MOLINO e NATTIEZ Tipologie e Universali

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1 capitolo sedicesimo. JEAN MOLINO e JEAN-JACQUES NATTIEZ Tipologie e universali Premessa indispensabile alla ricerca degli universali della musica è la conoscenza della situazione in cui ci troviamo attualmente. Nel mondo esistono alcune migliaia di "culture musicali", tutte diverse. Queste sono composte da molteplici pratiche che solo raramente sono riunite sotto un concetto paragonabile a ciò che noi intendiamo per musica; siamo quindi noi che, a partire dalla nostra esperienza, le accostiamo fra loro e a noi stessi. Fra queste pratiche, che si è portati a collegare alle altre a causa delle relazioni che le uniscono in seno alla cultura presa in considerazione, alcune sembrano completamente estranee al nostro concetto di musica, ma è altrettanto evidente che fra due qualsiasi di queste culture musicali esistono numerose somiglianze. Da un secolo a questa parte si assiste a una progressiva estensione del nostro concetto di musica sotto l'influenza di tre fattori: una conoscenza sempre più ampia e sempre più approfondita delle musiche extraeuropee, lo sviluppo delle musiche contemporanee e la riscoperta di aspetti dimenticati della nostra storia musicale. Si è Così instaurata una dialettica di adattamento reciproco fra la nostra tradizione musicale e le musiche scoperte o riscoperte, dialettica che, mentre si facevano rientrare le altre tradizioni musicali in un concetto più allargato, ha modificato la nostra concezione della musica I confini e il contenuto di ciò che chiamiamo provvisoriamente musica sono dunque variabili e non possono rientrare in una semplice definizione. Per rispondere alla sfida lanciata da questa diversità, conviene in un primo tempo fare l'inventario delle diverse configurazioni sotto cui essa si presenta; vediamo in tal modo apparire delle distinzioni e delle associazioni privilegiate: il misurato si oppone al non misurato, il religioso al profano, il suono naturale è associato al suono umano, il canto alla poesia, alla danza o alle circostanze... Constatiamo che non si tratta di ripartizioni aleatorie ma di regolarità che dovrebbero portare a una prima tipologia. In un secondo tempo si possono ricostruire le totalità vissute, in cui non vi è alcuna ragione per riconoscere un privilegio indebito alla musica pura. Ma non bisogna fermarsi alle nomenclature poichè costituiscono solo una delle dimensioni della conoscenza: bisogna cercare di liberare le reti che nella mente dei componenti della cultura collegano i suoni, i ritmi, le parole e le circostanze indipendentemente dalle classificazioni linguistiche. A partire dalla nostra nozione di musica pura, abbiamo finora utilizzato la presenza di suono organizzato come criterio utile a delimitare provvisoriamente il campo del "musicale": come già detto, abbiamo analizzato la cultura attraverso il filtro del sonoro. Questa scelta usa violenza verso il reale? Notiamo che il culturalista più convinto, che mette in dubbio l'esistenza della "musica" nelle altre società, s'interessa sempre a delle attività nelle quali interviene il sonoro! E dunque legittimo ipotizzare che il sonoro costituisca il tratto differenziale del musicale. E’ un'ipotesi naturale e sulla quale si può sempre ritornare qualora non porti a risultati soddisfacenti; ad ogni modo, non mira a rendere conto che di una parte dei fenomeni: essa deve essere ampliata e completata da altre ricerche. E’ anche l'ipotesi che consente di mettere in evidenza ciò che Max Weber chiamava la logica intrinseca(Eigengesetzlichkeit) di ogni sfera della vita sociale [Weber 1915, passim]. La musica come fatto sociale totale dipende, per una parte che ne assicura la specificità, dall'organizzazione alla quale essa sottopone il mondo sonoro. Ma ciò non vieta, tutt'altro, di cercare e di dare risalto agli universali nelle altre dimensioni di questa totalità, universali cognitivi, semantici o pragmatici. Si tratta dunque di una forma simbolica specifica dai contorni variabili ma che gravitano intorno al sonoro. Se ne può proporre una definizione più precisa? E’ chiaro che non deve essere associata a delle caratteristiche prese a prestito dalla tradizione teorica della musica europea come le altezze discrete, il che porterebbe a escludere dalla musica tanto la musica elettroacustica quanto i glissandi presenti in numerose musiche. Vale a dire che, logicamente, una caratterizzazione più dettagliata non potrebbe essere data che alla fine della ricerca, una volta conosciute le dimensioni di variabilità del fenomeno grazie alle quali si sarebbe in grado di determinare le "possibilità musicali" dell'uomo. Ciò che in compenso si può fin d'ora affermare è che queste possibilità poggiano su un substrato antropologico e filogenetico [Molino 1988; 1991; 2005], già presentato nel volume II di questa Enciclopedia [Nattiez 2002#, pp. XXx-XXXIV]; questo substrato garantisce l'esistenza di tipi e di universali: la "facoltà musicale" si fonda sulle capacità della specie.

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Tipologie e universali

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capitolo sedicesimo.

JEAN MOLINO e JEAN-JACQUES NATTIEZ Tipologie e universali

Premessa indispensabile alla ricerca degli universali della musica è la conoscenza della

situazione in cui ci troviamo attualmente. Nel mondo esistono alcune migliaia di "culture musicali",

tutte diverse. Queste sono composte da molteplici pratiche che solo raramente sono riunite sotto un

concetto paragonabile a ciò che noi intendiamo per musica; siamo quindi noi che, a partire dalla

nostra esperienza, le accostiamo fra loro e a noi stessi. Fra queste pratiche, che si è portati a collegare

alle altre a causa delle relazioni che le uniscono in seno alla cultura presa in considerazione, alcune

sembrano completamente estranee al nostro concetto di musica, ma è altrettanto evidente che fra due

qualsiasi di queste culture musicali esistono numerose somiglianze.

Da un secolo a questa parte si assiste a una progressiva estensione del nostro concetto di musica

sotto l'influenza di tre fattori: una conoscenza sempre più ampia e sempre più approfondita delle

musiche extraeuropee, lo sviluppo delle musiche contemporanee e la riscoperta di aspetti dimenticati

della nostra storia musicale. Si è Così instaurata una dialettica di adattamento reciproco fra la nostra

tradizione musicale e le musiche scoperte o riscoperte, dialettica che, mentre si facevano rientrare le

altre tradizioni musicali in un concetto più allargato, ha modificato la nostra concezione della musica

I confini e il contenuto di ciò che chiamiamo provvisoriamente musica sono dunque variabili e

non possono rientrare in una semplice definizione.

Per rispondere alla sfida lanciata da questa diversità, conviene in un primo tempo fare

l'inventario delle diverse configurazioni sotto cui essa si presenta; vediamo in tal modo apparire delle

distinzioni e delle associazioni privilegiate: il misurato si oppone al non misurato, il religioso al

profano, il suono naturale è associato al suono umano, il canto alla poesia, alla danza o alle

circostanze... Constatiamo che non si tratta di ripartizioni aleatorie ma di regolarità che dovrebbero

portare a una prima tipologia. In un secondo tempo si possono ricostruire le totalità vissute, in cui

non vi è alcuna ragione per riconoscere un privilegio indebito alla musica pura. Ma non bisogna

fermarsi alle nomenclature poichè costituiscono solo una delle dimensioni della conoscenza: bisogna

cercare di liberare le reti che nella mente dei componenti della cultura collegano i suoni, i ritmi, le

parole e le circostanze indipendentemente dalle classificazioni linguistiche. A partire dalla nostra

nozione di musica pura, abbiamo finora utilizzato la presenza di suono organizzato come criterio

utile a delimitare provvisoriamente il campo del "musicale": come già detto, abbiamo analizzato la

cultura attraverso il filtro del sonoro. Questa scelta usa violenza verso il reale? Notiamo che il

culturalista più convinto, che mette in dubbio l'esistenza della "musica" nelle altre società, s'interessa

sempre a delle attività nelle quali interviene il sonoro! E dunque legittimo ipotizzare che il sonoro

costituisca il tratto differenziale del musicale. E’ un'ipotesi naturale e sulla quale si può sempre

ritornare qualora non porti a risultati soddisfacenti; ad ogni modo, non mira a rendere conto che di

una parte dei fenomeni: essa deve essere ampliata e completata da altre ricerche. E’ anche l'ipotesi

che consente di mettere in evidenza ciò che Max Weber chiamava la “logica intrinseca”

(Eigengesetzlichkeit) di ogni sfera della vita sociale [Weber 1915, passim]. La musica come fatto

sociale totale dipende, per una parte che ne assicura la specificità, dall'organizzazione alla quale essa

sottopone il mondo sonoro. Ma ciò non vieta, tutt'altro, di cercare e di dare risalto agli universali

nelle altre dimensioni di questa totalità, universali cognitivi, semantici o pragmatici.

Si tratta dunque di una forma simbolica specifica dai contorni variabili ma che gravitano intorno

al sonoro. Se ne può proporre una definizione più precisa? E’ chiaro che non deve essere associata a

delle caratteristiche prese a prestito dalla tradizione teorica della musica europea come le altezze

discrete, il che porterebbe a escludere dalla musica tanto la musica elettroacustica quanto i glissandi

presenti in numerose musiche. Vale a dire che, logicamente, una caratterizzazione più dettagliata non

potrebbe essere data che alla fine della ricerca, una volta conosciute le dimensioni di variabilità del

fenomeno grazie alle quali si sarebbe in grado di determinare le "possibilità musicali" dell'uomo. Ciò

che in compenso si può fin d'ora affermare è che queste possibilità poggiano su un substrato

antropologico e filogenetico [Molino 1988; 1991; 2005], già presentato nel volume II di questa

Enciclopedia [Nattiez 2002#, pp. XXx-XXXIV]; questo substrato garantisce l'esistenza di tipi e di

universali: la "facoltà musicale" si fonda sulle capacità della specie.

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Proporremo alcuni candidati alla dignità di tipi e di universali ma presenteremo anche, e forse

soprattutto, un bilancio dello stato delle nostre conoscenze nei differenti campi della ricerca

musicologica. Ovviamente non si tratta che di un programma di ricerca, nel quale in molti casi non

facciamo altro che riprendere dei suggerimenti già proposti ma presentandoli in maniera più

sistematica.

1. Un prototipo di sequenza musicale.

Iniziamo con lo stabilire l'esistenza universale di una sequenza musicale elementare, di cui un

certo numero di etnomusicologi ha avanzato l'ipotesi [Arom 2000; Nettl 2000]. Questa sequenza è

costituita dai seguenti elementi: 1) è vocale; 2) è costruita sui gradi di una scala; 3) possiede

contemporaneamente un'organizzazione ritmico-corporea. Constatiamo che questa sequenza minima

non è una realtà semplice, ma un misto, composto da almeno tre elementi: la voce, i gradi di una

scala e il ritmo, che stabilisce un legame diretto con la danza. I tre elementi che costituiscono la

sequenza di base non sono altro che degli universali strutturali generali i quali, per utilizzare una

metafora presa a prestito dalla grammatica generativa, si riscrivono in modo diverso a seconda delle

"lingue" musicali: ognuno di essi da vita a nuove tipologie.

Precisiamo bene lo statuto di questa sequenza: non viene considerata come primitiva e non si

trova alla base di tutte le produzioni musicali di tutte le culture. Essa corrisponde al tipo di universale

che Bruno Nettl definisce in risposta alla domanda: “Ma, comunque siano classificati, esistono dei

tratti condivisi da tutte le musiche, anche se possono non apparire in ogni manifestazione di ognuna

di queste musiche?” [1977, p. 4]. Si tratta di un prototipo del quale si ipotizza che si ritrovi in tutte le

culture conosciute.

Non sembra esservi un controesempio e la scoperta di uno o più controesempi non farebbe che

arricchire le nostre conoscenze costringendoci a elaborare una nuova tipologia.

