Museo del '900

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Sculture di Alfio Castelli, Silvio Ceccarelli, Enrico Mazzolani

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ALFIO CASTELLI

SILVIO CECCARELLI ENRICO MAZZOLANI

SCULTURE NELLA RACCOLTA

DEL MUSEO COMUNALE D’ ARTE MODERNA

E DELLA FOTOGRAFIA

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MAZZOLANI, CECCARELLI, CASTELLI: UN SECOLO DI SCULTURA La realizzazione della mostra alla Rocca rovere-sca, inaugurata con la presenza del direttore del-l'Accademia di Brera Fernando De Filippi e di Vittorio Sgarbi, come la presentazione a Milano, in collaborazione con la Regione Lombardia, del volume monografico dedicato all'opera di Mazzo-lani, avevano aperto ufficialmente, negli anni No-vanta, il percorso di ricostruzione della memoria relativa alla grande presenza di personalità seni-galliesi nell'ambito della storia della scultura ita-liana del secolo scorso. Un percorso che intendeva, come è stato, andare oltre le meritorie esperienze espositive tempora-nee, per realizzare, a livello di documentazione museale permanente una raccolta civica, ad al-tissimo livello qualitativo, di opere di Mazzolani, Ceccarelli e Castelli. Questi tre autori senigalliesi hanno vissuto e rap-presentato, a livello nazionale ed internazionale, le tappe qualificanti della plastica novecentesca italiana. La svolta liberty di Mazzolani, trova, con un'uscita clamorosa dalla scuola monumentale postrisorgi-mentale, la sua strada espressiva nella ceramica, attraverso le bianche figure slanciate, che indivi-duano il gusto di un'epoca e accendono ancora l'interesse della critica disposta a scandagliare il senso della ricerca plastica italiana dei primi anni del secolo scorso. La forte e poetica rappresentazione di Ceccarelli si inscrive, con un percorso parallelo a quello di un altro marchigiano illustre, Fazzini, tra gli esiti migliori di quella che è stata la tecnicamente raffi-nata e produttiva stagione formativa dell'Accade-mia romana tra le due guerre. Castelli, infine, è stato tra i grandi protagonisti dell'esperienza sperimentale della scultura italia-na, fiorita nel secondo dopoguerra.

Carlo Emanuele Bugatti

Direttore del Museo Comunale d'arte moderna e della fotografia

IL MUSEO DEL NOVECENTO SENIGALLIESE

Il progetto di un Museo senigalliese del '900, cioè il progetto di una raccolta, capace di documenta-re le esperienze artistiche emergenti del secolo appena trascorso, è stato condotto, direi con de-terminazione e con positivi risultati. Oggi Senigallia, con l'apertura dell'esposizione al Palazzo della Nuova Gioventù (ex GIL), può met-tere in mostra cento anni di scultura, come risul-tato di un' iniziativa di raccolta e di studio, che ha visto la partecipazione di più soggetti, a partire dal Comune e dalla Regione Marche. L'interessamento della Fondazione Cassa di Ri-sparmio di Jesi ha portato all' acquisizione, da parte del Museo civico d' arte moderna e dell' Informazione, di un notevole complesso di scultu-re di Mazzolani, arricchito da un vasto nucleo di disegni e documenti. Successivamente, le famiglie degli scultori Cec-carelli e Castelli hanno donato alla civica raccolta una consistente raccolta di sculture e di disegni. A tutti questi soggetti va il ringraziamento del Co-mune di Senigallia, sapendo che la loro parteci-pazione attiva al progetto di valorizzazione delle testimonianze artistiche del Novecento, che vive delle ragioni illustrate dal prof. Bugatti, direttore del civico Museo d'Arte moderna, consente alla Città di essere una delle poche ad avere realiz-zato un'organica raccolta delle esperienze di arte visiva del secolo trascorso. La scomparsa di un grande fotografo di fama internazionale, come Mario Giacomelli, consente a tutti, cittadini ed amministratori, di interpretare l'importanza che assume la conservazione della memoria storica del patrimonio artistico, cioè del-la memoria storica delle realizzazioni creative compiute da concittadini, giunti, tra l'altro, a gua-dagnarsi l'ammirazione dei contemporanei.

Luana Angeloni

Sindaco di Senigallia

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MAZZOLANI

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ENRICO MAZZOLANI

Enrico Mazzolani nasce a Se-nigallia il 27 marzo 1876, se-gue studi ad indirizzo classi-co, ma rinnegando le aspetta-tive familiari che lo vogliono medico, tra il 1897 e il 1901 si trasferisce a Roma, dove la passione per l'arte lo spinge a

collaborare con l'architetto e scultore Ettore Ferrari, e a frequentare la Scuola libera di nudo di Via Ripetta. Nel 1902, decide di tor-nare a Senigallia dove esegue diversi lavori tra cui la progettazione della facciata e del portale del palazzo adibito a sede dell'Espo-sizione regionale del 1904. Realizza i busti di Perticari, Verdi e del sindaco Monti, il Trionfo di Venere ed una fontana per il teatro delle Muse di Ancona. Tra il 1902 e il 1904 realiz-za la lunetta per la chiesa di San Filippo in Senigallia. Quindi, negli anni compresi tra il 1904 e il 1906 soggiorna spesso a Faenza, dove frequenta la Fornace di Salvatore Fari-na in cui esercita la "Società Ceramiche Fa-entine". Nel 1912 il commerciante svizzero Alfredo Michaelis incarica Mazzolani di ri-strutturare la sua villa di Varese per i cui la-vori l'artista s’impegna fino al 1914. E’ in questa villa che molti anni dopo ambienterà il suo romanzo Le donne di maiolica (1934 c.). Solo al sopraggiungere del primo conflitto mondiale Mazzolani abbandona l'architettu-ra, richiamato sotto le armi all'età di trenta-nove anni. La guerra non frena però la sua maturazione artistica, in questi anni realizza infatti L'organista cieco che espone nel 1917 alla mostra annuale della Società per le Bel-le Arti ed Esposizione Permanente di Milano, e L'oste. L’anno seguente è caratterizzato dall'incontro e dall’amicizia con il pittore An-selmo Bucci, anch'egli marchigiano, e Leo-nardo Dudreville che lo introdurranno nel-l'ambiente artistico milanese. Sono ancora gli amici a spingerlo ad entrare nell'associa-zione "La curia", in cui egli ricoprirà il ruolo di "decano". Questa aggregazione nasce come contestazione della volgarizzazione dell'arte, nel segno della burla, in contrapposizione alle forme artistiche che si adeguavano al progresso delle scienze e della moda. Nel 1920 si trasferisce in Viale Piceno 24, dove l'amico editore Giuseppe Morreale gli cede un locale presso il suo stabilimento e dove

