n...7 “Perché per me l’unica gen-te possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita,...

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Transcript of n...7 “Perché per me l’unica gen-te possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita,...

n.6

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C’è un sito che si chiama graziearcazzo.com, una sequela di frasi bana-li come “a terra c’è sporco” oppure “gli incidenti sarebbe meglio evi-

tarli”. Fa davvero molto ridere ma, come spesso succede, fa anche pensare. Una frase che per loro dovrebbe essere scontata è “mi piacciono i libri scritti bene”. Una domanda che per i lettori dovrebbe avere una risposta scontata è “i libri vi influenzano emotivamente”? Nell’uno e nell’altro caso ci potrebbe essere qualcosa da ridire ma, invece di farlo noi, ci nascondiamo dietro al simulacro di Richard Yates qui alla vostra sinistra.

Iniziamo dalla domanda. La risposta ovviamente è sì, “altrimenti che lo leggo a fare un libro!” (cit.) Ma non è così semplice. Anzitutto perché biso-gna partire dallo stato iniziale in cui ci si accinge a leggere: se sei triste e leggi La compagnia dei Celestini, diventi davvero allegro? Ti senti davvero alleggerito? Se sei in para e leggi Jacques il fatalista, sei davvero rassicurato? E, domanda più difficile, se sei felice e ti cucchi Revolutionary road, proprio di Yates, bisogna assicurare gli infissi per evitare tuffi fuori programma? Revolutionary road è un libro tristissimo. Parla di una famiglia a pezzi e di una coppia che non fa altro che respingersi. Mamma cara. Però è scritto be-nissimo – e anche tradotto benissimo, bisogna dirlo, grazie minimum fax.

A questo punto, se seguiamo le condizioni di verità delle due frasi iniziali, la scenetta sarebbe più o meno così: trallallà, sono preso benissimo e mi leggo un libro che è scritto bene, dunque mi piacerà di sicuro. Ehi, ma, è davvero triste, mi influenza emotivamente e, tutto ad un tratto, la mia pre-suria bene (cfr. Carlo Pastore, Punizioni!, Finzioni n.5) svanisce in un lago di dolore. Ma allora non mi è piaciuto. Ma è scritto benissimo. Ma mi ha intristito. Ma se una cosa mi intristisce, dunque mi peggiora, e mi piace? Questa drammatizzazione è un po’ esagerata, lo ammetto, tuttavia l’idea è che non ci sono verità assolute in letteratura, alla faccia dei vecchi tromboni esegeti. Non è detto che un grande libro debba influenzare emotivamente per essere degno di questo nome come non è detto che debba essere scritto bene per piacere. Revolutionary road è triste e scritto benissimo ma queste due categorie non sono sullo stesso piano dunque non si pestano i piedi. Io l’ho amato per la scrittura e la sua forza emotiva ma non mi ha intristito affatto. E questo non toglie nulla alla sua grandezza. Qualcuno può averlo odiato o amato per come l’ha fatto sentire all’ultima pagina, senza curarsi del periodare limpido e sempre lucido.

Qualcun altro, poi, può aver goduto di entrambe le cose. Dunque gli è piaciuto? Beh, grazie ar cazzo.

The GodfatherRichard Yatesdi JACOPO CIRILLO

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Questo è un numero di conferme.Mattoni di Filippo Pennacchio e Libri (quasi) (mai)

letti di Maria Giovanna Ziccardi superano il fatidico scoglio della seconda puntata, diventando a tutti gli effetti voci importanti di Finzioni che, come sempre, si permette di pesare i libri con il bilancino e, addirittura, non leggerli ma usarli per pareggiare le gambe dei tavoli.

Simone Rossi se la fa e se la scrive nelle città letterarie, parlando del suo libro e della sua città preferita che è - chi non la conosce?! - Lalibela.

Poi c’è la nuova rubrica a tutta riflessione di Michele Marcon, La lettera che muore, in cui si parla della diffi-coltà di noi giovani con gli occhiali nel dire parole come

La citazione del mese 5

Beaten Beatitude 6

Nobel minori 7

Libri (quasi) mai letti 9

Letterature Involontarie 10

Punizioni! 12

Biografie Edulcorate 13

Le città letterarie 14

Viaggi 16

Sommario

Editoriale

Pillole di Scienza 17

Oh, Scena! 18

La lettera che muore 19

Mattoni 20

I ferri del mestiere 21

La posta dei lettori 22

Ghost World 24

Iperboloser 25

Contributi da 26

simulacro.

C’è Raymond Carver e Pirandello, c’è una meraviglio-sa graphic novel con un re scimmia e un bambino Ame-rican born Chinese, c’è Yates e una citazione del mese talmente difficile che, a leggere bene, la spiegazione non c’entra assolutamente nulla.

Benvenuti su Finzioni, dunque. Il numero sei.

ps Fabio Paris stavolta parla di cacca profumata. Te-nete Finzioni nel bagno, vi terrà compagnia. E lasciatelo lì, per quelli che verranno dopo di voi.

La Redazione

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Una citazione pesissima que-sto mese, non c’è che dire.

Robert Pirsig, oltre a manutenere la sua motocicletta con arte e con Zen, si faceva di questi viaggi. Ma l’argomento è interessante: che succede quando l’oggetto di di-scussione è in realtà una modalità della discussione stessa. Direte: ma quando cacchio può capitare una roba del genere? È come dire che invece di cucinare un piatto di bucatini all’abbacchio cucinassi il libro di ricette corrispondente. Dirò: l’esempio sembra una putta-nata (soprattutto per il miscuglio di due piatti tipici romani che di solito sono separati) ma in realtà è concettualmente esatto: io applico a una modalità – il libro di ricette che, appunto, spiega il modo per cucinare – la modalità stessa. Lo cucino.

Che mal di testa! E che indige-stione! Ma per la letteratura è il-luminante. Premessa: una buona parte dei letterati ritiene che la critica letteraria (o, diremo noi, i

Il mondo della forma soggiacente è un oggetto di discussione insolito perché, in realtà, esso è una

modalità della discussione stessa. […] Quando si cerca di analizzare queste modalità di discussione ci si trova di fronte a quello che si potrebbe definire un problema di piattaforma. L’unica piattaforma da cui si può par-tire è la modalità stessa.

Robert M. Pirsig

La citazione del meseLo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di JACOPO CIRILLO

discorsi sui libri) non sia anch’es-sa letteratura ma solo – appunto – accessorio. Che non abbia dignità propria ma solo riflessa. E che men che mai possa essere considerata un genere letterario. Probabilmen-te, come dice il vecchio Bob, è un problema di piattaforma. Parlare di recensioni/critiche/discorsi in quanto genere letterario significa attribuire a una modalità di di-scussione lo statuto di oggetto di discussione. Ai migliori chef par-rebbe una pazzia ma a noi, onnivo-ri, sembra essere la cosa più bella della letteratura: la sua continuità, la sua monoplanarità.

Se il valore dei libri è determi-nato dai discorsi dei lettori e non da vecchi tromboni esegeti, allora i romanzi, i commenti ai romanzi, anche le puttanate dette sui ro-manzi sono tutti sullo stesso pia-no, sulla stessa piattaforma. Non si accavallano ma rinviano uno all’altro, costantemente. Pensiamo a un dizionario: non so che signi-fica la parola “abbacchio”. Vado a

vedere e imparo che l’abbacchio è un agnello da latte macellato. Ma non so che significa la parola “lat-te”. Vado a vedere e scopro che è un liquido bianco opaco prodotto dal-la secrezione eccetera. E che vuol dire “secrezione”? E “membra-na”? E “organismo”?[1] Ecco come, in linea teorica, il dizionario non spiega nulla ma, semplicemente, rinvia. Collega una parola con altre dieci, venti, cinquanta e ognuna di queste con altrettante, creando una rete senza centro e senza scali-ni: tutta sullo stesso piano. Nessun termine è più sburo degli altri.

E allora, fateci godere di questa meravigliosa proprietà! La lettera-tura, i discorsi sulla letteratura, i generi letterari, la critica, la recen-sione, la puttanata, sono tutte mo-dalità e oggetti della discussione culturale.

[1] Chi scrive assicura i lettori di co-

noscere perfettamente il significato di

questi vocaboli.

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Kerouac tagliò dei rotoli di carta da lucido perché en-

trassero nella sua Underwood portatile, li incollò uno all’altro e cominciò a scrivere. Nessun mar-gine, nessuna interlinea, un uni-co lunghissimo paragrafo. C’è da immaginare la faccia dell’editore quando si vide recapitare quel ro-tolo illeggibile lungo più di 36 me-tri. Ora, quel rotolo, fa il giro dei musei e delle librerie perché è un libro di culto della letteratura ame-ricana. Sulla strada fu rimaneg-giato, censurato, distillato, perché non urtasse troppo il pubblico, e la versione sugli scaffali delle librerie non è, purtroppo, quella originale. Sono serviti 50 anni perché la Vi-kings pubblicasse il vero contenuto del rotolo.

Kerouac divenne famoso con Sulla strada e con lui pure i beat. Fu una genesi involontaria del movimento e può sembrare una scelta strana, questa. C’è chi pro-babilmente avrebbe piazzato Sulla strada all’inizio, nel primo artico-lo, mentre io lo tengo per ultimo. In fin dei conti è da lì che è scop-piata la beat generation, perché non parlarne subito? Perché Sulla strada descrive ciò che è avvenuto prima della scoperta dei beat da parte della gente e perché, se non si conosce qualcosa dei personaggi che animano le pagine di questo li-bro, tutto risulterà inevitabilmente meno eccitante.

Ad essere sinceri, Sulla strada non lanciò solo Kerouac dando-gli una fama inaspettata, né diede

Beaten BeatitudeSulla stradadi JACOPO DONATI

semplicemente il via ai beat: riuscì a racchiuderli tutti come fosse una capsula del tempo e obbligò i me-dia a fiutare finalmente il cambia-mento che, di lì a dieci anni, avreb-be rivoluzionato prima gli Stati Uniti e poi il mondo.

