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L'antropologia culturale, nel registrare il divario, per certi aspetti traumatico, tra religione e neuroscienze, è posta oggi di fronte alla sua sfida più dura. Nello scarto esistente tra le due discipline, la concezione dell'uomo sembra infatti spaccarsi decisamente e definitivamente in due: o di qua, dove predomina la natura, la materia, il cervello, le ii dee come pure rappresentazioni, le causalità fisiche; o di là, dove abita lo spirito, dove si dà spazio al significato, alla motivazione, alla norma all'intenzionalità, all'interiorità, alla religione. Su questo sfondo, il libro nasce da una domanda pressante di chiari- ficazione di ciò che appare del tutto incompatibile e dal tentativo di una risposta adeguata, intesa a ricomporre l'uomo nella sua integrità. E infat- ti le due istanze non possono rimanere disgiunte e inconciliabili. Non c'è, del resto, chi non comprenda che, se non si parte da una visione dimidia- ta e schizofrenica dell'uomo, occorrerà cercare di conciliare religione e neuroscienze, riportandole a uno stesso luogo, forse, più originario, così come non c'è chi non comprenda che occorrerà cercare una convergenza e raggiungere un'unità organica nella comprensione dell'uomo. ALDO N. TERRIN è docente all'Università Cattolica di Milano, all'Università di Urbino e all'Istituto di Liturgia pastorale di S. Giustina a Padova. Presso la Morcelliana ha pubblicato: Scienza delle religioni e teologia nel pensiero di R. Otto (1978); Nuove religioni. Alla ricerca della terra promessa (1987 2 ); Leitourghìa. Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici (1988); Intro- duzione allo studio comparato delle religioni (19982); Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità (1999); Mistiche dell'Occidente. New Age, Orientalismo, Mondo Pentecostale (2001). Fa parte del comitato scientifiw del- le riviste «Hermeneutica», «Studia Patavina», «Crede reoggi». 21,00 ~ìliiliniiiiìl] I 9 788837 220013 1,,1.1 N z 1,,1.1 - (.J {,19 e::, § . L.w z L.w L.w z e::, - t.= - _, w.l cc e z ALDO NATALE TERA IN RELIGIONE E NEUROSCIENZE Una sfida per l'antropologia culturale

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L'antropologia culturale, nel registrare il divario, per certi aspetti traumatico, tra religione e neuroscienze, è posta oggi di fronte alla sua sfida più dura. Nello scarto esistente tra le due discipline, la concezione dell'uomo sembra infatti spaccarsi decisamente e definitivamente in due: o di qua, dove predomina la natura, la materia, il cervello, le iidee come pure rappresentazioni, le causalità fisiche; o di là, dove abita lo spirito, dove si dà spazio al significato, alla motivazione, alla norma all'intenzionalità, all'interiorità, alla religione.

Su questo sfondo, il libro nasce da una domanda pressante di chiari­ficazione di ciò che appare del tutto incompatibile e dal tentativo di una risposta adeguata, intesa a ricomporre l'uomo nella sua integrità. E infat­ti le due istanze non possono rimanere disgiunte e inconciliabili. Non c'è, del resto, chi non comprenda che, se non si parte da una visione dimidia­ta e schizofrenica dell'uomo, occorrerà cercare di conciliare religione e neuroscienze, riportandole a uno stesso luogo, forse, più originario, così come non c'è chi non comprenda che occorrerà cercare una convergenza e raggiungere un ' unità organica nella comprensione dell'uomo.

ALDO N. TERRIN è docente all'Università Cattolica di Milano, all'Università di Urbino e all'Istituto di Liturgia pastorale di S. Giustina a Padova. Presso la Morcelliana ha pubblicato: Scienza delle religioni e teologia nel pensiero di R. Otto (1978); Nuove religioni. Alla ricerca della terra promessa (19872); Leitourghìa. Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici (1988); Intro­duzione allo studio comparato delle religioni (19982); Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità (1999); Mistiche dell'Occidente. New Age, Orientalismo, Mondo Pentecostale (2001). Fa parte del comitato scientifiw del­le riviste «Hermeneutica», «Studia Patavina», «Credereoggi».

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ALDO NATALE TERA IN

RELIGIONE E NEUROSCIENZE

Una sfida per l'antropologia culturale

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CAPITOLO SECONDO

INTERPRETAZIONE RADICALE: ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA IN CHIAVE ECOLOGICA

«Più lontano e più profondamente noi penetriamo nella materia, utilizzando metodi sempre più potenti,

più restiamo confusi dall'interdipendenza delle sue parti. Ogni elemento del cosmo è essenzialmente intrecciato

a tutti gli altri» (Teilhard de Chardin)

«Sembra dunque che la nostra vita sia situata all'interno di una gerarchia di sistemi autorganizzati

annidati uno dentro l'altro, gerarchia che inizia con le nostre ecologie locali

e si estende almeno fino alla galassia» (L. Smolin)

Il problema che assilla oggi la nostra cultura, oltre che i mondi reli­giosi, sta nel rapporto da brivido che si è instaurato con la scienza tecnica, rapporto dal quale non siamo più in grado di prendere le debite distanze. Da circa un secolo infatti il mondo è sotto la guida tirannica della tecno­scienza e noi ne soffriamo le conseguenze. Questa realtà oggi è riuscita a invadere tutti i tessuti dell'era planetaria installando la logica della mac­china fin dentro la vita di ogni giorno. È vero, ha permesso a una parte del-1 'umanità di assaporare il gusto della prosperity, ci ha creato molte illu­sioni, ma a conti fatti, ci ha anche privati di parte della nostra libertà, ci ha derubati delle nostre tradizioni, e ci fa temere la distruzione totale della nostra piccola Lebenswelt in cui, nonostante tutto, riusciamo a trovare ancora il senso alla nostra realtà quotidiana. Resta il fatto che oggi vivia­mo dibattuti tra mondo tecnico, cibernetico, informatico, tra mondo mec­canicizzato, mondo globalizzato e satellitare, con tutte le sue suggestioni e con tutti i nuovi problemi, in particolare, con la minaccia ad esempio che si realizzi in maniera latente e subdola quel terribile panopticon che era stato previsto da Bentham1• Ma d'altra parte, resta anche un sottofondo di

1 La metafora del panopticon ripresa poi da Foucault, appare oggi a Bauman «una metafora

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scetticismo in cui sospettiamo anche il fallimento di ogni tecnica emanci­patoria, prova ne sia il fatto che tendiamo d'istinto a rifugiarci di nuovo nella privacy, sentendo un bisogno rinnovato di umanità, di piccole cose, in cui ci sia possibile esprimere ancora dei sentimenti e vivere il senso di una ritrovata armonia di carattere meno superficiale e preconfezionato.

In questa altalena di assenso e dissenso dal nuovo assetto scientifico, ciò che appare più paradossale e contraddittorio sta nella constatazione che la scienza tecnica, la quale secondo tutte le migliori intenzioni espresse doveva essere tenuta a bada e controllata da un sapere più ampio e onni­comprensivo, in verità sfugge di sua stessa natura a questo ipotetico con­trollo, anzi sembra farsi custode dello stesso fondamento ultimo delle nostre riflessioni, diventando inopinatamente e in maniera subdola l'unico mezzo adatto a controllare e a spiegare la realtà stessa. Si arriva a quella strana situazione "circolare" dove l 'explanans e I' explanandum sono un tutt'uno. E se il compito sta nel controllare la scienza tecnica, rileviamo invece che, ultimamente, la scienza è chiamata a controllare se stessa. Paradosso insormontabile! La minaccia di circolarità consiste nel fatto che utilizzare la scienza stessa per convalidare la conoscenza scientifica signi­fica precludersi ogni speranza di convalidare qualunque cosa, poiché ciò che fonda e ciò che è fondato sono identici, mentre il fondamento dovreb­be differire dal fondato2• La scienza si rivela così in ultima analisi l'unica sovrana e lo è in maniera dilagante non soltanto perché non si lascia intac­care da nessun altro tipo di sapere, ma anche in quanto ha ridotto ogni altro sapere a insignificanza. Infatti come già affermava Simmel «la scala delle conseguenze possibili delle azioni umane sotto il suo dettato ha superato di gran lunga l'immaginazione degli attori e l'individuo è sempre più ridotto a una «quantità trascurabile», è ridotto a «un granello di sabbia di fronte all'organizzazione immensa di cose e di forze che in nome della scienza sottraggono tutte le spiritualità e i valori»3.

In questo modo, essa si sta accapparrando ogni ambito del reale scon­volgendo culture e tradizioni4• Si tratta di un potere che è diventato, per

quasi perfetta delle fasi cruciali della modernizzazione del potere e del controllo». Cfr. z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari 2001 5, pp. 56-57.

2 Quine però risponderebbe che la circolarità in questione non solleva alcun problema, quando noi rinunciamo all'ideale stesso di giustificazione o di «fondazione della conoscenza». Cfr. W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, in Id., Ontologica/ Relativity and Other Essays. Quine - come altri filosofi e psicologi cognitivisti come Paul e Patricia Churchland - difendono oggi una totale natura­lizzazione cieli' espistemologia e dunque danno ragione incondizionatamente alla scienza.

3 Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Ed., Roma 20003, p. 54. 4 Per una informazione ampia sulle conseguenze prodotte dal sapere scientifico e tecnico basta

il piccolo best-seller di Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, cit. sopra. Il libro riguarda direttamen­te la globalizzazione e i problemi connessi, ma al sottofondo è la scienza tecnica che fa da cassa di risonanza del tutto della nostra situazione attuale.

Interpretazione radicale: antropologia e teologia 213

questa sua espansione esponenziale, uno "strapotere" capace di accanto­nare tutti i modelli possibili non solo di esistenza, ma anche di sopravvi­venza escogitati dalle culture lungo millenni di storia5•

Su questo sfondo di irrequietezza, in cui noi accettiamo il mondo tec­nico e lo detestiamo nello stesso tempo, sapendo nel nostro inconscio che sta distruggendo le basi stesse del nostro vivere, potremmo raccogliere una prima accezione di ecologia; essa, pur essendo ancora un work in progress, manifesta quello che ha da essere: ha il compito di essere il volto "uma­nizzante" della scienza attraverso una vocazione essenzialmente equilibra­trice. Essa è chiamata per sua stessa natura a "rimediare" a questo temibi­le stato di cose e a riparare i danni della tele-tecno-scienza - secondo l'e­spressione di Derrida - liberandoci dalla paura di quest'ultima, facendoci ritrovare la via che ci permetta di sopravvivere sul pianeta terra, senten­doci ancora a "casa nostra" sotto questo cielo. L'ecologia, in questo senso, appare l'ultima chance nel mediare un sapere tecnico che rischia di sfug­girci completamente di mano. In una parola, il sapere ecologico è chiama­to a supplire a quel deficit di comprensione globale della realtà proprio della scienza tecnica la quale si disinteressa dell'equilibrio dell'intero, per cui avviene che, se risolve alcuni problemi particolari, rischia continua­mente di crearne di più grandi. Il vero problema, che sta all'inizio dell'a­gire tecnico, consiste infatti nella natura della tecnica stessa che non è mai contestualizzata in se stessa, ma mira soltanto e immediatamente a scopi particolari e limitati, disinteressandosi del resto. Per questo i problemi nascono e vengono scatenati all'interno della scienza, proprio dal fatto che la tecnica funziona e non da qualche accidente o da qualche piccolo pro­blema di «irritazione del sistema»6• L'ecologia in questo senso è chiamata anche a contrastare una conoscenza tecnica che, prendendo il sopravven­to, non ha più alcuna prudenza e cautela all'interno del mondo delle altre conoscenze, riuscendo ormai nell'impresa finale di soggiogare la persona e le sue ultime pretese di libertà al punto che - come dice Castoriadis - noi abbiamo smesso di farci delle domande7•

Introdotta in tal modo la funzione indispensabile e assolutamente prioritaria dell'ecologia, ritengo, per una prima contestualizzazione, che questo nuovo sapere si debba porre in quel luogo a partire dal quale è pos­sibile "desituare" o forse "detronizzare" la scienza tecnica per stabilire un

5 Si veda H. Jonas, Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna 1991, in parti­colare pp. 45-47.

6 Cfr. N. Luhmann, Sociologia del rischio, Mondadori, Milano 1996, pp. 113 e ss. 7 Sulla scia di Husserl che diceva che «le pure scienze di fatto portano alla nascita di puri uomi­

ni di fatto» e sulla prosecuzione heideggeriana che scriveva: «la scienza non pensa», Castoriadis osser­va che l'uomo tecnologico non si pone più domande. Cfr. C. Castoriadis, La crise des sociétés occi­dentales, in Id., La montée de l'insignifiance, Seui!, Paris 1996, pp. 14-15.

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nuovo equilibrio tra le parti. L'ecologia ha incominciato, del resto, a farsi strada storicamente proprio a partire da un grido d'allarme e da un "prov­vedimento d'urgenza" per tenere a bada il mondo tecnico scientifico da parte della cultura globale. Il suo inizio storico si potrebbe dunque omolo­gare in anteprima alla problematizzazione teoretica del sapere scientifico8•

Tale problematizzazione è stata evidente in particolare in questi ulti­mi decenni, quando ad esempio si annunciò la morte dell'oceano da parte di Ehrlich nel 1969. Poi via via si incominciò a riflettere sui pericoli e a prestare sempre più attenzione a queste anomalie prodotte dalla scienza. Il rapporto Meadows commissionato dal Club di Roma nel 1972 metteva a fuoco il problema centrale. Secondo l'espressione di J.M. Pelt, lì si affer­mava categoricamente che lo sviluppo diventava una tragedia per il fatto che attraverso la scienza tecnica e i suoi impieghi: «l'uomo distrugge uno a uno i sistemi di difesa dell'organismo planetario»9•

Poi, lentamente nel tempo, le istanze ecologiche si differenziarono e si approfondirono. Negli anni Settanta, di fronte all'aumento del degrado ambientale, di fronte alla deforestazione, all'inquinamento, alla riduzione della bio-diversità, ai mutamenti climatici indotti dall'effetto serra si manifestarono così due tendenze: una basata sull'ipotesi che fosse suffi­ciente "rimediare" e "rattoppare" i danni provocati dalla tecnica come si rattoppa un vestito, e dunque in maniera frammentaria, rimanendo all'in­terno del sistema economico, sociale e tecnologico già costituito; una seconda tendenza chiamata "ecologia profonda" poneva invece radici epistemologiche più radicali, invocando una revisione critica del rappor­to dell'uomo con la natura e una trasformazione essenziale di tutti gli aspetti della vita10•

Quest'ultima tendenza più radicale si fece strada negli anni Ottanta e Novanta, quando la coscienza ecologica divenne più urgente in nome di quella che era ritenuta una possibile biforcazione fondamentale dell'esi­stenza sulla terra: argomento che toccava la cosiddetta teoria delle cata­strofi. L'idea dominante allora divenne questa: «o viviamo tutti insieme seguendo le leggi di un progresso "sostenibile" o soccombiamo tutti allo

8 Sarà questo il mio punto di partenza e di arrivo: studiare l'incrocio tra scienze ed ecologia. Non mi soffermerò invece sul versante più immediato dell'ecologia che potrebbe esser visto nella "spiri­tualità della terra", tema che oggi viene assunto e fatto proprio dalla New Age. Per questo tema affi­ne, ma più diretto, si veda A.N. Terrin, New Age. la religiosità del post-moderno, EDB, Bologna 20013; emblematicamente si può vedere anche T. R_oszack, The Voice of the Earth. An Exploration of Ecopsychology, Touchstone, New York 1992. E evidente che i due temi si possono sovrapporre, ma qui mi concentro su quello radicale: quello che riguarda I' espistemologia che deriva da una visione eco-sistemica.

9 Cfr. E. Morin-A.B. Kem, Pianeta-terra, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 64. 10 Cfr. A. Naess, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Red, Como 1994, p. 207.

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stesso modo»11. Questa posizione più radicale e a carattere epistemologi­co fu formulata in maniera chiara e urgente sia da A. Naess, il fondatore della "ecologia del profondo", sia da G. Bateson, il quale fu uno dei primi a intuire che biologia ed ecologia costituiscono una vera e nuova visione epistemologica, avvertendo poi che «l'uomo cosciente ( ... ] è ora piena­mente in grado di devastare se stesso e il suo ambiente, con[ ... ] le miglio­ri intenzioni coscienti»12, e ancora, osservando che «il dio ecologico è incorruttibile e quindi non lo si può beffare» 13 • Ma anche E. Morin va con­siderato un pioniere in questo campo. Anche lo studioso francese si rese particolarmente attivo nel nuovo compito di invertire la prospettiva. Egli faceva notare già allora che non si trattava più di proteggere la terra dal­l'esterno, ma si trattava di cambiare modo di pensare. «Abbiamo bisogno di un pensiero "ecologizzato" - egli scriveva - che fondandosi sull'idea dell'auto-eco-organizzazione, consideri la connessione vitale di ogni esse­re vivente, umano o sociale con il suo ambiente»14•

Ora però, se queste sono alcune premesse storiche della nascita del­l'ecologia e del compito nuovo e insostituibile che le viene attribuito non solo in rapporto ai problemi dell'ambiente, ma anche a livello conoscitivo, ci si può interrogare sulla prospettiva che tale disciplina può aprire nel mediare il difficile rapporto tra antropologia e teologia/liturgia. Perché vedere la religione e la teologia sotto il profilo ecologico? Ma ancora di più: perché creare un orizzonte ecologico per l'antropologia e la teologia? Se l'ecologia può avere un grande valore in rapporto a un'antropologia che rischia di essere sottomessa al sapere tecnico-scientifico, a un primo sguardo, il sapere ecologico nei confronti della teologia sembra non pote­re assumere altro che un aspetto di indifferenza e di distanza. Ma a una riflessione attenta ci si rende conto che non è così.

Se la prima tesi che riguarda l'ecologia è la difesa di un'antropologia dal volto umano all'interno del mondo della vita rispetto all'invadenza tec­nica, la seconda tesi non è meno importante e solidale con il primo com­pito: l'ecologia - consapevole di essere il risultato di una vera nuova epi­stemologia - è chiamata a lavorare non soltanto su ambiti settoriali, ma nel suo tentativo di creare un equilibrio tra le scienze ha il compito speciale di trovare il punto di sutura tra scienze umane e scienze naturali, mettendo in circolo tutto il sapere in nome di problemi etici e pratici altrimenti irrisol­vibili tramite le scienze specifiche.

11 Si veda in questo contesto le pubblicazioni annuali del Worldwatch lnstitute. Tra queste: L. R. Brown-Ch. Flavin-H. French (edd.), State ofthe World '99. Stato del pianeta e sostenibilità ambien­tale, Ambiente, Milano 1999.

12 G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, pp. 460-62. 13 Id., Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989, p. 215. 14 Cfr. E. Morin-A.B. Kem, Terra-patria, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 65.

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216 Parte terza - Capitolo secondo

Ora, è proprio su questa strada che, sia a livello metodologico che a livello etico-pratico, l'ecologia incontra la teologia, incontra le religioni e il senso religioso. Le religioni condividono infatti con il sapere ecologico il senso dell'intero, del whole, della totalità che non deve essere smem­brata. Le religioni invocano da sempre il senso dell'equilibrio tra tradizio­ne e novità, tra conservazione e adattamento, tra scienze naturali e scien­ze umane15 in nome di un sapere comprensivo di tutta la realtà.

L'affinità del sapere ecologico con il sapere teologico appare dunque abbastanza evidente. Tutte e due le discipline, dal punto di vista funziona­le, sono nate per ridurre la «complessità della contingenza»16 dei rimandi di senso e della vita. Non è un caso che oggi l'ecologia abbia il compito di offrire una «funzione di esonero» del tutto analoga a quella che da sempre ha esercitato la religione. In questo senso - come un tempo la teologia -anche il sapere ecologico soffre di una distonia che ha sempre afflitto la teologia: se intende mediare le specializzazioni delle singole scienze, deve abbracciare tutte le conoscenze e anche le non conoscenze, ciò che appa­re a prima vista incomprensibile e provocatorio. In realtà, per diventare "saggezza" deve porsi, se necessario, contro gli interessi particolari delle scienze alla ricerca di una vera enciclopedia, intesa non come sapere in senso cumulativo e alfabetico, ma nel significato originario di enkyklos paideia, nel senso di mettere veramente in circolo tutto il sapere artico­lando i punti di vista separati, disgiunti, disarticolatil7.

Ora, in maniera del tutto simile, se non si può negare che questo com­pito per tanti secoli fosse stato affidato alla teologia cristiana nelle varie epoche della storia, quando il sapere scientifico era ancora molto limitato e tutte le scienze gravitavano nella universitas della teologia, si deve anche

15 Si veda ad esempio la tesi di O. Marquard, Uber die Unvermeidlichkeit der Geisteswis­. senschaften secondo cui più moderno diviene il mondo e più sono inevitabili e necessarie le scienze dello spirito. Compensano infatti i danni della tecnica attraverso "storie di sensibilizzazione", "storie di conservazione" e "storie di orientamento". Più il mondo tecnico si inaridisce nelle sue acquisizioni e più c'è il bisogno di un "Ersatzverzauberung des Aesthetischen". Cfr. AA.VV., Neue Technologien und die Herausforderung an die Geisteswissenschaften, Bock Verlag, Trier 1987, in particolare pp. 73 e ss; si veda anche O. Marquard, Inkompetenzkompensationkompetenz?, in Id., Abschied van Prinzipiellen, Philipp Reclam, Stuttgart 1981. Anche Io storico delle religioni Kippenberg sostiene che le religioni hanno avuto almeno un compito molto importante nella storia: la vita dell'uomo nella società moderna attraverso le religioni viene rinviata alla sua tradizione e così si mantiene un pezzo di continuità. Cfr. H. Kippenberg, Die Entdeckung der Religionsgeschichte. Religionswissenschaft und Moderne, C.H. Beck, Mtinchen 1997, pp. 266-267 (tr.: la scoperta della storia delle religioni. Scienza delle reli!fioni e modernità, Morcelliana, Brescia 2002).

