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1 ELETTROMAGNETISMO convenzione: i simboli in grassetto vanno frecciati Modulo 2 LE CORRENTI ELETTRICHE Capitolo 1 La corrente elettrica 3.0 L’invenzione della pila, nel 1799, segna una transizione epocale nello studio dei fenomeni elettrici e nello sviluppo delle loro applicazioni pratiche. Prima di allora elettricità significava cariche elettriche, che si ottenevano con appositi, e alquanto macchinosi, generatori elettrostatici, ma soltanto in quantità limitate. Dopo di allora, invece, elettricità prese a significare correnti elettriche, cioè flussi continui di cariche. Aprendo così la porta a un nuovo mondo di conoscenze fisiche, che culmineranno con la teoria generale dell’elettromagnetismo, e si manifesteranno con una serie pressochè infinita di applicazioni pratiche, dal telegrafo a Internet, dall’illuminazione elettrica agli apparecchi elettrodomestici. 3.1 Introduzione alla corrente elettrica Perché una corrente elettrica, cioè un flusso ordinato di cariche, attraversi un corpo con continuità si devono verificare tre condizioni. La prima è che nel corpo vi siano dei portatori di carica, cioè particelle dotate di carica elettrica, libere di muoversi al suo interno; e quindi il corpo deve essere un conduttore elettrico. La seconda è che vi sia un campo elettrico che provochi il moto dei portatori. E infine occorre che il conduttore sia inserito in un circuito chiuso, costituito da una catena ininterrotta di conduttori a contatto. Esaminiamo queste condizioni nel caso di una torcia elettrica ( figura 1). Le sue parti essenziali sono la pila, l’interruttore, alcuni conduttori metallici (che provvedono ai necessari collegamenti) e la lampadina, che costituisce il conduttore nel quale ci interessa che scorra la corrente. Tutti questi oggetti sono dei conduttori elettrici, l’interruttore quando è “chiuso” il suo contatto metallico. La pila, in particolare, è il dispositivo che provvede a mantenere negli altri conduttori il campo elettrico necessario al passaggio della corrente. Fra i poli della pila, infatti, vi è una differenza di potenziale pressochè costante che si trasmette per contatto all’insieme dei conduttori ad essa collegati, nei quali si stabilisce pertanto il campo. E tutti questi oggetti sono in contatto l’uno con l’altro, formando così un circuito chiuso (che naturalmente si può aprire, azionando l’interruttore, per interrompere il passaggio della corrente). La figura 2 mostra schematicamente l’andamento del potenziale elettrico nei vari punti del circuito di fig.1, avendo fissato il riferimento zero al polo negativo della pila. Il potenziale massimo (stabilito dalla tensione della pila) si ha in corrispondenza del polo positivo della pila; il potenziale poi decresce lungo il resto del circuito, fino ad annullarsi: esso diminuisce quasi inapprezzabilmente lungo i conduttori di collegamento (che sono ottimi conduttori), assai più decisamente in corrispondenza della lampadina, nella quale, perché scorra la corrente, è necessario un campo più intenso. Il grafico di figura 2 illustra anche il funzionamento del circuito dal punto di vista energetico, supponendo che le cariche libere siano positive (sappiamo invece che, nei metalli, si tratta di elettroni). Attraversando la pila, cioè passando dal suo polo negativo a quello positivo, le cariche vengono “sollevate” portandole a un potenziale positivo e pertanto acquistano energia: questo lavoro viene svolto a spese dell’energia chimica immagazzinata nella pila. Attraversando gli

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ELETTROMAGNETISMO convenzione: i simboli in grassetto vanno frecciati

Modulo 2 LE CORRENTI ELETTRICHE

Capitolo 1 La corrente elettrica 3.0 L’invenzione della pila, nel 1799, segna una transizione epocale nello studio dei fenomeni elettrici e nello sviluppo delle loro applicazioni pratiche. Prima di allora elettricità significava cariche elettriche, che si ottenevano con appositi, e alquanto macchinosi, generatori elettrostatici, ma soltanto in quantità limitate. Dopo di allora, invece, elettricità prese a significare correnti elettriche, cioè flussi continui di cariche. Aprendo così la porta a un nuovo mondo di conoscenze fisiche, che culmineranno con la teoria generale dell’elettromagnetismo, e si manifesteranno con una serie pressochè infinita di applicazioni pratiche, dal telegrafo a Internet, dall’illuminazione elettrica agli apparecchi elettrodomestici.

3.1 Introduzione alla corrente elettrica Perché una corrente elettrica, cioè un flusso ordinato di cariche, attraversi un corpo con continuità si devono verificare tre condizioni. La prima è che nel corpo vi siano dei portatori di carica, cioè particelle dotate di carica elettrica, libere di muoversi al suo interno; e quindi il corpo deve essere un conduttore elettrico. La seconda è che vi sia un campo elettrico che provochi il moto dei portatori. E infine occorre che il conduttore sia inserito in un circuito chiuso, costituito da una catena ininterrotta di conduttori a contatto. Esaminiamo queste condizioni nel caso di una torcia elettrica ( figura 1). Le sue parti essenziali sono la pila, l’interruttore, alcuni conduttori metallici (che provvedono ai necessari collegamenti) e la lampadina, che costituisce il conduttore nel quale ci interessa che scorra la corrente. Tutti questi oggetti sono dei conduttori elettrici, l’interruttore quando è “chiuso” il suo contatto metallico. La pila, in particolare, è il dispositivo che provvede a mantenere negli altri conduttori il campo elettrico necessario al passaggio della corrente. Fra i poli della pila, infatti, vi è una differenza di potenziale pressochè costante che si trasmette per contatto all’insieme dei conduttori ad essa collegati, nei quali si stabilisce pertanto il campo. E tutti questi oggetti sono in contatto l’uno con l’altro, formando così un circuito chiuso (che naturalmente si può aprire, azionando l’interruttore, per interrompere il passaggio della corrente).

La figura 2 mostra schematicamente l’andamento del potenziale elettrico nei vari punti del circuito di fig.1, avendo fissato il riferimento zero al polo negativo della pila. Il potenziale massimo (stabilito dalla tensione della pila) si ha in corrispondenza del polo positivo della pila; il potenziale poi decresce lungo il resto del circuito, fino ad annullarsi: esso diminuisce quasi inapprezzabilmente lungo i conduttori di collegamento (che sono ottimi conduttori), assai più decisamente in corrispondenza della lampadina, nella quale, perché scorra la corrente, è necessario un campo più intenso. Il grafico di figura 2 illustra anche il funzionamento del circuito dal punto di vista energetico, supponendo che le cariche libere siano positive (sappiamo invece che, nei metalli, si tratta di elettroni). Attraversando la pila, cioè passando dal suo polo negativo a quello positivo, le cariche vengono “sollevate” portandole a un potenziale positivo e pertanto acquistano energia: questo lavoro viene svolto a spese dell’energia chimica immagazzinata nella pila. Attraversando gli

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altri conduttori, invece, le cariche “scendono” lungo il campo perdendo la loro energia, che si trasforma in calore: il filamento della lampadina, infatti, si riscalda fino a emettere luce.

La struttura essenziale del circuito di figura 1 è di natura generale ed è la stessa, per esempio, utilizzata nei comuni apparecchi elettrici. Tale circuito comprende infatti un generatore elettrico, un dispositivo di controllo e un dispositivo utilizzatore, chiamato anche carico, nel quale l’energia delle cariche che costituiscono la corrente viene trasformata - in calore, lavoro meccanico o altre forme – per svolgere un determinato compito. In molti casi, in realtà, il generatore è esterno, si trova in una centrale elettrica, e ad esso ci si collega attraverso una presa di corrente.

Ciò dovrebbe aiutare a capire che, contrariamente a quanto a volte vien detto, la corrente elettrica, quando svolge i suoi compiti (come accendere una lampadina o azionare un motore), non si consuma. Per il semplice motivo che la corrente è esattamente la stessa in ogni punto di un circuito come quello di figura 1. Quello che ci fornisce l’Enel, per cui noi paghiamo la bolletta, è l’energia, trasportata dalla corrente, che poi utilizziamo, come si è detto, attraverso opportune trasformazioni. Gli effetti della corrente elettrica Sono assai numerosi e vari gli effetti derivanti dal passaggio di una corrente elettrica nella materia e nel vuoto. Tali effetti hanno costituito e tuttora costituiscono un potente strumento di indagine nella ricerca fisica, e rappresentano la base scientifica di un enorme numero di applicazioni pratiche. Queste ultime riguardano l’impiego dell’elettricità sia come una forma di energia facilmente trasformabile in altre, sia nella elaborazione e nella trasmissione a distanza di informazioni. La tabella che segue elenca sinteticamente solo alcuni di questi effetti. Tabella 1. Alcuni effetti della corrente elettrica Effetto termico (effetto Joule) Si manifesta nella trasformazione di energia elettrica in energia termica, quando la

corrente attraversa un conduttore ( § 3.9). Effetto luminoso L’emissione di radiazioni visibili (luce), può manifestarsi per effetto termico, cioè da

parte di corpi riscaldati a temperature sufficientemente elevate ( xxx), come nelle lampadine a incandescenza, oppure da parte di atomi eccitati ( xxx), come nelle lampade a scarica, nei diodi emettitori e nei laser.

Effetto magnetico Si manifesta quando un circuito è attraversato da corrente, producendo un campo magnetico (il circuito si comporta infatti come un magnete) ( xxx).

Effetto elettromagnetico Si manifesta quando un circuito è attraversato da corrente che varia rapidamente nel tempo, producendo un campo elettromagnetico (il circuito si comporta cioè come una antenna trasmittente, irraggiando energia) ( xxx).

Effetto meccanico Si manifesta per l’azione di forze elettriche ( Unità 1, §xxx) oppure, come nei motori elettrici ( xxx), di forze magnetiche, con la trasformazione di energia elettrica in energia meccanica.

Effetto chimico Si tratta delle trasformazioni chimiche che subiscono determinate sostanze, quando sono attraversate da una corrente ( xxx).

Effetti fisiologici Si tratta degli effetti che provoca una corrente quando attraversa il corpo umano ( § 3.11)

Figura 1. a) Smontando un torcia elettrica si individuano le sue parti essenziali. b) Le parti della torcia sono collegate in modo da formare un circuito chiuso. c) Schema elettrico del circuito: ogni elemento è rappresentato con un apposito simbolo grafico ( figura xxx). (adattare da Mondo della Fisica, tomo B, pag. 365, aggiungendo la parte a) con foto o disegno delle parti della torcia)

Figura 2. Andamento del potenziale delle cariche elettriche nel circuito di figura 1. (adattare da Mondo della Fisica, tomo B, pag. 366) 3.2 I portatori di carica nei metalli e il loro moto. Le sostanze che costituiscono i conduttori elettrici possiamo distinguerle in varie famiglie, a seconda del tipo dei portatori di carica in esse presenti: le particelle cariche libere di muoversi, che consentono il passaggio di una corrente elettrica. Una di queste è la famiglia dei semiconduttori ( xxx), nei quali alla conduzione elettrica provvedono sia elettroni che “elettroni mancanti” nel

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cristallo; questi ultimi, chiamati “buche” o lacune, si comportano infatti come cariche mobili dotate di carica positiva. Un’altra è la famiglia delle soluzioni elettrolitiche ( figura 3), dove i portatori di carica sono costituiti da ioni, cioè atomi che hanno perso o acquistato elettroni, che sono prodotti dalla dissociazione di molecole di sali, acidi o basi quando queste sostanze vengono sciolte nell’acqua. E ve ne sono altre ancora.

La categoria di conduttori più importante, tuttavia, è quella dei metalli, di cui ora ci occupiamo, che sono i migliori conduttori di elettricità perché al loro interno vi sono degli elettroni liberi, chiamati elettroni di conduzione, e perchè questi sono numerosissimi: tipicamente un elettrone libero per atomo. Ciò corrisponde, nel caso del rame, a circa 1029 elettroni/m3.

In realtà in un atomo di metallo isolato l’energia di legame degli elettroni più esterni, sebbene inferiore a quella dell’elettrone dell’atomo di idrogeno, è relativamente elevata. La situazione, però, cambia drasticamente quando si considera un corpo metallico, cioè un aggregato di atomi. E qui ricordiamo che i metalli hanno tipicamente una struttura cristallina (più precisamente microcristallina, come si può osservare al microscopio), con gli atomi, vicinissimi, disposti a formare una struttura regolare che si ripete sempre uguale. In una struttura di questo tipo gli elettroni più esterni di ogni atomo sono soggetti anche alle forze elettriche dei nuclei e degli elettroni degli atomi circostanti: il risultato è che il legame con l’atomo si indebolisce fortemente e viene vinto dall’agitazione termica. Questi elettroni, così, diventano liberi di muoversi all’interno del cristallo, come le molecole di un gas, e si parla infatti di gas di elettroni (o mare di Fermi, dal nome del fisico che per primo studiò questo argomento. Essi, tuttavia, restano confinati nel metallo, grazie alle forze attrattive esercitate dall’insieme degli ioni positivi che ne costituiscono il reticolo cristallino.

Come si manifesta, in questa struttura, l’agitazione termica? Gli ioni del metallo vibrano attorno alle loro posizioni di equilibrio, mentre gli elettroni liberi si muovono a caso, seguendo traiettorie a zig zag a seguito degli urti che subiscono con il reticolo cristallino (più precisamente, a interazioni coulombiane repulsive con gli ioni positivi del metallo) e con le inevitabili imperfezioni del cristallo ( figura 4 a). Ma questo moto disordinato non costituisce una corrente elettrica. Infatti, trattandosi di un moto casuale, il numero degli elettroni che all’interno del metallo si spostano in una qualsiasi direzione è sempre uguale, in media, al numero di quelli che si spostano nella direzione opposta. Esempio 1. Calcoliamo il numero di elettroni liberi in 1 m3 di rame. Sapendo che ogni atomo di rame libera un elettrone, il calcolo si riduce a quello del numero di atomi contenuti in 1 m3 di rame. I dati necessari sono la densità del metallo, δ = 8,96⋅103 kg/m3, che rappresenta la massa di 1 m3 di rame, e la sua massa atomica, che troviamo nella tavola periodica degli elementi a pag. xxx: mCu = 63,5 u = 63,5×1,66⋅10-27 kg = 1,05⋅10-25 kg. Il numero di atomi, e quindi di elettroni liberi, in 1 m3 di rame è dunque: 8,96⋅103 / 1,05⋅10-25.= 8,53⋅1028. Esempio 2. Calcoliamo l’energia cinetica e la velocità degli elettroni liberi di un metallo dovute all’agitazione termica. Ammettiamo che gli elettroni liberi di un metallo si comportino come le molecole di un gas perfetto e che il sistema costituito dagli elettroni e dagli ioni del reticolo si trovi in condizioni di equilibrio termodinamico a una data temperatura T. In tal caso l’energia cinetica media degli elettroni ( xxx) è: Ec = ½ me vqm

2 = 3/2 kT dove me è la massa dell’elettrone, vqm

2 la velocità quadratica media (cioè la media dei quadrati delle velocità) dell’insieme degli elettroni e k la costante di Boltzmann. Alla temperatura ambiente di 20 °C (T = 293 K) si ha: Ec = 3/2 kT = 1,5×1,38⋅10-23×293 = 6,07⋅10-21 J = 6,07⋅10-21/1,6⋅10-19 eV = 0,038 eV Dall’espressione dell’energia cinetica si ricava la velocità quadratica media, che a temperatura ambiente vale:

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vqm = (3kT/me)1/2 = (3×1,38⋅10-23×293/9,11⋅10-31)1/2 = 1,15⋅105 m/s Approfondimento 1. Il rumore termico: la “voce” degli elettroni. Abbiamo appena detto che il numero degli elettroni che in un metallo, a causa dell’agitazione termica, si spostano in una qualsiasi direzione è sempre uguale, in media, al numero di quelli che si spostano nella direzione opposta. In media certamente, ma non esattamente a ogni istante di tempo. La conseguenza? Agli estremi di qualsiasi conduttore, che si trovi a temperatura diversa dallo zero assoluto, si osserva sempre una debolissima differenza di potenziale che varia nel tempo con andamento casuale, che in media è nulla ma non lo è istante per istante. Questa tensione prende il nome di rumore termico e il fenomeno è di grandissima importanza, concettuale e pratica, per i due motivi seguenti. Il rumore rappresenta un limite per la precisione delle misure fisiche perché contribuisce agli errori casuali ( xxx). Il rumore rappresenta un limite nella trasmissione di segnali perché si somma a qualsiasi segnale utile, sovrapponendosi ad esso fino, a volte, a renderlo irriconoscibile. Come avviene quando il segnale televisivo è debole e sullo schermo appare la cosidetta “neve”, che rappresenta appunto l’effetto del rumore. Quando poi sintonizziamo una radio a una frequenza a cui non opera nessuna stazione trasmittente, udiamo un caratteristico fruscio, che rappresenta (assieme ad altri disturbi) la “voce” degli elettroni dei conduttori che costituiscono i circuiti del ricevitore.

Ma qual è l’origine di questa tensione di rumore? Per fissare le idee, consideriamo un conduttore filiforme che immaginiamo suddiviso in due parti uguali. Per quanto detto all’inizio il numero degli elettroni che a ciascun istante, a seguito del loro moto casuale, verranno a trovarsi in una parte non sarà esattamente uguale al numero di quelli che si trovano dall’altra. Ciò rappresenta, evidentemente, uno squilibrio di carica, che si manifesta appunto in una differenza di potenziale fra i due estremi del conduttore (derivante da un potenziale negativo all’estremo dove gli elettroni sono più numerosi e uno positivo all’altro estremo). Che succede, ora, se applichiamo una differenza di potenziale costante fra gli estremi di un conduttore, stabilendo un campo elettrico E al suo interno? Osserviamo subito che il conduttore, a seguito della manovra, non si trova più in equilibrio elettrostatico (ciò che imponeva al conduttore di essere equipotenziale), perchè esso diventa sede di una corrente elettrica. A livello microscopico, infatti, gli elettroni liberi si spostano perché soggetti al campo, che esercita su ciascuno di essi una forza costante nel tempo: (1) Fel = -eE

Questa forza, per il secondo principio della dinamica, provoca un moto uniformenente

accelerato, che si sovrappone, per il principio di indipendenza dei movimenti, al moto casuale dovuto all’agitazione termica. Ma gli elettroni non si muovono nel vuoto. Nelle loro traiettorie, infatti, essi sono soggetti a urti con il reticolo, ciascuno dei quali ne modifica la velocità in modulo, direzione e verso, dando luogo a trasferimenti di energia fra elettroni e reticolo. E questi urti sono frequentissimi perché gli elettroni si muovono a velocità assai elevate, dell’ordine di 105 m/s e gli ioni del reticolo sono vicinissimi fra loro, a distanze dell’ordine di 10-10 m.

L’effetto frenante complessivo degli urti è equivalente a quello di una forza di attrito che agisce sugli elettroni, analoga alla resistenza del mezzo, con intensità proporzionale alla velocità, che incontra un corpo in moto in un fluido. Il risultato è che il moto degli elettroni è ben rappresentato da una velocità media vd proporzionale all’intensità della forza elettrica e quindi del campo (che cosa penserebbe di ciò Aristotele?), chiamata velocità di deriva: (2) vd = μE dove la costante μ rappresenta la mobilità degli elettroni nel metallo. In conclusione, si ha un moto ordinato di cariche, chiamato moto di deriva, che costituisce una corrente elettrica.

