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MORAND WIRTH. DA DON BOSCO AI NOSTRI GIORNI. Tra storia e nuove sfide (1815-2000). 2000, by Libreria Ateneo Salesiano, Roma. AR gennaio 2011. Libro della Comunità di Valdocco.

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  • MORAND WIRTH.

    DA DON BOSCO AI NOSTRI GIORNI. Tra storia e nuove sfide (1815-2000). 2000, by Libreria Ateneo Salesiano, Roma. AR gennaio 2011. Libro della Comunità di Valdocco.

  • PRESENTAZIONE. Sono trascorsi quasi quarant’anni da quando si pubblicò per la prima volta il materiale

    che costituiva il nucleo originale di questo volume. Dopo alcuni anni il testo venne rielaborato e pubblicato in lingua francese. Ben presto uscirono anche le edizioni in italiano, spagnolo, portoghese, inglese ed altre ancora. L'accoglienza positiva dimostrò che il volume offriva un apprezzato servizio per la formazione dei giovani confratelli, e per tutti i membri della Famiglia salesiana. Presentava infatti un quadro completo, anche se essenziale e sommario, della storia salesiana da don Bosco al Concilio Vaticano II, servendosi degli studi che incominciavano a prodursi con metodologia più rigorosa a partire dall'inizio degli anni sessanta.

    In seguito al Concilio Vaticano II già il Capitolo generale XIX nel 1965 e soprattutto il Capitolo generale speciale dei Salesiani del

    1971-1972 avviarono una impegnativa riflessione sulla missione salesiana, sulle sue

    implicanze e sul conseguente impegno di rinnovamento. Un influsso positivo notevole in tal senso esercitarono anche le celebrazioni del centenario delle missioni salesiane nel 1975 e, più tardi, del centenario della morte di don Bosco attraverso le molteplici iniziative attorno al 1988. Similmente aumentavano le ricerche presso le Figlie di Maria Ausiliatrice in occasione dei centenari della fondazione dell'Istituto nel 1972 e della morte di madre Mazzarello nel 1981, in particolare presso la Facoltà di Scienze dell'Educazione Auxilium. Ampio riscontro di rinnovamento e di rilancio si ebbe anche presso i Cooperatori salesiani, gli Ex allievi, le Ex allieve, le Volontarie di Don Bosco ed altri Istituti, assecondando e promovendo la riflessione attinente la Famiglia salesiana.

    Tutto questo faceva si che da più parti venisse rivolto a don Morand Wirth l'invito a riprendere in mano l'opera per l'opportuno aggiornamento. L'occasione propizia si presentò finalmente con la cooptazione dell'Autore da parte dell'Università Pontificia Salesiana per affidargli l'insegnamento di storia dell'opera salesiana nel biennio di studi coordinato dall'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologia, per cui si giustifica pure l'inserimento del volume nella collana di Studi di Spiritualità promossa dall'Istituto.

    Non mancavano perciò ragioni per intraprendere un rifacimento totale del libro, ma l'Autore ha preferito mantenere lo stile semplice e lineare, senza perciò sacrificare le esigenze di un approccio metodologicamente corretto e rigoroso. D'altra parte chi cerca materiale di dettaglio scientificamente elaborato lo può trovare oggi facilmente nelle numerose pubblicazioni periodiche e monografiche che via via sono venute alla luce in questi anni e mediante la documentazione in microschede o digitalizzata, in CD-Rom o direttamente in rete.

    Fra le novità assolute del volume il lettore troverà soprattutto una rassegna introduttiva delle pubblicazioni che hanno contrassegnato la ricerca nell'ultimo trentennio. È stata inoltre aggiornata la documentazione delle note a pie di pagina ed accresciuta la bibliografia riportata alla fine del volume. L'aggiunta più rilevante è costituita dai capitoli che trattano del periodo recente, dal Vaticano II ad oggi, e da una serie di appendici.

    Si propone così una storia che ha avuto un vasto sviluppo. Con l'intento di far tesoro di

    questa memoria ricca e promettente, l'Autore ridisegna un panorama del cammino percorso, evidenziando anche difficoltà e scommesse di futuro. Le nuove sfide caratterizzano

  • soprattutto la terza parte del volume. Man mano che l'opera salesiana si andava sviluppando, la realtà si allargava dai Salesiani alle Figlie di Maria Ausiliatrice, ai Cooperatori, agli Ex allievi e alle Ex allieve, alle Volontarie di Don Bosco e ad altri ancora.

    Ringraziando l'Autore di questo volume che ci offre il frutto maturo delle sue fatiche, auguriamo che esso possa trovare una accoglienza altrettanto fortunata come i precedenti, prolungando un prezioso servizio soprattutto a favore della rigogliosa Famiglia salesiana.

    Roma, 24 maggio 2000. Memoria liturgica di Maria Ausiliatrice. Juan Picca. Direttore dell'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologia dell'UPS. INTRODUZIONE STORIOGRAFICA. Dalla metà dell'Ottocento circa fino ad oggi, la storiografia salesiana ha percorso ormai

    un arco di quasi centocinquant'anni. Invero, il desiderio di conservare la memoria dei fatti e di tramandarla ai posteri, già presente nel Fondatore e nei suoi primi collaboratori, si concretizzò in vari modi dalle origini fino ai giorni nostri, anche se con scopi e criteri diversi. Prima di iniziare il nostro percorso, non sarà inutile dare un rapido sguardo d'insieme ai periodi e al modo con cui si è cercato di scrivere la storia salesiana.

    Cronache, memorie e prime biografie (1858-1888). Don Bosco aveva una predisposizione per la storia. Gli piacevano i libri di storia. Ai suoi

    ragazzi e ai primi Salesiani raccontava, sia per utilità sia per divertimento, fatti e avvenimenti della storia o della propria vita. Egli stesso poi scrisse vari libri di questo tipo ad uso del popolo e della gioventù.

    Con gli anni e le iniziative da lui promosse, crebbe anche l'interesse dei testimoni per i fatti e i gesti della sua vita. Nel 1858, il chierico Giovanni Bonetti cominciò a fissare su quaderni scolastici eventi recenti e passati degni di nota. Nel 1861, sotto l'impulso di don Rua, un gruppo di giovani collaboratori creò una «commissione», impegnata a raccogliere e a controllare collegialmente quanto don Bosco diceva e faceva. Persuasi di avvertire in lui «doti grandi e luminose», anzi «qualche cosa di sovrannaturale», i membri del gruppo sentivano «uno stretto dovere di gratitudine, un obbligo di impedire che nulla di quel che s'appartiene (sic) a D. Bosco cada in oblio, e di fare quanto è in nostro potere per conservarne memoria». Sorsero così con il passar degli anni numerose

    cronache, cronachette, memorie, annali e testimonianze, che costituiscono una ricca

    fonte di dati, informazioni e valutazioni. La maggior parte di questi preziosi contributi, sebbene già utilizzati da studi di prima mano, resta tuttora inedita.

    Un'altra fonte, ricca di dati concreti e di realtà quotidiane, è costituita dai diari e dai verbali delle prime conferenze e adunanze. Di questi sono stati pubblicati il diario dell'Oratorio di Valdocco (1875-1888), i verbali delle «conferenze capitolari» (1866-1877), quelli delle «adunanze del capitolo della casa» (1877-1884) e delle «conferenze mensili» (1871-1884), e le testimonianze riguardanti un indagine fatta nel 1884 a Valdocco.

    A questa documentazione bisogna naturalmente aggiungere tutta quella lasciata dallo stesso don Bosco: la copiosa mole di libri stampati (saranno riuniti in 37 volumi di oltre 500

  • pagine ciascuno) e i manoscritti. Tra questi vanno ricordate anzitutto, oltre alle numerose lettere, le preziose Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, redatte tra il 1873 e il 1875. In forma di racconto, queste Memorie ci rivelano l'interpretazione che il vecchio don Bosco dava alla preistoria e agli inizi dell'Opera salesiana. Infatti, lo scopo principale dell'autore era di tipo istruttivo e edificante: «Il mio lavoro - scriveva - servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato», e «a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo».

    Nel 1876, durante le conferenze tenute in occasione della festa di S. Francesco di Sales, fu fatta per la prima volta la proposta di stabilire uno storiografo

    della Congregazione, e fu chiesto ai direttori di scrivere o far scrivere la storia del proprio collegio, la cronaca degli eventi più importanti, e di mandarne una copia a Torino. La stessa proposta venne ribadita durante le successive conferenze e nei primi Capitoli generali della Congregazione.

    Nell'agosto del 1877 usciva il primo numero del Bollettino salesiano, che dava regolarmente numerose informazioni sull'Opera salesiana, specialmente nelle missioni. È una fonte importante, anche se si deve tener conto del suo carattere divulgativo e celebrativo. Tra il 1879 e il 1886, il direttore del Bollettino, don Giovanni Bonetti, pubblicò la prima storia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, basandosi sulle Memorie dell'Oratorio di don Bosco.

    Negli anni successivi appariranno le prime pubblicazioni elogiative e pubblicitarie sul fondatore dei Salesiani e la sua opera. Tra esse spiccano quelle del sacerdote Louis Mendre (1879), del dottore Charles d'Espiney (1881), del conte romano Costantino Leonori (1881), del prelato Marcelo Spinola (1884), del magistrato Albert Du Boys (1884) e del giornalista Jacques-Melchior Villefranche (1888).

    Finalmente, nel 1883, fu chiamato da don Bosco come segretario l'uomo che diventerà

    il primo storiografo ufficiale della Società salesiana: don Giovanni Battista Lemoyne. Egli iniziò subito la monumentale raccolta di Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco, dell'Oratorio di S. Francesco di Sales e della Congregatone Salesiana, una compilazione di ben 45 faldoni di bozze di stampa, che saranno alla base delle future Memorie biografiche di don Giovanni Bosco.

    Storiografia agiografica classica (1888-1965). Due anni dopo la sua morte, iniziava a Torino il processo di canonizzazione di don

    Bosco. Le deposizioni dei testimoni rilasciate durante il processo costituiranno una nuova fonte importante sulla vita e le virtù del Fondatore. Altrettanto si dovrà dire in seguito per i processi di canonizzazione di Maria Domenica Mazzarello e di Domenico Savio.

    Nel 1898, decimo anniversario della morte di don Bosco, usciva dalla scuola tipografica libraria salesiana di S. Benigno Canavese il pri

  • mo volume delle Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne. L'opera comporterà 19 volumi. Don Lemoyne curò la pubblicazione dei primi nove volumi tra il 1898 e il 1916. Don Eugenio Ceria pubblicò, tra il 1930 e il 1939, i volumi XI-XIX, mentre il volume X uscì soltanto nel 1939 per opera di don Angelo Amadei. Il lavoro di don Lemoyne, come quello dei suoi successori, non è frutto di uno storico di professione, ma di un testimone onesto e di un ammiratore convinto, spinto dall'urgenza di dare ai Salesiani pagine riservate di documentazione.