resterà per circa due anni svolgendo una intensa e febbrile attività artistica caratteristi-ca di tutta la produzione degli anni Venti fino all'inizio del secondo conflitto mondiale. L'attività scultorea di Mazzolani durante il corso degli anni Venti si caratterizza per un marcato sperimentalismo, che prende avvio con smaltature policrome, presto abbando-nate a favore del bianco candido, corposo. La pur notevole produzione artistica e la re-lativa vendita delle opere non soddisfa ap-pieno il suo bisogno di denaro. Nell'estate del 1924 partecipa alla Mostra Nazionale della Ceramica Moderna tenutasi a Pesaro, l'anno seguente espone alla Seconda Bien-nale di Monza, con venticinque opere in maiolica, tra esse una decina di vasi decorati con motivi vegetali. Altre venti opere saranno esposte nel 1927 alla terza edizione della manifestazione. Alla fine degli anni Venti, probabilmente tra il 1927e il 1928, Mazzolani inizia a frequentare la trattoria toscana di via Bagutta 4, introdottovi da Bucci. Si tratta di una frequentazione che diverrà appuntamen-to fisso quotidiano. Alla fine dell'anno 1938 muore Maria Butti e lo scultore cambia anco-ra studio trasferendosi in via Borgonuovo 21 in cui rimarrà fino al 1953. Quando giunge in questo studio Mazzolani conosce quella che sarà la sua nuova modella, Pierina Gandini, allora appena ventenne. Negli anni Quaranta Mazzolani prosegue la sua produzione mo-dellando quasi esclusivamente la terracotta con varie tonalità e gradazioni cromatiche, dai rossi al marrone e senape, per scandire la superficie plastica. Durante gli anni del secondo conflitto mondiale si rifugia a Vare-se, nel '45 ritorna a Milano nel suo studio di via Borgonuovo dove ricomincia a modellare. Tra le opere del secondo dopoguerra ricor-diamo: San Giorgio (testa 1953), I fidanzati (1954), Grande nudo femminile (1954), Ri-

tratto dell'ingegnere Mens (1960), Edda (1961), L'indossatrice(1963) e rifà parecchie opere tra le quali Madre destinata a Senigal-lia. Nel 1958 cambia ancora dimora e realiz-za Apollineo per l'Istituto d'Arte di Piacenza. L'anno seguente sposa Pierina, ormai sua compagna di una vita. Nel 1963 a Milano in via Brivio 17 modella una delle sue statue più belle L'indossatrice. Muore il 28 gennaio 1968 di polmonite, all'e-tà di novantadue anni.

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Opere di Enrico Mazzolani DISEGNI

“Studio per Giovinezza” 1966 dis. “Bozzetto per monumento” (anni Quaranta) dis. “Studio di nudo” s.d. dis. “L’ombra” (anni Quaranta) dis. “Pagina di diario” s.d. dis. e manoscritto “Pagina di diario” ott. 1946 dis. e manoscritto “Pagina di diario” nov. 1933 dis. e manoscritto “Studio di nudo” s.d. dis. “Elena” 1928 dis. “Bozzetto per monumento” s.d. dis. “Studio di architetture” s.d. dis. “Ritratti di vecchi personaggi” 1966 dis. “Donna sdraiata con gatto” s.d. dis. “Studio di monumento” 1944 dis. “Cavalli e figura femminile” s.d. dis. “Studio per La madre” 1932 dis. “Studio per contadino marchigiano” 1949 dis. “Studio per contadino marchigiano” 1949 dis. “Studi per contadini marchigiani” 1949 dis. “Studi per Candia” 1930 dis. “Studi di personaggi femminili” 1932 dis. “Studio di nudo” 1939 dis. “Studio per monumento (ai caduti in Bibbiena)” s.d. dis. “Pro memoria per Il contadino marchigiano” 1949 dis. “Studi per Don Chisciotte” 1920 dis. “Figura di cane” s.d. dis acq. “Studio per Il sogno” 1925 china “Studio di profilo” 1948 dis. acq. “Studio di figura” s.d. dis acq. “Schizzo per Panem Nostrum” 1946 dis. “Angelina” 1932 dis. “Studi per I fidanzati” 1924 dis. “Bozzetto per Anacreontica” 1937 china “Studio per La madre” 1924 dis. “Studi per La preghiera – Maternità” 1926 dis. “Studi di nudi femminili” s.d. dis. “Studi per Anacreontica” 1965 dis. “Studio di nudo” 1946 dis. “Bozzetto per La madre” 1924 dis. “Studio per L’Infinito” 1946 dis. “Studio di Nudo” 1946 dis. “Studio per Giovinezza II” 1938 dis.

SCULTURE

“La donna e il gallo” 1926 gesso “L’indossatrice” 1967 terracotta “Maria grande” 1927 terracotta “Il dramma” 1926 gesso “Linda” 1951 gesso “La vergine sul capro” 1922 gesso “L’eroe adolescente” 1926 gesso “Lo scialle” 1926 terracotta “Torso grande” 1931 terracotta “La notte” 1927 terracotta “L’adolescente” 1923 terracotta “Carezze” 1921 gesso “Il serpente” 1928 gesso “Il cantico del sole” 1925 gesso “Daina” 1946 gesso “Laura” 1929 gesso “I fidanzati” 1924/25 gesso “Anacreontica” 1937 bronzo “L’offerta” 1923 gesso “S. Francesco” 1926 gesso “L’estate” 1934 gesso “La pioggia” 1922 maiolica