2. Ecologia sonora la musica e i rumori del mondo.

Il prototipo di sequenza vocale Così come l'abbiamo definito è stato isolato dal suo contesto

sonoro: i rumori e le musiche del mondo. Ora è naturale che queste produzioni sonore giochino un

ruolo nelle musiche umane, poichè esse sono un elemento dell'ambiente e l'apparato uditivo umano si

è formato allo scopo di poter procedere all'analisi delle scene uditive [Bregman 1994]. Questi rumori

possono essere integrati in ciò che i membri di una cultura considerano come musica, dato che le

culture tradizionali non fissano un confine netto fra la natura e l'uomo. Ci sono dei casi in cui i

membri di una comunità utilizzano i rumori del mondo come metalinguaggio: è ciò che avviene

presso i Kaluli della Nuova Guinea, i quali impiegano il vocabolario dell'acqua e delle cascate

d'acqua per parlare della loro musica [Feld 1982]. Infine l'esistenza fianco a fianco di una musica

umana e di una musica naturale conduce a una dialettica di imitazione del mondo sonoro da parte

dell'uomo: nascono Così le musiche denominate musiche imitative o musiche descrittive. Li si trova

senza dubbio una caratteristica universale delle musiche umane: i rumori del mondo e in particolare

quelli che provengono dagli esseri viventi servono da “modelli” [Màche 2001, pp. 129-149] che ogni

tradizione seleziona e utilizza per elaborare la propria musica.

Si tratta di un fenomeno che dipende dall'interazione fra l'organismo e il suo ambiente ecologico.

Questa dimensione mimetica della musica non si limita all'imitazione dei rumori e dei versi degli

animali. L'esistenza di diversi tipi di produzioni sonore da vita a dialettiche complesse d'imitazione

reciproca, come nel caso della voce e degli strumenti. Su tutti questi punti mancano ancora,

purtroppo, delle ricerche locali che dovrebbero permettere di costruire delle tipologie e di ricercare

degli universali.

3. Voce

Ciò che è successo con la voce è caratteristico dello scossone provocato dalle scoperte

etnomusicologiche. Per la musicologia europea la situazione era semplice: da un lato vi era la parola,

quella che corrispondeva alle caratteristiche foniche e all'elocuzione normativa per le lingue

conosciute, e dall'altro il canto, un canto che non si esitava a definire come “naturale”: da nessuna

parte fuori dall'Occidente moderno la gente canta con una voce per la quale abbiamo coniato il titolo

onorifico di "naturale" [Sachs 1962, p. 85].

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Non molto tempo fa, Andre Schaeffner, buon conoscitore anche delle musiche di tradizione

orale, non esitava ad affermare: “Ora noi non dubitiamo che esista un canto "naturale"“ [1960, p. 78].

Ci si è accorti che vi erano ben altri modi di cantare rispetto al nostro e che questa voce falsamente

naturale era in realtà il risultato di una lunga costruzione culturale che a poco a poco aveva fatto

emergere la famosa formante dei cantanti. Si sono studiate nuove lingue con caratteristiche prima

sconosciute e si è scoperto tutto un mondo di utilizzazioni della voce veramente inaudite. Non solo vi

è una straordinaria varietà di stili di parola e di canto, ma anche tutta una serie di "forme intermedie"

- come lo Sprecbgesang di Schònberg o i richiami del muezzin -, che fanno saltare la semplice

opposizione fra i due poli tradizionali: la diversità degli usi dimostra che le diverse culture hanno

esplorato in maniera costruttiva lo spazio della voce e i parametri che la determinano.

Si comprende allora come sia impellente, dopo la prima sorpresa di ammirazione che accoglie la

scoperta di affascinanti realizzazioni - dallo yodel al katajjaq e al canto difonico, ad esempio -,

passare all'esplorazione sistematica di questo nuovo continente. A tale riguardo bisogna apprezzare

l'importante tentativo di classificazione realizzato dall'equipe che ha elaboratoj'antologia Les voixdu

monde [Lèothaud, Lortat-Jacob e Zemp 1996], classificazione oggetto di un saggio di Gilles

Lèothaud in questa sede. Sottolineiamo di passaggio l'importanza della classificazione nella

costruzione del sapere. Era di buon gusto, al tempo dello strutturalismo e della grammatica

generativa, prendere in giro ciò che si preferiva definire in senso peggiorativo tassonomia. Ora, non

esistono scorciatoie per arrivare alla conoscenza: piuttosto che estasiarsi della diversità del mondo

umano, è meglio, come hanno fatto da secoli gli specialisti delle scienze naturali, consacrarsi

all'inventario delle sue ricchezze. E’ quindi senza dubbio troppo presto per andare alla ricerca di

universali vocali, a eccezione ovviamente di quell'indiscutibile universale che è la voce stessa: è

ancor più necessario ricordare questa banalità visto che lo sviluppo della nozione di musica pura in

Europa ha spesso fatto sottovalutare, e prima di tutto nella nostra cultura, il ruolo centrale della voce

nella musica.

4. Strumenti

L'uomo produce dei suoni con la voce ma anche col resto del suo corpo: percuotendo il suolo

con i piedi, battendo le mani, percuotendo il suo petto o le sue gambe. L'attività musicale in tal modo

fa parte di ciò che l'antropologo Marcel Mauss [1947] ha chiamato “tecniche del corpo”, dando vita a

una vera “musica corporea” [Schaeffner 1946, p. 18]. D'altronde l'uomo diviene ben presto un

collezionista di fossili e di pietre rare, fin dall'Acheuleano [Lorblanchet 1999, pp. 89-102]: benchè

non ne rimanga alcuna traccia, come non immaginare che questi uomini non abbiano provato la

curiosità di esplorare il mondo dei suoni esercitandosi nel produrne in tutte le maniere, con tutti i

materiali possibili, come fanno da sempre i bambini, che sembrano provare un estremo piacere nel

"fare rumore"? Come dice eloquentemente Francois Delalande [1984], “la musica è un gioco da

bambini”. Ma l'uomo è anche homo faber, e si passa mediante transizioni impercettibili dal corpo e

dalla produzione diretta dei suoni allo strumento: al corpo si appendono e si attaccano sonagli,

ninnoli o campanelli il cui rumore accompagna e sottolinea il ritmo della danza. L'uomo costruisce

strumenti e li suona: il nome dello strumento evidenzia la fattività umana all'opera nella musica e i

vincoli che uniscono l'arte e la tecnica. Lo strumento inscrive doppiamente la musica nell'attività

umana: bisogna costruirlo mediante una serie di attrezzi e di gesti complessi, ma bisogna altresì

suonarlo e nulla è più straordinario della varietà delle utilizzazioni di uno stesso strumento, che si

basano su tecniche impreviste e talvolta addirittura inconcepibili. Ritroviamo qui la stessa esplosione

creativa, che mira a esplorare tutte le risorse nate dall'incontro fra lo strumento e le capacità umane

(questo non nell'ambito di una sola cultura, ma allorchè si prende in considerazione l'insieme delle

culture che hanno utilizzato lo stesso strumento). Non ci si può che rammaricare del fatto che gli

antropologi non integrino le tecniche musicali nelle altre tecniche del corpo, come se fosse necessario

separare dalla serietà della vita economica il superfluo dell'arte e della musica: Così come esiste

un'organologia, sarebbe altrettanto utile e appassionante costituire una "ergologia" musicale che

facesse il bilancio di tutti gli atteggiamenti e i gesti che agiscono nella musica confrontandoli con i

gesti utilizzati nelle tecniche “utilitarie” [Delalande 1992].

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Una domanda si impone legittimamente: lo strumento è universale? Se è vero che non esiste

musica senza la voce, si può dire lo stesso per gli strumenti? Ovviamente si conservano più tracce

degli strumenti che della voce e siamo certi dell'esistenza di flauti dall'inizio del Paleolitico superiore.

In ogni modo è auspicabile non porre più al centro del dibattito la questione delle origini, che ha

ossessionato i musicologi troppo a lungo: l'essenziale è prendere atto di questa antichità degli

strumenti e scorgere in essi un fattore - e un attore - decisivi delle musiche Così come noi le

conosciamo.

E’ necessario soffermarsi un attimo sulla natura di ciò che viene definito percussioni o batteria

nella tradizione europea: sono anzitutto degli strumenti ritmici e pongono il problema dei rapporti fra

la musica e il ritmo, problema che ritroveremo più avanti. Diciamo solo che non consideriamo il

ritmo esclusivamente come un parametro musicale, ragion per cui sarebbe forse utile assegnargli uno

statuto particolare nel complesso degli strumenti.

Più in generale, esistono numerosi strumenti i cui suoni, secondo la nostra tradizione occidentale

di musica colta, appaiono come non musicali, come rumori. Andre Schaeffner, al quale lo studio

degli strumenti è debitore, non esitava a parlare di strumenti “orientati verso lo strambo e

l'insopportabile”: A ben altri indizi si riconosce che, creando degli strumenti Così come deformando

la voce, si è voluto emettere dei suoni dalla parvenza Così poco umana, anche sorprendente e

fantastica come può esserlo l'aspetto di uomini col corpo dipinto o rivestiti di fibre e di maschere

[1960, pp. 81, 78].

In effetti, i risonatori che "deformano" la voce, i rombi che ronzano, le trombe che muggiscono,

gli zufoli che gracchiano possono ben essere degli strumenti magici e rituali, ma essi sono anche, allo

stesso titolo del flauto o della cetra, il risultato di esplorazioni costruttive del mondo sonoro:

rispondono alla curiosità della scoperta Così come alla gamma degli effetti prodotti dai timbri, dalla

seduzione al fascino. E’ particolarmente interessante vedere come nella storia della musica colta

europea si sia prodotto un vero movimento di andata e ritorno sia per le percussioni sia per gli

strumenti a suono indeterminato. Dopo essere stati esclusi dalla musica religiosa, di corte e da

salotto, essi sono stati progressivamente reintrodotti, a partire dall'inizio del XIX secolo, nella

"grande musica", da Berlioz all'utilizzazione di strumenti esotici e alle “Percussions de Strasbourg”.

Allo stesso modo, i "rumori" hanno riguadagnato un posto nella musica concreta ed elettroacustica

della nostra epoca e, quando ci siamo accorti che i suoni degli strumenti tradizionali non erano Così

puri come ci piaceva credere, l'intera gamma dei suoni del mondo si è trovata a disposizione del

dilettante e del musicista. Gli strumenti sono senza dubbio l'unico ambito musicologico che oggi

dispone di una classificazione di riferimento a vocazione universale. Essi hanno ovunque un nome e

rientrano in classificazioni più o meno coerenti, ma è nelle culture letterate che compaiono le

classificazioni più sistematiche, per le quali sono stati proposti differenti criteri: i Cinesi idearono

otto categorie di strumenti a seconda del materiale di cui erano costituiti; gli Arabi hanno elaborato

più classificazioni, distinguendo per esempio gli strumenti che utilizzano il contatto della mano con

un corpo solido e gli strumenti in cui intervengono l'apparato respiratorio e il fiato. La classificazione

tradizionale indiana è alla base delle classificazioni scientifiche contemporanee: il Natyasastra,

trattato fondativo dell'arte drammatica, distingueva gli strumenti a corda, gli strumenti a fiato, gli

strumenti a percussione in metallo e gli strumenti costituiti da una membrana. Tale classificazione è

stata ripresa nel 1878 da Victor Mahillon, che ha dato a quelle categorie i nomi che ancora portano (a

eccezione degli autofoni ribattezzati idiofoni), e poi completata e precisata da Hornbostel e Sachs

[1914], che ne hanno fatto la classificazione di riferimento per l'attuale organologia. Questa

classificazione costituisce la sola eredità riconosciuta dei fondatori della musicologia storica e

comparata della fine del XIX secolo, il che si spiega senza dubbio mediante le necessità alle quali

siamo sottoposti ma anche con i riferimenti materiali di cui si dispone quando si tratta di oggetti che

bisogna ordinare all'interno di collezioni.

