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CONTRIBUTI LA RIAPERTURA DELLA GLIPTOTECA DI MONACO L A RIAPERTURA al pubblico della Gliptoteca di Monaco, il 28 aprile di quest'anno, è stato cer- tamente l'avvenimento di maggior rilievo di questa stagione museografica. E non solo perché, dopo tren- t'anni, è divenuta nuovamente accessibile una delle più importanti collezioni d'arte antica, .ma anche per il groviglio di problemi di ordine estetico, conservativo, storico e perfino sentimentale che tale riapertura ha dovuto risolvere. Una conclusione che è stata perse- guita con risolutezza e ponderazione, ma anche con estrema e affatto rara liberalità: le porte del museo in allestimento nel corso di questi ultimi trent'anni fu- rono aperte a tutti gli studiosi, così che chiunque lo avesse voluto poteva seguire l'andamento dei lavori anche nelle fasi più ingrate. Proprio perciò più d'uno di noi attendeva l'opera compiuta con qualche perples- sità e non poche riserve. Il fatto che, dopo l'inaugura- zione del 28 aprile, la maggior parte di queste riserve devono essere sciolte non è che la conferma di come, soprattutto in un campo come il nostro, l'attendibi- lità delle opinioni può trovare una sua verifica - o la sua smentita - solo dopo il completamento di tutti gli elementi che hanno costituito l'oggetto di un prelimi- nare giudizio. A questo proposito merita ricordare co- me già nei tragici anni dell'immediato dopoguerra fra gli ammassi qi rovine, nella città distrutta, emergevano delle isole: erano il Prinz-Karl-Palais, e la Haus der deutschen Kunst ove, con sistemazione provvisoria, erano esposte le opere d'arte per il momento recupera- bili, quanto cioè del patrimonio artistico della città si era potuto rapidamente, ma dignitosamente racco- gliere. Ciò poteva parere anacronistico (i relitti di un altro pianeta o immagini familiari in un mondo divenuto altro), ma era, comunque, il segno, forse persino mano, di una fede in alcuni valori che la realtà attuale aveva portato a smentire. Era però la stessa fede che agli inizi del secolo precedente aveva indotto Luigi I di Ba- viera alla fondazione della sua Gliptoteca, in quella città che egli àveva voluto sempre meno simile a se stessa e sempre più fanaticamente aderente all'immagine di una sua propria Utòpia, luogo ideale delle sue sfocate memo- rie giovanili. Ed è forse, in sostanza, la stessa apodittica fede, che ha reso possibile la ricostruzione odierna. La fondazione della Gliptoteca risale al 1830 e coronò un progetto vagheggiato da Luigi I fin da quando, nel corso del suo soggiorno romano, aveva iniziato una raccolta di sculture dell'antichità (1804-5). Egli era allora il principe ereditario di cui il ritratto di Angelica Kaufmann ha tramandato la giovanile e romantica effi- gie, e l'incontro con la Roma neoclassica segnò in modo indelebile il suo destino di uomo e di sovrano. Che la lezione romana fosse stata bene appresa e assimilata è provato dal fatto che quando nel 1815 a Londra si tergiversava sull' aèquisto da parte del governo degli " Elgin Marbles , e molti ancora discutevano sulla qualità dell'opera fidiaca, Luigi di Baviera depositò una grossa somma presso una banca inglese per aggiu- dicarsi le sculture nel caso che il governo vi avesse rinunciato. r) 34 Il fulcro della sua collezione fu rappresentato dai marmi di che,_scavati dal Cockerell nel 181 I, egli riuscì ad aggiudicarsi ad un'asta pubblica a Zante, nel 1813 1 per la somma di 13o.ooo piastre. La vicenda fu piuttosto ingarbugliata e solo l'abilità dell'agente di Luigi, Martin von Wagner (nome fatale ai Wittels- bach!), riuscì ad eludere la cupidigia degli altri ricer- catori stranieri. Caricate su una nave nel 1815 le scul- ture giunsero a Napoli, dopo che una tempesta le aveva respinte in mare alla foce del Tevere; da Napoli per via terra furono portate a Roma nello studio del Thor- valdsen a cui ne fu affidato il restauro sotto la guida del Wagner. Il restauro durò tre anni e se è vero che i restauri furono fatti in modo da non essere ricono- sciuti, si può anche sicuramente affermare che le scul- ture stesse divennero irriconoscibili. Lo stesso Thor- valdsen scrisse con orgoglio: "gemerkt habe Ich mir Sie nicht und herausfinden kann Ich sie nicht ,. 2 > Le integrazioni furono eseguite in marmo italico, mol- te delle fratture furono abrase e limate, e la ricostru- zione stessa lasciò molto a desiderare, poiché non fu fatta un'accurata-cernita di tutti i frammenti già esi- stenti. Senza parlare, poi, di quelli che, scavati in se- guito, rimasero in Grecia, ad Atene e ad Egina. Le te- ste mancanti furono rifatte, sia, addirittura, copiando con raggelato stile neoclassico qualcuna di quelle già esistenti, come avvenne per due dei lottatori, l'uno del frontone occidentale, e l'altro di quello orientale, sia i'rnitandone semplicemente gli esteriori caratteri for- mali (a un guerriero del frontone Est fu data una testa simile a quella di un caduto dello stesso frontone), senza tenere in alcuna considerazione le diverse tensioni psi- cologiche dei personaggi. Nelle mani dei guerrieri e di Atena furono nuovamente poste delle armi metalliche. Il merito di Luigi di Baviera, e certo in gran parte anche dei suoi agenti, non fu però solo quello di aver colto l'importanza qualitativa dei marmi di Egina in quel momento di tumultuosi, ma anche spesso incon- sulti e incontrollati entusiasmi per l'antico. La varietà della collezione, articolata lungo un itinerario compren- sivo di sculture assire,_ egizie, incunaboli greci, opere etrusche, classiche, E:llehistiche e romane, testimonia di un'apertura verso 1'antico in un modo che potremmo già chiamare storicistico, o almeno, comunque, storico. Siamo già lontani dal vagheggiamento dell'ideale clas- sico proprio del ·Winckelmann, o dall'assunzione di una moda, come quella dell'Egitto succeduta alla cam- pagna napoleonica, o ancora dall'ammirazione per il classicismo augusteo assurto a modello del Primo Im- pero, anche se tutti questi fattori contribuirono, senza dubbio, ad accendere gli interessi e sollecitare gli acquisti. Tuttavia l'indirizzo programmatico che ha presieduto alla formazione della Gliptoteca fu un altro. Esso rivela già un ideale romantico, lo stesso per cui nel 1830 Luigi volle che il Museo fosse " aperto al popolo ,. Per tale ragione il museo doveva assorbire nella sua totalità, e quindi anche nella sua decorazione pittorica e nelle sue strutture architettoniche, l'interesse dei visitatori; doveva essere, però, non un tempio del passato, ma un organismo vivo, ove, alla luce delle fiac- cole, si sarebbero svolte feste, nelle quali chi vi parte- cipava avrebbe dovuto essere immerso, facilitato dal- l'ambiente e dall'atmosfera che lo circondava, nel mon- ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte