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Lo scultore Enrico Mazzolani che, sebbene abbia ottantadue anni, non mostra neanche la più lontana inten-zione di abbandonare questo mondo, ha tuttavia già dettato la propria epi-grafe: ”Qui giace Enrico Mazzolani, scultore milanese. Visse felice perché conob-be l'amicizia”. È tutto vero, meno il “milanese” per-ché in realtà egli è di Senigallia. Ma solo per lo stato civile. I suoi ricordi e i suoi affetti sono legati a Milano, che non ha mai ricevuto da nessuno un più disinteressato omaggio. Perché Mazzolani, nella sua patria di adozio-ne, è rimasto più povero e ignoto che in quella di origine, dove la sua fami-glia aveva un palazzotto, delle terre e un blasone baronale. Questo angelico e bizzarro Gauguin marchigiano, nato con tutti i requisiti per fare il signorotto di provincia sen-za sciali, ma anche senza preoc-cupazioni, un giorno piantò baracca e burattini, fra cui c'erano anche una moglie e un figlio, per venirsene quas-sù senza una lira in tasca. E ora vive sotto un fungo come uno gnomo, al quale del resto somiglia. È un fungo di cemento, non so chi lo abbia costrui-to, e sorge presso Affori, a tre quarti d'ora di cammino dal capolinea del tram. Le ottantaduenni gambe di Maz-zolani lo battono due volte al giorno, senza fare del resto troppa fatica, per-ché il corpo che devono trasportare peserà, sì e no, quaranta chili. Né il più cocente sole d'agosto né la più gelida tramontana di gennaio po-tranno mai impedire a questo frale vecchietto, asciutto e sano come un ulivo, che col suo timido sorriso sem-bra domandare a tutti perdono di oc-cupare del posto, sebbene in così scarsa misura, di venirsene ogni gior-no a colazione a Bagutta, di cui è il ”decano”. E non è di certo la gastronomia a con-durcelo, perché mangia come un uc-cellino; è l'attaccamento agli amici che vi si danno convegno e cui deve la sua felicità. Si racconta che quando Bertrand Rus-sell vide una fotografia di Mazzolani, esclamò in tono soddisfatto: ”oh, final-mente, me ne hanno azzeccata una!” Si somigliano infatti come due gocce d'acqua, e non solo nella candida zàz-zera che spiove sul collo, nel volto

delicato e incavato, nel profilo aguzzo, negli occhi sfavillanti e freschissimi che luccicano come carboni dietro una fitta e discorde cascata di soprac-cigli; ma soprattutto in quell'espressio-ne di candore e d'innocenza, che co-stituisce l'unica difesa dei bambini e dei poeti (parlo di quelli veri, si ca-pisce)... Indro Montanelli, (da Belle figure-incontri volume VI, Longanesi & C., Milano 1959)

A novantatré anni è morto ieri mattina, all'ospe-dale di Niguarda, lo scultore Enrico Mazzolani, ”decano” di Bagut-ta. A Bagutta, il menu dedicatogli da Mario Vellani Marchi, uno dei primi, è appeso al posto d'onore, nell'angolo dove sedeva sempre, e oggi siede raramente, il fondatore del cenacolo Riccardo Bacchelli. Per il piccolo mondo di Bagutta la par-tenza di Mazzolani è un segno molto triste. Come quando nella famiglia patriarcale muore il vecchissimo non-no e all'improvviso i nipoti si accorgo-no che la giovinezza è passata per sempre. Almeno da quando l'avevo conosciuto io, una trentina d'anni fa, sembrava il sosia di Bertrand Russell. Magro, fra-gile, eppure fortissimo di fronte alla vita, alle fatiche, alla povertà, alla soli-tudine, alle disillusioni. Era nato a Senigallia, da una famiglia patrizia, e da ragazzo era vissuto in agiatezza. A vent'anni lasciò casa e famiglia, da allora si dimenticò di es-sere barone, la sua esistenza divenne una continua lotta per obbedire stre-nuamente al suo ideale d'arte, non scendere a compromesso con le lu-singhe di un facile mercato, non cede-re alle successive mode, rimanere imperterrito se stesso. Ma era un puro di cuore come pochi, tanta forza d'animo si nascondeva in una natura estremamente garbata e aristocratica. Anche nei momenti più spinosi del suo viaggio un po' zingaresco, sapeva sorridere e scherzare. Tre giorni fa, sentendo che le ultime forze lo abban-donavano, disse al medico: “Si ricor-da, dottore? Due anni fa io le chiede-

L’eroe adolescente – 1926 gesso

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vo ancora due anni di vita, e lei me li ha dati. Oggi le chiedo soltanto altri due giorni”. Col tempo era diventato un personag-gio patetico e pittoresco. E il segreto cruccio di lui e della seconda moglie, Pierina Gandini, meravigliosa compa-gna, di molti anni più giovane di lui, era che la gustosa aneddotica finisse sempre per far dimenticare la sua ar-te. Immancabile, nel repertorio, era la rudimentale ricostruzione, eseguita dalle sue stesse mani, dello studio devastato dalle bombe, nel cortile di via Borgonuovo 21. E ancora più im-mancabile l'episodio dell'“infinito”, quando Mazzolani, andato dal diretto-re di una banca alla scadenza di una brutta cambiale, gli offrì, come paga-mento una statua, e quello gli chiese che statua fosse, lui rispose che era intitolata “L'infinito” e il direttore: “Quello di Leopardi?”. ”Proprio quello”. Allora il direttore della banca, rapito dai ricordi della giovinezza, cominciò: “Sempre caro mi fu...”. Cosicché, nel gelido ufficio bancario, come nei vec-chi film di Frank Capra, si creò un in-cantesimo di bontà, si arrestò addirit-tura il lavoro, mentre i due, to-gliendosi l'un l'altro di bocca il verso successivo, declamavano commossi la celebre poesia. E la cambiale, oc-corre aggiungere?, fu senz'altro siste-mata.

Ma, se ci potesse leggere, qui Mazzo-lani comincerebbe a corrugare le ce-spugliose bianche sopracciglia do-mandandosi: Possibile che anche quest'ultima volta la mia arte sarà li-quidata con un benevolo, frettoloso accenno nelle ultime righe?

No. Mazzolani era un autentico e schietto artista, tanto è vero che pur assistendo, nel suo lungo cammino, al sorgere, trionfare e tramontare di tan-te nuove scuole, restò fino all'ultimo fedele al proprio stile naturale, in cui aveva trovato se stesso ai tempi del Liberty, di Modigliani, di Klimt, di Schiele, di Bistolfi, di Wildt. Le sue leggiadre donne longilinee e magrissi-me, languide e insieme vibranti, esili fiori sinuosi resteranno esemplari.

Stilizzava, è vero, intensamente, sen-za però sacrificare la verità e l'eviden-

za plastica dei corpi, senza sfuggire le difficoltà, senza disperdere la forza e l'espressione umana delle figure. Sta-tue che proprio il gusto di oggi si di-rebbe debba spontaneamente rivalu-tare, traendole dalla dimenticanza e dalla polvere per collocarle, come squisite e un po' morbose creature nelle case più eleganti e sofisticate.

Nel suo appartamento, al quinto piano di via Imbonati 89, che è una delle strade più lugubri d'Europa, casa mo-destissima ma gremita di ricordi, fa tenerezza vedere il pentolino di gesso con cui, ancora quattro giorni fa, pri-ma che la polmonite lo costringesse all'Ospedale, stava ritoccando una statuetta. Solo da un anno aveva do-vuto sospendere la quotidiana appli-cazione del lavoro. E così era rimasta incompiuta una grande ”Maternità” ch'egli si riprometteva di dedicare alla città dove era nato. Questo, sull'estre-mo limitare, era il suo grande rimpian-to, assai più che la oscura sorte di due lunghi romanzi, in gran parte auto-biografici, rimasti sempre inediti: ”Le donne di maiolica”, scritto dal 1934 al 1937 (dei sei tomi manoscritti di cui si componeva, quattro furono distrutti dal bombardamento dello studio) e “Il Conte Onori”'.