Sulla strada parla del viaggio di Kerouac (Sal Paradiso) e del suo in-contro con Neal Cassidy (Dean Mo-riarty). E di quello con Ginsberg. E di quello con Burroughs e tutti gli altri beat. Kerouac rimbalza da una costa all’altra del continente, in un viaggio verso nessun posto, in giro per gli Stati Uniti, un viaggio che più che attraversare Stati at-traversa persone. Forse anche una metafora della vita? Questo non lo so, ma di sicuro trasuda vita. Nel jazz, nella follia di Neal Cassidy e nelle conversazioni a lume di ben-zedrina, c’è solo che vita. Nei lavori umili e nelle storie dei compagni di viaggio, solo vita. Esperienza, fre-nesia e amore per quella vita che Kerouac definisce sacra e preziosa in ogni momento.

I beat sono quelli che la scienza chiamerebbe “forme di passaggio”. Sono americani post-bellici, con la barba fatta e i capelli tenuti corti, la camicia bianca infilata nei panta-loni. Dentro, però, dentro al cranio o in qualche ventricolo cardiaco, sono gli hippie dai capelli lunghi e dai sogni ancor più lunghi. Sulla strada, a conti fatti, è un blocco di roccia che la biblioteca vi fornisce e in cui voi, pennello e piccone alla mano, liberate i fossili dai sedi-menti polverosi. I beat li ritroverete

tutti lì dentro, immobili come in-setti nell’ambra, eppure così vivi da fare impressione. Questo è il merito di Sulla strada. Non è il capolavoro di Kerouac, come molti vogliono far credere, ma l’album fotografico della beat generation. Le pagine di Sulla strada possono essere con-siderate delle Polaroid beat. Ogni capitolo te li mostra così com’erano 60 anni fa, immersi nelle loro vite e attorniati dalle persone che incon-travano tutti i giorni. Burroughs non aveva ancora ucciso sua mo-glie e di sicuro neppure sospettava l’avrebbe fatto, Ginsberg ancora non aveva pubblicato Urlo e altre poesie e nessuno di loro poteva im-maginare quanto grandi sarebbero diventati i loro nomi. Erano tutti vivi, all’epoca, e nessuno di loro aveva dovuto scendere a compro-messi con la società che li accla-mava. Erano ancora perfettamente liberi, e non solo sulla carta.

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“Perché per me l’unica gen-te possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadiglia-no o dicono un luogo comune,

ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi gialli fuochi artifi-ciali che si spandono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede il bagliore azzurro centrale dell’esplosione e tutti fanno Oooo-hhh!” (Sulla strada, capitolo I)

I beat erano vita e non desidera-vano altro che vita.

fortunati a trovare qualche pagi-netta che la riguarda. Nella mia ad esempio, (Leggere il mondo di Segre e Martignoni), il “profilo letterario” della scrittrice sarda è inquadra-to nella più ampia cornice della “letteratura regionale”, e consta di

pochi miseri paragrafi e un brano antologizzato tratto da Canne al vento (Mondadori, 238 p., € 8.40). Cercando qualche altro riferimen-to, con l’aiuto dell’indice dei nomi, ho ritrovato la povera Deledda ci-tata a proposito dello sbeffeggio

Maria Grazia Deledda è un Nobel caduto nell’oblio:

snobbata nelle università e nei li-cei, è oggi sconosciuta alla maggior parte dei giovani lettori. Aprite la vostra letteratura italiana, quella che usavate a scuola, e ritenetevi

Nobel Minori“La chiesa della solitudine”

di M.G. Deledda di VIVIANA LISANTI

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confezionato a suo danno da Luigi Pirandello, collega e amico, o così almeno credeva Grazia, in Suo marito (Newton & Compton, 224 p., € 3), romanzo del 1911 che ridicolizza la figura di un’artista, ricalcata appunto su quella della scrittrice, che cerca di affermarsi nell’am-biente romano con l’aiuto del marito/manager.

Ingiusto destino per una donna che è riuscita ad ab-battere molte barriere nella sua vita pur di compiere l’unico destino per lei possibile, quello di scrivere, e che vanta di essere la seconda donna al mondo e l’unica ita-liana fino ad oggi, insignita del Nobel per la letteratura nel 1926.

Il percorso letterario della Deledda è costellato di ostacoli che, allora più che oggi, potevano essere in-sormontabili: innanzitutto l’essere donna a fine ‘800 comportava essere automaticamente esclusa dalla pos-sibilità di ricevere un’educazione completa; in secondo luogo non bisogna dimenticare la barriera linguistica. Deledda, infatti, nasce a Nuoro nel 1871 e quindi parla e scrive in sardo, che non è un dialetto, ma una vera e propria lingua. Lo sforzo di aver imparato una lingua straniera, l’italiano, e servendosi di questa aver scritto più di 30 romanzi e 400 racconti, è ancora più ragguar-devole se si prende in considerazione che, a parte tre

anni di educazione ufficiale, la sua intera cultura è frut-to di uno studio da autodidatta.

La chiesa della solitudine (Mondadori, 224 p., € 6,20) è l’ultimo romanzo pubblicato in vita e dà anche il nome alla chiesetta costruita in sua memoria a Nuoro, dove oggi si trova la tomba. Curiosamente la protagonista del romanzo, Maria Concezione, è una giovane donna ammalata di cancro al seno, male che portò la stessa scrittrice alla morte, avvenuta nel 1936.

La vicenda di Maria Concezione è talmente tragi-ca da poter perfino essere ridicola perché richiede la comprensione di un mondo talmente lontano e arcai-co da sembrare assurdo. La prima cosa che sappiamo di Maria Concezione è che durante un’operazione per estirpare un cancro al seno, le è stata asportata una mammella: questo fatto costituisce un motivo di soffe-renza fisica e psicologica per la donna, e al tempo stesso di profonda vergogna e senso di colpa nei confronti del piccolo paesino sardo in cui vive. Concezione è quin-di succube di una credenza primitiva che vede nella malattia una colpa, una sorta di punizione divina per qualche misfatto compiuto. Il misfatto in questione è rintracciato dalla donna in un episodio dell’adolescen-za, quando soleva intrattenersi fra i cespugli con un giovanotto, senza che tra i due vi fosse un fidanzamen-to ufficiale. Già di per sé un comportamento che può compromettere a vita la credibilità di una giovane, si aggiunge l’aggravante: il giovanotto è un delinquente, è arrestato e in carcere si suicida.

Il cancro quindi giunge a ricordare e rinvigorire il senso di colpa che ha da sempre attanagliato la don-na, la quale ora sembra avere una testimonianza in più, visibile sul proprio corpo in quella terribile meno-mazione, della macchia che sporca la sua coscienza e che è necessario lavare con la sofferenza.. Decide allo-ra di sacrificare ciò che più le è caro, Aroldo, il quale, all’oscuro dei segreti tormenti dell’amata, quasi impaz-zisce cercando una spiegazione all’improvviso rifiuto. Concezione, vittima di un passato che torna inesorabi-le si ritira a vita nella casa che condivide con la madre, adiacente ad un’austera e spoglia chiesa, dove l’unica consolazione sembra essere la statuetta in legno della Madonnina, nella sua nicchia azzurra, pronta a sfidare l’oscurità della più sconfinata solitudine.

La filosofia che sottende a questo romanzo, che fon-damentalmente tratta di una vicenda interiore, un De-litto e Castigo sardo, è spietata: nella battaglia contro il fato l’uomo ne esce sempre sconfitto; siamo “come canne al vento”, meglio piegarsi e arginare i danni, che combattere e rischiare di spezzarci.

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Libri (quasi) mai letti“Odissea” di Omerodi MARIA GIOVANNA ZICCARDI

Se è vero che “la letteratura è an-che i discorsi che si fanno sui

libri”, la letteratura, scusate, a volte crea paradossi.

Il caso: l’Odissea. L’Odissea non è più un libro, è nient’altro che lette-ratura. È un enorme esercizio intel-lettuale snocciolato dalla cattedra al popolo. L’eterno (e un po’ sterile) dilemma del sapere a prezzo di su-permercato. Ma non perdiamoci: io vorrei soltanto mettere a fuoco questo: dell’Odissea tutti sanno, tutti parlano, e pochi, pochissimi, se la sono letta davvero. Per intero, per piacere. Io di lei che ne ho fatto? Ho imparato a memoria il prologo in prima liceo. Perfino la tradu-zione me l’hanno data già pronta per essere ben compitata. Qualche anno dopo ho letto una bella lettu-ra di Citati sul perché, il per come e il per dove delle peripezie di Ulisse. Senza mai partirci, con Ulisse.

Insomma, vittima anch’io di una secolare congiura: sverginare l’Odissea. La spiegazione che di-venta dispersione, vivisezione. E distilla la bellezza in teoria. Non è certo con la bella figura davanti alla Prof che fai tua una storia. E del resto, chi ce lo fa fare di anda-re a leggerci un presunto mattone di cui sembra che sappiamo più di Omero stesso (e i più preparati ag-giungono: “che non si sa nemmeno se sia esistito”)? Sì, appunto, siamo preparati. Nessuno può dire di non conoscere l’Odissea esattamente come nessuno può dire di cono-scerla “dal vivo”.

Vi pare che ci stiano privando di poco? E che in fondo sarebbe no-ioso-difficile-alienante leggercela tutta, da soli? E’ sempre la solita storia del “non abbiamo gli stru-menti per”. Può essere, ma perché non provarci… Magari in una bella traduzione con qualche nota qua e là, tanto per frugare nel back-stage; o semplicemente tenendola sul comodino come un pacchetto di caramelle, sfogliandola come si sfogliano le poesie di Montale.

Il fatto è che Omero (o chi per lui) ci lascia un esperimento narrativo da brivido, che merita la pienezza di una lettura solitaria, abbandonata, im-mediata, gratuita, non spossata dai chiarimenti. Il sottotesto, per i capolavori, è soltanto un orpello.

