocchi le treccine con le perle variopinte: lacrimegonfie, abbondanti e rotonde le scorrevano lunghe sul-la faccia.

Le ho accarezzato le treccine, ho cercato di farla unpoco ridere, le ho raccontato una storiella che dicevamolto spesso la Signora, un giorno sui terroni e il gior-no dopo per i neri, per sentirsi meglio: di quel ministroche, salito a visitare una nave modernissima, chiedevaspecialmente dei sistemi per dirigersi nel mare, in ognitempo: – E se poi tutti questi apparecchi vanno in ava-ria? – chiedeva; e il capitano gli spiegava che se non c’èil sole nè le stelle e c’è la nebbia, la bussola si è rotta etutti quanti gli apparecchi, be’, ci resta sempre il negro:il negro, e cos’è il negro? Il capitano chiama un mari-naio: – Tu, Bongobongo, buttati a mare, – e Bongobon-go, o Gennariello, fa lo stesso, pronto si butta a mare: –Ecco, lo vede? Lei butta a mare il negro e quello puntasempre solo a Nord.

Agatinha ha abbozzato un sorrisino debole: – An-che con… rumo a Sul, – ha mormorato. Già, lei pensavaal Sud, Sud di Sudafrica che vale Nord da quelle parti.

Dopo, quando l’ho raccontata anche a Warùi, lui mi

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fa… stavano bene insomma, prima, coi portoghesi,quando Maputo era Lourenço Marques:

– Ma mio fratello… arranja tudo, – diceva molto se-ria. Parlava sempre di questo suo fratello che arrangia-va tutto. Doveva essere un dritto, questo suo irmao, cheaggiusta tutto, così un bel giorno potranno regressar acasa loro, in Mozambico, col bel canto imparato. Già,anche lei voleva ritornare a casa sua: più ti muovi e piùsenti il bisogno di essere di un certo luogo, del tuo luo-go. Già, proprio così. E le chiedevo: – E allora, questotuo fratello?

– Arlindo arrangia tutto, se Deus quizer.Si chiamava Arlindo, suo fratello. E un bel giorno le

ho chiesto se veniva a ballare in discoteca. Agatinhasolleva un poco il viso, mi sorride come un raggio di so-le, ma non ha risposto. Gliel’ho richiesto ancora il gior-no dopo: questa volta ha chinato il viso, triste. Ma è sta-ta ancora zitta. La terza volta ha detto sì, e ha precisatoche dovevo chiedere il permesso a suo fratello: – Io? Atuo fratello? – E già pensavo che per una musicista co-me lei la discoteca era soltanto un luogo di cafoni.

E sì, proprio al fratello Arlindo. – E che, ci andiamo con Arlindo, in discoteca?Ci ho ragionato su per qualche giorno. Ne ho parla-

to a Warùi. Lui dice bo’, sembra di quelle nostre barzel-lette sui terroni, gelosie siciliane. Però Agatinha, dice,ha il miele che le nasce dentro gli occhi.

– E va bene, – ho detto ad Agata una sera: – famme-lo incontrare, questo fratello tuo che aggiusta tutto.Quanti anni ha?

– Doze anos.– Quanti?– Doze, – e mi ha fatto vedere con le dita. Dodici an-

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I pali: alla Lucetta Confezioni li chiamavano così ein cento altri modi. La sera quasi tutte avevano il paload aspettarle, non vedevano l’ora.

Ma non la Marilede, la stangona friulana, la Marile-dona Corazziera, un metro e ottanta e tutto il resto in-torno, quella tutta orgoglio per l’ufficio di fare la telefo-nista: si faceva vezzosa, si spostava con movimenti dellatesta i capelli all’indietro per potersi appoggiare la cor-netta sull’orecchio: – Lucetta Confezioni buongiorno,– diceva in cantilena, ma in un modo che certo all’altrocapo nessuno la capiva, detto così tutto d’un fiato.

La Marilede un palo non l’ha mai avuto. Era un ar-madio, la Mariledona Corazziera. Aveva modi bruschi.Lavorava molto, lavorava soltanto, anche di sabato edomenica, in casa dei Bolgiani e certe volte anche la se-ra: ci faceva i mestieri, sapeva tutto della casa, guardavai figli alla Signora ed erano più suoi che dei Bolgiani.Fiore senza profumo, discreta fino ad annullarsi, nonso quanto ci ho messo, ma l’ho capito anch’io l’odoreche la Marilede si portava sempre addosso: di latte, dipipì, di borotalco.

La Marilede per tenere buono il più piccolo lo spa-ventava minacciando di chiamare l’uomo nero con la

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ha riposto duro, in latteria, che avrebbe fatto meglio, ilcapitano bianco, a far buttare in mare diecimila lire. Isoldi sì che vanno sempre a Nord, e i poveracci dietro.E come un saggio che ha già visto tutto, ha aggiunto chenoi tutti, bianchi e neri, siamo soltanto i resti di disgra-zie già successe.

È stata quella sera che ho fatto la promessa ad Aga-tinha: – Ti porto alla Scala. – Lei si è aperta in un sorri-so che non le avevo mai visto, con il miele negli occhid’ambra, mi ha fatto una carezza su una guancia: – Sì, tici porto io, vedrai.

Agatinha alla Scala non l’ho mai portata. L’incontrocon Arlindo non c’è stato. E neanche più con Agatinha.Giù a Maputo qualcuno avrà arranjado tudo, prima diArlindo suo fratello. Agata non si è rivista alla LucettaConfezioni. Che fine ha fatto? Ma tanto lei è armata ecorazzata della sua bellezza, è pure artista, il mondo lariceve compiacente, mi diceva Warùi: una come Aga-tinha non sarà mai tentata di fare mascherate per turi-sti, di ricattare i bianchi mostrando la miseria di noi ne-ri. Forse recita già in teatri veri, anche in quelli splen-denti di città europee, e canta Aida e Salomè, forse nonpiange più per i fiori di Mimì.

Ho rimpianto quei viaggi in fondo alla via Ripamon-ti, fino a casa del diavolo, col jumbo-tram, poi di nuovoal ritorno tutto solo, però viaggiando ancora come in-sieme a lei, senza guardare più le donne tutto intorno.Questa era l’Agatinha, la sola delle agnelle che mi hafatto fare il palo.

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– Perché piangi? – le ho chiesto più gentile che po-tevo.

– Non rompere le palle, porco mondo, almeno te!– ha strillato con voce velenosa, mai sentita. E mi hacacciato con la scopa, coi seni saltellanti sotto la pro-messa di quel carico di gioia. Le ho detto ciao, ma leinon mi ha risposto. Sono andato via.

Il lunedì seguente la Mariledona viene dentro lostanzino, brusca e vergognosa:

– Ci avevo un bel magone, sono fatta così. – Però, perché piangevi? – Perché… io piango tutti i sabati, ecco perché.– Senti, lo penso da un bel po’: con me non vuoi

uscire?– Avvicinati un po’ – mi ha detto. Io mi avvicino e lei

mi fa cadere un pugno sulla testa, mi sento barcollare: –Quest’oggi è lunedì, e il lunedì non sono triste, io, cometutti voialtri. È il giorno più bello della settimana, il lu-nedì, per me, capito?

– Si può fare domenica, – dice Warùi.– Ma va’ là, pistola: va’ un po’ con le tue nere, – dice

imitando il suo modo di parlare da africano. Eccola lì adesso, con gli occhi tutti asciutti e batta-

glieri: – E dite un po’, voi due. Ve le togliete o no, le ali,prima di andare a letto? Sennò sai che fastidio.

Io la guardavo e comprendevo che doveva far la du-ra, lei, perchè altrimenti, così grande e buona, era unbersaglio facile per ogni crudeltà. E lei mi fa una picco-la carezza, invece di un bel pugno sulla testa. Poi dicetutta allegra: – Il giorno che mi va di uscire con qualcu-no, nero o bruno, mi basta fare un fischio. Tanto conme non devi mica chiedere il permesso a mio fratello…E poi non c’è pericolo che tu mi fai il bidone, a me, te

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taglierina, Warùi, per tagliargli il pisello. È venuto a ve-derlo una mattina, l’uomo nero, con una coca-cola gi-gantesca e la cannuccia, lo ha fatto bere e lo ha sfidato afare a gara con i rutti: Warùi gli ha fatto un rutto modu-lato come un basso d’organo. Così son diventati moltoamici e la Signora ha cominciato a preoccuparsi perchéil ragazzino andava sempre in cerca delle facce nere,per ridere e giocare.

Avevano tre figli, due femmine. E qualche volta han-no portato la minore di dieci anni, la malata, handicap-pata, che non camminava, ma strisciava carponi, la can-dela al naso, non parlava, però mandava gridi da gelareil sangue, perché voleva sempre musica, supplicava congli occhi verso la radio e il mangianastri: mescolava allamusica i suoi stridi, andava in estasi, quando finiva poisi disperava, ne voleva ancora. E la Signora che cambia-va faccia, spersa, da madre dolorosa, e io mi vergogna-vo di essere al mondo con la mia salute.

Però la Marilede… perché la Marilede il sabato eratriste o arrabbiata, o tutt’e due? Di Marilede, il sabato,prima le si vedeva la tristezza, poi si vedeva lei, mi dice-va Warùi. Sabato pomeriggio era riposo, tutti via. E altermine di una mattina, giusto un sabato, per caso l’hoscoperta che piangeva, mentre scopava lo stanzone, diturno dopo la chiusura. Me la sono guardata di nasco-sto: piangeva per davvero, la Mariledona, scopandotutta sola, si puliva le lacrime col dorso delle mani e lesfregava su una felpa che sui seni aveva scritto a grandie calde lettere arancioni: HERE COMES A LOAD OFJOY. Un carico di gioia, come no?

E lei ha visto che guardavo. Ha frenato la smorfia diquel pianto e ha cominciato a moccolare in friulano, aminacciarmi con la scopa.

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po… e infine la più bella, l’Agatinha, negli abiti celestidell’Aida.

Quando è successo il fatto della Carmelina? Eraagnellina più di tutte, là dentro tra le agnelle, la nostrapiscinina, Carmelina. Magrolina e davvero piccinina,però sempre in moto, cantava e chiacchierava e masti-cava la sua gomma americana. Di ogni cosa lei riuscivasempre a fare un gioco, e intanto macinava più lavorodelle altre. Warùi diceva: – Ecco la formichina che tra-sporta uno scorpione – avanti e indietro dallo stanzoneal magazzino, dallo stanzone allo stanzino per il taglio edal laboratorio su dalla Signora, proprio sopra di noi;faceva cento commissioni e mille lavoretti, dava unamano da ogni parte. La chiamavano sempre, era la piùchiamata, e poi sapeva ancora ridere.

– Chi mi vuole? L’aiuto, – diceva entrando lì danoi.

Così ha fatto anche quella volta con Warùi, mentreio stavo di là nello stanzone a distribuire il già tagliato.Warùi se la sistema proprio al fianco: sì, ma non così at-taccata: – La lama può mangiare il tuo nasino.

– Così me lo rimettono più bello.Lui le ripete di badare a quella lama: – Non mi stare

attaccata a questo modo. – Lo sai che anche tu sei un bel fusto?– Non dire fesserie, tieni più forte, qui.– Non sono fesserie. E poi io sono grande: quattor-

dici anni e mezzo tra due settimane.Ne avessi almeno sedici, di anni, sta pensando Wa-

rùi. Ma stacci attento.– Il più figo per me non è il padrone della griffa. – Lo so, per te il più figo sono io. Adesso molla. –

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sardegnolo, come quello che hai fatto alla Floriana, incasa sua, eh, pirlotto?