Nel novembre scorso aveva scritto certe ”disposizioni minime” in caso di morte. Niente drappi colorati alla porta di casa, niente intralci al passaggio. ”...Affido il mio trapasso al conforto di un solo sacerdote quando sarà giunto il momento. Dispenso dall'inviare co-rone e fiori. Basterà una breve veglia presso il mio studio di via Brivio 17 come saluto al posto ove per anni ri-masi fedele alla mia arte e con Dio, confortato dalla pazienza e dalla bon-tà di gente amica”. In una prima versione di questo breve testamento spirituale aveva espresso il desiderio che il funerale che partirà dall'Ospedale di Niguarda alle 15,45 di oggi, fosse seguito dall'amatissima Diva, il suo pastore tedesco. Poi, nella sua delicatezza e modestia di gran signore, gli era parsa una ostentazio-ne fuori posto. E aveva cancellato le righe.

Dino Buzzati (da Il Corriere della sera, 28/1/ 1968)

Laura – 1929 gesso

La notte – 1927 terracotta

Anacreontica – 1937 bronzo

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CECCARELLI

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SILVIO CECCARELLI Silvio Ceccarelli nasce a Seni-gallia il 27 aprile 1901 da Naz-zareno, commerciante, ed El-

vira Tarsi, casalinga. Dopo aver frequentato le scuole tecniche della sua città e aver avuto come professore di disegno il pittore senigalliese Federico Santini, a 19 anni, dopo una breve esperien-za formativa ad Urbino, ottiene il diploma di Licenza presso l’Istituto di Belle Arti di Bolo-gna. Nel 1922 si iscrive alla R. Accademia di Belle Arti di Roma, frequentando successiva-mente anche il corso biennale della Scuola dell’Arte della Medaglia. In questo periodo è assiduo frequentatore dello studio del famo-so scultore romano Arturo Dazzi, per il quale il nostro giovanissimo artista esegue alcuni lavori. Tra il 1928 e il 1930 realizza alcuni importanti lavori tra cui alcuni ritratti di amici e conoscenti. I più noti sono quelli del pittore senigalliese "Corrado Gabani", del chirurgo "A. Sala", di "Gabriella", di "Franco" e del pittore "R. Ghiozzi". E’ di questo periodo an-che la vincita del "Premio per il disegno" del-l’Accademia di San Luca di Roma. Nel 1930 l'artista viene invitato alla XVII Biennale ve-neziana e vi partecipa con la bella ed am-miratissima statua del "Bambino in riposo". Tra le opere più significative scolpite dall'arti-sta in quell'anno si ricordano i ritratti della "Signora Z. Rossi'', del pittore ''G. Cesetti'', del dottore "L. Severgnini", di "Bruno" e una "Testa d'uomo". Degna di nota è anche la partecipazione di Ceccarelli alla I Quadrien-nale Romana nel 1931. Una sua opera, e precisamente la "Testa d'uomo" (in cera), viene acquistata per la Galleria Mussolini. Sempre a Roma, Ceccarelli presenta i suoi progetti al Concorso Nazionale per il Monu-mento al Bersa-gliere (il bozzetto vincitore risulterà quello dello scultore Morbiducci in collaborazione con l’architetto Mancini). Tra i miglio ri lavo ri dell’anno f igurano “Vittoria” (grande dettaglio plastico in gesso patinato per il suddetto Monumento al Bersa-gliere), “Idoletto” (f igura in cera), “Adolescente addormentata” (statua in ges-so), il ritratto dell’ ingegnere “G. Conti” (testa

in cera) e il “Busto di Mussolini” (bronzo). Nel 1933 l’artista scolpisce "L'atleta prima della partita saluta romanamente" e "L'atleta dopo la vittoria che regge in mano una coro-na d'alloro", statue monumentali eseguite in cemento e poste all’ entrata dell'allora Sta-dio Littorio di Senigallia. Nel 1934 l'artista risulta vincitore del Premio Reale, bandito dalla Regia Accademia di S. Luca in Roma. L’ opera premiata è il busto simboleggiante “L’Arte”. In questo periodo scolpisce, tra l’altro, l’origi-nalissimo “Viaggiatore di Terza Clas-se” (mezza figura in bronzo). A partire dal 1935, Ceccarelli inizia l'attività di insegnante di modellazione e lavorazione del marmo presso la Scuola Artistica Industriale "A. A-polloni" di Fano, incarico espletato fino all'età del pensionamento (1970). Nel 1938 l'artista ottiene un grande successo alla VI Mostra Marchigiana del Sindacato di Belle Arti aper-tasi nel quartiere della Fiera del Mercato e della Pesca di Ancona. Alla III Quadriennale di Roma del 1939 espo-ne il bel "San Giovannino" (statua in cera), e il ritratto dello scrittore suo conterraneo "Fabio Tombari". Ambedue le statue erano state scolpite l'anno prima. Alla VII mostra marchigiana del Sindacato delle Belle Arti di Ancona porta, invece, “Lo studio per il S. Giovannino”. Espone anche alla “Galleria Roma” del Sindacato Nazionale delle Belle Arti con gli artisti di Abruzzo e Molise e delle Marche. Nel 1941 L'artista prende parte alla III Mo-stra Interregionale del Sindaco Nazionale a Milano, che si inaugura il 24 maggio, e alla VIII Mostra Marchigiana del Sindacato di B.A. di Ancona, dove presenta il ritratto di "F. Tombari", con il quale vince il Premio del Du-ce, "Mia madre" e il ritratto di "Enzo". Nel 1947 espone insieme ad un gruppo di artisti marchigiani alla Galleria Puccini di An-cona. Tra le opere che espone figura "Abatino" (del 1945), mentre nel 1950 è invi-tato alla I Mostra di Artisti Marchigiani che si inaugura a Roma il 4 marzo. D’ora in avanti l’attività artistica di Ceccarelli ha una interru-zione, infatti non partecipa quasi più a mani-festazioni espositive se non in veste di mem-bro delle commissioni giudicatrici. Nel mag-gio del 1951, a cinquant’anni, sposa la si-gnorina Rossi Eufemia. Muore a Senigallia il 12 giugno 1985.

