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MISTERI D’ITALIA CADAVERI ECCELLENTI IL MISTERO SCOMODO DI GIACOMO MATTEOTTI STORIA IN RETE | 78 Luglio-Agosto 2012 79 | STORIA IN RETE Luglio-Agosto 2012 D opo quasi novant’anni, il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti rimangono un macigno della storia italiana del Novecento. La vicenda è stata sviscerata sin dall’istruzione e dibattimento dei processi di Roma-Chieti (1924-1926) a carico degli esecutori materiali (approdata alla condanna per omicidio preterintenzionale) e, nuovamente, in Corte d’Assise a Roma (1947) nel processo concluso il 4 aprile 1947 con la condanna all’ergastolo per omicidio premeditato di Amerigo Dùmini, capo della cosiddetta « Ceka del Viminale», la banda organizzata dal capo della polizia e comandante della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, generale Emilio De Bono, d’intesa con il capo dell’ufficio stampa di Mussolini, Cesare Rossi, collusi con altri uomini del regime (da Giovanni Marinelli, amministratore del PNF, a Filippo Filippelli, direttore del «Corriere italiano», noto intrallazzatore nell’ascesa del regime). Naturalmente in quel quadro accusatorio, per la vulgata Mussolini (la cui responsabilità non fu mai provata nelle aule) non solo «non poteva non sapere» ma impartì personalmente le direttive criminali, culminate nell’assassinio di Matteotti: un marchio d’infamia dal 1947 impresso in via definitiva sul suo nome e sulla sua memoria sia in sede giudiziaria, sia da copiosissima letteratura, assunta a base (necessaria e sufficiente) anche di rappresentazioni teatrali e filmiche del «delitto Matteotti», col tempo divenuto un vero assioma, così imperioso da sconsigliare a chiunque di accostarglisi se non per ribadirlo. Ma perché Mussolini avrebbe ordinato alla Ceka del Viminale la eliminazione di Matteotti? Una tesi semplicistica, mai sorretta da prove convincenti. Essa non rispose né risponde alla domanda fondamentale che ci si deve porre dinnanzi a un delitto. Cui prodest ? Dall’assassinio di Matteotti Mussolini non poteva sperare di trarre alcun vantaggio politico o parlamentare. Come egli stesso disse un po’ cinicamente a Paulucci de Calboli, semmai avrebbe fatto assassinare Filippo Turati. La «squadraccia» capitanata da Dùmini, era sorta per infliggere aggressioni e «bastonature in stile» non solo di antifascisti notori, ma anche a fascisti dissidenti. Fu il caso del deputato del partito repubblicano, Ulderico Mazzolani, di Alfredo Misuri, tra i pionieri del Fascismo in Umbria, ma poi capo dell’ala nazionalistico- monarchica dei fascisti umbri (come documenta Leonardo Varasano in «Umbria in camicia nera, 1922- 1943», Rubbettino), e Cesare Forni, «fascista revisionista», vittima di una bastonatura feroce, che lo lasciò agonizzante. Nel corso del tempo al «caso Mat- teotti» sono state dedicate molte e importanti opere. Ne ha tracciato recentemente un bilancio Gianpao- lo Romanato in «Un italiano diver- so. Giacomo Matteotti» (Longanesi). Come solitamente accade, sono state Macchia della Quartarella (Riano, vicino Roma), 16 agosto 1924. Viene ritrovato il corpo di Matteotti in avanzato stato di decomposizione Nuovi studi ripropongono il dramma dell’omicidio del deputato socialista nel 1924 ma, come già in passato, l’individuazione delle responsabilità, man mano che si sale di livello, si fa ancora difficile. Chi volle la morte di Matteotti? Davvero andava ucciso e non solo «bastonato» a mo’ di avvertimento? Quali carte portava con sé al momento dell’aggressione? E che fine hanno fatto? Più che la denuncia dei brogli alla recenti elezioni, forse faceva più paura a qualcuno la possibile esplosione di alcuni scandali finanziari e affaristici di Aldo A. Mola

