«Musica popolare» tra storia e attualità · S pesso si sente parlare di cultura oppure di...

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S pesso si sente parlare di cultura oppure di mu- sica popolare, magari per intendere ope- razioni «cantautoriali», o utilizzan- do questi termini con un margine eleva- to di indeterminatezza. Chiediamo a Maurizio Agamennone – titolare della cattedra di Etnomusicologia all’Università di Firenze, nonché docente in molti istituti italiani, tra cui anche la veneziana Fon- dazione «Giorgio Cini» – che co- sa implica precisamente la nozio- ne di canto popolare e quali sono le sue specificità e ambiti. Attualmente, orientarsi tra queste denominazioni è divenu- to più complesso che in passato. Per tutto l’Ottocento e parte del Novecen- to, l’espressione «canto popolare» è stata uti- lizzata per designare, in senso generale, le musiche dei ce- ti e gruppi subalterni, in una società preindustriale. In ve- rità, coloro che se ne occupavano erano assai più attenti ai versi, agli assetti metrici, ai contenuti simbolici e ai mo- tivi narrativi dei canti: erano poco interessati alla musica, all’orchestrazione, alle procedure di variazione, ai movi- menti della danza. Negli anni venti/trenta del secolo scor- so sono state introdotte altre denominazioni («etnofonia», di durata assai effimera) e a parti- re dagli anni quaranta, «musica popolare» e «musica folklorica» (equivalenti), considerate più ef - ficaci per rappresentare le prati- che musicali dei ceti subalterni. Tuttavia, l’espressione «canto popolare» è ancora presente du- rante gli anni sessanta/settanta, nel revival politico-culturale del periodo: oltre alla Nuova Com- pagnia di Canto Popolare, fon- data e diretta da Roberto De Si- mone fino alla meta dei settan- ta, numerosi gruppi e canzo- nieri avevano nel loro nome un esplicito riferimento al canto o alla canzone popolare. Negli ultimi decenni, è entrata in uso l’espressione popular mu- sic per rappresentare le musiche diffuse attraverso il sistema me- diatico: in italiano, si potrebbe indicare queste produzioni co- me «musica di massa», ma que- sta definizione non è mai sta- ta adottata. In ogni caso il ricorso all’espres- sione popular music ha spinto in sofferen- za la precedente definizione «musica popolare», adottata anch’essa, og- gi, soprattutto nella carta stam- pata e nel sistema radiofonico, come prestito diretto dall’in- glese, per designare le mu- siche pop. Mi pare che «La canzone popolare» di Iva- no Fossati rappresenti be- ne queste processo. Per ov- viare a queste ambiguità, at- tualmente si tende a preferire l’espressione «musiche tradizio- nali», al fine di indicare espressio- ni musicali appartenenti a usi locali, di piccole comunità, la cui creazione non sia attribuibile a responsabilità individuali uni- voche. Molti musicisti e organizzatori preferiscono usare l’espressione «musica etnica», per indicare produzioni si- mili, ma anche questa definizione è priva di senso: pure la musica di Mozart è «musica etnica». Quali sono le zone d’Italia dove più forte è stato il rinvenimento di questi materiali, e in quali forme sono stati raccolti e catalogati? Quali sono le scienze che se ne occupano? Dal 1948, quando fu creato il Centro Nazionale Studi di Mu- sica Popolare (oggi Archivi di Etnomusicologia), le espressio- ni musicali delle regioni italia- ne sono state ampiamente rile- vate: inizialmente le ricerche su- birono una sorta di fascinazio- ne meridionalista, ma in segui- to anche le regioni settentriona- li sono state ampiamente esplo- rate. I materiali raccolti sono stati acquisiti inizialmente su nastro magnetico, successiva- mente riversati su piattaforme digitali, e catalogati con proce- dure che tendono a uniformar- si alle indicazioni suggerite dal Catalogo unico del Ministero per i beni e le attività culturali. Ai documenti sonori, nel tem- po si sono aggiunti i documen- ti visuali. Gli archivi impegnati nella conservazione sono piut- tosto numerosi. Le discipline che si occupano di queste prati- che espressive e di questa docu- mentazione sono l’etnomusico- «Musica popolare» tra storia e attualità Maurizio Agamennone definisce il concetto e gli ambiti in cui s’inserisce dossier a cura di Leonardo Mello A pprofittando della coincidenza di una serie di spettacoli e concerti programmati tra febbraio e aprile, cui si aggiungono nuove interessanti proposte discografiche, in queste pagine concentriamo la nostra attenzione sulla musica popolare veneziana, chiamando a mo’ di exempla artisti di generazioni diverse a raccontarci il proprio percorso, senza pretendere ovviamente di esaurire l’analisi di un fenomeno così complesso e variegato. Queste conversazioni sono precedute dal presente intervento di Maurizio Agamennone, che fa chiarezza su terminologie e classificazioni, oltre che dalle chiacchierate con Giovanna Marini e Ivan Della Mea. La notte della taranta, logo dell’edizione 2001. Focus On canti popolari di oggi e di ieri

Transcript of «Musica popolare» tra storia e attualità · S pesso si sente parlare di cultura oppure di...

Spesso si sente parlare di cultura oppure di mu-sica popolare, magari per intendere ope-razioni «cantautoriali», o utilizzan-

do questi termini con un margine eleva-to di indeterminatezza. Chiediamo a Maurizio Agamennone – titolare della cattedra di Etnomusicologia all’Università di Firenze, nonché docente in molti istituti italiani, tra cui anche la veneziana Fon-dazione «Giorgio Cini» – che co-sa implica precisamente la nozio-ne di canto popolare e quali sono le sue specificità e ambiti.

Attualmente, orientarsi tra queste denominazioni è divenu-to più complesso che in passato. Per tutto l’Ottocento e parte del Novecen-to, l’espressione «canto popolare» è stata uti-lizzata per designare, in senso generale, le musiche dei ce-ti e gruppi subalterni, in una società preindustriale. In ve-rità, coloro che se ne occupavano erano assai più attenti ai versi, agli assetti metrici, ai contenuti simbolici e ai mo-tivi narrativi dei canti: erano poco interessati alla musica, all’orchestrazione, alle procedure di variazione, ai movi-menti della danza. Negli anni venti/trenta del secolo scor-so sono state introdotte altre denominazioni («etnofonia», di durata assai effimera) e a parti-re dagli anni quaranta, «musica popolare» e «musica folklorica» (equivalenti), considerate più ef-ficaci per rappresentare le prati-che musicali dei ceti subalterni. Tuttavia, l’espressione «canto popolare» è ancora presente du-rante gli anni sessanta/settanta, nel revival politico-culturale del periodo: oltre alla Nuova Com-pagnia di Canto Popolare, fon-data e diretta da Roberto De Si-mone fino alla meta dei settan-ta, numerosi gruppi e canzo-nieri avevano nel loro nome un esplicito riferimento al canto o alla canzone popolare.

Negli ultimi decenni, è entrata in uso l’espressione popular mu-sic per rappresentare le musiche diffuse attraverso il sistema me-diatico: in italiano, si potrebbe indicare queste produzioni co-me «musica di massa», ma que-sta definizione non è mai sta-

ta adottata. In ogni caso il ricorso all’espres-sione popular music ha spinto in sofferen-

za la precedente definizione «musica popolare», adottata anch’essa, og-

gi, soprattutto nella carta stam-pata e nel sistema radiofonico, come prestito diretto dall’in-glese, per designare le mu-siche pop. Mi pare che «La canzone popolare» di Iva-no Fossati rappresenti be-ne queste processo. Per ov-

viare a queste ambiguità, at-tualmente si tende a preferire

l’espressione «musiche tradizio-nali», al fine di indicare espressio-

ni musicali appartenenti a usi locali, di piccole comunità, la cui creazione non

sia attribuibile a responsabilità individuali uni-voche. Molti musicisti e organizzatori preferiscono usare l’espressione «musica etnica», per indicare produzioni si-mili, ma anche questa definizione è priva di senso: pure la musica di Mozart è «musica etnica».

Quali sono le zone d’Italia dove più forte è stato il rinvenimento di questi materiali, e in quali forme sono stati raccolti e catalogati? Quali sono le scienze che se ne occupano?

Dal 1948, quando fu creato il Centro Nazionale Studi di Mu-sica Popolare (oggi Archivi di Etnomusicologia), le espressio-ni musicali delle regioni italia-ne sono state ampiamente rile-vate: inizialmente le ricerche su-birono una sorta di fascinazio-ne meridionalista, ma in segui-to anche le regioni settentriona-li sono state ampiamente esplo-rate. I materiali raccolti sono stati acquisiti inizialmente su nastro magnetico, successiva-mente riversati su piattaforme digitali, e catalogati con proce-dure che tendono a uniformar-si alle indicazioni suggerite dal Catalogo unico del Ministero per i beni e le attività culturali. Ai documenti sonori, nel tem-po si sono aggiunti i documen-ti visuali. Gli archivi impegnati nella conservazione sono piut-tosto numerosi. Le discipline che si occupano di queste prati-che espressive e di questa docu-mentazione sono l’etnomusico-

«Musica popolare»tra storia e attualitàMaurizio Agamennone definisce il concettoe gli ambiti in cui s’inserisce dossier a cura di Leonardo Mello

Appro f i t tando della coincidenza di una

serie di spettacoli e concerti programmati tra febbraio e aprile, cui si aggiungono nuove

interessanti proposte discografiche, in queste pagine concentriamo la nostra attenzione sulla musica popolare

veneziana, chiamando a mo’ di exempla artisti di generazioni diverse a raccontarci il proprio percorso, senza pretendere ovviamente di esaurire l’analisi di un fenomeno così complesso e variegato. Queste conversazioni sono precedute

dal presente intervento di Maurizio Agamennone, che fa chiarezza su terminologie e classificazioni, oltre che

dalle chiacchierate con Giovanna Marini e Ivan Della Mea.

La notte della taranta, logo dell’edizione 2001.

Focus On canti popolari di oggi e di ieri

logia e le scienze etno-antropologiche; inoltre, gran parte della documentazione acquisita può suscitare anche l’in-teresse degli storici della cultura.

Quali possono essere i motivi per produrre e presentare musica po-polare oggi?

