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Mini invasiva piccola porta aperta sulla guarigione 4 2010

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Mini invasivapiccola porta apertasulla guarigione

4 2010

Sant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010

3 - EditorialESi avvicina il tempo delle scelte

4 - CardioCHirUrGiaUna piccola porta aperta sulla guarigione

9 - ESCat iiiEscat III dà i primi risultati positivi per i pazienti

11 - ElEttroFiSioloGiaPacemaker e defribillatori sotto controllo da casa

13 - EModiNaMiCaL’Icus che ha cambiato la cardiologia interventistica

15 - lEttErE al MaGaZiNE

SommarioSommario

S. Anna Hospital Magazine Viale Pio X, 111- 88100 CatanzaroTel. 0961 5070456

Direttore ResponsabileMarcello Barillà[email protected]

Direttore EditorialeGiuseppe FaillaDirettore Generale S. Anna Hospital

Direttore ScientificoProf. Benedetto Marino

Referente MedicoMauro CasseseDirettore Dipartimento Chirurgia CardiovascolareS. Anna Hospital

Progetto graficoIl segno di Barbara [email protected]

Stampato in 25.000 copie presso Rubbettino srlSoveria Mannelli (CZ)

Registrazione Autorizzazione Tribunale di Catanzaron. 3 del 6 aprile 2009

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EditorialeEditorialeSant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010

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il magazine del S.Anna comincia con questo numero il suo secondo anno di vita. L’occasione è quindi opportuna per augurare ai lettori un anno di serenità (soprattutto ai nostri pazienti) e per ringrazia-

re coloro che nel corso del 2009 ci hanno scritto, complimentandosi per l’iniziativa editoriale e inco-raggiandoci a portarla avanti. A questi amici, abbiamo voluto rispondere con una concreta novità: il magazine si arricchisce di ulteriori quattro pagine. Un piccolo passo in avanti, prudente com’è giusto ma necessario a fornire un volume di informazioni maggiore, insieme con qualche dettagliato in più, che aiuti a far conoscere meglio le patologie cardiache e le tecniche di diagnosi e di cura. Le novità del 2010 riguardano però anche altri aspetti del nostro lavoro quotidiano. Alcune di esse, come l’intro-duzione al S.Anna delle tecniche di cardiochirurgia mini invasiva, trovano spazio nella pagine che se-guono; di altre, relative comunque alla cura delle cardiopatie e che sono già in atto o stanno per con-cretizzarsi, daremo conto ai lettori nei prossimi numeri. Si tratta di novità che riteniamo significative e improntate come sempre alla “filosofia” del nostro ospedale, fatta d’innovazione tecnologica, qualità della spesa sanitaria, ampliamento dei saperi e quindi maggiore capacità di risposta alla domanda di salute dei cittadini. Una filosofia che ha al suo centro il malato e che ci vede impegnati nel garantire a ciascuno il percorso clinico a lui più adatto. Sarebbe auspicabile che questa stessa filosofia animasse l’intero sistema sanitario della Calabria, che è fatto di buone professionalità, spesso eccellenti ma che presenta i limiti che tutti conosciamo che lo rendono spesso un “non-sistema”. Non siamo certo noi i soli a segnalarli: lo fanno per primi i cittadini, lo fanno le Autorità di controllo, lo fa l’informazione e lo fa persino la politica, che quel sistema governa. Quella stessa politica che attualmente è impegnata in una difficile campagna elettorale, alla fine della quale gli impegni saranno ancora maggiori, visto che chi sarà chiamato a governare dovrà operare scelte concrete, a cominciare proprio dal difficile com-parto della sanità. Ripiano dello spaventoso deficit, riqualificazione della spesa da tradurre in qualità delle prestazioni, saranno il terreno su cui misurarsi. Un terreno difficile anzi, difficilissimo. Il nostro auspicio è che l’organizzazione di una branca delicatissima, com’è quella della cura delle cardiopatie, riceva la necessaria attenzione. I calabresi hanno bisogno di essere curati bene e di ricevere qui le pre-stazioni necessarie, perché ormai è dimostrato che qui possono essere assistiti senza bisogno di dover andare altrove. Occorre però razionalità e non improvvisazione, occorre uscire dalla logica dei rinvii nella ricerca delle soluzioni ai problemi, occorre bandire ogni condizionamento, ogni campanilismo, ogni pregiudizio o steccato tra pubblico e privato, ogni capriccio politico, perché dare risposte ai cit-tadini non può dipendere da un colore piuttosto che un altro. Nell’ultimo decennio, anche in tema di cura delle cardiopatie, abbiamo assistito a un andamento quantomeno contraddittorio della politica, proprio mentre in molti ospedali calabresi crescevano significativamente competenze e attenzioni. Piani sanitari che contenevano previsioni puntualmente disattese nei fatti o realizzate solo parzial-mente, tentativi di realizzare una rete emergenziale senza la necessaria e conseguente verifica della sua effettiva funzionalità, ipotesi di integrazione pubblico-privato prima ricercate, poi drasticamente negate e poi ancora riportate al centro del dibattito, impulsi localistici dove le spinte emotive hanno sembrato prevalere sui ragionamenti. Ecco perché auspichiamo, nel rispetto dei ruoli, a cominciare proprio da quello svolto dalla politica, che si possa voltare pagina e dare davvero serenità: a chi offre le cure e soprattutto a chi le riceve. Sono ormai numerosi, gli esempi di come può e deve funzionare la catena del soccorso, dall’arrivo del 118 e fino all’intervento che salva la vita al paziente cardiopati-co. Da questo dato si dovrebbe partire, per dare certezza al sistema ed evitare quegli sprechi che poi determinano tagli indiscriminati di risorse, comprese quelle necessarie. Sarebbe un modo per evitare soprattutto inutili e pericolosi rischi.

