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Mikhail Gorbaciov“La perestrojka. Vent’anni dopo”

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© Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata in un sistema che ne permetta l’elaborazione e la trasmissione in qualsivoglia forma e con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico, e non può essere fotocopiato, registrato o riprodotto senza previa conoscenza scritta dell’Associazione tranne in casi di brevi citazioni contenuti in articoli di critica o recensioni.

Traduzione dal testo originale russo di Alessandro Salacone

Riduzione del testo italiano e riadattamento di Gianni e Ninì Puccio

Per quanto riguarda i nomi russi, abbiamo applicato nei limiti del possibilee della comprensione del lettore italiano, le nuove regole circa la traslitterazione

Grafica Flora Camporiondo

Stampawww.puntograficoprinting.it - Roma

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Presentazione di

Gianni Puccio

È veramente un piacere presentare un Uomo così grande e che è stato grande in tutto ciò che ha fatto. Cominciamo col dire che in finale, ha salvato il

mondo da un quasi sicuro conflitto nucleare, naturalmente in collaborazione di un buon Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, dotato di buon senso, forse perché non proveniente dalla politica.

Mikhail Gorbaciov è nato nel 1931 da famiglia di agricoltori, a Stavropol si laureò in legge e ha fatto tutta la carriera politica, che a quei tempi si poteva fare in seno al Partito, passando rapidamente da un gradino a quello superiore.

Nel 1980 entra a far parte del Politburo del Comitato Centrale, che era la massima autorità del Partito e della Nazione. Nel 1985 viene eletto Segretario Generale, la Carica suprema dell’Unione Sovietica.

Mikhail Sergeevic (così veniva chiamato in Russia) accettò, con coraggio, questa tremenda responsabilità, ma gli bastarono poche settimane per rendersi conto che era stato nominato “capitano di una nave che stava affondando”. E qui, comincia a manifestarsi il suo formidabile carattere, perché nonostante la situazione paurosamente precaria, decise che era suo dovere salvare il Paese.

E così nacque la “Glasnost” (e cioè trasparenza), e la “Perestrojka” (e cioè ricostruzione). A questo fine, si adoperò in ogni modo (correndo anche un notevole rischio personale, della sua vita) a porre fine alla guerra fredda, arrestando la corsa agli armamenti e eliminando il rischio di un conflitto nucleare.

Per il solo fatto di aver voluto ignorare la sorte degli Stati Satelliti, questi, con un effetto domino, andarono in rovina l’uno dopo l’altro, a seguito della spinta gigantesca, provocata dal crollo del Muro di Berlino e la quasi immediata riunificazione delle due Germanie.

Nonostante la sua dedizione, coraggio e sacrificio, non riuscì a controllare la rabbiosa reazione di ogni settore di quella che stava già diventando una ex-Unione Sovietica; che lo costrinse a dare le dimissioni nel dicembre 1991 da Capo dello Stato. Per la sua intrepida azione, su scala internazionale, nell’ottobre del 1990 gli venne assegnato il Premio Nobel per la Pace.

Riacquistata la sua libertà, creò una importante Fondazione che porta il suo nome, la Fondazione Gorbaciov.

Gianni Puccio Presidente dell’Associazione Culturale Italo-Slava

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Prefazione all’edizione italiana di Michail Gorbaciov

Al lettore italiano

Presento con grande piacere il mio libro agli Italiani, per i quali nutro da tempo una profonda simpatia. Spero che aiuti tutti coloro che si interessano della Russia a orientarsi nelle questioni e vicissitudini della storia recente.

Questo libro è stato scritto in occasione del ventesimo anniversario dalla nascita della Perestrojka, cinque anni fa, ma molti dei problemi e delle conclusioni esposti mi sembrano ancora attuali. Sono convinto, infatti, che spiegare l’essenza e il significato della Perestrojka possa ancora oggi aiutare la Russia ed il mondo nel suo cammino verso una società più libera più equa più umana. Ripercorrere gli avvenimenti di questi ultimi 25 anni, d’altronde, mostra anche chiaramente quali chances e opportunità offerte dalla nostra riforma siano invece rimaste inutilizzate.

Quando sono arrivato a Mosca e sono entrato nella grande politica ho potuto toccare con mano quale eredità avesse lasciato lo stalinismo. La situazione era difficile, occorreva trasformare il Paese. La Perestrojka fu la strada giusta.

Spesso mi chiedono se credo che la Perestrojka sia stata sconfitta. Rispondo che sono stato battuto come politico, ma che non ho perso dal punto di vista storico. Ne sono convinto: ciò che abbiamo iniziato è qualcosa di irreversibile. È un grande contributo che il popolo del nostro Paese ha dato alla storia recente, al presente e al futuro.