16 E la tesi particolare di Luhmann quando scrive: «Per senso intendiamo una forma speciale di riduzione della complessità» e più avanti: «Il senso consegna una forma di sentire e di agire, che costrin­ge alla selettività. Il senso appare la rappresentazione simultanea del possibile e del reale, che sposta tutto ciò che viene inteso come intenzionale in un orizzonte di altre e più ampie possibilità». Cfr. N. Luhmann, Funktion der Religion, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, pp. 20-21 (la traduzione è mia).

17 E. Morin, Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Feltrinelli, Milano 1989, p. 25.

Interpretazione radicale: antropologia e teologia 217

riconoscere che il sapere ecologico come il sapere teologico deve essere un sapere e una scienza ricapitolativa di ogni altro sapere. Come la teologia, l'ecologia dovrebbe condurre l'umanità alla sophrosyne, alla sapienza, inte­sa come una specie di super-scienza, come un sapere trasversale in cui appunto si vive il paradosso già sopra enunciato: si conosce la conoscenza e si deve fare i conti anche con la non conoscenza 18• E, poiché ciò compor­ta un gioco di equilibrio molto delicato, dove occorre contemperare il dif­ficile rapporto tra luci e ombre, interviene nella conoscenza disponibile anche un concetto di esonero rispetto al sapere, un bisogno di riduzione della complessità, in modo da andare verso la luce anche quando di neces­sità si è circondati da ombre che non si possono per il momento dipanare.

Fatte queste considerazioni, nessuno può negare che tutto ciò appar­teneva quasi di diritto alla teologia nei secoli passati, mentre oggi pertiene all'ecologia al punto tale che si potrebbe pensare a una specie di "scambio delle consegne" tra i due saperi.

Ma l'affinità tra ecologia e teologia può lasciare il posto anche a una filiazione, a qualche cosa come una dipendenza del sapere ecologico dal senso religioso stesso e dalla teologia? Almeno nella sua origine e nella storia passata, sembra che questo si lasci intravvedere facilmente e positi­vamente in quanto la religione - in maniera forse atematica - ha costitui­to il primo orizzonte di significato globale che riguardava il tutto del nostro vivere al mondo, all'interno del quale si poneva come principio primo il rispetto, il concetto di dipendenza, l'ammirazione. Prima che ci fosse l'esperienza dell'unità della coscienza, erano infatti gli dèi a creare il senso dell'unità del tutto19• Nelle religioni orientali ancora oggi il senso religioso è molto prossimo al senso ecologico. Ma anche in Occidente, se si guarda con attenzione la storia passata, si può trovare facilmente l'idea che la religione non abbia assunto soltanto un compito generico e supple­tivo rispetto alla visione globale, ma abbia espresso ed esprima una quasi consostanzialità con il sapere ecologico. In questo contesto si può riscon­trare anche una vera filiazione dell'ecologia dalla religione: la religio lega­ta all'idea di cultus, da cui "cultura", ha aiutato e ha sorretto a suo modo ogni coscienza ecologica mantenendo alto il concetto di "intero", di "soli­darietà" del tutto, di olon, di salus, di integro, attraverso l'idea di mutua

18 Una visione simile si trova in S. Toulmin, The Return to Cosmology. Postmodern Science and the Theology o/ Nature, University of California Press, Berkeley 1982, in cui l'autore sostiene che la cosmologia oggi dovrebbe essere considerata l'ecologia e che l'ecologia, in quanto visione eco-siste­mica, appare molto simile all'idea di religione. Cfr. R. Rappaport, Ritual and Religion in the Making o/ Humanity, cit., pp. 456-457. Si veda Platone, Carmide, 166 E. Per l'intero: N. Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992, p. 149.

19 Si veda ad esempio lo studio di J. Jaynes, The Origin o/ Consciousness in the Breakdown o/ the Bicamera/ Mind, Houghton Mifflin Co., Boston 1976, p. 72 dove l'autore scrive: «The gods take the piace of consciousness». Si veda anche M. Gauchet, Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1993.

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appartenenza e di solidarietà universale. Questo è un tratto che appare comune a pressoché tutte le religioni, anche se una sottolineatura partico­lare per questo sguardo totalizzante ed eco-sistemico prima di ogni teoria sistemica sembra che si debba riservare in modo particolare al mondo delle religioni orientali20•

In relazione al cristianesimo, in particolare, forse potremmo riferirci a temi cristocentrici ricapitolativi dell'esperienza come potrebbe essere l 'a­nakef alaiosis di tutte le cose di cui parlava Ireneo di Lione nel contesto della visione cristiana delle origini. Il concetto indicava un vero compimento di tutta la realtà in Cristo e poteva suggerire un legame con il senso ecologico profondo. Era visto, infatti, come un preludio a una "ricapitolazione del tutto", era un "abbraccio con il mondo" da parte della coscienza ecologica, di cui oggi si comprendono meglio i termini. Anche nella visione ecologica infatti c'è il bisogno di realizzare una sintesi del tutto, vi è la necessità di arrivare a una visione d'insieme, benché poi ai nostri giorni - differente­mente dalla preziosissima sintesi prospettata da P. Teilhard de Chardin negli anni Cinquanta - tale unità del tutto non faccia più capo a Cristo e a Dio padre, ma si richiami piuttosto quasi esclusivamente alle viscere stesse della madre terra a cui, per altro, sentiamo tutti di appartenere.

Questo nostro studio perciò non nasce da un desiderio di creare novi­tà o di seguire idee "ad effetto", ma da una consapevolezza specifica per la quale l'ecologia appare in epoca moderna e post-moderna il sapere che più si avvicina a una rinnovata antropologia e a una teologia per la sua visione onnicomprensiva dei problemi e per la sua attenzione all'umanità in quanto tale, oltre che per il suo bisogno di ricomprendere significativa­mente tutta la biosfera come il vero mondo in cui viviamo la nostra espe­rienza. E il senso religioso ha da sempre esercitato una funzione parallela, si è configurato come il senso globale della realtà, come un sentimento unificatore di ogni altra esperienza di appartenenza: è da sempre il primum e l'ultimum del nostro vivere al mondo, almeno come sfondo, come idea "dietro la testa".

Ma, per essere più pertinenti ancora, va riconosciuto alla liturgia stes­sa e al rito un compito incontestabile nell'ambito ecologico. Se al punto estremo e più importante ecologia ed esperienza religiosa si toccano, nei momenti intermedi e in chiave di processi storici, a sua volta si può evi­denziare come la religione attraverso la sua ritualità, in quanto azione sim­bolica che spinge all'unità del significato e al mantenimento di una codi­ficazione forte, abbia avuto un valore notevolissimo. La chiesa cristiana, in particolare, attraverso la sua liturgia come azione costitutiva di modelli

20 Si veda, per le suggestioni interne legate a questo tema, il mio lavoro: A.N. Terrin, Mistiche dell'Occidente, Morcelliana, Brescia 2001.

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di vita, si è posta storicamente nella condizione di creare dei veri habitus di condotta e via via nella varie epoche è stata in grado di mantenere modelli di equilibrio del sistema e di organizzazione olistica della vita sociale. Devo dire che se non avessi trovato conferme in un grande antro­pologo come R. Rappaport, avrei avuto un certo timore ad affermare que­sta tesi, che potrebbe apparire indiscreta e di parte, ma in realtà mi sembra ora assai convincente. Anticipando la tesi di Rappaport, si può dire infatti che la liturgia protegge concretamente attraverso l'agire liturgico l'espe­rienza di senso e indirettamente protegge una visione integrativo-adattati­va del vivere al mondo, in un contesto ampio che scavalca i temi troppo corrivi della funzionalità integrativa alla Malinowski, ponendosi piuttosto in una visione di solidarietà totale dove l'esperienza religiosa e cristiana in epoche diverse ha fatto da «parametro nascosto interconnettivo» dei diver­si saperi21 .

Creata così una contestualizzazione iniziale, una cornice di significa­to per lo studio dell'ecologia in rapporto al mondo delle religioni e della ritualità, credo che possiamo intravedere anche il compito a livello episte­mologico che ci attende in ordine al mondo religioso. Se l'ecologia nasce da un nuovo modo di guardare al mondo, se "nasce da un nuovo sguardo epistemologico", o - come direbbe Morin - da una «riforma del pensie­ro»22, essa richiede anche di riformulare una scienza dell'intero nel conte­sto della frammentazione del sapere propria delle singole scienze, chiede di fare riferimento a una scienza unitaria, una unified science capace oggi di proporre una nuova visione d'insieme, o - tecnicamente parlando - di chiarire forse quella che viene chiamata una teoria dei sistemi.

Parallelamente allora vorremmo vedere se, oltre all'antropologia, anche la teologia/liturgia sia in grado di compiere, a sua volta, lo sforzo per decentrare il suo sapere e riconoscersi epistemologicamente nel conte­sto del sapere sistemico: se è in grado pertanto di riconoscere l'apparte­nenza del senso religioso fuori dalla sua dicibilità classica esplicita e in un tutto epistemologico in cui le scienze sono tenute a rinunciare in qualche modo alle loro identità particolari. Oggi infatti si comprende come sia fon­damentale mettere in circolo i problemi, in quanto tutti sono interdipen­denti nel tempo e nello spazio e non isolati gli uni dagli altri, come inve­ce vorrebbero ancora proporci le singole scienze. Ci chiederemo alla fine se anche la teologia/liturgia sappia mettersi all'interno dei vari saperi e se sappia riconsiderare la sua stessa epistemologia in ordine a questa nuova sintesi che si profila tanto necessaria.

21 Per questa tesi si veda infra, par. 4.1: Complemento necessario del pensiero ecv-sistemico di luhmann attraverso la riflessione sul carattere ecologico-adattativo della liturgia in Rappaport.

22 Vedi E. Morin-A.B. Kem, Terra-patria, cit., pp. 159-161.

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220 Parte terza - Capitolo secondo

Il breve iter che seguirò sarà il seguente: si tratterà anzitutto di coglie­re il senso ecologico nel suo eidos "connettivante" a livello sistemico rico­struendo anzitutto le tappe di una visione a sfondo fenomenologico a par­tire dalla stessa fenomenologia della percezione, primo contatto con il mondo; poi si rifletterà sulla conoscenza a Gestalten, e in un crescendo di organizzazione, si andrà dalla scoperta della "complessità" della scienza fino all'idea dell'autopoiesi e dell'auto-organizzazione. Ora tutto ciò modifica profondamente anche l'antropologia culturale che deve abituarsi a pensare in termini "eco-sistemici". Lo scopo sta, pertanto, nell'arrivare a orizzonti conoscitivi sempre più ampi, in cui il principio essenziale è la visione "olistica" intesa come tensione e come forza connettivante di ogni realtà, fino a raggiungere una comprensione chiara del sapere sistemico, rimediando a quell'analitica mortificante a cui ci ha portato inopinata­mente la scienza tecnica e specialistica.

Si direbbe che, in questo procedimento, saremo chiamati a compiere una specie di "schiacciamento della conoscenza" a livello di un fenomeno di natura, - ciò che si impara oggi in particolare dalle scienze cognitive -equiparando la mente alle menti della natura, all'organizzazione dell'am­biente, considerando, pertanto, la mente umana parte del contesto delle "menti del mondo" ed essenzializzandone il significato in quanto "sistema capace di anticipazione", quale sistema generatore di aspettative23 . A par­tire da queste osservazioni si potrà poi riconoscere la visione sistemica in cui si presenta tutto il reale24. Naturalmente questo significherà anche la rinuncia a concepire il mondo come strutturato da una legge imposta dal­l'esterno e porterà a immaginare le regolarità del mondo come il risultato di processi di auto-organizzazione. Tutto ciò ci metterà sull'avviso di un possibile cambiamento di paradigma conoscitivo. È possibile riconoscere questo procedimento di conoscenza a onde concentriche, a orizzonti che si allargano, dove non è poi coinvolto soltanto l'uomo, ma è tutta la realtà che ci circonda a essere soggetto/oggetto di conoscenza?

Sembra che sia un simile modello quello che ci permette di incontrare la nuova scienza sul suo proprio terreno per cui ci è possibile - come direb­be E. Morin - «combattere la scienza con la scienza» e far vedere che nel

23 Il compito di una mente è quello di «produrre futuro», come disse una volta P. Valéry. Si veda per queste osservazioni D.C. Dennett, La Mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, Sansoni, Milano 1997, p. 69.

24 Soltanto a questo punto più alto in cui l'idea prima e originaria di ogni esperienza religiosa non può essere altro che l'idea e l'esperienza del tutto, il senso di cui non vi è un senso più grande, la sintesi delle sintesi, si capirà che l'essenza dell'ecologia si avvicina e sconfina con un nuovo senso religioso. Ritengo infatti sempre valida la visione di Van der Leeuw il quale osserva che «il senso reli­gioso di ,una cosa non lascia spazio per nessun altro senso più ampio o più profondo. È il senso della totalità. E l'ultima parola». Cfr. G. Van der Leeuw, La religion dans son essence et ses manifestations, Paris I 955, p. 663.

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rapporto riduzionismo/olismo è la stessa scienza che ci viene oggi incontro attraverso i concetti di complessità, autorganizzazione, autopoiesi per capi­re in maniera nuova sia l'uomo, sia la realtà dell'universo25, togliendo le assolutizzazioni, ma anche le parcellizzazioni finalistiche a se stanti.

Sgombrato così il terreno e tolto il piedistallo delle epistemologie inte­se come tipi di sapere analitici, particolari, mononucleari, ci sarà possibile arrivare alla fine a un vero confronto a livello eco-sitemico tra antropologia e teologia in rapporto ai mondi religiosi e anche con il rituale, avendo la possibilità di guardare all'intero dal punto di vista antropologico e religio­so e di scoprire nel rito religioso la congiunzione di antropologia ed ecolo­gia attraverso la funzione "omeostatica" e "globale" che esso ricopre.

l. La conversione del sapere. Il rapporto dell'io con il mondo

1.1. Nuova fenomenologia della percezione

«La percezione di una cosa è la percezione della cosa nel suo campo percettivo ...

in esso il mondo si rappresenta; esso, in quanto campo percettivo, ha sempre per noi il carattere di un ritaglio del mondo»

(E. Husserl)

Occorre incominciare per gradi e da piccole osservazioni della vita quotidiana.

Già a questo primo livello notiamo un cambiamento nel nostro modo di guardare alla vita e di impiegare il nostro tempo. Voglio proporre una piccola fenomenologia della vita quotidiana.

Assistiamo oggi a qualcosa che va controcorrente rispetto a un passa­to prossimo: se posso esprimermi con un'espressione forte, vorrei dire che i "bisogni primari" stanno diventando sempre più espressioni "quasi spiri­tuali": si spiritualizzano contestualizzandosi in maniera significativa ri­spetto al tutto della nostra vita. Si dice tradizionalmente e in maniera con­clamata che dal punto di vista religioso stiamo diventando sempre più materialisti. A una fenomenologia attenta sembra in realtà che I<? spiritua­le sia invece più adeguato a descrivere la nostra situazione oggi. E una cul­tura ecologica e - potremmo dire - in senso lato religiosa a cui ci ispiria­mo quasi inconsciamente per il nostro stare bene e vivere sano.

25 Scrive Smolin: «Ciò che lega insieme la relatività generale, la fisica quantistica la selezione naturale e le nuove teorie sui sistemi complessi e autorganizzati è il fatto che, in modi diversi essi descrivono un mondo che è un tutto in sé, senza alcun bisogno di un'intelligenza esterna che giochi il ruolo di suo inventore, organizzatore, e osservatore esterno». Cfr. L. Smolin, op. cit., p. 247.

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222 Parte terza - Capitolo secondo

Riconosciamo l'importanza dell'igiene, della pulizia. Ora già questa semplice constatazione non è poca cosa e non è un semplice input del pro­gresso. Basterebbe riconoscere che l'idea del sacro e del peccato nel mondo delle religioni fa capo da sempre all'origine a questo rapporto con­turbante tra ciò che è pulito e ciò che è invece contaminato e che dunque diventa sinonimo di macchia e di peccato. C'è - come dire - già una mora­lità inconscia nel nostro vivere di oggi.

Le nostre case oggi assomigliano sempre più a piccoli templi per l'or­dine, la pulizia, gli abbellimenti e le funzionalità: c'è poi una proprietà delle persone nel comportamento e nel vestire che ci rende più accettabili e dignitosi. Allo stesso modo, abbiamo una cura per il corpo che - potrem­mo dire - è ecologica e "liturgica" nello stesso tempo. Riconosciamo che non serve affatto il mangiare abbondantemente per stare bene e abbiamo per lo più il senso della sobrietà; oggi è vivo il desiderio di mangiare sano, e si accetta anche senza particolari rimpianti di sottoporsi a diete e a con­trolli. Ad esempio, le campagne contro il fumo sono per lo più bene accol­te; rinunciamo di buon grado ai superalcoolici e a molte altre cose che nuocciono e minacciano la salute. Allo stesso modo, siamo attenti ai peri­coli dei cibi transgenici, temiamo sempre più che l'acqua che beviamo possa essere inquinata; sappiamo che abbiamo bisogno di mantenere la fit­ness del nostro corpo; sappiamo fare sport, passeggiate, passiamo parte del nostro tempo in palestra, sappiamo gustare gite ecologiche così come sap­piamo impiegare bene il tempo libero. Stiamo perfino attenti ai cambia­menti atmosferici perché sappiamo che influenzano il nostra stato di salu­te e anche la nostra psicologia. In una parola siamo più sensibili a tutto ciò che ci circonda26,

E poi perché oggi, in particolare, siamo così sensibili a tutti gli esseri viventi, sentiamo il bisogno di preoccuparci per le varie specie di animali, e istintivamente siamo legati ai vari animali domestici che vogliamo viva­no accanto a noi? Poco tempo fa, ad esempio un quotidiano di prestigio dedicava una pagina intera alle somiglianze tra uomini e animali. «Anche alcuni animali - diceva il titolo - sono non soltanto bugiardi, ma anche superstiziosi». Scoprire affinità tra l'uomo e gli animali sarebbe apparso blasfemo in altri tempi. Del resto credo che mai nel passato quanto oggi i bambini in particolare si sentono legati e solidarizzano con gli animali domestici. Mai come oggi ci si intenerisce per un animale abbandonato. Ma anche in rapporto alle piante e ai fiori cambia la mentalità e si ha una sensibilità più squisita. Oggi si hanno sentimenti per le stesse piante, Ien-

26 La corrente New Age è molto attenta nel descrivere questa nuova percezione delle cose. Si veda anche il mioA.N. Terrin, Il sacro off-limits, EDB, Bologna 1995, in particolare: Per una fenome­nologia del!' attuale domanda di salute, pp. 251-271.

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tamente si impara ad amare di nuovo e di più la natura. Si amano molto più di ieri anche i fiori, i profumi, i colori, le lu_ci del giorno, le om~r~ d~ll~ sera. Amiamo curarci con le medicine naturah e con le erbe, con 1 fion d1 Bach e prestiamo attenzione alla nostra pelle trattandola con i vari cosme­tici naturali27. Apprezziamo di più anche l'aria che respiriamo, abbiamo un'attenzione e una cura quasi ossessiva per il giardino di casa e apprez­ziamo l'acqua, quasi tanto quanto i buddhisti zen. Non sopportiamo lo smog e la sporcizia delle città e quando possiamo, cerchiamo rifugio in luoghi ecologicamente ben curati.

È un fenomeno che va messo in risalto. Si tratta soltanto di una moda? Siamo diventati forse più romantici? Si tratta soltanto di un apparente desi­derio di bontà verso gli essere senzienti, una simpatia inutile verso gli ani­mali, forse un desiderio di evadere dal mondo degli uomini che ci ha delu­si? O forse tutto ciò che ci circonda è diventato un giocattolo con cui cer­chiamo di divertirci, in mancanza d'altro, in mancanza soprattutto di un contatto vero con le persone, ciò che è divenuto certamente sempre più dif­ficile nella nostra società?

Non credo che si dovrebbe fare un'analisi superficiale di queste nostre nuove attenzioni e sono portato a credere che tutto questo rivesta un signi­ficato nascosto a cui non pensiamo sufficientemente. È un modo di vivere non soltanto più igienico, più signorile, ma è un modo di sentire, direi, più spirituale, un modo più profondo di metterci in relazione con le nostre per­cezioni, di entrare in sintonia con i sentimenti, ma anche di vivere consa­pevoli - anche se forse non in maniera chiara - che vi è un'interrelazione tra la nostra vita e tutto il bios, l'eco-sistema che ci circonda.