E se n’è andata via, ridendo di me lì a bocca aperta.

Dopo quel giorno di gennaio certe volte me le so-gno tutte quante bene in riga, in ordine di altezza, sen-za tacchi, le agnelline del Vulture, le gallinelle del Fal-chetto: la Carmelina in testa e la Mariledona in retro-guardia, la Signora di lato come un ufficiale, il Falco el’Avvoltoio in lontananza, e la Floriana attenta a dare ilpasso mentre sfilano in rivista per il Taglia-Tore, tuttequante promosse già top model: la Rosalia Schillaciche leggeva a tutte un buon destino con i fondi del caf-fè; Silvia Sgranarosari, proprio milanese, che pregavasempre e poi si è fatta monaca in convento, la immagi-no tra le ciribiciacole di Chiaravalle; Magda la smemo-rata che ogni tanto si perdeva, muovendosi in città; laSimonetta impertinente in calzamaglia a rete e mini-gonne strippatissime (secondo la Signora le faceva concravatte di suo padre, ogni cravatta minigonne due); laRomina (Rompina) che alle orecchie metteva lampada-ri e la catena del cesso per cintura, dicevano certune, lepiù buone; Jitka la polacca latte e miele che beveva de-calitri di coca-cola e non voleva intendere che negozi eritrovi di Milano non sono tutti uguali, che variano diprezzo, sono di varie classi; l’Antonia Di-ogni-luogo,chissà mai di dov’era, che con accenti misti raccontavapassioni travolgenti, sfoggiava buonumore e però ave-va le unghie sempre mangiucchiate a sangue; la LuciBenzi che per piangere faceva teneri sorrisi ma per ri-dere piangeva a lucciconi; la Marilina antilope pruden-te che cuciva lenta lenta, con l’attenzione di chi non hafretta, di chi ha trovato la misura migliore del suo tem-

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na: – Il refe giallo? Io cerco il refe giallo… E cosa fai tuqui, col gallo nero? – chiede alla Carmelina, che si èbuttata giù dal tavolo, velocemente, cadendo dentro unbel candore chissà come messo a punto: è ritornata l’in-nocenza fatta Carmelina, mette le braccia in croce e re-sta in equilibrio sul tallone di un piede e la punta del-l’altro: – Io volevo sapere com’è che i neri fanno ad ar-rossire, – dice seria, di nuovo pronta all’uso.

– Corri di là a vedere cosa manca, – dice Warùi chefa fatica a ricomporsi.

La Carmelina fila via tutta saltelli, verso lo stanzone,ma sulla porta si rivolta e con la guancia che le sfiora laspalla lancia a Warùi l’ultimo sguardo ed un sorrisoprovocanti. Game over.

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Però la Carmelina sembra triste: – Ti hanno sgridato, laSignora, la Floriana?

– No. Mi piace stare qui, sola sola con te.Warùi si ferma, la riguarda: lo sta fissando rossa in

viso, gli occhi incantati e lucidi: – Le grandi guardanosoltanto lo stilista. Io guardo solo te, capito?

Warùi riprende il taglio. La Carmelina gli si attacca,gli si sfrega addosso, sotto il suo naso sente i capelli co-me spaghi. Rischia l’unghia dell’indice sinistro con lalama. Smette di nuovo. Lei gli fa ruote di seduzione conla gonna a pieghe, ruote di allegria, salta a sedere sul ta-volo e si mette a dondolare le gambette magre:

– Ti piacciono le mie gambe? – Le sue gambe sottili,quasi due stecchi che pendevano da sotto la gran gonnaa pieghe per finire nei calzini gialli:

– Anche tu con le gambe?– Non ti piacciono?– Fra qualche anno ne parliamo, – taglia corto Wa-

rùi. – Adesso, cosa dici adesso delle mie gambe? – insi-

ste lei con la vocina solo fiato. – Buone per camminare. Torna di là, vedi se c’è bi-

sogno di altro taglio, forza, fila.La piccinina non vuol scendere dal tavolo, non fa

più avanti e indietro con le gambe: guarda Warùi, colfiato corto, gli occhi velati e languidi:

– Ci vai di là a vedere, sì o no? – le grida quasi, spa-ventato per questa novità di Carmelina che lo fissa tra-mortita: – Non ti senti bene? – Le dà un buffetto sullaguancia, calda. Non doveva farlo: la Carmelina gli si ag-grappa addosso, mugola come un’agnella svezzata lamattina. Cosa fare?

Ed ecco la Floriana, che già da fuori dice in cantile-

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Quella mattina, già quasi mezzogiorno, ho incomin-ciato un quarto taglio: sottovesti di raso nero. Che ilgiorno fosse avanti lo dicevano già molte cose, anche sel’orologio era nascosto tra i cartamodelli meno usati,sullo scaffale in angolo. Il Falco, lo stilista, già volato viada un pezzo, era stato una cura dalla noia; ma duravanopoco le sue rare improvvisate, sempre meno di quelledel solito Avvoltoio. Le vere distrazioni sono rare, altri-menti non sono distrazioni.

Nella pausa del pranzo siamo rimasti quasi tuttidentro. Fuori era freddo e si era messo a piovere con unfruscio di raso fine, non come da noi, quando il cielo di-venta solo acqua, le nuvole si prendono a cornate.

Per risparmiare non andavo al bar: ti senti buono serisparmi sul superfluo. Se c’era Eligio nel deposito po-tevo farci un salto volentieri. Tra le agnelline ce n’eranocertune da fast food, mica da cartoccio, che andavano aun locale lì vicino, mangiavano alla moda, senza quasinè tavolo nè tetto: fooling in the rain, Warùi cantava lo-ro dietro se pioveva. Non ci andavamo quasi mai, Wa-rùi e io, a prendere la roba del fast food. E poi si diceche la pioggia è giusta, quando cade è per tutti, e invecepiove sempre sul bagnato. Sì, dice Warùi nel suo Barin-go Rap, però la pioggia del paese scoccia meno di quel-

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le girls vestite da texani che riunivano i vassoi. Con lesue cow-girls il manager stava facendo un nuovo espe-rimento, quell’estate, che secondo me consisteva so-prattutto nel chiamare in molti modi differenti la solitaminestra. In ristorante, in sala, io ci potevo entrare peraggiungere ketchup nelle bottiglie in plastica, pulire itavoli e vuotare i posacenere: io non avevo il fisico delruolo, quindi neanche i vestiti. Non ci dovevo entrareper servirle, quelle teste ritinte e quelle borchie strafot-tenti e maxi e minigonne, quei gattini in branco che pe-rò alle volte diventavano anche tigri.

Dopo che ho preso confidenza divoravo in cantinacerte fette di formaggio dalle grandi confezioni percheeseburger, seduto su una cassa a riposare un poco ipiedi stanchi di milioni di gradini di metallo: tanto sen-tivo subito se qualcuno scendeva, le scale ribattevano iltam-tam, il montacarichi era lento ma faceva un sibiloda jet: da usare solo per i carichi, lo dice la parola.

Con stanchezze di ferro, la notte mi portavo a casaun odoraccio di Kentucky Fried Chicken e di chips co-me contorno, anche dopo tre docce:

– Puzzi di San Vittore, – mi diceva Warùi, che colti-vava ancora orgogli di sguattero da Biffi Scala, dove ilcaffè si beve col ditino alzato, come pure il tè. Ci lavora-vo a volte fino a dodici ore, mi davano di più che allaLucetta Confezioni. Come pure a Warùi che lavoravaaltrove a torso nudo o in canottiera, col cappello di car-ta di giornale e i jeans bianchi di calce. Con Warùi mivedevo solo a fare footing, poi correvo al lavoro con latesta umida di doccia. Ma era un impiego a tempo, soloestivo, finché tornava l’altro dalle ferie.

Per divertirmi, giù di sotto in dispensa frigorifera,prendevo a calci teste di cavolo in corazze inaccessibili

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la dell’esilio, ti bagni meno che cadendo in mare, quan-do cadi nel fiume del villaggio.

L’estate prima io ci avevo lavorato, in quel fast food,Buffalo Ranch, durante la chiusura alla Lucetta Confe-zioni. Portavo un camice sempre troppo corto e in testauna bustina sempre troppo grande, tutto in bianco sujeans e canottiera: facchino, boy porter mi chiamava ilmanager, perché diceva che quello era il fast food piùamericano di Milano. Portavo su dalla cantina dei car-toni da venti chili di chips surgelate, in bastoncini, sec-chi da cinque chili di ketchup e fusti di olio da diciottolitri.

Dentro la vasca friggitora la mattina presto c’erasempre dell’olio dalla sera prima, col suo odore d’im-broglio. Arrivavo per primo e ci pulivo i vetri, quandoun sentore d’erba rugiadosa si mescola con quello dicucina, con il tanfo durevole di forni e di tegami dovecuoce molto cibo. Le chips sono già pronte in un minu-to, gonfie e croccanti con la giusta doratura, come piac-ciono agli occhi dei golosi. Più tardi affettavo i bastonidi pane francese ammucchiati come legna sul tavoloche aveva imbullonata un’antiquata taglierina, con la-ma a leva a mano: per me quasi un’offesa. Poi su conl’insalata e scatoloni di polpette di carne surgelata chesi gonfiano sulla piastra calda fino a diventare hambur-ger e cheeseburger, e poi quintali di Kentucky friedchicken: dalla dispensa frigorifera su al caldo grasso eumido delle cucine:

– Ehi, sottozero! – mi ordinavano i cuochi e mi guar-davano con aria sufficiente, con quei grembiuli doppi etripli sempre sporchi da non credere; secondo me se lisporcavano per darsi delle arie, anche se meno arie del-

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hanno dato una gran soga, da portare via: – Così dimen-tichi quelle schifezze del fast food, – mi ha detto Eligio.

Io poi ne ho fatto scambio con Warùi, salsiccia concassava. Ne aveva ricevuto in sacchettini, ridotta inschegge fritte, come le patatine, chips bianche con levene viola come un fiore di magnolia, come la piallatu-ra di un legno friabile. La cassava Warùi, Eligio la sal-siccia, per non dimenticare i sapori del paese: – Nonmandatemi più di queste cose, qui non mi servono, nonmanca niente, – così Warùi scriveva a casa sua. Però sene mandavano era meglio, specialmente d’inverno perle feste.

Warùi lodava i shishkebab, la salsiccia africana, in-voltini di capra cotti arrosto che spandono l’odore perle strade, le banane fritte, ma soprattutto esaltava lacassava, regina della shamba in mezzo al mais, al miglioed ai banani, già ben prima del the, del caffè, del pire-tro, dell’agave sisalana: colonne tutte in ordine e super-be, eserciti invasori senza scrupoli: eccole lì che avanza-no, le piantagioni bianche, si mangiano la shamba e laboscaglia, anche nei sogni milanesi di Warùi.

Il cibo del paese, fatto in casa: le ho conosciute pre-sto io le discussioni tra gente come noi fuori di casa, sulcibo del paese, interminabili o feroci, perfino scazzot-tate. Il cibo buono è solo quello del paese, l’altro faschifo perché non è nostro. E se si parla male della tuasalsiccia, della tua cassava, del tuo yam arrosto o delformaggio pecorino, è come se t’insultino la mamma, lasorella, la moglie, gli antenati.