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CONTRIBUTI

LA RIAPERTURA DELLA GLIPTOTECA DI MONACO

L A RIAPERTURA al pubblico della Gliptoteca di Monaco, il 28 aprile di quest'anno, è stato cer­

tamente l'avvenimento di maggior rilievo di questa stagione museografica. E non solo perché, dopo tren­t'anni, è divenuta nuovamente accessibile una delle più importanti collezioni d'arte antica, .ma anche per il groviglio di problemi di ordine estetico, conservativo, storico e perfino sentimentale che tale riapertura ha dovuto risolvere. Una conclusione che è stata perse­guita con risolutezza e ponderazione, ma anche con estrema e affatto rara liberalità: le porte del museo in allestimento nel corso di questi ultimi trent'anni fu­rono aperte a tutti gli studiosi, così che chiunque lo avesse voluto poteva seguire l'andamento dei lavori anche nelle fasi più ingrate. Proprio perciò più d'uno di noi attendeva l'opera compiuta con qualche perples­sità e non poche riserve. Il fatto che, dopo l'inaugura­zione del 28 aprile, la maggior parte di queste riserve devono essere sciolte non è che la conferma di come, soprattutto in un campo come il nostro, l'attendibi­lità delle opinioni può trovare una sua verifica - o la sua smentita - solo dopo il completamento di tutti gli elementi che hanno costituito l'oggetto di un prelimi­nare giudizio. A questo proposito merita ricordare co­me già nei tragici anni dell'immediato dopoguerra fra gli ammassi qi rovine, nella città distrutta, emergevano delle isole: erano il Prinz-Karl-Palais, e la Haus der deutschen Kunst ove, con sistemazione provvisoria, erano esposte le opere d'arte per il momento recupera­bili, quanto cioè del patrimonio artistico della città si era potuto rapidamente, ma dignitosamente racco­gliere. Ciò poteva parere anacronistico (i relitti di un altro pianeta o immagini familiari in un mondo divenuto altro), ma era, comunque, il segno, forse persino ~isu­mano, di una fede in alcuni valori che la realtà attuale aveva portato a smentire. Era però la stessa fede che agli inizi del secolo precedente aveva indotto Luigi I di Ba­viera alla fondazione della sua Gliptoteca, in quella città che egli àveva voluto sempre meno simile a se stessa e sempre più fanaticamente aderente all'immagine di una sua propria Utòpia, luogo ideale delle sue sfocate memo­rie giovanili. Ed è forse, in sostanza, la stessa apodittica fede, che ha reso possibile la ricostruzione odierna.

La fondazione della Gliptoteca risale al 1830 e coronò un progetto vagheggiato da Luigi I fin da quando, nel corso del suo soggiorno romano, aveva iniziato una raccolta di sculture dell'antichità (1804-5). Egli era allora il principe ereditario di cui il ritratto di Angelica Kaufmann ha tramandato la giovanile e romantica effi­gie, e l'incontro con la Roma neoclassica segnò in modo indelebile il suo destino di uomo e di sovrano. Che la lezione romana fosse stata bene appresa e assimilata è provato dal fatto che quando nel 1815 a Londra si tergiversava sull' aèquisto da parte del governo degli " Elgin Marbles , e molti ancora discutevano sulla qualità dell'opera fidiaca, Luigi di Baviera depositò una grossa somma presso una banca inglese per aggiu­dicarsi le sculture nel caso che il governo vi avesse rinunciato. r)

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Il fulcro della sua collezione fu rappresentato dai marmi di Egi~a che,_scavati dal Cockerell nel 181 I,

egli riuscì ad aggiudicarsi ad un'asta pubblica a Zante, nel 18131 per la somma di 13o.ooo piastre. La vicenda fu piuttosto ingarbugliata e solo l'abilità dell'agente di Luigi, Martin von Wagner (nome fatale ai Wittels­bach!), riuscì ad eludere la cupidigia degli altri ricer­catori stranieri. Caricate su una nave nel 1815 le scul­ture giunsero a Napoli, dopo che una tempesta le aveva respinte in mare alla foce del Tevere; da Napoli per via terra furono portate a Roma nello studio del Thor­valdsen a cui ne fu affidato il restauro sotto la guida del Wagner. Il restauro durò tre anni e se è vero che i restauri furono fatti in modo da non essere ricono­sciuti, si può anche sicuramente affermare che le scul­ture stesse divennero irriconoscibili. Lo stesso Thor­valdsen scrisse con orgoglio: "gemerkt habe Ich mir Sie nicht und herausfinden kann Ich sie nicht ,. 2>