1.2. A. Naess e la visione gestaltica

«Non esiste esperienza oggettiva» (G. Bateson)

Ora, parallelamente a questa nuova percezione e sensibilità rispetto al nostro corpo e alle nostre situazioni ambientali, si assiste anche a una modifica lenta, ma costante, nel nostro modo di vedere noi stessi e il mondo. Quello che ci circonda, l' Umwelt, diventa sempre più importante e comprendiamo che l'ambiente trasforma in negativo o in positivo la nostra esistenza. Si annuncia sommessamente, dunque, già a partire dal-

27 Prova ne sia tutto il mondo New Age che si è sviluppato in questi ultimi anni. Cfr. A.N. Terrin, New Age. La religiosità del post-moderno, EDB, Bologna 20013.

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224 Parte terza - Capitolo secondo

l'analisi del quotidiano una nuova epistemologia che nasce quasi del tutto spontanea dal contesto ambientale.

Dietro a tutto questo vi è, anzitutto, una nuova fenomenologia della percezione non più legata alla negatività dicotomica in cui esistiamo noi, da una parte, e le cose e il resto della natura, dall'altra, - visione che ha imperato da Cartesio in poi e ha portato sempre più verso l'impacchetta­mento delle conoscenze nel sapere tecnico-scientifico -, ma vive piuttosto inconsapevolmente una fenomenologia olistica, dove non ci sentiamo più 1i strumentalizzare la natura, considerandoci noi stessi una parte di essa. E il primo modo di riconoscere velatamente che facciamo parte di una stessa unità: noi nel contesto della natura.

Le riflessioni, ad esempio, del grande fenomenologo ed ecologista A. Naess28 si muovono in questa direzione quando egli introduce le riflessio­ni sul modo di conoscere le nostre percezioni. Ancora però non intendo toccare il cuore del problema, in quanto voglio arrivarci attraverso picco­li passaggi cercando di cogliere lentamente i guadagni attraverso temi vici­ni di carattere psicologico-epistemico.

Il punto di partenza che abbiamo ereditato, e cioè il rigido rapporto cartesiano della separazione tra natura e mente umana, viene - come di­re - sconfessato da noi stessi oggi. Avevamo sempre pensato che la cosa in sé è oggettiva e, nella sua solidità, diversa da noi, mentre la nostra per­cezione riveste un carattere soggettivo e parte dal nostro io. Oggi ci accor­giamo che questa dicotomia non funziona e non dice il vero. La nostra epi­stemologia classica ci ha dato una visione alquanto distorta del modo di vedere il reale a cui noi ora spontaneamente sentiamo di dover rimediare. Secondo la visione classica la forma, il peso e la misura sono qualità pri­marie, oggettive; le altre qualità come il colore, l'odore, il gusto etc., sono qualità secondarie, soggettive, come dire, sono qualità di poco conto. Galileo incominciò a fare scienza con queste distinzioni e poi queste stes­se furono fatte valere universalmente. Ora comprendiamo che è seconda­rio il fatto che le varie caratteristiche siano soggettive o oggettive; più importante è invece che le nostre percezioni siano legate a «una relazione di interdipendenza dalla nostra concezione del mondo»z9 _ Forse per questo siamo portati oggi, quasi inconsapevolmente, a dare nuova importanza a tutto ciò che ci circonda indipendentemente dall'oggettività quantificata e misurabile.

Occorre approfondire questa istanza tramite altre riflessioni fenome­nologiche. Una vera fenomenologia della percezione infatti ci può aiutare a capire che le datità non sono fatti oggettivi e fuori di noi, ma modi secon-

28 Cfr. A. Naess, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Red, Como 1994. 29 Cfr. ivi, p. 56.

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do i quali noi diamo significato al mondo in una interrelazione che non permette separazioni rigide. I fenomeni sono legati alla percezi?ne e deb­bono all'originaria sorgente percettiva la loro realt~30. Hu_sserl dm~bbe c?e il mondo è un orizzonte aperto che sta tra la percezione e Il percepito amc­chito da tutti gli orizzonti costitutivi e ca-fungenti che diventano l'ambito dell'intersoggettività trascendentale. Dunque, se c'è qualcosa da notare è questa tonalità basata sul mondo della cos~ien~a come la vera r_ealtà che viviamo: ognuno nel suo rapporto con gh altn, nella sua c?sc1~nza. del mondo attraverso la sua intenzionalità penetra in quella degh altn e vice­versa. Non sono le percezioni "oggettive" che colgono e stabiliscono in proprio la realtà, ma sono piuttosto le yercezioni in qu~nt? datità che si costruiscono intersoggettivamente e SI fanno portatnc1 di uno scorrere continuo del reale, secondo una vera prospettiva fenomenologica per cui -come direbbe Husserl - «La coscienza del mondo propria di ognuno è già sempre coscienza, e lo è nel modo della certez~a d'essere di_ un ~nico e medesimo mondo per tutti»31 . Senza saperlo, siamo condotti tutti verso una visione fenomenologica della percezione.

L'idea profonda sta dunque nel fatto che non siamo porta_ti_ dalle real~ tà oggettive come erano intese tradizionalmente, ma - semphfica?do -. SI

può dire piuttosto che siamo portati dall'idea i?tersoggetti~a c~e ~i faccia­mo e che per noi costituisce il mondo delle cosiddette realta obiettive. Solo in questo contesto si può capire quello che scrisse Naess, grande fenome­nologo prima che fondatore dell'ecologia del profondo, quando affe~ava che non è giusto trascurare alcune percezioni perché ritenute soggettive e privilegiare altre perché appaiono oggettive e condivisibili dagli altri. E~li afferma: «Non si vede perché non bisognerebbe allora considerare proie­zioni anche la lunghezza e tutte le altre qualità attribuite al sogge~to umano»32. D. Bohm - il grande fisico atomico - a sua volta, per smentire la priorità che attribuiamo allo sguardo oggettivo or~in~rio cui da semp~e affidiamo con sicurezza il valore delle nostre percez10m, afferma sempli­cemente che «lo schema realistico ( e di riflesso il mondo come realtà oggettiva) offre solo una versione semplificata della dimensione materia-

30 Sarebbe importante qui richiamarsi anche alla grande visione di Gibson, che per primo ha por­tato la psicologia cognitivista basata sul modello del computer e dei singoli_ b!ts di inf~~~zione e poi sul puro "connessionismo" verso una visione ecologica aperta, dove la cogmz10ne non e pm _legata sol­tanto a modelli computazionali, ma a un'interazione costante con l'ambiente. Cfr. m particolare J.J. Gibson, An Ecologica/ Approach to Visual Perception, Houghton Mifflin, Boston 197~. Si veda anche il cognitivista U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna 1993, soprattutto 11 cap. n: Teorie della percezione, pp. 33-50.

31 Si veda il paragrafo: Io, in quanto io originario costituisco l'orizzonte degli altri io tra~cen-dentali in quanto ca-soggetti dell'intersoggettivtà trascendentale che costituisce il mondo, m E. Husserl, La crisi delle scienze europee ... , cit., pp. 210 e ss.

32 Cfr. A. Naess, op. cit., p. 61.

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le»33• E soprattutto, in ordine a sconfessare l'idea di misura, che ci appare tanto solida e sicura, sostiene direttamente che «quando la misura viene identificata con l'essenza della realtà, questo non è che illusione»34• Su tale sfondo epistemologico si dovrebbe ormai riconoscere che tutte le perce­zioni sono importanti e tutte sono nello stesso tempo "scorrevoli", per cui l'attenzione non deve confondersi con la fissazione. Scrive ancora Bohm a tale proposito: «La frammentazione trae origine essenzialmente dalla fis­sazione delle percezioni che formano la nostra visione complessiva del mondo, è una fissazione che deriva dalle nostre abitudini di pensiero gene­ralmente meccaniche e ripetitive»3s.

Dunque un modo diverso e nuovo di vedere si profila all'orizzonte di una profonda fenomenologia dell'esperienza. Quest'orizzonte è di assolu­ta importanza per incominciare a pensare in maniera ecologica e per poter, per altro verso, contrastare tutto il modo di pensare a sfondo analitico, scientifico e dicotomizzante in cui per troppo tempo è stata confinata la nostra percezione della realtà.

Naturalmente, lo stesso discorso vale anche per la percezione/comu­nicazione, quella che ha inizio da noi, che parte dai nostri sensi. Anche questa si scopre essere sempre più un "fatto totale". Attraverso gli studi di semiologia e di cibernetica, oggi ci si rende conto in realtà che il fatto comunicativo non è così innocente come poteva apparire: esso infatti coin­volge codificazioni plurime, espressioni complesse, problemi di ridondan­za, movimenti inconsapevoli di feed-back che - in quella visione lineare e monocausale in cui eravamo abituati a stendere a uno a uno come su un tappeto gli oggetti della sensazione sgranando volta a volta le percezioni corrispondenti - non avrebbero avuto alcuna possibilità di venire a tema e sarebbero rimaste dinamiche per sempre incomprensibili. Sarebbe suffi­ciente notare, ad esempio, come il linguaggio verbale sia soltanto una pic­cola parte del nostro modo di comunicare36 e come possediamo più in pro-

33 Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990, p. 166 dove egli continua: «Le cose sono limitazioni delle possibilità combinatorie entro la dimensione materiale[ ... ] In questa forma, le cose forniscono punti di riferimento pratici per gestire i rapporti con il mondo[ ... ] Ma esse occultano anche che alla costituzione materiale del senso concor-rono sempre e necessariamente due orizzonti e che per fissare il senso materiale, sarebbero necessarie descrizioni duplicate, rivolte verso l'esterno e verso l'interno». Cfr. anche G. Bateson, Mente e natu­ra, Adelphi, Milano 200211 (titolo or.: Mind and Nature. A necessary Unity, 1979).

34 Cfr. D. Bohm, Universo, mente e materia, Red, Como 1996, pp. 58 e 61. 35 Cfr. ivi, p. 58. 36 Scrive Bateson: «La cinetica dell'uomo è diventata più ricca e complessa, e il paralinguaggio

è riccamente fiorito parallelamente all'evoluzione del linguaggio verbale. Tanto la comunicazione cinetica quanto il paralinguaggio sono stati elaborati in complesse forme artistiche, musicali, poetiche, di danza e via dicendo[ ... ] Il sogno dei logici e cioè che gli uomini debbano comunicare tra loro sol­tanto per mezzo di segnali discreti non ambigui, non si è avverato e probabilmente non si avvererà». Cfr. G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, p. 422.

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fondità delle gestualità originarie quasi dei «grafemi corporei», dell'affer­rare, del guardare, dell'ascoltare, in cui ogni «grafema» è l'evento di un «rispondere-corrispondere»37• Tutto questo mostra una corrispondenza corpo-mondo impensata e inaudita.

Potremmo dire pertanto che stiamo scoprendo un approccio fenome­nologico globale non strumentale e non utilitaristico della natura in cui le percezioni, attraverso un processo spontaneo, possono essere colte nella loro immediatezza originale, plurima e non deterministico/oggettivante. Per esempio si possono percepire i colori, cogliere il senso profondo di essi in un contesto globale, direi à la Heidegger, dove è importante rico­noscere che "la rosa è una rosa", senza pensare alla lunghezza d'onda della luce e senza pensare - diremmo - alle differenze esistenti ad esempio tra il rosa e il rosso.

Un esempio classico del "riduzionismo delle percezioni" proprio della scienza e della visione fenomenologica e olistica della conoscenza si può cogliere nella famosa polemica riguardante i colori tra i seguaci di Newton in Inghilterra e quelli di Goethe in Germania avvenuta a fine Ottocento. È un caso esemplare che ci permette di renderci conto del di­verso modo di percepire.

Secondo la fisica di Newton e dei suoi seguaci il colore non è altro che una realtà costituita da percezioni sensibili specifiche. È una realtà fisica misurabile in onde di lunghezza della luce. Ora in quello stesso contesto vi era un'altra teoria che cercava di sbarrare la via a questa concezione oggettivistica e poco partecipativa. Era la visione di Goethe, visione che suonava come un'eresia e un modo oscurantistico di guardare alla realtà da parte dei fisici newtoniani, i quali ritenevano che le idee di Goethe sui colori fossero solo delle «divagazioni romantiche». Del resto, l'esperi­mento del prisma sembrava confermare la teoria "riduttiva" di Newton e dei suoi seguaci. Ma non era tutto semplice. Quell'esperimento legato al prisma sembrava confermare, però, anche la tesi di Goethe che partiva dalla percezione del soggetto. Goethe si serviva del prisma, ma se ne ser­viva in maniera diversa. Il prisma per lui non doveva servire come mezzo per rifrangere la luce nei suoi elementi, ma per guardare la luce nella sua interezza. Ne derivavano due versioni diverse, in cui in particolare per il nostro grande filosofo della natura il prisma era una mediazione seconda­ria alla percezione stessa. Così, se per Newton i colori facevano riferi­mento a quantità statiche di luce in onde di lunghezza di un certo numero, misurabili e quantificabili, per Goethe invece i colori erano un originario: erano «il linguaggio dei nostri occhi» dove avviene «lo scambio tra luci e

37 Cfr. C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano 1996, p. 25.

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228 Parte terza - Capitolo secondo

ombre» e provenivano nella loro essenza da «condizioni di confine e di singolarità»38•

Ora questa semplice divergenza sui colori potrebbe già fare da prelu­dio non a un nuovo romanticismo, ma a una nuova visione fenomenologi­co-ecologica in alternativa a quella analitica e riduttivistica della scienza dell'Ottocento.

Ma proprio su questo versante dell'unità della percezione dovremmo fare riferimento soprattutto ai maestri di psicologia della Gestalt. Essi vedevano ad esempio nella formazione di «totalità non riducibili» un aspetto fondamentale della percezione. L'unità dell'esperienza cosciente apparve per essi strettamente associata alla coerenza degli eventi percetti­vi. Questo fatto veniva a confermare l'esperienza e incontrava di nuovo una visione fenomenologica che non è mai dissociativa o alternativa39.

La parola stessa Gestalt entrò nel linguaggio comune per dire una forma non riducibile di percezione. L'idea di assoluto valore della scuola che ne è nata sta nel riconoscere che il tutto non è semplicemente la somma delle parti e che in particolare nella dinamica della percezione gli organismi viventi non percepiscono le cose in termini di elementi isolati e sommati uno a uno, ma come strutture (patterns) integrate e attraverso processi. Gli esperimenti fatti dalla scuola di Berlino, con Wertheimer e W. Koehler, sono di indiscutibile valore e costituiscono ancora oggi un meto­do (metodo globale) importantissimo nell'ambito dell'apprendimento. Ad esempio Wertheimer mostrò come, se il nostro occhio per un breve attimo vede un oggetto che poi gli vien sottratto alla vista, nel caso in cui pochi attimi dopo lo stesso occhio vedesse un oggetto identico, il nostro occhio non sarebbe in grado di distinguere due oggetti, ma ne riconoscerebbe uno solo che si muove con rapidità - come avviene nella dinamica cinemato­grafica. I gestaltisti ne deducono in maniera interessante che il campo visi­vo non è un'addizione di sensazioni elementari ciascuna delle quali può andare a sommarsi alle altre40•

38 Si veda J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, Rizzoli, Milano 2000, pp. 163 e ss. Cfr. anche J.W. Goethe, Teoria dei colori, Milano 1979.

39 Per un approfondimento teoretico di questa tesi si veda E. Husserl, Ricerche logiche, voi. n, in particolare terza e quarta ricerca, Il Saggiatore, Milano 1968. Per una discussione recente del rap­porto tra riduzionismo e olismo in chiave più filosofica e a partire da J.C. Smuts si veda S. Procacci, Alle radici dell'olismo. La filosofia della natura in J.C. Smuts, Ed. Scientifiche ital., Napoli 2001.

40 Cfr. S. Procacci, op. cit., p. 55. Si veda anche quello che scrivono i neurofisiologi come Edelman, premio Nobel per la fisiologia e la medicina: «L'esperienza cosciente intera è sempre mag­giore della somma delle sue parti [ ... ] l'unità dell'esperienza cosciente è strettamente associata alla coerenza degli eventi percettivi ... ». Del resto sono molte le dimostrazioni di figure cosiddette ambigue come il cubo di Necker o il vaso di Rubin, che si possono percepire solo in un modo o solo nell'altro. Cfr. G.M. Edelman-G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000, soprattutto il cap. rn: Il nostro teatro privato: unità in atto, varietà infinita, pp. 24-41.

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Ora, all'origine della coscienza ecologica sta proprio la scoperta del­l'interrelazione e della contiguità di ogni parte con il tutto; vi è l'idea che non possiamo scomporre il mondo perché in realtà esso non si lascia scomporre; per cui ogni scomposizione è un artificio. .

Nella musica ad esempio è difficile non fare intervenire il concetto d1 Gestalt. La musica, più in particolare un pezzo musicale, si comprende come un processo e un intero e quando viene suddiviso in singole battute e poi singole note perde ogni effetto, ogni senso: viene esclusa la possibi­lità stessa di dire qualcosa, come del resto avviene anche all'interno del linguaggio, quando questo viene espropriato dal contes~o41_- . .

A proposito del linguaggio, Naess fa delle osservaz10m d1 grande mte­resse, facendo notare che il nostro linguaggio quotidiano stesso ha uno spessore impensato creando a volte un uso ~i G_e~talten più. globali _d,i quanto noi stessi pensiamo. Quando ad esempio d1crn~o: «Il cielo o~g1 e triste», o parliamo ad esempio di un «dolore sordo», CIO porta a una smte­si di descrittività esterna e interna, sintesi di codici diversi, che porta a una situazione globale, la quale non può non definirsi olistica e a sfondo eco­sistemico. Il fatto che si possano creare interferenze di codici e avere un risultato più ampio, più significativo, più capace di coniugare le percezio­ni su registri diversi, come fanno generalmente tutte le metafore a livello linguistico, dà la possibilità di comprendere meglio come i nostri stati per­cettivi siano correlati e interrelati da interi processi conoscitivi. Naess scri­ve che in definitiva le Gestalten fungono da collegamento tra l'Io e il non Io facendone un tutt'uno42. In qualche maniera, è tramite queste visioni d'insieme che noi facciamo sintesi tra noi e il mondo e otteniamo un inte­ro dove l'io stesso tende a scomparire.

In filosofia coloro che sostennero questa visione globale e dinamica a sfondo conoscitivo non vanno sottovalutati in quanto sono stati in grado di vedere la realtà come un processo dinamico in cui la percezione è coin­volta totalmente, segnando ad esempio la durata stessa del tempo che ci appartiene. In questo modo alcuni filosofi apparirono gli antesignani di una concezione olistica che sfociò poi in una visione organicistica e olisti­ca. È sufficiente ricordare H. Bergson43 secondo il quale la realtà assomi­glia al flusso di coscienza. Nell'evoluzione creatrice egli mette in risalto come non solo la coscienza, ma l'intero cosmo viva nel tempo della dura-

41 Ad esempio A. Daniélou scrive: «Noi non percepiamo che dei rapporti sia che si tratti di colo­ri, di forme, di suoni, di temperature, di odori ecc ... ». Cfr. A. Danielou, / linguaggi musicali: semio­logia, psicologia, strutture, Zanibon, Padova 1972, p. 20. Naturalmente anche il linguaggio ha una configurazione olistica. Interprete principale oggi se ne dimostra D. Davidson sulla scia del logico Quine. Cfr. D. Davidson, Verità e interpretazione, li Mulino, Bologna 1994.

42 Cfr. A. Naess, op. cit., p. 72. 43 Cfr. H. Bergson, L'evoluzione creatrice, La Scuola, Brescia 1968.

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ta, durata intesa come interazione di invenzione, forme e strutture sempre nuove. Ma, più in là, occorre ricordare anche il filosofo, teologo e mate­matico Whitehead44 il quale formulò chiaramente una teoria filosofica in cui il concetto di processo come «intero dinamico» aveva una posizione fondamentale. Più vicino a noi, è sufficiente pensare a uomini come Teilhard de Chardin e last but not least sarebbe interessante poter parlare di grandi pensatori all'interno del mondo della New Age, come K. Wilber45 o anche M. Fox46 i quali, sulla scia del fisico Bohm, esprimono oggi una visione "processuale" del tutto moderna della realtà.

Alla fine, la questione posta filosoficamente ricadeva a suo tempo nel rapporto esistente tra riduzionismo e meccanicismo da una parte, e dal-1 'altra parte fluiva invece verso la legittimazione della concezione olistica non intesa come un dato ma come un "processo" e una "tensione"; realtà che era già stata sicuramente messa a tema ad esempio dal romanticismo tedesco in modo particolare, ma che ora occorreva rinnovare in rapporto a tutte le nuove teorie scientifiche.

2. La dinamica intrinseca dell'idea di complessità: arrivare alla co-scien­za attraverso la scienza stessa

2.1. La complessità

«La visione scientifica del mondo cessa di essere scientifica»

(W. Heisenberg)

Tutti i progressivi decentramenti del soggetto che via via abbiamo messo in evidenza a partire da una visione più fenomenologica, gestaltica ed eco-sistemica ci portano verso una nuova concezione secondo la quale tutto è correlato a tutto e la soluzione di un problema non è mai indipen­dente dalla soluzione degli altri problemi, così come non è indipendente dal discorso in cui viene posto e formulato il problema stesso. L'interrelazione tra le parti e il tutto diventa talmente stretta da decidere in altre parole sulla possibilità stessa della soluzione dei singoli problemi. Di conseguenza, la rinuncia al controllo, alla determinazione, all'ideale ormai improponibile di

44 Si veda A.N. Whitehead, Processo e realtà, Bompiani, Milano 1965 (1929). 45 Cfr. K. Wilber, Quantum Questions: Mystical Writings of the World'.s Great Physicists,

Shambala, Boston 1985. 46 Cfr. M. Fox, Creation Spirituality: Liberating Gifts far the Peoples of the Earth, Harper, S.