Come la volta che Warùi ha ricevuto del rahat lu-kum, da casa sua per vie traverse e complicate, lì a Bru-gherio. Era il rahat lukum di mezzo mondo, Turkish de-light, ma fatto in casa. – Giuro che mi è sembrato pro-

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di plastica, tanto non si rovina, surgelato, ci vuol altro.Ho smesso di restarci anche la notte perché c’erano spi-rali e piastre ammazzainsetti in agguato dappertutto,lampade attiniche: friggevano anche loro, però mosce-rini, con certi sfrigolii, con elettrici brividi più o menolunghi, dipende dalla stazza. Non erano più ferie, mi ri-cordavano un po’ troppo la mia pelle elettrica.

E a fine agosto Eligio e Giuseppina son tornati dalmare e dal paese: lei nera ed imbellita, lui bianco conun pacco di salsiccia di cinghiale, fatta in casa in paesidi montagna, alla maniera antica. Mi hanno invitato apranzo, anche per festeggiare la salsiccia di cinghialecon odori e sapori di allegria: – Buona, – diceva Eligio emugolava, annusando una fetta.

Mangiava la salsiccia al modo nostro antico, l’odora-va soltanto e gli bastava a insaporirgli molto pane: – Lasalsiccia, la salsiccia, molto pane e poca ciccia, – ripe-teva sul serio e un po’ scherzando. Era come il baristadel Buffalo Ranch, che con gesti abbondanti serve dosimicragnose.

L’annusava beato, lui che non sa mangiare la salsic-cia senza pane, il formaggio nemmeno: inconcepibile,lui non saprebbe come fare, non conosce il modo dimangiare salsiccia senza pane. E mi ha rifatto in grandestile una sua predica su pane e companatico, com’eraprima giù al paese antico, ai tempi suoi, di quando c’erail pane ed era tutto, niente era importante quanto il no-stro pane quotidiano. Eligio ci si commuoveva. Anchela Giuseppina stava a sentire molto attenta, con i suoiocchi seri milanesi, bella come cercava di comprenderei rimpianti di suo padre. Non so cos’altro c’era per ilpranzo, dopo quella reliquia del passato. Poi me ne

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tela i vetri opachi di condensa: riusciva a non lasciarlisgocciolare, precari come un fiato, faceva in modo chedurassero, almeno fino a quando non rientrava la Si-gnora e si doveva cancellare tutto in fretta, perché ilsoggetto che meglio la ispirava in giorni tristi era il Bol-giani, sotto forma di diavolo o vampiro. E una voltaWarùi le ha suggerito di farlo in forma di avvoltoio e leha spiegato lui com’è il suo aspetto vero laggiù in Afri-ca. È venuto anche bene, sonnacchioso e rapace, posa-to su un’acacia, con il collo incassato nelle spalle a for-ma d’ali. Ma proprio in quel momento arriva la Signo-ra. Sul davanzale hanno rimesso il vaso di gerani. Warùisi è messo a farle intorno una sua danza strampalata, trail rap e la break-dance, proprio come si vede in certifilm di Tarzan, come s’immagina da noi che danzi unafricano, e l’Agatinha affascinata lo seguiva, con le trec-cine nere svolazzanti: ma intanto l’Avvoltoio vola viadal vetro istoriato, cancellato da mani molto svelte.

– Ehi, ma che danza è? – vuole sapere la Signora.– Una danza di guerra mau mau, – dice lui a casac-

cio. Lei si fa seria: sui Mau Mau la Signora ricorda di

aver letto, chissà quando, cose terribili su Selezione: – Etu sei stato un Mau Mau?

– Mio padre è stato un Mau Mau. Si vanta sempre,lui.

– Si vanta? – ha detto spaventata. E se n’è andatapensierosa, ma prima lo ha fissato molto a lungo, congli occhioni sorpresi, che non ti riconoscono.

– Ma è vero, sei stato un Mau Mau? – gli ho chiestodopo io.

Warùi quella volta ha inghiottito una voglia di risate

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prio quello, come doveva essere, com’era sempre statoil buon rahat di casa mia, – precisava Warùi. Finché poirisulta invece che non è di casa sua e nemmeno dell’A-frica Orientale, ma senegalese, destinato ad un tale chedormiva accanto nella stanza. Qualcuno aveva fattotroppi traffici.

Però da quel momento il suo buon dolce casalingonon è stato più com’era prima, è diventato un’altra cosaed ha invidiato Michel senegalese, che aveva già man-giato il suo rahat, cioè quello di Warùi. Warùi era sicuroche il senegalese ci ha trovato lo speciale rahat della suamamma, anche se poi ha detto pure lui che non andava,non era quello buono, quando ha saputo dello scam-bio, giurava che se n’era accorto subito, diceva che loaveva buttato tra i rifiuti.

– Ma così offendi troppo il vero, – gli diceva Warùi,che in fondo non se l’era presa: lui, quando qualcunol’offendeva, non comunque troppo, ripeteva a se stessoserio e lento: – Be’, ancora non è stata concepita quelladonna che sarà poi incinta dello stupido che potrà direa me parole che mi offendono.

Quel giorno alla Lucetta Confezioni quasi tutti ab-biamo consumato il rancio al chiuso, già preparato ilgiorno prima, con chiacchiere e sorrisi tutto intorno. Ele chiacchiere crescono man mano che il mangiare siconsuma, viene il momento di quei giochi scemi, chiusilà dentro tutti insieme, come bambini quando i grandimancano, perché la Signora risaliva a casa sua, sopra lanostra testa al terzo piano, su per la scala moquettata inrosso.

Dopo mangiato, la Marika jugoslava, proprio un fe-nomeno in disegno, ha scelto anche quel giorno come

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passato per le armi dagli inglesi, con un tappo di birraappiccicato a ventosa ad un capezzolo per fare il centrodel bersaglio.

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e mi ci ha fatto una lezione, per rimettere a posto alme-no i tempi, se non proprio i modi della lotta per l’Uhu-ru, per l’indipendenza, per la libertà.

– Be’, ma perché allora non gliel’hai spiegata, prima,anche alla Signora, questa vecchia faccenda dei MauMau?

– Da quando io e lei ci scambiamo segreti mau-mau?– se n’è uscito in inglese. E allora? Sì, appunto, quand’èche hanno bevuto insieme la birra degli amici, Warùi ela Signora, e prima ne han versato un poco in terra per imorti? Sai quanto gliene importa a lei delle storie afri-cane, di sogni e delusioni che non sono sue? Che im-porta a lei delle pirlate nere, storia che già riposa dentroi libri? Che cosa le doveva dire, che suo padre gli ha da-to pure il nome di Kihika, insieme a quello di Warùi, uneroe dei Mau Mau? Gli inglesi lo hanno appeso a un al-bero in piazza del mercato, dopo la presa di Mahee, aitempi dell’ Emergency, proprio Kihika, prima del dodi-ci dicembre del Sessantatrè. E poi, doveva raccontarlepure che le donne mormorano ancora storie misterioseed arrapanti, i giorni di mercato, sui Mau Mau?

Passi per la Signora, va anche bene, ma quando glie-lo ha chiesto l’Avvoltoio, il giorno dopo: – Scusami be-ne la domanda – ha detto proprio queste impossibiliparole in bocca sua, col naso decorato da venuzze ros-se: – Scusami bene la domanda, ma è vero che sei statoun Mau Mau? – allora gli è scappata la pazienza.

Ha detto sì, verissimo, ha fatto il Mau Mau, lui, Wa-rùi! Sì, un giorno ce l’ha fatta anche Warùi a fare il MauMau, perfino lui, mentre di solito doveva fare l’uomobianco preso a calci nel sedere, così impara, quandogiocava al gioco preferito, da bambino: solo una volta,quando i compagni gli hanno fatto fare il Mau Mau

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Basta pelle elettrica. Solo da tagliare cento pezzi invelluto a mezzaluna, per fermacapelli, e poi dei reggise-ni, pizzo fuori e tulle dentro. Roba per lavoranti a do-micilio, difficili a tagliarsi: pezzi piccoli, la stoffa è unpo’ tignosa, rimane a scale e svirgolate se non ci sai fare,specialmente con certi tipi di velluto; il tulle poi non stamai fermo, per non dire del pizzo che non sa cos’è laforma. Warùi sì che tagliava tutto da maestro, con lelunghe mani nere e coi suoi pole pole, tafadhali, pianopiano, bello bello.

Di pomeriggio, dopo un paio d’ore, quando il sole,se c’era, scendeva giù dalle finestre a organizzare arco-baleni di pulviscolo, il tempo andava via in discesa ver-so il termine del giorno. Quello era giorno di consegnadel lavoro a domicilio, giorno di marocchini. Tagliospeciale, perché nel taglio per le lavoranti a domiciliobisognava avere un po’ di scrupolo. Sennò i pezzi fattiin casa potevano riuscire molto male, giusto per via deltaglio, e allora la Signora li scartava. La conoscevo giàda tempo io la faccia di quelli che venivano a portare ipezzi fatti a casa, quando la confezione non piaceva allaSignora o a suo Marito.

Marocchini, dicevano. C’era però un’antica colle-ganza del laboratorio con le donne dei tranvieri del de-

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Diventava occhiuta, la Signora, controllando queipezzi fatti a domicilio, a uno a uno: – Qui non c’è micada fidarsi, – ripeteva. Ma di certune si fidava, facevacontrollare la Floriana, qualche volta lasciava questocompito anche a me, anche a Warùi. Le donne deltranviere e mezzo, fidatissime, me le lasciava sempre.C’era da far la cernita, scartare i difettosi. Facile a dirsi,molto meno a farsi: gli scarti non venivano pagati, e fa-cevano scendere il resto del compenso, perché se nescontava il materiale perso in pezzi mal riusciti. Non èche fosse molto critica la scelta, è che da tempo sostene-vo una mia disputa contro me stesso: da quale parte sta-re? Già, qui ti voglio. Stavo ancora in bilico, insicuro. Epoi questi non sono tempi e luoghi combattivi.

– Vieni che ti ho da fare un cazziatone, – mi fa unavolta l’Avvoltoio vulturino, perché ricontrollando ciòche avevo già accettato ne aveva giudicato molti dascartare: io non avevo gli occhi del padrone. Già, Wa-rùi diceva che il lavoro della cernita pareva tutto comequando Bwana Mitchell dava terre in affitto agli africa-ni: alla raccolta, le facce dei fittavoli dovevano essere lestesse di tranvieri e marocchini, mentre li riceveva sot-to la veranda, tuffando nel suo Porto tonde fette diananas.

E allora, da che parte stare? Non si può correre conla lepre e cacciare con i cani. Chiaro, non volevo esseregli Occhi-del-culo-del-padrone, come Lollòi Marongiusovrastante del marchese, che non aveva amici, sololeccapiedi: un leccapiedi al massimo può farsi i proprileccapiedi, non amici.

Essere gli occhi del culo della Signora, anche se delsuo culo la Signora andava così fiera. Gli occhi di dietro

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posito ATM. Grande organizzazione, pensata formida-bile, proprio alla milanese: l’Avvoltoio Bolgiani avevacento nidi succursali sparpagliati per Milano e nei din-torni. Come in casa di Eligio con la moglie, e adesso unpo’ di nuovo con la Giuseppina. Le donne lavoranti adomicilio erano molte, non solo di tranvieri e maroc-chini: anche parenti di ragazze nostre, mai visti alla Lu-cetta Confezioni perché loro stesse tenevano i rapporticol laboratorio, portavano via il taglio e riportavano ilfinito.

