MOLINO e NATTIEZ Tipologie e Universali
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capitolo sedicesimo.
JEAN MOLINO e JEAN-JACQUES NATTIEZ Tipologie e universali
Premessa indispensabile alla ricerca degli universali della musica è la conoscenza della
situazione in cui ci troviamo attualmente. Nel mondo esistono alcune migliaia di "culture musicali",
tutte diverse. Queste sono composte da molteplici pratiche che solo raramente sono riunite sotto un
concetto paragonabile a ciò che noi intendiamo per musica; siamo quindi noi che, a partire dalla
nostra esperienza, le accostiamo fra loro e a noi stessi. Fra queste pratiche, che si è portati a collegare
alle altre a causa delle relazioni che le uniscono in seno alla cultura presa in considerazione, alcune
sembrano completamente estranee al nostro concetto di musica, ma è altrettanto evidente che fra due
qualsiasi di queste culture musicali esistono numerose somiglianze.
Da un secolo a questa parte si assiste a una progressiva estensione del nostro concetto di musica
sotto l'influenza di tre fattori: una conoscenza sempre più ampia e sempre più approfondita delle
musiche extraeuropee, lo sviluppo delle musiche contemporanee e la riscoperta di aspetti dimenticati
della nostra storia musicale. Si è Così instaurata una dialettica di adattamento reciproco fra la nostra
tradizione musicale e le musiche scoperte o riscoperte, dialettica che, mentre si facevano rientrare le
altre tradizioni musicali in un concetto più allargato, ha modificato la nostra concezione della musica
I confini e il contenuto di ciò che chiamiamo provvisoriamente musica sono dunque variabili e
non possono rientrare in una semplice definizione.
Per rispondere alla sfida lanciata da questa diversità, conviene in un primo tempo fare
l'inventario delle diverse configurazioni sotto cui essa si presenta; vediamo in tal modo apparire delle
distinzioni e delle associazioni privilegiate: il misurato si oppone al non misurato, il religioso al
profano, il suono naturale è associato al suono umano, il canto alla poesia, alla danza o alle
circostanze... Constatiamo che non si tratta di ripartizioni aleatorie ma di regolarità che dovrebbero
portare a una prima tipologia. In un secondo tempo si possono ricostruire le totalità vissute, in cui
non vi è alcuna ragione per riconoscere un privilegio indebito alla musica pura. Ma non bisogna
fermarsi alle nomenclature poichè costituiscono solo una delle dimensioni della conoscenza: bisogna
cercare di liberare le reti che nella mente dei componenti della cultura collegano i suoni, i ritmi, le
parole e le circostanze indipendentemente dalle classificazioni linguistiche. A partire dalla nostra
nozione di musica pura, abbiamo finora utilizzato la presenza di suono organizzato come criterio
utile a delimitare provvisoriamente il campo del "musicale": come già detto, abbiamo analizzato la
cultura attraverso il filtro del sonoro. Questa scelta usa violenza verso il reale? Notiamo che il
culturalista più convinto, che mette in dubbio l'esistenza della "musica" nelle altre società, s'interessa
sempre a delle attività nelle quali interviene il sonoro! E dunque legittimo ipotizzare che il sonoro
costituisca il tratto differenziale del musicale. E’ un'ipotesi naturale e sulla quale si può sempre
ritornare qualora non porti a risultati soddisfacenti; ad ogni modo, non mira a rendere conto che di
una parte dei fenomeni: essa deve essere ampliata e completata da altre ricerche. E’ anche l'ipotesi
che consente di mettere in evidenza ciò che Max Weber chiamava la “logica intrinseca”
(Eigengesetzlichkeit) di ogni sfera della vita sociale [Weber 1915, passim]. La musica come fatto
sociale totale dipende, per una parte che ne assicura la specificità, dall'organizzazione alla quale essa
sottopone il mondo sonoro. Ma ciò non vieta, tutt'altro, di cercare e di dare risalto agli universali
nelle altre dimensioni di questa totalità, universali cognitivi, semantici o pragmatici.
Si tratta dunque di una forma simbolica specifica dai contorni variabili ma che gravitano intorno
al sonoro. Se ne può proporre una definizione più precisa? E’ chiaro che non deve essere associata a
delle caratteristiche prese a prestito dalla tradizione teorica della musica europea come le altezze
discrete, il che porterebbe a escludere dalla musica tanto la musica elettroacustica quanto i glissandi
presenti in numerose musiche. Vale a dire che, logicamente, una caratterizzazione più dettagliata non
potrebbe essere data che alla fine della ricerca, una volta conosciute le dimensioni di variabilità del
fenomeno grazie alle quali si sarebbe in grado di determinare le "possibilità musicali" dell'uomo. Ciò
che in compenso si può fin d'ora affermare è che queste possibilità poggiano su un substrato
antropologico e filogenetico [Molino 1988; 1991; 2005], già presentato nel volume II di questa
Enciclopedia [Nattiez 2002#, pp. XXx-XXXIV]; questo substrato garantisce l'esistenza di tipi e di
universali: la "facoltà musicale" si fonda sulle capacità della specie.
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Proporremo alcuni candidati alla dignità di tipi e di universali ma presenteremo anche, e forse
soprattutto, un bilancio dello stato delle nostre conoscenze nei differenti campi della ricerca
musicologica. Ovviamente non si tratta che di un programma di ricerca, nel quale in molti casi non
facciamo altro che riprendere dei suggerimenti già proposti ma presentandoli in maniera più
sistematica.
1. Un prototipo di sequenza musicale.
Iniziamo con lo stabilire l'esistenza universale di una sequenza musicale elementare, di cui un
certo numero di etnomusicologi ha avanzato l'ipotesi [Arom 2000; Nettl 2000]. Questa sequenza è
costituita dai seguenti elementi: 1) è vocale; 2) è costruita sui gradi di una scala; 3) possiede
contemporaneamente un'organizzazione ritmico-corporea. Constatiamo che questa sequenza minima
non è una realtà semplice, ma un misto, composto da almeno tre elementi: la voce, i gradi di una
scala e il ritmo, che stabilisce un legame diretto con la danza. I tre elementi che costituiscono la
sequenza di base non sono altro che degli universali strutturali generali i quali, per utilizzare una
metafora presa a prestito dalla grammatica generativa, si riscrivono in modo diverso a seconda delle
"lingue" musicali: ognuno di essi da vita a nuove tipologie.
Precisiamo bene lo statuto di questa sequenza: non viene considerata come primitiva e non si
trova alla base di tutte le produzioni musicali di tutte le culture. Essa corrisponde al tipo di universale
che Bruno Nettl definisce in risposta alla domanda: “Ma, comunque siano classificati, esistono dei
tratti condivisi da tutte le musiche, anche se possono non apparire in ogni manifestazione di ognuna
di queste musiche?” [1977, p. 4]. Si tratta di un prototipo del quale si ipotizza che si ritrovi in tutte le
culture conosciute.
Non sembra esservi un controesempio e la scoperta di uno o più controesempi non farebbe che
arricchire le nostre conoscenze costringendoci a elaborare una nuova tipologia.
2. Ecologia sonora la musica e i rumori del mondo.
Il prototipo di sequenza vocale Così come l'abbiamo definito è stato isolato dal suo contesto
sonoro: i rumori e le musiche del mondo. Ora è naturale che queste produzioni sonore giochino un
ruolo nelle musiche umane, poichè esse sono un elemento dell'ambiente e l'apparato uditivo umano si
è formato allo scopo di poter procedere all'analisi delle scene uditive [Bregman 1994]. Questi rumori
possono essere integrati in ciò che i membri di una cultura considerano come musica, dato che le
culture tradizionali non fissano un confine netto fra la natura e l'uomo. Ci sono dei casi in cui i
membri di una comunità utilizzano i rumori del mondo come metalinguaggio: è ciò che avviene
presso i Kaluli della Nuova Guinea, i quali impiegano il vocabolario dell'acqua e delle cascate
d'acqua per parlare della loro musica [Feld 1982]. Infine l'esistenza fianco a fianco di una musica
umana e di una musica naturale conduce a una dialettica di imitazione del mondo sonoro da parte
dell'uomo: nascono Così le musiche denominate musiche imitative o musiche descrittive. Li si trova
senza dubbio una caratteristica universale delle musiche umane: i rumori del mondo e in particolare
quelli che provengono dagli esseri viventi servono da “modelli” [Màche 2001, pp. 129-149] che ogni
tradizione seleziona e utilizza per elaborare la propria musica.
Si tratta di un fenomeno che dipende dall'interazione fra l'organismo e il suo ambiente ecologico.
Questa dimensione mimetica della musica non si limita all'imitazione dei rumori e dei versi degli
animali. L'esistenza di diversi tipi di produzioni sonore da vita a dialettiche complesse d'imitazione
reciproca, come nel caso della voce e degli strumenti. Su tutti questi punti mancano ancora,
purtroppo, delle ricerche locali che dovrebbero permettere di costruire delle tipologie e di ricercare
degli universali.
3. Voce
Ciò che è successo con la voce è caratteristico dello scossone provocato dalle scoperte
etnomusicologiche. Per la musicologia europea la situazione era semplice: da un lato vi era la parola,
quella che corrispondeva alle caratteristiche foniche e all'elocuzione normativa per le lingue
conosciute, e dall'altro il canto, un canto che non si esitava a definire come “naturale”: da nessuna
parte fuori dall'Occidente moderno la gente canta con una voce per la quale abbiamo coniato il titolo
onorifico di "naturale" [Sachs 1962, p. 85].
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Non molto tempo fa, Andre Schaeffner, buon conoscitore anche delle musiche di tradizione
orale, non esitava ad affermare: “Ora noi non dubitiamo che esista un canto "naturale"“ [1960, p. 78].
Ci si è accorti che vi erano ben altri modi di cantare rispetto al nostro e che questa voce falsamente
naturale era in realtà il risultato di una lunga costruzione culturale che a poco a poco aveva fatto
emergere la famosa formante dei cantanti. Si sono studiate nuove lingue con caratteristiche prima
sconosciute e si è scoperto tutto un mondo di utilizzazioni della voce veramente inaudite. Non solo vi
è una straordinaria varietà di stili di parola e di canto, ma anche tutta una serie di "forme intermedie"
- come lo Sprecbgesang di Schònberg o i richiami del muezzin -, che fanno saltare la semplice
opposizione fra i due poli tradizionali: la diversità degli usi dimostra che le diverse culture hanno
esplorato in maniera costruttiva lo spazio della voce e i parametri che la determinano.
Si comprende allora come sia impellente, dopo la prima sorpresa di ammirazione che accoglie la
scoperta di affascinanti realizzazioni - dallo yodel al katajjaq e al canto difonico, ad esempio -,
passare all'esplorazione sistematica di questo nuovo continente. A tale riguardo bisogna apprezzare
l'importante tentativo di classificazione realizzato dall'equipe che ha elaboratoj'antologia Les voixdu
monde [Lèothaud, Lortat-Jacob e Zemp 1996], classificazione oggetto di un saggio di Gilles
Lèothaud in questa sede. Sottolineiamo di passaggio l'importanza della classificazione nella
costruzione del sapere. Era di buon gusto, al tempo dello strutturalismo e della grammatica
generativa, prendere in giro ciò che si preferiva definire in senso peggiorativo tassonomia. Ora, non
esistono scorciatoie per arrivare alla conoscenza: piuttosto che estasiarsi della diversità del mondo
umano, è meglio, come hanno fatto da secoli gli specialisti delle scienze naturali, consacrarsi
all'inventario delle sue ricchezze. E’ quindi senza dubbio troppo presto per andare alla ricerca di
universali vocali, a eccezione ovviamente di quell'indiscutibile universale che è la voce stessa: è
ancor più necessario ricordare questa banalità visto che lo sviluppo della nozione di musica pura in
Europa ha spesso fatto sottovalutare, e prima di tutto nella nostra cultura, il ruolo centrale della voce
nella musica.
