MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

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MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi, Cristina Bosisio – Università Cattolica, Milano Pasquale Guaragnella, Raffaele Ruggiero – Università di Bari 12

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MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi, Cristina Bosisio – Università Cattolica, Milano Pasquale Guaragnella, Raffaele Ruggiero – Università di Bari

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Indice 10.0 Guida al modulo 10.1 Alcune definizioni preliminari 10.1.1 Teoria 10.1.2 Approccio 10.1.3 Metodo 10.1.4 Tecniche e materiali 10.2 “Navigare” nell’evoluzione metodologica: percorsi possibili 10.2.1 Quando? Percorso cronologico 10.2.2 Come? Percorso strumentale 10.2.3 Perché? Percorso scientifico 10.2.4 Chi e che cosa? Dialettica dei fattori dell’atto didattico

10.2.5 Dove? Aree di sviluppo e stagioni 10.2.6 Criterio seguito 10.2.6.1 Contesto storico

10.2.6.2 Teorie di riferimento 10.2.6.3 Dinamica dei fattori dell’atto didattico

10.2.6.4 Modelli operativi 10.2.6.5 Tecniche, strumenti, sussidi 10.3 Approcci pre-scientifici 10.3.1 Alcuni precursori a base pedagogica 10.3.1.1 Nel ‘500 10.3.1.2 Nel ‘600 10.3.2 Alcuni precursori a base linguistica 10.3.2.1 Nel ‘700 10.3.2.2 Nell’‘800 10.3.3 Approccio formalistico (o della grammatica-traduzione) 10.3.3.1 Il metodo della lettura 10.3.4 I Metodi diretti 10.3.4.1 Metodi diretti naturali e/o fonetici 10.3.4.2 Metodi diretti semplificati 10.3.4.3 Metodi diretti eclettici 10.4 Approcci scientifici 10.4.1 Approccio strutturalistico 10.4.1.1 Metodi audio-orali o audio-linguali 10.4.1.2 Metodi audio-visivi (SGAV) 10.4.2 Approccio comunicativo 10.4.2.1 Il “metodo” situazionale 10.4.2.2 Il “metodo” nozionale-funzionale

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10.4.2.2.1 Le proposte europee 10.4.3 Approccio umanistico-affettivo 10.4.3.1 Risposta fisica totale (T.P.R.) 10.4.3.2 Community Language Learning / Community Counseling 10.4.3.3 Natural Approach 10.4.3.4 Suggestopedia / Ipnopedia 10.4.3.5 The silent way 10.4.3.6 Interazione strategica 10.4.3.7 Project work 10.5 La panacea: l’approccio integrato? 10.6 Sintesi conclusiva

10.6.1 Dal non-metodo al metodo, all’approccio, alle ipotesi 10.7 Riferimenti bibliografici 10.8 Attività 10.8.1 Attività relative ai capitoli 10.1 e 10.2: Domande di sintesi

10.8.2 Attività relative ai capitoli 10.3 e 10.4: Dai testi, agli approcci, ai metodi

10.8.3 Attività relative ai capitoli 10.5 e 10.6: Dalla teoria alla pratica didattica: riflessioni

10.8.4 Chiavi

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10.0 Guida al modulo Obiettivo di questo modulo è proporre all’insegnante alcuni percorsi possibili per muoversi all’interno della glottodidattica, alla scoperta dell’evoluzione metodologica e dei principi fondativi dei singoli metodi e approcci. Il modulo si divide in sei capitoli, ognuno dedicato a un aspetto o a una tappa fondamentali per comprendere tale evoluzione. Nel primo (10.1) si forniscono alcune definizioni essenziali per la comprensione dell’intero percorso, il quale viene tracciato nel secondo capitolo (10.2) e visto come risposta ad alcune domande imprescindibili, che ne sottolineano la reticolarità e quindi la non linearità. Nel terzo (10.3) si presenta la preistoria della disciplina “glottodidattica” fra scienze dell’educazione e scienze della lingua, attraverso alcune figure di particolare rilievo e una panoramica di metodi cronologicamente evidenziati, fino ad arrivare ai cosiddetti “approcci scientifici”, cioè all’affermazione della disciplina stessa nella prima metà del secolo scorso. I tre approcci “classici”, strutturalistico, comunicativo e umanistico-affettivo, nelle loro declinazioni metodologiche, sono l’oggetto del quarto capitolo (10.4), cui seguono i due capitoli conclusivi, quinto (10.5) e sesto (10.6), sul modello di un approccio integrato, che ben risponde alle esigenze di una disciplina teorico-pratica in via di complessificazione. Ai riferimenti bibliografici utili per eventuali approfondimenti (10.7) seguono le attività connesse ai singoli capitoli, da realizzare dopo aver approfondito i contenuti, sia per verificare di averli appresi, sia per metterli in pratica e verificarli sul campo (10.8).

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10.1 Alcune definizioni preliminari Preliminarmente a qualunque discorso metodologico è necessario chiarire alcune parole chiave. Quelle fondamentali per capire e sapersi muovere nell’evoluzione degli approcci e dei metodi glottodidattici sono le seguenti: teoria, approccio, metodo, tecnica. Tali parole chiave costituiscono l’“universo epistemologico della glottodidattica”, che può essere così rappresentato (P.E. Balboni, 2002).

TM

APPROCCIO (10.1.2.)

TEORIA (10.1.1.)

Fondato/infondato scientificamente

Adeguato/inadeguato per realizzare l’approccio Coerente/incoerente al

METODO

ECNICHE & ATERIALI

(10.1.4.)

suo interno

Adeguati/inadeguati al metodo e all’approccio Efficaci/inefficaci nel raggiungere gli obiettivi

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10.1.1 Teoria Si tratta dei fondamenti teorici, delle teorie di riferimento della glottodidattica. Le scienze teoriche (la linguistica, per esempio) o altre scienze pratiche (la pedagogia generale, la psicologia dell’apprendimento, ecc.) forniscono teorie esterne di riferimento per la glottodidattica, la quale vi ricorre per trarne le informazioni e le implicazioni utili per i suoi scopi. Con la teoria si realizza la riflessione epistemologica dell’educazione linguistica sui suoi fini e sul suo rapporto con la totalità delle scienze dell’educazione. Le teorie si collocano, dunque, all’esterno dell’orizzonte didattico. Un’immagine molto chiara e significativa delle discipline dalle quali la glottodidattica trae alcuni assunti teorici per adeguarli ai propri scopi è quella del “fiore”, dove i petali (i diversi ambiti disciplinari) completano il cuore del fiore (la glottodidattica), che a sua volta li nutre con la propria personale linfa vitale. Le teorie interagiscono con la determinazione di un approccio (10.1.2).

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10.1.2 Approccio È la dimensione in cui si individuano sia le finalità dell’educazione linguistica dell’allievo, sia gli obiettivi glottodidattici. Con la parola approccio ci si riferisce ad un insieme di indicazioni didattiche con le quali si favorisce l’apprendimento di una lingua straniera, preferendo in questo modo questa parola più vasta e flessibile a quella di metodo (10.1.3), che rimanda a qualcosa di più rigido e limitato. Un approccio si valuta in base alla fondatezza scientifica delle teorie (10.1.1) da cui ha assunto i principi, alla sua coerenza interna, alla sua capacità di generare metodi in grado di realizzare l’approccio stesso.

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10.1.3 Metodo Il metodo definisce un piano generale per la realizzazione operativa di un approccio (10.1.2). È un insieme di principi metodologico-didattici che traducono un approccio in modelli operativi, in materiali didattici. Danesi (1988:10) afferma che un metodo è: “un insieme chiuso di criteri, procedimenti e attività pedagogiche secondo il quale si realizza il processo di insegnamento di una lingua”. Un metodo può essere adeguato/inadeguato all’approccio che intende realizzare e coerente/incoerente al proprio interno. Compito essenziale e qualificante di un metodo è la selezione delle tecniche glottodidattiche (cioè delle attività di classe e individuali), e dei materiali (10.1.4).

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10.1.4 Tecniche e Materiali Il passaggio dalla didattica alla didassi si realizza tramite le tecniche: procedure operatorie, attività di esercizio della lingua, di classe o individuali, destinate a guidare in modo efficace l’apprendimento (Moduli 12 e 13). Le tecniche possono essere coerenti o non con il metodo (10.1.3) e l’approccio (10.1.2), efficaci o non nel raggiungere l’obiettivo didattico che si pongono. Per “materiali” o “strumenti” si intendono i libri di testo, gli eserciziari e i sussidi vari che agevolano la costruzione e la realizzazione delle tecniche.

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10.2 “Navigare” nell’evoluzione metodologica: percorsi possibili Quali sono i metodi e gli approcci principali, più noti o più significativi, che hanno caratterizzato la storia della glottodidattica? E quali sono i criteri più efficaci per poterli definire? Conformemente alla natura interdisciplinare della glottodidattica e alla natura reticolare dei rapporti che intercorrono fra i fattori dell’atto didattico è possibile “navigare” nell’evoluzione metodologica seguendo criteri diversi, ognuno fondato su un particolare elemento da mettere in luce. Alcuni dei criteri più significativi per affrontare la “navigazione” potrebbero corrispondere, per esempio, alla comparazione di approcci e metodi sulla base delle risposte che essi forniscono alle cinque, notissime, “classiche” domande, a cui spesso si ricorre per affrontare, in modo sintetico e completo, una questione particolarmente significativa: Quando? Come? Perché? Chi e che cosa? Dove? Nei prossimi paragrafi risponderemo a queste domande singolarmente, cercando di individuare, per ognuna di esse, dei percorsi possibili, da seguire nella nostra “navigazione” nell’universo metodologico: individueremo innanzitutto un percorso cronologico, che risponde alla domanda “quando?” (10.2.1), un percorso “strumentale”, che risponde alla domanda “come?” (10.2.2) e un percorso scientifico, che risponde alla domanda “perché?” (10.2.3), per poi soffermarci, in risposta alle domande “chi? e che cosa?”, dapprima sulla dialettica evolutiva tra i fattori dell’atto didattico (10.2.4), e poi sulle aree e le stagioni di sviluppo metodologico, in risposta alla domanda “dove?” (10.2.5). Il paragrafo 10.2.6 presenta, infine, una sintesi dei criteri esposti e propone un percorso tutto particolare, sintetico ma completo, capace, a nostro avviso, di delineare i tratti salienti dell’evoluzione e delle caratteristiche dei principali approcci e metodi della glottodidattica.

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10.2.1 Quando? Percorso cronologico Navigare nell’evoluzione metodologica seguendo un percorso cronologico è abbastanza semplice: si tratta del criterio di analisi più diffuso fra i testi divulgativi, criterio che affronta lo studio delle principali correnti e proposte didattiche a partire dalla data o dal periodo storico in cui queste sono state proposte. Seguendo il percorso cronologico l’evoluzione dei metodi e degli approcci può essere affrontata cominciando da un “anno zero”, ovvero da una data significativa anche se simbolica, dalla quale partire per definire il prima e il dopo, ovvero la “pre-glottodidattica” e la glottodidattica vera e propria. La data simbolica, alla quale si fa, per convenzione, risalire la nascita della glottodidattica come disciplina scientifica, è l’anno 1942, anno di pubblicazione di un breve saggio di Leonard Bloomfield, che rivoluziona il modo di concepire l’apprendimento linguistico, quindi anche l’insegnamento di una L2. Da questo momento nasce la disciplina, più come linguistica applicata che come glottodidattica, e ciò che viene proposto successivamente costituisce l’evoluzione storica di approcci, teorie e tecniche (10.1), i quali, tuttavia, affondano le proprie radici nelle proposte di alcuni precursori (10.3), ovvero nella cosiddetta protoglottodidattica. Secondo questo criterio, dunque, è possibile visualizzare la linea temporale della disciplina nel modo seguente: … _________________________1942_________________________________oggi … precursori … … …. approcci formalistici … … metodi diretti … approccio strutturalistico approccio comunicativo approccio umanistico-affettivo approccio integrato

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10.2.2 Come? Percorso strumentale Un criterio possibile per la classificazione degli approcci e dei metodi può essere quello di impostare la descrizione sulla base degli strumenti, ovvero delle tecniche e dei materiali utilizzati e privilegiati dagli approcci e dai metodi stessi. Per fare questo è possibile partire da una classificazione di tecniche didattiche (moduli 12 e 13) e considerare, eventualmente in ottica evolutiva, il ruolo di tali tecniche negli approcci e nei metodi più noti. In questo senso, per esempio, è possibile proporre una classificazione metodologica sulla base del ruolo, della priorità e delle caratteristiche attribuite a certe tecniche, in particolare in riferimento alle tecniche utilizzate per lo sviluppo delle diverse abilità (modulo 9). Ecco allora profilarsi un percorso costruito sull’utilizzo o il non utilizzo della traduzione, sull’uso o il non uso della lingua materna in classe, sulla presenza o assenza di esercizi strutturali o di esercizi più creativi, sulla priorità delle abilità scritte o di quelle orali, sul ruolo dei lavori di gruppo, sull’uso e il tipo di uso di strumenti audio-visivi, ecc. Tale criterio, incrociato con quello cronologico, favorisce l’impostazione di una tabella di sintesi, in cui compare chiaramente, per ogni approccio o metodo, il ruolo delle diverse tecniche didattiche. Di seguito proponiamo un breve esempio, naturalmente da ampliare con indicazioni molto più precise sulle diverse tecniche impiegate e sulle abilità esercitate, semplici e integrate:

approcci formalistici

metodi diretti

approccio strutturalistico

approccio comunicativo

approccio umanistico-

affettivo

approccio integrato

Traduzione X X X Liste di vocaboli

X X

Drills X X Exercises X X X Audio-visivi

X X X

Produzione orale

X X X X X

Produzione scritta

X X X

Ecc… …

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10.2.3 Perché? Percorso scientifico Tracciare l’evoluzione metodologica secondo un percorso scientifico significa rispondere alla domanda “perché?”. Significa scoprire i fondamenti teorici, linguistici ma anche psico- e sociopedagogici sui quali gli approcci, e di converso i metodi, si fondano. Il percorso scientifico, dunque, genera a sua volta molteplici percorsi, a seconda del tipo di “scientificità” considerata. I due principali riferimenti sui quali si basa il nostro percorso di esplorazione metodologica sono le teorie linguistiche e psicologiche che “alimentano” la glottodidattica. In base a questi riferimenti è possibile individuare approcci “pre” (10.3) e “post” (10.4) scientifici e, fra questi ultimi, distinguere fra approcci a base strutturalista dal punto di vista linguistico e a base comportamentista dal punto di vista psicologico, oppure approcci fondati sui concetti di nozione, di funzione e dunque di competenza comunicativa, come avviene con gli approcci cosiddetti “comunicativi” (10.4.2) e approcci che sviluppano le proprie indicazioni metodologiche intorno ai bisogni e alle caratteristiche degli apprendenti e dei loro profili, come avviene, per esempio, nella maggior parte degli approcci umanistico-affettivi (10.4.3). Tale tipo di percorso, inevitabilmente anche cronologico, favorisce, attraverso una particolare attenzione psicolinguistica, una riflessione approfondita intorno alle caratteristiche delle attività didattiche suggerite dagli approcci, e al ruolo, più o meno centrale, dell’apprendente, dell’insegnante, della lingua e del contesto (10.2.4).

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10.2.4 Chi e che cosa? Dialettica dei fattori dell’atto didattico I fattori dell’atto didattico costituiscono il fulcro intorno al quale ruotano e interagiscono bisogni, mete e obiettivi formativi e didattici. La rete dei rapporti che intercorrono fra tali fattori e la loro dialettica sono influenzati, dal punto di vista dell’insegnante, dal tipo di approccio o di metodo adottato. I diversi approcci e, di converso, i diversi metodi concentrano la loro attenzione ora sulla lingua, ora sull’insegnante, ora sull’apprendente, ora sul contesto di apprendimento, a seconda della teoria a cui fanno riferimento, del tipo di tecniche utilizzate e, in buona sostanza, del significato che essi attribuiscono all’apprendimento, in quanto processo oppure prodotto. Da questo punto di vista, dunque, la classificazione metodologica si strutturerebbe a seconda della priorità che i vari approcci attribuiscono ai diversi fattori dell’atto didattico e darebbe luogo, allora:

a) ad approcci centrati sull’apprendente, come ad esempio, gli approcci umanistico-affettivi (10.4.3) o quelli comunicativi (10.4.2);

b) ad approcci centrati sulla lingua, come quelli formalistici (10.3.3), ma anche, in un certo senso, quelli diretti (10.3.4) o quelli strutturalistici (10.4.1);

c) ad approcci centrati sull’insegnante, come quelli strutturalistici (10.4.1) e, in parte, quelli diretti (10.3.4) o anche ad alcuni approcci umanistico-affettivi (10.4.3);

d) infine ad approcci centrati sul contesto, come avviene, ancora una volta, nel caso di alcuni approcci umanistico-affettivi (10.4.3) o dei “metodi situazionali” (10.4.2.1).

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10.2.5 Dove? Aree di sviluppo e stagioni La “navigazione” all’interno dell’evoluzione metodologica è possibile anche seguendo un criterio spaziale, ovvero legato alle aree di sviluppo che hanno caratterizzato i momenti salienti della storia della disciplina e quindi i principali approcci e metodi glottodidattici. In questo senso è possibile parlare di stagioni francese, inglese e americana, le quali sono tuttavia inevitabilmente correlate a specifici momenti storici che, grazie ai modelli teorici proposti dai principali esponenti degli studi linguistici o socio-psico-pedagogici, hanno privilegiato ora l’una ora l’altra area geografica. Ecco dunque che, a partire dagli anni quaranta del secolo scorso, anni in cui nasce la disciplina in quanto “linguistica applicata” (10.2.1), si susseguono quattro stagioni caratterizzate da approcci diversi all’insegnamento/apprendimento di una lingua straniera:

I) la prima stagione, americana, è quella di Bloomfield, quella dell’“overlearning”, dell’“iperapprendimento”, quindi dei metodi strutturali, audio-orali e audio-visivi (10.4.1);

II) la seconda stagione è quella francese, legata al Français Fondamental e ai lavori del “didattologo” Robert Galisson.

III) la terza è la stagione inglese, la stagione legata a Wilkins e dunque ai programmi nozionali-funzionali (10.4.2.2);

IV) la quarta stagione, infine, è la cosiddetta “seconda stagione americana”, quella, per fare un nome significativo, di Curran e degli approcci umanistico-affettivi (10.4.3).