Le integrazioni furono eseguite in marmo italico, mol­te delle fratture furono abrase e limate, e la ricostru­zione stessa lasciò molto a desiderare, poiché non fu fatta un'accurata -cernita di tutti i frammenti già esi­stenti. Senza parlare, poi, di quelli che, scavati in se­guito, rimasero in Grecia, ad Atene e ad Egina. Le te­ste mancanti furono rifatte, sia, addirittura, copiando con raggelato stile neoclassico qualcuna di quelle già esistenti, come avvenne per due dei lottatori, l'uno del frontone occidentale, e l'altro di quello orientale, sia i'rnitandone semplicemente gli esteriori caratteri for­mali (a un guerriero del frontone Est fu data una testa simile a quella di un caduto dello stesso frontone), senza tenere in alcuna considerazione le diverse tensioni psi­cologiche dei personaggi. Nelle mani dei guerrieri e di Atena furono nuovamente poste delle armi metalliche.

Il merito di Luigi di Baviera, e certo in gran parte anche dei suoi agenti, non fu però solo quello di aver colto l'importanza qualitativa dei marmi di Egina in quel momento di tumultuosi, ma anche spesso incon­sulti e incontrollati entusiasmi per l'antico. La varietà della collezione, articolata lungo un itinerario compren­sivo di sculture assire,_ egizie, incunaboli greci, opere etrusche, classiche, E:llehistiche e romane, testimonia di un'apertura verso 1'antico in un modo che potremmo già chiamare storicistico, o almeno, comunque, storico. Siamo già lontani dal vagheggiamento dell'ideale clas­sico proprio del ·Winckelmann, o dall'assunzione di una moda, come quella dell'Egitto succeduta alla cam­pagna napoleonica, o ancora dall'ammirazione per il classicismo augusteo assurto a modello del Primo Im­pero, anche se tutti questi fattori contribuirono, senza dubbio, ad accendere gli interessi e sollecitare gli acquisti. Tuttavia l'indirizzo programmatico che ha presieduto alla formazione della Gliptoteca fu un altro. Esso rivela già un ideale romantico, lo stesso per cui nel 1830 Luigi volle che il Museo fosse " aperto al popolo ,. Per tale ragione il museo doveva assorbire nella sua totalità, e quindi anche nella sua decorazione pittorica e nelle sue strutture architettoniche, l'interesse dei visitatori; doveva essere, però, non un tempio del passato, ma un organismo vivo, ove, alla luce delle fiac­cole, si sarebbero svolte feste, nelle quali chi vi parte­cipava avrebbe dovuto essere immerso, facilitato dal­l'ambiente e dall'atmosfera che lo circondava, nel mon-

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do degli antichi. Si trattava, in sostanza, di un'interpre­tazione romantica degli ideali classicistici.

Da queste premesse ci si rende facilmente conto di quali fossero le difficoltà in cui si trovarono gli ordina­tori della Gliptoteca nel dopoguerra. Il bombardamento dell'edificio, con la totale distruzione di due sale, l'in­cendio del tetto e la degradazione, quindi, di tutti gli altri ambienti, aveva rotto quella unità e quella rispon­denza che il demiurgo Leo von Klenze aveva divisato fra opere e ambiente, in modo da "partecipare al visi­tatore l'idea del tributo di considerazione che bisognava testimoniare alla nuova arte di questi capolavori del­l' antichità e fargli dimenticare lo stato miserando in cui la barbarie e la distruzione ce li avevano traman­dati, (!). Qualsiasi tentativo di ricostituire questo equilibrio riparatore, un equilibrio già di per sé arti­ficioso e legato a quella particolare temperie ottocen­tesca, sarebbe stato un abominevole falso storico, poi­ché sarebbe apparso come il falso di un falso ... D'al­tronde parte dell'edificio sussisteva ancora e nessuno si sarebbe mai sentito autorizzato a demolire quanto ancora restava del "Museumstempel, di Luigi di Baviera, poiché, anche indipendentemente da seri motivi storici e da legittimi presupposti sentimentali, esso rappresentava un punto focale nel già tanto lacerato tessuto urbanistico della città. Si ripiegò allora su un compromesso, privo certo di premesse teoretiche e frutto del possibilismo, ma che ha rappresentato la soluzione del buon senso. 3)

Si è conservato, cioè, l'esterno e la struttura interna dell'edificio ideato da Leo von Klenze; le pareti furono lasciate al rustico con il paramento di mattoni a vista, non sempre felicemente tinteggiato in modo da sugge­rire forse una patinatura, mentre le memorie di quanto era rimasto della ricca e rutilante decorazione di un tempo, qualche lacerto di stucco, furono appoggiate sul loro luogo originario, non più come facenti parte del contesto architettonico, ma come se fossero dei quadri. Per rompere, forse, la monotonia di alcune pa­reti cieche furono aperte delle finestre che, ritrovate al disotto della decorazione, si presume appartenessero al primitivo progetto.

