Musica Leggera #14

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storie di artisti, dischi e canzoni #14 • febbraio marzo 2011 • 7,00 MARIO BIONDI A mio padre MATIA BAZAR Tutta la storia, dai Jet a oggi MARIO MARIANI Biomusica in trance JULA DE PALMA Il concerto al Sistina

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Anteprima Musica Leggera n-14

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storie di artisti, dischi e canzoni

#14 • febbraio marzo 2011 • € 7,00

PinoPinoDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDanieleDaniele

MARIOBIONDIA mio padre

MATIABAZARTutta la storia,dai Jet a oggi

MARIOMARIANIBiomusica in trance

JULADE PALMAIl concerto al Sistina

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La chiave più giusta per entrare inquesto tuo primo CD mi sembral’ultima traccia, una vecchia regi-strazione amatoriale di Lush Life…Sì, una delle tante registrazioni fatte acasa da Tony con mia sorella Nina eme, quando io avevo 8 anni. Tony acasa suonava ogni giorno. Quindi pernoi quella Lush Life non fu una cosa di-versa dal solito. Lui registrava sempre.

Tuo padre, il jazzista Tony Scott, èscomparso quattro anni fa, nel2007. È automatico pensare a questolavoro come a un omaggio a lui.Più che un omaggio, è una cosa perso-nale, una cosa che ho avuto bisogno difare per far uscire una parte di me.Con queste canzoni io sono cresciuta ea un certo punto non ho potuto evitaredi affrontarle. Farlo era la cosa più im-portante per me. E per questo motivonon è un disco molto commerciale,non ho cercato produttori, ho messo ipezzi che volevo mettere. E basta.

Quando è iniziato il tuo viaggionella musica con tuo padre?Tony è arrivato a Roma nel 1970, equell’anno io sono nata, a dicembre.Lui ha cominciato a fare musica primacon Nina, che è più grande di me. Poi,quando io avevo quattro anni, ha vistoche ci prendevo, che ero portata.

E dove hai avuto le tue prime espe-rienze?

Le ho fatte a New York, all’inizio deimiei vent’anni. Però facevo delle robenon jazz, stavo in un gruppo e cantavodei cover di musica soul nei locali. Poisono andata a Tokyo e ci ho vissutocinque anni, e lì ho cominciato a suo-nare jazz, prima con un pianista ame-ricano e poi con un quartetto, a farmiun repertorio jazz e finalmente ad af-frontare questa strada che avevo sem-pre un po’ evitato, perché mi sembravatroppo importante, troppo impegna-tiva per me.

Ti spaventava il fatto di essere la fi-glia di una leggenda del jazz?Questa è una cosa che ho capito vera-mente forse solo negli anni più adulti.All’inizio sai solo che quello è tuopadre e pensi che sia tutto normale.Certo, andavo in giro con lui ai con-certi, vedevo che la gente lo trattava inuna certa maniera, ma tutto sommatostiamo parlando di jazz: Tony non erauna popstar. Per me era un padre, piùche un mito del jazz. Più avanti,quando ormai ero una teenager e ho co-minciato ad ascoltare con più atten-zione le sue storie, a memorizzarecerti nomi, solo allora ho capito chiera veramente, e che aveva davverosuonato con tutti i grandi.

E che impressione ti fece questaconsapevolezza?In realtà io e mia sorella ci siamo abi-

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CONVERSAZIONE CON MONICA SHAKA | DI MAURIZIO BECKER

Le ULTIme ReGISTRAzIONI DI SUO pADRe Le ReGAlaNO UNvIAGGIO STRUGGeNTe NeLla SUA INfANzIA, qUANDO eS-

SeRe la fIGLIA DI UN mITO DeL JAzz eRA ANcORA UN GIOcO.

GIRO DIUN ALTRO

GIOSTRA

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tuate abbastanza presto a conviverecon tutti questi nomi. Mia sorella, inparticolare, ha avuto addirittura mododi conoscere di persona Ben Webster,Dizzy Gillespie e tanti altri che io in-vece, essendo più piccola, ho solo sen-tito nominare.

Pur essendo un grande, Tony forseha raccolto meno di altri suoi colle-ghi. Hai mai avvertito del rimpiantoin lui per questo motivo?Rimpianto? Vuoi dire complain? No. Per-ché lui diceva sempre che nella suavita aveva fatto quello che voleva fare.L’unico rimpianto che gli ho mai sen-tito esprimere era quello relativo allastoria di Day-O.