Figura 3. Da trovare, immagine al microscopio atomico di un microcristallo metallico Figura 4. a) La traiettoria di un elettrone libero in un metallo, nel suo moto di agitazione termica, subisce brusche variazioni a causa degli urti con gli ioni positivi del reticolo cristallino. b) In presenza di un campo elettrico, agli spostamenti irregolari del moto termico (linea blu) si sommano quelli del moto regolare di deriva dovuto al campo, in direzione opposta a quella del campo, determinando così la traiettoria effettiva (linea rossa). a) b)

3.3 Intensità e verso della corrente elettrica Una corrente elettrica è costituita, come si è detto, da un flusso ordinato di cariche elettriche. La grandezza essenziale che caratterizza una corrente elettrica è la sua intensità, una grandezza scalare che è definita in modo simile alla portata di un flusso d’acqua. L’intensità di una corrente elettrica attraverso un conduttore è definita dal rapporto fra la quantità di carica che passa attraverso una qualsiasi sezione trasversale del conduttore in un intervallo di tempo Δt e l’intervallo stesso: (3) i = ΔQ/Δt Alla corrente contribuiscono tutti i portatori di carica in moto: elettroni nei conduttori metallici, ioni positivi e negativi nelle soluzioni elettrolitiche, elettroni e lacune nei semiconduttori, ... In una soluzione elettrolitica, per esempio, la corrente si calcola sommando le cariche trasportate in un verso dagli ioni positivi e quelle trasportate nel senso opposto da quelli negativi. La corrente elettrica si misura con strumenti chiamati amperometri, di cui ci occuperemo nel paragrafo 8.

Nel sistema SI l’unità di misura della collente è l’ampere (A), chiamato così in onore del fisico francese André Marie Ampère (1775-1836) i cui studi sugli effetti magnetici della corrente costituiscono la base per la definizione operativa di questa unità ( xxx). Che è importante perchè è una grandezza fondamentale del sistema SI: dall’ampere derivano infatti le unità delle altre grandezze elettriche e di quelle magnetiche.

L’ampere è in evidente relazione con il coulomb; se in 1 secondo passa la quantità di carica di 1 coulomb, l’intensità della corrente è 1 ampere, cioè: 1 A = 1 C / 1 s e quindi 1 coulomb è la carica trasportata da 1 ampere in 1 secondo.

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Per fissare le idee, diciamo che le correnti che alimentano gli apparecchi elettrici di casa hanno intensità dell’ordine dell’ampere (da frazioni di ampere, i più sobri, fino ad alcuni ampere, i più voraci, come le stufe elettriche o gli scaldabagni). Correnti assai più intense (attorno a 1000 A) sono necessarie per azionare i locomotori elettrici; ancora più intense (fino a 100000 A) sono quelle che si possono raggiungere nelle scariche elettriche dei fulmini, che durano però soltanto per tempi brevissimi (frazioni di millesimo di secondo). Assai meno intense, invece, sono generalmente le correnti usate come supporto di segnali, cioè per trasmettere o elaborare informazioni. Un tipico microprocessore, per esempio, può assorbire 10 ampere, ma il chip può contenere un miliardo di transistori, sicché ciascuno di questi viene alimentato con correnti dell’ordine dei miliardesimi di ampere. Correnti di intensità bassissima, del resto, trasportano i segnali nei neuroni che costituiscono il nostro sistema nervoso. Esempio 3. Calcoliamo la velocità di deriva degli elettroni in un conduttore. Vogliamo calcolare la velocità di deriva degli elettroni in un filo di rame con sezione di 1 mm2 attraverso il quale scorre una corrente con intensità di 1 A. Consideriamo un cilindretto costituito da un tratto di filo lungo 1 mm, nel quale si trovano ( Esempio 1) n = 8,53⋅1028×(1mm3/1 m3) = 8,53⋅1019 elettroni di conduzione. Una corrente con intensità di 1 ampere corrisponde al passaggio di 1 C, cioè 1/1,6⋅10-

19 = 6,25⋅1018 elettroni, al secondo. Il tempo necessario perché tutti gli elettroni contenuti nel cilindretto percorrano 1 mm, cioè passino attraverso la sezione del filo che ne costituisce la base, è Δt = 8,53⋅1019/6,25⋅1018 = 13,6 s. Quindi la velocità di deriva degli elettroni è vd = 1 mm/13,6 = 7,35⋅10-5 m/s. Noterete che questa velocità è estremamente più piccola (nove ordini di grandezza!) di quella del moto di agitazione termica a temperatura ambiente.

Se la velocità di deriva degli elettroni è così bassa, come è possibile che un segnale telefonico viaggi a velocità prossima a quella della luce?

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Notiamo infine che la definizione precedente

(3) vale quando il flusso delle cariche è uniforme e di conseguenza l’intensità della corrente è costante nel tempo: si parla allora di corrente continua. In tal caso la quantità di carica che attraversa il conduttore non dipende dall’intervallo di tempo considerato, ma soltanto dalla sua durata Δt, e quindi la scelta dell’intervallo è ininfluente. In generale, tuttavia, la corrente può essere prodotta da un flusso di cariche non uniforme e quindi cambiare da istante a istante: si parla allora di corrente variabile. Nel caso di una corrente variabile nel tempo occorre una diversa definizione, analoga a quella usata per la velocità istantanea di un moto non uniforme. Si deve allora considerare, a ciascun istante di tempo t, la quantità di carica ΔQ che passa in un intervallino di durata molto breve fra t e t+Δt, rappresentando l’intensità istantanea nella forma:

La risposta è semplice. L’elettrone che parte da un telefono a Roma non è lo stesso che arriva a Milano, sennò ci metterebbe un tempo veramente enorme (provate a calcolarlo con i dati dell’Esempio 3). Quello che si propaga lungo la linea telefonica fra le due città è il campo elettrico, che mette in moto gli elettroni liberi presenti nei conduttori della linea, fino al telefono che si trova a Milano. Tutto avviene come quando colleghiamo a un rubinetto un estremo di lunga conduttura piena d’acqua. E l’acqua esce quasi istantaneamente dall’altro estremo.

(4) i(t) = ΔQ/Δt Il verso della corrente elettrica Il verso di una corrente elettrica è stabilito come quello che va dai punti a potenziale più alto ai punti a potenziale più basso e corrisponde quindi a un flusso di cariche positive. Nei conduttori metallici, quindi, il verso convenzionale della corrente è opposto a quello in cui si muovono gli elettroni. Questa scelta, che nel caso dei metalli risulta alquanto scomoda, risale all’Ottocento, prima della scoperta dell’elettrone. E’ vero che successivamente si sarebbe potuto cambiare la scelta, definendo positiva la carica dell’elettrone e negativa quella opposta, ma è chiara la

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convenienza pratica di mantenere la vecchia convenzione; che del resto ha soltanto lo scopo di fissare le idee nello studio dei circuiti. Approfondimento. L’elettricità naturale. Il medico bolognese Luigi Galvani, collegando al corpo di una rana spellata gli estremi di un “arco metallico” costituito da due sbarrette di rame e di zinco, osservò che i muscoli dell’animale subivano una contrazione. E quindi attribuì il fenomeno all’elettricità naturale dell’animale. Ma in seguito Alessandro Volta dimostrò che questa interpretazione non era corretta ( xxx). Galvani, tuttavia, non aveva completamente torto. Studi successivi, infatti, dimostrarono che tutti gli animali sono sede di attività elettriche naturali. Il nostro cuore, per esempio, funziona grazie a impulsi elettrici che ne stabiliscono il ritmo; un dispositivo artificiale, il segnapassi cardiaco o pacemaker, viene impiantato all'interno del corpo quando gli impulsi naturali risultano insufficienti. Anche il funzionamento del cervello, come di tutto il sistema nervoso, è basato sulla trasmissione e sulla elaborazione di segnali elettrici: senza di essi, in particolare, le informazioni raccolte dagli organi di senso (l'occhio, l'orecchio, …) non potrebbero raggiungere il cervello e sarebbe anche impossibile azionare i muscoli. In alcune specie animali, inoltre, si sono sviluppati dei particolari organi elettrici: nei pescecani, per esempio, per rivelare la presenza di cariche elettriche; in altri pesci, come i pesci torpedine o le cosidette "anguille elettriche", per generare impulsi elettrici con cui stordire le prede o difendersi dai predatori.

E del resto varie tecniche usate dai medici a scopo diagnostico sono basate proprio su misure dei segnali elettrici corporei: cerebrali (elettroencefalografia), cardiaci (elettrocardiografia), muscolari (elettromiografia). Figura 5. La velocità di deriva degli elettroni in un filo metallico percorso da corrente si può calcolare considerando un tratto di filo di lunghezza data, valutando quanti elettroni liberi vi sono contenuti e quanto tempo occorre perché questi ne escano. (adattare da Amaldi, La Fisica. vol. 3, pag. 148) Figura 6. Il verso della corrente (adattare da Amaldi, La Fisica. vol. 3, pag. 148) Figura 6bis. (figura come in Mondo della Fisica, tomo B, pag. 370) Figura 6ter. figura di pesce elettrico con dida appropriata 3.4 La prima legge di Ohm e i resistori Esperimento 1. Le lampadine oppongono resistenza al passaggio della corrente elettrica. Procuratevi il seguente materiale: una pila da 4,5 volt e una da 9 volt, due lampadine da 4,5 volt con relativi portalampada e cavetti per i collegamenti (meglio se dotati di “coccodrilli” per facilitare i collegamenti). 1. Realizzate il circuito rappresentato nella parte a) della figura 7. La lampadina si accenderà brillando normalmente. 2. Realizzate il circuito rappresentato nella parte b) della figura. Le lampadine si accenderanno entrambe, questa volta però emettendo una luce piuttosto debole. 3. Sostituite la pila da 4,5 V con quella da 9 V nel circuito precedente (parte c) della figura). Le lampadine brilleranno entrambe normalmente, come nella prova 1. Se disponete di un tester, usatelo come amperometro per misurare l’intensità delle corrente erogata dalla pila nelle tre prove, verificando le conclusioni tratte nel testo che segue. Nell’esperimento precedente abbiamo usato le lampadine come indicatori dell’intensità della corrente. Ammettendo che la luce che esse emettono sia tanto più intensa quanto più intensa è la corrente che le attraversa, possiamo concludere che la corrente nel circuito era la stessa nelle prove 1 e 3, mentre nella prova 2 era più debole. Ma perché la corrente nella prova 2 era più debole che

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nella 1? Ciò si spiega ammettendo che le lampadine oppongano una certa resistenza al passaggio della corrente, e quindi due lampadine offrano una resistenza maggiore di quella di una lampadina, riducendo di conseguenza, a parità di tensione applicata totale, l’intensità della corrente che vi scorre. Il risultato della prova 3, infine, mostra che per vincere la resistenza doppia, offerta dalle due lampadine, occorre usare una pila di tensione doppia. Studiando sperimentalmente la relazione fra l’intensità della corrente che scorre in un conduttore e la differenza di potenziale ai suoi estremi si è trovato che nei conduttori metallici l’intensità della corrente e la tensione sono legate da una relazione di proporzionalità diretta. Questa legge, chiamata prima legge di Ohm, fu stabilita nel 1827 dal fisico tedesco Georg Simon Ohm (1787-1854), traendo ispirazione dalla legge di Fourier sulla conduzione del calore ( xxx). In formula, indicando la differenza di potenziale con il simbolo V, come si usa correntemente: (5) V = R i dove la costante R è una grandezza caratteristica del conduttore, che dipende dalla sua forma, dal metallo di cui è fatto e dalla sua temperatura. Questa grandezza prende il nome di resistenza elettrica e nel sistema SI si misura in ohm (Ω). Dalla formula (3) si ricava:

1 Ω = 1 V / 1 A cioè 1 ohm è la resistenza di un conduttore che è percorso da una corrente di 1 ampere quando la tensione ai suoi terminali è di 1 volt. In realtà la proporzionalità diretta fra intensità di corrente e tensione non è verificata soltanto per i conduttori metallici, ma anche per altre categorie di conduttori, come le soluzioni elettrolitiche e i semiconduttori omogenei, che perciò sono chiamati in generale conduttori ohmici. La resistenza di un conduttore ohmico si può misurare applicando ai suoi estremi una tensione nota (V), misurando l’intensità della corrente (i) che lo attraversa e utilizzando quindi la formula (3) scritta nella forma R = V/i. Esistono appositi strumenti, chiamati ohmetri , che svolgono direttamente queste operazioni. Ma in pratica si usano come ohmetri gli strumenti universali ( §3.8). Esempio 5. Misuriamo la resistenza di un conduttore ohmico. Misurando la corrente che attraversa un conduttore ohmico e la tensione ai suoi estremi otteniamo i seguenti risultati: i = 10 mA, V = 25 volt. Applicando la prima legge di Ohm concludiamo pertanto che la resistenza del conduttore è: R = V/i = 25/0,01 = 2500 Ω. Approfondimento 2. Causa ed effetto nella legge di Ohm. Potremmo esprimere la prima legge di Ohm dicendo che l’intensità della corrente in un conduttore ohmico è proporzionale alla tensione applicata ai suoi terminali: i = V/R. Implicitamente ammettendo che la tensione applicata al conduttore rivesta il ruolo di causa e la corrente che vi scorre ne sia l’effetto. Oppure potremmo dire che la tensione che si stabilisce ai capi del conduttore è direttamente proporzionale all’intensità della corrente che vi facciamo scorrere: V = R i. Questa volta ammettendo che la corrente rivesta il ruolo di causa e la tensione ne sia l’effetto.

Ma in realtà la tensione applicata è effettivamente la causa, e la corrente l’effetto, soltanto quando colleghiamo il conduttore a un generatore di tensione costante, che stabilisce cioè ai suoi terminali una data tensione; e allo stesso modo la corrente che attraversa il conduttore è la causa, e la tensione l’effetto, soltanto quando colleghiamo il conduttore a un generatore di corrente costante, che eroga una data corrente la quale, attraversando il conduttore, stabilisce la tensione ai suoi terminali.

Mentre in tutti gli altri casi non ha senso stabilire quale delle due grandezze sia la causa e quale l’effetto. Infatti, in generale, la legge di Ohm si limita a stabilire che esiste una relazione,

chiamata relazione costitutiva, di proporzionalità diretta fra l’intensità della corrente che attraversa il conduttore e la tensione ai suoi terminali.

E i conduttori non ohmici? Essi vengono caratterizzati, in generale, attraverso la relazione

fra l’intensità (i) della corrente che vi scorre e la tensione (V) ai loro terminali. Che può essere stabilita teoricamente in forma analitica oppure ricavata sperimentalmente facendo variare la tensione applicata al conduttore e misurando la corrente, in modo da ottenere la cosidetta curva caratteristica i-V (figura 8). Per i conduttori non ohmici, naturalmente, non ha senso definire una resistenza come rapporto fra tensione e corrente. I resistori I conduttori ohmici costruiti in modo da presentare un determinato valore di resistenza si chiamano resistori (a volte chiamati anche “resistenze”, ma impropriamente) e negli schemi elettrici si rappresentano con il simbolo grafico

Sono disponibili resistori con una gamma vastissima di valori di resistenza, da frazioni di ohm a miliardi di ohm, realizzati con varie tecniche. I valori più bassi si ottengono utilizzando fili metallici oppure depositando sottili strati di metallo su un supporto isolante; i valori più alti pressando ad alta temperatura polveri conduttrici (carbone) e isolanti opportunamente dosate. Oltre ai resistori fissi si impiegano anche vari tipi di resistori variabili (figura 10), che sono dotati di un cursore (un contatto mobile) la cui posizione ne determina il valore di resistenza. Un tipico resistore variabile è costituito da una bobina di filo conduttore, sulla quale scorre il contatto mobile in modo da variare la lunghezza del filo, e quindi la sua la resistenza, fra un estremo del filo e il contatto. Figura 7. a) La lampadina si accende normalmente; b) Le due lampadine si accendono, ma emettono una luce piuttosto debole; c) Le due lampadine si accendono entrambe normalmente, emettendo luce come in a). (Adattare da Il mondo della fisica, vol. B, pag. 372) Figura 8. Curve caratteristiche corrente-tensione di alcuni conduttori. a) La curva caratteristica dei conduttori ohmici è sempre una retta passante per l’origine (dove a tensione zero corrisponde corrente zero, indicando la proporzionalità fra corrente e tensione; b) La curva caratteristica di un diodo a giunzione è rappresentata analiticamente dalla relazione i = i0 (exp(V/kT) –1): si ha una corrente apprezzabile soltanto quando la tensione è positiva; c) La curva caratteristica di una lampadinetta al neon indica che la corrente è trascurabile fintanto che il valore assoluto della tensione applicata è inferiore a un valore di soglia, oltre il quale la corrente aumenta rapidamente perché nel gas s’innesca una scarica; d) La curva caratteristica di un arco elettrico ( xxx) presenta una particolarità: quale? Figura 9. L’industria produce una grande varietà di resistori, che differiscono per i valori di resistenza, per la potenza che possono dissipare, e anche per l’accuratezza del valore della resistenza. (Fotografia di vari tipi di resistori)

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Figura 10. I resistori variabili (a) sono usati in molti impieghi pratici. Uno di questi è il controllo del volume nelle radio e in altri apparecchi (b). In questo impiego il

resistore variabile, che prende il nome di potenziometro, è usato come partitore di tensione, per attenuare la tensione che rappresenta il segnale. Se la tensione d’ingresso è V, quella d’uscita è una frazione di V corrispondente alla frazione di resistenza inserita fra il contatto mobile e il conduttore di terra. 3.5 La resistività e la seconda legge di Ohm La resistenza che offre un tubo al passaggio dell’acqua è certamente tanto maggiore quanto più il tubo è lungo e stretto. Lo stesso si verifica per la dipendenza della resistenza elettrica dalla forma di un conduttore ohmico. Più precisamente, a seguito di una serie di esperimenti, Ohm stabilì (seconda legge di Ohm) che la resistenza di un filo conduttore (o comunque di un conduttore a sezione costante) è direttamente proporzionale alla sua lunghezza L e inversamente proporzionale alla sua sezione S: (6) R = ρ L/S dove la costante ρ prende il nome di resistività e rappresenta le proprietà del materiale di cui è fatto il conduttore (tabella 2). La resistività si misura in unità di ohm⋅metro (Ω m), come si può dedurre dalla formula (6), sebbene spesso, per facilitare i calcoli pratici, si utilizzi l’unità Ω mm2/m (il valore numerico della resistività di un metallo in tale unità rappresenta infatti la resistenza in ohm di un filo di quel metallo lungo 1 m con sezione di 1 mm2).

La definizione di questa grandezza consente di porre in termini quantitativi la distinzione fra conduttori e isolanti elettrici (molti dei quali presentano un comportamento approssimativamente ohmico). La figura 11 mostra in particolare che fra i migliori conduttori e i migliori isolanti la resistività varia di oltre 20 ordini di grandezza.

Tabella 2. Resistività di alcuni metalli e leghe metalliche (a 20 °C)

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Esempio 6. Calcoliamo la resistenza di 10 km di linea elettrica. Consideriamo un tratto lungo 10 km di una linea elettrica per il trasporto a distanza dell’energia elettrica, che è costituita da conduttori di alluminio con sezione di 2,5 cm2. La resistività dell’alluminio (tabella 2) ρ = 0,028 Ω mm2/m. La lunghezza totale dei conduttori è L = 20 km = 20000 m; la sezione è S = 2,5 cm2 = 250 mm2. Utilizzando la formula (6) si ha pertanto R = ρ L/S = 0,028×20000/250 = 2,24 Ω.

Metallo o lega ρ (Ω m) ρ (Ω mm2/m) argento 1,6⋅10-8 0,016 rame 1,7⋅10-8 0,017 oro 2,2⋅10-8 0,022 alluminio 2,8⋅10-8 0,028 ferro 10⋅10-8 0,10 costantana 4,5⋅10-7 0,45 acciaio inossidabile ≈ 7,2⋅10-7 ≈ 0,72 nichel-cromo 1,1⋅10-6 1,1

Esperimento 2. La resistenza di una lampadina dipende dalla temperatura. Procuratevi una lampadinetta e uno strumento universale. 1. Leggete i dati incisi sulla ghiera della lampadinetta. Troverete scritto, per esempio: 12 V 0,25 A. Ciò significa che la sua resistenza elettrica è R = 12/0,25 = 48 Ω. 2. Misurate con lo strumento la resistenza della lampadina. Troverete certamente un valore assai inferiore, per esempio 5 Ω, con una discrepanza che non è certamente compatibile con l’errore di misura. Il fabbricante ha inserito dati errati? La nostra misura è completamente sbagliata per qualche motivo? Oppure c’è dell’altro? Per spiegare lo “strano” risultato dell’esperimento precedente occorre riflettere sul fatto che quando la lampadina si accende il suo filamento diventa incandescente, cioè si porta a una temperatura assai alta (attorno a 2700°C), e occorre anche aver letto con attenzione il contenuto dei paragrafi precedenti: quando si è detto che la resistenza di un conduttore dipende dalla temperatura e quando si è discusso il moto di deriva degli elettroni in un metallo in presenza di un campo elettrico.