Michail Gorbaciov

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ProloGo

La sera del 10 marzo 1985 morì il Segretario generale del Comitato centrale del PCUS1, Konstantin Černenko. Il terzo lutto in tre anni. In breve tempo erano, infatti, scomparsi Brežnev, Andropov, e Černenko. La sua malattia era nota a tutti e nel Politbjuro2 si discuteva già da vari mesi su chi avrebbe preso il suo posto. Persino l’ottantenne presidente del Consiglio dei ministri, Nikolaj Tichonov, aspirava a ricoprire quel ruolo; suscitando, com’è ovvio, molte perplessità. Un gruppo sosteneva la candidatura di Viktor Grišin, membro del Politbjuro e Primo segretario del Comitato cittadino del partito di Mosca, che aveva preso sul serio l’ipotesi e manovrava per guadagnarsi l’appoggio necessario per raggiungere lo scopo. Qualcuno aveva fatto il nome di Grigorij Romanov, membro del Politbjuro che si occupava delle questioni della Difesa. C’era poi il Primo segretario del Partito comunista ucraino, Vladimir Ščerbickij. E ancora, personalità del calibro di Andrej Gromyko. Io stesso ero stato contattato da alcuni segretari dei Comitati regionali, ma avevo sempre evitato di lasciarmi coinvolgere nei loro ragionamenti, che ritenevo dannosi per il Paese. La mia posizione all’interno del Politbjuro non era, infatti, semplice. La mia carriera era iniziata nel 1978, quando ero stato eletto Segretario del Comitato centrale del partito. Ma, ovviamente, provenivo da un lungo tirocinio. Mi ero laureato all’Università di Mosca nel 1950, quindi ero entrato in politica e per quindici anni avevo ricoperto diversi incarichi in provincia – Segretario del Comitato regionale del Komsomol3, Segretario del Comitato distrettuale e cittadino del partito, Direttore del dipartimento del Secondo segretario del Comitato regionale del partito. A partire dal 1970, per circa nove anni fui Primo segretario del Comitato regionale del partito, deputato del Consiglio supremo dell’URSS e membro del Comitato centrale del PCUS. Successivamente lavorai ben sette anni nella dirigenza del partito a Mosca e nel 1980 divenni membro del Politbjuro. Si trattò per me di una grande scuola che mi permise di mettere a fuoco le mie potenzialità. E dunque, alla vigilia del 1985 mi sentivo in possesso di una notevole esperienza politica. Va aggiunto che nei mesi in cui il Segretario generale era ammalato svolsi compiti delicati: ad esempio, ho guidato i lavori della Segreteria del Comitato centrale e avevo la delega a dirigere i lavori del

1 Partito Comunista dell’Unione Sovietica2 Il Politbjuro era l’organo direttivo supremo del Partito comunista dell’Urss, e costituiva il vero centro di potere del sistema

sovietico. Il primo Segretario del Comitato centrale del partito era sempre anche il capo del Politbjuro.3 Il Komsomol (Kommunističeskij Sojuz Molodeži) era l’Unione comunista della gioventù.

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Politbjuro. La mia azione era indirizzata a garantire l’intesa tra i membri del Politbjuro allo scopo di mantenere sotto controllo la situazione nel Paese in una congiuntura davvero complessa. In conclusione, e nonostante tentassi di evitare espliciti riferimenti alla mia candidatura, mi aspettavo che dopo la morte di Konstantin Černenko il plenum4 mi avrebbe proposto di diventare Segretario generale, e avevo deciso di accettare. Così la notte del 10 marzo riunii d’urgenza i membri del Politbjuro e i segretari del Comitato centrale del PCUS per risolvere alcune questioni diventate improrogabili. Mezz’ora prima dell’inizio della seduta incontrai Andrej Gromyko, membro del Politbjuro e ministro degli Affari Esteri. Il nostro colloquio fu breve, ma importante. Lui conosceva quanto me la situazione all’interno del Paese e all’estero. Molti problemi attendevano una soluzione e la società si aspettava dei cambiamenti. Cambiamenti difficili da realizzare. Occorreva essere uniti. Gromyko si mostrò determinato: era d’accordo con me e disponibile ad un’azione comune. Il giorno successivo, l’11 marzo 1985, Andrej Gromyko a nome del Politbjuro avanzò la mia candidatura al plenum del Comitato centrale. Iniziò un nuovo capitolo, il più radicale, della mia vita.

4 Il plenum era la sessione plenaria del Comitato centrale del PCUS che si riuniva due volte l’anno.

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Capitolo Ile Cause, i Motivi,

il Progetto

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“Una volta conclusa la fase della Perestrojka, incontrando le persone più disparate, mi sono spesso imbattuto nella domanda: quali sono stati i motivi delle riforme avviate nel 1985 e qual’era il progetto originario?Nel mio libro “Vita e riforme” ho già detto molto, ma credo che resti ancora tanto da dire per capire cosa fu la Perestrojka”.

coMe siaMo arrivati al 1985 I critici della riforma hanno la memoria corta. Forse hanno dimenticato (o fanno finta di dimenticare) come stava il Paese prima del 1985 e quali sensazioni negative pesavano su tutti quanti noi: il susseguirsi di eventi drammatici, la morte di Brežnev, i funerali dei Segretari generali del Comitato centrale del PCUS, la crescente stagnazione. C’era un contrasto eclatante tra il livello di istruzione raggiunto dalla società russa, il suo bisogno di risposte autentiche e profonde, e i dogmi di un’ideologia fondata sul valore della propaganda…La democrazia era totalmente controllata, la libertà soppressa, la censura dominante. Vivere senza libertà era diventato impossibile. “Dateci la libertà, prima di tutto la libertà di parola”. Questo era ciò che chiedeva il Paese.