Alludi all’arrangiamento della fa-mosa Banana Boat di Harry Bela-fonte, che tuo padre scrisse ma nonpoté firmare…Sì, esatto. È una storia molto compli-cata che solo di recente mi è stata spie-gata nei dettagli da Fran, la primamoglie di Tony, di cui sono diventatamolto amica. Lei sa tutto, perché eramolto amica, e ancora lo è, di HarryBelafonte e di sua moglie Julie. Quindilei stava là e finalmente mi ha chiaritoquesta storia: in pratica, era successoche Tony si era fatto un po’ imbro-gliare. E questa storia lui non l’ha maidigerita, perché se avesse firmato l’ar-rangiamento di quel pezzo avrebbe po-tuto avere veramente tanti soldi.

Nella sua carriera tuo padre hadetto tanti no. Alla fine degli anni50, per esempio, rifiutò un con-tratto da 150.000 dollari che gli erastato offerto dalla RCA americana.Conosci questa storia?No. Ci sono tante cose della carriera diTony che io non conosco, o che ho im-parato solo adesso, da Fran o magarileggendo delle cose che sono statescritte su mio padre.

A proposito di quell’episodio, luicommentò così: «Avrei dovuto suo-nare musica bianca con musicistibianchi. Così dissi: no, grazie. I mieiamici mi dissero che ero un pazzo,ma io volevo vivere come un jazzistanero. E in ogni caso, non puoi fare lasuora di giorno e la puttana dinotte»…Non mi stupisce. Lui è sempre statodalla parte dei neri, i suoi miglioriamici sono sempre stati neri, HarryBelafonte, Billie Holiday, Charlie Par-ker, Lester Young. Tony era circondatoda neri. Non ha mai accettato di pro-stituirsi. È un uomo che è sempre ri-

masto fedele alle sueidee.

Idee che probabil-mente gli resero lavita molto difficile,tanto che all’iniziodegli anni 60 decise dilasciare gli Stati Uniti.Penso che in quella scelta ci siastato un misto di cose: i suoiamici più vicini erano scom-parsi e lui diceva che anche ilclarinetto cominciava a mo-rire. E poi, avventuroso co-m’era, voleva scopriresempre nuovi orizzonti.

Nel 1957 fu il primo jazzi-sta americano a esibirsi inSudafrica, per di più da-vanti a un pubblico integrato.Fran mi ha raccontato che quandoandò la prima volta in Sudafricagli proposero di fare un concertosoltanto per un pubblico bianco,ma lui rispose di no e subito dopoandò a cercare un locale nero dovepoter suonare senza imposizioni e in-vitare anche i bianchi. Questo eraTony.

In Indonesia finì addirittura in pri-gione per motivi politici. Penso che lì sia stato lo zampino dellaCIA. Evidentemente fu consideratotroppo politicamente attivo per essereun musicista. Allora in quei Paesi c’eraun regime molto chiuso, dove nonc’era spazio per questo genere di coin-volgimenti, e probabilmente Tonyaveva sorpassato tutti i limiti consen-titi.

Ho letto che anche in Italia ebbequalche problema, ad esempioquando accompagnava RomanoMussolini…Questo non lo so. So soltanto che inquegli anni lui aveva una moglie e duebimbe e per portare da mangiare acasa doveva lavorare tanto. Per cui ac-cettò di lavorare anche con Mussolini.Che poi la gente abbia giudicato quellascelta in modo negativo è possibile,ma io veramente non lo so.

Prima hai accennato ai grandi amicineri di tuo padre. Quanto hanno in-fluenzato la tua formazione?Musicalmente non tanto. Non è che acasa Tony suonasse tanto questa mu-sica… Charlie Parker per esempiocredo mi abbia influenzato pochis-

simo, non ascolto mai la sua roba. Ma-gari è soprattutto nei racconti che nefaceva Tony, o forse attraverso la mu-sica di Tony che io sento il suo suono,la sua influenza. Con Billie Holiday in-vece è tutto diverso: mi sono sempresentita vicina a lei. Forse anche perchéTony me ne parlava soprattutto dalpunto di vista umano, me la descri-veva come un’amica. Se ad esempio iopoggiavo un cappello sul letto, lui midiceva: «Non farlo, Billie diceva chenon si deve mai mettere il cappello sulletto». Cose così. Per cui Billie diven-tava parte del mio quotidiano, quasicome una aunt, una vecchia zia chenon ho mai conosciuto ma di cui sa-pevo tutto, come la pensava e soprat-tutto come soffriva. Questo l’hosentito molto attraverso lui, e poi neimiei teenage years i suoi dischi li hoascoltati molto, per cui sicuramentemi ha segnata.

