Mondadori, Milano, pagg. 218, € 18 Il cuore selvaggio di Clarice … · 2021. 1. 25. · gere il...

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24 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 7 MAGGIO 2017 n. 119 Letteratura «acqua viva» di lispector Il cuore selvaggio di Clarice Torna il libro della maturità dell’autrice ucraina, una singolare lettera d’amore in cui si appella al lettore: «aiutami a nascere» dall’ucraina al brasile  | Clarice Lispector (1920 - 1977) Il racconto di Lispector sulla Domenica Il 7 aprile 2013 la Domenica proponeva un lungo brano tratto dal libro di Clarice Lispector «Le passioni e i legami» (Feltrinelli): raccontava della donna più piccola del mondo, alta 45 centimenti. Un esploratore francese la scoprì nel Congo, dove i pigmei si ritiravano per evitare di essere catturati e mangiati. Per la sua grazia strana la chiamò Piccolo Fiore www.archiviodomenica.ilsole24ore.com teresa ciabatti Controcanto sano al «mostro» di  Filippo La Porta «M i chiamo Teresa Ciabat- ti e ho quarantaquattro anni…egoista, superfi- ciale, asociale…qualco- sa nella mia vita è andato storto…incapace di coltivare amore, di costruire rapporti di fiducia…Mi chiamo Teresa Ciabatti…». Nel- l’ultimo capitolo della Figlia più amata ritro- viamo più volte reiterata questa formula, già incontrata nel corpo del romanzo, e che evoca subito l’amato Walter Siti di Altri pa- radisi. Ma qui l’aspirazione è ben diversa. Lei si chiama Teresa Ciabatti però «non co- me tutti». La sua è una esistenza gelosa- mente unica, né vuole farsi portavoce del- l’Occidente sfinito o interprete della liquida postrealtà. La prosa, aliena da qualsiasi concettosità, non evita immagini da lirismo pop («La mia stagione è durata poco, quanto vive una farfalla?»), e si distende in un ri- tratto denso, straordinariamente nitido, del demone italiano per eccellenza: la Fami- glia (promessa di felicità e insieme spazio claustrofobico di conflitti). E lo fa attraverso l’invenzione di una voce narrativa persona- lissima, ossia quella di una bambina viziata, nevrotica, ferita, autodistruttiva, generosa (ed è in parte la “voce infantile” che - venia- mo informati - l’editor aveva contestato). La Teresa Ciabatti ormai adulta ha bisogno di questa voce, dunque di un palese artificio, per raccontare la propria educazione senti- mentale - sotto un cielo costellato di nubi enormi che sembrano macerie - e la inelut- tabilità di un destino. Non tanto una «auto- fiction sincera», come ci viene promesso nel risvolto, quanto una autoconfessione reci- tata in falsetto, quasi regredita, e perciò pa- radossalmente autentica. L’autofiction è un genere che ha quasi esaurito la sua spinta propulsiva, ma qui ne viene corretto e rilan- ciato, attraverso quella invenzione origina- le. La saga famigliare, ambientata tra Orbe- tello e la Roma bene, si concentra poi nella rappresentazione di un “mostro” (che cor- risponde a una tipologia di italiano), e cioè il padre, detto il Professore: eccellente chi- rurgo e primario, massone, carrierista, bu- giardo, probabilmente golpista, e poi pre- potente, benefattore, dissipatorio (dilapida una ricchezza immensa). Certo, ci sono al- tre figure, ritratte in modo incisivo - tra cui il fratello gemello, l’amica, i compagni di scuola, e soprattutto la madre, o Reietta, eroina o vittima, un possibile controcanto “sano” al dispotismo malato del Professore (vi si scontra, lo fa spiare da un’agenzia in- vestigativa, prende le difese della figlia) - ma alla fine nessuna di queste figure riesce a oscurare Lorenzo Ciabatti, e la sua losca, de- bordante vitalità. La Teresa adulta che rac- conta la Teresa bambina - incerta se consi- derarsi la più amata o la meno amata (forse entrambe le cose, come impara qualsiasi es- sere umano che indaga su di sé) - guarda at- traverso di lei il mondo, raccontato in una miracolosa trasparenza: con i buoni e i cat- tivi, con il peso dell’immaginario che sem- pre sovrasta la realtà empirica: lei “si sente” bella, o perlopiù grassa e non attraente, ecc. ma sappiamo che si tratta solo di fantasmi, di un nebbioso, estenuato gioco di specchi. Nelle pagine del romanzo si aggira una pre- senza magica: una gallina bianca (all’inizio corre per l’ospedale, poi appare in una mi- steriosa epifania o, ancora, uscita dal cilin- dro di un prestigiatore). Nell’ultima pagina, inseguita da tutti, entra in un cespuglio ed «esce per sempre dalla nostra storia». Forse questa gallina è rimasta sempre lì, a fissarci negli occhi, sfuggente e nascosta come la verità dell’esperienza. Occorre solo ricono- scerla, saperla snidare, anche con la menzo- gna e il sortilegio della autofiction. © RIPRODUZIONE RISERVATA Teresa Ciabatti, La figlia più amata, Mondadori, Milano, pagg. 218, € 18 di Elisabetta Rasy C larice Lispector è uno di que- gli autori che finiscono