In questi ambienti spogli e severamente dimessi furono ricollocate le sculture. E se l'operazione di ri­pristino architettonico poteva essere parsa, e certa­mente lo era stata, rispettosa e discreta fino al punto di essere rinùnciataria, a causa del rigetto di qualsiasi elemento che potesse apparire cromatico e decorativo, o anche semplicemente allusivo a quelli precedenti, e del rigoroso rispetto degli spazi e delle strutture originarie, la presenza delle sculture dovette mostrare come, tutta­via, ne risultasse capovolto il reciproco rapporto fra le opere e l'ambiente. Era nato un museo moderno.

Era legittimo, in questo nuovo museo, conservare i principi espositivi che avevano presieduto alla disposi­zione delle opere del vecchio museo? La risposta mi sem­bra ovviamente negativa, se posta in questi termini. Ma le operazioni di fronte a cui ci si trovava erano ben più complesse e impegnative. Come si è già detto, il restauro del Thorvaldsen alle sculture di Egina lasciava molti punti oscuri: già al-tempo in cui era stato compiuto aveva avuto molti oppositori, che gli avevano rimpro­verato l'impiego del marmo per le integrazioni al posto del gesso, gli arbitrari rifacimenti, la faciloneria con cui aveva trascurato frammenti preziosi e, di conseguenza, l'errata ricomposizione dei frontoni. Argomenti che furono ribaditi dal Furtwangler ·nel suo volume su .

Egina e nel catalogo della Gliptoteca. 4) Ma si trattava ormai di un restauro storico ed il rispetto dell'istanza storica, oye questa prevaricasse non solo su una retta lettura, ma anche sulla piena fruizione di un'opera, secondo la moderna teoria di restauro, andava rispetta­ta; s> l'asportazione dei restauri del Thorvaldsen avreb­be dovuto trovare, quindi, ben pochi consensi, anche se il venir meno di quelle premesse museografiche che in qualche modo li avevano, se non determinati, almeno certamente condizionati avrebbe cercato di legittimarla. I restauri del Thorvaldsen sono stati, invece, tutti smon­tati, sia per una ragione pratica, e cioè perché i perni me­tallici che erano stati applicati alle integrazioni erano ar­rugginiti, e quindi inefficienti e dannosi, sia in omaggio al filologismo furtwangleriano a cui ancora è in gran parte fedele la scuola archeologica tedesca. Il risul­tato ottenuto è, a mio avviso, quanto di meglio si po­tesse desiderare. Ma poiché questa affermazione urta apparentemente contro quelle premesse teoriche che regolano la prassi del restauro e necessario giustificarla. La giustificazione sostanziale mi sembra sia da trovare nella qualità stessa del restauro del Thorvaldsen; dall'incontro del Thorvaldsen con i marmi di Egina non era scaturita una nuova creazione, come avven­ne, ad esempio, per un altro caso fanioso, quello del Laocoonte, che venne inserito in un attuale con- -testo storico, determinando çon la propria presenza un rinnovato fénomeno culturale. Con il suo re­stauro il Thorvaldsen non cercò di interpretare, né tanto meno di ricreare, l'opera che egli si trovava fra le mani: ne incollò i pezzi, ne sanò le fratture e le lacune, integrò le parti mancanti, mescolando membra, scambiando teste, copiandone pedissequa­mente altre ; ricompose il frontone Ovest, senza rile­vare lo sgraziato rapporto di proporzioni che si veniva a stabilire fra le figure così disposte, mentre gli scudi, le armi metalliche e gli altri pedanti, ma peraltro im­precisi, rifacimenti, conferivano al complesso l'irri­tante aspetto di manichini. Il frontone Est non fu . ri ~ composto, poiché evidentemente non vi erano elementi sufficienti, ma le singole figure, anche se allineate su uno zoccolo di marmo scuro come quelle del frontone occidentale, furono lasciate su plinti isolati; da tali cesure esse furono private del loro reciproco rapporto dinamico mentre, peraltro, la compiutezza delle in~e­grazioni faceva considerare a sé, come un pezzo sm­golo, ogni ~gura, snaturandone c?mpletamente l~ fu~­zione. Sogg1ogato forse da un t1more reverenz1ale d Thorvaldsen fece troppo o troppo poco; cancellò la pro­pria personalità, ma, spinto dal proprio puntiglioso clas: sicismo nordico, non rinunciò a uno strafare tutto di minuzia e di imitazione, senza mai inventare, senza cedere mai ad uno spunt<;> creativo. I m~rmi di ~gin~ uscirono dalla sua operaz10ne restauratr1ce mortlficatl ed imbellettati. Luigi I di Baviera credette di resti­tuirli al loro secolo d'oro sottraendo li in tal modo alla storia, o, più semplicemente, alla naturale vi.cenda de­gradatrice di ogni cosa mortale. In realtà egli ne .av,eva distrutto le spoglie, cioè tutto quanto solo è leg1tt1mo conservare. Poiché, a mio avviso, il restauro de~ Thorvaldsen non fu storia, ma solo un fatto d1 gusto nel quadro di quel totale-museo-tempio che do­veva essere la Gliptoteca, una volta ca.~uta 9~ella am­bigua premessa museografica non era p1u leg1tt1mo C?~­servarne uno fra i suoi aspetti deteriori, quello, c~oe, che aveva rivestito un'opera d'arte di fals1 orpelli al punto di renderla irriconoscibile.

