Mistero - Scrittura e Editoria | Abaluth · La mattina dopo Fiona affondava i piedi nella sabbia...

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MisteroErika Marzano, Paolo Dapporto, Giovanna Bertino

Lorenzo Lucidi, Alphaorg, Lucio Musto, Marco MorettiSilvia Tamburini, Lavella, Francesca Vernazza

The Royal, Vania Panizza, Dora Carbone

CopertinaIlaria Tuti

Editing e impaginazioneFabrizia Scorzoni

Prima edizione marzo 2015

Questo ebook è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-NDÈ consentita la riproduzione, parziale o totale, dell’opera e la sua diffusione a uso personale dei lettori, purché sia riconosciuta l’attribuzione dell’opera al suo autore, l’opera non venga modificata e non venga riprodotta a scopo commerciale.http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

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Sommario

Talulah........................................................................................1Alice Springs............................................................................11Un Cielo Giallo Di Ali.............................................................18Vecchio Amico.........................................................................25Vacanze romane.......................................................................35Il Tempio..................................................................................42Sorrisi in piscina......................................................................46Tra sogno e realtà.....................................................................50Lo chiamavano “aguzzino”......................................................60Sogno o realtà?.........................................................................63Il giornalista tedesco Kurt Kisseler e il caso Konrad-Schauberger................................................................69Paura del buio..........................................................................78Non Ti Scordar di Me..............................................................88

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AbaluthMistero

TalulahErika Marzano

Col dito ticchettava sulla scrivania, era sempre così quando doveva cominciare un nuovo pezzo. Tornare a casa non era stata una grande idea, ma non aveva avuto scelta. La rivista aveva deciso di assumere solo pochi stagisti e tenere gli altri come freelance. A Hvalba tutti e settecentosessantadue gli abitanti non l’avevano accolta con gioia, né lei se l’era aspettata. “Col tempo cambieranno” l’aveva rassicurata il prozio dal quale risiedeva, “è stato così anche per Dalen e invece adesso tutti lo adorano! Dalen di qua, Dalen di là…”

Dalen era uno dei pochi amici d’infanzia di cui aveva mantenuto il ricordo, si divertivano a giocare sulla spiaggia e a dar fastidio ai pescatori che li sopportavano. Anche Dalen era “fuggito” una volta raggiunta la maggiore età, ma problemi di alcol, droga e giudiziari l’avevano convinto a tornare alle origini e darsi alla nobile arte della pesca, settore nel quale era impiegato il novanta percento della popo-lazione maschile di Hvalba, l’altro dieci percento era ancora troppo piccolo per praticare.

Qualcuno bussò e il prozio Lasse corse ad aprire.«Toh, guarda un po’ chi c’è! Stavamo parlando proprio di te…

entra, entra e dammi questo che deve pesare.» Il prozio non si rendeva conto di essere vecchio ormai e a fatica prese dalle mani del giovane una cassa contenente ghiaccio e pesce. Dalen entrò e si tolse il berretto; gli abiti un po’ troppo larghi e sgualciti erano quelli appar-tenuti a suo nonno; nel panorama di Hvalba non si sarebbe distinto se non fosse stato per i lunghi capelli biondissimi tenuti raccolti in una coda di cavallo, la barba incolta che gli scendeva sul mento e un pier-cing al labbro inferiore.

Un po’ in imbarazzo e tormentandosi il berretto con le mani entrò e seguì Lasse con lo sguardo finché non appoggiò la cassa.

Con un cenno della mano il prozio Lasse lo invitò a sedersi e gli

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versò qualcosa di caldo, solo allora Dalen si accorse della presenza di Fiona e quasi sobbalzò sedendosi di fronte a lei dall’altro lato del piccolo tavolo quadrato.

«Allora è vero, sei tornata.»«Sembra proprio di sì» rispose Fiona chiudendo il MacIntosh per

avere la visuale sul ragazzo un po’ più chiara.«Avevo sentito qualcosa a proposito giù al villaggio, ma non volevo

crederci. “No” mi sono detto, “Fiona non è il tipo.” E invece…»«Temporaneo! È tutto solo temporaneo…» Fiona alzò una mano

davanti a sé quasi per proteggersi da certe “accuse”. «Devo trovare l’ispirazione per un pezzo.»

«Il giornale non l’ha assunta a tempo pieno» s’intromise Lasse, «e il suo ragazzo l’ha lasciata. Vivevano a casa di lui, sai…» Fiona lanciò uno sguardo glaciale al prozio che ridacchiò.

«Capisco. Quindi starai qui per un po’, scriverai il tuo pezzo su Hvalba, vincerai il Pulitzer e andrai a vivere in una grande casa con piscina sulla terraferma.»

Fiona non sopportava quello humour faroese. «Oh, è un’alterna-tiva! Oppure potrei mandare a puttane la carriera e pescare salmoni per il resto della mia vita» rispose a tono.

La frecciatina era evidente, la stanza si fece improvvisamente ghiacciata e silenziosa.

Lasse provò a convincere il ragazzo a rimanere per cena, ma invano. Dalen disse che aveva da fare e scusandosi lasciò la casa.

«Sei stata crudele» sentenziò il prozio Lasse mettendosi a cucinare la cena.

«Domani andrò al porto a scusarmi, chissà magari troverò l’ispira-zione.»

La mattina dopo Fiona affondava i piedi nella sabbia bagnata avvi-cinandosi al molo dove i pescatori si accingevano a tornare dopo una mattinata di pesca, si teneva stretta in quel cardigan troppo leggero per il vento del mare del Nord. Scrutò attentamente tutti i pescatori presenti senza però scorgere il ragazzo. Nessuno sembrò accorgersi della sua presenza tranne un vecchissimo individuo che sedeva sulla

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sua barchetta rotta arenata sulla spiaggia fumando la pipa. I loro sguardi s’incrociarono, quello dell’uomo rude e selvaggio, quello della ragazza giovane e curioso.

«Heilà, come va?» Di tutta risposta l’uomo si calzò il berretto fin sugli occhi e girò lo sguardo.

“Cominciamo bene!” pensò Fiona, “Vabbè riproviamoci.”«Per caso conosce Dalen? Sa, il giovane pescatore?»«Eccolo là che arriva!» Non era stato il vecchio a rispondere ma un

pescatore di mezza età che indicava un punto in mare aperto. Una barchetta piena di persone si stava avvicinando, verso la riva il ragazzo saltò giù e aiutò gli altri a scendere. Fiona gli si avvicinò.

«Ciao.» Non ricevette risposta «Volevo chiederti scusa per quello che ho detto ieri sera. Non sto attraversando un gran bel momento, sai.»

«Non hai niente di cui scusarti, hai ragione. Tranne per una cosa. Io non ho avuto nessuna carriera da mandare a puttane, l’unica cosa ad andare a puttane era la mia vita e qua me ne sto facendo una. Mi dispiace per il tuo lavoro… e per il tuo ragazzo.» Fiona scrollò le spalle.

«Novità?» chiese un uomo trafelato che era appena arrivato di corsa dal villaggio.

«Nessuna» rispose il giovane pescatore, «è ormai trascorso troppo tempo. Non c’è più niente da fare.»

«Novità su che cosa? Da cosa è passato ormai troppo tempo?» domandò Fiona.

«Da quando Talulah, una bambina del villaggio, è scomparsa neanche una settimana fa. Per questo non mi hai trovato quando sei arrivata, ero al largo in perlustrazione. Una mattina sono state trovate le sue scarpette proprio qua al molo, ordinate» Dalen indicò un punto sulla spiaggia, «e di, lei nessuna traccia.»

«Oh Dio, quanti anni aveva? Pensate si sia fatta una nuotata e le onde l’abbiano portata via?»

«Dieci, undici anni forse. Quella bambina era una vera faroese, nuotava come una foca e quel giorno era bel tempo e il mare era

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calmo. Io penso si sia suicidata.»«Suicidata? Una bambina di dieci anni? Impossibile! Qui i

bambini vivono allo stato brado senza un problema per la testa. Perché avrebbe dovuto suicidarsi, Talulah?» domandò l’uomo arri-vato dal villaggio.

«Io sono convinto sia nascosta in qualche grotta e ci stia tirando un brutto scherzo» affermò Dalen. «TALULAH SE MI SENTI, TORNA A CASA! TUA MADRE E I TUOI FRATELLI SONO IN PENSIERO»urlò al vento.

«Ah sta’ zitto!» sputacchiò il vecchio, «sapete tutti come è andata e volete negare l’evidenza.»

«Perché? Com’è andata?» domandò Fiona curiosa.«Sta’ zitto tu, nonno» lo interruppe l’uomo rabbioso, «tu e le tue

stupide superstizioni, vecchiaccio che non sei altro. Torna a casa dalla nonna o ti caccio via a pedate.» Il vecchio, offeso, afferrò il bastone e pronunciò qualche bestemmia verso il nipote prima di incamminarsi sul sentiero verso il villaggio.

Fiona era rimasta scossa.«Non potrebbe essere là?» domandò lei indicando un punto indefi-

nito verso il mare.«Là dove? Non vedo niente con questa nebbia.»«Credo stia indicando l’isola di Lítla Dímun, ma non so come

faccia a vederla» intervenne Dalen.«Ma che dici? L’isola di Lítla Dímun non è altro che un fazzoletto

di terra di un chilometro quadrato abitato da foche e uccelli. E poi come ci sarebbe arrivata, Talulah? A nuoto?» Ridendo se ne andò.

«Non so, ho come un presentimento. Mi ci porteresti?»«All’isola? Vuoi andare all’isola?» Il ragazzo si levò il berretto e si

grattò la testa. «Non so, immagino di sì. Ma lui ha ragione: non c’è niente. Comunque se ci vuoi andare ti ci porto in una giornata soleg-giata, senza nebbia. Anzi mi chiedo come tu riesca a vederla.»

«Ma come? È proprio là… non la vedi?»Una foca stesa su uno scoglio urlò il suo assenso voltandosi verso

l’isola.

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«Zio Lasse, conosci un vecchio vecchissimo?» chiese Fiona al prozio una volta tornata a casa.

«Ahah, mia cara, a Hvalba la maggior parte della popolazione è vecchia. Anch’io lo sono.»

«Sì, me ne rendo conto. Ma quest’uomo che ho incontrato stamat-tina era proprio vecchio, segnato, mille rughe, fuma la pipa ed è burbero.»

«Forse ho capito di chi stai parlando, dev’essere il vecchio Stieg. Credo sia l’uomo più vecchio di Hvalba, centocinque anni o qualcosa del genere. Non si è mai mosso da qui, come la maggior parte di noi d’altronde. Lo troverai sicuramente al pub, stasera. Sono anni ormai che gli do birra annacquata, non se ne accorge mica! Ma è la figlia che me l’ha chiesto, è troppo vecchio. Pensa che mi paga ancora con le vecchie corone! Roba da pazzi… ma cosa posso dirgli? “No, vecchio Stieg, sono andate fuori corso queste banconote”. Me le prendo e sto zitto, certo non vado in bancarotta per due spiccioli. Ma tu cosa vuoi da lui?»

«Credo potrebbe darmi uno spunto per l’articolo.»«Me lo auguro mia, cara, ma dubito. Odia il mondo, il vecchio

Stieg, ti avverto.»Il vecchio Stieg era una vita che si sedeva sempre allo stesso

tavolo all’angolo ovest, da lì poteva osservare tutti gli avventori dell’unico pub di Hvalba e giudicarli mentre sorseggiava quell’or-renda birra che sapeva d’acqua. Non si aspettava certo che la ragazza del porto di quella mattina gli si parasse di fronte sedendosi lì.

«Levati! Mi togli la visuale.»«Mi scusi, vecchio Stieg» si giustificò Fiona spostando un po’ di

lato la seggiola di legno scricchiolante, «sono Fiona, la pronipote di Lasse.»

«Certo che lo sei. Guardati, sei identica a tuo padre. Pensava di poter far fortuna sulla terraferma, lui, e invece anche tu qui.»

«Ehm sì, ma è diverso per me, è una situazione temporanea. Ho avuto un po’ di casini.»

«Si può sapere che vuoi da me?»

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«È per qualcosa che ha detto stamattina. Lei ha detto di sapere cosa sia accaduto alla piccola Talulah, anzi affermava che l’intera Hvalba lo sa. Me lo può rivelare?»

«Certo che lo so! Per chi mi hai preso? Non sono mica nato ieri, io! Son state le selkie, non c’è altra spiegazione.» Lo sguardo interro-gativo stampato sul viso di Fiona non aveva bisogno di altre parole. «Dio mio! Le selkie! E tu saresti nata qua? Le selkie, le selkie! Sono creature che possono trasformarsi da foche in donne. Abitano nell’i-sola di Lítla Dímun e quando l’isola è circondata da nuvole è segno che le selkie si stanno trasformando. Quella mattina c’erano le nuvole, me lo ricordo benissimo.»

Qualcuno afferrò Fiona per le spalle e la costrinse ad alzarsi allon-tanandola dal vecchio.

«Perdonala, vecchio Stieg. Queste ragazze di città non sanno cosa sia il rispetto.» Era Dalen, che la portò a un altro tavolo, lontano dal vecchio e dal suo carattere.

«Ma che ti salta per la testa? Fare il terzo grado al vecchio Stieg, roba da pazzi!»

«Non gli facevo il terzo grado, stavo solo…» Fiona venne inter-rotta dalla svampita e formosa cameriera dai capelli rosso fuoco. «Che prendi, dolcezza?» chiese rivolta al pescatore piazzandosi di fronte a Fiona, oscurandone la visuale con l’imponente fondoschiena fasciato nel grembiule.

«Il solito… tu che prendi, Fiona?»«Una limonata.»«Una limonata? A Hvalba? Ma che diamine, fanne due del solito,

Flicka.»«Ma io non bevo.»«Che razza di faroese sei? Fanne due del solito, Flicka» ripeté

Dalen osservando la cameriera ondeggiare verso il bancone.«Come stavo dicendo, non era terzo grado. Stamattina il vecchio

Stieg ha detto di sapere cosa fosse accaduto a Talulah, indagavo ecco tutto.»

«E che tipo di indagini fai, sentiamo? Chiedi a un vecchio rimbam-

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bito di raccontarti delle favolette?»«Non sono favolette, Dalen. Sono convinta che il vecchio Stieg

abbia davvero visto qualcosa. Magari non foche trasformarsi in donne, ma magari una donna arrivata dal mare che si è presa Talulah e l’ha portata via.»

«Fiona, siamo a Hvalba, meno di ottocento abitanti. Nessuno viene dal mare per rapirsi una bambina. È più credibile la teoria del suicidio.»

«Il suicidio? Una bambina di dieci anni che vive in mezzo al nulla si annega volontariamente togliendosi le scarpe prima? È assurdo!»

«Assurdo! Più credibile la storia delle foche, no? E adesso bevi.» Flicka aveva portato due boccali di birra scura e schiumosa.

Di buona mattina Fiona si ritrovò a passeggiare sulle spiagge di Hvalba; questa volta indossava una felpona pesante coi colori della sua università per proteggersi dal freddo. Solo i gabbiani emettevano rumori coi loro versi, il mare era stranamente silenzioso. Neanche i pescatori si erano ancora alzati per andare a pesca. Una foca si godeva la tintarella stesa su un enorme sasso umido, sembrava sorri-desse. Fiona le si avvicinò tanto che poteva quasi sfiorarla se avesse allungato il braccio, ma stava ben attenta a non scivolare.

«Allora?» le chiese, «siete state voi?»«Tu mi credi, non è vero?» Per un attimo Fiona pensò che la foca

le avesse risposto, poi realizzò che la voce rauca e burbera della foca assomigliava un po’ troppo a quella del vecchio Stieg. «Allora, mi credi?» Fiona si voltò. Il vecchio Stieg non aveva cambiato posizione nella sua barchetta rotta, questa volta però aveva un’espressione più conciliante.

«Sì, le credo.»«Non darmi del lei, mi fai sentire vecchio. Ti ho visto crescere da

quando eri una creaturina così.» Fiona non riusciva a credere che questo fosse l’uomo che odiava il mondo che le aveva descritto il prozio Lasse. Bastava solo dargli un po’ di confidenza.

«Non è stato casuale, sai? Tra tanti bambini che vagano da soli per

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l’isola, perché le selkie hanno scelto Talulah? Anche tu scorrazzavi libera e nessuna ti ha mai avvicinato. Allora perché lei?» Fiona si sedette accanto all’uomo nella barchetta per ascoltare meglio, senza staccare gli occhi dall’isola di fronte a lei.

«Il motivo è semplice, Talulah era imparentata con le selkie. È una storia che il padre di mio nonno ha raccontato a lui, lui a mio padre e così via. Mio nipote l’hai visto, no? Quindi ora la racconto a te. È la storia del pescatore Kalsoy che un giorno scovò una selkie nell’atto di trasformarsi, sai a quel tempo le foche erano cacciate perché consi-derate una prelibatezza! Il pescatore conosceva bene quelle creature, non era tutto un tabù come oggi, così, incantato dalla bellezza della giovane, seppe subito cosa fare: rubò la pelle della foca. Una selkie privata della sua pelle è costretta a rimanere sotto forma umana, così sposò Kalsoy ed ebbe ben undici figli con lui. La moglie straniera del pescatore, come la chiamavano a Hvalba, era scorta spesso intenta a osservare il mare. Kalsoy custodiva la pelle in un cassetto chiuso a chiave all’insaputa della moglie, ma un giorno una delle figlie aprì il cassetto con la chiave che il padre aveva dimenticato a casa e corse dalla madre: “Come mai papà tiene una pelle di animale nascosta in un cassetto?” Quando Kalsoy tornò a casa trovò tutti e undici i figli sulla spiaggia, della moglie nemmeno una traccia. Perché una volta che una selkie ritrova la propria pelle né catene d’acciaio né le catene dell’amore possono tenerla lontana dal mare. Kalsoy non rivide mai la moglie, ma i suoi figli furono spesso visti giocare con le foche tra le onde, per quello fu ordinato di non far del male a una singola foca. Ora vedi, la peculiarità della moglie straniera di Kalsoy erano i lunghi capelli ricci e neri, un tratto davvero strano tra di noi, non trovi? Eppure Talulah era così. E poi, perché la bambina avrebbe lasciato qui le scarpette se non per saltare in groppa a una foca? L’hanno portata lì all’isola di Lítla Dímun dove abitano. La moglie straniera di Kalsoy, alla fine, si è ripresa quello che era suo.»

«Fiona, sei pronta?» Dalen era spuntato dal nulla e stava già prepa-rando la sua barchetta.

«Sì, arrivo. Grazie mille vecchio Stieg, sto andando all’isola.»

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«Sta’ attenta: se alle selkie piace qualcuno, loro se lo prendono!» Fiona non capì se stesse parlando di lei o di Dalen così saltò nell’im-barcazione e prese posto di fronte al ragazzo che accese il motore.

«Ti sei fatta incantare dalle favolette?»«Le sa raccontare il vecchio Stieg. No, comunque. Sono cosciente

che non sono state le selkie a rapire Talulah. Ma c’è qualcosa che mi spinge ad andare a vedere.»

Pochi minuti dopo avevano già attraccato a uno scoglio di fortuna all’isola di Lítla Dímun. Le foche che vi abitavano tranquille si esal-tarono a veder arrivare gente tanto che cominciarono a saltellare buffamente per raggiungerli.

«Io ti aspetto qui, fai un giro e poi ti riporto a Hvalba. Non voglio perdere una giornata di pesca.»

Più Fiona camminava tra rocce e muschio e più si rendeva conto di quanto assurda fosse quella teoria. L’isola non era nient’altro che una scogliera muschiata che millenni prima si era staccata dalla terra ferma, buona soltanto per farci un picnic una domenica d’agosto, tutto qui. Qualche gabbiano le gironzolava attorno curioso, le foche si gettavano utilizzando i faraglioni come trampolini. Arrivata esatta-mente al punto opposto a dove avevano attraccato, Fiona notò qual-cosa che la sconvolse: delle impronte di piedi nudi impresse sulla sabbia bagnata. Vi avvicinò la scarpa e notò come le impronte fossero piccole in confronto.

«Dalen» urlò. «DALEN!» Il pescatore corse da lei, pensando che la ragazza fosse in pericolo, ma quando arrivò la vide in piedi sulla spiaggia circondata dal nulla.

«Ma che cazzo? Mi hai fatto prendere un colpo! Che c’è?»«Guarda sulla spiaggia! Le impronte di un bambino!» Le indicò.«Io non vedo proprio niente.» Fiona guardò di nuovo ma tutto era

scomparso.«Te lo giuro, erano proprio lì. Dev’essere stata un’onda, le ha

cancellate via. Come potevano esserci orme fresche di bambino?»«Con la suggestione, ecco come! Ti sei fatta suggestionare dalle

storielle del vecchio Stieg. Torniamo indietro, Fiona. Venire qui non

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ti ha fatto bene, avresti dovuto trovare qualcosa da fare a Copena-ghen. Non è posto per te questo.» A forza la trascinò via verso la barca.

Per tutto il tragitto di ritorno Fiona rimase in silenzio convinta di quello che aveva visto.

Arrivati a riva la spiaggia non era più deserta come prima, i pesca-tori si stavano muovendo intorno alle loro imbarcazioni.

Dalen si fece assicurare da Fiona che stava bene e che aveva semplicemente preso un abbaglio, dopodiché si convinse e uscì in mare insieme ai compagni.

Fiona rimase nuovamente sola con il vecchio Stieg e la sua pipa.«I suoi capelli erano lucidi, i suoi occhi color verde foglia in

primavera. Notavo le piccole cose, come non voleva mai indossare il maglione o come sapeva legarsi i lacci delle scarpe. Con un sorriso riusciva ad aiutarti nei momenti in cui ti sentivi perso o vecchio, come me. Ah, Talulah, dove sei? Le selkie ti hanno portata in un luogo in cui la luce proviene esclusivamente dai tuoi occhi. Vedo la tua pelle trasformarsi in un grigio viscido… Ah, Talulah, dove sei?»

Smise di parlare e con l’indice ricurvo per l’artrite Stieg indicò l’isola davanti a loro. «Guarda dritto verso di te, Fiona.»

La ragazza, ancora scossa, guardò: un gruppo di nuvole grigie stava cominciando ad addensarsi attorno al fazzoletto di terra; ai suoi piedi una foca saltellò verso di lei spingendola in mare. Sempre più al largo, sempre più al largo, sempre più al largo.

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Alice SpringsPaolo Dapporto

«L’Australia non è una nazione per giornalisti» sbottò Edith Ross, osservando con rassegnazione il vuoto sulla scrivania dove, accanto al portatile, sonnecchiava solitario un fascicolo polveroso.

Il sogno di Edith era vivere e lavorare a Londra, la città dove era nata e che all’età di quindici anni aveva dovuto lasciare per andare a vivere in Australia insieme alla famiglia. Un trauma che non aveva mai perdonato a suo padre.“Là sì che ne succedono di cose, non come in questo continente

dimenticato da tutti.”Si alzò decisa e andò a bussare alla porta di Arthur Kerr, il capore-

dattore del “Sidney Telegraph”. Arthur non era ambizioso come Edith e non si preoccupava per il giornale. Di notizie interessanti ne trovava tutti i giorni e, se non erano proprio interessanti, nel gonfiarle era un vero maestro.