Attualmente ci sono ancora numerose occasioni in cui gruppi e comunità locali continuano a esercitare in auto-nomia complesse forme di espressività musicale e coreu-tica, soprattutto in relazione a grandi episodi festivi o nel corso di riunioni familiari. Molte espressioni che in pas-sato si realizzavano con procedure simili, oggi sono state trasferite in palcoscenico, nei concerti dal vivo e nel festi-val più diversi. Questo movimento coinvolge numerosi e diversi attori sociali:

a) giovani musicisti (non raramente principianti o con formazione autodidattica, oppure più esperti, per scelta personale e per intenso impegno di studio) che si sono avvicinati ai repertori tradizionali delle famiglie e comu-nità di origine, riscoperti negli ultimi anni in conseguen-

za dei processi di ricostruzione e rivendicazione identita-ria in atto

b) musicisti e compositori di formazione accademica, che si orientano verso l’uso di strumenti tradizionali nella prospettiva di ampliare le proprie capacità e occasioni di presenza professionale, anche in conseguenza di un for-te interesse culturale, emerso dopo gli studi accademici, di una certa passione politica, e della crescente attrazione esercitata dalla cosiddetta world music

c) musicisti (oggi cinquanta-sessantenni) già impegnati nel primo revival degli anni settanta, che oggi trovano una nuova occasione di presenza

d) musicisti più anziani (oggi settanta-ottantenni) che ancora conservano comportamenti e stili più remoti, con-siderati i «custodi della tradizione», o per dirla con Béla Bartók, gli «alberi di canto».

In tutte queste esperienze si possono osservare moltepli-ci tentativi di «ibridazione», con esiti musicali di maggiore o minore interesse; inoltre, l’azione performativa dei mu-sicisti si orienta decisamente verso pratiche e modi propri dello spettacolo dal vivo.

Quali segreti stanno dietro il successo di manifestazioni come La

Notte della Taranta?Questo programma costituisce lo scenario in cui le ten-

denze suindicate si manifestano con maggiore forza. Ini-zialmente, La Notte della Taranta era stata ideata (credo di conoscerne bene le origini essendone stato uno dei fonda-tori e codirettore artistico dal 1998 al 2001) affinché fos-se un luogo ove far convergere attività di ricerca, forma-zione e conservazione, ed era molto forte un’istanza che tendeva a sperimentare procedure di «scrittura» musica-le innovativa. In seguito, l’interesse per questi obiettivi è scemato: oggi quel programma è considerato soprattutto un vettore di marketing territoriale, nella prospettiva di attrarre fasce numerose di turisti, consumatori di un pic-colo mito che si va alimentando, e che considera il Salen-to come luogo del benessere (per il cibo, il paesaggio, le emergenze architettoniche), della danza e della musica co-me veicoli di piacere, seduzione e integrazione di gruppo. A queste si sono altresì aggiunte valenze più «politiche»: il vecchio segno del ragno, simbolo di miseria e sofferen-

za, ha mutato di senso, divenendo il veicolo di un possibi-le riscatto dalla marginalità prodotta dai processi di glo-balizzazione in atto nel mondo.

È opportuno (e lecito) attuare dei processi di contaminazione e rein-venzione dei materiali popolari?

Credo si tratti di un falso problema: se un musicista par-tecipa a una festa, a un’azione devozionale o a una que-stua agisce secondo procedure di tipo rituale; se, inve-ce un gruppo di musicisti decide di salire in palcosceni-co per proporre un progetto musicale proprio, ha piena-mente diritto di farlo, utilizzando i materiali più diversi, ma non può sottrarsi a una valutazione di tipo estetico-culturale, pur in senso largo, come per qualsiasi proposta di spettacolo dal vivo, sia essa un quartetto di Beethoven o una pizzica. In palcoscenico non ci possono essere ali-bi: io voglio sentire e vedere quello che sai fare e che hai da dire. Quindi, entrano in gioco criteri come l’energia e la grana delle voci, la condotta delle parti e il contrappun-to, il colore degli strumenti, la tenuta e l’energia ritmica, l’originalità dell’invenzione nella scrittura musicale e nel-la versificazione: ciò che conta è la qualità del «progetto» musicale.

Canzoniere Grecanico Salentino

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

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Giovanna Marini è la più grande interprete di canto popo-lare italiano, oltre a essere autrice in proprio di innumere-voli composizioni e di molte musiche per il teatro e per il ci-

nema. Le chiediamo come è nata in lei la passione per la tradizione orale e per la questo tipo di prodotto culturale.

Dopo essermi diplomata in chitarra classica la-voravo in orchestra e avevo già iniziato a scri-vere anche musica da film. Poi un gior-no Roberto Leydi, il famoso etnomu-sicologo, venne a Roma per assiste-re a una serata al Folk Studio, do-ve talvolta suonavo. Allora can-tavo pochissimo e quasi esclu-sivamente melodie trobadori-che, alle quali però Roberto si interessò molto. Venne a casa mia e cantai altre co-se per lui, tanto che alla fi-ne mi propose di seguir-lo a Milano. A quell’epo-ca non sapevo cosa fos-se davvero la musica po-polare, e grazie a Roberto potei sentire i canti delle mondine, le canzoni di guerra e molto altro. Co-sì iniziai ad appassionar-mi a questo genere e cercai di conoscerlo sempre più in profondità.

Da qui comincia la sua esperienza, che passa neces-sariamente per la raccolta sul campo di materiali canori. Co-me si svolgevano concretamente queste operazioni di ricerca?

Nella prima ricerca che ho fatto au-tonomamente e non a seguito di altri sono partita per la Puglia assolutamen-

te «al nero», con due registratori, accom-pagnata soltanto da una ragazzina che non

aveva più voglia di andare a scuola e che la ma-dre mi aveva affidato. Viaggiando in mac-

china incontrammo delle donne che can-tavano raccogliendo le olive: mi fer-

mai per registrarle, ma loro mi dis-sero che in quel momento sta-

vano lavorando e mi diedero appuntamento per la se-

ra. Erano gli anni ses-santa, e quella vol-

ta riuscii a re-gistrare un

mucchio

di materiale, perché era un periodo molto fecondo per questo tipo di operazioni. Ero munita soltanto di un pic-colo «geloso», il primo registratore a nastri che uscì in Ita-lia, che doveva obbligatoriamente essere attaccato a una spina, perché non aveva le batterie. Ora le ricerche sono

facilitate da una strumentazione adeguata e si fan-no su indicazione. Di materiale cantato (e ine-

dito) ce n’è ancora moltissimo, spesso ese-guito ancora all’antica, con tutti gli or-

namenti e i melismi. Quest’anno con un piccolo gruppo di allievi siamo

andati sulle montagne del bene-ventano, dove non era mai pas-sato nessuno, e anche questa è stata una ricerca feconda. So-no arrivata fin lì perché, an-dando sempre a registrare la Passione a Sessa Aurunca, conoscevo i cantori del po-sto, che mi hanno indiriz-zato sulle località più inte-ressanti da visitare.

Spesso quando si utilizza il sintagma «canto popolare» si pensa alle canzoni di rivol-ta e di protesta. Quasi sono le diramazioni di questo genere musicale?Una di queste è appunto

la canzone di rivolta. Ma in realtà il canto contadino non

è affatto rivoluzionario, nasce anzi come canto di conserva-

zione, perché è rituale e non ha niente a che vedere con la prote-

sta politica. Semmai diventa di ri-volta se si analizza il contesto in cui

è cantato: quelle case spoglie e senza niente, così efficacemente riprese dai fil-

mati di Diego Carpitella, dove negli anni cin-quanta vivevano gli italiani e dove ora stanno gli

extracomunitari. Ricordo che durante una ricerca che ef-fettuai in Calabria, in un paese sperduto e ancora sen-za asfalto, le donne si diedero un gran daffare per riusci-re a trovare una sedia dove io potessi sedermi. Il conte-sto dunque il più delle volte rimanda a situazioni estreme di povertà e indigenza, ma i canti in sé non hanno niente di politico, si riferiscono a rituali, come ad esempio quel-lo per la pioggia, e sono intonati per ottenere condizio-ni di vita migliori, esattamente come il soul e lo spiritual. Nel ’64 con il Nuovo Canzoniere Italiano allestimmo lo spettacolo Bella Ciao, che fece molto scalpore: scandalizza-re era il fatto che alcuni contadini stessero con noi a can-tare su un palcoscenico pregiato come quello del Teatro

Il canto popolaree la «musicalità istintiva»Giovanna Marini illustra la sua esperienzadi interprete e ricercatrice

Persi le forze mie persi l’ingegnola morte mi è venuta a visitare«e leva le gambe tue da questo regno»persi le forze mie persi l’ingegno.

Lamento per la morte di Pasolini

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Caio Melisso di Spoleto. La gente in platea urlava dicendo che non aveva pagato le mille lire del biglietto per ascol-tare la propria donna di servizio. Anche grazie a espe-rienze come quelle questo tipo di canto fu considerato rivoluzionario.

Tra le tante possibili, una suddivisione potrebbe comun-que essere quella tra canti di mestiere, canti devozionali (che non sono i canti liturgici), canti paraliturgici (che uti-lizzano spesso parole latine ma sono eseguiti fuori dal-la chiesa: i vari concili si sono scagliati contro i canti po-polari cercando di eliminarli dalla Chiesa, perché molto spesso erano influenzati dai Vangeli apocrifi). Poi ci so-no i canti di tipo rituale, come quelli per la pioggia o i la-menti funebri. Poi ancora i canti per la Pasqua e i saturna-li, che si fanno in dicembre e che di solito caden-zano la raccolta delle uova prima dell’inver-no. Si aggiungono i canti della terra, come quelli del maggio, e le canzoni narrati-ve dei cantastorie, che vengono ese-guite in osteria o in casa e trattano i più clamorosi fatti di cronaca. Oggi il delitto di Erba verrebbe raccontato sicuramente in un canto. Infine ci sono i canti sulla guerra e appunto quel-li di protesta.

Lei è impegnata anche nel tentativo di tramandare i tanti materiali che ha raccolto, e per questo ha inventato una origi-nale tecnica di trascrizione.

Sì, c’è una raccolta che comprende più di 260 canti, e che presto ne con-terrà più di 500, riservata ai miei allievi. Non l’ho mai consegnata a un edi-tore in primo luogo perché sono tutti inediti e non mi va che appartengano a qual-cuno, ma soprattutto perché per studiarli bisogna capire la mia scrittura. Ho infatti ag-giunto dei segni e ho tolto le mi-sure, perché questa musica è diver-sa da quella classica, e non dovrebbe nemmeno entrare nel pentagramma. Però l’unico modo di tramandare questi materiali, oltre alla registrazione di compact disc, è la scrittura, che deve fungere da accompa-gnamento all’ascolto. Questa scrittura è più simile ai neu-mi, che erano dei disegni che assomigliavano al suono. Mi servo dunque strumentalmente del pentagramma e delle note ma elimino ogni parvenza di ritmo, perché la ritmi-ca classica non ha niente a che vedere con quella popola-re: nel canto orale non c’è ritmo ma cadenza, che è un’al-tra cosa.

Questo enorme bagaglio di conoscenze entra anche nei suoi lavo-ri di compositrice?

Per forza, perché dalla mattina alla sera ascolto e trascri-vo canto popolare, e quando mi metto a comporre mi tor-nano in mente non tanto i motivi, perché quella è la par-te più superficiale, la punta dell’iceberg, ma la struttura.