na- scosti dietro la furia inter- pretativa dei suoi esegeti, così dal 1944, fin da quando cioè questa ucraina natura- lizzata argentina, bella come le attrici del cinema in bianco e nero, metà viso solare metà ombroso, pubblicò il suo primo li- bro, Vicino al cuore selvaggio. I suoi conna- zionali lo definirono «il nostro primo ro- manzo nello spirito di Joyce e Virginia Woolf». Effettivamente il titolo era tratto, come un solitario gioiello rubato da una cassaforte, da una frase dell’autore dubli- nese, ma il modernismo di Lispector era di un tipo particolare, come si chiarì ven- t’anni dopo quando uscì La passione se- condo G.H.. Fu necessaria allora una corre- zione di tiro: è vero, la scrittura rapsodica e sussultante di questa autrice si muoveva nel solco della tradizione modernista, ma ciò che davvero la caratterizzava era sem- pre il cuore selvaggio del suo primo titolo, quel battito che come una martellante musica di fondo portava la tessitura delle sue parole più vicina alla scrittura delle grandi mistiche del passato che agli accul- turati autori della prima metà del secolo. Scrittura mistica: dunque una scrittura il cui oggetto è uno sconvolto paesaggio in- teriore, col suo irruento divenire, senza l’obbligo di riconoscersi in una trama o di trasportare le parole dentro intrecci o ri- conoscibili riferimenti alla realtà con il suo gioco dei ruoli e le sue maschere. Di qualsiasi cosa parli – per esempio nel Cuo- re selvaggio della storia di una donna dal- l’infanzia alla vita adulta, con l’amore, il matrimonio, il tradimento – Lispector non si accosta mai alle regole della com- media umana. Tutto per lei è dramma sa- cro e sacra rappresentazione, la messa in scena dei travestimenti della scrittura ro- manzesca non la interessa. Nata nel 1920, Clarice era arrivata nei primi anni di vita in Brasile con le sorelle e i genitori, in fuga dall’Ucraina devastata dai pogrom contro gli ebrei, la cui terribile efferatezza verrà poi, nel corso della sto- ria, dimenticata o comunque oscurata dal male assoluto dell’Olocausto . Nella sua opera non ci sono espliciti riferimenti al mondo di ieri e alla comunità da cui pro- viene, ma il senso che ognuno è strappato a se stesso, il senso di un esilio assoluto, di una lacerazione irrimediabile, di uno spa- esamento inguaribile organizzano la sua sintassi narrativa allontanandola , come lei dice, «da quella zona dove le cose han- no una forma fissa e spigoli, dove tutto ha un nome solido e immutabile». In ciò che lei scrive c’è «soprattutto quel che non si può dire» e di aggettivi della privazione è puntellata la sua prosa : irrimediabile, in- concluso, implacabile, immobile, incu- rante… Lei lavora nei territori di ciò che è «insormontabile e segreto», anzi, come nel racconto della Passione secondo G.H., nei territori dell’«immondo»: una signo- ra borghese va a fare ordine nella stanza di una cameriera licenziata e si trova a tu per tu con una blatta. Ma, appunto, non siamo in una commedia, e neanche veramente in zone kafkiane: la blatta è un’occasione, l’occasione di compiere «l’atto proibito di toccare ciò che è immondo». L’immondo è un termine che nelle prescrizioni religio- se dei suoi padri - nelle scritture sacre ebraiche – si riferisce a «tutto ciò che stri- scia e possiede ali»; ma poiché siamo stati già avvertiti che per questa mistica mo- dernista «la visione consisteva nel coglie- re il simbolo delle cose nelle cose stesse», ecco che l’immondo, ciò che non si può ac- costare, altro non è che l’origine, forse quel luogo irraggiungibile che è il cuore segreto della vita, cui tutta l’opera di Clari- ce Lispector ostinatamente mira: la blatta cosa e simbolo insieme, poiché per la scrittrice «il divino è il reale», come un’ostia consacrata splendente nel suo orrore offre alla donna la possibilità di una inusitata, estatica comunione. Insomma, per leggere bene Lispector bisogna rinunciare almeno parzialmente al bagaglio delle regole interpretative e af- fidarsi all’ascolto. Anzi, non perdere una battuta di quel che dice con la sua arcaica e penetrante voce femminile, un femminile assoluto e profondo, che non sa che farse- ne del maquillage della femminilità. Come una sorta di canto, ma lei dice piuttosto una improvvisazione come quelle del jazz, un assolo trombettistico dalle continue varia- zioni, è Acqua viva, il libro della maturità, (scritto nel 1973, quattro anni prima della morte) forse quello che la consacra tra i classici imperdibili del Novecento, che ora Adelphi ripubblica nella impeccabile tra- duzione di Roberto Francavilla. Il libro è una singolare lettera d’amore – a un aman- te un po’ sordo? al lettore lontano? – ma an- che una romanza il cui tema fondamentale è intonato fin dall’inizio: «Voglio catturare il presente che per la sua stessa natura mi è interdetto: il presente mi sfugge, l’attimo