di Giuseppe Failla

Si avvicina il tempo delle scelte

Sant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010 CardiochirurgiaCardiochirurgia

il dottor alfonso agnino, cardiochirurgo del Sant’Anna Hospital, non sembra avere dubbi: «La

tecnica operatoria mini invasiva - dice - non sostitu-irà integralmente quella tradizionale ma quest’ulti-ma è destinata a essere utilizzata su un numero sem-pre più circoscritto di pazienti».La chirurgia mini invasiva di cui parla Agnino è la me-todica che consente di effettuare un’operazione chi-rurgica al cuore senza aprire lo sterno ma attraverso un’incisione di una decina di centimetri, praticata all’altezza del terzo o quarto spazio intercostale; quindi con un trauma chirurgico ridotto al minimo. I vantaggi di tale metodica sono molteplici. Sono

sicuramente di tipo estetico (a differenza della pic-cola incisione laterale, l’apertura dello sterno com-porta, successivamente, una cicatrice importante) ma sono soprattutto di ordine clinico e funzionale. Basti pensare, spiega Agnino, che il paziente si può mettere seduto già dopo 12/14 ore dall’intervento; nell’arco delle 24 ore può lasciare la terapia intensiva e camminare; nel giro di 5/6 giorni, infine, può uscire dall’ospedale e fare ritorno a casa. In più, la chirurgia mini invasiva fa sì che tenda a ridursi la necessità del-la riabilitazione cardiorespiratoria, proprio perché il trauma chirurgico è minimo. Non aprire lo sterno, inoltre, significa limitare il rischio di complicanze re-

Una piccola portaaperta sulla guarigioneIntrodotta al Sant’Anna Hospital la tecnica di chirurgia mini invasiva

È indicata per la cura delle valvulopatie. Significativi i vantaggi per il malato4

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spiratorie post-operatorie perché non viene alterata la meccanica ventilatoria. La tecnica mini invasiva, inoltre, permette di ridurre in maniera importante il normale sanguinamento chirurgico, riducendo quindi la necessità di eventuali trasfusioni. Una tec-nica, sostanzialmente, che non solo “fa bene” al pa-ziente ma anche al nostro sistema sanitario, con un significativo contenimento dei costi. La chirurgia mini invasiva è particolarmente indicata nella cura dei problemi valvolari: dalla insufficienza mitralica alla steno insufficienza mitralica, dall’insuf-ficienza tricuspidalica alla stenosi o all’insufficienza aortica. In altre parole, tutto quello che ha a che fa-re con la valvulopatia cardiaca e che può essere cu-rato o con la sostituzione della valvola o con la sua ricostruzione. La chirurgia mini invasiva, inoltre, è indicata anche nei reinterventi. Sui pazienti che, ad esempio, hanno già subito un intervento al cuore e che per una qualsiasi ragione debbono essere nuo-vamente operati, è bene procedere per via toracoto-mica, cioè mini invasiva; questo per evitare il rischio di ledere il cuore o ciò che è stato fatto nell’interven-to o negli interventi precedenti.Dal punto di vista dell’approccio chirurgico, il cam-biamento rispetto al metodo tradizionale è signi-ficativo. Nella chirurgia mini invasiva, non c’è mai una visione diretta del cuore; diversa è la postura del chirurgo, che utilizza strumenti da trenta centimetri che muove con la sola punta delle dita e con polso e avambraccio fermi. Il cambiamento mentale per il chirurgo è totale così come quello fisico, puntualizza Agnino. I gesti che egli compie sul cuore, all’interno del torace, può osservarli solo attraverso un monitor e non più “dal vivo”. Anche per il paziente i cambiamenti sono significa-tivi, fatta salva l’anestesia generale che gli viene pra-ticata prima dell’intervento. Sul tavolo operatorio il paziente cardiopatico è disteso sulla schiena e pog-giato su una sacca a pressione, per favorire l’esposi-zione dell’emitorace destro e di conseguenza l’inci-sione in corrispondenza del terzo o quarto spazio intercostale. Per le donne, il punto sarà il solco della mammella e per gli uomini, circa tre centimetri so-pra il capezzolo. Attraverso l’incisione, il chirurgo raggiunge solo le parti del cuore su cui andrà a ope-

rare. Tutto il resto del muscolo non è visibile. Tramite una seconda, piccola incisione a livello inguinale di destra o addirittura, in alcuni casi, attraverso una semplice puntura viene poi fatta salire, lungo la ve-na femorale, una cannula fino alla corrispondenza del cuore. Questo permetterà il drenaggio del san-gue venoso. Attraverso l’arteria femorale dello stes-so lato destro o attraverso quella porzione di aorta visibile dall’incisione superiore, viene inserita una seconda cannula, che porterà il sangue ossigenato dalla circolazione extra corporea verso il paziente. Riepilogando: una cannula venosa drena il sangue venoso non ossigenato; questo va nell’apparecchia-tura della circolazione extra corporea, dove viene ossigenato e, attraverso una pompa, viene reim-messo nel paziente creando il cosiddetto by-pass cardio polmonare parziale; questo perché il cuore viene soltanto svuotato ma continua a battere. Solo successivamente verrà arrestato completamente attraverso la cardioplegia, una sostanza che serve a fermare il muscolo cardiaco e a proteggerlo durante la fase ischemica. L’intervento vero e proprio, che per quanto riguarda la sostituzione o la ricostruzione valvolare sarà ana-logo a quello tradizionale, si effettua grazie a un’at-trezzatura specifica per la chirurgia mini invasiva, tra cui una camera a fibra ottica che permette di vedere,