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All’aumentare della temperatura cresce infatti l’ampiezza delle vibrazioni degli ioni che costituiscono il reticolo cristallino del cristallo sicchè gli urti con gli elettroni liberi diventano più frequenti, ostacolandone maggiormente il moto di deriva. E di conseguenza la resistenza elettrica aumenta. Diciamo allora che la resistività dei metalli aumenta al crescere della temperatura. Siccome la legge di variazione è approssimativamente lineare in un vasta gamma di temperature, ogni metallo è caratterizzato da un coefficiente di temperatura della resistività, con valori tipicamente compresi fra 3 e 5 parti per mille per grado (per esempio, un aumento della temperatura di 30 °C provoca un aumento delle resistività, e quindi della resistenza, di circa il 10%). E ciò suggerisce immediatamente l’idea di usare un conduttore metallico come termometro ( Applicazioni tecniche 1). Altri tipi di conduttori presentano comportamenti diversi. Nei semiconduttori, per esempio, all’aumentare della temperatura la resistività diminuisce anzichè aumentare. Alcuni metalli, poi, portati a temperature bassissime presentano un fenomeno particolarissimo e veramente straordinario: la resistività si annulla sicché la loro resistenza elettrica diventa esattamente zero. Di questo fenomeno, che prende il nome di superconduttività, ci occuperemo in seguito ( xxx) dato che la sua interpretazione è basata sulla meccanica quantistica. e lo stesso avviene per le soluzioni saline.??? Applicazioni tecniche 1. I sensori resistivi per misure di allungamento, di temperatura, ...

Nella scienza e nella tecnica occorre spesso misurare grandezze non elettriche usando strumenti che misurano grandezze elettriche (correnti, tensioni, resistenze, ...). Per questo sono assai utili i dispositivi, chiamati trasduttori o sensori, che sfruttano la dipendenza dei parametri elettrici di determinati materiali dalla temperatura, dall’intensità della luce o da altre grandezze non elettriche. Vi sono sensori resistivi, per esempio, che permettono di eseguire misure della temperatura o dell’allungamento di un corpo, traducendo le variazioni di queste grandezze in variazioni della loro resistenza e fornendo così in uscita un segnale elettrico, facilmente manipolabile.

I misuratori di allungamento, chiamati estensimetri, utilizzano la variazione di resistenza che subisce un conduttore quando viene allungato, come mostra la seconda legge di Ohm. Infatti quando un conduttore di lunghezza L e sezione costante S viene allungato, la sua lunghezza aumenta di ΔL e la sua sezione diminuisce di ΔS (queste due grandezze sono generalmente legate fra loro dato che in prima approssimazione il volume del conduttore resta costante). Di conseguenza, chiamando R la resistenza del conduttore in condizioni normali, quella del conduttore allungato diventa R+ΔR = ρ (L+ΔL)/(S+ΔS), cioè diminuisce dato che ΔL ha segno positivo e ΔS segno negativo. E quindi dalla variazione della resistenza si può ottenere l’allungamento ΔL che l’ha provocata. E’ poi chiaro che misure di allungamento (oppure di accorciamento) consentono di eseguire misure indirette di altre grandezze fisiche. Sapreste immaginare l’uso di questi dispositivi per realizzare una bilancia?

Un altro tipo di sensori resistivi sono i termometri elettrici a resistenza, che sfruttano le variazioni con la temperatura della resistività dei metalli, traducendo così le variazioni di temperatura in variazioni di resistenza. Essi permetteno di misurare temperature più alte e più basse dei termometri a mercurio. Negli esposimetri delle macchine fotografiche si usano poi delle fotoresistenze, fatte di materiali la cui resistività è inversamente proporzionale all’intensità della luce che li colpisce, traducendo così in variazioni di resistenza le variazioni di illuminazione. Fra i sensori resistivi rientrano anche i microfoni a carbone usati ngli apparecchi telefonici. Sul principio di funzionamento di questi dispositivi informatevi voi stessi. Esempio 5. Calcoliamo la temperatura di un forno elettrico con un termometro al platino. I termometro al platino sono usati per misurare temperature relativamente alte, sfruttando le variazioni di resistività di questo metallo, che sono approssimativamente proporzionali alle

variazioni di temperatura. A temperatura ambiente (293 K) si ha: ρ293 = 1,06⋅10-7 Ω⋅m, con un coefficiente di temperatura di αPt = 3,93⋅10-3 K-1; e la resistenza del termometro è R = 15,1 Ω. Vogliamo determinare la temperatura T di un forno elettrico avendo misurato la resistenza del termometro che vi è inserito: R’ = 40,2 Ω. Dato che la resistenza di un conduttore metallico è direttamente proporzionale alla resistività del metallo, e questa si rappresenta nella forma: ρT = ρ293(1 + α(T –293)) , avremo: R’ = R(1+ α(T –293)), cioè 16,2 = 15,1(1 + 3,93⋅10-3 (T-293)). Risolvendo questa equazione, otteniamo T = 716 K. Quesito 1. In questo calcolo è stato trascurato un fattore, che potrebbe essere importante: quale? Quesito 2. Perché si usa il platino nei termometri per temperature elevate? Figura 11. Resistività di alcune sostanze a temperatura ambiente. Si nota che nel grafico i conduttori metallici sono molto raggruppati e ben separati dagli isolanti. Caratteristiche intermedie presentano altre sostanze, fra le quali rientrano i semiconduttori. (Adattare da Amaldi, La Fisica, vol. 3, pag. 150, modificata come segue; a) sostituendo la scritta conduttori metallici con metalli; b) eliminando le sostanze Cu2O, ZnO, B, ambra, paraffina; c) aggiungendo le seguenti sostanze, non raggruppate con altre: carbone 5⋅10-5 , soluzione satura di NaCl 0,044, sangue 1,5, grasso 25; d) aggiungendo la seguente sostanza raggruppata con gli isolanti: polietilene 3⋅109. Con linee verticali in corrispondenza della scala, notando che è logaritmica, come indicato qui sotto)

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Figura 12. Dipendenza dalla temperatura della resistività di alcuni metalli. Due osservazioni: 1) gli andamenti sono molto simili, a parte un fattore di scala, indicando che i coefficienti di temperatura di questi metalli sono molto prossimi; 2) le curve non si discostano molto da delle rette, indicando che le variazioni della resistività sono approssimativamente proporzionali alle variazioni della temperatura. (adattare da Hecht, pag. 629, eliminando lo zinco e il ferro) Figura 13. Fotografia di una fotoresistenza o di un estensimetro con dida da fare. 3.6 Collegamento in serie e in parallelo. Quando si guasta una lampadinetta dell’albero di Natale si spengono anche tutte le altre. Questo avviene perché esse sono collegate in serie, cioè una dopo l’altra, in modo da essere attraversate dalla stessa corrente ( figura 14). Sicché quando si brucia il filamento di una di esse è come se venisse azionato un interruttore: il circuito si apre e non passa più corrente. In generale, due o più elementi di circuito sono collegati in serie quando sono attraversati dalla stessa corrente.

Sono invece collegati in parallelo gli apparecchi elettrici di casa, in modo da essere tutti alimentati dalla stessa tensione: ciascuno di essi è collegato indipendentemente alla rete elettrica sicché essi possono essere accesi o spenti senza influire l’uno sull’altro (a meno che non se ne accendano troppi contemporaneamente e allora interviene il limitatore di corrente dell’impianto elettrico, che ...). In generale, due o più elementi di circuito sono collegati in parallelo quando la tensione ai loro estremi è la stessa. Resistori in serie Disponiamo in serie due resistori, rispettivamente di resistenza R1 ed R2, e poi li colleghiamo a un generatore di tensione V, come mostrato nella parte a) della figura 16. Vogliamo calcolare l’intensità i della corrente che li attraversa. Per ricavarla, applichiamo a ciascun resistore la prima legge di Ohm. Chiamando i l’intensità della corrente incognita, la tensione ai capi del primo sarà V1 = R1 i; quella ai capi del secondo, V2 = R2 i. Ora la tensione V che il generatore stabilisce fra i punti A e B del circuito è evidentemente la stessa che è applicata all’insieme dei due resistori e quindi è

0

0.5

1

1.E-05 1.E-03 1.E-01 1.E+01 1.E+03 1.E+05 1.E+07 1.E+09 1.E+11

Comment: Hecht: carbone 3.5⋅10-5 Battistini 6⋅10-7 Colombo 2-10⋅10-5 sangue 1,5 NaCl sol.satura 0,044 germanio 0,46 porcellana 1010-1012

polietilene 108-109 zolfo Colombo 1015 MAFBIC 1023

acqua distillata Colombo 1-25⋅104 da aggiungere:

9

carbone 5⋅10-5 NaCl 0,044 sangue 1,5 polietilene 108-10grasso 25

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pari alla somma delle tensioni ai capi dei due elementi, cioè V = V1+V2. Sostituendo in tale relazione le espressioni delle tensioni ricavate prima si ha: V = R1 i + R2 i. Da cui si ricava: i = V/(R1 + R2) Esaminando questa formula, si osserva che, dal punto di vista del generatore, i due resistori in serie si comportano come un unico resistore, un resistore equivalente, di resistenza Rs = R1 + R2, cioè pari alla somma della due resistenze. Tale risultato può essere facilmente generalizzato per stabilire che la resistenza equivalente di n resistori collegati in serie è uguale alla somma delle resistenze dei resistori. (7) Rs = R1 + R2 + ... + Rn Questa resistenza equivalente, ovviamente, è sempre maggiore della resistenza più alta di ciascuno dei resistori collegati in serie. Resistori in parallelo Disponiamo in parallelo due resistori, rispettivamente di resistenza R1 ed R2, e poi li colleghiamo a un generatore di tensione V come mostrato nella parte b) della figura 16. Vogliamo calcolare l’intensità i della corrente totale erogata dal generatore, che è data dalla somma delle correnti che attraversano i due resistori: i = i1 + i2. Per ricavare le correnti i1 e i2 , applichiamo a ciascun resistore la prima legge di Ohm. L’intensità della corrente che attraversa il primo è i1 = V/R1; quella della corrente attraverso il secondo, i2 = V/R1. Sostituendo i1 e i2 nell’espressione della corrente totale si ricava: i = V/R1 + V/R2 = V(1/R1 + 1/R2) Esaminando questa formula, si osserva che, dal punto di vista del generatore, i due resistori in parallelo si comportano come un unico resistore, un resistore equivalente, con l’inverso della resistenza pari alla somma degli inversi delle due resistenze: 1/R = R1 + 1/R2. Tale risultato può essere facilmente generalizzato per stabilire che l’inverso della resistenza equivalente di n resistori collegati in parallelo è la somma degli inversi delle resistenze dei resistori: (8) 1/Rp = 1/R1 + 1/R2 + ... + 1/Rn Questa resistenza equivalente, in particolare, è sempre minore della resistenza più bassa di ciascuno dei resistori collegati in parallelo. Nel caso di due resistori in parallelo può convenire esprimere la resistenza equivalente nella forma: Rp = (R1R2)/(R1 + R2) Esempio 8. Colleghiamo a una pila tre resistori: in serie e in parallelo. Con una pila da 9 volt e tre resistori di resistenza R1 = 10 kΩ, R2 = 1 kΩ, R3 = 100 Ω, costruiamo i circuiti mostrati nella figura 17, collegando i tre resistori in serie (parte a) della figura) e in parallelo (parte b) della figura). Vogliamo calcolare, nei due casi, la resistenza equivalente offerta dai tre resistori e la corrente totale erogata dal generatore. Per ottenere la resistenza equivalente Rs dei tre resistori collegati in serie utilizziamo la formula (7): Rs = R1 + R2 + R3 = 10000 + 1000 + 100 = 11100 Ω = 11,1 kΩ. Di conseguenza la corrente erogata dalla pila avrà intensità is = V/Rs = 9 V/11100 Ω = 8,11⋅10-4 A = 0,811 mA.

Per ottenere la resistenza equivalente Rp dei tre resistori collegati in parallelo utilizziamo la formula (8): 1/Rp = 1/R1 + 1/R2 + 1/R3 = 1/10000 + 1/1000 + 1/100 = 0,0111 Ω-1. Per cui Rp =

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0,011 = 90,1 Ω. Di conseguenza la corrente erogata dalla pila avrà intensità ip = V/Rp = 9 /90,1 = 0,0999 A = 99,9 mA. Le regole precedenti (7) e (8), in molti casi, ma non sempre, consentono di risolvere i circuiti in modo relativamente semplice. Tutte le volte, infatti, che in una rete elettrica vi sono due o più resistori collegati in serie, oppure in parallelo, questi possono essere sostituiti con un unico resistore equivalente. E queste operazioni possono essere eseguite più volte fino a semplificare la rete rappresentandola con un unico resistore equivalente. Ciò consente di ricavare la corrente totale che eroga al circuito un generatore di tensione nota e poi, passo dopo passo, ricavare le correnti e le tensioni di ciascun resistore. Ciò che significa risolvere un circuito. Esempio 9. Semplifichiamo una rete costituita da 7 resistori. Esaminando la rete resistiva rappresentata nella figura 18, si osserva che vi sono alcuni resistori disposti in serie e altri in parallelo. Procediamo dunque a semplificarla, cercando di ricavare un unico resistore equivalente. Sostituiamo innanzitutto i due resistori da 6 Ω in parallelo con un unico resistore da 3 Ω e i due resistori da 6 Ω in serie con un resistore da 12 Ω, ottenendo quanto mostrato nella parte b). Ripetiamo poi le stesse operazioni per i due resistori da 3 Ω in serie e i due da 12 Ω in parallelo (parte c). Procedendo ancora allo stesso modo otteniamo infine (parte d)) un unico resistore equivalente con resistenza da 10 Ω. Esempio 10. Risolviamo un circuito comprendente 7 resistori. Vogliamo risolvere il circuito costituito da un generatore da 10 V collegato alla rete considerata nell’Esempio precedente, determinando le correnti che scorrono nei diversi elementi e le tensioni ai capi di essi. La corrente che eroga il generatore, dato che la rete è equivalente a un resistore da 10 Ω, ha intensità i = 10/10 = 1 A. Questa corrente scorre nel resistore da 7 Ω, ai capi del quale vi sarà pertanto una tensione di 1×7 = 7 volt. La tensione applicata al resto del circuito si ottiene sottraendo la tensione ai capi di questo resistore da quella del generatore, ottenendo così: 10 – 7 = 3 volt. Conoscendo questa tensione si ricava immediatamente la corrente che scorre nel resistore da 12 Ω: 3/12 = 0,25 A. E andando avanti così, passo dopo passo, si ricavano tutte le rimanenti grandezze incognite. Esempio 11. Risolviamo un circuito con due generatori. Vogliamo risolvere il circuito mostrato nella figura 20 bis, con due generatori di tensione. Qui non possiamo semplificare nulla, dato che non vi sono resistori in serie o in parallelo. Assegnamo al punto A il potenziale V, per ora incognito, rispetto a terra. Possiamo scrivere allora, considerando i tre rami del circuito: i1 = (V1 – V)/R1, i2 = (V2 – V)/R2, i3 = V/R3. Ora queste equazioni sono insufficienti a ricavare le incognite. Ma le tre correnti non sono indipendenti fra loro. E’ infatti evidente ( Approfondimento 3) che la corrente uscente (i3) dal punto A è la somma delle due correnti entranti (i1 e i2) nello stesso punto, cioè: i3 = i1 + i2. Sostituendo in quest’ultima equazione le espressioni delle correnti scritte sopra, si ottiene: (V1 – V)/R1 + (V2 – V)/R2 = V/R3. Da cui si ricava V = (V1/R1 + V2/R2,)/(1/R1 + 1/R2 + 1/R3) = (5/1000 + 4/3000)/(1/1000 + 1/3000 + 1/2000) = 3,45 volt. Sicché le intensità delle correnti sono: i1 = (V1 – V)/R1 = (5 – 3,45)/1000 = 1,55 mA, i2 = (V2 – V)/R2 = (4 – 3,45)/3000 = 0,183 mA, i3 = V/R3.= 3,45/2000 = 1,73 mA. Approfondimento 3. Le leggi di Kirchhoff

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Il primo approccio, quando si analizza un circuito, è quello di semplificarlo con le regole descritte sopra, che abbiamo utilizzato nell’Esempio 9. Ma non sempre ciò è possibile, come per esempio nel caso dei circuiti mostrati nella figura 19. Per risolvere i circuiti nel caso più generale si utilizzano due leggi di Kirchhoff, basate su principi generali dell’elettromagnetismo, che permettono di scrivere un numero di equazioni pari al numero delle grandezze incognite di un circuito; risolvendo le quali si ricavano appunto queste grandezze.

La prima legge di Kirchhoff, o legge dei nodi, stabilisce che la somma algebrica delle correnti che scorrono nei conduttori collegati a un punto comune, o nodo, del circuito è sempre nulla. Ossia, dicendo diversamente la stessa cosa, la somma delle correnti entranti in un nodo è sempre uguale a quella delle correnti uscenti ( figura 20 a)). In formula, considerando le correnti che scorrono negli n elementi collegati al nodo considerato e assegnando per esempio segno positivo alle correnti entranti e segno negativo a quelle uscenti:

i1 + i2 + ... + in = 0. Di solito si considerano come nodi i punti a cui sono collegati tre o più elementi. Ma la legge vale ovviamente anche per i punti a cui sono collegati due soli conduttori, che dunque sono disposti in serie. E in tal caso essa stabilisce che la corrente che scorre nel secondo è uguale a quella che scorre nel primo, dato che la loro somma algebrica (considerandone una come entrante e l’altra come uscente) deve essere nulla. Come del resto già sapevamo.

La prima legge di Kirchhoff è una conseguenza diretta del principio di conservazione della carica elettrica. Infatti, se nella formula precedente la somma delle correnti non fosse nulla, nel nodo si avrebbe creazione oppure scomparsa di carica elettrica.

La seconda legge di Kirchhoff, o legge delle maglie, stabilisce che la somma algebrica delle tensioni ai terminali degli elementi che si incontrano percorrendo nel circuito un percorso chiuso, o maglia, è sempre nulla. In formula:

v1 + v2 + ... + vn = 0. A volte il segno da attribuire alle tensioni degli elementi è immediatamente evidente, come nella parte b) della figura 20. Altrimenti il segno si sceglie inizialmente in modo arbitrario, ma concorde in tutti gli elementi che costituiscono il percorso chiuso, come nella formula scritta sopra, ricavando poi i segni effettivi delle tensioni dopo aver risolto le equazioni.