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10.2.6 Criterio seguito Dopo avere tracciato i percorsi possibili per la navigazione nell’evoluzione metodologica (10.2.1, 10.2.2, 10.2.3, 10.2.4, 10.2.5), esponiamo in questo paragrafo il criterio seguito nel nostro modulo per presentare, in modo sintetico ma sufficientemente completo, i principali metodi e approcci glottodidattici. Si tratta di un criterio “integrato”, ovvero di un percorso “reticolare”, che sfrutta le indicazioni segnalate nei paragrafi precedenti per fornire una visione il più possibile globale e poliedrica di ogni approccio o metodo considerato. Per ognuno di essi, infatti, forniamo indicazioni circa:

a) il contesto storico nel quale l’approccio o il metodo si sviluppano (10.2.6.1); b) le eventuali teorie di riferimento alle quali essi afferiscono (10.2.6.2); c) la dinamica dei fattori dell’atto didattico, ovvero il ruolo che nella didassi

assumono l’insegnante, l’allievo, la lingua e il contesto (10.2.6.3); d) i modelli operativi proposti (10.2.6.4); e) le tecniche, gli strumenti e i sussidi suggeriti (10.2.6.5).

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10.2.6.1 Contesto storico Nel definire il contesto storico nel quale approcci e metodi si sviluppano non facciamo riferimento solo alle proposte metodologiche nate nel secolo scorso, in epoca di glottodidattica affermata (dagli approcci strutturalistici a oggi – 10.4), ma consideriamo anche parte della cosiddetta “protoglottodidattica”, meno nota ma spesso illuminante per meglio comprendere certi modelli attuali (10.3.1, 10.3.2) e quegli approcci e quei metodi che, pur imponendosi ancora nella prima metà del XX secolo, hanno tuttavia radici molto più lontane. (10.3.3, 10.3.4).

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10.2.6.2 Teorie di riferimento Nel definire l’evoluzione metodologica terremo presenti le teorie di riferimento alle quali approcci e metodi afferiscono, soprattutto, come è ovvio, per quanto riguarda i cosiddetti “approcci scientifici” (10.4), sviluppatisi in epoca di glottodidattica affermata. Per quanto riguarda gli approcci “pre-scientifici”, raramente connessi a specifiche teorie di riferimento, proporremo una riflessione “a posteriori”, sulla base dell’innovatività di certe indicazioni, che fanno di alcuni autori e di alcuni metodi dei veri e propri precursori di ipotesi verificate in epoca contemporanea.

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10.2.6.3 Dinamica dei fattori dell’atto didattico Per una corretta “navigazione” fra i metodi e gli approcci è utile mettere in evidenza il ruolo assunto dai fattori dell’atto didattico e la dinamica delle loro relazioni, la quale conferma, di norma, i principi teorici sui quali essi si basano. Dal punto di vista dell’insegnante di italiano L2, che si trova ad adottare e ad aderire, più o meno consciamente, a certe indicazioni metodologiche, tali osservazioni sono molto utili, poiché permettono di acquisire una maggiore consapevolezza di come gestire e organizzare il rapporto con la classe e con il singolo studente.

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10.2.6.4 Modelli operativi Il percorso nell’evoluzione metodologica considera anche i modelli operativi proposti dai vari approcci e quelli seguiti dai vari metodi: dal modello maieutico o socratico, a quello della lezione a quello dell’unità didattica o del modulo (modulo 11). Tali riferimenti permettono all’insegnante di tradurre in termini operativi e pratici indicazioni spesso troppo astratte e apparentemente inapplicabili nella didassi quotidiana.

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10.2.6.5 Tecniche, strumenti, sussidi Una migliore comprensione delle caratteristiche e dell’applicabilità dei diversi approcci e metodi deriva anche dall’osservazione e dall’analisi delle tecniche didattiche (modulo 12), degli strumenti e dei sussidi impiegati per metterle in atto: dal libro di testo, al computer, agli audiovisivi, a internet, ai materiali più tradizionali.

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10.3 Approcci pre-scientifici Da sempre si riflette sul modo di insegnare e/o apprendere una lingua. Nella preistoria della disciplina “glottodidattica”, o come alcuni dicono nella “protoglottodidattica”, si incontrano scritti significativi sull’argomento. Molti di questi testi, naturalmente, sottolineano l’importanza dell’uso della lingua assai più che della riflessione sulla stessa in vista di un’acquisizione pratica, spendibile nella comunicazione quotidiana. In un percorso storico cronologico, vediamo alcuni di questi precursori della glottodidattica, a base pedagogica prima e a base linguistica poi, fino ad arrivare agli approcci scientifici recenti, cioè alla glottodidattica vera e propria.

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10.3.1 Alcuni precursori a base pedagogica 10.3.1.1 Nel ‘500 Nel XVI secolo autori come M.de Montaigne, R. Ascham, J. Florio, C. de Sainliens possono essere considerati come precursori della disciplina glottodidattica, essenzialmente sul fronte delle scienze dell’educazione. Il XXVI capitolo del primo libro dei Saggi di Montaigne, ad esempio, è un trattato di pedagogia generale, in cui si raccomandano la formazione completa del giovane, anche dal punto di vista dell’esercizio fisico e del divertimento, e l’insegnamento di una lingua viene visto come insegnamento di lingua-cultura e di cultura umana nel senso di cittadinanza del mondo a larghissimo raggio. R. Ascham è l’autore di una Scholemaster in cui si prevede l’uso frequente della lode da parte del maestro per motivare l’allievo e per sostenerlo nei momenti difficili. J. Florio nei Primi e nei Secondi Frutti, che accompagnano il volume Giardino di Ricreazione è un protoglottodidatta dell’italiano insegnato agli inglesi attraverso l’uso di proverbi e di dialoghi sul gioco del tennis, sul teatro e sull’amore. C. de Sainliens autore di un altro Schoolmaster si preoccupa anche dell’aspetto deontologico della professione insegnante, che crea il proprio materiale didattico, “entra nei locali pubblici e nelle case alla ricerca di dialoghi autentici, culturalmente validi, perché colti da un professionista che può guardare dentro la lingua con la sensibilità del bilingue”. (Titone 1986: 89).

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10.3.1.2 Nel ‘600 Il grande pedagogista boemo del XVII secolo, Jan Amos Komensky, Comenio, fu probabilmente anche il primo protoglottodidatta completo, consapevole che qualunque educazione passa essenzialmente dall’educazione linguistica. Il suo nome è rimasto nella preistoria della disciplina in quanto autore di una Didactica Magna, che contiene le famose “otto regole d’oro per l’apprendimento efficace di qualunque lingua”, la cui ultima riassume tutte le altre, e può essere trascritta come segue: “Tutte le lingue si possono imparare con la pratica, associata alle regole più semplici, che si riferiscono solamente ai punti di differenza con la lingua già conosciuta, e mediante esercizi relativi a qualche oggetto familiare” (Titone 1986: 73). Sarebbe interessante stabilire un parallelo tra la nozione di “regola” per Comenio e quella scaturita dalla Grammatica di Port-Royal, che si diffonde negli stessi decenni nell’Europa occidentale. “Le regole, che riassumono le lingue, devono essere grammaticali e non filosofiche”, scrive Comenio nel 1627, mentre le regole del concepire, del giudicare e del ragionare ci introducono alla definizione di “proposizione” voluta dalla Grammatica generale e ragionata di Port-Royal di qualche decennio dopo. R. Titone, in chiave glottodidattica osserva che imparare una lingua significa: “Stabilire ciò che è corretto e come si costruiscono le frasi, e non tentare spiegazioni sulle cause e gli antecedenti dei fatti linguistici” (Titone 1986: 73). Attraverso tale osservazione si può intravvedere una lunga diatriba tra considerazione della lingua come uso e come riflessione sulla stessa, che investirà di sé secoli di studi grammatologici in Europa, dai quali emerge con fatica e solo in questi ultimi decenni una grammatica pedagogica. Anche una sorta di psicolinguistica applicata alla didattica è presente in questo grande pedagogista. Il principio della gradazione scaturisce infatti dagli stadi evolutivi, secondo i quali “la prima età è l’infanzia balbettante, in cui impariamo a parlare confusamente: la seconda età è la fanciullezza in maturazione, in cui impariamo a parlare correttamente; la terza età è l’adolescenza matura, in cui impariamo a parlare elegantemente; la quarta età è la virilità vigorosa in cui impariamo a parlare efficacemente”. Il passaggio graduale dal confusamente all’efficacemente, attraverso le due tappe intermedie del correttamente e dell’elegantemente, mostra una progressione di grande interesse, che potrebbe essere applicata, ancora oggi, alla didattica linguistica dell’età evolutiva sia in ambito di L1 che di L2.

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10.3.2 Alcuni precursori a base linguistica 10.3.2.1 Nel ‘700 La proto-glottodidattica del 1700 è già intrisa di linguistica. Fra i precursori di questa disciplina spicca la figura dell’Abbé Pluche, la cui Mécanique de toutes les langues ci presenta una lingua come composta da diversi strati: il primo, più profondo, è rappresentato dalla struttura stessa del pensiero; il secondo, intermedio, è costituito dai suoni e dalle articolazioni; il terzo, l’ornamento, si identifica con la letteratura. L’art d’enseigner les langues et de les apprendre par soi-même à tout âge, di evidente contenuto metodologico, ci insegna come non sia anatomizzando le parole o addirittura il pensiero, che si imparano le lingue, ma tuffando il discente fra i parlanti autentici che lo si mette in grado di apprendere. La “grammatica” prima e poi la “stilistica” costituiscono la lingua vera e propria, in cui génie, goût, e savoir si intersecano e si intrecciano a formare un tessuto straordinario di connessioni talvolta arbitrarie e talvolta razionali, ma sempre normate dall’uso. Ignatius Weitenauer nel suo Hexaglotton del 1762 si allarga fino a dodici lingue, usando un approccio contrastivo e la traduzione interlineare per l’apprendimento intra brevissimum tempus delle lingue: gallicam, italicam, hispanicam, graecam, hebraicam, chaldaicam, anglicam, germanicam, belgicam, latinam, lusitaneam, et syriacam, e grazie ad un’appendice sulla pronuncia che rappresenta forse il primo tentativo di usare una trascrizione fonetica, ancorché approssimativa e rudimentale, riferita al sistema grafico del latino, un secolo prima della definizione dei simboli A.P.I., cioè dell’alfabeto fonetico internazionale.

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10.3.2.2 Nell’‘800 Nel XIX secolo si costituiscono scienze come la fonetica, che diviene autonoma dalla linguistica prima che sia riconosciuta l’esistenza della linguistica sincronica stessa, e la psicologia, le quali nutrono di sé la glottodidattica, dandole spessore teorico, e contribuendo al costruirsi del suo universo epistemologico. Fra i precursori della disciplina ricordiamo François Gouin che nel 1880 pubblicò L’art d’enseigner et d’étudier les langues, che presentava il “metodo” delle Serie, cioè della ripetizione di frasi, le quali venivano drammatizzate, perché fondate sulla nozione di lingua come comportamento. Il pilastro del “metodo naturale” di Gouin consisteva nella coscienza che imparare una lingua fosse tradurre in quella stessa lingua non un autore o un altro, ma il vasto libro della propria individualità, e riprendere poi una ad una tutte le percezioni per immagazzinarle prima e per generalizzarle poi. Dal punto di vista linguistico occorreva porre una distinzione tra linguaggio oggettivo (delle Serie generali e particolari, relative alla casa, all’uomo nella società, alla vita nella natura, alla scienza e alle professioni), linguaggio soggettivo (della psiche, delle valutazioni estetiche, del giudizio) e linguaggio figurato, che, fondandosi su quello oggettivo, arriva al metaforico attraverso il tema della dominante: non insegnate mai “sradicare il vizio” senza aver prima insegnato “sradicare una pianta”. La grammatica si riduceva a tre grandi capitoli: il verbo, la proposizione, le espressioni modali. Questa essenzializzazione del discorso linguistico e di quello didattico va nella direzione di una grammatica pedagogica, non ridondante, semplice, elementare, anche se nella Francia di fine XIX secolo essa passò quasi totalmente inosservata. Mentre la moda grammaticalistica si imponeva con sempre maggior forza e il latino, lingua ormai morta da più di un secolo, si riduceva a schemi grammaticali, a declinazioni, a coniugazioni, a regole ed eccezioni, tali metodiche si andavano applicando sempre più anche all’insegnamento delle lingue vive, nella sottostima totale dell’oralità e della forza comunicativa di ogni sistema linguistico. Le reazioni, però, non tardarono ad arrivare, provenienti da ogni parte d’Europa, per bocca e sotto la penna di insegnanti e di teorici di scienze linguistiche e letterarie più o meno conosciuti. Fra questi ricordiamo Wilhelm Viëtor, il cui Der Sprachunterricht muss umkehren (L’insegnamento deve cambiare strada) circolò anonimo in Europa, per parecchi anni diffondendo l’importanza delle metodiche induttive, della fonetica, e l’inutilità del lavoro con bocconi insignificanti di frasi. Ma il cosiddetto “metodo” riformato mancava ancora di principi teorici solidi. I tre grandi precursori della glottodidattica a base linguistica, nei primi decenni del XX secolo, saranno: Henry Sweet, Otto Jespersen e Harold Palmer.

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10.3.3 Approccio formalistico (o della grammatica-traduzione) Si tratta dell’approccio concepito per l’apprendimento della lingua latina a partire dal secolo XVII e poi impropriamente applicato anche alla didattica delle lingue “vive”. Il carattere di questo approccio consiste nel concepire la lingua come un corpus statico, analizzabile attraverso una serie di regole (e di eccezioni a quelle regole). Istituita l’identificazione tra conoscere la grammatica e conoscere la lingua, si mirava a stimolare nell’apprendente la sola competenza grammaticale. La tecnica didattica fondamentale era costituita dalla traduzione, intesa quale sistema di verifica per la conoscenza delle regole. Tale approccio, avversato da quei linguisti che intesero dimostrare la radicale differenza fra una lingua letteraria e “morta” ed una “viva” e parlata, non produceva alcuna vera competenza linguistica.

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10.3.3.1 Il metodo della lettura Negli anni 1920 – 1930 in America si diffonde il metodo della lettura, basato esclusivamente sullo sviluppo delle abilità dello scritto (modulo 9) e quindi mirato alla lettura di opere scientifiche, professionali, letterarie, senza alcuna preoccupazione per le abilità dell’orale.

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10.3.4 I Metodi diretti Fin dalla metà del Settecento sono state poste le basi per risolvere il problema dell’apprendimento pratico di una lingua (10.3.2.1), in opposizione all’approccio grammaticale. Viene teorizzato l’ordine naturale dell’apprendimento linguistico, in cui il “parlare” deve precedere lo “scrivere”, attraverso una successione ordinata: leggere, ascoltare, scrivere, parlare. Del pari si afferma progressivamente l’idea che la lingua straniera debba essere insegnata anche all’adulto “come la madre insegna la lingua al bambino”, e che pertanto lo studio della grammatica non debba iniziarsi troppo presto.

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10.3.4.1 Metodi diretti naturali e/o fonetici A fine Ottocento l’elaborazione di una minuziosa scienza della fonetica articolatoria e della psicologia associazionistica consentirono da un lato di avviarsi verso metodi strutturalistici, dall’altro di concepire la lingua come azione e comportamento. In una successione di momenti didattici si procede dalla ripetizione mnemonica di modelli fonetici, allo studio delle strutture grammaticali, fino a puntare sugli aspetti lessicali che coinvolgono aspetti non-razionali nella lingua. L’aspirazione era tendere a una sorta di approccio integrato, caratterizzato dall’addestramento a nuovi abiti mentali e dalla concretezza dell’esemplificazione, equilibrato fra abilità orali e scritte (10.5). Negli ultimi anni del secolo XIX il polacco M. Berlitz fondò le sue scuole di lingua a New York, ove mise in pratica alcuni principi fondamentali miranti ad “agire con la lingua”: lettura e scrittura della lingua-bersaglio debbono essere praticati solo allorquando l’apprendimento orale è acquisito; una lingua completa e costruita per frasi intere deve essere impiegata nel corso della didassi.

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10.3.4.2 Metodi diretti semplificati Si fondano sulla creazione di un vocabolario ridotto, scelto sulla base della frequenza d’uso. L’uso forzato di tale lingua di base conduceva però al costituirsi di espressioni stereotipe e innaturali: difetto che può tuttavia correggersi facendo appello alla graduazione delle strutture e agli esercizi strutturali orali (presentazione di frasi brevi con caratteristiche fonetico-grammaticali di base, e poi strutture via via più complesse e diversificate).

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10.3.4.3 Metodi diretti eclettici Si basano sull’impiego di un’analisi degli aspetti fonetici della lingua, accompagnata da un vocabolario costituito dal lessico più frequente e utile e da uno studio grammaticale ad esso funzionale.

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10.4 Approcci scientifici Si definiscono approcci scientifici gli approcci proposti dagli anni quaranta del secolo scorso, in epoca cioè di “glottodidattica” vera e propria, disciplina la cui nascita, come è noto, viene fatta coincidere con il 1942, anno di pubblicazione della Outline guide for the practicle study of foreign languages di Bloomfield. Da quegli anni, infatti, i metodi e le tecniche per l’insegnamento delle lingue straniere si basano sempre meno sull’esperienza concreta o sul buon senso, ma sono il risultato di una vera e propria “linguistica applicata” e, almeno inizialmente, della linguistica dei “costituenti immediati” (modulo 0). In questo capitolo si prenderanno in considerazione i principali approcci scientifici e cioè l’approccio strutturalistico (10.4.1), l’approccio comunicativo (10.4.2) e l’approccio umanistico-affettivo (10.4.3).

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10.4.1 Approccio strutturalistico La nozione di struttura, cioè di costruzione morfosintattica, è centrale in questi approcci, in cui prevale una concezione meccanica, meccanicistica e regolare del fatto linguistico. Questa nozione si allea con la psicologia di Skinner, che considera l’atto di comunicazione come un semplice atto di Stimolo e Risposta, e con l’esplosione delle registrazioni della parola ad uso didattico (laboratorio linguistico, che da laboratorio passivo diventa progressivamente audio-orale-attivo-comparativo) e dà luogo ai metodi audio-orali e audio-visivi, i quali possono essere considerati gli unici “metodi” nel senso pieno del termine.