Francisco 1991.

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un sapere racchiuso in una sequenza «algoritmicamente comprimibile» (Atlan) come modello di un sapere oggettivante e unilaterale appare essere uno sbocco inevitabile e, per altro, affascinante delle nuove frontiere della scienza comportando di necessità un uso diversificato di modelli. Ora occorrerà parlare sempre più di fenomeni come }'"imprevedibile", il "di­scontinuo", occorrerà parlare di "singolarità", di "convergenze non lineari" e sarà necessario così introdursi a quello snodo intellettuale e più com­prensivo in cui è necessario lasciare spazio alla flessibilità, alla comple­mentarità, con tutte le sue sollecitazioni possibili in modo da far fronte in maniera più consona alla plurisemanticità del mondo47.

Oggi c'è un termine che ricorre come un refrain quasi ossessivo a livello scientifico ed eco-sistemico per chiarire questa interdipendenza di tutto da ogni singola parte: si tratta del concetto di çomplessità48, divenu­to il nuovo paradigma quando si parla di scienza. Non c'è dubbio: lo svi­luppo delle scienze, sollecitate anche da una visione fenomenologica ed eco-sistemica di questi ultimi anni non permette ulteriori indugi. Si richie­de necessariamente di mettere al centro tale nuovo concetto49. Esso infat­ti, al di là della sua origine dal sapere scientifico, serve bene a mediare tra la fenomenologia della percezione e la riscoperta dell'intero rapporto con il mondo, oltre a essere in grado di introdurre in maniera significativa anche al concetto di sistema e di organizzazione del reale, creando così il presupposto fondamentale per pensare in maniera sistemica, in cui si tenga conto di tutto ciò che converge verso la costruzione e il riconoscimento del nostro rapporto alla realtà, senza nel contempo dimenticare gli apporti nuovi che provengono in particolare dalla teoria dei quanti. In modo spe­ciale, credo che l'accordo sul tema della complessità serva come idea­guida per interrogarci su quella gamma pressoché infinita di fattori conco­mitanti, di funzioni latenti, di azioni e retroazioni ormai ricorrenti nel nostro mondo conoscitivo e scientifico e senza il quale non saremmo in grado di offrire una descrizione soddisfacente degli innumerevoli procedi­menti necessari per accedere alla conoscenza del reale. Del resto intorno a questo concetto ruotano le grandi teorie scientifiche del xx sec. che hanno messo in crisi il sapere deterministico precedente.

La Teoria dei quanti, ad esempio, ha contribuito in maniera decisiva a creare un primo schock nel rapporto mente/mondo, facendo intravedere forme insospettate di immediata comprensione della complessità. Qui il

47 Si veda K. Kelly, Out o/Contro/. La nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell'economia, Apogeo, Milano 1996.

48 Si veda ad esempio R. Lewin, Complexity: Life at the Edge of Chaos, J.M. Dent, London 1993; P. Musso, Filosofia del caos, F. Angeli, Milano 1997; G. Bocchi-M. Ceruti (edd.),La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 199710; M.M. Waldrop, Complessità, lnstar Libri, Torino 1995.

49 Cfr. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling and Kupfer, Milano 1993.

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discorso sarebbe lungo, importante e anche molto difficile50. Suggerisco soltanto due idee derivate dalla fisica quantistica, idee però talmente importanti da rivoluzionare il nostro modo di porci di fronte al mondo.

Anzitutto faccio presente l'intercorrelazione scoperta a livello atomi­co tra tutte le particelle dell'atomo e degli atomi tra di loro. La tesi appa­re chiara negli studiosi della fisica sub-atomica: le particelle non hanno alcun significato come entità isolate, ma si possono comprendere solo come interconnessioni o correlazioni51 a tal punto che non appare rispetta­to neppure il principio della località.

Dunque anche il microcosmo, più ancora della fenomenologia della percezione, ci avverte di questa stretta connessione tra le singole parti e il tutto. Benché la meccanica quantistica sia una teoria che, a dire di Feynman nessuno riesce a capire52, di essa si comprendono almeno alcu­ne conseguenze importanti. Ad esempio, l'esperimento effettuato da Aspect dimostrò che la "località" - principio fondamentale nel nostro essere al mondo - non è affatto un principio che venga rispettato sempre e in ogni caso dalla natura. Dagli esperimenti fatti dal fisico francese si deduce infatti che l'interrelazione delle particelle riflette un aspetto nasco­sto ma più essenziale del mondo. Secondo tali esperimenti, una particella (un fotone), infatti, che viene portata lontano, in un altro luogo rispetto alla sua fonte di origine - secondo la visione classica - non dovrebbe più avere connessioni con la particella che le è correlata, mentre in realtà questa par­ticella si comporta in maniera assai strana. Mantiene la correlazione: resta un'interconnessione talmente forte tra le due particelle per cui la segnala­zione dello stato reciproco è correlata in ogni caso e la comunicazione di tale stato supera la stessa velocità della luce53.

50 Mi sia permesso in questo contesto rinviare a un testo che parla della teoria relativistica di Einstein e della teoria dei quanti. È un lavoro che appare per certi aspetti di difficile lettura, ma che è molto importante, anche in rapporto ai temi correlati che abbiamo trattato nelle altre parti di questo libro, in particolare quelli relativi al cognitivismo e alla filosofia della mente. Cfr. R. Penrose, Ombre della mente, Rizzali, Milano 1996. Il grande matematico presenta la teoria quantistica in relazione ai problemi della mente nei capitoli: La struttura del mondo quantico, pp. 296 e ss. e La teoria quanti­stica e il cervello, pp. 424 e ss.

51 Si tratta di fare i conti con il famoso paradosso EPR. Cfr. R. Penrose, op. cit., la correlazio­ne quantistica, pp. 358 e ss.; cfr. anche brevemente L. Smolin, La vita del cosmo, Einaudi, Torino 1998, pp. 321-322; Per l'insieme dei problemi posti dalla teoria dei quanti e la non località negli espe­rimenti di Beli cfr. anche P. Davies, Il fattore quantico, in Id., Dio e la nuova fisica, Mondadori, Milano 1994, pp. 143 e ss. Cfr. in maniera sintetica F. Capra, op. cit., p. 41.

52 Cfr. R. Feynman, La legge fisica, Boringhieri, Torino 1996, p. 140. 53 Mi riferisco al paradosso EPR, alla teoria di J. Beli e alle diverse sperimentazioni che ne sono

seguite, soprattutto quella di A Aspect e dei suoi colleghi. Cfr. L. Smolin, op. cit., p. 321; B. Greene, L'universo elegante, Einaudi, Torino 2000, p. 97. Si può formulare brevemente così: «Se due fotoni che hanno spin e polarizzazioni correlate incontrano due lastre parallele di materiale polarizzante, mostreranno una cooperazione del cento per cento: se il fotone A si ferma, si fermerà anche B. La cooperazione si dà anche se l'effettivo esito del contatto tra fotone e lastra polarizzante è imprevedi-

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La seconda idea è che in fisica quantistica la natura non ci permette di avere un'immagine semplice e intuitiva dei fenomeni in quanto, per il principio di indeterminazione di Heisenberg, ci dice che le particelle di materia sono anche onde e che ci è permesso accedere all'una o all'altra visione della realtà. Mai a entrambe le teorie nello stesso tempo. Dunque la realtà - per così dire - si sdoppia. Appare alla fine che possiamo avere soltanto e sempre metà dell'informazione necessaria per descrivere com­piutamente un sistema, mentre l'altra metà dell'informazione è decisa da noi, è costituita dal fatto che noi interagiamo con la realtà che osserviamo, per cui si arriva al punto di poter affermare che gli oggetti "fuori", quelli della cosiddetta realtà esterna, non esistono fuori dalla nostra stessa osser­vazione54. Forse questa idea è ancora più decisiva della prima, poiché si comprende che la teoria dei quanti non è soltanto una teoria sulla natura della realtà, ma riguarda anche le possibilità e i limiti della nostra cono­scenza della realtà. In senso pratico e immediato, ci mette intanto nella di­sposizione più appropriata per capire l'organizzazione esistente, per capi­re come tutto faccia parte di un unico sistema e come l'osservatore stesso sia parte del sistema che osserva.

Ma proprio questa visione dovrebbe ora essere presupposta a una vera comprensione ecologica. In seguito a queste nuove tesi sembra che non si possa mai rinchiudere il reale in una struttura prestabilita secondo un modo di pensare oggettivo e causale. Infatti come possiamo, noi che vivia­mo entro il mondo, costruire una descrizione completa e oggettiva dell'u­niverso come un tutto, "sovradeterminando" la realtà stessa, se invece veniamo a sapere tramite la teoria dei quanti che siamo osservatori e, nello stesso tempo, parte in causa di quella realtà che osserviamo?

L'idea della complessità è pertanto anche il termine che meglio .chiu­de la grande parentesi della scienza classica newtoniana e cartesiana. Greene scrive: «Il 1927 è l'anno della perdita dell'innocenza. Erano finiti i tempi in cui un universo a orologeria governava i moti di corpi il cui destino era determinato per sempre»55. Non si tratta più, dunque, come nella scienza classica di fare i conti con un'unica causalità, una causalità

bile e anche se i due fotoni sono molto lontani l'uno dall'altro». Cfr. P. Davies, Dio e la nuova fisica, Mondadori, Milano 1994, p. 150. Tra le tante formulazioni ho scelto questa più immediata in quanto mi sembra più facilmente comprensibile di altre.

54 Proprio da questo fatto prende spunto un titolo ad effetto del libro di D. Lindley: Esiste la luna se nessuno la guarda? Secondo la diversa visione del realista Einstein, che riteneva che la luna esi­stesse ciò nonostante e la versione di N. Bohr, che invece era del parere che questo non si poteva affat­to affermare, vi era una grande differenza epistemologica. Sembra che N. Bohr avesse ragione. Famoso è l'esempio del gatto di Schroedinger che nella visione quantica non si sa più se sia vivo o morto. Vedi D. Lindley, La cattiva salute cronica del gatto di Schroedinger, in Id., la luna di Einstein, cit., pp. 92-99.

55 B. Greene, op. cit., p. 92.

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univoca e monodirezionale, dove si parla di oggetti a se stanti, distinti e autosussistenti, ma si tratta di mettere in circolo cause e relazioni, dipen­denze ed effetti, secondo causazioni molteplici, influssi reciproci, secondo azioni, reazioni e retroazioni, in una correlazione stretta delle parti con il tutto secondo quello che oggi chiamiamo un "sistema", scoprendo che tutto fa riferimento a un insieme, a un sistema, a un insieme di sistemi. In questo modo non ha più senso parlare né di meccanicismo, né di vitalismo, come si faceva nel XIX secolo, ma ci si rende consapevoli che esiste un'in­formazione nascosta tra tutte le parti di un complesso e che semmai è una mancanza di tale informazione relativamente alla sua struttura o alla sua emergenza ciò che costituisce la causa della nostra incompetenza56.

A questo punto possiamo allora introdurre anche gli altri termini pro­pri della scienza fisica derivati dalla computazione dei modelli ciberneti­ci, là dove si osserva che ogni sistema vive stati diversi di "fluttuazione", di "stabilità", di "transizione", di "iterazione", di "non-equilibrio", di "entropia" e di "retroazione". Il concetto di retroazione, che potremmo anche chiamare causalità circolare è forse quella che meglio introduce all'idea di complessità; infatti, si coniuga con quella scienza matematica che ha studiato e ha saputo tradurre a livello digitale i fenomeni della com­plessità: intendo riferirmi alla cibernetica e alla teoria dell'informazione. Queste scienze hanno messo a tema in maniera specifica le varie causa­zioni e i processi di retroazione attraverso gli studi di N. Wieners7, J. Von Neumann e,Shannon. Tali teorie furono poi applicate anche allo studio del cervello58. E stato all'interno di questo mondo matematico organizzazio­nale riprodotto attraverso l'analisi computazionale che si è riconosciuto per la prima volta in maniera esplicita come sia fondamentale cogliere gli influssi reciproci, i movimenti afeed-back e le iterazioni che ogni realtà o organismo comporta, in quanto nessuna entità è mai isolata ma vive sem­pre in un campo relazionale preciso. Ed è sotto queste idee che si veniva maturando un nuovo tipo di antropologia.

Si incominciò a parlare nella scienza di Teoria dei sistemi dinamici fin dagli anni Trenta e Quaranta con von Bertalanffy che per primo intuì come ogni sistema viva un rapporto essenziale di apertura e chiusura con l'am-

56 Si veda H. Atlan, Complessità, disordine e autocreazione del significato, in G. Bocchi-M. Ceruti (edd.), cit., p. 159. Egli scrive: «La complessità naturale comporta un elemento di ignoranza e di incomprensione da parte dell'osservatore, ignoranza di cui l'osservatore in certa misura tiene conto allorché utilizza l'entropia di Shannon per misurare questa complessità».

57 Scrive a proposito G. Bateson: «L'idea che la causalità circolare abbia una grandissima impor­tanza fu generalizzata per la prima volta alla fine della seconda guerra mondiale da N. Wiener e forse da altri ingegneri che stavano lavorando sulla matematica dei sistemi non viventi». Cfr. G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 200211, p. 141. Su questo punto vedi anche la nota 69.

58 In rapporto al cervello rimase famoso il libro di Ross Ashby: Cfr. R. Ashby, Progetto per un cervello, Bompiani, Milano 1970 (1952).

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biente esternos9. Negli stessi anni W. Cannon introdusse il concetto di "omeostasi" per descrivere i processi metabolici di autoregolazione della temperatura. Fu un punto di partenza molto importante per muoversi sem­pre più verso concezioni d'insieme, che si autoregolano. La nuova scien­za detta "cibernetica" intervenne poi subito a studiare l'organizzazione dei sistemi e a vederne le applicazioni possibili tramite la matematica appli­cata alle macchine. Si riconobbe così progressivamente - come dice Stewart - che «la natura è inesorabilmente non lineare».

Alla fine, è importante un'osservazione per il nostro mondo antropo­logico e teologico circa lo stato di cose che si venne a creare: tali nuovi presupposti della scienza, derivati e in parte dovuti anche alla teoria della relatività di Einstein oltre che alla meccanica quantistica e alla ciberneti­ca, hanno avuto un effetto devastante per la filosofia classica e la logica stessa, così come rischiarono e rischiano di paralizzare la teologia, la quale nasce da un'istanza del tutto opposta, essendo basata per lo più sulla capa­cità di rispondere all'incertezza con la proposta di un modello rassicuran­te e determinato.

Oggi, in questo nuovo percorso delle scienze, sembra che soltanto la mistica possa trovare un posto tranquillo, oppure un'esperienza religiosa a sfondo trascendentale, mentre ogni teologia che imponga un vestito di idee al mondo sembra avere poca credibilità60.

Ma per non dare un peso soltanto superficiale a questa svolta episte­mologica che ha coinvolto la visione intera del mondo, occorre procedere, anche se molto brevemente, con una ricognizione delle scoperte scientifi­che che hanno accompagnato quelle più importanti della fisica quantistica e hanno avvalorato la tesi della complessità lasciando dietro di sé un cat­tivo o<:lore di bruciato per tutte le altre epistemologie conoscitive sia in ambito scientifico che filosofico.

59 Si veda F. Capra, op. cit., pp. 54 e ss; E. Morin, Il metodo. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano (nuova edizione integrale) 2001, pp. 227 e ss. Cfr. L. Von Bertalanffy, Teoria gene­rale dei sistemi, ILI, Milano 1968.

60 Per l'immediatezza e la per messa a punto del rapporto tra meccanica newtoniana e meccani­ca quantistica con i relativi problemi, oltre ai classici libri di F. Capra, Il tao della fisica, Adelphi, Milano 1988; Id., Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 1990; Id., La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997, cfr. D. Lindley, La luna di Einstein. Chi ha detto che è impos­sibile capire la meccanica quantistica?, Tea, Milano 1997. La teologia è per lo più ancora estranea a queste considerazioni che prima o poi dovrà pure affrontare.

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236 Parte terza - Capitolo secondo

2.2. Teoria del caos, geometria frattale, anelli retroattivi

Una breve escursione sui principali nuovi sconvolgimenti avvenuti rispetto alla fisica classica ci aiuta a comprendere come quella scienza non sia più proponibile e come, d'altra parte, la sfida della complessità costi­tuisca un vero cambiamento di paradigma.

Ad esempio, la Teoria del caos, legata dapprima soltanto al secondo principio della termodinamica e all'entropia, ora veniva riconosciuta in un contesto più ampio connesso con la metereologia, attraverso il cosiddetto "effetto farfalla" di cui si parlò a lungo nei primi anni Sessanta. Gli espe­rimenti avvalorarono gli studi sui sistemi e sulla complessità delle interre­lazioni che vi sono in natura e dimostrarono anche, a tale scopo, l'utilità indispensabile del computer e della cibernetica.

E. Lorenz ne fu l'iniziatore. Egli studiava il cambiamento delle condi­zioni metereologiche, partendo dall'idea che a piccoli cambiamenti atmo­sferici iniziali dovessero corrispondere piccoli cambiamenti finali. Pertanto studiava al computer le traiettorie di tali cambiamenti. Ora, si accorse che c'era qualcosa di strano e di ben diverso nei modelli matematici messi in atto e poi descritti tramite il computer. Non c'era proporzione tra i piccoli cambiamenti iniziali e quelli amplificati e incontrollabili che ne erano in qualche modo la conseguenza. Seguì la scoperta sconvolgente che a parti­re da piccoli cambiamenti di parametri iniziali si producono cambiamenti vistosi nel succedersi delle varie fasi per molteplici interferenze e per effet­ti retroattivi impensabili. In questi sistemi complessi appaiono, in realtà, esservi sempre concause, ci sono degli "attrattori strani", c'è la difficoltà di distinguere le cause dagli effetti. L"'effetto farfalla" infatti indicava questa serie di complicazioni per cui si diceva che il battito d'ali di una farfalla a Pechino poteva causare, un mese dopo, una tempesta a Chicago. Ci si accorgeva, ad esempio, che dopo due o tre giorni anche le migliori predi­zioni mondiali erano soltanto speculazioni e dunque che tale scienza non era in grado di tradurre in equazioni lineari e neppure in "equazioni non lineari" le varie complicazioni che erano all'origine delle turbolenze incon­trollabili. Per piccolissimi fenomeni metereologici si creavano mutazioni su grande scala e ogni previsione si deteriorava rapidamente. Errori e incer­tezze si moltiplicavano, si diffondevano a cascata attraverso una catena di elementi di turbolenza61 fino al punto che si doveva parlare dell'irriducibi­lità del caso e del disordine (matematicamente: l'incompressibilità algorit­mica del caso). Così il metereologo e matematico E. Lorenz seppe darci un'idea più articolata della complessità in natura62.

61 Cfr. J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, Rizzoli, Milano 2000. 62 Cfr. ivi, p. 25.

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Ma negli anni Settanta un'altra teoria, che si affiancava a quella del caos, venne a confermare il t~ma della complessità: la cosiddetta "geome­tria frattale" di Mandelbrot. E difficile poter dire in poche parole in che cosa consista questa nuova geometria. Occorre forse partire dal semplice fatto che la geometria euclidea, quella che si impara a scuola non rispecchia e non va bene per molti fenomeni della natura. Schemi complessi e ripeti­tivi che si trovano in natura ( ad esempio il disegno geometrico di una foglia, lo schema dei bordi delle nuvole etc.) non hanno alcun modello nella geometria euclidea e non sono riconducibili ad essa. Le proprietà più carat­teristiche di queste forme frattali stanno nel fatto che gli schemi che produ­cono non sono pure fantasie cangianti, ma si ritrovano continuamente su ordini di grandezza decrescenti, in modo tale che piccole parti rispecchia­no e si riproducono in forme più ampie e poi più ampie ancora. I cristalli di ghiaccio e i fiocchi di neve, ad esempio, sono così belli perché hanno una struttura a schema con immagini caratteristiche che si ripetono a diverse grandezze. In questo senso, non è difficile riconoscere forme frattali orga­nizzate in natura: nella ramificazione degli alberi, nella forma delle foglie, dei fiori e dei vegetali. Dappertutto ci sono schemi che si ripetono. Mandelbrot, ad esempio, illustrò questa proprietà staccando un pezzo di cavolfiore e facendo notare che la configurazione in sé del pezzo isolato è del tutto simile a un cavolfiore più piccolo63. Congiungendo queste forme "strane" e "ripetitive" esistenti in natura non ci volle molto poi a connet­tersi idealmente anche con l'idea che il nostro universo sia un sistema "cri­tico" in cui le strutture sono distribuite su diverse scale64. Tutto appare così inserito in un schema dentro altri schemi e poi altri schemi ancora che si assomigliano e si richiamano su scale diverse di grandezza. Da qui la geo­metria e la matematica hanno avuto un nuovo impulso. Ora, tali sistemi complessi sono, per lo più, caratterizzati dalla presenza di azione/causazio­ne, retroazione, auto-organizzazione e comportamento emergente65.