Tuo padre ha lavorato con moltealtre grandi cantanti jazz: SarahVaughan, Peggy Lee, CarmenMcCrae. Chi ti piaceva di più? Di nuovo, devo rispondere Billie Holi-

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Non è mai stato un personaggio facile damaneggiare, né per i discografici né

tantomeno per i media. Forse perché la suamusica guardava altrove, forse perché i suoiamici più veri erano un jazzista mulatto e

anarchico e un regista meridionale fuori daglischemi almeno quanto lui. Oggi, trentacinque

anni dopo il suo debutto, non è che siacambiato molto.

Conversazione con Pino Daniele | di Maurizio Becker

MASTER TAPEPino Daniele

A dicembre hai fatto uscire BOOGIE BOOGIE MAN. Come mai l’annunciatoACOUSTIC JAM è saltato?Per questioni discografiche: non mi hanno permesso di farlo in un certo modo. Maadesso che ho finito il mio contratto con la Sony posso fare quello che mi pare.

Di ELECTRIC JAM mi aveva colpito soprattutto Sesso e chitarra elettrica…Quello era esattamente il pezzo che avrei voluto promuovere, poi non mi è stato possi-bile. Questi discografici di oggi vanno in giro per le radio per vedere se il pezzo vabene oppure no. Cercano il singolo che funziona, l’artista per loro non esiste più.

Quel pezzo imprimeva alla tua musica una direzione molto precisa, la spingevaverso un sound sanguigno, blues, insomma molto anni 60, molto Cream…Io ho cominciato proprio con quel tipo di musica, quando suonavo nei locali ameri-

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cani: avevo tredici o quattordici anni e facevo ipezzi dei Cream e di Jimi Hendrix, inventan-domi l’inglese. Quindi questo sound fa partedel mio modo di essere. Diciamo che fa partedi un sogno che poi si è realizzato l’estatescorsa, quando sono stato l’unico musicistaitaliano invitato da Eric Clapton a suonare alCrossroads Festival di Chicago insieme a gentecome Jeff Beck e Stevie Winwood. Ho vistoBuddy Miles, ho visto Ron Wood. Mi sonoconfrontato con una realtà che per me stavanella mia stanzetta a Napoli. Pensa che pian-gevo, accanto a me c’era il chitarrista degli Al-lman Brothers, mi guardava e diceva: «Ma checazzo piangi?». Stavo lì, guardavo Stevie Win-wood e mi dicevo: «Cazzo, io sto qua!».

Dicevi che il tuo contratto con la Sony è fi-nito. Cosa farai, da chi andrai?Mi produco da solo. Sicuramente il prossimosarà un disco di cose nuove, un disco partico-lare.

Giocare sul sicuro non ti diverte, giusto?Io rischio sempre. Non so mai il risultato dellecose.

In questo momento rischiare non dev’es-sere semplice. Quale è la tua strategia?Fare il meno possibile. Guadagnarti lo spaziosforzandoti di non cambiare niente di te.

BOOGIE BOOGIE MAN, sostanzialmente, èun modo di riproporre in versione aggior-nata alcuni tuoi classici. Ci sono ad esem-pio Napule è, Chi tene ’o mare, Je so pazzoe Yes I Know My Way, tutte e quattroprese dal repertorio dei tuoi primi anni.Eppure sembrano scritte oggi.Questo è perché io sono un portatore di napo-letanità diverso: più che un cantante napole-tano, sono un napoletano che canta, che èuna cosa diversa. Sono venuto fuori da unagenerazione per la quale la musica leggera sisposava ai linguaggi internazionali. Un po’come venti anni prima aveva fatto Carosone:lui aveva usato il boogie-woogie e il jazz, io housato il blues e il jazz moderni, cioè in praticail rock. Non a caso fra i miei pezzi più famosici sono Je so’ pazzo e A me me piace ’o blues,che sono legati al blues, alla cultura ameri-cana. Insomma, mi rifaccio alle mie melodie,anche se scopiazzo il blues americano.