La seconda legge di Kirchhoff dipende dal fatto che se in un circuito, partendo da un punto che si trova a un dato potenziale, descriviamo un percorso chiuso (maglia), quando ritorniamo in quel punto vi troveremo, ovviamente, lo stesso potenziale, e quindi tutte le tensioni (differenze di potenziale) lungo il percorso devono sommarsi a zero. Figura 14. Le lampadine dell’albero di Natale sono tutte collegate in serie, cioè in modo da essere attraversate tutte dalla stessa corrente. Quando se ne guasta una, si spengono tutte. Che cosa potrebbe succedere, secondo voi, se il guasto di una lampadina consistesse in un cortocircuito fra i suoi terminali? (foto di albero di Natale e schema rappresentante una molteplicità di lampadine collegate in serie a una presa di rete) Figura 15. Gli apparecchi elettrici di casa sono collegati alla rete elettrica in parallelo, cioè in modo che la tensione che alimenta ciascuno di essi sia la stessa. (adattare da Mondo della Fisica vol. B, pag. 378, con l’aggiunta di qualche altro apparecchio, e con l’aggiunta di un interruttore per ciascun apparecchio.) Figura 16. a) I due resistori sono collegati in parallelo: infatti essi sono attraversati dalla stessa corrente i; b) I due resistori sono collegati in serie: infatti la tensione V ai loro estremi è la stessa. (adattare da Mondo della Fisica vol. B, pag. 379, eliminando i due interruttori e indicando i resistori, le correnti e le tensioni con gli indici 1 e 2 anzichè ‘ e “; nella parte a) eliminando la scritta B e sostituendo B a C) Figura 17. a) Tre resistori collegati in serie; b) Tre resistori collegati in parallelo. (come la precedente, eliminando le scritte A e B, con la scritta V = 9 volt accanto alla pila e le scritte R1 = 10 kΩ, ecc. accanto ai resistori)

Figura 18. La rete resistiva rappresentata nella parte a) è piuttosto complessa all’apparenza. Ma può essere semplificata, seguendo le regole descritte nel testo, arrivando al risultato indicato nella parte d). Cioè tutta la rete equivale a un unico resistore da 10 Ω.

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Figura 19. In questi circuiti non vi sono elementi in serie o in parallelo, che permettano di semplificarli. (Adattare da Hecht, pag. 656, eliminando le parti b) e d))

Figura 20. Un circuito è completamente determinato quando si conoscono le tensioni e le correnti per tutti gli elementi che lo costituiscono. Queste grandezze sono legate fra loro dalle leggi di Kirchhoff, applicando le quali si possono scrivere delle equazioni in numero sufficiente a ricavare tutte le incognite. a) La prima legge di Kirchhoff stabilisce che la somma algebrica delle correnti che scorrono negli elementi collegati al nodo A (come a qualsiasi altro nodo del circuito) è nulla; pertanto i1 = i2 + i3 ; b) La seconda legge di Kirchhoff stabilisce che la somma algebrica delle tensioni lungo il percorso chiuso, o maglia, M (come lungo qualsiasi

altra maglia) è nulla; pertanto V = v1 + v2. Figura 20 bis. Per risolvere questo circuito si scrive un’equazione che impone alla corrente uscente dal nodo A di essere uguale alla somma delle correnti entranti. Cosa accadrebbe, secondo voi, se ciò non si verificasse? 3.7 La caratterizzazione dei generatori di tensione. I generatori di tensione, come si è detto, sono dispositivi che mantengono ai loro terminali un tensione determinata: costante nei generatori in continua di cui ora ci occupiamo, variabile nel tempo con legge assegnata in altri tipi di generatori. Esempi di generatori di tensione sono le pile, gli accumulatori, la cosidetta “dinamo” della bicicletta, ma la categoria è vastissima. Ed è anche assai importante per il semplice motivo che, senza generatori, non vi sarebbero correnti elettriche.

Nei generatori di tensione, quando sono attraversati da una corrente, le cariche scorrono in verso opposto all’usuale. Ragionando, per fissare le idee, in termini di cariche positive, queste si spostano infatti dal polo negativo del generatore a quello positivo, vincendo le forze repulsive del campo elettrico fra i due poli, per scorrere poi nel resto circuito. Ma innalzare il potenziale di una carica fornendole energia significa compiere un lavoro. E questo lavoro viene compiuto a spese di forme diverse di energia nei diversi tipi di generatori. In una cella solare, per esempio, si utilizza l’energia solare (più precisamente l’energia della radiazione solare assorbita dalla cella); in una “dinamo”, l’energia meccanica del moto della bicicletta; nelle pile e negli accumulatori, l’energia chimica immagazzinata nelle particolari sostanze in essi contenute. Un generatore in continua è caratterizzato dalla tensione Vfem fra i suoi poli quando esso non eroga corrente, che è chiamata forza elettromotrice (f.e.m.), sebbene non sia affatto una forza (tale denominazione tuttavia ha qualche senso, in quanto rappresenta l’effetto delle forze interne al

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generatore che vincono le forze elettrostatiche del campo), o più propriamente tensione a vuoto. Questa tensione ha un significato fisico ben determinato: essa rappresenta il rapporto fra il lavoro necessario a innalzare fra i poli del generatore il potenziale di una carica q e il valore della carica stessa: (9) Vfem = L/q Ciò è sufficiente a caratterizzare un generatore ideale di tensione.

Ma questi generatori non esistono, nè potrebbero esistere, dal momento che un generatore siffatto, collegato a una resistenza nulla (cioè con i poli in cortocircuito) dovrebbe fornire una corrente infinita, cosa alquanto dubbia. E allora, evidentemente, per caratterizzare un generatore reale la forza elettromotrice non basta: occorre qualcos’altro. Di questo, del resto, è facile convincersi misurando la tensione della pila di una torcia quando essa è spenta e poi quando invece è accesa, come mostrato nella figura 21. Quando la torcia è spenta, la pila non eroga corrente e la tensione fra i suoi poli ne rappresenta la forza elettromotrice (tensione a vuoto); ma quando la torcia è accesa la tensione (tensione sotto carico) è più bassa della precedente. E quindi la sola f.e.m. non è sufficiente a caratterizzare la pila. L’osservazione precedente si spiega ammettendo che i generatori di tensione reali offrano sempre una certa resistenza Rint, chiamata resistenza interna, al passaggio della corrente. Il suo effetto, quando il generatore eroga una corrente i, è quello di provocare una caduta di tensione Rinti rispetto alla forza elettromotrice, abbassando quindi la tensione fra i poli. Se il generatore è collegato a un carico esterno di resistenza R, si ha infatti, tenendo conto che la resistenza interna è disposta in serie al carico: Vfem = (Rint + R)i. E quindi la tensione V = Ri applicata al carico, che coincide con quella ai poli del generatore, è: (10) V = Vfem – Rint i Questa tensione dipende dalla corrente erogata, assumendo il valore massimo, pari a Vfem, quando la corrente è nulla; più precisamente, la tensione V sotto carico diminuisce al crescere della corrente fino ad annullarsi quando la sua intensità assume il valore massimo possibile (corrente di cortocircuito): imax = Vfem/Rint (si noti però che i generatori non gradiscono il cortocircuito, e in genere smettono di funzionare correttamente quando la corrente che erogano diventa eccessiva).

La formula (10) mostra poi che la qualità di un generatore di tensione è tanto maggiore quanto minore è la sua resistenza interna (cioè il suo comportamento si avvicina a quello di un generatore ideale); infatti, a parità di corrente erogata, al diminuire di Rint diminuisce lo scarto fra la tensione a vuoto (Vfem) e quella sotto carico (V). Per fare qualche esempio, la resistenza interna di una pila da 1,5 volt del tipo “torcione” è di circa 0,05 Ω; quella di un accumulatore per auto, di qualche centesimo di ohm. In conclusione diciamo che un generatore di tensione reale è caratterizzato da due parametri: la forza elettromotrice e la resistenza interna. Esso si rappresenta quindi con il circuito equivalente mostrato nella figura 21, costituito da un generatore ideale di tensione Vfem disposto in serie a un resistore di resistenza Vint. Che cosa succede quando colleghiamo in serie due o più generatori di tensione? Si sommano sia le forze elettromotrici che le resistenze interne. Come del resto è ovvio, dato il tipo di collegamento. E infatti guardando all’interno di una batteria da 9 V troveremo 6 elementi da 1,5 V disposti in serie. Ma quando colleghiamo dei generatori in parallelo? Trovate voi stessi la risposta, considerando il caso in cui i generatori in parallelo hanno tutti la stessa forza elettromotrice (suggerimento: conviene ragionare sul circuito equivalente).

Esempio 12. Determiniamo la resistenza interna di una batteria. Misurando la tensione di una pila si ottengono i seguenti valori: V1 = 1,55 volt quando la pila non eroga corrente, V2 = 1,45 volt quando la pila alimenta un carico che assorbe 1,25 A. La prima misura, eseguita in assenza di carico, ci fornisce direttamente la forza elettromotrice: Vfem = 1,55 V. La differenza fra le due misure, V1 – V2 = 0,1 V, rappresenta la caduta di tensione sulla resistenza interna della pila. Applicando la prima legge di Ohm, si ottiene pertanto: Rint = (V1 – V2 )/i = 0,1/1,25 = 0,08 Ω. Figura 21. Un generatore reale di tensione si rappresenta con il circuito equivalente costituito da un generatore ideale di tensione Vfem disposto in serie a un resistore di resistenza Vint. Così la tensione a vuoto è Vfem ; la tensione sotto carico, Vfem – Rint i. 3.8 Gli strumenti di misura L’amperometro Lo strumento base delle misure elettriche è l’amperometro. Di questo, come di altri strumenti, esistono due varietà: analogica e digitale ( figura 22). L’amperometro analogico o amperometro a bobina mobile ( xxx) utilizza l’effetto magnetico della corrente in una bobina posta all’interno di un magnete, che provoca la rotazione di un indice rispetto a una scala. L’amperometro digitale sfrutta invece la caduta di tensione in un resistore provocata dal passaggio della corrente che si vuole misurare. Questa tensione viene prima amplificata e poi applicata a un convertitore analogico-digitale: un circuito elettronico che trasforma la tensione in segnali a due livelli (“0” e “1”) che poi la rappresentano in forma numerica su uno schermo indicatore.

In entrambi i casi le grandezze che caratterizzano un amperometro sono essenzialmente due: la portata o fondo scala imax, che rappresenta il valore massimo di intensità che lo strumento può misurare, e la resistenza interna r, che rappresenta la resistenza della bobinetta di un amperometro analogico oppure la resistenza del resistore usato in un amperometro digitale. La resistenza interna di questi strumenti presenta generalmente valori relativamente bassi: fra frazioni di ohm e qualche diecina di ohm.

Per misurare la corrente che scorre attraverso un elemento di un circuito, l’amperometro va disposto in serie all’elemento, in modo che sia attraversato dalla stessa corrente. Il circuito, in altre parole, va prima aperto e poi chiuso inserendo l’amperometro al posto dell’interruzione. Ma l’inserimento dell’amperometro, inevitabilmente, altera la corrente che si vuole misurare. Consideriamo infatti il circuito costituito da un generatore (V) collegato in serie a un resistore (R), nel quale scorre dunque la corrente i = V/R. Per misurare questa corrente colleghiamo un amperometro in serie al resistore, ma così facendo la resistenza totale del circuito non sarà più R ma R + r, a causa della presenza dell’amperometro. E quindi la corrente che si misura sarà: (11) i’ = V/(R + r) cioè minore di i. E quindi siamo in presenza di un errore di misura, che è evidentemente di tipo sistematico. L’entità di questo errore dipende dal rapporto fra r ed R. Infatti possiamo riscrivere la (11) nella forma i’ = V/R(1 + r/R) che mostra che l’errore aumenta al crescere del rapporto r/R, mentre tende ad annullarsi, e allora i’ ≅ i, se questo rapporto tende a zero. Ciò porta a concludere che un buon amperometro deve possedere una bassa resistenza interna.

E se si deve misurare una corrente più intensa di quanto consenta la portata imax dello strumento? In tal caso si ricorre all’impiego di un derivatore (shunt): un resistore di valore opportuno posto in parallelo all’amperometro, il quale provvede a “succhiare” la corrente in eccesso aumentando così la portata dello strumento. Supponiamo per esempio che un amperometro abbia

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portata imax = 1 A e resistenza interna r = 0,1 Ω. Se lo vogliamo usare per misurare correnti fino a 10 A, la corrente si dovrà suddividere come segue: 1/10 attraverso lo strumento e 9/10 attraverso il derivatore. Ora quando due resistori R1 ed R2 si trovano in parallelo, la corrente totale si suddivide fra essi in ragione inversa alla loro resistenza (infatti, chiamando V la tensione ai loro estremi, le due correnti saranno, rispettivamente, V/R1 e V/R2. E quindi il derivatore dovrà avere una resistenza pari a 1/9 di quella dello strumento, cioè R = 0,1/9 = 0,0111 Ω. Esempio 13. Valutiamo l’errore di misura introdotto da un amperometro. In un circuito di resistenza totale R = 120 Ω, per misurare la corrente che vi scorre quando è alimentato da un generatore V = 10 volt, viene inserito un amperometro con resistenza interna r = 10 Ω. L’intensità della corrente prima dell’inserimento dello strumento è: i = V/R = 10/120 = 83,3 mA. Lo strumento misura invece: i’ = V/(R + r) = 10/(120 + 10) = 76,9 mA. L’errore relativo è pertanto (83,3 – 76,9)/83,3 = 0,077 = 7,7%. Con un amperometro migliore, avente r = 1 Ω, avremmo ottenuto i’ = 10/121 = 82,6 mA, con errore relativo 0,0084 = 0,84%. Il voltmetro. Un voltmetro, usato per misurare tensioni, non è altro che un amperometro, in serie al quale è stato disposto un resistore R di valore opportuno. La misura della corrente attraverso l’amperometro consente infatti di risalire al valore della tensione applicata al circuito costituito dal resistore e dall’amperometro. Facciamo un esempio: supponiamo di avere a disposizione un amperometro con portata imax = 50 μA e resistenza interna r = 100 Ω, e di volerlo trasformare in un voltmetro con portata vmax = 2 V. La resistenza totale Rv del voltmetro, somma della resistenza interna e di quella del resistore aggiuntivo R, deve essere tale che quando la tensione è vmax, la corrente attraverso l’amperometro sia imax, cioè Rv = R + r = vmax/imax = 2 V/50 μA = 2/50⋅10-6 = 40000 Ω. E quindi la resistenza del resistore aggiuntivo deve essere R = 40000 – 100 = 39900 Ω. In generale, la portata di un voltmetro così fatto può essere aumentata a piacere utilizzando scegliendo resistori aggiuntivi di resistenza opportunamente grande.

Per misurare la tensione fra due punti di un circuito il voltmetro va disposto in parallelo, in modo che questa tensione sia applicata fra i suoi terminali. Ma il collegamento del voltmetro, inevitabilmente, altera la tensione che si vuole misurare, perché il funzionamento dello strumento richiede una corrente. Questa corrente, e quindi l’effetto di perturbazione e quindi l’errore di misura, è tanto minore quanto maggiore è la resistenza Rv del voltmetro: al limite, se Rv avesse valore infinito, la corrente attraverso il voltmetro si annullerebbe e la misura non verrebbe alterata. Ciò porta a concludere che un buon voltmetro deve possedere una alta resistenza interna. Lo strumento universale Un tipo di strumento molto diffuso è lo strumento universale (tester), chiamato anche multimetro, che consente di eseguire misure di corrente (amperometro), di tensione (voltmetro), di resistenza (ohmetro) e altre ancora. Fornendo per ciascun tipo di misura la scelta fra più portate.

Il cuore di questo strumento è un amperometro, indicato con A nello schema semplificato di figura 25 a), in parallelo al quale sono disposti dei derivatori per ottenere varie portate in corrente e in serie al quale sono disposti i resistori necessari per usarlo come voltmetro. Nota storica. Gli esperimenti di Ohm. Georg Simon Ohm nacque nel 1789 nella città di Erlangen, nei pressi di Norimberga, da una famiglia di modeste condizioni, studiò matematica e fisica e nel 1817 divenne professore in un liceo di Colonia diretto dai Gesuiti. E’ lì che scoprì le leggi che portano il suo nome, che poi pubblicò nel 1827 in un trattato dal titolo Ma per molti anni i suoi meriti non vennero riconosciuti. Fu chiamato a ricoprire la cattedra di fisica all’università di Monaco solo poco tempo prima della morte, che avvenne nel 1854. Ohm fu uno scienziato idealista, dedicato al progresso della scienza e poco attento agli onori.

E’ facilissimo, oggi, ripetere gli esperimenti di Ohm, grazie alla strumentazione che abbiamo a disposizione, sicché le sue leggi ci appaiono quasi ovvie. Ma all’epoca, cioè negli anni attorno al 1825, la situazione era veramente assai diversa. Come generatori, Ohm utilizzava delle pile di Volta, cambiando il numero di elementi connessi in serie per variare la tensione da applicare ai conduttori. Ma qui il problema era che non si conosceva l’esistenza della resistenza interna sicché aumentando il numero di elementi la corrente nel conduttore collegato alle pile non aumentava in proporzione. Sappiamo infatti che, usando n elementi aventi tensione a vuoto V e resistenza interna Rint, l’intensità della corrente nel circuito è i = nV/(nRint + R).

Come indicatore dell’intensità (che all’epoca veniva chiamata “grandezza”) della corrente, Ohm usava il progenitore degli attuali amperometri, il cosidetto galvanometro che era stato introdotto dopo il 1820 grazie agli esperimenti di Oersted ( xxx). , costituito da una bobina avvolta attorno a un ago magnetico Qui il problema riguardava la resistenza della bobina, cioè la interna r dello strumento, che non era per nulla trascurabile rispetto a quella del resto del circuito; e inoltre era diversa nei galvanometri che ogni sperimentatore si costruiva. Ciò rendeva difficile confrontare i risultati di Ohm con quelli degli altri scienziati, mentre sappiamo che la ripetibilità delle misure in laboratori differenti è essenziale perché i risultati vengano accettati dalla comunità scientifica.

Per variare la resistenza R del conduttore, poi, Ohm usava fili metallici di diversa lunghezza L, cioè R = kL. Quindi l’intensità della corrente nel circuito, tenendo conto di quanto detto prima, era: i = nV/(nRint + r + kL). Cioè nè direttamente proporzionale alla tensione nV del generatore nè inversamente proporzionale alla lunghezza L, ossia alla resistenza del conduttore.

Nonostante le difficoltà, Ohm riuscì a stabilire le due leggi che portano il suo nome, per cui trasse ispirazione, come si è detto, dalla legge di Fourier sulla conduzione del calore. Ma queste conclusioni furono accettate universalmente, e i sui meriti riconosciuti, soltanto parecchi anni dopo. Cioè quando divenne più agevole ripetere gli esperimenti di Ohm e ritrovare i risultati delle sue misure. Figura, immagine di Ohm da trovare, o disegno di antico galvanometro, con dida da fare. Figura 22. Amperometri analogici (a bobina mobile) e digitali. Le grandezze essenziali che caratterizzano questi strumenti sono due: la portata e la resistenza interna. In genere viene anche specificata l’accuratezza delle misure: in percentuale del fondo scala per gli strumenti analogici, come incertezza sulla cifra meno significativa per quelli digitali. (fotografia di due amperometri) Figura 23. Per misurare la corrente che attraversa il resistore R’, l’amperometro A va disposto in serie a tale elemento. Per misurare la tensione agli estremi del resistore R, il voltmetro V va disposto in parallelo a tale elemento. Figura 24. Il tester è uno strumento assai diffuso, prodotto in una estesa varietà di tipi, alcuni anche di costo assai modesto (sicché può valere la pena di procurarselo, sia per svolgere esperimenti sia perché può essere utile in casa). a) Schema molto semplificato di un tester, dove d indica il terminale comune, c indica il terminale per l’impiego come amperometro (con gli interruttori I che permettono di collegare i derivatori r per ottenere diverse portate in corrente), b e a indicano i terminali per l’impiego come voltmetro, con i resistori R in serie all’amperometro. b) Un tipico tester digitale dispone di numerose portate per misure di corrente e di tensione (in continua e in alternata), per misure di resistenza, e altro ancora. (Fotografia di un tester digitale)

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3.9 L’energia elettrica e l’effetto Joule La corrente elettrica trasporta energia nella forma di energia potenziale elettrica delle cariche che la costituiscono. Questa energia viene acquistata quando le cariche attraversano il generatore, che ne innalza il potenziale, e viene ceduta quando esse attraversano il resto del circuito, man mano che il loro potenziale diminuisce. Più precisamente, se il generatore fornisce l’energia ΔqV alla quantità di carica Δq che l’attraversa in un intervallo di tempo Δt, l’energia potenziale (energia elettrica) acquistata dalla corrente nello stesso intervallo, ricordando che i = Δq/Δt, sarà: (12) ΔU = iVΔt E quindi la potenza (potenza elettrica) trasportata dalla corrente è: (13) ` P = ΔU/Δt = iV

Per farvi un’idea della diversità dei valori delle potenze elettriche calcolate voi stessi la potenza nei due casi seguenti: un locomotore elettrico che assorbe 1000 A alla tensione di 3000 volt; un transistore usato come elemento di memoria nella RAM (memoria ad accesso casuale) di un calcolatore personale, supponendo che la RAM contenga 10 milioni di transistori, sia alimentata a 3 V e assorba una corrente totale di 0,5 A.