Ma il tema della "complessità" introdusse anche a un altro concetto più strutturato ancora e più capace di dire il modo in cui la natura si pre­senta ai nostri occhi oggi: è il concetto di organizzazione e di auto-orga­nizzazione. E qui tocchiamo i punti più rilevanti anche dal punto di vista ecologico ed eco-sistemico. Si tratta di una visione che sembra investire tutti i mondi possibili per cui tutto appare organizzato e interrelato.

63 Cfr. F. Capra, La rete della vita, cit., p. 158. Più direttamente vedi B. Mandelbrot, La bellez­za dei frattali, Bollati Boringhieri, Torino 1988. Il testo fornisce anche un compendio matematico del metodo di Newton.

64 Cfr. L. Smolin, La vita del cosmo, Einaudi, Torino 1998, p. 214; cfr. J. Barrow, Dall'io al cosmo. Arte, scienza, filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 60-61.

65 Cfr. J. Barrow, op. cit., p. 105.

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238 Parte terza - Capitolo secondo

A questo proposito e in anteprima mi piace ricordare una pagina molto bella dello scienziato americano Smolin che parla dell'organizzazione delle stesse galassie. Anche le galassie - secondo l'astrofisico - sarebbero organizzate tra di loro e le stelle non apparirebbero affatto realtà isolate, come ci appaiono a occhio nudo nelle notti d'estate: sono dipendenti e interdipendenti. Il tessuto connettivante tra le stelle sarebbe il "mezzo interstellare", che è come il suolo da cui germogliano le singole stelle e sarebbe costituito da nubi di gas e di polveri che permette il sorgere stes­so delle stelle66.

Ma, lasciando queste speculazioni astrofisiche, ci interessa guardare la nostra realtà vicina. Con il concetto di organizzazione tocchiamo forse uno dei momenti più alti e insuperabili del costituirsi della realtà all'inter­no del nostro pianeta, soprattutto per quanto riguarda la vita. Gli organi­smi, parti di organismi, o comunità intere di organismi viventi costituisco­no una rete d'informazione e comunicazione in cui la vita di una cellula dipende dalla vita di tutte le altre cellule, la vita di un organismo è con­nessa a quella di altri organismi e la vita di una comunità di organismi è a sua volta connessa con la vita di altre comunità di organismi67 e così via fino ad arrivare a quel grande organismo che può essere considerata la bio­sfera, il pianeta terra.

Se ora sostiamo per un momento a riflettere, ci accorgiamo della dif­ficoltà che incontriamo nel valutare pienamente il significato di tali affer­mazioni. Sono idee che appaiono in qualche modo scontate e invece crea­no orizzonti insuperabili, quando non vengono più considerate soltanto come simboli, metafore, quando non sono più viste come semplici distin­zioni legittime ma poco coinvolgenti, come riguardassero la mappa (un disegno teorico) ma non il territorio (una visione concreta del nostro esse­re al mondo). Se queste idee nella loro concretezza conturbante dilagano davvero in noi e dentro di noi, trasformano radicalmente il nostro modo di vedere. Noi, infatti, abbiamo uno scudo impenetrabile a protezione del nostro modo di vedere. Nella nostra visione del mondo, poniamo sempre un dualismo tra noi e il mondo, creiamo un'intercapedine tra noi e tutto il resto della natura difficile a colmarsi a causa di secoli di divisione e di pre­giudizi sedimentati e coltivati a lungo. Per centinaia di anni siamo stati abituati a pensare che, per quanto la realtà fuori di noi sia organizzata, in realtà "noi siamo noi", e "ciascuno di noi è soltanto se stesso". L' indi­vidualità sembra essere irresistibilmente il primum e l' ultimum della nostra presa di coscienza del mondo. Il rapporto dell'io con il mondo appare ine­sorabilmente malato.

66 Si veda L. Smolin, L'ecologia delle galassie, in Id., La vita del cosmo, cit., pp. 144 e ss. 67 Cfr. F. Capra, La rete della vita, cii., p. 97.

Interpretazione radicale: antropologia e teologia 239

Credo che in questa nuova percezione della complessità e dell'auto­organizzazione della realtà, in modo particolare ci abbia aiutato molto pro­prio lo studio delle macchine, la cibernetica e la ricerca della possibilità di costruire computer capaci di comportarsi in maniera analoga all'intelli­genza secondo il rapporto azione/risposta (input-output), con tutta la com­plessità simbolica a cui poi questo binomio si allarga. Fu attraverso la macchina di Turing che si incominciò a capire qualcosa circa i meccani­smi che presiedono alle diverse causazioni. Allora si è potuto constatare come la complessità nasceva fondamentalmente dall'ignoranza delle informazioni che la materia si scambia a nostra insaputa. Una prima chia­rificazione, dunque, è stata resa possibile quando si sviluppò il modello cibernetico intorno alla teoria dell'informazione68. Allora divenne chiaro il concetto di «anello retroattivo» - già accennato sopra - come «causalità circolare», messo a punto a livello matematico dall'iniziatore della ciber­netica N. Wiener69; si trattò di una scoperta che poteva sembrare una delle tante in campo sistemico, mentre in realtà si rivelò la vera forza nascosta che permetteva di capire il grande meccanismo dell'interazione. Wiener, per spiegare questo importante passo della scienza, portava l'esempio del timoniere che dirige la barca, da cui del resto prende nome la cibernetica stessa. Quando ad esempio la barca si sposta dalla rotta e si muove verso destra, il timoniere corregge la rotta muovendo il timone verso sinistra. Ci si affida in questo modo a una retroazione continua per tenere la barca nella giusta traiettoria. Si possono vedere meccanismi di retroazione, ad esempio, nell'andare in bicicletta e soprattutto nel mantenersi in equilibrio in una posizione di stallo della bicicletta, come amano fare i ragazzi per gioco70. Si tratta del meccanismo principale che regola ogni organismo e che sta all'origine stessa della vita.

Sulla scorta di questo principio, la macchina, legata fin dall'inizio al grande tema dell'intelligenza artificiale (IA) si è basata non più sulla linea­rità ma sulla risoluzione di equazioni non lineari e dovette impiegare il lin­guaggio della complessità, mentre la scienza si piegò in qualche modo su se stessa come si piega il pensiero. Oggi tale scienza ci fa capire come sia necessario comprendere la natura e come la proposta a livello circolare e autoimplicativo sia una conquista indispensabile alla macchina stessa all'interno dei suoi stessi automatismi71.

68 Emblematicamente si veda il bel saggio di H. von Foerster, Cibernetica ed epistemologia: sto­ria e prospettive, in G. Bocchi-M. Ceruti (edd.), cit., pp. 112-140; Id., Costruire una realtà, in P. Watzlawick, La realtà inventata, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 37-56.

69 Cfr. N. Wiener, Cybernetics, MIT Press, Cambridge, Mass. 1948 (tr.: La cibernetica, Bom­piani, Milano 1968).

70 Cfr. F. Capra, op. cit., p. 70. 71 Occorrerebbe accennare qui all'insistente attacco che Morin riserva al sapere cibernetico

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240 Parte terza - Capitolo secondo

II concetto di auto-organizzazione ha una lunga storia e sta a fonda­mento di tutto il modo attuale di comprendere i sistemi e in particolare gli organismi viventi. Non si parla più né di meccanicismo né di teleologia72,

ma si ammette un principio immanente alla materia che spinge verso forme organizzative e complesse. Atlan in un passo molto bello scrive: «I modelli di auto-organizzazione consentono di vedere negli organismi viventi non più una sorta di automi diretti da un programma determinista fornito dall'esterno ( ... ] bensì dei sistemi autorganizzatori i cui principi stanno iniziando a diffondersi nelle ricerche sull'intelligenza artificiale [ ... ] Ciò che caratterizza l'auto-organizzazione è uno stato ottimale che si situa tra i due estremi di un ordine rigido, inamovibile, [ ... ] com'è l'ordi­ne del cristallo, e di un rinnovamento incessante e senza alcuna stabilità che evoca il caos e gli anelli di fumo» 73 •

Ora, il concetto di retroazione e di auto-organizzazione si vede subito impiegato ad esempio in quella che viene chiamata !'"omeostasi" degli or­ganismi viventi. Ogni organismo vivente infatti è in uno stato di "non equi­librio" e deve creare una situazione di autobilanciamento per sopravvivere. Anche su grandi scale: ad esempio, un eco-sistema usa gli stessi controlli tramite anelli di retroazione e di iterazione; alcune specie animali, in parti­colare, avrebbero la tendenza a moltiplicarsi in modo esponenziale. Sono regolate però da varie azioni reciproche all'interno del sistema stesso.

Questo modo di comprendere la natura è esplosivo, fa scoppiare tutti gli altri principi di antropologia e realizza, superando nello stesso tempo ogni visione romantica della natura, l'idea più profonda di partecipazione dell'uomo alla vita del cosmo. Qui si capisce come l'ecologia diventi l'e­tica di una vera filosofia della natura. E si capisce allora - come scrive Jonas - che solo un'etica le cui radici affondino nella globalità dell'essere e non meramente nella singolarità o peculiarità dell'uomo, può avere importanza nell'ordine delle cose74•

come una nuova forma, anche se più sottile, di semplificazione, riduzione e manipolazione. Sembra che sia il rapporto tra comando e comunicazione a creare nuovi problemi. Morin si chiede: «Si può immaginare, concepire, auspicare un'organizzazione in cui la comunicazione comandi, una comunità della comunicazione?». Cfr. E. Morin, op. cit., pp. 288-295, qui p. 294.

72 Si veda in chiave storica la discussione che propone Capra tra meccanisimo e vitalismo in F. Capra, op. cit., pp. 34-37.

73 Cfr. H. Atlan, Complessità, disordine e autocreazione del significato, in G. Bocchi-M. Ceruti (edd.), op. cit., pp. 158-178, qui p. 166.

74 Cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna 1991, p. 35.

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3. Tre modelli di auto-organizzazione: il pianeta vivente, l'autopoiesi della conoscenza e il sistema sociale

Dopo questo breve sguardo all'intero mondo delle scienze a ~arti~e dalla visione eco-sistemica, che si fa latrice del vero senso ecologico m ordine a un 'interrogazione radicale di antropologia e teologia, e dopo aver raggiunto il grande tema dell'auto-organizzazione, occorre ora restringere brevemente la nostra analisi ad alcuni modelli di impiego del concetto stesso. Sceglierò quelli che appaiono più importanti per un dia­logo tra antropologia e teologia e mi limiter~_perta~to a tre fatt_ispec_ie. Anzitutto accennare al pianeta terra che con l idea d1 auto-orgamzzaz10-ne indica la coscienza ecologica più piena e matura che oggi possiamo esprimere sul mondo circostante; in secondo luogo mi sofferm~rò_ brev~­mente sull'auto-organizzazione della conoscenza come autopo1es1 e poi, per ultimo, per le conseguenze che essa assume anche nel conte_sto antro­pologico-sociale oltre che religioso, accennerò al sist~ma_ soc1?le. c~n:1~ modello di auto-organizzazione con la sua omeostasi e 1 suoi d1ff1c1h equilibri, ai quali - come vedremo - contribuisce in maniera del tutto significativa anche il fatto religioso.

3.1. Il pianeta vivente

Si può dire che la biosfera stessa sia un sistema ampio auto-organiz­zato? Ho accennato al fatto che vari scienziati ritengono che anche le galassie siano dei sistemi auto-organizzatisi. Appare proprio che questo sia il caso per il nostro pianeta. Si tratta dell'argomento più forte per una vera ecologia, sotto tutti i profili, compreso quello epistemologico. La nostra vita appare situata all'interno di una gerarchia di sistemi auto-orga­nizzati che si allargano a macchia d'olio fino a comprendere la terra e le galassie stesse. . . .

A questo punto dobbiamo accennare alla grande 1potes1 d1 J. Lovelock: la cosiddetta Ipotesi Gaia. La terra intera, chiamata Gaia, con­siderata come un essere vivente, sarebbe un intero sistema lontano dall'e­quilibrio, come tutti i sistemi viventi, e verrebbe rifornita in ~ontinuazio­ne dei suoi elementi indispensabili: ossigeno, azoto e carbomo attraverso i suoi grandi cicli terrestri. La terra intera costituirebbe, dunque, un unico grande organismo vivente. . . . . . .

Esaminando l'ipotesi di Lovelock, Smolm ntiene che c1 troviamo d1 fronte a una scoperta altrettanto profonda quanto quella della selezione naturale di Darwin. Infatti se la selezione naturale ci dice come la specie

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sia correlata nel tempo all'intero sistema, l'ecologia ci spiega come ogni specie sia connessa a tutte le altre nel momento presente75.

La tesi globale di Lovelock è che la vita e il suo ambiente evolvano insieme sulla terra come un unico sistema in cui si produrrebbero veri anelli di retroazione. Le perturbazioni di una delle componenti - scrive Lovelock - influenzeranno l'altra e questa a sua volta retroagirà sul cam­biamento originario. Ci sarà un circolo costante tra atmosfera composta di oceani, crosta terrestre e sedimenti in rapporto agli organismi viventi, che si modificheranno di conseguenza e, a loro volta, influenzeranno il clima e gli altri componenti la crosta terrestre76 • A questo proposito per avvalo­rare questa tesi il bio-chimico di Pasadena J. Lovelock ha costruito un suo piccolo pianeta al computer e ha organizzato simbolicamente le compo­nenti vitali del pianeta. Ora, il cosiddetto modello Daisyworld (il mondo delle margherite) che ne è risultato, può dimostrare questa auto-organizza­zione del pianeta terra contro tutte le critiche e in particolare contro le obiezioni "romantiche" che gli erano mosse dagli scienziati, i quali pensa­vano a una ricaduta nel teleologismo di vecchio stampo. Nel 1969 il bio­chimico volle difendersi in maniera argomentata presentando per la prima volta il suo modello della terra che «si autoregola». Il lavoro di Lovelock fu semplice: inserì tutte le equazioni matematiche corrispondenti alle varie condizioni climatiche nel suo piccolo pianeta costruito al computer in cui aveva posto soltanto come punto di riferimento e di controllo delle mar­gherite e fece partire il funzionamento complesso e la temperatura, in par­ticolare, cominciando da valori iniziali e minimi.

Come si sarebbe regolato il pianeta terra? Man mano che la terra si riscaldava come si comportavano le margherite? Osservò attentamente lo sviluppo. Spuntavano dapprima le margherite nere all'equatore, in quanto queste assorbivano meglio il calore ed erano quindi più adatte alla soprav­vivenza e alla riproduzione. Poi, via via che la temperatura aumentava le margherite nere lasciavano il posto a quelle bianche. Dapprima dunque comparve un anello di margherite nere intorno all'equatore. Quando la temperatura aumentava, le margherite nere emigravano verso le zone sub­tropicali e lasciavano al posto loro le margherite bianche che riflettevano il calore e si raffreddavano facilmente raffreddando così anche il pianeta. E così via via si sviluppava il sistema, facendo vedere come anelli di retroazione collegavano gli influssi ambientali alla crescita delle marghe­rite e la crescita delle margherite tendeva a sua volta a correggere il calo­re dell'ambiente.

75 Cfr. L. Smolin, op. cit., p. 164. 76 Cfr. J. Lovelock, Gaia: una proprietà coesiva della vita, in G. Bocchi-M. Cenlli (edd.), op.

cit., pp. 207-226, qui pp. 212-213.

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La terra presa come un tutto è un sistema complesso che funziona secondo i principi dell'auto-organizzazion_e. Perciò non è_ di_fferente da u~ organismo vivente e anch'essa si muove m uno ~tato chimic_o_e termodi­namico lontano dall'equilibrio. Il pericolo avvertito da una vis10ne ecolo­gica profonda è allora che si tolgano lentamente le ~ondizioni indispen~a­bili perché questo organismo globale possa sopravvivere._ S_e: ad ~sem~10, aumentasse a livello esponenziale la temperatura, la salmita dei man, o un'altra variabile importante, la biosfera potrebbe arrivare a un punto cri­tico in cui la vita potrebbe scomparire dalla faccia della terra77.

3.2. L'autopoiesi dei sistemi viventi come sistemi cognitivi

Sono già tornato altre volte a parlare dell'autopoiesi7~, ma_ sempre ~on una certa trepidazione in quanto non è un argomento facile ne a descnve­re, né a far accettare soprattutto per le sue conseguenze epistemologi~h_e che sono connesse e che portano irrimediabilmente verso un costruttivi­smo di fondo.

Qual è l'idea che sta alla base di una concezione della conoscenza a livello autopoietico? È quell'idea stessa che guida ogni altro sistema a organizzarsi. L'intuizione primaria sta nel riconoscere che anche la c_ono­scenza è un modo di auto-organizzarsi, attraverso azione e retroazione, attraverso un movimento a feed-back e che proprio questa è la modalità originaria di ogni tipo di auto-organizzazione. E dunque i sistemi cogniti­vi sono per eccellenza sistemi ecologico-adatta~ivi. Pot_re~mo dir~ _con l_e parole di Piaget, il primo grande maestro dell autopoies1, che «l mtelh-genza organizza il mondo organizzando se stessa»79. .

Se infatti la natura è l'insieme di tutti gli oggetti dell'esperienza, come già in Hume e in Kant, il riferimento v~ro non è l'ogg~ttività del~a natura, ma il vero oggetto della conoscenza e fenomenologicamente d mondo intero della nostra esperienza. Già ho messo in evidenza questo tratto ~on~ <lamentale del nostro rapporto al mondo attraverso alcune osservaz10m fenomenologiche coniugate poi con la visione di A. Naess e la psicologia della Gestalt; qui ci resta da compie~e un_ passag?io ulteri?re._ Si t~att~ ~ra dell'ultimo passaggio, quello che chmde d cerchio. Quest ultima mtmz10-ne è dovuta soprattutto al neurofisiologo H. Maturana. Egli pensò fonda­mentalmente che l'organizzazione circolare attraverso i processi di feed-

77 Cfr. anche F. Capra, La rete della vita, cit., pp. 124-128. 78 Cfr. A.N. Terrin, Poiesis e autopoiesis nella New Age, in Id., // sacro off limits, EDB, Bologna

1995, pp. 225-250. . . 79 Cfr. J. Piaget,La costruzione del mondo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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244 Parte terza - Capitolo secondo

back o retro~ttività fosse il sistema valido per tutti i sistemi viventi, com­preso anche Il sistema nervoso con le funzioni della mente. In questo modo e~li immaginò che anche la cognizione dovesse seguire questo processo circolare e che dunque fosse un sistema che si auto-organizza e che fa rife­rimento a se stesso cosicché la percezione entra in questo gioco di azio­ne/retroazione. Anche la mente in ultima istanza si doveva basare sul pro­cesso di organizzazione circolare del sistema nervoso. Biochimicamente si può dire, ad esempio, che gli esseri viventi dipendono in modo flessibile e attraverso anelli retroattivi dall'informazione e che questa informazione si configura come una serie di reazioni chimiche codificate nelle sequenze del loro DNA e delle loro proteine. La tesi che ne derivava era chiara: ogni cellula è un sistema cognitivo e adattativoso.

Maturana così assimilava definitivamente tutti i sistemi viventi a s~stemi ~~gnitivi e il vivere veniva pertanto omologato a un vero processo d1 cog?1z10?e. In tal modo la cognizione sarebbe una parte integrante del modo m cm un organismo interagisce con il suo ambiente. Potremmo par­lare a buon diritto di una "epistemologia biologica" che precede ogni altra epistemologia, come ci ricorda Edelmans1• Ma allora si può dire anche alla fme che mente e natura coincidono, come appare nelle osservazioni di G. Bateson82 o - come afferma F. Varela - si può dire che «la mente e il mondo sorgono insieme»BJ.

Du~que si arriva a una conclusione che per il pensiero classico appa­re tanto inaspettata quanto paradossale. Non si tratta più di parlare di natu­ra morta e di natura viva, di vedere soggetti da una parte e oggetti dall'al­t~a, co~e come pietre, da una parte, o organismi vegetali come fiori, albe­n, prati, e organismi animali, dall'altra; si tratta piuttosto di vedere siste­~i in rap~orto ad ambienti, sistemi, come menti che si auto-organizzano. S1 tr~tta d1 vedere «la mente e le menti»B4 di cui parla Dennett, si tratta di c~ns1derare l_'u_nive_rso come una mente, come un insieme che si auto-orga­nizza a molti hvelh e su molte scale di grandezza.

Di fronte a questa radicale svolta epistemologica proveniente dalle scienze fisiche, dalle neuroscienze e dalla teoria dei quanti, tutto diventa

8° Cfr. F. Capra, op. cit., p. 113; H. Maturana-F. Varela, Autopoiesis and Cognition, D. Reidel Dordrecht 1980 (tr.: Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985). '

81 Cfr. G.M. Edelman-G. Tononi, op. cit., pp. 259 e ss. .

82 A~pare del tutto evidente che Bateson estende il concetto di mente a tutti i livelli di organiz­z~z10?e dei fenomeni. Anche il linguaggio, l'apprendimento, l'evoluzione biologica e finalmente la v'.ta nentrano _nel_ numero dei fenomeni che Bateson comprende. Si veda per questo l'opera del suo b10grafo Y. Wmkm, La nouvelle communication, Seui!, Paris 1981.

83 Cfr. F. Varela-T.E. Thompson-E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1992, p. 210.

84 Si ved~ uno dei libri del famoso filosofo e studioso di intelligenze artificiali D. Dennett, La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, cit.

