Mustè 2011- Concetti fondamentali metafisica

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V I concetti fondamentali della metafisica Se gettiamo uno sguardo d’insieme al percorso che ancora dobbiamo compiere, dopo avere determinato alcuni aspetti generali della metafisica (la Hinterwelt e la relazione interno/esterno), ci troviamo di fronte a tre passaggi principali. In primo luogo, Nietzsche individua i concetti fondamentali della metafisica, cioè l’idea di sostanza e il principio della libertà del volere. In secondo luogo, indica una doppia origine della metafisica nella forma del sogno e nell’operazione fondamentale del linguaggio. In terzo luogo, indaga la struttura del discorso metafisico, cioè il giudizio logico e, con ciò, la questione stessa dell’errore. Cominciamo, dunque, dal primo aspetto. Con le parole di Afrikan Spir (Denken und Wirklichkeit, Leipzig 1877, vol. 2, p. 177), Nietzsche pone in evidenza «das ursprüngliche allgemeine Gesetz des erkennenden Subjects», la «legge generale originaria» della conoscenza: affinché vi sia conoscenza, occorre che sia presupposta, nella sua necessità, l’identità della cosa, la fermezza ontologica dell’ente che deve essere conosciuto. Il permanere come sostanza, il non-contraddirsi, della determinazione, costituisce il fondamento ultimo del conoscere. Il concetto di sostanza (ousìa) costituisce, dunque, il presupposto ultimo del conoscere. Nel senso aristotelico, la sostanza indica l’esistenza individuale e concreta, un soggetto reale che è anteriore a tutte le forme possibili di attribuzione; e che perciò, nell’ordine logico, rappresenta il sostrato (ypokeìmenon) di ogni predicato categoriale. La sostanza, nella sua accezione fondamentale, è tòde, questa cosa, oggetto della mia intuizione presente. In questo senso, come sottolinea Spir, e con lui Nietzsche, la sostanza indica il luogo originario del conoscere, l’essere reale, individuato e in sé determinato, che sostiene ogni atto conoscitivo. Nulla si potrebbe conoscere se, al fondo della conoscenza, non vi fosse la presenza reale della cosa sostanziale e determinata in sé, ossia, appunto, la sostanza. A prima vista, qui non stiamo parlando di una Hinterwelt, di un retro- mondo, né di uno sdoppiamento del mondo tra fenomeno ed essenza, tra un interno e un esterno: stiamo parlando della consistenza ontologica della realtà stessa. Ma se noi osserviamo con attenzione, aggiunge ora Nietzsche, questa legge suprema del conoscere non è «originaria», ma «ist geworden», è essa stessa «divenuta».

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I concetti fondamentali della metafisica Se gettiamo uno sguardo d’insieme al percorso che ancora dobbiamo compiere, dopo avere determinato alcuni aspetti generali della metafisica (la Hinterwelt e la relazione interno/esterno), ci troviamo di fronte a tre passaggi principali. In primo luogo, Nietzsche individua i concetti fondamentali della metafisica, cioè l’idea di sostanza e il principio della libertà del volere. In secondo luogo, indica una doppia origine della metafisica nella forma del sogno e nell’operazione fondamentale del linguaggio. In terzo luogo, indaga la struttura del discorso metafisico, cioè il giudizio logico e, con ciò, la questione stessa dell’errore. Cominciamo, dunque, dal primo aspetto. Con le parole di Afrikan Spir (Denken und Wirklichkeit, Leipzig 1877, vol. 2, p. 177), Nietzsche pone in evidenza «das ursprüngliche allgemeine Gesetz des erkennenden Subjects», la «legge generale originaria» della conoscenza: affinché vi sia conoscenza, occorre che sia presupposta, nella sua necessità, l’identità della cosa, la fermezza ontologica dell’ente che deve essere conosciuto. Il permanere come sostanza, il non-contraddirsi, della determinazione, costituisce il fondamento ultimo del conoscere.