Fece sfogare la giornalista prima di interromperla con una risata. Non era la prima volta che andava a lamentarsi da lui.

«Fatti venire un’idea, Edith! Vai in giro per le strade del centro con un coltello, fai a pezzi gli ubriachi del sabato sera e scrivici sopra un bell’articolo come sai fare tu. Ti prometto che finirà in prima pagina.»

Edith non era in vena di scherzi e uscì furiosa dalla stanza del capo sbattendo la porta. Rientrata nel suo ufficio, cercò di calmarsi.

“È un pallone gonfiato, ma non ha tutti i torti: devo farmi venire un’idea.”

Ne scartò tante, finché cominciò ad accarezzarne una.“Cold cases, come ho fatto a non pensarci prima!”Si precipitò in archivio e aprì i cassetti alla ricerca di vecchi casi

che né polizia né giornalisti erano riusciti a risolvere. Dopo aver scar-tato una ventina di fascicoli, fu attratta dall’etichetta di una cartella

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verde: “21 dicembre 1900. Scomparsa di Miranda Monroe nei pressi di Alice Springs”.

All’interno non c’era molto materiale, ma le bastò per rendersi conto dell’interesse che poteva ancora suscitare quell’episodio.

La dottoressa Ross aveva trovato il caso da riportare al caldo.

***

Il caldo, ad Alice Springs, era l’unica cosa che non mancava. La città, alle soglie dell’estate australiana, era una fornace. La prima impressione di Edith fu che quello non era un posto per viverci, ma solo la tipica cartolina dell’Australia da inviare alle zie di Londra: l’Overland Telegraph Line, i canguri, i dingo, la stazione ferroviaria dove arrivava un solo binario, non si sa da dove e per dove, e un vento che si trascinava dietro la sabbia del deserto di Simpson che ricopriva di un colore rossastro le poche macchine che osavano tran-sitare per le strade semideserte.

Il commissario di polizia Henry Grant la ricevette nel suo ufficio. Un uomo anziano, più o meno dell’età di suo padre, alto, distinto, cortese. Edith notò la foto di una giovane ragazza bionda sulla scrivania.

«Dottoressa Ross, quando mi hanno avvisato del suo arrivo, ho ripreso in mano il fascicolo di Miranda Monroe. È passato un secolo, ma del caso di quella ragazza ad Alice Springs se ne parla ancora in giro. Immagino sia difficile da capire per una persona come lei che vive in una metropoli, ma qui, in questa cittadina sperduta nel deserto, non succede mai niente di cui valga la pena parlare…»

«La capisco benissimo, commissario» l’interruppe Edith.«Bene! Miranda, una studentessa del collegio ”Tropic Line”, sparì

nel nulla e le ricerche non dettero nessun risultato. La polizia dopo un anno chiuse le indagini con una affermazione sorprendente: erano da escludere omicidio, rapimento, suicidio, morte accidentale e allon-tanamento volontario. Ho cercato anch’io di ricostruire la storia per cercarne un senso, per trovare un appiglio, ma niente. È un rebus, un nonsense, come si dice oggi.»

«Ho letto quelle poche carte in possesso del mio giornale. Non

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dico la soluzione, ma almeno un’ipotesi…»«Il “Tropic Line” a quei tempi era il collegio femminile più esclu-

sivo e riservato dell’Australia. Per figlie di famiglie ricche, mi capisce? Le ragazze, tra i diciassette e i venti anni, erano controllate in modo rigoroso dalle istitutrici. Il punto di forza del collegio, tanto da diventarne lo slogan, era la sicurezza dai pericoli del mondo. Quello che chiedevano i genitori.»

«Mi scusi, commissario, ma il giorno della scomparsa le ragazze erano in gita all’aperto, sulle colline qui vicino. Miranda potrebbe aver approfittato della situazione per fuggire, oppure qualche malin-tenzionato potrebbe averla rapita per chiedere un riscatto e qualcosa è andato storto. I genitori di Miranda dovevano essere persone ricche.»

«Eventi molto improbabili, per non dire impossibili, con tutta la gente che aveva intorno Miranda sia durante il viaggio in carrozza che durante la colazione all’aperto: insegnanti, personale del collegio, compagne. Le riassumo i fatti. Il 21 dicembre di cento anni fa, come succedeva ogni anno, il “Tropic Line” organizzò una gita fino alle pendici dei monti Mac Donnell. Si festeggiava il solstizio dell’estate australiana che coincideva con l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. La gita era l’evento più atteso dalle ragazze, che quel giorno erano quasi cinquanta. Nessuno, le ripeto, nessuno, avrebbe potuto né avvicinarsi né allontanarsi dal gruppo senza essere notato.»

«Posso dare un’occhiata al fascicolo?» chiese Edith senza troppe speranze. Dopo quasi dieci anni di professione, sapeva che la polizia non passa mai ai giornalisti le proprie carte.

«Lei è arrivata da Sidney sobbarcandosi mezza giornata di aereo e merita qualcosa di più. Il fascicolo glielo lascio, così lo potrà esami-nare con calma nella sua camera d’albergo dove l’aria condizionata viaggia a tutto volume» rispose bonario il commissario mentre porgeva alla donna il grosso incartamento.

Edith stava per ringraziare, quando l’uomo la bloccò con un gesto della mano.

«Un’ultima cosa, dottoressa Ross. La collina dove è scomparsa

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Miranda è attraversata dal Tropico del Capricorno. Il 21 dicembre a mezzogiorno, sulla linea del tropico, il sole si trova allo zenit: a perpendicolo, come si dice. Secondo un’antica leggenda degli abori-geni australiani, una persona che attraversa la linea del tropico a piedi nudi in quel preciso momento viene rapita dal sole e scompare senza lasciare tracce. Alcune compagne riferirono alla polizia che Miranda, poco prima di scomparire, si era tolta le scarpe.» Il commissario Grant osservò la faccia attonita di Edith. «Non si dimentichi, dotto-ressa, che Alice Springs è la culla della cultura aborigena.»

“Ecco, ci mancavano solo gli aborigeni per completare la storia.”

***

La storia cominciava ad annoiare Edith che, seduta al tavolo della camera, leggeva le relazioni e i verbali che la polizia di Alice Springs aveva redatto sul caso un secolo prima. Scritte sbiadite che non dice-vano niente di più di quello che Edith già sapeva. Fu presa dallo scoramento, convinta di aver fatto un viaggio inutile. Già si immagi-nava il sarcasmo del direttore quando fosse rientrata a Sidney senza nessun risultato.

Stava per chiudere il fascicolo, quando notò una busta gialla semi-nascosta tra le carte. Estrasse il contenuto dove spiccava una foto di gruppo delle ragazze del collegio, impeccabili nell’elegante divisa del “Tropic Line”: vestito bianco lungo, calze e scarpe nere, guanti bianchi e cappello di paglia. Una foto senza sfondo, come sospesa nell’aria. Su due ragazze della fila più alta erano stati disegnati due cuori, due frecce e due nomi: Miranda e Sara.

L’immagine di Miranda confermò a Edith quello che aveva sempre saputo: Miranda era la più bella. Capelli lunghi, sicuramente biondi, occhi chiari, sguardo vivo, corpo esile, slanciato, inafferrabile. Sara invece aveva capelli scuri e appariva piccola di statura. Al momento dello scatto era girata a guardare Miranda. Edith sospettò che si fosse sistemata nella fila più alta per stare accanto all’amica.

Nella busta c’erano delle letterine che si erano scambiate le due ragazze.

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“… Non puoi immaginare quanto io soffra quando ti vedo accanto alle altre. Lo sai che sono gelosa e che ti vorrei tutta per me. È vero, sono loro che ti cercano – cosa fa Miranda?, dov’è Miranda, cosa pensa Miranda? – ma tu sei troppo disponibile: non hai messo una pietra a protezione del tuo cuore. Anche John ha attenzioni solo per te. L’ho visto come ti guarda quando guida la carrozza e come tu gli sorridi…”

Edith tirò fuori dal portafoglio la foto di Terry, l’amica del college di Londra. Qual è la natura degli amori che fioriscono tra le giovi-nette segregate nei collegi? Cos’era stata Terry per lei? Amicizia, passione, sesso? Sentimenti ancora confusi, senza contorni precisi, che Edith sentiva riaffiorare con la forza di sempre.

“… Credimi, Sara, non ce la faccio più. Tu e le altre avete i sogni che vi fanno compagnia. Io, i miei sogni, me li sono bruciati già prima di entrare in collegio. Tutta colpa di mio padre: un uomo terri-bile. Adorato e adulato da tutti perché ricco e potente, è spietato con quelli che gli sono di ostacolo. In famiglia, solo io osavo contraddirlo e contestarlo quando sapevo di aver ragione. Mia madre era solo la sua faccia triste. Lui a modo suo mi voleva bene, ma, quando ha capito che io ero più forte del suo pugno, mi ha relegata qui, in questa prigione dorata. Ora crede di farsi perdonare con i soldi che mi manda, ma si sbaglia. Tu, Sara, devi imparare ad amare un’altra persona, perché presto io me ne andrò da Alice Springs…”

***

Ad Alice Springs, il giorno seguente, faceva ancora più caldo. Edith chiamò un taxi e si fece portare al comando di polizia, dove l’aspettava il commissario Grant.

«Ha capito, commissario, che personalità aveva questa Miranda! Le bastava un cenno per farsi seguire dalle altre ragazze, tutte inna-morate di lei» disse Edith mostrando la foto e le lettere.

Il commissario non fece caso al leggero rossore che aveva colorato le guance della giornalista.

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«Che importanza può avere?»«Ho riflettuto per tutta la notte e penso di aver trovato la soluzione

del caso. Segua il mio ragionamento. Le ragazze si sarebbero buttate nel fuoco per Miranda, il cocchiere che guidava una delle carrozze era innamorato di lei. Forse erano amanti. La ragazza aveva molti soldi a disposizione con cui potrebbe aver corrotto le istitutrici. Tutto questo modifica il quadro della situazione. Mi sono convinta che Miranda sia scappata con la complicità delle persone che erano in gita con lei. Hanno detto tutti che non l’hanno vista fuggire, perché l’hanno aiutata a fuggire. Probabilmente è stato proprio John, il cocchiere, a organizzarle la fuga con l’aiuto di qualche amico.»

Edith fissò la faccia perplessa dell’uomo che aveva ascoltato in silenzio.

«E dove sarebbe finita Miranda dopo la fuga?»«Nelle grandi città si può vivere per anni senza che ti veda

nessuno.»Il commissario si rigirava la foto tra le mani. L’immagine di

Miranda gli ricordava sua figlia Jane, che era volata via quando aveva la sua stessa età.

«Lei, dottoressa, crede di poter trovare una spiegazione a tutto, che non esistano né misteri né zone buie. La sua ricostruzione è più assurda della leggenda degli aborigeni.»

Il giorno dopo, 21 dicembre 2000, il commissario accompagna la giornalista nel luogo della scomparsa di Miranda. L’ultima richiesta di Edith prima di riprendere l’aereo per Sidney. Lasciata la macchina, si incamminano per un sentiero finché raggiungono una radura.

«È qui che le ragazze si fermarono per la colazione» l’avverte il commissario.

Intorno allo spiazzo, cespugli di eucalipti nani e acacie spinose. Un vecchio cartello turistico aggredito dalla ruggine indica che in quel punto passa il Tropico del Capricorno.

Manca poco a mezzogiorno. Edith si distende a osservare il cielo. Il sole, vicino allo zenit, annichilisce la mente e fa sparire i punti

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cardinali. Senza riferimenti è facile perdersi. Forse è nata così la leggenda degli aborigeni.

D’un tratto tutto si ferma: la corsa del vento, lo stormire leggero delle fronde, il canto degli uccelli. Edith si alza, si toglie le scarpe, lancia un sorriso al commissario che la guarda perplesso e taglia, a testa alta, spavalda e raggiante, la linea immaginaria del Capricorno.

Fatti alcuni passi, comincia a sentirsi strana, non avverte più il peso del corpo.

“Cosa mi sta succedendo?”Barcolla, le vengono meno le forze.“Non è niente. Suggestione, solo suggestione…”

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Un Cielo Giallo Di AliGiovanna Bertino

Il nuovo vicino era un tipo strano.Era basso e grasso, con capelli rossicci lunghi fino alle spalle e due

sopracciglioni spessi come cespugli. Gli occhi piccoli e tondi sembravano due palle verdi da biliardo ed erano incastrati ai lati di un lungo naso aquilino che terminava su un paio di baffoni da vichingo. Inoltre, le poche volte che sorrideva, scopriva una lunga fila di denti giallognoli, addossati gli uni agli altri in un autentico caos. Più che un uomo, il signor Rocco sembrava un nano malefico. Per giunta, da quando si era trasferito nella villetta a fianco, e cioè ormai da due mesi, Martino lo aveva sempre visto da solo. Mai un parente, mai un amico, mai qualcuno con cui scambiare due chiac-chiere di tanto in tanto. Mai nessuno. E, le poche volte che si erano incrociati alla rete di confine, aveva ricambiato il suo saluto di ragaz-zino ben educato con un incomprensibile grugnito.

«Secondo me è una brava persona. Di solito sotto i modi bruschi si nascondono persone timide e d’animo buono» diceva sua madre, come a scusarlo. Ma a Martino quel nuovo vicino proprio non piaceva. Dalla finestra della sua camera, al primo piano, riusciva a vedere la casa gialla del signor Rocco, con le imposte perennemente socchiuse, anche nelle ore più fresche di quelle giornate di luglio, quando invece le finestre di tutte le altre case intorno si spalancavano per far entrare finalmente un po’ di refrigerio. Invece la casa del signor Rocco rimaneva sigillata, chiusa come uno scrigno. E neppure lasciava trapelare all’esterno alcun suono.

Così, giorno dopo giorno, Martino si convinse che Rocco il vicino e la sua villetta gialla serbassero gelosamente un segreto inconfessa-bile.

«Voglio scoprire cosa nasconde» decise, «per il bene nostro e di tutto il vicinato. Costi quel che costi!»

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Come prima cosa si fece prestare da un compagno di scuola un bel binocolo professionale, di quelli superpotenti che fanno diventare le formiche grossi rinoceronti. Lo posizionò sul davanzale della sua finestra e, dopo averlo puntato nella giusta direzione, cominciò a sorvegliare sistematicamente la casa oltre il confine. Essendo da solo in questa impresa, Martino si sottopose a turni estenuanti che lo impegnavano l’intera giornata, dalle sei di mattina fino a notte fonda, esclusi i pasti. In capo al terzo giorno, però, la mamma si insospettì. Il figliolo se ne stava rintanato in camera sua come mai prima d’ora, aveva perso l’appetito e aveva certe occhiaie da far spavento. Da principio pensò che si sentisse male, che avesse contratto una sindrome influenzale fuori stagione, ma quando infine effettuò un blitz in camera sua e scovò il binocolo debitamente occultato nella borsa da calcio, tra paia di calzini puzzolenti e magliette intrise di sudore, be’, allora alla mamma di Martino il cuore balzò in gola dallo sgomento.

«E questo, da dove salta fuori?» balbettò. E poiché non le venne in mente altro da fare, andò alla finestra, posizionò il binocolo sul davanzale e provò a indovinare cosa ci fosse lì fuori di tanto interes-sante da guardare. Puntò a destra e a sinistra, di qua e di là, fino a quando il binocolo inquadrò la casa rosa della signorina Marta, di professione ballerina, la quale in quell’istante era in procinto di immergersi in un bagno di morbida e profumata schiuma color bian-co-latte. La finestra del bagno era del tutto spalancata e la visione perfetta!

La mamma di Martino cacciò un urlo tale da far alzare in volo tutti gli uccellini del vicinato, ben accucciati nei loro morbidi nidi sui rami degli alberi, poi come una furia si lanciò giù per le scale e, tenendo il binocolo saldamente in mano, andò a telefonare al marito in ufficio.

I giorni che seguirono furono giorni mesti per Martino perché la sua versione dei fatti non convinse affatto i genitori. Fu portato perciò dallo psicologo e dal prete, fu minacciato e coccolato e, alla fine, fu mandato in esilio, per una decina di giorni, al mare dal noio-

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sissimo cugino Filippo. Quando tornò a casa, Martino aveva il cuore gonfio di rabbia. Cosa credevano i suoi, che si sarebbe piegato? Più determinato che mai, decise di portare a termine quella che aveva battezzato “Missione Rocco”.

Si chiuse in camera sua a riflettere. Adesso che non poteva più contare sul supporto tecnico, giacché il binocolo era tornato frettolo-samente al suo legittimo proprietario, si convinse che l’unico modo per portare a termine la “Missione Rocco” fosse penetrare lui stesso all’interno della proprietà limitrofa e darci un’occhiata ravvicinata. Altro modo non c’era. Però, come fare? Il piano sembrava più facile a dirsi che a farsi. Rocco il vicino era sempre in casa, qualche volta in giardino e solo rare volte partiva con il suo pick-up verde pisello a fare la spesa. Rimaneva fuori al massimo un paio di ore.

«E mettiamo che mentre sono nel suo giardino quello rientra e mi scopre?» rifletteva. Aveva bisogno di una scusa convincente se non voleva fare una brutta fine. E di un complice. Mentalmente passò in rassegna tutti i suoi amici, ne scartò subito i due terzi perché inaffida-bili, e nella rosa degli ultimi cinque superamici alla fine scelse Gior-dano. Afferrò il telefonino e gli inviò un messaggio secco e preciso: “Vieni, S.O.S.”

Un quarto d’ora più tardi Giordano suonava al citofono.«Allora, ci stai?» gli chiese Martino dopo averlo messo al corrente

di tutto. Giordano lo guardò con occhi che gli brillavano. «Ci puoi giurare, amico.»

Quel pomeriggio Martino e Giordano lo passarono a pianificare la “Missione Rocco” e alla fine decisero quanto segue:

1) avrebbero spiato l’S.I. ( soggetto indagato) un’intera settimana, annotandone tutti gli orari e gli spostamenti su di un quadernetto da tenersi accuratamente nascosto in una cavità in giardino;

2) al termine della settimana di appostamento, uno dei due sarebbe entrato in azione nel giardino dell’S.I. mentre l’altro sarebbe rimasto nascosto dietro la rete di confine pronto a chiamare aiuto;

3) in caso di rientro anticipato dell’S.I. la scusa dell’intrusione sarebbe stata il recupero del pallone volato oltre la rete;

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4) avrebbero redatto una lettera top secret sulla “Missione Rocco” da recapitare sigillata al loro comune amico Marco, che l’avrebbe consegnata alla Polizia se fossero morti.

Il giorno seguente la mamma di Martino si sorprese nel vedere spuntare Giordano così di buonora.

«Sono venuto a giocare a basket, signora» disse quello sgusciando in casa. La mamma di Martino fece un sospiro di sollievo e lo accolse con autentica gioia: finalmente il suo amato figliolo tornava a giocare come ogni altro bambino.

Martino e Giordano passarono tutta la mattina e tutto il pomeriggio in giardino ma, tra un palleggio e un tiro a canestro, non persero mai di vista la casa gialla oltre la rete. Ecco quanto accadde. L’S.I. uscì solo un paio di volte: la prima volta alle ore 10,02 per appendere un misero bucato (due paia di mutande grigie, tre paia di calzini neri, una canotta giallognola e un pigiama verde) e la seconda volta alle 12,16 per innaffiare i pochi vasi rinsecchiti che teneva sulla terrazza. In entrambi i casi non li guardò neanche.

«Mamma mia che tipo losco!» si lasciò sfuggire Giordano, che non lo aveva mai visto, e rabbrividì al pensiero di cosa avrebbe potuto far loro se li avesse scoperti. Forse aveva fatto male a immischiarsi.

«In quel giardino ci vai tu» disse a Martino prima di andarsene.Il secondo e il terzo giorno di appostamento si svolsero più o meno

come il primo. L’S.I. fece due rapide apparizioni in giardino e poi scomparve all’interno della sua casa sigillata, senza proferire parola o fare un cenno di saluto. I due ragazzi, dal canto loro, fecero finta di non vederlo e seguitarono a giocare a pallacanestro con finto entu-siasmo, ma con grande soddisfazione della mamma di Martino. Il quarto giorno invece portò una grossa novità.

Erano appena passate le otto del mattino e Giordano aveva da poco suonato al citofono che il pick-up verde pisello uscì dal cancello e se ne partì rombando in tutta fretta giù per la discesa.

“Qui gatta ci cova” pensò Giordano, e andò subito ad avvisare l’amico.

«Di certo non sta andando al supermercato» disse Martino dando

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un’occhiata all’orologio. «Troppo presto.»«E se invece ha capito che gli stiamo addosso e se l’è filata?»

azzardò Giordano con un filo di speranza.«No, non mi convince. Forza, andiamo a dare un’occhiata prima

che torni» fece Martino in preda a una strana eccitazione.«Tutti e due?»«Perché? Hai paura?»Martino e Giordano uscirono in giardino e si diressero al capanno

degli attrezzi, dove presero le cesoie grandi. Quindi si avvicinarono alla rete di confine e, ritagliato un varco sufficiente a farli passare, vi strisciarono dentro come soldati in trincea.

«Ci siamo dimenticati la palla» bisbigliò Giordano trattenendo Martino per il braccio. Ma ormai non c’era più tempo. Era meglio sbrigarsi.

I due ragazzi avanzarono curvi e silenziosi in quella terra straniera, e a pochi metri di distanza la casa gialla apparve loro, se possibile, ancora più sinistra. Con cautela si fecero sotto la finestra grande del salone per spiare all’interno, ma le imposte erano ben accostate e non riuscirono a vedere alcunché. Però, al contrario di quanto si aspettas-sero, trapelava a tratti un canto sommesso.

«Hai sentito anche tu?» chiese Martino accostando l’orecchio alla finestra. Giordano fece di sì con la testa e gli si gelò il sangue nelle vene. «Andiamocene via» implorò, ma Martino si era fatto più riso-luto. «Qualcuno è tenuto prigioniero. Vieni, proviamo dal retro.»

Anche nella parte posteriore della casa le persiane erano tutte chiuse, cosicché non vi era modo di sbirciare dentro. Però appog-giando l’orecchio alle pareti si riusciva ancora a sentire lo stesso canto sommesso di poco prima.

«Andiamo via, prima che quello ritorna e ci ammazza» piagnuco-lava Giordano che non vedeva l’ora di tornarsene sano e salvo a casa sua.

«Ehi! »esclamò Martino. «Questa è aperta.»La finestrella del bagno era effettivamente solo accostata. Martino

la tirò verso di sé e quella si spalancò.