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Effettivamente il nuovo restauro fu drastico. A chi in quel tempo visitava l'aula ancora semidistrutta della Gliptoteca adibita a laboratorio si presentava l'immagine di una sala anatomica, ove venivano manipolate gelide membra e pareva difficile che a tanto scempio potesse se­guire una ricostruzione. Il punto di partenza fu l'acuta e spietata disanima del Furtwangler al primitivo restauro, alla luce di un rigoroso metodo filologico e stilistico dopo il ritrovamento dei nuovi frammenti e il riesame di quelli trascurati dal Thorvaldsen; ci si valse altresì delle osservazioni dello Schmidt sulla composizione del frontone occidentale. 6l Un grosso ostacolo fu rap­presentato dal fatto che le giunture non aderivano più fra di loro perché nel vecchio restauro avevano subito modifiche e levigature, . così che si dovette ricorrere a dei raccordi, sia per attaccare alcuni dei frammenti, sia per aggiungervi i calchi delle parti restate in Gre­cia. Questi furono eseguiti in modo perfettamente rico­noscibile, ma tale da intonarli, nel colore e nella ma­teria, alla superficie originale. Le integrazioni furono ridotte al minimo, limitate soltanto a quelle zone ove esse rappresentavano un raccordo fra i frammenti an­tichi; furono eseguite in materiale liscio, in modo da distinguerle da quello scabro e di aspetto più simile al marmo impiegato per i calchi.

Mentre nella vecchia disposizione avevano occupato un solo ambiente, il quarto dall'ingresso, le sculture, così mutile, furono distribuite ora in tre sale del museo, le stesse che, situate sul cortile, opposte al vestibolo d'in­gresso, Leo von Klenze aveva destinato alle feste serali illuminate dalla luce delle fiaccole. Nella prima di queste, la settima nel nuovo ordinamento progressivo, al centro, su un basamento continuo formato da blocchi di marmo grigio e sostenuto da semplici supporti in ferro, è il fron­tone occidentale; altri frammenti appartenenti al fron­tone, ma non inseribili, come la testa di un guerriero, un · braccio ed uno scudo con tracce della decorazione dipinta rappresentante un avancorpo di cinghiale, il braccio di un arciere, nonché l'acroterio centrale, sem­pre della parte occidentale, e il capitello di una colonna dell'ordine interno, si trovano nella stessa sala. Nella sala successiva, più piccola, si trova una sfinge, acrote­rio dell'angolo Nord-Ovest del tempio, altri due acro­teri e il pilastro marmoreo con un inventario della fine del V secolo trovati nel santuario. La sala seguente, la nona, contiene il frontone orientale, esposto come il precedente, due teste di guerrieri dello stesso fron­tone, quella di una sfinge dal tetto, e due vetrine con­tenenti altri frammenti, fra cui i resti di un gruppo di guerrieri e del gruppo rappresentante il ratto della ninfa Egina da parte di Zeus, entrambi nello stesso stile del maestro del frontone occidentale e forse ap­partenenti a . un primo progetto per il frontone orien­tale. L'arredo sobrio e volutamente dimesso, l'essen­zialità dei sostegni, semplici nervature di ferro bruno, puramente funzionali, gli elementi di raccordo, raris­simi, e solo ove appaiono indispensabili per ragioni strutturali, in tondelli di lega metallica e in qualche caso particolare in plexiglas, mettono in risalto l'ecce­zionale qualità delle sculture e consentono un'ideale integrazione delle parti mancanti.

La ricomposizione dei due frontoni, a cui si è giunti come si è già detto dopo l'attento vaglio degli studi precedenti, l'esame delle tracce delle impronte delle statue del frontone, nonché lo studio delle corrosioni della superficie provocate dai venti e dalle intemperie a seconda delle diverse collocazioni, . sembra assolu-

tamente plausibile. Il frontone Ovest, con la figura cen­trale di Atena, immobile apparizione teofanica, e ai lati i gruppi di combattenti e di caduti disposti in una scansione coreografica di pieni e di vuoti, che ricorda ancora l'intaglio o la pittura, si configura come l'estremo traguardo dell'arte arcaica: è una costruzione per gruppi, con un modulo che simmetricamente dal centro propone un ritmo di uno-due-tre-uno e andamento nettamente centrifugo. A ciò si con­trappone la coralità del frontone Est, che con intenso moto centripeto addensa le proprie figure dai lati verso il centro, ove la figura di Atena, animatrice e, sembra, suscitatrice della mischia, viene a costi­tuirsi come il perno di tutta l'azione; i personaggi si muovono in uno spazio libero, il turgore delle mem­bra, la pienezza dei volti, il morbido trapasso dei piani è già quello delle opere dello stile severo. Dalla nuova · presentazione dei due frontoni emerge sì il divario cronologico fra le due opere, i venti anni forse più importanti della storia greca, fra il sos-soo e il 485-480, quelli che videro la sconfitta dei Persiani e il fiorire delle democrazie, ma si esalta pure, per converso, quella condizione peculiare dell'arte antica, per cui si riusciva a creare sempre il nuovo senza mai inventare e sempre restando nell'ambito di una medesima tradizione figu­rativa. Il nesso che lega il primo al secondo frontone è così stretto che quest'ultimo si pone sotto il segno di un docile alunnato rispetto al primo, anche se in­numerevoli modulazioni innovatrici segnano una nuova era e recano la paternità di un grande scultore della scuola di Egina, forse Onatas.