Di fatto tutte le attività erano sotto il controllo del partito. Bisognava fermarne l’arbitrio, abolire i privilegi della nomenklatura sovietica che usufruiva di alloggi elitari, ristoranti esclusivi, ospedali eccellenti, mentre la povertà tormentava tutti gli altri. Basti ricordare quel che accadeva nei negozi! La situazione sociale si stava aggravando rapidamente. “Non è più possibile vivere così!”. Questa frase non è una mia invenzione, ma frutto della miseria.

Naturalmente, questa è solo una faccia della medaglia. Dall’altra parte c’era la rivoluzione scientifico-tecnologica che si era diffusa nel mondo e che necessitava dell’emancipazione dei cervelli e dell’elaborazione di scelte in senso democratico. Il nostro sistema politico, invece, bloccava tutto. E le grandi potenzialità di mobilitazione di un tempo si erano esaurite.

Il Paese era maturo per le riforme. E quando ci siamo accorti che in Occidente la politica d’innovazione

strutturale aveva permesso l’ingresso dei Paesi industrializzati nell’era tecnologica, aveva accresciuto la produttività nonostante i milioni di disoccupati, e aveva vinto le sfide poste dalla rivoluzione informatica; solo allora abbiamo capito di essere in ritardo.

Eppure le potenzialità del sistema in cui vivevamo – così noi tutti pensavamo – ci davano la possibilità di essere all’avanguardia. Nel 1972 Brežnev al plenum del Comitato centrale aveva avanzato la proposta di un

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plenum speciale dedicato ai problemi del progresso scientifico e tecnologico, e sulla base dei suoi risultati aveva sperato di formulare le politiche per il futuro. Ma il plenum non ebbe luogo e non fu compiuto nemmeno un passo in quella direzione.

Abbiamo perso tempo, tanto tempo, e - secondo i criteri della Storia – siamo stati sconfitti. Il Paese iniziò a retrocedere. Il ritmo di sviluppo, che ci aveva permesso in passato di raggiungere i Paesi più progrediti e di accorciare la distanza tra i livelli di produzione, iniziò a perdere posizioni negli anni Settanta. L’anno in cui arrivò al potere Jurij Andropov era prossimo allo zero.

Peraltro i nostri ritmi erano legati alla necessità di raggiungere la “produzione prestabilita”. La qualità della produzione, fatta eccezione per il settore della difesa, non era concorrenziale. Il Paese più potente sulla faccia della terra non riusciva a risolvere i semplici problemi della vita quotidiana dei suoi cittadini.

Bisognava attivare la creatività, l’ingegno, l’interesse. La partecipazione diretta dei cittadini nelle decisioni economiche e politiche era lo scopo della Perestrojka.

È ovvio che si guardava alla NEP 5. Esaminammo le riflessioni che Lenin aveva fatto dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Di Lenin mi fidavo e mi fido tuttora; è stato un capitolo fondamentale della storia russa e dell’intera umanità.

Gli riconosco in particolare l’abilità di aver creato un legame fra comunismo, progresso e conoscenze intellettuali. Certo, non bisogna fare di Lenin un idolo. Ma occorre comunque riconoscere che fu un grande uomo. Accettò il rischio di prendere il potere nel momento in cui il Paese precipitava nella catastrofe. Nonostante la sua profonda aspirazione rivoluzionaria seppe vedere gli errori della Rivoluzione, riesaminare criticamente quanto era stato fatto e dare una valutazione ex-novo di ciò che accadeva nel Paese. Seppure saldo nelle sue convinzioni, trovò l’umiltà di affermare: “Cominciando a introdurre in modo diretto i principi del comunismo abbiamo imboccato la strada sbagliata”. Così nacque la NEP, che autorizzava la proprietà privata, il commercio, le concessioni e permetteva la creazione delle cooperative. Nel

5 La NEP (Nuova Politica Economica) fu un tentativo provvisorio di Lenin di tornare all’economia di mercato, sem-pre controllata dall’alto (1921-1927). Adottata precipitosamente per volere di Lenin mentre le campagne insorgevano contro le requisizioni, la NEP mise fine al comunismo di guerra e portò a un graduale ristabilimento dei rapporti di mercato. Grazie alla NEP nel 1925 venne raggiunto, complessivamente, il livello di sviluppo prebellico. Fu abbando-nata alla fine degli anni venti, quando, di fronte alla crisi degli ammassi cerealicoli provocata dall’errata politica dei prezzi del governo e alle difficoltà dell’industrializzazione, il gruppo dirigente staliniano impose la collettivizzazione dell’agricoltura agricola.