svanisce, l’attimo sono io sempre nel- l’adesso». Inevitabile parlare della vita quando si scrive, ma la vita non è il succe- dersi dei fatti, è l’istante che si coglie nel- l’atto d’amore: «la vita è questo istante ir- raccontabile» oppure «uno stato di contat- to con l’energia circostante», vissuto da «una persona primitiva che si abbandona completamente al mondo». Il tronco e le radici, l’ostrica e la placen- ta, il sogno e lo specchio sono gli strumenti che le servono in Acqua viva per raggiun- gere il cuore selvaggio o per ritornare, scri- ve, «all’ignoto di me stessa». Con le sue brevi frasi martellanti, isolate come picco- le concrezioni solide nella fluidità della lingua o come confessioni strappate du- rante un interrogatorio sfibrante, Lis- pector propone uno strano incontro al let- tore: «Tu che mi leggi, aiutami a nascere». È l’invocazione che sottende ogni scrittura in cerca di parole vere, sostenuta da una precisa indicazione: «Sono dietro a ciò che sta dietro al pensiero. Inutile volermi clas- sificare: semplicemente sfuggo via senza permetterlo, il genere non mi imprigiona più». In tempi come i nostri, in cui trionfa ogni tipo di letteratura di genere, di narra- tiva ingegneristica, di trame inutilmente aggrovigliate, di confessioni molto lette- rali e poco estatiche, il canto libero di Clari- ce è un viaggio ristoratore nelle «novità del sogno» e nel cuore selvaggio che ognuno occulta dentro di sé. © RIPRODUZIONE RISERVATA Clarice Lispector, Acqua viva, Traduzione di Roberto Francavilla, Adelphi, Milano, pagg. 96, € 14 di  Vittorio Giacopini N on basta che i morti tornino in vita e i vivi mentano per parlare di realismo magico o di roman- zo impegnato, di denuncia. In Mapocho di Nona Fernandez i morti sono quantomeno ciarlieri – e i vivi ignobili – ma questo non è un libro invettiva, o una furbata magico realista alla Isabel Allen- de, per capirci. Mapocho affronta l’intera vicenda del Cile, dai conquistadores alle stragi di Pinochet, e sino al presente, dal punto di vista estremo di chi non distin- gue, e neanche vuole più farlo, tra vivi e morti e in queste pagine tutte ambientate lungo le rive di un fiume impassibile (il Mapocho) la grande protagonista è la Sto- ria, e la storia per la Fernandez è un abo- minio, o un incubo riuscito. La «nostalgia in ognuno dei fiumi tra- scorsi si svela» dice il poeta, ma in queste pagine se c’è un grande assente è proprio questo sentimento equivoco e troppo spesso zuccherino a meno che il termine non si prenda alla lettera e il nodo sia il do- lore del ritorno, non il ritorno, e l’angoscia del passato, non il suo Mito. Per la Bionda (fantasma e protagonista suo malgrado del romanzo), per sua madre, per l’Indio suo fratello, e persino per il padre Fausto, lo storico e inventa-storie scomparso de- cenni prima in un (mitologico) “incendio” che poi si rivelerà soltanto una retata as- sassina dei militari durante i primi giorni della dittatura, la leggenda familiare e l’esilio e il tragico rientro in patria sono un assurdo rompicapo e un labirinto da cui non si riesce a uscire e nemmeno si deve, beninteso. La loro vita-morte è uno spec- chio del Tempo, o un portato, appunto, della Storia del Paese, e dei suoi grumi ir- risolti, e infinite occasioni mancate e pa- radossi. «Intrighi, racconti di fantasia, storie nate male, trame mal costruite, fin- zioni, tranelli, inganni, falsità. Menzo- gne»: dalla lotta tra gli indiani mapuche e gli invasori spagnoli nel 500, passando per la fondazione di Santiago del Cile nel segno della Vergine Maria, e sino ai giorni del terrore e di Pinochet, e sempre lungo le acque putride del Mapocho, la Storia del Cile è tutt’altro che un lungo fiume tran- quillo e Nona Fernandez è bravissima a ri- leggerla, e a reinventarla. Sotto il peso del Potere, e della violenza, l’avventura di una famiglia diventa quella di tutte, e per- sino il presente e il passato si confondono nell’atto estremo di un ricordo che diven- ta un lucido giudizio, ma senza sentenza. Come ne l’Esame, uno dei primi romanzi di Cortazar , il ritorno della Bionda tra le strade del “quartiere” (il Barrio la Chim- ba) è un viaggio nel tempo che si compie nel silenzio, e nella «foschia» e, sarà per questa nebbia spessa che neanche lo sai se è nebbia, fumo, veleno chimico, coltre di inganni, tutto appare sfumato, inafferra- bile, e ogni voce si coglie spezzata e a trat- ti, e ogni figura che passa è solo una sago- ma e, davvero, «il quartiere è morto», lo spettacolo è finito e, a parte il vento e il mugliare del fiume, e magari qualche gri- do di uccelli, «tutto è silenzio e foschia», e tutto è assenza. Per Nona Fernandez il metro per misu- rare la Storia non è mai il rimpianto, ma è lo sconcerto, e nelle pagine di questo libro molto bello c’è un eccesso di dolore che pe- rò è la vita, e la vita soltanto («non