Nell'illustrazione del riordinamento della Gliptoteca si è preso l'abbrivio dai frontoni di Egina e ci si è di­lungati sulla loro sistemazione poiché come essi rap­presentavano un po' il simbolo della vecchia Gliptote- . ca, così assurgono ora a paradigma della nuova e co­stituiscono certamente la più impervia fatica ·affrontata dagli ordinatori. Ma non si può tacere del resto e ne segnerò brevemente le tappe sulla scorta del nitido ca­talogo dell'Ohly. 7l Non si afferra sempre il filo condut­tore che ha presieduto alla distribuzione delle opere; sostanzialmente si tratta di un criterio cronologico, con q_ualche evidente concessione al " genere , e al­l'amblente; non si è tenuto alcun conto della vecchia distribuzione, e ciò sembra giusto, sia per tutte le con­siderazioni che sono. :.st.ate già fatte in proposito più sopra, sia perché se ·if grosso della collezione è rimasto lo stesso, vi sono state aggiunte e sottrazioni. Sono rap­presentati, infatti, nuovi acquisti e mancano, perché emigrati altrove, notevoli complessi, come le opere egizie e quelle assire, ed alcuni bronzi. La prima sala è battezzata dalle statue di kouroi arcaici, e cioè quello di Tenea ed il cosidetto kouros di Monaco; entrambe queste statue sono state sottoposte a interventi radi­cali. Bl · Il kouros di Monaco constava di cinque parti, che nel 1912 erano state messe insieme con perni di bronzo e una miscela di cemento; ben presto questo restauro provocò in superficie una serie di fessure e screpolature che vieppiù aumentarono con la corro­sione dei sostegni metallici e la reazione fra questi e il cemento in presenza dell'umidità. Già nel 1930 la figura si era cosi inclinata in avanti da richiedere l'applica­zione di un sostegno sulla parte posteriore, ma durante il ricovero bellico si riaprirono totalmente le vecchie fratture e se ne formarono delle nuove. Il restauro com­piuto nel 1964 affrontò un nuovo incollaggio, l'asporta­zione dei vecchi perni, individuati grazie all'esplora-

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Monaco, Gliptoteca.

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1 - Veduta della Sala V e delle precedenti

2 - Veduta parziale della Sala XI

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zione radiologica, e la sistemazione nell'interno delle gambe di s~pporti in una lega & acciaio, cromo e ni­kel, che raggiungono la metà del corpo e sono ancorati ad una placca metallica. Al medesimo trattamento fu sottoposto l'Apollo di T enea; per l' incollaggio fu impiegata una resina sintetica, reversibile e di agevole impiego e si ricorse solo in qualche particolare caso di emergenza a un poliestere insolubile. Il risultato visivo è ottimo, la purezza della linea compositiva dell'Apollo di T enea e la struttura dinamica: del kouros di Monaco riemergono intatte senza gli sgraziati sostegni poste­riori; la superficie, pulita dalla incrostazioni, ha riac­quistato la trasparenza e le vibrazioni del marmo insu­lare. Tuttavia non si può fare a meno di domandarsi fino a che punto ci si è serviti per i nuovi supporti dei vecchi fori di restauro e se era legittima la trafittura del marmo, manomissione ovviamente irreversibile e cer­tamente depauperante rispetto alla materia antica.

Un altro intervento squisitamente filologico, · e pari­menti immemore di premesse idealistiche e storicisti­che, è stato operato sul Fauno Barberini; vanto della sala successiva, acquistato a Roma da Luigi di Baviera nel 1813, ma che solo nel 1819 aveva ottenuto il per­messo di essere esportato a Monaco. 9) Scoperto nel 1624 il Fauno era stato restaurato prima del 168o dal Bernini il quale, con singolare rispetto per l'integrità dell'opera, aveva rifatto in gesso le parti mancanti del corpo, cioè le gambe, mentre aveva eseguito in marmo il plinto e le rocce con ' la vegetazione. Il Pacetti, a cui l'opera aveva appartenuto per breve tempo, nel 1799, per ragioni antiquarie, integrò in marmo le parti che il Bernini aveva riprodotto in gesso, e appianò alcune asperità, modificando anche l'inclinazione del torso. Il recente restauro ha restituito al ginocchio sinistro la sua esatta posizione anatomica e ha ristabilito la pre­sunta inclinazione originaria di tutta la statua, rendendo però inservibile la base del Bernini. Ma se in tal modo il Fauno ha nuovamente aderito alla primitiva imma­gine concepita dall'artista ellenistico, esso ha certa­mente perduto quell'aspetto di nobile palinsesto che gli aveva conferito il fatto di essere divenuto un'opera aperta lungo un arco di storia dal III secolo a. C. fino al secolo XVIII.

Nella terza sala sono esposti originali e copie di opere statuarie di età classica, nella quarta monu­menti funerari (su uno dei quali le indagini del Doer­ner Institut hanno permesso la lettura della decora­zione pittorica appena visibile ad occhio nudo), men­tre nella quinta, fra le opere statuarie del IV secolo predomina l'Eirene e Ploutos di Cefisodoto, di cui la Gliptoteca conserva la copia migliore e la più fedele. Anche questa statua, ampiamente restaurata, in parte forse ad opera del Cavaceppi, è stata liberata da tutte le aggiunte, il braccio destro, parte della mano sini­stra della dea, parte delle membra del bambino; la te­sta del bambino, che già il Furtwangler aveva ricono­sciuto antica ma non pertinente, è stata sostituita da un calco della testa originaria (dalla replica del Museo Nazionale di Atene?). Anche questa operazione, di rigoroso purismo archeologico, contribuisce certo ad una giusta lettura dell'opera, sebbene, forse, sarebbe stato preferibile esporre a parte il calco della testa del Ploutos. Le tre sale successive sono quelle dedicate alle opere di Egina, di cui già si è parlato. La decima esibisce al centro l'Alessandro Rondanini, il Demoste­ne, copia di una statua di ~olieucto, rilievi sepolcrali e onorari ellenistici e romani e qualche altro monu-

mento. Segue una grande aula, la·sala undecima, dedi- . cata ai ritratti romani ed è l'unica per cui, almeno in parte, c'è una coincidenza topografica col vecchio or­dinamento. Data la vastità dell'ambiente si è cercato di dividere questa sala in più scomparti.