È l’impianto che è diverso, perché non nasce dallo scritto ma dall’orale, dall’immaginazione del suono. Poi si met-te per iscritto l’immagine del suono che si ha in mente. Adesso sto lavorando sul Prometeo incatenato: anche qui par-to dalla sillaba, la sillaba dà un suono, e quindi è il suono della sillaba quello che trascrivo in musica.

All’attività di autrice e interprete lei ha sempre alternato anche quella di docente, sia a Roma, presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio sia, dal 1��1 al 2000, all’Università di Paris VIII – Saint Denis. Come si può insegnare etnomusicologia applicata ad al-lievi che non ne sanno niente?

È molto difficile, ma quando un allievo si appassiona veramente rimane con me per quindici, vent’anni. Dopo molti anni di attività mi sono accorta che questi studi van-

no a risvegliare corde che sono nell’uomo ma che sono sopite perché non sono mai state usate:

quelle della musicalità istintiva, che c’è in tutti, non importa se si è stonati o into-

nati. La musica classica ha compiuto un’astrazione e una sovrastruttura-

zione della musica, che poggia su basi ormai staccate dall’indivi-duo. Invece io vado a risveglia-re quello che c’è dentro, e che nei bambini si esprime mol-to più facilmente che negli adulti. Si tratta di mettere in movimento quella par-te dell’emisfero cerebra-le dove giacciono i suo-ni che abbiamo ascolta-to fin dall’infanzia. La co-sa che commuove di più i miei studenti sono le vo-ci di donna che cantano delle lunghe monodie che faccio loro sentire all’ini-zio del percorso. A forza di ascoltarli, gli allievi impara-

no questi canti. Poi passiamo allo spessore armonico, met-

tendo insieme due o tre voci che cantano in modo diverso e

contemporaneamente: questo ri-sveglia la musicalità istintiva, per-

ché in un suono ci sono anche le ar-moniche di altri suoni, che fanno parte

di quel suono. Quindi quando noi sentia-mo il suono sentiamo anche quegli altri «suo-

nini» che sono al suo interno, e poi li andiamo a cantare. Bisogna pian piano ridestare questo tipo di musi-calità: allora sorge il canto primitivo, che a un certo punto divenne musica classica. In ogni libro di storia della musi-ca alle origini si trova infatti l’organum, vale a dire una nota bassa sulla quale si articola un lamento: queste sono le pri-me avvisaglie di quello che sarà poi il gregoriano. Le pri-me forme polifoniche sono ancora legate a questa musi-calità arcaica. Bisogna risvegliare quella, dopodiché si ap-prende a cantare in modo sempre più difficile, aggiungen-do mano a mano nuove voci, e si raggiunge gradualmente una complessità sempre maggiore di accostamenti di suo-no. E nel fare questo si prova un piacere enorme: infatti il canto, da sempre, viene praticato per il piacere che dà!

G i o v a n n a M a r i n i

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

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Ivan Della Mea, nativo di Lucca ma milanese di adozione, è autore di canzoni immortali come «Ca-

ra moglie» e «Io so che un giorno», oltre che di dischi celebri quali Il rosso è diventato giallo e Ringhera. Tra i fondatori del Nuovo Canzoniere Italia-no nel 1�62, dal 1��6 diviene presidente dell ’Istituto «Erne-sto De Martino» sostituendo lo scomparso Franco Coggiola. Gli chiediamo come si è avvicinato al canto popolare.

Io non mi sono avvicinato, so-no stato avvicinato... Il mio back-ground è quello di un cantore popola-re da osteria. Tra la fine degli anni cin-quanta e l’inizio dei sessanta io canta-vo il classico repertorio da osteria: can-zoni in dialetto milanese, le arie delle opere più famose e così via. Il canto di osteria è sempre «a gara», ricorda ab-bastanza da vicino il jazz dei primor-di. In quel periodo avevo già compo-sto alcune canzoni, come la «Ballata della piccola e della grande violenza», ma, se mi arrangiavo a scrivere i testi, non ero invece assolutamente in grado di fissare su carta le musiche, così me le cantavo cento volte e le imparavo a memoria. Poi ho conosciuto Gian-ni Bosio, che mi ha trascinato nell’avventura del Nuovo Canzoniere Italiano, e di lì è iniziata la mia carriera. Nel frattempo la Ballata della piccola e della grande violenza divie-ne disco per la neonata etichetta dei Dischi del Sole. Al-l’inizio si faceva riferimento alle rassegne dell’«Altra Ita-lia», alle quali partecipava moltissima gente che non veni-va soltanto ad ascoltare ma interveniva, poneva doman-

de. Era una partecipazione molto attiva. La notorie-tà giunse però con lo spettacolo Bella ciao, allesti-

to a Spoleto (cfr. l’intervista a Giovanna Mari-ni, ndr): vi furono nove colonne sui giornali,

un’interpellanza parlamentare e una mi-naccia di marcia sulla cittadina um-

bra da parte dell’estrema destra (con conseguente risposta al-

trettanto minacciosa di con-tromarcia da parte della

sinistra…). Ma tutto questo ebbe l’ef-

fetto positivo di far parla-

re per la

prima volta i media di cultura popo-lare. Certo tra noi c’erano affi-

nità politiche, ma nessuno ha mai chiesto a nessuno che

tessera avesse in tasca. Il Nuovo Canzoniere fu per vent’anni un grande mo-vimento di carattere po-litico-culturale, al cui in-terno coesistevano filo-ni diversi. Semplificando

potrei isolarne due: quel-lo della ricerca, svolta secon-

do una metodologia che è sta-ta in qualche modo teorizzata

da Bosio nell’Elogio del magnetofono, e quello della riproposta della canzo-ne popolare, che aprì un acceso dibat-tito nella rivista del Canzoniere. Infi-ne esisteva il filone della nuova can-zone, cui ho contribuito anch’io. La sfida era dimostrare in maniera docu-mentale (e non soltanto) la continuità tra la nuova canzone di protesta socia-le e quella di tradizione orale. Questo tipo di operazione è andata avanti in modo piuttosto compatto fino al ‘68, quando molte cose sono state rimes-se in discussione. Io uscii dal gruppo e incisi un paio di album con i Dischi dello Zodiaco, ma poi, nel ‘71, sono rientrato nel Canzoniere e mi sono ri-

congiunto con Gianni, che di lì a poco è purtroppo man-cato. Dopo la sua scomparsa la nostra posizione si è un po’ arroccata, smentendo il detto che morto un papa se ne fa un altro: la mancanza di Gianni si percepiva pesante-mente. Anche perché, attraverso le sue instancabili ricer-che, lui aveva elaborato un pensiero molto preciso riguar-do alla riproposizione dei canti popolari: affermava infat-ti che chiunque li può cantare come più gli piace, purché si faccia carico – e questa è una responsabilità etica – di contestualizzare questi canti. Una volta fatto questo cia-scuno è libero di interpretarli come vuole, perché metter-si a fare filologia del canto popolare è un’operazione che lascia il tempo che trova.

Passiamo ora all’Istituto «Ernesto De Martino». Ci puoi trat-teggiare la storia di questo ente intitolato al grande etnomusicolo-go napoletano?

A un certo punto Gianni Bosio, spinto anche dall’an-tropologo Alberto Mario Cirese, sentì l’esigenza di fon-dare l’Istituto come luogo in cui ordinare tutti i materiali che provenivano dalle varie ricerche sul campo. L’Istitu-to doveva essere il punto di razionalizzazione e di rilan-cio di una ricerca che ormai sarebbe dovuta passare dalle

Ivan Della Mea, dalle canzoni di osteria all’impegno cantautorialeLa parabola artisticadel presidente dell’Istituto «Ernesto De Martino»

Ivan Della Mea

Viva la vitapagata a ratecon la Seicentola lavatriceviva il sistemache rende uguale e fa felicechi ha il poteree chi invece non ce l’ha.

Io so che un giorno

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realtà di tipo rurale a quelle urbane, trovando anche nuo-ve forme, tecnologie e metodologie. La sede storica dove il «De Martino» nacque nel 1966 negli anni novanta ab-biamo dovuto lasciarla perché ci avevano triplicato l’af-fitto. Non riuscivamo a trovare un posto dove trasferir-ci, a causa anche del disinteresse della varie amministra-zioni comunali che si sono susseguite. Così abbiamo co-minciato a mandare richieste d’aiuto un po’ dappertutto. E curiosamente è stato grazie a uno di questi appelli, che avevo lanciato dalle colonne di «Linus», che riuscimmo a salvarci. Venne letto infatti da un assessore al personale di Sesto Fiorentino, che la sera stessa presentò in giunta la ri-chiesta di ospitalità, subito votata all’unanimità. Nel ‘95 ci fu il trasloco, che fu epico oltre che massacrante, soprat-tutto per Franco Coggiola. Adesso siamo qua, in orribi-li ma comunque croniche ristrettezze economiche. Devo dire che siamo stati i primi a porci il problema della salva-guardia dei nastri. Purtroppo abbiamo scoperto troppo tardi che i compact disc non sono affidabili come si pen-sava qualche tempo fa, e sono soggetti a deterioramento progressivo. Dopo che ne avevamo registrati più di 3000 ci siamo resi conto che l’unica possibilità di salvataggio si-curo è un hard disc esterno. Da una parte quindi dobbia-mo riversare tutto ciò che era stato digitalizzato su hard

disc, e dall’altra continuare a registrare i tantissimi nastri che non avevamo ancora convertito in cd.

Quanti sono i materiali raccolti?La nastroteca raccoglie 6000 e più nastri magnetici – in

parte frutto di ricerche promosse, finanziate ed effettuate dall’Istituto stesso, in parte versati o depositati da privati, in parte dai ricercatori e dai gruppi di ricerca che si rico-noscono nell’attività dell’Istituto – contenenti documenti sonori registrati «sul campo», dal vivo, per un totale com-plessivo di circa 15000 ore di registrazione, di cui quasi la metà attinenti l’espressività musicale del mondo contadi-no (canti popolari tradizionali in lingua e in dialetto, can-ti sociali, canti di lavoro, canti religiosi e canti della pro-testa sociale e politica; rappresentazioni popolari, danze, riti, autobiografie, testimonianze e ricordi sui momenti più significativi della storia del movimento operaio ita-liano, manifestazioni sindacali e politiche, ecc.). Le regi-strazioni sono state effettuate in tutte le regioni italiane e in particolare in Lombardia, Piemonte, Emilia Roma-gna, Liguria, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzi, Puglie, Calabria, Sicilia e Sardegna. A quest’immensità di mate-riale sonoro bisogna aggiungere una discoteca e una fo-toteca specializzate.