Attraversando i conduttori del circuito, la corrente cede la sua energia, che viene quindi trasformata in altre forme: energia meccanica, chimica, luminosa, ... In questi processi, naturalmente, è sempre verificato il principio di conservazione dell’energia, nel senso che la somma delle energie così ottenute è sempre uguale all’energia ceduta dalla corrente. L’energia e la potenza cedute da una corrente i attraversando un determinato conduttore sono espresse ancora dalle formula (12) e (13), dove però V sta a indicare la tensione ai capi del conduttore.

Ma in qualsiasi conduttore, con la sola eccezione dei superconduttori, almeno una parte di questa energia si trasforma in energia termica (effetto Joule). Questa conversione, anzi, è totale nei conduttori metallici, come stabilì il fisico inglese James Prescott Joule (1818-1889) attraverso una serie di esperimenti svolti attorno al 1845, nel senso che tutta l’energia elettrica che la corrente cede a un conduttore metallico si trasforma in calore. Più precisamente, la legge di Joule afferma che l’energia dissipata in calore in un conduttore di resistenza R in un intervallo di tempo Δt è proporzionale alla resistenza, al quadrato dell’intensità della corrente e alla durata dell’intervallo :

Nei sistemi elettrici almeno una parte dell’energia elettrica si trasforma sempre in calore, per l’inevitabile presenza di resistenze. Proprio come avviene, a causa dell’inevitabile presenza di attriti, per l’energia meccanica nei sistemi meccanici.

(14) U = i2 R Δt che si ottiene sostituendo con Ri la caduta di tensione V ai capi del conduttore nella formula (12). Ricordando l’equivalenza fra joule e calorie, possiamo scrivere la formula precedente nella forma: U = 4187i2 R Δt calorie. L’energia elettrica si misura spesso usando nell’unità pratica chiamata kilowattora (kWh), che rappresenta l’energia fornita durante un’ora a un circuito che assorbe la potenza di 1 kW (1000 W). Si ha pertanto l’equivalenza: 1 kWh = 1000 W × 3600 s = 3,6⋅106 J. E’ tarato in kilowattora il contatore elettrico che si trova in casa, che indica l’energia elettrica assorbita. E si paga in euro per kilowattora la bolletta elettrica.

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Applicazioni tecniche 3. L’effetto Joule trova un gran numero di impieghi pratici. La trasformazione dell’energia elettrica in energia interna dei corpi, cioè in calore, (effetto Joule) trova un gran numero di impieghi pratici, sia in casa che nell’industria.

In casa, per esempio, negli scaldaacqua, nei tostapane, nelle stufe elettriche e in vari altri apparecchi si utilizza il calore sviluppato dalla corrente quando essa attraversa resistori (le cosidette “resistenze”) realizzati generalmente con un filo di nichel-cromo, una lega ad alta resistività che sopporta temperature relativamente alte senza deteriorarsi. Mentre nell’industria si usano vari tipi di forni elettrici e di apparecchi riscaldatori, come quelli usati per facilitare il flusso del petrolio negli oleodotti situati nelle regioni più fredde o per accelerare lo svolgimento delle reazioni negli impianti chimici.

Ma anche le normali lampadine sfruttano l’effetto Joule: la corrente, attraversandone il filamento, lo riscalda portandolo a temperature tanto alte (attorno a 2600°C) da renderlo incandescente, sicché questo emette luce.

L’effetto Joule è poi usato nei fusibili, nei quali s’impiega una lega metallica a basso punto di fusione, sicché essi fondono quando la corrente che li attraversa supera un determinato valore, e nei “limitatori di corrente” o interruttori termici. In questi ultimi, il riscaldamento di un metallo ne provoca la deformazione, aprendo così un contatto. Esempio 14. Calcoliamo la resistenza da utilizzare in uno scaldaacqua in modo che in un’ora riscaldi 40 litri d’acqua da 10 a 70°C. L’energia necessaria a riscaldare l’acqua si ottiene moltiplicando la massa d’acqua (40 kg) per il salto di temperatura (60°C) e per il calore specifico dell’acqua (1 kcal/kg °C): U = 40×60×1 = 2400 kcal = 2400×4187 = 10⋅106 J. Per fornire questa energia in 1 ora (3600 s) occorre la potenza P = U/Δt = 10⋅106/3600 = 2780 W. Se l’apparecchio è alimentato dalla rete (220 volt) la corrente assorbita avrà intensità i = P/V = 2780/220 = 12,6 A. E la resistenza del riscaldatore, applicando la prima legge di Ohm, sarà: R = V/i = 220/12,6 = 17,5 Ω. Figura 25. a) Il filamento delle lampadine è fatto di tungsteno, un metallo con temperatura di fusione molto alta (), che sopporta bene le temperature necessaria all’emissione di un luce gradevolmente “bianca”. Per aumentare la superficie emittente a parità di volume occupato, il filo di tungsteno è avvolto nella forma di un doppia spirale. Per ridurre la sublimazione del metallo, che tende ad assottigliare il filamento fino ad interromperlo, le lampade sono riempite di un gas inerte. b) Le lampadine dette “ad alogeni” emettono una luce più bianca e intensa perché il loro filamento viene portato a una temperatura più alta. Il fenomeno della sublimazione del tungsteno, che si intensifica vivacemente al crescere della temperatura, viene combattuto inserendo nel bulbo di queste lampadine una sostanza che reagisce con i vapori di tungsteno; il prodotto di reazione si deposita poi sul filamento dove si decompone, liberando così il metallo. (foto di normale lampadina, o meglio dettaglio del filamento doppiamente spiralato, e di lampadina ad alogeni) Figura 26. Il riscaldamento per effetto Joule rispetta il principio di conservazione dell’energia.L’energia elettrica dissipata in un resistore, infatti, si trasforma integralmente in calore. La figura rappresenta un calorimetro, con un resistore (ben isolato) immerso nell’acqua e un termometro per misurare la temperatura. L’aumento di energia interna dell’acqua, dovuto al passaggio di corrente nel resistore per un dato tempo, è indicato dall’innalzamento della temperatura; tale aumento è esattamente uguale (entro gli errori sperimentali) all’energia elettrica dissipata nel resistore (determinata misurando la tensione, la corrente e l’intervallo di tempo). Questo schema fu utilizzato da Joule in uno degli esperimenti che svolse per stabilire l’equivalenza fra calore ed energia, sfruttando appunto la trasformazione integrale dell’energia elettrica in calore. (Adattare da Amaldi La Fisica, vol.3, pag. 139, disegnando un supporto isolante esterno tutto attorno al recipiente, indicando gli strumenti con lo stile delle figure precedenti, sostituendo la spirale con un resistore a forma di cilindretto, con accanto la scritta R) Figura 26bis. Esperimento. Osserviamo direttamente l’effetto Joule. Procuratevi una pila da 4,5 V, una spugnetta di ferro da cucina, una pinza di legno e un paio di occhiali per proteggere i vostri occhi. Strappate dalla spugnetta un batuffolo di forma allungata, afferratelo con la pinza e disponetelo per qualche istante a contatto con i poli della pila. La lana di ferro, che presenta una resistenza molto bassa, metterà in cortocircuito la pila e sarà attraversata da una corrente molto intensa. Osservate quanto avviene e traete le vostre conclusioni. (adattare da Carli-Giacomini, Tomo A, pag. 192)

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3.10. Carica e scarica dei condensatori. I circuiti RC Dopo aver scattato un foto con il flash, occorre aspettare qualche istante prima di un nuovo scatto. Il motivo è semplice. Il lampo è stato ottenuto collegando alla lampadina un condensatore carico, sicché questa è stata attraversata da un corrente molto intensa e di durata brevissima (come occorre per una fotografia istantanea). E così il condensatore si è scaricato. Sicchè poi occorre ricaricarlo grazie alla batteria, che ne ripristina la carica con una corrente meno intensa, e quindi di più lunga durata ( figura 27). La scarica di un condensatore.

Con questo esempio siamo usciti dal mondo delle correnti costanti e dei circuiti resistivi per entrare in quello delle correnti variabili e dei circuiti RC, cioè comprendenti sia resistenze che condensatori. Per studiare i fenomeni caratteristici di questa importante famiglia di circuiti svolgiamo l’esperimento che segue, osservando l’andamento nel tempo della carica immagazzinata in un condensatore, man mano che esso si scarica attraverso una resistenza. Esperimento 4. Osserviamo la scarica di un condensatore. Procuratevi un tester, una pila da 9 volt e un condensatore da 10 μF. Caricate il condensatore collegandolo per qualche istante alla pila (fate attenzione a rispettare la polarità, perché i condensatori di grande capacità sono costruiti con una tecnica elettrolitica che li rende sensibili al segno delle cariche). Poi realizzate il circuito di figura 28, nel quale il condensatore si scarica su una resistenza R, utilizzando come resistenza quella offerta dal tester usato come voltmetro, che assumiamo R = 10 MΩ (se la resistenza R del voltmetro fosse diversa da 10 MΩ, sceglierete un condensatore di capacità C = 100/R).

La tensione misurata dal voltmetro indicherà la carica immagazzinata nel condensatore (ricorderete ( xxx) che la tensione di un condensatore è direttamente proporzionale alla sua carica secondo la relazione V = Q/C). Prendete nota del valore della tensione ogni 10 secondi a partire dall’inizio della scarica. Riportando i dati in un grafico, il tempo in ascissa e la tensione in ordinata, otterrete quanto mostrato nella parte a) della figura 29.

Ripetendo l’esperimento con condensatori di capacità diversa (per esempio, 3,3 μF e 30 μF), troverete poi che la velocità del processo di scarica dipende dal valore della capacità, ma il suo andamento complessivo è sempre lo stesso ( figura 29 b)). Gli andamenti più rapidi, in particolare, si ottengono usando le capacità più piccole, a cui corrispondono minori quantità di carica immagazzinata. Approfondimento 4. Analisi dei dati dell’Esperimento 4. Vogliamo trovare una legge matematica che rappresenti i risultati dell’Esperimento 4. Esaminando l’andamento del grafico nella figura 29 a), osserviamo che la tensione decresce con ritmo via via più lento, con una pendenza (Δv/Δt) che sembra presentare, in funzione del tempo, lo stesso andamento della tensione. In particolare, calcolando le differenze (Δv, che in questo caso hanno segno negativo) fra due misure successive e riportandole in un grafico, troviamo che esse hanno lo stesso andamento, a parte un fattore di scala, delle tensioni, cioè sono proporzionali ad esse. Ora quando le variazioni di una grandezza sono proporzionali alla grandezza stessa vuol dire che la grandezza segue la legge esponenziale. Cioè v(t) = c1 ec2t

dove restano da determinare le due costanti c1 e c2. Per verificare questa conclusione calcoliamo il logaritmo delle misure e grafichiamolo in funzione del tempo: se la conclusione è corretta si deve ottenere una retta, dato che, se vale la precedente legge esponenziale, si dovrà avere una relazione

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lineare fra il logaritmo della tensione e il tempo : ln(v(t)) = ln(c1) + c2 t. E così è infatti ( figura 30 a). Determiniamo allora le due costanti. La prima, che ha le dimensioni di una tensione, si ottiene scrivendo v(0) = c1. La seconda si potrebbe ottenere dalla pendenza della retta nel grafico logaritmico. Seguiamo invece un’altra strada, considerando la pendenza iniziale della tensione in funzione del tempo: Δv/Δt. Dove Δv = v(Δt) – v(0), cioè Δv = v(0) (1 – ec2 Δt). Sviluppando in serie l’esponenziale e arrestandosi al primo ordine ( ricordiamo che ex ≅ 1 – x) si ha: Δv = v(0) c2Δt. Da cui si ricava c2 = Δv /v(0)Δt. Sostituiamo infine tale costante, che ha le dimensioni di un tempo-1 ed è negativa (Δv<0), con il suo reciproco cambiato di segno, che ha il significato fisico di tempo caratteristico del fenomeno di scarica o costante di tempo: τ = -1/c2 = v(0)Δt/Δv. Scriviamo pertanto la legge di scarica del condensatore nella forma: v(t) = v(0) e-t/τ

Il valore della costante di tempo si può ricavare graficamente dall’intersezione della tangente al punto iniziale del grafico con l’asse delle ascisse ( figura 30 b)): nel nostro caso si ottiene τ ≅ 100 s. Ora è evidente, come del resto indicano i risultati delle altre prove, mostrati nella figura 29b, che questo tempo caratteristico non dipende dalle tensioni in gioco, ma soltanto dalle costanti del circuito: la resistenza R e la capacità C. L’andamento nel tempo della tensione, e quindi della carica, del condensatore osservato nell’Esperimento precedente si spiega qualitativamente come segue. Inizialmente il condensatore è carico alla tensione v(0) = V, sicché nella resistenza scorre una corrente di intensità i(0) = V/R. Ma questa corrente sottrae carica al condensatore, la cui tensione diminuisce quindi in proporzione, sicchè diminuisce anche la corrente, rallentando così sempre più il processo di scarica man mano che esso procede. Descriviamo ora questo stesso processo in termini quantitativi. Se al generico tempo t la tensione del condensatore è v e la sua carica è q = Cv, l’intensità della corrente attraverso la resistenza è: (15) i = v/R Dopo un intervallino di tempo Δt molto breve, durante il quale supponiamo che la corrente sia approssimativamente costante, la carica del condensatore, ricordando che i = Δq/Δt, avrà subito la variazione Δq = -i Δt. E quindi la variazione della tensione sarà: Δv = Δq/C = -i Δt/C. Sostituendo in tale espressione la tensione v ricavata dalla formula (15) si ha infine: (16) Δv = -v Δt /RC Che cosa significa? Che nel corso del processo di scarica la variazione della tensione del condensatore durante un intervallino di tempo ha segno negativo ed è direttamente proporzionale sia alla tensione del condensatore (v) in quel momento sia alla durata (Δt) dell’intervallino. La costante di proporzionalità 1/RC è il reciproco del prodotto fra la capacità del condensatore e la resistenza di scarica. Questo prodotto, che ha le dimensioni di un tempo, prende il nome di costante di tempo del circuito e si indica comunemente con il simbolo τ. E quindi, essendo τ = RC, nel caso dell’esperimento precedente si ha: τ = 10 MΩ×10 μF = 107×10-5 = 100 s. Esaminando la formula (16) si osserva poi che il processo di scarica si svolge tanto più velocemente quanto minore è il valore della costante di tempo. Ciò è in accordo con l’intuizione; una capacità più piccola immagazzina una carica minore e attraverso una resistenza più bassa scorre una corrente più intensa: entrambi i fattori contribuiscono a una scarica più rapida.

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Per stabilire, infine, la legge che descrive l’andamento nel tempo della tensione, e della carica, del condensatore, e quindi anche dell’intensità della corrente attraverso la resistenza, si deve considerare un intervallino di tempo di durata infinitesima e applicare i metodi dell’analisi matematica. Il risultato, tenendo conto che la tensione iniziale è V (v(0) = V), è il seguente: (17) a) v(t) = V e-t/τ ; b) q(t) = V e-t/τ/C ;c) i(t) = V e-t/τ/R

La funzione matematica che appare nelle espressioni precedenti è la funzione esponenziale, dove la costante e = 2,71828... è il cosidetto numero di Nepero (dal nome dello scienziato francese Napier a cui si attribuisce l’introduzione dei logaritmi). E siccome l’esponente ha segno negativo, l’andamento è decrescente nella variabile t. In questo caso le grandezze che seguono la legge esponenziale si riducono di uno stesso fattore dopo intervalli di tempo di ugual durata, con un andamento nel tempo che è proprio quello rappresentato nei grafici delle figure 29 e 30. Con una calcolatrice tascabile potete osservare, in particolare, che dopo un tempo τ la tensione del condensatore si riduce da V a V/e = 0,368 V; dopo un tempo 2τ, a V/e2 = 0,135 V; e così via. E quand’è, secondo voi, che la tensione, e con essa le altre grandezze, si riduce a zero? Esaminiamo infine il comportamento del circuito di scarica in termini di energia. La conclusione è assai semplice. L’energia posseduta inizialmente dal condensatore (1/2 CV2) viene spesa integralmente per muovere le cariche attraverso la resistenza, dove viene dissipata per effetto Joule. La carica di un condensatore. Cosa avviene, invece, quando un condensatore scarico viene collegato a un generatore di tensione attraverso una resistenza? Questo circuito è rappresentato nella figura 31 ed è descritto dall’equazione (18) V = R i + v ottenuta uguagliando la tensione V del generatore alla somma delle tensioni agli estremi dei due elementi disposti in serie: la caduta Ri della resistenza e la tensione v del condensatore. Si capisce allora che all’istante iniziale la corrente è massima, dato che v = 0 (il condensatore è scarico), e si ha quindi i = V/R. Questa corrente, d’altra parte, fornisce carica al condensatore, la cui tensione aumenta pertanto gradualmente. Ma sempre più lentamente, dato che all’aumento della sua tensione corrisponde una riduzione della corrente: dalla formula (18) si ricava infatti: i = (V-v)/R. Si dimostra, e del resto si capisce anche facilmente, che la corrente, decrescendo nel tempo, segue la stessa legge esponenziale della formula (17c). (19) i(t) = V e-t/τ/R dove la costante di tempo ha la stessa espressione (τ = RC) e lo stesso significato di prima.

La tensione del condensatore, invece, segue una legge diversa, e con essa la carica immagazzinata nell’elemento. Sostituendo l’espressione (19) della corrente nella formula (18) si ricava infatti:

(20) v(t) = V(1 - e-t/τ) il cui andamento è rappresentato nella figura 32. La tensione aumenta sempre più lentamente tendendo a raggiungere la tensione del generatore. E’ interessante, in questo caso, esaminare il comportamento energetico del circuito. E’ evidente, innanzitutto, che il generatore deve compiere il lavoro LC necessario a caricare il condensatore:

(21) LC = ½ CV2

Ma a questo va aggiunto il lavoro LR necessario per muovere le cariche attraverso la resistenza, dove la loro energia potenziale viene dissipata per effetto Joule. Questo lavoro, che dipende dall’intensità della corrente al quadrato, dal valore della resistenza e dalla durata del processo ( formula (14)), si determina facilmente. Infatti l’andamento del tempo della corrente nel processo di carica, dato dalla formula (19), è lo stesso della corrente nel processo di scarica (formula (17c) durante il quale l’energia ceduta alla resistenza è ½ CV2. Cioè si ha: LR = ½ CV2. E quindi il lavoro totale LG che deve compiere il generatore nel processo di carica è: (22) LG = LC + LR = CV2

metà del quale va effettivamente in energia del condensatore, l’altra metà si perde per strada. Applicazioni tecniche 3. Le scariche elettriche che salvano la vita. Il defribrillatore è uno strumento che riavvia il regolare battito cardiaco nel caso di interruzione o di pericolose irregolarità (fibrillazione), rilasciando una carica elettrica fra due punti del torace dell’infortunato. Grazie ad esso ogni anno viene salvato un gran numero di vite. Il processo utilizzato è quello della scarica di un condensatore su una resistenza, che è la somma di quella di un resistore interno (R) allo strumento e della resistenza toracica (Rp) dell’infortunato, sul corpo del quale vengono posti due grandi elettrodi trattati in modo da ridurre al minimo la resistenza offerta dalla pelle. Di solito il condensatore, con capacità di 30-50 μF, viene caricato in modo da immagazzinare l’energia di 360 J, una frazione della quale (Rp/(Rp + R) viene impartita al paziente (valori tipici sono R = 50 Ω, Rp = 60-90 Ω).