4. Strumenti
L'uomo produce dei suoni con la voce ma anche col resto del suo corpo: percuotendo il suolo
con i piedi, battendo le mani, percuotendo il suo petto o le sue gambe. L'attività musicale in tal modo
fa parte di ciò che l'antropologo Marcel Mauss [1947] ha chiamato “tecniche del corpo”, dando vita a
una vera “musica corporea” [Schaeffner 1946, p. 18]. D'altronde l'uomo diviene ben presto un
collezionista di fossili e di pietre rare, fin dall'Acheuleano [Lorblanchet 1999, pp. 89-102]: benchè
non ne rimanga alcuna traccia, come non immaginare che questi uomini non abbiano provato la
curiosità di esplorare il mondo dei suoni esercitandosi nel produrne in tutte le maniere, con tutti i
materiali possibili, come fanno da sempre i bambini, che sembrano provare un estremo piacere nel
"fare rumore"? Come dice eloquentemente Francois Delalande [1984], “la musica è un gioco da
bambini”. Ma l'uomo è anche homo faber, e si passa mediante transizioni impercettibili dal corpo e
dalla produzione diretta dei suoni allo strumento: al corpo si appendono e si attaccano sonagli,
ninnoli o campanelli il cui rumore accompagna e sottolinea il ritmo della danza. L'uomo costruisce
strumenti e li suona: il nome dello strumento evidenzia la fattività umana all'opera nella musica e i
vincoli che uniscono l'arte e la tecnica. Lo strumento inscrive doppiamente la musica nell'attività
umana: bisogna costruirlo mediante una serie di attrezzi e di gesti complessi, ma bisogna altresì
suonarlo e nulla è più straordinario della varietà delle utilizzazioni di uno stesso strumento, che si
basano su tecniche impreviste e talvolta addirittura inconcepibili. Ritroviamo qui la stessa esplosione
creativa, che mira a esplorare tutte le risorse nate dall'incontro fra lo strumento e le capacità umane
(questo non nell'ambito di una sola cultura, ma allorchè si prende in considerazione l'insieme delle
culture che hanno utilizzato lo stesso strumento). Non ci si può che rammaricare del fatto che gli
antropologi non integrino le tecniche musicali nelle altre tecniche del corpo, come se fosse necessario
separare dalla serietà della vita economica il superfluo dell'arte e della musica: Così come esiste
un'organologia, sarebbe altrettanto utile e appassionante costituire una "ergologia" musicale che
facesse il bilancio di tutti gli atteggiamenti e i gesti che agiscono nella musica confrontandoli con i
gesti utilizzati nelle tecniche “utilitarie” [Delalande 1992].
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Una domanda si impone legittimamente: lo strumento è universale? Se è vero che non esiste
musica senza la voce, si può dire lo stesso per gli strumenti? Ovviamente si conservano più tracce
degli strumenti che della voce e siamo certi dell'esistenza di flauti dall'inizio del Paleolitico superiore.
In ogni modo è auspicabile non porre più al centro del dibattito la questione delle origini, che ha
ossessionato i musicologi troppo a lungo: l'essenziale è prendere atto di questa antichità degli
strumenti e scorgere in essi un fattore - e un attore - decisivi delle musiche Così come noi le
conosciamo.
E’ necessario soffermarsi un attimo sulla natura di ciò che viene definito percussioni o batteria
nella tradizione europea: sono anzitutto degli strumenti ritmici e pongono il problema dei rapporti fra
la musica e il ritmo, problema che ritroveremo più avanti. Diciamo solo che non consideriamo il
ritmo esclusivamente come un parametro musicale, ragion per cui sarebbe forse utile assegnargli uno
statuto particolare nel complesso degli strumenti.
Più in generale, esistono numerosi strumenti i cui suoni, secondo la nostra tradizione occidentale
di musica colta, appaiono come non musicali, come rumori. Andre Schaeffner, al quale lo studio
degli strumenti è debitore, non esitava a parlare di strumenti “orientati verso lo strambo e
l'insopportabile”: A ben altri indizi si riconosce che, creando degli strumenti Così come deformando
la voce, si è voluto emettere dei suoni dalla parvenza Così poco umana, anche sorprendente e
fantastica come può esserlo l'aspetto di uomini col corpo dipinto o rivestiti di fibre e di maschere
[1960, pp. 81, 78].
In effetti, i risonatori che "deformano" la voce, i rombi che ronzano, le trombe che muggiscono,
gli zufoli che gracchiano possono ben essere degli strumenti magici e rituali, ma essi sono anche, allo
stesso titolo del flauto o della cetra, il risultato di esplorazioni costruttive del mondo sonoro:
rispondono alla curiosità della scoperta Così come alla gamma degli effetti prodotti dai timbri, dalla
seduzione al fascino. E’ particolarmente interessante vedere come nella storia della musica colta
europea si sia prodotto un vero movimento di andata e ritorno sia per le percussioni sia per gli
strumenti a suono indeterminato. Dopo essere stati esclusi dalla musica religiosa, di corte e da
salotto, essi sono stati progressivamente reintrodotti, a partire dall'inizio del XIX secolo, nella
"grande musica", da Berlioz all'utilizzazione di strumenti esotici e alle “Percussions de Strasbourg”.
Allo stesso modo, i "rumori" hanno riguadagnato un posto nella musica concreta ed elettroacustica
della nostra epoca e, quando ci siamo accorti che i suoni degli strumenti tradizionali non erano Così
puri come ci piaceva credere, l'intera gamma dei suoni del mondo si è trovata a disposizione del
dilettante e del musicista. Gli strumenti sono senza dubbio l'unico ambito musicologico che oggi
dispone di una classificazione di riferimento a vocazione universale. Essi hanno ovunque un nome e
rientrano in classificazioni più o meno coerenti, ma è nelle culture letterate che compaiono le
classificazioni più sistematiche, per le quali sono stati proposti differenti criteri: i Cinesi idearono
otto categorie di strumenti a seconda del materiale di cui erano costituiti; gli Arabi hanno elaborato
più classificazioni, distinguendo per esempio gli strumenti che utilizzano il contatto della mano con
un corpo solido e gli strumenti in cui intervengono l'apparato respiratorio e il fiato. La classificazione
tradizionale indiana è alla base delle classificazioni scientifiche contemporanee: il Natyasastra,
trattato fondativo dell'arte drammatica, distingueva gli strumenti a corda, gli strumenti a fiato, gli
strumenti a percussione in metallo e gli strumenti costituiti da una membrana. Tale classificazione è
stata ripresa nel 1878 da Victor Mahillon, che ha dato a quelle categorie i nomi che ancora portano (a
eccezione degli autofoni ribattezzati idiofoni), e poi completata e precisata da Hornbostel e Sachs
[1914], che ne hanno fatto la classificazione di riferimento per l'attuale organologia. Questa
classificazione costituisce la sola eredità riconosciuta dei fondatori della musicologia storica e
comparata della fine del XIX secolo, il che si spiega senza dubbio mediante le necessità alle quali
siamo sottoposti ma anche con i riferimenti materiali di cui si dispone quando si tratta di oggetti che
bisogna ordinare all'interno di collezioni.
Questa classificazione, oggi universalmente adottata con i necessari adattamenti (cfr. in questo
volume il saggio di Geneviève Dournon), risponde bene agli imperativi che hanno guidato la sua
elaborazione: disporre di un quadro al tempo stesso chiaro e flessibile che permetta di includere ogni
strumento sconosciuto. E’ vero che non è sempre agevole assegnare a ogni strumento un posto ben
definito, ma questa classificazione non è funzionale: l'abbiamo visto prima per gli strumenti ritmici,
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che in un ensemble hanno ovviamente tutto un altro ruolo rispetto agli strumenti melodici. Sarebbe
auspicabile quindi disporre di classificazioni "emiche", che si basino sulle opposizioni funzionali
degli strumenti all'interno delle diverse culture.
Senza proporre una tipologia, il testo di Laurence Libin in questo volume da delle idee
illuminanti sulla simbologia degli strumenti musicali.
Se l'organologia si è rinnovata grazie alla conoscenza di strumenti sconosciuti dalla grande
tradizione occidentale, allo stesso tempo si è verificata una vera rivoluzione tecnica [Molino 1989]:
l'invenzione degli strumenti di registrazione e poi delle apparecchiature capaci di produrre il suono e
infine del computer ha determinato il passaggio dall'era dello strumento all'èra della macchina. Con
la completa recisione del suono dal suo ancoraggio umano e soggettivo si assiste, da un punto di vista
antropologico, all'instaurazione di un nuovo rapporto fra l'uomo e il suono: la musica stessa è entrata
in una nuova èra tecnica.
5. Ritmo
Nella tradizione europea il ritmo è considerato come un semplice parametro, allo stesso titolo
dell'altezza, dell'intensità e del timbro. L'organizzazione propriamente ritmica di un'opera tonale non
presenta in generale alcun mistero: il ritmo della musica classica è un ritmo placato, asettico,
soggetto a una stanghetta di battuta che ha contribuito a ristabilire o a rafforzare una gerarchia nuova
di tempi forti e deboli, che non ha tardato a stringere la musica in un corsetto di simmetria in cui ha
perso buona parte della sua flessibilità [Chailley 1967, p. 120].
Se la musica d'avanguardia del XX secolo si è preoccupata maggiormente del ritmo, lo ha fatto
spesso sottilizzando su dei ritmi teorici impossibili da percepire. E’ solo nelle musiche di massa, nei
varietà e nelle musiche da ballo, Così come nella straordinaria diversità ritmica delle musiche
extraeuropee, che è possibile percepire un ritmo pieno di vita.
Questo ritmo vìvant è strettamente associato alla danza e avviene nella maggioranza delle
culture: nella mousikè greca, la poesia, la danza e la musica erano unite dal ritmo; presso gli Igbo del
Niger, un'unica parola nkwa indica allo stesso tempo il canto, l'esecuzione degli strumenti e la danza;
nella cultura nàhuatl degli antichi Messicani esisteva l'istituzione del cuicacalli o "casa del canto"
dove si insegnava la poesia, la musica, la danza e il canto. Il ritmo non è bene esclusivo della musica
e non è sufficiente, allorchè si parla di ritmo musicale, segnalare di sfuggita che esso si ritrova anche
altrove. Non bisogna fermarsi alla concezione di un ritmo musicale separato dai suoi fondamenti
antropologici e si deve riconoscere al ritmo in quanto tale l'autonomia che non si esita ad accordare
alla musica: il ritmo non è un'organizzazione astratta del tempo di cui basta studiare le configurazioni
superficiali bensì un insieme di condotte che fanno intervenire il corpo Così come la società. E’ per
questo che preferiamo parlare, nel senso più generale, non di ritmo ma di esperienza ritmica [Fraisse
1974, trad .it. pp. 86-87].