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«Ma sei proprio sicuro di voler entrare?» chiese Giordano.«O adesso o mai più.»Aiutandosi a vicenda, i due ragazzi riuscirono a scavalcare il

davanzale e si ritrovarono con un tonfo nel bagno di servizio dell’S.I. Rimasero fermi e in silenzio un istante e, dato che non succedeva niente di niente, si inoltrarono nel corridoio buio, fino a una grande stanza altrettanto buia. Lì dentro si sentiva un odore nauseabondo. «Che cavolo c’è qua dentro, un cadavere?» bisbigliò Giordano, tappandosi il naso con tutte e due le mani. Ripensò a tutti i film visti in TV, dove squadre speciali di poliziotti scoprono i corpi mummifi-cati delle vittime del serial killer di turno, e cominciò a tremare dal terrore. Anche Martino aveva il cuore stretto in una morsa di paura e si fece forza per non scappare e sembrare un codardo. Con la mano che gli tremava, pigiò l’interruttore della luce: apparve una stanza stracolma di decine e decine di piccole gabbie, all’interno delle quali erano stipati innumerevoli uccellini tutti gialli.

Fu un attimo e si scatenò l’inferno.Alla luce artificiale del lampadario, gli uccellini presero a cinguet-

tare tutti insieme, sbattendo le ali contro le sbarre di ferro, come in preda a una follia collettiva.

Il frastuono divenne insopportabile.«Cavolo, ma che roba è?»«Un negozio di uccelli!»«Dentro una casa? E adesso che facciamo?»«Dai, aiutami. Liberiamoli!»«Ma sei matto? Quello ci uccide!»

Il signor Rocco frenò bruscamente e accostò il pick-up al ciglio della strada. Si chinò verso il sedile di destra e cominciò a frugare tra i documenti nella borsa.

«Lo sapevo…» disse dopo un po’, «qui il libretto delle gare non c’è. Che idiota sono! L’ho lasciato a casa.»

Senza perdere tempo, fece una rapida inversione a U, a costo di provocare un incidente, e con rabbia pigiò l’acceleratore. Le

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gabbiette sistemate dietro rischiarono di rovesciarsi. Se non si sbri-gava sarebbe arrivato in ritardo alla gara di canto per uccelli di quel giorno e sarebbe stato squalificato. Tanta fatica per niente! E pensare che questa volta era sicuro di poter vincere. I canarini Malinois, che aveva selezionato con pazienza e dedizione in anni di lavoro e che aveva tenuto al buio per sviluppare le loro doti canore, avevano un canto unico, un gorgheggio straordinario! Sentiva di non avere rivali.

Sì. Aveva la vittoria in tasca, ne era certo! Sorrise soddisfatto. Con la vittoria di quel giorno, avrebbe piazzato tutti gli uccellini sul mercato con estrema facilità e ci avrebbe ricavato proprio un bel gruzzoletto.

“Se mi sbrigo, ce la faccio” pensò. Mise il piede a tavoletta e mezz’ora dopo già imboccava la salita di casa.

«Ma che diavolo succede?» urlò, guardando casa sua. Si precipitò fuori dal pick-up: i suoi canarini, i suoi splendidi uccelli, i suoi amati gioielli, stavano tutti fuggendo attraverso la finestra spalancata del salone! Possibile?

«Fermi, tornate indietro! Disgraziati!» strillava, agitando le braccia in alto nel tentativo disperato di riacciuffarli. «Dove credete di andare! Tornate qui o sono rovinato!»

Al sicuro, nascosti dietro la rete di confine, Martino e Giordano guardavano gli uccellini volare in alto, liberi finalmente. Volavano su, sempre più su, nel cielo infinito, sbattendo rapidi le loro alucce gialle e nulla poteva fare Rocco il vicino per riportarli indietro. Ben presto essi divennero un’unica nuvola gialla in movimento sopra le case, gli alberi, le strade, in alto, sempre più in alto, finché scompar-vero alla vista.

Gli uccellini volavano rapidi sul mondo, assaporando una libertà che mai avevano conosciuto prima, ma che avevano sempre sognato.

Volavano liberi e gioiosi, e il Signor Rocco era soltanto un puntino lontano.

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Vecchio AmicoLorenzo Lucidi

Tutto cominciò pochi mesi fa, ma il vero principio risale a molto prima. A quando, bambino, lo conobbi per la prima volta. In questo stesso luogo, a pochi metri da dove sono sistemato ora. Era una mattinata estiva, come tante ne ho passate nel corso della vita, ma come mai più ne trascorrerò. Io stavo giocando con la sabbia, in riva al mare. Lui si avvicinò timidamente, dicendomi solo: “Facciamo un castello? Con tante torri, alte, e le bandierine?” Il giorno dopo ci rincontrammo, così come quello dopo e quello dopo ancora. Finché, alla fine dell’astate, ci demmo appuntamento all’anno successivo. E così fu. Crescemmo assieme, anche se solo un mese o poco più ogni anno. Dai castelli di sabbia passammo alle biglie, e dalle biglie al pallone, ma nonostante fossimo diventati ormai ragazzi, ci diverti-vamo come la prima estate, e ogni volta di più.

Poi, un luglio, sceso sulla solita sabbia, non lo incontrai. Non venne neanche il giorno successivo, né quello dopo ancora. Andai allora a vedere la casa nella quale trascorreva il periodo estivo. Era chiusa, con l’erba alta e la siepe incolta. “Avranno rimandato le vacanze” pensai. Poi vidi il cartello che mi fece gelare il sangue: “Vendesi”, sul cancello del cortile.

Restai minuti interi là davanti; senza sapere che fare mi allontanai un paio di volte, per poi tornare, e vedere se quel cartello ci fosse ancora. Se non fosse frutto della mia fantasia. Lo toccai anche, per sincerarmi. Ma non c’era nulla da fare.

Tornai ancora, il giorno dopo. E spesso tornai nelle settimane successive. A far cosa, francamente, non lo so neanche io. Probabil-mente speravo di vedere quella casa finalmente aperta, il mio amico che giocava nel cortile e i suoi genitori che dichiaravano: “Abbiamo cambiato idea! Non vendiamo più! Qui si sta troppo bene.” Ma ogni volta che vedevo quel cartello, sempre inesorabilmente piantato sul

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cancello, mi facevo del male. Così decisi di non passare più di là. Ed evitai quella strada anche negli anni successivi.

Finché, finito il liceo, andai a studiare in una città diversa da quella in cui vivevo, lontana anni luce dal paese di mare che vide queste vicende. Fu così che i miei, diventati anziani, vendettero anche la nostra casa di villeggiatura, e io non rimisi piede in quel luogo per anni.

Salvo poi, pochi mesi fa, farmi venire un attacco di nostalgia. Adulto, convivente, lavoratore a tempo indeterminato, potevo permettermi di ricomprare la casa che era stata dei miei, in quel paese di mare che non incontravo più da almeno un decennio. Così, quando la mia fidanzata partì per la settimana bianca con le amiche di sempre, io decisi di fare un tuffo nel passato, per vedere a chi apparteneva ora la casa, e se gli attuali proprietari fossero disposti a vendere.

Tornare nel paese in cui ero cresciuto, sebbene solo cinquanta giorni all’anno, fu un’emozione fortissima. Anche se qualcosa era cambiato, mi sembrava non fosse trascorso nemmeno un giorno dall’ultima volta che avevo mangiato un gelato nella piazza princi-pale, o giocato a racchettoni sulla spiaggia, scottandomi i piedi sulla sabbia bollente. Anche la casa che era stata dei miei era rimasta immune al trascorrere degli anni. Mi faceva uno strano effetto non poter entrare nel luogo che era stato mio per tanto tempo. Arginata l’ondata emotiva che mi aveva travolto, appuntai il nome dei nuovi proprietari su un foglietto, per poter cercare il loro numero telefonico sull’elenco e proporgli di vendermi l’abitazione.

La giornata era tipicamente invernale. Non faceva particolarmente freddo, ma il cielo era completamente coperto di nuvole grigie e tutto il paese era bagnato da una recente pioggia. Mi affacciai sul belve-dere dove ero solito incontrarmi con gli amici, da ragazzo. Gli amici, già. Chissà che fine aveva fatto il più vecchio e caro dei miei amici di questo luogo? Era ancora presto, per cui feci un giro per il paese. E passai dinanzi alla casa che era stata del mio compagno di giochi. Il cartello “Vendesi” era a pezzi, staccato dal cancello divorato dalla

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ruggine e dalla salsedine. Il giardino era diventato un groviglio inestricabile di rovi ed erbacce. Le tapparelle erano completamente scrostate, e i mobili da giardino lasciati all’aperto erano coperti da foglie secche, marcite per l’umidità. Per il resto, era tutto identico. Probabilmente la casa non era mai stata venduta, ed era rimasta abbandonata per tutti questi anni.

La vista che mi trovavo davanti mi provocava una sensazione insieme sgradevole e piacevole, che mi riportava alla mente la perdita di un amico, ma anche i pomeriggi passati a giocare con lui in quello stesso cortile. Fu a quel punto che cominciai a pensare che, nel caso in cui non fossi riuscito a ricomprare la casa dei miei, avrei sempre potuto ripiegare su quella che era stata dei genitori del mio amico. Sarebbe stata anche un’occasione per rivederlo. In fondo, in tutti quegli anni non lo avevo mai cercato. E così fu. Tre giorni dopo incontrai, in un bar in città, i coniugi che avevano acquistato la casa dai miei genitori. Mi offrirono un caffè, chiacchierammo un po’, ma misero subito in chiaro che non volevano lasciare l’abitazione. Potevo capirli, quindi non insistetti più di tanto.

Per certi versi fui anche felice che la casa della mia infanzia non fosse disponibile. Inconsciamente, lo speravo. Perché, così, avrei potuto ripiegare su quella del mio vecchio compagno di giochi. La mia fidanzata, alla quale descrissi la casa con minuzia di particolari, mi diede il suo benestare.

Anche se l’impresa non fu affatto semplice. Il cartello apposto sul cancello al tempo in cui la casa era stata messa in vendita era ridotto in briciole. Quindi iniziai a fare il giro delle agenzie immobiliari della zona. Dopo una giornata intera di ricerche, in una piccola agenzia nell’entroterra, riuscii a trovare la casa, e intavolai la tratta-tiva. Che si rivelò terribilmente ardua. I contatti lasciati all’epoca dai genitori del mio amico erano ormai scaduti. Nell’agenzia fecero qualche ricerca e scoprirono che la casa era stata affidata a uno studio legale che si occupava di pagare le tasse ed eventualmente avrebbe dovuto occuparsi della vendita. Solo che, per privacy, non vollero riferirmi i contatti del loro cliente.

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Fatto sta che conclusi l’acquisto in quattro e quattr’otto. All’a-genzia non sembrava vero di liberarsi di quell’affare. Ottenni anche un forte sconto, consapevole che avrei dovuto spendere un bel po’ per ristrutturarla. In fondo era chiusa da vent’anni.

Settimane dopo portai la mia fidanzata a vedere il nostro acquisto. Il primo impatto non fu dei migliori: vide un giardino divorato dai rovi, mobili vecchi e coperti di polvere, il bagno completamente da rifare. Io però ero troppo assorto nei miei pensieri per ascoltare le sue rimostranze. Ogni porta che aprivo, ogni stanza in cui entravo, venivo travolto da un’ondata di ricordi. Mi sembrava di rivivere quei giorni in cui, da bambino, trascorrevo i pomeriggi estivi giocando in quella stessa camera, in quello stesso cortile. Con il mio vecchio, amato, amico.

Già, ormai non potevo più procrastinare. Dovevo ritrovarlo, se non altro per fare due chiacchiere, e mostrargli di nuovo, dopo tanto tempo, quella che era stata la sua dimora vacanziera. A dire il vero avevo già provato a cercarlo, nelle settimane precedenti. Avevo scritto il suo nome su tutti i social network, e poi sui motori di ricerca. Niente di niente. Non compariva neppure sugli elenchi tele-fonici.

Decisi così di andare in comune a chiedere informazioni. Lì cono-scevo uno dei funzionari che avrebbe fatto uno strappo alla regola, mostrandomi i dati che volevo sapere. Ne uscì fuori ben poco. I suoi genitori erano entrambi morti e la casa in cui vivevano in città era passata di mano. Quanto al figlio, aveva trasferito la sua residenza. Ma il funzionario non seppe dirmi altro. Lo ringraziai offrendogli una colazione e lo salutai.

Intanto i lavori alla mia nuova casa di mare erano iniziati. La mia dolce metà pretendeva che tutto fosse pronto per l’estate, così costrinsi la ditta edile a lavorare a tappe forzate. Spesi più di quanto mi sarebbe costato costruire una casa di sana pianta, ma alla fine uscì fuori un gioiello, terminato giusto per la fine di maggio.

Nel frattempo non rimasi con le mani in mano. Ormai ritrovare il mio amico era diventato il mio principale obiettivo. Non un’osses-

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sione, ma certamente un chiodo fisso. Non poteva essere sparito nel nulla, mi ripetevo. A meno che non fosse morto. Ma se fosse stato ammazzato in modo violento ne avrei trovato notizia in rete. Certo, poteva essere stato vittima di un incidente, o stroncato da una malattia…

Allontanai questi pensieri scrollando la testa. Ragionai. Il fatto che io non riuscissi a rintracciarlo non implicava che fosse morto. Anzi. Aveva cambiato la residenza, quindi poteva essersi trasferito, anche all’estero. Già, ma in quel caso… come rintracciarlo? Smisi così di fare lo Sherlok Holmes mancato e decisi di tagliare la testa al toro: mi rivolsi a un investigatore privato.

Il detective si mise subito all’opera. E io non potevo fare altro che aspettare. Un giorno di primavera venni chiamato dall’agenzia inve-stigativa. Il titolare, che aveva svolto le indagini, mi consegnò una cartella piena di fogli. Stampato lì dentro c’era di tutto. L’indirizzo delle scuole che aveva frequentato. La chiesa dove era stato battez-zato. I nomi del suo medico, le contravvenzioni che gli erano state comminate, perfino le sue pagelle scolastiche. Una mole di dati tanto ingombrante quanto inutile. Le tracce del mio amico si perdevano a qualche anno prima. Del presente, il nulla più assoluto.

Questo verdetto mi lasciò con l’amaro in bocca. Non avevo concluso niente e avevo anche gettato un mucchio di soldi. Chi l’avrebbe sentita, adesso, la mia ragazza? Per evitare scenate dissi che avevo dovuto prestare denaro a un cugino malato e chiesi a mio padre di reggermi il gioco.

Passò il tempo e la primavera si avviava al suo termine. L’ultimo weekend di maggio era particolarmente mite, per cui io e la mia ragazza decidemmo di trascorrerlo, per la prima volta, nella casa tanto faticosamente messa a punto. Devo ammettere che fu una grande soddisfazione camminare per le piccole stanze di quell’appar-tamento e nel giardino che si estendeva tra il balcone e la strada. Quel luogo era tornato agli antichi fasti, forse anche di più. E tornavo a vedere le scene della mia infanzia, mentre giocavo su quello stesso prato e leggevo fumetti, con il mio vecchio amico, sul divano nel

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salotto, prima che sua madre ci portasse succhi e biscotti per fare merenda, per poi ributtarci immediatamente nelle nostre attività.

E poi dal passato volgevo la mia attenzione al prossimo futuro. Avrei avuto anche io un figlio, che avrebbe giocato e corso in quella casa, su quel prato. Anche lui con un amico, un migliore amico. E poi un vecchio amico? Chissà. Magari con la tecnologia di oggi lui non lo avrebbe perso.

A svegliarmi dall’incanto in cui ero assorto ci pensò la mia fidan-zata, già con indosso il costume, la crema solare e un bel po’ di impa-zienza. Mi preparai frettolosamente e scendemmo alla spiaggia. Inau-gurammo il nostro primo weekend in quella casa con una calda gior-nata al mare e lo festeggiammo con una notte ancor più bollente.

E bollente fu anche la reazione di lei quando, settimane dopo, scoprì che avevo speso una cifra folle per ingaggiare un investigatore internazionale per rintracciare il mio amico. Già, dopo che il detec-tive privato in città non aveva cavato un ragno dal buco, mi era rimasto un senso di inquietudine. Che aveva continuato a crescere ogni ora che trascorrevo nella casa. Che era mia, ma non mi sembrava tale. Come se fossi ancora ospite, come se la mia presenza non fosse legittimata. Forse mi sarebbe bastato ritrovare il mio vecchio amico e dirgli che ora, dopo tanto tempo, avevo rimesso in sesto quella che era stata la sua casa, nella quale aveva trascorso i momenti più belli della sua infanzia.

Sta di fatto che una mattina di luglio il mio cellulare squillò mentre ero sotto la doccia. Rispose la mia metà. Era l’agenzia d’investiga-zione internazionale, che spiegava di avere un dossier e notizie molto interessanti circa la persona che stavo cercando. E che dovevo saldare entro un mese il loro onorario Una cifra assai ingente. Talmente ingente da far infuriare la mia donna. Da spingerla a tirarmi addosso la cesta del bucato mentre uscivo dalla doccia e ad andar-sene via, delusa e irritatissima, mentre cercavo di tenerla per un braccio e di coprirmi con un asciugamano. Ma, accecata lei dalla rabbia e io dallo shampoo negli occhi, lasciai la presa. Sapevo che sarebbe stato inutile farla ragionare in quel momento. Così lei se ne

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tornò in città, con la macchina, lasciandomi solo e appiedato.Progettai di tornare dopo un paio di giorni, in pullman, sperando

che avesse sbollito la rabbia. Poi mi sarei inventato qualcosa per giustificare il mio scellerato atto. Non sapevo cosa le avrei raccon-tato, ma non me ne ponevo il problema. L’agenzia aveva chiamato perché avevano scoperto qualcosa. Ancora avvolto nell’asciugamano, li richiamai. Mi passarono il titolare del servizio in persona, perché a quanto pare la situazione era delicata. Il mio amico, il mio vecchio e amato amico, mi dissero, dopo aver lasciato la città natale, aveva cambiato, in pochi anni, decine di volte la residenza, anche all’estero. Poi, mentre era in un’area di guerra, era stato ammazzato da un gruppo di ribelli. Non seppero dirmi in quale veste si trovasse in quelle aree, ma mi fornirono l’indirizzo del cimitero in cui era stato sepolto, una volta che la salma era stata riportata in patria.

La notizia che il mio amico era morto mi lasciò di stucco. Possi-bile? Possibile che avesse girato il mondo, fino a farsi ammazzare, senza… senza che io avessi avuto l’occasione, o il tempo, di rincon-trarlo? A quel punto non mi restava che andare a trovarlo, seppure fosse ormai troppo tardi.

Era sepolto in un camposanto distante poche decine di chilometri dal paese in cui c’era la sua, adesso mia, casa estiva. Non esitai a raggiungerlo, per portare almeno un fiore sulla sua tomba e piangere qualche lacrima in sua memoria, raccontando alle sue spoglie mortali della sua casa, della nostra infanzia, della fatica che avevo profuso per ritrovarlo. E stetti lì, davanti alla sua ultima dimora, un loculo tra tanti, come se la sua sepoltura fosse un monolocale in un enorme condominio. Senza una foto, né un crisantemo.

Appollaiato sulla scala che permetteva di raggiungere i loculi più in alto, lasciai un girasole, bagnato di lacrime e avvolto di parole passate.

Quella notte cadeva calda pioggia dal cielo nero come la mia mente. Chiesi conforto a una bottiglia e me ne andai a dormire. Ubriaco di vino e di amarezza feci incubi e sudai ogni goccia che avevo in corpo. Mi svegliai di soprassalto, con l’immagine di lui, del

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mio amico, stampata nella mente. Il suo volto di bambino, sporco di sangue, privo di vita, in un deserto di sterpaglie, stracci e urla.

Non riuscivo più a stare in quella casa. Nonostante piovesse, uscii senza coprirmi. Cominciai a correre nel buio, come se scappare mi permettesse di affrancarmi dalle terribili sensazioni che mi avevano pervaso. Corsi nella notte umida e buia, in cui anche la luce gialla dei lampioni sembrava spettrale, e le pozzanghere mi parevano porte per l’inferno dalle quali potessero sbucare chissà quali mostri.

Corsi, finché non andai a sbattere contro una persona. Una sagoma scura, avvolta in un impermeabile. Ci trovammo entrambi a terra. Ci rialzammo, e lo vidi in faccia. Quello che vidi quasi mi fermò il cuore. Era lui. Non potevo sbagliare, anche se era passata un’infinità di tempo. Anche se mi avevano detto che era morto. La sua voce me lo confermò. Sei tu, gli chiesi. Sei il mio amico, il mio amico di sempre, il mio vecchio amico.

I minuti che trascorsi insieme a lui non saprei descriverli con dovizia di particolari. Ero distrutto fisicamente, eppure esaltatissimo. So solo che lui, quell’uomo che era il mio amico, mi confermò di essere davvero lui. Che c’era stato uno sbaglio, evidentemente, perché, come potevo vedere era vivo e vegeto. Poi arrivò un’auto scura, che lo caricò. Lui, chiudendo lo sportello, mi liquidò dicen-domi che doveva andarsene. Che non sarebbe tornato. Che non dovevo più cercarlo. Ma che era stato contento di rivedermi.

Sotto quella pioggia, di acqua e di eventi, non sapevo più cosa pensare. Quindi smisi di farlo e ricominciai a correre. Vidi due ragaz-zini che si stavano baciando sotto una tettoia, con accanto il loro motorino. Non ci pensai due volte. Saltai sopra e corsi via. Le impre-cazioni del ragazzo durarono meno di un secondo. E breve fu il tempo che impiegai, guidando come un matto, a raggiungere il cimi-tero. Se lo avevo visto pochi minuti prima non poteva essere morto. Se non era morto, allora perché occupavano un loculo a suo nome?

Davanti al cancello del camposanto esitai non poco. Poi notai dei lavori stradali, e, incustoditi, alcuni attrezzi. La ragione mi era venuta meno, ormai volevo solo vederci chiaro, capire. Presi un piccone e

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scavalcai il muro di cinta del cimitero sul retro. Trovai a fatica il loculo davanti al quale avevo lasciato il girasole quella mattina stessa. Ormai avevo perso qualsiasi freno, qualsiasi controllo. Salii sulla scala e a picconate distrussi la lapide. C’era una bara, dentro. La tirai fuori per un manico, con tutta la mia forza. Mi scansai e la feci cadere sul vialetto. Cadde lei e, facendomi male, scesi io. Sempre a picconate, la aprii. Non temevo nulla, perché tanto era vuota. Sicura-mente sarebbe stata vuota.

Non era vuota. C’erano delle ossa, avvolte in un vestito elegante e con al polso un orologio fermo ormai da chissà quanto. C’erano degli oggetti che erano stati del defunto. C’erano oggetti che mi ricordavo di aver visto nelle sue mani. C’era una macchinina rossa, con una scritta fatta con il bianchetto, che gli avevo regalato io quando compì sette anni. C’era un piccolo album di foto. Una di lui, nella sua vecchia casa estiva, seduto al tavolo del giardino, a giocare con delle costruzioni. E, dall’altro lato del tavolo, io.