è niente mamma - diceva Dylan - sto solo sangui- nando…. È la vita, è la vita soltanto»). D’al- tronde c’è poco da fare, il Quartiere è mor- to: «non si prende più il mate sulla soglia di casa, non si gioca a calcio in strada, non si raccontano storie né si fanno trucchi di magia sugli scalini rossi il pomeriggio». © RIPRODUZIONE RISERVATA Nona Fernandez, Mapocho, Gran Via, Narni (Terni), pagg. 210, € 16 il cile di nona fernandez Abominio sulle rive del Mapocho umanesimo & rinascimento Isabella e Lucrezia, festa e guerra di  Roberto Carnero R icorda le più belle pagine di Rina- scimento privato di Maria Bellonci il nuovo romanzo di Alessandra Necci, Isabella e Lucrezia, le due co- gnate (Marsilio). Perché l’autrice è abilissi- ma nell’intrecciare le vicende personali di alcuni individui d’eccezione con il più gene- rale clima sociale e culturale di un’intera epoca. Un’epoca in cui - come scrive - «unendo sacro e profano, secondo il corso delle stagioni e il calendario liturgico, a Fer- rara, Mantova, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e in tutte le altre città italiane, le celebrazioni, le cene, le giostre, le cacce, i banchetti, i giochi, le messe solenni e gli spettacoli si snodano in spumeggiante se- quenza, animando quella che sembra una perenne “festa mobile”, intrecciata però a uno stato di guerra semipermanente e una quotidianità puntellata di ferocie e mise- rie». Queste ultime riguardano soprattutto i ceti più bassi, spesso in balìa dei desideri e dei capricci dei potenti. Su tale sfondo, tratteggiato con notevole abilità narrativa, Alessandra Necci colloca i personaggi di Isabella d’Este, marchesa di Mantova, e Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, cognate a partire dal terzo matri- monio di Lucrezia, con Alfonso I d’Este, ce- lebrato nel 1501. La scrittrice - avvocato e docente all’Università Luiss di Roma, già autrice di diversi romanzi di argomento storico ai quali non sono mancati prestigio- si riconoscimenti (ricordiamo, tra gli altri, pubblicati da Marsilio: Il prigioniero degli Asburgo. Storia di Napoleone II re di Roma, 2011; Re Sole e lo Scoiattolo. Nicolas Fouquet e la vendetta di Luigi XIV, 2013, Premio Fiuggi; Il Diavolo zoppo e il suo Compare. Talleyrand e Fouché o la politica del tradimento, 2015, Menzione Premio Terriccio, Finalista Aqui Storia, Premio Eccellenze italiane nel mon- do, Menzione 100 eccellenze italiane) - in- troduce sulla scena le sue protagoniste fa- cendole parlare in prima persona. Isabella: «Mio padre, Ercole d’Este, politico così geli- do e raziocinante da essere soprannomina- to “Il Tramontana”, come il vento del Nord, ha impresso su di me l’impronta più forte. Da lui, ho imparato a padroneggiare i senti- menti mediante il pensiero. O forse, è un tratto che ho ereditato, iscritto nella mente e nell’animo prima che nascessi». Lucrezia: «Nella vita sono dipesa in gran parte dagli uomini, nel bene e nel male, così come essi sono dipesi da me. Mi hanno portato gioia, estasi, protezione, e a volte dolore e solitu- dine. Pur tuttavia, non posso farne a meno». Se Isabella, colta collezionista e mecena- te, incarna il modello della politica astuta e calcolatrice, capace di affiancare pressoché alla pari il marito Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova, nel governo dello Stato, riuscendo a fare della città un centro di spicco della cultura rinascimentale, Lu- crezia, costretta ad assecondare le mire del padre Rodrigo (papa Alessandro VI) e del fratello Cesare, diventa animatrice della corte ferrarese, dove accoglie, tra gli altri Ludovico Ariosto e Pietro Bembo. Attraver- so le loro vicende, Alessandra Necci offre un vivido quadro dell’Italia dell’Umanesimo e del Rinascimento. © RIPRODUZIONE RISERVATA Alessandra Necci, Isabella e Lucrezia, le due cognate, Marsilio, Venezia, pagg. 672, € 19,50 protagoniste | In alto, Lucrezia Borgia, qui sopra, Isabella d’Este poesia al mudec Torna al Mudec il Festival internazionale di Poesia di Milano: poeti, scrittori, danzatori, artisti di 36 nazionalità daranno vita alla II edizione del Festival il 13 e il 14 maggio dalle 10 alle 24 presso il Museo delle Culture (via Tortona 56, ingresso gratuito). È nato que- st’anno il primo Premio Internazionale di Poesia, aperto anche a tutti gli “Italiani d’al- trove”, quelle generazioni di emigrati che hanno voluto mantenere un legame con la propria lingua madre: il vincitore sarà pre- miato con la pubblicazione della sua opera da parte della casa editrice milanese Rayuela e la diffusione sul territorio e in diversi Paesi esteri attraverso gli istituti di cultura italiana premio bergamo Il vincitore del Premio Bergamo 2017 è Nadia Terranova con «Gli anni al contrario» (Einau- di); secondo Andrea Bajani con «Un bene al mondo» (Einaudi); terzo Alessandro Zaccuri con «Lo spregio» (Marsilio)