Del gruppo più antico fanno parte opere repubbli­cane e del primo secolo dell'impero; fra queste spic­cano le sculture dell'" ara di Domizio Enobarbo , assicurate alla Gliptoteca fin dal 1816; anche qui non si è esitato ad aggiungere ai rilievi originali, quelli di un lato lungo e dei lati corti, il calco in gesso del se­condo lato lungo conservato al Louvre; questo criterio di mescolare originali e calchi è discutibile da un punto di vista museografico e appare solo dettato dall'evi­dente intento didascalico che presiede a tutto l' ordi­namento. Dato il rigore iconoclasta di tutto l'assunto, una concessione singolare alle vecchie " presenze , è quella del busto panneggiato, già da tempo ri­conosciuto opera dell' Algardi, nel quale è inserito il ritratto del c. d. Sulla. Altrove, invece, sono state tolte tutte le aggiunte. I ritratti sono collocati su dei pilastrini e, per evitare il monotono allineamento tipico delle vecchie collezioni, essi sono stati disposti in un ordine sparso ed apparentemente casuale, per gruppi cronologicamente affini; le teste di ciascun gruppo sono rivolte l'una verso l'altra e convergono verso un pre­sunto punto di vista ideale per lo spettatore. Lo scopo evidente è quello di creare nella vastissima sala come delle quinte di vuoto, in modo che nel chiuso rac­colto di ogni gruppo possa venir riproposta e ricrea­ta una tensione dinamica che si sarebbe altrimenti di­spersa. Forse questo assunto non è stato pienamente raggiunto e l' e_strosa disposizione evidenzia ancora di più la monotonia esasperante dei pilastrini su cui sono poggiate le sculture; ma credo che esporre in un unico ambiente (poiché anche se così sapientemente frazio­nato rimane senipre tale) più di una sessantina di ri­tratti sia un'impresa disperata. Da questa immensa stanza rettangolare si passa in una rotonda, la sala XII, che costituisce uno degli ambienti angolari della Glipto­teca; essa prende il nome dal colossale Apollo Barbe­rini, anch'esso uno dei vanti della collezione di Luigi I; gli fanno corona altre statue, copie o libere imita­zioni romane di originali del IV secolo, e una imma­gine eroicizzata di Domiziano. L'ultima sala, prima dd vestibolo, è la XIII, che custodisce la più bella replica del Fanciullo con l'Oca tradizionalmente attribuito a Boethos; la collocazione al centro della sala permette di girare intorno al gruppo e di apprezzarne in pieno la struttura piramidale lungo cui si muovono i campi di forze che la regolano. In questa sala si trovano anche due bronzi, uno è la statua acefala della Filatrice, tro­vata a Volterra e copia etrusca di un probabile originale del IV secolo, e l'altro una testa di Sa tiro; entrambi fanno parte della collezione primitiva ed erano stati completati, la figura femminile da una testa neoclassica fusa su un modello di Thorvaldsen e il Satiro con un collo ed un busto moderno. Ora riappaiono, ovvia­mente, con le loro originarie mutilazioni, ma ben più grave mutilazione è stata inferta alla materia di cui es­si sono costituiti; tutta la superficie del metallo è stata drasticamente spatinata e tirata a lucido con una ve~­nice di sgradevole aspetto gommoso. Purtroppo 11 trattamento dei due bronzi è l'unico· fatto che ve­ramente non può trovarci consenzienti: per noi, presupposto di ogni atto conservativo è il risp~ttt? della patina originaria, quella patina che già gli ant1ch1

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chiamavano nobile e non solo perché essa era il segno della vetustà dell'opera e in quanto tale la nobilitava, ma perché essa rappresenta l'epidermide della scul­tura e serba l'estremo segno della mano dell'artista. L'artista stesso in qualche modo ne aveva sollecitato lo sviluppo applicando sull'opera finita delle sostanze che spegnevano l'eccessivo nitore del metallo, come attestano ampiamente le notizie delle fonti antiche. È sempre temerario giudicare di un restauro ad opera avvenuta; potrebbe darsi, cioè, che i due bronzi aves­sero già subito una violenta pulitura in passato e che la patina che essi avevano fosse stata una patina falsa, applicata cioè da un restauratore ottocentesco, o che avanzati processi di corrosione ne richiedessero l' aspor­tazione. Tuttavia, poiché esistono oramai degli inibì­tori di corrosione impiegati con successo da vari anni e poiché in un caso simile una soluzione di compro­messo ~ sempre presumibilmente realizzabile, è legit­timo ritenere che il procedimento adottato risponda a dei criteri generali. Nello stesso modo, infatti, sono stati restaurati i tripodi Loeb e gli altri bronzi delle Antikensammlungen, unica reale pecca in un'esposi­zione altrimenti esemplare. E non sarà forse questa una malintesa interpretazione di quello stesso purismo che ha spinto gli ordinatori della Gliptoteca ad elimi­nare tutti i vecchi restauri'? Un equivoco dialettico può aver colpito dello stesso divieto da una parte le mano­missioni e gli interventi dell'uomo e dall'altra le lente e irreversibili modificazioni che il tempo arreca alla materia delle opere d'arte. Ma non si vuole chiudere con una nota di dissenso questa rassegna e neppure risalire da un paio di casi a considerazioni teoretiche che potrebbero rimettere in discussione i principi ope­rativi che hanno presieduto a qu~sta colossale fatica ed ai quali, invece, abbiamo trovato tante valide ragioni. Si vorrebbe suggerire piuttosto di ricostituire, come si è sentito che ci si propone di fare per il Fauno Barbe­rini, in una qualche gipsoteca, che potrebbe essere collocata nelle adiacenze, almeno i frontoni di Egina quali li realizzò il Thorvaldsen, con i calchi delle parti originali e le integrazioni dello scultore danese, in modo che non vada perduta un'operazione di recupero, giu­stamente considerata fallita, ma tale da meritare diritto di cittadinanza nella storia del gusto museografico ot­tocentesco. Da un confronto gli attuali ordinatori avrebbero tutto da guadagnare senza uscirne con una accusa di conservatorismo, ma solo con la stima che circonda chiunque mostra di dedicarsi con tanto zelo ai retaggi del passato. . LICIA VLAD BORRELLI

Ottobre 1972.