    Va segnalata inoltre la data importante del 1920, anno in cui comincia la pubblicazione periodica degli Atti del Capitolo Superiore, voce ufficiale del centro della Congregazione.

    Negli anni della beatificazione (1929) e della canonizzazione di don Bosco (1934) inizia un nuovo ciclo di biografie, arricchite dai contributi dei processi canonici. Tra le più conosciute sono quelle di mons. Carlo Salotti, di Augustin Auffray, di Angelo Amadei e di Eugenio Ceria.

    Intanto si pensava anche ad una edizione completa degli scritti di don Bosco. Il progetto ebbe una prima risposta quando, a cominciare dal 1929, don Alberto Caviglia pubblicò sei volumi della sezione storica delle opere e scritti di don Bosco. L'edizione di Caviglia, ancora par

    ziale e fatta con criteri non del tutto soddisfacenti, era accompagnata da alcuni studi di

    spiritualità di valore. Ma la prima narrazione ordinata e sistematica sull'Opera salesiana è dovuta a don

    Eugenio Ceria, che pubblicò tra il 1941 e il 1951 quattro volumi di Annali della Società Salesiana. Il primo era dedicato al tempo di don Bosco, il secondo e il terzo al rettorato di don Michele Rua, suo primo successore, e il quarto al rettorato di don Paolo Albera. È un lavoro di tipo classico, anche dal punto di vista letterario, sostenuto da una documentazione attinta solamente alle fonti centrali della Società salesiana. Gli Annali purtroppo si fermano al 1921 e non sono mai stati continuati. Lo stesso don Ceria pubblicherà ancora quattro volumi di lettere di don Bosco tra il 1955 e il 1959.

    Storiografia scientifica dopo il 1965 Il Concilio Vaticano II (1962-1965) aveva chiesto agli istituti religiosi di tornare alle

    fonti del loro carisma, in modo da poter rinnovarlo e adattarlo alla situazione odierna. Tale richiesta ebbe risvolti notevoli sullo studio e la ricerca circa don Bosco e l'Opera salesiana. Il lavoro scientifico su don Bosco fu avviato a Lione da Francis Desramaut, il quale aveva pubblicato già nel 1962 uno studio critico sulle fonti del primo volume delle Memorie biografiche. Nel 1968 apparve Don Bosco nel

    la storia della religiosità cattolica, volume primo, di Pietro Stella. È stato considerato la

    prima opera scientifica sulla storia di don Bosco. Seguirà più tardi uno studio dello stesso autore intitolato Don Bosco nella storia economica e sociale. Nello stesso anno 1968 fu tenuto a Lione il primo incontro dei «Colloqui internazionali sulla vita salesiana» i quali diedero origine a una lunga serie di pubblicazioni.

    Nel 1971-1972, il Capitolo generale speciale rilevò l'esigenza di pianificare lo studio scientifico su don Bosco e sulla storia salesiana. Intanto, con il trasferimento della direzione generale delle Opere di don Bosco da Torino a Roma, veniva trasferito anche l'Archivio salesiano centrale, fonte primaria per la storia dell'Opera salesiana. Durante gli anni

  • successivi, per facilitare la consultazione e la ricerche, furono riprodotti su microschede i documenti del fondo don Bosco dell'Archivio.

    Inoltre, presso l'Università Pontificia Salesiana, furono istituiti due centri di studio. Il «Centro Studi Don Bosco» (CSDB), creato nel 1973 come Istituto di ricerche scientifiche su don Bosco e la sua opera, si proponeva l'edizione critica degli scritti di don Bosco e delle fonti a lui relative e ricerche di storia salesiana. Nel 1976, questo Centro iniziava

    la pubblicazione, in ristampa anastatica, degli scritti editi di don Bosco, o a lui in

    qualche modo attribuibili. Nel giro di un anno si giunse a pubblicare i volumi I-XXXVII della prima serie, comprendente la prima e l'ultima edizione di libri ed opuscoli. Nel 1987 apparirà il volume XXXVIII della collezione, unico della seconda serie, che contiene una raccolta di estratti di giornali. Per quanto riguarda il «Centro Studi di Storia delle Missioni Salesiane» (CSSMS), esso iniziò le sue attività nel 1975, in occasione del centenario delle missioni salesiane, con una serie di pubblicazioni riunite nelle seguenti collane: diari e memorie, studi e ricerche, biografie, sussidi bibliografici e storia delle missioni.

    Nel 1977-1978, il Capitolo generale XXI auspicò la fondazione dell'Istituto Storico Salesiano, il quale sarà ufficialmente eretto nel 1981. L'Istituto intende mettere a disposizione di studiosi e operatori, in forme scientificamente e tecnicamente valide, i documenti del patrimonio lasciato da don Bosco e sviluppato dai suoi continuatori. In secondo luogo, ha come scopo di promuovere, secondo i metodi della ricerca storica, l'illustrazione e l'approfondimento dell'esperienza educativa e sociale che ne è sorta con irraggiamento mondiale. La produzione scientifica realizzata nell'ambito dell'Istituto viene resa di pubblica ragione mediante quattro serie di pubblicazioni: «Fonti», «Studi», «Bibliografie» e una «Piccola biblioteca». L'Istituto ha iniziato nel 1982 la pubblicazione della rivista «Ricerche storiche salesiane», che appare due volte all'anno. Nel 1991 l'Istituto ha pubblicato in edizione critica le Memorie dell'Oratorio e il primo volume dell'epistolario di don Bosco.

    Sono apparse anche le prime bibliografie su don Bosco, quella in lingua italiana, e

    quella in lingua tedesca. D'altra parte, la dimensione internazionale della Famiglia salesiana richiedeva una

    maggior apertura alle altre lingue e culture. Nel 1990, i Salesiani di Berkeley, negli Stati Uniti, lanciavano la rivista «Journal of Salesian Studies», aprendo al mondo anglofono nuovi spazi di salesianità. In Spagna, gli studiosi salesiani hanno costituito un gruppo di ricerche storiche. Nel 1996 è stata pubblicata in lingua francese da Francis Desramaut una nuova biografia critica di don Bosco, basata su un'accurata analisi delle fonti. Intanto si moltiplicavano le monografie dedicate a opere singole, tra cui alcune di alto valore storico.

    Infine, è stata creata nel 1996 anche l'Associazione dei cultori di storia salesiana (ACSSA), che ha per scopo di «promuovere gli studi sulla storia salesiana, favorendo la ricerca, l'aggiornamento e la collaborazione fra i membri, animando la Famiglia salesiana sotto il profilo storiografico, divulgando le conoscenze su don Bosco e sui movimenti che da lui hanno avuto origine, in dialogo con analoghe istituzioni civili e religiose». Uno degli impegni più sentiti dagli storici salesiani riguarda evidentemente la conservazione e la cura degli archivi, dei beni culturali e delle biblioteche.

  • L'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e gli altri gruppi. L'Istituto femminile fondato da don Bosco e da Maria Domenica Mazzarello non ebbe

    all'inizio la stessa cura delle fonti e della documentazione. L'idea di redigere una cronistoria dell'Istituto risale al primo Capitolo generale del 1884. Nell'Archivio generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice esistono contributi parziali alla stesura della storia dell'Istituto, redatti nei primi decenni da suor Rosalia Pestarino e madre Emilia Mosca, che poi confluirono nella Cronistoria.

    Nel 1913, don Ferdinando Maccono, vice-postulatore della causa di beatificazione di madre Mazzarello, scrisse la biografia della Confondatrice, mentre madre Clelia Genghini iniziava un attento lavoro di raccolta e di organizzazione di memorie, che le consentì la redazione della Cronistoria dell'Istituto in tre volumi, dalle origini fino all'anno 1881.

    Lo stimolo venne, anche qui, dal Concilio Vaticano II. Nel 1974, suor Giselda Capetti riprese il lavoro di madre Clelia, continuò e integrò il materiale documentario disponibile, pervenendo alla pubblicazione in cinque volumi della Cronistoria dell'Istituto, che va dalla preparazione lontana (1828) fino alla morte di don Bosco (1888). Nello stesso tempo, suor Capetti redigeva Il cammino dell'Istituto nel corso di un secolo, una storia annalistica dell'Istituto che va dalle origini del carisma fino al primo cinquantennio nel 1922. Si tratta di una esposizione rapida e sobria del veloce sviluppo dell'Istituto, in cui vengono menzio

    nate le fondazioni che segnano l'entrata in nuovi paesi o si distinguono per particolari

    caratteristiche. Per completare questo quadro storiografico, a intenzionalità prevalentemente formativa

    e edificante, bisogna aggiungere le varie biografie della Confondatrice, delle Superiore generali e di altre Suore, il «Notiziario» delle FMA (dal 1921), e altre pubblicazioni.

    Intanto si avvertiva sempre più la necessità di un approccio scientifico con la pubblicazione di documenti di prima mano, soprattutto sulle origini dell'Istituto. Nel 1975, furono pubblicate per la prima volta in edizione critica le lettere di madre Mazzarello. Nel 1983 usciva uno studio critico sull'evoluzione del testo delle Costituzioni. Più recentemente, sono state edite fonti e testimonianze sulla prima comunità di Mornese e Nizza Monferrato (1870-1881). Non va dimenticata l'importanza dei vari archivi dell'Istituto, specialmente dell'Archivio generale di Roma.

    Per quanto riguarda la storia dei Cooperatori salesiani, fondati da don Bosco nel 1876, basta dire che è strettamente legata a quella della Congregazione salesiana e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per questo le fonti e i documenti più antichi sono da ricercare nel fondo centrale comune. Ma con l'affermarsi delle strutture proprie, e anche dell'autonomia dell'Associazione in seno alla Famiglia salesiana, si sono costituiti archivi propri dove sono conservati i documenti che l'interessano. Manca ancora una storia vera e propria dei Cooperatori.

    Quanto è stato detto per l'Associazione dei Cooperatori vale anche per la storia degli Exallievi e delle Exallieve, dell'Istituto delle Volontarie di don Bosco, e degli altri istituti o gruppi aggregati alla Famiglia salesiana.

    Storia ed esperienza vissuta.

  • Oltre ai documenti scritti, serve a «fare storia» anche l'esperienza vissuta, soprattutto se si tratta di don Bosco e di vita salesiana. Infatti, nella vita del Fondatore e della sua Opera, è di primaria importanza l'aspetto pratico e operativo. Don Bosco è apparso universalmente uomo di azione, più che teoretico. Lui stesso citava volentieri l'esempio di Gesù Cristo, il quale, secondo un'interpretazione abituale, «cominciò a fare e (poi) a insegnare». Questo procedimento vale anche per la storia salesiana in genere, che, di fatto, è prevalentemente una storia dell'Opera salesiana.