Tu sei sempre stato un po’ restio a parlaredel passato, ma a volte fa bene.Sì, è vero, fa bene.

Anche per far capire alle giovani genera-zioni cosa c’è dietro…Esatto, esatto.

Quindi facciamo un po’ di storia: a dodici

anni hai iniziato a suonare la chitarra, unaEko mi pare. Era il ’67. Chi ti ha consigliatoi primi dischi importanti?I dischi me li sono scelti da solo. Allora si vi-veva di queste cose: andarsi a comprare ildisco, portarselo a casa, scoprirlo, guardarsi lecopertine, leggersi i testi. La musica era cul-tura.

Il primo disco che hai comprato te lo ri-cordi?Era di Elvis, si chiamava Pot Luck. Poi i suoi di-schi li ho comprati tutti. Subito dopo sono an-dato a finire su Frank Zappa, HOT RATS,OVERNIGHT SENSATION, quei dischi lì. E poi iCream e tutto il rock inglese, i Traffic, i GentleGiant, i Genesis… E il blues: BB King, i primidi Clapton, i Blind Faith…

E i jazzisti?Quelli che mi hanno cambiato la vita sonostati Gato Barbieri, Don Cherry, Wayne Shor-ter, Chick Corea…

Miles Davis, immagino…Eh, Davis ha cambiato la vita a tutti, mica soloa me…

Quello di BITCHES BREW…Sì, ma anche quello di TUTU. E poi i WeatherReport. Omar Hakim, che ora suona con me,era il batterista dei Weather Report, Rachel Z

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Il ricordo degli anni con Antonella è indelebile, eppure nella tumultuosa storia diquesta istituzione della musica italiana c’è molto altro. A cominciare da unastrana band che scelse di chiamarsi come un collezionista tedesco un po’ toccato...

Conversazione con Giancarlo Golzi | di Vito Vita

REMASTERMATIA BAZAR

MATIA,PRIMA E DOPO

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Prima dei Matia Bazar sei stato il batteristadi un gruppo di rock progressivo, il MuseoRosenbach…Ho iniziato come batterista non proprio giova-nissimo… Avevo vissuto l’epoca beat, dueanni prima, da ragazzino, guardando suonarei vari complessi che traducevano in italiano isuccessi inglesi e americani, tipo l’Equipe 84 oi Corvi. Ma è stato a diciott’anni che ho avutoil mio primo impegno serio con i Museo Ro-senbach: era il periodo della nascita del Pro-gressive, e mi ricordo tantissimi dischi cheuscivano in quel periodo, dischi meravigliosi.Noi avevamo la fortuna di avere il papà delnostro bassista (Alberto Moreno, con cuisuono tuttora nei Museo Rosenbach quandosono libero dai Matia Bazar) che era un avvo-cato di grido e che tra i suoi clienti aveva attoricome Marcello Mastroianni e Yul Brynner: perlavoro si recava spesso all’estero, negli StatiUniti, e una volta tornò con dei dischi per suofiglio. È un momento che ricordo benissimo,come se fosse ieri: venne nella cantina doveprovavamo, perché noi suonavamo in cantinada Alberto, e portò questi quattro album: ilprimo dei Procol Harum, quello con A WhiterShade Of Pale, ARE YOU EXPERIENCED? diJimi Hendrix, uno dello Spencer DavisGroup…

Cioè Stevie Winwood prima dei Traffic…Esatto. E poi c’era anche il primo Led Zeppe-lin, quello con il dirigibile in copertina, che inItalia non era ancora uscito. Ora, tu immaginacinque ragazzi che si vedono sul tavolo questiquattro dischi, li mettono sul giradischi e liascoltano… Prova a immaginare l’effetto diquelle sonorità.

Quella è stata la scintilla.Esatto. Da lì è nato tutto il nostro interesse:abbiamo iniziato con le cover per poi passarein breve a un repertorio nostro. Passavamo legiornate, le settimane, in cantina insieme astudiare le parti, a suonare, a provare e a ri-provare. Siamo arrivati al punto che non pren-devamo nemmeno in considerazione unbrano se non era, almeno, in tempo dispari!Poi sono iniziati i primi concerti in zona, aSanremo, a Bordighera… È stata una bellapalestra.