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1926 l’URSS era ritornata ai livelli del 1913. Questa fu la chiave di tutte le mie riflessioni all’inizio della Perestrojka.

Scorgevo degli elementi comuni tra il tempo di Lenin ed il mio, e fra le sue posizioni e quelle che io fui costretto ad assumere. Quando divenni Segretario generale si presentò la possibilità di introdurre nell’impianto ideologico i ragionamenti di Lenin contro il dogmatismo, l’immobilismo, il romanticismo e l’arroganza comunista, ovviamente a favore della democrazia. Prestai molta attenzione a ciò che la Rivoluzione non ci aveva dato. Anche da questo scaturì l’obiettivo generale della Perestrojka: superare lo stalinismo che aveva portato alla creazione di uno Stato totalitario.

Noi volevamo ripartire da dove Lenin aveva lasciato. Quando all’ordine del giorno fu posta la questione di andare oltre l’idea di socialismo corrente, facemmo riferimento a Lenin, al suo “cambiamento di tutto il nostro punto di vista sul socialismo”. E così fu. La Perestrojka nacque all’insegna dell’ultimo Lenin. Egli, tra l’altro, aveva proposto di rimuovere lo “sleale” e “rozzo” Stalin e aveva intuito quanto si avverò dopo la sua morte: il regime duro e repressivo che, in fin dei conti, inghiottì anche gli stessi artefici della Rivoluzione d’Ottobre. Questi metodi speciali di gestione del potere era quanto la politica della Perestrojka tentava storicamente di superare.

Non si può certo dire che sin dall’inizio della Perestrojka avessimo già visto, capito e soppesato tutto. Nei primi tempi noi, me compreso, dicevamo: “La Perestrojka è la continuazione della Rivoluzione d’Ottobre”. Ora posso dire che questa affermazione era solo in parte vera.

Noi ci siamo sforzati di tradurre in atto tutte le idee originarie della Rivoluzione d’Ottobre: ridare il potere al popolo (sottraendolo ai vertici della nomenklatura sovietica), diffondere la democrazia, consolidare la giustizia sociale.

Io credo in una società umana e democratica, non violenta, fondata sull’Uomo. Credo sia necessario trasformare un uomo in un cittadino, affinché non si sia più possibile per nessuno “condurre al pascolo” il popolo.

Le esperienze maturate lungo il cammino che ho intrapreso nel segno della Perestrojka mi hanno convinto che gli uomini godono della libertà se vi giungono gradualmente, percorrendo la strada delle riforme. Il rivoluzionarismo porta solo al caos, alla distruzione e, spesso, a una nuova servitù.

Lo ripeto: allora pensavo che riformare il socialismo reale fosse necessario e possibile. E questo ha ispirato la mia attività nel biennio 1985 -1986. Eppure già dall’autunno del 1986 mi sono reso conto che gli impulsi della Perestrojka si smorzavano nelle strutture del partito, dello Stato e della nomenklatura.

All’inizio provammo a riformare il sistema puntando sull’unione tra

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socialismo e rivoluzione scientifico-tecnologica, puntando sui vantaggi che - così pensavamo – erano propri dell’economia pianificata e della concentrazione del potere. Questo fu il progetto originario. Ora, a distanza di molti anni, vedo certamente le cose in altro modo, anche se inizierei ancora combattendo per ottenere “più democrazia e più socialismo”. Oggi valuto il socialismo diversamente e quindi affronterei il compito con maggiore maturità. Nel 1985, l’obiettivo era migliorare il sistema. Ma commettevamo un grave errore. Noi dovevamo invece eliminare il totalitarismo, perché è con esso che ha dovuto misurarsi la Perestrojka. Il fatto che non avessero luogo repressioni e che ci fossero delle scenografie democratiche non cambiava la sostanza: il partito aveva in mano il controllo del Paese.

A noi, fautori della Perestrojka, era evidente che alla base del totalitarismo comunista e del “socialismo” stalinista ci fossero la paura del popolo e la sfiducia nelle sue forze spirituali.

Storicamente, l’URSS era matura per una profonda ricostruzione molto prima della metà degli anni Ottanta. Ma se non avessimo deciso di iniziare le riforme in quel momento, si sarebbe generata un’esplosione di immensa forza distruttiva. Io e Nikolaj Ryžkov disponevamo di oltre un centinaio di rapporti degli istituti di settore e intersettoriali. Avevamo chiesto a questi istituti di esprimere un’opinione sulla situazione. Ne era emerso che erano scontenti tutti, proprio tutti, persino il settore della Difesa che godeva di una posizione privilegiata.