Arrivò il guardiano del camposanto. Scappai, tirandogli addosso il piccone per guadagnare tempo. Risaltai sul motorino e fuggii senza una meta. Poi vidi, ferma ad un bar, la macchina che mi sembrava fosse quella su cui era salito il mio amico. Mi fermai. Fuori dal bar c’era un poliziotto che beveva un caffè. Lo tramortii con un ramo che raccolsi da terra.

Presi la sua pistola.Entrai nel bar.Vidi il mio amico, assieme ad altri due uomini.Prima che nessuno di loro potesse aprire bocca, sparai.Sparai l’intero caricatore, contro i due uomini.E poi contro di lui.Il mio amico.Il mio vecchio, caro, migliore amico.«Adesso è tornato tutto come doveva essere» dissi.E ordinai un cornetto al bancone. Era quasi ora di colazione, ormai.

*

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Dai verbali degli investigatori: La vittima, amico d’infanzia dell’assassino, apparteneva ai servizi segreti internazionali. Dopo aver messo fine a un colossale traffico di armi in Medio Oriente, per proteggere la sua incolumità, fu dichiarato morto, anche alla fami-glia. Venne rimpatriata una salma che gli potesse somigliare, con il volto sfigurato.

Di recente, la vittima era rientrata per indagare su un traffico di esseri umani. L’assassino, che ai test medici si è confermato di insta-bile equilibrio mentale, vedendolo ha perso il lume della ragione e, credendolo già morto, non ha esitato a ucciderlo. Dopodiché, si è consegnato alle forze dell’ordine senza opporre resistenza. Interro-gato dagli inquirenti, ha proferito una sola frase: “Facciamo un castello? Con tante torri, alte, e le bandierine?”

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Vacanze romaneAlphaorg

La gestualità, l’aspetto sbarazzino a dispetto degli anni, l’infles-sione e l’inconfondibile accento esotico della sua voce. Tutto contri-buisce a scaldare l’atmosfera e a mantenere alta l’attenzione della platea, già di per sé intrigata dagli argomenti esposti dall’uomo sul palco. Prima di continuare il discorso, Martin Mystere inumidisce le labbra con l’ultimo goccio d’acqua rimasta nel bicchiere.

«Come al solito ho vuotato la bottiglia prima ancora di essere arri-vato alla fine della lezione, e Diana non è nemmeno lontanamente ubriaca.» Scherza ammiccando alla sua assistente, nonché moglie, che prontamente si allontana in cerca di una nuova bottiglia d’acqua.

«Comunque, tornando alla domanda iniziale, cioè che cosa si intenda per mistero, cercherò di chiarire ulteriormente il concetto rendendovi partecipi di un episodio in cui sono rimasto coinvolto proprio qui a Roma.»

Bisbigli e sorrisetti interrompono il discorso finché il grugnito baritonale di Java, l’inseparabile compagno di avventure di Mystere, riporta al silenzio il pubblico. Martin Mystere è di nuovo il protago-nista assoluto della scena, passa la mano sul tirabaci giallo paglierino e inizia a rievocare gli avvenimenti della notte precedente.

1. UNA STANZA QUALUNQUE DI UN ALBERGO QUALUNQUE

«Java ha un gusto favoloso nel vestire! Martin, dai un’occhiata…»«Hai ragione Diana, stasera Java farà un figurone alla festa della

cugina di Dylan Dog.»«Non vedo l’ora di rincontrare Stray… sembra che l’ultima volta

lei e Java avessero lasciato un certo discorso in sospeso.»«Già, anche se rammento che Java se l’era un po’ presa per i nostri

commenti maliziosi.»

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«Mghr!»«Come dici, Java? Ah, sì. Prometto che questa volta non ti pren-

derò in giro. Domani devo tenere la conferenza, ma questa sera siamo solo dei turisti in vacanza a Roma. Sento che sarà una notte speciale, d’altronde come potrebbe non esserlo in questa città?»

Diana indossa il cappotto e guarda me e Java, i suoi due accompa-gnatori.

«Sono pronta, possiamo andare.»

Qualcuno tossisce dalla seconda fila.«Come dice?» chiede Martin Mystere. «Mi sto dilungando troppo

in preamboli inutili? Non è esatto, mi dispiace. Un mistero, per essere tale, non può essere svelato subito. Bisogna introdurre e pale-sare tutti gli aspetti che compongono la cornice entro la quale sarà svelato. Perché più chiaro è il contesto in cui si svolge l’azione e più fitto sarà il mistero, che risalterà ancora di più grazie a questa sorta di contrasto cromatico.»

Una breve pausa. Martin Mystere osserva i comportamenti del suo pubblico.

«Inoltre, indugiare aumenta la tensione. Come forse state iniziando a capire, un utilizzo sapiente di queste tecniche può avere effetti dirompenti. Soprattutto se, come nel caso che vi sto raccontando, il mistero si manifesta all’improvviso.»

2. APPARIZIONI E ASSENZE

Il freddo delle notti del solstizio romano è diverso da quello di New York. L’unica cosa che accomuna le due megalopoli sono i vialoni della periferia, strade tanto ampie quanto affollate da piccole vetture che camminano come formiche in fila verso la loro destina-zione. Il carosello di luci dei fanali si mescola con il varietà delle luminarie natalizie in un cancan frenetico, dove le protagoniste sono le insegne dei negozi sfacciatamente luccicanti come le baldracche dei vecchi saloon.

«Martin! Guarda, siamo arrivati.»

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«Ok. Java, per favore, accompagna Diana a citofonare. Io intanto pago il taxi e cerco di farmi dare una ricevuta.»

«Lei è fortunato, dottor Mystere» dice il tassista, «sua moglie è proprio una sciccheria!»

«Qualunque cosa significhi, lo prendo come un complimento: tenga il resto.»

«Lo è, lo è..» mi saluta sornione il tassista prima di ripartire. Quando mi ricordo di chiedere la ricevuta il taxi è ormai lontano.

«Dannazione! Questi italiani ne sanno una più del diavolo!»«Martin!»«Cosa c’è Diana?»«Ho citofonato più volte, ma non risponde nessuno.»«Hai provato a chiamare sul cellulare?»«Idem.»«Diavoli dell’inferno! Eppure l’appuntamento era per le otto.

Decisamente la puntualità non è cosa per gli italiani!»«Mghrr! Mghh!»«Una bambina? Dove l’hai vista, Java?»«Mghhr!»«Martin!» esclama Diana spaventata. «Java dice che mentre

stavamo parlando è apparsa una bambina con un occhio più grande dell’altro e gli ha consegnato questo biglietto…»

«…e poi è scomparsa. Non sono sordo Diana, riesco ancora a capire cosa dice Java.»

«Oh! Non volevo dire questo, Martin…»«Mghr!»«Ok, Java. Hai ragione. Invece di litigare come due ragazzini inna-

morati, diamo un’occhiata a questo bigliettino.»

«Ecco l’acqua!» Diana è tornata sul palco portando in trionfo una bottiglia di Ferrarelle. «Io non bevo altro!» sottolinea.

Qualcuno dalla platea protesta, ma Diana fa spallucce: non c’è scritto da nessuna parte che è vietato fare pubblicità, anzi è questa l’anima del commercio.

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«Imparate, ragazzi» mormora Martin Mystere, «imparate da noi grandi… Ma non distraetevi, qualcuno mi sa dire qual’è il mistero che è stato appena introdotto nel racconto?»

«La bambina!» grida uno.«Il bigliettino!» replica un altro.«Le vostre risposte non sono sbagliate, ma ovviamente il vero

mistero è rappresentato dalla scomparsa della cugina del mio amico Dylan.» Martin Mystere si schiarisce la voce. «E qui devo fare un distinguo: Dylan Dog è un noto indagatore dell’incubo, e quella bambina sembrava uscita proprio da uno dei suoi lavori, mentre io mi occupo di misteri, per così dire, “Mysteriosi”. Invece, rapimenti o omicidi sono pane per i denti della polizia, e infatti è a loro che ci siamo prontamente rivolti.»

3. UNA TRANQUILLA SERATA IN QUESTURA

«Commissario Lo Gatto?» domanda un poliziotto che spalanca all’improvviso la porta dell’ufficio. Il commissario trasalisce.

«Chi è? Chi è che mi cerca?» risponde il commissario.«Il questore… vuole il dossier del serial killer dei Castelli sulla sua

scrivania entro domani mattina.»«Intendevo, chi sei tu che mi disturbi proprio durante un interroga-

torio?»«Commissario Lo Gatto, non mi riconosce? Sono l’appuntato

Santagata!»«Ma sì Santagata, lo so chi sei. Però, non mi chiamare per

cognome in presenza di estranei. E, durante un interrogatorio, non mi chiamare proprio.»

«Ma perché?» domanda ancora Santagata, evidentemente confuso. Il commissario lo ignora e si rivolge ai suoi tre interlocutori.

«Perché, come dico sempre in queste situazioni, non dire Lo Gatto se non ce l’hai nel sacco! Ah! Ah! Ah! Bella questa, vero Santagata? Ah! Ah! Ah! Gliela traduca Santagata, faccia ridere anche loro!»

«Sì, commissario, ma loro sono americani. Non la capiscono come me.»

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«Vabbè. Dove eravamo arrivati, dottor Mystere? Forse alla bambina che appare e scompare a intermittenza come i semafori fuori servizio?»

«Più o meno, commissario. Come le stavo dicendo, la bambina ha consegnato un bigliettino al mio amico Java.»

«E allora vediamo questo bigliettino.»«È scritto in latino.»«Mystere! Non mi dica che lei oltre all’italiano conosce anche il

latino?»«L’italiano l’ho imparato da giovane, quando ho studiato Belle Arti

a Firenze; il latino invece l’ho imparato alla Sorbona di Parigi.»«Ma lei è un erodoto!»«Erudito?»«Come? Ha problemi di udito?»«Lasciamo perdere, commissario. Se vuole le leggo il bigliettino.»«E allora legga pure, dottor Mystere.»«Dice: “Petros eni”.»«Tutto qui?»«Tutto qua.»

Risate e schiamazzi in aula. Martin Mystere allarga le braccia sconsolato.

«Ho impiegato un po’ a capire perché il commissario si compor-tasse in modo così strano. Diana e Java non erano rimasti granché sorpresi dal suo modo di fare, perché dell’Italia conoscevano soltanto gli stereotipi di dominio pubblico. Un italiano basso, grassoccio, pelato, chiassoso ed estroverso è esattamente quello che un turista si aspetta di incontrare quando visita il vostro paese. Ma io sono stato più volte in Italia per lavoro e non mi raccapezzavo proprio. Solo dopo mi è stato spiegato che il commissario è una specie di sosia omonimo di un noto personaggio di film comici degli anni ottanta, e come il suo alter ego cinematografico si è ritagliato un personaggio fuori dal comune. Comunque, tentai inutilmente di convincere Lo Gatto a fidarsi della mia traduzione (“Petros eni” è la scritta incisa

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sulla presunta tomba di San Pietro e significa “Pietro è qui”), ma il commissario mi congedò frettolosamente convinto di essere sulla pista giusta e iniziò a investigare su un tale Petros Giovanni, impie-gato all’Ente Nazionale Idrocarburi. Dal canto mio, confidai nell’i-stinto della ragione, ottenni il permesso dalla polizia e con Java mi recai alle Grotte Vaticane.»

4. ORE PICCOLE IN VATICANO

«Mghrr! Mghr!»«Ci siamo Java, ecco la tomba di San Pietro.»Un muro intonacato di rosso ospitava due nicchie separate da una

lastra di travertino. Il graffito “Petros eni” era in bella vista, ma altri segni catturarono la mia attenzione: un rudimentale simbolo del Graal e il disegno a pennarello di una figura femminile.

Non feci in tempo a rendere Java partecipe della scoperta che comparve ancora la fantomatica bambina con un occhio più grande dell’altro. Alla luce fredda della torcia elettrica, il volto pallido della bambina zombie appariva inespressivo, ammantato di una calma ultraterrena. Non disse niente, ma prima di scomparire nel nulla mi porse un foglio: “Ct. 8,14. Il Figlio dell’Uno si porterà da David, un corpo si vedrà far frutto il Potente.”

«Diavoli dell’inferno! Java, adesso inizio a capire cosa significa questa specie di caccia al tesoro!»

«Mgh?»«Questa è la traduzione di un versetto del Canto dei Cantici a

opera di Al’Abalrutha, un profeta eremita del III secolo DC. Il suo vangelo apocrifo si ritiene sia stato distrutto nell’incendio della biblioteca di Alessandria. L’unica copia ancora esistente si trova nei rotoli dimensionali di Altrove.» (NB: Altrove è la base segreta degli Uomini in Nero, una sorta di C.I.A. dell’occulto.)

«Mghrr?»«Come cosa significa? È importante! La setta Abalrutha sostiene il

credo della reincarnazione del Signore. Diversamente dai templari, per loro il sacro Graal non è identificato con la Maddalena e con la

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discendenza della stirpe divina, ma rappresenta una vera e propria Nuova Venuta del Messia. Capisci? Abbiamo un indizio che il Graal può trovarsi proprio qui in Vaticano!»

«Mgh!»«Non ti preoccupare Java, non credo proprio che io possa essere

considerato blasfemo. Piuttosto, dovremmo darci da fare per trovare la nostra amica…»

Il suono del cellulare interrompe la frase di Martin.«Pronto? Mystere?»«Sono io, chi parla?»«Qui Lo Gatto, abbiamo trovato Stray. O meglio, lei ci ha trovato:

il caso è risolto.»

Ormai in aula la calma e la compostezza sono state abbandonate. C’è chi chiede l’autografo a Java e chi scatta un selfie con Diana, ma Martin Mystere non ha ancora spiegato il mistero iniziale. A questo provvede Diana: «Un falso rapimento, ecco cosa è stato. La cugina di Dylan ha orchestrato un piccolo scherzo al qui presente Buon Vecchio Zio Martin. Insieme a una sua amica, diciamo dotata di poteri paranormali, ha finto il rapimento e organizzato questa piccola gita turistica notturna.»

«Ma… e il Graal?» chiedono i ragazzi.Martin Mystere sorride indulgente: «Per quello dovrete aspettare la

"prossima puntata"! E con questo è tutto, a meno che ci siano delle altre domande.»

«Mystere» si alza una voce dall’aula, «ha qualche consiglio da dare alle nuove generazioni?»

«Mmh… non passate troppo tempo al cellulare. Ai miei tempi la gente non camminava per strada o in metropolitana chiacchierando al telefono. Ma questo succede soprattutto in Italia, perché noi non siamo così ossessionati dalla comunicazione.»

DRIIIN!«Oops, scusate mi stanno telefonando… Pronto, chi parla? Ciao

Dylan, dimmi pure, tanto la conferenza è finita.»

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Il TempioLucio Musto

Il tempio è rotondo, composto da un’unica cupola a tutto sesto poggiata, senza soluzione di continuità, su un tamburo cilindrico. Quanto grande sia, non so immaginare. Certamente è grande, ma può essere immenso. Non ci sono elementi di confronto: un po’ com’è per certe chiese della cristianità, o per qualche grotta carsica.

Niente finestre e l’unica porta, quella da cui sono entrato, sembra scomparsa del tutto una volta richiusa. Forse è ancora visibile un sottile riquadro, la maniglia, o nulla del tutto; non so bene.

Il pavimento è completamente bianco, di pietra. Non lucido da abbacinare, però. Solo bianco, senza alcuna venatura o impurità: polito, ma opaco; gessoso, direi. Al centro, un’aiuola circolare della stessa pietra bianca, scolpita in forme bizzarre, con strane curve e sfuggenti volute. Un disegno singolare, per me del tutto incomprensi-bile seppur affascinante, a formare una scultura poco elevata, una specie di collinetta degradante da ogni lato. L’opera mi sembra inta-gliata in un pezzo unico, senza fessure o giunzioni.

Tutto il resto, cioè l’unica superficie concava che è parete e cupola, assolutamente uniforme e glabra, senz’alcun disegno, rilievo o deco-razione, è di un verde chiaro, un po’ come quello dei piselli seccati all’ombra; un morbido verde pastello, riposante alla vista.

La sala è luminosissima, ma senza alcuna lampada visibile, chissà come gli architetti hanno potuto generare un’illuminazione diffusa così perfetta, omogenea in ogni punto e senz’ombre, così tanto gradevole.

C’è una mensola dorata attaccata alla parete, un quarto di giro sulla destra della porta, con una figura di Buddha seduto in meditazione. O almeno mi pare che sia Buddha.

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Di fianco all’aiuola-scultura, ridicolmente piccine per l’ampiezza dell’ambiente, una diecina di poltroncine rivestite (mi pare) in simil-pelle. Raggruppate, ma senza ordine, come se fossero state spostate frettolosamente o occupate a caso, saltuariamente.

Un’altra identica poltroncina, con un libro forse di preghiere o di canti poggiato sul bracciolo, è sistemata a fianco della porta.

Null’altro. Di come è fatto il tempio non so dire altro. Come non ne ricordo l’esterno, o la via per arrivarci. Né so dove sia o perché mai ci sono venuto.

Entrando, mi son guardato intorno e ho visto quello che ho descritto. E contemporaneamente ho sentito la musica. Inutile dire che non è in vista alcun diffusore di suoni.

Mi sono accorto subito di essere solo, nel grande tempio, e non ho avuto alcuna esitazione, sapevo cosa avrei fatto: mi sarei scelto una poltroncina, e seduto avrei ascoltato per un po’ quella musica che riempie l’aria.

Sì, la musica riempie l’aria. Ma letteralmente, non come si dice qualche volta per intendere che c’è un suono che si diffonde. No, qui la musica riempie davvero l’aria. La permea completamente, ne colora ogni singola molecola, suona nella vibrazione di ogni alito, ne modifica il sapore e l’odore a ogni accordo… In questa grande sala, la musica e l’aria sono un solo elemento, la stessa consonanza, lo stesso palpito, lo stesso sentimento.

Voglio dire ancora una cosa di questa musica: i suoni sono diversi da quelli che io conosco, e diverse sono la sintassi, le regole meli-smatiche e di contrappunto e i tanti accordi, ora arditi, ora piani, sono sconosciuti ai nostri spartiti. Non saprei isolare la voce di un solo strumento e la sontuosità del suono è certo da attribuire all’enorme volume dell’ambiente, perfetto bordone di tanta magistrale armonia.

Seduto, gli occhi socchiusi, mi lascio portare per un po’ dalle note seducenti dell’esotica melodia per a poco a poco abbandonarmi a un

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leggero gradevole torpore propiziato dalla musica soave e dalla tenue luce che vince le ciglia socchiuse.

E in piena pace spirituale mi trovo a osservare tanti istanti della mia vita, i passaggi difficili, i momenti tormentosi, i dubbi, i dolori, le ansie, le passioni.

Ma a osservare da fuori, senza esserne emotivamente coinvolto e travolto. Comprendendo bene l’asprezza di ogni situazione, l’inelut-tabilità, la pena, e pesandone esattamente l’angoscia conseguente. Ma senza esserne ora implicato: ora sono sereno abbastanza per poter giudicare; mi sembra possibile il valutare senza pregiudizio. Pulito da compromessi ed egoismo.

Quanto diverse mi appaiono ora le cose! Quanti peccati risibili e quante presunte gravi colpe, colpe inesistenti o assolutamente veniali imperfezioni! E per contro, purtroppo, quanti pentimenti e rimpianti per cose che avrebbero potuto esser fatte con perfezione e invece trascurai, quante occasioni perse, quanti momenti d’amore che mi furono offerti e non tirai su!… Quanti fallimenti e cincischiamenti inutili e meschini!

In quest’atmosfera serena, nella solitudine piena di questa musica insolita e luce senza sorgente, per una volta ho forse incontrato la mia coscienza, e riesco a parlarle, almeno per un poco, e ad ascoltare quello che lei vuol dirmi.

È entrato qualcuno. S’è seduto alla poltroncina isolata, vicino alla porta. Io non l’ho visto, l’ho solo intuito. E non mi dà noia, non mi pesa che invada la mia solitudine.

Piano piano, ha cominciato a cantare. Sottovoce dapprima, poi un poco più forte. E la sua voce si mischia con l’aria e si gonfia e diffonde fin sotto la volta. E ritorna fin giù, fino a me, sembrerebbe in soffici ampie volute di suono.

È una donna che canta. Una vecchia di anni infiniti e infinita saggezza. Direi. Canta parole diverse, una lingua a me sconosciuta.

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Ma so che ha ragione. Lo sento, lo so con certezza, che canta per me, che mi dice le cose più giuste; mi parla di cose passate, di cose che ancora non sono accadute. Della terra, del cielo, della gente, del sangue, di arte e poesia.

Poi tace, per un solo momento. E riprende: il suo canto è ora diverso: è più ampio, più colmo, vitale. Continuo a non capire le parole, ma so che ora è uscita dal particolare, dal contingente, dal caduco. Ora so bene che la vecchia mi canta l’assoluto, mi mostra l’eterno. La sua parola è ora una sola. Lei celebra l’Amore.

Immagino che non uscirò da questo tempio per la porta da cui sono entrato. Ci sarà un’altra soglia di certo. Se lei canta ancora, e io continuo a pregare, può darsi che fra un po’ io riesca a vederla.

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Sorrisi in piscinaMarco Moretti

Lo spogliatoio vuoto nel sabato mattina mi ricorda un garage a ferragosto: arredi scarni, nessun odore o rumore. Mi cambio e celebro il rito mattutino: dopo la doccia mi reco nel locale che ospita la vasca grande.

La piscina blu tra gli spalti è il mio piccolo lago incastonato in una cornice di rupi rocciose, la mia preferita: la luce delle vetrate lascia osservare il fondo mentre nuoto. La linea della corsia guida me e i miei pensieri, una vasca dopo l’altra; mentre mi dirigo verso il tram-polino l’acqua si fa profonda, più blu. Mi piace immaginare che nasconda qualcosa nelle sue profondità. Io che studio la riproduzione dei pesci di acqua dolce e invidio loro la libertà di risalire i fiumi o inabissarsi in un lago. È una vita con cacciatori e prede, ma così diversa dalla nostra, quella dei nobili animali che dominano il pianeta.

I miei sensi, dal bordo del lago virtuale, avvertono subito qualcosa di nuovo.

Questa mattina qua dentro fa più caldo del solito.Seduto su un blocco di partenza osservo le poche braccia che

roteano con scarsi spruzzi e spariscono nel blu delle corsie.Anche l’acqua della piscina è meno fredda, mi invita.Prima di indossarli bagno sempre cuffia e occhialini, quasi il

rinnovo di un battesimo; oggi l’acqua tiepida mi scivola addosso, mi accarezza seducente. È più leggera, senza sapore di chimica.

Ci sono poche persone, nessuno sugli spalti, il bagnino non passeggia a bordo vasca.

Odori e suoni abituali, musica di fondo e le onde dei nuotatori, l’aroma di disinfettante, tutto è ovattato o assente, niente è come al solito.

In compenso l’umidità è quasi palpabile, mi stringe e respiro a fatica.