    Per questo motivo, una visione sintetica e unitaria della storia salesiana dovrebbe prendere in conto, non solo i libri di storia, ma anche il «libro dell'esperienza», vale a dire tutto ciò che documenta uno stile di vita e d'azione, gli esempi, le tradizioni, e tutte le manifestazioni del quotidiano. Vale perciò per tutta la storia salesiana ciò che è stato detto giustamente del Fondatore: «Il vero Don Bosco è quello che risulta da una considerazione globale, unitaria e vitale, di tutti i suoi scritti, di tutte le sue realizzazioni e scelte operative, e di tutta la sua vita».

    Di qui risulta anche che una storia dell'Opera salesiana si presenta anzitutto come la manifestazione di un dinamismo interno, che cerca di dare una risposta operativa a domande e bisogni educativi e pastorali. Certo, idee e teorie hanno la loro parte nella formazione del personale e nella definizione delle scelte operative; ma la storia salesiana, di fatto, registra prevalentemente le fondazioni e l'andamento delle opere, delle istituzioni e delle iniziative. Soltanto dopo il Concilio Vaticano II si è assistito ad un maggior sforzo di formulazione, o meglio di riformulazione dei criteri e dei fondamenti dell'agire salesiano.

    La storia salesiana nella storia più vasta. Ovviamente, la storia salesiana va inserita nella storia della società, delle nazioni e

    delle culture. Parlando solo della storia del Piemonte e dell'Italia, bisogna distinguere, a partire dal 1815, alcuni grandi periodi: la Restaurazione (1815-1848), il Risorgimento e la formazione dell'unità d'Italia (1848-1870), la monarchia costituzionale (1870-1922), il fascismo (1922-1945), e la Repubblica (dal 1946 in poi). Allo stesso modo, si deve prendere in considerazione il contesto in cui l'Opera salesiana si è inserita in altre nazioni, e non solo il contesto politico, ma anche le condizioni economiche, sociali e culturali di un paese o di un continente.

    Per quanto riguarda la storia della Chiesa, ricordiamo soltanto alcuni dati, che permettono di situare il nostro lavoro nella trama della storia della Chiesa, sia del Piemonte, sia dell'Italia, come pure di quella della Chiesa universale. Giovanni Bosco è nato, è cresciuto e ha ricevuto la sua formazione al tempo della Restaurazione cattolica, in forte contrasto con i principi della rivoluzione francese e dell'era napoleonica. L'Opera salesiana fu fondata al tempo della rivoluzione liberale e della questione romana. Don Bosco ebbe frequenti e cordiali contatti con il

    Papa Pio IX (1846-1878), che lo appoggiò in ogni modo, anche durante il conflitto con

    l'arcivescovo di Torino. L'Opera si è consolidata ed è cresciuta nel mondo alla fine dell'Ottocento, sulla scia dell'enciclica sociale Rerum novarum di Leone XIII (1878-1903), e nella prima metà del Novecento. In particolare Pio XI (1922-1939), Papa delle missioni e «Papa di don Bosco», favorì la Famiglia salesiana. Un nuovo periodo della storia della Chiesa e dell'Opera comincia con il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), che continua ad esercitare un influsso decisivo sulla Chiesa e la Famiglia di don Bosco.

  • Grandi divisioni della storia salesiana. Per descrivere in modo chiaro questa storia, occorre individuare i periodi principali che

    la segnarono. Tra varie possibilità, abbiamo scelto il modo più semplice, dividendo tutta la materia in tre parti: 1) Il tempo del Fondatore (1815-1888); 2) L'espansione dell'Opera salesiana nel mondo (1888-1965); 3) Di fronte alle nuove sfide (1965-2000).

    La prima parte mette in rilievo il ruolo del Fondatore, Giovanni Bosco, nato nel 1815 a Castelnuovo d'Asti, morto a Torino nel 1888. Egli ha piantato i tre primi pilastri che sostengono l'Opera salesiana: la Società di S. Francesco di Sales (1859), l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872) e l'Associazione dei Cooperatori Salesiani (1876), ai quali si aggregarono poi altri gruppi.

    La preoccupazione principale di don Bosco fu quella di venire in aiuto alla gioventù povera, di «salvare» questa «porzione più preziosa della società», formando «buoni cristiani e onesti cittadini». Ma il suo apostolato personale è stato molteplice ed esteso: diffusione di una letteratura popolare, mediazioni tra la Santa Sede e il Governo italiano, costruzione di chiese, organizzazione di missioni all'estero, ecc. Come fondatore e santo (canonizzato nel 1934), don Bosco avrà sempre un posto primario nella storia dell'Opera salesiana. Ci si riferirà sempre a lui per definirne lo spirito autentico, l'identità propria, la natura del progetto che ha lanciato. Don Bosco poi ha avuto il tempo e la possi

    bilità di formare i suoi primi discepoli, di redigere le loro regole e di prevedere la sua

    successione. Il secondo periodo è quello dell'espansione dell'Opera salesiana nel mondo (1888-

    1965). Alla morte del Fondatore, la Congregazione salesiana, anziché affondare secondo le previsioni di alcuni, proseguì con alacrità il suo sviluppo in personale e nelle opere, sotto i rettorati di don Rua (1888-1910), di don Albera (1910-1921), di don Rinaldi (19221931), di don Ricaldone (1932-1951) e di don Ziggiotti (1952-1965), e ciò, nonostante le due guerre mondiali e le persecuzioni in alcuni paesi. Lo stesso movimento d'espansione si osserva anche nell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, durante il superiorato di madre Daghero (1881-1924), di madre Vaschetti (1924-1943), di madre Lucotti (1943-1957) e di madre Vespa (1958-1969). Va notata però l'importante svolta del 1906, in cui l'Istituto divenne giuridicamente indipendente dai Salesiani. Per quanto riguarda i Cooperatori, sono da ricordare i grandi congressi internazionali, il primo dei quali fu quello di Bologna nel 1895. Gli Exallievi e le Exallieve si organizzarono in quel periodo, partendo dal livello locale e nazionale fino al livello mondiale. Nel 1917 nasceva pure a Torino il futuro Istituto secolare delle Volontarie di don Bosco. Dopo l'era carismatica della fondazione, questo secondo periodo fu l'epoca dei costruttori e dei missionari, che coincideva con l'espansione occidentale, il successo delle missioni, la popolarizzazione della figura di don Bosco.

    L'anno 1965 segnò una svolta, inaugurando il tempo delle nuove sfide. Era la fine del Concilio Vaticano II. Il Capitolo generale XIX eleggeva come Rettor maggiore don Ricceri, (1965-1977), al quale sarebbe successo don Viganò (1977-1995) e poi, a partire dal 1996, don Vecchi. Era il tempo della crisi in Occidente, caratterizzata dalla contestazione giovanile del 1968 e dal calo delle vocazioni religiose, ma anche di uno sforzo coraggioso d'adeguamento alle nuove richieste emerse nella società e nella Chiesa. La promozione delle culture, quella dei laici e della donna, cominciava a rivestire un ruolo sempre crescente. Per quanto riguarda le Figlie di Maria Ausiliatrice, quest'epoca corrisponde ai mandati di madre Canta (1969-1981), di madre Marchese

  • (1981-1984), di madre Castagno (1984-1996) e di madre Colombo (dal 1996 in poi). I

    Cooperatori e gli Exallievi si sentivano carichi di una nuova responsabilità laicale nella società e nella Chiesa. Le Volontarie di don Bosco ricevevano il loro riconoscimento ufficiale come Istituto secolare. Nuovi gruppi si univano alla Famiglia salesiana.

    L'umano e il divino nella storia salesiana. «Sono andato avanti come il Signore mi ispirava e come le circostanze esigevano»,

    diceva don Bosco. E in una conversazione serale del 2 febbraio 1876, durante le annuali conferenze di S. Francesco di Sales, egli affermava che «le altre congregazioni ed ordini religiosi ebbero nei loro inizi qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale che diede la spinta alla fondazione e rassicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno od a pochi di questi fatti; invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente; si può dire che non vi è cosa che non sia stata conosciuta prima; non diede passo la Congregazione senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento, che non sia stato preceduto da un ordine del Signore». Tale convinzione sul carattere provvidenziale dell'Opera salesiana si è radicata nell'animo dei primi collaboratori e continuatori di don Bosco, e fino ad oggi si potrebbe forse rintracciare l'influsso dei sogni di don Bosco sull'espansione missionaria salesiana.

    Essendo l'Opera salesiana un'opera inserita nella storia degli uomini, ma anche nella storia della salvezza, un'ultima osservazione viene in mente per caratterizzarla. Se da una parte, i protagonisti di quest'Opera sono coinvolti in tutti i problemi dell'esistenza umana, quali le relazioni

    umane, le preoccupazioni economiche, l'organizzazione del lavoro, con i successi e i

    fallimenti, gli errori e le mancanze, cose in cui spesso si avverte la distanza «tra il reale e l'ideale», dall'altra parte, sono manifesti i motivi di fede e di carità attiva dei figli e delle figlie di don Bosco, la loro fiducia nella Provvidenza e nell'aiuto di Maria Ausiliatrice, il loro spirito di sacrificio e le loro devozioni, in breve, la loro spiritualità, e talvolta la loro santità. Come nella storia della Chiesa, l'umano e il divino s'intrecciano nella storia dell'Opera salesiana.

    Parte Prima. IL TEMPO DEL FONDATORE. (1815-1888). Capitolo I. GLI ANNI DELLA GIOVINEZZA DI GIOVANNI BOSCO (1815-1841).

  • Come don Bosco stesso aveva fatto scrivendo le sue Memorie dell'Oratorio di San

    Francesco di Sales, e per le medesime ragioni, noi pure incominceremo la storia dell'opera salesiana con il periodo della giovinezza e della formazione del suo fondatore. Infatti, le esperienze del piccolo contadino che sognava di diventare educatore e pastore della gioventù, sono state decisive per l'orientamento della sua vita e della sua opera. Il seme salesiano accumulava in quel tempo energie meravigliose nel suolo di una campagna e di una città di provincia.

    L'Italia nel 1815. L'anno che vide nascere - il 16 agosto 1815 - Giovanni Melchiore Bosco, inaugurava un

    nuovo periodo nella storia d'Italia e d'Europa. Il 18 giugno, la battaglia di Waterloo aveva definitivamente posto termine all'avventura

    napoleonica. Scomparso l'imperatore, l'Italia ritornava ad essere, per volere delle grandi potenze che dettavano legge al Congresso di Vienna, una semplice «espressione geografica», controllata da un potente protettore, l'Austria. L'impero di Francesco II si estendeva infatti al regno Lombardo-Veneto; si rendeva presente per interposte persone ai ducati di Parma e di Modena e al granducato di Toscana; imponeva la propria tutela al regno delle Due Sicilie e allo Stato Pontificio, di cui Pio VII ritornava in possesso dopo un lungo

    periodo di prigionia. L'unico stato italiano veramente indipendente era il regno Sardo,

    che comprendeva non più soltanto il Piemonte, la Savoia e la Sardegna, ma anche la Liguria e Nizza.