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Opere di Silvio Ceccarelli

DISEGNI “Nudo virile” 1929 c. matita nera su carta 36x96 “Nudo di donna” 1929 c. carboncino nero su carta 39x90 “Nudo di spalle” 1929 c. penna blù su carta 19x43 “Nudo di spalle” 1929 c. penna marrone su carta 20x46 “Nudo di fronte con martello” 1929 c. penna marrone su carta 24,5x43,5 “Profilo di giovane donna” 1929 c. sanguigna su carta 23x37 “Ritratto di giovane uomo” 1929 c. sanguigna su carta 24x42 “Nudo seduto” 1929 c. sanguigna su carta 21x43 “Nudo di spalle” 1929 c. sanguigna su carta 18,5x43 “Nudo con braccia alzate” 1929 c. matita nera su carta 20x43 “Nudo piegato in avanti” 1929 matita nera su carta 23x38 “Nudo con peso sulle spalle” 1929 c. matita nera su carta 17X43 “Nudo con braccio alzato” 1929 c. sanguigna su carta 25,5x44 “Nudo di profi lo” 1929 c. sanguigna su carta 21,5x44 “Nudo con barra sulle spalle” 1929 c. sanguigna su carta 28x44 “Nudo con mani giunte” 1929 c. matita nera su carta 15,5x43 “Nudo seduto” 1929 c. matita nera su carta 20x44 “Nudo di spalle” 1929 c. matita nera su carta 16,5x44 “Nudo disteso” 1929 c. matita nera su carta 31x14 “Nudo sdraiato di profilo” 1929 c. matita nera su carta 31x25 * Le 20 opere sopra elencate fanno parte di una raccolta di disegni da mo-dello

vivente realizzati dall’artista presso la Reale Accademia “S. Luca” di Roma. Le misure delle opere si riferiscono al disegno visibile.

SCULTURE

“Ritratto di vecchio” 1926 gesso “Il pittore G. Gabani” 1928 gesso

“Bruno” 1930 gesso “L’ing. G. Conti” 1931 terracotta

“Enzo” 1932 marmo di Carrara “Rosaria” 1934 gesso “Il pittore U. Noni” 1935 terracotta

“Il prof. C. Moreschini” 1936 legno “Testa d’uomo” 1937 terracotta

“Lo scrittore Fabio Tombari” 1938 gesso “Il prof. G. Napoleone” 1939 marmo Siena “Mia madre” 1940 gesso

“Il dr. A. Mauri” 1941 cera “Lo scrittore G. Petronilli” 1942 cera

“Abatino” 1945 gesso

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L'eccezionale coerenza stilistica, la consumata straordinaria abilità tecni-ca, la capacità di approfondire e quali-ficare le proprie emozioni espressive, fanno di Ceccarelli uno scultore di grande valore. Ceccarelli sa creare uno stile sul vero, modella busti, opere perfette e vive, animate dalla bellezza scultorea, dia-loga con chi osserva, perché le imma-gini conservino la memoria intesa co-me fedeltà. Ceccarelli attinge ai modelli della clas-sicità, crede in un valore che nasce dalla artigianalità come mezzo di e-spressione che poggia sulla solida sapienza tecnica di chi conosce e do-mina ogni segreto della materia. Ceccarelli non subisce la realtà, ma l'accarezza con gesto di espressione totale, come estensione dell'esisten-za, come respiro, come vibrazione; modella lasciando le trac-ce della la-vorazione, della patina, l'alito come proiezione dell'inconscio che dialoga con il visibile e la sua interiorità.

Mario Giacomelli (1992)

Praticare la scultura a Roma intorno alla seconda metà degli anni '20, per i più ha significato presenziare alla ri-nascita di un genere: il ritratto, che però esprimesse, nella salda ricompo-sizione delle forme, "il carattere pecu-liare della nostra tradizione: il senso realistico e concreto della vita". Esem-pi del genere, ripensando al passa-to, li possiamo trovare solo in certa ritrat-tistica etrusco-romana e in alcune te-ste tardomedievali. Ormai, l'euforia delle Avanguardie è stata raggelata dalla cruda realtà della carneficina bellica; l'ideale novecenti-sta, orientato al cosiddetto "rappel à l'ordre", dal 1926 diveniva uno stile; poi, un nuovo ordinamento politico e sociale era subentrato, prefiggendosi di cambiare il carattere e il costume (o norma di vita) di un popolo. Ma, al di là di tutto, in poche altre epoche della nostra storia gli artisti sono stati così fortemente attratti dal soggetto “uomo”. Ora, se escludiamo dalla produzione scultorea di Ceccarelli i primi saggi scolastici, in cui inequivocabilmente

prevale una sana e onesta competi-zione con la statuaria antica, non ci resta che prendere atto della sua pie-na adesione e, in un certo senso, pre-dilezione per questo nobile genere. Ceccarelli, però, nello scolpire teste o busti o tre quarti di figure, in gesso, marmo, terracotta, cera e legno, e-sclude la vaghezza del ritratto idealiz-zato. I suoi modelli sono pure i suoi amici, i suoi colleghi, i suoi cari. Per cui egli non si accontenta di mantene-re in vita la sola fisionomia del model-lo ritratto, pur notevolissima per ve-rosimiglianza; egli in più mira a rivita-lizzare la materia fissando in essa, con estrema maestria, lo stato d'ani-mo particolare di una personalità sem-pre o comunque complessa, a cui, però, una modellazione franca, vigo-rosa e semplificata dà schiettezza, capacità decisionale, o, se vogliamo, forza di carattere. É come se l'artista ripassasse la lezio-ne classica alla luce della nuova spiri-tualità che ora pervade l'uomo moder-no. Forte è il senso di equilibrio, auto-determinazione e serio impegno e-spresso, per esempio, dal suo "Alunno"; qualità che poi, naturalmen-te, si traducono in atteggiamento pla-stico decisamente volitivo. Cosi come la calma, bonaria e ieratica figura del-la "Madre", chiusa entro la rigida e geometrica sagoma del manto, è indi-ce manifesto di saldezza morale. Inutile sottolineare che Ceccarelli, nel-la costante ricerca di una propria e individuale linea operativa, guardi ini-zialmente anche all'opera dei maggiori scultori di quegli anni. E la scultura di A. Dazzi, di cui giovanissimo ha occa-sione di frequentare lo studio romano in qualità di discepolo nonché, in alcu-ni casi, di collaboratore, è un punto fermo nella sua formazione. Anche se questa affinità, rilevabile per lo più in alcune teste (vedi per esempio il ritrat-to di G. Marconi di Dazzi), è solamen-te a livello di tecnica della modellazio-ne e levigazione della materia sculto-rea, più che nell'interpretazione dei modelli ritratti. Infatti, se mettiamo a confronto "La bambina al ma-re" (1931) sempre di Dazzi con quella analoga scolpita sei anni dopo da Ceccarelli, ci accorgiamo subito delle notevoli differenze. Dazzi nella sua bambina predilige evi-denziare la naturalezza un po' scom-

Abatino – 1935 gesso

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posta del corpicino e i tratti marcati e ben caratterizzanti del volto, elementi magistralmente espressivi di quella tipica insofferenza infantile derivante, in questo caso, dall'obbligo di assu-mere una determinata posa per trop-po lungo tempo.