La scarica di un condensatore trova impiego anche nel pacemaker o segnapassi cardiaco, che ha lo scopo di regolarizzare il battito cardiaco. Qui l’energia in gioco è assai minore, perchè l’apparecchio, assieme al generatore di tensione, viene impiantato nel corpo del paziente sicché i suoi impulsi sono applicati direttamente al cuore. I primi pacemaker si limitavano a produrre una sequenza regolare di impulsi. Quelli usati oggi si avvalgono di sensori che misurano grandezze fisiche di interesse fisiologico in modo da fornire il segnale più adatto alle particolari condizioni del paziente: a ciò provvede un microprocessore opportunamente programmato. Nonostante la complessità dei circuiti, i pacemaker attuali pesano circa 25 g, occupano un volume di circa 10 cm3 e hanno una durata di funzionamento di oltre 5 anni. Figura 27. Schema di un flash per macchine fotografiche. Il condensatore C è inizialmente carico grazie alla batteria, a cui è collegato tramite una resistenza R (che rappresenta la resistenza complessiva del circuito, inclusa la resistenza interna del generatore). Premendo l’interruttore I, il condensatore viene collegato alla lampadina L, che presenta una resistenza molto bassa. La carica immagazzinata nel condensatore fluisce allora attraverso la lampadina, creando una corrente di brevissima durata che provoca il lampo luminoso. Il condensatore viene poi lentamente ricaricato dalla batteria. Figura 28. Esperimento .Dopo aver caricato il condensatore collegandolo alla batteria, lo scarichiamo sulla resistenza R. Questa è costituita dalla resistenza del voltmetro. Tale strumento, essendo collegato in parallelo al condensatore, ci permette di osservare l’andamento nel tempo del processo di scarica.

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Figura 29. a) Grafico rappresentante le misure di tensione durante la scarica del condensatore, con C = 10 μF e R = 10 MΩ; b) Grafici ottenuti ripetendo le misure con diversi valori di capacità: 3,3 μF (curva rossa), 10 μF (linea nera), 30 μF (linea verde). (aggiungere le seguenti scritte: nelle ordinate, tensione (volt); nelle ascisse tempo (secondi)

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Figura 30. a) Graficando il logaritmo dei dati rappresentati nella figura 29 a) si ottiene una retta, indicando che essi

sono descritti da una legge esponenziale; b) La costante di tempo del processo di scarica si ricava graficamente dall’intercetta sull’asse delle ascisse della tangente alla curva di scarica nel punto iniziale del grafico di fig. 29 a). (aggiungere le seguenti scritte: nelle ordinate, logaritmo della tensione ; nelle ascisse tempo (secondi)) Figura 31. Il condensatore C, inizialmente scarico, viene caricato collegandolo al generatore V attraverso la resistenza R. Esso si carica gradualmente tendendo a raggiungere la tensione del generatore. Figura 32. La tensione del condensatore durante il processo di carica nel circuito di figura 31, con V = 9 volt e τ = RC = 100 s. Si nota che la tensione, al crescere del tempo, aumenta sempre più lentamente.

0 100 200 300 4000

5

10

3.11 I pericoli dell’elettricità Sebbene utilissima, l’elettricità costituisce una reale fonte di pericolo sia per le persone sia come causa d’incendio, come testimoniano le statistiche (in Italia, circa morti per folgorazione ogni anno). Come mostra la tabella 3, gli effetti fisiologici della corrente elettrica, cioè gli effetti che essa provoca quando attraversa il nostro corpo, dipendono dalla sua intensità. Ciò è dovuto al fatto che il nostro sistema nervoso funziona grazie a deboli segnali elettrici, che chiaramente subiscono interferenza in presenza di una corrente esterna. L’effetto, inoltre, dipende molto anche dalle parti

0 50 100 150 2000

5

10

0 50 100 150 2000

5

10

0 50 100 150 2000

1

2

3

0 50 1000

5

10

ln v t( )( )

t150 200

t

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del corpo soggette al passaggio della corrente: il massimo pericolo si ha quando essa attraversa il torace, perché in tal caso, se l’intensità è sufficientemente elevata, la corrente può provocare la paralisi dei muscoli che provvedono alla respirazione oppure una fibrillazione ventricolare, interrompendo il normale funzionamento del cuore. A determinare la pericolosità di una corrente, poi, contribuisce anche la durata del contatto. Tabella 3. Gli effetti fisiologici di una corrente elettrica Intensità della corrente Effetti 1-5 mA Si percepisce il passaggio della corrente, avvertendo la “scossa elettrica”, ma senza reale

pericolo. 10-20 mA La corrente agisce sui muscoli, provocandone la contrazione: le mani, a causa di queste

reazioni incontrollate, possono aggrapparsi ai conduttori impedendo di distaccarsene. 20-30 mA La corrente può provocare ustioni nei punti di contatto; le contrazioni dei muscoli

possono diventare tanto intense da bloccare la respirazione, con pericolo di asfissia. oltre 50 mA Arresto cardiaco, che provoca la morte in assenza di intervento immediato. Dalla prima legge di Ohm sappiamo che l’intensità di una corrente dipende, oltre che dalla tensione, dalla resistenza del conduttore a cui la tensione è applicata. Sicché ha grande importanza la resistenza elettrica che offre il nostro corpo, ammettendo che esso si comporti, almeno apporssimativamente, come un conduttore ohmico. Esperimento 5. La resistenza elettrica del corpo umano Procuratevi uno strumento universale. Utilizzandolo come ohmetro, misurate la resistenza del vostro corpo stringendo i puntali dello strumento fra le dita delle mani. Prendete nota della resistenza. Inumidite le dita e poi ripetete la misura. Il nuovo valore di resistenza sarà più basso del precedente (ancora più basso se avrete usato acqua salata, cioè una soluzione elettrolitica). Otterreste poi valori di resistenza ancora inferiori collegando i puntali dello strumento a due corpi metallici conficcati nelle vostre mani, ma questa prova è vivamente sconsigliata. Alla resistenza elettrica del corpo umano contribuisce la resistenza della pelle e quella interna. Quest’ultima vale all’incirca 100-500 Ω, mentre quella della pelle è molto variabile: da circa 1000 Ω quando la pelle è molto umida fino a oltre 1 MΩ quando è molto secca, come avrete notato eseguendo l’Esperimento 5. L’umidità della pelle, d’altra parte, può dipendere fortemente dallo stato emozionale della persona: questo fenomeno è sfruttato nelle macchine della verità, usate nei sistemi giudiziari di alcuni Paesi, come pure nel cosidetto “baciometro”, il cui funzionamento saprete certamente interpretare.

Per quanto si è detto, la pericolosità del contatto con conduttori sotto tensione dipende fortemente dallo stato della pelle: si può sopravvivere al contatto con un conduttore di rete a 220 V se la pelle è secca, ma se è umida può risultare mortale una tensione anche di poche decine di volt.

La situazione, naturalmente, è assai diversa se si toccano contemporaneamente due conduttori fra i quali vi è una differenza di potenziale, e allora il circuito si chiude attraverso il corpo che ne determina la resistenza, oppure si entra in contatto con un solo conduttore. In quest’ultimo caso il circuito si chiude verso il suolo e alla sua resistenza contribuiscono anche le eventuali calzature e il tipo e lo stato del pavimento. Questo caso, in particolare, può verificarsi quando in un apparecchio un conduttore alla tensione di rete perde il suo isolamento ed entra in contatto con il rivestimento metallico dell’apparecchio (una lavatrice, un asciugacapelli, ...). E allora diventa assai pericoloso toccare l’apparecchio (molti incidenti si verificano in bagno a causa della presenza di acqua).

Per evitare questo pericolo, in tutti gli impianti elettrici moderni l’elettricità viene distribuita usando cavi costituiti da tre conduttori, anzichè due. Due di questi (di solito di colore marrone e blu) portano effettivamente la corrente, e fra essi vi è la tensione di 220 volt. Il terzo (di colore giallo e verde) è collegato all’impianto di terra dell’edificio (un palo metallico conficcato nel

terreno); e viene poi collegato (tramite prese e spine tutte dotate di tre poli e cavi di alimentazione anch’essi tripolari) alle parti metalliche esterne degli apparecchi elettrici. Con questo accorgimento, quando si verifica una perdita di isolamento di un conduttore in un apparecchio, la corrente scorrerà verso l’impianto di terra evitando così che il rivestimento dell’apparecchio si porti sotto tensione.

Alla sicurezza dell’impianto contribuisce poi l’impiego degli interruttori differenziali, dispositivi che interrompono l’erogazione della corrente quando rivelano la presenza di uno squilibrio fra le correnti che scorrono nei due conduttori di rete. Una differenza fra le due correnti, infatti, indica la presenza di una dispersione che può risultare pericolosa.

Il surriscaldamento dei conduttori, infine può provocare incendi. Il rischio maggiore si ha quando si verifica un cortocircuito, cioè un contatto diretto fra i due conduttori di rete, che provoca il passaggio di correnti molto intense; ma in tal caso intervengono i fusibili o il limitatore di corrente dell’impianto, aprendo il circuito. Più insidioso è il surriscaldamento di un conduttore dovuto al passaggio di correnti più intense di quelle per cui è stato costruito: per esempio quando si collega a una stessa presa di corrente un numero eccessivo di apparecchi. Figura 33. Le spine e le prese utilizzate negli impianti elettrici moderni sono dotate di tre poli. Il terzo serve per il conduttore di terra, che è importantissimo per la sicurezza elettrica in casa. (Fotografia di una spina elettrica aperta, che evidenzia i tre poli e i conduttori ad essi collegati, con i rivestimenti isolanti aventi i colori di norma) Figura 34. a) La parte esterna dell’elettrodomestico si trova al potenziale di terra, essendo collegata al conduttore di terra del cavo di alimentazione; quindi non costituisce pericolo anche nel caso di un guasto per cui un conduttore di rete entri in contatto con essa; b) Se il conduttore di terra è interrotto o assente, quando si verifica il guasto l’elettrodomestico si porta alla tensione di rete e diventa estremamente pericoloso toccarlo. (Adattare da Il mondo della Fisica, tomo B, pag. 385, modificata sostituendo come indicato la parte a sinistra di entrambe le parti, mantenendo l’interruzione del conduttore di terra nella parte b)) Figura 35. Comportamenti errati e precauzioni da adottare per prevenire i pericoli dell’elettricità: ...... (Adattare da Carli-Giacomini, Tomo A, pag. 193, fig. 43)

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Test di verifica

1) Perché una corrente elettrica possa scorrere con continuità attraverso un conduttore occorre che questo sia

Ο un conduttore ohmico Ο inserito in un circuito chiuso Ο di tipo metallico

2) Il passaggio di una corrente attraverso un conduttore è possible soltanto quando in esso si trovano

Ο elettroni liberi Ο ioni positivi Ο elettroni fortemente legati agli atomi

3) Vero o falso? V F - Realizziamo un circuito chiuso collegando assieme quattro lampadine come in figura. Esse non si accendono perché - al loro interno il campo elettrico è nullo O O - la corrente che vi scorre è insufficiente ad accenderle O O- nel circuito manca l’interruttore per accenderle O O- il circuito è privo di un generatore elettrico O O (figura da fare: quattro lampadine disposte secondo i lati di un quadrato, collegate l’una appresso all’altra)

4) Il numero degli elettroni liberi in 1 mm3 di rame è Ο circa 1 miliardo Ο circa 1000 miliardi Ο maggiore di 1 miliardo di miliardi

5) Sottolineate gli errori che individuate nella frase seguente Nei metalli tutti gli elettroni sono liberi di muoversi; in presenza di un campo elettrico essi si spostano nella direzione e nel verso del campo, creando così una corrente elettrica; il loro moto, detto di deriva, è uniformemente accelerato.

6) In un conduttore percorso da corrente, tipicamente, la velocità del moto di deriva degli

elettroni è O molto maggiore di O dell’ordine di O molto minore di di quella del moto di agitazione termica.

7) Un conduttore è attraversato da 5 coulomb ogni 4 secondi. Pertanto l’intensità di questa corrente è O 5 A O 1,25 A O 0,8 A

8) Vero o falso? V F La curva caratteristica corrente-tensione di un conduttore ohmico è una retta O O Un conduttore non ohmico è ben caratterizzato dal valore della sua resistenza O O Nei conduttori metallici la prima legge di Ohm stabilisce una relazione di proporzionalità diretta fra la tensione e l’intensità della corrente O O La legge di Ohm vale esclusivamente per i conduttori metallici O O La resistività si misura in Ω/m O O Tagliando a metà un filo conduttore con resistenza di 12 Ω si ottengono due conduttori con resistenza di 6 Ω O O

9) Scartavetrando a lungo la superficie di un filo di rame, la sua resistenza O diminuisce O resta costante O aumenta

10) Una statuetta d’argento che raffigura un merlo presenta la resistenza di 0,18 mΩ fra il becco e la coda. Essa viene duplicata esattamente usando però alluminio, sicchè la resistenza fra gli stessi punti è: O 0,103 mΩ O 0,28 mΩ O 2,8 mΩ

11) La statuetta del quesito 10) viene riprodotta in scala, raddopiandone le dimensioni lineari. Pertanto la sua resistenza elettrica fra il becco e la coda O si dimezza O si raddoppia O si quadruplica

12) La resistività dei metalli O aumenta con la O non dipende dalla O diminuisce con la temperatura.

13) Sottolineate gli errori che individuate nella frase seguente La prima legge di Ohm è valida per qualsiasi conduttore; la seconda legge di Ohm stabilisce che la resistenza elettrica di un filo conduttore è direttamente proporzionale alla sua sezione e inversamente proporzionale alla sua lunghezza, dove la costante di proporzionalità è indipendente dalla temperatura. 14) Le due lampadine nella parte b) della figura 7 sono collegate O in serie O in parallelo O in serie/parallelo 15) Misurando la caratteristica corrente-tensione di un conduttore si ottiene il

grafico a fianco. Si conclude pertanto che si tratta di un conduttore O resistivo O non ohmico O ohmico

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16) Un conduttore con resistenza R = 500 Ω è collegato a una pila da 9 V. La resistenza da

disporre in serie al circuito perché nel conduttore scorrano 3 mA è: O 500 Ω O 2500 Ω O 3000 Ω 17) Una pila da 3 V eroga complessivamente 12 mA a 3 resistori uguali collegati in parallelo.

Pertanto la resistenza di ciascuno di essi è: O 250 Ω O 750 Ω O 3600 Ω 18) Vero o falso? V F Gli apparecchi elettrici di casa sono collegati in parallelo alla rete elettrica O O Due conduttori sono collegati in serie quando hanno la stessa tensione ai loro estremi O O Per aumentare la resistenza fra due punti di un circuito si può disporre un resistore in parallelo fra essi O O L’intensità della forza elettromotrice si misura in newton O OI migliori generatori di tensione sono quelli che hanno resistenza interna nulla O O La tensione di una pila diminuisce al crescere della corrente erogata O O

19) Collegando in serie due pile con resistenza interna di 0,1 e 0,2 Ω si ottiene un generatore

con resistenza interna di O 0,667 Ω O 0,1 Ω O 0,3 Ω 20) Per ottenere la tensione di 12 V occorre disporre in serie O 6 O 8 O 12

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pile da 1,5 V. 21) Colleghiamo in parallelo a un amperometro un resistore di resistenza pari alla resistenza

interna dello strumento. Così facendo la portata dello strumento O si dimezza O resta la stessa O si raddoppia 22) Colleghiamo in serie a un amperometro un resistore di resistenza pari alla resistenza interna

dello strumento. Così facendo la portata dello strumento O si dimezza O resta la stessa O si raddoppia 23) Colleghiamo in serie a un voltmetro un resistore di resistenza pari alla resistenza interna

dello strumento. Così facendo la portata dello strumento O si dimezza O resta la stessa O si raddoppia 24) Colleghiamo in parallelo a un voltmetro un resistore di resistenza pari alla resistenza interna

dello strumento. Così facendo la portata dello strumento O si dimezza O resta la stessa O si raddoppia 25) Un resistore di resistenza R = 10 Ω viene collegato alla rete elettrica (220 V) per 10

secondi. L’energia sviluppata per effetto Joule è O 48400 J O 481700 J O 3600000 J 26) L’energia sviluppata per effetto Joule dal passaggio di una corrente in una resistenza R è direttamente proporzionale a O R O R2 O √R

27) L’energia sviluppata per effetto Joule dal passaggio di una corrente i in una resistenza è direttamente proporzionale a O i O i2 O √i 28) Vero o falso? V F Gli amperometri vanno sempre disposti in serie al circuito O O Nelle misure di corrente, la resistenza interna dell’amperometro provoca un errore di tipo casuale O O I voltmetri devono presentare una resistenza interna molto alta O O La potenza assorbita da un conduttore è data dal prodotto fra la tensione ai suoi estremi e l’intensità della corrente che lo attraversa O O L’effetto Joule rappresenta l’aumento di temperatura di un conduttore percorso da corrente O O

29) Raddoppiando la tensione applicata a un resistore, la potenza dissipata nell’elemento O si dimezza O si raddoppia O si quadruplica 30) 1 kilowattora equivale a O 0,860 calorie O 3,6 calorie O 4,187 calorie 31) Un asciugacapelli da 1000 W, collegato alla rete elettrica, richiede una corrente di O 2,17 A O 4,55 A O 9,09 A

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32) Un condensatore da 5000 μF, inizialmente carico a 10 V, viene scaricato su un resistenza da 1 kΩ, sicchè la costante di tempo del circuito è 5 s. La tensione del condensatore si riduce a 10 mV dopo

O 2,73 s O 5 s O 34,5 s dall’inizio della scarica. 33) Sottolineate gli errori che individuate nella frase seguente La costante di tempo che si manifesta nella scarica di un condensatore su una resistenza è

direttamente proporzionale alla resistenza, inversamente proporzionale alla capacità; essa inoltre dipende dal valore iniziale della carica posseduta dal condensatore.

34) Disponendo di tre condensatori di capacità 1 nF, 1 μF e 1000 μF e di tre resistori di resistenza 100 Ω, 100 kΩ e 10 MΩ, la costante di tempo più lunga che posssiamo realizzare è

O 0,1 s O 102 s O 104 s e quella più breve è O 0,1 μs O 0,1 ms O 1 s 35) Un condensatore di capacità C = 1 μF, inizialmente scarico, viene caricato collegandolo a

un generatore V attraverso una resistenza da 1 MΩ. La sua energia è pari a ¼ CV2 dopo O 0,347 s O 1 s O 2,73 s dall’inizio della carica. 36) L’ambiente di casa dove si verifica il maggior numero di incidenti dovuti all’elettricità è O la camera da pranzo O il bagno O la camera da letto 37) Gli effetti fisiologici della corrente elettrica dipendono sopratutto O dall’intensità della corrente O dalla tensione con cui si entra in contatto O dall’umidità 38) Quando la pelle è bagnata, la resistenza elettrica del nostro corpo O aumenta O resta invariata O diminuisce 39)

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Problemi e quesiti

1. Spiegate in 10 righe in cosa consistono tre effetti della corrente elettrica a vostra scelta. Risoluzione. Tabella 3.1 a pagina xxx.

2. Calcolate approssimativamente la frequenza degli urti fra un elettrone libero e il reticolo di

un metallo a temperatura ambiente e a 1000 K, assumendo che la distanza fra gli ioni del reticolo sia di 0,1 nm.