I) W. ST CLAIR, Lord Elgin e i marmi del Partenone, Bari I968, p. 326.

2) A. FURTWANGLER, Beschreibung der Glyptothek, Miinchen, 2° ed. I9IO, P• 84.

3) Ad analogo espediente si era fatto ricorso per la ricostru • zione delle Antikensamrnlun~en, il museo situato nella stessa Kèinigsplat:z; di fronte alla Gliptoteca e ove, nel 1964, sono state collocate le altre collezioni di antichità.

4) A. FURTWANGLER, Aegina, Miinchen 1906; Beschreibung der Glyptothek, cit.

5) C. BRANDI, Teoria del restauro, Roma I963. 6) E. ScHMIDT, in Berich ilber den VI Intern. Kongress fiir Ar­

chiiologie, Berlin 1939, pp. 374-376. 7) D. 0HLY, Glyptothek Miinchen, Miinchen 1972. 8) S. BERTOLIN, in Arbeitsbliitter fiir Restauratoren, 1, 1970,

Groppe 6, Stein, pp. I3-14; D. AHRENs, in New York Confe­rence IIC, I, 1970, pp. 65-67.

9) D. Aluu!Ns, op. cit.

RECENTI SCAVI E SCOPERTE A CUMA

N UMEROSE sono le notizie delle fonti antiche sulla vita e le vicende di Cuma in età romana. tJ Ma un

momento della sua storia è messo in particolare evi­denza: quando, durante 'la guerra di Ottaviano contro Sesto Pompeo, Agrippa (nel 37 a. C.) allestì la base della flotta romana creando il portus ]ulius, che tra­sformò la zona dal Lucrino all'Averno, e da questo a Cuma, con canalizzazioni e condotti sotterranei, che coinvolsero la stessa città. Di questi avvenimenti re­stano, oltre le fonti, i canali e le grotte che furono rea­lizzati probabilmente dallo stesso architetto, Coc­ceio. 2 >

In seguito le no!izie diminuiscono: probabilmente divenne colonia sotto Augusto; Stazio e Giovenale in età flavia ne ricordano la tranquilla vita di città di cam­pagna. 3) In compenso i resti della città mostrano una intensa attività edilizia seguita, come era anche logico supporre, alle vicende della guerra civile: a partire dali età di Augusto s'iniziò un rinnovamento della città che senza dubbio durò a lungo. Le opere edilizie interessano tutta la città, dai templi dell'acropoli agli edifici del Foro: le strutture pur con differenze mostra­no almeno un'unità d'intenti, poi realizzati nel tempo. Ciò ha visto molto bene il Maiuri che ha scavato larga parte di quanto è stato scoperto nella città, mettendo in evidenza proprio questo disegno unitario e colle­gandolo con una sorta di volontà di riconsacrazione dei luoghi legati ad antiche tradizioni, come fece pe­raltro anche Virgilio con il VI libro dell'Eneide. Que­sta attività bene si accorda con la poltica generale del­l'Impero nei riguardi della Campania, a partire da Augusto. 4)

Gli scavi condotti nella zona del Foro hanno messo in luce negli anni 1971-72 un altro monumento e han­no dato lo spunto per approfondire alcuni aspetti di Cuma romana e chiarire alcuni problemi dello studio di ~uesta città.

St è scavato a S del portico meridionale del Foro e si è rinvenuto un tempio a podio circondato su tre lati da portici (fi.g'g. x-5). sJ Tecnicamente lo scavo si è Ere­sentato in modo analogo agli scavi precedenti: l il pavimento del cortile è stato trovato a circa m. 1,50 dal piano di campagna, 'mentre le parti più elevate dei muri conservati emergevano quasi dai cumuli di ter­reno sparsi qua e là. La terra, poco compatta, rivelava sconvolgimenti non lontani nel tempo; il materiale ar­cheologico estremamente frammentario, lacunoso, disu­guale, 7) denotava terreno di riporto (tra l'altro si sono rinvenuti frammenti identici ad altri venuti in luce in scavi precedenti in altre parti della città, e frammenti di iscriz10w funerarie, evidentemente provenienti dal­la vicina necropoli). Dai risultati dello scavo e da quan­to ricavato dalle notizie sugli scavi precedenti nella zona si può desumere r opportunità di non riferire con certezza il materiale ritrovato a questo edificio, ma ge­nericamente alla città di Cuma. Inoltre si è osservato che nulla è rimasto delle colonne del portico e che del­l' alzato del tempio restano solamente scarse tracce: il monumento è stato evidentemente spogliato, come del resto tutti gli edifici cumani, prima dell'interro.

L'accesso principale è sul lato meridionale del Foro attraverso tre passa~gi, salendo pochi gradini di pepe­rino (fig. 2). Il portlco, a pianta allungata, è limitato da muri in opera reticolata ammorsata con tufelli e rin-

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