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sul monitor, l’interno del cuore. A differenza della sternotomia, cioè l’apertura dello sterno, nella chi-rurgia mini invasiva, come detto, è visibile solo una parte del cuore e più precisamente l’aorta, la vena cava superiore, una porzione dell’atrio di destra e di quello di sinistra. Questa visione parziale da par-te del chirurgo, differente rispetto a quanto avviene nella chirurgia classica, rende ancora più importante la presenza dell’anestesista; il chirurgo vede solo un terzo del muscolo cardiaco e quindi può solo intui-re se esso è drenato attraverso la circolazione extra corporea. È proprio l’anestesista, per mezzo di una sonda transesofagea, a confermare il corretto dre-naggio del cuore e a dare al chirurgo la tranquillità indispensabile a procedere. Altrettanto fondamen-tale è la presenza del tecnico perfusionista, che si oc-cupa della circolazione extra corporea. La chirurgia mini invasiva comporta dunque un in-tenso lavoro d’equipe. Una volta concluso l’interven-to propriamente detto, il cuore viene fatto ripartire e sarà ancora una volta l’anestesista a confermare la corretta contrazione del muscolo e quindi la possibi-lità di sospendere la circolazione extra corporea. La chirurgia mini invasiva non ha particolari controin-

dicazioni. Tutto dipende dalla conformazione del paziente e dalle condizioni del cuore: se questo è dilatato o se si è in presenza di aderenze a livello pol-monare (pleurite destra o trattamenti radioterapici a destra), allora l’approccio mini invasivo non sarà possibile. Tutto sommato, però, le controindicazioni restano assai limitate. Neppure l’età costituisce un problema anzi, più si è in avanti negli anni più la chirurgia mini invasiva è consigliabile. Questo perché, mentre per i pazienti giovani può esservi certamente una moti-vazione di tipo estetico (si pensi alle giovani donne e a quello che può significare una piccola incisio-ne sotto il seno rispetto alla cicatrice conseguente all’apertura dello sterno), negli adulti e negli anziani scattano quei benefici medici del post-operatorio, che rendono particolarmente indicata la metodica mini invasiva. In ogni caso però, conclude Agnino, sarà sempre l’equipe medica (cardiochirurgo e anestesista) a de-cidere quale tipo di intervento eseguire, tradizionale o mini invasivo, in ragione della patologia da curare, del quadro clinico del paziente e delle sue condizio-ni generali.

CardiochirurgiaCardiochirurgia

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7l’anestesista è parte integrante del nucleo dell’equipe, impegna-

ta nell’intervento di cardiochirurgia mini invasiva. Dopo la pre visita anestesiologica e il consulto effettuato con il cardiochirurgo e il perfusionista, con cui si inquadrano le condizioni del paziente e si ottimizzano tempi e terapie ai fini dell’intervento, l’anestesista - spiega il dottor Bruno Madaffari - addormenta il paziente stesso e, se necessario, effettua una intubazione selettiva. Quest’ultima con-siste nell’inserimento di una protesi ventilatoria, un tubo, capace di escludere uno o l’altro polmone in rapporto alle esigenze cardiochi-

rurgiche. Seguono il monitoraggio completo del paziente e l’introduzione, attraverso la vena giugu-lare (possibilmente destra), delle attrezzature necessarie a supportare la circolazione extra corporea. Una volta monitorizzato e posizionato il paziente, quando si avvia l’intervento vero e proprio l’ane-stesista ha il compito di osservare il cuore attraverso una sonda ecocardiografica, il cosiddetto tran-sesofageo, valutare quali sono le operazioni chirurgiche da effettuare e soprattutto guidare il po-sizionamento della cannula venosa, che viene posizionata attraverso la vena femorale e va inserita nella vena cava superiore. Tutto ciò allo scopo di rendere il cuore correttamente drenato, cioè privo di sangue. A questo punto si è già in circolazione extra corporea, il paziente è cannulato ed è anche stata somministrata la cardioplegia. La cardioplegia è una sostanza, per lo più a base di potassio, che viene introdotta nelle coronarie e serve per fermare l’attività cardiaca. In questo modo si permette al cardiochirurgo di operare in condizioni ottimali. Nella chirurgia mini invasiva si utilizza un particolare tipo di cardioplegia, che, somministrata in un’unica dose, consente un tempo chirurgico anche di due ore e mezza; questo perché il cardiochi-rurgo deve poter disporre di un arco temporale ampio per non interrompersi e far ripetere la cardio-plegia ogni venti o trenta minuti, come accade negli interventi tradizionali. La cardioplegia si sommi-nistra attraverso un tubicino all’interno dell’aorta e poi da lì essa si infonde all’interno delle coronarie e pian piano l’attività cardiaca si ferma. Nel corso dell’intervento, l’anestesista concorre al mantenimento dei parametri vitali di concerto con il perfusionista, somministra le terapie di supporto all’intervento per garantire l’emodinamica, cioè i valori pressori con cui il sangue circola, controlla la glicemia, somministra gli antibiotici, somministra il cortisone nel corso della circolazione extracorporea, trasfonde il sangue se e quando serve, mantiene la visualizzazione all’eco per accertare che il cuore rimanga drenato e la cardioplegia sia correttamente somministrata. Finito l’intervento, il compito dell’anestesista è riavviare l’attività cardiaca di concerto con il chirurgo e il perfusionista; quindi “uscire” dalla circolazione extracorporea, eseguire il controllo ecocardiografico per vagliare i risultati dell’intervento, monitorare e normalizzare i parametri. Per l’anestesista, spiega Madaffari, la metodica mini invasiva comporta un coinvolgimento molto più intenso, un rapporto sicuramente diverso con il perfusionista e il cardiochirurgo, al quale va garantita la massima tranquillità, considerato il tipo di intervento che si trova ad eseguire, del tutto diverso da quello classico. Un lavoro, quindi, più impegnativo ma al contempo più stimolante, soprattutto alla luce del risultato finale e dei benefici per il paziente nel decorso post operatorio.