Questa esperienza è presente ovunque, dai ritmi fisiologici fino ai movimenti e ai gesti, dai ritmi
sessuali ai ritmi tecnici, fino ai ritmi collettivi del lavoro, del gioco, dello sport, del combattimento,
del rito e della festa: esso costituisce un insieme complesso e diversificato quanto la musica. I
rapporti fra il ritmo e la musica non devono quindi essere considerati come dei rapporti di dipendenza
fra la musica e uno dei suoi parametri, bensì come rapporti fra due "famiglie" unite da molteplici
dedali aggrovigliati.
Questa relativa autonomia del ritmo rende difficile una sua definizione in musica, tanto più che
la tradizione analitica europea ha i suoi fondamenti nella metrica poetica: la maggior parte dei
termini utilizzati ha origine nella teoria della versificazione. Il ritmo musicale appariva legato non
solo al ritmo corporeo ma anche al ritmo verbale. Ci si può allora chiedere con Jacques Chailley se
esso non poggiasse su due fonti distinte, che indicherebbero giustamente il suo doppio rapporto con
la danza e con la poesia: una fonte gestuale e una fonte verbale. Il ritmo di origine verbale conduce a
una suddivisione disuguale dei punti di sostegno e a una certa libertà nella concatenazione delle
durate. Questa disuguaglianza non ha niente a che vedere con la ricerca pedante di rapporti numerici
complessi: essa ricalca la libertà della parola che è costituita da una successione asimmetrica di stasi
e di moto, di carattere variabile secondo la lingua in questione.
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Accanto a questo ritmo verbale esiste un ritmo di origine gestuale: In compenso, Yisocronia
della pulsazione, che essa sia o no legata ad uno schema metrico, sembra derivare dal contesto
gestuale: la musica che accompagna un gesto regolare - marcia, remo, danza - o il gesto della mano o
del piede per scandire il ritmo poetico assumerà i suoi punti di appoggio in accordo con quei gesti
isocroni; essa ne favorirà il ritorno regolare e acquisterà Così un'efficacia motrice particolare
[Chailley 1985, p. 50] .
6. Scale, melodie, altezze, timbro.
Dopo il ritmo, ripartiamo dalle prime due caratteristiche del prototipo di sequenza musicale:
questa melodia vocale è formata da altezze discrete; esse sono organizzate secondo i gradi di una
scala. Sembra proprio che la presenza delle scale sia uno degli universali della musica - cioè che esse
siano presenti in tutte le culture musicali, il che non vuol dire, come si vedrà, che tutti i tipi di musica
siano basati su scale. Abbiamo fatto progressi nella conoscenza comparativa delle scale? Purtroppo la
situazione non è affatto cambiata dalla metà del XX secolo, poichè non sembra esserci alcun
interesse per l'inventario delle scale e per le loro proprietà - esemplificativo è l'esiguo numero di
pagine che viene loro dedicato ne The Gariana Encyclopedia of World Music -, non più che per la
loro classificazione, se si esula dalle poche definizioni generiche, il più delle volte negative. Il
lemma “Scale” della nuova edizione del New Grove sembra ancora rifiutarsi di porre il problema
generale: “La discussione che segue si limita alle scale della teoria musicale europea” [Drabkin 2001,
p. 366]. Nulla tradisce meglio l'imbarazzo dei musicologi odierni davanti ai problemi degli universali
nelle questioni relative alla scala della frase scritta dal redattore del lemma “Pentatonic” nello stesso
dizionario: Tuttavia, a dispetto dei problemi posti dai modi e dall'accordatura, sembra difficile
resistere all'ipotesi universalista, e benchè la questione delle scale primordiali sia lungi dall'essere
risolta, vi è un consenso generale almeno per quanto riguarda l'importanza del pentatonico nella
storia della musica [Day-O'Connell 2001, p. 315].ma perchè fermarsi alle scale pentatoniche? Vi
sono delle scale tri e tetratoniche che funzionano in modo autonomo? Che ruolo giocano allorchè
coesistono con scale formate da un numero più ampio di gradi? Accanto a questi problemi dei gradi,
occorre trovare un posto, almeno altrettanto importante, ai problemi di organizzazione che
s'incontrano relativamente alle modalità e ai modi. E’ proprio ciò a cui aprivano la strada le proposte
di Bràiloiu. Gli enormi progressi delle conoscenze locali non hanno comportato alcun tentativo di
costruire delle tipologie, di distinguere dei parametri e di collocare i sistemi conosciuti in un quadro
generale. Fermiamoci un istante sul grande articolo “Mode” del New Grove. Il suo indice è già
significativo: la sezione intitolata “Introduzione: il modo come concetto musicologico” si colloca
all'inizio della quinta parte dell'articolo, consacrato al Medio Oriente e all'Asia [Powers e altri 2001,
pp. 829-31]. Dopo aver fatto la cronistoria della nozione applicata alle musiche non europee, Harold
Powers mette in dubbio la possibilità di stabilire l'esistenza di una sottostante categoria minima di
"modalità" metaculturale e scientifica, alla quale sarebbe possibile rinviare i concetti e i fenomeni di
culture musicali specifiche come illustrazioni di casi particolari [ibid., p. 830].
E comprensibile che Powers voglia dare la priorità alle caratteristiche specifiche dei sistemi che
studia pazientemente e brillantemente. Noi constatiamo semplicemente che, se la prospettiva della
ricerca degli universali è legittima, nel suo testo si trovano già elementi che indicano la possibilità di
far emergere degli universali, di compilarne un inventario e di stabilirne una tipologia. Le differenze
concrete e riguardanti l'esecuzione, sintetizzate alla fine di questa introduzione (opposizione
solo/ensemble, poche/molte entità modali aventi un nome, improvvisazione/repertorio fisso), non
impediscono affatto d'interessarsi alle proprietà dei sistemi. L'analisi si è basata su una tipologia che
regge l'articolo nel suo insieme: i sistemi attestati costituiscono uno "spettro modale" i cui due poli
sono da un lato la scala astratta e dall'altro i tipi melodici. Si hanno quindi gli elementi di una
classificazione o piuttosto l'inizio di un'analisi della modalità in parametri distinti. La concezione
dell'incommensurabilità dei sistemi poggia logicamente sull'idea che il numero dei parametri e delle
posizioni sull'asse di ognuno di essi sia infinito; l'esperienza dimostra al contrario che, quando si
affronta l'inventario di un campo, si arriva a un insieme finito di parametri e di valori. Nel caso della
modalità, è chiaro che occorre distinguere almeno i seguenti parametri: la scala astratta,
l'organizzazione degli intervalli, la gerarchia dei gradi, i tipi melodici, ecc. Si tratta di ciò a cui
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tendeva Mieczyslaw Kolinski [1961], che ha combinato una classificazione dei tipi delle melodie con
una teoria delle scale derivate dal circolo delle quinte; è ciò che tentano di dimostrare recenti ricerche
sul pentatonico nella musica africana messo a confronto con le sue manifestazioni nella
musicaeuropea medievale [Arom e Furniss 2000] e gli studi pubblicati nel presente volume: quello di
Annie Labussière, in cui si cerca di dimostrare le costanti di funzionamento nelle monodie prese a
prestito da culture che non hanno avuto storicamente contatto fra loro, e la proposta di tipologia di
Nathalie Fernando.
La situazione del lavoro comparativo è forse più incoraggiante sul versante della melodia, per la
quale troviamo diversi tentativi di classificazione.
L'etnomusicologo americano Charles Adams [1976] si è esplicitamente collocato nella
prospettiva tipologica, esaminando le melodie dal punto di vista dei tipi di profili che esse
presentano, il che dimostra peraltro che l'altezza non è l'unico parametro da prendere in
considerazione nel funzionamento delle melodie. Uno dei grandi meriti del suo studio è quello di
aver classificato le diverse ricerche secondo i mezzi utilizzati per descrivere le melodie: la
descrizione metaforica, l'elenco di parole (l'arco, la pendola, la discesa graduale, l'onda - ascendente
o discendente, la linea - ascendente, discendente, orizzontale), la combinazione, le rappresentazioni
grafiche, la natura e la posizione delle note iniziali, finali, alte, basse, ecc. La tipologia ideata da
Adams poggia essenzialmente su criteri strutturali e immanenti che fanno emergere i Cosiddetti
universali di sostanza.
Lo studioso Meyer, anche se prende i suoi esempi solo dalla musica tonale, apre un'altra
prospettiva, quella degli universali di strategia, nella misura in cui la tipologia delle forme melodiche
che egli propone, basata sulle nozioni di prolungamento, continuazione e implicazione, fa intervenire
dei processi cognitivi: Le inferenze implicative sono possibili poichè la regolarità e l'ordinamento di
un pattern suggeriscono delle probabili continuazioni che l'ascoltatore competente comprende [...].
Una volta insediatosi, un pattern tende a continuare fino a quando non venga raggiunto un punto di
relativa stabilità ritmico-tonale. Prolungamenti o estensioni possono ritardare il momento di
conclusione del pattern [1973, p. 130].
Su tali basi, Meyer propone una tipologia delle strutture melodiche: pattern congiunti, pattern
disgiunti, pattern simmetrici, prolungamenti, spesso descritti in relazione con gli aspetti ritmici,
metrici, armonici e formali della musica tonale [1973, pp. 131-241]. In questo lavoro egli non si
azzarda ad assegnargli una pertinenza universale, ma lo farà in seguito [1989, cap. 1; 1998, ed. 2000,
p. 283]. Per lo studioso, infatti, bisogna affrontare il dato musicale secondo tre livelli:
l'organizzazione idiosincratica propria di un'opera, dipendente da regole seguite dal compositore;
queste regole sono, a loro volta, condizionate da limitazioni di strategie che sono all'origine delle
particolarità dello stile; a un terzo livello, lo svolgimento musicale dipende da leggi più generali di
ordine acustico, fisico, biologico, psicologico o psicofisiologico [1973, pp. 6-9, 14; 1998, ed. 2000, p.
283]. Queste leggi, oltre a spiegare l'esistenza di universali della melodia (e della musica), spiegano il
funzionamento di altre forme simboliche poichè fondate sempre sulle stesse leggi della Gestalt. Non
si può infatti parlare di prolungamento, di progressione, di sospensione o di chiusura a proposito del
racconto letterario o cinematografico, del mito o del fumetto, i quali, al pari della musica, si svolgono
nel tempo? Non stupisce allora che Stèphane Roy [2003, cap. X] abbia potuto trasporre queste leggi
all'analisi delle musiche elettroacustiche che, tuttavia, non sono basate sulle altezze. E sarebbe
proprio sorprendente, in queste condizioni, che esse non potessero essere trasposte alle musiche di
tradizione orale, come ha fatto Frèdèric Lèotar [2003] a proposito dei canti-richiami dei Touva e
degli Usbechi.
Queste ultime osservazioni portano a una conclusione che infastidisce.
Anche se Leonard Meyer sembra "limitare" gli universali melodici alle musiche in cui le unità
minime sono discretizzate e appartengono a una scala che ne condiziona il funzionamento sintattico
[1989, pp. 14-16], non sembra che sia possibile costruire un determinato tipo di musica solo sulla
base di unità definite secondo la loro altezza e la loro durata. Al di là degli studi riguardanti i
parametri già riconosciuti nella tradizione occidentale, è necessario, infatti, chiedersi se dei parametri
sconosciuti o misconosciuti non giochino un ruolo importante, ivi compreso nella nostra musica:
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pensiamo per esempio ai fenomeni di profilo melodico di cui parla Adams, che sono senza dubbio
più importanti delle sole altezze.