Gualtiero Bertelli, musicista e can-tautore molto noto in laguna, negli anni sessanta è stato

una delle anime del Canzoniere Po-polare Veneto, che ha fondato in-sieme a Luisa Ronchini.

Com’è nataquesta esperienza?Il Canzoniere Popolare

Veneto nasce attorno al 20 settembre del 1964, e l’oc-casione è una festa per salu-tare Vania Chiurlotto, un’in-segnante elementare venezia-na che andava a Roma a dirigere il mensile «Noi Donne». In quel pe-riodo Venezia viveva un momento sti-molante, si svuotava di persone e si riempiva di idee. Erano attivi personaggi come Massimo Cacciari, Emilio Vedova, Giuliano Scabia, Mario Isnenghi, per ci-tare solo qualche nome. In quella riunione, formata da in-segnanti di sinistra, io – che avevo già qualche esperien-za di musica leggera – ho presentato tre canzoni che sa-rebbero poi diventate tre parti dell’Odineide, una specie di operina su testi di Mario Isnenghi. Quella sera c’era an-che Luisa Ronchini, che era arrivata con il suo chitarrista a cantare alcuni canti che aveva raccolto dalla signora che le affittava la camera. Lei, pur essendo di Bergamo, era ar-rivata da qualche anno a Venezia da Bolzano, dove aveva

vissuto a lungo. Alla fine della cena, dopo che avevamo cantato, mi ha

chiesto di metterci insieme, lei con il suo repertorio e io con le mie cose. La nostra prima esibizione pubblica è stata l’inaugurazione del circo-lo «Concetto Marchesi» di Mestre, per la quale aveva-no chiesto a Luisa di inter-pretare alcune canzoni del-

la Resistenza. Il mio debut-to è stato un disastro, perché

ero emozionantissimo. Crede-vo che tutto sarebbe finito lì,

ma Luisa ha insistito per an-dare avanti. È stata sempre lei

a presentarmi Michele Stranie-ro alla fine di dicembre del ‘64: era ap-pena finito lo sciopero generale per la Sirma, e io avevo composto «Ma ‘sti signori», forse la canzone più aggressiva e politica del mio repertorio. Stranie-ro è rimasto molto colpito, ed è stato proprio par-lando con lui che è

Le stagioni del canto di Gualtiero Bertelli Dal Canzoniere Popolare Venetoalla Compagnia delle Acque

Hugo von Hofmannsthal

Gualt iero Ber tell i

Co barche de cartase svola da l’alba al tramonto

se sbrissa co quatro parolein cao al mondo

se incontra fiori e farfalede mile colori

se toca co i ocituti i più grandi tesori.

Barche de carta

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

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nato il nome del Canzoniere Popolare Veneto. A questo punto abbiamo cominciato a fare spettacoli, e nel frat-tempo era arrivato anche Alberto (D’Amico, ndr). Luisa ha proposto di approfondire la ricerca e di tentare di rac-contare Venezia attraverso le canzoni. Così abbiamo co-minciato a raccogliere i materiali più disparati. Io mi so-no concentrato sulla Giudecca, Isnenghi aveva recupe-rato dei materiali da Chioggia e Roberto Leydi aveva re-galato a Luisa un prezioso nastro registrato a Pellestri-na anni prima da Alan Lomax e Diego Carpitella. La no-stra non era una ricerca in senso scientifico e sistemati-co, e mancava un’analisi critica del materiale. Però ha da-to dei risultati interessanti, come lo spettacolo Tera e aqua da cui è stato tratto il disco Addio Venezia, addio, inciso a Milano nel ‘67. In quel perio-do in tutt’Italia si tentava di ricostruire la storia mediante spettacoli che valorizzassero i documenti orali, di restitui-re cioè un’identità storica e lo-cale attraverso l’uso del docu-mento popolare, in particola-re della canzone. Noi abbia-mo quindi pensato di raccon-tare Venezia, non quella delle cartoline ma quella dei vene-ziani, con tutte le sue proble-matiche. E quest’operazione è stata condotta da un lato in-terpretando i canti che aveva-mo raccolto e dall’altro scri-vendo, Alberto e io, canzoni nuove. Motivi ora estrema-mente noti come ad esempio Peregrinassioni lagunarie sono pezzi della nostra storia che abbiamo restituito noi, e que-sta è la cosa più importante.

Nel ‘72 quest’esperienza si è conclusa, perché tutti stavamo prendendo strade diver-se. Io avevo voglia di fare cose nuove, che avessero più a che fare con la musica, mentre Luisa continuava a fare le sue ricerche. Successivamente ho fondato il Nuovo Can-zoniere Veneto, e con questa formazione nel ‘72 abbiamo effettuato un’importante campagna di ricerca ad Anguil-lara Veneta, un paese della bassa padovana da dove parti-vano squadre enormi di mondine. Con loro siamo anda-ti a raccogliere pomodori vicino a Modena, e in quindici giorni abbiamo messo insieme moltissimi materiali ete-rogenei, da cui poi in seguito è nato anche un cd. Intanto continuavo a scrivere canzoni, nel ‘69 esce il disco I gior-ni della lotta, tutto dedicato al ‘68: sentivo sempre più for-te il bisogno di legare le mie produzioni alla battaglia po-litica. Poi anche il Nuovo Canzoniere Veneto si è esaurito ed è uscito il mio secondo disco, Mi voria saver, incentrato su Venezia (1975). Alla fine degli anni settanta arriva im-provvisamente la crisi della politica: mi sono sentito im-provvisamente inutile, tanto è vero che ho smesso di fa-re canzoni e ho fatto l’assessore a Mira. Ho ripreso soltan-to nel 1987 con Barche de carta, presentando un linguaggio completamente nuovo, metaforico e simbolico.

Tra le tante belle canzoni che hai scritto, come «Stucky» o «Ingra-naggi», una in particolare, «Nina», ha acquistato da subito una

grande popolarità.Nina nasce nel ‘78, e diviene conosciutissima ovunque

ancora prima di essere incisa: molti credevano che fosse una canzone popolare, e mi sono anche sentito dire fra-si come «la cantava mio nonno». Questo fa capire quanto poco affidabili siano a volte le attribuzioni. Tutte le can-zoni hanno un autore, individuale o collettivo che sia. Ni-na ormai è sicuramente una canzone popolare,, senza au-tore, ed è meglio così! È il fatto che la gente se ne appro-pri, la faccia sua e la leghi a precisi momenti della propria vita che la fa diventare una canzone popolare.

Parliamo ora del tuo lavoro attuale con la Compagnia delle Acque.Ho sempre pensato che ci fosse il rischio che tutta l’espe-

rienza che avevamo accumulato andasse perduta, al di là

delle testimonianze affidate ai dischi. E tuttora sono mol-to preoccupato di dover assistere a un mondo che si di-mentica la propria storia e si inventa di essere ciò che non è. Ho sempre avuto il desiderio di non perdere di vista questo aspetto. E l’occasione mi è stata offerta casual-mente dall’incontro con Gian Antonio Stella. Un giorno, nel 2001, stava presentando un suo libro, e io l’accompa-gnavo con le mie canzoni. L’anno dopo con Giuseppina Casarin e alcuni altri musicisti siamo intervenuti in mo-do più strutturato alla presentazione di un altro suo libro. Questo mix è stato molto efficace, e Stella ha pensato di sostituire le solite conferenze e presentazioni con degli spettacoli veri e propri. Così è nata questa avventura, che consiste nel raccontare attraverso testimonianze scritte o materiali che stanno nella memoria personale temi e que-stioni cruciali, come per esempio l’emigrazione (come in Quando emigranti…, 2003), attorno ai quali è possibile ri-percorrere la storia del nostro Novecento e restituirla ai giovani, che altrimenti pensano di essere nati con inter-net. La Compagnia delle Acque dal gruppetto iniziale si è poi trasformata in qualcosa di diverso: un gruppo etero-geneo di musicisti, cantanti e attori che si aggregano a se-conda dei progetti.

Gualtiero Bertelli e Gian Antonio Stella

Focus On canti popolari di oggi e di ieri

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Con Alberto D’Amico, già evocato in precedenza, procediamo a ritroso nel tempo e partiamo da 7 Case, lo spettacolo presentato in febbraio

al Centro Culturale Candiani, e dal disco che l’ha preceduto, Flores, dedicato a Luisa Ronchini e registrato a Santiago de Cuba.

Cominciamo da Flores. A un cer-to punto della mia vita ho sentito il desiderio di unire ciò che dentro di me è unito, Venezia e Cuba. Quan-do sono andato a vivere nell’iso-la di Fidel non ho percepito uno stacco, non mi sembrava di esse-re andato a stare sulla luna. C’è una continuità: Cuba mi piace per tan-te ragioni (e altre ce ne sono per cui invece non mi piace), e tra queste c’è il fatto che Santiago mi ricorda mol-to la Giudecca di quaranta o più an-ni fa. Questo mi ha spinto a tentare un assemblaggio non meccanico tra questi due mondi. Inoltre avevo un bisogno enor-me di ricordare Luisa, alla quale mi ha sem-pre legato un rapporto viscera-le, basato sul fatto di aver vissu-to una grande esperienza, anche dal punto di vista emotivo. Anche se lei è mancata, resta quello che ha fatto, quello che abbiamo fat-to insieme. Così ho tentato di fa-re un omaggio a Luisa passando per Cuba.

Per quanto riguarda 7 Case, so-no le case dove io ho vissuto, dal-la prima, dove sono nato, a quel-la dove sto attualmente, a Santia-go de Cuba. È un lavoro che mi ha molto stimolato, perché mi è sem-brato di aver trovato una chiave narrativa. Attraverso i passaggi di casa si racconta la propria sto-ria, ma anche quello che accade-va al di fuori. In fondo le case so-no i luoghi più intimi per ognuno di noi. A ogni sezione narrativa, parlata, corrispondono alcune canzoni, che si legano al perio-do che racconto. Ma queste non sono necessariamente allinea-te a quello che viene letto, non fungono da commento alla pro-sa. Mi muovo su due piani abbastanza indipendenti, con l’in-tenzione di raccontare alcuni momenti centrali della mia esi-stenza: l’infanzia, la mia educazione cattolica, la militanza po-litica fino ai motivi che mi hanno indotto ad andarmene, a fa-re l’emigrante. Le canzoni camminano da sole, anche se ci so-no degli agganci con il testo, ma non sono didascaliche. Ho avu-

to la fortuna di avere come ospiti d’onore Gual-tiero e la sua fisarmonica, Sandra Mangini e la

sua voce incredibile, il sax di Marco Forieri e Giovanni Dell’Olivo, che mi ha magni-

ficamente accompagnato con la chitar-ra, il bouzuki e il mandolino.

Ora facciamo un passo indietro, e tornia-mo agli anni sessanta, al tuo incontro con Luisa Ronchini e Gualtiero Bertelli.