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24 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 7 MAGGIO 2017 n. 119

Letteratura

«acqua viva» di lispector

Il cuore selvaggio di ClariceTorna il libro dellamaturità dell’autriceucraina, una singolarelettera d’amore in cuisi appella al lettore:«aiutami a nascere»

dall’ucraina al brasile  | Clarice Lispector (1920 ­ 1977)

Il racconto di Lispector sulla DomenicaIl 7 aprile 2013 la Domenica proponeva un lungo brano tratto

dal libro di Clarice Lispector «Le passioni e i legami» (Feltrinelli): raccontavadella donna più piccola del mondo, alta 45 centimenti. Un esploratore

francese la scoprì nel Congo, dove i pigmei si ritiravano per evitare di esserecatturati e mangiati. Per la sua grazia strana la chiamò Piccolo Fiore

www.archiviodomenica.ilsole24ore.com

teresa ciabatti

Controcanto sano al «mostro»di Filippo La Porta

«M i chiamo Teresa Ciabat-ti e ho quarantaquattroanni…egoista, superfi-ciale, asociale…qualco-

sa nella mia vita è andato storto…incapacedi coltivare amore, di costruire rapporti difiducia…Mi chiamo Teresa Ciabatti…». Nel-l’ultimo capitolo della Figlia più amata ritro-viamo più volte reiterata questa formula,

già incontrata nel corpo del romanzo, e cheevoca subito l’amato Walter Siti di Altri pa­radisi. Ma qui l’aspirazione è ben diversa.Lei si chiama Teresa Ciabatti però «non co-me tutti». La sua è una esistenza gelosa-mente unica, né vuole farsi portavoce del-l’Occidente sfinito o interprete della liquidapostrealtà. La prosa, aliena da qualsiasiconcettosità, non evita immagini da lirismopop («La mia stagione è durata poco, quantovive una farfalla?»), e si distende in un ri-tratto denso, straordinariamente nitido,del demone italiano per eccellenza: la Fami-

glia (promessa di felicità e insieme spazioclaustrofobico di conflitti). E lo fa attraversol’invenzione di una voce narrativa persona-lissima, ossia quella di una bambina viziata,nevrotica, ferita, autodistruttiva, generosa(ed è in parte la “voce infantile” che - venia-mo informati - l’editor aveva contestato). LaTeresa Ciabatti ormai adulta ha bisogno diquesta voce, dunque di un palese artificio,per raccontare la propria educazione senti-mentale - sotto un cielo costellato di nubi enormi che sembrano macerie - e la inelut-tabilità di un destino. Non tanto una «auto-

fiction sincera», come ci viene promesso nelrisvolto, quanto una autoconfessione reci-tata in falsetto, quasi regredita, e perciò pa-radossalmente autentica. L’autofiction è ungenere che ha quasi esaurito la sua spintapropulsiva, ma qui ne viene corretto e rilan-ciato, attraverso quella invenzione origina-le. La saga famigliare, ambientata tra Orbe-tello e la Roma bene, si concentra poi nellarappresentazione di un “mostro” (che cor-risponde a una tipologia di italiano), e cioè ilpadre, detto il Professore: eccellente chi-rurgo e primario, massone, carrierista, bu-

giardo, probabilmente golpista, e poi pre-potente, benefattore, dissipatorio (dilapidauna ricchezza immensa). Certo, ci sono al-tre figure, ritratte in modo incisivo - tra cui ilfratello gemello, l’amica, i compagni discuola, e soprattutto la madre, o Reietta,eroina o vittima, un possibile controcanto“sano” al dispotismo malato del Professore(vi si scontra, lo fa spiare da un’agenzia in-vestigativa, prende le difese della figlia) -ma alla fine nessuna di queste figure riesce aoscurare Lorenzo Ciabatti, e la sua losca, de-bordante vitalità. La Teresa adulta che rac-conta la Teresa bambina - incerta se consi-derarsi la più amata o la meno amata (forseentrambe le cose, come impara qualsiasi es-sere umano che indaga su di sé) - guarda at-traverso di lei il mondo, raccontato in unamiracolosa trasparenza: con i buoni e i cat-tivi, con il peso dell’immaginario che sem-

pre sovrasta la realtà empirica: lei “si sente”bella, o perlopiù grassa e non attraente, ecc.ma sappiamo che si tratta solo di fantasmi,di un nebbioso, estenuato gioco di specchi.Nelle pagine del romanzo si aggira una pre-senza magica: una gallina bianca (all’iniziocorre per l’ospedale, poi appare in una mi-steriosa epifania o, ancora, uscita dal cilin-dro di un prestigiatore). Nell’ultima pagina,inseguita da tutti, entra in un cespuglio ed«esce per sempre dalla nostra storia». Forsequesta gallina è rimasta sempre lì, a fissarcinegli occhi, sfuggente e nascosta come laverità dell’esperienza. Occorre solo ricono-scerla, saperla snidare, anche con la menzo-gna e il sortilegio della autofiction.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Teresa Ciabatti, La figlia più amata, Mondadori, Milano, pagg. 218, € 18

di Elisabetta Rasy

C larice Lispector è uno di que-gli autori che finiscono na-scosti dietro la furia inter-pretativa dei suoi esegeti,così dal 1944, fin da quandocioè questa ucraina natura-