Risoluzione. Ammettiamo, molto grossolanamente, che l’elettrone si muova a una velocità costante pari alla velocità quadratica media corrispondente alla temperatura del metallo, e che fra un urto e il successivo intercorra il tempo Δt necessario a percorrere la distanza fra due ioni, cioè lo spazio s = 0,1 nm = 10-10 m, sicchè Δt = s/vqm. La frequenza degli urti, cioè il numero di urti in 1 secondo, sarà allora: f = 1/Δt. Utilizzando i risultati dell’Esempio 2, a temperatura ambiente abbiamo vqm293 = 1,15⋅105 m/s; a 1000 K, vqm1000 = vqm293 (1000/293)1/2 = 1,15⋅105×1,85 = 2,13⋅105 m/s. Si ha pertanto: f293 = vqm293/10-10 = 1,15⋅1015 Hz; f1000 = vqm1000/10-10 = 2,13⋅1015 Hz. Ma siccome questo calcolo è molto grossolano, potrebbe aver più senso esprimere le frequenze con una sola cifra significativa. 3. Spiegate in 10 righe perché il moto di deriva degli elettroni di conduzione di un metallo,

dovuto al campo elettrico, sia uniforme anzichè uniformemente accelerato. Risoluzione. Gli urti frequentissimi fra gli elettroni e gli ioni del reticolo, dovuti al moto di agitazione termica, esercitano sul moto di deriva un’azione frenante, analoga a quella prodotta dalla resistenza del mezzo sul moto di un corpo esteso e quindi la velocità media degli elettroni è proporzionale all’intensità del campo. Allo stesso risultato, d’altra parte, si arriva ammettendo che dopo ogni urto l’elettrone perda memoria della velocità che aveva acquistato sotto l’azione del campo E. E quindi se l’elettrone, nell’intervallo di tempo Δt fra due urti successivi, acquista la velocità di deriva v = a Δt = eEΔt/me , la sua velocità media (la metà della precedente) risulta proporzionale all’intensità del campo. 4. La corrente costituita da un fascio di elettroni in moto nel vuoto a velocità costante ha

l’intensità di 800 A. Calcolate quanti elettroni al secondo raggiungono il bersaglio a cui è diretto il fascio.

Risoluzione. La corrente trasporta in 1 secondo la carica di 800 C. Il numero di elettroni al secondo che raggiungono il bersaglio è pertanto n = 800/1,6⋅10-19 = 5⋅1021.

5. In un apparato viaggia un fascio di 1016 elettroni al secondo, e parallelamente ad esso un

fascio di 9⋅1015 positroni al secondo. Calcolate l’intensità della corrente totale dei due fasci di particelle, esprimendola in microampere, sapendo che i positroni sono antielettroni, dotati cioè di carica elementare positiva.

Risoluzione. Il problema è indeterminato se non si conosce il verso di un fascio rispetto all’altro. Comunque, se i due fasci sono concordi, allora le correnti si sottraggono, dato che le particelle dei due fasci hanno cariche di segni opposti. Si ha pertanto: i = (1016 – 9⋅1016)×1,6⋅10-19 = 1,6⋅10-4 A = 160 μA. Se, invece, se i due fasci sono discordi, allora le correnti si sommano e si ha: i = (1016 + 9⋅1016)×1,6⋅10-19 = 1,76⋅10-3 A = 1760 μA.

6. Per riuscire ad avviare il motore di un’automobile, il motorino elettrico, che assorbe una

corrente di 120 A, viene azionato per 2,5 secondi tre volte di seguito. Calcolate la carica totale fornita dalla batteria.

Risoluzione. La carica fornita dalla batteria è Q = iΔt = 120×2,5×3 = 900 C.

7. Calcolate l’intensità della corrente che, attraversando un filo di rame con sezione di 1 mm2, provocherebbe un moto di deriva degli elettroni con velocità media uguale alla velocità quadratica media del moto di agitazione termica a 293 K (suggerimento: utilizzate i risultati degli Esempi 2 e 3).

Risoluzione. Dall’Esempio 2 sappiamo che la velocità quadratica media degli elettroni in un metallo a 293 K è: vqm = 1,15⋅105 m/s. Dall’Esempio 3 sappiamo che la velocità di deriva è direttamente proporzionale all’intensità della corrente e che quando il filo di rame da 1 mm2 di sezione è attraversato da 1 A si ha: vd = 7,35⋅10-5. Per avere vd = vqm occorrerebbe che l’intensità della corrente fosse (1,15⋅105/7,35⋅10-5) = 1,56⋅109 A. Cosa assolutamente impossibile.

8. Una lampadina, alimentata a 220 V, assorbe una corrente di 0,182 A. Calcolate la resistenza della lampadina.

Risoluzione. Applicando la prima legge di Ohm, scritta nella forma R = V/i, si ha: R = 220/0,182 = 1210 Ω. 9. Ohm osservò che le leggi della conduzione elettrica “sono così simili a quelle riguardanti la

propagazione del calore ... che anche se non vi fossero altre ragioni potremmo ragionevolmente trarre la conclusione che fra questi fenomeni naturali esiste una intima connessione”. Sapete interpretare questa intuizione, al di là dell’analogia formale, sulla base delle conoscenze attuali circa la conduzione dell’elettricità e del calore nei corpi metallici?

Risoluzione. Sia nella conduzione del calore che dell’elettricità in un metallo il ruolo essenziale è giocato dagli elettroni liberi. Il loro moto ordinato di deriva costituisce infatti direttamente la corrente elettrica. Il loro moto disordinato di agitazione termica trasmette continuamente energia da un punto all’altro del reticolo cristallino, col risultato che le parti più “calde” del metallo riscaldano quelle più “fredde” del metallo.

10. Colleghiamo una batteria da 6V a un resistore da 100 Ω. Calcolate l’intensità della corrente

che scorre nel resistore. Risoluzione. Applicando la prima legge di Ohm, scritta nella forma i = V/R, si ha: i = 6/100 = 0,06 A.

11. Una stufa elettrica, con resistenza R = 50 Ω, richiede 4,7 A per il suo funzionamento.

Calcolate la tensione con cui la stufa va alimentata. Risoluzione. Applicando la prima legge di Ohm, scritta nella forma V = Ri, si ha: V = 50×4,5 = 225 V.

12. Due conduttori vengono collegati, uno per volta, a un generatore di tensione variabile,

misurando le intensità, i1 e i2, delle correnti che li attraversano al variare della tensione V del generatore. Utilizzando i dati sperimentali raccolti nella tabella, graficate le caratteristiche corrente-tensione dei due conduttori riportando le tensioni sull’asse delle ascisse e le intensità di corrente su quello delle ordinate. Stabilite se uno di essi o entrambi sono conduttori ohmici, in tal caso calcolandone la resistenza. Risoluzione. I dati relativi al primo conduttore (blu, in alto) appaiono

distribuiti lungo una retta passante per l’origine, sia pure approssimativamente a causa degli errori di misura. E pertanto si tratta di un conduttore ohmico. Tracciando a mano la retta che meglio li approssima si ottiene R ≈ 500 Ω. Si può, in alternativa, stimare la resistenza calcolando la media dei rapporti V/i1 per ciascuna riga della tabella, o usare altri metodi statistici. I dati del secondo conduttore (rosso, in basso), invece, si

discostano, sia pur debolmente, da un andamento rettilineo e pertanto si tratta di un conduttore non ohmico.

V (volt) i1 (mA) i2 (mA) 0 0 03 6,2 36 11,8 6,49 17,4 10,1

12 25,1 14,815 29,5 19,718 37 25,421 42,5 31,524 48,3 40,5

0

10

20

30

40

50

0 5 10 15 20 25

tensione (volt)

corr

ente

(m

A)

13. Spiegate perché ha poco senso definire una resistenza per i conduttori non ohmici. Risoluzione. Nei conduttori non ohmici non vi è proporzionalità diretta fra la tensione e l’intensità della corrente e quindi il rapporto V/i non è costante. Tale rapporto, naturalmente, si può calcolare anche per questi conduttori, ma esso risulterà, in generale, diverso a seconda del valore di V (o di i) a cui lo si considera. E quindi il rapporto V/i risulta assai poco utile per caratterizzare un conduttore non ohmico.

35

36

14. Dimostrate che la tensione d’uscita del circuito rappresentato nella figura 10 è effettivamente α volte (con α<1) quella d’ingresso.

Risoluzione. Se la tensione d’ingresso è V, allora nel resistore R scorre la corrente i = V/R. Di conseguenza, la tensione ai capi della frazione αR della resistenza totale, cioè la tensione d’uscita, è V’ = αRi = αV.

15. Un filo conduttore con sezione S = 1 mm2 lungo L = 18 m presenta una resistenza di R = 0,5 Ω. Individuate il metallo di cui esso presumibilmente è fatto e calcolate la lunghezza di un filo dello stesso metallo, con sezione di raggio 2 volte minore, necessaria per ottenete una resistenza R = 10 Ω.

Risoluzione. La resistività del filo, espressa nell’unità pratica Ω mm2/m, si ottiene in questo caso dal rapporto fra la resistenza e la lunghezza del filo: ρ = 0,5/18 Ω mm2/m = 0,278 Ω mm2/m. Esaminando la tabella 2, si conclude che assai probabilmente il filo è fatto di alluminio. Per calcolare la lunghezza L’ del filo necessario a ottenere una resistenza di 10 Ω utilizziamo la seconda legge di Ohm, da cui la proporzione: L’ = L(R’/R)(S’/S) = 18×(10/0,5)×(1/4) = 90. 16. Nelle ferrovie a trazione elettrica si usano le rotaie come conduttore di ritorno per la

corrente prelevata dalla linea aerea. Consideriamo una rotaia lunga 1 km fatta di acciaio (con densità δ = 7,8 g/cm3 e resistività ρ = 12⋅10-8 Ω⋅m) e massa di m = 30 kg al metro. Calcolate la resistenza della rotaia e la caduta di tensione quando essa è attraversata da una corrente di 2000 A.

Risoluzione. Il volume di 1 m di rotaia è V = m/δ = 30/7800 = 3,85⋅10-3 m3. E quindi la sezione della rotaia è S = V/1 = 3,85⋅10-3 m2. Applicando la seconda legge di Ohm si conclude che la resistenza di 1 km di rotaia è: R = ρL/S = 12⋅10-8×1000/3,85⋅10-3 = 0,0312 Ω. E quindi la caduta di tensione lungo la rotaia è: V = Ri = 0,0312×2000 = 62,3 V.

17. Un altoparlante con resistenza R = 8 Ω va collegato all’amplificatore, che si trova alla

distanza di L = 20 m, con un cavo di rame. Calcolate la sezione dei conduttori, imponendo che la resistenza R’ del cavo sia 1/20 di quella dell’altoparlante.

Risoluzione. Per calcolare la sezione S dei conduttori del cavo utilizziamo la seconda legge di Ohm scritta nella forma: S = ρL/R. Consultando la tabella 2 ed esprimendo le grandezze nelle unità pratiche si ha: S = 0,017 Ω⋅mm2/m × 40 m / 8 Ω = 0,085 mm2. 18. Nella cassetta di un elettricista si trova un conduttore metallico che ha la forma mostrata

nella figura. Stabilite a cosa serviva. Risoluzione. La forma del conduttore indica chiaramente che esso era usato come “resistenza” in un ferro da stiro. (foto o disegno, piccoli, di una resistenza usata in un vecchio ferro da stiro)

19. Dimostrate che l’unità di misura della resisistività nel sistema SI è l’ohm⋅metro.

Risoluzione. Utilizzando la seconda legge di Ohm si conclude che le dimensioni della resistività sono quelle di una resistenza per quelle di una superficie diviso per quelle di una lunghe

20. In un filo di rame con sezione di 0,5 mm2 scorre una corrente di 0,2 A. Calcolate l’intensità del campo elettrico nel metallo.

Risoluzione. La resistività del rame ( Tabella 2) è ρ = 0,017 Ω⋅mm2/m e quindi la resistenza di 1 m del filo di rame è R = 0,017 Ω⋅mm2/m / 0,5 mm2 = 0,034 Ω. Quando il filo è percorso da 0,2 A , la caduta di tensione su 1 m è V = Ri = 0,034×0,2 = 0,064 volt. L’intensità del campo elettrico è quindi: E = 0,064 V/m. 21. In un tostapane si utilizza come riscaldatore un nastrino di nichel-cromo con sezione S = 0,2

mm × 1 mm.Calcolate la lunghezza del nastro in modo che presenti una resistenza R = 6 Ω. Risoluzione. Il nichel-cromo è una lega (59% Ni, 23% Cu, 16% Cr) che presenta elevata resistività e per questo è usata nei riscaldatori di molti apparecchi domestici. Ricaviamo la sua resistività dalla tabella 2: ρ = l,1 Ω mm2/m. Per calcolare la lunghezza del nastro, la cui sezione è S = 0,2 mm2, ricaviamo L dalla formula (4): L = S R/ρ = 0,2 mm2× 6 Ω/ l,1 Ω mm2/m = 1,09 m.

22. Ricavate una relazione analitica approssimata fra la variazione di resistenza ΔR e l’allungamento ΔL di un estensimetro ( Applicazioni tecniche 1 a pag. xxx) esprimendola in termini di variazioni relative (ΔR/R in funzione di ΔL/L), assumendo che il volume V del conduttore resti invariato. Suggerimento: nelle espressioni finali che otterrete, assumete piccole le variazioni delle grandezze, potendo così trascurare ΔL rispetto a L.

Risoluzione. Essendo evidentemente R = ρ L/S la resistenza prima dell’allungamento del conduttore, quella dopo l’allungamento sarà: R+ΔR = ρ (L+ΔL)/(S+ΔS). La differenza fra le due precedenti ci fornisce la variazione di resistenza ΔR = ρ (L+ΔL)/(S+ΔS) - ρ L/S = ρ(SΔL-LΔS)/S(S+ΔS). Ricaviamo ora la variazione ΔS della sezione corrispondente a un allungamento ΔL del conduttore, imponendo che il volume del conduttore resti invariato, cioè: (L+ΔL)(S+ΔS) = LS. Sviluppando e poi semplificando si ottiene: LΔS+SΔL+ΔLΔS = 0, da cui si ricava ΔS = -SΔL/(L+ΔL). Sostituendo questa espressione di ΔS in quella di ΔR ricavata sopra, si ha, dopo qualche passaggio algebrico: ΔR = 2ρ ΔL(1+ΔL/2L)/S. Trascurando ΔL rispetto a L, si ottiene infine ΔR ≅ 2ρ ΔL/S. Dividendo per R otteniamo infine la variazione relativa della resistenza del conduttore: ΔR/R ≅ 2ΔL/L.

23. Un amplificatore audio di potenza funziona correttamente, fornendo la potenza massima, quando è collegato a un carico con resistenza di 8 Ω. Abbiamo a disposizione 4 altoparlanti da 8 Ω. Come li colleghiamo all’uscita dell’amplificatore?

Risoluzione. Collegandoli a due a due in parallelo e poi disponendo in serie quanto ottenuto, ossia, che è lo stesso, collegandoli a due a due in parallelo e poi disponendo in parallelo quanto ottenuto. Si ottiene cosi la resistenza desiderata: R = 8/2 + 8/2 = 8 Ω. 24. Abbiamo a disposizione due resistori, con R = 50 Ω, R’ = 200 Ω. Determinate quanti e quali

diversi valori di resistenza possiamo ottenere con essi. Risoluzione. Collegandoli i due resistori in parallelo in serie si ha Rs = R + R’ = 50 + 200 = 250 Ω; collegandoli in parallelo: Rp = 1/(1/R + 1/R’) = 1/(1/50 + 1/200) = 40 Ω. Considerando anche i resistori presi separatamente, i valori di resistenza ottenibili sono 4. 25. Abbiamo a disposizione tre resistori con tre diversi valori di resistenza. Stabilite quanti

diversi valori di resistenza possiamo ottenere con essi. Risoluzione. In linea di principio, i diversi valori di resistenza sono 11. 3 utilizzando separatamente i resistori. 2 collegandoli tutti in serie e tutti in parallelo. 3 collegandone due in parallelo posti in serie a un altro. 3 collegandone due in serie posti in parallelo a un altro. Ma non è detto che a queste 11 diverse disposizioni corrispondano effettivamente 11 diversi valori di resistenza.

26. Disegnate lo schema elettrico del circuito costituito da due resistori da 1000 Ω, fra loro in parallelo, che sono collegati in serie a un resistore da 1000 Ω, con un resistore da 1000 Ω in parallelo al tutto.

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Risoluzione. Vedi figura a fianco.

27. Calcolate la resistenza equivalente del circuito considerato nel quesito precedente.

Risoluzione. La resistenza equivalente dei due resistori in parallelo è 500 Ω, che si trova in serie a 1000 Ω per cui si hanno 1500 Ω. Questa resistenza è poi in parallelo a 1000 Ω, sicché la resistenza equivalente totale del circuito è R = 1500×1000/(1500 + 1000) = 600 Ω.

28. Calcolate le correnti che scorrono nei diversi elementi del circuito considerato nel problema

precedente quando i suoi terminali vengono collegati a un generatore di tensione da 12 volt. Risoluzione. L’intensità della corrente che scorre attraverso il resistore collegato in parallelo al generatore è 12/1000 = 0,012 A. L’intensità della corrente che scorre attraverso la disposizione in serie/parallelo degli altri tre resistori, con resistenza equivalente 1500 Ω, è 12/1500 = 0,008 A. Tale corrente è naturalmente la stessa che scorre nel resistore disposto in serie, e si suddivide in parti uguali fra i due resistori in parallelo, che sono pertanto entrambi attraversati da 0,004 A.

29. Calcolate il valore della resistenza da disporre in parallelo a un resistore da 10000 Ω per ottenere una resistenza complessiva di 1000 Ω.

Risoluzione. Chiamando R= 1000 Ω la resistenza desiderata, R1 ed R2 le resistenze da collegare in parallelo, ed essendo R1 = 10000 Ω, la resistenza incognita R2 si ricava risolvendo l’equazione R = (R1R2)/(R1 + R2). Si ha: R2 = (RR1)/(R1 – R) = 1000×10000/(10000 – 1000) = 1111 Ω. 30. Calcolate la tensione fre i punti A e C e fra i punti B e C nel circuito a fianco quando la

tensione del generatore è V = 10 volt.

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Risoluzione. La resistenza totale dei tre resistori è 9000+900+100 = 10000 Ω, sicché essi sono attraversati dalla corrente i = 10/10000 = 0,001 A. La resistenza fra A e C è 1000 Ω, sicché la tensione fra i due punti è VAC = 1000×0,001 = 1 volt. La resistenza fra B e C è 100 Ω, sicché la tensione fra i due punti è VBC = 100×0,001 = 0,1 volt. 31. Risolvete il circuito di figura 20 bis assumendo V2 = 1 volt. Risoluzione. Il procedimento da seguire è esattamente quello presentato nell’Esempio 11. Ma nel caso presente si troverà che la tensione V del nodo A è minore di quella del generatore V2, e quindi la corrente i2 ha segno negativo. Si ha infatti: V = 2,91 volt, i1 = 2,09 mA, i2 = -0,637 mA, i3 = 1,46 mA. Ciò significa semplicemente che la corrente i2 è diretta in verso opposto alla corrispondente freccia in figura.

32. Abbiamo due pile identiche e due resistori identici. Ogni pila alimenta un resistore, sicché le

correnti che scorrono nei due resistori hanno esattamente la stessa intensità. E’ corretto concludere che i due resistori sono collegati in serie?

Risoluzione. La conclusione non è corretta. Infatti le correnti che scorrono nei due resistori, sebbene abbiano la stessa intensità, sono diverse (non sono la “stessa” corrente). Si noti peraltro che in Fisica è impossibile fare in modo che due grandezze abbiano esattamente lo stesso valore: al più si può fare in modo che abbiano lo stesso valore entro gli inevitabili errori di misura.

33. Abbiamo a disposizione 6 pile da 1,5 V con resistenza interna 0,1 Ω. Calcolate le

caratteristiche dei generatori ottenuti disponendole tutte in serie oppure tutte in parallelo. Risoluzione. Disponendo le pile in serie si sommano sia le forze elettromotrici che le resistenze interne e quindi il generatore così ottenuto avrà: Vfem = 1,5×6 = 9 volt, Rint = 0,1×6 = 0,6 Ω. Disponendo le pile in parallelo la forza elettromotrice rimane invariata mentre le resistenze interne vanno in parallelo. Pertanto il generatore così ottenuto avrà: Vfem = 1,5 volt, Rint = 0,1/6 = 0,167 Ω.