Noi sapevamo molto di più di quanto pensano i nostri critici. Conoscevamo i gravi problemi del Paese e sapevamo che andavano risolti subito; ce la mettemmo tutta, partendo dalle esigenze del momento e dagli interessi della maggioranza. Era prioritario guardare in faccia la realtà. Occorreva innanzitutto colmare la distanza che ci separava dai Paesi sviluppati attraverso una “accelerazione del progresso scientifico e tecnologico”. Solo in seguito nacque il concetto più ampio di “Perestrojka”.

Il capitalismo si era adattato ai cambiamenti, aveva fatto i conti con il proprio passato e aveva acquisito consapevolezza del processo storico mondiale. Ma noi abbiamo continuato a seguire il solco tracciato. E nel frattempo l’Europa veniva tutta ricostruita.

Andropov, dopo essere diventato Segretario generale, aveva creato un gruppo informale di “giovani” specialisti. Io e Nikolaj Ryžkov ci incontravamo spesso con i direttori degli istituti accademici e di settore. Ci colpiva l’unanimità delle valutazioni sulla situazione nel Paese: “Le cose vanno male; la nostra è l’economia più dispendiosa; si registra la più bassa produttività di lavoro, la mancanza di stimoli e la stagnazione; domani o dopodomani può crollare

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tutto”. Il Paese era dunque davvero maturo per trasformazioni e riforme. Bisognava dare l’avvio, con molta attenzione. Di questo mi assumo buona parte della responsabilità.

In cosa consisteva il problema principale dell’Unione Sovietica in quanto Stato? Era malato di supercentralismo. Un rigido sistema burocratico, dove veniva soppressa l’iniziativa e si governava con metodi dittatoriali. E quando ci siamo imbattuti nelle sfide della rivoluzione tecnologica, quando abbiamo avuto bisogno di una reazione elastica ai processi e di rapidi cambiamenti, siamo rimasti inerti e a quel punto abbiamo capito che la macchina non funzionava!

Non sarebbe giusto affermare che con l’avvio della Perestrojka fossimo giunti per primi all’idea della ricostruzione. Il primo passo lo aveva fatto Nikita Chruščëv. Fu lui, un uomo della vecchia classe dirigente, che per primo seppe superare il proprio passato. La rottura di Chruščëv con le politiche repressive dello stalinismo fu un eroico atto civile; egli cercò, pur senza ottenere grandi successi, di cambiare qualcosa nell’economia.

In seguito vi fu la riforma di Kosygin, che propose di combinare il socialismo con gli incentivi sul lavoro. Poi venne un lungo periodo di stagnazione e quindi un nuovo tentativo da parte di Jurij Andropov. Le trasformazioni in URSS erano, insomma, in incubazione da più di un decennio.

Il senso d’insoddisfazione era diffuso nella società russa e i dissidenti erano diventati i più risoluti, anche se purtroppo molti di loro furono repressi.

L’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 - seguita alla “Primavera di Praga” e dettata dal terrore per il “contagio democratico” - fu una barbara violazione della sovranità e dei diritti del popolo cecoslovacco, e fu accompagnata in Unione Sovietica dall’inasprimento dell’offensiva reazionaria e dall’inizio di uno scontro frontale con il libero pensiero.

Il potente apparato ideologico e politico agì in modo rozzo e senza compromessi. Ciò si ripercosse sulla politica interna ed estera, su tutti gli strati sociali, e generò successivamente una profonda stagnazione. In poco tempo venne fermato quel processo di cambiamento che si era lentamente avviato nel nostro Paese e nei Paesi del blocco socialista.

L’élite politica, perlomeno l’area più democratica, tentò di comprendere l’essenza dello sviluppo avvenuto nei Paesi occidentali: la Ostpolitik6 di Willy Brandt, i successi della socialdemocrazia nella Germania occidentale, le esperienze del Canada, della Svezia e della Norvegia avevano infiammato

6 L’Ostpolitik (politica orientale) fu il riavvicinamento tedesco ai paesi dell’Europa orientale, avviato dal cancelliere federale Brandt a partire dal 1970.

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le menti dei russi. Era in atto un processo d’interpretazione della storia contemporanea da parte di una generazione che già viveva e prestava attento ascolto alle trasformazioni in corso.

Tuttavia i principali motivi di stimolo furono la situazione del Paese e il malcontento diffuso in tutti gli strati della società sovietica.

Per inciso, quando si parla di “stagnazione” tutti incolpano Brežnev. Però bisogna ricordare che all’epoca esisteva anche il Politbjuro. Senza dubbio il suo ruolo fu preminente: l’iniziativa dipendeva da lui, era lui a mettere il punto. Se due membri del Politbjuro erano contro una sua decisione, questa non si votava e veniva accantonata. Ma dal 1976 Brežnev era malato. A volte il Politbjuro non poteva riunirsi perché le sue condizioni non gli permettevano di partecipare alle sedute. Brežnev voleva dimettersi, ma c’era un’accesa concorrenza e nessuno riusciva a prevalere.