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La sensazione mi avvolge come una coperta calda e umida; per fuggirla mi tuffo e nuoto con forza nel blu. Scivolo nell’acqua, non fatico e non sento freddo, né bisogno di respirare, le prime vasche quasi in apnea. Tonico e magro, con gambe e piedi lunghi, capelli corti; in acqua sto bene e quando scivolo leggero assaporo gocce dal gusto dolciastro. Mentre nuoto osservo i peli delle braccia: danzano come i tentacoli fluttuanti di piccole meduse. Scivolo a pelo d’acqua come uno squalo, innocuo e semplice osservatore.

Seguendo la linea sul fondo un riflesso d’argento guizza sulla mia sinistra; un raggio di sole a spasso nell’acqua? Dopo qualche minuto mi fermo; la strana atmosfera mi fa sentire bene e galleggio bocconi a occhi chiusi, come i pesci che conosco bene.

Un contatto lieve mi scuote, un bruciore leggero alla spalla destra. Mi giro e affioro, contrariato di dovere lasciare quello stato di abban-dono.

Mi scuso se ero fermo, ma non volevo disturbare, sussurro.Le mie parole trovano il vuoto: nessuno accanto a me, l’acqua non

è increspata da onde.Quanto tempo ho nuotato prima di fermarmi ? Mi sembra di essere

in un lago fuori dal tempo.Le corsie con atleti ora sono due: tengono un ritmo sostenuto,

quasi senza respirare, elegante e silenzioso.Riprendo a nuotare seguendo la linea sul fondo, dove riesco a

vederla; a tratti è coperta da macchie verdastre simili a alghe flut-tuanti. Spaziando con lo sguardo non vedo corpi eleganti di donna, né potenti di uomo, ingranditi dall’acqua.

Devo andare in direzione a protestare; la piscina non è più la stessa.

Ma è un male o no? Questo senso di mistero che diffonde nell’acqua mi disturba davvero?

Aumento il ritmo in un abbraccio sempre più stretto con il mio lago, sempre meno virtuale.

Un’ombra in movimento a metà vasca, in direzione opposta alla mia: non mi fermo. Non è un allenamento, sta diventando un’esplo-

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razione, il biologo ha preso in mano il gioco.Emergo a bordo vasca e cerco l’orologio sulla parete, ma la visione

è sfuocata: sono solo, la superficie dell’acqua piatta e gli spalti immersi in una nebbia fine, ma sufficiente a sfumarli.

Capisco subito che qualcosa non torna: è novembre, ma sento il sudore che si mescola all’acqua sulla fronte. Non è il caldo, ma sono in bilico tra paura e sorpresa; che fine hanno fatto il quando, il come e il dove?

Esco dalla vasca diretto alla porta degli spogliatoi; i piedi nudi trovano una superficie ruvida che conduce a un muro scrostato.

Questa sottile foschia mi confonde: devo essere uscito dal lato sbagliato, nella parte riservata alle donne.

Manca una via di fuga, un appiglio per non farmi prendere dal panico.

Non ho preso farmaci, né fumato una canna o mangiato nulla di strano, non dovrei avere allucinazioni.

Poi un malessere, un’ improvvisa fame d’aria; l’istinto, in assenza di altre vie di uscita, grida di tuffarmi in acqua.

Nuoto sul fondo senza orientarmi: l’acqua è torbida e vedo a fatica. L’ambiente è surreale, anche se familiare: piante di acqua dolce e sassi levigati in quella che era la piscina. Sagome sfuggenti si muovono di fianco a me in ogni direzione.

Che diavolo succede? È un incubo o un esperimento?Dalla bocca mi escono bolle d’aria: non stavo pensando. Lo

stupore lascia spazio all’angoscia; la sola spiegazione possibile mi terrorizza e mi affascina. Respiro nell’acqua e ora capisco il bisogno di tuffarmi provato qualche minuto prima. Sto perdendo la ragione, insieme al senso del tempo e dello spazio. Quando nuotavo mi piaceva contare le vasche percorse, rassicurato. Ora il tempo scorre diversamente, la piscina è un laghetto caldo in mutazione e faccio quello che più amo: esplorare e cercare di scoprire.

Le piante sono quelle tipiche dei fiumi sudamericani, ma voglio una zona meno torbida per studiarle meglio. E se ci sono piante devono esserci anche pesci.

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Ho superato dubbi e stupore iniziali, gli occhi cercano altri segni di vita. Avverto un qualcosa di indistinto, poi diventa dolciastro, ma la bocca è chiusa: non sapore, ma odore di sangue, di un animale come me.

“Navigando lungo un fiume tropicale in America latina puoi incon-trare piante e animali; dai piccoli anfibi agli alligatori, da pesci colo-rati a serpenti d’acqua. Solitamente l’uomo sta in superficie comoda-mente seduto su mezzi con due funzioni: trasporto e protezione. Devi fare attenzione a serpenti e alligatori, ma diffida ancor più di aree in cui l’acqua pulita invita a fare un bagno. Vi si raccolgono branchi di piccoli pesci con grossi denti atteggiati in una specie di sorriso: si chiamano piranha e possono divorare un grosso animale in pochi minuti.”

La nebbia si dissolve intorno e dentro di me: capisco la penuria dei nuotatori, l’acqua torbida e le alghe. Anche l’odore di sangue. Non so ancora come e perché sia cambiato tutto, il mistero ora perde impor-tanza: quello che conta è continuare a nuotare verso una zona sicura ed evitare quei sorrisi nell’acqua.

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Tra sogno e realtàSilvia Tamburini

Nell’istante in cui afferrò il trancio di pizza appena ordinato per mangiarselo e riposarsi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, Gianni si rese conto, per la prima volta da quando aveva lasciato il suo ufficio, che si trovava nei guai fino al collo.

Forse era stata la credenza vuota, o il freezer pieno di ingredienti che lui non sapeva mettere insieme, a farglielo capire; o forse gli era caduto l’occhio sulla bolletta della luce che aveva appoggiato sul tavolo della cucina, o sulla lampadina vecchia come Matusalemme che diffondeva solo un debole bagliore nella stanza; qualunque occhiata al suo appartamento avesse scatenato quell’illuminazione, comunque, all’improvviso si era accorto che tutti gli avvenimenti che si erano succeduti uno dopo l’altro dal mese precedente erano stati solo dei piccoli tasselli di un grande disegno divino con un unico scopo: rovinarlo.

Per di più, chiunque si stesse impegnando per perseguire quell’o-biettivo doveva essere un grande esperto in materia, perché ci stava riuscendo straordinariamente bene: non capita a nessuno di essere buio in viso mentre si mangia un trancio di pizza, neanche se il suo aveva la mozzarella troppo liquida.

Nonostante ciò che stava mangiando fosse considerato dai più (e da lui) uno dei più buoni cibi mai esistiti, non poteva purtroppo fare a meno di lasciarsi andare a considerazioni sconfortanti sulla sua attuale condizione.

Primo: Laura da tre settimane lo aveva mollato. O meglio, la scusa ufficiale era stata “prendersi una pausa di riflessione”, ma ormai quella frase aveva assunto il significato di “mi hai stancato” per quasi tutte le ex-coppie che Gianni aveva conosciuto, e non capiva per quale ragione per lui dovesse essere diverso. L’unica cosa che cambiava dalle altre storie era che lui non aveva emesso un solo

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lamento di protesta quel fatidico giorno: l’aveva osservata in silenzio mentre lei raccoglieva le sue cose con cura, le disponeva ordinata-mente in una grande borsa e usciva da casa, lasciando la sua copia delle chiavi sullo zerbino. Secondo quel che lui aveva capito e sapeva sull’amore tra loro, la visione di Laura nella strada di fronte alla sua finestra, con la valigia tra le mani e i lunghi capelli castani svolaz-zanti alle sue spalle, poteva anche essere l’ultima.

Secondo: Sacchi lo aveva convocato nel suo ufficio, si era grattato la sua barbetta bianca e aveva decretato che lui era a rischio licenzia-mento, e a quanto pareva solo la buona sorte avrebbe potuto far pendere la bilancia a suo favore; il fatto che tutta la sua vita si basasse su quell’impiego da operaio, sia dal punto di vista finanziario che da quello umano, era assolutamente irrilevante nella decisione del suo capo. Quel posto di lavoro era la sua unica fonte di sostenta-mento quotidiano e il luogo in cui poteva vedere tutti i suoi amici, ma a chi importava? Anche quello non dipendeva da lui, ma dal fatto che praticamente qualunque cosa tendeva a scivolargli via dalle mani… ad esempio, il suo nuovo amico Max: era stato assunto solo due mesi prima, si era trovato benissimo con lui e ora entrambi rischiavano il licenziamento! Probabilmente era lui stesso, Gianni, che portava sfortuna… sì, doveva essere così…

Terzo: quella dannatissima bolletta. Possibile che dovesse sempre arrivare puntualissima? Ogni cosa nella sua vita era in ritardo, compreso l’orologio del forno e la consegna della pizza di quella sera, ma quella busta no: nel giorno prestabilito, eccola lì nella casella della posta, come un lontano parente che ogni tanto veniva a salutare e lo seccava con le sue manie.

Quarto, ma non meno importante: avrebbe dovuto continuare a mangiarsi pizze liquide fino a quando Laura non fosse tornata, perché non sapeva cucinare. Non che quel trancio facesse schifo, ma gli avevano sempre detto che bisognava variare la dieta.

Tutto considerato, dunque, il suo torturatore personale era a buon punto nel raggiungimento del suo obiettivo.

Gianni sospirò, si alzò da tavola senza molta voglia di controbilan-

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ciare la forza di gravità, spense l’interruttore della luce e si buttò sul divano del soggiorno, sperando che qualche stupidaggine alla TV potesse distrarlo abbastanza da farlo addormentare senza doversi rigi-rare nel letto per due ore di fila.

Fece zapping per un bel po’, ma, a parte che il ciarlare dei vari presentatori copriva il rumore della pioggia che scrosciava fuori dalla finestra, niente di ciò che vide contribuì a migliorare il suo umore; una commedia sentimentale con due bellissimi attori che si abbando-navano a un lungo bacio appassionato, di cui lui riuscì a vedere con precisione le lingue che si intrecciavano prima di cambiare canale; un film in cui moriva qualcuno in una stanza, mentre nel giardino di fronte qualcun altro sputava parolacce a ripetizione e si fumava una sigaretta; un gruppo di quattro persone partecipanti a un talent show che provavano a suonare la chitarra da sdraiati, stonando clamorosa-mente… poi finalmente si decise a spegnere il televisore, conscio che aveva visto abbastanza dei programmi di quella sera per capire che non c’era assolutamente niente di utile per lui, e si recò stancamente verso il bagno, quasi inciampando nelle scarpe che aveva lasciato sul pianerottolo quando era arrivato.

Sarebbe dovuto andare a letto, ma sapeva già che la sua agitazione non gli avrebbe certo permesso un sonno tranquillo; in quel fran-gente, sarebbe stato già un gran traguardo se la mattina dopo si fosse svegliato abbastanza lucido da poter attraversare Milano per andare al lavoro, alla guida di quel suo catorcio di automobile con il vetro scheggiato: c’erano certi ragazzacci, in centro, che dalle finestre si divertivano a lanciare sassate e a spaccare il suo finestrino ogni volta che passava… ormai era pieno di crepe come se avesse attraversato chissà quale periodo storico… quasi quanto il suo cellulare, vecchio quanto lui… già, si era dimenticato, all’elenco bisognava aggiungere i punti cinque e sei. Ah, no, ma non era certo colpa sua: c’era qual-cuno, lassù in cielo, che ce l’aveva direttamente con lui… Sì, era così di certo, perché a nessuna persona normale e innocente come lui poteva capitare una tale serie di disgrazie senza che se le cercasse e senza che nessun giustiziere divino mettesse un po’ di ordine nella

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sua faccenda… L’unico vantaggio era che, perlomeno, quella sera aveva incominciato a piovere solo quando era già entrato in casa, quindi almeno non aveva macchiato di fango il pianerottolo e i vicini non avrebbero potuto lamentarsi con lui se l’ingresso puzzava incon-fondibilmente di cane bagnato… lui non ce l’aveva mai nemmeno avuto un cane, ma gli sarebbe piaciuto… gli sarebbe piaciuto molto…

*

Un fascio abbagliante di luce illuminò la sua camera e Gianni si affrettò ad alzarsi dal letto e a vestirsi. Era in ritardo, in un tremendo ritardo. Perché la sveglia non aveva suonato? Non riusciva nemmeno a vederla sul comodino mentre, alla debole luce della torcia che teneva in mano, cercava i suoi abiti e se li metteva in tutta fretta. Probabilmente se l’era dimenticata da qualche parte in casa, concen-trato com’era nelle sue riflessioni… ma ora non c’era tempo, non c’era tempo! Doveva uscire, ora!

Indossò le prime scarpe da ginnastica che riuscì a trovare all’in-gresso, si scaraventò fuori sbattendo la porta e corse sulla strada. Fortunatamente aveva smesso di piovere, perché aveva dimenticato l’ombrello e in ogni caso non avrebbe avuto il tempo di tornare indietro…

Percorse più veloce che poteva tutta la strada, alla fioca luce dei lampioni, e l’acqua fangosa di una pozzanghera quasi gli bagnò le calze quando, nella fretta, ci finì dentro in pieno. Ora le scarpe sareb-bero state irrevocabilmente macchiate, ma lui non aveva assoluta-mente tempo di controllare se fosse presentabile, perché doveva andare… doveva correre, correre, correre…

E finalmente la vide.Con il fiatone, si avvicinò alla vetrina vuota della grande agenzia

viaggi che si trovava a pochi passi dall’isolato dove viveva. Non c’era appeso nessun manifesto di qualche viaggio, e quindi riusciva a vedersi nel vetro sgombro come se fosse stato uno specchio: eccolo lì, sudato e accaldato, con i vestiti sgangherati e i capelli che anda-

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vano dove volevano, e alle sue spalle solo i puntini di luce dei lampioni e delle stelle rischiaravano la nottata buia.

Gianni si fissò i piccoli occhi neri per qualche secondo, cercando di prendere fiato e di riordinare le idee.

Le parole gli uscirono dalla bocca quasi da sole.«Mi è arrivata oggi. Sì, la bolletta della luce, come sempre.

Puntuale come un orologio svizzero. Farò fatica a pagarla, lo so già, e probabilmente andrò in debito con la banca… e poi me ne arrive-ranno altre: quella del gas, dell’elettricità, del telefono…»

Mentre ne parlava, se le figurava lì, davanti ai suoi occhi: una montagna di fogli pieni di numeri e di buste marroni che gli volavano intorno, e lui che cercava di mettere un po’ di ordine in tutta quella carta che volava, volava… Ma no, non se lo stava immaginando! Eccole lì, nella vetrina! E volavano disordinate, si dividevano, si spiegazzavano, si muovevano, si scurivano… ed ecco, si erano fermate! Sentiva un’afosa umidità sulla pelle sudata, ma non osò scuotere un po’ il suo nuovo cappellino da esploratore davanti alla faccia a mo’ di ventaglio: non voleva farle scappare. Cercando di fare meno rumore possibile, si acquattò vicino a un cespuglio verde bril-lante lì accanto, le scarpe da trekking che sprofondavano nel terriccio bagnato, per godere solo lui del bellissimo spettacolo che gli si era appena presentato davanti agli occhi: una moltitudine di farfalle monarca, dalle ali arancioni e nere, ricopriva come un magnifico vestito gli alberi della foresta pluviale del Messico centrale, ed era lui, di tutto il gruppo che era partito quella mattina, a vederle per primo, e da solo! Non c’era nessuno intorno a lui, nessuno che potesse disturbare quel momento magico di lui e la natura come un tutt’uno…

«Signor Gianni, la prego di ritornare nel gruppo! Questi monti sono pericolosi per chi ci si addentra per la prima volta!» lo richiamò la guida, ma né lui né le farfalle parvero sentirlo e avere qualche reazione.

Eppure quel “signor Gianni” continuava a risuonargli nelle orec-chie, come il ripetitivo motivetto che si continua controvoglia a

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cantare quando ormai è entrato in testa; e in effetti gli sembrava proprio una musica leggera, il “signor Gianni signor Gianni”, come se a sussurrarglielo nelle orecchie fosse una delicata e suadente voce di donna… Laura?

Ed ecco, l’immagine cambiò improvvisamente: c’era il profilo della ragazza, con il borsone in mano, che camminava per la strada e si allontanava da casa sua… e i lunghi capelli castani, che a lui erano sempre piaciuti, continuavano a muoversi e a spettinarsi al vento. Sembrava quasi che si allungassero, da quanto erano scossi… sì, che si distendessero sempre più, come un enorme elastico teso al massimo, e che si aggiungesse un po’ di verde e di azzurro, anche nel paesaggio circostante… e lui restava sempre alla finestra, a guardare dall’alto, sempre più in alto… ed era a bordo di un elicottero, con l’autista che gli gridava qualcosa nelle cuffie, e guardava incantato fuori dal finestrino il paesaggio che stava sorvolando a bocca aperta: quasi un chilometro di acqua scrosciante che precipitava da un alto picco di roccia e si incanalava nel Kerepakupay, nel Parque Nacional de Canaima, in Venezuela; un unico, dritto, sgorgo d’acqua in caduta libera, bianco spumeggiante come… come… la barba del suo capo?

Sì, Sacchi, che lo voleva buttare fuori dalla fabbrica, e mentre glielo diceva si grattava quella sua irritante barbetta bianca perfetta-mente curata, come se fosse l’unica cosa importante nella sua vita. Gianni se lo figurò mentre se la toccava distrattamente e immaginò, per vendetta, di vedergliela crescere: venti centimetri, quaranta, ottanta… un metro, cinque, dieci, venti, cinquanta!

E non era più una barba: era un fiotto di sessanta metri di vapore, puntuale ogni novanta minuti quasi quanto la sua bolletta, nel parco nazionale di Yellowstone… e lui era lì a pochi metri dal getto, reso candido brillante dalla luce che passava attraverso le sue gocce. Quello stesso bianco lucido del suo freezer, gli venne in mente improvvisamente, dove ciò che Laura non avrebbe mai più cucinato per lui restava a congelarsi… e i cubetti di ghiaccio si ingrandivano, diventavano enormi, solidi e scivolosi… ed erano iceberg, che lui stava guardando dal ponte di una nave, coperto da una giacca imbot-

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tita di un colore marroncino spento, simile a quello della sua automo-bile… e il suo finestrino rotto, che i monelli tentavano sempre di distruggere, a un tratto si allungò e lui non riuscì più a vederne la fine. Si alzò, per vederlo meglio, e chiese all’autista dell’elicottero dentro cui si trovava se fosse così pericoloso vivere lì, dato che lui lo trovava così bello.

«Ah, glielo assicuro, signor Ferrari, glielo assicuro! Attraversa tutta la California, e molti geologi temono che un giorno, a San Fran-cisco, si verifichi un terremoto. Perché arriva fino a lì, sa? Milletre-cento chilometri di faglia, proprio così!».

Lui annuì ammirato e si affacciò di nuovo fuori a contemplare quella che sembrava un’enorme ferita della crosta terrestre, simile a una lesione aperta sulla pelle di un uomo o al graffio su un cellulare… sul suo cellulare. Chissà quante volte gli era caduto… l’ultima volta era stata l’altro ieri, quando lo aveva tenuto in mano fino a pochi secondi prima che gli scivolasse, per via del palmo sudato; e lo teneva ancora stretto tra le dita mentre si allungava sempre più e la terra incominciava a mancare sotto i suoi piedi… e non era il telefono che stava cadendo: era lui!

Stava scivolando giù dal versante di una montagna, perché era la prima volta che provava a scalarne una, e cercava di aggrapparsi freneticamente a ogni sporgenza che intravedeva, senza successo; fortunatamente la sua guida si voltò, gli sorrise e gli tese la mano, con fare amichevole. Non aveva mai immaginato che Max sapesse scalare una montagna o che avesse questo tipo di hobby, eppure eccolo davanti a lui, a porgergli la mano… sospirò: nonostante si trovasse in una situazione così pericolosa, continuava a temere per lui. E se l’avessero licenziato insieme a lui? E se avessero licenziato – ancora peggio – solo uno dei due? Come avrebbero fatto a risen-tirsi? Gianni aveva sempre fatto fatica a iniziare un discorso da solo: la bocca gli si paralizzava, i denti si bloccavano, la lingua si attac-cava al palato e lui si sentiva soffocare.

Era umido e freddo, come se la temperatura fosse calata all’im-provviso; e lui avrebbe voluto parlare con Max, ma non poteva,

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perché lui non c’era, era sparito, e poi, a dir la verità, neanche avrebbe voluto: alzando la testa, decine e decine di stalattiti gli sfio-ravano la fronte… quanto gli sarebbe piaciuto toccarne una, anche se la guida aveva ripetuto più volte di non farlo… non doveva farlo, proprio no, però se ci avesse provato di nascosto, forse nessuno si sarebbe arrabbiato… ma, ancora prima di toccarla, la stalattite si allontanò inesorabilmente, sempre di più… lui allungò il braccio per sfiorarla e…

*

Gianni si grattò la testa, cercando di fare ordine nel suo cervello confuso. Probabilmente aveva solo bisogno di un buon caffè che gli schiarisse le idee: l’alternativa era il dover ammettere che qualcosa si spostava o appariva dal nulla senza ragione, e lui quello non sapeva né poteva accettarlo.

Strizzò gli occhi, sforzandosi di ricordare, ma tutto sembrava essere andato come al solito: la sera prima, quando era tornato dal lavoro, aveva lasciato le sue scarpe vicino al portaombrelli dell’in-gresso e quella mattina, come tutte le altre, le stava ritrovando lì.

Allora perché lui non le ricordava sistemate così vicino alla porta? Si erano spostate durante la notte, per caso? Ma no, non era possibile: sicuramente le aveva messe lì in modo diverso dal normale. Eppure, se veramente fossero state in quel punto lì, non sarebbe potuto inciampare, perché erano troppo da parte per camminarci sopra per sbaglio.

Improvvisamente gli venne in mente che probabilmente c’era dentro un topo che le aveva usate come tana: durante la notte, le scarpe si erano realmente spostate, ma a causa di niente di sovranna-turale. Visto? Problema risolto: nessuna magia in casa, tutto tran-quillo, tutto ordinario…

Si chinò per osservarle meglio e per stanare il ratto quando improvvisamente notò un’altra cosa incredibile, che quasi gli fece fare un salto sul posto.

Le scarpe erano sporche di fango.

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Su questo era certo: la sera prima, aveva incominciato a piovere dopo che lui era entrato in casa.

Era un punto fermo che riuscì finalmente a porre: le sue scarpe non avrebbero potuto imbrattarsi di acqua sporca delle pozzanghere. L’ul-tima ipotesi da abbracciare sarebbe stata quindi il dover ammettere che era effettivamente uscito quella notte.

Lo aveva fatto?A meno che non fosse sonnambulo, e non lo era mai stato, era

sempre rimasto nel suo letto. Era certo stata una notte movimentata – in sogno, aveva visto foreste, cascate, un geyser, degli iceberg, la faglia di Sant’Andrea, aveva fatto la scalata di una montagna e persino la visita a una grotta – ma quello solo nella sua testa, e poi si era addirittura svegliato in anticipo.