Come siete stati contattati dalla Ricordi?Non ci ha contattato la Ricordi, siamo stati noi:abbiamo cercato il telefono sulla vecchiaguida telefonica di Milano, perché loro ave-vano appena pubblicato il primo album delBanco del Mutuo Soccorso, quello del salvada-naio, che stava andando fortissimo e ci erapiaciuto molto. Ormai avevamo un repertoriocompleto per un disco, un album concept,come si usava allora, quello che poi diventòZARATHUSTRA. Quindi abbiamo pensato che

loro potessero essere interessati: ma eravamosolo dei ragazzi di provincia, a momenti nonsapevamo nemmeno dove fosse Milano…Comunque, abbiamo chiamato e loro cihanno convocato per un provino: e allorasiamo partiti da Bordighera in treno con glistrumenti, viaggiando di notte e arrivando allesei di mattina, ci siamo lavati ai bagni diurni instazione, e poi ci siamo presentati in via Ber-chet.

Chi avete trovato?Lucio Salvini e Angelo Vaggi, che poi divenne ilproduttore del nostro album. La nostra musicapiacque. Poi capitò un episodio che facilitòl’uscita del nostro disco: subito dopo il Bancodel Mutuo Soccorso, la Ricordi aveva pro-grammato il lancio di un altro gruppo prog diRoma, i Fholks, che però avevano cambiato ilnome…

La Reale Accademia di Musica.Sì, erano diventati la Reale Accademia di Mu-

sica… Insomma, questi fecero l’album, maquando doveva cominciare tutto il lavoro dipromozione, presero i soldi, mi pare cinquemilioni di lire, e se ne andarono in India, la-sciando la Ricordi dall’oggi al domani. Così noioccupammo tutti i buchi liberi della loro pro-mozione, per cui il nostro album venne moltopubblicizzato. Mi sconvolgo ancora adessoquando con Google cerco “Museo Rosen-bach” e mi leggo tutte le recensioni interna-zionali sul disco, che viene valutato megliooggi che all’epoca ed è considerato una pietramiliare del prog, non solo di quello italiano…È conosciuto dappertutto, Svezia, Giappone,Stati Uniti… Posso raccontarti un aneddoto?

Certamente.Risale al 1983-1984, i Matia Bazar erano inclassifica ai primi posti in Giappone con Va-canze romane e con l’album TANGO. Ab-biamo fatto un tour di 6 o 7 date, Tokyo,Okinawa, Kyoto, Sapporo… Alla fine di que-sto tour, che andò benissimo, ci invitano inuna specie di assemblea alla sede della CBS aTokyo, e a un certo punto il discografico cidice: «Adesso vi faccio vedere un catalogo bel-

lissimo, con i dischi italiani che abbiamo presoper la distribuzione in Giappone». Andiamo insala riunioni e lui ci mostra questo libro, con idischi di gente come gli Osanna, il Balletto diBronzo, con la copertina e qualche notizia afianco, tutti in misura regolare standard. Poi infondo, in misura decuplicata, che riempiva inpratica tutta la pagina, c’era ZARATHUSTRA,anche lui con la fotografia interna che c’ènell’album, quella con la nostra foto.A me a quel punto viene da ridere, e non ce lafaccio più, scoppio… E i giapponesi mi guar-dano non capendo, io rido come un pazzo, al-lora Carlo Marrale gli dice: «Guardate che unodi questi del gruppo è lui!». E loro a quelpunto mi dicono che quello è non solo unodegli album più venduti in Giappone, maanche uno di quelli considerati tra i miglioridel Prog europeo, questo per dirti, io ero lì peri Matia Bazar e ho scoperto questa cosa…Sempre nel corso di quel tour, siamo andatiospiti di Ryuichi Sakamoto, che conduceva unprogramma radiofonico nel canale nazionalegiapponese e dedicava spazio alla musica eu-ropea e italiana. Ci aveva invitati perché ap-prezzava le nostre cose… E questa è una cosache ricordo con soddisfazione, essere apprez-zati da un guru della musica internazionale.