Alla carica più alta ambivano Gromyko, Andropov e Ustinov, che agivano sempre in stretto accordo fra di loro. Questa circostanza fu importante, perché preservò il Paese dal caos, ma contemporaneamente non permise di affrontare i problemi fondamentali della società russa.

I parziali tentativi di riforma che si tentò di attuare non portarono poi nei fatti ad alcun risultato, perché non riguardavano l’essenza del sistema. Il sistema si riproduceva continuamente da solo. In effetti, il sistema politico sovietico si poteva definire un meccanismo ben assemblato! E le conseguenze sono visibili tuttora.

Resta tuttavia ancora una domanda: si poteva riformare il sistema o bisognava distruggerlo? Secondo me, è una domanda ancora aperta a cui solo le generazioni future potranno rispondere.

Non conosco alcun sistema che non sia mutato e non si sia trasformato. Aleksandr Zinov’ev ha cercato invano di dimostrare che, se esiste un sistema, è meglio distruggerlo prima che ti distrugga. Io credo, invece, che l’esperienza umana e la storia insegnino che rinnovare un sistema è possibile. Dunque, era possibile trasformare lo stalinismo, cioè il “socialismo reale”?

Quando mi capita di parlare delle mie scelte politiche, uso il termine “utopia”. A questa la nomenklatura sovietica si oppose con tutti i mezzi. Per difendere il sistema la nomenklatura riuscì a spazzare via Chruščëv, a ripristinare il neostalinismo con Brežnev, a combattere tenacemente per difendere i propri interessi arrivando persino al putsch 7. Io l’ho sperimentato sulla mia pelle.

7 Il putsch di Mosca fu un colpo di stato che ebbe luogo nella capitale russa durante l’agosto del 1991, in cui alcuni membri del governo sovietico tentarono di deporre Gorbačëv e prendere il controllo del Paese. Si veda il paragrafo “Il Putsch”, dove la vicenda è narrata in modo dettagliato.

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A conti fatti, abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Anche se la Perestrojka è stata interrotta, ha comunque vinto perché ha spinto i processi di trasformazione fino al punto di non ritorno. La dirigenza sovietica aveva la possibilità di scegliere un percorso di riforme superficiali e continuare così ad aggrapparsi al potere, come ai tempi di Brežnev. Ma la situazione non lo permetteva, sarebbe stato innaturale e irrealistico: il popolo era stanco del grigiore e di tanta stupidità manifesta. Ripetere il passato sarebbe stato interpretato come un segno di decadenza.

loGica di sviluPPo del ProGetto

Oggi, se si guarda al passato, non ci si può che meravigliare del fatto che la Perestrojka sia iniziata dai vertici del PCUS. L’élite del partito l’ha appoggiata. E così tutte le persone e i cittadini volenterosi che, sorprendentemente, l’hanno fatta propria superando apatia e indifferenza. In modo inaspettato, la società si è improvvisamente risvegliata.

La maggior parte del Paese capiva che serviva un’accelerazione nel settore tecnologico, sostenuta da profondi cambiamenti dell’ordine sociale e politico, da una diversa pratica di governo e, in generale, da scelte e metodi nuovi.

In seguito, per come si è sviluppato il processo, si è compreso che non si doveva perfezionare il sistema, ma scardinarne le fondamenta stesse e realizzare una graduale transizione verso l’economia di mercato, il primato della legge sul potere politico e la garanzia piena dei diritti umani.

La Perestrojka è stata vissuta con pienezza da molti dirigenti sovietici. Non sarebbe onesto da parte mia attribuirmi tutti i meriti e le responsabilità. La società sovietica ha dovuto affrontare ripensamenti, fermenti, sofferenze, aspre battaglie col movimento dissidente, con la letteratura d’opposizione, un panorama di lotte interne al suo partito che reagiva in modo velenoso a ciò che stava accadendo dentro e fuori al Paese.

Secondo il disegno della Perestrojka, le persone avrebbero finalmente goduto del diritto alla proprietà privata, della possibilità di scegliere il partito, della libertà di professare la propria religione… Altrimenti non ci sarebbe stato un vero cambiamento, perché l’innovazione scientifica ha bisogno di spirito d’iniziativa, di propensione allo sviluppo e dell’unione spontanea delle capacità creative degli uomini.

Questo processo è iniziato con semplici passi concreti e si è sviluppato solo gradualmente, permettendo alla società di assimilare, in un regime di libertà,

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una nuova forma di governo e dunque di vita. Era fuori discussione l’idea di proporre in modo artificiale ed imporre dall’alto i modelli di sviluppo. Pur senza rinunciare al sistema socialista, io scelsi la via della democrazia e delle riforme per ristrutturare e umanizzare il mio Paese.

L’obiettivo originario non fu comunque la riforma politica. Innanzitutto si volevano salvaguardare i cittadini e la loro dignità. Tutto è iniziato in nome dell’interesse dell’uomo, non della forma. Si pensava che la via più breve per raggiungere questo risultato fosse quella di un’accelerazione dello sviluppo economico attraverso l’aumento della produttività e degli incentivi sul lavoro.