MiNi iNVaSiVa: PEr l’aNEStESiSta, UN CoiNVolGiMENto Molto PiÙ iNtENSo

SAH Magazine - N. 3

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il perfusionista è addetto all’uso e alla gestione della macchina cuore-polmone nelle metodiche di circolazione extracorporea.

Grazie all’utilizzo di questa macchina è possibile fermare il cuore del paziente ed “isolarlo” assieme ai polmoni, in modo tale da per-mettere al chirurgo di effettuare l’intervento in tutta tranquillità. Il perfusionista ha il compito di mantenere i valori ematici del pazien-te quanto più fisiologici possibile durante l’intervento cardiochirur-gico, garantendo così l’ossigenazione del sangue, il mantenimento dei valori di pH ematico nella norma, la perfusione sistemica, la cor-retta pressione arteriosa e la protezione miocardica.Nella chirurgia mini invasiva, spiega il dottor andrea albertini, il

ruolo del perfusionista ha delle peculiarità specifiche, legate evidentemente alle differenze di non poco conto di questa metodica, rispetto a quella classica. La principale riguarda i siti di cannulazione. È infatti il chirurgo che colloca le cannule, sia arteriosa che venosa e i sistemi di ventaggio, cioè di aspirazione del sangue refluo al di là dei vasi principali. Ruolo del perfusionista è quello di indirizzare il chirurgo nella scelta della cannula più idonea in base alle dimensioni del malato e quindi quella che è la portata cardiaca che bisogna garantire al malato durante l’arresto cardiochirurgico. Il perfu-sionista si occupa anche di sorvegliare la cannulazione nella misura in cui alcuni parametri, come ad esempio le pressioni, le resistenze al flusso e al deflusso sanguigno, non possono essere valutati dal cardiochirurgo sul campo operatorio. Quindi il perfusionista, una volta indicata la cannulazione, il ti-po di cannula da inserire, è chiamato a discutere con il cardiochirurgo e l’anestesista quali sono i siti di cannulazione più utili per il tipo di paziente da operare. Tali siti sono quasi sempre diversi rispetto alla cannulazione tradizionale proprio per le differenze che ci sono tra l’approccio mini invasivo e quello classico. Completati questi passaggi, la circolazione extra corporea in chirurgia mini invasiva viene condotta sempre in modo tale che il drenaggio venoso venga garantito non dalla semplice caduta pressoria che c’è fra paziente e apparecchiatura ma da un vacuum, cioé un’apparecchiatura che crea il vuoto, perché le cannule inserite sono di diametro più piccolo. Per il perfusionista questo significa gestire un quadro più complesso rispetto a quello dell’intervento classico, maggiore livello di atten-zione, maggiori conoscenze, messa in pratica di tecniche che non vengono utilizzate nell’approccio chirurgico tradizionale. Tutto ciò può apparire uno svantaggio ma, ammesso e non concesso che lo sia, nei fatti viene annullato dai benefici per il paziente, che sono enormi. Un’altra differenza significativa rispetto al tradizionale intervento a sterno aperto, spiega ancora Albertini, è l’approccio alla cardioplegia. Nella metodica classica, la cardioplegia è ematica o ematico-cristalloide, in questo caso è di tipo cristalloide puro. Quindi una soluzione esclusivamente salina, che agisce all’interno della cellula e della sua centrale energetica, il mitocondrio e a differenza delle altre cardioplegie garantisce un arco temporale di intervento più lungo. È un tipo di cardioplegia che può provocare bassi valori pressori durante la circolazione extracorpo-rea e questo richiede il trattamento farmacologico. Ma il fatto che sia una cardioplegia monodose rende tutto più facilmente controllabile. La chirurgia mini invasiva, insomma, “cambia la vita” anche al perfusionista ma fino a un certo punto. Sicuramente, chiude Albertini, all’inizio c’è un livello di con-centrazione molto alto anche se corroborato dall’entusiasmo e dello spirito di equipe che contraddi-stingue la procedura ma poi diventa normale lavoro.

il dEliCato CoMPito dEl PErFUSioNiSta

Escat IIIEscat IIISant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010

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Proseguono regolarmente, al Sant’Anna Hospital, le attività legate al progetto “Escat III”, lo studio

sull’autocontrollo dell’anticoagulazione con un nuovo regime di terapia a basso dosaggio. Il pro-getto, coordinato dall’università tedesca di Bad Oeynhausen, coinvolge attualmente circa 1100 pa-zienti, dislocati in diversi Paesi europei. In Italia, Escat III è condotto in soli due centri di al-ta specialità del cuore, uno dei quali è appunto il Sant’Anna, che attualmente segue venticinque pa-zienti. Se le aspettative dei ricercatori verranno con-fermate, le persone la cui valvola mitralica e/o quella aortica sono state sostituite chirurgicamente con una protesi meccanica, potranno beneficiare di un vero e proprio salto di qualità, sia dal punto di vista terapeutico, sia per quanto riguarda la loro qualità di vita. «Attualmente - spiega infatti il dottor Maurizio Braccio, coordinatore delle attività di studio in corso al Sant’Anna - queste persone sono costrette a sotto-porsi a terapia anticoagulante, destinata a protrarsi per tutta la vita. Una terapia generalmente efficace