Questa classificazione, oggi universalmente adottata con i necessari adattamenti (cfr. in questo

volume il saggio di Geneviève Dournon), risponde bene agli imperativi che hanno guidato la sua

elaborazione: disporre di un quadro al tempo stesso chiaro e flessibile che permetta di includere ogni

strumento sconosciuto. E’ vero che non è sempre agevole assegnare a ogni strumento un posto ben

definito, ma questa classificazione non è funzionale: l'abbiamo visto prima per gli strumenti ritmici,

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che in un ensemble hanno ovviamente tutto un altro ruolo rispetto agli strumenti melodici. Sarebbe

auspicabile quindi disporre di classificazioni "emiche", che si basino sulle opposizioni funzionali

degli strumenti all'interno delle diverse culture.

Senza proporre una tipologia, il testo di Laurence Libin in questo volume da delle idee

illuminanti sulla simbologia degli strumenti musicali.

Se l'organologia si è rinnovata grazie alla conoscenza di strumenti sconosciuti dalla grande

tradizione occidentale, allo stesso tempo si è verificata una vera rivoluzione tecnica [Molino 1989]:

l'invenzione degli strumenti di registrazione e poi delle apparecchiature capaci di produrre il suono e

infine del computer ha determinato il passaggio dall'era dello strumento all'èra della macchina. Con

la completa recisione del suono dal suo ancoraggio umano e soggettivo si assiste, da un punto di vista

antropologico, all'instaurazione di un nuovo rapporto fra l'uomo e il suono: la musica stessa è entrata

in una nuova èra tecnica.

5. Ritmo

Nella tradizione europea il ritmo è considerato come un semplice parametro, allo stesso titolo

dell'altezza, dell'intensità e del timbro. L'organizzazione propriamente ritmica di un'opera tonale non

presenta in generale alcun mistero: il ritmo della musica classica è un ritmo placato, asettico,

soggetto a una stanghetta di battuta che ha contribuito a ristabilire o a rafforzare una gerarchia nuova

di tempi forti e deboli, che non ha tardato a stringere la musica in un corsetto di simmetria in cui ha

perso buona parte della sua flessibilità [Chailley 1967, p. 120].

Se la musica d'avanguardia del XX secolo si è preoccupata maggiormente del ritmo, lo ha fatto

spesso sottilizzando su dei ritmi teorici impossibili da percepire. E’ solo nelle musiche di massa, nei

varietà e nelle musiche da ballo, Così come nella straordinaria diversità ritmica delle musiche

extraeuropee, che è possibile percepire un ritmo pieno di vita.

Questo ritmo vìvant è strettamente associato alla danza e avviene nella maggioranza delle

culture: nella mousikè greca, la poesia, la danza e la musica erano unite dal ritmo; presso gli Igbo del

Niger, un'unica parola nkwa indica allo stesso tempo il canto, l'esecuzione degli strumenti e la danza;

nella cultura nàhuatl degli antichi Messicani esisteva l'istituzione del cuicacalli o "casa del canto"

dove si insegnava la poesia, la musica, la danza e il canto. Il ritmo non è bene esclusivo della musica

e non è sufficiente, allorchè si parla di ritmo musicale, segnalare di sfuggita che esso si ritrova anche

altrove. Non bisogna fermarsi alla concezione di un ritmo musicale separato dai suoi fondamenti

antropologici e si deve riconoscere al ritmo in quanto tale l'autonomia che non si esita ad accordare

alla musica: il ritmo non è un'organizzazione astratta del tempo di cui basta studiare le configurazioni

superficiali bensì un insieme di condotte che fanno intervenire il corpo Così come la società. E’ per

questo che preferiamo parlare, nel senso più generale, non di ritmo ma di esperienza ritmica [Fraisse

1974, trad .it. pp. 86-87].

Questa esperienza è presente ovunque, dai ritmi fisiologici fino ai movimenti e ai gesti, dai ritmi

sessuali ai ritmi tecnici, fino ai ritmi collettivi del lavoro, del gioco, dello sport, del combattimento,

del rito e della festa: esso costituisce un insieme complesso e diversificato quanto la musica. I

rapporti fra il ritmo e la musica non devono quindi essere considerati come dei rapporti di dipendenza

fra la musica e uno dei suoi parametri, bensì come rapporti fra due "famiglie" unite da molteplici

dedali aggrovigliati.

Questa relativa autonomia del ritmo rende difficile una sua definizione in musica, tanto più che

la tradizione analitica europea ha i suoi fondamenti nella metrica poetica: la maggior parte dei

termini utilizzati ha origine nella teoria della versificazione. Il ritmo musicale appariva legato non

solo al ritmo corporeo ma anche al ritmo verbale. Ci si può allora chiedere con Jacques Chailley se

esso non poggiasse su due fonti distinte, che indicherebbero giustamente il suo doppio rapporto con

la danza e con la poesia: una fonte gestuale e una fonte verbale. Il ritmo di origine verbale conduce a

una suddivisione disuguale dei punti di sostegno e a una certa libertà nella concatenazione delle

durate. Questa disuguaglianza non ha niente a che vedere con la ricerca pedante di rapporti numerici

complessi: essa ricalca la libertà della parola che è costituita da una successione asimmetrica di stasi

e di moto, di carattere variabile secondo la lingua in questione.

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Accanto a questo ritmo verbale esiste un ritmo di origine gestuale: In compenso, Yisocronia

della pulsazione, che essa sia o no legata ad uno schema metrico, sembra derivare dal contesto

gestuale: la musica che accompagna un gesto regolare - marcia, remo, danza - o il gesto della mano o

del piede per scandire il ritmo poetico assumerà i suoi punti di appoggio in accordo con quei gesti

isocroni; essa ne favorirà il ritorno regolare e acquisterà Così un'efficacia motrice particolare

[Chailley 1985, p. 50] .

6. Scale, melodie, altezze, timbro.

Dopo il ritmo, ripartiamo dalle prime due caratteristiche del prototipo di sequenza musicale:

questa melodia vocale è formata da altezze discrete; esse sono organizzate secondo i gradi di una

scala. Sembra proprio che la presenza delle scale sia uno degli universali della musica - cioè che esse

siano presenti in tutte le culture musicali, il che non vuol dire, come si vedrà, che tutti i tipi di musica

siano basati su scale. Abbiamo fatto progressi nella conoscenza comparativa delle scale? Purtroppo la

situazione non è affatto cambiata dalla metà del XX secolo, poichè non sembra esserci alcun

interesse per l'inventario delle scale e per le loro proprietà - esemplificativo è l'esiguo numero di

pagine che viene loro dedicato ne The Gariana Encyclopedia of World Music -, non più che per la

loro classificazione, se si esula dalle poche definizioni generiche, il più delle volte negative. Il

lemma “Scale” della nuova edizione del New Grove sembra ancora rifiutarsi di porre il problema

generale: “La discussione che segue si limita alle scale della teoria musicale europea” [Drabkin 2001,

p. 366]. Nulla tradisce meglio l'imbarazzo dei musicologi odierni davanti ai problemi degli universali

nelle questioni relative alla scala della frase scritta dal redattore del lemma “Pentatonic” nello stesso

dizionario: Tuttavia, a dispetto dei problemi posti dai modi e dall'accordatura, sembra difficile

resistere all'ipotesi universalista, e benchè la questione delle scale primordiali sia lungi dall'essere

risolta, vi è un consenso generale almeno per quanto riguarda l'importanza del pentatonico nella

storia della musica [Day-O'Connell 2001, p. 315].ma perchè fermarsi alle scale pentatoniche? Vi

sono delle scale tri e tetratoniche che funzionano in modo autonomo? Che ruolo giocano allorchè

coesistono con scale formate da un numero più ampio di gradi? Accanto a questi problemi dei gradi,

occorre trovare un posto, almeno altrettanto importante, ai problemi di organizzazione che

s'incontrano relativamente alle modalità e ai modi. E’ proprio ciò a cui aprivano la strada le proposte

di Bràiloiu. Gli enormi progressi delle conoscenze locali non hanno comportato alcun tentativo di

costruire delle tipologie, di distinguere dei parametri e di collocare i sistemi conosciuti in un quadro

generale. Fermiamoci un istante sul grande articolo “Mode” del New Grove. Il suo indice è già

significativo: la sezione intitolata “Introduzione: il modo come concetto musicologico” si colloca

all'inizio della quinta parte dell'articolo, consacrato al Medio Oriente e all'Asia [Powers e altri 2001,

pp. 829-31]. Dopo aver fatto la cronistoria della nozione applicata alle musiche non europee, Harold

Powers mette in dubbio la possibilità di stabilire l'esistenza di una sottostante categoria minima di

"modalità" metaculturale e scientifica, alla quale sarebbe possibile rinviare i concetti e i fenomeni di

culture musicali specifiche come illustrazioni di casi particolari [ibid., p. 830].

E comprensibile che Powers voglia dare la priorità alle caratteristiche specifiche dei sistemi che

studia pazientemente e brillantemente. Noi constatiamo semplicemente che, se la prospettiva della

ricerca degli universali è legittima, nel suo testo si trovano già elementi che indicano la possibilità di

far emergere degli universali, di compilarne un inventario e di stabilirne una tipologia. Le differenze

concrete e riguardanti l'esecuzione, sintetizzate alla fine di questa introduzione (opposizione

solo/ensemble, poche/molte entità modali aventi un nome, improvvisazione/repertorio fisso), non

impediscono affatto d'interessarsi alle proprietà dei sistemi. L'analisi si è basata su una tipologia che

regge l'articolo nel suo insieme: i sistemi attestati costituiscono uno "spettro modale" i cui due poli

sono da un lato la scala astratta e dall'altro i tipi melodici. Si hanno quindi gli elementi di una

classificazione o piuttosto l'inizio di un'analisi della modalità in parametri distinti. La concezione

dell'incommensurabilità dei sistemi poggia logicamente sull'idea che il numero dei parametri e delle

posizioni sull'asse di ognuno di essi sia infinito; l'esperienza dimostra al contrario che, quando si

affronta l'inventario di un campo, si arriva a un insieme finito di parametri e di valori. Nel caso della

modalità, è chiaro che occorre distinguere almeno i seguenti parametri: la scala astratta,

l'organizzazione degli intervalli, la gerarchia dei gradi, i tipi melodici, ecc. Si tratta di ciò a cui

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7

tendeva Mieczyslaw Kolinski [1961], che ha combinato una classificazione dei tipi delle melodie con

una teoria delle scale derivate dal circolo delle quinte; è ciò che tentano di dimostrare recenti ricerche

sul pentatonico nella musica africana messo a confronto con le sue manifestazioni nella

musicaeuropea medievale [Arom e Furniss 2000] e gli studi pubblicati nel presente volume: quello di

Annie Labussière, in cui si cerca di dimostrare le costanti di funzionamento nelle monodie prese a

prestito da culture che non hanno avuto storicamente contatto fra loro, e la proposta di tipologia di

Nathalie Fernando.

La situazione del lavoro comparativo è forse più incoraggiante sul versante della melodia, per la

quale troviamo diversi tentativi di classificazione.

L'etnomusicologo americano Charles Adams [1976] si è esplicitamente collocato nella

prospettiva tipologica, esaminando le melodie dal punto di vista dei tipi di profili che esse

presentano, il che dimostra peraltro che l'altezza non è l'unico parametro da prendere in

considerazione nel funzionamento delle melodie. Uno dei grandi meriti del suo studio è quello di

aver classificato le diverse ricerche secondo i mezzi utilizzati per descrivere le melodie: la

descrizione metaforica, l'elenco di parole (l'arco, la pendola, la discesa graduale, l'onda - ascendente

o discendente, la linea - ascendente, discendente, orizzontale), la combinazione, le rappresentazioni

grafiche, la natura e la posizione delle note iniziali, finali, alte, basse, ecc. La tipologia ideata da

Adams poggia essenzialmente su criteri strutturali e immanenti che fanno emergere i Cosiddetti

universali di sostanza.