Ceccarelli, invece, sorprende la bimba nella prosecuzione del suo semplice ma impegnativo gioco, cogliendone simultaneamente l'intima concentra-zione, l'intensità partecipativa e una sorta di dolce disillusione tradita appe-na dalla comparsa di un lieve sorriso. Qui sta tutta la sottigliezza percettiva di Ceccarelli.

Come le sue teste ossute, ma sempre ben modellate dalla luce, cosi le sue più note e riuscite statue, e mi riferi-sco al fortunatissimo "Bambino in ripo-so", al bonario e curioso ritratto della "Signora Z. Rossi ", all' ironico "Viaggiatore di terza classe" e al bel-lissimo "Uomo che affila la falce" scol-pito a colpi di sgorbia, nulla concedo-no all'aspetto episodico della narrazio-ne.

Quel suo tipico naturalismo espressi-vo mai vago, che scaturisce da una plastica sempre sicura, diviene tratto caratterizzante di una individualità particolare.

L'attenzione critica di Ceccarelli si sofferma, dicevamo, sull'opera di alcu-ni tra i più noti scultori dell'epoca, ma ciò che lo allontana da possibili sug-gestioni più o meno dirette è sempre quella sua schiettezza compositiva, per alcuni versi ricercata e ardita, che ogni qualvolta si traduce in atto rivela-tore di un principio morale attivo.

Che lo scultore, intorno agli anni '30, seguisse con interesse lo sviluppo della ricerca artistica del bolognese Ercole Drei e del triestino Attilio Selva, è un dato di fatto. Ma ciò che ancora oggi ci colpisce è la distanza che comunque intercorre tra l'ideale estetico propugnato da Ceccarelli e quello espresso dai suoi due illustri colleghi. Del primo, ad un certo punto, non ac-cetta la vaghezza espressiva dei sog-getti e la noncuranza dello studio ana-

tomico delle forme, mentre non trovo casuali alcune consonanze di ordine tematico; è di quest'ultimo la scultura di un bambino semidisteso del '30 molto vicino al "Bambino in riposo"

esposto da Ceccarelli proprio alla Biennale veneziana di quell'anno. Da Selva, invece, se ne distacca perché egli non sente il bisogno di cogliere ogni qualvolta nei volti delle sue figure femminili quel misto di pacata e mor-bida bellezza che invece l'artista trie-stino sa, poi, mirabilmente innestare in sagome ovoidali regolari di pierfran-cescana memoria. Lontane, infine, sono le soluzioni compositive del nostro scultore da quelle, che so, di un Martini o un Rug-geri. La cifra stilistica di Ceccarelli esclude forme di arcaismo o primitivismo ritro-vato per ricollegarsi direttamente alle fonti classiche dell'arte; dall'artista individuate, di volta in volta, ora nella tradizione greco-romana, ora nella statuaria quattrocentesca del primo Donatello, ora nella spiritualità di certa ritrattistica cèzanniana. Ed anche quanto si cimenta in un sog-getto come "L'arringatore", in cui l'e-splicito proposito dell'artista è quello di cogliere e fissare la massima espres-sività gestuale della figura, nulla con-corre a sfaldare la compattezza mor-bida della massa porosa.

Attilio Coltorti

Ritratto di vecchio – 1926 gesso

Il pittore U.Noni – 1935 terracotta

Rosaria – 1934 gesso

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CASTELLI

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ALFIO CASTELLI

Alfio Castelli nasce a Senigal-lia il 20 settembre 1917. Il pre-cocissimo impulso per l'arte, forte fin da giovanissimo, lo indurrà a frequentare la Scuo-

la di Arti e Mestieri di Fano. Nel 1933, grazie alla vincita di una borsa di studio, si iscrive all'Istituto di Belle Arti di Fi-renze, e, nel 1937, all'Accademia di Belle Arti di Roma, al corso di scultura, diretto da Angelo Zanelli, autore della centrale statua di Roma nell'Altare della Patria. Nel 1939, per quanto giovanissimo, è invitato ad espor-re alla III Quadriennale di Roma e alla mo-stra presso la Galleria del Teatro delle Arti con Mirko e Afro, col quale ultimo stringe una forte amicizia che durerà quasi tutta la vita. Sono di questo periodo i primi rapporti con Toti Scialoja e Piero Sadun. Nella fre-quentazione degli ambienti di via Margutta entra pure in contatto con Sandro Penna ed i corregionali Luigi Bartolini e Orfeo Tamburi. Nel 1941 è nominato assistente della catte-dra di Figura e Ornato modellato presso il Liceo Artistico, abbinato all'Accademia di via Ripetta. Lo stipendio di assistente, gli per-mette di lasciare lo studio di via Margutta e di passare a uno più grande in via Canova, a pochi passi dall'Accademia; studio che non abbandonerà più e che fungerà per lungo tempo anche da abitazione. Nel gennaio del 1945 espone, con Mafai, Scialoja, Capogros-si, Gentilini, Franchina, Guttuso, Turcato ed altri alla Galleria San Marco, nella prima mo-stra organizzata dalla Libera Associazione Arti Figurative, presieduta da Gino Severini. Nel 1948 intraprende, in compagnia di Piero Sadun e di Toti Scialoja, il suo primo viaggio a Parigi. Nella capitale francese è colpito dagli impressionisti, da Giacometti e dalle sculture africane e oceaniche del Musée de l'homme. Dagli inizi degli anni Cinquanta Ca-stelli entra in una nuova fase stilistica, di marca palesemente giacomettiana. La pro-gressiva verticalizzazione e consunzione dei nudi fanno parlare i critici di “goticismo”. Nel 1960 Vince il concorso di titolare della Cattedra di Scultura all'Accademia di Belle Arti di Palermo, da dove, dopo pochi mesi,