ma difficile da gestire e non priva di rischi. Se infatti il sangue viene reso troppo liquido dal farmaco, c’è la possibilità di emorragie; in caso contrario, il rischio è il malfunzionamento della protesi. Per questo - con-tinua Braccio - chi è sottoposto a terapia anticoagu-lante, deve ripetere gli esami del sangue ogni 15/20 giorni, con lo scopo di verificare l’efficacia dei farma-ci e calibrare, con l’ausilio del medico, la loro sommi-nistrazione. Nonostante ciò, circa il 5% dei pazienti incorre ogni anno in fenomeni di sanguinamento o denuncia il cattivo funzionamento della protesi. Se Escat III darà i risultati sperati, si avrà un sensibile ridimensionamento delle percentuali di rischio gra-zie al basso dosaggio dei farmaci ma soprattutto si aprirà per i malati una prospettiva del tutto nuova e cioè quella di poter monitorare le loro condizioni ma anche arrivare a gestire autonomamente la pro-pria terapia, esattamente come già fanno i soggetti diabetici».I pazienti protagonisti dello studio sono stati dotati di un apparecchio, il coagulometro, in grado di misu-

Escat iii dà i primi risultati positivi per i pazienti

Diminuite sensibilmente le percentuali di eventi trombo embolici ed emorragici. Tra i pazienti arruolati anche Alberto Sarra

Sant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010 Escat IIIEscat III

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rare con estrema semplicità i valori di coagulazione del sangue. Ciascuno di loro si autocontrolla e grazie alla telemedicina i risultati vengono trasmessi al cen-tro coordinatore di Escat III in Germania. I pazienti fanno fino a due misurazioni settimanali, piuttosto che un esame del sangue ogni 15 o 20 giorni. Questo consente loro di avere in tempo reale le informazioni necessarie a variare, se serve, i dosaggi dei farmaci e dunque stabilire la terapia con maggiore accuratez-za e continuità.«A più un anno dall’avvio dello studio presso il Sant’Anna e a quasi tre dall’avvio complessivo di Escat, i primi risultati registrati a livello internazio-nale - spiega Braccio - sono asso-lutamente incoraggiati perché hanno evidenziato una sensibile diminuzione sia degli eventi trom-bo embolici, legati al cattivo fun-zionamento della protesi, sia degli eventi emorragici. I primi si sono verificati in una percentuale di ca-si dello 0,3% contro una media del 2,8% paziente/anno; per gli altri, la percentuale è stata dello 0,5% contro una media del 2,5% pazien-te/anno. Per quanto riguarda in particolare i pazienti in studio al S. Anna - aggiunge Braccio - nessuno di loro ha fatto registrare eventi trombo embolici o emorragici. Non hanno avuto difficoltà particolari ad effettuare l’au-tocontrollo dell’indice di coagulazione ma soprat-tutto si dichiarano soddisfatti per essersi affrancati dall’obbligo di sottoporsi periodicamente ad analisi di laboratorio”.Tra i pazienti “arruolati” in Escat III al Sant’Anna, anche Alberto Sarra, avvocato e consigliere regionale, sot-toposto nei primi giorni del 2010 a un lungo, delica-to e complesso intervento chirurgico (perfettamen-te riuscito) dall’equipe del dottor Mauro Cassese, per una dissecazione dell’aorta: una delle patologie più gravi e a più alta mortalità. «Ho accettato di buon grado di far parte dello studio - dice Sarra. Ho dovuto mio malgrado misurarmi im-provvisamente con un problema di salute molto se-rio e mi rendo conto, a parte la buona riuscita dell’in-

tervento, di quanto i risultati di Escat III, se saranno quelli auspicati, potranno avere ricadute importanti sulla qualità della vita dei portatori di protesi mecca-nica. L’ho fatto anche perché ho piacere di dare un contributo ed essere parte di uno studio di portata internazionale, che vede protagonista una struttura ospedaliera di eccellenza della mia regione. Sapevo - ha aggiunto - del livello qualitativo raggiunto dal Sant’Anna Hospital nell’impegnativo campo della chirurgia cardiovascolare e del prestigio di cui gode la struttura in ambito medico scientifico, ma ciò che ho avuto modo di verificare da paziente è andato oltre ogni aspettativa. L’attenzione complessiva e le

prestazioni di cui gode il malato, dal suo ingresso alle dimissioni e fino ai successivi controlli, sono quanto di meglio un ospedale possa offrire a un paziente e ai suoi familiari. Non credo - ha detto ancora Sarra - che il mio ruolo pubblico possa aver fatto la differenza, come pure qualcuno ha sostenuto. Tant’è che nelle stesse ore in cui io facevo il mio ingresso in ospedale, un altro ammalato con la stessa mia grave patologia ma un’età molto avan-zata veniva ricoverato, ricevendo

esattamente lo stesso trattamento riservato a me. La medesima cosa si è ripetuta nei giorni della mia degenza post operatoria. Al Sant’Anna sono arriva-ti cittadini dalle zone più diverse della Calabria e il grado di accoglienza e di cura è sempre stato di altis-simo livello. Da rappresentante delle Istituzioni - ha concluso Sarra - una cosa però posso certamente affermarla: il tema dell’emergenza cardiaca e della cardiochirurgia, in Calabria, deve essere ancora com-piutamente definito ma, quali che saranno le scelte ultime e definitive, esse non potranno prescindere dall’eccellenza che rappresenta per la nostra regione la realtà del Sant’Anna Hospital. Tenere nel doveroso conto le competenze, le capacità e le professionalità che la struttura esprime, significa non tanto rendere merito all’impegno quotidiano delle persone che vi lavorano ma significa rendere un servizio ai calabresi e al nostro sistema sanitario regionale».