Lo studioso Meyer, anche se prende i suoi esempi solo dalla musica tonale, apre un'altra

prospettiva, quella degli universali di strategia, nella misura in cui la tipologia delle forme melodiche

che egli propone, basata sulle nozioni di prolungamento, continuazione e implicazione, fa intervenire

dei processi cognitivi: Le inferenze implicative sono possibili poichè la regolarità e l'ordinamento di

un pattern suggeriscono delle probabili continuazioni che l'ascoltatore competente comprende [...].

Una volta insediatosi, un pattern tende a continuare fino a quando non venga raggiunto un punto di

relativa stabilità ritmico-tonale. Prolungamenti o estensioni possono ritardare il momento di

conclusione del pattern [1973, p. 130].

Su tali basi, Meyer propone una tipologia delle strutture melodiche: pattern congiunti, pattern

disgiunti, pattern simmetrici, prolungamenti, spesso descritti in relazione con gli aspetti ritmici,

metrici, armonici e formali della musica tonale [1973, pp. 131-241]. In questo lavoro egli non si

azzarda ad assegnargli una pertinenza universale, ma lo farà in seguito [1989, cap. 1; 1998, ed. 2000,

p. 283]. Per lo studioso, infatti, bisogna affrontare il dato musicale secondo tre livelli:

l'organizzazione idiosincratica propria di un'opera, dipendente da regole seguite dal compositore;

queste regole sono, a loro volta, condizionate da limitazioni di strategie che sono all'origine delle

particolarità dello stile; a un terzo livello, lo svolgimento musicale dipende da leggi più generali di

ordine acustico, fisico, biologico, psicologico o psicofisiologico [1973, pp. 6-9, 14; 1998, ed. 2000, p.

283]. Queste leggi, oltre a spiegare l'esistenza di universali della melodia (e della musica), spiegano il

funzionamento di altre forme simboliche poichè fondate sempre sulle stesse leggi della Gestalt. Non

si può infatti parlare di prolungamento, di progressione, di sospensione o di chiusura a proposito del

racconto letterario o cinematografico, del mito o del fumetto, i quali, al pari della musica, si svolgono

nel tempo? Non stupisce allora che Stèphane Roy [2003, cap. X] abbia potuto trasporre queste leggi

all'analisi delle musiche elettroacustiche che, tuttavia, non sono basate sulle altezze. E sarebbe

proprio sorprendente, in queste condizioni, che esse non potessero essere trasposte alle musiche di

tradizione orale, come ha fatto Frèdèric Lèotar [2003] a proposito dei canti-richiami dei Touva e

degli Usbechi.

Queste ultime osservazioni portano a una conclusione che infastidisce.

Anche se Leonard Meyer sembra "limitare" gli universali melodici alle musiche in cui le unità

minime sono discretizzate e appartengono a una scala che ne condiziona il funzionamento sintattico

[1989, pp. 14-16], non sembra che sia possibile costruire un determinato tipo di musica solo sulla

base di unità definite secondo la loro altezza e la loro durata. Al di là degli studi riguardanti i

parametri già riconosciuti nella tradizione occidentale, è necessario, infatti, chiedersi se dei parametri

sconosciuti o misconosciuti non giochino un ruolo importante, ivi compreso nella nostra musica:

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pensiamo per esempio ai fenomeni di profilo melodico di cui parla Adams, che sono senza dubbio

più importanti delle sole altezze.

Al posto di una melodia costruita sui gradi di una scala, esistono delle produzioni vocali prive di

una scala riconoscibile: grida e richiami dei cacciatori africani, glissandi dei Formosani, sonorità

"inaudite" dei katajjait eschimesi (che giocano sull'alternanza dei suoni sonorizzati e non sonorizzati,

espirati o inspirati). Non vi è alcun limite alle nuove produzioni sonore che l'essere umano può

inventare: pensiamo allo sfruttamento che viene fatto in Papuasia (Nuova Guinea) della vibrazione

delle elitre di un coleottero davanti alla cavità boccale utilizzata come risonatore... [cfr.

Lèothaud, Lortat-Jacob e Zemp 1996, disco II, traccia 33]. I musicologi evoluzionisti

attribuiscono una grande importanza ai tumblìng strains [Sachs 1962, trad. it. pp. 69-78], quelle

lunghe discese più o meno continue nelle quali riconoscono le forme più antiche della musica. Ma

nulla permette di pensare che si tratti di forme primitive di musica. L'esistenza di queste "stranezze" -

considerate come tali unicamente in relazione alla nostra cultura - pone due domande interessanti:

quale ruolo giocano queste modalità d'espressione accanto ad altre forme di musica e sono riservate a

certi tipi di circostanze (grida e richiami, canto funebre, ecc.)? Quali sono le loro proprietà musicali e

quali legami esse intrattengono con le altre produzioni sonore? Le stesse domande si pongono

allorchè ci si rivolge alle musiche strumentali. L'utilizzazione del tamburo kotudumi nelle musiche

del Nò e del Kabuki è regolata da una sistematizzazione in quattro categorie dove l'intensità viene

combinata col timbro, a seconda che si colpisca lo strumento in alto e forte sul bordo (kasira), in alto

e debole sul bordo ma allentando le cordicelle dell'accordatura (kart), al centro stringendo e poi

allentando le cordicelle ma che risuoni (otu), al centro allentando le cordicelle ma debole (hodo)

[Tokumaru 1991, p. 93]. Nella musica di shamisen, una stessa sillaba arriva a indicare allo stesso

tempo un'altezza e il timbro che gli è strettamente associato, a seconda che il suono sia prodotto

oppure no su una corda vuota (il si sulla terza corda vuota si chiama ten, ma il si sulla seconda corda

premuta si chiama ton) o secondo la maniera di pizzicare la corda: il si della terza corda pizzicata

verso il basso con il plettro (ten) è diverso dal si della terza corda pizzicata verso l'alto o con un dito

della mano sinistra (reti) [ibid., p. 94]. Sulla base di questi esempi è importante sottolineare che il

parametro timbro, definito secondo la modalità di produzione del suono, è convenzionalmente

congiunto a un'altezza, un fenomeno assente nel sistema tonale occidentale. La maniera di

sistematizzare il timbro nella cultura giapponese è tanto più importante poichè essa permette alle

singole associazioni di musicisti di distinguersi l'una dall'altra. Si ha persino la sensazione che qui il

timbro abbia assunto un'importanza che la musica tonale occidentale non gli riconosce: Benchè si

possa cambiare l'altezza assoluta di una melodia mantenendo i suoi rapporti intervallari, si deve

essere sempre fedeli alle distinzioni dei timbri che essa definisce [ibid., p. 95].

Ecco una cosa incoraggiante per i partigiani delle musiche elettroacustiche, il cui sforzo è stato

di cercare di far passare il timbro dallo statuto di parametro “secondario” [Meyer 1989, p. 14] o

“residuale” [Risset 2002, p. 89] a quello di parametro "principale". Nel proporre un “solfeggio degli

oggetti sonori”, Pierre Schaeffer [1966] cercava di fondare un nuovo tipo di musica su parametri

diversi dall'altezza e dal ritmo. Egli ha spesso sperato che il suo primo TOM (“Trattato degli Oggetti

Musicali”) fosse oggetto di un secondo, un “Trattato delle organizzazioni musicali”. Fra i recenti

tentativi, bisogna citare il lavoro di Stèphane Roy in cui gli “oggetti musicali”, nel senso di

Schaeffer, sono caratterizzati funzionalmente, il che dovrebbe facilitare la loro integrazione in una

sintassi: introduzione, avvio, interruzione, conclusione, sospensione, generazione, estensione,

prolungamento, transizione [Roy 2003, p. 342]. Definiti ormai non più come oggetti statici, ma

costruiti come oggetti capaci di integrarsi in una sintassi, essi acquisiscono un nuovo statuto, forse

analogo a quello che era stato riconosciuto nella musica tonale alle dimensioni melodiche, ritmiche e

armoniche.

In realtà non vi sono limiti alle esplorazioni sonore di cui l'essere umano è capace: l'utilizzazione

delle tecniche elettroniche e informatiche nella musica del XX secolo ne è la prova, e non c'è alcun

motivo per pensare che altre invenzioni scientifiche, sconosciute a noi oggi, non verranno a ispirare

nuove conquiste musicali inedite e delle quali noi non possiamo neanche sospettare la forma che

assumeranno. Come hanno dimostrato la storia e le culture, in realtà, non ci sono limiti alla

costruzione del musicale a partire dal reale.

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Ecco perchè, fin da ora, conviene avviare delle tipologie del sonoro le più ampie possibili,

paragonabili a quella proposta qui da Gilles Lèothaud per la voce. Esse devono prendere in

considerazione quelle modalità sonore che, anche se diverse dalle altezze melodiche discrete,

contribuiscono allo stesso modo alla costruzione di produzioni alle quali difficilmente si può rifiutare

un ruolo all'interno della musica in senso ampio, una musica che da sola può servire da quadro per

una ricerca comparativa.

7. Una combinatoria "a priori": dalla forma alle attività musicali.

L'esistenza delle sequenze minime che abbiamo proposto al paragrafo i, implica ciò che

suggeriamo di chiamare, in maniera impropria ma immaginosa, delle forme a priori di combinatoria,

poichè si tratta di un campo che si potrebbe paragonare alle forme a priori kantiane della sensibilità.

Nella sequenza prototipo da cui siamo partiti, si può innestare ciò che Bent chiama “tre procedimenti

costruttivi fondamentali” [Bent e Drabkin 1987, trad .it. p. 6]: la ripetizione AA, il contrasto AB e la

variazione AA'. Forse converrebbe sostituire la parola "variazione", legata a una forma occidentale

specifica, con quella, più neutra, di "trasformazione", di portata più ampia.

Del resto, le procedure di trasformazione sono alla base sia del genere "variazione" che ci è

familiare, sia delle tecniche più generali di sviluppo, all'opera tanto in un canto degli indiani

d'America che in una suite per violoncello di Bach o in un'improvvisazione jazz.

La ripetizione è indubbiamente l'universale più conosciuto e il meno riconosciuto della musica e

potrebbe essere sufficiente definirla come “sottile arte della ripetizione” [Kivy 1993]. Ma è raro che

la ripetizione si realizzi identica in modo assoluto; essa è più sovente oggetto di una trasformazione.

La trasformazione si ritrova in tutte le culture, consiste in un certo numero di operazioni formali

numericamente finite, possiede un carattere costruttivo: la permutazione A (a + a + b) diventa A' (a +

b + a); l'aggiunta A (a + a + b) diventa A' (a + a + b + e) che può essere fatta in un punto qualunque;

la soppressione A (a + a + b) diventa A' {a + a); la trasposizione come combinatoria delle unità di un

dato sistema.

Di pi∙, la ripetizione e il contrasto non sono senza legame con queste tre operazioni

trasformative: per ottenere AA, bisogna aggiungere A ad A; per opporre B ad A, è necessario

sopprimere il secondo A e aggiungere a que sto il nuovo elemento B; al contrario, in a + a + b, vi è

un contrasto fra a + a e b, ma permutando la posizione di b, è fra le 2 a che si crea un contrasto (e una

nuova figura che si definirà simmetrica); se si aggiunge una b alla sequenza a + a + b, si ottiene

un'altra figura formale: a + a + b + b, a proposito della quale si parlerà di parallelismo.

In tutti i casi qui esaminati opera un medesimo processo: si tratta di compiere delle operazioni

(soppressione, permutazione, aggiunta), sempre di carattere universale, su un dato di base che serve

da modello, ed è per questo che l'inventario di queste operazioni formali può servire da schema per

delle tipologie comparative. Conviene dare alla nozione di modello tutta la sua forza, poichè, ancora

una volta, la presenza del modello è universale, sia che si tratti della formula I-V-I presente

nell'armonia tonale da Bach a Wagner e sulla quale Schenker ha Così tanto insistito, sia che si discuta

del tema alla base delle variazioni o delle passacaglie in Bach (Variazioni Goldberg), Brahms (quarto

movimento della Quarta sinfonia) o Boulez (Antbèmes), del modello ritmico che funge da punto di

partenza per gli sviluppi virtuosistici dei suonatori di tamburi africani [Arom 1985] e, più in

generale, dei diversi tipi di modelli (modello-composizione, modello-formula, modello di

apprendimento, ecc.) presenti nelle diverse forme di improvvisazione di cui Bernard Lortat-Jacob

stila in questo volume la tipologia e per le quali distingue fra sistemi mono e plurimodali.