Al posto di una melodia costruita sui gradi di una scala, esistono delle produzioni vocali prive di
una scala riconoscibile: grida e richiami dei cacciatori africani, glissandi dei Formosani, sonorità
"inaudite" dei katajjait eschimesi (che giocano sull'alternanza dei suoni sonorizzati e non sonorizzati,
espirati o inspirati). Non vi è alcun limite alle nuove produzioni sonore che l'essere umano può
inventare: pensiamo allo sfruttamento che viene fatto in Papuasia (Nuova Guinea) della vibrazione
delle elitre di un coleottero davanti alla cavità boccale utilizzata come risonatore... [cfr.
Lèothaud, Lortat-Jacob e Zemp 1996, disco II, traccia 33]. I musicologi evoluzionisti
attribuiscono una grande importanza ai tumblìng strains [Sachs 1962, trad. it. pp. 69-78], quelle
lunghe discese più o meno continue nelle quali riconoscono le forme più antiche della musica. Ma
nulla permette di pensare che si tratti di forme primitive di musica. L'esistenza di queste "stranezze" -
considerate come tali unicamente in relazione alla nostra cultura - pone due domande interessanti:
quale ruolo giocano queste modalità d'espressione accanto ad altre forme di musica e sono riservate a
certi tipi di circostanze (grida e richiami, canto funebre, ecc.)? Quali sono le loro proprietà musicali e
quali legami esse intrattengono con le altre produzioni sonore? Le stesse domande si pongono
allorchè ci si rivolge alle musiche strumentali. L'utilizzazione del tamburo kotudumi nelle musiche
del Nò e del Kabuki è regolata da una sistematizzazione in quattro categorie dove l'intensità viene
combinata col timbro, a seconda che si colpisca lo strumento in alto e forte sul bordo (kasira), in alto
e debole sul bordo ma allentando le cordicelle dell'accordatura (kart), al centro stringendo e poi
allentando le cordicelle ma che risuoni (otu), al centro allentando le cordicelle ma debole (hodo)
[Tokumaru 1991, p. 93]. Nella musica di shamisen, una stessa sillaba arriva a indicare allo stesso
tempo un'altezza e il timbro che gli è strettamente associato, a seconda che il suono sia prodotto
oppure no su una corda vuota (il si sulla terza corda vuota si chiama ten, ma il si sulla seconda corda
premuta si chiama ton) o secondo la maniera di pizzicare la corda: il si della terza corda pizzicata
verso il basso con il plettro (ten) è diverso dal si della terza corda pizzicata verso l'alto o con un dito
della mano sinistra (reti) [ibid., p. 94]. Sulla base di questi esempi è importante sottolineare che il
parametro timbro, definito secondo la modalità di produzione del suono, è convenzionalmente
congiunto a un'altezza, un fenomeno assente nel sistema tonale occidentale. La maniera di
sistematizzare il timbro nella cultura giapponese è tanto più importante poichè essa permette alle
singole associazioni di musicisti di distinguersi l'una dall'altra. Si ha persino la sensazione che qui il
timbro abbia assunto un'importanza che la musica tonale occidentale non gli riconosce: Benchè si
possa cambiare l'altezza assoluta di una melodia mantenendo i suoi rapporti intervallari, si deve
essere sempre fedeli alle distinzioni dei timbri che essa definisce [ibid., p. 95].
Ecco una cosa incoraggiante per i partigiani delle musiche elettroacustiche, il cui sforzo è stato
di cercare di far passare il timbro dallo statuto di parametro “secondario” [Meyer 1989, p. 14] o
“residuale” [Risset 2002, p. 89] a quello di parametro "principale". Nel proporre un “solfeggio degli
oggetti sonori”, Pierre Schaeffer [1966] cercava di fondare un nuovo tipo di musica su parametri
diversi dall'altezza e dal ritmo. Egli ha spesso sperato che il suo primo TOM (“Trattato degli Oggetti
Musicali”) fosse oggetto di un secondo, un “Trattato delle organizzazioni musicali”. Fra i recenti
tentativi, bisogna citare il lavoro di Stèphane Roy in cui gli “oggetti musicali”, nel senso di
Schaeffer, sono caratterizzati funzionalmente, il che dovrebbe facilitare la loro integrazione in una
sintassi: introduzione, avvio, interruzione, conclusione, sospensione, generazione, estensione,
prolungamento, transizione [Roy 2003, p. 342]. Definiti ormai non più come oggetti statici, ma
costruiti come oggetti capaci di integrarsi in una sintassi, essi acquisiscono un nuovo statuto, forse
analogo a quello che era stato riconosciuto nella musica tonale alle dimensioni melodiche, ritmiche e
armoniche.
In realtà non vi sono limiti alle esplorazioni sonore di cui l'essere umano è capace: l'utilizzazione
delle tecniche elettroniche e informatiche nella musica del XX secolo ne è la prova, e non c'è alcun
motivo per pensare che altre invenzioni scientifiche, sconosciute a noi oggi, non verranno a ispirare
nuove conquiste musicali inedite e delle quali noi non possiamo neanche sospettare la forma che
assumeranno. Come hanno dimostrato la storia e le culture, in realtà, non ci sono limiti alla
costruzione del musicale a partire dal reale.
9
Ecco perchè, fin da ora, conviene avviare delle tipologie del sonoro le più ampie possibili,
paragonabili a quella proposta qui da Gilles Lèothaud per la voce. Esse devono prendere in
considerazione quelle modalità sonore che, anche se diverse dalle altezze melodiche discrete,
contribuiscono allo stesso modo alla costruzione di produzioni alle quali difficilmente si può rifiutare
un ruolo all'interno della musica in senso ampio, una musica che da sola può servire da quadro per
una ricerca comparativa.
7. Una combinatoria "a priori": dalla forma alle attività musicali.
L'esistenza delle sequenze minime che abbiamo proposto al paragrafo i, implica ciò che
suggeriamo di chiamare, in maniera impropria ma immaginosa, delle forme a priori di combinatoria,
poichè si tratta di un campo che si potrebbe paragonare alle forme a priori kantiane della sensibilità.
Nella sequenza prototipo da cui siamo partiti, si può innestare ciò che Bent chiama “tre procedimenti
costruttivi fondamentali” [Bent e Drabkin 1987, trad .it. p. 6]: la ripetizione AA, il contrasto AB e la
variazione AA'. Forse converrebbe sostituire la parola "variazione", legata a una forma occidentale
specifica, con quella, più neutra, di "trasformazione", di portata più ampia.
Del resto, le procedure di trasformazione sono alla base sia del genere "variazione" che ci è
familiare, sia delle tecniche più generali di sviluppo, all'opera tanto in un canto degli indiani
d'America che in una suite per violoncello di Bach o in un'improvvisazione jazz.
La ripetizione è indubbiamente l'universale più conosciuto e il meno riconosciuto della musica e
potrebbe essere sufficiente definirla come “sottile arte della ripetizione” [Kivy 1993]. Ma è raro che
la ripetizione si realizzi identica in modo assoluto; essa è più sovente oggetto di una trasformazione.
La trasformazione si ritrova in tutte le culture, consiste in un certo numero di operazioni formali
numericamente finite, possiede un carattere costruttivo: la permutazione A (a + a + b) diventa A' (a +
b + a); l'aggiunta A (a + a + b) diventa A' (a + a + b + e) che può essere fatta in un punto qualunque;
la soppressione A (a + a + b) diventa A' {a + a); la trasposizione come combinatoria delle unità di un
dato sistema.
Di pi∙, la ripetizione e il contrasto non sono senza legame con queste tre operazioni
trasformative: per ottenere AA, bisogna aggiungere A ad A; per opporre B ad A, è necessario
sopprimere il secondo A e aggiungere a que sto il nuovo elemento B; al contrario, in a + a + b, vi è
un contrasto fra a + a e b, ma permutando la posizione di b, è fra le 2 a che si crea un contrasto (e una
nuova figura che si definirà simmetrica); se si aggiunge una b alla sequenza a + a + b, si ottiene
un'altra figura formale: a + a + b + b, a proposito della quale si parlerà di parallelismo.
In tutti i casi qui esaminati opera un medesimo processo: si tratta di compiere delle operazioni
(soppressione, permutazione, aggiunta), sempre di carattere universale, su un dato di base che serve
da modello, ed è per questo che l'inventario di queste operazioni formali può servire da schema per
delle tipologie comparative. Conviene dare alla nozione di modello tutta la sua forza, poichè, ancora
una volta, la presenza del modello è universale, sia che si tratti della formula I-V-I presente
nell'armonia tonale da Bach a Wagner e sulla quale Schenker ha Così tanto insistito, sia che si discuta
del tema alla base delle variazioni o delle passacaglie in Bach (Variazioni Goldberg), Brahms (quarto
movimento della Quarta sinfonia) o Boulez (Antbèmes), del modello ritmico che funge da punto di
partenza per gli sviluppi virtuosistici dei suonatori di tamburi africani [Arom 1985] e, più in
generale, dei diversi tipi di modelli (modello-composizione, modello-formula, modello di
apprendimento, ecc.) presenti nelle diverse forme di improvvisazione di cui Bernard Lortat-Jacob
stila in questo volume la tipologia e per le quali distingue fra sistemi mono e plurimodali.
Questi processi, poichè poggiano su delle categorie cognitive comuni all'intera specie umana,
non hanno nulla di specificamente musicale ma si ritrovano in tutti i campi dell'attività umana: è per
questo che si dispone allora degli strumenti che permettono di fare l'inventario teorico non solo dei
tipi di organizzazione musicale possibili Così come essi si svolgono nel tempo, e in particolare le
forme, ma anche dei diversi livelli dell'attività musicale.
Gli universali non devono essere cercati solo nelle organizzazioni sonore, bensì in tutte le
componenti del fatto musicale totale: al di là delle strutture musicali, nelle strategie creatrici e
percettive che sono loro collegate, e in tutto ciò che interviene nella composizione, l'esecuzione e
l'ascolto della musica.
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Le stesse operazioni formali, infatti, si applicano a ognuno dei parametri, alle grandi forme
musicali e alle formazioni vocali e strumentali. Uno dei maggiori interessi dell'approccio
paradigmatico nell'analisi musicale [cfr.
Ruwet 1972, capp. ni e iv; Nattiez 1975, Parte III; Arom 1985, II] è di aver dimostrato che le
diverse forme di variazione e di sviluppo risultano dall'applicazione di queste operazioni ai differenti
parametri - melodia, ritmo e armonia. Se le due dimensioni - melodica e ritmica - della sequenza
funzionano in modo indipendente, si ottengono i diversi tipi di ostinato. Le medesime operazioni
spiegano le diverse specie di "grandi forme" distinte dalla tradizione, a partire dalle quali si può
facilmente passare ai generi: le forme binarie (AB) e ternarie (ABA) non sono solo delle forme di
aria o di ouverture, ma sono alla base del rondò e della forma sonata, Così come delle forme strofiche
con o senza ritornello.
Le strategie non sono differenti se, giocando con il numero dei musicisti e/o dei cantanti, si
ottengono i diversi tipi di formazione (solo, duo, trio, ecc.) e di plurivocalità {Mehrstimmigkeit).