    Indubbiamente, l'anno 1815 segna la fine di un'epoca e l'inizio di un regime che aspirava unicamente a restaurare l'ordine passato, quello esistente prima della rivoluzione francese. Per consolidare i loro troni, le grandi potenze si univano in una Santa alleanza, destinata ad opporsi ai «funesti principi» del 1789 ed agli uomini che li avevano incarnati. Logicamente, si vedeva nel re, alleato con la Chiesa, «il caposaldo per l'opera della ricostruzione, di cui appariva urgente il bisogno ai suoi fautori».

    Ma un'altra ideologia si sarebbe opposta a questa con forza sempre maggiore. Del resto, la presenza francese in Italia, nonostante i soprusi di cui era stata cagione, non aveva avuto soltanto inconvenienti, almeno per un certo numero di Italiani. Sotto Napoleone, il paese aveva conosciuto un sentimento temporaneo di sicurezza e di grandezza. Le idee di libertà e di difesa dei diritti dell'uomo, non l'avevano lasciato insensibile. Infine, l'unità nazionale che lo straniero era già riuscito ad imporgli, aveva destato il patriottismo italiano.

    Possiamo affermare che dal 1815, l'evoluzione futura della penisola era in germe nelle due grandi direttrici: il liberalismo ed il patriottismo. Gli ambienti più sensibili alle nuove idee appartenevano alla classe borghese, che aspirava ora alla libertà politica ed economica, ed agli intellettuali imbevuti di tradizione rivoluzionaria. Per conseguire il «risorgimento» dell'Italia, essi si ripromettevano di scuotere il giogo austriaco, riformare o rovesciare i governi assoluti e ricostruire l'unità politica della penisola. Ma per sfuggire alle vessazioni di una polizia onnipotente, i loro piani erano spesso architettati in seno a società segrete: massoneria, cenacoli di carbonari e di cospiratori di ogni tinta, che diventavano sempre più repubblicani, anticlericali e rivoluzionari.

  • Il Piemonte. È anche vero che nel 1815, in nessun luogo queste idee erano accettate sul piano

    politico. In Piemonte, in particolare, la monarchia era ancora ben lontana dal liberalismo. D'altronde, Casa Savoia disponeva di un certo numero di vantaggi, che lasciavano

    presagire il ruolo di primo piano che avrebbe assolto nell'unificazione di tutto il paese. In definitiva, pare che il ritorno nella capitale Torino, nel 1814, della vecchia dinastia sia stato salutato con entusiasmo dalla maggior parte del popolo. Per governare, Vittorio Emanuele I poteva contare sui pilastri tradizionali della monarchia: la nobiltà, il clero e l'esercito. Il clero, da parte sua, era naturalmente orientato sulla strada di una stretta collaborazione con un regime, le cui prime misure non potevano non soddisfarlo: ristabilimento delle feste religiose, punizione della bestemmia, ricomposizione del patrimonio della Chiesa, ristabilimento degli ordini religiosi, restrizione della libertà di pensare e di scrivere. È vero che nel 1821 Vittorio Emanuele sarà costretto ad abdicare sotto la pressione di elementi liberali, tuttavia bisognerà attendere il 1848 per assistere a mutamenti sostanziali nel sistema di governo.

    Tradizionalmente, i Piemontesi erano ritenuti gente di buon senso, tenace, operosa, più portata ai fatti che alle parole, dotata anche di arguzia bonaria. Con tutto ciò, possedevano il senso religioso della vita e il senso del dovere.

    Nascita di Giovanni Bosco (16 agosto 1815). In questo Piemonte, nel periodo della Restaurazione, è nato ed è cresciuto Giovanni

    Bosco. Egli nacque il 16 agosto 1815 nella piccola borgata di Morialdo, e più precisamente nella località chiamata «I Becchi», minuscolo agglomerato di case di campagna del Monferrato. Il

    giorno dopo fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo d'Asti con i nomi di

    Giovanni e Melchiore. Torino è ad una trentina di chilometri ad ovest, ma in quel tempo non erano molto stretti i rapporti tra la campagna piemontese ed il mondo della capitale.

    Il padre, Francesco (1784-1817), da un precedente matrimonio aveva avuto un figlio, Antonio (1808-1849) ed una figlia, Teresa, che non sopravvisse a lungo. Risposatosi con Margherita Occhiena (17881856), ebbe da lei altri due figli: Giuseppe (1813-1862) ed il nostro Giovanni (1815-1888). Per completare il quadro della famiglia, dobbiamo aggiungere la nonna, Margherita Zucca, madre di Francesco, che conservò fino alla morte, avvenuta nel 1826, molta lucidità ed autorità, ed inoltre due servitori di campagna.

    Senza essere miserabili, i Bosco erano una modesta famiglia di contadini. Benché possedesse una casetta e qualche appezzamento di terreno, per far vivere la sua famiglia il padre era obbligato a prestare la sua opera presso un vicino proprietario più benestante.

    Orfano (1817). «Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con grave

    sciagura». Con queste parole don Bosco commenterà la morte del padre, avvenuta l'11 maggio del 1817. Ritornando dal lavoro madido di sudore, Francesco aveva commesso l'imprudenza d'entrare in cantina. Colpito da polmonite fulminante, cessò di vivere qualche giorno dopo. Aveva trentatré anni. Per tutta la vita Giovanni sentirà risuonare al suo orecchio le parole della madre quando lo portò fuori della camera del defunto: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre».

    Fortunatamente per la famiglia, Margherita era una donna di testa e di cuore. Sono state ampiamente decantate le grandi qualità della madre di don Bosco, la sua finezza, il suo buon senso, il suo equilibrio, la sua pietà. Forse, ciò che colpisce di più in questa contadina è l'energia del

  • carattere. Ancora ragazzina, era riuscita un giorno, stando a ciò che ci viene

    raccontato, ad allontanare i cavalli che alcuni soldati austriaci lasciavano pascolare nel suo granoturco. Rimasta vedova all'età di ventinove anni, seppe far fronte con molto coraggio ad una situazione difficile. In educazione, la giudicheremmo molto severa: insegnava ai suoi figli a non rimanere mai inattivi, anzi ad abbreviare le ore dedicate al riposo. Tuttavia, a più riprese saprà dar prova di un'estrema pazienza con il difficile Antonio. Per Giovanni, fu un'educatrice vigile e piena di tatto. Illetterata, ma profonda nella conoscenza del catechismo, formata da una saggezza tutta tradizionale, Margherita non si opporrà alle iniziative del figlio più giovane.

    Scomparso il padre, la famiglia conobbe momenti delicati e talvolta critici. Durante i primi anni della Restaurazione, una carestia eccezionale portò in Piemonte la desolazione. D'altra parte, l'unità e la pace della famiglia erano messe in pericolo dal primogenito, che si ribellava all'autorità della matrigna e tiranneggiava i due fratellastri molto più giovani di lui. Violento, grossolano, chiuso, forse Antonio era soltanto un ragazzo ipersensibile, traumatizzato dalla morte della madre e del padre. Ciò non toglie che con il passar degli anni, i suoi rapporti con il più giovane si tendessero al punto da rendere impossibile la loro coabitazione. Il secondo, Giuseppe, giudizioso e molto conciliante, creava apparentemente meno problemi.

    I primi anni. Giovanni crebbe nell'atmosfera molto semplice dei Becchi. Ancora in tenerissima età,

    imparò a rendersi utile in casa e in campagna. Stigliava la canapa e ben presto la sua occupazione principale fu di portare al pascolo la mucca e i tacchini.

    Unendosi ai ragazzi della borgata, tra cui Giovanni Filippello e Secondo Matta, partecipava ai loro giochi, alle loro preoccupazioni, alle loro prodezze. Non aveva rivali nel prendere uccelli con la trappola o nel nido. Agile e robusto, cercava d'imitare i giocolieri ed i saltimbanchi

    che correva ad ammirare nelle fiere dei dintorni. Racconta egli stesso che riuscì così ad

    avere un grande ascendente sui suoi coetanei, e perfino sui ragazzi più grandi di lui. Fin d'allora si delineano alcuni tratti distintivi del suo carattere. Giovanni era un ragazzo

    sveglio, dall'immaginazione fervida, sempre pronto ad afferrare il lato pittoresco o ameno delle cose e delle situazioni. Sensibile, al punto da non potersi consolare per la morte di un merlo, egli era anche soggetto a scatti di collera. «Di carattere piuttosto serio - nota il Lemoyne -, parlava poco, osservava tutto, pesava le altrui parole, e cercava di conoscere le diverse indoli e indovinare i pensieri per sapersi regolare con prudenza».

    In questo ragazzo, il sentimento della propria vocazione si manifestò precocemente. Fin dall'età di cinque anni, avrebbe pensato che lo scopo della sua vita doveva essere quello di radunare i giovani per far loro il catechismo. Grazie ai suoi molti talenti, egli riusciva già a realizzarlo con discreto successo ripetendo ingenuamente ai suoi compagni le cose intese dal parroco o dalla mamma.

    Un sogno.

  • Verso i nove o dieci anni fece un sogno che gli rimase impresso nella memoria per tutta la vita. Il fondatore dei Salesiani lo metterà per scritto per la prima volta quasi cinquant'anni più tardi nelle sue Memorie dell'Oratorio. Sembra un tipico racconto di vocazione come ne troviamo tanti nella Bibbia.

    Gli parve di essere vicino a casa in un vasto cortile, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire le bestemmie Giovannino si lanciò in mezzo a loro adoperando pugni e parole per

    farli tacere. Allora egli vide un «uomo venerando in virile età nobilmente vestito», che

    gli disse: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici». In seguito, vide anche una «donna di maestoso aspetto», vestita di un manto risplendente da tutte le parti, che lo prese con bontà per mano e gli disse di guardare ciò che stava per succedere. Giovannino guardò e si accorse che i fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece c'erano una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi ed altri animali. La donna gli disse: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Allora egli volse lo sguardo ed ecco invece d'animali feroci apparvero altrettanti «mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora». Il racconto si conclude con queste parole della signora: «A suo tempo tutto comprenderai».

    Era necessario evocare questo primo sogno di don Bosco, che lo fece molto pensare per tutta la vita. Il ragazzino d'allora si sarebbe forse accontentato delle parole definitive della nonna che non bisognava badare ai sogni, se non avesse sentito che quest'episodio, senza alcun'importanza apparente, poteva essere un invito di Cristo e della Madre sua ad assumere la responsabilità dei fanciulli abbandonati.

    Immediatamente dopo questo racconto, l'autore delle Memorie narra per la prima volta le sue esperienze di giovane educatore ed apostolo: (Ascoltate: Era ancora piccolino assai e studiava già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a' miei coetanei era molto amato e molto temuto. Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno». Indubbiamente, don Bosco sessagenario si compiaceva di raccontare nei minimi particolari i suoi primi successi, tanto più che, all'età di dieci o undici anni, erano diventati abbastanza spettacolari.