Il concetto di sostanza (ousìa) costituisce, dunque, il presupposto ultimo del conoscere. Nel senso aristotelico, la sostanza indica l’esistenza individuale e concreta, un soggetto reale che è anteriore a tutte le forme possibili di attribuzione; e che perciò, nell’ordine logico, rappresenta il sostrato (ypokeìmenon) di ogni predicato categoriale. La sostanza, nella sua accezione fondamentale, è tòde, questa cosa, oggetto della mia intuizione presente. In questo senso, come sottolinea Spir, e con lui Nietzsche, la sostanza indica il luogo originario del conoscere, l’essere reale, individuato e in sé determinato, che sostiene ogni atto conoscitivo. Nulla si potrebbe conoscere se, al fondo della conoscenza, non vi fosse la presenza reale della cosa sostanziale e determinata in sé, ossia, appunto, la sostanza. A prima vista, qui non stiamo parlando di una Hinterwelt, di un retro-mondo, né di uno sdoppiamento del mondo tra fenomeno ed essenza, tra un interno e un esterno: stiamo parlando della consistenza ontologica della realtà stessa. Ma se noi osserviamo con attenzione, aggiunge ora Nietzsche, questa legge suprema del conoscere non è «originaria», ma «ist geworden», è essa stessa «divenuta».

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L’affermazione per cui la sostanza, definita come il luogo originario del conoscere, come il sostrato del giudizio (ypokeìmenon), non è, al tempo stesso, il luogo originario della realtà (ousìa), introduce, ovviamente, una svolta radicale nel discorso. Nietzsche vuole dire che la sostanza non è il fondamento del divenire, ma «ist geworden», ma è essa stessa il risultato di un divenire più originario. Perché vi sia un divenire più originario della sostanza, occorre (come vedremo fra breve) che la sostanza si manifesti come il termine di un’opposizione: che la realtà individuata, così come noi la conosciamo, sia in verità l’esito di un processo che trovi alla sua radice il non-sostanziale. Ma non solo nel senso della yle, della materia aristotelica, ma in un senso che deve essere più radicale. Nella parte successiva, Nietzsche cerca di spiegare in che senso la fede nella natura originaria della sostanza sia «divenuta». In senso originario, spiega, nulla è determinato, non ci sono cose: la vita più elementare vede «sempre la medesima cosa e nient’altro che quella»; è nell’indeterminato, dove non c’è sostanza. Solo con «le diverse eccitazioni del piacere e del dolore», gli esseri viventi cominciano a distinguere, ossia a giudicare, e formano l’idea di sostanze molteplici. Insomma le cose, cioè i predicati, le idee, le determinazioni, sono soltanto reazioni del piacere e del dolore vitale che si proiettano sull’indeterminato, e generano l’illusione di oggetti. Ma seguiamo il discorso con maggiore attenzione. Nietzsche inizia con la finzione di una situazione-limite, di un vivente rappresentato nella posizione più elementare, dove il sentimento del piacere e del dolore è quasi ridotto a un livello zero. È una vita quasi inorganica, che occorre per illustrare cosa accadrebbe della realtà e del conoscere se, al vivente, fosse sottratto l’impulso dell’utilità e del danno. Questi organismi, scrive Nietzsche, «zuerst nichts als immer das gleiche sehen», «da principio vedono sempre e niente altro che la medesima cosa». Ciò significa che, in assenza del principio del piacere, il vivente non distingue: vede solo l’identico, l’indeterminato, è immerso nella non-sostanza.

Il principio della distinzione è il principio generativo della sostanza. Ma il principio della distinzione è il principio del piacere. Solo quando l’organismo avverte l’impulso del piacere e del dolore, solo allora distingue «diverse sostanze»: e solo allora giudica, cioè pone quelle sostanze come sostrato di un giudizio. Il giudizio stesso, fondato sulla relazione di piacere, è così costitutivo della forma della sostanza.

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E ancora.

Si osservi con attenzione la parte successiva del ragionamento. Nietzsche si riferisce al concetto di causalità.