La complessità dell’intreccio e dei caratteri è tutta orchestrata dalle parole, le vere registe dell’opera. Le parole, nella lingua greca, sono capaci di sprigionare una potenza di significato tale da trasformarsi in microstorie dentro la storia. E nell’Odissea le vedi danzare in-sieme, in movimento come onde, combinando luci e specchi, in-trecciando enigmi e trabocchetti, celando sentimenti come segreti, perché l’ombra a volte è più im-portante della luce. Un aggettivo è sempre di più di se stesso; aggiun-ge, precisa, ritorna, rimanda, ricor-da, colora, racconta, tesse l’imma-gine e crea l’atmosfera. Atmosfere sempre calibrate su ogni singola fase di questa spettacolare partita col destino, il Fato, che qualcosa di più del capriccio degli dei.

Omero combina poesia e prosa insieme. E l’intero delle due è più della loro somma; è musica, affre-sco, forza espressiva incontenibile eppure sempre in equilibrio con l’insieme. Vale quel piccolo sforzo che, causa le nostre (più o meno granitiche) abitudini narrative, il testo ci chiede.

Leggiamola, l’Odissea, dopodiché la filologia, la bibliografia, Citati e la Prof, ci rendono ottimi servizi. Però leggiamola. Senza intimorir-ci, ma rivendicando il diritto alla sua bellezza. Che è poi il diritto di dire “mi fa schifo”.

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Al giornalismo sportivo piace dire che “la palla è rotonda”.

Addetti, nerd e maniaci sanno però che la palla non è affatto rotonda. Nella sua forma classica, piuttosto, si tratta di un solido archimedeo composto da 12 pentagoni e 20 esa-goni, disposti in modo che ciascun pentagono sia circondato da 5 esa-goni. Pare che il colpo di genio sia venuto al fullerene C60, una mole-cola composta da 60 atomi di car-bonio sistemati proprio in questo modo. Modo curioso, a ben vedere: in sua virtù qualcosa di squadrato, di massimamente squadrato, roto-la e, soprattutto, rotola un po’ dove gli pare, finendo davanti ai piedi delle persone più diverse.

Così, una volta fermatasi, la palla guarda in su e, se tutto è ‘pallosa-mente’ andato come doveva ‘pal-losamente’ andare, vede Filippo Inzaghi. Quest’uomo, oltre ad aver realizzato una quantità elefantiaca di goal, incarna le virtù dell’atleta perfetto ed esprime nella vita pri-vata tutta la noia della quale solo in campo trova il modo di farsi perdo-nare. La sua dieta è lageristica: bre-saola scondita, petto di pollo, pasta in bianco e biscottini plasmon. Suo padre lo prende per il culo conti-

nuamente: “Beviti quattro whiskey, vai in campo e spaccali tutti” dice, ma Pippo apre i suoi grandi oc-chioni, non capisce assolutamente nulla e guardando un punto im-precisato nel muro color bresaola mangia un altro plasmon. “Cazzo” pensa suo padre. Il problema è che Pippo sta cercando di rilassarsi, perché fra poco gioca e la tensione lo divora. Soffre di insonnia, sape-te? Non ha altra preoccupazione al mondo se non quella di giocare a calcio, eppure soffre di insonnia. A 36 anni, Pippo segna ancora e per festeggiare aggiunge un po’ di po-modoro alla pasta in bianco. ‘Vaf-fanculo’, a conti fatti, mi sembra il minimo.

Se qualcosa va storto, invece, la palla si ferma davanti a piedi sporchi di vomito e se guarda in su vede Paul Gascoigne, il talento in-glese di Gateshead, postaccio tanto umido che non si riesce mai a ca-pire dove finisca la pioggia e dove cominci la birra. Gemma assoluta del calcio britannico, Paul Gazza Gascoigne, che in virtù dell’ingiu-stizia cosmica morirà sicuramente nel giro dei prossimi cinque anni, ha un solo problema: confonde l’al-col con l’aria e quindi beve sempre.

Anche prima di giocare? Qualcuno pensava di no, che questo – cazzo – almeno questo non fosse possibile. Nel 1992, con la maglia della Lazio, segna un goal di una bellezza ridi-cola, scartando settecentoventisei avversari in un nulla di tempo. Dopo un po’ dirà: “Ah ah ah! Ero ubriaco fradicio!”. Vero? Falso? Chissà. Nel frattempo entra ed esce da stati comatosi, lo ricoverano con la stessa frequenza con cui voi altri andate a cacare e lo arrestano an-cora più spesso. Ma quel goal, quel goal incredibile, anche a distanza di anni, il vecchio Gazza non se lo scorda. Qualche mese fa, cacciato a pedate da un pronto soccorso in cui era arrivato schiu-mando chissà cosa dalla bocca, finisce addosso a un suo vecchio fan. Questo lo riconosce e gli dice: “Cristo, ma tu sei Gazza. Quella volta con la Lazio hai fatto un goal impressionante!”. Gazza sorride, perché ok che beve ma è pur sempre un gran simpaticone, e dice: “Me lo ricordo come fos-se ieri, ragazzo. Gioca-vamo contro il Napoli di Maradona. Fu una cosa memorabile”.

Due cosette, gente. Due cosette veloci veloci.

La prima: quando Gaz-za fece quel goal, Mara-dona non giocava più nel Napoli. La seconda: la squadra a cui lo fece non era nemmeno il Napoli. Era il Pescara. E a Pesca-ra c’è parecchia gente che ve lo può conferma-re. “Ah ah ah! Ero ubria-co fradicio!” dice Gazza. Chissà. A Gazza piaccio-no i goal e i giocatori che ne fanno tanti: un giorno va da Beppe Signori, suo minuto e prolifico com-pagno di squadra, e gli

LetteratureinvolontarieDai Plasmon a Gateshe-ad. I misteri calcisitici del Fullerene C60di EDOARDO LUCATTI

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Verbosometro

Ritaglia il verb osomet roe attaccalo sulla schien a

del tuo amico verboso

chiede: “Ma come fai a segnare così tanto con quel fisico di merda che ti ritrovi?”. Poi farnetica qualcosa su un paio di squinzie che lo aspetta-no in qualche bettola, abbandona la squadra senza dire nulla e si ri-presenta il giorno dopo, a meno di quattro ora da una partita di serie A, mentre tutti i compagni sono a tavola con il mister. Siamo in un ri-storante di Roma, e Gazza ci entra nudo. “Eccomi mister – dice chiap-pe all’aria in mezzo ai camerieri – Mi hanno detto che mi stava cer-cando così sono venuto subito, così com’ero”. Poi sparisce di nuovo, si fa male e finisce in squadre sempre più inutili, bevendo perfino tra un

tempo e l’altro. A un allenamento, un giorno, libera in campo un tac-chino con un fischietto scocciato sul becco e comincia a corrergli dietro. Durante la partita succes-siva ruba il cartellino giallo all’ar-bitro e prima di ridarglielo fa finta di ammonirlo: uno dei due guar-dalinee comincia a piangere dalle risate. Nella stessa partita, o forse in un’altra, l’arbitro alza il braccio per fischiare una punizione, lui lo raggiunge da dietro, sporge la testa e gli annusa l’ascella. Cose così. Nel 2007 viene operato d’urgenza per un’ulcera perforante, la moglie lo lascia e lo riprende. All’inizio di quest’anno, però, è lui a piantarla: gli ha imposto di scegliere fra lei e gli Iron Maiden, e a Gazza piaccio-no molto gli Iron Maiden. Così ar-riva a Budapest per seguire la band ma si chiude in albergo e ci rimane per 48 ore, da solo, a bere, finché qualcuno non sfonda la porta o lo estrae mezzo morto. “Sono in Fran-cia, vero?” chiede Gazza. Un’altra possibilità, gli serve un’altra possi-bilità. Invitato a far parte dello staff tecnico del Newcastle, Gazza sale sul treno e il 4 giugno, a Newcastle - che diamine! - ci arriva davvero. Solo che è in condizioni pietose e frana addosso a un uomo, che ri-esce a reggerlo a malapena. “Chi sei?” gli chiede. “Che cazzo ne so?” risponde Gazza “So solo che al Na-poli ho fatto un goal assurdo”.

Vorrei dirvi questo: non è im-portante che vi interessi il calcio. A quelli a cui piace Inzaghi, del resto, non può piacere “il calcio”. Ma pure per godersi Gascoigne non è neces-sario amare il calcio. È qualcosa di diverso, qualcosa che oscilla nell’aria come una fetta di bresa-ola caduta nella schiuma di una Guinness, vaga fluttuanza di sorti, sfere e gomiti. Per fortuna c’è You-tube, miei cari. Cercatevi Inghilter-ra Scozia, Campionati Europei del 1996. E sappiate che quella cosa lì, quella dannata meraviglia di Gaz-za, è successa davvero.

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Stavolta mi tocca la punizione. Autoinflitta, tra l’altro. Ma di-

ciamo pure che mi è capitata un po’ per caso quando mi sono ritrovato tra le mani un romanzo dal titolo quanto mai agghiacciante: Ho 13 anni e voglio morire. Sottotitolo: L’esperienza dolorosa di un’adole-scente che sceglie di rinunciare alla vita. In copertina una ragazzina con gli occhi tristi e i capelli ros-si, una che, coi tempi che corrono, molto probabilmente sarebbe una “emo”.

Premessa. Qualche mese fa mio fratello si è diplomato con una te-sina sul suicidio e questo libro di tale Othilie Bailly, autrice francese avvezza a trattare i problemi adole-scenziali, era uno dei suoi testi di riferimento. (?!) Badate bene, mio fratello non ha letto né Foscolo né Schopenhauer, e non c’è da mera-vigliarsi che sia uscito giusto giusto col 61. E non c’è neppure da mera-vigliarsi che il mio approccio ini-ziale alla lettura fosse un tantino diffidente.

Per prima cosa scopro che è un libro del ’96, e mi dico: “Cavolo, an-che io nel ’96 avevo 13 anni…”. Pro-seguo la lettura e inizio a conoscere meglio la piccola Agnès, depressa perché frequenta un “istituto” e non una “scuola”. Mmm… anche io alle medie ero in un istituto: Isti-tuto Salesiano Enrico di Sardagna. Ma che diavolo…

Punizioni!“Ho 13 anni e voglio mo-rire” di Ohthilie Baillydi MICHELE MARCON

E qualche pagina più tardi mi tocca la rivelazione più dolorosa. I genitori di Agnès vivono una pro-fonda e orribile crisi coniugale. An-che i miei, proprio in quel periodo, decisero di separarsi. Un brivido. Identificazione totale. Tranne per il fatto che io non ero e non sono mai stato un emo. Resto comunque spiazzato.