Ho cominciato a frequentare Luisa e Gualtiero grazie a Roma-no Perusini, un mio amico pitto-re che era marito della Ronchini. È stato lui, che mi aveva sentito cantare Modugno e cose del gene-re, a invitarmi nella loro casa in cal-

le del Rimedio. Dopo la mia prima audizione cominciammo a forma-

re il gruppo e a esibirci, dapprima so-lo in casa di amici e in qualche cenacolo.

All’inizio avevo un certo timore di Lui-sa, della sua grinta, della sua sicurezza. An-

zi la odiavo proprio, perché aveva una fortissi-ma personalità, e anche la sua pre-senza fisica metteva soggezione. Poi non so cosa sia successo, pro-babilmente si è sciolto qualcosa e ho incominciato ad amarla, a vo-ler restare con lei, perché ho visto che in realtà al di là delle apparen-ze era molto dolce e amava mol-to la canzone popolare. E questo amore me l’ha trasmesso. Gual-tiero era la testa pensante, era ra-zionale, si presentava in pubbli-co con sicurezza, parlava in modo spigliato e aveva anche una gran-de vena ironica. Interpretavamo canzoni della tradizione popo-lare, a cominciare da quelle splendide ninnananne, e poi canzoni di nozze, i canti dei «batipali» e dei pescatori. E oltre al-

la tradizione lagunare nel repertorio c’erano anche canti della guerra ci-vile spagnola e della Resisten-za: stiamo parlando del ‘65, erano passati appena vent’anni dalla fi-ne della guerra, e i partigia-ni erano

Le «7 case» di Alberto D’Amico,da Venezia a Santiago de CubaIl cantautore ricorda i fertili anni sessantae rende omaggio a Luisa Ronchini

A l b e r t o D ’A m ic o

Ti te ricordi Ana i biglietiche te pasavo in classe soto el banco

te disegnavo un fior sora un quadretoe de vardarte mai no gero stanco.

Co gerimo scolari

Momenti dello spettacolo al Candiani

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

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ancora uomini giovani e forti. In quel periodo abbiamo orga-nizzato a Ca’ Giustinian una rassegna di musica popolare insie-me al Nuovo Canzoniere Italiano, con Gianni Bosio, Giovan-na Marini, Ivan Della Mea, Caterina Bueno. Il titolo era «L’Altra Italia», e ha avuto un enorme successo, ogni sabato si costruiva uno spettacolo su un tema diverso.

Poi Gualtiero si è staccato dal gruppo, anche per sue esigen-ze personali di ricerca musicale: Luisa non voleva che la chitarra avesse altro ruolo che quello di accompagnamento, non voleva batterie o percussioni, privilegiava su tutto la voce. Il Canzonie-re Popolare Veneto ha continuato a lavorare per molti altri anni, con altri musicisti. Ma colui che ha inferto una vera svolta, mi-gliorando molto la qualità della musica, è stato Michele Santo-ro, che se ricordo bene è entrato nel ‘72 nel gruppo e con il qua-le abbiamo inciso El miracolo roverso, la prima «opera» del Canzo-niere. Si trattava del risultato di una ricerca, mia e soprattutto di Luisa, che aveva registrato molte interviste sul tema dei miraco-li fatti dalla Madonna della Salute. Io a mia volta ho cercato di condurre degli studi sulla storia della peste a Venezia del 1630. Da tutto questo è nato uno spettacolo estremamente semplice, che alternava canzoni a letture di documenti. La storia si muo-veva su due piani: da un lato c’era la narrazione della piaga del-la peste del 1630, quando i medici più liberi e indipendenti vole-vano che si decretasse la calamità e si sigillassero i porti per evi-tare ulteriori contagi all’esterno, mentre gli altri, più legati a in-

teressi e potere, imponevano un’altra verità, cioè che non si trat-tasse di peste ma di febbri isolate. Così i commerci continuaro-no con conseguenze disastrose. L’idea era quella di mettere in parallelo questa storia antica con fatti accaduti a Porto Marghe-ra, usando documenti ufficiali in cui alcuni medici denunciava-no il pericolo di inquinamento, di avvelenamento dentro e fuo-ri dalle fabbriche.

Abbiamo continuato su questa linea e abbiamo allestito uno spettacolo dedicato più specificamente alle tematiche ambien-tali, che trattava di Marghera e si intitolava L’aria: «L’aria del cie-lo che Dio ne manda/xe fresca solo per chi comanda». C’erano canzoni che parlavano dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuo-co. Avevamo messo la nostra musica e le nostre voci a disposi-zione di questi temi cruciali. Ma non creavamo soltanto canzo-ni «veneziane», sulla nostra città. Quando ancora stavamo as-sieme Gualtiero e io ci stimolavamo a vicenda, eravamo per così dire «al sevizio di» temi, motivi, melodie. Per fare un solo esem-pio cito Nina, quella bellissima canzone d’amore così piena di malinconia, che parlava di sentimenti accennando però anche ai grandi problemi della nostra gente, come la disoccupazione. Ebbene in risposta a Nina io ho composto Cavarte dal fredo, che è anche lei una canzone d’amore, che esprime il desiderio di un uomo di «regalare» una casa, l’acqua calda alla propria compa-gna. Quel periodo era una fucina, nascevano canzoni a raffica. C’era molta creatività, oltre alla passione politica.

Ogni volta che si affronta un argomento di grande com-plessità e di non univoca let-

tura, l’unico modo per uscire dall’am-biguità è rinunciare a pretese di esau-stività, e procedere per exempla auto-revoli e riconosciuti. Questo è l’approc-cio seguito anche per trattare il composi-to universo della canzone popolare vene-ziana e veneta: si sono privilegiate perso-nalità di grande storia e notorietà che però sono tuttora attive nel proporre le diverse e personali evolu-zioni del proprio percorso. A queste figure si sono affian-cati artisti più giovani dal punto di vista generazionale che pe-rò hanno già impresso il loro segno personale.

Vi sono tuttavia alcuni gruppi e interpreti che vorremmo almeno ri-cordare come esponenti non secondari di questa branca dell’espressione musicale. I primi sono Rachele Colombo e Corrado Corradi, due musicisti che – dopo l’esperienza all’interno del gruppo Calicanto – ora sono impegnati in «Archedora», un progetto innovativo di riproposi-zione delle tradizioni musicali e vocali dell’area istro-veneta. D’obbligo è certamente richiamare il già citato gruppo Calicanto, che – a partire

dagli studi sul campo di Roberto Tom-besi – alterna ricerche e produzioni, di-venendo uno dei gruppi folk più ap-prezzati all’estero. Dal 2000 l’ensem-ble è ritornato agli originali studi sulle sonorità delle comunità venete e italia-ne di Istria e Dalmazia, festeggiando i vent’anni con il fortunato progetto La-birintomare, che coinvolge oltre 25 arti-

sti da tutto l’Adriatico.Esecutrice d’eccezione è poi Giuseppina

Casarin, sensibile interprete di canti popolari ve-neti e del repertorio italiano che è stata avviata al canto

da Luisa Ronchini, ma ha anche condotto ricerche autonome con diversi altri musicisti. Attualmente insieme a Elena Biasibet-

ti e Rosanna Zucaro compone un trio femminile che lavora nel territo-rio veneto ed è entrato a far parte integrante della Compagnia delle Ac-que. Tra le voci più delicate e struggenti del Canzoniere Popolare Vene-to si vuole poi rammentare qui quella di Emanuela Magro. E infi-ne si menziona Monica Giori, che dopo aver duettato a lungo con Al-berto D’Amico presenta ora un proprio repertorio di canti popolari as-sieme al suo gruppo.

Giuseppina Casarin e Cecilia Bertelli Monica Giori e D’Amico Rachele Colombo e Corrado Corradi

Calicanto

Focus On canti popolari di oggi e di ieri

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Il progetto Lagunaria, ideato da Giovanni Del-l’Olivo e già annunciato su queste pagine qualche tempo fa (cfr. VeneziaMusica e dintorni n. 1�,

p. 49), ha ora perfezionato la sua elaborazione forma-le, articolata in dodici magnifici brani di musica po-polare veneziana. Chiediamo all’autore di spiegarci il disegno complessivo dell’opera.

Quello che noi proponiamo è una rielaborazione di canti popolari in chiave di contaminazione. Questo implica l’acco-stamento di strumenti e generi musicali che possono non es-sere storicamente compatibili, o meglio possono non essersi mai incontrati, se non a livello puramente ideale. Per fare so-lo un esempio l’utilizzo del bouzuki o del saz in diversi brani ha certamente a che vedere con la tradizione veneziana del-la musica colta (è noto che le «turcherie» avevano come strumento di musica da camera una ver-sione occidentalizzata del saz), ma a livel-lo «popolare» è un accostamento inedi-to, perché questo tipo di musica a Ve-nezia subisce un altro tipo di influen-ze, molto più legate al mondo trans-alpino. Proporre oggi, nel contesto geopolitico attuale, questa nuo-va commistione significa anche aprirsi alle culture del medio e del vicino Oriente, e riaffermare, senza alcuna retorica, il ruolo di centro multiculturale di Venezia.

Nella rielaborazione dei can-ti – che non è né ricerca filologi-ca né operazione d’autore in prima persona – abbiamo voluto coinvol-gere una schiera piuttosto variegata di musicisti professionisti. Il risultato è un prodotto che ha un’elevata com-plessità musicale. Credo che la vera novi-tà stia nel lavoro di arrangiamento e di me-ditazione sulle strutture armoniche, melodi-che e ritmiche, che abbiamo realizzato insieme io e Alberto D’Este.

Quali motivazioni sono all’origine di Lagunaria?Uno delle ragioni che mi ha spinto a occuparmi di questo ge-

nere – che ha sempre convissuto in me con la mia vocazione più schiettamente cantautoriale – sta nel fatto che io sono na-to con questo tipo di musica, l’ho ascoltata sin da bambino e molte delle fonti e delle suggestioni che utilizzo le conosco da quando ero piccolo. Inoltre credo che maturando ci si renda conto che uno dei modi per mettersi alla prova come musici-sta è quello di sprovincializzarsi attraverso la riappropriazio-ne della «propria» musica.

Puoi spiegare più nel dettaglio che cosa intendi per rielaborazione di can-ti popolari?