lizzata argentina, bella come le attrici delcinema in bianco e nero, metà viso solaremetà ombroso, pubblicò il suo primo li-bro, Vicino al cuore selvaggio. I suoi conna-zionali lo definirono «il nostro primo ro-manzo nello spirito di Joyce e VirginiaWoolf». Effettivamente il titolo era tratto,come un solitario gioiello rubato da unacassaforte, da una frase dell’autore dubli-nese, ma il modernismo di Lispector era diun tipo particolare, come si chiarì ven-t’anni dopo quando uscì La passione se­condo G.H.. Fu necessaria allora una corre-zione di tiro: è vero, la scrittura rapsodicae sussultante di questa autrice si muovevanel solco della tradizione modernista, maciò che davvero la caratterizzava era sem-pre il cuore selvaggio del suo primo titolo,quel battito che come una martellantemusica di fondo portava la tessitura dellesue parole più vicina alla scrittura dellegrandi mistiche del passato che agli accul-turati autori della prima metà del secolo.Scrittura mistica: dunque una scrittura ilcui oggetto è uno sconvolto paesaggio in-teriore, col suo irruento divenire, senzal’obbligo di riconoscersi in una trama o ditrasportare le parole dentro intrecci o ri-conoscibili riferimenti alla realtà con ilsuo gioco dei ruoli e le sue maschere. Diqualsiasi cosa parli – per esempio nel Cuo­re selvaggio della storia di una donna dal-l’infanzia alla vita adulta, con l’amore, ilmatrimonio, il tradimento – Lispectornon si accosta mai alle regole della com-media umana. Tutto per lei è dramma sa-cro e sacra rappresentazione, la messa inscena dei travestimenti della scrittura ro-manzesca non la interessa.

Nata nel 1920, Clarice era arrivata neiprimi anni di vita in Brasile con le sorelle ei genitori, in fuga dall’Ucraina devastatadai pogrom contro gli ebrei, la cui terribileefferatezza verrà poi, nel corso della sto-ria, dimenticata o comunque oscurata dalmale assoluto dell’Olocausto . Nella suaopera non ci sono espliciti riferimenti almondo di ieri e alla comunità da cui pro-viene, ma il senso che ognuno è strappatoa se stesso, il senso di un esilio assoluto, diuna lacerazione irrimediabile, di uno spa-

esamento inguaribile organizzano la suasintassi narrativa allontanandola , comelei dice, «da quella zona dove le cose han-no una forma fissa e spigoli, dove tutto haun nome solido e immutabile». In ciò chelei scrive c’è «soprattutto quel che non sipuò dire» e di aggettivi della privazione èpuntellata la sua prosa : irrimediabile, in-concluso, implacabile, immobile, incu-rante… Lei lavora nei territori di ciò che è«insormontabile e segreto», anzi, comenel racconto della Passione secondo G.H.,

nei territori dell’«immondo»: una signo-ra borghese va a fare ordine nella stanza diuna cameriera licenziata e si trova a tu pertu con una blatta. Ma, appunto, non siamoin una commedia, e neanche veramentein zone kafkiane: la blatta è un’occasione,l’occasione di compiere «l’atto proibito ditoccare ciò che è immondo». L’immondo èun termine che nelle prescrizioni religio-se dei suoi padri - nelle scritture sacreebraiche – si riferisce a «tutto ciò che stri-scia e possiede ali»; ma poiché siamo stati

già avvertiti che per questa mistica mo-dernista «la visione consisteva nel coglie-re il simbolo delle cose nelle cose stesse»,ecco che l’immondo, ciò che non si può ac-costare, altro non è che l’origine, forsequel luogo irraggiungibile che è il cuoresegreto della vita, cui tutta l’opera di Clari-ce Lispector ostinatamente mira: la blattacosa e simbolo insieme, poiché per lascrittrice «il divino è il reale», comeun’ostia consacrata splendente nel suoorrore offre alla donna la possibilità diuna inusitata, estatica comunione.

Insomma, per leggere bene Lispectorbisogna rinunciare almeno parzialmenteal bagaglio delle regole interpretative e af-fidarsi all’ascolto. Anzi, non perdere unabattuta di quel che dice con la sua arcaica epenetrante voce femminile, un femminileassoluto e profondo, che non sa che farse-ne del maquillage della femminilità. Comeuna sorta di canto, ma lei dice piuttosto unaimprovvisazione come quelle del jazz, unassolo trombettistico dalle continue varia-zioni, è Acqua viva, il libro della maturità,(scritto nel 1973, quattro anni prima dellamorte) forse quello che la consacra tra iclassici imperdibili del Novecento, che oraAdelphi ripubblica nella impeccabile tra-duzione di Roberto Francavilla. Il libro èuna singolare lettera d’amore – a un aman-te un po’ sordo? al lettore lontano? – ma an-che una romanza il cui tema fondamentaleè intonato fin dall’inizio: «Voglio catturareil presente che per la sua stessa natura mi èinterdetto: il presente mi sfugge, l’attimosvanisce, l’attimo sono io sempre nel-l’adesso». Inevitabile parlare della vitaquando si scrive, ma la vita non è il succe-dersi dei fatti, è l’istante che si coglie nel-l’atto d’amore: «la vita è questo istante ir-raccontabile» oppure «uno stato di contat-to con l’energia circostante», vissuto da«una persona primitiva che si abbandonacompletamente al mondo».