ElettrofisiologiaElettrofisiologiaSant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010

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Si stima che in Italia si im-piantino ogni anno circa

58 mila pacemaker e 15 mila defibrillatori cardiaci impian-tabili (ICD) in 400 laboratori di elettrostimolazione. Negli ultimi dieci anni, il nu-mero di impianti di pacema-ker è raddoppiato, mentre quello dei defibrillatori si è addirittura moltiplicato di quasi venti volte. Anche te-nendo conto dei tassi di mor-talità e sostituzioni, la popo-lazione dei pazienti che rego-larmente accede al controllo periodico convenzionale è letteralmente esplosa nel gi-ro di pochissimi anni.Inoltre, la diffusione della terapia di resincronizza-zione nello scompenso cardiaco, che da sola interes-sa ormai più di un terzo degli impianti di defibrillato-ri, ha introdotto una quota non irrilevante di pazien-ti critici, che necessitano di un controllo più attento. Nel frattempo, le risorse umane e professionali delle strutture sanitarie non sono cresciute in proporzio-ne. Su di esse, si esercita un carico di lavoro già enor-me e destinato a crescere ancora nel prossimo futu-ro. L’acquisizione di metodi più efficienti e razionali, basati sulle moderne tecnologie di telecomunica-zione e monitoraggio remoto (a distanza, comoda-mente seduti su di una poltrona o sdraiati a letto), è un passaggio obbligato e non più rimandabile. L’Unità di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione del Sant’Anna Hospital, diretta dal dottor Saverio

iacopino, esegue circa mil-le interventi all’anno tra impianti di pacemaker e defibrillatori e ablazioni transcatetere. È attivo un ambulatorio di controllo dei dispositivi impiantati che esegue circa 4000 controlli per anno ed è stato istituito un servizio di telemedicina che realizza un controllo a distanza quotidiano, auto-matico o su richiesta, dei pazienti portatori di stimo-latori cardiaci impiantabili, tramite un sistema dedicato (Monitor). Tale sistema si è ri-velato utile anche per il fatto che il Sant’Anna accoglie pa-

zienti provenienti da tutta la regione e anche fuori regione, determinando in tal modo una riduzione degli spostamenti del paziente verso l’ambulatorio e quindi un risparmio economico per i costi di tra-sporto e di perdita di giornate lavorative dei familiari che spesso accompagnano l’ammalato.I pacemaker e i defibrillatori trasmettono, quotidia-namente e a distanza, tutti i parametri funzionali e diagnostici del dispositivo, come se si eseguisse giornalmente un controllo ambulatoriale. Le infor-mazioni acquisite vengono inviate al medico utiliz-zando la rete web (internet e e-mail) o la rete telefo-nica cellulare GSM (tramite sms). Il medico può quindi collegarsi con una propria pas-sword personale al sito e vedere lo stato clinico dei propri pazienti. Inoltre il medico può programmare

Pacemaker e defibrillatori sotto controllo da casaLe apparecchiature trasmettono quotidianamente e a distanza tutti i parametri come se si eseguisse un controllo in ambulatorio

Sant’Anna Hospital Magazine - 1/ 2010 ElettrofisiologiaElettrofisiologia

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sul sito una serie di eventi clinici critici per ciascu-no dei suoi pazienti, in modo tale che al verificarsi di uno di questi il Centro Servizi, automaticamente (senza l’intervento attivo di nessun operatore), av-verte il medico tramite e-mail o sms. Le informazioni ricevute fanno sì che il medico possa controllare me-glio lo stato clinico del paziente e il funzionamento del pacemaker/defibrillatore senza dover aspettare il controllo ambulatoriale successivo, che potrebbe essere previsto settimane o mesi dopo (il tutto senza l’intervento attivo di nessun operatore, neppure del paziente grazie alla tecnologia “wireless”). Va preci-sato che tale sistema di controllo remoto non rappre-senta un sistema di emergenza ma semplicemente di informazione diagnostica; infatti, in particolari casi o in presenza di disturbi clinici, il paziente deve informare immediatamente il suo medico e chiedere l’aiuto più appropriato al suo stato di salute. Tale si-stema, introdotto due anni fa sperimentalmente in pochi centri italiani tra cui il Sant’Anna, rappresenta

oggi un indispensabile strumento di valutazione del funzionamento di pacemaker o defibrillatore e di diagnosi a distanza di parametri clinici di interesse cruciale, soprattutto per la gestione del paziente af-fetto da scompenso cardiaco avanzato. L’esperienza maturata nel corso di questi anni con tale sistema di controllo remoto ha consentito di validarne il ruo-lo e l’efficacia clinica soprattutto nella gestione di uno stato di peggioramento dello scompenso car-diaco (avvertito dal paziente mediante un allarme sonoro emesso dal dispositivo) e nella riduzione di ospedalizzazione dovuta a insorgenza di aritmie o a interventi inappropriati del defibrillatore. Talvolta, invece, il sistema ha determinato un ospedalizzazio-ne urgente, altrimenti non valutabile se non dopo visita medica, per malfunzionamenti del dispositivo o dei cateteri stimolatori. In particolare, l’esperienza clinica del Sant’Anna è stata oggetto di discussione nel corso di diversi simposi nazionali ed internazio-nali, soprattutto per quanto attiene all’utilità clinica nella gestione del paziente con un’aritmia di nuova insorgenza che può essere rischiosa (per la possibi-lità di determinare ictus cerebrale) in pazienti con scompenso cardiaco avanzato, come la fibrillazione atriale parossistica. Le conclusioni di tale studio han-no evidenziato che la fibrillazione atriale di nuova insorgenza in pazienti con scompenso cardiaco, por-tatori di defibrillatore è relativamente rara (13,1%), ed è asintomatica nel 25% di essi. Tale sistema di controllo remoto si è confermato dunque di grande utilità clinica per la gestione dei pazienti portatori di defibrillatore, a tal punto che sarebbe auspicabile estenderne l’utilizzo a tutti i pazienti con dispositivi impiantabili.