Noi abbiamo registrato un disco completamente acustico, non c’è mai la presenza di strumenti digitali ed elettronici. Pe-rò il livello di attenzione al suono, ai tempi, alle entrate e alle dissolvenze non quello è tipico della musica popolare come

tradizionalmente è stata eseguita. C’è uno sforzo di rendere il lavoro comprensibile og-gi: sembra incredibile ma le orecchie a cui ci si rivolge oggi sono abituate da vent’anni al-la musica campionata, e perciò escludono a priori forme ritmiche non omogenee. Quin-

di è necessario avvicinarsi, senza perdere le caratteristiche ori-ginarie, a questo tipo di ascolto. Altrimenti si rischia di non es-sere compresi e di proporre un disco che diventa subito parte della filologia, il che è molto lontano dalle nostre intenzioni. Il nostro punto di partenza è la consapevolezza che la musica popolare o esiste come genere attuale o non è: tutto il resto ap-partiene alla storiografia di questa forma espressiva. Abbia-

mo un patrimonio straordinario di musica che sta scom-parendo dalla memoria collettiva, e di cui sono sta-

te depositarie a volte anche molto gelose sola-mente alcune figure: oggi mi sembra giusto

che vi sia spazio per nuove riproposizio-ni. Non dico che la nostra sia la miglio-

re, ma se non altro esprime una delle possibilità.

Entriamo un po’ più nello specifico dei brani.

Una buona metà appartengo-no al genere della vilota, il più ti-pico canto popolare veneziano tra quelli codificati. La vilota ha il grande vantaggio di avere de-gli stilemi che si ripetono costan-temente, molte volte l’ultima pa-

rola di una strofa corrisponde alla prima della successiva. Questo per

facilitare la memorizzazione. Biso-gna pensare infatti che questi canti

venivano eseguiti dalle donne «facen-do filò», mentre i mariti erano in guerra o

in mare a pescare, e comunque lontani e in pericolo. Le vilote hanno delle sfaccettature di-

verse a seconda del sestiere di provenienza. Quel-le di Castello per esempio erano generalmente più lega-

te al tema dell’abbandono, come nel caso di «Quanti ghe xe», dove è riprodotto l’archetipo della sposa in perenne atte-sa dell’amato. Quelle di Cannaregio invece sono nor-malmente incentrate su tematiche a sfondo amoro-so, senza essere necessariamente giocose, per-ché raccontano anche storie di costrizione e violenza. Un esempio è «Me vogio ma-ridar», dove si racconta un amore te-nace e ostacolato dalle famiglie. Oppure il dolore che prorom-pe dalla «Letera d’amor».

Uno dei pezzi più bel-li, come lo struggente «Pianze la mare», interpretato da Sandra

Le contaminazioni inedite di «Lagunaria»Dodici canti popolari venezianiriarrangiati e interpretati da Giovanni Dell’Olivo

AsoloTeatro Eleonora Duse

5 aprile, ore 21.00

Rachele Colombo e Corrado Corradi

Amore mio ‘co ti xe fora dal portoMandime a dir del tuo felisse viagioMandime a dir se ti xe vivo o morto

Se l’acqua de lo mar t’avesse tolto(…)

Tute le barche ‘riva a la so’ rivaE quela del mio ben no riva mai.

Pianze la mare

G i o v a n n i D e ll ’ Oli v

o

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

1�

Mangini. Come nasce questo brano?È una vilota di cui ho trovato la struttura melodica nel volu-

me Sentime bona zente curato da Luisa Ronchini per i tipi di Fi-lippi. Lei aveva riportato semplicemente il tema originario, cioè quello che aveva ascoltato da un «portatore». Io ho ripreso quel tema, la linea melodica che era tracciata sul pentagramma, e ho aggiunto un ritornello che proveniva da un’altra vilota, forte del fatto che metricamente sono uguali e che questo procedimen-to di fusione anticamente era una pratica comune.

Ma alle vilote si affiancano an-che canzoni di origine diversa, come ad esempio la ninnananna «Fame la nana» e «Tiorte i remi e vuoga», canzone di lavoro che era funzionale alla pesca: i pesca-tori mettendo in cerchio le bar-che e battendo sulla chiglia pro-ducevano un suono che spaven-tava i pesci e li indirizzava verso le reti. Il canto ha anche funzione scaramantica e apotropai-ca («A ca’, a ca’ senza mangiare no, no se pol tornà»). E poi c’è il filone dei canti della mala, rappresentato dal «Primo furto da me compiuto» – amara vicenda di tradimento che nel car-

cere di Santa Maria Maggiore è ancora considerata una crea-zione collettiva – e dalla «Bela Mariotin», che molto probabil-mente è una composizione ideata dalla stessa Luisa Ronchini a partire da una traccia preesistente. Noi abbiamo preso que-

sta versione e l’abbiamo svilup-pata con strumenti diversi, mo-dificandola profondamente. È una canzone assolutamente pri-va di retorica, il cui tema è assai scabroso, perché racconta la sto-ria di una Medea moderna, in cui l’assenza di moralità che porta al-l’infanticidio è dovuta all’estrema indigenza.

Quali sono le fonti da cui hai tratto i testi e le melodie?

la fonte primaria deriva certa-mente dai dischi del Canzoniere Popolare Veneto, ma altre can-zoni mi sono arrivate da perso-ne che casualmente possedeva-no delle registrazioni. Per quan-to riguarda le melodie, comun-que, cinque dei dodici brani sono

il frutto di un’ideazione originale. Il minimo comune deno-minatore è il tentativo di toccare, laddove è possibile, tutte le diverse tradizioni musicali mediterranee. Per esempio il cele-bre testo «Dona lombarda» è diventato una pizzica.

Sandra Mangini è un’artista eclettica: at-trice, regista, cantante dalla straordina-ria espressività vocale. Cominciamo

con il chiederle qual è stato il suo percorso artistico.

Ho iniziato studiando a l’Avoga-ria e nel ‘90 ho preso il diploma. Da allora ho continuato a lavo-rare e studiare. Io sono una tea-trante e quindi il mio punto di vi-sta è questo. Ho un amore visce-rale per quest’arte in tutte le sue sfaccettature, perciò ho cercato di sviluppare sia il lavoro fuori sce-na (regia, scrittura drammaturgi-ca) sia quello di interprete, come attrice e come cantante. Parlando più specificamente della mia attivi-tà vocale devo subito dire che ho un approccio verso il canto che è teatrale, da attrice. Per me si tratta di un lavoro di interpretazione.

Negli anni ho cercato di conoscere maestri che applicassero metodi diversi, ho fatto delle esperienze di teatro di parola, di teatro del corpo, di com-media dell’arte, cioè di un teatro più tradizionale e lega-to all’uso della maschera. Sono sempre stata in bilico tra

la tradizione e la sperimentazione. Impor-tante è stato l’incontro con Virgilio Zer-

nitz, che da grande attore qual è mi ha insegnato cosa significa lavorare con la parola dialettale, nobilitandola.

Della tua poliedrica attività teatrale do-vremo occuparci in un’altra occasione... Ora invece parliamo del tuo lavoro sul-la voce.

Quando ho cominciato a fare le cose seriamente da una parte ho studiato canto lirico e dall’al-tra a l’Avogaria ho seguito l’inse-gnamento di Renato Gatto, che si occupa di un suono «altro», spe-rimentale. Ma il vero momento di

svolta è stato l’incontro con Gio-vanna Marini. L’occasione si è pre-

sentata al Teatro dell’Elfo, dove tra il ‘99 e il 2000 sono state allestite le Coefo-

re. Appunti per un’Orestiade italiana e le Eu-menidi con la regia di Elio De Capitani e le

musiche di Giovanna. Noi eravamo il gruppo di donne che formava il coro. Le musiche erano

bellissime e composte in greco antico, una lingua teatral-mente forte, efficace, espressiva. Mano a mano ho inizia-to a usare la voce in modo per me sconosciuto e che as-

La «vocalità teatrale» di Sandra ManginiDall’esperienza con Giovanna Mariniagli spettacoli nati da testimonianze orali

Giovanni Dell’Olivo e Alberto D’Este sotto una «immaginazione» di Piero Barel

Pata n o s t r a d a , l a t e r ra

(200

3)

Focus On canti popolari di oggi e di ieri

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somiglia al tipo di emissione popolare. In questo grup-po c’erano delle persone che lavoravano su queste voca-lità già da tempo, come la salentina Enza Pagliara e la ro-mana Germana Mastropasqua. Per me conoscerle è sta-ta una grande ricchezza, e da questo incontro sono nate collaborazioni e scambi di idee e repertori. Ma certamen-te è stata Giovanna la persona che mi ha fornito una chia-ve d’accesso verso il mondo della musica popolare, che è stata da sempre una mia grande passione. La musica dei popoli mi ha sempre affascinato perché è portatrice di una modalità molto espressiva per trattare temi impor-tanti, drammatici in senso teatrale. Insomma mi ha sem-pre commosso, emozionato. Giovanna insegna con il suo esempio, con la sua presenza e con il suo atteggiamento nei confronti della musica, che è molto spregiudicato: ci si trovava davanti questi spartiti che sembravano difficilis-simi, eppure noi tutte – e alcune non avevano mai canta-to prima – abbiamo imparato quelle scale e quegli inter-valli strani a memoria.

Dopo quest’esperien-za nel 2003 sono andata a trovare Antonella De Palma, dell’Istituto «De Martino»: loro stavano promuovendo il concer-to in memoria di Luisa Ronchini, e mi hanno in-vitata. In quel frangente ho conosciuto Gualtiero Bertelli e Giuseppina Ca-sarin. E dopo quel con-certo è cominciata la col-laborazione con loro, che dura tuttora. Con Giu-seppina portiamo avan-ti un lavoro sul reperto-rio popolare veneto e ve-neziano, ma spesso fac-ciamo anche spettaco-li in duo. Da sola ho an-che organizzato delle se-rate esclusivamente voca-li in Germania, dove pro-pongo canti popolari ita-liani, dal Nord al Sud.

Come recuperi i materiali che poi utilizzi nei tuoi concerti?

Dipende, ascolto e cer-co di incamerare tutto quello con cui vengo in contatto. Per esempio, quando preparavo Patanostrada, la terra, uno spettacolo costruito con Giuseppina Casarin e Stefano Rota e incentrato sulla civiltà contadina del Veneto, ho ascoltato l’Archivio Ron-chini ospitato al «De Martino». Ma in realtà la gran par-te di quello che ho imparato lo devo a Giuseppina e Gual-tiero. In linea di massima io non sono una specialista né una ricercatrice. Ripeto: sono una teatrante! Le mie ricer-che sono sempre trasversali, poi le informazioni si mi-schiano da sole. Per quanto riguarda il repertorio veneto comunque Giuseppina è un referente fondamentale, per-ché è difficilissimo incontrare qualcuno che ancora si esi-bisca dal vivo. Dalle nostre parti gli anziani li senti canta-re assai raramente.