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nuovo e diverso: si tratta di uno sguardo particolare sul mondo che non lascia più spazio alle teorie cosiddette "moderne", che non lascia sussistere teorie connesse a un principio astratto di razionalità a forma sillogistica, né teorie legate soltanto alle trasformazioni lente e alle varie forme di antropo­centrismo, dove si cerca una qualche generica riconciliazione con la natura, ma si tratta di una coralità di forme di vita, ciascuna capace di integrarsi e di prendere vita da un rapporto a feed-back con tutte le altre forme viventi.

Ma all'interno di questo nuovo contesto epistemologico-conoscitivo si creano le premesse anche per la seconda vera svolta nell'approfondi­mento della conoscenza, che consiste nella chiusura organizzazionale di ogni sistema in quanto sistema cognitivo. L'interesse per i sistemi autono­mi determinati dall'interno con la loro particolare proprietà di chiusura era già stato intravisto da N. Wiener nello studio delle macchine; F. Varela l'ha introdotta e applicata per il sistema nervoso e nel mondo delle neuro­scienze. Altri studiosi di grande calibro, come H. von Foerster, hanno guardato alla dinamica interna di tali sistemi cognitivi comprendendo a livello epistemologico la dinamica e il funzionamento che presiede al rap­porto tra chiusura e apertura organizzazionale.

L'idea principale sta in questo: la conoscenza è un'"autoconoscenza" e ogni tipo di autoconoscenza come autopoiesi comporta una chiusura organizzativa del sapere, necessaria al sapere stesso.

Tale approccio alla conoscenza appare ancora una volta assai diffici­le a comprendersi in campo pratico, in quanto ci sentiamo per lo più atto­ri senza suggeritori, ci sentiamo tutti "registi" senza sentirci parte in causa del cinema che produciamo. Ma per evidenziare questa situazione sarebbe sufficiente portare, ad esempio, il modo con cui noi parliamo del "lin­guaggio". Noi ci domandiamo - dice von Foerster- che cosa è il linguag­gio. Ma anche per farci questa domanda abbiamo bisogno del linguaggio stesso. Come abbiamo potuto porci la domanda se non sapevamo la rispo­sta? C'è infatti un vincolo logico imposto a ogni definizione del linguag­gio85. Si tratterebbe in definitiva della natura «autologica» di ogni nostra conoscenza. Ci accorgiamo sempre più che il nostro mondo delle cono­scenze e del nostro agire si configura a circolo. Tutto si configura come un sistema che si muove secondo una preciso movimento verso l'ambiente con ritorno e chiusura, dove il tutto è più delle singole parti e dove la nostra voce fa parte del coro e non è separabile dall'insieme a cui appar­teniamo. Siamo "coimplicati": siamo osservatori e osservati. Abbiamo cre­duto per secoli che fare scienza e conoscere significasse semplicemente metterci al di sopra del mondo in cui viviamo, porci "epistemicamente"

85 Cfr. H. von Foerster, Cibernetica ed epistemologia: storia e prospettive, in G. Bocchi-M. Ceruti (edd.), op. cit., pp. 112 e ss. qui p. 117.

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246 Parte terza - Capitolo secondo

(epi- è un prefisso per indicare il "porsi sopra") su un piedistallo, più alto e intoccabile. Ora ci troviamo dislocati, portati controvoglia allo stesso livello di ciò che conosciamo, scopriamo di essere parte interattiva di ciò che conosciamo e che il nostro conoscere non è altro che questa interazio­ne che ci fa partecipi del mondo. Credevamo illusoriamente di controllare dalla nostra torre d'avorio l'esterno, ciò che stava là fuori, quella realtà che eravamo quasi portati a disprezzare. La nostra torre d'avorio d'improvvi­so si è dimostrata essere soltanto un giocattolo di cartapesta: noi siamo il mondo attraverso processi autopoieticiB6,

Il paradosso che mette in evidenza l'autoreferenzialità è presente soprattutto nel famoso teorema di Godel, che costituisce in qualche modo la controprova più immediata di questa circolarità del nostro conoscereB7. Ma la stessa epistemologia sorta, se pur problematicamente, dalla teoria dei quanti stava a dimostrare come si esercita questa nostra "conoscenza della conoscenza". La nostra conoscenza - ci dice la teoria dei quanti - è per natura "autoimplicativa" al punto che possiamo dividere il mondo in due parti, come ci fa osservare la fisica atomica, e poi scegliamo il mondo secondo le decisioni che prendiamo e secondo il nostro modo di guardare alle teorie che vogliamo impiegare. Tocca a noi far collassare la funzione d'onda che determina una parte del mondoBB.

Si può sostenere addirittura che la nostra costruzione di senso è un fatto ecologico, e che ogni nostro pensiero è un micro processo a circuito chiuso: la cibernetica, la fisica quantistica, e se vogliamo anche la teoria della relatività, stanno alla base di questo sconvolgimento radicale e di questa nuova "trasformata" à la Fourier del nostro cervello nella nostra nuova visione del mondo.

La circolarità è basata sul rapporto tra sistema e ambiente, su una dia­lettica sottile per cui il sistema cerca di mantenere la sua autoreferenziali­tà, ma per altro verso ha un'apertura necessaria sull'ambiente che stimola verso aperture, verso "irritazioni" del sistema stesso. In questa dialettica si

86 Su questi problemi si veda anche la molto importante miscellanea belga: B. Feltz-M. Crommelinck-Ph. Goujon (edd.), Auto-organisation et émergence dans /es sciences de la vie, Ousia, Bruxelles 1999, dove vi è anche un saggio di valore di M. Maesschalck-V. Kokoszka dal titolo: Phénoménologie et auto-organisation, ivi, pp. 405-420.

87 Si veda per questo il bel saggio di F. Varela, Il circolo creativo: abbozzo di una storia natu­rale della circolarità, in P. Watzlawick (ed.), La realtà inventata, cit., pp. 259-272. Il teorema di Godei in maniera semplice si può definire come quello stato di cose per il quale in tutti i sistemi formali vi sono cose perfettamente sensate e ben definite delle quali non si può decidere se sono giuste o sba­gliate. lvi, p. 264.

88 Il paradosso degli esiti della misurazione quantistica ci dice come noi viviamo in molti mondi possibili a partire dal famoso «gatto di Schrodinger» e poi soprattutto dalle tesi sviluppate H. Everett. Cfr. H. Everett, Relative State. Formulation ofQuantum Mechanics, in «Reviews of Modem Physics» 29(1957), pp. 454-462, ristampato in B.S. DeWitt-N. Graham (edd.), The Many-Wor/ds Jnterpretation ofQualllum Mechanics, Princeton University Press, Princeton 1973, pp. 141-149.

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gioca il mantenimento della vita del sistema con la sua necessaria adatta­bilità, dove l'apertura limitata e la chiusura organizzazionale sono pro­prietà necessarie al sistema stesso per mantenere, da una parte, la sua pro­pria identità e, dall'altra, per "adattarsi" all'ambiente e alle mutazioni.

3.3. La società come sistema cognitivo

Intanto occorre prendere nota di alcune considerazioni a cui siamo giunti. Dalle varie osservazioni che siamo andati elaborando via via ci siamo spostati: dall'oggetto alla relazione percettiva, dalla relazione per­cettiva all'organizzazione, dall'organizzazione all'auto-organizzazione, dall'auto-organizzazione alla visione sistemica, dalla visione sistemica a quella autopoietica e autoreferenziale. È stato un crescendo epistemolo­gico fatto a onde concentriche che è ritornato a considerare il tutto indi­visibile e l'unità di questo sguardo sul mondo. Ora, pare proprio che l'e­cologia abbia bisogno di recuperare questa visione epistemologica per realizzarsi e per comprendersi adeguatamente come un insieme di sistemi all'interno di sistemi più ampi e per avere ancora un compito direttivo ed etico-pratico.

Non è mio compito analizzare qui tutti i sistemi cognitivi per una visio­ne ecologica adeguata, ma mi è indispensabile ripercorrere, anche se molto brevemente, la visione sistemica della società come è prospettata in parti­colare da Luhmann per arrivare alla fine a vedere l'incontro di antropolo­gia e teologia nello sfondo «adattativo-ecologico» di cui parla Rappaport in relazione anche alla religione/liturgia. Lo farò in maniera sintetica.

Se Quine e Davidson hanno interpretato il linguaggio come un siste­ma cognitivo globale, se D. Bohm e G. Bateson interpretano la realtà inte­ra come visione olistica basata sulla cognizione e sull'adattamento, occor­re osservare che è stato soprattutto il sociologo N. Luhmann che si appli­cò allo studio della teoria sistemica sociale, facendo vedere l'autoreferen­zialità del sociale stesso. Per questo si può dire che il sociologo, teorico di Bielefeld, ha portato l'autopoiesi organizzativa a livello del sociale intero per cui egli può essere considerato anche l'immediato predecessore della teoria ecologico-adattativa di Rappaport. Quest'ultimo autore infatti sfrut­ta la teoria eco-sistemica a sfondo sociale per il valore della religione e della liturgia nel suo insieme.

Il sistema sociale non è differente dagli altri sistemi, anche se appare più organizzato, per un verso, mentre, per altro verso appaiono più indefi­niti i suoi contorni. Importante è osservare come la conoscenza all'interno di tale sistema si realizzi attraverso modalità del tutto analoghe agli altri

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sistemi autopoietici. Gli organismi viventi non sono isolati dal loro ambiente esterno, ma interagiscono continuamente con esso, benché l'am­biente esterno non determini la loro organizzazione. Il rapporto tra siste­ma e ambiente a livello umano si pone intorno al concetto di significato e di libertà, mantenendo tuttavia una chiusura organizzazionale che agisce ed è fondamentale anche all'interno del sistema sociale89. I testi e le norme - impiegando qui la definizione semiologica che dà Lotman di cultura -servono a mantenere questa chiusura organizzazionale del sociale oltre all'autorità e ai sistemi legislativi. E al di sopra di tutto vi è la chiusura organizzazionale data dal concetto di "senso"90•

Quando parliamo di "organizzazione", rimanendo su uno sfondo dove possono restare le polarità, pensiamo infatti a un mondo in cui l 'organiz­zatore e la realtà organizzata sono essenzialmente separati; ma se ora con­sideriamo l'organizzazione di un'organizzazione allora siamo costretti a parlare di "auto-organizzazione" e postuliamo che l'agente agisca in fondo su se stesso. Un sistema si forma compiutamente quando si realizza un tipo di conoscenza come "auto-organizzazione" dove si sa di far parte di una conoscenza di secondo ordine, cioè quando il sistema è consapevole della sua autorefenzialità. Colui che sa semplicemente - osserva Luhmann -può sapere senza sapere che egli sa. Come osservatore di primo ordine, egli interagisce immediatamente con il suo ambiente e basta91 . Appena egli si pone a livello di secondo ordine deve tener presente un momento di autoreferenza di cui è necessaria la consapevolezza nei modi operativi. A questo punto non possiamo più fare un discorso generico, ma il riferimen­to al proprio sistema è inevitabile. Ed è inevitabile che si formi un sistema conoscitivo, una particolare scienza secondo un procedimento che include della realtà conoscitiva per il fatto stesso che esclude altra realtà, esclude qualcosa d'altro. Ed è altrettanto importante riconoscere allora che ci si trova sempre all'interno di sistemi che si osservano. Si vive a questo punto all'interno di un sistema che mette in atto la sua particolare chiusura ope­razionale nei confronti di altri sistemi. A livello epistemologico si deve osservare qui che si compie un'operazione copernicana.

A questo punto Luhmann fa notare che, in questo contesto di sistemi che si osservano, se qualcuno osserva colui che osserva (cibernetica di

89 Si veda il recente volume di F. Capra che ha ritenuto approfondire ulteriormente le sue pre­cedenti ricerche soprattutto in ordine al sociale e al significato, come forza sociale. Cfr. F. Capra, The Hidden Connections. Integrating the Biologica!, Cognitive, and Socia/ Dimensions of Life into a Science of Sustainability, Doubleday, New York 2002, in particolare pp. 70 e ss.

90 Più sociologica e più profonda rispetto a Capra è l'analisi dettagliata del concetto di "senso" in N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 20012, cap. II:

pp. 147-204. 9! Cfr. N. Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, cit., p. 170.

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secondo ordine) dovrà tenere conto di come l'osservatore osserva la real­tà osservata92 • Ma allora tutto si sposterà sul "come" della ricerca e non più sul "che cosa". Ora, questa mossa è tanto importante nel fatto conoscitivo quanto tende a escludere rappresentazioni definitive, lasciando spazio sol­tanto alla possibilità che nel processo ricorsivo di "osservazione su osser­vazioni" risultino di volta in volta formule linguistiche appropriate a cui si può sempre fare ricorso. Ma tutto ciò mette in atto un modo conoscitivo totalmente diverso da quello classico dallo schema semplice: .~og­getto/oggetto, conoscenza/oggetto conosciuto, osservante/realtà osservata.

Tale sistema non trasporta il mondo esterno in quanto "mondo" nel sistema. Non permette pertanto alcuna conoscenza universale. Si tratta sol­tanto di scomporre secondo Luhmann - che in questo ripete Spencer Brown - l'unmarked piace del mondo in un "dentro" e in un "fuori". È la differenza tra il dentro e il fuori che produce anzitutto conoscibilità; dove il dentro è la chiusura organizzazionale basata sul senso e il fuori è dato dagli stimoli e dall'ambiente. Ma avviene che precisamente questo pro­cesso di spostamento della conoscenza sta fuori da ciò che si sa e dunque occorre costantemente l'uscita e il rientro93 • ·

L'unità autopoietica di un sistema si costruisce, pertanto, intorno alla rete dei rimandi dove l'unità della costituzione del mondo all'insegna del senso è articolata fenomenologicamente come differenza e sta in un sem­pre possibile scarto tra il senso e il mondo.

Il concetto di Lebenswelt di Husserl era quello che forse meglio indi­cava il punto di partenza del senso e anche il limite della conoscenza stes­sa. Esso presupponeva un mondo non ancora o non del tutto tematizzato. Si poteva dire che ogni tematizzazione conoscitiva si compiva sempre nel-1 'orizzonte vitale di limiti non tematizzati che in Husserl venivano consi­derati sotto l'enigmatico paragrafo della cosiddetta «sintesi passiva»94. La teoria dei sistemi di Luhmann afferma fondamentalmente la stessa cosa, in maniera più stringente, sfruttando la cibernetica e osservando più da vici­no il circolo e la chiusura organizzazionale della conoscenza stessa.

92 !vi, p. 95. 93 Jvi, p. 163. 94 Sulla sintesi passiva in Husserl si veda il bel libro di A. Montavont, De la passivité dans la

phénoménologie de Husserl, Presses University de France, Paris 1999.

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4. La liturgia/teologia come sistema autopoietico

Vista all'inizio la vicinanza della teologia/liturgia con il sapere ecolo­gico, si può ora applicare questo modello conoscitivo anche alla teolo­gia/liturgia? Devo riproporre la domanda posta nelle premesse di questo saggio. La teologia/liturgia, nel contesto di questa nuova antropologia epi­stemologica, sa riconsiderare la sua stessa prospettiva in ordine a questa sintesi ecologica che oggi appare indispensabile e si riconosce in questo intero "eco-sistemico"?

In base alle riflessioni fatte fin qui, anche la teologia/liturgia, in quan­to sottomessa come ogni altra conoscenza a principi epistemologici siste­mici, dovrebbe riconoscere valido questo cambiamento radicale di pro­spettiva anche per la sua propria riflessione. Infatti la nuova epistemolo­gia, che si percepisce come un rovesciamento di tutte le conoscenze clas­siche sul tipo bottom up (dal basso all'alto) rispetto al tipo top down (dal-1' alto in basso), non può non riguardare anche il sapere e il fare teologi­co/liturgico. Ora, da questa situazione parte sia l'importanza radicale e sia la difficoltà quasi insormontabile della teologia/liturgia di ripensare i suoi presupposti epistemologici95 .

Purtroppo, anche se la visione teologica cristiana in quest'ultimo decennio ha dedicato al grande problema ecologico un qualche sguardo più lungimirante rispetto al passato96 - arrivando al punto di parlare in manie­ra significativa della creazione come sacramento97 - sembra a chi scrive che tale riflessione resti tuttavia ancora limitata entro un contesto ristretto, fatto per lo più di buon senso e di una rilettura più attenta della Genesi, ma non pare che in ambito cristiano si sia giunti a dare il giusto valore alla por-

95 La difficoltà maggiore sta in un'immanenza epistemologica che poi si trasforma anche in una immanenza di tutto il reale. Qual è il posto di Dio in questo contesto? È sufficiente parlare di «panen­teismo» come appare in alcuni teologi ortodossi e celebrare «il divino in, con e sotto l'intera natura»? Cfr. L. Rasmussen, Theology o/ Li/e and Ecumenica! Ethics, in AA. VV., Working on theology o/ Li/e. A Dossier, Ginevra 1998, p. 11.

96 Credo che tra gli studi teologici pionieristici si debba attribuire un significato particolare a J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina della creazione in prospettiva ecologica, Queriniana, Brescia 1985; Id., La fonte della vita, Queriniana, Brescia 1997 e allo studio storico riguardante la tradizione cristiana sul tema della natura e l'ambiguità circa dell'atteggiamento dei cristiani di P.H. Santmire, The Travail of Nature. The Ambiguos Ecologica/ Promise o/ the Christian Theology, Fortress Press, Minneapolis 1985.

97 Qui si può citare sinteticamente G. Greshake, La creazione come autorivelazione e dono di sé da parte di Dio, in A. Caprioli-L. Vaccaro (edd.), Questione ecologica e coscienza cristiana, Morcel­liana, Brescia 1988, pp. 127-133; D. Edwards, Jesus, the Wisdom o/ God. An Ecologica/ Theology, Orbis Book, Maryknoll 1995 dove egli afferma che «ogni creatura è la divina autoespressione, un sim­bolo e un sacramento della presenza trinitaria di Dio», ivi, pp. 116; e soprattutto il teologo ortodosso I. Zizioulas, Il creato come eucaristia, Qiqajon, Magnano 1994, il quale parla dell'uomo sacerdote del creato. Per una rassegna importante e abbastanza esauriente cfr. S. Morandini, Un approccio sacra­mentale. Per una teologia della creazione, in «Studia Patavina» 47(2000), pp. 707-744.

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tata epistemologica universale e inalienabile del problema ecologico98. A una realtà senza Dio, sembra che la teologia non possa procurare altro che un Dio che consegue alla perdita di contatto con la realtà. Per dirla con l'e­spressione stessa di Moltmann: la teologia oggi rischia di comportarsi in questo modo: «offre a una realtà senza Dio un Dio senza realtà»99•

Forse tutto questo è dovuto anche alla reale difficoltà di conciliare alcune verità teologiche con alcune considerazioni epistemologiche. Ma questo non avrebbe dovuto portare - a mio avviso - a una limitazione e a una mortificazione della teologia cristiana. Purtroppo c'è ancora un'alter­nativa radicale tra scienze ed esperienza religiosa e teologia, dovuta alle presunte oggettività "monocausali" del modo di pensare classico. La visio­ne classico-aristotelica, infatti, basata su essenze e su problemi a se stanti, costituendo ancor oggi l'arco portante della teologia, intende far valere il principio di causalità in maniera univoca e monologica. Ma purtroppo oggi i teologi, in nome di questo attaccamento incondizionato a una grande tra­dizione, rischiano di incappare in una contraddizione sistemico-epistemo­logica nell'esposizione delle dottrine cristiane o per lo meno di collocarsi in forme tanto ingenue, quanto la «Farfalla-Pane-e-Burro» del racconto di Alice100• Questa posizione infatti non consente all'esperienza religiosa cri­stiana di ritrovarsi in un vero contesto interdisciplinare e tanto meno in una visione eco-sistemica che, per altro, appare necessaria. E non si può porta­re a giustificazione l'estraneazione della teologia dagli altri saperi e dalle

98 La maggior parte degli studi però non si pone ancora da un punto di vista eco-sistemico. Si veda anche lo studio dell'astrofisico di Zurigo A. Benz che sembra fare più teologia che astrofisica in senso appropriato (cfr. A. Benz, I/futuro dell'universo. Caso, caos, Dio?, Queriniana, Brescia 1999). Si vedano ancora le difficoltà in cui si muovono ad esempio: F. Schaeffer, Inquinamento e morte del­l'uomo. Ecologia e visione cristiana, Uomini Nuovi, Marchirolo (VA) 1997; K. Golser (ed.), La responsabilità verso il creato nelle religioni, EDB, Bologna 1995; R. Panikkar-C. Von Weizsiicker, Il tempo stringe, Queriniana, Brescia 1989. L'autrice capace di squarciare il velo dell'epistemologia clas­sica in rapporto alla visione ecologica ed eco-sistemica mi sembra essere la R. Radford-Reuther, Gaia e Dio. Una teologia eco-femminista, Queriniana, Brescia 1995, la quale si pone in un contesto vicino àfteologo New Age M. Fox (cfr. ad esempio il primo libro M. Fox, Originai Blessing. A Primer in Creation Spirituality, Bear and Company, Santa Fe 1983) parlando dello stretto rapporto esistente tra Dio e Gaia, unica matrice di energia che pone tutte le realtà in stretta relazione tra loro. Anche i teo­logi di lingua inglese come Peacoke, Polkinghome, McMullin, Barbour, McFague, Peters e altri si pongono fuori da una prospettiva epistemologica di fondo e perciò stesso appaiono incapaci di ripen­sare l'intero ecologico in chiave epistemologico-religiosa. Cfr. la bella rassegna di W.B. Drees, Religion, Science and Naturalism, Cambridge University Press, Cambrige 1996.