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È conosciuta con l’acronimo Icus (Intracoronary ultrasound) che, in italiano, corrisponde all’eco-

grafia intracoronarica. Si tratta di un’indagine che, attraverso l’introduzione nelle coronarie di sonde ad emissione di ultrasuoni, permette di ottenere im-magini ad alta risoluzione con cui acquisire informa-zioni aggiuntive sulla parete coronarica per meglio curarla.I laboratori di emodinamica italiani, nella loro prati-ca clinica, hanno adottato con molta lentezza l’Icus (tutt’oggi sono una minoranza), mentre in altre aree del mondo la tecnica è molto utilizzata. Si è avuto così modo di costatare che i risultati ottenuti affian-cando l’Icus all’esame angiografico - che in emodi-namica resta quello principale - rendono ottimale il lavoro che si andrà a fare in coronaria o comun-que suggeriscono le strategie di intervento più op-portune. Lesioni che, ad esempio, non siano chiare

nell’ambito dell’albero coronarico possono essere meglio scandagliate con l’Icus e perfettamente in-quadrate nella loro criticità; quindi è possibile stabi-lire la migliore metodica di trattamento.«L’Icus - osserva il dottor Bindo Missiroli, diretto-re del laboratorio di Emodinamica al Sant’Anna Hospital dal 2002 - è da sempre un nostro cavallo di battaglia. Abbiamo imparato a impiantare con suc-cesso le protesi intravascolari coronariche grazie al-lo studio fatto dal dottor Antonio Colombo nel 1995, che rimane una pietra miliare. Grazie all’Icus, infatti, si è potuto osservare che le protesi (i cosiddetti stent) andavano impiantate utilizzando regimi di alta pres-sione del palloncino tramite il quale avviene l’appli-cazione della protesi stessa. Questo ha rivoluzionato la storia della cardiologia interventistica e ha gettato le basi per farla arrivare a quello che è adesso, cioè un trattamento che ha sorpassato nel numero di in-

l’Icus che ha cambiato la cardiologia interventisticaSi tratta di un’indagine diagnostica per studiare e curare meglio le coronarie.

Insieme all’esame angiografico aiuta a individuare l’intervento necessario

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terventi quello chirurgico nel trattamento della car-diopatia ischemica». Apprendere e applicare l’Icus è piuttosto complesso; anche per questo, intorno alla metodica è nato l’Icus club: un gruppo di esperti che offrono ai cardiologi interventisti, desiderosi di entrare in confidenza con l’interpretazione delle immagini, attività formative, di studio e di divulgazione della metodica. Gli stage si svolgono presso strutture specializzate, tra le qua-li il Sant’Anna e con operatori già esperti. Tra questi, anche Missiroli che, nell’ambito dell’Icus club, si oc-cupa delle attività formative nel sud Italia e le isole. Nel tempo, la tecnologia ha fatto passi enormi e con essa anche la metodica è andata perfezionandosi; ma “la ragione per cui l’Icus club si è andato sempre più affermando - spiega Missiroli - sono le difficoltà

cui va incon-tro il singolo c a r d i o l o g o i n t e r v e n t i -sta nel dover interpretare i risultati di due diverse metodiche, l ’esame an-giografico e

l’Icus, finalizzate allo stesso scopo ma che, acquisite contemporaneamente, possono dare luogo a dub-bi interpretativi. Occorre esercitarsi molto e questo spiega il grande interesse dei cardiologi interventi-sti, soprattutto i più giovani, che intendono diventa-re padroni della tecnica anche attraverso momenti di incontro e discussione di casi».Le due metodiche di indagine sono quindi comple-mentari. L’esame insostituibile e diagnostico coro-narografico resta, come detto, l’esame angiografi-co, che consiste nel sostituire al sangue un mezzo di contrasto, in modo tale da rendere osservabile il “lume” (la strada attraverso cui defluisce il sangue) e appurare se esso è libero od occupato da placca. Tuttavia, l’esame angiografico non dà informazioni sulla composizione della placca stessa, poiché in-daga il lume e non la parere dell’arteria. La parete coronarica va interpretata come un organo, cioè un

complesso insieme differenziato di cellule che vivo-no e che metabolizzano alcune sostante presenti nel sangue. La parete si divide in tre strati; il più impor-tante, ai fini metabolici, è quello medio, la cosiddetta “tunica media delle arterie”. Questa può andare in-contro a fenomeni di accumulo di sostanze, come il colesterolo e alla difficoltà di smaltirle. Tali sostanze, accumulandosi, danno quindi luogo alla formazione di placche che possono complicarsi e causare le varie manifestazioni del grande capitolo della cardiopatia ischemica, cioè la difficoltà del sangue di raggiunge-re il tessuto muscolare cardiaco che è la pompa della vita. Ecco perché l’Icus è importante: perché permet-te di avere informazioni di parete. Le due metodiche, dunque, corrono in parallelo. In altre parole, una dà un calco del lume, l’altra dà informazioni di parete e di composizione della placca che ostruisce il lume. Entrambe concorrono così a migliorare il risultato dell’intervento sul lume, cioè sullo spazio vivo per il flusso sanguigno.«Il Sant’Anna - dice ancora Missiroli - è uno dei cen-tri più accreditati su questa metodica diagnostica. L’Icus oltre ai risultati illustrati, si è rivelata utile an-che per migliorare le tecniche di intervento in emo-dinamica. Non solo inizialmente ha aiutato a capire come impiantare gli stent ottenendo un risultato clinico ottimale ma, nel corso del tempo, ha per-messo di ottimizzare i risultati che rimangono nelle coronarie. L’Icus, ovviamente, si applica ai quadri più complessi perché in caso di lesione semplice, avere ulteriori informazioni rispetto all’esame coronaro-grafico non fa la differenza. Nei quadri più comples-si invece, l’Icus si rivela un aiuto validissimo. Anche perché questo tipo di indagine è in grado di fornire informazioni così dettagliate e puntuali da indurre a cambiare eventualmente il tipo di intervento da ese-guire, nel senso di far propendere per la cardiochi-rurgia piuttosto che la cardiologia interventistica, se alla luce dell’esame si rivela ad esempio necessario impiantare un by-pass piuttosto che ricreare il lume con l’angioplastica. Il chirurgo non tratta la placca ma opera a valle di quest’ultima annullandone gli ef-fetti. Il cardiologo interventista, invece, si confronta con la placca e da qui la necessità di disporre di tutte le informazioni possibili».