In ogni caso, bisognava agire, non era più possibile rimandare. I tempi erano maturi. Abbiamo detto ai cittadini sovietici che il nuovo corso giuridico impresso dalla nostra politica garantiva a tutti il diritto e la possibilità di agire in libertà e di far emergere l’intraprendenza e la creatività del singolo. Promettemmo che lo status sociale di ciascuno sarebbe stato proporzionato a quanto avrebbe guadagnato.

È corretto parlare di “ideologia della Perestrojka”? Questa espressione la utilizzavamo nei primi anni, e addirittura rivendicavamo “il valore e la qualità” di questa definizione. Tuttavia sarebbe stato forse meglio parlare di concezione del mondo o, meglio, di idea socialista o, ancora, di un nuovo pensiero improntato a principi socialisti. Infatti, quando si esaminano le questioni fondamentali dell’essere; quando – utilizzando la lingua moderna – bisogna cambiare tutta la matrice sociale, allora è necessario “andare alla radice”.

Avevamo compreso che, prolungando l’esistenza del sistema, non avremmo difeso il socialismo, ma il modello che ci avevano imposto Stalin e i suoi seguaci. Ma era socialismo, quello? Esistevano degli elementi del socialismo, certo, ma niente di più.

Nel febbraio del 1988, al plenum del Comitato centrale dedicato all’ideologia della Perestrojka, parlai per la prima volta di “nostalgici del socialismo” e misi in dubbio i suoi valori. In particolare osservai che spesso si consideravano comunisti coloro che erano fedeli al dogma e opportunisti quelli che erano sostenitori della libertà e della democrazia. Fu un punto di svolta.

La XIX conferenza del partito fu il momento di passaggio a una nuova comprensione del socialismo. Si parlò di un socialismo umano e democratico. Il nuovo punto di vista si basava sul rifiuto di quel sistema formatosi sotto lo stalinismo, ma non era affatto la negazione dell’ideologia socialista. Dal 1989, dopo le elezioni dei deputati popolari al Congresso, quando fu evidente in

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che modo il popolo considerava il PCUS e la nomenklatura sovietica, e cosa ne pensasse veramente della democrazia e della glasnost’, iniziò un periodo di riflessione e revisione. Da quel momento iniziò ad assillarmi il problema dei “valori del socialismo”, ed in particolare della visione socialista della condizione dell’uomo nella società. Col tempo sono passato a una comprensione “socialdemocratica” di questa ideologia. Ciò che in Russia avevamo, infatti, non era certo quell’orientamento politico di cui io mi consideravo seguace. Mi erano diventati più cari di tutti gli ideali di libertà, giustizia sociale, economia di mercato orientata al sociale e il ruolo dello Stato in tale contesto.

Cercai quindi di avviare progressivamente il partito verso posizioni socialdemocratiche, che speravo raggiunte per la fine del 1991 ed elaborate in appositi documenti che avrei presentato nel corso del XXIX congresso del PCUS.

Negli anni della Perestrojka, e spesso ancora oggi, mi accusavano di non avere un “piano preciso”. Ciò rifletteva la radicata abitudine a una totale pianificazione della vita: ci si era abituati a vivere secondo una pianificazione prestabilita. Io credo che quando si tenta di realizzare cambiamenti sostanziali della società sia assurdo proporre un qualche prototipo o un preciso progetto di ricostruzione. Questo però non esclude una visione chiara delle finalità della riforma. Molte riflessioni, anche importanti, erano emerse e maturate già prima del marzo 1985; ma non tutte. In generale, le basi e potenzialità del nuovo pensiero, le regole e la linea politica che ne sarebbe derivata erano oggetto di continui ragionamenti, discussioni, dibattiti e analisi teoriche, in un processo costante che ha occupato tutti gli anni della Perestrojka e che ha visto il riannodarsi di rapporti proficui con il mondo della scienza e della cultura mondiale. Intanto la nostra comprensione del mondo esterno si è andata a mano a mano arricchendo, si è rivalutato il nostro ruolo nel contesto internazionale e siamo stati in grado di sviluppare una nostra teoria sulla contemporaneità e sulle sue prospettive.

Se si immagina la Perestrojka come un’astrazione o una strategia, si capisce allora che essa è qualcosa di proiettato nel futuro. E infatti, gli stimoli che trasmise iniziano a manifestarsi soltanto ora. Come disse lo scrittore Bondarev alla XIX conferenza del partito, la Perestrojka è come un aereo che è decollato senza sapere dove atterrare. È una frase su cui riflettere e dimostra che per difendere la Perestrojka è necessario spiegarla a tutti, inclusi i suoi stessi sostenitori.