    Il giovane eroe riusciva allora a raccogliere attorno a sé un centinaio di persone ed anche più. Durante le lunghe veglie invernali, in una fattoria vicina, Giovannino leggeva davanti ad un uditorio attento la storia dei Reali di Francia. Nella bella stagione, attirava il suo pubblico in

    un prato e lo incantava con giochi di bussolotti, giochi di destrezza, ed esibizioni

    acrobatiche. Tutto ciò non lo distoglieva però dalla sua preoccupazione religiosa: ai suoi occhi nulla contava più delle preghiere (poteva essere un rosario) che iniziavano e concludevano le sedute ricreative. Coincidenza da segnalare: nel 1826, Giovanni faceva una prima comunione ricca di fervore, e possiamo pensare che proprio in questo periodo abbia espresso, probabilmente alla mamma, il desiderio di diventare sacerdote.

    Tentativi scolastici (1824-1830).

  • Se Giovannino ebbe prestissimo la passione dell'animazione e dell'apostolato, coloro che gli furono vicini durante l'infanzia gliene scoprirono un'altra: la lettura. Entrava anch'essa nella prospettiva della sua vocazione, che gli comandava di dedicarsi senza indugio a studi seri.

    La cosa, in quel tempo, non era senza difficoltà. Castelnuovo, con la sua scuola comunale, distava cinque chilometri dai Becchi. Nel 1824, Margherita lo fece accettare a Capriglio, un paese più vicino ai Becchi, nella scuola del sacerdote Lacqua. Soltanto per poco tempo, poiché l'ostilità di Antonio cresceva ogni giorno di più. Egli tollerava sempre meno quel «signorino» che vedeva continuamente con un libro in mano ed intento a ruminare grandi progetti per l'avvenire. I successi del giovane saltimbanco inoltre non facevano che accrescere la sua gelosia. Il disaccordo si approfondì tanto, che la madre credette opportuno separarli, allontanando di casa il più giovane. Nel mese di febbraio del 1828, Giovanni emigrò nel villaggio di Moncucco, presso i Moglia, una famiglia di contadini. Episodio doloroso, di cui - forse per delicatezza verso sua madre o per evitare altre domande - non fece alcuna menzione nelle sue Memorie. Alla cascina dei Moglia, egli faceva il garzone per guadagnarsi la vita, ma gli era consentito di seguire le lezioni del parroco e di studiare nel tempo libero. Ai Santi del 1829, suo zio, Michele Occhiena, lo portò via di là, ma i soprusi del fratello maggiore non erano per questo terminati.

    Alcuni giorni più tardi, ritornando da una missione predicata nel villaggio di Buttigliera,

    fece conoscenza con il nuovo cappellano di Morialdo, Giuseppe Calosso. Il vecchio sacerdote comprese immediatamente questo ragazzo così riccamente dotato, capace di sciorinargli lunghi brani della predica dei missionari. Lo iniziò al latino nel 1829-30. Purtroppo, mentre Giovanni incominciava a godere un po' di sicurezza accanto a questo sacerdote semplice e buono, così diverso dai sacerdoti preoccupati della loro rispettabilità dell'epoca della Restaurazione, don Calosso moriva improvvisamente il 21 novembre 1830.

    Tuttavia l'anno 1830 doveva concludersi con una bella schiarita. Poiché Margherita, per farla finita, aveva deciso di addivenire alla divisione dei beni paterni, Antonio prese ciò che gli spettava e andò a vivere per conto suo. Giovanni era finalmente libero di frequentare la scuola pubblica di Castelnuovo, nell'attesa d'andare al collegio municipale di Chieri.

    Verso i quindici, sedici anni, la sua vita prendeva finalmente la direzione desiderata. Molte esperienze l'avevano temprato ed istruito. Orfano di padre, bersaglio dell'ostilità di un fratello che contrariava i suoi desideri più cari, allevato in un ambiente materialmente e culturalmente molto modesto, Giovanni aveva però vissuto anni ricchissimi sotto altri aspetti: educazione umana e cristiana per opera di una donna di valore, esperienza di una vita dura, primi successi «apostolici», prima presa di coscienza di una vocazione personale. La vita di Giovanni Bosco non è stata priva di ostacoli né d'incertezze, ma si ha l'impressione che essi provenissero principalmente dai condizionamenti esterni.

    Nel collegio di Chieri (1831-1835). Giovanni non rimase molto tempo nella scuola pubblica di Castelnuovo, in cui gli studi

    non erano buoni: giusto il tempo di iniziarsi al mestiere di sarto presso un certo Roberto, suo affittacamere, e di circondarsi di un gruppo di amici che l'amavano e gli obbedivano come quelli di Morialdo. «Dopo la perdita di tanto tempo - scriverà egli nelle Memorie - finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri ove applicarmi seriamente allo studio». Il trasferimento si fece ai primi di novembre del 1831.

    Situata a circa mezza strada tra i Becchi e Torino, quella che era

  • chiamata una volta «Chieri dalle cento torri» a causa dei castelli di cui era disseminata,

    non era più che «la città dei conventi, degli studenti e dei telai per tessere, sfondo un po' stemperato della capitale vicinissima». Eppure poteva ancora far sgranare gli occhi ad un adolescente venuto dalla campagna, dotato di spirito d'osservazione e curioso di tutto. «Per chi è allevato tra boschi - così noterà nelle sue Memorie - e appena ha veduto qualche paesello di provincia, prova grande impressione di ogni piccola novità».

    In quell'anno 1831, gravi avvenimenti agitavano una parte d'Italia. Il ricordo dei successi riportati a Parigi l'anno precedente dalla rivoluzione contro l'assolutismo continuava ad assillare gli spiriti. Un'insurrezione scosse l'Italia centrale, provocando immediatamente l'intervento austriaco. Il Papa Gregorio XVI, appena salito al pontificato, era pregato d'introdurre riforme, se voleva rimanere al potere. A poco a poco, le idee di libertà politica, d'indipendenza e d'unità nazionale, guadagnavano terreno in tutta la penisola.

    In Piemonte, nonostante alcune velleità liberali del nuovo sovrano Carlo Alberto, ufficialmente niente era mutato. La tolleranza non era ammessa nelle scuole, meno che in altri campi; un regolamento minuzioso, promulgato nel 1822 dal re Carlo Felice, dirigeva gli studi e la disciplina degli alunni. Esso prevedeva precisi obblighi religiosi: preghiera prima e dopo la scuola, messa quotidiana, biglietti di confessione, attestati di buona condotta, obbligo di possedere un libro di preghiere e di farne uso durante la messa.

    Nulla dunque di più religioso, anzi di più clericale, del collegio di Chieri! Pertanto Bosco non si lamentava che la religione costituisse la «parte fondamentale dell'educazione».

    GÈ studi andarono bene. Il primo anno (1831-1832), ricuperò quasi completamente il ritardo che aveva, superando successivamente le tre classi inferiori dell'istruzione secondaria. Il resto seguì regolarmente: classe di grammatica nel 1832-1833, umanità nel 1833-1834, retorica nel 1834-1835. Bosco era un allievo eccellente, dotato di memoria felicissima. Appassionato di studi letterari classici, divorava - preferibil

    mente di notte - gli autori italiani e latini di una «Biblioteca popolare». Tra i suoi

    professori, la sua ammirazione si orientava verso Pietro Banaudi, «un vero modello degli insegnanti», che «senza mai infliggere alcun castigo, era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi».

    Le occupazioni di un esterno. A Chieri, Giovanni, in un primo tempo, prese pensione presso una compatriota, Lucia

    Matta, sdebitandosi con il disbrigo dei lavori di casa. Poi, su invito del fratello di Lucia, Giovanni Pianta, che teneva un caffè, non esitò a venire ad abitare da lui, benché quella pensione fosse «assai pericolosa». Là egli imparò a preparare «ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e di rinfreschi». Abitò pure in casa di un sarto di nome Tommaso Cumino. Scrive don Lemoyne che esercitava anche i mestieri di fabbro e di falegname. Generalmente la sua abilità manuale era sufficiente a pagargli la pensione; per guadagnare un po' di denaro, si prestava per ripetizioni.

    Eppure, né gli studi, né le necessità materiali riuscivano ad assorbirlo completamente. Leggendo il racconto di quegli anni, si ha l'impressione di trovarlo preso in un vortice d'attività culturali e ricreative. Con che soddisfazione egli rievoca i ricordi di un periodo in cui era stato successivamente, cantore, giocatore, saltimbanco, poeta improvvisato, mago accusato di poteri diabolici! Grazie a tutto questo, era diventato il «capitano di un piccolo esercito». Il suo prestigio gli permise di fondare una «società dell'allegria», circolo di allegri compagni, ma che non mancavano mai d'incontrarsi a casa dell'uno o dell'altro dei membri

  • per «parlare di religione». Problemi di vocazione. Verso la fine degli studi secondari, quando gli studenti decidevano del loro avvenire,

    Bosco si trovò piuttosto perplesso. Il fatto merita d'essere sottolineato, perché egli corse il rischio allora di prendere una strada che evidentemente non era la sua. Sentiva propensione verso lo

    stato ecclesiastico, che i suoi sogni sembravano consigliargli, ma non voleva prestar

    fede ai sogni. D'altra parte, rievocando i suoi anni di collegio, giudicò senza compiacenza la sua maniera di vivere e certe abitudini del suo cuore. Soprattutto «la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato» rendeva «dubbiosa e assai difficile quella deliberazione». Dopo una profonda riflessione prese la decisione d'entrare nell'Ordine francescano.

    Giovanni Bosco fu ricevuto come postulante tra i figli di san Francesco nel mese d'aprile del 1834. L'anno seguente si preparava ad entrare nel convento di Chieri. Ma un nuovo sogno o un «caso» - ignoriamo quale - fece naufragare il suo progetto. Arrendendosi al parere dei suoi consiglieri, si preparò ad entrare nel seminario maggiore.

    Nel seminario di Chieri (1835-1841). Fondato nel 1829 dall'arcivescovo Chiaveroti in una cittadina tranquilla, nella quale i

    pericoli del mondo ed il contagio delle idee liberali sarebbero stati meno da temere che nella capitale, il seminario di Chieri portava le speranze della diocesi di Torino. Il 30 ottobre 1835, dopo aver indossato l'abito ecclesiastico, il chierico Bosco, munito di severi propositi e accompagnato dalle fervide raccomandazioni della madre, varcava la soglia dell'istituzione. «La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili».

    Il suo stato di spirito in quel tempo doveva armonizzarsi con la mentalità dell'ambiente del seminario, «piuttosto rigorista, se non giansenista, più portato, nei suoi elementi migliori, alla pietà che alla scienza», che doveva dargli la prima formazione clericale.

    Durante i sei anni trascorsi nel seminario di Chieri (due anni di filosofia dal 1835 al 1837, e quattro di teologia dal 1837 al 1841), Giovanni Bosco ebbe tuttavia molti motivi per non essere pienamente felice.