Dopo lo scetticismo iniziale ho proseguito la lettura tutto d’un fiato scoprendo che Agnès è una ragazza forte e con le spalle lar-ghe, rimanendo sconcertato una volta giunto al finale aperto. Ma si suicida o no? Per il benessere della mia salute emotiva mi sono det-to che Agnès DEVE essere ancora viva. Agnès è una tipa tosta, mica come tutti quegli emo rammolliti dei giorni nostri. Però la domanda ha continuato ad assillarmi qual-che giorno, tanto che sono andato a controllare i tassi di suicidio adole-scenziale e di divorzio, fonte ISTAT, dal 1996 a oggi. C’è stata una cre-scita del 10% dei suicidi, mentre i divorzi sono aumentati addirittura dell’80%. Ma, considerando che il 90% dei suicidi tra gli adolescenti è causato da traumi familiari, ho tirato un sospiro di sollievo. Facen-do la proporzione, i suicidi in rap-porto ai divorzi sono nettamente diminuiti. Mi piace pensare che il libro della Bailly abbia influito po-sitivamente sugli andamenti per-centuali.

Verbosometro

L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di

verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e

l’avvolvere.

Da 0 a 5 espressioni verbose.Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire.

Da 5 a 10 espressioni verbose.Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana.

Da 10 a 15 espressioni verbose.Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa.

Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce - per ovunque - si dissipa.

Più di 20 espressioni verbose.Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo.

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A questo punto, siccome mi sono inflitto una puni-zione che si è rivelata ben più dura della lettura di un brutto libro, perché ha riaperto ferite che credevo ci-catrizzate ormai da tempo, lasciate che mi sfoghi con un bel pistolotto finale. Non voglio dire che i ragazzi che superano il divorzio dei genitori e l’idea del suici-dio siano meglio degli altri, ma è evidente che si cresce superando gli ostacoli della vita, e superare indenni ostacoli di questo calibro non può che essere una bella

iniezione di fiducia. E ora voi, genitori. Se vi è balenata in mente l’idea di separarvi, pensateci bene… sono solo dei bambini, è una tragedia che già a 13 anni siano por-tati ed escludere il futuro dalle loro vite.

Detto questo, come fossi il parroco che ha appena pronunciato il predicozzo, non mi resta che chiudere salutando tutti con un bell’Amen.

Biografie edulcorateRaymond Carverdi ANDREA MEREGALLI

un mentore. Io lo aspetto tuttora. John Gardner. Chi? John Gardner. Ah, certo, John. Il professore che inizia il buon Raymond ai piaceri della letteratura seria, con fronzoli e, perchè no, altisonante. Sicché, il nostro uomo della biografia attacca a frequentare gli ambienti intellet-tuali: coppe di champagne, mani sotto il mento, voce impostata.

I racconti di Carver incomincia-no a essere pubblicati su riviste più o meno importanti. Ma il grano si fa attendere. Nel 1964 ottiene una borsa di studio di 500 dollari per un master di scrittura creativa. Che figata. Ma se ne va a Sacramento e trova lavoro come custode di un ospedale, un ottimo impiego (se-condo lui, ovvio) che gli permette di scrivere lontano dalle due picco-le pesti. Come commenta lui stes-so: « Devo dire che l’influsso più grande sulla mia vita, e sulla mia scrittura, è venuto, direttamente o indirettamente, dai miei due figli. Sono nati prima che avessi vent’an-ni, e dal primo all’ultimo giorno

che abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, circa diciannove anni in tut-to, non c’è stata una singola zona della mia vita nella quale il loro pe-sante, talora malefico influsso non sia arrivato. »

Verso la fine dei sessanta per Carver la musica cambia. Ha più tempo per scrivere e, soprattut-to, si butta nella poesia. Vive un decennio (’60-’70) relativamente tranquillo, con lavori impiegatizi e racconti e poesie pubblicate qui e pubblicate lì. Nei primi anni set-tanta vedono la luce raccolte di po-esia e di racconti. Ma l’alcolismo, di cui soffre praticamente dalla na-scita, lo trascina sul lastrico. E qui ha inizio un tira e molla piuttosto noioso. Lavori che cambiano, rac-conti e poesie, litigi con la moglie, botte alla moglie, corna alla mo-glie, sputi alla moglie. Insomma, ci siamo capiti.

Nel 1977 conosce Tess Gallagher, una poetessa. E indovinate un po’. Dice ciao ciao alla prima moglie e

Carver sì. Carver no. Carver boh. Alla fine sì. Raymond

Carver. Un tipo spesso. Ma perché tutte queste remore? Non è forse, il Carver, un maestro della short-story? Un precursore della teoria dell’omissione? Uno che ha fre-quentato, proprio come me, corsi di scrittura? Non è forse un poeta, perdiana? Sì! Lo è! Lo è, dannazio-ne! E si direbbe anche un fottuto alcolizzato cronico! Ma non è facile come sembra. Il Carver, intendo. Una biografia del Raymond. Un po’ Bukowski un po’ Hemingway un po’ Paul Gascoigne.

Nasce nel nord, stato di Wa-shington, è il 1938. Vent’anni dopo è già sposato, ha una figlia e ha all’attivo molteplici traslochi. Con la giovane moglie si trasferisce in California. Poi tornano nel nord, dove Raymond mette in bolla la consorte per la seconda volta e attacca con i corsi di scrittura cre-ativa. E finalmente. Arriva il men-tore. Tutti voi stavate aspettando

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si accoppia con la Tess. Il connubio è una bomba. Spe-cialmente nei primi anni ottanta. « Non ho mai vissuto prima un periodo in cui scrivere mi abbia dato tanta gioia. Mi sentivo ardere. »

Viaggi. Premi. Racconti. Poesie. Deve solo scrivere. Allora fallo, Ray. Do it. Ma, rogna nera, nel settembre 1987 un’emorragia al polmone. Un anno dopo, metasta-si al cervello. Eppure sono di questi anni le sue poesie più belle. Toccanti. Tristi. Rassegnate. Si prepara alla

morte con dignità e con paura raffinata.Se ne va il 2 agosto del 1988. A me piace ricordarlo

così.

« E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, no-nostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Sentirmi chiama-re amato, sentirmi amato sulla terra. »

Le città letterarieAddis Abeba (anzi, no: Lalibela)di SIMONE ROSSI

Una volta sono stato in Etio-pia, ci ho scritto un libro e

questo è un pezzo del libro. Mi han-no chiesto di fare finta di essere uno

scrittore che dà il suo contributo alla rubrica Città letterarie. Io ho detto: “Sì! Faccio qualcosa su Addis Abeba! Che bello! Che facile!”. Poi

ho riaperto il mio libro - non lo ria-privo da un anno - e ho scoperto che il mio pezzo preferito non parla di Addis Abeba, ma di Lalibela. Allora

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ecco un pezzo su Lalibela.

Lalibela sono undici chiese sca-vate nella roccia da un re-monaco del 14esimo secolo che si chiama Lalibela. Scavate, capito? Non sono chiese, cioè edifici edificati matto-ne su mattone: sono sculture, cioè togliere roccia a cucchiaiate finché non rimane solo quello che deve rimanere. Lalibela ci ha messo 24 anni a scavarle tutte, con martello e scalpello. Si è fatto aiutare da 40 mila operai. E dagli angeli, che di notte continuavano il lavoro ini-ziato di giorno. Lalibela in amari-co antico significa “mangiatore di miele”: il nome glielo dà sua madre, quando lo trova nella culla circon-dato da uno sciame di api senza nemmeno un becco. Da queste parti le api significano: Santità.

Così dice la leggenda: Lalibe-la Mangiamiele ha un fratel-

lo geloso, e il suo fratello geloso un bel giorno decide di ucciderlo. Lo avvelena, e Lalibela dorme un son-no di morte per tre giorni. Durante questi tre giorni Lalibela visita tutti i cerchi del cielo e arriva in Para-diso. Ma poi torna giù, perché Dio gli dice: Lalibela, costruirai una

nuova Gerusalemme in Etiopia, a immagine e somiglianza della Ge-rusalemme del cielo, così che il Mio popolo possa adorarMi.

I monaci di Lalibela sono dei vecchietti di centotrent’anni con la pelle del colore del tufo. Prega-no tutto il giorno, sgranando ro-sari grandi come corone d’aglio e leggendo l’Antico Testamento da libricini in cartapecora vecchi di secoli: li riconosci perché hanno un mantello giallo come l’oro, e perché i loro occhi sembrano non guardare da nessuna parte. Opp-pure sono ciechi. Quando viene sera i monaci dormono in dei lo-culi scavati nelle pareti di roccia. Loculi, cioè: tombe. Buchi larghi a malapena per starci accovacciati, e lunghi giusti per starci stesi: come larve, come pipistrelli, come talpe. Come animali.

Mi viene da pensare che questi uomini abbiano abolito tutto ciò che c’è di umano in un uomo, per rimanere animali in tensione verso il divino. L’umano - il cervello, il raziocinio - ti fa pensare, ragiona-re, dubitare. L’animale non pensa, non ragiona, non dubita. L’animale crede, l’animale è fedele. I frati do-

menicani si chiamano domenicani perché vuol dire Domini canis, cioè “cane del Signore”: la fedeltà cieca, prostrata, assoluta. Spaventosa.

Ma interessante. Interessante perché con un abbandono del ge-nere ti ritrovi tra le mani una po-tenza creatrice niente male: ogni oggetto diventa magico, e a furia di lucidarlo di carezze prima o poi Qualcuno ci si specchia dentro: le leggende in un posto come Lalibela sono più delle notizie. Quella va-sca, per esempio.