In questo brano sono intrecciati tre livelli del discorso. In primo luogo, Nietzsche si riferisce alla «Urstufe des Logischen», al «primo gradino», al grado originario, del logico. La «Urstufe des Logischen» è il processo che abbiamo esaminato poco fa, per cui il principio vitale del piacere distingue la sostanza nell’indeterminato. In secondo luogo, il «Gedanke an Kausalität», il pensiero della causalità, «liegt am fernsten», riposa lontanissimo, dal principio logico che determina l’ente. Si ricordi che, per Schopenhauer, il principio di ragione costituiva, nel mondo come rappresentazione, il principium individuationis. Era solo grazie al principio di ragione che l’ente poteva essere determinato, trovando una posizione nel tempo e nello spazio. Ma il principio di ragione indica la relazione tra enti:

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ora Nietzsche sottolinea che quella individuazione nel tempo e nello spazio presuppone un atto logico più originario, quello attraverso cui il principio vitale del piacere distingue e, dunque, genera la determinazione. In terzo luogo, Nietzsche si riferisce alla volontà libera. In base al concetto della volontà libera, gli uomini avvertono ogni mutamento come «qualcosa di isolato, cioè di incondizionato, di privo di connessione»: nella forma del miracolo, fuori del tempo e dello spazio. Ogni atto viene colto nella sua spontaneità, al di fuori della necessità che lo determina. Se la volontà libera (lo vedremo meglio in seguito) costituisce una illusione metafisica, anche la causalità deve dunque essere considerata come un concetto derivato da una causalità più originaria, da quella logicità più originaria attraverso cui il principio vitale converte il medesimo nel diverso. In senso logico, la causalità è una proiezione successiva dell’utile. Se vogliamo parlare di principium individuationis, qui dobbiamo dire che è il principio del piacere l’unica forza in grado di individuare gli enti. Da questo difficile e importante discorso, Nietzsche trae una conclusione decisiva, riconoscendo nell’idea di sostanza e nella libertà del volere i due dogmi fondamentali della metafisica.

La metafisica può essere definita come la scienza che «tratta degli errori fondamentali dell’uomo» come se «fossero verità fondamentali». Le idee di sostanza e di libertà sono dunque «errori fondamentali», che la metafisica scambia per verità. Torneremo sul significato della parola “errore”. Ma intanto risulta chiaro che quei due concetti sono “errori” perché non sono adeguati alla realtà, non corrispondono a un’esperienza originaria: l’idea di sostanza (su cui finora ci siamo soffermati) non è un presupposto ontologico, ma il risultato di un processo, ha una genesi che abbiamo ormai svelato, illuminato, rischiarato: la sostanza nasce dall’atto originario della vita, da una volontà primitiva che, proiettando il proprio principio del piacere sull’indeterminato, distingue cose, enti, cioè un mondo via via più complesso e articolato. Il successivo § 19 è il necessario corollario di questo discorso. E chiarisce il riferimento che abbiamo incontrato prima alle «cose eguali»: «Der Glaube … an gleiche Dinge», «la credenza … in cose eguali». L’errore originario, spiega Nietzsche, consiste nell’idea «che ci siano più cose eguali» e, più radicalmente, che «ci siano cose». Ma «tatsächlich», in realtà, «gibt es nichts Gleiches», «non c’è niente di eguale», e «es gibt kein Ding», «non ci sono cose». Non solo, dunque, non ci sono cose eguali, ma la cosa stessa non c’è: non c’è nella sua eguaglianza con sé.

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L’idea stessa della molteplicità è un errore. Perché l’idea del molteplice presuppone etwas, qualcosa, che entri nel molteplice, e che nel molteplice conservi la sua eguaglianza con sé. Ma, come sappiamo, non vi sono cose, e dunque non può esservi neanche il molteplice.

Il discorso riconduce sempre allo stesso punto, cioè al concetto di sostanza. L’idea di sostanza ha una genesi, è il risultato di un divenire, che la scienza può ormai illuminare. La sua genesi, come abbiamo visto, risale al principio vitale, al piacere e al dolore, le cui onde, proiettate sull’indeterminato, distinguono cose: e, nel distinguere, immediatamente valutano e giudicano.