    Trovava i professori poco accessibili, la dottrina severa - gli era insegnato che ben

    pochi si salvavano - e l'insegnamento astruso e senz'anima. Doveva inoltre guardarsi da certi seminaristi, che pensavano unicamente a far carriera. Malgrado alcune sue affermazioni, si può pensare che il chierico Bosco conobbe allora un «tempo di inibizione affettiva, che si rifletté sulle sue condizioni fisiche e che, per reazione, lo spinse sulla via dell'autocontrollo, sulla via dell'impegno ascetico accentuato».

    S'imponeva dunque di camminare con posatezza, d'evitare i giochi e i divertimenti che gli piacevano. Aperto a tutti, egli si limitava a frequentare ora una ristretta cerchia di intimi; tra loro, il suo amico di collegio Luigi Comollo occupava un posto di tutto privilegio. Di carattere molto diverso dal suo, Luigi s'imponeva a lui per la calma, la pietà, la fedeltà scrupolosa al dovere. Bosco si sforzò di imitare in tutto, tranne nei digiuni e nell'ascetismo,

  • un seminarista così perfetto. Tra i modelli di santi cominciava ad essere attirato dalla figura mite e zelante di san Francesco di Sales. La morte di Luigi - 2 aprile 1839 - lo colpì profondamente. Alcuni anni dopo, racconterà in un volume le virtù dell'amico ed i fatti strani che avevano seguito la sua scomparsa.

    Egli continuava a leggere molto, ma le sue letture erano diventate molto più serie. Si rimproverava, infatti, d'avere avuto gusto unicamente per le opere forbitissime dei classici pagani. Un giorno, per caso, gli venne tra le mani l'Imitazione di Gesù Cristo: questo libro si accordava perfettamente con le sue nuove disposizioni. Bosco s'interessava con passione della Bibbia e della storia della Chiesa. Spesso le sue letture egli se n'accorse più tardi - lo orientavano verso opinioni teologiche piuttosto rigide nella direzione delle anime e, su un altro piano, alquanto gallicane, quindi meno favorevoli di altre alla centralizzazione romana. Nello studio della morale conobbe il probabiliorismo, dottrina più severa del probabilismo.

    Ordinazione sacerdotale (1841). Il chierico Bosco aveva ricevuto la tonsura e gli ordini minori il 29 marzo 1840, verso la

    fine del terzo anno di teologia. Durante le vacanze estive che seguirono, studiò i trattati del quarto anno e, nell'autunno seguente, per dispensa speciale, fu direttamente ammesso a frequentare il quinto anno. Suddiacono il 19 settembre 1840, diacono il 27 marzo 1841, egli si preparò all'ordinazione sacerdotale a Torino, dai Preti della Missione di san Vincenzo de' Paoli, nell'antica chiesa della Visitazione. Tra le risoluzioni prese durante gli esercizi spirituali, la quarta menzionava il futuro Patrono: «La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa». Don Bosco fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, il 5 giugno 1841.

    Come per tutte le grandi tappe della sua giovinezza, anche in quest'occasione fu la madre che, qualche tempo dopo l'ordinazione, gli tracciò con poche parole profonde un programma di vita sacerdotale fondato sul lavoro, la sofferenza e l'apostolato.

    Queste parole riassumono abbastanza bene ciò che era stata fino a quel momento la vita di Giovanni Bosco: il lavoro era stato suo compagno da sempre, le difficoltà e le prove l'avevano formato alla loro scuola, e l'apostolato era stato sempre la molla del suo agire. Maturato dalle esperienze successive di contadinello laborioso e inventivo, di collegiale entusiasta, di chierico fervoroso, don Bosco non avrebbe tardato a lanciare la sua opera. Certo, per tre anni continuerà a frequentare la scuola; ma, dalla fine del 1841, la storia della sua vita non può più essere disgiunta da quella della sua opera.

    Capitolo II. GLI INIZI DELL'ORATORIO S. FRANCESCO DI SALES A TORINO (1841-1847). L'anno 1841 è stato considerato da don Bosco come l'anno di nascita dell'Oratorio e

    quindi dell'Opera salesiana. Giovane sacerdote appena uscito dal seminario di Chieri, egli sentiva più che mai il desiderio di occuparsi di giovani. Fortunatamente, una serie di avvenimenti orientarono presto il suo apostolato nel senso desiderato. Fu decisivo a questo

  • riguardo il suo stabilirsi a Torino qualche mese appena dopo l'ordinazione. Don Bosco a Torino (1841). Docile ai consigli di don Cafasso, un sacerdote che da vari anni era divenuto la sua

    «guida nelle cose spirituali e temporali», e dopo aver respinto alcune proposte pervenutegli nell'autunno del 1841 (precettore a Genova, cappellano di Morialdo, viceparroco a Castelnuovo), don Bosco accettò con piacere di frequentare il Convitto ecclesiastico di Torino, dove Cafasso era ripetitore. Vi entrò il 3 novembre 1841.

    Aperto nel 1817 nell'ex convento di S. Francesco d'Assisi dal teologo Luigi Guala, il quale ne era ancora rettore, il Convitto offriva ai gio

    vani sacerdoti un completamento di formazione pastorale. «Qui s'impara ad essere

    preti», scriverà don Bosco nelle Memorie. Egli aggiungeva che quell'istituto era stato di grande utilità alla Chiesa strappando «alcune radici di giansenismo, che tuttora si conservava tra noi». Infatti, sotto la protezione di san Francesco di Sales e di san Carlo Borromeo, e seguendo la dottrina di sant'Alfonso de' Liguori, i professori del Convitto difendevano la tesi della preminenza dell'amore sulla legge, incoraggiavano una devozione «tenera e sincera» al Sacro Cuore, alla Madonna e al Papa, e raccomandavano l'assidua frequenza ai sacramenti. Con questi influssi per tre anni, il giovane don Bosco passò dal rigorismo del seminario di Chieri ad una forma di vita spirituale più aperta e attraente. Non solo quest'evoluzione era conforme alle tendenze del suo temperamento, ma avrebbe favorito, com'è facile immaginare, gli inizi della sua opera verso i giovani della capitale piemontese.

    I sacerdoti del Convitto non si dedicavano unicamente allo studio ed alla meditazione, ma i loro maestri li iniziavano anche al ministero pastorale. Don Bosco si lanciò dunque nella predicazione, nelle confessioni, nei corsi di religione in vari istituti religiosi della città. Nello stesso tempo, il suo istinto lo spingeva verso qualcosa di diverso. «Fin dalle prime domeniche - riferisce Michele Rua - andò per la città per farsi idea della condizione morale, in cui si trovava la gioventù». Il bilancio delle sue investigazioni si rivelò presto assolutamente negativo: ovunque, aveva visto «un gran numero di giovani d'ogni età, che andavano vagando per le vie e piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche peggio».

    La condizione giovanile a Torino. Di deplorevole non vi era soltanto la «condizione morale» di questi giovani: le

    condizioni di vita, di alloggio, di lavoro lo erano altrettanto, quando non erano causa di tutto il resto. Nelle Memorie biografiche, don Lemoyne ne

    ha abbozzato un quadro che, nonostante le tinte romantiche e «miserabilistiche», non pare troppo lontano dalla verità. L'autore ha visto in questa situazione la conseguenza dell'esodo dalle campagne agli albori della prima industrializzazione. Torino, capitale con cento- trentamila abitanti, dedita essenzialmente al commercio (vi si trovano appena alcuni stabilimenti tessili), ma presa dalla febbre dell'ampliamento e dello sviluppo edilizio, attirava migliaia di lavoratori, specialmente giovani, dai dintorni di Biella e dalla Lombardia; la maggior parte di loro trovavano lavoro nei cantieri come muratori, scalpellini, selciatori,

  • stuccatori. Don Lemoyne descrive in termini commoventi la misera sorte di tutti questi emigrati, le catapecchie, la promiscuità, l'affollamento nei quartieri periferici lontano da ogni contatto con la Chiesa.

    Guidato e consigliato dal Guala e dal Cafasso, don Bosco vide questa miseria da vicino e ne soffrì. La miseria dei giovani lo commuoveva più di tutto. Di fatto, s'incontravano sui cantieri di costruzione fanciulli dagli otto ai dodici anni, lontani dal proprio paese, «servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti mal sicuri, al sole, al vento, alla pioggia, salire le ripide scale a piuoli carichi di calce, di mattoni e ai altri pesi, e senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o percosse». Bambini in tenera età, spinti dai genitori, mendicavano per le strade. Bande di giovani gironzolavano, soprattutto la domenica, in periferia, lungo le rive del Po, nei terreni incolti.

    Nelle carceri. «L'idea degli oratori nacque dalla frequenza delle carceri di questa città», affermerà

    don Bosco più tardi in uno scritto del 1862. Infatti, Subito dopo l'ordinazione, il Cafasso pensò d'iniziarlo al ministero nelle carceri. Fu

    un'esperienza sconvolgente: «In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull'età fiorente, d'ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l'onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l'obbrobrio della società». Nella rievocazione tardiva delle Memorie dell'Oratorio, il tono diventerà ancora più drammatico: «Vedere turbe di giovanetti, sull'età dei 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato, ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire».

    E quali erano le cause di tale situazione? «Ponderando attentamente le cagioni di quella sventuram - scrive egli - si potè conoscere che per lo più costoro erano infelici piuttosto per mancanza di educazione che per malvagità». E aggiunse precisando il modo d'intendere l'educazione: «Allora si confermò col fatto che questi giovanetti erano divenuti infelici per difetto d'istruzione morale e religiosa, e che questi due mezzi educativi erano quei che potevano efficacemente cooperare a conservare buoni quando lo fossero ancora, e di ridurre a far senno i discoli quando fossero usciti da quei luoghi di punizione».

    Fu proprio nelle carceri che don Bosco sperimentò l'efficacia di ciò che chiamerà più tardi il sistema preventivo, basato sulla ragione, la religione e l'amorevolezza. Osservava, infatti, «che di mano in mano facevasi loro sentire la dignità dell'uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevansi dare ragione, ma che loro faceva desiderare di essere più buoni. Di fatto, molti cangiavano condotta nel carcere stesso, altri usciti vivevano in modo da non doverci più essere tradotti». Già allora egli pensava: ciò che mancava a loro era «un amico», che s'interessi di loro.

    Don Bosco frequentò pure gli ospedali, soprattutto la vicina «Pic cola casa della divina Provvidenza» del canonico Giuseppe Cottolengo, che tra i suoi

    milleottocento pensionanti contava molti giovani ed orfani. Tutte queste prime esperienze l'orientarono seriamente verso la «gioventù povera e abbandonata». Soltanto mancava

  • ancora il modo di radunare i giovani per iniziare un vero lavoro educativo a favore di quelli che ne avevano più bisogno.