99 Si veda il recente libro di J. MoJtmann, Scienza e sapienza, Queriniana, Brescia 2003, p. 11. 100 «Eccola lì, che sta zampettando vicino ai tuoi piedi» disse la Zanzara: «la Farfalla-Pane-e­

Burro. Le sue ali sono fettine sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è una zolletta di zucchero»/ E di che cosa si nutre? «Di thè leggero con panna»./ Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista./ «E se non lo trova?» chiese/ «allora muore naturalmente»/ «Ma è una cosa che le deve capitare spesso» osservò Alice, pensierosa/ «le capita sempre» rispose la Zanzara/ «Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti soprappensiero. .. »; cfr. G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1979.

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altre epistemologie. Non sembra corretto affermare qualcosa di questo tipo: "le altre scienze si basano su presupposti umani e sul ragionamento, la teo­logia si basa sulla rivelazione e sulla parola di Dio". In una visione episte­mologica che abbraccia ogni realtà, tale ricorso appare un sotterfugio che tende a proteggere il sistema e alla fine si dimostra un escamotage che espone ancor di più la teologia a delle debolezze imperdonabili.

Il problema ultimo che crea una barriera insormontabile sta in questo: l'epistemologia classica - fatta propria anche e in particolare modo dalla teologia/liturgia - si istituiva su un presupposto che sembra non si possa più accettare: considerava semplicemente un individuo il correlato ogget­tivo della conoscenza; ora, in una visione eco-sistemica radicale, in cui tutto è correlato a tutto, si capisce che l'oggetto più appropriato della cono­scenza non è un singolo individuo ma è invece un processo autopoietico tra il dentro e il fuori del proprio sistema di pensiero in rapporto ad altri sistemi di pensiero. In questo senso anche la teologia/liturgia dovrebbe essere compresa come un insieme conoscitivo a chiusura organizzaziona­le fatto di sguardi, di prospettive, di specchi, e di rientri, insomma, an­ch'essa dovrebbe muoversi a feed-back come ogni altra conoscenza. Tale processo conoscitivo si configura oggi - come nella visione di von Foer­ster e di Luhmann in rapporto ai sistemi sociali - secondo un insieme di «sistemi che si osservano», in cui si capisce, allora, che questo modo auto­poietico di conoscere fa parte del nostro stesso corpo, anzi è prolunga­mento di esso. Si comprende anche in maniera esemplare come ogni scien­za sia un sistema a chiusura organizzazionale nella distinzione fondamen­tale tra sistema conoscitivo autopoietico e mondo-ambiente. L'emergenza di senso, che è l'uomo e la sua realtà, sembra non permettere un distacco dalla natura, ma soltanto una comprensione entro il mondo naturale: una "conoscenza della conoscenza" che però nel suo ultimo fondamento fac­cia riferimento ancora a un'epistemologia a sfondo biologico.

L'epistemologia classica non era in grado di porsi da quest'ottica e non era in grado di descrivere fenomeni di osservazione di secondo ordi­ne. Restò un'epistemologia uni-dimensionale e monocasuale orientata all'oggetto e perciò la dimensione sociale della conoscenza le sfuggiva totalmente. La scoperta della "latenza" fu fondamentale e la visione di Luhmann, ché ne approfondisce aspetti nascosti, appare oggi illuminan­te101. Il concetto indica la possibilità di osservare e di descrivere ciò che altri non possono osservare. Si può certo dire che da più di due secoli il concetto di latenza aveva trovato spazio nelle scienze e anche in filosofia e teologia con tutte le "filosofie del sospetto", ad esempio, ma tale con-

IO! Cfr. in particolare N. Luhmann, Wissenschaft der Gesellschaft, cit., pp. 89 e ss.

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cetto rimaneva ancora il figlio illegittimo della conoscenza e non gli era concesso di entrare a pieno titolo nella famiglia. Soltanto la teoria dei sistemi che si osservano diede la possibilità di accogliere a pieno titolo il problema della latenza.

Ma qui allora si può osservare come cambia immediatamente in rap­porto alla tradizione. Non si tratta più di conoscere soltanto la conoscenza di ciò che non si conosce e non si tratta più di impiegare soltanto il con­cetto etico di modestas, o in termini teologici di mantenere la distinzione tra conoscenza e fede, ma il concetto di latenza ( come si conosce ciò che si conosce) si pone al centro della produzione sociale di conoscenza. Il sapere ecologico si pone a fondamento di una nuova epistemologia a carat­tere "autopoietico" che si radica fino a livello biologico.

Qui sembra che vengano cancellati con un colpo di spugna tutti i modelli conoscitivi classici. Ma si tratta solo di sostituire il nuovo con il vecchio? In realtà si tratta di qualcosa di più. È in gioco la comprensione della pluralità delle voci e dell'atomizzazione del concetto classico di veri­tà. Perché la teologia/liturgia fa così fatica ad accettare i cambiamenti di prospettiva, le direzioni multiple in cui si muove il mondo contemporane~, le stratificazioni diverse di significato, lo stesso incontro con le altre reli­gioni? Perché da una parte ha una visione classica per cui non si pone il problema di dover ricorrere a una epistemologia autoriflessa a livello siste­mico, e per altro verso la teologia appare un sistema autopoietico forte, su cui è difficile discutere proprio per la sua chiusura organizzazionale. La sua chiusura arriva al punto tale che a volte sembra non permettere nep­pure una semantica che possa rappresentare il suo rapporto tra sistema e ambiente entro il sistema102. D'altra parte, la teologia è un sistema che intende abbracciare il tutto attraverso la comprensione dell'agire di Dio. Dio è il principio supremo che spiega tutta la realtà e chi - come la teolo­gia - si pone al suo interno ha già l'esperienza di senso totale che l'esone­ra da ricerche multiple, estenuanti e spesso contraddittorie. La religione riduce la complessità in maniera esemplare, consapevole, per altro, che fuori dalla sua particolare chiusura organizzazionale domina l'insicurezza, che in realtà è un esito sempre minaccioso e da esorcizzare. L'osservatore vero, invece, è poco portato alla religione, in quanto - secondo l'espres­sione stessa di Luhmann - è costitutivamente "insicuro" oppure non è affatto un osservatore e un ricercatore. La scienza ha a che fare prima di tutto con l'insicurezza prodotta al suo stesso interno103•

102 Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990, p. 686.

103 Cfr. Id., Wissenschaft der Gesellschaft, cit., p. 103.

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Ma la scepsi di Platone e di Agostino ?
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Come applicare queste riflessioni epistemologico-ecologiche alla teologia?

Anche la conoscenza specificatamente teologica compie una sintesi almeno approssimativa tra sapere e non sapere e si presenta come "scien­za sacra", anche se poi comprime tutto il non sapere entro il sapere di Dio, mantenendo il sistema quasi del tutto chiuso. L'operazione che si compie nel pensiero religioso a che cosa porta? Nella religione si arriva alla spie­gazione di ogni realtà attraverso l'accettazione della rivelazione e un pro­cesso di concentrazione semantica su Dio e sul monoteismo, ciò che rende possibile riportare tutto indistintamente nel mistero di Dio stesso. Anche la teologia, però, - come vedremo - mantiene un qualche spiraglio sul-1 "'altro" dalla conoscenza religiosa.

Il primo aspetto della teologia/liturgia in una considerazione di secon­do ordine, cioè vista come un sistema "osservato", appare un sistema che nella storia ha saputo compiere la prima grande sintesi, anche se si tratta­va di una "sintesi poco selettiva". In questa sintesi operativa pratica, la religione ha mantenuto alto il valore delle scienze dello spirito in rappor­to alle scienze della natura, rivelandosi come la vera sophrosyne che cer­cava di mettere in circolo il sapere e contribuiva a togliere o a modificare la dicotomia di cui parlava Snow ancora negli anni Cinquanta. Si è posta come un sistema sopra i sistemi e in questo modo ha contribuito a un certo equilibrio ecologico-adattativo tra i sistemi stessi. Dio è il senso totale oltre il senso percepito; è la connessione finalmente non più arbitraria e non più capace di irritare il sistema nel rapporto tra sistema e ambiente. A partire da questa congiunzione totalizzante non si può mettere in crisi il sistema. La religione limita la complessità e corrisponde a esigenze urgen­ti di senso riassumendo il non tematico nel tematico104• La religione e la riflessione teologica sono dunque una forma di adeguamento autoreferen­ziale alla complessità non caratterizzabile attraverso contenuti specifici, ma in grado di escludere tutti i contenuti opposti alle proprie premesse105 .

Ora, però - guardando tramite i sistemi che si osservano - anche all'interno della teologia/liturgia nel suo chiaro statuto conoscitivo appare una crepa, un punto debole: non si può impedire che quando si vuole osservare l'unità del tutto, appaia la differenza e si complichi il gioco dei rimandi. La teologia scopre sempre più che questa è la realtà in cui vivia­mo. Pertanto, sulla base di queste premesse, la teologia è in grado di esse­re ancora se stessa e quale compito le può essere riservato?

Ci troviamo in una realtà in cui "osserviamo" e "siamo osservati", siamo attori e spettatori. Non si può restare fuori dal gioco o guardare la

104 Cfr. Id., op. cit., p. 161 e ss. J05 Cfr. Id., Sistemi sociali, cap. n: Senso, in particolare, pp. 160 e ss.

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realtà da lontano. La filosofia classica e la teologia a sua volta hanno sem­pre posto l'uomo al di sopra, su un piedistallo, come fosse un osservatore neutro, un arbitro tra le parti: oggi si scopre che tutto è parte in causa, tutto è coinvolto e coinvolgente, tutto è nel girotondo di tutta la realtà e nessu­no ha privilegi.

Riprendo l'inizio: la prima grande unità del sapere è nata con la teo­logia. Proprio per questa unità infrangibile si doveva spostare su Dio ogni apparizione dell'osservatore che osserva il sistema come un intero. Il gran­de stratagemma teologico aveva già una sua prima configurazione ciber­netica. L'uomo fa parte del sistema in cui è Dio stesso a esserne il garan­te. Dio è onnisciente e onnipotente ed è l'unica realtà ad essere dentro e fuori dal sistema. Il sistema trovava una chiusura perfetta in grado di garantirsi all'interno l'unità della fede come l'unità stessa del proprio sistema di credenze e di garantirsi anche l'esterno, progettando l'unità del tutto a cui mancava soltanto, eventualmente, il riconoscimento da parte del non credente. Nel contesto monoteistico tutto viene ridotto all 'osservazio­ne da parte di Dio che tutto include. Il monoteismo congiunto alla visione rivelata diventava la chiusura perfetta del sistema. In questo senso disco­noscere la volontà di Dio significava allora disconoscere che Dio è l'uni­co che osserva e non vuole essere osservato.

Ma il problema oggi appare più sottile: non è il non credente che manda in frantumi l'unità del mondo, ma è il riconoscimento dell'autore­ferenza dell'osservatore "che osserva" all'interno e per questa osservazio­ne non può non fare riferimento a una qualche "eteroreferenza" nel rap­porto ineludibile tra sistema/ambiente. Succede qualcosa di inaudito: l'os­servatore proprio per osservare l'unità, infrange l'unità stessa del reale, infatti distingue e sottodistingue. Ora, l' eteroreferenza, che permette l 'os­servazione della totalità dall'esterno, crea la prima rottura dell'unità. Però, questa effrazione dell'unità per il credente non era pensabile come un fatto compiuto in nome proprio, in quanto non era pensabile nel sistema teolo­gico stesso. Non poteva venire perciò che dalla "casa del diavolo". Il pro­cedimento di cui si serve il diavolo viene dal suo stesso nome (dia-bolo), anche se porta poi nella storia altri nomi come Lucifero, Satana, Iblis. Il mito di Iblis, di cui si parla nel Corano, ripensato dal mistico islamico Rumi, sembra essere l'esempio più perfetto di ciò che avviene nella cono­scenza. Dio avrebbe dato a Iblis la sapienza di venerare Adamo, 1 'uomo. Iblis però si rifiuta di fare ciò, in quanto sa che soltanto Dio è degno di venerazione. Dunque non sa come mettere d'accordo il venerare Dio e il venerare l'uomo, seguendo l'invito a seguire la sapienza di Dio. Iblis deve alla fine o tradire Dio o disconoscere la sua sapienza di Dio stesso. Si deci­de per Dio contro Dio. Si trova nella situazione di un "osservatore" di una sapienza che per lui appare soltanto dall'esterno. Era inevitabile: quando

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256 Parte terza - Capitolo secondo

il senso dell'unità si confonde con la visione stessa del monoteismo, del­l'unico Dio che è onnisciente e onnipotente, come poter salvare anche dal­l'esterno questa compattezza? Quando si osserva questa unità dall'esterno non si può fare altro che introdurre sulla scena il diavolo106.

Il diavolo, in tal senso, rappresenta il primo tentativo di osservare dal-1 'esterno l'unità a cui si partecipa. Ora, questa unità e totalità viene vista nella tradizione come insuperabile e viene personificata attraverso il nome stesso di Dio1D7, ma se si vuole "osservare" questa realtà totale occorre tracciare un confine, stabilire una differenza, almeno la differenza tra la totalità e l'osservatore che la guarda. Questi per poter osservare deve porsi dei limiti: rispetto all'unità che osserva deve stabilire dei confini. Ora, se la parte unitaria viene definita il bene e la perfezione e viene vista realiz­zata in Dio e in nome di Dio, che non permette niente al di fuori di sé, ciò che pone un limite e un confine esterno a questa unità verrà chiamato il male. Secondo Luhmann, ciò esprime la varie concezioni di Mefistofele attraverso il Faust, del Faust attraverso Goethe, di Goethe attraverso tutti i suoi lettori e dei lettori attraverso P. Valéry1°s.

La visione eco-sistemica di Luhmann appare coerente e difficilmente contestabile nei suoi passaggi.

La teologia ha un grande residuo non tematico: deve considerare ciò che si sa e anche ciò che non si sa, ciò che viene tralasciato riflessiva­mente, in nome della riduzione della complessità. Il diavolo è ciò che non fa parte dell'unità, è ciò che non si sa, è il male, è ciò che non si può far entrare nel sistema.

In questo quadro giungiamo a una tesi per il momento assai negativa: sembra che la teologia/liturgia non abbia la possibilità di mantenersi come una scienza accanto alle altre scienze perché non mette in circolo il suo sapere tra chiusura organizzazionale e mondo-ambiente109• Regna un dub­bio circa la sua reale possibilità di essere ancora una "conoscenza sapien­ziale" che cerca, come un tempo, la composizione e la riunificazione delle altre scienze. Avendo ridotto il problema della complessità del reale a una pura compressione "statica" di tale complessità, la teologia può essere

106 Queste considerazioni appartengono ancora alle riflessioni di Luhmann e qui le faccio mie nel tentativo di capire tutte le difficoltà teologiche che creano. Cfr. N. Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, cit., pp. 118 e ss.

107 Giustamente Luhmann osserva in una nota che se la cibernetica di secondo grado intende conoscere la sua vera origine dovrebbe studiare attentamente più la teologia che l'epistemologia. In particolare N. Cusano parlava de docta ignorantia preludendo a questo sapere interno ed esterno che non si poteva dominare se non in maniera approssimativa.

108 Cfr. N. Luhmann, op. cit., p. 119. 109 Sono molti i pensatori che contestano alla religione e all'idea di sacro la possibilità di adat­

tamento, di innovazione per mancanza di un rapporto tra sistema e mondo-ambiente, e che di conse­guenza ritengono il rituale e la liturgia come pure espressioni retoriche e conservative.

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ancora una scienza pratica capace di guidare eticamente l'umanità al pari del compito riservato all'ecologia?

4.1. Necessario del pensiero eco-sistemico di Luhmann attraverso la rifles­sione sul carattere ecologico-adattativo della liturgia in Rappaport

Credo che a un osservatore attento le tesi di Luhmann appaiano inso­lubili da un punto di vista religioso e teologico. Là dove il teorico tedesco incontra l'epistemologia sistemica come epistemologia dell'osservatore di secondo ordine che mette in crisi ogni conoscenza globale in nome di una osservazione sulle altre osservazioni, il senso religioso rischia la sua tota­le evanescenza nella serie dei rimandi non tematici. Ma, in questo grande quadro espistemologico dispiegato sulla scia di Luhmann e capace di toc­care i punti essenziali del sistema religioso stesso, in rapporto al mondo teologico e liturgico siamo costretti ora a una sola riflessione e a una sola domanda legata alla teologia/liturgia nel suo complesso. La religione/ri­tualità, intesa come sistema conoscitivo, ha ancora una possibilità adatta­tiva e mantiene la sua forza di legittimazione? O, essendo piegata total­mente su se stessa, disattende ora completamente il compito che aveva rea­lizzato in passato?

Se le riflessioni di Luhmann sono valide, il rituale e la liturgia sem­brano essere l'esempio di questa "non adattabilità", frutto di una mancan­za di consapevolezza eco-sistemica e di non riconoscimento dell'auto­poiesi propria del sistema rituale stesso.

Mi sia permesso, però, cercare di integrare questa visione luhmannia­na con una visione alquanto simile e tuttavia più ampia e integrativa che viene dall'antropologo R. Rappaport, antropologo che si dedicò per tutta la vita allo studio della ritualità e della liturgia. Si potrebbe dire, del resto, che la visione ecologico-liturgica di Rappaport riassume le proposte espresse da Luhmann e dai funzionalisti di sempre in rapporto alla reli­gione e dunque si può considerare un punto di arrivo in questa costruzio­ne teologico-sistemica, essendo capace di suggerire significati nuovi e ina­spettati alla teologia.

Ripercorriamo un tratto del cammino compiuto: se è vero che ciò che la cibernetica dell'osservazione offre di nuovo è la chiusura circolare dell '"osservazione delle osservazioni" e se è altrettanto vero che ogni con?~ce~z~ si . dispieg~ tra _il sistema e il mondo-ambiente, attingendo nov1ta e 1mtaz1om dall ambiente, le quali poi vengono via via integrate e pensate nell'ambito del senso della scienza propria del sistema, nel nostro caso, nel caso della teologia/liturgia ci si chiede concretamente: è possibi-

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le ritrovare questa stessa dinamica all'interno della teologia/liturgia o la liturgia è un sapere a chiusura organizzazionale totale come sembra pre­vedere Luhmann? Il discorso cade direttamente sulla liturgia.

Se ogni sistema costruisce il suo mondo attraverso l'operazione del­l'"osservazione di osservazioni" e se si trova la legittimazione delle pro­prie cognizioni in una crescente costruzione artefatta dove dominano le improbabilità, le complessità delle proprie assunzioni, forse questo proce­dimento dinamico appare interdetto al sapere religioso e liturgico, in quan­to considerato un "sistema chiuso" e dunque destinato alla morte per la mancanza di adattabilità nel gioco tra sistema e mondo-ambiente?

In particolare, in riferimento alla liturgia cristiana, si può forse dire che il processo di comunicazione liturgica si è poi irrimediabilmente bloc­cato? I rituali sono stati intesi da non pochi autori sotto il profilo del bloc­co di ogni ulteriore comunicazione. In essi non vi sarebbe più dialettica tra il dentro e il fuori, tra sistema e mondo ambiente, non vi sarebbe più «comunicazione sulla comunicazione»uo.

Rappaport, avendo lavorato a lungo nel campo di ricerca, soprattutto con il suo studio sul popolo Tsembaga della Nuova Guinea, sull'intreccio esistente tra rituale religioso e visione ecologica, si era formato una sua teo­ria specifica circa il rituale e la liturgia. Secondo questo antropologo, la liturgia metteva a fuoco proprio questo compito sistemico, in quanto la vera natura del rituale liturgico si esplica specificatamente nel contesto del movimento di apertura/chiusura quasi inconscio del sistema rituale stes­so111. Guardando all'uso liturgico si dovrebbe capire, dunque, se la religio­ne vive ancora in un rapporto comunicativo attivo o se invece la religione si sia irrigidita definitivamente fuori da ogni riflessione eco-sistemica.

Sulla scia di Rappaport occorre anzitutto definire che cosa si intenda per adattamento. Egli scrive: «Assumo il termine adattamento per designa­re i processi attraverso cui i sistemi viventi di ogni sorta mantengono se stessi, o persistono nel confronto delle perturbazioni che si originano nei loro dintorni»112. Ora, l'antropologo americano, per arrivare a comprende­re adeguatamente questo tema della possibile adattatività del rituale, studia i tratti fondamentali del rituale e distingue all'interno del rituale, in quanto sistema comunicativo, tra una parte "canonica" e una parte "autoreferen­ziale" della liturgia. Per l'autore, l'autoreferenziale del rito «rappresenta

11° Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali, cit., p. 687. Il principale contestatore del valore del ritua­le come fatto comunicativo vero è M. Bloch. Per questa problematica vedi il mio libro: A.N. Terrin, // rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999.

lll Cfr. R. Rappaport, Maiali per gli antenati. Il rituale ne/l'ecologia di un popolo della Nuova Guinea, Franco Angeli, Milano 1980.