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10.4.1.1 Metodi audio-orali o audio-linguali I Metodi audio-orali o audio-linguali sono l’applicazione più diretta dell’approccio strutturalisitico. Essi si diffondono essenzialmente in America e riducono tutto il lavoro didattico a una serie di esercizi cosiddetti à mitraillette, drills nella terminologia anglosassone, cioè esercizi strutturali di ripetizione, di sostituzione e di trasformazione. Dal punto di vista psicologico nulla è concesso alla creatività del discente e da quello linguistico domina la dimensione frastica su quella testuale, che sarà presa in conto solo qualche decennio più tardi.

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10.4.1.2 Metodi audio-visivi (S.G.A.V.) I metodi audio-visivi (talora indicati con la sigla S.G.A.V., Strutturo-Globali-Audio-Visivi) presentano l’immagine come veicolo del significato in una impostazione strutturale, cioè morfosintattica del tutto simile a quella degli audio-orali. Nella prima stagione degli audio-visivi ogni item sonoro è collegato con un’immagine di un film fisso. Esso traduce in lingua il significato veicolato dall’immagine. Lo sforzo di ridurre la polisemia dell’immagine, che è ancora maggiore della polisemia della parola, ad una relativa monosemia, rivela presto le difficoltà di questi metodi e induce a scegliere immagini in bianco e nero piuttosto che a colori, fisse piuttosto che mobili, disegni piuttosto che fotografie, per poi abbandonarli presto, sostituendoli con metodi solo parzialmente audio-visivi. Anche dal punto di vista esercitativo sono riproposte le stesse tecniche (per la definizione di tecnica, cfr. 10.1.4) dei metodi sopra citati. Per i metodi audio-orali e audio-visivi sono di primaria importanza l’alta qualità fonetica dei materiali registrati e la cura prevalente e prioritaria dal punto di vista temporale delle abilità orali prima del passaggio allo scritto, il quale avviene però attraverso la trascrizione dell’orale stesso, senza alcuna attenzione ad una reale situazione di scrittura, che non coincide quasi mai con una reale situazione di oralità. Questi metodi si diffondono prevalentemente in Europa, dove si riscontra, prima che negli Stati Uniti, una maggiore e anticipata attenzione al contesto e quindi alla situazione di comunicazione, anche dal punto di vista teorico.

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10.4.2 Approccio comunicativo Alla svolta degli anni settanta le analisi della lingua, sfociate nel concetto di competenza linguistica, si ampliano e si arricchiscono di numerosi componenti, fino alla definizione di “competenza comunicativa”, che comprende la competenza linguistica, ma vi aggiunge diverse altre competenze, quali la competenza sociopragmatica e quella extralinguistica, a loro volta comprensive di numerose e complementari sottocompetenze (modulo 8). La definizione di competenza comunicativa si deve a Dell Hymes, che nell’acronimo S.P.E.A.K.I.N.G. (modulo 8) riesce a inserire tutti gli elementi costitutivi di un atto comunicativo concreto. L’approccio comunicativo scaturisce dunque da una maggiore attenzione alla variazione della lingua e alla considerazione della stessa come comunicazione e interazione. Gli elementi costitutivi di tale approccio fanno riferimento agli universali linguistici (modulo 0), alle nozioni chomskiane di grammaticalità e di ricorsività delle regole, mentre mettono in ombra le analisi contrastive fondanti l’approccio strutturalistico (10.4.1) precedente. Le declinazioni concrete di tale approccio sono il metodo situazionale (10.4.2.1) e il metodo funzionale-nozionale (10.4.2.2).

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10.4.2.1 Il “metodo” situazionale Il metodo situazionale si propone di perseguire l’acquisizione di una competenza comunicativa (conoscenza interiorizzata delle regole e capacità di impiegarle) attraverso una situazione, che da essenzialmente fisica (al bar, al ristorante, in stazione, …), come nei metodi precedenti, si trasforma in situazione verbale (chiedere per sapere / per avere, chiedere scusa / permesso, domandare un’informazione, un consiglio, …). Si introduce così il concetto di funzione comunicativa, che diventa prioritario rispetto a quello di categoria linguistica.

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10.4.2.2 Il “metodo” nozionale-funzionale Il metodo nozionale-funzionale, presentato da Wilkins al congresso dell’AILA del 1972 a Copenhagen, supera il concetto di categoria linguistica dei metodi precedenti, introducendo quello di categoria concettuale (notion in inglese), a cui lega quello di funzione comunicativa. Le microfunzioni della didattica, che scaturiscono dalle macrofunzioni della lingua, sono essenzialmente quelle dell’io, del tu e dell’esso (rispettivamente, emotiva/espressiva, conativa e referenziale nella terminologia di Jakobson). Altro elemento fondamentale sul quale il metodo si fonda è il concetto di “bisogno comunicativo”: l’input dell’insegnante deve rispondere ai bisogni reali degli allievi, attraverso la presentazione di atti comunicativi concreti.

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10.4.2.2.1 Le proposte europee Negli anni settanta gli esperti della cooperazione culturale del Consiglio d’Europa, coordinati dal prof. Van Ek, delineano un progetto di apprendimento delle lingue, costituito da sei livelli crescenti di competenza, in cui il terzo, il Livello Soglia, corrisponde alla minima competenza necessaria per “sopravvivere” con la L2, mentre il sesto fa intravedere un ultimo settimo livello, che corrisponderebbe al bilinguismo assoluto. I Livelli Soglia prodotti dal 1973 in avanti sono raccolte di materiali empirici che rispondono alle microfunzioni comunicative e alle micronozioni linguistiche inventariate sulla base dei bisogni di alcune categorie di utenti, fra cui studenti universitari e adulti lavoratori migranti. Nel decennio 1990-2000 vengono dati alle stampe gli studi relativi al Quadro comune europeo di riferimento, rispondente all’esigenza, emersa in quegli anni, di omologare i livelli di apprendimento delle lingue a livello europeo e di unificare, nel limite del possibile, i metodi di insegnamento e i processi di apprendimento. Un capitolo del Quadro è specificamente dedicato ai livelli di competenza, che si suddividono in tre grandi aree, ognuna a sua volta costituita da due sotto-livelli (modulo 9): A) Elementare

A1) Contatto A2) Sopravvivenza

B) Intermedio

B1) Soglia B2) Progresso

C) Avanzato

C1) Efficacia C2) Padronanza

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10.4.3 Approccio Umanistico-Affettivo L’approccio umanistico-affettivo nasce e si sviluppa grazie all’influenza dell’umanesimo psicologico e di studiosi, soprattutto statunitensi (Allport, Maslow), che, riprendendo un aspetto già fondamentale per gli approcci comunicativi, hanno messo in luce ulteriormente la centralità dell’allievo nell’attività didattica, fondandola sull’interrelazione, dinamica e biunivoca, tra l’io e il mondo. Dai punti di vista neurolinguistico, psicolinguistico e cognitivo, tali approcci si caratterizzano per la volontà di coinvolgere la persona dell’allievo nella sua completezza, chiamando in causa, accanto all’aspetto razionale, anche quello motivazionale, quello legato alle caratteristiche individuali di ognuno e, soprattutto, la componente affettiva. Gli approcci didattici che si possono definire umanistico-affettivi sono particolarmente attenti alla nozione di filtro affettivo, un meccanismo di difesa della personalità che, in momenti di ansia o di particolare insicurezza, si “chiude” e impedisce all’input di diventare intake. Fra gli approcci più noti ricordiamo l’approccio della Risposta fisica totale o T.P.R. (10.4.3.1), il Community Language Learning (10.4.3.2), l’approccio naturale o Natural Approach (10.4.3.3), la suggestopedia o ipnopedia (10.4.3.4), il metodo silenzioso o Silent Way (10.4.3.5), l’interazione strategica (10.4.3.6) e il Project work (10.4.3.7).

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10.4.3.1 Risposta fisica totale (T.P.R.) Questo approccio, messo a punto negli anni settanta dallo studioso americano Robert Asher, è caratterizzato, come sottolinea il nome stesso, dalla “reazione fisica totale”, ossia dal coinvolgimento totale, psichico e fisico, del discente nell’atto dell’apprendimento e si rifà ad alcuni metodi “diretti” per l’enfasi sulle esperienze ricettive: l’allievo è posto al centro del processo di apprendimento, viene motivato, protetto dagli insuccessi, guidato verso l’autorealizzazione. La lingua viene collegata con il movimento, le azioni e la fisicità degli studenti. L’insegnante offre stimoli verbali e non-verbali, la cui acquisizione, concepita come un processo lento e personalizzato, avviene in un ambiente particolarmente attento a minimizzare situazioni ed esperienze frustranti o ansiogene. La progressione procede da semplici ordini (“apri la porta”) a sequenze di comportamenti diversi. L’approccio si fonda, dunque, sul principio dell’accoppiamento parola-azione, sia per produrre un coinvolgimento totale dei mezzi espressivi dell’allievo (linguaggio verbale e non verbale), sia per permettere la cosiddetta delayed oral practice. Tale approccio risulta particolarmente efficace per l’insegnamento precoce delle lingue straniere, anche grazie alla sua forte componente ludica (Mastromarco c.d.s.). Praticabile in aule di lingue possibilmente poco numerose, la T.P.R. ha tuttavia un limite abbastanza notevole: l’uso insistito del modo imperativo può risultare infatti troppo ripetitivo e sfociare, di conseguenza, nella monotonia e nella perdita dell’attenzione da parte degli studenti.

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10.4.3.2 Community Language Learning / Community Counseling Questo approccio, messo a punto alla fine degli anni Settanta da Curran, psicologo gesuita americano, si fonda sulla psicologia di Rogers e traspone in didattica i modelli della seduta psicoterapeutica a gruppi. L’insegnante svolge il ruolo di “consigliere”, che aiuta, consiglia e cerca di individuare lo stile apprenditivo degli allievi, pur rimanendo fuori dal lavoro di apprendimento, che avviene prevalentemente in gruppo e in modo autodiretto. Il discente è infatti considerato un “cliente”, al quale l’insegnante fornisce risposte e sicurezza nei momenti di difficoltà (Cantoni 2003).

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10.4.3.3 Natural Approach Malgrado talvolta si parli di metodo naturale, si tratta in realtà di un approccio (10.1.2.), basato sull’assunto per cui una lingua seconda o straniera può essere appresa seguendo lo stesso itinerario che si è percorso per l’acquisizione della lingua materna. Proposto da Terrel e Krashen, è imperniato, dal punto di vista psicologico, sul modello teorico di quest’ultimo autore: il modello del monitor. Come gli altri approcci umanistico-affettivi, l’approccio naturale attribuisce un ruolo fondamentale all’abilità di comprensione orale, rinviando la produzione fino al momento in cui il discente non si senta capace e sicuro di sé. Fra i criteri fondativi di tale approccio ricordiamo:

a) la lingua straniera viene utilizzata, inizialmente, solo dall’insegnante, il quale permette al discente l’utilizzo della lingua materna finché egli non si ritenga sufficientemente pronto per fornire output in lingua straniera;

b) i sussidi utilizzati per presentare vocaboli e strutture della lingua straniera sono molteplici e hanno lo scopo di facilitare lo sviluppo naturale della competenza comunicativa a livello inconscio;

c) spiegazioni grammaticali ed esercizi strutturali alla maniera cognitiva hanno luogo solo dopo la lezione; in classe, non appena l’apprendente è in grado di utilizzare la lingua studiata senza blocchi ed inibizioni, si svolgono prevalentemente attività comunicative, con una forte attenzione alla dimensione fonologica.

Il punto debole di questo approccio consiste, secondo lo stesso Krashen, nella difficoltà di adattarlo all’insegnamento in classe dove, spesso, la necessità di raggiungere obiettivi programmatici e la compresenza di individui dai diversi stili cognitivi rendono praticamente impossibile l’individualizzazione dell’insegnamento.

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10.4.3.4 Suggestopedia / Ipnopedia Questo approccio, messo a punto dallo psicanalista bulgaro Lozanov negli anni sessanta, si fonda sul principio psicologico del “suggerimento”, che l’insegnante effettua al gruppo di studenti, lasciando che essi stessi dettino il ritmo dell’apprendimento. Lozanov prende spunto dalla psicologia clinica per accelerare e migliorare il processo di apprendimento di una lingua straniera, ponendosi l’obiettivo di creare un rapporto interpersonale positivo tra insegnante e allievo. In che modo?

a) creando innanzitutto un ambiente sereno e stimolante, in cui si chiede all’adulto di “tornar bambino”, cambiando nome e fingendo di essere sicuro delle proprie capacità e di possedere un’intelligenza superiore alla norma;

b) successivamente si impartisce un insegnamento abbastanza “tradizionale”, attraverso spiegazioni della grammatica e del lessico ed esercitazioni di ciò che si è appreso in precedenza, basate sulla conversazione, sui giochi, e sugli esercizi strutturali;

c) la lezione termina, infine, con una séance di circa un’ora tenuta in piccoli “salotti” con poltrone comode e musica barocca dove, mentre i discenti fanno esercizi di respirazione yoga, l’insegnante presenta nuove strutture e nuovi vocaboli leggendo in lingua straniera, spiegando in lingua italiana e utilizzando toni di voce particolarmente suggestivi.

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10.4.3.5 The Silent Way Messo a punto dallo studioso elvetico-americano Gattegno negli anni Settanta, questo approccio si fonda sul principio del silenzio da parte dell’insegnante, il quale deve limitarsi a fornire input (o a gestire la macchina che lo fornisce: registratore, video, ecc.) e a dare istruzioni, correggendo gli errori con gesti convenzionali piuttosto che con parole, e lasciando, dunque, che siano gli allievi a scoprire ed esercitare i meccanismi della lingua. Con questo approccio Gattegno porta alla massima potenza la concentrazione dell’attenzione sul discente. La silenziosa presenza dell’insegnante, che si limita a fornire i modelli della lingua e a correggere solamente attraverso lievi cenni delle dita (finger correction), è infatti finalizzata a creare un ambiente non competitivo, a minimizzare l’ansia dello studente, a farlo riflettere su quanto ha appreso e a favorire il suo intervento nell’aiuto e nella collaborazione dei compagni, per poter sviluppare, accanto all’apprendimento di una lingua straniera, anche e soprattutto la consapevolezza del proprio io.

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10.4.3.6 Interazione strategica Tale approccio è stato teorizzato da Robert Di Pietro agli inizi degli anni ottanta e si fonda su di una particolare concezione della comunicazione verbale, che non può essere mai neutra, poiché le parole dei parlanti sono sempre strategicamente e tatticamente connotate. L’interazione, infatti, non può essere considerata un semplice scambio di informazioni, in quanto rimanda alla realizzazione di specifici obiettivi tramite negoziazioni e strategie comunicative diverse. Da ciò deriva la scelta del nome “interazione strategica”: interazione perché l’insegnamento avviene in particolari contesti, chiamati sceneggiature, le quali implicano l’interazione fra più persone; “strategica” perché tale interazione ha l’obiettivo di far risolvere una situazione difficile utilizzando in modo strategico la L2. Poiché la comunicazione è orientata al raggiungimento di un obiettivo e la lingua è lo strumento utilizzato per raggiungerlo, anche in classe è necessario, secondo Di Pietro, riproporre la complessità dello scambio comunicativo reale.

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10.4.3.7 Project work Il Project work può essere considerato uno sviluppo degli approcci comunicativi poiché condivide con essi molti principi generali, fra cui la considerazione della lingua come sistema dinamico e risultato di un’interazione, la considerazione dell’apprendimento linguistico come processo di “negoziazione” di un significato in un contesto socioculturale, la prevalenza del contenuto sulla forma, del processo sul prodotto, dell’uso e dei bisogni linguistici sulla norma. Aspetto peculiare di questo approccio è un insegnamento linguistico basato sull’interazione fra la lingua stessa e il mondo reale:

“il project work […] cerca di finalizzare lo studio della lingua al compimento di un progetto. Un progetto è quindi un programma di studio nel quale la L2 è un mezzo per portare avanti un compito ben definito e non un oggetto di studio in sé” (Ridarelli, 1998:173).

Alla base di questo progetto vi è il concetto di learning by doing, noto alla didattica linguistica da molti anni, ma sviluppatosi metodologicamente solo negli anni ottanta. Fra le proposte e le sperimentazioni più note del project work, degno di nota è il Bangalore Project. L’efficacia di questi approcci, basati sulla realizzazione di precisi compiti, è per ora stata dimostrata per applicazioni a lungo termine e necessita dunque di ulteriori sperimentazioni.

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10.5 La panacea: l’approccio integrato? Le proposte metodologiche per l’insegnamento linguistico susseguitesi negli ultimi cinquant’anni, prendendo spunto da specifiche e sempre diverse basi teoriche, hanno presentato di volta in volta innovazioni più o meno radicali nei confronti delle proposte precedenti (10.4). La principale debolezza dei singoli approcci consiste nel fatto che molti di essi non considerano la pluralità degli aspetti che caratterizzano il processo di apprendimento di una lingua straniera, ma ne forniscono molteplici visioni unilaterali. Dal punto di vista psicolinguistico, per esempio, si può affermare che, se gli approcci e i metodi cosiddetti deduttivi tendono a sviluppare nell’apprendente i meccanismi cognitivi necessari per il controllo linguistico, quelli induttivi mirano, al contrario, all’apprendimento automatico delle strutture indispensabili per realizzare una comunicazione, mentre quelli funzionali forniscono una conoscenza “pragmatica” della lingua straniera e quelli affettivi sviluppano molto lentamente le abilità grammaticali e comunicative, essendo infatti prevalentemente interessati a minimizzare l’ansia e le frustrazioni del discente. Anche dal punto di vista neurolinguistico questi metodi tendono ad attivare le funzioni svolte da un solo emisfero cerebrale, in contrapposizione ai concetti di cooperazione e di bimodalità emisferica (Danesi 1988). Tali affermazioni, da un lato, confermano il superamento del concetto di metodo in quanto “pacchetto” di regole e di indicazioni da seguire rigidamente, in favore del concetto, più ampio e generale, di approccio (10.1.2) e, dall’altro, introducono una proposta metodologica globale e completa, l’approccio integrato, in cui gli elementi costitutivi di ogni singolo metodo o approccio “tradizionale”, rivelatisi efficaci dal punto di vista didattico, non vengono abbandonati, bensì selezionati ed integrati organicamente, in modo da poter rispondere alle esigenze e alle caratteristiche più diverse determinanti il processo di apprendimento di una lingua straniera. Quest’ultimo, secondo Danesi, è infatti caratterizzato dalla somma delle singole componenti “parziali” sulle quali si fondano i diversi metodi: “la componente cognitiva (come nei metodi deduttivi), la componente comportamentistica (come nei metodi induttivi), quella interattiva (come nei metodi funzionali) e quella affettiva (come nei metodi affettivi)” (Danesi 1988: 34). Così come dal punto di vista psicolinguistico l’approccio integrato coinvolge gli spunti teorici degli approcci e dei metodi più diversi, anche da quello neurolinguistico esso tiene in considerazione la totalità delle modalità emisferiche, proponendo una didattica imperniata sui principi minimi della bimodalità: la direzionalità, la formalizzazione e l’affettività. L’approccio integrato costituisce quindi il punto di arrivo delle diverse ricerche teoriche e sperimentali nel campo della glottodidattica e fornisce quelle indicazioni metodologiche oggi indispensabili per costruire interventi didattici il più possibile completi, aperti e attenti ai bisogni dei discenti.