Ce n’era solo uno dei parenti che veniva spesso: ilpadre della Carmelina, disoccupato eterno, magro etriste, portava scatoloni della roba fatta in casa da tuttala famiglia, compreso il vecchio nonno. Quando la Si-gnora lo pagava, lui prendeva i soldi e sospirava anchepiù triste. Be’, ma perché, gli ha chiesto un giorno la Si-gnora. E lui le ha spiegato che già il prenderli, quei sol-di, voleva dire incominciare a separarsene.

Al suo paese aveva fatto il sarto, nelle Puglie, perciòdava sempre a tutti certe sue istruzioni, perfino alla Si-gnora e alla Floriana. Solo alla taglierina lui portava unasua specie di rispetto, o di disprezzo: – Non g’è arte, –diceva; e però la temeva, fingeva d’ignorarla, e con leime, non però Warùi, che lo preoccupava, lo guardavainsistente e poi scuoteva il capo.

Eccoli, verso le quattro, i primi marocchini, a conse-gnare il fatto e a prendere il da fare. La Signora mi an-nuncia a un certo punto: – L’è ‘riva’ un tranvier e mes. –Lo ripeteva sempre, se era in vena, quando arrivavanoin laboratorio questi due tranvieri, coppia fissa, anchein servizio all’ATM, l’uno alto e secco, l’altro un tappet-to tondo: un tranviere e mezzo.

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che io ti pago per il mio profitto, – mi aveva ammaestra-to l’Avvoltoio. Non l’ha fatto seguire da nessun secon-do, già bastava il primo: – E se per caso non ti garba, pa-drone di tornartene al paese. – Lo ripeteva spesso, piùspesso ancora con Warùi. Lo lasciavamo dire.

– Voi non capite quanto c’è dentro di lavoro, nellaboratorio: lavoro mio, lavoro di mia moglie, – dicevaa volte più pacato.

– E di noi altri, – gli precisa Warùi con faccia inge-nua. L’Avvoltoio è rimasto senza fiato, gli ha guardatonegli occhi, cosa rara, come farebbe un Maradona a unariserva che gli ha fatto lo sgambetto. Poi gli ha detto:

– Voialtri in Africa ne avete da imparare tante di co-sette… Noi qui abbiamo qualcosa da insegnarvi. Pri-mo, tu sei pagato per il tuo lavoro, no?

– Certo, a ciascuno il suo. Lo sappiamo anche inAfrica: unicuique suum. Lo dice anche Jakòbo. Le homai parlato di Jakòbo?

– Di chi? No. Chi è? Ma dillo bene in italiano, – el’Avvoltoio apre la bocca, come fa sempre per disporsiad ascoltare. Gli dava confidenza, poi era intimidito dallatino, si vedeva.

Così Warùi gli ha raccontato di Jakòbo, un altro chechiamava Dio per reggergli la coda, come Lollòi Ma-rongiu al mio paese: sosteneva che i poveri son poveriperché lo hanno meritato, e i ricchi stessa cosa, sonoricchi perché Domineddio vuole premiarli.

Come rideva l’Avvoltoio dell’idea di Jakòbo: risate dicattivo pagatore. Dopo matura discussione si è decisocon Warùi che il Vulture rideva così tanto perché lui nonaveva alcun bisogno di sforzarsi a costruire una sua teo-logia come Jakòbo, come Lollòi Marongiu, lì a Milano.

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che devono vedere dove il padrone non arriva con isuoi, giusto come Lollòi, cane coi lavoranti e sgabellocol padrone: soprastante sottostante, gli diceva il non-no. E aveva una filosofia, Lollòi Marongiu, la predicavaa tutti per convincere se stesso: – Poveri e ricchi, sem-pre e dappertutto.

Il tranviere e mezzo hanno portato scatoloni, lavorodi una settimana. Prendevo i pezzi a uno a uno, li guar-davo, contavo e stavo zitto. Nessuno chiede nuove diWarùi. E zitto pure coi tranvieri, che tiravano il fiatoquando un pezzo malandato finiva nel mucchietto in-sieme ai buoni. Erano reggiseni, borse da spiaggia, co-stumini da bagno e cuffie per la doccia, con la plissetta-tura elastica difficile. Anche i tranvieri mi seguivano se-ri e sospettosi: – Lo so cosa pensate, voi, di me ‘fricanoche si dà le arie, – brontolava Warùi quando toccava alui fare la cernita, – sapeste quanto vi capisco, io.

Lui lo diceva in qualche lingua sua, mostrando identi candidi; io invece non parlavo, anche per nonconfondermi contando. C’era ogni tanto un pezzo unpo’ sospetto e diventava faticoso da mettere tra i buoni,poi ci finiva quasi sempre, senza esagerare, sennò di-venta peggio: con una scrollatina delle spalle, alla facciadel Vulture. Perché se a domicilio una donna lavoravatanto tempo quanto una ragazza del laboratorio, comeguadagno aveva meno: con spese per l’attrezzatura etutto il resto, senza contare il gusto di fare quel lavoro amordi e fuggi, correndo dai fornelli al poppatoio, e i fi-gli intorno a fare confusione. Non riuscivo a non farecerti conti, da solo o con Warùi.

– Primo, ti devi mettere bene in quella crapa dura

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con una gomitata che gli toglie il fiato, per poco non lostende. Io ne approfitto per mettere da parte tutti i pez-zi dei tranvieri, tutto insieme a confondersi col resto dellavoro a domicilio. E la Signora firma già le ricevute, ri-copia dagli appunti della conta.

– Alla prossima, – salutano i tranvieri. Hanno esi-genze di allegria, si fermano a scherzare qualche po’con le ragazze che hanno già una faccia da fine giorna-ta.

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La conta del tranviere spilungone è già alla fine:scarti zero, finora, ma eccone uno proprio in ultimo,troppo nato male, non si poteva ammettere tra i buoni.Già la Signora al posto mio ne avrebbe fatto fuori unadozzina, chissà poi quante suo Marito. E invece io gliassolvo pure quello, lo confondo tra i buoni e così sia.

Quando è la volta del tranviere piccolo, lui ci fischiasopra, mani in tasca, finge una indifferenza un po’ ner-vosa. Con lui per il sottile? No, vacci ancora meno. Co-sì, nessun rifiuto, anche se da scartare ce n’era per lomeno una decina, tutte cuffie da doccia con l’elasticomal messo. Lo so che lui lo sa. Tirano il fiato insieme, idue tranvieri, appena terminato, e insieme si rimettonoa parlare delle gambe dei culi e delle tette delle nostredonne.

Si sentivano galli nel pollaio, loro, se il controllo deipezzi andava bene. Era un lavoro per la Svezia, tagliegrandi. Il piccolo tranviere ci racconta di quando stavain Svezia, manovale edile. Cosa faceva lui quando era inSvezia? Anche i cartamodelli lo sapevano cosa facevalui per abbordare le svedesi: si metteva solenne alla fi-nestra, come le donne al suo paese, con baffi ed elegan-ze, così anche lui passava per un tipo adatto alle stango-ne di quei luoghi. Ridevo anch’io, per cortesia, ha risoanche Warùi un’altra delle volte che l’ha raccontato:Warùi perché sensibile agli scherzi intorno alla statura,per motivi opposti a quelli del mezzo tranviere.

– Se gh’è de rid? – fa la Signora entrando. Da ridere?Io le faccio un cenno che voleva dire tutto a posto, giàsistemato io, mentre il tranviere piccolo di dietro allaSignora modella a gesti larghi le sue forme, seguendonele curve, con smorfie di entusiasmo, con occhi di rim-pianto. La Signora si accorge, lo centra nelle costole

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Finita, anche quella giornata di gennaio, sedici, mar-tedì. Fuori è scuro da un pezzo, con le luci notturne.Apro un po’ la finestra sulla via Leoncavallo: freddosecco. La Signora già canta una canzone a voce piena,quella di quando è in forma e in pace con il mondo:

La notte splendeDi mille luci E ai nostri baciSorriderà.

Canzone giurassica per dire che il lavoro è finito, elei è lontana dall’idea di controllare tutti i pezzi portatida tranvieri e marocchini: – Allora tutti via, nel granMilàn, – ripete alle ragazze con la fretta di svignarsela.

Gli stivaletti rinfilati si rianimano dopo le ore messelì in disparte, le ragazze parlottano vivaci, si sporgono aguardare cosa combina il cielo. Studiano con gli om-brellini angolature suggestive, li aprono con grazia, lirichiudono. Se ne vanno a gruppetti con le bocche fu-manti per il freddo.

Infilo il loden nuovo e mi manca Warùi che si mette-va a danzare una manovra complicata, col giaccone, co-me in un rap che non ha mai provato: inizia dai vestiti la

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de in un buchino del mercato, sballa le cianfrusaglie,bisticcia mistilingue coi colleghi bianchi, poi coi clientifa l’allegro, l’affettuoso, il burbero, il gentile e il galantecon le donne, alla fine reimballa e se ne va.

Warùi non l’ha cantato, ma l’ha fatto, l’ha dovutofare.

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difficoltà di vivere in Europa, diceva lui. Ma gli piacevail rito d’infilarsi i guanti, con mosse complicate delle di-ta lunghe e poi di toglierli tirando con i denti sulle pun-te delle sue dita lunghe e affusolate.

Lucetta Confezioni già si svuota. La Marilede sta lì lì per smontare l’alberello di Nata-

le, così vecchio e moscio, ma non le basta il cuore, se losta guardando un’ultima volta, con le quattro lucine in-termittenti.

Sere lunghe d’inverno, per chi ha la casa solo perdormire, diceva Warùi. Oggi Warùi non sente la cavez-za intorno al collo. Warùi è Warùi, sa meglio di me checosa è giusto, anche se fa i bilanci per poterli poi falsifi-care allegramente, perché le fortune sono sempre mi-steriose, ancora parola di Warùi.

Scendo di buon passo verso via Vitruvio, dai Sere-nelli, e prima forse lì vicino all’ufficio del lavoro, perWarùi e per me, perché non si può andare avanti a que-sto modo alla Lucetta Confezioni. In Piazzale Loreto,quando vedo Coin mi ricordo che le donne alla LucettaConfezioni mi prendono in giro perché continuo amettere le calze con i buchi fintanto che le scarpe li na-scondono. Ci entro a comperare calze buone per l’in-verno e certe cose da toeletta, ormai senza Warùi chetanto lui dentro quel labirinto del benessere ci si senti-va come un cane in chiesa.

Niente metrò, meglio camminare, esaminare il mon-do. Meglio evitare i pensieri che mi dànno i marabù giùper le rampe e i corridoi, dentro il metrò: nessuno più livede, è l’abitudine, ma io li vedo troppo. Proprio inquei giorni Warùi stava pensando a un altro rap, unosul vu’ cumpra’, mai recitato, sul vu’ cumpra’ che ven-

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Warùi se ne tornava adagio alla fermata per Bru-gherio, due sere prima, con l’umore stanco, poco dacompleanno, dopo il pranzo e la cena dai compatrioti,dall’italo-kenyano amico di suo padre, il Serenelli exFiglio della Strada. E adesso poi la sera aveva anchebevuto, per rifarsi l’umore. Eppure tutti, quasi a tur-no, in ordine gerarchico si erano occupati un po’ dilui, del festeggiato, anche il ragazzo milanese dellaSandra, che poteva anche fare a meno di venire a gua-stare la sua festa.