Come se non avesse avuto abbastanza preoccupazioni, però, sembrava che i suoi pensieri si fossero materializzati in quelle piccole e odiose macchie di sporcizia sulle sue scarpe nuove, che fino alla sera prima erano immacolate.

Sospirando, le indossò e uscì a fare una passeggiata. Poteva sperare che l’aria inquinata del suo quartiere, in cui viveva da anni e dal quale non si era mai spostato, gli avrebbe illuminato il cervello, se solo avesse trascorso quella mezz’ora in più che aveva di tempo a sgranchirsi un po’ le gambe; ma ne dubitava molto: il cielo nuvoloso era esattamente uguale a quello del giorno precedente, e per la strada, oltre alle pozzanghere, non si riusciva a vedere niente di particolar-mente innovativo rispetto al solito. Dopotutto, Milano era sempre uguale a se stessa in quel piccolo angolo di città dove lui viveva, e non poteva certo permettersi di sperare in una novità da un giorno all’altro… e non gli erano mai piaciute, poi, le novità…

E improvvisamente la vide.Con il cuore che batteva a mille, si avvicinò alla vetrina della

grande agenzia viaggi che si trovava a pochi passi dall’isolato dove viveva. A quel luogo, in quella particolare mattina, si sentiva strana-mente legato: sentiva dentro il petto che lì era successo qualcosa, ma non riusciva a spiegarselo…

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Il vetro era talmente lucido che poteva specchiarvisi, e così si osservò sovrappensiero mentre si grattava la testa, mentre alle sue spalle il sole faceva capolino da dietro i tetti delle case… e fu sorpreso di notare, forse per la prima volta, la giovane impiegata seduta al bancone. Era una donna dalle curve delicate, con corti capelli neri a caschetto, e in quel momento stava sfogliando un po’ di fogli scritti fittamente. Non se n’era mai accorto, ma lei era molto carina quando era concentrata: era molto diversa da Laura, ma non per questo meno attraente.

Improvvisamente lei alzò lo sguardo verso di lui e gli sorrise.Lui ricambiò, perplesso, e fu scosso da un tremito di eccitazione

che non provava da molti anni.Poi si fissò di nuovo le scarpe, chiedendosi come mai fossero

macchiate.Ma alla fine, che importava?Gianni si osservò un’ultima volta, si sistemò velocemente i capelli

ed entrò con decisione nell’agenzia viaggi.

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Lo chiamavano “aguzzino”Lavella

Lo chiamavamo “aguzzino” ma per scherzo. Le prime volte in cui ci aveva telefonato aveva in effetti finto di essere un maniaco minac-ciando torture e sofferenze. Io e mia sorella però non ci eravamo per niente spaventate perché avevamo intuito immediatamente che potesse trattarsi di una persona conosciuta. Avevamo risposto quindi in tono giocoso invitandolo a partecipare a mostre sulle torture medioevali e a vedere film dell’orrore per costruirsi un’adeguata formazione prima di procedere alla nostra tortura.

Il nostro tono lo aveva divertito e tra una chiamata e l’altra era diventato un ospite telefonico fisso della nostra casa. Quando ci chia-mava lo prendevamo in giro e lui rispondeva in maniera simpatica. Le conversazioni continuarono per anni assumendo toni via via sempre più confidenziali. Le telefonate con l’aguzzino diventarono un rituale, lui esordiva sempre con frasi che promettevano terribili torture e poi dopo qualche battuta scherzosa la conversazione evol-veva con scambi di opinioni e talvolta anche di confidenze. L’aguz-zino sosteneva di conoscerci bene e spesso lo dimostrava raccontan-doci fatti che non avrebbe potuto sapere altrimenti.

Eravamo terribilmente incuriosite e periodicamente i nostri sospetti ricadevano sull’uno o sull’altro amico ma poi venivano puntualmente smentiti da qualche evento successivo. Ci scervella-vamo per cercare di capire chi fosse. Lui, dal canto suo, si divertiva a confonderci.

Nel frattempo le telefonate si infittivano e lui diventava una presenza familiare. In casa tutti lo riconoscevano. Se chiamava quando eravamo fuori la mamma ci diceva con tutta tranquillità: «Oggi ha chiamato l’aguzzino, ho detto che eravate uscite. Ha detto che richiamerà.»

Passarono gli anni e ci trasferimmo in un’altra città. L’aguzzino

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però riuscì a scovarci anche lì e riprese a chiamarci con frequenza. Eravamo divertite dalla sua assiduità e l’alone di mistero mai svelato contribuiva a tenerci incollate a questo personaggio.

Era il fascino del mistero. L’aguzzino era furbo, sapeva bene che se un giorno si fosse rivelato sarebbe stato un amico come tutti gli altri e manteneva con astuzia il suo ruolo privilegiato lasciando irri-solta la sua identità. I nostri fidanzati erano gelosissimi di lui e ci definivano incoscienti e temerarie per il fatto che gli davamo confi-denza. In realtà, non intravedevamo nessun pericolo; eravamo convinte si trattasse di qualcuno che conoscevamo probabilmente bene e che stava tentando con noi un approccio originale. La sua voce era quanto mai familiare ma non riuscivamo a darle un volto. Continuavamo a sviscerare le ipotesi più svariate senza però la vera intenzione di scoprire chi fosse.

Così come avevo accettato tardi che Babbo Natale non esiste, mi crogiolavo nell’alone di mistero che il nostro aguzzino aveva costruito intorno a sé. In un mondo che ti spiattella in faccia solo crude verità è una salvezza avere ancora qualcosa da scoprire e come quando cerchi di prolungare il momento che precede il primo bacio facevo durare in eterno questo mistero.

Arrivò però il giorno in cui il nostro amico decise di palesarsi. Dopo aver glissato più volte con inutili pretesti venne il momento dell’incontro.

Quella mattina non ero per niente emozionata, mi sentivo triste come quando un bel libro arriva all’ultima pagina ma vorresti non finisse mai. Mi preparai svogliatamente senza riuscire a concen-trarmi. Mi interrogavo sull’utilità di questo incontro e non trovavo risposte. Mi fermai di fronte a una vetrina che esponeva dei jeans di mio gradimento. Guardai l’orologio, non c’era tempo. Affrettai il passo, raggiunsi il giardinetto, affollato come sempre. Un gruppo di pensionati giocava a bocce, un gruppetto di ragazzini si esibiva in una partita a pallone, una coppietta si baciava, due uomini fumavano guardando ripetutamente l’orologio come se aspettassero qualcuno. In lontananza altre persone erano riunite a chiacchierare. Una mamma

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osservava da lontano il suo bambino intento a pattinare, un ragazzo trafficava con il telefono mentre sedeva su una panchina. Da questo quadretto sarebbe sbucato presto il mio aguzzino e il gioco sarebbe finito. Improvvisamente realizzai che non avevo nessun desiderio che lui mi svelasse la sua identità, desideravo solo i jeans che avevo appena visto. Alzai i tacchi e mi precipitai a comprarli. Un’impensata leggerezza si impossessò di me. Quel senso di smarrimento terminò. Ora ero di nuovo colma di quella divertente curiosità che non avevo intenzione di soddisfare.

Quando tornai a casa squillò il telefono: «Sono il tuo aguzzino, devi soffrire …» E il mistero continuò.

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Sogno o realtà?Francesca Vernazza

Passo dopo passo procedo senza meta in questo posto misterioso.Sembra un tunnel, un’immensa galleria senza uscita.Non sono mai stata qui, e non ho idea di come ci sia arrivata.

Cerco di rammentarlo ma invano, ho un mal di testa terribile. «C’è qualcuno?» domando. Nessuna risposta.

Improvvisamente un rumore invade questo strano luogo. È un tintinnio assordante.

Aiuto! Non ne posso più, mi sta rompendo i timpani.Mi copro le orecchie e inizio a correre. Basta, basta, divento sorda!Il suono diventa sempre più forte.

Ti-ti-ti-tiNon c’è la faccio più, ho bisogno d’aiuto. Sento un’eco di voci,

non riesco a capire cosa dicono e a chi appartengono.

Ti-ti-ti-tiBastaa!!!

A un certo punto qualcuno mi tira il braccio. Mi guardo intorno; deglutisco, non vedo nessuno.

«Ehi, Amanda, Amanda, svegliati!» dice un ragazzino. Dalla voce mi sembra di conoscerlo.

Ti-ti-ti-ti«Svegliati, svegliati» mi incita il piccolo.Lentamente sollevo le palpebre, mi sfrego gli occhi e cerco di

mettere a fuoco ciò che mi circonda.«Sei tornata fra noi Amanda, finalmente!» esclama il bambino.Sorrido. Ma è Jonathan, il mio fratellino!«Che succede li dietro?» ci chiede nostro padre, Jack.

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Scoppio a ridere. «Perché ridi?» mi domanda Johnny, incuriosito.«Mi sono addormentata profondamente e non mi ricordavo

dov’ero, e con chi.»Mio papà scoppia a ridere. «Ma come no? Va be’, te lo ricordo io:

sei in macchina con me e tuo fratello e stiamo per andare ad abitare nella nostra nuova casa, in un bellissimo paese in collina chiamato Soultown.»

Spalanco gli occhi; è vero adesso ricordo, come ho fatto a dimenti-carlo? Quello strano sogno mi ha fatto totalmente scordare la realtà.

«Quanto manca papà? Sono stanco di stare seduto» si lamenta Jonathan.

«Manca poco non più di mezz’ora, abbi pazienza figliolo.»Il ragazzino sbuffa scocciato, mentre a me prende una stanchezza

improvvisa.«Va be’, io riposo ancora un po’» mormoro e chiudo gli occhi.«Ehi, non dormire» grida mio fratello.«Tranquillo, non…»

Ti- ti-ti-tiMi sveglio di soprassalto: è di nuovo quel fastidioso suono!Mi tappo le orecchie. Ma che cos’è? È insopportabile!Mi metto a correre. Aiuto!Ti-ti-ti-tiBasta, qualcuno lo faccia smettere…A un certo punto, sento un’eco di voci. «Chi c’è?» Nessuna

risposta.Tendo le orecchie, il suono mi rompe i timpani, ma non importa,

voglio capire cosa dicono, le voci, e a chi appartengono.

Ti-ti-ti-tiIl rumore è troppo forte e sovrasta le persone che stanno parlando.

«Ehi, chi siete?» urlo con tutta la voce che ho in gola.

Ti-ti-ti-ti«Svegliati, siamo arrivati» grida Jonathan.

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Ti-ti-ti-ti«Amanda, torna tra noi.» Apro gli occhi. «Su, scendiamo» ci dice

papà.Soultown, è un piccolo paese immerso nella natura, l’opposto della

inquinata metropoli in cui vivevamo prima.Circa un mese fa mio padre perse il lavoro, così mio zio Arturo gli

propose di trasferirsi a Soultown per lavorare nella sua pasticceria e lui accettò.

Io e Jonathan, dato che i miei genitori sono divorziati e mia madre è spesso fuori per lavoro, abbiamo dovuto seguirlo qui.

«Ciao Jack, da quanto tempo non ci vediamo» esclama un uomo abbracciando mio padre.

Lui lo fissa in modo strano, e poi gli sorride. «Eh già, è vero, fatti abbracciare Tom.»

Come Tom? E zio Arturo dov’è?L’uomo guarda me e Jonathan, aggrotta la fronte e ci sorride.

«Amanda, come sei cresciuta; l’ultima volta che ti ho visto eri picco-lissima, avrai avuto due anni. E questo giovanotto quanti anni ha? Quindici? Sedici? È un gigante.» Johnny ride. «Ne ho dieci.»

Tom improvvisamente diventa triste, guarda papà, che annuisce.Lo zio mette una mano sulla spalla a me e a mio fratello dicendo:

«Sarete stanchi, andiamo a casa così vi riposate un po’.»Aspetto che Tom si allontani, prendo in disparte mio padre e gli

domando a sorpresa: «Papà, perché c’è zio Tom? Dov’è zio Arturo?»Lui guarda in basso e mi risponde con gli occhi pieni di lacrime:

«Be’, vedi, tesoro, zio Arturo è…» Deglutisce e aggiunge: «…dovuto partire.»

«E tu lavorerai da solo nella pasticceria?» gli chiedo sempre più confusa.

Lui mi fissa, gli sta venendo da piangere; annuisce e bisbiglia: «Dai, andiamo a casa.»

Lo seguo senza aggiungere altro. Non capisco la sua strana reazione.

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La casa è molto carina, ha un giardino, due piani e una piccola mansarda.

Entro nella mia stanza, è più piccola di quella che avevo prima ma è più bella.

Appoggio le valigie vicino al letto e mi sdraio. Non so perché, da quando sono in macchina mi sento molto stanca; boh, forse è l’ansia del trasloco.

Decido di riposare dieci minuti prima di disfare i bagagli.

Ti-ti-ti-tiSollevo le palpebre. Oh no, di nuovo quel suono insopportabile!Mi guardo intorno: sono di nuovo nella misteriosa galleria.

Ti-ti-ti-tiSento delle voci soffocate dal suono.«Ehi!» grido con tutto il fiato che ho in gola. «Chi siete?» Nessuna

risposta.

Ti-ti-ti-tiNonostante il suono mi rompe i timpani, tendo le orecchie e cerco

di capire chi è che parla.Mi sembrano due donne e un uomo.

Ti-ti-ti-tiAiuto, basta, basta! Che male alle orecchie!A un certo punto sento un fastidio al petto e una luce apparsa

all’improvviso mi acceca. Ma cosa sta succedendo?Ti-ti-.ti-ti

«Amanda, svegliati, torna insieme a noi» grida Johnny. Mi sveglio di soprassalto. «Dormi sempre» sogghigna mio fratello. «Dai, vieni, ci aspettano di sotto.»

Mi alzo dal letto e mi guardo allo specchio. Ho fatto di nuovo quello strano sogno. Che strano! Ma forse è solo una coincidenza.

Scrollo le spalle. Sto per uscire dalla camera quando sento una vibrazione nel petto e perdo i sensi.

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Ti-ti-ti-tiOh no, è di nuovo quel suono! Cerco di alzarmi ma non ci riesco.Apro gli… Oddio, non riesco a sollevare le palpebre… Ma cosa

succede?Provo a sollevare un braccio ma invano; ho tutti gli arti paralizzati.

Tento di aprire la bocca ma è inutile, le mie labbra restano serrate.Ti-ti-ti-ti«Signora, presto, venga a vedere!» esclama una donna, dalla voce�

mi sembra di non conoscerla.

«Amanda, dai, vieni» urla Jonathan dal piano di sotto.Velocemente mi alzo e rabbrividisco. Ogni volta che mi addor-

mento faccio quello strano sogno con quel suono fastidioso e non capisco il motivo, è un mistero, però mi sembra così reale.

Mentre scendo le scale sento parlare gli altri.«Io non voglio che Amanda se ne va» piagnucola Johnny.

Spalanco gli occhi, andare dove?«Lo so, ma forse lei non può rimanere con noi purtroppo» gli dice

mio padre.Mi blocco. Ma cosa dicono? Perché non posso?«Lei non è ancora morta, e non si rende conto che noi lo siamo.

Forse può ancora salvarsi» esclama zio Tom.

Il sangue mi gela nelle vene, la gola mi si secca, la terra sparisce sotto i miei piedi. Ma come, sono morti? No, è uno scherzo, non è possibile, aiuto! Ho paura! Che succede? Aiuto, aiuto, aiuto!

Sento un’altra vibrazione nel petto e perdo i sensi.

Ti-ti-ti-ti«Signora, venga, presto, si sta svegliando» grida una donna.«Amanda, tesoro, svegliati, ti prego» singhiozza una persona. Ehi,

ma, un momento, è mia madre!Lentamente apro gli occhi, stordita mi guardo intorno, sono in un

ospedale.

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«Mamma» bisbiglio. «Meno male che sei viva, è un miracolo» piagnucola mia madre.«Dove sono papà e Jonathan?» le domando.Lei scoppia a piangere. «Amanda, loro purtroppo sono morti, non

ti ricordi che avete avuto un incidente?»Le lacrime cominciano a scendermi giù lungo le guance. Adesso

ricordo, viaggiavamo tranquillamente in macchina quando a un certo punto un’altra auto ci è venuta addosso. Ora mi rendo conto di tutto: ho sognato cosa sarebbe successo se non avessimo avuto quel terri-bile incidente. Un momento! E zio Tom? Cosa c’entrava?

Mi mordo il labbro; pian piano rammento che zio Tom è morto quando io avevo due anni ed è stato sotterrato a Soultown.

Chiudo gli occhi e spero di sognare di nuovo così sfuggo a questa terribile realtà.

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Il giornalista tedesco Kurt Kisseler e il caso Konrad-Schauberger

The Royal

Nel vivere quotidiano ci sono vicende che presentano il crisma della normalità, addirittura della banalità. Ma qualora vengano sezio-nate e analizzate nella loro fattispecie, si impregnano di fascino e di mistero, per non dire addirittura di inspiegabilità intrisa di velata tensione e di occulto orrore. Tutto ciò che sembra facile, scontato e logico, assume inspiegabilmente le parvenze di un angosciante labi-rinto fatto di specchi che sprofonda lentamente in un mare di nebbia investigativa proveniente chissà da dove. E se si ponderano tali vicende, come si suol dire, “a bocce ferme”, si ha la netta e spaven-tosa sensazione che ci sia qualcuno a tirarne i fili. Qualcuno che non solo conosca la verità ultima di tali eventi, ma che ne sia anche l’arte-fice e il conduttore più muto e occulto che mai.

È il caso di questa singolare vicenda passata quasi inosservata, di cui sono stati protagonisti sei uomini accomunati da una circostanza apparentemente spettacolare e avvincente, ma che, nel proprio svol-gimento ed epilogo, ha avuto una conclusione inspiegabile, irrisolta e illuminata da una orribile luce sinistra. Vediamo questi uomini da vicino e ci renderemo conto di quel baratro avventuristico in cui erano caduti non tanto per narcisismo o desiderio di protagonismo ma per amore di una verità che non sarebbe mai emersa perché “qualcuno” voleva che non emergesse.

Kurt Kisseler, giornalista tedesco d’assalto, ex militante nella sini-stra più estrema e radicale, fondatore di un affermato quotidiano poli-tico, il “Meinungen”, che tradotto in italiano significa “Opinioni”, decise, per far tentare un salto di qualità al suo giornale, di realizzare uno storico scoop che potesse portare il suo quotidiano agli onori

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della storia. Uomo di cultura e d’alternanza, amante della mistero-logia e con conoscenze altrettanto appropriate, nel gennaio del 2010 decise di fare definitivamente luce su quello che è sempre stato uno dei più fitti e controversi misteri della storia, ovvero il mostro di Loch Ness. Attenzione a questa scelta argomentale optata da Kisseler dato che inizialmente avrebbe potuto far sorridere e condurre l’opi-nione pubblica al più scontato scetticismo; attenzione perché a partire dal momento in cui Kisseler fece questa scelta, ebbene, tale decisione si sarebbe trasformata in una vera e propria “killing zone” senza apparenti spiegazioni e con esiti inspiegabili e angoscianti.

Kisseler fece molto presto a entrare in contatto con due studiosi di fama internazionale che tra l’altro erano anche suoi cari amici d’in-fanzia e precisamente David Konrad, docente di biologia all’Univer-sità di Amburgo, e Gottlieb Schauberger, paleontologo di fama non internazionale ma addirittura mondiale per le sue ricerche e i suoi studi sulle civiltà scomparse. Parlare con questi suoi amici di tale intenzione e ottenere immediato consenso da parte loro fu per Kisseler un tutt’uno che lo coinvolse immediatamente in una sorta di spedizione con finalità altamente serie e scientifiche: in altre parole anche a Konrad e a Schauberger interessava mettere a fuoco e chia-rire definitivamente quest’argomento che si era spesso trascinato banalmente nel tempo e nella storia senza mai avere un chiarimento definitivo.

Ma il tutto sarebbe dovuto avvenire nella riservatezza e lontano dal rumore dei mass media. Solo Kisseler, per via della sua posizione, sarebbe stato, secondo i due studiosi, l’uomo più adatto per essere il “segretario” di questa inchiesta liberata dalle facili speculazioni e oramai troppo sfruttata. I tre cercavano la verità e non l’equivoco in malafede per creare facili spettacolarismi.

Strumenti tecnici: Kisseler con un PC portatile di ultima genera-zione, parecchi CD e una foto-videocamera con zoom 24x anche se era già stato previsto che, più che un indagatore, sarebbe stato un fedele annotatore dei materiali raccolti da Konrad e Schauberger.

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Per costoro invece l’armamentario, se così lo vogliamo definire, era composto da un PC portatile, due rispettive video-fotocamere impermeabili, due sonde digitali e due ecoscandagli di ultima genera-zione. Più, naturalmente, numerosi CD. Il tutto era rinchiuso in una valigia neanche tanto ingombrante; miracoli dell’evoluzione digitale.

Questo trio entrò di fatto in azione verso la metà di marzo di quel-l’anno raggiungendo il luogo del proprio insediamento, ovvero la Loch Ness Pub, una piccola e simpatica locanda con pochissime camere gestita in proprio da un semplice e ospitale albergatore, Robert Fischer, conduttore da oltre un ventennio di quella pensione. Il terzetto fece presto a diventare amico di Fischer, il quale preparava loro piatti semplici ma gustosissimi e, quando gli era stato detto il motivo della permanenza nella sua locanda da parte dei tre, per la verità pare fosse scoppiato in una fragorosa risata, beninteso senza malizia, e pare avesse detto questo: «In oltre un ventennio che sono sulle rive di questo lago, non ho mai visto spuntare una sola pinna in superficie.» E per giunta pare anche che, una sera a tavola, avesse fissato i tre in volto con un’espressione scettica e amichevole che sembrava volesse dire: «Ci siamo capiti vero?»

Sostanzialmente, secondo Fischer, che potremmo considerare per la propria posizione un vero e proprio addetto ai lavori, il trito e ritrito mostro di Loch Ness sarebbe stato semplicemente una colos-sale panzana, per usare un termine elegante. Ma Kisseler, Konrad e Schauberger non avevano certo intenzione di fermarsi davanti a queste affermazioni anche se apparentemente veritiere e, diciamo, credibili.

Vediamo un attimo il mezzo di navigazione: una sorta di lancia con motore fuoribordo lunga poco più di cinque metri e messa ben volen-tieri a disposizione da Fischer.

Le giornate avevano normalmente questo svolgimento: in matti-nata Konrad e Schauberger partivano in barca con tutto l’armamen-tario navigando sempre vicino alla costa e utilizzando i loro stru-menti, compreso un potente binocolo digitale marino che avrebbe

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dovuto servire per gli avvistamenti. Scattavano foto sott’acqua con le sonde e in superficie, scrivevano i loro appunti informatizzati, e poi in serata rientravano consegnando il materiale su CD a Kisseler il quale ne eseguiva sempre tre copie.