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Fra i modelli didattici che per le loro caratteristiche possono essere considerati forme particolari di approccio integrato ricordiamo il modello integrato di Allen, l’unità didattica di Freddi e il modello olodinamico di Titone.

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10.6 Sintesi conclusiva

Dopo aver navigato, in questo modulo, alla scoperta delle principali caratteristiche dell’evoluzione metodologica, è possibile sintetizzare come segue i tratti salienti del nostro percorso. Dal punto di vista metodologico è oggi possibile riconoscere alcune certezze:

a) innanzitutto il superamento della nozione di metodo e la conseguente limitatezza di una didattica fondata su questo concetto;

b) in secondo luogo la coessenzialità delle sfere pedagogica, psicologica e linguistica, nonché dei livelli tattico, strategico ed egodinamico e della bimodalità neurologica: elementi che, insieme, caratterizzano la globalità del processo di acquisizione/apprendimento di una lingua straniera;

c) infine la centralità dell’allievo e delle sue esigenze linguistiche e psicopedagogiche.

Alcuni autori riconoscono attualmente i seguenti punti fermi:

“a) l’obiettivo strumentale primario è la competenza comunicativa, che ingloba e supera la competenza linguistica integrandola con i dati offerti dalla psico- e socio-linguistica e dalla pragmatica […];

b) le abilità integrate assumono un ruolo centrale come punto di raccordo e di impiego realistico delle abilità di base;

c) il ricorso alla gamma più ampia possibile di tecniche didattiche consente di rispettare e favorire i diversi stili di apprendimento degli allievi;

d) premessa essenziale è la presenza di un buon livello di motivazione e di un filtro affettivo basso, come esiti di una didassi costantemente attenta al livello ego-dinamico;

e) la strada maestra procede dalla ‘modalità destra’ […] alla ‘modalità sinistra’ […];

f) il richiamo alle intenzioni comunicative e alle nozioni semantiche […] permette di partire dalla lingua in atto senza cadere negli inconvenienti dello spontaneismo velleitario;

g) [l’importanza del] riferimento operativo all’unità didattica […]; h) il richiamo al valore del nesso lingua-civiltà e a tutte le implicazioni che ne

derivano, come la tensione verso le ‘lingue per costruire la pace’ […]” (Porcelli 1994:251-252).

L’approccio integrato, coordinando vecchie e nuove suggestioni metodologiche e didattiche ed essendo aperto alle evoluzioni apportate dalle ricerche teoriche e sperimentali, risponde alle caratteristiche appena esposte e costituisce a tutt’oggi la migliore modalità di insegnamento delle lingue straniere in normali contesti scolastici. Con esso è possibile infatti trasformare l’aula in un ambiente multidimensionale, multisensoriale e multimediale, dove il rapporto educativo è anche rapporto umano e dove il discente, fulcro dell’attenzione dell’insegnante,

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mantiene aperta la mente ad adattamenti e contributi sempre nuovi, provenienti dagli ambiti più diversi della teoria e dell’esperienza. Il ruolo dell’insegnante in questa nuova concezione metodologica si è dunque modificato: l’insegnante non è più detentore di un sapere che elargisce frontalmente, ma è facilitatore di apprendimento, mediatore di conoscenze, tutore, ecc.

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10.6.1 Dal non-metodo al metodo, all’approccio, alle ipotesi Questo paragrafo conclude e completa la sintesi presentata in 10.6, annunciando il punto di arrivo di un’evoluzione teorico-metodologica finora, a nostro avviso, solo parziale. Nel presente modulo è stato possibile navigare alla scoperta di approcci e metodi molto diversi, alcuni molto noti, altri meno, alcuni senza basi scientifiche, altri quasi deterministici … Tale percorso, dal punto di vista cronologico, ha messo in evidenza il passaggio da un’era pre-scientifica, in cui vigeva il “non metodo”, a un’era scientifica, in cui al metodo, modello operativo “assoluto”, si è sostituito l’approccio, modello operativo più ampio, meno rigido e per questo più aperto alla molteplicità delle variabili intrinseche all’atto didattico. Il diversificarsi e il proliferare, attualmente, di tali variabili (si pensi agli innumerevoli tipi di oggetti, di soggetti, di agenti, nonché di contesti di apprendimento, soprattutto per quanto riguarda l’italiano L2), insieme all’affermarsi di nuovi e numerosi studi circa i processi di acquisizione/apprendimento e, di converso, di insegnamento (modulo 6), ci fanno intravvedere un gradino ulteriore fra il livello degli approcci e quello, esterno alla disciplina, delle teorie (10.1.1): il livello delle ipotesi.

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TEORIE

APPROCCIO

METODO

TECNICHE &

MATERIALI

IPOTESI

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Si tratta di un livello che va oltre la dimensione globale dell’approccio e che meglio si lega alle diverse teorie di riferimento della glottodidattica e alla sua natura interdisciplinare grazie alla propria essenza poliedrica, indefinita e, soprattutto, sempre aperta a continue sperimentazioni, quindi a continue conferme o smentite.

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10.7 Riferimenti bibliografici ASHER J.J., Learning another language through actions: The complete teacher’s

guidebook, Sky Oaks Productions, Los Gatos, CA, 1977. BALBONI P.E., Didattica dell’italiano a stranieri, Bonacci Editore, Roma, 1994. BALBONI P.E., Approccio alla lingua italiana per allievi stranieri, Theorema libri –

Petrini, Torino 2000. BALBONI P.E., Le sfide di Babele, Utet, Torino 2002. BECCARIA G.L. (dir.), Dizionario di linguistica, Einaudi, Torino, 1994. BOSISIO C., La “linguistica dell’acquisizione” e la “glottodidattica, “Rassegna

Italiana di Linguistica applicata”, 1, 2001, pp. 5-17. CAMBIAGHI B., Lezioni di glottodidattica, I.S.U. Università Cattolica, Milano

2000. CANTONI L., Il Counseling-Learning / Community Language Learning (C-L/CLL) di

Charles A. Curran nella glottodidattica umanistica, in CURRAN C.A., Il Counseling learning nelle lingue seconde, Guerra Edizioni Perugia, 2003, pp. 7-83.

CYR P., GERMAIN C., Les stratégies d’apprentissage, Clé International, Paris, 1998. COUNCIL OF EUROPE, Quadro comune europeo di riferimento per le lingue:

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DANESI M., Manuale di tecniche per la didattica delle lingue moderne, Armando Editore, Roma, 1988.

DARDANO M., Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Roma - Bari 1973. DI PIETRO R.J., Strategic interaction. Learning languages through scenarios,

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GALIMBERTI U., Dizionario di psicologia, Utet, Torino, 1992. GALLI DE' PARATESI N., Livello soglia per l'insegnamento dell'italiano come

lingua straniera, Consiglio d'Europa, Strasbourg, 1981 GERMAIN C., Un cadre conceptuel pour la didactique des langues, “Etudes de

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d’explication à la variabilité des apprentissages en langue étrangère, “Acquisition et Interaction en Langues Etrangères”, 4, 1994, pp. 81-108.

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educativo, R. TITONE R., Modelli psicopedagogici dell’apprendimento, Armando Editore, Roma, 1976.

TITONE R., Cinque millenni di insegnamento delle lingue, La Scuola, Brescia 1986. TROCME-FABRE H., J’apprends, donc je suis, Les Editions d’Organisation, Paris,

1994.

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10.8 Attività Si consiglia di effettuare tali attività dopo avere letto i rispettivi capitoli di riferimento, al fine di verificare l’acquisizione dei contenuti fondamentali e, in alcuni casi, di metterli in pratica.

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10.8.1 Attività relative ai capitoli 10.1 e 10.2: Domande di sintesi A) Che ruolo hanno e quali sono le teorie di riferimento per la glottodidattica? B) Cosa si intende per “educazione linguistica”? C) Approccio – metodo – tecnica: che rapporti intercorrono tra queste tre

dimensioni? D) Quali sono i criteri utili per tracciare un percorso che definisca l’evoluzione

degli approcci e dei metodi glottodidattici?

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10.8.2 Attività relative ai capitoli 10.3 e 10.4: Dai testi, agli approcci, ai metodi A) Dopo avere letto gli estratti seguenti, individuate, se possibile, ai principi di

quali approcci e/o metodi della glottodidattica a base scientifica possono ricondurre le idee e le proposte degli autori considerati.

Estratto n° 1: Roger Ascham Estratto n° 2: Michel de Montaigne Estratto n° 3: Claude de Sainliens Estratto n° 4: Comenio Estratto n° 5: Abbé Pluche Estratto n° 6: François Gouin Estratto n° 7: Wilhelm Viëtor Estratto n° 8: Maximilian Berlitz Estratto n° 9: Otto Jespersen Estratto n° 10: Harold Palmer

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B) Analisi delle introduzioni di manuali di italiano L2: leggete le introduzioni di almeno cinque manuali di italiano L2 (pubblicati possibilmente in date diverse, recenti e non). Per ogni manuale completate la scheda seguente.

Autore/i: Titolo: Data di edizione: Casa editrice: ____________________________________________________________________ Analisi dell’introduzione a) Riferimenti a teorie linguistiche: b) Riferimenti ad approcci o metodi glottodidattici: c) Consigli per l’uso: d) Altre osservazioni:

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C) Nella tabella seguente (tratta da Andorno, Ribotta 1999: 31), sono indicati gli schemi di lezione sul passato prossimo di due manuali di italiano per stranieri. Che tipo di approccio seguono i due manuali?

Italiano Italiano* La lingua italiana per stranieri*

R: Participi regolari R: Participi irregolari R: Transitivo/intransitivo E: Riconoscere verbi transitivi e intransitivi R: Paradigma completo del passato prossimo R: Ausiliare di verbi transitivi e intransitivi R: Accordo del participio R: Ausiliare con verbi servili R: Verbi con due ausiliari R: Forma negativa E: Accordare il participio E: Inserire una forma di passato prossimo

T: Breve testo al passato prossimo E: Rispondere a domande poste al passato prossimo R: Participi regolari E: Formare participi regolari R: Transitivo/intransitivo R: Ausiliare di verbi transitivi e intransitivi R: Accordo del participio E: Inserire una forma di passato prossimo R: Paradigma completo del passato prossimo R: Participi irregolari

* Con “T” si intende la presentazione di un testo o di un dialogo; con “R” l’esposizione esplicita di una regola; con “E” uno o più esercizi. Deduttivo Induttivo Italiano Italiano La lingua italiana per stranieri

[I manuali citati sono: Bosc F., Peyronel S., Prevosto S, Italiano italiano 1, Cooperativa di cultura Lorenzo Milani, Torino, 1976; Katerinov K., Boriosi M.C., La lingua italiana per stranieri. Corso elementare ed intermedio, Guerra, Perugia, 1976].

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D) Osservazione degli indici: osservate gli indici di almeno cinque manuali di italiano L2 (pubblicati possibilmente in date diverse, recenti e non). La progressione e la tipologia degli argomenti suggeriscono un’impostazione tipica di approcci e/o metodi particolari?

Manuali Titolo Progressione e tipologia degli argomenti:

osservazioni particolari Approccio o metodo

di riferimento

1

2

3

4

5

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E) Sulla base dei punti seguenti (adattati da Andorno, Ribotta 1999), individuate le caratteristiche di un metodo diretto e di un metodo strutturale

Metodo diretto Tipo di lingua utilizzato: □ scritta □ orale Abilità esercitate: □ comprensione orale □ produzione orale □ comprensione scritta □ produzione scritta Tipo di produzione: □ libera □ guidata Spiegazioni grammaticali: __________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ Particolarità: _____________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ Metodo strutturale Tipo di lingua utilizzato: □ scritta □ orale Abilità esercitate: □ comprensione orale □ produzione orale □ comprensione scritta □ produzione scritta Tipo di produzione: □ libera □ guidata Spiegazioni grammaticali: __________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ Particolarità: _____________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ F) Quali caratteristiche dovrebbe avere un manuale (tipo e progressione degli

argomenti, tipo di esercizi, ecc.) perché possa riferirsi all’approccio comunicativo?

G) Considerate le indicazioni degli approcci umanistico-affettivi. In che modo

possono essere utili all’organizzazione della vostra attività didattica?

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10.8.3 Attività relative ai capitoli 10.5 e 10.6: Dalla teoria alla pratica didattica: riflessioni

A) Alla luce delle attuali indicazioni del Consiglio d’Europa (10.4.2.2.1; modulo

9), in che modo pensate possa essere utile ai vostri studenti di italiano L2 la possibilità di certificare le loro competenze?

B) Sulla base dei contenuti affrontati in questo modulo, a quale approccio vi siete

ispirati finora? Pensate di modificare il vostro stile di insegnamento? Se sì, come e in funzione di quale approccio?

C) Impostate un’attività, a vostra scelta, seguendo i principi dell’approccio

integrato. Ricordate di esplicitare destinatari, prerequisiti, obiettivi, tempi, spazi, nonché criteri e modalità di valutazione.

D) Forniamo, di seguito, una griglia utile per analizzare i manuali di italiano L2.

Analizzatene tre, a volta scelta, e considerate infine quale risponde meglio al vostro tipo di approccio e ai bisogni dei vostri studenti.

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10.8.4 Chiavi 10.8.1 Le risposte alle domande A), B), C) e D) sono da ricercare nei contenuti affrontati nei capitoli 10.1 e 10.2. 10.8.2 A) Con questa attività si è voluto dare all’insegnante l’opportunità di riflettere su

alcuni testi dei precursori della glottodidattica, i cui lavori, riletti alla luce delle attuali conoscenze, permettono di apprezzare meglio certe intuizioni, che risultano innovative e quasi rivoluzionarie anche dopo centinaia di anni. Non vi sono, dunque, interpretazioni univoche per questi testi, che del resto andrebbero considerati nella loro interezza. Le indicazioni fornite di seguito sono quindi da considerare semplici e incompleti suggerimenti interpretativi, da ampliare e approfondire analizzando i brani proposti e discutendo con i colleghi.

Estratto n° 1: Roger Ascham Si possono riconoscere tratti dell’approccio pre-scientifico formalistico (o della grammatica-traduzione). Estratto n° 2: Michel de Montaigne Si possono riconoscere tratti dei metodi diretti, ma anche di una sorta di Natural Approach ante litteram. Estratto n° 3: Claude de Sainliens Si possono riconoscere tratti degli approcci umanistico-affettivi, in particolare dell’ipnopedia. Estratto n° 4: Comenio Accanto alla centralità dei bisogni e della pratica linguistica, si possono riconoscere tratti dell’approccio contrastivo, così come di una sorta di approccio “proto-comunicativo”. Estratto n° 5: Abbé Pluche Si possono riconoscere tratti dei metodi diretti, ma anche di una sorta di approccio comunicativo. Estratto n° 6: François Gouin Si possono riconoscere tratti di approcci diversi, dai principi del metodo audio-orale, alle caratteristiche del metodo situazionale, alle tecniche della T.P.R.

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Estratto n° 7: Wilhelm Viëtor Si possono riconoscere tratti dei metodi audio-orali. Estratto n° 8: Maximilian Berlitz Si tratta dell’esempio più classico di metodo diretto, dalla cui descrizione, tuttavia, sembrano emergere germogli di un approccio comunicativo. Estratto n° 9: Otto Jespersen Si possono riconoscere tratti dei metodi diretti, ma anche dell’approccio comunicativo. Estratto n° 10: Harold Palmer Sembrano emergere tratti dell’approccio integrato. B) Risposte aperte (le risposte variano a seconda dei manuali di italiano L2

considerati). C)

Deduttivo Induttivo Italiano Italiano X La lingua italiana per stranieri

X (anche se parzialmente)

D) Risposte aperte (le risposte variano a seconda dei manuali di italiano L2

considerati). E) Metodo diretto Tipo di lingua utilizzato: □ scritta □ orale Abilità esercitate: □ comprensione orale □ produzione orale □ comprensione scritta □ produzione scritta Tipo di produzione: □ libera □ guidata Spiegazioni grammaticali: ___assenti o molto ridotte_____________________________________ Particolarità: __si oppone all’approccio grammaticale; necessità di insegnare la lingua all’adulto come la madre la insegna al bambino; vi sono diversi “metodi diretti” (cfr. cap. 10.3.4)._________

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Metodo strutturale Tipo di lingua utilizzato: □ scritta □ orale Abilità esercitate: □ comprensione orale □ produzione orale □ comprensione scritta □ produzione scritta (trascrizione dell’orale) Tipo di produzione: □ libera □ guidata Spiegazioni grammaticali: ________prevalentemente assenti: la grammatica si acquisisce meccanicamente e automaticamente attraverso esercizi di ripetizione, sostituzione, trasformazione Particolarità: _____centralità della frase sul testo; psicologia comportamentista; metodi audio-orali e S.G.A.V. (cfr. cap. 10.4.1).________________________________________________________ F) Per la risposta si consideri il contenuto del capitolo 10.4 e se ne discuta con i

colleghi. G) Risposta aperta. 10.8.3 Le risposte alle domande A), B), C) e D) sono aperte. Tali domande hanno l’obiettivo di far riflettere l’insegnante sul proprio operato e di mettere in comune le proprie esperienze con quelle di altri colleghi.