Warùi ha la visione di quel fidanzato milanese che siabbranca la sua Sandra, con le mani lanose, piglio daproprietario, mentre il Serenelli ficca tra le mani disgu-state di Warùi un’altra birra, gli chiede se la trova buo-na almeno la metà di quella loro, della grande kenyotaTusker Bier.

E cammina cammina, quando ecco in via Leonca-vallo ha visto luce alle finestre del laboratorio, luce veradi lampada, mica svolazzi di televisione: sì, era proprioalla Lucetta Confezioni, al primo piano, il tubo al neonriconoscibile da sotto. Gli è parso strano, sorprenden-te, che la Lucetta Confezioni fosse chiara ed attiva an-che a quell’ora. Che ore sono? Le undici passate. Chis-sà chi c’era dentro. Forse la Signora, lei che non smette

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faccia tranquilla di chi va per fatti suoi. Ma già sente itacchi inconfondibili della Signora, precisi e risoluti incorridoio:

– Chi è? – e gli ha aperto la porta, appena le ha rispo-sto che era lui, il Gallo Nero, e subito gli ha spalancatoanche il sorriso, per invitarlo a entrare: non l’ha tenutosulla porta, a chiedergli cosa voleva, col cartoccio delpranzo di domani. Lo ha preceduto fino allo stanzino.La nuova taglierina era attaccata, ronzava tutta allegra:

– Ti piace? – gli ha domandato subito, mostrandoglila sagoma di una mantella in raso per toeletta, di unarancione nuovo. Lui le ha risposto con un sì distratto:– Tu sì che me ne dài di soddisfazione, – dice con iro-nia: – Attento a non esagerare. – Si avvicina, gli portavia il cartoccio per il pranzo dall’ascella: – Sei una bellasagoma, va’ là.

– La mantellina è bella, – le fa lui: – Sì, davvero bella. – Per il Salone Moda Pronta, – gli spiega la Signora

con orgoglio: – Ci vinco ogni anno qualche premio,non lo sai? Ma togliti il giaccone. – La voce era attutitadal maglione che si stava togliendo su lungo la testa: –Qui dentro fa abbastanza caldo, non ti pare? – Ed ha ri-preso a darci dentro con il gesso e con le forbici

– No, tanto devo andare, – dice lui. – La taglierina: staccare dalla spina, poi, mi racco-

mando, – dice lui prima di uscire, con l’indice puntato,cercando d’imitare accento e voce del Marito. Ha fattoun viso scuro, la Signora, ma poi gli ha sorriso, passan-dogli davanti ha finto un po’ di scompigliargli i capellicon la mano. E lì si è ricordata, la Signora ha congiuntole palme delle mani sotto il mento e si è riaperta nel suogran sorriso: – Ah sì ma oggi hai fatto gli anni. O porastella, ma che bello però. E quanti sono?

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mai, è lì magari che controlla e prepara per domani; osuo Marito, a cercare gli scampoli finiti in spazzatura.Lo sapeva capace di rifare conti e bucce a tutti noi, for-se anche a quell’ora della sera. Lui molto più di lei.

Era proprio curioso, ma era tardi. Ha proseguitoverso il ponte della ferrovia. Sotto un’arcata si rintanaad aggiungere la puzza dei suoi reni a quella già stantiadi molti altri, mentre vicino un gatto si stiracchia eschizza via. Due sagome sono comparse in fondo altunnel, da via Palmanova: due zingari, ha pensato, diquelli col coltello. Ne parlavamo a volte nel labora-torio: zingari e marocchini con roulottes. Di là del pon-te c’era un campo nomadi. E un po’ più in là, dov’è ildeposito degli autobus, c’è un campo marocchino. Tregiorni prima avevano trovato un morto nero in mezzoalle cartacce. Warùi imbraghetta in fretta, se la fa sullescarpe, corre via, e sbuca fuori in Piazza Sire Raul conun sacco di plastica intorno a una caviglia. Warùi ral-lenta, ma le due sagome sono già lì anche loro. E nessunaltro intorno. Prende il suo passo da mezzofondista,giù per la via Leoncavallo. Ma sì, ha deciso, alla LucettaConfezioni c’è sicuramente la Signora: ci vado con lascusa che le lascio il cartoccio per il pranzo di domani:me lo mette in frigo. Lei ce lo dice sempre che dobbia-mo approfittarne. L’ha fatto già altre volte, certo noncosì tardi.

Ha esitato un pochino sulla porta, con la testa con-fusa, come di ubriaco. Finalmente ha suonato il campa-nello: niente. Suona più a lungo ed insistente: niente,forse non c’è nessuno, la luce ci è rimasta accesa per er-rore: sarò stato io? Ma le due sagome si stanno avvici-nano, ne percepisce i passi minacciosi, finché non se livede passare lì davanti, due extra in libera uscita, con la

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– O cielo, mio marito! E tu Warùi che fai lì grand eciula? Corri a nasconderti dentro l’armadio, no? – giàdice tutta allegra la Signora. E invita suo marito a farefesta a questo loro nero tagliatore: – Oggi è il suo com-pleanno.

– Te potresti essere sua madre, – brontola l’Avvol-toio, aggiunge chissà cosa in un dialetto misterioso.

– E te ce n’hai già più del doppio dei suoi anni, – gliha risposto lei, poggiando sopra lo scaffale la bottigliacoi bicchieri. Il Marito la prende, la stappa con un mor-so e beve a tromba. Grugnisce, si strofina la mano sullabocca, finalmente si muove verso lo stanzino.

Warùi si è spaventato per la voglia di fargli lo sgam-betto, quando gli è passato davanti col suo odore di vi-no non festivo. Ha fatto schioccare le bretelle elastichesul petto. Ecco che piomba sulla scatola dei pezzi dellavoro a domicilio, si mette a controllare con la facciascura, brontola e scarta, rivolto sempre solo alla Signo-ra:

– Ma tu guarda un po’… ma questa qui cos’è… mabene, andiamo proprio bene… e dove ce li avevi gli oc-chi, te, quando li controllavi? – Non un diocarpi glisfuggiva dalla bocca: brutto segno. Warùi già gli vedevadanzare sulle spalle le scimmie della gelosia. La Signorazitta. Ma quella cernita l’avevo fatta io, non la Signora,non Warùi.

– Io me ne vado, adesso, – dice Warùi, ma troppofuori tono. La cernita finita, l’Avvoltoio ha mostratocon disgusto i molti scarti, ha ripetuto un’ingiuria in-comprensibile.

– Ma stai zitto ch’è meglio, sei bevuto, – dice la Si-gnora.

– Stai zitta te, puttana.

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– Ventiquattro.Lei se lo guarda quanto è lungo, intenerita, senza

più ironie: – Allora bisogna festeggiare. Intanto tieni, –e gli ha scoccato un bacio sulla fronte, sollevandosidritta sulle punte, mentre lui si chinava: la sua camicet-ta era appena sospesa sopra i seni.

È andata giù di corsa, verso il magazzino: è risalitasubito con due bicchieri e una bottiglia, uno l’ha dato alui, gliel’ha riempito, l’altro era per lei: – È un vino micamale, – ha detto sollevando per gli auguri: – Viene qua-si dall’Africa.

Malvasia di Sardegna c’era sull’etichetta. Era un re-galo mio, pensavo che dovesse figurare molto a lungonella collezione di bottiglie da invecchiare che il Bolgia-ni teneva lì in cantina come in banca. – Be’, cento diquesti giorni… Certo però che li hai saputi usare bene,questi tuoi anni, per venire su bello alto in questo mo-do.

Gli stava lì davanti disponibile, tranquilla, intreccia-va le dita intorno al suo bicchiere, lo guardava negli oc-chi e Warùi si sentiva quasi dentro veramente tuttoquello che un mzungu vuol sentire al compleanno, a ca-podanno, alla cena aziendale, al matrimonio di un ami-co. Ha sollevato il suo bicchiere, l’ha sorseggiato ada-gio, glielo ha restituito con due mani, con l’inchino: leilo guarda, ma non comprende quelle cortesie, cortesieafricane, non sa che cosa fare, ma lo prende anche leicon le due mani, chinandosi per gioco.

Eccolo, l’hanno veduto insieme incorniciato sullaporta, e nelle viscere Warùi sente un tam tam di malau-gurio: nel quadro della porta spalancata, con le mani intasca, l’Avvoltoio impalato:

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tando i cuscinetti di grasso sulla nuca, – ringrazia che ildottore mi ha proibito di arrabbiarmi – Però si buttasubito con rabbia sulla moglie, la prende per le spalle,se la rigira come un manichino, le prende il polso e stor-ce l’avambraccio, la fa inginocchiare lì ai suoi piedi. E latiene così, stringendo la sua morsa ad ogni tentativo dislegarsi: – Non ti è bastato il calabrese, adesso te la faianche col negro.

E Warùi chiude gli occhi, forse così tutta la scena sidissolve, svanisce per davvero. Realizza che cos’eraquella strana deficienza: le agnelle nel recinto, le ragaz-ze di là nello stanzone, questo gli mancava, la colonnasonora della musica, le macchine, le voci, tutto il greggedelle agnelline. Ma quando riapre gli occhi, l’Avvoltoiogioca stratte perfide e studiate alle Signora, come labelva quando gioca con la preda. Da noi tutti i maritipicchiano le mogli, rifletteva, nessuno s’intromette.Così bisogna fare, andare via, sono affari loro, cosac’entro io?

– Ma che fa? – dice però Warùi, con tanta vocequanto gli permette il nodo nella gola. Ma l’altro nongli bada, e continua il suo gioco. Warùi rinuncia a can-cellarsi in un cantuccio: lo tocca un po’ deciso sullaspalla. L’Avvoltoio si volta come un cobra, ma Warùi siritrae, vacillando di nausea, si afferra al tavolo da taglia-tore.

– Smettila, sei ubriaco, non ragioni, – grida la Si-gnora.

Warùi si ritrova la sua taglierina tra le mani. E l’af-ferra: cosa farne?

– Be’, senta un po’, la vuol finire o no? – E questavolta warùi suona minaccioso.

L’Avvoltoio gli sferra un pugno in faccia in mezzo

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– Da dove vieni, tu, eh?, che mi puzzi di vino comeun oste

– Bella faccia! Con chi stavi bevendolo il tuo vino,tu, puttana?

Sono ubriaco anch’io, pensa Warùi che guarda fissoavanti come un corazziere a un funerale, quasi sull’at-tenti: devo stare calmo, si ripete, mentre ricorda il pa-dre che lo mette in guardia contro il vino. La Signora loguarda, il suo Warùi, come se lo vedesse per la primavolta. Poi però, quando parla, e parla al Marito, la Si-gnora respira con un ansito di collera: – Senti, fammi ilpiacere: questo poveretto è tornato a quest’ora per la-sciare il suo pranzo per domani, guarda qui. – Mostra ilcartoccio, guarda il marito: lui però tace diffidente, siaccende un sigaro sbuffando lentamente, fissa con gliocchi stretti la fiammella del cerino, poi lo scuote, cisoffia sopra con la calma di chi sa di dominare, e lanciauna boccata lunga lunga, come un comando un po’ an-noiato.

A Warùi cade l’occhio sull’orologio a muro semprefermo: anche lui finalmente segna l’ora esatta: – Io mene vado, è tardi, buonasera.