Dal quartetto d'archi si passa al quartetto con pianoforte (per soppressione e aggiunta), al
quintetto d'archi (per aggiunta di una seconda viola o di un secondo violoncello), senza parlare delle
formazioni più insolite ma costituite a partire da una medesima base (da uno stesso modello): il
Quintetto di Schubert, “La Trota”, sopprime, dal quintetto con pianoforte, il secondo violino e
aggiunge un contrabbasso. Date a un flautista il primo posto {permutazione dei ruoli) e otterrete il
concerto. Per eseguire la musica della danza Mbaga dei Baganda dell'Uganda [cfr. Nattiez e
Nannyonga-Tamusuza 2003], si ha bisogno di almeno due tamburi (una base percussiva
indispensabile per accompagnare la danza). Nel corso degli anni si sono aggiunti la lira, lo XIlofono,
dei violini monocorde, talvolta sostituiti dai flauti, senza che il fondamento musicale di questa
musica sia cambiato. Si potrebbe scrivere una storia delle formazioni orchestrali dall'epoca barocca
facendo appello a questi giochi universali di trasformazione (soppressione, permutazione, aggiunta),
ma anche sottolineando il ruolo della ripetizione (rafforzamento dello spessore strumentale
dell'orchestra di Mozart all'orchestra di Berlioz) e del contrasto (opposizione degli archi e dei fiati
nella sinfonia e nel concerto classici, "chiaroscuro" dell'oboe e del corno inglese all'inizio della
“Scena nei campi” della Sinfonia fantastica di Berlioz per esempio). Questi procedimenti formali
spiegano che la tipologia delle formazioni strumentali, qui proposta da Giovanni Giuriati, poggia
fondamentalmente sulle relazioni combinatone di dipendenza e d'indipendenza fra solisti e gruppi,
collegate a delle caratteristiche specifiche di timbro o alle possibilità d'espansione del gruppo.
Si può ricorrere alle stesse operazioni formali per spiegare contemporaneamente il numero di
voci o di parti che intervengono in un ensemble e la natura delle loro relazioni e delle loro
combinazioni. E Così che Simha Arom e i suoi collaboratori, nel saggio dedicato nel presente volume
alla tipologia delle tecniche polifoniche, dividono dapprima la monodia dalla polifonia.
| In seguito gli autori distinguono, all'interno dell'universo polifonico, fra l'eterofonia e sei
forme di base di plurilinearità che hanno in comune la presenza di un'organizzazione sistematica,
sull'asse verticale, delle differenti parti, retta da rapporti di ripetizione, di contrasto o di
trasformazione: l'eterofonia, il bordone (le cui diverse manifestazioni dipendono dal numero di
musicisti), l'omoritmia, il contrappunto, l'imitazione, l'hoquet, la poliritmia.
Alla fine, la tipologia espone dettagliatamente le modalità di combinazione fra questi tipi di base.
Insistiamo sul carattere specifico di questi universali, che corrispondono alle proprietà dello
spazio delle sequenze e, più in generale, degli oggetti e dei processi che intervengono nel fatto
musicale totale, provvisto di un certo numero di operazioni formali. E’ soprattutto a questo livello
che si spiegano le somiglianze fra musiche umane e musiche animali e sulle quali insiste Francois-
Bernard Màche [2001]: il fatto che si ritrovino questi modi di organizzazione più o meno
esattamente nel mondo animale dimostra proprio il loro carattere puramente formale probabilmente
fondato nel biologico.
8. Dall'affetto al linguaggio.
L'importanza degli affetti in musica - utilizziamo il termine "affetto" in un senso generico per
coprire l'insieme mal definito di stati d'animo come l'emozione, il sentimento o l'umore - sembra
essere un universale: per McAllester [1971] e numerosi etnomusicologi, è proprio la creazione di una
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“esperienza elevata” che costituisce uno dei rari universali accettabili. Si tratta di una delle due
grandi tradizioni che coesistono e si oppongono in Europa in merito alla natura della musica: essa è
considerata sia come una disciplina astratta fondata sui numeri, sia come un'esperienza affettiva e
morale. Spesso vi è oscillazione dall'una all'altra: se il Romanticismo ha segnato il trionfo della
concezione affettiva, essa è stata lasciata da parte durante gli anni in cui dominavano le concezioni
puramente cognitiviste, per poi tornare più di recente alla ribalta [Juslin e Sloboda 2001].
I problemi posti dal ruolo dell'emozione in musica rappresentano solo un aspetto di una
questione molto più ampia, che interessa tanto gli psicologi quanto i filosofi e gli specialisti di
neuroscienze e di scienze cognitive: che cosa viene prima nell'esperienza umana, il cognitivo o
l'affettivo? Il problema era stato chiaramente posto da due articoli che si rispondevano
nell'“American Psychologist”: On theprimacy ofaffect [Zajonc 1984] e On theprimacy ofcognition
[Lazarus 1984]. Sembra che oggi si assista a una riabilitazione scientifica dell'esperienza affettiva: se
i sentimenti erano considerati, nell'ambito della psicologia tradizionale, come degli stati stabili che
servivano a regolare l'azione, in compenso le emozioni erano interpretate, se non come delle condotte
magiche (Sartre), almeno come degli affetti sregolanti, che disturbavano la percezione oggettiva delle
situazioni impedendo di trovar loro una soluzione razionale adeguata. Ci si è accorti che si trattava di
una concezione di parte e parziale, che poggia su un razionalismo limitato e basato su ciò che
abbiamo potuto definire “errore di Cartesio” [Damasio 1994]. Le emozioni non compaiono
successivamente a colorare una conoscenza del mondo all'inizio oggettiva e razionale: tutti gli stimoli
che riceviamo sono associati, in maniera intrinseca, a degli affetti, che si fanno carico di ciò che si
può chiamare una pre-categorizzazione degli stimoli che orienta e facilita la loro identificazione.
Ecco perchè si tende a vedere anche nell'affetto un fattore essenziale allorchè si prende una decisione
[Berthoz 2003].
Un argomento molto forte in favore del ruolo capitale dell'affetto proviene dagli studi che
riguardano le prime esperienze del neonato e del bambino molto piccolo. Questi sono immersi, prima
della comparsa del linguaggio, in un mondo di natura musicale e ritmica, un mondo di suoni e di s
movimenti che non comprendono del tutto ma al quale si adattano progressivamente. E’ anzitutto nei
rapporti fra madre e bambino, fra i loro gesti e le loro voci, che si verifica una specie di accordo
affettivo che li fa entrare in risonanza emotiva tramite l'intermediazione di un'esperienza
comunicativa che è allo stesso tempo motrice, cognitiva e affettiva: secondo lo psicologo Daniel
Stern, la motivazione orientata verso uno scopo - desiderio di nutrimento o di interazione con la
madre - crea una traiettoria drammatizzata di tensione-crisi-risoluzione correlata a un “ tracciato
soggettivo di picchi e cadute di eccitazione, di suspence e di piacere” che costituisce una veridica
“forma temporale della sensazione” [1995, trad. it. pp. 85-103]. In tal modo si costruiscono degli
“involucri proto-narrativi” che sembrano molto simili a quelli che organizza l'esperienza della musica
[Stern 1998, p. 183]. Esiste dunque una protosemantica ritmico-affettiva che, se non strettamente
primaria in relazione alla semantica cognitiva, è almeno inseparabile da essa: prima ancora di essere
completamente identificati, il timbro di una voce, il suono di uno strumento, una semplice frase
musicale sono immediatamente dotati di un'aura affettiva che costituisce già un giudizio di valore.
Cosa provoca l'emozione musicale quando non si tratta più di un neonato ma di un adulto? Qui
bisogna mettere da parte la prospettiva "provinciale" ed etnocentrica che ci fa vedere nella musica
pura la verità finalmente rivelata di tutta la musica. Poichè si è tentati di associarle un'emozione pura,
del genere definito da Peter Kivy [2002, pp. 125-34], non| avendo come oggetto che la musica stessa,
essa si fonda sulla convinzione che la musica è bella e produce un sentimento specifico, una specie di
esaltazione ammirativa destata dalla bellezza.
Se è legittimo interrogarsi sugli affetti suscitati da questa musica pura - e non è sicuro che essi
siano Così puri come ci viene detto -, non lo è invece vedere in essi l'essenza dell'emozione musicale:
si deve riconoscere la diversità e non cercare, in una prospettiva essenzialista, di definire l'emozione
musicale in generale a partire da quel caso particolare.
Dato che per la maggior parte le musiche sono impure, vale a dire accompagnate dalla danza,
dalla parola o dallo spettacolo, è difficile saper quale ruolo giochi la musica stessa nell'emozione
definita musicale: è solo la musica o l'insieme della situazione nella quale essa viene prodotta e
ascoltata? Possiamo essere aiutati qui dalla distinzione proposta dallo specialista di neuroscienze
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Antonio Damasio fra emozioni primarie e secondarie [1994, trad. it. pp. 192-202]: sulla base di
emozioni primarie, innate, che innescano immediatamente e incosciamente delle reazioni fisiologiche
caratteristiche, si costruiscono delle emozioni secondarie, che poggiano sui legami progressivamente
stabiliti fra queste emozioni primarie e le diverse categorie di oggetti e di situazioni che l'esperienza
presenta. Si comprende allora come gli affetti umani siano dei fenomeni complessi, nei quali
intervengono tutti gli elementi di una cultura riflessi in una storia personale.
La stessa musica gioca un ruolo in queste emozioni globali? Nell'ambito della filosofia analitica,
è stato forte l'interesse per i problemi posti dalle relazioni fra l'opera musicale e l'emozione
[Robinson 2004]: l'emozione è presente nell'opera? E, se essa è presente, lo è perchè l'autore ha
messo la sua emozione oppure perchè essa corrisponde a una proprietà espressiva della musica
stessa? Quali sono i meccanismi attraverso i quali l'opera provoca l'emozione nell'ascoltatore? Al di
là delle discussioni, che spesso assumono un aspetto scolastico, importante e significativa è la
straordinaria convergenza che appare, dietro la diversità delle prospettive e delle formulazioni, fra
teorie diverse quanto quelle di un Hanslick che, pur rifiutando che la musica possa esprimere il
contenuto dei sentimenti, riconosce che essa può esprimerne “la dinamica” [1854, trad. it. p. 48], di
una Susanne Langer - la musica esprime le forme generali del sentimento [1957, p. 238] -, di un
Leonard Meyer, per il quale la risposta affettiva è in gran parte il risultato della “nostra
identificazione fisica all'azione motrice-somatica della musica” [1998, ed. 2000, p. 299], o di un
Peter Kivy con la sua teoria dei “profili” [2002, pp. 31-48]: come dimostrano le prime esperienze
ritmico-affettive del neonato, la musica, organizzazione dinamica del tempo, entra in risonanza con le
forme generali degli affetti umani. Questo spiega al tempo stesso la potenza dei suoi effetti e la loro
relativa indeterminazione: essa costituisce bene, secondo la formula di Susanne Langer, un
“unconsummated symbol” - “simbolo non consumato” - [1957, p. 240], o piuttosto un sistema i cui
significati affondano le loro radici al di qua del simbolico propriamente detto, nell'attività stessa del
corpo e nelle prime forme che assumono le relazioni affettive con le altre.