34. L’accumulatore di un’auto ha i seguenti parametri: Vfem = 12 V, Rint = 0,006 Ω. Calcolate la

tensione ai poli della batteria quando, all’avviamento del motore, essa eroga 100 A Risoluzione. La tensione di un generatore sotto carico è data dalla sua forza elettromotrice meno la caduta di tensione sulla sua resistenza interna. Utilizzando la formula (10) si ha: V = Vfem – Rint i = 12 – 0,006×100 = 12 – 0,6 = 11,4 V.

35. La torpedine è un pesce elettrico che può produrre forti scariche a tensioni di 200 V.

L’animale è ricoperto da molte migliaia di celle ciascuna delle quali produce circa 0,15 V. Queste sono collegate in serie a formare l’equivalente di tante batterie, a loro volta collegate in parallelo. Valutate quante celle sono disposte in serie per ottenere 200 V e spiegate perché più “batterie” sono collegate in parallelo.

Risoluzione. Il numero delle celle di ciascuna “batteria” è circa 200/0,15 ≈ 1300. Le “batterie” sono collegate in parallelo per ottenere correnti più intense. 36. Una pila, dopo un certo tempo di funzionamento, subisce una riduzione della sua forza

elettromotrice da 1,5 a 1,3 volt e un aumento della sua resistenza interna da 0,1 a 0,55 Ω. Calcolate la corrente erogata dalla pila a un carico di 2 Ω, quando era fresca e quando si è un po’ esaurita.

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Risoluzione. L’intensità della corrente erogata dalla pila è data dalla prima legge di Ohm, come rapporto fra la sua forza elettromotrice e la resistenza totale del circuito. Quando la pila era fresca: i = 1,5/(2 + 0,1) = 0,714 A, quando è un po’ esaurita: i’ = 1,3/(2 + 0,55) = 0,510 A. 37. Consideriamo la pila dell’esercizio precedente, immaginando che i due parametri che la

caratterizzano possano variare indipendentemente. In tal caso la variazione di quale dei due sarebbe stata più dannosa per il funzionamento della pila, collegata al carico di 2 Ω?

Risoluzione. Se fosse variata soltanto la forza elettromotrice, l’intensità della corrente erogata dalla pila sarebbe: i = 1,3/(2 + 0,1) = 0,619 A; se fosse variata soltanto la resistenza interna: i’ = 1,5/(2 + 0,55) = 0,588 A. Si conclude partanto che l’effetto più dannoso è quello relativo alla vazione della resistenza interna. 38. Abbiamo un amperometro con resistenza interna r = 10 Ω e portata imax = 1 mA. Calcolate la

resistenza del derivatore, da porre in parallelo all’amperometro in modo da ottenere la portata imax’ = 100 μA.

Risoluzione. Un derivatore sottrae corrente a un amperometro. E quindi i derivatori consentono di aumentare, ma non diminuire, la portata dello strumento. Pertanto il problema non è risolvibile. 39. Disponiamo un resistore R = 1,111 Ω in parallelo a un amperometro con resistenza interna r

= 10 Ω e portata 1 mA. Calcolate i parametri dello strumento dopo la modifica. Risoluzione. La resistenza interna dello strumento modificato è data dal parallelo fra le due resistenze: r’ = rR/(r + R) = 10×1,111/(10 + 1,111) = 1 Ω. La portata dello strumento modificato è imax’ = 10 mA. Infatti quando attraverso l’amperometro scorre la corrente i , attraverso il resistore esterno scorre la corrente iR/r, che è R/r = 9 volte più intensa e quindi la corrente totale è i’ = 10 i. Da ciò consegue imax’ = 10imax.

40. Abbiamo un voltmetro con portata di 1 volt e resistenza interna 100 kΩ. Vogliamo

utilizzarlo per eseguire misure di tensioni più alte, fino a 10 e fino a 100 volt. Calcolate le resistenze addizionali da usare nei due casi.

Risoluzione. Per avere la portata di 10 V, occorre che sul resistore esterno R’ la caduta di tensione sia 9 volte quella sul voltmetro, pertanto R10’ = 9R’ = 900 kΩ. Per avere la portata di 100 V, occorre che sul resistore esterno la caduta di tensione sia 99 volte quella sul voltmetro, pertanto R100’ = 99R’ = 9,9 MΩ.

41. Un motore elettrico, nel quale il 90% dell’energia elettrica assorbita viene trasformata in

lavoro meccanico, solleva in 20 secondi un carico di 1500 kg all’altezza di 12 m. Calcolate la potenza elettrica necessaria per alimentare il motore e l’energia elettrica assorbita esprimendola in kWh.

Risoluzione. Il lavoro meccanico svolto dal motore è: LM = mgh = 1500×9,8×12 = 176400 J. Tenendo conto del rendimento del motore, l’energia elettrica assorbita è: U = LM/0,9 = 176400/0,9 = 196000 J = 196000/3.6⋅106 kWh = 0,0544 kWh. La potenza elettrica è P = U/Δt = 196000/20 = 9800 W. 42. Il motore del problema precedente viene alimentato a 380 V. Calcolate l’intensità della

corrente e la resistenza massima R dei conduttori di collegamento perché la dissipazione per effetto Joule in essi non superi l’1% della potenza che alimenta il motore.

Risoluzione. L’intensità della corrente, in base alla formula (13), è: i = P/V = 9800/380 = 25,8 A. Perché la potenza dissipata nei conduttori non superi PR = 9800×1% = 98 W, occorre che essi presentino una resistenza totale non superiore a R = PR/i2 = 98/25,82 = 0,147 Ω. 43. Una stufa di resistenza elettrica R, usata per riscaldare una stanza, risulta insufficiente allo

scopo. Avendo appreso, studiando la legge di Joule (formula (14)), che il calore prodotto è direttamente proporzionale alla resistenza del conduttore, si decide di usare una stufa di resistenza doppia. Così facendo, però, il riscaldamento è ancora inferiore. Spiegate il motivo di ciò.

Risoluzione. Secondo la legge di Joule, l’energia sviluppata è direttamente proporzionale, oltre che alla resistenza, anche al quadrato dell’intensità della corrente. E quindi, dato che le varie stufe saranno tutte alimentate dalla stessa tensione (i 220 V della rete), aumentando la resistenza di un fattore 2 la corrente si riduce a sua volta di un fattore 2, con il risultato finale di dimezzare il calore prodotto.

44. Il tostapane del problema 22 viene collegato alla rete elettrica (220 V) per due minuti.

Calcolate la potenza e l’energia totale assorbite dall’apparecchio. Risoluzione. Alimentando a 220 V il tostapane, di resistenza R = 6 Ω, esso sarà attraversato da una corrente di intensità i = V/R = 220/6 = 36,7 A. E quindi la potenza dissipata sarà P = Vi = 220×36,7 = 8067 W = 8,07 kW; l’energia totale, U = PΔt = 8067×120 = 968040 J. Riconosciamo che questi valori sono veramente eccessivi: a) il limitatore di corrente dell’impianto scatterà sicuramente interrompendo l’erogazione della corrente; b) i conduttori dell’impianto elettrico, percorsi da una corrente così intensa, sarebbero soggetti a un pericoloso riscaldamento; c) la potenza sviluppata nel tostapane, pari a quella di 8 stufe da 1 kW, lo distruggerebbe sicuramente e comunque potrebbe provocare un incendio.

45. Vogliamo misurare la potenza assorbita da una lampadina alimentata da una pila usando un

voltmetro e un amperometro. Rappresentate il circuito con uno schema elettrico, indicando la disposizione degli strumenti, spiegate il motivo della disposizione adottata e discutete gli eventuali errori di misura.

Risoluzione. Per misurare la potenza assorbita dalla lampadina L, misuriamo l’intensità della corrente che l’attraversa diponendo l’amperometro a in serie ad essa, misuriamo la tensione ai suoi estremi disponendo il voltmetro V in parallelo ad essa e usiamo infine la formula (13). La disposizione degli strumenti è indicata nello schema a fianco. Le cause di errore sistematico sono le seguenti: a) L’inserimento dell’amperometro provoca una diminuzione della corrente che scorre nella lampadina, perché la resistenza interna dello strumento si somma a quella della lampadina; b) La tensione che misura il voltmetro, per lo stesso motivo di prima, non è quella agli estremi della lampadina, ma un po’ maggiore. Si potrebbe collegare l’amperometro diversamente, cioè direttamente in serie alla pila, ma anche in questo caso si avrebbero degli errori (l’amperometro, in particolare, misurerebbe sia la corrente che scorre nella lampadina sia quella assorbita dal voltmetro).

40

46. Sulla targa di un asciugapelli si legge P = 800 W. Calcolate la resistenza del riscaldatore

utilizzato nell’apparecchio. Risoluzione. Il problema è indeterminato, dato che l’asciugacapelli, oltre al riscaldatore, comprende anche un motore elettrico. Immaginando comunque che gli 800 W siano tutti destinati al riscaldatore, utilizziamo la formula (13) per ricavare l’intensità della corrente nell’apparecchio quando esso è alimentato da una presa di rete (220 volt): i = P/V = 800/220 = 3,64 A. La resistenza del riscaldatore si ottiene poi applicando la prima legge di Ohm: R = V/i = 220/3,64 = 60,4 Ω.

47. Alle uscite di un amplificatore stereo da 100 W colleghiamo degli altoparlanti da 8 Ω, che

però sono previsti per un potenza massima di 10 W. Per evitare che un sovraccarico li distrugga, li proteggiamo con dei fusibili. Stabilite se i fusibili vanno disposti in serie o in parallelo agli altoparlanti. Calcolate l’intensità della corrente a cui i fusibili devono fondere, aprendo il circuito.

Risoluzione. I fusibili vanno disposti in serie agli altoparlanti, in modo da essere attraversati dalla stessa corrente, aprendo il circuito qualora essa diventasse eccessiva. Ciò avviene quando la potenza erogata all’altoparlante, P = Vi = i2R, è maggiore di 10 W. L’intensità della corrente limite è pertanto: i = (P/R)1/2 = (10/8)1/2 = 1,12 A. Useremo pertanto dei fusibili da 1 A. 48. Vogliamo ricaricare un accumulatore da 12 volt (la tensione necessaria è quella nominale

maggiorata del 15%) collegando in serie un certo numero di celle solari, ciascuna delle quali a mezzogiorno eroga 120 mA alla tensione di 0,45 V. Calcolate il numero delle celle occorrenti e la potenza elettrica che esse forniscono. Stabilite cosa avviene poi nel pomeriggio.

Risoluzione. La tensione necessaria a ricaricare l’accumulatore è 12×1,15 = 13,8 volt. Il numero delle celle occorrenti è pertanto: n = 13,8/0,45 = 30,7, che arrotondiamo a n = 31. La potenza fornita dalle celle a mezzogiorno è: P = 31×0,45×0,12 = 1,67 W. Nel pomeriggio le celle solari forniranno una tensione un po’ inferiore e quindi non riusciranno a ricaricare la batteria.

49. La stufetta elettrica da 500 W che riscalda un ambiente subisce un guasto. Per ovviare

all’inconveniente si propone di accendere 5 lampadine da 100 W. Cosa pensate di questa proposta?

Risoluzione. La proposta è assai sensata. Sia perché una larga frazione (90-95%) dell’energia assorbita da una lampadina a incandescenza viene dissipata in calore oppure emessa sotto forma di radiazione termica, ma sopratutto perché vale comunque il principio di conservazione dell’energia. E quindi anche la piccola frazione di energia emessa dalla lampadina come radiazione luminosa si trasforma in calore quando viene assorbita dai corpi che essa illumina. 50. Sappiamo che perchè una corrente elettrica scorra in un conduttore occorre che il conduttore

sia inserito in un circuito chiuso, costituito da una catena ininterrotta di conduttori a contatto. Ciò evidentemente non si verifica quando nel circuito vi è un condensatore, come nel circuito di figura 31. E allora perché diciamo che nella resistenza R scorre una corrente?

Risoluzione. La condizione anzidetta è richiesta perché la corrente possa scorrere con continuità. E infatti nel circuito di figura 31, nel quale è inserito un condensatore che interrompe la catena di conduttori, non può scorrere una corrente continua. Vi può, tuttavia, scorrere una corrente transitoria, che trasporta una quantità finita di carica, quanta ne serve per caricare o scaricare il condensatore, e che si estingue nel tempo. 51. Un condensatore C = 2,5 F viene caricato a 9 volt e poi usato per alimentare un carico

ohmico di resistenza R = 5000 Ω. Calcolate dopo quanto tempo la tensione del condensatore si riduce del 10% rispetto a quella iniziale.

Risoluzione. La tensione del condensatore ( formula (17a)) C collegato al carico R, con τ = RC = 12500 s, segue la legge di scarica v(t) = V e-t/τ . La tensione si riduce pertanto a V’ = V(1-0.1) = 8,1 volt al tempo t’ che si ricava prendendo il logaritmo naturale della legge precedente con v(t) = V’ e t = t’: ln(V’/V) = -t’/τ. Da cui si ricava t’ = -τ ln(V’/V) = -12500 ln(8,1/9) = 1317 s ≈ 22 minuti.

52. Quando si carica un condensatore C alla tensione V attraverso una resistenza, la parte del

lavoro compiuto dal generatore perché la carica attraversi la resistenza vale (formula (22)) ½ CV2. Cioè non dipende dal valore della resistenza. Provate a spiegare qualitativamente la ragione di ciò (suggerimento: la durata del processo di carica è proporzionale a R).

Risoluzione. L’energia dissipata nella resistenza R per effetto Joule in un intervallino di tempo Δt è, in base alla formula (): ΔU = i2RΔt. L’energia totale si ottiene poi sommando i contributi di tutti gli intervallini. A ciascun istante, tuttavia, l’intensità della corrente è proporzionale a V/R, e quindi il contributo ΔU sarà proporzionale a V2Δt/R. La durata totale del processo di carica, d’altra parte, è proporzionale alla costante di tempo τ = RC. Di conseguenza, sostituendo nella precedente espressione Δt con RC si conclude che l’energia totale è proporzionale a CV2, e in particolare non dipende dal valore della resistenza. 53. Per ottenere un impulso di corrente molto intenso e molto breve si carica un condensatore a

tensione elevata e poi lo si scarica su una resistenza di piccolo valore. Usando un condensatore C = 10 nF, calcolate la tensione V a cui va caricato e la resistenza R su cui va scaricato per ottenere un impulso di 100 A con una durata di 100 ns (considerate la durata dell’impulso pari alla costante di tempo).

Risoluzione. Essendo nota la costante di tempo, la resistenza è R = τ/C = 100 ns/10 nF = 10 Ω. Per ottenere un impulso di corrente con valore iniziale 100 A occorre caricare il condensatore alla tensione V = Ri = 10×100 = 1000 volt.

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54. Un condensatore di capacità C = 10 nF viene collegato a un generatore V = 300 volt attraverso un resistore R = 10 kΩ. In parallelo al condensatore si dispone una lampadinetta al neon, che presenta la caratteristica di non condurre corrente quando la tensione ai suoi terminali è inferiore a 120 volt, comportandosi altrimenti come un interruttore (a 120 V si verifica infatti un scarica nel gas che si trova nella lampadina). Determinate la forma d’onda d’uscita del

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circuito, cioè l’andamento nel tempo della tensione v(t) agli estremi del condensatore, tracciatene un grafico e calcolatene la frequenza.

Risoluzione. Il condensatore si carica attraverso la resistenza (dove scorre la corrente i(t)) con la legge di carica (formula (20)) v(t) = V(1 - e-t/τ), con V = 300 volt e τ = RC = 10⋅103×10⋅10-9 = 10-4 s. Quando però la tensione v(t) raggiunge il livello V’ = 120 volt, nel gas fra gli elettrodi della lampadina s’innesca una scarica che in un tempo molto breve (lo trascuriamo) riporta a zero la tensione del condensatore. E il ciclo si ripete. La durata del ciclo si determina calcolando il tempo t’ per cui v(t’) = V’. Dall’equazione precedente si ha: V’ = V(1 - e-t’/τ), cioè V – V’ = V e-t/τ. Prendendo il logaritmo naturale della precedente, si ricava infine t’ = τ ln(V/(V-V’)) = 10-4 ln(300/(300-120)) = 5,11⋅10-

5 s. La frequenza di ripetizione dell’onda è pertanto: f = 1/t’ = 1/ 5,11⋅10-5 = 1,96⋅104 Hz = 19,6 kHz.

55. Un ragazzo, cadendo da un albero, si aggrappa con le mani, poste alla distanza di 1 m, su un cavo elettrico con resistenza di 1 Ω/km che si trova alla tensione di 500 V rispetto a terra ed è percorso da una corrente di 100 A. Corre pericolo? (vignetta da fare: ragazzo appeso a un cavo elettrico sotto un ramo di un albero, con la mani a distanza di 1 m)

Risoluzione. Il ragazzo corre soltanto il pericolo di cadere a terra. La tensione fra le sue mani è infatti soltanto V = 0,001×100 = 0,1 volt. 56. Un compagno, per aiutare il ragazzo del problema precedente, accorre portando una scala

metallica. Vi sembra una buona decisione? Risoluzione. La scelta del compagno volenteroso è pessima. Infatti se il ragazzo appeso al cavo sotto tensione si appoggiasse alla scala metallica sarebbe sottoposto alla tensione di 500 V. Si dovrebbe invece usare una scala di legno ben secco o, meglio ancora, disporre un materasso sotto il ragazzo appeso, perché vi si lasci cadere. 57. Una vecchia stufa elettrica da 1 kW, costruita per essere alimentata alla tensione di 125 volt

(usata in passato in Italia), viene per errore collegata alla rete (220 V). Stabilite cosa avviene.

Risoluzione. In base alla formula (13), la potenza assorbita da un conduttore è P = Vi. Trattandosi di un conduttore ohmico i = V/R e pertanto P = V2/R. E allora la stufa assorbirà una potenza di 1 kW × (220/125)2 = 3,10 kW. Ma in queste condizioni, sicuramente, la stufa non funzionerà a lungo. Infatti, il resistore che costituisce il riscaldatore della stufa, come pure altre parti dell’apparecchio, si porteranno a una temperatura ben più alta di quella di progetto a causa della maggior potenza sviluppata. Ed è ben noto che una temperatura eccessiva non favorisce la durata degli oggetti e può addirittura provocarne l’incendio.

58. Un cane tocca con le zampe due punti a 50 cm di distanza sulla rotaia percorsa da corrente

considerata nell’esercizio 16. Corre qualche pericolo? Risoluzione. Certamente no. Infatti la caduta di tensione su 0,5 m di rotaia è mezzo millesimo di quella di 1 km di rotaia, cioè 62,3 /2000 = 0,0312 V. 59. I conduttori di un impianto alquanto fatiscente hanno resistenza elettrica complessiva R =

1,8 Ω, metà della quale è localizzata in un punto. Stabilire cosa avviene quando alla presa di corrente viene collegato un elettrodomestico con potenza di 1000 W.

Risoluzione. L’elettrodomestico richiede 1000 W quando è alimentato a 220 V. In tali condizioni esso assorbe la corrente i = P/V = 1000/220 = 4,54 A e presenta pertanto la resistenza equivalente R’ = V/i = 220/4,54 = 48,4 Ω. Quando l’elettrodomestico viene collegato alla presa, la reistenza totale è R + R’ = 1,8 + 48,4 = 50,2 Ω. E pertanto l’intensità della corrente è: i’ = 220/(R + R’) = 220/50,2 = 4,38 A; la tensione effettivamente applicata all’elettrodomestico è: V’ = V – Ri = 220 – 1,8×4,38 = 212 V. Le conseguenze sono le seguenti: a) la potenza fornita all’elettrodomestico è: P’ = V’i’ = 212×4,38 = 929 W, senza problemi data la piccolezza dello scarto ((1000-929)/1000 = 0,071 = 7,1%) rispetto al valore nominale; b) nei conduttori di rete viene dissipata la potenza i’2R’ = 4,382×1,8 = 34,5 W, che è considerevole e può pertanto provocarne un riscaldamento anomalo pericoloso; il pericolo è aggravato dal fatto che metà di questa potenza viene dissipata in un punto determinato, dove la temperatura potrebbe provocare danni all’isolamento o addirittura provocare un incendio.