– Fermo lì, tu, Bongobongo, che facciamo i conti.Il Vulture lo afferra per il collo del giaccone, tirando

la cavezza come a un mulo, e dice alla Signora che lo fis-sa e gli va incontro: – Il Bongobongo adesso se la fa conle bambine, mica più solo con la vecchia.

Uno schiaffo incredibile scatta dal braccio della don-na. L’Avvoltoio lo schiva solo in parte, se la guarda in si-lenzio, si massaggia il mento, sbuffando fumo bianco.Warùi prova l’assenza di qualcosa che di solito là dentrogli serviva.

– Ringrazia, – fa calmo l’Avvoltoio alla Signora, grat-

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dava in pezzi. E quando gli occhi hanno iniziato ad an-nebbiarsi, Warùi vede il Marito rivoltarsi ancora controla Signora, mollarle un pugno sulla testa, poi un altro:lei è caduta come un sacco, su quel sedere a mandolino,la faccia tra le mani. Warùi ha chiuso l’occhio di sini-stra, quello che il padre non ha più: – Hey, you, asshole,– dice Warùi a voce piena: il Vulture solleva il suo ba-stone, Warùi vede se stesso prendere la taglierina, le-varla come un panga con due mani, rotearla, puntarla aquella faccia che rifiuta lo stupore: – Master, sahib, pa-drone, bwana, effendi! – gli grida ad ogni colpo conpuntiglio, finché non lo fa smettere il cadere del ber-saglio, con un fischio leggero dalla bocca, come un pu-pazzo che si sgonfia.

Solo a quel punto, quando ha sentito la Signora chegridava, ma subito ha taciuto ed è scomparsa mugolan-do sotto il tavolo dov’era già finito suo marito, solo al-lora Warùi ha ricordato il suono come di cristallo del-l’attrezzo contro il cranio del nemico, se stesso che gri-dava – sono un Mau Mau! – mentre all’Avvoltoio mori-va nella strozza quel suo – àscaro, àscaro! – la testa chebatteva contro il tavolo, l’urto denso che ha fatto con-tro il suolo.

Spenta la folgore tra le sue mani, è tutto come quan-do da bambini si fa il gioco di girare, girare su se stessiad occhi chiusi, sempre più forte e poi ti fermi all’im-provviso, riapri gli occhi mentre tutto gira ancora.

Ha rimesso sul tavolo la taglierina, poi di nuovo laspina nella presa: però a che serve, ha riflettuto, e l’hastaccata un’altra volta. Poi ha raccolto il sigaro da terra,l’ha spento bene attento e l’ha buttato nella spazzatura.

La Signora si leva, parla in un modo che gli fa sentirela pelle accapponarsi fino al collo: – Ma Diosignore che

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agli occhi, e poi un manrovescio. E di nuovo a sfogar-si sulla moglie, con quella sua libidine indecente dipotere.

– Lasciala, bastardo! – gli grida Warùi. Lui non glibada. Warùi guarda la Signora: nella sua faccia vedevain uno specchio il suo terrore. Stringe la taglierina,mentre gli preme dentro un fiume di parole, poi spingeil tasto e mette in moto la sua lama circolare: sperava inquel lamento fastidioso di sirena per distrarre il rapacedalla preda. Ma l’Avvoltoio niente: si volta solamente,dà una gran stratta al cavo che si stacca dalla spina: lataglierina si ferma miagolando.

– Aspetta un poco, tu, – gli fa l’Avvoltoio. Sistema ilsigaro sul tavolo, nell’angolo, col fuoco in fuori, prendelì vicino una stecca di plastica che stava al centro di unapezza di acetato Chantillon – Vediamo un po’ quant’èche ce l’avete dura questa crapa, voialtri nerofumo, – eha cominciato a battergli sul capo, piano dapprima, acolpi rapidi, come un gioco cretino, poi più forte, conscosse di trecento pezze elettriche alla volta.

Warùi fissa il bicchiere vuoto sopra lo scaffale: den-tro c’è un ronzio come di mosca che impazzisce. Già lecose perdono i contorni, come d’estate la boscaglia de-formata dal riverbero del sole. E sente nelle mani il de-siderio di afferrare il corpo di una preda catturata.

– E basta, no? – lo prega la Signora, e strattona il ma-rito per la giacca, lo sospinge col corpo, mentre Warùinota che il pelo mancante sulla testa all’Avvoltoio ab-bonda sulle dita e sul dorso della mano che colpisce,sempre più duro e martellante, strafottente e metodico,e ride.

Questo non lo doveva fare, di ridere a quel modomentre lo stordiva, gli centrava il cervello, glielo man-

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Warùi è uscito fuori rigido nel buio della sera. Ha ri-trovato il cielo basso, non più altissimo e stellato. Sulponte un treno sferragliava con inutile fervore, mancopotesse prenderlo e salvarlo, lui, questo nuovo Warùi.Passa dall’altra parte della via Leoncavallo: leoncaval-lo, com’è possibile un leone cavallo? È come se il quar-tiere nel frattempo l’avessero rifatto su in salita, gli pe-sano le membra come pietre appese al collo, e i piedinon riescono a far presa sull’asfalto.

Infila il deposito ATM. Eligio sta per arrivare, finitoil proprio turno. E corre a scaricare la sua nausea den-tro un gabinetto dei tranvieri.

Poi è lì che ripassa l’indice lungo una crepa al di so-pra dello specchio, sopra il lavabo, un lavabo vero, dimaiolica, ceramica, faenza. Tutto quanto è successo, glisembra di saperlo già da sempre. E si guarda guardarenello specchio ma non vede niente, e non perché den-tro gli specchi, tutti così stock size, la sua statura non ri-esce mai a starci. Il Vulture cadeva e ricadeva là davantie ripeteva il suo – àscaro, àscaro! – protendeva le mani,chiedeva aiuto a lui che per un attimo ha creduto di aiu-tarlo a che non si facesse troppo male, ma continuasse avivere su questa terra.

Si è spaventato delle mani, gli parevano ragni scono-

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roba, ma Diosignore che disgrazia, ma Dio che disgra-zia. – Poi grida in altro tono: – Guarda, ma guarda, erasolo ubriaco, e tu me l’hai ucciso, disgraziato!

Warùi l’ascolta appena, sente freddo, poi caldo, poivergogna: – Pole, mama! – le dice, – pole, mama! – e giàvedeva tutti, al suo villaggio, spingere uno sgabello ver-so l’uscio della strada e sistemarsi per sentire racconta-re cosa ha fatto Warùi al suo padrone bianco, in un luo-go che chiamano Mlano, e sua madre accerchiata dalledonne che le fanno vento, spietatamente premurose,con foglie fresche di palma e di banano.

Poi gli occhi hanno ripreso a riconoscere le cose.Warùi non ha il coraggio di guardarlo, ora che il Vultu-re non plana su nessuno.

Ma la Signora era frenetica: – O dio dio dio, cosa glihai fatto? – si dava un gran da fare su quel corpo steso aterra, sotto il tavolo, lo chiamava per nome, gli dicevadi alzarsi, cercava di tirarlo su a sedere. Ma l’Avvoltoioera finito, fatto in sangue, buttato come un abito in dis-uso.

– Io non ho fatto niente, – si ripete Warùi come dabambino: – Voi due, solo voi due, marito e moglie, ave-te fatto tutto.

E la Signora si avvicina, sibila ansimando: – Cosac’entravi tu, che t’importava? – Cerca di dargli schiaffi:– Ti sei rovinato, rovinato per sempre. E hai fatto orfanii miei figli, la mia bambina sfortunata… – Warùi si ab-bassa, così lei può centrarlo sulla bocca con un pugnoche lui neppure sente.

Dell’Avvoltoio Solitario non resta di vivo che l’odo-re rancido di nicotina.

La Signora si affloscia di colpo sulla sedia: – Era soloubriaco, solo un poco ubriaco.

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– Va be’, tanto ho finito il turno. – Riattraversa lastrada, entra nell’androne, molto di malavoglia però luiè buono, chiama al citofono i Bolgiani. Una voce di pla-stica e di ferro lo manda a dare via le natiche.

Eligio è ritornato con in faccia un riso stanco, ripe-tendo quei gesti italiani d’interrogazione, con le duemani a punta, su e giù: – Sei un nero suonato, dài che tiporto a casa, ché sei proprio cotto.

L’ha riportato Eligio a casa in macchina, fino a Bru-gherio alla pensione, zitti tutti e due, Warùi perso e im-bambolato: – Forza, aumentiamo i giri, – ripeteva. Eli-gio era troppo stanco per essere curioso.

Nel buio alla pensione di Brugherio quella notteWarùi è venuto a cercarmi nella stanza. Si è sdraiato sulletto ancora vuoto di Caserio che non c’era, fuori perturni suoi. A luce spenta, lungo steso supino, con le ma-ni sul viso e sopra gli occhi, tiene un lungo silenzio.

– Ma cosa ti è successo? – gli chiedevo. – Wataka nini? – ripeteva lui: – Wataka nini? Cosa

mi è successo? Incrocia le mani sulla nuca, Warùi, e finalmente par-

te, mi racconta tutto, cercando di tenersi lo spavento. Sisiede accovacciato, lo intravvedo nel buio, il mento suiginocchi, le mani intorno alle caviglie. Gli cerco il visoal buio, ha gli occhi iniettati di sangue. Lo ascolto comein sogno, mentre dice e dice, come un bambino al buioparla per sottrarsi alla paura.

Quando Warùi finisce il suo racconto, dal buio dellastanza arriva la voce di Eligio: – Meglio lui che te. – Eraentrato anche Eligio, rimasto per sapere e provvedere.

– Già, quando possiamo raccontarla, vuol dire checi è andata ancora bene, – dice ancora Eligio nel buio.

– Be’ ma perché ci sei andato, di notte dai Bolgiani?

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sciuti in attesa della preda: se le è affondate nelle ta-sche. Sulle labbra gli sono tornate le grandi parole lati-ne che chiedono ai morti il riposo.

Rivuole di nuovo la facile fede di un tempo, che unqualche Buondio, chissà dove e comunque perdoni arichiesta, faccia un po’ di giustizia sulla terra, e magariaiuti chi Warùi ha già spento, e reso innocente per sem-pre.

Poi è scappato come uno sciacallo. E quando è usci-to la Signora piangeva con un pianto calmo, piano edisteso come una rugiada.

– Con Eligio, ci torno con Eligio, quando arriva allafine del suo turno, – si diceva Warùi.

Fuori di nuovo sotto l’hangar, l’ha trafitto l’invidiaper un tram che ritornava nel deposito, con fretta econfidenza di cammello nel recinto. Gli è parso di sen-tire il buon odore dello strame misto a terra, terra rossadi casa, e il fumo dei bivacchi.

Quando Eligio è arrivato al deposito ATM ha trova-to Warùi col sorriso sperso di uno svaligiato in viaggio.Gli ha chiesto come al solito: – Be’, come andiamo?

– Bene, – ha risposto come al solito Warùi. E poi piùsolenne: – Prendi questo mio nome e dallo ai cani

– Ma che diavolo dici? Ti sei fatto?– Me l’ero immaginata differente questa Europa.Ma poi Warùi si è fatto molto pratico. Ha chiesto a

Eligio di fargli un controllo, di là dai Bolgiani. Eligio hanicchiato, aveva da fare. Ma poi ha attraversato la stra-da e ha suonato alla Lucetta Confezioni.