(Poi c’è tutta la leggenda della Vasca della Fertilità, ma era troppo lunga e non ci stava.

Tratto, con qualche modifica impercettibile, da La luna è girata strana di Simone Rossi, che sono io. Edizioni Zandegù, 12 euro, sicuro come l’oro che la tua libreria di fi-ducia non ce l’ha. Però lo puoi ordi-nare: c’è questa cosa, si chiama in-ternet e offre un sacco di possibilità)

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Scemo, dal latino sèmus, mezzo, nel senso di mancante di una parte, di poco senno. Storie che scemano e persone sceme. Esco con una ra-gazza più grande di me e questa mi paventa la possibilità di una famiglia a breve termine. Sebbene la sua presenza tra le emozioni di una vita renda più leggero il peso dell’esistenza, questo fatto mi al-lontana. Storie che scemano, visto che al suo attuale uomo si guarda

bene dall’avanzare queste aspetta-tive. Esco poi con un’altra ragazza più grande di me e nulla smuove questa volta i nostri sensi a parte un bacio. Lei non rende più legge-ro neppure il peso della ricerca del parcheggio e gioca ad essere adulta con i ragazzini diciottenni. Perso-ne sceme, visto che, allontanatomi, mi cerca nuovamente dandomi la possibilità di citare Alessandro Bergonzoni: «A fare?», mentre sa-luto con la mano come la Regina Elisabetta.

«“Mentire o morire?” Ma nem-meno questo alla fine importa. È piuttosto una voluttà, la voluttà di cedere senza volersi aggrappare. Preferire questo a tutto il resto. Per vocazione, per inclinazione a im-boccare strade laterali. Lasciarsi andare al dominio degli eventi, e che scelgano loro la fine» sostiene Vinicio Capossela nel suo primo romanzo, che scema di pagina in

pagina in una circolarità spossan-te ed artisticamente giustificabile nella misura in cui possono esserlo i concerti jazz di Woody Allen.

Del resto siamo fatti di contrad-dizioni, di cose giuste e sbagliate. Siamo tanto tristi eppure bellissi-mi. Non scegliamo la vita come lei sceglie noi, e nel suo giogo continu-iamo a vivere e cantare e mangiare e bere e fare l’amore nonostante

il dio che ci siamo scelti e le troppe vicende che ci col-gono impreparati. Camminando tra le macerie ci compor-tiamo come pazzi, scemi in storie che scemano. Raccon-ta Luciano de Cre-scenzo: «Se penso di aver avuto quat-tro primi amori, e non quattro amori diversi [...] é perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona

[...] che ogni volta ha voluto indos-sare un nome e un aspetto diversi come la dea Tetide quando non vo-leva farsi possedere da Peleo. [...] Io invece (e di questo sono sicuro) non sono mai stato lo stesso uomo. [...] Questa pertanto non é la storia di un uomo e di quattro donne, ma di una donna e di quattro uomini, tutti innamorati di lei». Siamo ma-linconici e bellissimi.

Mi sono venuti in mente in que-sto articolo: Jacques Cazotte - Il Diavolo innamorato (Mondolibro, 90 pp. 4,13 euro); Oscar Wilde - Il ritratto di Dorian Gray (Garzanti, 304 pp. 6,90 euro); Raymond Radi-guet - Il Diavolo in Corpo (Newton Compton, 123 pp. 5 euro); Vini-cio Capossela - Non si muore tutte le mattine (Feltrinelli, 333 pp. 16 euro); Luciano de Crescenzo - Vita di Luciano de Crescenzo scritta da lui medesimo (Mondadori, 2,52 pp. 8,80 euro)

Ho riso tantissimo leggendo la recensione di Watchmen

di Marina Pierri (Finzioni n°1) all’idea che la narrazione fosse de-ficiente nel senso latino di deficere. Il mondo é pieno di storie deficien-ti, di sensi latini di deficere, di sto-rie che scemano e di persone sce-me. Siamo incoerenti, malinconici e bellissimi.

Scemano i propositi di Alvaro nel romanzo di Jacques Ca-zotte. Stringe un patto con Belzebù, che servirà il prota-gonista del romanzo a patto che questi non lo faccia mai soffrire. Il Diavolo gli si pre-senta sotto forma di una bel-lissima ragazza, e con una serie di stratagemmi riesce a spingerlo ad abbandonarvisi. Solo alla fine Alvaro torna sui propri passi ed allontana il Demonio. Scemano i propositi di Dorian Gray nel romanzo di Oscar Wilde. Stringe un patto con il Diavolo affinché in sua vece invecchi un suo ritratto. Così Dorian rimane giovane, dandy e vittoriano mentre il ritrat-to invecchia sino ad assumere sem-bianze mostruose. Ancora alla fine del romanzo, il protagonista torna sui propri passi. Verrà ritrovato il cadavere di un vecchio deformato dalla depravazione accanto al qua-dro di un bel giovane. Scemano le possibilità di un futuro sincero con il proprio uomo al termine dalla guerra ne Il Diavolo in Corpo, ro-manzo di Raymond Radiguet. Del resto lo si é tradito per quattro anni con un ragazzino troppo giovane per essere chiamato alla leva. Con-cludiamo quindi quella che sem-bra una trilogia demoniaca con Jacques che parte in guerra e Mar-the che stringe una adultera storia d’amore. Al termine della narra-zione, Jacques torna dal fronte e Marthe cresce un figlio che porta il nome del protagonista e del qua-le non si conosce chi sia il padre. Quando Marthe muore invoca il nome del figlio, o forse dell’amante.

ViaggiStorie che scemano

e persone sceme. di ALESSANDRO POLLINI

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modo oltre a rendere il mondo un posto migliore trova anche l’ener-gia per campare! Che figata!! Infatti questo fungo assorbe una molecola di glucosio (zucchero, presente in abbondanza nell’uva e nel malto d’orzo) e la converte a sottoprodotti meno energetici (alcool etilico) per trovare l’energia per vivere. A que-sto punto espelle i sottoprodotti, per lui dannosi, e continua. Quindi il saccharomyces cerevisiae caga alcool. Molto bene! Oltretutto que-sto microorganismo non si limita a fermentare solo il glucosio per dar-ci l’alcool, ma, finché c’è, fermenta, in misura minore, altre sostanze per dare gli aromi. Come se già non

fosse abbastanza.

Ed ecco perché un vino non sarà mai con gradazione alcolica supe-riore ai 15-16 gradi alcolici: il pove-ro lievito sopra ad una tale concen-trazione muore, intossicato in un mare di feci. Questo è decisamente meno poetico, ma si sa, la natura è beffarda e crudele. In realtà ci sono vari tipi (ceppi) di lieviti, ed ognu-no è più o meno resistente all’al-cool per cui si possono avere fer-mentazioni che portano a diverse gradazioni alcoliche: le birre non più del 8% mentre i vini si attestano attorno al 12-13%. Oltretutto diver-si ceppi fermenteranno in maniera diversa diverse uve e diversi mosti. Ecco spiegato il perché ci sono così tanti vini e così tante birre.

Capiamo però che il saccaromi-cete ci regala solo vino e birra. Ma se vogliamo bere tosto il nostro amico non ci produce la grappa, dato che non regge l’alcool e crepa troppo presto. Bisogna ricorrere a trucchi. Ad esempio, la grappa e simili vengono distillati mentre il porto, ottimo vino liquoroso por-toghese, lo si produce bloccando la fermentazione del mosto nelle fasi iniziali con l’aggiunta di un distillato di vino. Il lievito muore per il troppo alcool e non riesce a consumare tutti gli zuccheri, ab-biamo così un vino molto alcoolico e dolce.

Ma se il lievito di birra quando fermenta produce alcool perché il pane non ci sbronza? Perché, come abbiamo detto, per la fermentazio-ne alcolica è necessaria l’assenza di ossigeno. Quando noi facciamo lievitare il pane all’aria gli zucche-ri della farina vengono degradati totalmente fino ad anidride car-bonica, gas, così il pane si gonfia e diventa morbido.

Se chiedete in un asilo “quali sono i vostri sogni?” i bimbi

vi diranno un sacco di fregnacce, ma statisticamente un corposo gruppetto vi risponderà dicendo che il loro sogno più recondito è la cacca profumata. Son strani i bam-bini. Evidentemente qualcuno ha fiutato l’affare e in giappone qual-che anno fa inventarono e com-mercializzarono delle pillole che, garantivano, avrebbero donato alle feci un gradevole odore di gelsomi-no. Poi queste pillole furono ritirate dal commercio perché tossiche, ma questa è un’altra storia. Son strani i giapponesi, ancora più dei bam-bini.

Chi invece fa la cacca profuma-ta e prelibata è il saccharomyces cerevisiae. Il saccaromiceto dei nostri sogni! Evviva e lode al sac-charomyces cerevisiae! Si tratta di fungo unicellulare, dall’aspetto assolutamente innocuo ma si trat-ta niente po’ po’ di meno che del lievito. Il famoso lievito di birra, il fungo amico che trasforma lo zuc-chero dell’orzo e dell’uva nell’al-cool della birra e del vino! Eh sì signori, la cacca di questo essere profuma, eccome! Infatti il S.C. si nutre di zuccheri che, quando è all’aria, brucia ad anidride carbo-nica. Come facciamo noi umani. Però mentre noi umani in assenza di ossigeno semplicemente moria-mo il lievito in ambiente anaerobi-co non solo non muore ma degrada lo zucchero ad alcool, e in questo

Pillole di scienzaLa cacca profumatadi FABIO PARIS

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Manicomio!” (prime tre righe di Wikipedia).

A un certo punto un Personaggio vorrà uscire dalla scena, scendere dal palcoscenico, farla finita con la commedia: è il Figlio, e se fosse stato per lui la commedia non sa-rebbe nemmeno iniziata. “Il Figlio resterà proteso verso la scaletta, ma, come legato da un potere occul-to, non potrà scenderne gli scalini” (corsivo mio. In realtà sarebbe tut-to corsivo: è un’indicazione di sce-na). L’importante è non cadere dal palco, dice Paolo Rossi. Cadere dal palco di Pirandello è impossibile, perché il giuoco di bussolotti è in realtà (?) un giuoco di scatole cine-si: l’Autore (che non c’è) ha messo un palco sotto al palco, e sotto a quel palco ha messo un altro palco, e sotto all’ultimo palco ha messo l’oscurità, “e la scienza umana non vede più oltre” (cit.).