Tornando al Museo Rosenbach, come eranato quel nome?Da un’idea di Alberto Moreno: Rosenbach eraun collezionista tedesco di libri e anche edi-tore, e la sua idea è stata quella di immagi-nare un suo museo, un museo con le suecollezioni. All’epoca si usavano questi nomi,come Premiata Forneria Marconi o Raccoman-data con Ricevuta di Ritorno…

Come mai il gruppo si è sciolto?Io partii per il servizio militare, il disco era giàuscito e c’erano buone recensioni – ne hoconservate alcune dove mi paragonavano aBill Bruford, meglio di così… Altre mettevanoin risalto l’uso del mellotron, che allora erauna novità e costava un occhio della testa.L’avevamo comprato da una ditta di Napoliche si chiamava Mirage e che lo importava inItalia. Comunque durante il servizio militare,che facevo a Genova alla caserma di Bolza-neto, quella poi diventata famosa per i fatti delG8, non ne potevo più… Gli altri avevanosmesso di suonare, io stavo lì, ma non è chec’erano molte licenze o cose così, non ne po-tevo più… E una sera scappai.

Scappasti?Sì. Telefonai al cantante Stefano Galifi: «Ste-fano, non ce la faccio, sto diventando pazzo,portami fuori, vieni a prendermi alle 9 con lamacchina e andiamo in giro». Scavalcai ilmuro e lui mi aspettava lì fuori, e mi portò aSturla, che è un quartiere di Genova sul

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«L’ingresso di unanuova cantante avrebbecambiato quest’identità:si trattava di una cosanuova per l’Italia, sulmodello dei JeffersonAirplane con Grace

Slick»

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Facciamo in modo che i nostri let-tori possano conoscerti un po’: par-tiamo dalla tua formazione, che èaccademica… Sì, il mio è stato un percorso tradizio-nale in conservatorio. Anche se poi, vi-sto che i programmi ministeriali arri-vano fino al 1930, tutto quello che co-nosco come compositore l’ho imparatosul campo. Questo mestiere non lo siimpara a scuola.

Ha ancora senso per te oggi parlaredi musica colta, nel senso di musicaseria?Questa definizione di musica seria èpiù tecnica, forse è un’invenzione del-la SIAE. Secondo me ci sono una musi-ca vera e una musica meno vera. Peròanche dire questo è ambiguo.

E allora come definiresti la tua mu-sica?

Compone in tempo reale, cucina la sua musica come uncibo biologico, cade in trance al piano e suona gratis perchi è disposto a scalare una montagna pur di scoprirecosa ci fa tutto solo per un mese in una grotta.

Conversazione con Mario Mariani | di Pietro Paluello

La paragono spesso a un cibo biologi-co. È una musica vera, perché parte dame e sono io che la faccio e la eseguonello stesso momento in cui la conce-pisco. È quella che io chiamo una com-posizione in tempo reale. Non è di fat-to un processo “raffinato”…

È insomma un momento istintivo,di getto, che tu fotografi…Giusto, lo fotografo, catturo questascintilla creativa e la restituisco nellostesso momento. Da un lato in questoè sicuramente, come dire, soggetta aerrori, a imprecisioni, a sbavature disuono, insomma a una sorta di svistafrettolosa definibile appunto come er-rore… Anche nel disco ci sono un po’ diquesti cosiddetti errori, però li ho volu-ti lasciare, l’ho fatto di proposito, per-

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ché queste sporcaturesono appunto una testimo-

nianza di questo mio modo di com-porre “di getto”. Penso che tutta l’ideacompositiva, strutturalista, che stavaalla base della maggior parte della mu-sica scritta nel secolo scorso abbia ter-minato il suo ciclo: come nel 1900 nonci si sarebbe mai sognato di comporremusica classica così come lo si facevanel 1700 e come avrebbe fatto Beetho-ven, oggi si è esaurito il tempo di com-porre su quei parametri abituali di cuiper me il massimo esponente è statoPierre Boulez.

Quali sono allora i compositori aiquali guardi di più?Per me ci sono due grandi filoni: Scho-enberg e con lui i famosi inventori del-la dodecafonia, che hanno portato tut-to questo modo strutturalistico di scri-vere musica. L’altra parte a cui mi sen-to molto vicino è Stravinsky, che inve-ce ha invece privilegiato l’aspetto te-matico e anche materico. A me piacemolto mettere un po’ questa materia, ein questo mi sento molto più affine aun pittore che non a un altro musicistache ha i suoi soliti iter, vale a dire lostudio, la scrittura musicale, il ricon-trollare tutto. A me piace il gesto, digetto, che c’è nel momento creativo.