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La glottodidattica La glottodidattica, scienza interdisciplinare, può essere rappresentata come un “fiore a quattro petali” (Balboni, 2000):

Scienze della cultura e

della società

Scienze psicologiche

Scienze dell’educazione

Scienze del linguaggio e

della comunicazione

Glottodidattica

Torna al paragrafo 10.1.1

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Page 69: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

Educazione linguistica Per cogliere le finalità dell’educazione linguistica riportiamo di seguito la definizione fornita dal Dizionario di glottodidattica (Balboni, 1999: s.v. “educazione linguistica”): “Con educazione linguistica si intende un processo unitario che si realizza attraverso l’insegnamento/apprendimento della:

a) lingua materna, che nella tradizione viene identificata con la lingua nazionale o con una lingua ufficiale; in realtà ci sono molte lingue materne che non vengono insegnate, pur essendo le lingue in cui una persona pensa;

b) lingua seconda cioè la lingua non-materna nelle aree bilingui; c) lingue straniere; d) lingue classiche, nei tipi di scuola in cui si insegnano il latino e/o il greco

antico; e) lingue etniche, cioè le lingue dei gruppi di immigrati.

Il concetto di educazione linguistica comporta che gli insegnanti impegnati nell’insegnamento linguistico devono procedere unitariamente e concordare sull’idea di lingua come forma o azione sociale, come norma o uso; sulla terminologia da usare; sullo sviluppo delle abilità; sul lavoro sui generi testuali; sul processo di analisi linguistica.

La filosofia di fondo dell’integrazione delle varie lingue in un unico concetto di educazione linguistica (e, in parallelo, di educazione e letteraria e microlinguistica) consiste nello spostamento del fuoco d’interesse dalla lingua come prodotto alla lingua come processo comunicativo, espressivo e cognitivo insieme. Lo sviluppo dei processi, quindi, e non solo la realizzazione di prodotti (testi) è l’obiettivo dell’educazione linguistica, che si concretizza nelle tre mete educative generali di ogni processo formativo: la culturizzazione, la socializzazione e l’autopromozione del soggetto”.

Torna al paragrafo 10.1.2

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Page 70: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

Mete e obiettivi glottodidattici “Le mete sono le finalità ultime dell’educazione, mentre gli obiettivi lo sono dell’istruzione […]. Le mete rappresentano dei processi che si realizzano nel lungo periodo e non sono verificabili in maniera diretta. Le mete dell’educazione generale, di cui l’educazione linguistica fa parte, sono la culturizzazione, la socializzazione e l’autopromozione. Specifiche dell’educazione linguistica sono invece le mete glottodidattiche” (Cfr. Balboni 1999: s.v. “mete educative”). “Alcuni studiosi distinguono tra mete educative generali, che devono essere perseguite anche dall’educazione linguistica, e mete glottodidattiche che sono invece specifiche dell’educazione linguistica. Le mete glottodidattiche sono: lo sviluppo delle abilità linguistiche; il rafforzamento (in lingua materna) o lo sviluppo (nelle altre lingue) delle competenza socio-pragmatica o funzionale; il rafforzamento o lo sviluppo delle grammatiche” (Cfr. Balboni 1999: s.v. “mete glottodidattiche”). Con il termine obiettivo, invece, spesso ma non necessariamente accompagnato all’aggettivo didattico, si indica “lo scopo di un preciso atto di istruzione […], quale una lezione, un’unità didattica. Gli obiettivi sono elencabili nei curricoli e sono direttamente verificabili con operazioni di verifica, a differenza di quanto avviene per le mete educative” (Cfr. Balboni 1999: s.v. “obiettivo (didattico)”).

Torna al paragrafo 10.1.2

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Page 71: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

Didassi Il termine “didassi”, in glottodidattica, rimanda alla concreta pratica didattica in classe, che si contrappone alla semplice “didattica”, termine con il quale si richiamano i principi generali seguiti per realizzare la “prassi quotidiana”.

Torna al paragrafo 10.1.4

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Page 72: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

I fattori dell’atto didattico: dal triangolo alla costellazione Lingua straniera, insegnante (e insegnamento) e apprendente (quindi apprendimento/ acquisizione) sono le componenti principali dell’atto didattico e costituiscono i tre grandi poli del cosiddetto “triangolo didattico”. L’interrelazione fra i tre fattori determina, come è noto, la creazione di diversi modelli didattici che, in base ai suggerimenti forniti dalle diverse teorie linguistiche e psicologiche dominanti, possono essere così esemplificati:

1) secondo il modello più antico, detto “maieutico” o “socratico”, l’allievo, alla ricerca di competenze, si rivolge al maestro poiché egli “possiede ciò che per l’allievo è l’obiettivo” (Balboni, 1994:61); il modello didattico che ne risulta vige oggi in rare situazioni in cui maestro ed allievi condividono sia le ore di lavoro e di studio, sia quelle di svago e rimanda, per alcuni aspetti, alla tradizione aristocratica delle balie straniere che guidano il bambino all’acquisizione di una seconda lingua fin dalla prima infanzia (fig. 1);

ALLIEVO

INSEGNANTE OGGETTO

fig.1 2) il modello più diffuso, soprattutto negli anni cinquanta e sessanta, è quello

definito “della lezione”, dove all’obiettivo (o meglio al prodotto dell’apprendimento) viene attribuito il ruolo centrale, e dove l’insegnante costituisce l’unico ed incontestabile strumento che permette la trasmissione diretta e frontale dell’obiettivo all’allievo (fig. 2); il modello così ottenuto è “monodirezionale ed imperniato sul docente” (Balboni, 1994:62);

ALLIEVO

INSEGNANTE OGGETTO

fig. 2

3) il modello che meglio esemplifica le attuali tendenze didattiche, conformemente alle più recenti teorie psicolinguistiche, deve invece porre al

83

Page 73: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

centro dell’attenzione il processo e non il prodotto dell’apprendimento: l’allievo dunque, non più l’insegnante, costituisce il perno dell’atto didattico che, per essere completo, deve tuttavia prendere in considerazione anche l’ambiente nel quale i tre fattori interagiscono (fig. 3);

AMBIENTE

ALLIEVO

INSEGNANTE OGGETTO

fig. 3

Tale modello ricorda il modello S.O.M.A. (Sujet, Objet, Milieu, Agent) di Légendre (Germain, 1989), che grazie al quarto fattore, l’ambiente, amplia il tradizionale triangolo preludendo a ciò che alcuni oggi definiscono “costellazione” (Dabène, 1995), termine con il quale si vogliono evidenziare i numerosi e sempre più complessi rapporti che intercorrono tra le diverse componenti dell’atto didattico (fig. 4).

fig. 4

LA COSTELLAZIONE DIDATTICA

C O N T E S T O

E D U C A T I V O

C O N T E S T O

S O C I A L E

Oggetti d’insegnamento/ apprendimento

(Lingua, discorso, testo)

Apprendenti Insegnanti

Pratiche

linguistiche

Rappresentazioni sociali

Discipline di ricerca

Materie d’insegnamento

Torna al paragrafo 10.2

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Page 74: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

Le domande delle “5 Wh-” Con questo appellativo ci si riferisce alle cosiddette “Wh-questions” (Who, What, Where, When, Why, a cui a volte si aggiungono anche Which e How), che rimandano al modello di Lasswell (le cui radici affondano nella retorica classica), adottato da molti manuali di giornalismo come regola per impostare le unità costitutive della notizia. In ambito didattico, e non solo, tali domande vengono spesso riprese per favorire l’approccio sistematico e la comprensione di questioni o temi particolarmente significativi. Per approfondimenti si vedano: Lagader, Betti 1989; Dardano, 1973.

Torna al paragrafo 10.2

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Page 75: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

Leonard Bloomfield (1887-1949) Bloomfield, linguista americano, fondatore nel 1925 della rivista Language, principale strumento d’espressione della neonata società americana di linguistica, è noto alla glottodidattica soprattutto per essere stato l’ispiratore scientifico e l’animatore dell’A.S.T.P., Army Specialized Training Program (10.4.1) e per avere pubblicato, nel 1942, l’opuscolo Outline Guide for the Practical Study of Foreign languages, che costituisce la base del rinnovamento, nella società del dopoguerra, dell’insegnamento delle lingue straniere. I metodi audio-orali traggono ispirazione dalle sue teorie, in particolare, in prospettiva comportamentista, dalla considerazione dell’apprendimento linguistico come un “iper-apprendimento”, poiché, come Bloomfield stesso affermava nell’Outline Guide, “langage learning is overlearning: anything less is of no use” (10.4.1.1).

Torna al paragrafo 10.2.1

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Page 76: MODULO 10 Approcci e metodi glottodidattici Bona Cambiaghi ...

La “protoglottodidattica” Per “protoglottodidattica” si intende il periodo storico antecedente la glottodidattica a base scientifica, i cui esponenti possono essere considerati i precursori degli approcci e dei metodi attuali (cap. 10.3).

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Strutturalismo La linguistica strutturalista, di ispirazione saussuriana in Europa e di ispirazione bloomfieldiana negli Stati Uniti, fiorisce tra il terzo e il sesto decennio del XX secolo e si fonda sulla concezione del linguaggio in quanto sistema, e su alcune dicotomie essenziali: diacronia vs sincronia, sintagma vs paradigma, langue vs. parole, significato vs significante. Per una definizione esauriente dello strutturalismo si vedano, oltre a Beccaria (1979), il modulo 0 e il cap. 10.4.1, che ne esplicita le ricadute didattiche.

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Comportamentismo “Detto anche behaviorismo, dalla denominazione inglese, il comportamentismo è un orientamento della psicologia moderna che, nell’intento di dare alla psicologia uno statuto simile a quello delle scienze esatte, circoscrive il campo della ricerca all’osservazione del comportamento animale e umano, rifiutando ogni forma di introspezione […], che per sua natura sfugge alla verifica oggettiva” (cfr. Galimberti, 1992: s.v. “comportamentismo”). Le ricadute didattiche di tale orientamento sono riprese in 10.4.1.

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Nozione Il termine nozione traduce l’inglese notion e rimanda all’approccio nozionale-funzionale proposto da Wilkins alla fine degli anni settanta nell’ambito del “Progetto Lingue Moderne” (modulo 9). Con esso ci si riferisce alle categorie concettuali, cioè alle categorie semantico-grammaticali comuni a quasi tutte le lingue del mondo e quindi sempre presenti nelle menti dei parlanti e trasponibili da una lingua all’altra. Tutti gli individui, in quanto esponenti del genere umano, possiedono le nozioni generali, più ampie e astratte, di tempo, spazio, luogo, quantità, relazione, opposizione, possibilità, impossibilità, ecc. Tali nozioni generali, a loro volta, fanno riferimento a nozioni più specifiche, le quali possono differire da una lingua all’altra, poiché in esse si riflettono in misura maggiore i tratti culturali inevitabilmente connessi ai sistemi linguistici. Si tratta, in riferimento alla categoria del tempo, per esempio, di nozioni quali ieri, oggi e domani, dunque passato, presente e futuro, oppure inizio, fine, durata, frequenza, ripetizione, successione, ecc. Queste nozioni interagiscono con le funzioni comunicative della lingua, permettendo a quest’ultima di divenire significativa grazie a quei parametri universali che favoriscono il passaggio da una lingua all’altra. Naturalmente, nel passare dalle nozioni generali a quelle specifiche, sempre più minute, si abbandona il campo dell’universale per entrare in quello del particolare e diventa sempre più probabile incontrare distinzioni limitate alle singole lingue esaminate (B. Cambiaghi, 2000).

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Funzione Riportiamo, di seguito, la definizione fornita dal dizionario di glottodidattica alla voce “funzione” (Balboni 1999: s.v. “Funzione”): “La lingua viene usata per espletare delle funzioni, cioè con degli scopi di azione sociale e di espressione personale. Dai primi del secolo, con Cassirer, attraverso Wittgenstein, Jakobson e altri, fino a Halliday, si sono avuti vari modelli funzionali. I due modelli principali sono quelli di Jakobson e di Halliday. Il primo modello (privilegiato nell’insegnamento della lingua materna) è basato sul modello matematico dell’informazione e individua sei funzioni a seconda dell’elemento della comunicazione su cui viene focalizzata l’attenzione, secondo le seguenti coppie: - emittente: funzione emotiva [o espressiva, per alcuni autori] - destinatario: funzione conativa [o appellativa, per alcuni autori] - canale: funzione fàtica - codice: funzione metalinguistica - argomento: funzione referenziale - forma del messaggio: funzione poetica. […] Il modello di Halliday si basa sull’osservazione dello sviluppo linguistico e individua sette funzioni, che possono essere sintetizzate da brevi espressioni usate per realizzarle: - funzione strumentale: “voglio...”, “dammi...” - funzione interazionale: “io e te”, “ciao” - funzione regolatoria: “fai/facciamo...”, “porta là...” - funzione informativa: “ti dico che...”, “... è fatto così” - funzione euristica: “perché...?”, “come...?” - funzione personale: “mi sento...” - funzione immaginativa: “facciamo finta che...”, “supponiamo che...”. L’approccio comunicativo rimanda al modello di Halliday. Nella glottodidattica italiana si sta diffondendo un modello che integra le analisi di Jakobson e Halliday e individua sei funzioni che si realizzano con un numero limitato (e quindi controllabile e programmabile) di atti comunicativi: - funzione personale: dire il proprio nome, esprimere lo stato fisico, ... - funzione interpersonale: salutare, ringraziare, ... - funzione regolativo-strumentale: chiedere per avere, ordinare, ... - funzione referenziale: chiedere e dare informazioni, ... - funzione poetico-immaginativa: usare la lingua per creare mondi alternativi (“c’era una volta...”) e con rima, similitudini, ecc. - funzione metalinguistica: chiedere e dare il significato di una parola, spiegare una regola, ecc.”.

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Competenza comunicativa (si veda anche il modulo 8) Prendendo le mosse dal concetto chomskiano di competenza (sistema di regole incluse nella mente, grazie al quale è possibile comprendere o produrre un numero indefinito di frasi, anche mai udite prima, formate secondo le regole stesse), la sociolinguistica degli anni settanta, specialmente ad opera di Hymes (ma anche di tutti gli studiosi di etnografia della comunicazione), ha elaborato la nozione di competenza comunicativa, che include la competenza linguistica, quella extralinguistica e quella socio-pragmatica. La competenza comunicativa si definisce dunque come la capacità di usare tutti i codici, verbali e non, per raggiungere i propri fini nell’ambito di un evento comunicativo. In ambito glottodidattico il concetto di competenza comunicativa è stato allargato: oltre alla dimensione legata ai codici linguistici ed extra-linguistici (sapere la lingua e sapere integrare linguaggi verbali e non verbali) e al loro uso in situazione (dimensione strategica, socio-pragmatica e culturale: saper fare con la lingua), è stato inserito anche il concetto di saper fare lingua, cioè della padronanza dei processi cognitivi, oltre che linguistici, che sottostanno alle abilità linguistiche. La naturale conseguenza glottodidattica dell’elaborazione del concetto di competenza comunicativa è stata dapprima la realizzazione situazionale e poi quella nozionale-funzionale dell’approccio comunicativo (Balboni, 1999).

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Profilo d’apprendente Il concetto di “profilo d’apprendente” costituisce oggi un elemento fondamentale per realizzare una didattica fattivamente centrata sul discente, sulle sue caratteristiche e sui suoi bisogni comunicativi. Esso rimanda, da un lato, alle intelligenze (secondo la terminologia di Gardner, le intelligenze spaziale, musicale, psicomotoria, logico-matematica, linguistica, intrapersonale –o pensiero autocognitivo– e interpersonale) e agli “stili cognitivi”, di natura psicolinguistica (stile analitico vs globale, sistematico vs intuitivo, riflessivo vs impulsivo, convergente vs divergente, campo-dipendente vs campo indipendente, verbale vs visuale); dall’altro a un discorso di tipo prettamente acquisizionale, legato al concetto di interlingua e a quello di “profilo strategico”, ovvero alle strategie seguite per concettualizzare i compiti da svolgere (Py 1994, Lambert 1994, Bosisio 2001). Ciò significa, in questo secondo caso, che per tracciare il profilo d’apprendente nella sua globalità è necessario considerare non solo le caratteristiche personali dell’allievo, le sue motivazioni, i suoi obiettivi, il suo atteggiamento nei confronti della L2 (profilo individuale), ma anche il suo livello di competenza nella L2 e le caratteristiche della sua interlingua (profilo linguistico), nonché, per quanto è possibile, il suo “profilo strategico”, che si può rilevare osservando, a medio e a lungo termine, le strategie comunicative seguite dall’allievo, ovvero il suo modo di concepire e quindi di realizzare un determinato compito linguistico. Il concetto di profilo è pertanto un concetto molto complesso, che implica diversi modelli teorici di riferimento e che ha dato luogo a numerose definizioni anche negli ambiti didattico e acquisizionale. Lo schema seguente sintetizza le caratteristiche del profilo d’apprendente in funzione di quelle dell’interlingua (modulo 6) e in prospettiva interdisciplinare (Bosisio 2001:13).

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Français Fondamental Si tratta di un “vocabolario/grammatica” di iniziazione al français langue étrangère realizzato dal CREDIF, a seguito di un’iniziativa dell’Unesco del 1947, tra il 1952 e il 1959 e curato da G. Gougenheim, A. Sauvageot, R. Michéa e P. Rivenc. Il Français fondamental è costituito da una lista di 1475 parole, di cui 1222 termini lessicali e 253 funzionali, risultato di un’inchiesta svolta, per la prima volta, sulla lingua orale, registrando con il magnetofono 275 persone, dette “testimoni”, scelte all’interno di un pubblico eterogeneo per cultura, età, professione e provenienza geografica. I criteri di presentazione del lessico non si limitano alla sola frequenza in assoluto, ma comprendono anche la ripartizione (frequenza relativa, cioè parole che modificano la frequenza, considerando valide solo quelle che ricorrono in un numero alto di testi), e la disponibilità (parole non necessariamente frequenti, ma sempre disponibili nella mente del parlante autoctono).