Pirandello ha paura. Sai perché? Perché usa la magia: il Figlio è trat-tenuto da un “potere occulto”, ap-punto. Trenta righe dopo, la Madre è attirata dalla “virtù magica” della Figliastra (buona, quella). Quando in un’opera di finzione le cose suc-cedono per magia, senza spiega-zione, per potere occulto, occhio: la cialtroneria è vicina. L’Autore non può spiegare a parole la forza che inchioda un personaggio alla scena, e allora l’attore è costretto a fare la pantomima di quello-che-sbatte-contro-un-muro-invisibile per rappresentare sulla scena la potenza della scena. Sbàm.

Occhio alle maiuscole e alle mi-nuscole: il giovane attore che inter-preta il Figlio non è l’Attor Giovane: c’è un giovane attore che interpreta l’Attor Giovane, il quale a sua vol-ta dovrà interpretare il Figlio, che è interpretato da un altro giovane attore. Sembrano tanti, e invece sono solo in due. Manicomio! Ma-nicomio!

Le luci sono accese nel buco nero di platea in cui siamo seduti, i Personaggi vivono tra le poltrone e gli Attori stanno spesso a guar-dare, ruolo che di solito compete agli spettatori. E lo spettatore, che in questa rubrica si chiama lettore, assiste allo sfascio di una famiglia e a un incesto e a un infanticidio e ogni tanto ride, perché arriva dal fondo del teatro Madama Pace, “megera d’enorme grassezza”. La Madama si fuma dei gran paglio-ni e non si capisce niente quando parla, e quando sorride fa usare a Pirandello un aggettivo perfetto: “Madama Pace sorriderà di un im-pagabile sorriso”. Impagabile. Che matto, questo Autore.

Ma io non capisco più dove sia-mo, né di che si tratti!

Questo è un giuoco di bussolotti!

Ah, no me par bona crianza che loro ridano de mi, si yò me sfuer-zo de hablar, como podo, italiano, señor!

(...) sopraffatta da un émpito d’incontenibile ambascia (...)

Il guaio è questo, carina: che è tutto finto, qua.

Finzione! Realtà! Andate al dia-volo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!

Vado avanti a botte di Twitter fino alla fine? No, dai. Lu-

igi Pirandello tiene una minchia tanta, ma io mi rifiuto di leggere le Prefazioni in cui un Autore si rivolge alla propria Fantasia per-sonificandola con la F maiuscola e chiamandola “servetta sveltissi-ma”. Detto ciò, se questa roba qua se l’avesse diretta Michel Gondry o Spike Jonze sareste ancora tutti lì chiusi in bagno a toccarvi. Ben-tornati a Oh, Scena!, la rubrica che affronta con settant’anni di ritardo i testi fondamentali del teatro ita-liano. Puntata Sei: Sei personaggi in cerca d’autore è il dramma più famoso di Luigi Pirandello. “Esso fu rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, ma in quell’occasione ebbe un esito tempestoso, perché molti spettatori contestarono la rappre-sentazione al grido di Manicomio!

Oh, Scena!Manicomio! Manicomio! di SIMONE ROSSI

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resina, l’eloquio era una virtù. Mol-to tempo prima, ma il discorso in sé non cambia, la retorica era un’arte che, se coltivata, portava coloro che sapevano servirsene ad un livello superiore di esistenza. Insomma: retori, letterati, poeti, studiosi, accademici, erano persone rispet-tate e ben considerate in società. Facevano parte di quella che oggi potremmo chiamare “upper class”.

L’altro giorno stavo bevendo uno spritz e, chiacchierando con ami-ci, mi è uscito di bocca un termine ai più insolito: simulacro. Han-no sgranato gli occhi, fissandomi come fossi un’entità extranormale. Dopodichè hanno iniziato a sfot-termi per quel parolone inusitato e desueto. La presa per il culo non è certo finita lì. Ma vi rendete con-to? Una volta con le belle parole e le belle idee supportate dalle belle parole si conquistavano giovani pulzelle e si facevano rivoluzio-ni. Oppure si scrivevano bei libri, come il Candide di Voltaire, in cui si narrano le vicende di un giova-ne ben educato che conquista la giovane pulzella e preannuncia la rivoluzione. Oggi il nostro vocabo-lario sembra inevitabilmente com-promesso, e le belle parole sono sempre più difficili da udire. La mia non vuole essere una di quelle no-stalgiche critiche da nonnetto ul-traottantenne, del tipo “ah, ai miei tempi saltavo i fossi in lungo…”, non sia mai. E neppure voglio dire che dobbiamo tutti diventare come

Spesso le cose, qualsiasi cosa, prima di morire si trasforma-

no in qualcos’altro. Subiscono dei processi che a volte le migliorano e a volte le deteriorano. Alcune cose sopravvivono. Nessuna, per quanto ne so, dura in eterno.

Benvenuti nella nuova rubri-ca di Finzioni che parla di

evoluzioni ed involuzioni, delle trasformazioni della parola di fron-te alle spinte di nuove tecnologie, e, più in generale, di tutte le situa-zioni liminali in cui si trova la let-teratura. O meglio, la “letteratura” (con gli empi diacritici), così come l’ha intesa Gabriele Frasca in quel bel saggio da cui è stato ricavato il titolo di questa rubrica: La lettera che muore, appunto.

La lettera muore ogni giorno, sotto i campanili dei paesini di campagna e sopra l’asfalto bollente delle grandi città, tra le panche del-la sagra della porchetta e le vetrine di Zara e H&M. E con lei muore un pochino anche la sua figlioccia pre-diletta, la “letteratura”. Così la let-tera muore, e io mi sfogo: mi sono rotto i coglioni! (leggete pure silla-bando bene le parole).

Fino a qualche tempo fa, proba-bilmente quando noi redattori di Finzioni giocavamo ancora con le bambole e i soldatini e ci arram-picavamo sugli alberi tornando a casa con le mani impiastricciate di

Petrus Comestor, il topo da biblio-teca per eccellenza. È solo un moti-vo per riflettere e, vi avevo avvisati, uno sfogo.

Potrei dire, tirandomela un po-chino, che la perniciosa ingerenza mediatica e l’odierna flemma fa-vellare contribuiscono a distorcere l’immagine dell’erudito, costruen-do un simulacro differenziale che inficia la rappresentatività del soggetto in causa in favore di una prensione tanto eidetica quanto infondata degli attuali valori i gio-co. Tale convinzione aberrante non può che radicare in me, e in altri spiriti liberi, una profonda com-pressione ghiandolare sfociante in un totale sfascio dei corbelli, con tanto di riversamento del liquido in essi contenuto.

Ma non sono uno che se la tira, e tra l’altro non ho ben chiaro nem-meno io quello che ho appena scrit-to. Per cui preferisco dire: mi sono rotto i coglioni! È più immediato, e lo capiscono tutti.

La lettera che muoreIl simulacro di una contesa: corbelli versus coglionidi MICHELE MARCON

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gio ossessionato dalle armi da fuo-co, dislessico esegeta marxista e trockista, che prendeva a cazzotti la moglie russa e che a ventiquat-tro anni entrò nella storia come the man who shot the president, DeLillo – e qui sta il bello – nemmeno pro-va a raccontarci testa e cuore. Tutto Libra, anzi, è un romanzo che ade-risce splendidamente alla super-ficie e che ci racconta una serie di biografie moralmente edulcorate perché non sa che farsene di qual-sivoglia introspezione psicologi-ca. I personaggi delilliani sono in fondo creature tutt’altro che me-morabili: essenze volatili senza un desiderio che sia uno, si ritrovano a condurre esistenze semplicemente sostitutive e vicarie, al limite con-sacrandosi all’allestimento di pon-derosi databases di dati o finendo per vedere nell’esistente, come farà il Nick Shay protagonista di Under-world, nient’altro che un «tessuto di conoscenze accumulate».

Di più, come nel memorabile in-cipit di Mao II, tutti si somigliano o, se volete, nessuno è mai davvero se stesso: chiunque ha almeno due nomi, uno ufficiale e uno segre-to, più eventuali pseudonimi, le controfigure e i sosia proliferano, ognuno infine sopraffatto da quel «grande mosaico di sospetti, sof-fiate e desideri segreti» (la Storia) il cui fine è «arrampicarti fuori dalla pelle». Poi ci sono agenti governa-tivi in pensione che in realtà tra-mano la morte del presidente, spie

russe dalla dubbia morale, castristi collusi con la mafia… Risultato? A volte non si capisce proprio una mazza. Anche perché non solo devi scendere a patti con il fatto che nel mondo di DeLillo tutto, o quasi, è sempre insidiosamente duplice, ma pure perché devi conoscere benino la storia americana, o altri-menti essere disposto a trascorrere ore su Wikipedia per ripassare chi diavolo erano gli esuli cubani o per ricordare che JFK inciuciava con la donna di un boss mafioso e che insomma, umanamente parlando non era proprio uno stinco di san-to.

Morale della favola? Duplice, anche stavolta. Primo, per evitare di annoiarsi o per godersi bene i mattoni bisogna conoscere e avere letto parecchi altri libri. Secondo, dietro un mattone ce n’è sempre almeno un altro molto più grosso e ingombrante. Ce lo insegnano lo stesso DeLillo e il suo alter ego romanzesco Nicholas Branch, en-trambi alle prese con i ventisei volumi del Rapporto Warren, «il romanzo esplosivo che James Joyce avrebbe scritto se si fosse trasferito a Iowa City e avesse campato fino a cent’anni», entrambi rinchiusi in stanze colme di libri e carte dove lentamente «diventano vecchi», e che mentre cercano, con un senso di «responsabile ossessione», di acquisire un sapere documentario sui fatti di Dallas, «abbandonano la propria vita». Come l’avo Gustave Flaubert, che nella foga di appren-dere più cose possibili per termi-nare il suo «livre sur rien» Bouvard e Pécuchet prima si trasforma egli stesso in una sorta di «enciclope-dia universale» e infine ci lascia le penne.