È ritornato subito: – Be’, non c’è mica più nessuno.Warùi però vuole sapere. E lo prega a lungo, gli chie-

de di salire dai Bolgiani a casa loro. Alle undici di sera?

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Tornare a casa… Sì, certo, ma anche no, restare quie farsi in due, sdoppiarsi, raddoppiarsi: un Warùi qui inEuropa, a Milano, in questa illusione di centro di unmondo complicato, luccicante di cose che non hannovita e non la dànno; l’altro Warùi laggiù tra cose più du-revoli, che passano e ci sono, in casa e fuori casa: due, diqua e di là, avanti e indietro nello stesso tempo, per go-dere ogni giorno del prodigio del ritorno.

Tornare a casa, viaggiare ancora sopra mari verdi,sfidare fame e sete nei deserti salati dei Turkana, dentrogole di fuoco, sotto le stelle che ballano sulla boscaglia;nella notte che gracida in silenzio, lottare contro i de-moni della foresta, sentire sulle gambe, sul petto e sullafaccia gli schiaffi di freschezza dei cespugli di thangari emikengeria, poi riportare a casa incenso e mirra dai bi-vacchi.

Il suo rimpianto era finora come un passero in unsacco, un passerotto che ogni tanto si svegliava, sbatte-va le ali al buio: ora si è fatto un’aquila impaziente. Per-ché ciò che più serve è la speranza, quando la scimmiadelle notti, la padrona dell’incubo minaccia di sedersisul tuo petto.

– Bisogna darci un taglio, – mi ha detto all’ultimo sa-luto all’aeroporto.

Sì, un taglio di raso, da maestro.

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Warùi non risponde, mi guarda come se anche lui selo chiedesse per la prima volta. – Volevi vendicarci tuttiquanti?

Non risponde. D’accordo, ho detto una sciocchezza. Nella stanza accanto qualcuno piange mentre dor-

me, avvolto dentro un pacco di lenzuola. Warùi mor-mora e grida piano in tutte le sue lingue: lo spirito catti-vo mi possiede, anche in questa casa, con le madonneappese al muro, lo spirito cattivo qui ammucchia gentecome noi, ma un giorno ci sarà chi la vorrà chiudere obruciare, come con la peste.

Warùi da solo avrebbe passato tutta quella notte echissà quanto ancora stravaccato alla pensione, inzac-cherato, impappinato: – Questo non sarà più un luogoincinto del mio corpo, – ripeteva, e indicava la terra, gi-rando gli occhi intorno.

Prima dell’alba Eligio ci ha portato a Redecesio a ca-sa sua, come due cani bastonati, ubbidienti, via dall’a-bitazione di Warùi dove l’avrebbero cercato in primoluogo. Gli abbiamo preparato la fuga: soldi, passapor-to, biglietti e scali in volo per Nairobi. Partire primache la polizia non trovi lui. Eligio è nel ramo viaggi.

All’aeroporto, marsupio sulla pancia, Warùi ha det-to: – È arrivata l’ora, il bambino si toglie dalla bocca delbiscione, quello là dello stemma di Milano.

E ha continuato un soliloquio sul tornare a casa. Co-me in suo rap. Tornare a casa: voleva ritornare a casasua? Alla sua casa di bandone a pieghe, corrugatediron, dove la pioggia cade con un suono di freneticotam tam? Sì, a casa, per fare provvista di qualcosa, chis-sà cosa, forse di vita vera, dove fermarsi a sciogliere isuoi dubbi.

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Warùi ha passato senza intoppi ogni controllo al-l’aeroporto, prima di scomparire dietro una porta a ve-tri con gli altri passeggeri.

Eligio mi ha riscosso: – Forza, a Milano, dai Bolgia-ni.

Non mi andava l’idea. Finora l’avevo messa da par-te. Ma sì, bisogna andarci, a vedere, a capire. Che nesarà della Lucetta Confezioni? E di me Taglia-Tore?

È già mezza mattina.Da fuori in via Leoncavallo la Lucetta Confezioni

sembra tutto come al solito. Nello stanzone delle agnellec’è la luce accesa. Anche nello stanzino mio e di Warùi.C’è la polizia? Niente dice che c’è la polizia, da fuori. Sa-gome note si muovono dietro le finestre appannate.

Questi aprono bottega con il morto in casa, mortomale?

Eligio mi spinge e io salgo i gradini, suono, mi aprela Carmelina, entro e tutto è come se niente fosse, coseluce rumori odori e persone, anche la Carmelina chemi fa una faccia di rimprovero: – Pure solo. E il GalloNero?

Tutto come prima, tutto come sempre e tutto mi so-spinge verso lo stanzino. E lì c’è la Signora, che di nuo-vo ha solo i solchi sulla faccia, gli occhi pesti e sfug-

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Lasciamo perdere. L’attenzione al taglio cancella tut-to il resto. Non è un taglio facile. Ma c’è l’abitudine,dentro, incorporata, disponibile.

L’Avvoltoio mi è comparso davanti sulla porta già ametà del taglio e cristosanto invece di avere paura di luiho avuto paura della taglierina in mano a un Tore chevede un fantasma. E il fantasma parla: parla a me. Mi siferma il cuore, credo, poi il respiro e poi la taglierinache spengo in automatico.

– Non me la conta mica giusta il tuo collega, l’asca-ro, il Mau Mau, – sta dicendo l’Avvoltoio, soffiando ilnaso con venuzze rosse: – Che cos’ha?

Io lo guardo, il Bolgiani, la sua solita faccia di panemal cotto, con due cerotti sulla testa: ma bello di resur-rezione, e sento che gli sono grato, che gli voglio bene.Chi se ne frega se mi sta scoppiando ancora il cuore disorpresa e se la testa gira nella confusione, io qui vorreialmeno stringergli la mano, per essere riuscito a nonmorire, e a non lasciarlo diventare un assassino, il miocollega: – Un polso gli fa male, quello della taglierina –riesco a dire.

– Dài, ma che polso e polso. Avrà fatto bisboccia, ie-ri sera: per il suo compleanno, no?

Gli guardo la testa coi cerotti, vuota di ricordi dellasera prima: – Gli fa male il polso – dico, e mi massaggioil mio, di polso, quello destro.

Il Bolgiani ha concluso: – Va be’, sarà, ma se vuolfarne ancora dei suoi compleanni, qui da noi, deve riga-re dritto. – E se ne va anche lui.

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genti. Anche a me sfugge tutto e gira intorno. E non simeraviglia, la Signora, né del mio ritardo, né che nonc’è Warùi. Qualche conto torna.

– Salve, come va? – dico, e aggancio il suo sguardo:lei riprende fiato due, tre volte, per dire e non dice: –Era… – incomincia finalmente, troppo forte, rauca, e siferma, spaventata dal suono della propria voce, la cam-bia: – Era molto ubriaco, mio marito.

– Era ubriaco anche Warùi – dico io. – Sì, – dice lei, sembra contenta di poterlo dire.– Ma che cos’è successo?Lei fa spallucce. Riprende a impilare stoffa di raso

per un taglio di sottovesti dappoco, raso elettrico.– Warùi non regge il vino, bevono birra al suo paese

– dico mentre mi preparo al solito lavoro e non mi parevero.

– E lui dov’è rimasto? – mi fa lei seguendo a lavora-re.

– Gli fa ancora male una mano. – Chissà se è questala riposta giusta.

Lei mi guarda senza dire niente, sospira forte. Ci provo: – E suo marito?La Signora fa spallucce, finisce d’impilare e mi lascia

il posto davanti al tavolone. Questo è ancora il mio po-sto.

Ma attanzione: sono stanco e confuso, tutta la nottein piedi e adesso un taglio. Calma, pole pole.

Mi sto lasciando fare dalle cose. Metto in moto la ta-glierina, la Signora sobbalza. Ma sta zitta, troppo zitta,con tutte quelle ombre nello sguardo.

– E dire che noi qui lo portiamo in palmo di mano, –e se ne va. Dal corridoio dice: – Le ragazze aspettano iltaglio già da un pezzo.

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In corso Buenos Aires, Warùi già partito che misembra un secolo, ma non sono tre giorni, sono confu-so e mi aggrappo al vecchio gioco, più antico di ognimio ricordo, di camminare al ritmo di parole, stavoltain filastrocca:

A Ciaraval ch’è una ciribiciàculaCon cincént cinquanta cinch ciribiciaculit,Val pusee ‘na ciribiciaculaChe cincent cinquanta cinch ciribiciaculit.

Warùi non se l’è tolta la voglia di vederle, queste ci-ribiciaccole famose, cinquecento cinquanta cinque e inpiù la grande che vale di più di tutte le altre. Finoraneanche io.

Vado giù per il corso, pieno di traffico, di gente emolte luci. Corso Buenos Aires a quest’ora faceva im-pressione a Warùi: appena lo imboccava si sentiva ar-ruolato in un’impresa misteriosa, come per un bisognodi allegria, tra gente frettolosa si fa fretta, anche se gliorologi dicono che c’è tempo, e si ferma quando si ac-corge che è una fretta imitativa.

Per Corso Buenos Aires si può curiosare, magari

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manichino che s’inchina ai passanti dentro la vetrina,forse una sottoveste come tante, di buon raso nero, e giùdi sotto, sistemata per bene là vicino, una borsa daspiaggia, inconfondibile. Ma sì, una di quelle che taglia-vo con Warùi l’autunno scorso: ehi, Gallo Nero, chissàse ti ricordi? Una borsa da spiaggia verdolina, stampataa fiorellini. Ne avevamo tagliato alcune centinaia. Eraproprio una borsa delle nostre: a ben guardare, al puntosolito, c’era attaccato il marchio di Lucetta Confezioni,piccolino, sotto la grande griffa prepotente.

E chi vi immaginava, poverine, in Corso Buenos Ai-res? Io, vi ho tagliate io, voi altre, io con quel nero spi-lungone andato via. E adesso siete qua. E piazzate perbene, al posto giusto, in bella mostra, con le luci permettervi in risalto: una borsa da spiaggia in pieno inver-no, qui in Corso Buenos Aires, per far sognare le vacan-ze sulle spiagge, Costa Smeralda, Rimini, Malindi.

Qualcosa d’infinito giunge alla sua fine. Ecco checos’è a questo mondo la felicità, improvvisa e gratuitacome lo spavento. Mi sono visto correre a perdifiatolungo le sabbie dei sogni di Warùi, col ritmo di sonaglialle caviglie.

Sotto i miei piedi ho sentito sussultare la metropoli-tana. Ma io mi sentivo uscito in pieno sole, fuori da sot-terranei senza luce, vedevo finalmente cose che là sottofacevo e non vedevo. Le cose: molte si sono messe al lo-ro posto, come in attesa di un segnale.

Ad altri forse è facile capire: a Eligio che trasportagente da una parte all’altra… anche agli Abdùlla chedevono convincere, invogliare, dicono che servono, leloro cose, sono belle, non ne puoi fare a meno, compra-le, costa poco.

C’erano i cartamodelli, lì da noi, tutti ammucchiati

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soffermarsi sulle griglie sopra i sotterranei, per riscal-darsi al vento caldo che risale e ti s’infila sotto gli abitinel freddo della sera. È una fortuna che l’inverno mila-nese non produca vento come il nostro che ti caccia ilfreddo nel collo e nelle orecchie, poi giù dentro le vi-scere, ma solleva soltanto i respiri sotterranei, i soffi disimùn dai buchi nelle strade.