Una per sé, una per Konrad e Schauberger e un terzo stock di materiali che per ragioni di mera sicurezza veniva affidato a Fischer il quale bonariamente sorrideva scuotendo scetticamente il capo. Da notare che Kisseler copiava i materiali senza osservarli nei dettagli. E quando i quattro erano a tavola insieme, paradossalmente non scen-devano mai nei particolari.

Questo, definiamolo scorrevole, andamento di tale indagine si protrasse per circa una settimana. E fu pure una settimana di relax, o meglio di apparente relax per tutti e quattro: per Kisseler, il quale, dopo essere stato gran parte della giornata seduto a un tavolino sulla veranda che dava sul lago per scrivere articoli a sfondo politico che inviava via email al proprio giornale, attendeva con entusiasmo il rientro di Konrad e Schauberger per copiare in velocità i loro CD e i loro appunti, per i due investigatori principali, i quali, quando rientra-vano sembravano essere sempre più sereni e soddisfatti dei loro rile-vamenti, e per lo stesso Fischer, il quale, trovandosi in bassissima stagione turistica, si rilassava moltissimo cenando con i tre e occu-pandosi in prima persona del trattamento pensionistico loro riservato.

Ma verso la fine di marzo, e precisamente la sera del 30, Konrad e Schauberger non rientrarono. Era una serata molto umida e non parti-colarmente fredda. Fischer aveva già apparecchiato per la cena intorno alle 19,45 mentre Kisseler era in piedi nella saletta da pranzo e guardava nervosamente l’orologio. «Dovrebbero essere qui da almeno mezz’ora» disse Fischer rivolgendosi a Kisseler. E Kisseler alzando lo sguardo dall’orologio rispose con aria preoccupata e un pizzico di amara ironia: «Robert, non dirmi che sono stati mangiati dal mostro perché sento che c’è qualcosa che non gira e poi non è il momento di scherzare.» Fischer, mettendo una bottiglia d’acqua minerale sul tavolo rispose: «Il fatto è che, se non rientrano, io come

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albergatore dovrei denunciare la loro scomparsa alla polizia, ma volendo, visto il periodo morto in cui siamo, potrei anche tirarla più alla lunga.» Kisseler riprese sedendosi a tavola con Fischer: «Io adesso provo a chiamarli sul telefonino; se non ottengo riscontro, domattina vorrei provare a recarmi a piedi lungo il sentiero che costeggia il lago, alla distanza che loro avevano detto avrebbero percorso, e vedere se non trovo niente di strano.»

Kisseler provò a comporre i numeri dei cellulari di Konrad e Shau-berger ma l’esito fu facilmente intuibile: nessuna risposta. Irraggiun-gibili. Dopo aver cenato rapidamente, Fischer e Kisseler andarono a dormire. Ma nell’aria stava iniziando a diffondersi uno strano nervo-sismo che proprio non piaceva a nessuno dei due. L’indomani mattina, molto, molto presto, Kisseler si incamminò lungo il sentiero e, giunto a circa un miglio e mezzo dalla locanda, trovò quello che non avrebbe mai voluto trovare e cioè la barca semiarenata alla deriva. Konrad e Schauberger scomparsi e con loro anche tutto l’ar-mamentario sia fotografico sia digitale. Avvertì subito Fischer sul cellulare e poi si avviò verso la locanda. Percorsi un centinaio di metri Kisseler si imbatté in un residente della zona, il quale dopo averlo salutato gli disse questo: «Signore, ma lo sa che ieri sera in questa zona è successa una cosa stranissima?» «E cioè?» ribatté Kisseler. «Ieri, nel tardissimo pomeriggio, io e altre persone abbiamo visto diffondersi una strana luce arancione durata pochi secondi e poi abbiamo avuto la sensazione che qualcosa di non ben definito stesse decollando per scomparire nel buio.» Kisseler ringraziò e proseguì verso la locanda ancora più rapidamente.

Entrato, raccontò tutto a Fischer il quale insistette per avvertire la polizia. Ma Kisseler ancora una volta lo dissuase. «Robert, per favore» gli disse mettendogli le mani sulle spalle, «aspettiamo ancora un attimo. Io questa sera, dopo essermi schiarito le idee, esaminerò con attenzione le copie delle loro ricerche e poi decideremo il da farsi. Meno male che ho duplicato i materiali e tu, gentilmente, vedi di non perdere le copie che hai.»

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Quel giorno passò in un baleno perché Fischer si dedicò alla ripa-razione di un mobile in una delle camere mentre Kisseler continuò a contattare la redazione del giornale via email per la stesura di articoli recensionistici di tutt’altro genere.

Giunta la sera i due cenarono e subito dopo Kisseler disse a Fischer: «Robert, io vado su in camera a visionare il materiale. Ci vediamo domattina.» «Okay» replicò Fischer, il quale, dopo aver sistemato la cucina, si avviò anch’egli nella sua camera e si prese pure una pillola di sonnifero perché avvertiva che il suo sistema nervoso stava risentendo in modo non tanto gradevole di tutta quella stramaledetta e ingarbugliata matassa.

La notte passò e il giorno dopo intorno alle 9,30, vedendo che Kisseler non era ancora sceso, Fischer si recò presso la stanza dell’a-mico e bussò due volte, chiamando: «Kurt, Kurt !» Ma Kisseler non rispose. Fischer aprì la porta e trovò l’incubo che si era materializ-zato di fronte a lui, ovvero Kisseler era scomparso. Già. Il letto era ancora fatto, la sedia del tavolino dove probabilmente si era seduto era spostata ed era scomparso anche il materiale documentaristico che Kisseler avrebbe dovuto esaminare.

La faccenda stava andando sempre più di bene in meglio. Adesso Fischer era rimasto solo, in una situazione sospesa tra l’inspiegabile e il desiderio di dimenticare tutto. Fischer altro non avrebbe potuto fare che avvertire la polizia. Ma non lo fece. Si rendeva conto che quella soluzione non avrebbe portato a niente. Quale uomo semplice e bonario capiva anche che c’era qualcos’altro che non girava per il verso giusto. Il mostro di Loch Ness quella notte non era certo uscito dal lago per venire a prendere Kisseler e mangiarselo. Proprio no. E fu invece proprio Fischer a doversi “mangiare” un’altra pastiglia per il suo sistema nervoso perché si rendeva conto che la faccenda puzzava sempre di più. E fastidiosamente.

Si recò nella veranda e guardò verso il lago. Niente di niente e ancora niente. Il lago era calmo come l’olio: era lo spettacolo che da oltre un ventennio contemplava insieme agli avventori succedutisi nel tempo.

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A questo punto Fischer prese due decisioni: per quanto riguardava la contabilità avrebbe scritto nel proprio registro delle presenze che i tre avevano lasciato la locanda la sera prima. E buonanotte. Poi andò nella sua camera, prese tutte le copie del materiale documentaristico che aveva, preparò un pacco e, dopo aver tirato fuori il motofurgone che usava sempre, raggiunse l’ufficio postale più vicino all’albergo e spedì il pacco alla redazione del Meinungen. Che se la vedessero loro. Non scrisse il mittente. Per quanto lo riguardava avrebbero anche potuto essere Konrad o Kisseler ad aver spedito quel pacco.

Fatto questo Fischer ebbe la sensazione di essersi tolto una tonnel-lata dalle spalle e magari pure di essere ringiovanito di vent’anni. Ma sarebbe stata una sensazione illusoria, preludio di qualcosa di tremendo. Dopo circa un’ora dal rientro dall’ufficio postale, Fischer iniziò a tremare come una foglia: erano i nervi andati in tilt. Ingoiò un’altra pastiglia. Okay, okay. Si calmò. Prese di nuovo il motofur-gone per andare a fare alcune compere di derrate alimentari nel centro più vicino. Ma appena scese iniziò a contorcersi spasmodica-mente e cadde a terra. Lo soccorsero e lo portarono all’ospedale. La diagnosi fu tragica: nevrastenia permanente. In altre parole Fischer era impazzito. Fu trasferito in psichiatria. E lì restò, imbottito di pillole e iniezioni. Meno male che era riuscito a spedire quel mate-riale poco prima che gli capitasse questa micidiale disgrazia.

Redazione del quotidiano Meinungen, quattro giorni dopo. Verso le 18 di sera venne recapitato in portineria il pacco spedito da Fischer, che andò subito a finire nelle mani dei due caporedattori, ovvero Watermann e Lezner. E Lezner aprendolo commentò: «Dev’essere Kisseler, sono giorni che non scrive e non telefona più.» I due tirarono fuori tutto il materiale e, mentre Watermann visionava sul PC i vari CD, Lezner leggeva gli appunti scritti da Kisseler. Nel giro di un quarto d’ora Watermann e Lezner capirono tutto riguardo alla faccenda del mostro di Loch Ness, che cosa fosse e quale ne fosse stata la provenienza. I due erano raggianti, alle stelle. Lezner esclamò: «Eccolo il colpo del secolo, adesso è tutto chiaro. Vende-

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remo milioni di copie e tutti i misteri storici crolleranno.»Watermann era in piedi vicino alla finestra che dava su un ampio

piazzale deserto e buio: la redazione del quotidiano Meinungen era una palazzina un poco fuori del centro abitato. Guardando sul piaz-zale Watermann disse con gli occhi sbarrati: «Ho la sensazione che non pubblicheremo proprio un gran bel niente di niente.»

Lezner alzò lo sguardo con aria interrogativa. Sul piazzale era apparsa una strana e fioca luce arancione mentre dalla destra del piazzale quattro uomini, quattro apparenti uomini vestiti di nero, si stavano dirigendo verso l’ufficio dei due capi. Pochi secondi e la porta si aprì. Lezner e Watermann fecero la stessa fine di Kisseler, Konrad e Schauberger: sparirono dalla circolazione.

Più tardi alcuni dipendenti del quotidiano avrebbero detto di aver notato una debole e insolita luce arancione all’esterno e poi di aver avuto la sensazione che qualcosa decollasse verso l’alto.

E allora? Cos’era tutta questa faccenda? Cinque uomini fatti sparire dalla circolazione, ovvero Kisseler, Konrad, Schauberger, Watermann e Letzner più uno, Fischer impazzito. “Fatti sparire” dalla circola-zione poiché avevano scoperto quella “verità” di cui non si poteva informare la pubblica opinione. Avevano cioè scoperto che quello che viene definito come il mostro di Loch Ness era una splendida sirena di nome Titania vissuta oltre 10.000 anni fa quando gli Atlan-tidei, figli della gloriosa civiltà Iperborea, dominavano il mondo con le loro grandezze e la loro infinita cultura.

Gli Atlantidei avevano trovato il modo di trasferire la materia con la sola forza del pensiero e tentarono di raggiungere un orizzonte che li avrebbe resi divini: la creazione della vita.

Per fare questo scelsero Titania, una bellissima sirena che nuotava nei mari nordici prima che avvenisse la glaciazione dei poli terrestri e fecero su di lei esperimenti scientifici mai compiuti prima. Ma quegli esperimenti non riuscirono e Titania venne erroneamente trasformata in un mostro orrendo simile a un drago che si riproduceva per ovula-zione. Gli Atlantidei, per la loro immensa cultura e sapienza, non

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vollero uccidere quell’essere ma lo abbandonarono in un lago remoto. Quel lago che migliaia di anni dopo sarebbe stato chiamato Loch Ness.

Gli Atlantidei dovettero lasciare il nostro pianeta per via dell’av-vento dell’era glaciale. Da quel momento iniziò sulla terra l’esistenza degli ominidi successivamente evoluti fino ai giorni nostri. Ma “i giorni nostri”, ovvero i nostri tempi, non sarebbero stati per gli Atlan-tidei le epoche storiche ideali per annunciare al mondo quella che era la loro vera storia, ivi compresa la vicenda del “mostro” di Loch Ness. E stabilirono che chiunque avesse scoperto questa rivoluzio-naria verità che avrebbe cambiato migliaia di anni di storia sarebbe stato interdetto dalle relative informazioni.

Saranno loro, gli Iperboreo-Atlantidei, a stabilire quando svelare le gloriose vicende del mondo. E ritorneranno. Ma saranno loro, non noi, a decidere in quale momento.

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Paura del buioVania Panizza

Strinsi con forza l’estremità del caldo piumone invernale. Le mani erano sudate ma percepivo freddo ovunque. Mi portai le coperte fino al naso: mi volevo nascondere ma dovevo assolutamente vedere. Che senso avrebbe avuto immergersi completamente e oscurare la vista? Non avrei più potuto tenere sotto controllo la situazione.

Mi rannicchiai contro la parete: avevo le spalle coperte. Deside-ravo infinitamente che si facesse giorno, che le tenebre lasciassero spazio alla delicata e confortevole luce mattutina. Ma non avevo tempo per le dolci fantasie.

Avrei potuto concentrarmi sulle emozioni positive, ma la paura mi invadeva troppo e per il resto non c’era spazio.

Dovevo solo fare un respiro profondo e aspettare, come sempre. Chiusi gli occhi per un attimo, come nel ricercare un potere nascosto che mettesse fine al tutto. Sussultai di colpo. Non potevo chiudere gli occhi, non potevo perdere il controllo. Essere vigile era l’unica arma a mia disposizione, nel caso in cui per qualche ragione venisse infranta la prassi consuetudinaria. Ma quel pensiero di aver perso, anche solo per un minimo istante, la connessione con quanto stava capitando, mi mandò nel panico. Non riuscivo più a rimanere calma, a esercitare un lucido dominio sul mio corpo.

Mi misi a sedere sul letto, intenzionata a chiamare aiuto, ad ammettere la mia debolezza. Non lo feci. Respirai ancora, un respiro profondo, che inalasse con l’aria quel coraggio che stava venendo meno. Mi stesi di nuovo, la schiena sempre più adiacente alla parete, il piumino sempre più stretto sulla pelle.

Non potevo fare niente se non aspettare. In fondo nulla era mai uscito dagli schemi, dovevo solo sopportare la visione.

Molte volte avevo pensato di fuggire da quella gabbia, di correre in cerca di un abbraccio confortevole per sentirmi sicura e protetta.

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Ma non potevo. Per giungere al mio rifugio era necessario attraver-sare il pericolo stesso e la mia codardia era l’ostacolo primario. Accanto a essa si insinuava anche l’orgoglio: non mi permettevo di far giungere da me il rifugio, chiedere non mi era permesso, chiedere era debolezza. E allora rimanevo lì, alla ricerca di soluzioni alterna-tive, come un burattino che scattava di tanto in tanto a sedere sul letto, pronto ad alzare bandiera bianca, per poi invece tornare rannic-chiata convincendomi di essere forte, di potercela fare ancora.

E intanto il tempo passava, il rumore di passi si faceva sempre più lontano, le ombre in processione diventavano sempre più sfocate. Probabilmente avevano adempiuto ancora una volta il loro scopo. Per loro il tempo di sparire, per me finalmente quello di dormire.

Ancora una volta avevo vinto, ma come sarebbe andato il giorno successivo?

Pregai. Pregai intensamente di essere lasciata in pace. Non potevo sopportare ancora.

Quel mondo, se così poteva essere definito, costituiva per me un’ossessione. Percepivo in me un’attrazione così assurda che iniziai a definirmi masochista.

Perché si è sedotti da tutto ciò che valica i confini dell’umano? Il sacro, quell’affascinante e terribile universo… Volevo sapere, volevo penetrare nel mistero, eppure il mio animo era troppo fragile per guardare in faccia quella realtà e uscirne illesa. Nei momenti topici crollavo.

Mi resi conto dove avrebbe potuto portarmi tutto questo e l’idea mi allettava alquanto. Ma al contempo ero consapevole purtroppo delle passioni che avrei dovuto sopportare. “Siamo liberi, giusto? Liberi di scegliere, di rinunciare, di passare il testimone… Voglio sacrificare ciò che potrei avere, il costo è troppo alto. Ti supplico. Non sono così forte. Non sono quella giusta.”

Tutto se ne andò. Non dovetti più sopportare notti insonni. Niente più ombre che circolavano per casa, niente più visioni né rumori, sogni o sensazioni strane. Esultai. Le mie preghiere erano state esaudite.

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Nella quiete e nella mancanza di timore percepii la libertà. Potevo respirare un’aria nuova, più leggera. Tuttavia col tempo dovetti ammettere che il passato, nonostante potesse divenire qualcosa di diverso, continuava a vivere in qualche circostanza. Ciò che si vive non può essere annullato, solo trasformato. L’inquietudine c’era ancora, di tanto in tanto. Quei ricordi di bambina diventavano reali. E mi muovevo, con circospezione, in quel luogo che avrebbe dovuto essere più di tutti il mio rifugio.

Non riuscii mai ad accettare il buio della notte. Nelle tenebre sapevo dell’esistenza di ciò che non potevo più vedere. Mi colpì, anche solo per un frangente di secondo, un rimorso, come se mi fossi resa conto solo in quell’istante dell’errore commesso: avevo ceduto, compiuto quella mossa scellerata di perdere il contatto, il controllo e nascondermi sotto il piumone. Ma non lo ammisi e allontanai questo pensiero. Non potevo però negare il senso di paura, paura dell’as-sente. E a fianco a questo, rimase sotterrata anche la curiosità nei confronti di quello che era il mio terrore.

Feci esperienza dei labili confini tra gli opposti. Ricordai la libertà che assaporavo inizialmente, quella che associai a una scelta, alla mia autodeterminazione.

Sospirai. La mia concezione si distanziava dal concetto tanto quanto il vuoto del momento. Sinonimi e contrari si mescolavano alla nozione creando una nebulosa nella quale era racchiuso il tutto. Libertà come assenza, vuoto, apatia, solitudine, insensatezza. Piansi. Rimpiansi. Errori di valutazione per una logica che non teneva conto di ogni scenario potenzialmente scaturibile.

Vagliai solo i pro e i contro dell’essere, prendendo troppo alla leggera il non essere. Quale trascuratezza imperdonabile! Ma tornai presto alla ragionevolezza. Trarre conclusioni lontani dal tormento era ridurre la questione al semplicismo. Avrei agito diversamente se avessi considerato dettagliamente il tutto? Forse. Sicuramente ci sarebbe stata una riflessione più accurata. Ma non potevo sottovalu-tare la mia viltà: probabilmente avrei accettato il rischio pur di

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sottrarmi da un supplizio certo. Rimpiangere… sicuramente non sarebbe servito a niente. Mi posi la domanda più sensata: cosa avrei potuto fare adesso?

Intrapresi gli studi teologici. Necessitavo di numerose risposte e quello poteva essere l’ambiente adeguato per averle. Infransi la promessa, quella di astenermi dal coltivare le mie passioni. Ma lo feci di proposito, intenzionata a tornare indietro, sperando che mi fosse concessa una seconda scelta. Pregai di nuovo. “Non posso cambiare il mio passato. E non posso dire che ritornando a quel momento agirei nel modo giusto. Non ero pronta, non era il momento più adeguato. E non so nemmeno se ora lo sia davvero. Ma sento il bisogno di provare, di rimediare alla mia fuga. Tu sai il dolore che sto provando a causa del rimorso. Forse sono impertinente ma voglio far parte nuovamente di quel mondo…”

Non accadde nulla ma quel percorso cambiò qualcosa. Ciò che apprendevo era stimolante. Capii cose che non avevo mai conside-rato, ebbi risposte di quesiti che non mi ero ancora posta. Ma trovai anche soluzione ai miei interrogativi e divenni consapevole di quanto fossero banali rispetto ad altri che mi trovai a fronteggiare.

In poco tempo crebbero i dubbi e le incertezze. Inizialmente li ignorai, soffocandoli nell’intimo, rilegandoli tra i pensieri inoppor-tuni. Ma più la mente acquisiva nozioni affascinanti, più le questioni si facevano pressanti. Mi sentivo come un funambolo su di un baratro profondo. Ricercavo l’equilibrio ma spariva spesso il filo stesso che costituiva l’unica aderenza con una realtà sempre più confusa.

Precipitavo. Cadevo in un abisso senza fondo, come un uomo che orbita nello spazio senza la speranza di un ormeggio, finché non cede il cuore.

Dubitai di Dio, di un mondo Altro. Dubitai di me, delle mie espe-rienze. Se l’Antico Testamento costituisce un processo di crescita sottile, che attraverso miti porta l’essere umano nella direzione giusta che è quella dell’agape, come valutare il Nuovo? Quanto è vero il

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Cristo in cui crediamo? Con quale criterio capire dove vi è una corretta interpretazione e dove ricercare l’equilibrio tra accettazione di ciò che la Bibbia dice e lettura dietro alle righe? Esiste il Paradiso? Esiste davvero ciò che ho vissuto? In un’ottica cristiana le streghe sono il Male. E quindi le ombre che girano per casa? Qual’è il confine tra fede e superstizione? Quale tra credenti e creduloni?

Diventai sempre più scettica, sempre più razionale. Non credetti più alle mie stesse sensazioni, alle mie esperienze, a quelle visioni ormai lontane. Adottai un approccio più scientifico. Probabilmente erano sogni che per una bambina sembravano reali. Erano frutto dell’immaginazione, delle paure ancestrali che ogni essere umano era costretto ad affrontare, come nel ripercorrere in un lampo l’intera storia nel suo progresso.

Arrivai a confondere Dio con la morale.

Optai per un approccio nuovo. Niente più etichette, niente più senso di vergogna. Quale domanda più fasulla ci può essere del tipico quesito “sei credente?” Non si può ridurre tutto in gruppi. Sono una persona come tante che continua a camminare. Cerco di costruire la mia vita giorno dopo giorno, affrontando sempre nuove problema-tiche. A volte vinco, a volte perdo. A volte credo di aver vinto ma ho perso ancora più malamente. A volte vinco e mi sento ugualmente sconfitta.

Siamo viandanti che ricercano qualcosa, la medesima, eppure la chiamiamo con tanti nomi. Decisi di lavarmi dei ruoli attribuitimi dagli altri. Non sono credente e nemmeno il suo contrario. Decisi di mettere da parte la viltà e fare una scelta di coraggio: mettere in discussione il tutto. Chi sono? Questa è la domanda da cui partire. Come pretendere altrimenti di affacciarsi su universi più intricati? Nessuno può spiegare un teorema algebrico se prima non è in grado di risolvere una semplice addizione.

Cos’è un dubbio se non un motore per la ricerca? Decisi di pren-dere una a una ogni questione, senza pregiudizi, per vedere fino a dove portasse la corrente.

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Mi scordai completamente del mio punto di partenza. Divenni quella normalissima persona a cui aspiravo. Viaggiai in lungo e in largo studiando i luoghi e le culture più diverse. Strinsi relazioni con individui di mezzo mondo e questo mi aiutò ad aprire i miei oriz-zonti. Mi sentii felice, realizzata. Sentivo il flusso sanguigno scorrere rapidamente nelle vene, la circolazione era come un torrente in piena che valica i suoi margini.

Io ero il Tigri, io ero l’Eufrate e ovunque andassi, quella terra si faceva Mesopotamia. Ormai ero vittima di un fruttuoso meccanismo: vivevo e mi riempivo e allora strabordavo; più fuoriusciva acqua e più necessitavo di riempirmi così assorbivo il doppio per consegnare poi altrettanto.