Questi processi, poichè poggiano su delle categorie cognitive comuni all'intera specie umana,

non hanno nulla di specificamente musicale ma si ritrovano in tutti i campi dell'attività umana: è per

questo che si dispone allora degli strumenti che permettono di fare l'inventario teorico non solo dei

tipi di organizzazione musicale possibili Così come essi si svolgono nel tempo, e in particolare le

forme, ma anche dei diversi livelli dell'attività musicale.

Gli universali non devono essere cercati solo nelle organizzazioni sonore, bensì in tutte le

componenti del fatto musicale totale: al di là delle strutture musicali, nelle strategie creatrici e

percettive che sono loro collegate, e in tutto ciò che interviene nella composizione, l'esecuzione e

l'ascolto della musica.

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Le stesse operazioni formali, infatti, si applicano a ognuno dei parametri, alle grandi forme

musicali e alle formazioni vocali e strumentali. Uno dei maggiori interessi dell'approccio

paradigmatico nell'analisi musicale [cfr.

Ruwet 1972, capp. ni e iv; Nattiez 1975, Parte III; Arom 1985, II] è di aver dimostrato che le

diverse forme di variazione e di sviluppo risultano dall'applicazione di queste operazioni ai differenti

parametri - melodia, ritmo e armonia. Se le due dimensioni - melodica e ritmica - della sequenza

funzionano in modo indipendente, si ottengono i diversi tipi di ostinato. Le medesime operazioni

spiegano le diverse specie di "grandi forme" distinte dalla tradizione, a partire dalle quali si può

facilmente passare ai generi: le forme binarie (AB) e ternarie (ABA) non sono solo delle forme di

aria o di ouverture, ma sono alla base del rondò e della forma sonata, Così come delle forme strofiche

con o senza ritornello.

Le strategie non sono differenti se, giocando con il numero dei musicisti e/o dei cantanti, si

ottengono i diversi tipi di formazione (solo, duo, trio, ecc.) e di plurivocalità {Mehrstimmigkeit).

Dal quartetto d'archi si passa al quartetto con pianoforte (per soppressione e aggiunta), al

quintetto d'archi (per aggiunta di una seconda viola o di un secondo violoncello), senza parlare delle

formazioni più insolite ma costituite a partire da una medesima base (da uno stesso modello): il

Quintetto di Schubert, “La Trota”, sopprime, dal quintetto con pianoforte, il secondo violino e

aggiunge un contrabbasso. Date a un flautista il primo posto {permutazione dei ruoli) e otterrete il

concerto. Per eseguire la musica della danza Mbaga dei Baganda dell'Uganda [cfr. Nattiez e

Nannyonga-Tamusuza 2003], si ha bisogno di almeno due tamburi (una base percussiva

indispensabile per accompagnare la danza). Nel corso degli anni si sono aggiunti la lira, lo XIlofono,

dei violini monocorde, talvolta sostituiti dai flauti, senza che il fondamento musicale di questa

musica sia cambiato. Si potrebbe scrivere una storia delle formazioni orchestrali dall'epoca barocca

facendo appello a questi giochi universali di trasformazione (soppressione, permutazione, aggiunta),

ma anche sottolineando il ruolo della ripetizione (rafforzamento dello spessore strumentale

dell'orchestra di Mozart all'orchestra di Berlioz) e del contrasto (opposizione degli archi e dei fiati

nella sinfonia e nel concerto classici, "chiaroscuro" dell'oboe e del corno inglese all'inizio della

“Scena nei campi” della Sinfonia fantastica di Berlioz per esempio). Questi procedimenti formali

spiegano che la tipologia delle formazioni strumentali, qui proposta da Giovanni Giuriati, poggia

fondamentalmente sulle relazioni combinatone di dipendenza e d'indipendenza fra solisti e gruppi,

collegate a delle caratteristiche specifiche di timbro o alle possibilità d'espansione del gruppo.

Si può ricorrere alle stesse operazioni formali per spiegare contemporaneamente il numero di

voci o di parti che intervengono in un ensemble e la natura delle loro relazioni e delle loro

combinazioni. E Così che Simha Arom e i suoi collaboratori, nel saggio dedicato nel presente volume

alla tipologia delle tecniche polifoniche, dividono dapprima la monodia dalla polifonia.

| In seguito gli autori distinguono, all'interno dell'universo polifonico, fra l'eterofonia e sei

forme di base di plurilinearità che hanno in comune la presenza di un'organizzazione sistematica,

sull'asse verticale, delle differenti parti, retta da rapporti di ripetizione, di contrasto o di

trasformazione: l'eterofonia, il bordone (le cui diverse manifestazioni dipendono dal numero di

musicisti), l'omoritmia, il contrappunto, l'imitazione, l'hoquet, la poliritmia.

Alla fine, la tipologia espone dettagliatamente le modalità di combinazione fra questi tipi di base.

Insistiamo sul carattere specifico di questi universali, che corrispondono alle proprietà dello

spazio delle sequenze e, più in generale, degli oggetti e dei processi che intervengono nel fatto

musicale totale, provvisto di un certo numero di operazioni formali. E’ soprattutto a questo livello

che si spiegano le somiglianze fra musiche umane e musiche animali e sulle quali insiste Francois-

Bernard Màche [2001]: il fatto che si ritrovino questi modi di organizzazione più o meno

esattamente nel mondo animale dimostra proprio il loro carattere puramente formale probabilmente

fondato nel biologico.

8. Dall'affetto al linguaggio.

L'importanza degli affetti in musica - utilizziamo il termine "affetto" in un senso generico per

coprire l'insieme mal definito di stati d'animo come l'emozione, il sentimento o l'umore - sembra

essere un universale: per McAllester [1971] e numerosi etnomusicologi, è proprio la creazione di una

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“esperienza elevata” che costituisce uno dei rari universali accettabili. Si tratta di una delle due

grandi tradizioni che coesistono e si oppongono in Europa in merito alla natura della musica: essa è

considerata sia come una disciplina astratta fondata sui numeri, sia come un'esperienza affettiva e

morale. Spesso vi è oscillazione dall'una all'altra: se il Romanticismo ha segnato il trionfo della

concezione affettiva, essa è stata lasciata da parte durante gli anni in cui dominavano le concezioni

puramente cognitiviste, per poi tornare più di recente alla ribalta [Juslin e Sloboda 2001].

I problemi posti dal ruolo dell'emozione in musica rappresentano solo un aspetto di una

questione molto più ampia, che interessa tanto gli psicologi quanto i filosofi e gli specialisti di

neuroscienze e di scienze cognitive: che cosa viene prima nell'esperienza umana, il cognitivo o

l'affettivo? Il problema era stato chiaramente posto da due articoli che si rispondevano

nell'“American Psychologist”: On theprimacy ofaffect [Zajonc 1984] e On theprimacy ofcognition

[Lazarus 1984]. Sembra che oggi si assista a una riabilitazione scientifica dell'esperienza affettiva: se

i sentimenti erano considerati, nell'ambito della psicologia tradizionale, come degli stati stabili che

servivano a regolare l'azione, in compenso le emozioni erano interpretate, se non come delle condotte

magiche (Sartre), almeno come degli affetti sregolanti, che disturbavano la percezione oggettiva delle

situazioni impedendo di trovar loro una soluzione razionale adeguata. Ci si è accorti che si trattava di

una concezione di parte e parziale, che poggia su un razionalismo limitato e basato su ciò che

abbiamo potuto definire “errore di Cartesio” [Damasio 1994]. Le emozioni non compaiono

successivamente a colorare una conoscenza del mondo all'inizio oggettiva e razionale: tutti gli stimoli

che riceviamo sono associati, in maniera intrinseca, a degli affetti, che si fanno carico di ciò che si

può chiamare una pre-categorizzazione degli stimoli che orienta e facilita la loro identificazione.

Ecco perchè si tende a vedere anche nell'affetto un fattore essenziale allorchè si prende una decisione

[Berthoz 2003].

Un argomento molto forte in favore del ruolo capitale dell'affetto proviene dagli studi che

riguardano le prime esperienze del neonato e del bambino molto piccolo. Questi sono immersi, prima

della comparsa del linguaggio, in un mondo di natura musicale e ritmica, un mondo di suoni e di s

movimenti che non comprendono del tutto ma al quale si adattano progressivamente. E’ anzitutto nei

rapporti fra madre e bambino, fra i loro gesti e le loro voci, che si verifica una specie di accordo

affettivo che li fa entrare in risonanza emotiva tramite l'intermediazione di un'esperienza

comunicativa che è allo stesso tempo motrice, cognitiva e affettiva: secondo lo psicologo Daniel

Stern, la motivazione orientata verso uno scopo - desiderio di nutrimento o di interazione con la

madre - crea una traiettoria drammatizzata di tensione-crisi-risoluzione correlata a un “ tracciato

soggettivo di picchi e cadute di eccitazione, di suspence e di piacere” che costituisce una veridica

“forma temporale della sensazione” [1995, trad. it. pp. 85-103]. In tal modo si costruiscono degli

“involucri proto-narrativi” che sembrano molto simili a quelli che organizza l'esperienza della musica

[Stern 1998, p. 183]. Esiste dunque una protosemantica ritmico-affettiva che, se non strettamente

primaria in relazione alla semantica cognitiva, è almeno inseparabile da essa: prima ancora di essere

completamente identificati, il timbro di una voce, il suono di uno strumento, una semplice frase

musicale sono immediatamente dotati di un'aura affettiva che costituisce già un giudizio di valore.

Cosa provoca l'emozione musicale quando non si tratta più di un neonato ma di un adulto? Qui

bisogna mettere da parte la prospettiva "provinciale" ed etnocentrica che ci fa vedere nella musica

pura la verità finalmente rivelata di tutta la musica. Poichè si è tentati di associarle un'emozione pura,

del genere definito da Peter Kivy [2002, pp. 125-34], non| avendo come oggetto che la musica stessa,

essa si fonda sulla convinzione che la musica è bella e produce un sentimento specifico, una specie di

esaltazione ammirativa destata dalla bellezza.

Se è legittimo interrogarsi sugli affetti suscitati da questa musica pura - e non è sicuro che essi

siano Così puri come ci viene detto -, non lo è invece vedere in essi l'essenza dell'emozione musicale:

si deve riconoscere la diversità e non cercare, in una prospettiva essenzialista, di definire l'emozione

musicale in generale a partire da quel caso particolare.

Dato che per la maggior parte le musiche sono impure, vale a dire accompagnate dalla danza,

dalla parola o dallo spettacolo, è difficile saper quale ruolo giochi la musica stessa nell'emozione

definita musicale: è solo la musica o l'insieme della situazione nella quale essa viene prodotta e

ascoltata? Possiamo essere aiutati qui dalla distinzione proposta dallo specialista di neuroscienze

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Antonio Damasio fra emozioni primarie e secondarie [1994, trad. it. pp. 192-202]: sulla base di

emozioni primarie, innate, che innescano immediatamente e incosciamente delle reazioni fisiologiche

caratteristiche, si costruiscono delle emozioni secondarie, che poggiano sui legami progressivamente

stabiliti fra queste emozioni primarie e le diverse categorie di oggetti e di situazioni che l'esperienza

presenta. Si comprende allora come gli affetti umani siano dei fenomeni complessi, nei quali

intervengono tutti gli elementi di una cultura riflessi in una storia personale.