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Robert Galisson Robert Galisson, curatore della rivista francese Études de Linguistique Appliquée e impegnato fin dagli anni settanta nella definizione di una “didattologia” delle lingue e delle culture, è oggi considerato un esponente di spicco della linguistica e della didattica francesi. A lui si devono moltissimi studi sulla natura epistemologica della glottodidattica, sulla lessicologia e sull’inscindibilità del binomio “lingua-cultura”, sia in termini di analisi linguistiche che di applicazioni didattiche. Fra i suoi lavori più importanti citiamo: R. Galisson, Lexicologie et enseignement des langues: essais méthodologiques,

Hachette, Paris 1979 R. Galisson, Des mots pour communiquer: éléments de lexicométhodologie, Clé

International, Paris 1983 R. Galisson, De la langue à la culture par les mots, Clé international, Paris, 1991 R. Galisson, D. Coste (a cura di), Dictionnaire de didactique des langues, Hachette,

Paris 1976

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Grammatica pedagogica Il concetto di grammatica pedagogica, presente già dalla fine del diciannovesimo secolo, rimanda a una realtà piuttosto complessa e a una grammatica il cui scopo non è più “solo quello di individuare i meccanismi di funzionamento della lingua studiata, ma anche quello di graduarli in ordine di importanza, di individuare per ciascuna regola un nucleo forte da presentare per primo e poi una serie di completamenti (eccezioni, peculiarità, ecc.) da insegnare in seguito, tornando sulle singole regole in un percorso a spirale” (Balboni 1999: s.v. “grammatica pedagogica”).

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L’alfabeto fonetico internazionale (A.P.I.) L’alfabeto fonetico internazionale, definito coi simboli attuali nel 1888, riconosciuto in ambito scientifico internazionale, permette la trascrizione dei suoni di qualunque lingua. Per approfondimenti si veda Galazzi, 1996.

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Henry Sweet Henry Sweet (1845-1912) conosceva molte lingue antiche e moderne, filologo e fonetista insigne scrisse The Practical Study of languages, in cui sosteneva che lo studio pratico delle lingue non doveva essere considerato meno scientifico di quello teorico, e doveva essere sostenuto da una “filologia viva”, cioè da un approccio consistente di psicologia e di linguistica descrittiva soprattutto a livello fonetico. Egli arriva a tratteggiare i momenti del suo “metodo” progressivo: il primo meccanico, il secondo grammaticale, il terzo idiomatico-lessicale, il quarto letterario e il quinto arcaico.

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Otto Jespersen Otto Jespersen (1860-1943), danese, è l’autore di un’operetta Sprogundervisning del 1904, che, una volta tradotta in inglese, e solo parecchi decenni più tardi in italiano, Come si insegna una lingua straniera, diventa un primo, piccolo trattato di glottodidattica, in cui viene presentato il concetto di “grammatica inventiva”, cioè induttiva, funzionale dei “ritrovamenti” (dal latino invenire) delle regole da parte dell’apprendente.

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Harold E. Palmer Harold E. Palmer (1877-1949) tenne i primi corsi serali di didattica delle lingue straniere all’University College di Londra, e si recò in Giappone negli anni ‘20 per pianificare e migliorare l’insegnamento dell’inglese. In The scientific Study and Teaching of Languages e in The principles of language Study insistette molto sull’importanza dell’intonazione e della graduazione del vocabolario. La sua linguistica era costituita dagli studi di lessicologia, di morfologia, di semantica e dagli studi ergonici (cioè sintattici): egli arrivò a costruire una “carta ergonica” della lingua francese, in cui sono studiate le possibili combinazioni di “pezzi” di frase o di sintagmi della lingua francese. L’analisi psicologica del processo di apprendimento stava alla base della sua metodologia, considerata come un processo di “assimilazione inconscia”, per la quale si devono prendere in considerazione soprattutto precedenti studi nella lingua e la motivazione dello studente. L’autore elabora alcuni principi generali ed altri speciali, che toccano la preparazione iniziale, la formazione degli abiti, l’accuratezza, la graduazione, la proporzione, la concretezza, l’interesse e l’ordine razionale di progressione. Anche la segregazione, cioè l’evidenziazione e la messa in luce di un problema linguistico particolarmente difficile da affrontare, deve accompagnare il periodo di incubazione, che porta alla memorizzazione di “pezzi” di lingua assimilabili attraverso l’associazione materiale, la traduzione, la definizione e il contesto.

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Esercizi strutturali Gli esercizi strutturali consistono essenzialmente in un insieme di otto, dieci frasi, simili per forma e diverse per significato, da ripetere o da manipolare, sostituendo o trasformando la struttura linguistica da fissare. Per esempio: Esercizio di ripetizione: Luigi prende la mela Luigi prende la mela. Esercizi di sostituzione Luigi prende la mela Luigi la prende. Luigi prende il libro Luigi lo prende. Esercizi di trasformazione Luigi prende la mela e la mangia Luigi prende la mela per mangiarla. Il rigore di questo approccio consiste nella progressione in difficoltà delle sostituzioni proposte (ad esempio, con riferimento all’ambito grammaticale tradizionale, la fusione di due proposizioni principali coordinate, in una principale ed una subordinata con la sostituzione/impiego di una congiunzione) e nell’attenzione ai molteplici aspetti della lingua (sostituzione del pronome al complemento e insieme sua collocazione all’interno della frase).

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Le funzioni Il concetto di “funzione”, nato nell’ambito della filosofia del linguaggio, ha dato luogo a diversi modelli funzionali, fra cui quelli di Jakobson e di Halliday, i modelli più noti nella didattica linguistica. Il modello di Jakobson, privilegiato nell’insegnamento della lingua materna, si basa sul modello matematico dell’informazione e individua sei funzioni, ognuna relativa alle sei principali componenti della comunicazione:

Componenti della comunicazione Funzioni comunicative Emittente Emotiva

Destinatario Conativa Referente Referenziale Messaggio Poetica

Codice Metalinguistica Canale Fatica

Il modello di Halliday si basa invece sull’osservazione dello sviluppo linguistico e comprende sette funzioni, ognuna legata a specifici scopi della comunicazione:

Scopi Funzioni comunicative primarie Soddisfare i propri bisogni comunicativi Strumentale

Interagire con gli altri Interazionale Gestire i comportamenti degli altri Regolatoria Scambiare informazioni e opinioni Informativa

Scoprire il mondo Euristica Manifestare se stessi Personale

Esprimere la propria creatività Immaginativa Nella glottodidattica italiana si sta diffondendo un modello che, integrando quelli di Jakobson e di Halliday, propone sei funzioni intese come “macro-scopi” comunicativi (Balboni 1994):

Scopi Funzioni comunicative Parlare di se stessi Personale

Interagire con gli altri Interpersonale Agire sul comportamento degli altri Regolativo-strumentale

Descrivere o spiegare la realtà Referenziale Agire sulla forma del messaggio Poetico-immaginativa

Riflettere sulla lingua Metalinguistica Vedi funzione.

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Il Livello Soglia Dal punto di vista della storia dei metodi, la risposta ai bisogni comunicativi degli apprendenti modifica i contenuti dei corsi di lingua, che non sono più graduati secondo parametri di difficoltà crescente, bensì secondo esigenze di funzionalità e di frequenza. Un notevole contributo alla definizione degli approcci nozionale-funzionale e, più in generale, comunicativo, è stato offerto dagli studi promossi nella seconda metà degli anni ‘70 dal Consiglio d’Europa sui bisogni linguistici dei cittadini nei loro spostamenti in altri paesi comunitari. Gli esperti del Progetto Lingue vive del Consiglio d’Europa elaborano a questo scopo i concetti di “Livello Soglia” (livello minimo di competenza linguistica utile per la “sopravvivenza”) e di “unità capitalizzabili di apprendimento” (possibilità di analizzare in parti o “unità” l’insieme dei dati e delle capacità da acquisire in L2). Il Livello Soglia definisce il grado minimo di competenza comunicativa necessario all’adulto per socializzare, ossia per inserirsi nel luogo di studio, lavoro e residenza stabilendo rapporti personali con i nativi. Per ciascuna lingua sono stati individuati le strutture e i vocaboli necessari, distinguendo tra le forme di cui basta una conoscenza ricettiva, al fine di comprendere l’interlocutore, e quelle che devono essere padroneggiate anche sul versante produttivo. La preoccupazione del Progetto Lingue vive di migliorare concretamente il livello dell’insegnamento delle lingue europee contribuisce alla nascita di numerose pubblicazioni gemelle, contenenti i sillabi nozionali-funzionali per inglese, francese, tedesco, italiano e spagnolo, ecc. allo scopo di offrire a docenti e autori di materiali didattici uno strumento utile per la pianificazione dei contenuti dei corsi di lingue per adulti fino a un livello linguistico “di sopravvivenza”. Ecco allora, per esempio: il Threshold-Level del 1973, il Niveau-Seuil del 1976, e il Livello Soglia per l’italiano del 1981.

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Il Livello soglia per l’italiano

Il Livello Soglia per l’italiano è stato elaborato da Nora Galli De Paratesi nel 1981. Il gruppo di riferimento, formato da apprendenti adulti che intendono trascorrere periodi più o meno lunghi in Italia, è ulteriormente suddiviso in sei sottogruppi:

a) visitatori senza lavoro; b) studenti di italiano in università estere o italiane; c) studenti di altre materie presso università italiane; d) tecnici venuti in Italia per corsi di addestramento professionale; e) commercianti che vengono in Italia per affari; f) studiosi che vengono in Italia per scopo di ricerca.

Dati questi destinatari, viene fatta l’analisi dei loro bisogni comunicativi sulla base delle componenti delle interazioni che essi si troveranno ad affrontare in L2:

a) argomenti (lessico di base o specialistico); b) ruoli sociali e psicologici degli interlocutori (interazione fra pari o

inferiore/superiore, scambi emotivamente neutri o con tensioni psicologiche); c) situazioni ambientali (dove si svolge l’interazione); d) interazione connessa con gli argomenti (funzioni comunicative); e) attività linguistiche (orali o scritte); f) atti comunicativi (come esprimere le funzioni comunicative selezionate); g) nozioni generali e specifiche; h) grado di abilità.

Infine vengono presentate le liste degli atti comunicativi e delle nozioni generali e specifiche che costituiscono il corpus su cui potranno basarsi i docenti e gli autori di materiali didattici per graduare i propri contenuti, o per fare gli adeguamenti necessari nel caso di destinatari diversi. A più di venti anni di distanza dalle prime riflessioni sul tema dei bisogni comunicativi, è ormai prassi consolidata che il docente di lingua indaghi sulle variabili individuali degli apprendenti prima di definire i contenuti e successivamente gli obiettivi didattici di un corso.

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Bimodalità “Secondo questo concetto, che è uno dei cardini della neurolinguistica, la lingua non attiva solo le aree di Broca e di Wernicke, cioè le circonvoluzioni dell’emisfero sinistro che governano il linguaggio verbale, ma coinvolge entrambi gli emisferi: - l’emisfero destro (che coordina anche l’attività visiva) ha una percezione globale, simultanea, analogica del contesto e presiede alla comprensione delle connotazioni, delle metafore, dell’ironia; - l’emisfero sinistro (che secondo la teoria della dominanza cerebrale presiederebbe alle funzioni superiori) è la sede dell’elaborazione linguistica, ha una percezione analitica, sequenziale, logica (causa-effetto, prima-dopo) e presiede alla comprensione denotativa. La glottodidattica umanistica, nel suo sforzo di procedere secondo natura, ritiene essenziale attivare entrambe le modalità del cervello, per sfruttare al meglio la potenzialità di acquisizione della persona” (Cfr. Balboni, 1999: ad vocem “bimodalità”).

Torna al paragrafo 10.4.3

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Il modello del Monitor Il cosiddetto “modello del Monitor” si articola in cinque diverse ma complementari ipotesi principali: 1) L’ipotesi dell’acquisizione/apprendimento Tale ipotesi postula l’esistenza di due modi radicalmente diversi e contrapposti

di sviluppare la competenza nella L2: da un lato l’acquisizione, che implica un processo involontario ed inconscio e, dall’altro, l’apprendimento, che invece è consapevole e sistematico, nonché secondario rispetto al primo poiché non avviene, come quello, in contesti naturali o reali, ma è caratterizzato prevalentemente dalla correzione degli errori e dallo studio delle regole.

2) L’ipotesi dell’ordine naturale Similmente al LAD chomskiano, questa ipotesi postula l’esistenza di sequenze

di apprendimento naturali e universali, in base alle quali le regole della lingua vengono apprese automaticamente secondo un ordine prevedibile. La competenza linguistica si sviluppa così seguendo un processo creativo e costruttivo grazie all’interazione tra l’individuo e l’input linguistico con il quale egli viene in contatto, indipendentemente dai modelli strutturali o dagli esercizi presentati.

3) L’ipotesi del monitor Secondo tale ipotesi l’apprendimento consapevole è possibile grazie ad un

monitor, il cui compito è quello di correggere nel migliore dei modi la performance del discente. Tale operazione di controllo avviene tuttavia se si realizzano alcune condizioni particolari: è necessario infatti che il locutore a) disponga di tempo, b) si concentri sulla forma e sulla correttezza, c) conosca, ovvero abbia una rappresentazione mentale della regola da applicare.

4) L’ipotesi dell’input + 1 Perché si verifichi l’apprendimento di una determinata lingua, è necessario che

l’input sia comprensibile: mancando la comprensione, infatti, non può esserci apprendimento. Quando però un discente, giunto ad un determinato livello di conoscenza, riceve un input appartenente ad uno stadio successivo (input + 1), egli può progredire nell’apprendimento poiché, nonostante la novità di tale input, la sua comprensione è resa possibile da altre informazioni quali, per esempio, quella contestuale, quella linguistica o quella extralinguistica.

5) L’ipotesi del filtro affettivo La comprensibilità dell’input, pur essendo una condizione indispensabile per

l’apprendimento della L2, non è tuttavia la più importante: perché l’input diventi intake e si verifichi l’apprendimento è necessario che il discente sia aperto e ben disposto, senza inibizioni, ansie o paure che possono facilmente compromettere ogni processo di acquisizione/ apprendimento:

“Gli individui imparano delle lingue seconde soltanto se riescono ad ottenere un input comprensibile e se il loro filtro affettivo è sufficientemente basso da permettere il passaggio dell’input. Quando il filtro è ‘abbassato’ e viene presentato un input

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comprensibile (e compreso) l’acquisizione è inevitabile – l’’organo mentale linguistico funziona infatti automaticamente così come ogni altro organo’”. (CILIBERTI 1994: 53; cfr. anche KRASHEN S. 1985)

Così è possibile rappresentare schematicamente il ruolo svolto dal meccanismo di monitoraggio, che fa intervenire ciò che si è appreso in modo incidentale e facoltativo in relazione a ciò che si è acquisito:

Sistema appreso

Sistema acquisito Produzione

Krashen ha elaborato questa teoria negli anni Settanta, mettendola alla base del suo approccio naturale e riprendendo la nozione chomskiana di LAD (meccanismo di acquisizione linguistica), con cui individua i principi che ne spiegano la natura e il funzionamento). La distinzione tra acquisizione inconscia e apprendimento razionale si fonda sul fatto che nell’acquisizione è la competenza che genera lingua, mentre l’apprendimento è preposto essenzialmente alla funzione di monitor, cioè al controllo dell’esecuzione linguistica. Perché si attivi il LAD occorre che non sia presente alcun filtro affettivo e che esso riceva un input comprensibile, collocato nel giusto livello dell’ordine naturale di acquisizione. Oltre alle ipotesi suddette Krashen aggiunge una regola, la rule of forgetting: si ha acquisizione senza problemi solo se ci si dimentica che si sta imparando la lingua, solo quando ci si concentra sul contenuto pragmatico e sul portare a termine la transazione in cui si e’ impegnati. La maggiore critica rivolta alla teoria krasheniana è certamente l’opposizione eccessivamente rigida fra i concetti di acquisizione e di apprendimento; oggi non sembra infatti esservi ragione di postulare una così netta differenziazione fra contesti di apprendimento naturali ed istituzionali, poiché sia l’interazione sia la riflessione metalinguistica giocano un ruolo determinante nello sviluppo, anche spontaneo, delle conoscenze linguistiche.

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Delayed oral practice La delayed oral practice è una metodologia che si basa sulla necessità di lasciare un certo tempo tra il momento in cui un testo viene presentato per la comprensione e il momento in cui si chiede allo studente di utilizzare elementi presenti in quel testo. Tale prassi si fonda sul rispetto di quel “periodo silenzioso” che caratterizza sia l’acquisizione della lingua materna sia l’apprendimento spontaneo di una seconda lingua. Per aiutare gli allievi a superare il periodo di silenzio si possono proporre la ripetizione regressiva o forme di drammatizzazione, che riducono il filtro affettivo (cfr. Balboni, 1999).

Torna al paragrafo 10.4.3.1

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Il Bangalore Project Condotto da Prabhu a Madras, in India, nel 1985, questo progetto si basa sull’ipotesi, formulata da Prabhu stesso, che la forma si apprende meglio quando l’attenzione del discente è rivolta al significato. Il progetto consisteva nel proporre agli studenti una serie di problemi da risolvere utilizzando la lingua inglese, che dunque costituiva non più il fine dell’apprendimento, bensì il mezzo per raggiungere un obiettivo “altro”, direttamente connesso alla realtà del discente. Una esemplificazione da parte dell’insegnante precedeva la realizzazione dei compiti, ai quali seguiva un momento di verifica centrato sulla risoluzione del problema piuttosto che sulla lingua prodotta.

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Modello B-A-B semiotico transazionale Riprendendo e integrando i concetti di LAD (Language Acquisition Device) e di LASS (Language Acquisition Support System) di Chomsky e di Bruner, Freddi ha proposto il modello semiotico-transazionale BAB dell’acquisizione linguistica, dove la molecola “BAB” descrive la transazione Bambino – Adulto – Bambino che avviene quando B, con uno scopo pragmatico, si rivolge ad A, il quale fornisce un feedback, linguistico e pragmatico, e a sua volta favorisce l’attivazione del LAD del bambino grazie al proprio LASS. I messaggi che costituiscono la transazione implicano l’uso dell’intero patrimonio semiotico disponibile al bambino e all’adulto (dalla lingua, al pianto, al riso, alla stretta della manina, all’indicazione con l’indice, ecc.).

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I principi minimi della bimodalità emisferica: direzionalità, formalizzazione e affettività Si tratta di principi fondamentali per favorire un processo di acquisizione/ apprendimento coerente con la sua stessa realtà neurologica: la direzionalità permette di sfruttare, nella prima fase dell’accostamento ad una lingua straniera, il ruolo determinante dell’emisfero destro, senza dimenticare quello “dominante”, indispensabile come punto di arrivo di un approccio bimodale per formalizzare le nuove conoscenze secondo procedimenti più propriamente cognitivi; anche l’affettività non può essere relegata in una posizione secondaria, vista l’influenza che l’identità e l’esperienza personale esercitano sull’apprendimento, il quale conseguentemente sarà tanto più efficace quanto più saranno potenziate, attraverso i principi appena esposti, le funzioni complementari dei due emisferi cerebrali.