Capii chi fossi: una tessera di un puzzle alla ricerca dell’incastro. Capii chi fossero le creature dal volto ignoto che vedevo vorticare attorno a me: tessere. E capii soprattutto che il fine non è un punto ma un continuo dinamismo che si trasforma e cammina insieme a noi. Sentii l’attrazione tra tessera e incastro ma imparai a mettere da parte il fine se mezzi nobili e lodevoli mi avrebbero portato altrove. Lo appresi per caso, quando feci una scelta giusta ma scellerata: io ero il fiume e la corrente mi portava verso il mare ma decisi di guar-dare altrove. Capii che il senso del vorticare su se stessi non è sola-mente la propria ricerca, ma l’essere in grado di mettersi da parte per aiutare gli altri nella loro. Fui utile in diversi incastri. Fu in quel momento che mi voltai e inaspettatamente vidi il mio.

Ombre. Strizzai gli occhi per capire se stessi vedendo bene. Ombre. Ci vedevo bene! Ebbi l’impressione di fare un tuffo nel passato. Mi rividi piccola, tremante e spaventata. Ma stavolta c’era qualcosa di diverso: sentivo quiete, tepore, pace. Misi maggiormente a fuoco ciò che vedevo: erano sagome che si spostavano e mi veni-vano sempre più vicine. Nel diminuire della distanza non si facevano più chiare, ma le percepivo maggiormente. Era più un sentire la presenza che avere una visione.

Sussultai di colpo. Come una scossa mi colpì, in quello che suppongo

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fosse stato un contatto. Eppure fu una scossa piacevole, come un gelido brivido che in un millesimo di secondo attraversava la tua schiena e lasciava dietro a sé uno stato di beatitudine, di vita.

Mi sentii chiamare. Ma udii una voce chiamare il mio nome o era solo attrazione? Ci riflettei per un istante ma non seppi dare una risposta. Non era importante, iniziai a seguire quelle sagome in continuo movimento.

Mi bloccai all’improvviso: fui accecata da un bagliore immenso. Mi coprii gli occhi con un gesto istintivo. Mi sentii bruciare dentro. Non so quanto durò, un istante o in eterno, ma tutto era confuso. Mi alzai, non ricordando di essermi accasciata. E lì lo vidi: il niente e il tutto, il mare e il cielo, la terra e il sole. Era immenso vuoto ma completamente pieno!

E mi trasformai: non c’erano più confini. Mi sentii completamente risucchiata come una goccia indistinguibile dentro il mare. Toccavo ogni altra goccia, io ero tutte le altre gocce. Ma io c’ero, non ero il mare. Io ero la goccia dentro al mare, ero il mare dentro alla goccia. Mi sentii finalmente io, divenendo più nel divenire meno.

Un mese dopo uscii dall’ospedale. Il cuore era debole e malato ma potevo ancora vivere, finché all’improvviso non sarebbe crollato. Non era una di quelle situazioni in cui si stima il tempo rimanente: poteva essere un’ora o decenni a seconda degli sforzi, a seconda della fortuna.

Non piansi, non mi sentii malata: morire ora o tra vent’anni poteva essere una rivelazione universale. Riflettei piuttosto sull’attimo prima di svenire. Era quel che pensavo? Quello che aspettavo? Perché proprio in quel momento? Che voleva dire?

Tornai nella mia casa di bambina. Tornai in quella stanza osser-vando continuamente il corridoio, aspettando che qualcosa accadesse nuovamente. Nulla. Di nuovo al punto di partenza, di nuovo a inter-rogarmi su situazioni imperscrutabili. Cambiai subito atteggiamento capendo di essere sul punto di sbagliare nuovamente. Basta con la pretesa di governare il tutto, basta con quella di voler penetrare nel

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nucleo di ogni avvenimento. Decisi di fare un voto di fiducia, di non pensare al fine per vedere dove mi avrebbero portato questi mezzi. A volte basta vivere…

Stavo camminando. Come d’abitudine da qualche anno, mi svegliavo all’alba per inalare l’aria pura del mattino. Il medico diceva che era ottimo per la salute, purché non mi affaticassi troppo. E allora camminavo piano, impiegando il doppio di ciò che ero abituata a fare, fermandomi a contemplare il mondo e sostandomi spesso laddove sul ciglio della strada venivano poste delle panchine.

Vidi una persona passarmi dietro velocemente e mi voltai di scatto. Nessuno. Mi guardai intorno attentamente, in cerca di qualcuno. Ecco che nello svoltare della strada intravidi un uomo andar di corsa. Mi chiesi il motivo di tutta quella fretta. Mi chiesi come mai si stesse dirigendo su una strada acciottolata che portava poi nel bosco.

Mi stupii della mia stessa curiosità, non ero mai stata una persona interessata agli affari altrui. Ma in quel momento ci fu qualcosa di diverso e i miei piedi iniziarono a muoversi di loro spontanea volontà in quella direzione. Andai piano, come mi era stato raccomandato di fare sempre. Giunsi al bivio e mi guardai attorno in cerca di quel-l’uomo. Ed eccolo in mezzo al prato, fermo immobile con le spalle rivolte verso la mia persona. Ebbi una strana sensazione e solo in quel momento capii che non era un uomo.

Mi bloccai scettica e forse anche un po’ impaurita. Erano passati un paio d’anni dal mio infarto, non era accaduto più niente. E lì avevo perso i sensi, qui ero completamente sveglia e tutto era perfet-tamente vero, come da bambina. Allora era tutto vero! Fui sollevata: ci credevo ma finora non avevo mai avuto la conferma. Esitai sul da farsi. Dovevo seguirlo? Decisi di non avere scelta.

Arrivai nel punto in cui il bosco si infoltiva. Tra gli alberi persi di vista l’ombra che seguivo. Girai un po’ a vuoto sperando di scorgerla nuovamente, ma invano.

Non feci in tempo a chiedermi il senso della visione e della sua scomparsa che sentii dei singhiozzi soffocati. Procedetti nella dire-

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zione dei rumori. Qualche metro avanti vidi una bambina rannic-chiata sotto un albero, con la faccia nascosta tra le ginocchia. Mi fermai un attimo osservandola. A un tratto alzò lo sguardo come se avesse percepito la mia presenza. Feci un passo indietro, quasi imba-razzata. Ci guardammo per un minuto senza dire niente, lei con le lacrime negli occhi. Mi chiesi cosa fare ma la sua espressione era così triste da sollecitare la mia empatia.

Mi avvicinai lentamente come se aspettassi delle repliche. Non accadde. Mi sedetti a fianco della bambina senza dire niente e solo a quel punto ebbe una reazione: inspirò forte con il naso, alzò la mano per asciugare le sue guance bagnate dalle lacrime, si voltò nella mia direzione e sorrise. Sorrisi di rimando e chiesi perché piangesse, non trovando espressione migliore per rompere il ghiaccio.

Fece una smorfia come riflessiva ma non disse niente. Avvicinò la sua mano alla mia che appoggiavo sul terreno e la strinse. Ricambiai la stretta pensando avesse bisogno di conforto e non fosse pronta a parlare. Allora presi l’iniziativa e le accarezzai dolcemente il viso che era ancora umidiccio. Presi lo zainetto che aveva riposto dietro sé e la invitai ad alzarsi e così fece. Lei mi prese la mano e si incamminò con me verso il paese.

Le raccontai una storiella divertente per eliminare definitivamente la sua tristezza. Anche nelle sue risate c’era comunque un’espres-sione amara. Prese parola per la prima volta su di un incrocio tra le strade dicendomi di non potermi più accompagnare oltre. Mi fermai chiedendomi se abitasse da quelle parti. Mi sorrise e forse accennò un assenso. Non fui insistente, le dissi di tornare a casa e le diedi un paio di caramelle che tenevo sempre nella borsa. Le prese, mi ringraziò e mi salutò, dirigendosi sul marciapiede dall’altro lato della strada. Solo in quel momenti mi accorsi di avere ancora tra le mani lo zainetto.

Chiamai la bambina che però non si voltò e allora la rincorsi. Fu a quel punto che un dolore lancinante mi attraversò il petto. Mi misi una mano sul cuore premendolo con vigore e arrestando la mia corsa. Il dolore era troppo forte e mi accasciai nel mezzo della strada.

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La vista si annebbiò, l’udito scomparve, i sensi dimenticarono il mondo esterno. Tutto ciò che percepivo riguardava il mio dolore, la mia interiorità contorcersi. Poi aprii gli occhi e capii di essere distesa. La bambina era di fronte a me, a stringermi la mano.

Forse erano passati minuti, forse giorni, il tempo non era più importante: luce, buio, luce… come un battito di ciglia, come un susseguirsi di più vite. Mi sentii amata totalmente.

Capii. Non era una bambina, era un’Ombra, forse il mio angelo custode. Sorrisi e stavolta fu lei ad accarezzarmi il viso mentre le forze se ne andavano.

Chiusi gli occhi e sentii confondersi attimi ed eternità.Buio senza oblio, pieno di presenze.

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Non Ti Scordar di MeDora Carbone

Il drago Sirrush le aveva più volte detto che diventare regina di quel piccolo villaggio non sarebbe stato semplice, ma Andromeda non ne comprendeva proprio il motivo.

Ormai era da più di un anno che la giovane si era trasferita nella grande pianura cinta dai monti aguzzi e la bestia ancora non l’aveva condotta all’interno del borgo.

«Non sei ancora pronta» diceva, «sei irresponsabile, devi maturare.»Ma appena chiedeva qualche spiegazione su quelle frasi sibilline il

drago cambiava discorso.Cosa poteva avere di così tanto speciale quel paesino che spesso

vedeva sorvolando i cieli sul dorso di Sirrush?Dall’alto appariva un semplice, piccolo, insignificante centro

abitato di campagna; niente a che vedere con la grande città di Ghor.Forse l’unica particolarità era sul lato ovest del paese (proprio

vicino la Grande Selva che l’attorniava) dove vi era un largo, immenso, campo di fiori blu.

Alla fine, dopo numerose insistenze da parte della ragazza, Sirrush si convince e l’accompagnò all’interno del piccolo borgo.

Gli abitanti organizzarono una grande festa in suo onore nella piazza principale del paese. Sembrava quasi una sagra: vi erano i balli popolari, i giochi e cibi deliziosi.

«Ti piace la torta di mele?» le disse una ragazza rossa e lentiggi-nosa offrendole una fetta.

«Sì, è il mio dolce preferito!» rispose Andromeda.«Questa è opera mia, se non ti dovesse piacere fingi di gradirla lo

stesso!» concluse la giovane ridendo.Andromeda ne assaggiò un po’, era veramente squisita.«Io sono Andromeda e tu come ti chiami?»«Sì, lo conosco il tuo nome, la festa è dedicata a te! Io sono Lucrezia,

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devo ammettere che il drago ha veramente buon gusto in fatto di donne!»Andromeda sorrise maliziosamente, era sempre stata molto vani-

tosa e apprezzava i complimenti.«Domani» riprese Lucrezia, «ti porterò a visitare il villaggio, sono

la persona più vecchia del borgo ancora sana di mente, perciò credo che tocchi a me mostrarti come le cose funzionino qua…»

«La più vecchia? Ma se non avrai nemmeno vent’anni, io vedo persone molto più anziane di te in questa cittadina!» la interruppe bruscamente Andromeda.

«Sei un po’ acida, eh? Me lo aveva accennato Sirrush! Comunque il tempo qua, credimi, è forviante, ad esempio quel signore anziano laggiù, lo vedi? Ha meno della metà dei miei anni.»

Andromeda guardò l’uomo, era un vecchierello decrepito che non si reggeva in piedi; avrebbe voluto ribattere qualcosa, ma non voleva contraddirla; da quando si era trasferita nella valle ne aveva sentite e viste di cose assurde!

Il giorno dopo la ragazza la condusse in giro per il borgo; la gente sembrava molto indaffarata a lavorare, erano tutti molto allegri, ma di un’allegria un po’ malinconica.

«Qua siamo fortunati, non esistono i soldi e possiamo scegliere il lavoro che maggiormente ci aggrada» esordì Lucrezia mentre passa-vano dinnanzi a un piccolo negozio di sartoria. «La comunità funziona benissimo! Non ci sono mai litigi, lavorando ci rilassiamo, produrre per gli altri ci rende sereni. Io ad esempio ho scelto di aprirmi una piccola pasticceria…»

«Oh, be’, complimenti» rispose Andromeda sarcastica, per poi cambiare discorso repentinamente. (Non è che le interessasse partico-larmente delle usanze di quegli strani individui.)

Era arrivata alla conclusione che gli abitanti del posto dovevano essere una specie di setta religiosa strampalata. Lavoravano per il bene degli altri, non chiedevano soldi e non c’era nemmeno una persona al di sotto dei quindici anni (probabilmente si doveva arri-vare a una determinata età per diventare membri di questo gruppo).

«Ho visto sul lato ovest del villaggio un enorme campo di fiori blu,

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mi accompagni a vederli?»«Certo!» replicò Lucrezia. «Anzi è anche giunta l’ora!»Andromeda rimase sbalordita nel vedere quel campo di fiori.

Erano miliardi, piccolissimi, bellissimi, di un blu intenso.«Sono dei nontiscordardime» affermò Lucrezia quasi leggendole

nel pensiero. «Quando cala il sole, innaffiamo il terreno sperando che ne spuntino altri» continuò prendendo un piccolo innaffiatoio da terra.

Andromeda si girò intorno e vide numerose persone del villaggio innaffiare il terreno intorno al campo pieno di nontiscordardime.

Era veramente uno spettacolo stravagante.

*

Era proprio vero, il tempo in quel posto era diverso dal resto del mondo; non esistevano giorni festivi di alcun genere, le giornate sembravano uguali l’una all’altra, non avrebbe mai saputo dire se quel giorno fosse stato un lunedì o una domenica. Ogni mattina la gente del villaggio si svegliava presto, lavorava circa sei ore, aveva un piccolo intervallo e al tramonto innaffiava il terreno intorno ai nontiscordardime.

Non c’era alcun tipo di discussione, né litigio, né qualsiasi altro evento che potesse scombussolare la calma del luogo.

Tutte le giornate erano miracolosamente uguali alle altre.Stranamente Andromeda non era angosciata da quella monotonia,

anzi le dava uno strano di senso di serenità e di quiete.Non riusciva proprio a capire perché il drago Sirrush ritenesse che

fosse molto complicato governare quel piccolo villaggio, si autoge-stiva da solo e non sembravano esserci problemi di alcun genere.

Forse solamente quegli strani uomini incappucciati e vestiti di nero che giravano all’interno della città turbavano l’immacolata perfe-zione del luogo.

Sembravano tormentati, non mostravano mai il viso, perennemente irrequieti, si muovevano nervosamente per tutto il villaggio, non lavoravano e non rivolgevano la parola a nessuno.

«Ignorali» le disse Lucrezia quando la giovane le chiese chi fossero.

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«Sono gli anziani del villaggio, hanno perso completamente il senno e l’identità; vagano come dei disperati in cerca di nemmeno sanno cosa; molti presi da impeti di follia si gettano nel bosco e si lasciano divorare dai lupi dai denti blu.»

Andromeda seguì il consiglio della rossa, anche perché non poteva fare altrimenti; le rare volte che aveva rivolto loro la parola, non le avevano nemmeno risposto e non sembravano nemmeno vederla.

Andromeda e Lucrezia avevano legato moltissimo e spesso la giovane aiutava la rossa nella sua piccola pasticceria.

«Sarò una regina obesa!» affermò ridacchiando mentre mangiava una gustosa torta alla zucca.

Ormai era diventata anche lei molto brava a preparare i dolci. (Lei che in vita sua non aveva nemmeno sbattuto un uovo!)

Lucrezia, nel tempo che passavano insieme, le chiedeva spesso informazioni sul mondo esterno al villaggio. Le poneva domande stravaganti sulla città di Ghor, di cui anche lei era nativa. Nominava eventi, persone importanti che Andromeda non aveva nemmeno mai sentito nominare.

Il tempo, insomma, passava sereno in quel paese.Ma poi qualcosa cambiò l’immutabile calma del luogo: un nonti-

scordardime spuntò in una triste giornata autunnale.La ragazzina bionda di nemmeno sedici anni urlò dalla gioia nel

vederlo spuntare.«È spuntato! Il nontiscordardime è spuntato! Il mio giorno è arri-

vato!» annunciò euforica.Gli abitanti del villaggio la guardarono sorridendo e urlarono entusiasti.«Lo voglio vedere» affermò una donna di mezza età avvicinandosi.

«È meraviglioso! È anche molto grande, come sei fortunata.»«Già» aggiunse un altro, «non ne vedevo di così grandi da tempo!»«Ma cosa stiamo aspettando, bisogna organizzare la festa!» continuò

un vecchietto.Gli abitanti abbandonarono i loro annaffiatoi rapidamente per

recarsi nel villaggio.«Non capisco» dichiarò Andromeda a Lucrezia, «perché la ragazza

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è così felice che sia spuntato quello stupido fiore? Perché dobbiamo addirittura organizzarle una festa?»

«Anche io sarei stata molto felice se fosse spuntato “quello stupido fiore’’» rispose sprezzante Lucrezia. La rossa assunse un’espressione strana in volto, tra il deluso, il triste e anche un po’ l’invidioso.

Fu una bella festa, molto simile alla festa del suo arrivo.Dopo la festa Andromeda non vide mai più la festeggiata.

*

Quel luogo era veramente un bel mistero: ogni volta che una persona vedeva fiorire un nontiscordardime, spariva completamente nel nulla.

Andromeda più volte provò a chiedere a Lucrezia e agli altri abitanti dove andassero quelle persone ma aveva sempre la stessa risposta.

«Vanno via da qui, ma non sappiamo verso quale luogo» rispondevano.Nel villaggio, inoltre, ogni volta spuntava sempre gente nuova e

Priscilla non era mai riuscita a vedere come e da dove arrivassero. Entravano anche loro a far parte della routine del villaggio senza essere per nulla sorpresi.

In quell’autunno assistette a numerose feste. Qualche volta capi-tava che spuntassero più fiori contemporaneamente e più persone il giorno dopo svanissero nel nulla.

Ogni volta che una persona spariva nel nulla Lucrezia si incupiva sempre, sempre di più. Il suo sguardo diventava più malinconico, ma anche rabbioso.

Era diventata molto silenziosa; più volte Andromeda le chiese se c’era qualcosa che non andasse ma lei negava.

Ma poi ne ebbe la prova tangibile.Durante il crepuscolo spuntò un altro nontiscordardime e Lucrezia

fuggì in lacrime verso casa.Andromeda la seguì.Aprì la porta (le porte in quel paese non venivano mai chiuse) e la

trovò piegata sul letto a piangere. Sopra al letto c’era una lunga tunica nera, simile a quella che indossavano gli abitanti anziani del villaggio.

«Lucrezia, che cos’hai? Sei scappata, così all’improvviso!»

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«Va’ via, Andromeda» rispose la rossa tra le lacrime «Non puoi fare niente per me, nessuno può fare niente per me, mi aspetta solo la Disperazione.»

«Vaneggi» ribatté la principessa posandole la mano sulla spalla. «Siamo amiche ormai; capita ogni tanto di sentirsi tristi almeno una volta nella vita, tenersi dentro tutto fa’ male, parla con me, ti potrò dare dei consigli, sicuramente dopo ti sentirai meglio.»

«Oh no, cara “principessa”» dichiarò ironicamente la rossa scostando la mano di Andromeda. «E sai perché? Perché mi sono sentita triste per tutta la durata della mia vita, tutta! Mi tenevo ogni cosa rinchiusa nel cuore, ma mai nessuno si è interessato a me, delle mie angosce, delle mie tristezze, nessuno mi ha mai preso in conside-razione, proprio per questo decisi di farla finita.»

«C-che cosa?» chiese Andromeda in preda al terrore. «Cosa diavolo stai dicendo?»

«Oh piccola Andromeda» rispose la rossa, «il drago voleva parlar-tene lui stesso, quando saresti stata pronta, ma io non ho resistito.»

La ragazza proruppe in una fragorosa risata.«Non vedi gli sguardi malinconici? Il lavorare gratuitamente senza

chiedere nulla in cambio? Le feste che si celebrano quando le persone vanno via? Secondo te perché?»

«Non sempre c’è una spiegazione, pensavo fosse una vostra usanza…»«Come fanno ad andare via da qui Andromeda? eh?» proruppe

bruscamente Lucrezia con un sorriso folle sul volto.«Attraversano il bosco, credo…» replicò con un sussurro la ragazza.«Sei veramente stupida» asserì con disprezzo Lucrezia. «Nel bosco

verrebbero divorate dai lupi dai denti blu che sentirebbero il loro odore subito, odore di PECCATORI!»

Lucrezia scoppiò a ridere fragorosamente.«Noi questo siamo e forse i peggiori di tutti! NOI SIAMO I

SUICIDI! COLORO CHE HANNO RINNEGATO LA VITA DONA-TACI. Questo è il posto dove veniamo mandati dopo la morte, perché nemmeno l’inferno vuole persone infelici e sole come noi. Ma ci è stata data comunque una possibilità di fuggire via di qua e continuare

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il nostro viaggio. Innaffiando il terreno, spingiamo le persone che ci hanno conosciuto a ricordarsi di noi. Se loro pregheranno per la salvezza della nostra anima impura, provando un minimo ancora di amore, spunterà il fiore e noi saremo salvi! SALVI! POSSIAMO FINALMENTE ANDARE ALTROVE!»

Andromeda la fissò spaventata. Ormai la sua amica era irriconosci-bile, aveva lo sguardo completamente vuoto.

«Ma certe volte» continuò tristemente la ragazza, «nessuno si inte-ressa della nostra anima, della nostra salvezza, forse perché nessuno mai ha avuto a cuore realmente la nostra sorte e il nontiscordardime non spunta mai. Come nel mio caso, mi sono impiccata dentro casa cinquant’anni fa’ e anche l’ultima persona che mi ha conosciuta è morta. Mai nessuno pregherà per me.»

«E ora? Cosa ti succederà?» chiese Andromeda preoccupata.«Ho ricevuto la chiamata dalla Disperazione. Li vedi quei vestiti

neri, sono proprio quelli degli anziani, neri come il buio senza speranza. Vagherò in preda alla follia, senza meta, finché un giorno, senza rendermi conto, mi farò divorare l’anima dai lupi blu! E ora va’ via, lasciami sola! Va’ via immediatamente!»

Così dicendo Lucrezia le scagliò contro la lampada e Andromeda scappò spaventata.

Andromeda non aveva mai pensato al suicidio. Mai. Forse perché nella sua vita perfetta non aveva mai conosciuto il dolore, la preoccu-pazione, l’angoscia più totale.

Ma adesso per la prima volta era riuscita a vederli negli occhi della sua amica ed erano dei sentimenti così orribili.

Andromeda pianse per giorni, ma al contrario di Lucrezia non perse le speranze.

Si ricordò le parole dell’amica, che solo le preghiere potevano salvare le anime dannate.

E pregò.Aveva ragione il drago, sarebbe stato difficile governare quel

piccolo villaggio.

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