La stessa musica gioca un ruolo in queste emozioni globali? Nell'ambito della filosofia analitica,

è stato forte l'interesse per i problemi posti dalle relazioni fra l'opera musicale e l'emozione

[Robinson 2004]: l'emozione è presente nell'opera? E, se essa è presente, lo è perchè l'autore ha

messo la sua emozione oppure perchè essa corrisponde a una proprietà espressiva della musica

stessa? Quali sono i meccanismi attraverso i quali l'opera provoca l'emozione nell'ascoltatore? Al di

là delle discussioni, che spesso assumono un aspetto scolastico, importante e significativa è la

straordinaria convergenza che appare, dietro la diversità delle prospettive e delle formulazioni, fra

teorie diverse quanto quelle di un Hanslick che, pur rifiutando che la musica possa esprimere il

contenuto dei sentimenti, riconosce che essa può esprimerne “la dinamica” [1854, trad. it. p. 48], di

una Susanne Langer - la musica esprime le forme generali del sentimento [1957, p. 238] -, di un

Leonard Meyer, per il quale la risposta affettiva è in gran parte il risultato della “nostra

identificazione fisica all'azione motrice-somatica della musica” [1998, ed. 2000, p. 299], o di un

Peter Kivy con la sua teoria dei “profili” [2002, pp. 31-48]: come dimostrano le prime esperienze

ritmico-affettive del neonato, la musica, organizzazione dinamica del tempo, entra in risonanza con le

forme generali degli affetti umani. Questo spiega al tempo stesso la potenza dei suoi effetti e la loro

relativa indeterminazione: essa costituisce bene, secondo la formula di Susanne Langer, un

“unconsummated symbol” - “simbolo non consumato” - [1957, p. 240], o piuttosto un sistema i cui

significati affondano le loro radici al di qua del simbolico propriamente detto, nell'attività stessa del

corpo e nelle prime forme che assumono le relazioni affettive con le altre.

Al di là del proto-semantismo, esistono due tipi principali di rimandi in musica, caratteristici del

suo funzionamento come forma simbolica: quelli mediante i quali la musica rimanda alla musica (a

ciò che abbiamo appena ascoltato, a ciò che ci si aspetta, alle produzioni musicali che già si

conoscono) e che si possono definire rimandi intrinseci, e quelli mediante i quali la musica rimanda

al mondo extramusicale dei concetti, delle azioni, degli stati emotivi e che si possono definire

rimandi estrinseci [cfr. Meyer 1956, cap. 1; Nattiez 2002-2, 3 e 4]. L'individuo produttore o

ascoltatore di musica associa questi due tipi di rimandi a un orizzonte che è quello della sua

conoscenza del mondo, e questa è vera per tutte le musiche, in tutte le culture. Ma queste due grandi

reti di rimandi, che sono costantemente intrecciate nel fatto musicale, vengono esplicitate

chiaramente solo quando sono scambiate o precisate mediante il linguaggio verbale, così da

determinare il passaggio dal proto-semantico al semantico. Il linguaggio gioca a questo riguardo un

ruolo cruciale, giacchè l'associazione della musica e del linguaggio è una costante: è solo nel XIX e

nel XX secolo che una parte relativamente importante della musica è stata separata da esso. Grazie

alle parole che l'accompagnano, la proto-semantica ritmico-affettiva perde ) la sua ambivalenza e la

sua polisemia: questa plasticità semantica della musica ridotta a se stessa è stata notata spesso, poichè

succede che un compositore riutilizzi la medesima sequenza sonora per associarla a delle parole i che

gli conferiscono un senso completamente diverso, come anche Hanslick aveva sottolineato. Ma il

linguaggio non si limita solo a semantizzare la musica: la integra nella cultura della comunità

assegnandole un posto nella sua visione del mondo. Esso permette così di parlare di musica:

funzionando come metalinguaggio, apre la strada a tutte le teorizzazioni e a tutti i sistemi.

9. Dalle regolarità di superficie alle strategie cognitive.

Il prototipo di sequenza musicale di cui abbiamo stabilito l'esistenza all'inizio di questa ricerca

non può apparire che all'interiaccia "ecologica" fra le proprietà fisiche del suono e le capacità dei

nostri strumenti di ricezione e di trattamento dell'informazione sonora. Le proprietà fisiche del suono

sono state studiate ininterrottamente dalla scoperta pitagorica, ma è soprattutto nell'esplorazione delle

capacità del soggetto musicista che da più di un secolo sono stati compiuti importanti progressi

[Molino 2002]. Appare sempre più chiaro che, contrariamente a ciò che proclamano gli slogans

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esistenzialisti della seconda metà del XX secolo, l'uomo è "naturalmente" determinato: “Nella

musica, non tutto ha un'origine culturale” [Chouard 2001,1 p. 140]. Le diverse discipline interessate -

psicofisiologia [Chouard 2001╠╠ neuropsicologia [Peretz 1994], psicologia infantile [Trehub 2000],

scienze; cognitive in generale [McAdams e Bigand 1994] - conducono a risultati convergenti che

collegano le regolarità del materiale musicale - universali; sostanziali - ai meccanismi fisiologici e

neurologici che li producono - universali di strategia o universali di trattamento (processing

universals). E’ così che l'importanza dell'ottava e soprattutto della quinta e di altri intervalli

corrispondenti a dei rapporti semplici in un gran numero di sistemi musicali, sembra proprio fondarsi

sulle proprietà del nostro apparato percettivo. A un livello più elevato del trattamento del suono, si

può ipotizzare che esistano delle operazioni specifiche e universali - segmentazione,

raggruppamento, ecc. - che costituiscono una grammatica grazie alla quale analizziamo le sequenze

musicali. Nella loro opera A Generative Theory of TonalMusic, Fred Lerdahl e Ray Jackendoff

precisano, all'inizio del capitolo consacrato agli universali, che questi non hanno bisogno di apparire

in tutti i linguaggi musicali (idioms) ma solo al livello delle grammatiche, ossia ai “principi

accessibili a tutti gli ascoltatori esperti che servono a organizzare le superfici musicali che ascoltano”

[1983, p. 278]. Ecco perchè i due autori ipotizzano che solo 14 delle 75 regole da loro proposte per

l'analisi percettiva della musica tonale, sono “idiom specific”, cioè proprie del sistema tonale [ibid.,

pp. 345-52], e suggeriscono cinque principi alla base di queste regole universali [ibid., p. 280]:

esistenza di quattro tipi di organizzazione gerarchica in musica (raggruppamento, struttura metrica,

riduzione dello spazio temporale e riduzione del prolungamento); interazione fra regole di buona

formazione, di preferenza e di trasformazione; nessi dei quattro tipi gerarchici con l'organizzazione

temporale; stabilità delle altezze alla base dell'organizzazione gerarchica; ruolo strutturale dell'inizio

e fine dei raggruppamenti. Nella stessa prospettiva universalista, gli autori de Le regole della musica

[Baroni, Dalmonte e Jacoboni 1999] hanno tentato di estendere le regole elaborate per descrivere lo

stile melodico del compositore barocco Giovanni Legrenzi (1626-90) all'insieme della musica

europea, dal gregoriano a Debussy. Dovrebbe spettare agli etnomusicologi collaudare sul campo

l'ipotesi di una validità universale di queste diverse regole, come d'altronde Lerdahl e Jackendoff

[1983, p. 279] hanno suggerito.

Questi universali sarebbero innati, come suggeriscono Lerdahl e Jackendoff [ibid., p. 281]?

Senza dubbio conviene superare la vecchia querelle dell'innato e dell'acquisito: infatti, le capacità

inscritte nel nostro patrimonio genetico non costituiscono allo stesso tempo l'ambito nel quale si

realizzano le molteplici variazioni che rendono possibile la plasticità del nostro cervello? Sembra

difficile non integrare in una teoria degli universali i fondamenti biologici della nostra attitudine a

costruire e a produrre il nuovo, cosa che, in cambio, crea nuove condizioni per l'apprendimento, la

creazione, l'interpretazione e la percezione.

Conviene dunque fare riferimento, per spiegare il funzionamento della musica e delle strategie

creatrici e percettive che le sono collegate, a quei fondamenti biologici ai quali Meyer dedica la parte

più importante del suo articolo: le possibilità di organizzazione dei fenomeni sonori sono, in

qualunque epoca e cultura, limitate, costrette e condizionate dalle capacità della mente umana [1998,

ed. 2000, p. 284].

Egli propone un primo inventario di ciò che chiama universali biologici.

Un primo tipo di universali corrisponde a delle limitazioni neuro-cognitive: le capacità di

discriminazione dell'orecchio umano spiegano che non esistono delle scale reali - per opposizione a

delle scale puramente teoriche nelle quali lo scarto fra due altezze strutturali sia inferiore al semitono

[ibid]. Sembra che il numero di elementi che la mente umana è capace di discriminare si accordi al

“magico numero sette, più o meno due”, reso popolare dallo psicologo George Miller [1956], che

sembra governare non solo il numero delle altezze in una scala, ma anche il numero di motivi nelle

frasi, delle frasi nei temi, dei temi nelle sezioni, ecc. [Meyer 1998, ed. 2000, p. 285].

In tal modo, la lunghezza dei motivi e dei temi, in una sinfonia di Bruckner, non aumenta in

relazione a ciò che essi sono in una sinfonia di Mozart.

In compenso, il loro numero può aumentare se i movimenti più vasti di sinfonie comprendono

più sezioni rispetto a una forma-sonata classica [ibid]. Sembra di ritrovare in musica la legge di Zipf

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che si applica in linguistica e in base alla quale più un elemento è frequente, più è corto [ibid], il che

pare proprio confermare i Leitmotìve di Wagner.

Secondo tipo di universali: la distinzione fra parametri sintattici e parametri statistici che Meyer

ha da tempo proposto, per lui è universale. I primi sono caratterizzati da un'organizzazione discreta,

da relazioni reciproche e dal legame con i pattern percettivi. Cosi nella musica occidentale: la

melodia, il ritmo, il metro. Sembra che la possibilità di organizzare una sintassi poggi,

universalmente, sulla capacità di un elemento discreto di creare una relazione fra un'attesa e un

sentimento di chiusura. Gli altri parametri (sempre nella musica occidentale) sono "statistici": il

timbro, il tempo e la tessitura [Meyer 1998, in 2000, pp. 286-88]. Ma altrove Meyer [1989, p. 14]

precisa che questa ripartizione non è la stessa secondo le epoche e le culture, e noi aggiungeremmo

volentieri che, a meno di privarsi di spiegare l'evoluzione degli "idiomi" musicali, alcuni parametri

statistici possono acquisire in una stessa cultura, e anche in certe opere, lo statuto di parametri

sintattici, come abbiamo suggerito prima a proposito del timbro.

La mente umana - terzo tipo di universali - ha la tendenza a organizzare gli elementi costitutivi

del fatto musicale in classi: classi di altezze, di intervalli, di forme, di generi, di voci, di strumenti, di

gruppi esecutivi [Meyei 1998, ed. 2000, p. 288], come abbiamo visto nei punti precedenti, e come

illustreranno le diverse tipologie presentate nella seconda parte di questo volume. Questo universale

di strategia corrisponde a ciò che gli psicologi chiamano “percezione categoriale” [ibid., p. 289]; un

esempio è la "blue note" degli appassionati di jazz che viene percepita come tale poichè riferita a una

classe di altezze stabile. Qui intervengono le leggi della Gestalt.

Il funzionamento sintattico e categoriale è ancora possibile in quanto - quarto tipo di universali -

l'intera produzione musicale è divisibile in livelli gerarchici [ibid., p. 290]. Ma, nella musica tonale,

per esempio, anche se le concatenazioni di accordi e di tonalità poggiano sullo stesso principio (il

circolo delle quinte), le relazioni sintattiche funzionali non si manifestano nello stesso modo al livello

della frase musicale e al livello delle sezioni di un movimento di sonata.

Infine, ultimo tipo di universali: poichè le nostre capacità biocognitive sono limitate, le

produzioni musicali sono caratterizzate dall'alto tasso di ridondanza dei loro elementi costitutivi che

vengono a controbilanciare la parte necessaria di novità che esse presentano, e ciò vale sia a livello

dello stile sia della struttura idiosincratica di un brano [ibid., pp. 292-94].