    Origine dell'Oratorio (1841). Secondo le Memorie dell'Oratorio, fu un «lepido incidente» dell'8 dicembre 1841 che

    diede origine a tutta l'opera di don Bosco per i giovani. «Il giorno solenne all'Immacolata Concezione di Maria» - così inizia il suo racconto -

    egli si preparava a celebrare la messa nella chiesa di S. Francesco d'Assisi. Mentre in sacrestia indossava i paramenti, qualcuno era entrato furtivamente: un adolescente, certo incuriosito dall'aspetto insolito del luogo, che se ne stava tranquillo in un angolo. Ma ecco giungere il sacrestano. Credendo di aver trovato il serviente che cercava, subito lo chiama. Probabilmente anche don Bosco stava per rivolgergli la parola, ma non ne ebbe il tempo. In un batter d'occhio, il sacrestano aveva afferrato la pertica dello spolverino per mettere alla porta quel «bestione», che non sapeva servire messa. Il giovane sacerdote interviene allora con energia: «Che fate? È un mio amico! Chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui». Il ragazzo si avvicina tremante. Rassicurato da don Bosco, accetta di aspettare il termine della messa per parlare di «un affare» che gli farà piacere. Dopo il ringraziamento, la conversazione riprende in un clima di fiducia. Il giovane si chiamava Bartolomeo Garelli. Orfano di padre e di madre, senza istruzione né scolastica né religiosa, il giovane lavoratore sedicenne doveva apparire a don Bosco «come il grido d'implorazione di tutta l'infanzia povera e abbandonata». Quel mattino dell'8 dicembre, l'incontro si prolungò con una po' di catechismo. Don Bosco conclude l'episodio con un'affermazione ben pesata: «Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell'incremento, che certamente non avrei potuto allora immaginare».

    L'aneddoto dell'8 dicembre 1841 si presenta chiaramente come un classico «racconto di

    fondazione». In uno scritto ben anteriore di vent'anni, don Bosco non faceva riferimento all'incontro con Bartolomeo Garelli, diventato poi il capostipite dei giovani oratoriani, ma a «due giovani adulti, gravemente bisognosi di religiosa istruzione». Appare certo ad ogni modo che l'inizio del suo apostolato giovanile si iscriva nel quadro dei catechismi che si facevano a S. Francesco d'Assisi sotto la guida di don Cafasso. Nel Cenno storico del 1868 sulle origini della Società salesiana, don Bosco potrà giustamente affermare che «questa Società nel suo principio era un semplice catechismo», e che il suo scopo era di «raccogliere i giovanetti più poveri ed abbandonati e trattenerli nei giorni festivi», non soltanto in esercizi religiosi, ma anche in «piacevoli ricreazioni».

    Le prime riunioni a S. Francesco d'Assisi (1841-1844). Verso la fine del 1841, alcuni ragazzi cominciarono a raggrupparsi intorno al giovane

    sacerdote, presso il quale essi trovavano un'accoglienza amichevole e una formazione adatta alle loro possibilità. Il numero dei partecipanti cresceva ad ogni riunione. Nel decorso del 1842, si giunse a venti e talora venticinque. Durante il 1843, i giovani che intervenivano al catechismo erano una cinquantina. Nell'estate del 1844, essendogli stato accordato un locale più spazioso, don Bosco si trovò circondato da circa ottanta giovani.

    Questi ragazzi erano in gran parte muratori e provenivano da paesi lontani. Al sopraggiungere dell'inverno, ritornavano alle loro case, a meno che vi rinunciassero, come Giuseppe Buzzetti, che preferiva restare con don Bosco. Alcuni erano privi di tutto, tanto che il giovane sacerdote doveva industriarsi a trovare loro vestiti o a dar loro il pane «per parecchie settimane».

    Ben presto, don Bosco aveva dato alle riunioni giovanili il nome di «oratorio festivo». Questa denominazione dimostrava che, secondo il suo modo di vedere, lo scopo primordiale era d'ordine spirituale e a

  • questo scopo erano subordinate le altre attività. Si dava perciò un posto centrale alla

    Parola di Dio, al catechismo e ai sacramenti (confessione, messa e comunione). L'ispirazione evangelica era per lui evidente, perché considerava l'oratorio un mezzo per «radunare i dispersi», continuando la missione di Gesù Cristo nel tempo. Scriverà infatti testualmente: «Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù dei nostri giorni».

    D'altra parte, occorre tener presente che egli si riferiva volentieri a san Filippo Neri, l'apostolo di Roma nel secolo XVI, il fondatore d'oratori con preghiere, canti, prediche e divertimenti per i giovani. Esistevano anche a Milano oratori fiorenti, di cui avrà potuto sentir parlare. Nella stessa Torino, un altro giovane prete, don Cocchi, aveva iniziato un oratorio nel 1840. Per don Bosco, l'oratorio consisteva in «radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Poco a poco, il termine si estenderà ad ogni tipo d'attività per i giovani.

    Alla ricerca di una sistemazione (1844-1846). Nel 1844, don Bosco aveva terminato il suo triennio al Convitto e nuovamente gli si

    presentava la scelta di un ministero ufficiale. Nel suo spirito egli vagheggiava una grande idea: «In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto». I suoi amici temevano che l'arcivescovo lo allontanasse da Torino.

    Nulla di tutto questo accadde. Fu mandato a servizio del «Rifugio», un istituto fondato dalla marchesa Barolo per le giovani pericolanti nella zona di Valdocco, a nord della città. Vi erano già direttori spirituali il teologo Giovanni Borel e don Sebastiano Pacchiotti. Don Bosco si aggiunse a loro, in attesa di diventare direttore spirituale dell'Ospedaletto di S. Filomena, per bambine inferme, che si sarebbe aperto dopo alcuni mesi. Quest'ufficio, non molto di suo gusto, fortunatamente gli lasciava la possibilità di continuare il suo apostolato tra i ragazzi, nel quale il Borei diventò il suo aiutante più efficace.

    Con l'autorizzazione della marchesa, le riunioni, a partire dall'ottobre del 1844, poterono aver luogo presso il Rifugio e una piccola cappella fu sistemata in due camere e benedetta l'8 dicembre dello stesso anno. La cappella e l'oratorio cominciarono a chiamarsi di S. Francesco di Sales perché la marchesa aveva fatto eseguire il dipinto di questo santo all'entrata del locale. Il patrocinio del vescovo savoiardo piaceva a don Bosco, che voleva imitarlo «nella sua straordinaria mansue

    tudine e nel guadagno delle anime», aggiungendo come un'altra ragione quella di

    chiedere il suo aiuto per «combattere gli errori contro alla religione specialmente il protestantesimo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella

  • città di Torino». Dopo alcuni mesi di stabilità in un luogo dove egli credeva di aver trovato il «paradiso

    terrestre», la marchesa finì con lo stancarsi di quei discoli; nell'attesa di congedarlo definitivamente, ella chiese a don Bosco di allontanare una clientela ritenuta pericolosa e sempre più numerosa. L'oratorio iniziava allora la sua vita errante.

    La domenica 25 maggio dei 1845, l'oratorio si trasferì nel cortile e nella chiesa presso il cimitero di S. Pietro in Vincoli, ma il cappellano, spinto da una governante collerica, cacciò via la chiassosa truppa il giorno stesso. Dopo quest'incidente, il municipio di Torino, su raccomandazione dell'arcivescovo Fransoni, permise a don Bosco di radunare le sue turbe di ragazzi presso la cappella di S. Martino, non lontano dai mulini che costeggiano la Dora. Ma i vicini protestavano presso le autorità e s'incominciava a diffondere la voce che quelle riunioni potevano essere pericolose per l'ordine pubblico.

    Nel mese di novembre del 1845, all'avvicinarsi dell'inverno, il catechismo si fece in tre stanze prese in affitto nella casa di don Giovanni Moretta, a pochi passi dal Rifugio. Intanto, la situazione diventava critica. Accusato dai parroci di Torino di allontanare i giovanetti dalle parrocchie, don Bosco rispondeva che essi non conoscevano né parroco né parrocchia, essendo in gran parte savoiardi, svizzeri, valdostani, biellesi, novaresi o lombardi. Nella primavera del 1846, gli inquilini di casa Moretta lo fecero di nuovo sloggiare.

    Nel mese di marzo di quell'anno, egli affittò un prato vicino, appartenente ai fratelli Filippi. Erano circa trecento i giovanotti che frequentavano quell'oratorio, «la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del cielo». Ma anche là, le cose si misero male assai presto.

    Fortunatamente, l'8 marzo don Bosco fece la conoscenza di un certo Pancrazio Soave, che gli indicò una «tettoia», addossata a una casa appartenente a un immigrato lombardo, Francesco Pinardi. Il 13

    marzo, scrisse al marchese Michele Benso di Cavour, capo dell'amministrazione

    comunale, chiedendo l'autorizzazione di installare l'oratorio nel locale di Pinardi. Il 30 marzo, fu ricevuto dal marchese, il quale, mentre l'incoraggiava nel suo lavoro, faceva tuttavia riserve sul suo modo di fare e insisteva sui pericoli di quelle riunioni. Appena tornato dall'udienza, i fratelli Filippi gli chiesero di lasciare il loro prato entro quindici giorni. Il 1 aprile, venne firmato un contratto di locazione della tettoia Pinardi per tre anni. Il 5 aprile, domenica delle Palme, fu l'ultima domenica sul prato Filippi. Il trasferimento dell'oratorio in una sede fissa ebbe luogo la domenica seguente.

    L'Oratorio nella tettoia Pinardi a Valdocco (1846). «La domenica seguente, solennità di Pasqua nel giorno 12 di aprile, si trasportarono

    colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso della nuova località». Benché di costruzione recente, quella tettoia era stata fino allora una «semplice e povera rimessa», che serviva da deposito ad alcune lavandaie del sobborgo ancora poco abitato di Valdocco. Con alcuni adattamenti indispensabili, il grande vano di quindici metri per sei e le due stanze sarebbero stati utilizzati come cappella e luogo di riunione. Accanto, una striscia di terreno poteva servire da luogo di ricreazione. L'insieme era nulla di straordinario, ma il fatto d'aver trovato un posto fisso costituiva per l'oratorio un vantaggio altamente apprezzabile.

    Don Bosco non tardava a raccogliere i frutti dell'operazione. «Il sito stabile, i segni d'approvazione dell'Arcivescovo, le solenni funzioni, la musica, il rumore di un giardino di ricreazione, attraevano fanciulli da tutte le parti. Parecchi ecclesiastici presero a ritornare». È vero che il marchese di Cavour persisteva nelle sue diffide, tanto che gli impose per sei mesi la presenza d'alcune guardie civiche, ma ciò non gli fu af

  • fatto sgradito perché gli servivano tanto bene per l'assistenza dei giovani. Proprio allora la salute di don Bosco cedette. Nel mese di luglio di quell'anno, cadde

    gravemente ammalato. Questa grave prova servì almeno ai suoi ragazzi per manifestargli con esuberanza il loro profondo attaccamento. Guarì. Dopo parecchie settimane di convalescenza ai Becchi, ritornò a Torino, ma accompagnato dalla madre Margherita. Il 3 novembre 1846, entrambi si stabilirono molto poveramente in due camere della casa Pinardi, che don Bosco aveva potuto prendere in affitto. Dopo qualche tempo, gli sarà possibile affittarne altre tre.