Qual è il motivo per cantare (e proporre) musica popolare oggi?Quando intono un motivo come «Noi vogliamo l’ugua-

glianza», un canto femminista nato nel periodo delle le-ghe socialiste, le immagini che mi si parano davanti sono attuali, si riferiscono a un sentimento legato al presente. Lo stesso quando canto «Pianze la mare»: questo pianto materno lo collego istintivamente a un’immagine attuale. Ma allo stesso tempo convive in me anche tutto l’immagi-nario legato al passato, con il fascino che nasce dall’opera-re una riscoperta di qualcosa che è stato sepolto dalla sto-ria. È l’ebbrezza di ritirare fuori dall’oblio sentimenti e te-mi grandi. Una visione della vita più semplice però molto urgente, molto umana, poco mediata, fatta di valori che condivido, come libertà, giustizia, queste parole impor-tanti! Non si può pensare che siano valori acquisiti, per-ché non è vero. Quindi bisogna cantare musica popolare perché c’è un enorme bisogno di vivere la vita con questi volumi. Mi sembra di trarre energia da queste cose, e mi pare che il pubblico condivida le mie emozioni.

Un altro dei miei lavori riguarda le testimonian-ze orali. Con Maria Tere-sa Sega dell’Istituto Sto-rico della Resistenza re-gistriamo queste memo-rie di gente comune che allo stesso tempo ha un vissuto straordinario. È un procedimento simile a quello operato sui can-ti popolari. Nel processo di rielaborazione del ma-teriale testuale e musicale tendo a essere molto «filo-logica» e rispettosa, per-ché credo che anche nel modo in cui questi mate-riali vengono porti vi sia-no dei segreti, e io vado in cerca di quelli, che ovvia-mente poi elaboro nella mia personale interpreta-zione. Anche quando os-servo la gente mi affasci-nano i dettagli, in quel-li trovo la grandezza e la diversità delle persone. È questo che mi piace por-tare in teatro. E chiu-

dendo ancora sul teatro vorrei nominare un’altra persona, Eleonora Fuser, che, oltre a essere una grandissima interprete in qualsiasi ruolo le venga richiesto, credo sia la più grande attrice di teatro popolare, se voglia-mo coinvolgere in questo termine una tradizione antica che pren-de le mosse dalla commedia dell’arte.

Mala aria, regia di Valentina Fornetti (2007)

…io sono della città; riconosco le stradedalle buche rimaste, dalle case sparite

dalle cose sepolte che appartengono a me.

Un paese vuol dire non essere solidi Mario Pogliotti

Focus Oncanti popolari di oggi e di ieri

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Ideata dall’Associazione culturale Echidna, promossa dai Comuni di Dolo, Fiesso D’Artico, Fossò, Salzano, Vigonovo e accompagnata dal-la Fondazione di Venezia, la rassegna Paesaggio con Uomini por-

ta a Dolo, con la regia di Massimo Somaglino, lo spettacolo Indemonia-te. Abbiamo incontrato Giuliana Musso, che assieme a Carlo Tolazzi ne è l’autrice.

Il lavoro scaturisce da un lungo percorso laboratoriale. Di che tipo di opera-zione si tratta?

Nasce da un fortissimo interesse per quella che è la storia e la cultura popolare del territorio. Massimo e Carlo avevano già svolto un lavoro di recupero di alcune storie emblematiche e rap-presentative. Collocata tra la cronaca e la leggenda, una di queste narra di una piccola chiesa della Carnia dove si diceva che più di un secolo fa ai bambini nati morti venisse dato il battesimo qua-le viatico per la salvezza eterna. Resurequie era un bellissimo mo-nologo in lingua carnica, recitato da Sandra Cosatto, una delle principali interpreti anche di Indemoniate.

Il secondo studio riguarda lo spettacolo Cercivento, nome di un paese della Carnia dove nella scorsa Prima Guerra Mondiale so-no stati fucilati quattro nostri alpini accusati di diserzione. Do-cumentato da un’approfondita ricerca sul territorio e sui docu-menti dell’epoca, riporta sul palcoscenico i fatti accaduti, e riabi-lita le figure di questi quattro uomini rimasti nel-la memoria della gente del luogo.

Per quel che riguarda Indemoniate il percorso è stato molto simile: siamo sul finire dell’Ottocen-

to, a Verzegnis, piccolo paese delle montagne della Carnia, dove un gruppo di venti/quaranta donne per circa due anni ha soffer-to di quella che la scienza dell’epoca chiamò crisi di isteria collet-tiva, e la chiesa denominò invece caso di possessione. Abbiamo studiato i carteggi e i documenti della curia dell’epoca, dell’ufficio sanitario provinciale, dei medici che hanno preso in carico que-

sta situazione e dei giornali. Le donne e la popolazione di Verzegnis non hanno in-vece lasciato memoria di sé, e quindi una serie di eventi sono stati da noi ricostruiti.

Il caso fu trattato come problema di isteria da Fer-nando Franzolini, medi-co molto famoso all’epoca – al quale Udine ha dedica-to una via –, primo in Italia ad aver effettuato una ovo-rectomia completa, l’estra-zione completa delle ovaie a una ragazza di Latisana di 23 anni, fatto che avvenne due anni dopo gli accadi-menti di Verzegnis.

Indemoniate rispetta in ma-niera ferrea gli eventi cro-nologici e storici tranne per quel che concerne l’epilogo, dove ci siamo presi la libertà di attribuire alla protagoni-sta la medesima sorte tocca-ta alla ragazza di Latisana.

È possibile ravvisare nell’acca-duto anche una forma di protesta

contro la miseria in cui il popolo versava in quegli anni e in reazione a una pa-rola negata alle donne per secoli?

Sì, ma bisogna mettersi d’accordo sulla natura di questa pro-testa. Chi può protestare, dissociarsi, dissentire, non si ammala. Queste donne si sono ammalate perché questa protesta non la potevano nemmeno concepire. Pochi anni prima dei fatti di Ver-zegnis, la curia aveva vietato i pianti rituali ai funerali: alle don-ne era stato proibito di cantare il loro pianto, di effettuare i brani rituali popolari, di svolgere tutta quella serie di movimenti e di azioni sul cadavere durante la preparazione del corpo, l’accom-pagnamento della salma e il funerale. Penso al tipo di compres-sione creata da tutto ciò su una comunità che ha visto decimare bambini e vecchi da anni di epidemie! Ecco perché credo che se di protesta collettiva si vuol parlare, non si debba pensare a qual-cosa di nato dalla consapevolezza politica, ma sgorgato piuttosto da un insostenibile peso che, racchiuso nel corpo, è deflagrato in

alcune donne e ha coinvolto poi per suggestio-ne e imitazione tutte le altre che ne hanno senti-to il riverbero. (i.p.)

Le «Indemoniate»di Giuliana Musso e Carlo TolazziDalla cultura popolare, il caso delle donne di Verzegnis

Dolo – Cineteatro Italia12 marzo, ore 21.00

Focus On teatro popolare e tradizione orale

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Nome centrale del teatro di narrazione italiano, Ascanio Celesti-ni (cfr. VeneziaMusica e dintorni n. 14, p. 55 e n. 20, p. 50) ci racconta la sua concezione di «teatro popolare». Cosa leggi in

quest’espressione?In realtà vi intravedo una

sorta di contraddizione. Per quel che mi riguarda, non penso tanto al teatro come mezzo d’espressione popo-lare. Il teatro non nasce mai come popolare, ma come espressione di una cultu-ra colta, o alle volte ibrida. Spesso quello che noi chia-miamo «teatro popolare» è un teatro prodotto per il po-polo piuttosto che prodotto dal popolo. È un po’ il relati-vo della canzonetta di San-remo, che non è popolare ma è un prodotto per il po-polo. Cito un altro esempio: i biscotti del Mulino Bianco, la maionese Calvé, ecc. tut-ti li comprano: prodotti per tutti, non sono però pro-dotti da tutti. Il teatro sto-ricamente nasce dalle elite, non dal popolo, che è inve-ce colui che lo consuma. Per quel che concerne la mia attività, non si tratta tanto della volontà di riproporre una forma popolare di teatro, o del tentativo di co-struzione di un teatro popolare, quanto piuttosto di un lavoro sul-l’identità, sulle singole persone. Un peso rilevante lo attribuisco al-l’oralità, al fatto che nessuna delle storie che affronto nasce sem-plicemente da un’idea mia: incominciando a lavorare su un argo-mento, realizzo delle interviste intese proprio nel senso etimolo-gico della parola come incrocio di sguardi. Insomma: cerco il più possibile di produrre una maionese Calvé che sia onesta.

Legati al racconto orale hai tenuto anche una serie di laboratori.Si è trattato di un’esperienza che ha trasferito il mio lavoro dal-

l’individualità a un piano di condivisione: le interviste che nor-malmente faccio da solo, le ho realizzate assieme ad altre persone, con le quali poi ho scritto delle storie.

L’esperienza del festival «Bella Ciao» ha portato il teatro nelle periferie dei grandi quartieri popolari.

Sì. È una manifestazione nata quasi quattro anni fa dal deside-rio di Sandro Medici, presidente del Decimo Municipio di Ro-ma, con il quale si era parlato dell’idea di aprire uno spazio teatra-le in questa zona, dove storicamente un teatro non c’era mai sta-to. Si tratta di luogo all’estrema periferia di Roma, che con i suoi 200.000 abitanti è quasi una piccola città. Comprende una serie di quartieri, di borgate – Cinecittà, Quadraro, Morena, dove sono nato e ancora vivo – dove il teatro era talmente assente che non ce

n’era più nemmeno la necessità, nemmeno il ricordo della sua esi-stenza. Prima di aprire un teatro, ho dunque creduto fosse il caso di lavorare proprio sul bisogno delle persone di averne uno. Ho pensato così a un festival da fare nei luoghi frequentati dagli abi-

tanti di questa periferia: i centri commerciali, dove abbiamo co-minciato a proporre le nostre Incursioni. Abbiamo poi portato una serie di gruppi che facessero un tipo di teatro comprensibile a tut-ti, e che in questo senso fosse popolare: un teatro dove non ci fos-se una censura sul pubblico, dove lo spettatore potesse dire «non mi è piaciuto», ma non «non ho capito niente». Si è deciso di segui-re alcuni temi, e visto che questa è una periferia dove c’è una storia di costruzione di case popolari piuttosto solida – dalle prime degli anni trenta, allo sviluppo degli anni cinquanta, ai nuovi quartieri popolari di adesso – abbiamo scelto di scavare nella storia di que-ste borgate. E poi ancora: spettacoli prodotti da compagnie con una storia alle spalle, spesso una vicenda di lavoro di gruppo, per cercare quelli più accessibili come livello di comunicazione a spet-tatori che non solo non vanno a teatro ma che probabilmente non sono nemmeno interessati ad andarci normalmente.

Il festival negli anni si è evoluto: nei centri commerciali – luoghi adatti principalmente, se non unicamente, alle passeggiate volte all’acquisto – abbiamo pian piano smesso di andare, e abbiamo cominciato a lavorare a Maratoneti, un progetto dove cinque grup-pi di artisti vengono seguiti per un anno da altrettanti intellettua-li, cinque critici che un po’ servono da stimolo per il loro lavoro e un po’ cercano di seguirne le tracce per delineare la storia della lo-ro attività. Il progetto ha avuto inizio lo scorso settembre 2007 e vedrà il suo primo traguardo a settembre 2008. (i.p.)