112 Cfr. Id., Ritual and Religion in the Making of Humanity, cit., p. 408 (la traduzione è mia).

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l'immediato, il particolare e gli aspetti vitali degli eventi», mentre il "cano­nico" «rappresenta il generale, il duraturo, o perfino gli aspetti eterni degli ordini universali»113. In questo modo egli vede l'istituirsi di due streams of messages all'interno del rito ambedue importanti e complementari. Proprio questi due modi diversi di comunicazione gli servono per far valere la stes­sa distinzione come significativa per il modo in cui la liturgia si "auto-rego­la" e si "auto-organizza", secondo lo schema classico di ogni sistema. Anche il rito infatti ha bisogno di lasciare, da una parte, che la chiusura organizzazionale sia stretta e vincolante come in ogni sistema vitale e cognitivo in cui l'apertura - come dice Morin - si appoggia alla chiusura e a questo è deputata la parte canonica del rituale e, per altro verso, il rito ha bisogno di una dinamica verso l'esterno (parte autoreferenziale) come pos­sibilità di adattamento in rapporto al mondo-ambiente114•

Per dare maggior peso alla sua tesi, l'autore a livello cognitivo istitui­sce un parallelismo tra il canonico e l'autoreferenziale, trovando che il canonico equivale alla riproposizione rituale del Sacro, degli Ultimi Postulati sacri, del dogma di base, in breve, di quelle realtà che sono asso­lutamente indiscutibili. Sono postulati che fanno capo direttamente alla fede, al credo nella visione cristiana, a Gesù Cristo che è il Figlio di Dio, mentre ad esempio in Israele fanno capo allo Shema' di Israele. Nel mondo musulmano fanno capo al Postulato ultimo dove si dice Allah akbar e si riconosce Maometto come il suo profeta. Dunque nel rituale vi sarebbe espresso attraverso il Canone il riferimento a un'essenza inconte­stabile e incontrovertibile: questa viene chiamata anche il Sacro e - come giustamente afferma Wallace - avrebbe il carattere di una «comunicazio­ne senza informazione» 115. Ora questo basic dogma viene accettato incon­dizionatamente attraverso la partecipazione alla liturgia e si configura ulti­mamente come la sostanza stessa del canone liturgico. L'indiscutibilità (unquestionableness) costituirebbe nel nostro sistema il nucleo a chiusura organizzazionale.

Si dà il caso però che questa chiusura non sarebbe totale, né così pro­blematica come appare in Luhmann. L'analisi di Rappaport appare molto interessante e pertinente. A un livello secondo e derivato, andrebbe consi-

113 R. Rappaport, op. cit., p. 53. 114 A differenza di Luhmann, occorre dire che Rappaport sa introdurre adeguatamente anche l'i­

stanza comportamentale e l'azione rituale e performativa come parte del fatto conoscitivo stesso, omo­logando l'azione al cognitivo nella formazione dell'autopoiesi del sistema religioso/liturgico stesso, lavoro che lo avvicina di più ai cognitivisti. Il capitolo: Enactments of Meaning (realizzazioni del significato) è assolutamente importante e congiunge strettamente l'azione rituale e performativa asso­ciandola alla realizzazione cognitiva e - potremmo dire - "autopoietica" del rito stesso. Cfr. R. Rappaport, op. cit., pp. 107-168.

115 Cfr. Id., op. cit., p. 285.

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derata, infatti, - secondo l'antropologo americano - anche la parte autore­ferenziale della liturgia: quella in cui si pongono gli ordines liturgici che sono alla base delle regole euristiche116, quelle regole dedotte dai Sacri Postulati e che però servono a stabilire le verità che ne derivano nel con­testo della fede derivata dai Postulati ultimi. Queste verità derivate non sarebbero più così indiscutibili, riguarderebbero gli assiomi cosmologici, le esegesi particolari, le espressioni che stabiliscono quali debbano essere le autorità, riguarderebbero quelle regole che fissano le direttive delle autorità santificate dai Postulati sacri, e sono espressioni formate anche dai vari commissivi che si presentano nel rituale e nella liturgia117 •

Ora, su questi due nuclei differenti di verità Rappaport vede la forza eco-adattativa della religione attraverso il rituale e la liturgia. Se un siste­ma per rivelare la sua auto-organizzazione poietica deve evidenziare la sua dinamica, in maniera analoga nella religione si parlerà della "cibernetica del sacro" e anche questa cibernetica del sacro è in grado di funzionare. Entrando in questo nuovo orizzonte comunicativo, occorre vedere allora se il sistema del sacro sa mettere in atto un processo di isolamento (la chiu­sura organizzazionale di Luhmann) per resistere alle perturbazioni e alle irritazioni del sistema stesso. Questo processo sarebbe affidato al Canone della liturgia dove si esprimono i Postulati ultimi. Per ciò stesso - secon­do Rappaport - il Canone è indiscutibile e va mantenuto fisso e immuta­bile. Però la santità, degli ordines che derivano dai postulati ultimi trami­te esegesi e autorità non possono pretendere di avere questa indiscutibili­tà e dovrebbero diventare il momento di flessibilità della religione stessa. In questo contesto, mentre il sacro è l'invariante e rappresenta la chiusura organizzazionale, la santità degli ordines, invece, darebbe luogo al momento di flessibilità118• Qui occorre notare che per Rappaport, il carat­tere criptico e non materiale delle Realtà ultime, crea l'esigenza stessa di una reinterpretazione continua. L'antropologo si domanda: che cosa signi­fica infatti che Dio è uno ed è nello stesso tempo in tre Persone? La sua importanza è questa: l'indiscutibilità del dogma di base è che nessuno lo possa comprendere adeguatamente119• Il vero principio che permette lo spostamento e la flessibilità è dato dal fatto che il significato non è coestensivo alla legge così come il Postulato sacro non copre totalmente ogni realtà "santificata".

116 Importante è notare che secondo l'antropologo le regole euristiche vengono costituite dagli ordines liturgici. Si tratta di una mentalità rituale molto forte a cui spesso i teologi non si sentono di accedere. Cfr. op. cit., p. 290 dove l'autore scrive: liturgica[ orders contitute heuristic rules.

117 Cfr. ivi, pp. 320-321. 118 Si veda ivi, in particolare pp. 426-427. 119 Cfr. ivi, p. 428.

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Ora proprio in questa dinamica espressa in maniera chiara dal rituale e dalla liturgia, Rappaport vede una possibile vicinanza, una parentela con la coscienza ecologica nel suo insieme. L'autore si appoggia al filosofo del linguaggio Toulmin120. In un contesto in cui i sistemi autopoietici della società e della cultura rischiano balzi in avanti, trasgressioni pericolose, perdite di memoria, come nell'epoca presente, l'autore riconosce l'impor­tanza del sistema autopoietico rituale e liturgico che continuamente si richiama a ciò che è fondamentale e indiscutibile e in base a quei presup- , . posti di assoluto valore crea situazioni di adattamento e di omeostasi signi- '· ficativa, a partire da indubitabili criteri di valore. La visione eco-sistemica è una visione quasi religiosa, come lo è nelle religioni orientali. Come l'eco-sistema si regola la temperatura, come la terra Gaia tra il freddo e il caldo cerca una temperatura media adatta attraverso retroazioni, così la liturgia/teologia attraverso la cibernetica del Sacro si proporrebbe come un movimento equilibratore delle culture, impedendo movimenti e balzi trop-po repentini in avanti e cercando piuttosto la radicazione nel passato, nella tradizione, nei Postulati sacri coniugati strettamente con le realtà da questi santificate. Tutto il valore omeostatico della religione si giocherebbe sul rapporto ad altalena tra i postulati sacri irriducibili, ma formali e le moda­lità interpretative di quei postulati che hanno un qualche margine di fles­sibilità e di interpretabilità: tra il canone liturgico e la parte flessibile, auto­referenziale della liturgia.

Secondo Rappaport, però, la liturgia, pur avendo questa possibilità di omeostasi all'interno della cultura, può diventare anche un motivo di ostruzione al funzionamento del sistema e a quella circolarità sapienziale che la religione stessa ha bisogno di mettere in atto. Questo avverrebbe attraverso l'irrigiqimento non tanto dei postulati di base, quanto delle parti autoreferenziali della liturgia. Quando l'autoreferenzialità diventa rigida, quando le realtà santificate non sono modificabili significa che non c'è più comunicazione sulla comunicazione. Significa che non c'è più passaggio, che la liturgia non è più in grado di creare riflessività per la vita, che tale riflessività - se esiste - è tutta esterna e non deriva più da quel centro, da quella fons prima che dovrebbe essere la liturgia stessa. Allora il rito non è più in grado di creare adattatività e in esso non si esercita più quel rap­porto vitale conoscitivo tra sistema e mondo-ambiente necessario a ogni sistema. In altre parole, il rito e la liturgia allora sono in una fase di chiu­sura totale, vicina alla morte per mancanza di scambi vitali, per mancanza di quel procedimento a feed-back che è comune a ogni sistema in rappor­to al mondo-ambiente.

12o Cfr. ivi, p. 459.

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4.2. Per una critica della scienza liturgica all'interno dell'eco-sistema

Sono consapevole di essermi mosso all'interno di questo argomento in una oscillazione continua tra le affinità e le convergenze della teolo­gia/liturgia con l'ecologia, tra il tentativo di vedere la religione semplice­mente come un'ecologia profonda e la volontà di mantenere a volte distinti i diversi ambiti autopoietici. La strada che ho percorso si è dimo­strata lunga e alquanto complessa; ho dovuto percorrerla lentamente in quanto non si è abituati né a fare i conti con tutta la realtà in cui viviamo, né tantomeno si è abituati a riflettere su premesse epistemologiche così lontane dai procedimenti metodologici della teologia e delle scienze umane in genere.

Credo che ci siano almeno due affermazioni implicite incontestabili all'interno del percorso svolto: anzitutto, occorre riconoscere che l'impor­tanza della liturgia per l'esperienza religiosa e per la vita sociale è più grande di quanto si pensi. Il valore del rituale e della liturgia sono impor­tanti non solo nel contesto teologico ma anche nella costruzione della real­tà socio-politica. Se ciò è vero, vale allora anche la seconda affermazione: i problemi liturgici devono essere trattati con altri parametri rispetto a quanto si è fatto finora: i piccoli meccanismi interni, le piccole riforme per rimediare alla visione cristiana servono a poco. Occorre rendersi conto degli stessi problemi eco-sistemici che sono alla base del nostro operare religioso e dei problemi radicali che stanno alla base del nostro vivere.

Continuando a ritenere fondamentale la dimensione antropologica, ho tentato un ripensamento di tutte le scienze in chiave ecologica, concen­trandomi in particolare sulla teologia e sulla liturgia. Si è trattato di una pretesa abbastanza rischiosa, non solo perché una vera sintesi delle scien­ze a livello eco-sistemico è ancora in fieri e perché, alla fine, ciascuna di esse ama giocare ancora le proprie carte a modo proprio, ma anche perché la sensibilità, che pur è palpabile verso questo ampliamento di orizzonte, si muove ancora in maniera caotica e non affatto coordinata. L'ecologia, però, così come l'antropologia spingono urgentemente verso l'unità dei saperi, e la teologia/liturgia dovrebbe essere pronta ad accogliere questo invito per i compiti che le sono propri. Credo che occorra arrivare a una scienza unificata (la tanto cercata unified science) e che questa si edifichi intorno a una sensibilità epistemica comune capace di integrare i saperi.

Molto sensibile a questa spinta unificatrice tra le scienze, Rappaport ci conduce verso una specie di esame della coscienza critica della liturgia del nostro tempo, ci porta a prendere coscienza di realtà rituali e liturgiche che noi viviamo con amore e sofferenza nello stesso tempo, ma di cui ci sfugge la consistenza e il compito adattativo ecologico. Per riprendere la

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visione espressa da Geertz circa il rituale, sembra che oggi facciamo sem­pre più fatica a trovare un punto di incontro tra il mondo ideale e il mondo reale, espressi dalla liturgia. Tutti e due i mondi dovrebbero essere interni alla liturgia per essere poi significativi in ordine alla vita e invece sembra che l'uno ci allontani dall'altro in maniera sempre più preoccupante e che la liturgia sia impossibilitata a compiere qualsiasi sintesi.

Il principio di base è quello stesso di Luhmann: per una visione vita­le occorre una visione adattativa, eco-sistemica, che viva di scambi reci­proci e di interazioni. Ciò deve avvenire anche in rapporto alla liturgia. Il compito vero sta nel fare in modo che la liturgia operi una "comunicazio­ne sulla comunicazione", pur mantenendo ferma e immutabile la sua strut­tura fondamentale, la sua condensazione chiara e organizzata di significa­to intesa come "chiusura organizzazionale" del sistema. In definitiva la liturgia dovrebbe essere chiusa e aperta, nello stesso tempo inespressi­va/espressiva e proprio in questo contesto che appare un ossimoro, si potrebbe vedere espressa la sua vera natura sistemica, in cui si costituisce in maniera vitale ogni sistema vivente.

Ci si può chiedere: oggi avviene questa comunicazione e le parti auto­referenziali del rito sono in grado di trasmettere qualche cosa di nuovo in rapporto alla cultura e alla società o non sono bloccate a loro volta da un'i­nespressività totale? La mancanza di questa comunicazione sulla comuni­cazione non è un piccolo episodio a cui si possa rimediare cambiando sol­tanto i canti o modificando alcune espressioni della liturgia. Se la liturgia è culmen et fons della vita della Chiesa, si dovrebbe sostenere che sia il movimento che la passività, la vita così come anche la morte per la reli­gione si originano all'interno della liturgia stessa. Il fatto che non riesca a comprendere la gravità della situazione, in cui si manifesta sempre più che non c'è "comunicazione sulla comunicazione" - se non in certi casi e forse in determinate esperienze rituali e liturgiche - è un fatto epocale che modi­fica in maniera preoccupante la possibilità del cristianesimo di oggi di potere essere ancora un sistema aperto per quel che è necessario e suffi­ciente in ordine all'osmosi necessaria propria di ogni organismo vivente in rapporto alla sua sopravvivenza e vitalità.

L'ecologia dei sistemi viventi sembra suonare allora come un campa­nello d'allarme per quell'universo simbolico fondamentale che è il siste­ma rituale/liturgico, sistema privilegiato che per primo ha creato nella sto­ria, attraverso le varie fasi della teologia, un rapporto vitale tra apertura e chiusura, tra sistema e mondo-ambiente in un contesto di adattamento, sapendo operare, anche se inconsciamente, in chiave eco-sistemica. Ma proprio tale sistema oggi rischia a sua volta una chiusura ermetica, tal­mente stretta da impedire che la vita rifluisca al suo interno. La Chiesa ha

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ancora della chances, ma fino a quando potrà ostacolare l'espe!ienza_ r~li~ giosa che si appoggia ai Po~tulati Ul~imi, p~r dirla ~ncor~ c?n i ter~mi ~i Rappaport? A partire da tali postul_atI, la Chiesa ?a mfatti ~isogno ~i apn­re una breccia tra il suo sistema e Il mondo-ambiente, ha bisogno di avere una dinamica interna più flessibile, come ogni micr~ eco-sistema, che deve creare osmosi e produrre conoscenza per sopravvivere.

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and P. Kegan, London 1958. Winkin Y.,La nouvelle communication, Seui!, Paris 1981. Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967. Id., Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1983.

Zecchi _S., La magia dei saggi: Blake, Goethe, Husserl, Lawrence, Jaca Book, MIiano 1984.

Zizioulas I., Il creato come eucaristia, Qiqajon, Magnano 1994.

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284 Indice dei nomi

99-100, 104, 110, 125, 130, 133, 136-137, 144, 147-149, 166, 201-202, 214, 218,222-223,243,258

Thompson F., 19, 102 Thompson T.E., 244 Tillich P., 68 Tononi G., 25, 153, 228, 244 Torrence N., 183 Toulmin S., 217, 261 Triacca A.M., 136 Turing A, 9, 17, 96, 105, 239 Turner V., 57-58, 67, 83, 91, 100, 182, 184 Tyler S.A., 42, 59, 154, 159-161 Tylor E., 33, 113, 177, 179, 183 Tylor M., 61

Ubbiali S., 133 Uspenskij B.A., 174

Vaccaro L., 250 Valéry P., 10, 220, 256 Van der Leeuw G., 136, 220 Van Gogh V., 198 Van Huyssteen J.W., 164, 166 Varela F., 19, 50, 102-103, 109, 159, 244-

245 Varrone M.T., 77 Von Bertalanffy L., 234-235 Von Foerster H., 159, 239, 245

Von Neumann J., 234 Von Weizsacker C., 251 Vygotsky L., 45, 117

Wakefield J., 44 Wallace A.R., 259 Watzlawick P., 122, 246 Weber M., 55 Wells O., 21 Wertheimer M., 228 Whitehead AN., 209, 230, 230 Whitehouse H., 21, 65-66, 104 Whorf B.L., 43-44, 54, 154 Wiener N., 234, 237, 239, 245 Wilber K., 230 Wilk R.R., 53 Wilson B.C., 68, 135, 183 Wilson D., 46 Wilson E., 186 Wilson M., 36, 53 Wilson T., 69 Winch P., 182-183, 186 Winkin Y, 244 Wittgenstein L., 29, 59, 168, 179, 183, 186,

195 Woolfolk R.L., 35

Zecchi S., 86 Zizioulas I., 250

SOMMARIO

Introduzione . . . . . . . . . .

Parte prima LA SFIDA DELLE NEUROSCIENZE

CAPITOLO PRIMO

Antropologia culturale tra esternalismo e internalismo La difficile sintesi delle due prospettive in ambito teologico.

1. Problemi attuali dell'antropologia culturale e l'efficacia del modello esterno/inter­no, 23 - 2. Il pathos dell'antropologia culturale, 26.

CAPITOLO SECONDO

Le consegne dell'antropologia scientista

1. Il funzionalismo in antropologia culturale, 36 - 2. Lo strutturalismo di Lévi­Strauss e il suo rapporto con le scienze cognitive, 39 - 3. Etnoscienza, etnosemanti­ca e antropologia cognitiva, 41 - 4. Teorie antropologiche a carattere epidemiologi­co. La cultura come "contagio di idee", 45 - 5. Antropologia cognitiva a sfondo eco­logico-funzionalista e visione ecosistemica, 47.

CAPITOLO TERZO

Le consegne dell'antropologia culturale interpretativa.

1. Antropologia culturale americana, 51 - 2. Cultura e personalità, 53 - 3. Antropologia delle forme simboliche e la cultura come testo, 55 - 4. La cultura come performance, 56 - 5. Il post-moderno in antropologia. La crisi di ogni forma di rap­presentazione, 58.

CAPITOLO QUARTO

La difficile sintesi di esternalismo e internalismo nella teologia . 1. La visione esternalista della credenza e della fede, 63 - La visione internalista e simbolica della credenza, 67.

CAPITOLO QUINTO

Conclusione epistemologica e risvolti teologici

1. Dove va il cristianesimo, 74.

7

17

33

51

61

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286 Sommario

Parte seconda LE DUE ANIME DEL RITO

Tra una visione antropologica e cognitivistica e una visione fenomenologica e a sfondo teologico

INTRODUZIONE

Due sfondi di comprensione del rito. II rito come struttura e come evento, 84.

CAPITOLO PRIMO

L'antropologia culturale e la comprensione del rito e della liturgia La liturgia come struttura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. II problema antropologico del rito: creare una struttura di senso fattivo, 91 - 2. Questioni metodologiche sulle teorie cognitive della religione e sulla radicalità antropologica del rituale, 96 - 3. Le scienze cognitive e l'esperienza dell'Assoluto come idea dell'Agency, 111.

CAPITOLO SECONDO

L'anima fenomenologica e teologica presente nella ritualità La liturgia come evento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. L'esperienza simbolico-religiosa e la sua connaturalità come propedeutica all'e­sperienza cristiana e liturgica in senso specifico, 132 - 2. Il documento conciliare sulla liturgia, 137 - 3. La liturgia come evento, 140- 4. Il rito come pathema e mathe­ma, 141 - 5. La "pre-cedenza" antropologico-religiosa del rito e l'''ec-cedenza" teo­logica della liturgia, 146.

Parte terza LE CREDENZE IN CHIAVE

ANTROPOLOGICO-COGNITIVISTICA ED ECOSISTEMICA

CAPITOLO PRIMO

La circolarità tra scienze naturali e scienze dello spirito e il nuovo posto

81

91

131

delle credenze tra antropologia e teologia. . . . . . . . . . . . . . . . 153

1. Le scienze naturali e la contraddizione che le assilla, 157 - 2. La quasi circolarità tra scienze dello spirito e scienze naturali e la nuova distanza delle credenze religio-se e della teologia, 162 - 3. La credenza e i nuovi mercati simbolici, 168 - 4. Credenza e conoscenza nella filosofia della scienza, 193 - 5. Il posto delle credenze religiose e della teologia, 199 - 6. La credenza religiosa come conoscenza auto­implicante. Il simbolico nell'esperienza religiosa, 207.

CAPITOLO SECONDO

Interpretazione radicale: antropologia e teologia in chiave ecologica. 211

1. La conversione del sapere. Il rapporto dell'io con il mondo, 221 - 2. La dinamica intrinseca dell'idea di complessità: arrivare alla co-scienza attraverso la scienza stes-sa, 230 - 3. Tre modelli di auto-organizzazione: il pianeta vivente, l'autopoiesi della conoscenza e il sistema sociale, 241 - 4. La liturgia/teologia come sistema autopoie-tico, 250.

Bibliografia. . .

Indice dei nomi .

Sommario 287

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