Dunque come ti definiresti, comemusicista e compositore?Lo scrivo anche nelle note del disco: iocerco di creare una reintegrazione trale tre figure del compositore, dell’im-provvisatore e dell’interprete. Guardache nel disco ci sono anche un paio dipezzi che sono proprio scritti: parlo diCagliostro e di Variazioni sulle previsioni del

tempo. Ecco, lì io sono proprio composi-tore, poi però sono anche sono improv-visatore, perché improvviso su untema che posso già avere scritto o soloabbozzato, e poi naturalmente sono in-terprete quando eseguo la mia musicascritta.

In questo elemento dell’improvvisa-zione non c’è più forse un’animajazz?Infatti, invece del termine improvvisa-zione, io preferisco sempre usare quel-lo di composizione in tempo reale. Per-ché l’improvvisazione è una variazionesu un tema dato. Succedeva anche nelRinascimento, con le improvvisazioniall’organo o al clavicembalo. Il jazz hauna sua struttura abbastanza chiusa,nel senso che c’è questa armonia cheva seguita come se fosse una partituradi musica classica. Io non ho una for-mazione di tipo jazzistico. Posso ognitanto magari farvi qualche riferimen-to, ma se senti anche nel disco… nonc’è molto jazz. Magari più melodie delXX secolo, del tipo Messiaen o Hinde-mith, due cardini la cui armonia an-che dissonante mi ispira molto di più.

Sei abbastanza legato al suo territo-rio. Ma perché ti sei voluto chiuderein una grotta per un mese esiben-doti lì per chi veniva a trovarti?Vicino a Piobbico c’è il monte Nerone.Io lì ho una casa: è un luogo che hocercato e trovato quattro anni fa, unluogo lontano dalle città che ho sceltoper comporre le mie cose, per sentirmipiù in libertà. C’è buona aria, bella na-tura. Facendo lunghe scarpinate, fre-quentando le grotte – e lì nel monteNerone ce ne sono circa 200, si va dapiccoli anfratti a grotte che si svilup-pano per centinaia di metri – ecco, lìho appunto trovato questa grotta che

aveva una connotazione molto partico-lare, non solo come acustica ma anchecome disposizione. Era come un teatrocostruito istintivamente dalla natura.Ed è anche facilmente raggiungibileda chiunque. Così ci ho fatto portareun pianoforte e ci sono rimasto per unmese: vivevo lì dentro. Era natural-mente una grotta aperta, quindi usci-vo, stavo anche fuori, non ero sempreal chiuso. Nel boschetto vicino ho alle-stito anche un’altra tenda per gli ospi-ti, perché durante questo mese chesono stato lì suonavo e questa musicala offrivo a chi voleva venire ad ascol-tarla. Con ciò ritorno al cosiddetto cibobiologico: ho suonato io, ma ho avutomodo sempre il modo di interagire an-che con altri artisti che sono venuti.Con Giuliano del Sorbo, per esempio,un pittore con il quale collaboro e cheha fatto anche la copertina del disco.Ma è venuto anche un violinista moltobravo di Londra che si chiama RobertoManes, con un’altra improvvisatrice diVarsavia, Lidia Ciaicoska.

Tutto questo è avvenuto la scorsaestate.Esattamente per un intero ciclo luna-re, dall’ 11 di luglio all’11 di agosto. Perme è stato un modo di vivere a piùstretto contatto con la natura, perchécomunque vedere un ciclo lunare, ve-dere che la luna fa tutto questo percor-so, direi che è stato un modo di riap-propriarsi di se stessi e della natura.

È un’esperienza che rifarai?Sicuramente farò altre cose che coniu-gano l’idea dell’arte musicale con la na-tura. Ma non nella stessa maniera.Quella è un’esperienza conclusa. Ho giàun’idea molto forte che però per scara-manzia non voglio ancora rivelare. An-ticipo solo che, mentre per la grotta era