viene trasferito, a quella di Napoli. Nel 1961 è invitato ad una mostra organizza-ta dall'Ente Autonomo La Biennale di Vene-zia, mostra che diverrà itinerante, nel corso dell'anno, per tutto il Giappone. A Venezia risulta pure invitato in quello stesso anno, alla IV Biennale dell'incisione italiana con-temporanea. Dopo tre presenze alla Biennale di Venezia con singole opere, la XXXII edizione del 1964 riserva a Castelli un' intera sala. Dal 1970 le variazioni sul tema sferico occu-pano per intero la ricerca artistica di Alfio Castelli, in una poetica della compenetrazio-ne di masse, piani e volumi. Da questo periodo, il progressivo estraniarsi dai grandi circuiti espositivi e di mercato è per Castelli una scelta sempre più consape-vole. Tutte le energie sono devolute alla ri-cerca e alla produzione artistica. Nel 1978 ottiene l’incarico all'Accademia di Belle Arti di Roma, quale titolare della catte-dra di Scultura. S' apre un nuovo importante capitolo del tormentato percorso artistico di Castelli. Quest' anno segna infatti, il passag-gio dall'elezione della sfera, quale modulo di base, al parallelepipedo, e dunque dalla ro-tondità della curva alla solidità della retta. Le opere della nuova fase scultorea, che durerà un decennio, assumono tutte il titolo di Mo-dulazioni. Prima che unico materiale di lavo-razione divenga il granito nero, ciò che av-viene nel 1982, la varietà di differenti effetti di rifrazione luminosa nello spazio è ricercata attraverso l’utilizzo del marmo nero del Bel-gio, del bianco di Carrara, del nero del Perù e del bronzo. Nel 1982 diviene titolare della cattedra di Scultura nella Scuola libera del Nudo di piazza Mignanelli, mentre prosegue la scelta consapevole del rifiuto a partecipa-re a rassegne espositive, chiudendosi in un sofferto auto-isolamento, che interromperà solo nel 1986 per partecipare alla XI Qua-driennale romana. Nella produzione degli ultimi tre anni di attivi-tà le due radici della plastica castelliana (l' astratto e il figurativo, la compenetrazione di volumi e l’ immagine umana) trovano un pa-cificato equilibrio, tanto formale guanto se-mantico. Il 19 dicembre 1992, Alfio Castelli muore all’-età di 75 anni. I suoi funerali si svolgeranno due giorni dopo in Santa Maria in Montesan-to, chiesa degli artisti a Piazza del Popolo.

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Opere di Alfio Castelli

DISEGNI

“Due nudi” 1949 penna su carta 31x41,5 “Tre nudi” s.d. penna su carta 31x41,5 “Nudo su sedia” s.d. penna su carta 31x41,5 “Nudo disteso” s.d. penna su carta 30x43,5 “Tre nudi distesi” s.d. penna su carta 43,5x30 “Nudo di schiena” s.d. matita su carta 31x43 “Nudo piegato” 1949 matita su carta 31x43 “Nudo seduto” 1947 penna su carta 32x44 “Due nudi” s.d. penna su carta 31x41,5 “Due nudi su sedia” s.d. penna su carta 31x43 “Due nudi su sedia” 1949 penna su carta 31x43 “Due nudi su sedia” s.d. penna su carta 31x43 “Due nudi su sedia” 1949 penna su carta 31x43 “Due nudi su sedia” s.d. penna e matita su carta 31x43 “Due nudi abbracciati” s.d. penna e matita su carta 31x43 “Due nudi abbracciati su due sedie” 1949 penna e matita su carta 31x43 “Due nudi su sedia” s.d. penna e matita su carta 31x41,5 “Nudo su sedia” 1951 penna e matita su carta 32x43,5 “Nudo di schiena” 1951 penna e matita su carta 32x44 “Nudo di schiena su sedia” s.d. penna e matita su carta 32x44 “Nudo di profi lo seduto” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo appoggiato a sedia” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo con mani ai fianchi” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo di fronte appoggiato” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo con mani giunte” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo di profi lo appoggiato” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo di schiena appoggiato” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Nudo di profi lo destro” s.d. penna e matita su carta 32x44 “Nudo di profi lo sinistro” s.d. penna e matita su carta 32x44 “Due nudi” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Due nudi abbracciati” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Due nudi abbracciati seduti” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Due nudi abbracciati su sedia” 1952 penna e matita su carta 32x44 “Tre nudi” s.d. 1952 penna e matita su carta 31,5x43,5 “Disegno n.1” 1985 matita grassa su carta intelata 35x36,5 “Disegno n.2” 1985 matita grassa su carta intelata 29x29 “Disegno n.3” 1986 matita grassa su carta intelata 31,5x32 “Disegno n.4” 1986 matita grassa su carta intelata 34x28,5 “Disegno n.5” 1986 matita grassa su carta intelata 34x26 “Disegno n.7” 1986 matita grassa su carta intelata 36x34 “Disegno n.9” 1986 matita grassa su carta intelata 32x32,5 “Disegno n.11” 1986 matita grassa su carta intelata 31x31 “Disegno” 1978 matita grassa su carta 47x35 “Disegno” 1977 matita grassa su carta 50x38 “Disegno” 1983 matita grassa su carta 42,5x56

SCULTURE “Nudino” 1954 bronzo “Incastri sferici” 1970 alluminio patinato “Incastri sferici” 1971 alluminio patinato “Modulazione 15” 1980 marmo bianco “Modulazione 20” 1982 granito nero “Modulazione 23” 1984 granito nero “Modulazione 28/b” 1985 granito nero “Modulazione 35” 1986 granito nero “Uomo nella città” 1990/92 bronzo “Uomo nella città” 1990/92 bronzo “Uomo nella città” 1990/92 bronzo “Uomo nella città” 1990/92 bronzo “Modulazione” 1986 granito nero “Modulazione” 1986 granito nero “Grande sfera” 1967 gesso e resina “Scultura” 1965 gesso e resina “Nudo seduto II” 1962 bronzo

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Storia e immaginazione si fondono nell'opera di Alfio Castelli in una inten-sa capacità creativa, si compenetrano armonicamente in un ritmo di movi-menti lenti che si aprono nello spazio e lo modulano consentendo ad una sottile corrente vitale di filtrare negli interstizi della materia. Ne risulta un morbido, silente stato tra il minerale e il biologico da cui si irradia una atmo-sfera "surreale": i "graniti neri", nel loro geometrico agglomerarsi nello spazio, si presentano come visioni del possibile contigue al reale. La comparazione analogica più imme-diata che si stabilisce con la pietra è il darsi come un'architettura naturale, una struttura definita da una precisa organizzazione morfologica. Leggia-mo, allora, questi "graniti" come pro-getti architettonici dalle linee-forza che muovono dal gioco degli incastri cubi-ci, come rarefatte composizioni sta-gliate in un nitido rigore che trattiene all'interno fortissime pulsioni tensiona-li. La loro atarassia cattura il mondo esteriore in una linea d'ombra, in un interstizio, in una parete che si sporge nello spazio. Esprit de géométrie. La sfera, leit-motiv delle opere precedenti di Castelli, e ora il quadrato e i triangoli prospettici ricavati dalle quadrature riscoprono suggestione cézanniana, la dichiarano attraverso la persistente riduzione delle forme ad un alfabeto originario e la sintesi che le unisce allo spazio. Il linguaggio si organizza in strutture sintattiche sulla base di un ordine mentale che, tuttavia, non sconfina mai verso l'idea pura, verso quella "speculazione intangibile" che anche Cézanne rifiutava come estranea alla concretezza materiale dell'opera. La scultura di Castelli è una realtà viva, trova il suo statuto originario nel suo stesso esistere, qui e ora, in un frammento di spazio. La compattezza organica delle forme assorbe, senza ri-muoverla, la pienezza emotiva che si esprime attraverso la stessa materia secondo un principio formativo che fa pensare alla "regola che corregge l'emozione" di Braque. Il raffredda-mento del processo creativo risponde ad una logica interna tesa a superare le antinomie tradizionali tra figurazio-ne e astrazione per cogliere il reale