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Misteri d’italia Cadaveri eCCellenti

il MisterOsCOMOdOdi GiaCOMO MatteOtti

STORIA IN RETE | 78 Luglio-Agosto 2012 79 | STORIA IN RETELuglio-Agosto 2012

D opo quasi novant’anni, il rapimento e l’assassinio di Giacomo M a t t e o t t i r imangono un macigno

della storia italiana del Novecento. La vicenda è stata sviscerata sin dall’istruzione e dibattimento dei processi di Roma-Chieti (1924-1926) a carico degli esecutori materiali (approdata alla condanna per omicidio preterintenzionale) e, nuovamente, in Corte d’Assise a Roma (1947) nel processo concluso il 4 aprile 1947

con la condanna all’ergastolo per omicidio premeditato di Amerigo Dùmini, capo della cosiddetta «Ceka del Viminale», la banda organizzata dal capo della polizia e comandante della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, generale Emilio De Bono, d’intesa con il capo dell’ufficio stampa di Mussolini, Cesare Rossi, collusi con altri uomini del regime (da Giovanni Marinelli, amministratore del PNF, a Filippo Filippelli, direttore del «Corriere italiano», noto intrallazzatore nell’ascesa del regime). Naturalmente in quel quadro accusatorio, per la vulgata Mussolini (la cui responsabilità non fu mai provata nelle aule) non solo «non poteva non sapere» ma impartì personalmente le direttive criminali, culminate nell’assassinio di Matteotti: un marchio d’infamia dal 1947 impresso in via definitiva sul suo nome e sulla sua memoria sia in sede giudiziaria, sia da copiosissima letteratura, assunta a base (necessaria e sufficiente) anche di rappresentazioni teatrali e filmiche del «delitto Matteotti», col tempo divenuto un vero assioma, così imperioso da sconsigliare a chiunque di accostarglisi se non per ribadirlo. Ma perché Mussolini avrebbe ordinato alla Ceka del Viminale la eliminazione di Matteotti? Una tesi

semplicistica, mai sorretta da prove convincenti. Essa non rispose né risponde alla domanda fondamentale che ci si deve porre dinnanzi a un delitto. Cui prodest? Dall’assassinio di Matteotti Mussolini non poteva sperare di trarre alcun vantaggio politico o parlamentare. Come egli stesso disse un po’ cinicamente a Paulucci de Calboli, semmai avrebbe fatto assassinare Filippo Turati. La «squadraccia» capitanata da Dùmini, era sorta per infliggere aggressioni e «bastonature in stile» non solo di antifascisti notori, ma anche a fascisti dissidenti. Fu il caso del deputato del partito repubblicano, Ulderico Mazzolani, di Alfredo Misuri, tra i pionieri del Fascismo in Umbria, ma poi capo dell’ala nazionalistico-monarchica dei fascisti umbri (come documenta Leonardo Varasano in «Umbria in camicia nera, 1922-1943», Rubbettino), e Cesare Forni, «fascista revisionista», vittima di una bastonatura feroce, che lo lasciò agonizzante.

Nel corso del tempo al «caso Mat-teotti» sono state dedicate molte e importanti opere. Ne ha tracciato recentemente un bilancio Gianpao-lo Romanato in «Un italiano diver-so. Giacomo Matteotti» (Longanesi). Come solitamente accade, sono state

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Macchia della Quartarella (Riano, vicino Roma), 16 agosto 1924. Viene ritrovato il corpo di Matteotti in avanzato stato di decomposizione

Nuovi studi ripropongono il dramma dell’omicidio del deputato socialista nel 1924 ma, come già in passato, l’individuazione delle responsabilità, man mano che si sale di livello, si fa ancora difficile. Chi volle la morte di Matteotti? Davvero andava ucciso e non solo «bastonato» a mo’ di avvertimento? Quali carte portava con sé al momento dell’aggressione? E che fine hanno fatto? Più che la denuncia dei brogli alla recenti elezioni, forse faceva più paura a qualcuno la possibile esplosione di alcuni scandali finanziari e affaristici

di aldo a. Mola