Al di là del proto-semantismo, esistono due tipi principali di rimandi in musica, caratteristici del
suo funzionamento come forma simbolica: quelli mediante i quali la musica rimanda alla musica (a
ciò che abbiamo appena ascoltato, a ciò che ci si aspetta, alle produzioni musicali che già si
conoscono) e che si possono definire rimandi intrinseci, e quelli mediante i quali la musica rimanda
al mondo extramusicale dei concetti, delle azioni, degli stati emotivi e che si possono definire
rimandi estrinseci [cfr. Meyer 1956, cap. 1; Nattiez 2002-2, 3 e 4]. L'individuo produttore o
ascoltatore di musica associa questi due tipi di rimandi a un orizzonte che è quello della sua
conoscenza del mondo, e questa è vera per tutte le musiche, in tutte le culture. Ma queste due grandi
reti di rimandi, che sono costantemente intrecciate nel fatto musicale, vengono esplicitate
chiaramente solo quando sono scambiate o precisate mediante il linguaggio verbale, così da
determinare il passaggio dal proto-semantico al semantico. Il linguaggio gioca a questo riguardo un
ruolo cruciale, giacchè l'associazione della musica e del linguaggio è una costante: è solo nel XIX e
nel XX secolo che una parte relativamente importante della musica è stata separata da esso. Grazie
alle parole che l'accompagnano, la proto-semantica ritmico-affettiva perde ) la sua ambivalenza e la
sua polisemia: questa plasticità semantica della musica ridotta a se stessa è stata notata spesso, poichè
succede che un compositore riutilizzi la medesima sequenza sonora per associarla a delle parole i che
gli conferiscono un senso completamente diverso, come anche Hanslick aveva sottolineato. Ma il
linguaggio non si limita solo a semantizzare la musica: la integra nella cultura della comunità
assegnandole un posto nella sua visione del mondo. Esso permette così di parlare di musica:
funzionando come metalinguaggio, apre la strada a tutte le teorizzazioni e a tutti i sistemi.
9. Dalle regolarità di superficie alle strategie cognitive.
Il prototipo di sequenza musicale di cui abbiamo stabilito l'esistenza all'inizio di questa ricerca
non può apparire che all'interiaccia "ecologica" fra le proprietà fisiche del suono e le capacità dei
nostri strumenti di ricezione e di trattamento dell'informazione sonora. Le proprietà fisiche del suono
sono state studiate ininterrottamente dalla scoperta pitagorica, ma è soprattutto nell'esplorazione delle
capacità del soggetto musicista che da più di un secolo sono stati compiuti importanti progressi
[Molino 2002]. Appare sempre più chiaro che, contrariamente a ciò che proclamano gli slogans
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esistenzialisti della seconda metà del XX secolo, l'uomo è "naturalmente" determinato: “Nella
musica, non tutto ha un'origine culturale” [Chouard 2001,1 p. 140]. Le diverse discipline interessate -
psicofisiologia [Chouard 2001╠╠ neuropsicologia [Peretz 1994], psicologia infantile [Trehub 2000],
scienze; cognitive in generale [McAdams e Bigand 1994] - conducono a risultati convergenti che
collegano le regolarità del materiale musicale - universali; sostanziali - ai meccanismi fisiologici e
neurologici che li producono - universali di strategia o universali di trattamento (processing
universals). E’ così che l'importanza dell'ottava e soprattutto della quinta e di altri intervalli
corrispondenti a dei rapporti semplici in un gran numero di sistemi musicali, sembra proprio fondarsi
sulle proprietà del nostro apparato percettivo. A un livello più elevato del trattamento del suono, si
può ipotizzare che esistano delle operazioni specifiche e universali - segmentazione,
raggruppamento, ecc. - che costituiscono una grammatica grazie alla quale analizziamo le sequenze
musicali. Nella loro opera A Generative Theory of TonalMusic, Fred Lerdahl e Ray Jackendoff
precisano, all'inizio del capitolo consacrato agli universali, che questi non hanno bisogno di apparire
in tutti i linguaggi musicali (idioms) ma solo al livello delle grammatiche, ossia ai “principi
accessibili a tutti gli ascoltatori esperti che servono a organizzare le superfici musicali che ascoltano”
[1983, p. 278]. Ecco perchè i due autori ipotizzano che solo 14 delle 75 regole da loro proposte per
l'analisi percettiva della musica tonale, sono “idiom specific”, cioè proprie del sistema tonale [ibid.,
pp. 345-52], e suggeriscono cinque principi alla base di queste regole universali [ibid., p. 280]:
esistenza di quattro tipi di organizzazione gerarchica in musica (raggruppamento, struttura metrica,
riduzione dello spazio temporale e riduzione del prolungamento); interazione fra regole di buona
formazione, di preferenza e di trasformazione; nessi dei quattro tipi gerarchici con l'organizzazione
temporale; stabilità delle altezze alla base dell'organizzazione gerarchica; ruolo strutturale dell'inizio
e fine dei raggruppamenti. Nella stessa prospettiva universalista, gli autori de Le regole della musica
[Baroni, Dalmonte e Jacoboni 1999] hanno tentato di estendere le regole elaborate per descrivere lo
stile melodico del compositore barocco Giovanni Legrenzi (1626-90) all'insieme della musica
europea, dal gregoriano a Debussy. Dovrebbe spettare agli etnomusicologi collaudare sul campo
l'ipotesi di una validità universale di queste diverse regole, come d'altronde Lerdahl e Jackendoff
[1983, p. 279] hanno suggerito.
Questi universali sarebbero innati, come suggeriscono Lerdahl e Jackendoff [ibid., p. 281]?
Senza dubbio conviene superare la vecchia querelle dell'innato e dell'acquisito: infatti, le capacità
inscritte nel nostro patrimonio genetico non costituiscono allo stesso tempo l'ambito nel quale si
realizzano le molteplici variazioni che rendono possibile la plasticità del nostro cervello? Sembra
difficile non integrare in una teoria degli universali i fondamenti biologici della nostra attitudine a
costruire e a produrre il nuovo, cosa che, in cambio, crea nuove condizioni per l'apprendimento, la
creazione, l'interpretazione e la percezione.
Conviene dunque fare riferimento, per spiegare il funzionamento della musica e delle strategie
creatrici e percettive che le sono collegate, a quei fondamenti biologici ai quali Meyer dedica la parte
più importante del suo articolo: le possibilità di organizzazione dei fenomeni sonori sono, in
qualunque epoca e cultura, limitate, costrette e condizionate dalle capacità della mente umana [1998,
ed. 2000, p. 284].
Egli propone un primo inventario di ciò che chiama universali biologici.
Un primo tipo di universali corrisponde a delle limitazioni neuro-cognitive: le capacità di
discriminazione dell'orecchio umano spiegano che non esistono delle scale reali - per opposizione a
delle scale puramente teoriche nelle quali lo scarto fra due altezze strutturali sia inferiore al semitono
[ibid]. Sembra che il numero di elementi che la mente umana è capace di discriminare si accordi al
“magico numero sette, più o meno due”, reso popolare dallo psicologo George Miller [1956], che
sembra governare non solo il numero delle altezze in una scala, ma anche il numero di motivi nelle
frasi, delle frasi nei temi, dei temi nelle sezioni, ecc. [Meyer 1998, ed. 2000, p. 285].
In tal modo, la lunghezza dei motivi e dei temi, in una sinfonia di Bruckner, non aumenta in
relazione a ciò che essi sono in una sinfonia di Mozart.
In compenso, il loro numero può aumentare se i movimenti più vasti di sinfonie comprendono
più sezioni rispetto a una forma-sonata classica [ibid]. Sembra di ritrovare in musica la legge di Zipf
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che si applica in linguistica e in base alla quale più un elemento è frequente, più è corto [ibid], il che
pare proprio confermare i Leitmotìve di Wagner.
Secondo tipo di universali: la distinzione fra parametri sintattici e parametri statistici che Meyer
ha da tempo proposto, per lui è universale. I primi sono caratterizzati da un'organizzazione discreta,
da relazioni reciproche e dal legame con i pattern percettivi. Cosi nella musica occidentale: la
melodia, il ritmo, il metro. Sembra che la possibilità di organizzare una sintassi poggi,
universalmente, sulla capacità di un elemento discreto di creare una relazione fra un'attesa e un
sentimento di chiusura. Gli altri parametri (sempre nella musica occidentale) sono "statistici": il
timbro, il tempo e la tessitura [Meyer 1998, in 2000, pp. 286-88]. Ma altrove Meyer [1989, p. 14]
precisa che questa ripartizione non è la stessa secondo le epoche e le culture, e noi aggiungeremmo
volentieri che, a meno di privarsi di spiegare l'evoluzione degli "idiomi" musicali, alcuni parametri
statistici possono acquisire in una stessa cultura, e anche in certe opere, lo statuto di parametri
sintattici, come abbiamo suggerito prima a proposito del timbro.
La mente umana - terzo tipo di universali - ha la tendenza a organizzare gli elementi costitutivi
del fatto musicale in classi: classi di altezze, di intervalli, di forme, di generi, di voci, di strumenti, di
gruppi esecutivi [Meyei 1998, ed. 2000, p. 288], come abbiamo visto nei punti precedenti, e come
illustreranno le diverse tipologie presentate nella seconda parte di questo volume. Questo universale
di strategia corrisponde a ciò che gli psicologi chiamano “percezione categoriale” [ibid., p. 289]; un
esempio è la "blue note" degli appassionati di jazz che viene percepita come tale poichè riferita a una
classe di altezze stabile. Qui intervengono le leggi della Gestalt.
Il funzionamento sintattico e categoriale è ancora possibile in quanto - quarto tipo di universali -
l'intera produzione musicale è divisibile in livelli gerarchici [ibid., p. 290]. Ma, nella musica tonale,
per esempio, anche se le concatenazioni di accordi e di tonalità poggiano sullo stesso principio (il
circolo delle quinte), le relazioni sintattiche funzionali non si manifestano nello stesso modo al livello
della frase musicale e al livello delle sezioni di un movimento di sonata.
Infine, ultimo tipo di universali: poichè le nostre capacità biocognitive sono limitate, le
produzioni musicali sono caratterizzate dall'alto tasso di ridondanza dei loro elementi costitutivi che
vengono a controbilanciare la parte necessaria di novità che esse presentano, e ciò vale sia a livello
dello stile sia della struttura idiosincratica di un brano [ibid., pp. 292-94].
Si potrà rimproverare all'inventario degli universali di strategia di Meyer di essere normativo,
poichè le limitazioni che esso impone portano a respingere i tentativi di musiche fondate tanto sui
micro-intervalli quanto sulla serie generalizzata. Ma, giustamente, questi tentativi non sono
storicamente sopravvissuti, ivi compreso il riconoscimento da parte dei loro promotori, e non è
possibile che ciò succeda poichè si scontrano con delle limitazioni imposte dalle (in)capacità
universali della mente umana.