Le origini orali del teatrodi Ascanio Celestini Il lavoro dell’artista romanotra storie collettive ed estreme periferie

Ascanio Celestini in Fabbrica (200�)

Focus Onteatro popolare e tradizione orale

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«Crucifixus» è un festival nato nel 1998 che si svolge ogni anno tra il lago d’Iseo e la Val Camonica, durante le tre settimane che precedono la Pasqua. Coinvolge oltre venti comuni delle provin-

ce di Bergamo e Brescia che ospitano in contemporanea un gran numero di spettacoli di teatro e musica, con un successo che cresce edizione dopo edizio-ne. A Carla Bino, ideatrice e ani-ma della manifestazione, di cui cu-ra la direzione artistica insieme a Claudio Bernardi, chiediamo co-me è nato il progetto e quali sono le sue linee portanti.

Nel 1998 tra la Val Camo-nica e il Lago di Iseo nasce-va l’idea di lavorare in mo-do organico, e condiviso da più soggetti, a un progetto di cultura che basa la sua ra-gione di essere su due punti: la ricchezza storica, artistica e ambientale del territorio e la necessità di puntare sul-la specificità di tale ricchez-za per costruire e comunica-re identità; cioè costruire e rinnovare valori, memorie, simboli, per poi comunicar-li come collettivi. Quell’idea si traduceva in «Crucifixus», un percorso di reivenzione della tradizione che, coniu-gando luoghi d’arte cristiana e antiche pratiche devozio-nali, propone un recupero del patrimonio teatrale me-dievale e rinascimentale per dare voce a memorie, testi, musiche, immagini del pas-sato nel continuo confronto con scritture contemporanee e nuove contaminazioni.

Sin dall’inizio è stato assolutamente evidente che la condi-zione essenziale per dare sostanza a «Crucifixus» è la costru-zione di una rete territoriale che con-senta una reale valorizzazione attra-verso la messa in comune di patrimo-ni artistici e ambientali diversi e di di-versi saperi. È fondamentale mette-re insieme più luoghi di un’unica ter-ra, luoghi accomunati dalla stessa cul-tura e storia, ma ognuno con una pre-cisa particolarità e con la possibilità di giocare un ruolo preciso. Quella terra, per noi, è come un corpo. E un corpo non è mai generico, ma è sempre speci-fico. È un tutto, non smembrabile, né frazionabile. Abbiamo individuato nel

concetto di «coralità», derivato da Mario Apollonio, il conte-nuto, il metodo e la prassi.

Il contenuto perché la cultura di quella terra è, per storia e tradizione, cultura collettiva. È condivisone di un insieme di conoscenze, di valori, di riti e di ritmi nei quali i singoli indi-

vidui si riconoscono e attra-verso i quali scandiscono la vita personale e di gruppo.

Il metodo, perché la cultu-ra corale o comunitaria im-plica la rinuncia all’autoriali-tà e al monopolio di un dise-gno calato dall’alto e impone la relazione e la collaborazio-ne su un progetto che pun-ti alla creazione di «un’arma-tura culturale del territorio». Ossia renda necessario im-postare il progetto di futuro delle comunità locali su ridi-segnati significati di identità. Sul paradigma dell’armatura culturale si innesca il lavoro svolto dal festival sui luoghi d’arte e sul patrimonio sto-rico, che vengono sempre connessi al progetto del ter-ritorio e al suo modo di esse-re vissuto.

La prassi ossia il coinvol-gimento di realtà territoria-li nella realizzazione di pro-cessi vivi in gruppi e assem-blee di persone, in «teatri di comunità», che consentono la riattivazione degli scambi per la costruzione di nuovi

saperi e, soprattutto, di nuove relazioni.Il progetto e la sua messa in opera sono scanditi in tre mo-

menti distinti ma imprescindibili: ricerca scientifica, forma-zione culturale e professionale, intervento sul territorio e pro-

duzione di eventi. A queste tre fasi col-laborano diverse entità, ciascuna con un suo ruolo.

L’idea di realizzare «Crucifixus» na-sce in seno al lavoro di ricerca sul tea-tro sacro cristiano e sulle sue forme di rappresentazione svolto dall’Universi-tà Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, cui è affidata la direzione scientifica e artistica. La ricerca consente di cono-scere e comprendere opere d’arte, testi e azioni del passato, mettendo a dispo-sizione un vasto patrimonio artistico su cui lavorare. Grazie al festival que-

«Crucifixus»,la reinvenzione della tradizioneDecima edizione per il festival di teatro sacro

Crucifixus – Festival di primaveraAngolo Terme, Ardesio, Artogne,

Berzo Demo, Bienno, Breno, Brescia, Capodiponte, Cedegolo, Cerveno, Cividate Camuno, Clusane d’Iseo,

Clusone, Corte Franca, Costa Volpino, Darfo Boario Terme, Edolo, Esine, Gianico, Iseo, Marone, Novelle di

Sellero, Pisogne, Polaveno, Provaglio d’Iseo, Provezze di Provaglio, Sacca

di Esine, Sale Marasino, Sellero, Tavernola Bergamasca, Zone

1-29 marzo 2008

Specchio di Croce regia di Mariano Dammacco,Forge Monchieri, Cividate Camuno, Crucifixus 2007

Focus On teatro popolare e tradizione orale

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sto patrimonio non rimane pura teoria consegnata al libro, ma attraverso la produzione di performance diviene reinvenzione della storia e della tradizione, riattivando i meccanismi di pro-duzione corale e comunitaria che si accompagnano alla presa di coscienza da parte del territorio dei beni in suo possesso.

Per questo motivo il festival è soprattutto produttore di drammaturgie ed eventi teatrali e musicali, realizzati in accor-do con professionisti delle arti performative, che lavorano in-dividualmente a progetti appositamente ideati, ma che sem-pre più spesso intervengono anche sul territorio e collabora-no con gruppi locali, dando origine a interessanti esempi di teatro di comunità.

Mi puoi fare un esempio di recupero «attuale» di un testo antico, magari di natura musicale?

Qualche anno fa, tra i ma-noscritti conservati pres-so la Biblioteca Queriniana di Brescia, recuperai l’anti-co «libro» della confraterni-ta dei disciplinati di Breno, che, accanto agli statuti del-la fratria, recava l’ufficio per il tempo di Quaresima. Co-me è noto, le confraternite di flagellanti o disciplini, molto diffuse in Italia a partire dal-la fine del XIII secolo, erano associazioni laiche che fon-davano il loro programma comunitario sulla memoria della passione di Cristo. A es-sa erano dedicate pratiche di preghiera privata – come gli uffici eucologici da loro cele-brati – e pubblica – come ad esempio le processioni, i riti di sepoltura, e soprattutto il canto delle laudi che veniva fatto per stimolare la com-mozione del popolo e la sua conversione. Inoltre i disci-plinati svolgevano un ruolo attivo nel contesto sociale e comunitario in cui operava-no, impegnandosi nel com-pimento delle opere di misericordia e nelle pratiche di carità, costruendo e gestendo «ospitali» per i bisognosi, accudendo i malati, visitando i carcerati, dando sepoltura ai morti e ado-perandosi per la pace cittadina, in epoca di profondi conflit-ti sociali e di assenza di strutture di mutua assistenza. La pas-sione di Cristo, quindi, diveniva il principio unificatore attor-no a cui il gruppo stringeva il suo patto di fratellanza che veni-va rafforzato richiamandone continuamente la memoria con la preghiera, la meditazione, i riti, le immagini per poi farne la propria prassi sociale attra-verso l’agire misericordioso. A partire dalla «drammaturgia del coro» confraternale prende avvio il vasto capitolo del «tea-tro della misericordia» che po-trebbe essere letto, seguendo il magistero di Mario Apollo-

nio, come espressione dei valori comuni in ragione dei qua-li singoli individui scelgono di stare insieme e accettano la re-sponsabilità dell’impegno personale, traducendo progressi-vamente la parola «teatrica» in fatto e passando dalla «rievo-cazione parlata» alla «personificazione agita». Un teatro inte-so come riattuazione realista ma antispettacolare del ricordo della passione, il cui fine è stimolare all’azione reale e ricreati-va della misericordia.

Proprio a partire da queste considerazioni storiche abbia-mo voluto reinventare una nuova coralità comunitaria che avesse il suo fulcro nell’antico ufficio della Quaresima brene-se, composto da laude straordinarie intervallate da preghiere. Così abbiamo lanciato una provocazione: rimettere in musica

quella liturgia laica che do-veva essere cantata e che do-veva essere un efficace atto di devozione popolare, vol-to a coinvolgere tutta la co-munità. La sfida è stata ac-colta da un coro di uomini, alpino, forte e pieno di ener-gia: pian piano, in quattro, cinque anni, Piercarlo Gat-ti, insieme alle «Voci dalla Rocca», ha dato nuove note a ciascuna lauda. Non solo, ma subito quelle parole met-tevano alla prova la loro por-tata teatrica, dato che di an-no in anno pensavamo a un progetto di messinscena di-verso, utilizzando i canti già musicati e affidando alla re-citazione ciò che non era an-cora stato elaborato dal com-positore. Contemporanea-mente io e Roberto Tagliani abbiamo pubblicato il codi-ce, corredandolo di uno stu-dio storico-teatrale e di un commento filologico. Quel testo, dunque, è stato defini-tivamente tirato fuori dagli archivi e restituito alla gente. Alla fine dell’impresa, quan-

do ormai la maggior parte delle lodi era stata composta, abbia-mo deciso di incidere un cd, nel quale le preghiere, che si alter-nano al canto delle laude eseguite dal coro, sono affidate a una voce recitante (quella di Silvio Castiglioni). Si è trattato di un processo di reinvenzione della tradizione che oggi è «oggetti-vamente» viva, perché a Breno, in Valcamonica, magari non si saprà che quello è l’officio quattrocentesco della disciplina, ma, di fatto, tutti conoscono quelle parole antiche associate

a una musica nuova. Per infor-mazioni: www.crucifixus.com (l.m.)

«Coniugando luoghi d’arte cristianae antiche pratiche devozionali

la manifestazione proponeun recupero del patrimonio teatrale

medievale e rinascimentaleper dare voce a memorie, testi, musiche,

immagini del passato»

Il canto della terra cieca di Mariano Dammacco,Crucifixus 2008

Una più ampia trattazione su Crucifixus – Festival di prima-vera si potrà trovare nel nume-ro di «Itinerari Mediali» in usci-ta a marzo (www.effata.it/rivi-

ste/itinerari.html).

Focus Onteatro popolare e tradizione orale