Si potrà rimproverare all'inventario degli universali di strategia di Meyer di essere normativo,

poichè le limitazioni che esso impone portano a respingere i tentativi di musiche fondate tanto sui

micro-intervalli quanto sulla serie generalizzata. Ma, giustamente, questi tentativi non sono

storicamente sopravvissuti, ivi compreso il riconoscimento da parte dei loro promotori, e non è

possibile che ciò succeda poichè si scontrano con delle limitazioni imposte dalle (in)capacità

universali della mente umana.

Allo stesso modo si potrebbe pensare che la fiducia accordata da Meyer (e da noi) agli universali

di strategie biopsicologicamente fondate chiuda la porta al ruolo che giocano la storia e la cultura

nella formazione e nello sviluppo delle produzioni musicali di ogni tipo. Non è affatto vero. Come

dimostra lo stesso Meyer nel seguito del suo testo, Evolution, Choìce, Culture, andMusic History

[ibid., pp. 294-303], e come vedremo più avanti, queste limitazioni non sono le uniche a spiegare i

fatti musicali. Semplicemente, le leggi biopsicologiche forniscono un quadro dal quale la mente

umana non può uscire pena l'obsolescenza, e le cui produzioni sono al contrario colorate e

diversificate dalla specificità di tale evoluzione particolare o di tale contesto culturale specifico

secondo il gioco delle regole (stilistiche) e delle strategie (individuali) [Meyer 1989, pp. 13-23]. Ed è

facendo delle scelte strategiche a partire dalle possibilità definite dalle leggi e dalle regole che

funzionano i produttori e gli ascoltatori di musica. L'autore va persino oltre: l'esistenza di limitazioni

esercitate dai principi dell'evoluzione e dall'ambiente culturale è essa stessa universale [Meyer 1998,

ed. 2000, pp. 294-95], realtà da non confondere con tale phylum dell'evoluzione o talaltra rete

culturale particolare.

10. Contesto e funzione.

Al di là dell'eccezione rappresentata dalla musica "pura" che si è sviluppata in Europa dal XIX

secolo - e che costituisce solo una parte molto limitata della musica eseguita durante tale periodo -, la

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musica è inseparabile dalle funzioni che le danno un senso. Nella sua veste più semplice, essa agisce

come segnale della funzione: è il caso dell'organo che, in seguito a una storia di cui si possono

descrivere le tappe, è divenuto segnale e simbolo della musica religiosa cattolica. Se vi sono, come

nelle tante culture tradizionali, delle corrispondenze strette fra le caratteristiche musicali di un

repertorio specializzato e le circostanze nelle quali esso viene eseguito, la musica veicola allora una

parte più o meno grande della rete di significati che sono a essa associati [Asch 1975]; caso

esemplificativo è lo "stile" severo, che in Europa, a partire dal XVII secolo, assume un valore quasi

esclusivamente religioso. Ma questa associazione della musica a una funzione in generale è un

universale "debole", perchè non ci dice alcunchè della diversità delle funzioni che essa assolve.

Merriam [1964, cap. XI] ne ha proposto un elenco che, se non è sempre coerente nè definitivo, ha

almeno il merito di esistere: funzioni di piacere estetico, di distrazione, di comunicazione, di

rappresentazione simbolica, di risposta fisica, di rafforzamento della conformità alle norme sociali, di

convalida delle istituzioni sociali e dei rituali religiosi, di contributo alla continuità e alla stabilità

della cultura. Siccome questa lista mescola gli usi e le funzioni, converrebbe riprenderla a partire dal

caso particolare. L'inventario delle “circostanze” {occasioni) proposto da Charles Boilès [1978]

meriterebbe, anch'esso, di essere riesaminato. A questo punto forse è necessario mettere in atto delle

considerazioni storiche e filogenetiche: l'importanza dei nessi fra la musica e i riti e le cerimonie

collettive manifesta il ruolo che ha potuto giocare la musica come fattore di socializzazione

[Dissanayake 2000; Freeman 2000].

11. Arte ed estetica.

Se vi è una convinzione profondamente radicata nella mente della maggior parte degli

etnomusicologi, e più in generale degli etnologi, è proprio quella che l'arte e l'atteggiamento estetico

non siano degli universali. All'antica mitologia della superiorità e della vocazione universale della

Grande Arte europea è succeduta una “nuova mitologia”, quella della non universalità dell'arte e

dell'estetica [Dutton 1995], che si basa su un principio ripetuto e variato in tutte le maniere possibili:

“Ma essi non hanno il nostro; concetto di arte” [Dutton 2000]. Il tema è sviluppato secondo

un'argomentazione diventata canonica: noi abbiamo un'Arte pura, una Musica as| soluta, oggetto di

un'attenzione disinteressata che definisce l'Estetica, mentre gli Altri non conoscono che musiche

funzionali strettamente legate ad altre attività sociali. Con la sua consueta perspicacia, Bruno Nettl

[1973,9 pp. 12-13] faceva osservare che le cose non erano così semplici: noi stessi abbiamo delle

musiche patriottiche, militari o religiose, e si può essere certi che gli Altri non abbiano delle musiche

da divertimento, delle musiche apprezzate per il piacere che esse danno o per la loro bellezza? In

realtà, gli etnologi si ingegnano spesso per rendere le culture altre più esotiche di quanto non lo

siano [Dutton 2000, pp. 217-29]: nell'intenzione lodevole di attirare l'attenzione sulla specificità della

cultura che studiano, essi tentano: di farla apparire la(e) più strana(e) possibile. Per dimostrare che

non vi è arte o esperienza estetica, si paragona più o meno esplicitamente tale oggetto religioso o

magico a una pittura contemporanea fatta per essere esposta in un museo. Ma questa è la prova di

uno straordinario "modernocenttrismo", che altro non è che una delle forme più perniciose di

etnocentrismo: significa fermarsi alla comprensione della maggior parte della tradizione artistica

europea. Quando i fedeli della Thomaskirche di Lipsia la domenica ascoltavano una cantata scritta

dal loro coscienzioso Cantor Johann Sebastian Bach, essi erano in uno stato d'animo più vicino a

quello di un ascoltatore contemporaneo di concerto o a quello del partecipante a una cerimonia

religiosa "primitiva"? Porre la domanda, non significa già rispondervi? No, la musica assoluta e la

pittura astratta, l'Arte con l'A maiuscola di Duchamp e Cage non sono la verità finalmente rivelata

dell'Arte e della Musica "in sè", esse ne rappresentano solo delle varianti, e molto marginali.

Tanto più che bisogna far intervenire due ambiti che si dimenticano quando si guarda in

cagnesco la nostra arte contemporanea e le pratiche delle società tradizionali. Da un lato esistono le

grandi tradizioni letterate, dalla Cina al Giappone all'India e al mondo arabo-islamico, nelle quali si

ritrovano dei fenomeni paragonabili a quelli che caratterizzano la Grande Arte europea. Dall'altro vi

sono sempre state in Europa, come altrove, delle attività che, pur situandosi al di fuori della Grande

Arte, non possono essere escluse dalla sfera dell'arte nel senso comune del termine, vale a dire delle

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attività nelle quali intervengono la preoccupazione del ben fatto, dell'ornamento e della bellezza:

pensiamo al vasto continente delle "Arti Popolari".

Non appena si considerano seriamente tanto le diverse tradizioni occidentali che l'insieme delle

altre tradizioni, non si può più rimanere fermi alla concezione di due mondi che si oppongono - il

mondo dell'Estetica e dell'Arte pure senza paragone con il mondo della tecnica e dell'utile - poichè

vediamo emergere fra loro una moltitudine di somiglianze e il campo è finalmente libero per la

ricerca di universali.

Bisogna allora partire dall'inizio, ossia da ricerche sul lessico e sui concetti.

Quando negli anni Sessanta ci si rivolse all'antropologia cognitiva [Tyler 1969], l'interesse

verteva su tutti i tipi di categorie "etniche" - dalla parentela all'etnobotanica o all'etnomedicina - ma si

affrontava solo di rado il campo dell'arte e dell'estetica. Eppure, chi potrebbe negare che in tutte le

culture conosciute esistano dei termini inerenti ai tre ambiti concettuali differenziati da una

semiologia delle forme simboliche - l'ambito dell'arte, vale a dire della produzione, l'ambito della

bellezza, cioè dell'oggetto e delle sue caratteristiche, e infine l'ambito dell'estetica, cioè della

ricezione? La distinzione fra le tre dimensioni s'impone tanto più qui, poichè essa permette di

dissipare le ambiguità e le confusioni che oggi circondano le questioni relative agli ambiti

rispettivamente dell'arte e dell'estetica: non si sa più se l'estetica sia, come la intendevano i suoi

fondatori Baumgarten e Kant, una teoria della ricezione che poggia sia sul bello naturale che sul bello

artistico o se, secondo il ribaltamento operato da Hegel, essa si identifichi con la teoria dell'arte.

Siccome la Bellezza non ha più diritto di cittadinanza nella Grande Arte occidentale contemporanea,

che ha d'altronde accolto alla rinfusa nel suo grembo le produzioni di tutte le altre culture, le condotte

di produzione e le proprietà dell'oggetto sono passate in secondo piano: tutto verte adesso sulle

condotte di ricezione e "sull'esistenza di un ipotetico atteggiamento estetico.

Noi lasciamo da parte quest'ambito della ricezione, poiché sarà affrontato da uno di noi infine di

questo volume (Molino) nel tentativo di estrarre qualche elemento fondamentale dell'esperienza

musicale. Ricordiamo, per riutilizzarli qui, due punti di quest'analisi: l'esperienza estetica non è una

realtà semplice, riducibile a una essenza, a una definizione mediante condizioni necessarie e

sufficienti, bensì un misto, una combinazione di elementi eterogenei, variabili secondo le culture.

Ma, ed è il secondo punto, questi non sono elementi qualsiasi: ritroviamo ovunque le stesse

componenti, che costituiscono dei veri phyla, vale a dire dei parametri dell'esperienza che si

presentano sotto forme differenti nelle diverse culture poichè si evolvono e si trasformano a partire

da un fondamento antropologico comune.

Per quanto concerne l'ambito della produzione, conviene in primo luogo ricordare che l'arte

appartiene all'ordine del fare e che, se può essere l'oggetto di una esperienza estetica, lo stesso

avviene per le realtà naturali: è anzitutto l'oggetto di una esperienza specifica - l'esperienza poietica -

e in tutte le culture esiste un lessico specializzato della fabbricazione e della produzione. E’ in questo

contesto che si pone il problema dell'ontologia dell'arte [Thomasson 2004]. Anzichè sottilizzare a

partire da un'ontologia talmente povera da non conoscere che le categorie del concreto e dell'astratto,

del reale e dell'immaginario, occorre riconoscere la specificità dell'essere poietico: Esiste un mondo

poietico, composto da esseri poietici, che risiede nel mondo della natura ma specificamente distinto

da esso [Gilson 1963, p. 152].

Tuttavia, a differenza di Gilson e di quasi tutta la tradizione filosofica, è essenziale sottolineare

che il mondo poietico comprende gli oggetti tecnici Così come le opere d'arte. Vuoi dire che la

tradizione filosofica è una tradizione di "letterati" che ignorano o disprezzano la tecnica: Aristotele

ovviamente non dice una parola sulla tecnica nella sua Poetica che pure è, ricordiamolo, una

"poietica", cioè un trattato della produzione. Accanto al mondo fisico naturale e al mondo mentale,

occorre dunque far posto a un mondo di artefatti dove convivono oggetti tecnici e opere d'arte. Si

spiega Così l'esistenza in tutte le società di un continuum che va dalla tecnica più utilitaria - ma

esiste un utile puro senza traccia di dilettevole? - all'Arte più o meno pura: ovunque ci sono oggetti

costruiti più o meno rapidamente, con maggiore o minore cura, fabbricati con una materia più o

meno ricca,, più o meno rara, più o meno decorati... E’ il caso degli strumenti musicali, della danza

e senza dubbio anche, secondo modalità che converrebbe precisare, della stessa "materia" musicale.