    Primi tentativi di scuola. Oltre all'istruzione religiosa, don Bosco aveva potuto costatare fin da principio la

    necessità di dare un po' d'istruzione generale ai suoi ragazzi, in gran parte analfabeti. A questo scopo aveva iniziato al Rifugio scuole domenicali, ed altrettanto aveva fatto con maggior regolarità in casa Moretta. S'imparava soltanto a leggere e scrivere, a fare le quattro prime operazioni dell'aritmetica, a capire i rudimenti del sistema metrico e della grammatica italiana.

    Non era sufficiente: accadeva che da una domenica all'altra dimenticassero tutto. Egli istituì allora, probabilmente durante l'inverno del 1846-1847, scuole quotidiane serali per l'insegnamento della lettura, della scrittura, dell'aritmetica, della musica, e poi anche del disegno e della lingua francese. Quando l'Oratorio fu stabilito nella casa Pinardi, queste scuole assunsero un funzionamento più regolare e ordinato.

    Don Bosco reclutava e formava lui stesso i maestri, generalmente giovanissimi, che chiamava i suoi «maestrini». I primi risultati parevano incoraggianti. «Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo stesso davano grande opportunità per istruirli nella religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitudini».

    Volendo dare ai suoi alunni libri adatti, scrisse - a prezzo d'un lavoro sfibrante - una

    Storia ecclesiastica, una Storia sacra, un «metodo cristiano di vita», e perfino una commediola per imparare in modo piacevole il sistema metrico decimale.

    Una domenica all'Oratorio. Nelle domeniche e giorni festivi, il programma della giornata era divenuto classico. Al

    mattino, di buon'ora, don Bosco accoglieva i ragazzi sulla porta della tettoia-cappella. Immediatamente iniziavano le confessioni che si prolungavano fino al momento della messa, fissata di regola alle otto, ma spesso ritardata fino alle nove ed anche oltre per il prolungarsi delle confessioni. Prima di uscire don Bosco rivolgeva loro la parola su un tema tratto dal vangelo o, più spesso, utilizzando un episodio della storia sacra o della storia della Chiesa, ma sempre «ridotti a forma semplice e popolare». Dopo qualche minuto di ricreazione, aveva inizio la scuola festiva, che durava fino a mezzogiorno.

  • Nel pomeriggio, si riprendeva a giocare dall'una fino alle due e mezzo. C'erano poi i

    corsi di catechismo, la recita del rosario, il sermoncino, il tutto concluso dalla benedizione. Il tempo rimanente era occupato a giocare con don Bosco, rimasto molto agile e lesto, che non disdegnava di mettere a profitto le sue antiche doti di saltimbanco. Si continuava fino al cadere della notte. Dopo le preghiere della sera, accompagnava talvolta i giovani per un tratto di strada, tanto rincresceva loro accomiatarsi da lui.

    Quelle giornate, iniziate alle quattro del mattino, lo lasciavano alle dieci di sera «mezzo morto per la stanchezza». Durante la settimana, don Bosco continuava ad occuparsi dei suoi giovani. «Andava - testi-monierà don Rua - in cerca di giovani, che stavano vagando per le vie della città, andava eziandio visitando le fabbriche, ove trovavansi numerosi apprendisti, e tutti li invitava al suo Oratorio, indirizzando specialmente le sue esortazioni ai giovani forestieri, come quelli provenienti dal Biellese, dalla Lombardia, per lavorare da muratore. Quando poi qualcuno rimaneva senza lavoro, s'industriava per cercare loro occupazione presso qualche buon padrone, affinché non perdesse nell'ozio quanto di bene imparava nei giorni festivi».

    Consolidamento (1847). Preoccupato di rendere stabile la sua opera attraverso «l'unità di spirito, di disciplina e

    di amministrazione», incominciò, forse già dal 1847, a stendere un regolamento dell'Oratorio, in cui esponeva «il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte». Questo regolamento sarà continuamente ritoccato negli anni seguenti.

    Per inquadrare e animare la massa enorme di cui si occupava, fu organizzata tra gli oratoriani un'associazione, il cui fine era di unire tutti coloro che avevano desiderio di buona condotta e di una vita cristiana più autentica. Sotto il titolo di «Compagnia di S. Luigi», fu debitamente approvata dall'arcivescovo di Torino il 12 aprile 1847.

    Così, a poco a poco, l'Oratorio di Valdocco si consolidava. Alcune opposizioni si calmavano. Nel giugno del 1847 vi fu perfino una specie di

    consacrazione, quando mons. Fransoni venne per la prima volta per dare la cresima a novantasette oratoriani. L'Oratorio che, secondo l'espressione di don Bosco, era nato e cresciuto «sotto le bastonate», era diventato nel 1847 sufficientemente solido per attraversare la grande crisi politica che stava covando.

    Capitolo III. LA CASA DELL'ORATORIO E I PRIMI LABORATORI (1847-1862).

  • Un clima politico burrascoso (1847-1849). A partire dal 1847, il Piemonte avrebbe vissuto gli anni più frenetici della sua storia.

    Con l'aria di libertà che ora soffiava violenta sugli stati di Carlo Alberto, i giorni della Restaurazione e del regime assolutista parevano contati. L'elezione, un anno prima, di Pio IX che era considerato un liberale, l'eco suscitata in Italia dalle innovazioni del nuovo Papa, i moti rivoluzionari che non avrebbero tardato a scoppiare a Parigi, a Vienna e a Berlino, tutto contribuiva a creare un nuovo clima politico.

    In Piemonte, fu il re stesso che - per amore o per forza - prese l'iniziativa dei mutamenti. Nell'ottobre 1847, Carlo Alberto promulgava una prima serie di riforme, specialmente l'abolizione della censura della stampa, che suscitarono immediatamente immenso giubilo da parte dei liberali. «Quasi ogni giorno battimani, serenate, inni a Pio IX, al Re e alla Risorta Italia», scriveva un testimone.

    L'anno seguente 1848 fu decisivo. Nel febbraio furono concessi ai Valdesi, minoranza protestante, tutti i diritti politici e civili e venne loro garantita la libertà di culto. Nel mese di marzo, in un clima parossistico d'entusiasmo, Carlo Alberto concesse lo Statuto e una legge elettorale. Con questo passo, si cambiava regime, passando dalla monarchia as

    soluta alla monarchia costituzionale. Poco dopo venivano riconosciuti anche agli Ebrei i

    diritti civili. Il movimento liberale sosteneva il movimento nazionale. Si parlava continuamente di

    cacciare una buona volta gli Austriaci per realizzare l'unità del paese. Il romantico Carlo Alberto, che appariva a molti l'unico che potesse liberare l'Italia, si gettò in una guerra almeno prematura. Entrato in Lombardia nell'aprile del 1848, dopo alcuni successi iniziali fu sconfitto a Custoza e a Novara ed abdicò nel marzo 1849 in favore del figlio, Vittorio Emanuele II.

    A Roma intanto, Pio IX aveva annunciato nell'aprile 1848 che la sua missione universale non gli permetteva di entrare in guerra contro i suoi figli dell'impero austro-ungarico. Le conseguenze furono drammatiche: venne ucciso il suo primo ministro e lui stesso fuggì di notte da Roma alla fortezza di Gaeta. Fu proclamata la repubblica romana e dichiarato decaduto il potere temporale del Papa. Soltanto nel luglio del 1849, la repubblica sarà sconfitta dalle truppe francesi e Pio IX potrà tornare a Roma.

    La crisi degli oratori a Torino. Com'è facile immaginare, i contraccolpi della situazione si fecero sentire anche

    all'Oratorio. Don Bosco reagì creando nell'ottobre del 1848 un giornale, che chiamò L'Amico della gioventù con lo scopo «d'illuminare e premunire la gioventù contro a tutto ciò che potesse per avventura oscurare le verità della fede, corrompere il buon costume o traviare il popolo per tenebrosi e fallaci sentieri». L'esperienza tuttavia durò soltanto alcuni mesi, fino a maggio dell'anno seguente. Secondo il Lemoyne, «i giorni del 1848 e del 1849 furono terribili per don Bosco».

    Nel clero si erano formate delle divisioni. L'arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, che non era incline ad accettare le novità, fu pregato di lasciare il paese; imprigionato per qualche tempo, si esiliò nel 1850 a Lione, in Francia. Un gran numero di seminaristi e di sacerdoti esal

  • tavano invece l'alleanza della religione con la libertà e con il patriottismo. Prudente, e tutto preso dal suo lavoro a favore della gioventù povera e dalla sua fedeltà

    all'arcivescovo e al Papa, don Bosco ebbe da subire una violenta reazione di una parte dei suoi collaboratori. Questi, non contenti di lasciarlo solo ancora una volta, riuscirono per un po' di tempo a strappargli il grosso delle sue truppe. Per diverse domeniche, il numero dei partecipanti cadde da alcune centinaia a trenta o quaranta. Per trattenere i ragazzi, egli si adattava per necessità al loro spirito bellicoso e li riforniva di fucili e di spade di legno. Tuttavia, egli rimaneva diffidente, e non accettava di lasciarsi trascinare nel vortice degli entusiasmi popolari. Ben presto essi si sarebbero rivolti contro il clero, mentre i rapporti tra Pio IX ed il grande movimento che agitava l'Italia si avvelenavano sempre di più.

    Nonostante tutto, l'Oratorio sopravvisse agli anni difficili, anzi riuscì a sciamare verso due nuovi centri. Nel 1847, fu presa a pigione una piccola casa con una tettoia e un cortile a sud della città, nel quartiere di Porta Nuova. La casetta era occupata da lavandaie, «le quali credevano dover succedere la fine del mondo qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimora». L'oratorio, intitolato a S. Luigi, fu inaugurato l'8 dicembre e affidato al teologo Carpano, al quale succederà don Ponte. Due anni dopo, anche l'oratorio dell'Angelo Custode, fondato da don Cocchi nel quartiere malfamato di Vanchiglia, all'est della città, passò sotto la responsabilità di don Bosco. Infatti, era andato in crisi dopo che l'intrepido direttore aveva preso il partito della lotta politica. La direzione fu assunta dal teologo Giovanni Vola, e in seguito dal teologo Roberto Murialdo, validamente aiutato dal cugino Leonardo.

    Nel gruppo dirigente degli oratori torinesi, si manifestarono presto le diversità di carattere e d'opinioni. Per favorire la coesione si cercò di creare una specie di confederazione. Ma don Bosco rifiutò di farne parte adducendo come motivo le differenze di orientamenti educativi. In questo contesto, l'arcivescovo in esilio decise di intervenire nel 1852 e lo fece in favore di don Bosco. Il 31 marzo 1852,