Il tronco e le radici, l’ostrica e la placen-ta, il sogno e lo specchio sono gli strumentiche le servono in Acqua viva per raggiun-gere il cuore selvaggio o per ritornare, scri-ve, «all’ignoto di me stessa». Con le suebrevi frasi martellanti, isolate come picco-le concrezioni solide nella fluidità dellalingua o come confessioni strappate du-rante un interrogatorio sfibrante, Lis-pector propone uno strano incontro al let-tore: «Tu che mi leggi, aiutami a nascere».È l’invocazione che sottende ogni scritturain cerca di parole vere, sostenuta da unaprecisa indicazione: «Sono dietro a ciò chesta dietro al pensiero. Inutile volermi clas-sificare: semplicemente sfuggo via senzapermetterlo, il genere non mi imprigionapiù». In tempi come i nostri, in cui trionfaogni tipo di letteratura di genere, di narra-tiva ingegneristica, di trame inutilmenteaggrovigliate, di confessioni molto lette-rali e poco estatiche, il canto libero di Clari-ce è un viaggio ristoratore nelle «novità delsogno» e nel cuore selvaggio che ognunoocculta dentro di sé.

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Clarice Lispector, Acqua viva, Traduzione di Roberto Francavilla, Adelphi, Milano, pagg. 96, € 14

di Vittorio Giacopini

Non basta che i morti tornino invita e i vivi mentano per parlaredi realismo magico o di roman-zo impegnato, di denuncia. In

Mapocho di Nona Fernandez i morti sonoquantomeno ciarlieri – e i vivi ignobili –ma questo non è un libro invettiva, o unafurbata magico realista alla Isabel Allen-

de, per capirci. Mapocho affronta l’interavicenda del Cile, dai conquistadores alle stragi di Pinochet, e sino al presente, dalpunto di vista estremo di chi non distin-gue, e neanche vuole più farlo, tra vivi emorti e in queste pagine tutte ambientatelungo le rive di un fiume impassibile (ilMapocho) la grande protagonista è la Sto-ria, e la storia per la Fernandez è un abo-minio, o un incubo riuscito.

La «nostalgia in ognuno dei fiumi tra-scorsi si svela» dice il poeta, ma in queste

pagine se c’è un grande assente è proprioquesto sentimento equivoco e troppospesso zuccherino a meno che il terminenon si prenda alla lettera e il nodo sia il do-lore del ritorno, non il ritorno, e l’angosciadel passato, non il suo Mito. Per la Bionda(fantasma e protagonista suo malgradodel romanzo), per sua madre, per l’Indiosuo fratello, e persino per il padre Fausto,lo storico e inventa-storie scomparso de-cenni prima in un (mitologico) “incendio”che poi si rivelerà soltanto una retata as-

sassina dei militari durante i primi giornidella dittatura, la leggenda familiare el’esilio e il tragico rientro in patria sono unassurdo rompicapo e un labirinto da cuinon si riesce a uscire e nemmeno si deve,beninteso. La loro vita-morte è uno spec-chio del Tempo, o un portato, appunto,della Storia del Paese, e dei suoi grumi ir-risolti, e infinite occasioni mancate e pa-radossi. «Intrighi, racconti di fantasia,storie nate male, trame mal costruite, fin-zioni, tranelli, inganni, falsità. Menzo-gne»: dalla lotta tra gli indiani mapuche egli invasori spagnoli nel 500, passandoper la fondazione di Santiago del Cile nelsegno della Vergine Maria, e sino ai giornidel terrore e di Pinochet, e sempre lungole acque putride del Mapocho, la Storia delCile è tutt’altro che un lungo fiume tran-

quillo e Nona Fernandez è bravissima a ri-leggerla, e a reinventarla. Sotto il peso delPotere, e della violenza, l’avventura diuna famiglia diventa quella di tutte, e per-sino il presente e il passato si confondononell’atto estremo di un ricordo che diven-ta un lucido giudizio, ma senza sentenza.Come ne l’Esame, uno dei primi romanzidi Cortazar , il ritorno della Bionda tra lestrade del “quartiere” (il Barrio la Chim-ba) è un viaggio nel tempo che si compienel silenzio, e nella «foschia» e, sarà perquesta nebbia spessa che neanche lo sai seè nebbia, fumo, veleno chimico, coltre diinganni, tutto appare sfumato, inafferra-bile, e ogni voce si coglie spezzata e a trat-ti, e ogni figura che passa è solo una sago-ma e, davvero, «il quartiere è morto», lospettacolo è finito e, a parte il vento e il

mugliare del fiume, e magari qualche gri-do di uccelli, «tutto è silenzio e foschia», etutto è assenza.

Per Nona Fernandez il metro per misu-rare la Storia non è mai il rimpianto, ma èlo sconcerto, e nelle pagine di questo libromolto bello c’è un eccesso di dolore che pe-rò è la vita, e la vita soltanto («non è nientemamma - diceva Dylan - sto solo sangui-nando…. È la vita, è la vita soltanto»). D’al-tronde c’è poco da fare, il Quartiere è mor-to: «non si prende più il mate sulla sogliadi casa, non si gioca a calcio in strada, nonsi raccontano storie né si fanno trucchi dimagia sugli scalini rossi il pomeriggio».