Si comprende perchè nelle diverse culture è all'interno di ciò che chiamiamo tecnica - technè greca,

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ars latina o arte medievale - che la pratica sociale accorda un valore e un prestigio maggiore a questa

corporazione o a quel tipo di produzione. La tecnica si lega all'arte grazie al phylum dell'abilità che

permette di fare bene e porta, più oltre, all'eccellenza e al virtuosismo, caratteristiche che anche

l'artigianoartista conferisce a ciò che produce.

Si è Così portati a esplorare un ultimo campo, quello della Bellezza e delle proprietà dell'oggetto

prodotto. E importante innanzitutto ricordare che tutte le culture posseggono un ricco lessico della

Bellezza, anche se i dettagli di significato di ogni parola dell'insieme non corrispondono esattamente

ai valori dei termini nelle lingue europee contemporanee. In questo campo, un serio pretendente al

titolo di universale è senza dubbio l'associazione diffusa fra il bello e il buono, presente, molto spesso

lo si dimentica, nella stessa tradizione europea: il kalos greco significa al tempo stesso e secondo i

contesti "bello da vedere", di frequente con una sfumatura erotica, "utile" e "perbene, socialmente e

moralmente buono". Questa associazione non impediva agli antichi Greci di saper distinguere il bello

dall'utile, non più che la loro fede impediva agli uomini del Medioevo europeo di riconoscere

l'esistenza della Bellezza. Nulla è più significativo a questo proposito delle straordinarie formule con

le quali san Bernardo di Chiaravalle condanna il lusso e le decorazioni fantastiche delle chiese e dei

monasteri romanici: Nei monasteri, di fronte ai frati che stanno leggendo, a cosa serve questa

mostruosità ridicola, questa stupefacente bellezza laida, questa bella bruttezza? [Bernard de

Clairvaux, in Migne 1844-65, CLXXXII, col. 915].

In tutte le culture è frequente l'uso sistematico del vocabolario della Bellezza per parlare bene

degli esseri umani, degli oggetti fabbricati o delle realtà naturali. E’ solo in qualche "alta cultura",

Cina o Europa contemporanea, che la Grande Arte rifiuta la Bellezza.

Lasceremo da parte le discussioni che hanno interessato nell'ambito della filosofia analitica

anglofona l'esistenza e lo statuto delle qualità "estetiche" dell'oggetto [Sibley 1959]; noi ci situiamo

in una prospettiva "realista" - nel senso filosofico del termine -, fedele alle intuizioni del senso

comune: la Bellezza è presente nell'oggetto e non solo nel soggetto che percepisce.

Abbiamo già visto l'importanza del saper fare, che il creatore è cosciente di mettere nella sua

produzione e di cui l'ascoltatore o lo spettatore riconosce la presenza in ciò che è stato prodotto. Ma

altri fattori intervengono nella bellezza di un'opera e costituiscono altrettanti phyla presenti ovunque

in proporzioni e sotto forme variabili. E’ il caso di quella specie di bellezza che si basa sulle relazioni

che uniscono la forma alla funzione e che corrisponde alla frequente associazione del bello al buono

e all'utile: un'opera bella è un'opera che corrisponde esattamente alla sua funzione. Non vi è dunque

nulla di sorprendente se dappertutto si ritrova questa sensibilità alla bellezza funzionale, dalle

comunità ristrette fino all'arte contemporanea.

Il senso della bellezza funzionale non è tuttavia incompatibile con la ricerca dell'ornamento, che

può accompagnare ogni oggetto utile, arricchirlo e prendere al tempo stesso ogni sorta di significato

supplementare [Boas 1927]. Accanto all'ornamento si deve far posto alla rappresentazione, in uso fin

dall'arte paleolitica, e di cui non bisogna dimenticare il ruolo che gioca nella musica, dall'imitazione

dei versi di animali e dei rumori della natura fino alle musiche imitative della tradizione europea.

Peraltro, ornamentazione e rappresentazione sono molto spesso inseparabili dai valori simbolici che

vengono loro riconosciuti nella cultura.

Al di qua di questi phyla, esistono delle proprietà formali che sarebbero comuni a tutti gli oggetti

considerati come belli in tutte le culture? La ricerca non è stata affatto intrapresa nel campo musicale

e per il momento ci si deve accontentare di caratteristiche molto generali che si applicano più

facilmente alle arti plastiche che alla musica. Sappiamo che gli Scolastici definivano la bellezza sulla

base della presenza di tre qualità: integritas o "integrità", harmonia o "armonia" e claritas o

"splendore" [Gilson 1963, pp.46-49]. E’ significativo che le medesime nozioni si ritrovino, benchè

espresse in un vocabolario diverso e trasposto dall'oggetto all'esperienza estetica come è d'uso nel

nostro mondo soggettivista, nell'opera dell'esteta americano contemporaneo Monroe Beardsley:

l'esperienza estetica è caratterizzata dall'unità, afferma Beardsley, dalla complessità e dall'intensità

[1981, pp. 529-30]. Uno di noi due ha suggerito di ritrovare queste categorie sia nella musica di una

danza di iniziazione al matrimonio dei Baganda sia in Rèpons di Boulez... [Nattiez 2004, pp. 61-64].

Si comprende l'interesse per ricerche comparative che permettano di scoprire le qualità che gli

ascoltatori concordano nel riconoscere nelle opere musicali che reputano belle. Raramente il lavoro è

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stato realizzato, in misura minore per la musica che per le arti plastiche, campo per il quale si dispone

di qualche dato: si è constatato, per esempio, che i criteri sui quali si basano gli Yoruba per giudicare

le loro sculture si riallacciano molto spesso a quelli che utilizzano gli amateurs europei [Thompson

1968]. Ancora più notevoli sono stati i risultati ottenuti da Irvin L. Child e Leon Siroto: nel

paragonare i giudizi espressi sulle maschere BaKwele dai membri di questa cultura e dagli studenti

americani, nonostante qualche discrepanza, i due studiosi hanno ritrovato una notevole convergenza

delle valutazioni [Child e Siroto 1965].

E’ lo zoccolo antropologico comune che spiega la frequenza degli scambi fra musiche

appartenenti a tradizioni diverse: sembra che ovunque si siano sempre apprezzate altre forme d'arte

che non le proprie. Nulla è più giudicativo a questo proposito della facilità con la quale l'arte

romanica europea ha preso in prestito e integrato elementi plastici derivati dalle culture più diverse.

Viceversa, come non essere affascinati dal destino dell'orafo? francese Guillaume Boucher che, fatto

prigioniero dai Mongoli, diventa l'orafo del sovrano mongolo Mòngkà il quale sembra apprezzare

l'oreficeria dell'epoca gotica [Olschki 1946]? Fenomeni analoghi si ritrovano in musica, come

testimonia per esempio il modo in cui durante la dinastia Tang le classi dirigenti cinesi hanno

adottato con entusiasmo le musiche e le danze di origine straniera. E’ in questo ambito generale che

occorre collocare gli scambi contemporanei fra culture: le “Tourist Arts” di oggi [Graburn 1976] non

costituiscono altro che un nuovo episodio dell'incessante dialettica di influenze e di prestiti che

appaiono proprio come una testimonianza dell'unità delle pratiche artistiche dell'umanità.

12. Storia ed evoluzione.

Le musiche cambiano, una verità valida sia per le musiche di tradizione orale che per la musica

europea: i ritmi e le modalità del cambiamento sono variabili ma la realtà del cambiamento è una

costante e costituisce Così una specie di universale. Abbiamo visto che gli universali musicali hanno

delle radici antropologiche ma si presentano sotto forma di phyla, vale a dire di discendenze

evolutive che si trasformano nel corso del tempo: come spiegare dunque le costanti e i cambiamenti?

Il loro studio è reso difficoltoso dall'esistenza di due campi di ricerca, ognuno associato a un

approccio specifico. Da un lato vi è il campo della musica europea, che è parte integrante della storia:

studiare la musica europea significa collegare le opere a uno stile e precisare la loro collocazione in

un'evoluzione lineare e teleologica. Dall'altro lato vi è il campo dell'etnomusicologia, che si situa

quasi esclusivamente sul piano sincronico: si studia una cultura musicale nel suo funzionamento

attuale senza preoccuparsi delle sue trasformazioni. In linea di massima l'etnomusicologia rifiuta la

storia perchè non ci sono documenti, perchè si è a lungo creduto che si trattasse di società "fredde"

che sfuggivano alla storia, perchè ci si interessa maggiormente all'esperienza musicale vissuta

piuttosto che ai problemi posti dal cambiamento. Aggiungiamo che fra la storia europea e il presente

dell'etnomusicologia si colloca un campo ambiguo, quello delle grandi tradizioni letterate, dalla Cina

e dal Giappone all'India e al mondo arabo-islamico. Per lungo tempo si è considerata la loro musica,

Così come la loro arte e la loro civiltà, come delle totalità statiche e chiuse in loro stesse, che si

potevano considerare nella loro globalità. Ora ci si è accorti, e ci si accorge sempre pi∙, che questa

prospettiva era il risultato dell'ignoranza e del disprezzo, e che quelle musiche hanno una storia

altrettanto ricca, altrettanto complessa di quella dell'Europa, come si è potuto vedere nel volume III

di questa Enciclopedia.

Occorre allora fermarsi a questo dualismo di approccio con una storia lineare, da un lato, e una

sincronia che giustappone delle culture musicali senza rapporti fra loro, dall'altro? Sarebbe

auspicabile incamminarsi sulla strada dell'unificazione dei metodi. La musicologia potrebbe ispirarsi

alla linguistica storica e comparata che, da due secoli, è riuscita a stabilire dei rapporti genealogici fra

le diverse lingue parlate nel mondo: perchè non tentare, sullo stesso modello, di stabilire la

genealogia di culture musicali legate da rapporti di filiazione? Tali ricerche potrebbero collocarsi

sotto il patrocinio di Sir William Jones, autore di un memorabile trattato intitolato On the musical

modes of the Hindus [1799] e uno dei primi ad aver riconosciuto, nel 1786, la parentela fra le lingue

indoeuropee.

Un rinnovamento dei metodi potrebbe anche venire, come proposto da Leonard Meyer, dalla

biologia e dalla teoria dell'evoluzione: Dato il costante interesse che essi rivolgono ai concetti legati

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all'organicismo, è strano che i musicologi (e gli specialisti di scienze umane in generale) abbiano

ignorato la biologia, trascurando in particolare le analisi neodarwiniane del cambiamento e della

diffusione che suggeriscono feconde modalità di comprensione della storia della musica [1998, ed.

2000, p. 300].

Non bisogna dimenticare infatti che la linguistica storica e la teoria dell'evoluzione poggiano su

un modello di spiegazione analogo, il modello di “derivazione storica” [Comrie 1981]. E’ vero che

l'evoluzione culturale si distingue per almeno tre tratti dall'evoluzione biologica: trasmissione dei

caratteri acquisiti, evoluzione orientata secondo direzioni privilegiate, relativa libertà di scelta degli

attori. Ma queste differenze non tolgono nulla alla pertinenza dello schema generale dell'evoluzione

darwiniana, che permette, in particolare, di liberare la storia da ogni finalità e da ogni linearità: la

storia umana, e la storia della musica come le altre, non hanno un fine prestabilito nè un itinerario

provvidenziale. Conviene dunque rifare la storia della musica, di tutte le musiche, a partire dai

medesimi principi: comparsa di un'innovazione (variazione) che si ripete, si trasmette e si diffonde

oppure no (selezione e replica) e che nell'ambito di una comunità da vita a una cultura musicale

particolare (isolamento relativo delle popolazioni).

Si potrebbe in tal modo capire meglio come la musica abbia un fondamento nella nostra natura -

è ciò che spiega la sua universalità e la sua unità - ma come essa sia, fin dalle origini, ricca di tutte le

possibilità che le diverse culture sfrutteranno.