– Non essere barbone, – ripetevo a Warùi, quandoai primi tempi si passeggiava in pieno centro e si ferma-va sui tombini, assorto: come una vecchia donna a farpipì all’impiedi sotto il lungo buibui che copre tutto ilcorpo. Rubava il vento caldo per le strade: – Non mi fa-re il barbone, l’extracomu. Ma io proprio con te dove-vo mettermi?

Sulle luci del corso si allarga un cielo nero: senza piùla pioggia stelle altissime e pulite, ben lavate di fresco,niente nebbia in basso. Sarei l’ultimo, io, a lamentarmi,però non mi piace chi ripete che Milano è brutta, que-sta città che le più lunghe e dense umidità non riesconoa infeltrire.

Sto camminando sopra un residuo di tappeto rossonatalizio e giusto lì con la coda dell’occhio afferro perun attimo qualcosa, un’immagine in fuga, laterale, e mifermo, di fianco alla vetrina grande e luminosa: qual-cosa che ti prende l’attenzione prima ancora che sappiache cos’è, come quando chiudi le palpebre sugli occhi evedi ancora la figura appena vista, in negativo, sagomascura. Il gioco s’interrompe e fermo il passo quasi amezzo, con lo slancio iniziato e poi interrotto, come sefosse apparsa qualche serpe sulla strada, lì davanti aimiei piedi nell’inverno di Milano. Era già un segno,messaggio che ti spinge a interpretare.

Eccolo che cos’era: la sottoveste nera indosso a un

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buone riservate al suo taglio più curato. Non era rasoelettrico, come quello che avevo tagliato la mattina, rasoper bancarelle, questo non era elettrico per niente, qua-si seta pura, questa era per la griffa, non ti rizzava il peloa srotolare.

– Scusi, è permesso? – domanda alle mie spalle unavocina femminile, troppo gentile e timida per non suo-nare un poco ironica: stavo piantato proprio sulla porta.Mi faccio subito da parte, premuroso, lei entra nel ne-gozio, si lascia dietro un buon profumo. Ho continuatola ricognizione, un occhio pure alla cliente appena en-trata, che sceglieva e provava.

Eccola, si appoggia al seno un bel maglione giallo,ma quella non è roba del laboratorio. Chissà se compraqualche cosa anche di nostro?

Lo fa, lo fa, ecco che si avvicina alla vetrina, accennaal manichino con la sottoveste in raso nero, liscio, luci-do: com’è diverso dal doverlo maneggiare sul lavoro. Èbionda come il manichino, alta non molto, sembra suitrent’anni, delicata, di quelle così fini che neppure a Eli-gio che è un antico viene voglia di farle complimenti perla strada.

La commessa le dà una sottoveste, gemellina di quel-la che sta indosso al manichino, poi l’aiuta a provarsela,così vestita, quant’è lunga, di spalle, come cade davanti,di dietro, di fianco e sulle cosce, e se l’appoggia addossoin modo niente male.

Ma tu guarda un po’, chissà quante donne abbiamoaiutato a farsi belle, ad aggiungere garbo alla bellezza,proprio noi, con l’arte complicata del vestirsi: io ToreMelis di Fraus, classe 1970 e tu Warùi Kihika, classe1968, kikuyu di boscaglia, trapiantato anche tu qui a

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in tipi sopra gli scaffali; sceglievi quello giusto, poi ta-gliavi, le ragazze cucivano, la Signora pensava a sorve-gliare, e l’Avvoltoio a vendere e comprare. Io non soWarùi, ma io nemmeno quando il Falco compariva a farsognare le agnelline ho mai pensato che quel sogno erasfoggiarle da modelle, quelle cose, tra musiche e profu-mi e molti applausi, non cucirle. E le agnelle? Neancheda loro avevo mai notato i pigolii di lode per un capoche usciva dalle loro mani, come fanno le donne con lemode e i fronzoli: ma che amore, è una delizia, un so-gno: no, solo parole e sguardi da persone del mestiere.

Eccomi lì davanti alla vetrina, i piedi ben piantati sultappeto rosso, schiaccio il viso sul vetro per guardaremeglio, senza impedire il fiume di passanti a due cor-renti contrapposte.

La vetrina è studiata coi rapporti di luce dentro efuori anche a quell’ora: il corso non è meno illuminatodel negozio. Così spiando ho visto che una donna, la pa-drona, o solo una commessa?, mi guarda fare questemie ricognizioni. Io non l’avevo vista lì nell’angolo, leiperò sì, e mi guardava attenta, un poco diffidente, unpoco preoccupata. Le ho fatto un sorriso come per salu-to, ho fatto il viso a domandare scusa del disturbo, sì,però intanto resto, no?

Ma cosa c’è di nostro ancora nel negozio? Io piego ilcollo, quasi ballonzolo da un piede all’altro, come Wa-rùi nel suo Baringo Rap quando imitava i fenicotteri sul-l’acqua calda di sorgente, per rivedere da diversi punti ilbell’effetto della sottoveste e della borsa da spiaggiaverdolina a fiori rossi.

Ho riguardato meglio la sottoveste nera lucida di ra-so: era nostra anche quella, mia e di Warùi, di quelle

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te, da invadere il campo a festeggiare, che qui sarebbeentrare nel negozio, dire alla donna che l’ho tagliata iola sottoveste, o l’ha tagliata lui, Warùi, con un cartamo-dello, certo, però è nostra, delle nostre mani, per avvol-gerle il corpo. Volevo dirlo a lei e pure alla commessaun poco diffidente, a tutt’e due, che adesso, eccole, misbirciano, ridono d’intesa.

La donna compera la sottoveste, prende e paga,sembra soddisfatta, come se avesse fatto chissà cosa.

Uscendo dal negozio mi lancia un’occhiata, rapida,un tantino divertita.

– Se gh’è de varda’ tant? – mi chiede la commessa,prima di richiudere la porta dietro alla cliente: non conastio o rimprovero, solo curiosa, divertita, con una spe-cie di antica allegria, e quel milanese è stato un giocobuono, non come certi per distinguersi di più daiforestieri. E me l’ha ripetuto in italiano, cosa c’è tantoda guardare? Io vorrei dirle tutto quanto, accenno almanichino con la sottoveste, lì in vetrina, alla borsa daspiaggia, all’intero negozio, a tutta la scoperta di quelgiorno, a Warùi che non c’era eppure c’era, a tutto ilpensare, a quel lavoro che serviva a farle belle, che sta-vo scendendo in via Vitruvio a denunciare il nero diLucetta Confezioni… e balbetto un bel nulla.

Lei fa un sorriso piccolo, due colpetti di tosse, poi ri-chiude la porta al freddo della sera.

Ma la cliente con la sottoveste sta filando via, presadalla corrente in Corso Buenos Aires. Soltanto il profu-mo resiste, buono da ricordarsene otto notti, dicevaWarùi, chissà perché otto notti.

Te la lasci scappare? Mi metto a tampinarla lungo ilcorso, nel senso opposto a quello per andare in via Vi-truvio. Mi tengo a pochi passi dalla sottoveste di buon

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Mlano come un cavolo, che dicono che vengono su me-glio, i cavoli, se sono trapiantati a tempo e luogo.

Sono lì fisso imbambolato. E chi ci aveva pensatoveramente che tutto quanto tagliamo e le ragazze poicuciscono finisce in luoghi come questo, per esserevenduto e comperato e poi usato dalla gente viva, dalledonne?

Pensato sì, ma così, come si pensa all’importanzadelle stringhe se le allacci la mattina, a pressione bassa.Non basta neanche un incidente come quello di Warùicon l’Avvoltoio. Ci passano soltanto per le mani, nétempo né modo di capire le strade che fanno il raso ol’acetato, la seta o il velluto, fino al laboratorio, e le stra-de dopo, cucite dalle agnelle o dalle lavoranti a domici-lio, per conto dei Bolgiani e della griffa.

Eccole qui in mostra su un altare di velluto, mentreal laboratorio tutti le prendono e le trattano così, sololavoro. Alla Lucetta Confezioni? Lì si bada alla stoffa:docile o difficile al lavoro, pelle elettrica o no, quantiesemplari, taglia, cartamodello, come distribuire i pez-zi alle ragazze, e se la Simonetta magonava, casomai, sumutandine e reggiseni da cucire.

Già, i reggiseni, guarda un po’ che nemmeno se ta-gliavo reggiseni avevo mai veduto e immaginato quelche sono i reggiseni. Badavo alla fatica di tagliarli, pizzofuori e tulle dentro, raso fuori e tulle dentro. Neanchequando sceglievo le coppette in gommapiuma, da siste-mare dentro i reggiseni, neanche quando si decidevanole taglie, grandi piccole e medie, neanche allora. Forseall’inizio, un inizio difficile, e poi il lavoro e basta.

La mia squadra va forte, sta per segnare un’altra re-

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in fondo, per non badare al passo lento delle ore di la-voro.

Domani sarà duro alla pensione di Brugherio, senzaWarùi e senza l’orologio, alzarmi in tempo per il jumbo-tram fino a Milano. Ma è solo il pensiero di un istante.La mia pressione è buona ormai la sera, durante il gior-no sale su dalle bassure del mattino, dopo volato via dal-l’albero dei marabù, e libero dal chiuso delle agnelle.

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raso nero, dietro la donna bella che dovrà indossarla:che non scompaia fra la gente, lei con la sottoveste.

Domani sentirò il mio corpo intenerirsi e il sessorallegrarsi quando prenderò a mazzi i reggiseni, comeprendessi tutti in un gran fascio i seni grandi e piccoli,rotondi oppure a punta a palla a mela ma tutti belli te-neri di donne che li porteranno.

Domani? Sotto il Vulture e il Falco c’è un domani,nel chiuso delle agnelle?

Ma riecco la biondina qui al mio fianco, spinti dallacorrente, fermi a un semaforo per i pedoni, e lei non na-sconde la sorpresa al ritrovarsi accanto il loden buffo,perché ha guardato proprio il mio cappotto. Mi stocomportando in modo strano. Finisce che chiede aiutoa un poliziotto: eccolo lì il ghisa, piantato all’angolo delcorso, manone in guanti bianchi l’una dentro l’altra sulsedere.

Il semaforo dice Avanti! Avanti!Io fermo, intralcio i passanti, le mani nelle tasche del

cappotto. La biondina attraversa frettolosa, e poi di làsul marciapiede, eccola, si volta, quanto basta a notar-mi, fermo dall’altra parte, bloccato da uno sciame dimotorini che sfrecciano stridendo: e mi sorride, un po-co.

Mi tolgo la sinistra dalla tasca per un gesto di saluto,ma ho subito vergogna, come se la gente badasse allestranezze che combino questa sera. Il gesto si blocca, ilbraccio su a metà, ma lo allungo di scatto per scoprirel’orologio sotto le tre maniche, di cappotto di giacca edi camicia. L’orologio non c’è: il polso nudo, coi pelicoricati dove prima c’erano quadrante e cinturino, miricorda che al laboratorio la mattina ho punito l’orolo-gio a stare sotto un mucchio di modelli di cartone, giù

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INDICE

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INDICE

UNA IGNOTA COMPAGNIA

1. 72. 133. 234. 335. 396. 477. 538. 619. 7110. 7911. 8512. 9313. 10114. 10915. 11916. 12517. 13518. 14519. 15520. 15721. 17122. 17923. 18924. 19725. 20126. 21127. 21728. 221

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