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Ho avuto il piacere di ricevere il vostro Magazine e ho provato un dispiacere enorme nel leggere l’editoriale sulle co-siddette morti sospette. Sono stato vostro ospite: il 18 agosto 2009, sono stato trasferito d’urgenza dal pronto soc-

corso di Reggio Calabria con una diagnosi di dissecazione dell’aorta toracica. Appena arrivato al Sant’Anna ho incon-trato i miei “angeli”, persone che si sono prese cura di me con un’attenzione e una tempestività ammirevole. L’intervento eseguito dal dottor Agnino non era sicuramente dei più semplici, l’affetto e le cure con cui tutti i dottori e gli operatori mi hanno assistito per la durata della degenza mi hanno consentito di superare il momento non certo facile. Sicuramente non è bello sentirsi puntare il dito contro, purtroppo è più facile accusare che elogiare, non rendendoci conto che una realtà come il Sant Anna Hospital è una bella realtà per la nostra Calabria. Nel ringraziarvi per tutto, spero che queste poche righe di gratitudine possano essere per voi un incitamento a continuare nel miglior modo la vostra missione.  

Pasquale Barresi, Bologna

La possibilità di vedere anche la mia lettera pubblicata, insieme a tante altre, sul magazine del Snt’Anna Hospital, sarà sicuramente il mezzo per poter esprimere la stima e l’ammirazione verso tutta la struttura e l’organizzazione

di una così alta professionalità. Il 27 maggio 2009 - non sapendo nemmeno della sua vera realtà - lo scenario che mi si presentò davanti fu quello di una clinica pulita, ben organizzata e dotata di personale giovane, altamente qualificato e grandemente  motivato. Mi ispirò subito fiducia il primo impatto che ebbi col dottor Martinelli e, successivamente, coi dottori De Fiores e Braccio; e che dire della grande disponibilità delle dottoresse Montesanti, Gerbasi, De Donatis e tutti quelli che non menziono fra personale medico, paramedico e ausiliario. Bravi. Sono tutti bravi. Sono veramen-te all’altezza del compito che svolgono quotidianamente. Doverosa è pertanto questa mia nota di ringraziamento a tutti quanti operano nel “piccolo ma  grande” Sant’Anna Hospital, che non è solo osasi di speranza, ma luogo di tantis-sime certezze. 

Salvatore Gambino, Rende (CS)

Intendo ringraziare l’equipe medica e paramedica e tutti i collaboratori della struttura, che il 30 settembre 2008 mi hanno ridato la vita. Sono arrivato al Sant’Anna in condizioni di salute gravissime, e solo grazie alla vostra professio-

nalità e bravura ho avuto la possibilità di ritornare a una vita dignitosa. Ho ricevuto tutte le dovute attenzioni del caso e ho trovato nella vostra struttura medica oltre che seri professionisti anche un clima familiare, che mi hanno reso più agevole il trauma del post operatorio e della riabilitazione. Tutto ciò premesso, ritengo opportuno a distanza di tempo ringraziare nuovamente per tutto quello che mi è stato fatto, esprimendo gratitudine a tutti coloro che lavorano nel vostro ospedale, ritenendoli all’altezza della situazione, in una regione dove la sanità è carente di strutture di eccellenze come la vostra. Colgo l’occasione per inviare Cordiali saluti.

Francesco Ruggero, Cirò Marina (KR)

Dopo un delicatissimo intervento di cardiopatia ischemica e aneurisma del ventricolo sinistro, effettuato il 23 dicem-bre 2004, ho ripreso a vivere con tranquillità e normalità una vita che pensavo mi stesse sfuggendo. Commosso e

riconoscente ringrazio tutti per l’organizzazione, l’efficienza, l’alta professionalità e l’aiuto psicologico, che può essere dato solo da “chi ama il proprio lavoro”. Un grazie speciale ai dottori Martinelli, Missiroli, Agnino e gli altri, per la loro eccellente attività; possa il buon Dio guidare sempre le vostre mani e illuminare la vostra mente per lo svolgimento di una missione così importante verso il prossimo.

Umberto Castellano, Cosenza

Il 27 marzo del 2007, a causa di una dissecazione aortica, venivo trasportato in elicottero dai “Riuniti” di Reggio Calabria presso la vostra struttura ed operato d’urgenza. Dal quel giorno la mia vita è cambiata e colgo l’occasio-

ne per esprimere la mia più sincera gratitudine e profonda stima non solo per la professionalità ma soprattutto per le amorevoli cure prestatemi. Mi auguro tantissimo che i vostri cuori continuino a battere per fare battere i cuori di tutti noi nel momento in cui ne abbiamo bisogno. Con incommensurabile affetto e stima. 

Vincenzo Corigliano, Villa San Giovanni (RC)

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