Torna al paragrafo 10.5

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Il modello integrato di Allen Allen risolve la dicotomia tra i metodi strutturalisti (miranti a sviluppare le abilità linguistiche del discente) e gli approcci funzionali (che invece sviluppano le abilità comunicative) non certo rinunciando ad una delle due prospettive, ma affiancandone ad esse una terza, collegata alle esperienze e alle esigenze personali dello studente. Nel suo modello si riconoscono quindi tre livelli, ai quali corrispondono particolari aspetti didattici (Danesi 1988):

1) il livello strutturale, in cui il discente riflette sui tratti formali della lingua straniera attraverso formule ed esercizi strutturali;

2) il livello funzionale, in cui il discente riflette sulle componenti del discorso esercitandosi nella comunicazione sulla base delle diverse funzioni linguistiche apprese;

3) il livello esperienziale, in cui il discente utilizza la lingua per soddisfare motivazioni e bisogni personali, attraverso un’esercitazione autonoma e un uso autentico della lingua straniera. Tali livelli devono essere affrontati, secondo Allen, in modo ciclico ed interattivo in base alle esigenze che si riscontrano, di volta in volta, durante le lezioni. Per ulteriori approfondimenti si veda anche Pichiassi 1999 (in particolare il capitolo 11).

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L’unità didattica di Freddi L’unità didattica di Freddi costituisce una sorta di “scaletta operativa” suddivisa in sei diverse fasi caratterizzanti lo svolgimento del processo di apprendimento: le fasi della motivazione, della globalità, dell’analisi, della sintesi, della riflessione e del controllo (modulo 12). Essa appare quindi come un “modello operativo” integrato (Porcelli 1994), da rispettare nella sua progressione perché si fonda su particolari esigenze psicopedagogiche, come l’induzione degli elementi linguistici, la natura della comunicazione o la centralità dei bisogni degli allievi. Tuttavia, la successione dei momenti non deve essere considerata un’indicazione da seguire rigidamente ma, com’è implicito in ogni approccio integrato, essa deve essere adattata alle specifiche necessità dei discenti, rendendo così possibile non tanto lo stravolgimento del modello, quanto la compenetrazione, la ripresa o gli approfondimenti di ogni singolo momento.

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Il modello olodinamico di Titone Un modello che, similmente all’unità didattica, prevede momenti di percezione globale, di analisi, di sintesi, di riflessione e di controllo, adattabili ed intercambiabili in base alle necessità della classe, è il modello olodinamico (o glottodinamico) formulato negli anni settanta da Renzo Titone. Sulla base delle più recenti ricerche nel campo della psicolinguistica e della neurolinguistica e, in modo particolare, forte dell’approccio personologico e della natura bimodale dell’apprendimento, Titone postula un modello nel quale individua tre livelli nella psico-struttura del discente, considerata la struttura profonda dell’apprendimento linguistico: il livello tattico, il livello strategico e il livello ego-dinamico. • Il livello tattico “si riferisce all’ordinamento appropriato di ciascun atto esterno in

sequenze significative. L’ordinamento rappresenta il risultato effettivo della programmazione comportamentale, ossia il prodotto finito o la concreta performance in una data situazione. Le informazioni percettive e motorie appartengono a questo piano” (Titone 1976:129). Si tratta, in definitiva, di un livello esterno in cui avviene l’apprendimento degli automatismi verbali.

• Il livello strategico, invece, situato più internamente, è il livello in cui si formulano le regole ed avvengono processi di selezione e di organizzazione. È il piano dei processi cognitivi grazie ai quali si realizza l’acquisizione delle strutture sottostanti i singoli atti comunicativi. “La natura sequenzialmente e finalisticamente ordinata dei singoli atti richiede l’operazione dell’’ordinare’, ossia l’attivamento dei meccanismi di programmazione, che non sono direttamente osservabili ma strettamente ‘mentali’ (intra-psichici) per natura. La mente cosciente, pensante (giudicante e raziocinante) del soggetto è responsabile della strutturazione significativa di ciascun atto” (Titone 1976:129).

• Il livello ego-dinamico è il livello più intimo, “vertice di tutte le operazioni umane in quanto rigorosamente e squisitamente individuale” e da ricondursi all’Io del soggetto, “operante su un livello superiore e controllante tutte le abilità subordinate (strategiche e tattiche)” (Titone 1976:128-129). Può essere inoltre considerato anche un livello affettivo, in quanto sistema aperto e dinamico della personalità e dell’esperienza dell’individuo, dalle quali deriva ogni comportamento linguistico.

Tali livelli, costituenti la struttura profonda dell’apprendimento, sono organizzati gerarchicamente, partendo da quello più interno (il livello ego-dinamico), passando per quello intermedio (il livello strategico), fino a quello più superficiale (il livello tattico) che si “scontra” con la struttura esteriore dell’apprendimento linguistico caratterizzata “dall’uso effettivo dei vocaboli verbali per la comunicazione” (Danesi 1988:35). Questi tre piani corrispondono rispettivamente alla volontà e alla capacità di comunicare, nonché all’atto della comunicazione: elementi che coinvolgono la sfera

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affettiva, cognitiva e psicomotoria di un individuo caratterizzando così un approccio veramente integrato. Dal punto di vista pedagogico, la vastità e l’apertura di questo modello sono riconoscibili nella scelta delle tecniche didattiche utilizzate per sviluppare le varie componenti dell’apprendimento. Ad ogni livello corrispondono, infatti, tecniche diverse e appropriate: per il consolidamento delle abilità tattiche sono da preferire, per esempio, le tecniche sviluppate dai metodi di matrice strutturalista, mentre quelle caratteristiche dei metodi “deduttivi-cognitivi” favoriscono le abilità strategiche e quelle derivate dall’approccio umanistico-affettivo” sono invece più adatte al livello ego-dinamico. (Danesi 1988) Tutto ciò si basa su una visione integrata del processo di apprendimento, in cui, in un contesto didattico, gli elementi positivi di ciascun metodo vengono combinati e adattati alla situazione contingente, sulla base delle caratteristiche, delle richieste e dei progressi dei singoli.

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Il ruolo dell’insegnante oggi Ecco come alcuni autori hanno recentemente definito il ruolo dell’insegnante alla luce dell’approccio integrato e delle attuali tendenze metodologiche: • “Se è vero che un insegnamento rigido e autoritario non è più né ben visto né

oggettivamente accettabile, l’immagine del docente moderno somiglia piuttosto a quella di un consigliere serio e preparato, che sostiene l’apprendente ma non si annulla, anzi lo assiste, osserva la classe e se stesso per migliorarsi, insegna a imparare e a programmare.

[…]. In un certo senso l’insegnante ‘facilitatore’ si fa sempre di più ‘compagno di studi’ non solo in quanto personaggio meno autoritario che condivide le esperienze di classe ma anche nell’atteggiamento ‘riflessivo’ e programmatico, di ricerca continua e modificazione degli atteggiamenti, con una forte propensione ad un approccio ‘cognitivo’ e ‘costruttivistico’ nei confronti della sua attività” (Serra Borneto 1998: 21, 36).

• “Les enseignants de L2 n’ont aucune difficulté à concevoir que le but de la classe

de langue est de faire acquérir à l’élève des connaissances (déclaratives) et des habiletés (procédurales et conditionnelles) qui lui permettront d’interagir de façon significative avec le réel en dehors de la classe. […]. Un penseur, un preneur de décisions, un motivateur, un modèle, un médiateur et un entraîneur. L’enseignant de L2 se reconnaîtra facilement dans plusieurs de ces rôles” (Cyr, Germain 1998 : 113, 115).

• “La langue anglaise a forgé le mot « teacher » (enseignant) du gothique « taiku »,

qui veut dire « signe ». L’enseignant est l’interprète des signes ; sa mission est d’observer ce qui n’est pas remarqué par la multitude, et de révéler ce qu’il a découvert” (Trocmé-Fabre 1994 : 249).

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Estratto n° 1: Roger Ascham (tratto da: Titone, 1986, pp. 60-61) Da Sir Roger Ascham, The Scholemaster, 1570; in particolare «The second booke» (The second booke teaching: the ready way to the Latin tong, pp. 92-107). «D’ora in poi, cercherò di spiegare da quale autorità io sono indotto e da quale ragione sono spinto a pensare che questo metodo della retroversione da una lingua nell’altra debba esclusivamente, o almeno principalmente, essere usato, specialmente con i giovani, per raggiungere un possesso pronto e sicuro di qualsiasi lingua. Ci sono sei procedimenti indicati dagli uomini eruditi per imparare le lingue e accrescere la capacità di eloquenza, e cioè: 1. Translatio linguarum 2. Paraphrasis 3. Metaphrasis 4. Epitome 5. Imitatio 6. Declamatio. Tutti questi si possono usare e raccomandare, ma in ordine e relativamente alle esigenze della persona, della abilità, del luogo e del tempo richiesti. I cinque ultimi sono più adatti al maestro che allo scolaro: più agli uomini adulti che ai bambini: per le università più che per le scuole di grammatica; ma quale sia realmente il migliore secondo la mia opinione per la nostra scuola, e quale debba essere in tutto o in parte rifiutato o accertato per il nostro scopo, io cercherò con buone autorità e con buone ragioni, relativamente a ciascuno e in generale a tutti, di spiegarlo in maniera ordinata.». § Translatio linguarum «La traduzione è facile all’inizio per lo scolaro, e reca insieme molto profitto e da una parte e dall’altra grande possibilità di valutazione da parte del maestro. È l’esercizio più comune e più consigliabile per i giovani: il più comune, poiché tutte le ricostruzioni o analisi che si fanno nelle vostre scuole di grammatica non sono altro che traduzioni; ma siccome non sono vere retroversioni, come io raccomando, l’utilità è limitata [anche perché] non sono accompagnate dall’uso quotidiano dello scrivere, che è l’unica cosa che mette profonde radici, sia nell’intelligenza per una buona comprensione, sia nella memoria per la ritenzione durevole di tutto quanto viene imparato. […] Tullio (Cicerone) nella persona di L. Crassus, di cui dà esempio di eloquenza e di vero giudizio nello studio, non solamente loda particolarmente e sceglie questo metodo della traduzione per un giovane discepolo, ma inoltre sconsiglia e rigetta la sua precedente consuetudine di esercitare mediante la parafrasi e la metafrasi». (Passi scelti e tradotti da R. Titone)

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Estratto n° 2: Michel de Montaigne (tratto da: Titone, 1986, pp. 64-66) Dal libro I, cap. XXVI, degli Essais (a cura di A. Thibaudet, La Pléiade, Paris 1950: 1a ediz. 1580, 2a ediz. 1595; edizione critica sull’esemplare di Bordeaux a cura di F. Strowski, 5 voll., Paris 1906-1933). «Vorrei anzitutto conoscere bene la mia propria lingua, e quella dei miei vicini, con i quali debbo trattare gli affari più comuni. Non v’è dubbio che il greco e il latino sono ornamenti grandi e belli, ma li dobbiamo comprare a prezzo troppo caro. Vi dirò qui come si possono comprare meno cari del solito, secondo un modo sperimentato da me stesso. Chiunque voglia, lo può usare. Il mio defunto padre, dopo aver fatto tutte le indagini possibili a un uomo, tra dotti e sapienti, circa un sistema superlativo di educazione, si rese conto dei difetti predominanti all’epoca; gli fu detto che il tanto tempo che impieghiamo nell’apprendere le lingue, che poi non costavano nulla agli antichi Greci e Romani, era l’unica ragione per cui non riuscivamo a raggiungere la loro grandezza di animo e di conoscenza. Io non credo che questa sia l’unica ragione. Ad ogni modo, l’espediente trovato da mio padre fu questo: mentre ero ancora lattante e prima che mi si sciogliesse la lingua, mi mise sotto le cure di un Tedesco, che morì in fama di grande medico in Francia, del tutto ignaro della nostra lingua e assai ben versato in latino [Il Dottor Horstanus, poi professore di medicina al Collège de Guyenne di Bordeaux]. Questo uomo, che egli aveva chiamato espressamente, e che era pagato assai bene, mi teneva costantemente in braccio. C’erano anche due altri con lui meno istruiti, per curarmi e sollevare lui. Costoro non mi parlavano in altra lingua che in latino. Quanto agli altri familiari della casa di mio padre, era regola inviolabile che né mio padre stesso, né mia madre, né alcun valletto o alcuna cameriera, non usassero altre parole in mia presenza se non quelle in latino che ciascuno aveva imparato per chiaccherare con me. È cosa meravigliosa vedere come tutti approfittarono di questo provvedimento. Mio padre e mia madre impararono abbastanza latino in questa maniera da comprenderlo, e acquisirono sufficiente abilità per usarlo quando necessario, come pure i servi maggiormente dedicati al mio servizio. Insomma, noi ci latinizzammo tanto che il contagio intaccò altresì i nostri villaggi da ogni parte, dove si trovavano ancora parecchi nomi latini per gli artigiani e per gli utensili che hanno preso radice attraverso l’uso. Quanto a me, avevo più di sei anni prima che sentissi parlare francese o perigordiano come se fossero arabo. E senza mezzi artificiali, senza libri, senza grammatica o regole, senza sferza e senza lacrime, io avevo imparato un latino tanto puro quanto era posseduto dal mio maestro, poiché non avrei potuto contaminarlo o alterarlo. Se come prova volevano darmi un tema alla maniera scolastica, mentre agli altri lo danno in francese, a me dovevano darlo in latino grezzo per tradurlo in buon latino. E Nicholas Grouchy, che scrisse il De comitiis Romanorum, Guillaume Guerente, che scrisse un commento ad Aristotele, George Buchanan, il grande poeta scozzese, Marc-Antoine Muret riconosciuto dalla Francia e

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dall’Italia come il migliore oratore del suo tempo, i miei maestri privati, mi hanno spesso ripetuto che nella mia infanzia io possedevo quella lingua in maniera così pronta e scorrevole che essi avevano timore di avvicinarmisi. Buchanan, che io in seguito incontrai nella casa del Maresciallo de Brissac, mi disse che stava scrivendo sulla educazione dei bambini e che prendeva la mia educazione come modello; poiché egli era allora incaricato dell’educazione di quel Conte de Brissac che poi si rivelò tanto valoroso e coraggioso. Quanto al greco, di cui io non ho praticamente quasi nessuna conoscenza, mio padre aveva divisato di farmelo insegnare artificialmente, ma con un metodo nuovo, in forma di divertimento e di esercizio. Noi lanciavamo le nostre coniugazioni come una palla avanti e indietro, come coloro che imparano l’aritmetica e la geometria con giochi del tipo della dama e degli scacchi. Poiché tra le altre cose gli era stato consigliato di insegnarmi a godere della conoscenza e del dovere di mia spontanea volontà e per mio desiderio, e di educare la mia mente con delicatezza e libertà, senza alcun rigore e forzatura. Egli fece tutto con tanto scrupolo religioso che, siccome alcuni pensano che disturba le tenere menti dei bambini lo svegliarli il mattino d’improvviso, e strapparli subitaneamente e violentemente dal sonno, in cui sono immersi molto più profondamente di noi, egli mi faceva svegliare con il suono di uno strumento; e mai mi mancò persona che facesse questo per me. Questo esempio basterà per farvi giudicare del resto, oltre che per lodare sia la prudenza che l’affetto di un padre tanto buono […]. […] quel brav’uomo, avendo tanta paura di fallire in un affare tanto caro al suo cuore, alla fine si lasciò trasportare dalla comune opinione, che sempre segue il capo come in un branco di oche, e si allineò con la consuetudine, non avendo più attorno a sé quegli uomini che gli avevano dato i primi consigli e che egli aveva portato dall’Italia. E allora mi mandò, all’età di circa sei anni, al Collegio di Guyenne, che era allora fiorente e il migliore della Francia. E colà, niente poté essere aggiunto alle cure che egli aveva avuto per me, sia nello scegliere maestri personali competenti che in tutti gli altri aspetti della mia educazione, in cui aveva sostenuto metodi particolari contrari all’uso scolastico corrente. Ma, a parte tutto ciò, era tuttavia una scuola. Il mio latino prontamente degenerò, e da allora, per mancanza di pratica, ho perduto tutta l’abilità di usarlo. E tutto ciò che questa nuova fase della mia istruzione poté ottenere, fu di farmi saltare immediatamente alle classi superiori; poiché quando lasciai la scuola a tredici anni, avevo finito il mio corso (come lo chiamano); e in verità senza alcun beneficio da poter citare ora». (Passo scelto e tradotto da R. Titone)

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Estratto n° 3: Claude de Sainliens (tratto da: Titone, 1986, p. 85) «Rehearse after supper the lesson which you will learn tomorrow morning... and read it six or seven times... then, having said your prayers, sleep upon it... you shall see that tomorrow morning you will learn it easily and soon, having repeated the same but twice». [Prova dopo cena la lezione che imparerai domattina… e leggila sei o sette volte… poi, dopo aver detto le tue preghiere, dormici sopra… vedrai che domattina la imparerai facilmente e in fretta, ripetendola solo un paio di volte] (Passo tratto da C. De Sainliens, The new boy, riportato in Titone, 1986, p. 85; la traduzione è nostra).