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Come nasce Lella? Dov’eri quandol’hai scritta?Lella ha una doppia genesi, una musi-cale e una letteraria. In quel periodo,da vero dilettante, scrivevo canzoni in-sieme a Stelio Gicca Palli, mio compa-gno di scuola dalle elementari al liceo,e andavamo a cantarle in alcuni loca-li di Roma, tra i quali Il Folkstudio erasicuramente il più importante, ma

andavamo anche al Puff di Lando Fio-rini perché spesso le canzoni che scri-vevamo avevano un taglio un po’ da ca-baret, canzoni un po’ istrioniche oumoristiche, ed erano soprattutto ope-ra di Stelio, che aveva un tempera-mento più estroverso. Stelio era piùbravo di me con la chitarra, era piùavanti, suonava le canzoni di JoanBaez, tanto per fare un esempio. Tra

queste ce n’era una, Saigon Bride, cheiniziava con un giro di accordi in ar-peggio che a Stelio piaceva molto e cosìmi propose di scrivere il testo di unacanzone sulla musica che lui poi avevasviluppato partendo da quel giro di ac-cordi. Il mio sistema di scrivere lecanzoni – e lo è ancora oggi – era que-sto: quando nasceva una linea melo-dica, mia o di altri, mi annullavo il cer-vello ascoltando questa musica tan-tissime volte, fino a quando il cervel-lo non ne poteva più e mi proponevaun’idea di testo. Adesso questo meto-do è inquadrato in un certo schema,ma allora era puro esperimento. Era-vamo nel 1969, non mi ricordo bene inche mese, e succede che un giorno, an-dando a pranzo da mia nonna che abi-tava a Monteverde, scendo dall’auto-bus e nel percorso di qualche centina-io di metri nasce tutta la canzone,come se fosse un getto continuo di pa-

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Il Folkstudio di Cesaroni, la IT di Micocci ela potente RCA di Melis, Francesco De Gre-gori e Amedeo Minghi, Ernesto Bassignanoe Stelio Gicca Palli, questi i primi compagnidi viaggio di un giovane autore spinto daun’unica ma solida certezza: le canzoni nonlo avrebbero mai più abbandonato.

Conversazione con Edoardo De Angelis | di Luciano Ceri

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role e di immagini, come pochissimealtre volte mi è successo.

L’hai scritta camminando…Sì, e praticamente è venuta fuori tut-ta, tanto che mi prese un po’ di ansiaper riuscire subito a trovare una pen-na per buttare giù le parole, e poi pra-ticamente la penna andò da sola. Te-lefonai subito a Stelio per vederci, lacantammo, la provammo, facemmoqualche piccola correzione, soprattut-to da parte di Stelio per adattare megliole parole sulla metrica musicale e,come sempre accadeva per tutte lecanzoni nuove, la facemmo ascoltaresubito agli amici.

Come mai il testo ti era venuto inromanesco? Era una cosa voluta?No, assolutamente. Non so veramentecome mi sia venuta così, proprio nonlo so, e non era neanche voluta o cer-

cata quel tipo di storia, alla quale sonopoi state attribuite dai giornalisti unaserie di appartenenze pasoliniane o dinomi altrettanto importanti che perònon avevano nessun collegamento di-retto con la canzone. Ne approfittoperò per fare chiarezza sulla profes-sione del marito di Lella, un commer-ciante di cravatte con il negozio a viadel Tritone e non un usuraio, come iltermine romanesco cravattaro potrebbefar supporre.

I primi ad ascoltarla furono i vostriamici. E la prima esecuzione in pub-blico?Credo che sia avvenuta al Folkstudio,dove continuammo a suonarla per tan-te volte, compresa quella famosa in cuiErnesto Bassignano si alzò in piedimentre il pubblico applaudiva e disse:«Che cazzo applaudite? Non è una can-zone abbastanza politica!».

Facciamo un passo indietro. Quandoavevate cominciato a suonare, can-tare e scrivere canzoni, tu e Stelio?Più o meno all’inizio del liceo, che ab-biamo fatto al Tasso. Abitavamo tuttie due vicinissimi, io a via Savoia, lui avia Nizza, studiavamo spesso insiemea casa sua o a casa mia. Stelio veniva dauna famiglia di musicisti dilettanti, ri-cordo che il padre, che era una perso-na per bene e rivestiva un ruolo pro-fessionale importante, quando torna-va a casa dal lavoro si levava giacca ecravatta, si metteva comodo e comin-ciava a suonare la fisarmonica. Erava-mo ancora al liceo quando abbiamo co-minciato a suonare nei locali, ma era-no situazioni un po’ improbabili. Ab-biamo iniziato a esibirci con una certaprofessionalità quando siamo appro-dati al Folkstudio: suonavamo con duechitarre acustiche e Stelio, come ho già

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Edoardo De Angelis e StelioGicca Palli nello studio A della

RCA Italiana. Roma, 1971.

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