Che bello, eh? Non vedete anche voi l’ora di dedicarvi anima e corpo a un bel mattone?

Ci sono libri che pesano e alle volte la letteratura è noiosa,

si è detto la scorsa puntata. I “mat-toni”, poi, sono quei libri che un po’ ci lasciano interdetti: ci sentiamo fichissimi e colti quando li sfoglia-mo e però ci costringono a passare ore e ore chiusi nelle nostre came-rette; ci raccontano un sacco di cose intelligenti e ci indottrinano di un sapere enciclopedico prêt-à-porter che poi, dopo settimane, po-tremo sfruttare per impressionare amici, conoscenti e tipe, ma d’altra parte ci instillano pure il dubbio che magari un libriccino da pochi grammi ci avrebbe reso vita e ri-morchio più facili.

Ecco, Libra di Don DeLillo (piuttosto che la miserina edizio-ne Einaudi si consiglia l’originale Pironti, pesante il giusto) non farà nessuna di queste due cose, anzi-tutto perché racconta antefatti e circostanze di quei «sette secondi che spezzarono la schiena al secolo americano», quei sette memorabili secondi in cui il buon John Fitzge-rald Kennedy venne fatto fuori: ciò che basta a taggarlo come “scaccia-figa”.

C’è poi da dire che se non si em-patizza più di tanto con la figura di Lee Harvey Oswald, o se, a diffe-renza del sottoscritto, non si nutre una sotterranea simpatia nei suoi confronti, risulterà immensamen-te tedioso seguirne le vicende. D’altro canto, di questo personag-

Mattoni“Libra” di Don DeLillo Peso: 1,05 kgdi FILIPPO PENNACCHIO

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esposto all’ingresso del negozio, un libro a scaffale relegato in un pertugio, una parete intera dedica-ta all’esposizione dello stesso titolo che ci guarda in faccia, e al libro di costa inserito tra Calvino e Carver perché il suo autore inizia per C. Certo, non si tratta di una distin-zione qualitativa, è puramente una questione di visibilità…che tutta-via può fare davvero la differenza (soprattutto se si pensa che quel ti-tolo si trova – in una libreria media – tra altri 30.000 titoli).

Se è così importante, come si ot-tiene dunque il migliore posto in libreria?

La casa editrice in cui lavoro – che è di dimensioni medio-piccole – ha i propri retailer (sostanzial-mente uno per ogni regione ita-liana) che con regolare cadenza assistono alla presentazione delle novità che saranno pubblicate. Il loro lavoro è quello di promuovere ciascun titolo al libraio con un cer-to sconto sul prezzo di copertina. Il libraio a sua volta deciderà quante copie prenotarne per poi disporle sui propri scaffali e valutare che posizione offrirgli: pertugio o ve-trina.

In realtà, com’è evidente a chiunque sia mai stato in una libre-ria di catena, la pole position di un titolo tra migliaia di altri è il risul-tato di un connubio tra un editore grande e un grande autore (e non servo io per dirvi che il più delle volte i “grandi” autori sono pub-blicati dai grandi editori). Certo è

che in Italia si pubblica sempre di più e che le novità in libreria hanno una rotazione sempre più rapida e veloce: due settimane in primo pia-no per poi indietreggiare e lasciare spazio al nuovo che avanza. Tanto che alcuni titoli vengono pubbli-cati, piazzati in libreria per poi, nel giro di qualche mese, finire al ma-cero senza aver venduto nemmeno una copia.

Non ci sembra, dunque, abba-stanza?

In realtà la risposta non è così semplice. Da una parte sarebbe bene pubblicare meno e meglio perché l’assortimento sempre più pulviscolare delle librerie non fa al-tro che disorientare chi vi si aggira. Dall’altra tutta questa produzione in eccesso e questo disorientamen-to potrebbe essere uno stimolo in più per chi, avendo tempo a dispo-sizione per passeggiare solitaria-mente tra gli scaffali, è curioso di conoscere meglio la realtà. Oppure desidera semplicemente evader-ne…

O no?

Amo frequentare le librerie. Le adoro. E vado sempre in

librerie diverse perché sono curio-sa. Curiosa di vedere come sono disposti i libri (per esempio se per editore o in ordine alfabetico), di annusare la qualità dell’assorti-mento, di trovare una copertina che mi colpisce (che in un’altra libreria magari non avrei notato). Eppure, ultimamente, entro in libreria, guardo il bancone delle novità…grande (a volte enorme), colorato. E mi chiedo: Non ci sem-bra abbastanza? Non ci sembrano troppi tutti questi libri? Dalle in-chieste sulla mafia all’ultimo best-seller sui vampiri ogni settimana le novità in libreria cambiano volto (anche se poi, a pensarci bene, non è che nell’insieme l’impatto cambi un granché – che seppur con au-tori e copertine diverse settimana dopo settimana ritroviamo sempre inchieste e storie di vampiri).

Ma facciamo un passo indietro…sempre perché in queste righe io dovrei parlarvi di chi sta dietro le quinte. Il libro viene scritto dall’au-tore, aggiustato dagli editor e dai redattori, prodotto e stampato dai tipografi e finalmente “lanciato” in libreria – termine non felicissimo, questo “lancio”, ma che tuttavia rende bene l’idea perché il palco-scenico del libro, il suo debutto di fronte al pubblico, avviene proprio lì: può sembrare ovvio, ma buo-na parte del successo di un titolo (e quindi del suo editore) deriva proprio dalla posizione che riesce a ottenere in libreria. Pensate alla differenza tra un libro di piatto

I ferri del mestiereNon ci sembra abbastanza?di AGNESE GUALDRINI

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sioni e poi disinteressarsene subi-tamente (“Ma sta storia che Pippo Franco si chiama in realtà Franco Pippo? Cameriere scusi dove sono le toilettes?”) al presenziare di-scussioni di tesi solo per far partire gli applausi quando non è ancora tempo o il candidato è in chiara difficoltà (così per sentire il brivido dell’inopportunità), financo riposi-zionare specularmente tutti i mo-bili della stanza di un compagno di casa secchione (“Raffaello, sul se-rio, guarda che secondo me l’arma-dio è sempre stato lì”). Quest’apolo-gia del perditempismo non ha a che fare con pratiche rispettabilissime come la contemplazione e la medi-tazione, ma sta indiscutibilmente raccogliendo molta attenzione. Il motivo ci è ignoto.

•Gentile Bettoli, anni fa Mari-

scalco in Non ho presente (ed. Tensi, 7 euro) costruì un libro parlando esclusivamente al pas-sato remoto ed al trapassato pros-simo. Nella fattispecie Mariscalco commosse il paese spennellando la vita di un cameriere smunto, Fofo Magnili, abbattutissimo dal-la sorte e da sfighe a 360°, colpito dalla sfiducia dei colleghi, ancora incapace di portare -dopo anni di esperienza- tre piatti con un brac-cio solo. Fofo Magnili condusse un’esistenza complicata, segnata da una passione per le corse dei cavalli -passione ereditata dal padre pastore-, lavorò sempre in un piccolo ristorante di Trasteve-

re e scomparve improvvisamente a 5 giorni dalla pensione. Questo libercolo di 40 pagine, che con leggera amarezza aveva sempli-cemente descritto un’esperienza *qualunque*, colpì l’immaginario dell’Italia passata con una storia senza niente da dire, o forse sì.

Luigi Mangiò, Tortona

Forse. Dopo il Belluca piran-delliano ci furono tanti altri

treni fischianti, ma questo di Ma-riscalco centrò il segno con mag-giore robustezza. Magnili fu chia-ramente un Belluca senza il dono del passato prossimo, del futuro semplice e, certamente, del pre-sente. Ah, pure del gerundio. Ma fu di più: l’assenza di buona parte dei tempi verbali corrispose all’assen-za della prospettiva. Mentre il futu-ro veniva cancellato con uno strac-cio per pulire i tavoli, il presente fu semplicemente ignorato, come se qualunque gesto fosse stato già determinato, acquisito e rigurgi-tato. Fofo Magnili non si sbloccò neanche verso la fine del libercolo, quando dichiarò a singhiozzi “’sta vita ‘nfame, manco un futuro c’eb-bi”. Poi scomparve.

•Come va Bettoli? Come ha

preso la pubblicazione del pamphlet Finzioni è una lurida finzione che circola copiosamen-te nel web e che sta screditando la credibilità vostra e del vostro (puah!) magazine di lettura crea-tiva? Mi sembra tutto chiaro, chi

Caro Bettoli, sono figlio di armatore e non ho bisogno

di lavorare, non lavoro pressoché da sempre. Questo mi permette di rimanere giovane perché il non lavorare giova al mio fisico a cui dedico molta cura. Faccio eserci-zio spesso (5 serie da 50 addomi-nali 5 volte al giorno). Mio padre gestisce l’esercizio di molte navi e quando avevo 13 anni mi ha detto: “non serve che lavori, tanto pure se guadagnassi dù sordi, zocco come sei, sarebbe irrilevante per-ché io sono molto abbiente. Senza di me che sono armatore tu saresti un misero squattrinato”. Questo ha minato la mia autostima, certo, però mi ha permesso di cazzeg-giare alla stragrande senza sensi di colpa e tra le diverse attività con cui mi tengo impegnato c’è la let-tura. Leggo i libri di de Mello. An-noto tutto su quaderni. Passeggio. Fai una roba che non c’entra nien-te di Willy Ravenna (ed. Castorin) mi ha insegnato a fare robe matte che non centrano niente e poi an-notare le reazioni della gente.