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Estratto n° 4: Comenio (tratto da: Titone, 1986, pp. 72-73) Dalla Didactica Magna (ed. ital.: Didactica Magna. Passi scelti. Introd., trad. e note di G. Calò, Cedam, Padova 1956). «Capo XXII. Il metodo delle lingue. 1. Le lingue si imparano non come parte di per sé della erudizione o della sapienza, ma come mezzi con cui possiamo acquisire conoscenze e impartirle agli altri. […] 3. Lo studio delle lingue, specialmente nella gioventù, dovrebbe unirsi a quello degli oggetti, così che la nostra conoscenza del mondo oggettivo e della lingua, ossia la nostra conoscenza dei fatti e la nostra capacità di esprimerli, possano progredire parallelamente. Poiché sono uomini che dobbiamo formare e non pappagalli. 4 Dal che segue, anzitutto, che le parole non si dovrebbero imparare a parte dagli oggetti a cui si riferiscono… Fu questa considerazione che mi indusse a pubblicare la Janua linguarum, in cui le parole strutturate in frasi spiegano la natura degli oggetti e, come si dice generalmente, con non poco successo. 5. In secondo luogo, la conoscenza completa e dettagliata di una lingua, qualunque essa sia, è del tutto non necessaria, ed è anzi assurdo e inutile da parte di chicchessia tentare di raggiungerla. Nemmeno Cicerone (considerato il più grande maestro della lingua latina) era familiare con tutti i dettagli, infatti egli confessò che era ignorante delle parole usate dagli artigiani. […] 7. In terzo luogo, segue che l’intelligenza come pure il linguaggio dei fanciulli debbono essere preferibilmente esercitati su materie che li attraggono… Si usa il tempo in modo migliore con sforzi meno ambiziosi… La natura non fa salti, né li fa l’arte, giacché questa imita la natura. ... Dobbiamo insegnare ai fanciulli prima a camminare e poi a danzare… Cicerone diceva che non poteva insegnare a nessuno a fare discorsi se prima non avesse insegnato a parlare». 8. e 9. (Comenio propone otto regole per l’apprendimento efficace delle varie lingue).

(i) «Ciascuna lingua deve essere imparata separatamente». (Cioè, prima la lingua materna, poi le lingue straniere, e infine il latino. Inoltre ciascuna dopo l’altra e non allo stesso tempo).

(ii) «Ciascuna lingua deve godere di uno spazio determinato di tempo assegnatole». (Più anni per la lingua materna, un anno per la lingua straniera, due anni per il latino, greco in un anno e ebraico in sei mesi).

(iii) «Tutte le lingue si imparano più facilmente con la pratica che con le regole». (Cioè, ascoltando, leggendo, rileggendo, copiando, imitando, e con molta frequenza).

(iv) «Ma le regole aiutano e rafforzano la conoscenza attinta dalla pratica». (v) «Le regole, che riassumono le lingue, devono essere grammaticali e non

filosofiche». (Stabilire ciò che è corretto e come si costruiscono le frasi, e non tentare spiegazioni sulle cause e gli antecedenti dei fatti linguistici).

(vi) « Nello scrivere le regole di una nuova lingua, occorre tenere sempre presente la lingua già nota, così da porre l’accento soltanto sui punti in cui le lingue differiscono». (Una linguistica contrastiva ante litteram!!).

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(vii) «I primi esercizi nella nuova lingua debbono toccare contenuti già familiari». (Altrimenti, la mente sarà costretta a fare attenzione a due cose diverse simultaneamente, le parole e le cose, con evidente indebolimento dello sforzo).

(viii) «Tutte le lingue, perciò, si possono imparare con questo metodo. Ossia, con la pratica, associata alle regole più semplici, che si riferiscono solamente ai punti di differenza con la lingua già conosciuta, e mediante esercizi relativi a qualche oggetto familiare».

(Passi scelti e tradotti da R. Titone, a cui appartengono i commenti tra parentesi).

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Estratto n° 5: Abbé Pluche (tratto da: Borello, 1996, p. 41) Il linguaggio è un fenomeno in parte naturale e in parte artificiale, frutto di convenzioni. La componente naturale ha carattere universale, derivando da Dio. Naturale è quindi parlare usando espressioni che riflettono funzioni logiche: sono quindi naturali le parti del discorso. Perciò è possibile una codifica universale delle strutture del discorso, entro cui collocare le specifiche determinazioni delle singole lingue. L’aspetto pratico più rilevante è infatti la diversificazione delle singole lingue, le cui mutazioni avvengono storicamente non a causa di leggi logiche, ma per convenzioni, dovute al mutare di situazioni interne ed esterne. Come conclusione inevitabile, Pluche afferma che non è conoscendo le parole od il pensiero che si imparano le lingue, ma tuffando lo studente nel vivo del loro impiego. Le lingue si compongono di tre “strati” successivi: il primo è dato dalla stessa struttura del pensiero, il secondo dai suoni e dalle articolazioni, mentre il terzo si identifica con la letteratura. Si avranno così tre tipi di grammatica corrispondenti ai tre livelli: • la grammatica elementare, contenete le leggi logiche fondamentali del discorso,

corrispondente al 1° livello; • la grammatica propria di ciascuna lingua che specifica le leggi del primo tipo di

grammatica e corrisponde ad un 2° livello; • la critica degli Autori, al 3° livello, che rende conto e manifesta le regole del bello

letterario. Il compito dell’insegnamento linguistico è quello di “mettere in ordine” questi tre livelli. Vi sono infatti due modi differenti di apprendere le lingue: o “attraverso l’uso ed in seguito, se si vuole, tramite la riflessione” oppure con il modo inverso: prima attraverso la riflessione e poi con la pratica. La differenza non è affatto lieve perché la sola via vera, naturale, è la prima: le lingue si imparano con l’uso. In questo senso deve anche esse sfatata l’opinione che il greco ed il latino siano lingue morte: “gli antichi non erano muti e le regole non possono fornirci la lingua qual è nella sua originalità”. Si tratta quindi, mediante la lettura assidua degli autori e la costante ripetizione orale e scritta, di assorbire la lingua globalmente. (Commento di E. Borello a: Abbé Pluche, La mécanique des langues et l’art de les enseigner, 1751).

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Estratto n° 6: François Gouin (tratto da: Borello, 1996, pp. 68-69) Nel suo lavoro, Gouin narra dei difficili tentativi da lui compiuti nell’apprendere il tedesco basandosi sui metodi grammaticali allora in voga, e spiega invece come fosse il figlio un giorno a suggerirgli l’idea destinata a diventare il fondamento del proprio metodo. Il ragazzo era stato condotto a visitare un mulino ed era tornato assai eccitato da quanto aveva visto: voleva un mulino tutto suo e non la smise sino a quando la famiglia non si decise a costruirgliene uno in miniatura. Quando il mulino fu montato, il ragazzino si mise a giocare, riproducendo la scena del mulino reale «non come l’aveva vista, ma come lui l’aveva immaginata tra sé quando l’aveva ‘generalizzata’. Mentre faceva tutto ciò, descriveva ad alta voce le sue azioni, indugiando su una parola, e tale parola era sempre il verbo, mentre le altre parole venivano e svanivano in qualche modo… Fu nel corso di questa operazione, fatta e ripetuta incessantemente, ‘ripetuta ad alta voce’ che un lampo m’attraversò la mente d’improvviso, ed io esclamai a bassa voce tra me e me, ‘trovato! adesso capisco!’. E seguendo con nuovo interesse questa preziosa operazione per mezzo della quale avevo intuito il segreto tanto a lungo inseguito, ebbi la visione di una nuova arte, quella di apprendere una lingua». Gouin sviluppò in chiave glottodidattica questa idea, sviluppando sequenze logiche di eventi semplici (note come “serie di Gouin”). Il suo modo di procedere in classe era il seguente: 1. l’insegnante spiega nella L1 il contenuto generale della scena; 2. esegue le azioni, descrivendo in L2 quanto fa; 3. le azioni vengono segmentate e rieseguite. Tutto ciò avviene prima oralmente, e poi per iscritto. In una selezione abbiamo dalle 15 alle 30 frasi; 50 selezioni costituiscono una serie, ed una combinazione di diverse serie forma una serie generale. Le serie generali sono in tutto cinque: la casa, l’uomo nella società, la natura, le scienze e le professioni. Ogni serie generale è suddivisa: ad esempio la casa si divide in vestiti, acqua, fuoco, riscaldamento, orto, stalle, cucina, giardino, incontri con gente del luogo; la posizione dell’uomo nella società è suddivisa in scuole, chiesa, servizio militare, giochi, feste, malattie; le professioni comprendono il sarto, il cappellaio, il falegname, l’idraulico, il fabbro, il muratore, e così via. L’intero sistema presenta 50.000 frasi ed 8.000 parole. Vediamo come Gouin metteva in pratica il proprio sistema: «… supponiamo di essere ad una lezione di francese, che incomincia con l’esercizio con cui iniziamo gli allievi al nostro metodo: ‘Apro la porta della classe’. In primo luogo annuncio questo scopo e lo presento come tale; poi enuncio nella lingua materna degli allievi i modi in cui, in successione, tale scopo può essere raggiunto: Cammino verso la porta cammino Mi avvicino alla porta mi avvicino Mi avvicino sempre di più mi avvicino di più Arrivo alla porta arrivo Mi fermo alla porta mi fermo

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Allungo la mano allungo Afferro la maniglia afferro Giro la maniglia giro Apro la porta apro Tiro la porta tiro La porta si muove si muove Apro del tutto la porta apro Lascio andare la maniglia lascio andare Lo scopo prefisso è raggiunto. Il mio esercizio non è dettato o scritto sulla carta ma è nelle orecchie e, tramite esse, è penetrato nella mente. Dopo che l’intera classe ha pensato l’esercizio, l’insegnante prende la frase in lingua straniera, isola il verbo cammino e ci butta il verbo francese marche che viene posto in rilievo ripetendolo parecchie volte, lentamente…». L’elemento nuovo introdotto da Gouin nella didattica delle lingue, era la drammatizzazione delle frasi costituenti l’esercizio: la lingua non veniva più considerata come un complesso di elementi isolati e di frammenti di discorso avulsi da un contesto reale. L’associazione, la memorizzazione e la mimica costituiscono i punti cardini di un apprendimento linguistico che veniva incontro alle esigenze di lavorare su esperienze concrete, utilizzando frasi complete in situazioni il più possibile verosimili. (Commento di E. Borello e citazioni da: F. Gouin, L’art d’enseigner et d’étudier les langues, 1880).

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Estratto n° 7: Wilhelm Viëtor (tratto da: Borello, 1996, p. 71) Wilhem Viëtor (1850-1918) pubblicò nel 1882 un volumetto, ampliato nel 1905, dal titolo Der Sprachunterricht [...]: ein Beitrag zur Uberbuerdungsfrage con sotto l’epigrafe Quosque tandem. In questo lavoro Viëtor attaccava con molto sarcasmo tutti i seguaci di Plötz ed insisteva perché la lingua parlata diventasse la base dell’istruzione. L’insegnante deve padroneggiare la fonetica e deve aver vissuto abbastanza a lungo nella nazione straniera per impadronirsi della pronuncia corretta ed essere in grado di insegnarla. È infatti attraverso l’orecchio che il bambino acquisisce la lingua materna, ed è attraverso l’orecchio che un adulto incomincia lo studio di una lingua straniera. Una lingua poi, non si compone di parole ma di “gruppi di parole” (speech patterns), di frasi che significano qualcosa. È quindi necessario smettere di insegnare liste di parole apprese faticosamente, pezzi di frasi privi di interesse, paradigmi grammaticali. La grammatica deve essere appresa induttivamente e la traduzione deve essere considerata un’arte che richiede “molta maturità di conoscenze della lingua straniera prima che vi si possa indulgere”. Le teorie di Viëtor si diffusero in tutt’Europa ed in America, grazie anche alla rivista Die neuren Sprachen da lui fondata. (Commento di E. Borello a: W. Viëtor, Der Sprachunterricht [...]: ein Beitrag zur Uberbuerdungsfrage, 1905).

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Estratto n° 8: Maximilian Berlitz (tratto da: Titone, 1986, pp. 143-144) Da M.D. Berlitz, Berlitz Method for teaching modern languages (M.D. Berlitz Publ. New York 1907, pp. 3-6, 9-10, 19). Dall’introduzione: Il metodo Berlitz per l’insegnamento delle lingue.

«Tutti imparano il tedesco o qualsiasi altra lingua assai meglio ascoltandolo parlare in casa, negli affari e in chiesa, che dai libri». Martin Lutero

«Il metodo Berlitz è una imitazione del processo naturale con cui il bambino impara la lingua materna. In esso, la traduzione come mezzo per acquisire una lingua straniera è stata abbandonata interamente. Dalla prima lezione, lo studente ascolta solamente la lingua che sta studiando. Le ragioni di questa modalità di introdurre la nuova lingua sono le seguenti: 1. In tutti i metodi traduttivi, gran parte del tempo è occupata da spiegazioni nella lingua materna degli studenti, mentre ben poche parole nella lingua da imparare sono dette durante la lezione. È ovvio che tale procedimento è contrario al buon senso. 2. Colui che cerca di acquisire una lingua straniera mediante la traduzione, non riesce ad afferrarne lo spirito né si abitua a pensare in essa; al contrario, ha sempre la tendenza a basare tutto ciò che dice sopra ciò che direbbe nella sua lingua materna […]. 3. La conoscenza di una lingua straniera acquisita tramite la traduzione è necessariamente difettosa e incompleta; poiché non esiste per ciascuna parola di una lingua l’esatto equivalente nell’altra. Ogni lingua ha le sue peculiarità, le sue espressioni idiomatiche e giri di frase, che non si possono rendere con la traduzione. Inoltre, le idee convogliate da una espressione in una lingua sono frequentemente non le stesse di quelle convogliate dalle stesse parole in un’altra. Questo fatto innegabile da solo basta a mostrare chiaramente che tutti i metodi traduttivi sono difettosi, e prova che ogni lingua va imparata per se stessa. Ciò è anche confermato dalla ben nota esperienza del viaggiatore in un paese straniero. Egli impara con poco sforzo la lingua straniera, mentre lo studente a scuola, nonostante il suo faticoso lavoro sulla grammatica e sugli esercizi di traduzione, invano cerca per anni di ottenere gli stessi risultati. L’istruzione mediante il Metodo Berlitz è per lo studente quello che il soggiorno in un paese straniero è per il viaggiatore. Egli ascolta e parla soltanto la lingua che desidera imparare, come se si trovasse in un paese straniero. Ha tuttavia il vantaggio che la lingua è stata disposta per lui in maniera metodica e sistematica. Allo scopo di farsi capire, il maestro nel Metodo Berlitz fa ricorso dapprima a lezioni-oggetto. Le espressioni della lingua straniera vengono insegnate in diretta associazione con la percezione; lo studente così si forma l’abitudine di usare la lingua straniera spontaneamente e facilmente, come con la sua lingua materna, e non nelle

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inutili giravolte della traduzione. Le difficoltà della grammatica, che sovente sono create solo dalla traduzione e dal conseguente paragone con la lingua materna, sono grandemente alleggerite. … È anche evidente che il valore delle varie parole e costruzioni si comprende molto meglio e più facilmente per mezzo degli esempi pratici e vividi delle lezioni-oggetto (lezioni basate su oggetti concreti) che non per mezzo delle regole astratte della grammatica teorica. Ciò che non si può insegnare mediante lezioni-oggetto, si chiarisce mettendolo in un contesto appropriato: cioè, le parole nuove sono usate insieme ad espressioni già acquisite in tal modo che il significato del nuovo diviene perfettamente chiaro dal suo legame con ciò che precede e segue. Negli stadi più avanzati, le parole nuove vengono sovente spiegate mediante semplici definizioni contenenti il vocabolario già acquisito. L’intiero blocco di parole usate nelle lezioni è offerto principalmente in forma di conversazione tra insegnante e studente. L’ordine seguito è tale da fornire sempre il più necessario e il più utile in primo luogo, così che, se lo studente interrompe dopo solo poche lezioni, ha acquisito una conoscenza sufficiente della lingua da essere capace di farne un uso pratico. […]». (Passi scelti e tradotti da R. Titone)

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Estratto n° 9: Otto Jespersen (tratto da: Borello, 1996, p. 86) «…la prima condizione per una buona istruzione nelle lingue straniere sembrerebbe quella di fare in modo che l’allievo abbia il massimo da lavorare con la lingua stessa ... deve esservi immerso e non ricevere una spruzzata ogni tanto; bisogna buttarcelo dentro, e deve essere portato a sentirsi come nel proprio elemento, in modo che possa divertirsi come un buon nuotatore». (Passo scelto da E. Borello, tratto da: O. Jespersen, Come si insegna una lingua straniera, Firenze, Sansoni, 1935; ed. inglese: How to teach a foreign language, London, Allen & Unwin).

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Estratto n° 10: Harold Palmer (tratto da: Borello, 1996, p. 89) In The principles of language study […], Palmer definisce il proprio metodo come un “multiple line of approach”, cioè una scelta di tutte le tecniche utili per l’apprendimento: all is good which tends towards good. Ogni metodo secondo Palmer può essere utile in un dato momento per un determinato scopo: non bisogna farsi condizionare da un metodo particolare, escludendo ogni altra possibilità. A proposito della traduzione ecco, ad esempio, cosa scriveva: “…At appropriate moments and for specific purposes, make the fullest use of all sorts of translation work; at other moments, and for other purposes, banish translation entirely”. (Commento di E. Borello e citazioni da: H. Palmer, The principles of language study, 1922).

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Griglia di analisi dei manuali (Tratto da C. Bosisio, Appunti del corso di didattica dell’italiano come lingua seconda, a.a. 2003/2004, materiale utilizzato per lavori di gruppo)

Titolo

Anno di pubblicazione

Analisi della prefazione/introduzione: Destinatari (adulti, adolescenti, bambini, …) Obiettivi esplicitati Ore previste Osservazioni particolari

Tipo di metodo/approccio : - Formalistico - Diretto - Strutturalistico (*Audio-orale / *Audio-visivo) - Funzionale-Comunicativo (*Situazionale / *Nozionale-funzionale) - Umanistico-Affettivo - Altro (approccio integrato, …)

Materiale: Libro dello studente – Eserciziario – Cassette (quante e quali) – Cd – Video – Cd-Rom – Altro

Struttura generale del metodo *Organizzazione in lezioni / unità / moduli *Tipo di presentazione (tematica, funzionale, altro)

Contenuto: Ruolo della grammatica e tipologia di presentazione (approccio

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deduttivo/induttivo); tipo di progressione degli argomenti grammaticali Ruolo del lessico e tipologia di presentazione (liste, mappe semantiche, ecc.); tipo di progressione degli argomenti lessicali

Ruolo della fonetica e tipologia di presentazione

Ruolo della civiltà e tipologia di presentazione

Livelli di lingua e tipologia di presentazione

Aspetti interculturali

Ruolo dell’orale

Ruolo dello scritto

Tipologia degli esercizi: natura, obiettivi e progressione

Attività di valutazione / auto-valutazione / recupero

Presenza di documenti autentici, di testi “semplificati” e di testi “facilitati”

Ruolo della L1

Ruolo dell’insegnante

Ulteriori Osservazioni – Commenti – Utilità

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