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Nona Fernandez, Mapocho, Gran Via, Narni (Terni), pagg. 210, € 16

il cile di nona fernandez

Abominio sulle rive del Mapocho

umanesimo & rinascimento

Isabella e Lucrezia,festa e guerradi Roberto Carnero

Ricorda le più belle pagine di Rina­scimento privato di Maria Bellonciil nuovo romanzo di AlessandraNecci, Isabella e Lucrezia, le due co­

gnate (Marsilio). Perché l’autrice è abilissi-ma nell’intrecciare le vicende personali dialcuni individui d’eccezione con il più gene-rale clima sociale e culturale di un’intera epoca. Un’epoca in cui - come scrive -«unendo sacro e profano, secondo il corsodelle stagioni e il calendario liturgico, a Fer-rara, Mantova, Milano, Venezia, Firenze,Roma, Napoli e in tutte le altre città italiane,le celebrazioni, le cene, le giostre, le cacce, ibanchetti, i giochi, le messe solenni e glispettacoli si snodano in spumeggiante se-quenza, animando quella che sembra una perenne “festa mobile”, intrecciata però a uno stato di guerra semipermanente e unaquotidianità puntellata di ferocie e mise-rie». Queste ultime riguardano soprattutto iceti più bassi, spesso in balìa dei desideri e dei capricci dei potenti.

Su tale sfondo, tratteggiato con notevoleabilità narrativa, Alessandra Necci colloca ipersonaggi di Isabella d’Este, marchesa diMantova, e Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, cognate a partire dal terzo matri-monio di Lucrezia, con Alfonso I d’Este, ce-lebrato nel 1501. La scrittrice - avvocato edocente all’Università Luiss di Roma, già autrice di diversi romanzi di argomento storico ai quali non sono mancati prestigio-si riconoscimenti (ricordiamo, tra gli altri,pubblicati da Marsilio: Il prigioniero degli Asburgo. Storia di Napoleone II re di Roma, 2011; Re Sole e lo Scoiattolo. Nicolas Fouquet ela vendetta di Luigi XIV, 2013, Premio Fiuggi;Il Diavolo zoppo e il suo Compare. Talleyrand eFouché  o  la  politica  del  tradimento, 2015,Menzione Premio Terriccio, Finalista AquiStoria, Premio Eccellenze italiane nel mon-do, Menzione 100 eccellenze italiane) - in-troduce sulla scena le sue protagoniste fa-cendole parlare in prima persona. Isabella:«Mio padre, Ercole d’Este, politico così geli-do e raziocinante da essere soprannomina-to “Il Tramontana”, come il vento del Nord,ha impresso su di me l’impronta più forte.Da lui, ho imparato a padroneggiare i senti-menti mediante il pensiero. O forse, è un tratto che ho ereditato, iscritto nella mentee nell’animo prima che nascessi». Lucrezia:«Nella vita sono dipesa in gran parte dagliuomini, nel bene e nel male, così come essisono dipesi da me. Mi hanno portato gioia,estasi, protezione, e a volte dolore e solitu-dine. Pur tuttavia, non posso farne a meno».

Se Isabella, colta collezionista e mecena-te, incarna il modello della politica astuta ecalcolatrice, capace di affiancare pressochéalla pari il marito Francesco II Gonzaga,marchese di Mantova, nel governo delloStato, riuscendo a fare della città un centrodi spicco della cultura rinascimentale, Lu-crezia, costretta ad assecondare le mire delpadre Rodrigo (papa Alessandro VI) e del fratello Cesare, diventa animatrice della

corte ferrarese, dove accoglie, tra gli altriLudovico Ariosto e Pietro Bembo. Attraver-so le loro vicende, Alessandra Necci offre unvivido quadro dell’Italia dell’Umanesimo edel Rinascimento.

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Alessandra Necci, Isabella e Lucrezia, le due cognate, Marsilio, Venezia, pagg. 672, € 19,50

protagoniste | In alto, Lucrezia Borgia, qui sopra, Isabella d’Este

poesia al mudec

Torna al Mudec il Festival internazionale di Poesia di Milano: poeti, scrittori, danzatori, artisti di 36 nazionalità daranno vita alla II edizione del Festival il 13 e il 14 maggio dalle 10 alle 24 presso il Museo delle Culture (via Tortona 56, ingresso gratuito). È nato que­st’anno il primo Premio Internazionale di Poesia, aperto anche a tutti gli “Italiani d’al­trove”, quelle generazioni di emigrati che hanno voluto mantenere un legame con la propria lingua madre: il vincitore sarà pre­miato con la pubblicazione della sua opera da parte della casa editrice milanese Rayuela e la diffusione sul territorio e in diversi Paesi esteri attraverso gli istituti di cultura italiana

premio bergamo

Il vincitore del Premio Bergamo 2017 è Nadia Terranova con «Gli anni al contrario» (Einau­di); secondo Andrea Bajani con «Un bene al mondo» (Einaudi); terzo Alessandro Zaccuri con «Lo spregio» (Marsilio)