Allo stesso modo si potrebbe pensare che la fiducia accordata da Meyer (e da noi) agli universali
di strategie biopsicologicamente fondate chiuda la porta al ruolo che giocano la storia e la cultura
nella formazione e nello sviluppo delle produzioni musicali di ogni tipo. Non è affatto vero. Come
dimostra lo stesso Meyer nel seguito del suo testo, Evolution, Choìce, Culture, andMusic History
[ibid., pp. 294-303], e come vedremo più avanti, queste limitazioni non sono le uniche a spiegare i
fatti musicali. Semplicemente, le leggi biopsicologiche forniscono un quadro dal quale la mente
umana non può uscire pena l'obsolescenza, e le cui produzioni sono al contrario colorate e
diversificate dalla specificità di tale evoluzione particolare o di tale contesto culturale specifico
secondo il gioco delle regole (stilistiche) e delle strategie (individuali) [Meyer 1989, pp. 13-23]. Ed è
facendo delle scelte strategiche a partire dalle possibilità definite dalle leggi e dalle regole che
funzionano i produttori e gli ascoltatori di musica. L'autore va persino oltre: l'esistenza di limitazioni
esercitate dai principi dell'evoluzione e dall'ambiente culturale è essa stessa universale [Meyer 1998,
ed. 2000, pp. 294-95], realtà da non confondere con tale phylum dell'evoluzione o talaltra rete
culturale particolare.
10. Contesto e funzione.
Al di là dell'eccezione rappresentata dalla musica "pura" che si è sviluppata in Europa dal XIX
secolo - e che costituisce solo una parte molto limitata della musica eseguita durante tale periodo -, la
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musica è inseparabile dalle funzioni che le danno un senso. Nella sua veste più semplice, essa agisce
come segnale della funzione: è il caso dell'organo che, in seguito a una storia di cui si possono
descrivere le tappe, è divenuto segnale e simbolo della musica religiosa cattolica. Se vi sono, come
nelle tante culture tradizionali, delle corrispondenze strette fra le caratteristiche musicali di un
repertorio specializzato e le circostanze nelle quali esso viene eseguito, la musica veicola allora una
parte più o meno grande della rete di significati che sono a essa associati [Asch 1975]; caso
esemplificativo è lo "stile" severo, che in Europa, a partire dal XVII secolo, assume un valore quasi
esclusivamente religioso. Ma questa associazione della musica a una funzione in generale è un
universale "debole", perchè non ci dice alcunchè della diversità delle funzioni che essa assolve.
Merriam [1964, cap. XI] ne ha proposto un elenco che, se non è sempre coerente nè definitivo, ha
almeno il merito di esistere: funzioni di piacere estetico, di distrazione, di comunicazione, di
rappresentazione simbolica, di risposta fisica, di rafforzamento della conformità alle norme sociali, di
convalida delle istituzioni sociali e dei rituali religiosi, di contributo alla continuità e alla stabilità
della cultura. Siccome questa lista mescola gli usi e le funzioni, converrebbe riprenderla a partire dal
caso particolare. L'inventario delle “circostanze” {occasioni) proposto da Charles Boilès [1978]
meriterebbe, anch'esso, di essere riesaminato. A questo punto forse è necessario mettere in atto delle
considerazioni storiche e filogenetiche: l'importanza dei nessi fra la musica e i riti e le cerimonie
collettive manifesta il ruolo che ha potuto giocare la musica come fattore di socializzazione
[Dissanayake 2000; Freeman 2000].
11. Arte ed estetica.
Se vi è una convinzione profondamente radicata nella mente della maggior parte degli
etnomusicologi, e più in generale degli etnologi, è proprio quella che l'arte e l'atteggiamento estetico
non siano degli universali. All'antica mitologia della superiorità e della vocazione universale della
Grande Arte europea è succeduta una “nuova mitologia”, quella della non universalità dell'arte e
dell'estetica [Dutton 1995], che si basa su un principio ripetuto e variato in tutte le maniere possibili:
“Ma essi non hanno il nostro; concetto di arte” [Dutton 2000]. Il tema è sviluppato secondo
un'argomentazione diventata canonica: noi abbiamo un'Arte pura, una Musica as| soluta, oggetto di
un'attenzione disinteressata che definisce l'Estetica, mentre gli Altri non conoscono che musiche
funzionali strettamente legate ad altre attività sociali. Con la sua consueta perspicacia, Bruno Nettl
[1973,9 pp. 12-13] faceva osservare che le cose non erano così semplici: noi stessi abbiamo delle
musiche patriottiche, militari o religiose, e si può essere certi che gli Altri non abbiano delle musiche
da divertimento, delle musiche apprezzate per il piacere che esse danno o per la loro bellezza? In
realtà, gli etnologi si ingegnano spesso per rendere le culture altre più esotiche di quanto non lo
siano [Dutton 2000, pp. 217-29]: nell'intenzione lodevole di attirare l'attenzione sulla specificità della
cultura che studiano, essi tentano: di farla apparire la(e) più strana(e) possibile. Per dimostrare che
non vi è arte o esperienza estetica, si paragona più o meno esplicitamente tale oggetto religioso o
magico a una pittura contemporanea fatta per essere esposta in un museo. Ma questa è la prova di
uno straordinario "modernocenttrismo", che altro non è che una delle forme più perniciose di
etnocentrismo: significa fermarsi alla comprensione della maggior parte della tradizione artistica
europea. Quando i fedeli della Thomaskirche di Lipsia la domenica ascoltavano una cantata scritta
dal loro coscienzioso Cantor Johann Sebastian Bach, essi erano in uno stato d'animo più vicino a
quello di un ascoltatore contemporaneo di concerto o a quello del partecipante a una cerimonia
religiosa "primitiva"? Porre la domanda, non significa già rispondervi? No, la musica assoluta e la
pittura astratta, l'Arte con l'A maiuscola di Duchamp e Cage non sono la verità finalmente rivelata
dell'Arte e della Musica "in sè", esse ne rappresentano solo delle varianti, e molto marginali.
Tanto più che bisogna far intervenire due ambiti che si dimenticano quando si guarda in
cagnesco la nostra arte contemporanea e le pratiche delle società tradizionali. Da un lato esistono le
grandi tradizioni letterate, dalla Cina al Giappone all'India e al mondo arabo-islamico, nelle quali si
ritrovano dei fenomeni paragonabili a quelli che caratterizzano la Grande Arte europea. Dall'altro vi
sono sempre state in Europa, come altrove, delle attività che, pur situandosi al di fuori della Grande
Arte, non possono essere escluse dalla sfera dell'arte nel senso comune del termine, vale a dire delle
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attività nelle quali intervengono la preoccupazione del ben fatto, dell'ornamento e della bellezza:
pensiamo al vasto continente delle "Arti Popolari".
Non appena si considerano seriamente tanto le diverse tradizioni occidentali che l'insieme delle
altre tradizioni, non si può più rimanere fermi alla concezione di due mondi che si oppongono - il
mondo dell'Estetica e dell'Arte pure senza paragone con il mondo della tecnica e dell'utile - poichè
vediamo emergere fra loro una moltitudine di somiglianze e il campo è finalmente libero per la
ricerca di universali.
Bisogna allora partire dall'inizio, ossia da ricerche sul lessico e sui concetti.
Quando negli anni Sessanta ci si rivolse all'antropologia cognitiva [Tyler 1969], l'interesse
verteva su tutti i tipi di categorie "etniche" - dalla parentela all'etnobotanica o all'etnomedicina - ma si
affrontava solo di rado il campo dell'arte e dell'estetica. Eppure, chi potrebbe negare che in tutte le
culture conosciute esistano dei termini inerenti ai tre ambiti concettuali differenziati da una
semiologia delle forme simboliche - l'ambito dell'arte, vale a dire della produzione, l'ambito della
bellezza, cioè dell'oggetto e delle sue caratteristiche, e infine l'ambito dell'estetica, cioè della
ricezione? La distinzione fra le tre dimensioni s'impone tanto più qui, poichè essa permette di
dissipare le ambiguità e le confusioni che oggi circondano le questioni relative agli ambiti
rispettivamente dell'arte e dell'estetica: non si sa più se l'estetica sia, come la intendevano i suoi
fondatori Baumgarten e Kant, una teoria della ricezione che poggia sia sul bello naturale che sul bello
artistico o se, secondo il ribaltamento operato da Hegel, essa si identifichi con la teoria dell'arte.
Siccome la Bellezza non ha più diritto di cittadinanza nella Grande Arte occidentale contemporanea,
che ha d'altronde accolto alla rinfusa nel suo grembo le produzioni di tutte le altre culture, le condotte
di produzione e le proprietà dell'oggetto sono passate in secondo piano: tutto verte adesso sulle
condotte di ricezione e "sull'esistenza di un ipotetico atteggiamento estetico.
Noi lasciamo da parte quest'ambito della ricezione, poiché sarà affrontato da uno di noi infine di
questo volume (Molino) nel tentativo di estrarre qualche elemento fondamentale dell'esperienza
musicale. Ricordiamo, per riutilizzarli qui, due punti di quest'analisi: l'esperienza estetica non è una
realtà semplice, riducibile a una essenza, a una definizione mediante condizioni necessarie e
sufficienti, bensì un misto, una combinazione di elementi eterogenei, variabili secondo le culture.
Ma, ed è il secondo punto, questi non sono elementi qualsiasi: ritroviamo ovunque le stesse
componenti, che costituiscono dei veri phyla, vale a dire dei parametri dell'esperienza che si
presentano sotto forme differenti nelle diverse culture poichè si evolvono e si trasformano a partire
da un fondamento antropologico comune.
Per quanto concerne l'ambito della produzione, conviene in primo luogo ricordare che l'arte
appartiene all'ordine del fare e che, se può essere l'oggetto di una esperienza estetica, lo stesso
avviene per le realtà naturali: è anzitutto l'oggetto di una esperienza specifica - l'esperienza poietica -
e in tutte le culture esiste un lessico specializzato della fabbricazione e della produzione. E’ in questo
contesto che si pone il problema dell'ontologia dell'arte [Thomasson 2004]. Anzichè sottilizzare a
partire da un'ontologia talmente povera da non conoscere che le categorie del concreto e dell'astratto,
del reale e dell'immaginario, occorre riconoscere la specificità dell'essere poietico: Esiste un mondo
poietico, composto da esseri poietici, che risiede nel mondo della natura ma specificamente distinto
da esso [Gilson 1963, p. 152].
Tuttavia, a differenza di Gilson e di quasi tutta la tradizione filosofica, è essenziale sottolineare
che il mondo poietico comprende gli oggetti tecnici Così come le opere d'arte. Vuoi dire che la
tradizione filosofica è una tradizione di "letterati" che ignorano o disprezzano la tecnica: Aristotele
ovviamente non dice una parola sulla tecnica nella sua Poetica che pure è, ricordiamolo, una
"poietica", cioè un trattato della produzione. Accanto al mondo fisico naturale e al mondo mentale,
occorre dunque far posto a un mondo di artefatti dove convivono oggetti tecnici e opere d'arte. Si
spiega Così l'esistenza in tutte le società di un continuum che va dalla tecnica più utilitaria - ma
esiste un utile puro senza traccia di dilettevole? - all'Arte più o meno pura: ovunque ci sono oggetti
costruiti più o meno rapidamente, con maggiore o minore cura, fabbricati con una materia più o
meno ricca,, più o meno rara, più o meno decorati... E’ il caso degli strumenti musicali, della danza
e senza dubbio anche, secondo modalità che converrebbe precisare, della stessa "materia" musicale.
Si comprende perchè nelle diverse culture è all'interno di ciò che chiamiamo tecnica - technè greca,
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ars latina o arte medievale - che la pratica sociale accorda un valore e un prestigio maggiore a questa
corporazione o a quel tipo di produzione. La tecnica si lega all'arte grazie al phylum dell'abilità che
permette di fare bene e porta, più oltre, all'eccellenza e al virtuosismo, caratteristiche che anche
l'artigianoartista conferisce a ciò che produce.