(materia, forma, spazio) in una sorta di definizione ontologica. E qui che Castelli si riallaccia alla grande tradizione moderna, in questa sua affermazione cristallina che con-sente di cogliere una realtà più pro-fonda attraverso la superficie delle cose, come diceva Mondrian, sospinto dalla esigenza di ritrovare una "realtà assoluta" al di là delle apparenze "fenomeniche": "I l permanente (l'immutabile) - scriveva l'artista olan-dese -, al di sopra di ogni miseria e di ogni felicità è l'equilibrio". Una linea del moderno, questa, richiamata da Nello Ponente proprio in un suo scritto sull'opera di Castelli: una linea che scorre fra Cézanne e Mondrian defi-nendo un classicismo estetico, lo stesso che fermenta depositi di ener-gia nella struttura organica dei “graniti”. Ma la scultura di Castelli ha una sua voce assolutamente peculiare, origi-nale. La sua assonanza con l'architet-tura coinvolge come termine di riferi-mento lo scenario urbano, ipotetici paesaggi metropolitani: una città idea-le, che direi "surrazionale" seguendo una suggestione bretoniana, dove le "archisculture" si presentano come altari dello spirito, avvolti nella loro nera epidermide, a testimoniare l'av-vento di una nuova natura. Anche nel pensiero di Mondrian, del resto, la metropoli è il luogo consacra-to allo spirito: "L'autentico artista vede la metropoli come vita astratta figura-ta: la sente più vicina della natura e ne avrà, più che quest'ultima, un'emo-zione estetica. Perché il naturale è, nella metropoli, sempre teso e regola-to dallo spirito umano. Le proporzioni ed il ritmo lineare nell'architettura gli parleranno in modo più diretto che non il capriccioso che è in natura. Nel-la metropoli il bello si esprime in modo più matematico...” Una metropoli delle forme, dunque, la scultura recente di Castelli, un univer-so plastico-espressivo fondato su una apparente omomorfia, in realtà aperto a una serie di possibilità espIicative in virtù del rapporto dialettico che essa instaura tra costanza e variazione del-le forme.

Il segreto di Castelli consiste nel non

L’uomo nella città – 1990/92 bronzo

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aggiungere niente di più al gesto natu-rale dello spirito, alla eufonia della pietra che fa sentire la propria voce all'interno di un insieme, di un coro perfettamente intonato. Allora la me-tropoli che si materializza nel sogno ad occhi aperti dell'artista è un'antica scena italiana: i "graniti" diventano la riduzione estrema della città ideale di Piero impostata sulle diagonali pro-spettiche suggerite, a loro volta, da una successione di cubi di marmo con al centro un tempio sferoide.

Il discorso delle forme elude l'imitazio-ne del mondo esteriore, affidandosi interamente alla nitida, abbagliante luce razionale dei profili geometrici: ogni eccesso è abbandonato per la ri-cerca di un accordo mentale, di una pura conquista dell'intelligenza e della sensibilità.

Filiberto Menna (1987)

Tra gli scultori della sua generazione, che pure vanta nomi quali gli scom-parsi Pericle Fazzini, Nino Franchina, Quinto Ghermandi, Emilio Greco, Le-oncillo, Mirko, Umberto Peschi, Vitto-rio Tavernari, Antonio Venditti, ai quali tutti recentemente è andato a far com-pagnia Toni Benetton, nonché gli an-cora attivi Carmelo Cappello, Agenore Fabbri, Gigi Guadagnucci, Lorenzo Guerrini, Umberto Mastroianni, Lucia-no Minguzzi, Giovanni Paganin, Nino Perizi, Venturino Venturi, tanto per segnalare quelli di storia e fisionomia di qualche conto e interesse, Alfio Ca-stelli è riuscito a guadagnarsi un posto nient'affatto secondario, risultando anzi di statura espressiva superiore a più d'uno dei succitati.

Essendo posseduto da quel dispotico “dèmone” (difficile trovare termine più adatto per indicare l'imperscrutabile energia che governa la volontà e la vita degli artisti, i quali, pur di sod-disfare il “dèmone” che li abita, si sot-tomettono alle più gravose, e non di rado umilianti, fatiche), sin da ragazzo Alfio ha lavorato, è proprio il caso di dire, per far sì che il “dèmone” della

scultura che s'agitava dentro di lui potesse essere soddisfatto, che è co-me dire per alleviare e stemperare i tormenti insiti nella creatività. ...io sono convinto che ogni artista nella sua opera non faccia che parlare di sé e tentare di restituire il proprio autoritratto psicologico-simbolico, per affidarlo all' eternità e in tal modo sconfiggere la morte, (è) l’ultimo capi-tolo che permette di meglio collocare nel panorama della scultura contem-poranea la inquieta e pregnante pre-senza dell'artista senigalliese. Partito dalla figura, dopo averla assor-bita nel frammento materico del perio-do informale, dopo averla trasformata nella grande metafora corporale della sfera e dopo averla ritentata e subito abbandonata per le razionali geome-trie architetturali, ad essa è tornato riassumendo tali esperienze, appunto nell'ulti-mo capitolo dedicato a L’uomo nella città, che può essere appunto considerato una summa al contempo eidetica e visuale della sua storia di scultore.

Giorgio Di Genova (1996)

Modulazione n.20 – 1982 granito nero

Incastri sferici II – 1970 alluminio patinato

Incastri sferici IV – 1971 alluminio patinato

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La mostra

“Museo del Novecento” ed il presente catalogo

sono stati curati da Carlo Emanuele Bugatti

e Italo Pelinga

Stampato in proprio nei laboratori

del Museo Comunale d’Arte Moderna Della fotografia e dell’ Informazione

Via Pisacane, 84 - Senigallia