Tony, Monte Scaro

Lei c’ha (dichiaratamente) tempo da perdere. Una delle

poche cose buone che riconosco al libro di Willy Ravenna è il comuni-care sin dal titolo che si dice “non c’entra niente” e non “non centra niente”. Ma se lei ignora il presso-ché unico insegnamento positivo che si può trarre da questo libro stiamo messi male. Altro? Ravenna definisce guilty pleasures irresisti-bili e destabilizzanti pratiche che fanno tutti: dal lanciare le discus-

La Posta dei Lettori di Matteo Bettolidi MATTEO BETTOLI

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c’è dietro di voi, una popolarità vacua, il sostegno a forze eversive, culturali e non, lo scopiazzamento da Sembianze, rivista cagliaritana -quella sì veramente innovativa, il citare a sproposito Borges, Von-negut e Carlo Pastore di Mtv solo per guadagnare consenso. C’è chi dice che Finzioni è una lurida fin-zione sia roba vostra, partorita dai vostri cervelli ingrippati per fare i fichi, ma io credo piuttosto che sia tutto vero, un onesto atto d’ac-cusa contro una roba rattoppata, la vostra rivista certo ma pure la vostra testa sciocca, infingarda, approfittatrice. Non durate, non durate. Lustro e merito a Sembian-ze, e infamia cada su di voi lurido ammasso di copiatori cioccolatai impuniti e impudenti. Siete vuoti!

Rossano Simoni, Cuculi

Ma che è Sembianze? Giu-ro che non sono stato in

grado di trovarlo, né sul web ne altrove, ho chiesto in giro, ho pure telefonato ad un mio amico sar-do. E questo turpiloquio? Scusi ma non ci sono abituato, non ne comprendo le motivazioni ultime. Riguardo a Finzioni è una lurida finzione ebbene sì, l’ho letto e l’ho trovato delirante al punto da es-sere coinvolgente. Mi fa sogghi-gnare soprattutto la parte in cui il sedicente collettivo si scaglia con-tro Cirillo e la sua “compilazione irritante”, Paris e le sue “fandonie fantascientifiche” e Rossi che “par-la di teatro ma in un teatro non lo farebbero mai entrare”. Simpatico pure questo ribadire fino allo sfi-nimento che Finzioni è copiato da Sembianze, talvolta tramite alle-

gorie portentose (“Finzioni è come l’alcool denaturato negli anni ‘80, panacea di tutti i mali ed essenza prodigiosa del disinfettamento. In realtà abbiamo scoperto a nostre spese e con grande bruciore di gi-nocchia sbucciate che l’alcool non serviva ad un beneamato. Molto meglio l’acqua ossigenata, di cui invocavamo l’utilizzo ma che usa-va solo la mamma buona, mentre il padre perseverava nell’adoperare l’alcool bruciante che -proprio per-ché bruciante- avrebbe dovuto di-sinfettare di più, ma aveva ragione mamma. Ecco, l’acqua ossigenata è Sembianze.”, p. 4). Non sia complot-tista, Rossano, facciamo pace e mi mandi una copia di Sembianze.

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visto che tutto torna sempre ugua-le a se stesso e il cattivo equilibrio iniziale si ricostituisce. Il primo piano inizia ad essere interessante perché i Simpson, ora che ci pensi, sono il perfetto stereotipo di unità domestica made in USA. Al secon-do piano la faccenda si fa davvero avvincente. La situazione delle donne nel mondo giallo della gen-te gialla è molto amara: ecco sfila-re casalinghe frustrate, bambine prodigio, bambine che non parlano e non crescono mai per la felicità della mamma più che della loro. Al terzo quasi cadono le braccia: uomini inetti, situazioni lavorative precarie, salvaguardia impossibile del matrimonio, convivenza forza-ta, rabbia, sfortuna, dilemmi nien-te meno che esistenziali.

Dunque, anche American Born Chinese è una struttura multili-vello, perché dietro la semplicissi-ma favola di un ragazzino che “da grande vuole fare il Transformer” come Optimus Prime si nascon-de una novella straordinaria che si concentra, più all’esterno, sul razzismo visto dal di dentro e più all’interno sul problema macro-scopico dell’identità. Jin Wang non si accetta e non accetta perché non è accettato: se dovessi farvi un riassunto stringatissimo questa sarebbe un po’ la trama del libro. Eppure il palazzo di Yang, proprio come quello dei Simpson, è altissi-mo e più si sale più emergono temi squisitamente semiotici che - qui il

bello – possono passare perfetta-mente inosservati perché del tutto inghiottiti dalla docilità e dal ritmo del racconto. Ammirabilissima la maniera di affrontare il problema dell’opposizione binaria, scardi-nandola: il doppio è trino mentre l’intreccio si dipana in tre storie diverse e identiche (dunque sei personaggi in tre situazioni diffe-renti) che finiscono per formare un’unità che si eccede, si rompe e si ricuce e non, mai, in soli due pezzi. Insomma, il cielo è il limite! All’ul-timo piano di American Born Chi-nese, infatti, c’è proprio lui, il pezzo grosso, il Logos, Dio. L’uno E trino. Una grossa coincidenza per un li-bro solo piacevole, non trovate?

American Born Chinese è una graphic novel davvero pia-

cevole. Non bella, o meravigliosa, o commovente, cioè si, anche, tutte queste cose, ma soprattutto piace-vole: leggendola, ci si trova a sorri-dere, ridacchiare, restare a bocca aperta come bambini, strabuzzare gli occhi. È un giro su una giostra, ma non un otto volante, più un Bruco Mela, se avete presente. E il riferimento all’infanzia è tutt’altro che casuale, visto che i protagonisti sono pre-adolescenti: ragazzini un po’ mocciosi e pure abbastanza sfi-gati. A questo punto direte: ah beh, allora leggo Topolino piuttosto. Ma lasciatemi spiegare! Ché il pluri-premiato fumetto di Gene Lueng Yang, vero cino-americano, finge di essere solo piacevole.

Prendo l’esempio più banale di tutti: i Simpson. La ragione, mi dico sempre, per cui è il cartone più noto e amato della terra risiede nella sua trasversalità: colpisce più nicchie di pubblico perché è una struttu-ra multi-livello, come un palazzo a molti piani (scusate la banalità della metafora). Il seminterrato dell’edificio di Groening, pensate-ci, è stupidotto: madre, padre, fa-miglia, cose succedono, ok. Il piano terra invece, a guardarsi, è subito noioso: ci si affeziona ai personag-gi, ma possibile che questa gente non ammonti mai a niente di nien-te? Succedono cose mirabolanti in venti minuti - in mille pacchetti da venti minuti - ma poi? Poi nulla,

Ghost World“American Born Chinese” di Gene Lueng Yang

di MARINA PIERRI

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Dopo qualche eone si unisce final-mente agli altri, il quartetto arriva due volte secondo a San Remo e qui inizia la più grande (e sorda) misti-ficazione della storia della canzone italiana.

I media hanno banchettato per mesi sulla storia secondo cui Ma-rina Occhiena avrebbe sedotto il compagno della brunetta Angela Brambati e che questa si sarebbe imposta su i due maschi senza spi-na dorsale per cacciarla, ma non è vero niente. In realtà Franco Gatti, quello bruttino, era innamorato della Occhiena e gli altri due, quelli ricchi, hanno cacciato la biondona solo per togliere a Franco l’unica ragione di vita, così impara a essere povero. E il bello è che l’Occhiena è

nano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buo-no, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa.

Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggetti-vo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassi-curazione dei fatti oggettivi. Trova-no la verità dentro di sé, non fuori,

uscita dal gruppo proprio il giorno prima del debutto a San Remo con la canzone che ha reso ancora più ricchi i due bellocci e ancora più povero il pezzente: Sarà perché ti amo, diventata simbolo, inno e bi-glietto da visita dell’ormai terzetto in tutto il mondo.

La reietta si è quindi trovata con una carriera da solista in pieni anni ottanta ed è stata costretta, per pa-gare le bollette, a partecipare al Festivalbar con la canzone Video-sogni mentre l’indimenticabile pa-tron della rassegna, Vittorio Salvet-ti, le diceva: “In video? Te lo sogni! Ahahahaha” e faceva il gomitino a un magro Gerry Scotti.

come Karate Kid. Solo che loro per-dono per costituzione.

E la verità soggettiva è infinita-mente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kier-kegaard ma avevo paura di anno-iarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativi-stico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La ve-rità per me.

In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Wal-ter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.

La storia della canzone italia-na è caratterizzata soprat-

tutto dai sordi rancori che l’hanno costellata negli anni. Tra i rancori più sordi ci piace sempre ricordare quello tra Marina Occhiena e i Ric-chi e Poveri. Il gruppo si mette in-sieme nel 1966 (lo so, è incredibile, io credevo al massimo negli anni ottanta) ed è composto davvero per metà da ricchi latifondisti argen-tini (il figone e la brunetta) e per metà da rifiuti della società senza manco gli occhi pe’ piagne (il baffo nasuto e Marina Occhiena),

Marina Occhiena, che adesso avrà almeno cento anni, inizia la sua carriera a quindici, incidendo la canzonetta “A poco a poco” su una lastra traforata per organetto.

Ci sono due modi per raccon-tare storie: la noiosa verità

e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iper-bole, è bella perché è una caricatu-ra. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una spro-porzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamen-te questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare.

Ci sono poi due ruoli che si alter-

IperboloserMarina Occhienadi JACOPO CIRILLO

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Contributi da:Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua

nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semi-otica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha co-fondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondaria-mente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge.

Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha rag-giunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua came-retta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentil-mente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.

Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinami-cità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali me-dia di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zon-zo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*.

Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scri-vere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.

Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di gia-no bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valuta-zione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violente-mente stonata.

Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e stu-dia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spaccian-dosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.

Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-rante. Performer di incauta protervia, aruspice della si-gnificazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.

Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca di-ventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.

n. 6 / Settembre 2009

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Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo in-ternazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali.

Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evi-tare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguen-do la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie.

Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe per-sonale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran bir-roni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desi-deri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di con-seguenza, alle volte si annoia tantissimo.

Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non legge nella mente delle persone. Da quando ha inizia-to a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed é bellissimo.

Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo die-ci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rol-ling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane.

Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suo-na, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri sen-za scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Ten-de a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’.

Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è ri-uscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro.

Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera.

Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Di-derot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un som-mo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del non voler dire nulla.

Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la con-versione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.

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