Si è Così portati a esplorare un ultimo campo, quello della Bellezza e delle proprietà dell'oggetto
prodotto. E importante innanzitutto ricordare che tutte le culture posseggono un ricco lessico della
Bellezza, anche se i dettagli di significato di ogni parola dell'insieme non corrispondono esattamente
ai valori dei termini nelle lingue europee contemporanee. In questo campo, un serio pretendente al
titolo di universale è senza dubbio l'associazione diffusa fra il bello e il buono, presente, molto spesso
lo si dimentica, nella stessa tradizione europea: il kalos greco significa al tempo stesso e secondo i
contesti "bello da vedere", di frequente con una sfumatura erotica, "utile" e "perbene, socialmente e
moralmente buono". Questa associazione non impediva agli antichi Greci di saper distinguere il bello
dall'utile, non più che la loro fede impediva agli uomini del Medioevo europeo di riconoscere
l'esistenza della Bellezza. Nulla è più significativo a questo proposito delle straordinarie formule con
le quali san Bernardo di Chiaravalle condanna il lusso e le decorazioni fantastiche delle chiese e dei
monasteri romanici: Nei monasteri, di fronte ai frati che stanno leggendo, a cosa serve questa
mostruosità ridicola, questa stupefacente bellezza laida, questa bella bruttezza? [Bernard de
Clairvaux, in Migne 1844-65, CLXXXII, col. 915].
In tutte le culture è frequente l'uso sistematico del vocabolario della Bellezza per parlare bene
degli esseri umani, degli oggetti fabbricati o delle realtà naturali. E’ solo in qualche "alta cultura",
Cina o Europa contemporanea, che la Grande Arte rifiuta la Bellezza.
Lasceremo da parte le discussioni che hanno interessato nell'ambito della filosofia analitica
anglofona l'esistenza e lo statuto delle qualità "estetiche" dell'oggetto [Sibley 1959]; noi ci situiamo
in una prospettiva "realista" - nel senso filosofico del termine -, fedele alle intuizioni del senso
comune: la Bellezza è presente nell'oggetto e non solo nel soggetto che percepisce.
Abbiamo già visto l'importanza del saper fare, che il creatore è cosciente di mettere nella sua
produzione e di cui l'ascoltatore o lo spettatore riconosce la presenza in ciò che è stato prodotto. Ma
altri fattori intervengono nella bellezza di un'opera e costituiscono altrettanti phyla presenti ovunque
in proporzioni e sotto forme variabili. E’ il caso di quella specie di bellezza che si basa sulle relazioni
che uniscono la forma alla funzione e che corrisponde alla frequente associazione del bello al buono
e all'utile: un'opera bella è un'opera che corrisponde esattamente alla sua funzione. Non vi è dunque
nulla di sorprendente se dappertutto si ritrova questa sensibilità alla bellezza funzionale, dalle
comunità ristrette fino all'arte contemporanea.
Il senso della bellezza funzionale non è tuttavia incompatibile con la ricerca dell'ornamento, che
può accompagnare ogni oggetto utile, arricchirlo e prendere al tempo stesso ogni sorta di significato
supplementare [Boas 1927]. Accanto all'ornamento si deve far posto alla rappresentazione, in uso fin
dall'arte paleolitica, e di cui non bisogna dimenticare il ruolo che gioca nella musica, dall'imitazione
dei versi di animali e dei rumori della natura fino alle musiche imitative della tradizione europea.
Peraltro, ornamentazione e rappresentazione sono molto spesso inseparabili dai valori simbolici che
vengono loro riconosciuti nella cultura.
Al di qua di questi phyla, esistono delle proprietà formali che sarebbero comuni a tutti gli oggetti
considerati come belli in tutte le culture? La ricerca non è stata affatto intrapresa nel campo musicale
e per il momento ci si deve accontentare di caratteristiche molto generali che si applicano più
facilmente alle arti plastiche che alla musica. Sappiamo che gli Scolastici definivano la bellezza sulla
base della presenza di tre qualità: integritas o "integrità", harmonia o "armonia" e claritas o
"splendore" [Gilson 1963, pp.46-49]. E’ significativo che le medesime nozioni si ritrovino, benchè
espresse in un vocabolario diverso e trasposto dall'oggetto all'esperienza estetica come è d'uso nel
nostro mondo soggettivista, nell'opera dell'esteta americano contemporaneo Monroe Beardsley:
l'esperienza estetica è caratterizzata dall'unità, afferma Beardsley, dalla complessità e dall'intensità
[1981, pp. 529-30]. Uno di noi due ha suggerito di ritrovare queste categorie sia nella musica di una
danza di iniziazione al matrimonio dei Baganda sia in Rèpons di Boulez... [Nattiez 2004, pp. 61-64].
Si comprende l'interesse per ricerche comparative che permettano di scoprire le qualità che gli
ascoltatori concordano nel riconoscere nelle opere musicali che reputano belle. Raramente il lavoro è
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stato realizzato, in misura minore per la musica che per le arti plastiche, campo per il quale si dispone
di qualche dato: si è constatato, per esempio, che i criteri sui quali si basano gli Yoruba per giudicare
le loro sculture si riallacciano molto spesso a quelli che utilizzano gli amateurs europei [Thompson
1968]. Ancora più notevoli sono stati i risultati ottenuti da Irvin L. Child e Leon Siroto: nel
paragonare i giudizi espressi sulle maschere BaKwele dai membri di questa cultura e dagli studenti
americani, nonostante qualche discrepanza, i due studiosi hanno ritrovato una notevole convergenza
delle valutazioni [Child e Siroto 1965].
E’ lo zoccolo antropologico comune che spiega la frequenza degli scambi fra musiche
appartenenti a tradizioni diverse: sembra che ovunque si siano sempre apprezzate altre forme d'arte
che non le proprie. Nulla è più giudicativo a questo proposito della facilità con la quale l'arte
romanica europea ha preso in prestito e integrato elementi plastici derivati dalle culture più diverse.
Viceversa, come non essere affascinati dal destino dell'orafo? francese Guillaume Boucher che, fatto
prigioniero dai Mongoli, diventa l'orafo del sovrano mongolo Mòngkà il quale sembra apprezzare
l'oreficeria dell'epoca gotica [Olschki 1946]? Fenomeni analoghi si ritrovano in musica, come
testimonia per esempio il modo in cui durante la dinastia Tang le classi dirigenti cinesi hanno
adottato con entusiasmo le musiche e le danze di origine straniera. E’ in questo ambito generale che
occorre collocare gli scambi contemporanei fra culture: le “Tourist Arts” di oggi [Graburn 1976] non
costituiscono altro che un nuovo episodio dell'incessante dialettica di influenze e di prestiti che
appaiono proprio come una testimonianza dell'unità delle pratiche artistiche dell'umanità.
12. Storia ed evoluzione.
Le musiche cambiano, una verità valida sia per le musiche di tradizione orale che per la musica
europea: i ritmi e le modalità del cambiamento sono variabili ma la realtà del cambiamento è una
costante e costituisce Così una specie di universale. Abbiamo visto che gli universali musicali hanno
delle radici antropologiche ma si presentano sotto forma di phyla, vale a dire di discendenze
evolutive che si trasformano nel corso del tempo: come spiegare dunque le costanti e i cambiamenti?
Il loro studio è reso difficoltoso dall'esistenza di due campi di ricerca, ognuno associato a un
approccio specifico. Da un lato vi è il campo della musica europea, che è parte integrante della storia:
studiare la musica europea significa collegare le opere a uno stile e precisare la loro collocazione in
un'evoluzione lineare e teleologica. Dall'altro lato vi è il campo dell'etnomusicologia, che si situa
quasi esclusivamente sul piano sincronico: si studia una cultura musicale nel suo funzionamento
attuale senza preoccuparsi delle sue trasformazioni. In linea di massima l'etnomusicologia rifiuta la
storia perchè non ci sono documenti, perchè si è a lungo creduto che si trattasse di società "fredde"
che sfuggivano alla storia, perchè ci si interessa maggiormente all'esperienza musicale vissuta
piuttosto che ai problemi posti dal cambiamento. Aggiungiamo che fra la storia europea e il presente
dell'etnomusicologia si colloca un campo ambiguo, quello delle grandi tradizioni letterate, dalla Cina
e dal Giappone all'India e al mondo arabo-islamico. Per lungo tempo si è considerata la loro musica,
Così come la loro arte e la loro civiltà, come delle totalità statiche e chiuse in loro stesse, che si
potevano considerare nella loro globalità. Ora ci si è accorti, e ci si accorge sempre pi∙, che questa
prospettiva era il risultato dell'ignoranza e del disprezzo, e che quelle musiche hanno una storia
altrettanto ricca, altrettanto complessa di quella dell'Europa, come si è potuto vedere nel volume III
di questa Enciclopedia.
Occorre allora fermarsi a questo dualismo di approccio con una storia lineare, da un lato, e una
sincronia che giustappone delle culture musicali senza rapporti fra loro, dall'altro? Sarebbe
auspicabile incamminarsi sulla strada dell'unificazione dei metodi. La musicologia potrebbe ispirarsi
alla linguistica storica e comparata che, da due secoli, è riuscita a stabilire dei rapporti genealogici fra
le diverse lingue parlate nel mondo: perchè non tentare, sullo stesso modello, di stabilire la
genealogia di culture musicali legate da rapporti di filiazione? Tali ricerche potrebbero collocarsi
sotto il patrocinio di Sir William Jones, autore di un memorabile trattato intitolato On the musical
modes of the Hindus [1799] e uno dei primi ad aver riconosciuto, nel 1786, la parentela fra le lingue
indoeuropee.
Un rinnovamento dei metodi potrebbe anche venire, come proposto da Leonard Meyer, dalla
biologia e dalla teoria dell'evoluzione: Dato il costante interesse che essi rivolgono ai concetti legati
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all'organicismo, è strano che i musicologi (e gli specialisti di scienze umane in generale) abbiano
ignorato la biologia, trascurando in particolare le analisi neodarwiniane del cambiamento e della
diffusione che suggeriscono feconde modalità di comprensione della storia della musica [1998, ed.
2000, p. 300].
Non bisogna dimenticare infatti che la linguistica storica e la teoria dell'evoluzione poggiano su
un modello di spiegazione analogo, il modello di “derivazione storica” [Comrie 1981]. E’ vero che
l'evoluzione culturale si distingue per almeno tre tratti dall'evoluzione biologica: trasmissione dei
caratteri acquisiti, evoluzione orientata secondo direzioni privilegiate, relativa libertà di scelta degli
attori. Ma queste differenze non tolgono nulla alla pertinenza dello schema generale dell'evoluzione
darwiniana, che permette, in particolare, di liberare la storia da ogni finalità e da ogni linearità: la
storia umana, e la storia della musica come le altre, non hanno un fine prestabilito nè un itinerario
provvidenziale. Conviene dunque rifare la storia della musica, di tutte le musiche, a partire dai
medesimi principi: comparsa di un'innovazione (variazione) che si ripete, si trasmette e si diffonde
oppure no (selezione e replica) e che nell'ambito di una comunità da vita a una cultura musicale
particolare (isolamento relativo delle popolazioni).
Si potrebbe in tal modo capire meglio come la musica abbia un fondamento nella nostra natura -
è ciò che spiega la sua universalità e la sua unità - ma come essa sia, fin dalle origini, ricca di tutte le
possibilità che le diverse culture sfrutteranno.