Ancora troppi speculano sulle motivazioni e gli obiettivi che ci hanno spinti ad avviare le riforme nel 1985. Alcuni sostengono che dietro la Perestrojka c’è stato soltanto il tentativo di conservare l’ordine esistente. Oppure di

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soddisfare la mia ambizione personale, il mio desiderio di distinguermi e di essere visto come un eroe. C’è pure chi sostiene, e fra questi persino alcuni miei ex-collaboratori, che avevo una presunzione di preveggenza e per questo agivo così in fretta. Tra di loro ci sono anche coloro che insistono in modo ostinato a dire che bisognava imboccare la via delle riforme cinesi. Si tratta però di un modo arrogante e ignorante di vedere il proprio Paese e il proprio popolo.

La Perestrojka non ha trovato sostenitori neppure tra i democratici radicali e i “patrioti sfrenati”: ai primi mancava la coscienza, ai secondi il cervello! E come si può insegnare l’etica e la giustizia a persone che non hanno la capacità di impararle?

Il problema in conclusione può essere semplificato in questo modo: o ci tenevamo il degrado, oppure provavamo a creare istituti democratici che trasformassero l’uomo comune in un cittadino consapevole del valore della civiltà.

Così ho iniziato a realizzare la mia “utopia”. L’eventuale riforma della società e il rifiuto del “socialismo reale”, cioè di un sistema neostalinista, furono questioni che mi diventarono più chiare in seguito, tra la fine del 1986 e l’inizio del 1987.

il fattore della Politica estera

Oltre alla crisi interna, sulla Perestrojka incise anche il fattore esterno. Già prima di assumere la dirigenza sovietica, mi era chiaro che se si voleva realizzare una qualsiasi sostanziale riforma bisognava innanzitutto creare un clima internazionale favorevole. Occorreva dunque spazzare via le macerie della Guerra fredda, allentare la pressione generata dal nostro coinvolgimento nell’estenuante corsa agli armamenti e nei conflitti bellici in corso in diverse zone del pianeta. Si doveva avanzare contemporaneamente sul versante interno ed estero, nella convinzione che il successo in uno dei due avrebbe finito col trascinare positivamente anche l’altro.

L’idea della necessità di modificare la politica estera nasceva da una serie di considerazioni.

Alla metà degli anni Ottanta il mondo viveva la crescente minaccia di guerra nucleare e la comunità internazionale aveva imboccato un vicolo cieco. Lo scontro tra i due blocchi pareva senza fine e da entrambe le parti della “cortina di ferro” ci si preparava ormai a un conflitto. Nessuno voleva

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la guerra nucleare, nessuno, però, poteva garantire che - magari casualmente - non sarebbe scoppiata.

L’URSS e gli USA si tenevano sempre “sotto tiro”. Gli armamenti nucleari e convenzionali venivano costantemente perfezionati e immagazzinati. L’Europa si era trasformata in un vero e proprio poligono, di mese in mese sempre più saturo di missili di varia potenza e gittata. I mari e gli oceani brulicavano di navi portamissili e di sottomarini; il cielo e lo spazio erano oggetto di contesa. I conflitti regionali continuavano a imperversare in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente, veri e propri campi di battaglia periferici della Guerra fredda, dove l’URSS era in competizione con l’Occidente per la fornitura di armi. Ma anche le relazioni con l’altro colosso comunista, la Cina, si erano fatte tese.

La competizione nucleare era giunta ad una fase estrema, abissale. Nel complesso il numero delle testate nucleari accumulate dall’URSS, l’America, la Cina e l’Europa Occidentale, era tale che anche un millesimo del totale sarebbe bastato a causare danni irreparabili a tutto il pianeta.

Nonostante si impiegassero cifre esorbitanti per le armi di distruzione, la corsa agli armamenti non rese più stabile la sicurezza del nostro Paese. In alcuni anni le spese militari raggiunsero il 25-30 % del PIL nazionale, ovvero cinque o sei volte di più rispetto a quanto investito dagli USA e dagli Stati europei aderenti alla NATO 8 . Nel settore militare-industriale finì una quantità eccessiva d’energia e di potenziale creativo, si sprecarono risorse colossali. Il 90% della ricerca era in funzione della Difesa. Intanto, però, non si riuscivano a risolvere semplici problemi d’approvvigionamento, e l’essere umano con le sue esigenze era messo in secondo piano. Si consideri che soltanto l’8-10% delle voci di spesa si riferiva ai bisogni materiali della popolazione. In conclusione, l’URSS e gli USA, per la corsa agli armamenti, bruciarono ciascuno 10 trilioni di dollari.

Con l’invenzione dell’arma nucleare l’umanità aveva costruito uno strumento di sterminio collettivo. Questa circostanza avrebbe dovuto farci riflettere. E invece la competizione cresceva, gli scenari bellici si allargavano o minacciavano di espandersi, e il conflitto atomico divenne la dottrina di quegli Stati - e dei blocchi militari ai quali appartenevano - che possedevano la bomba atomica e all’idrogeno.

8 La NATO (North Atlantic Treaty Organization, Organizzazione del patto dell’Atlantico settentrionale) è l’organismo internazionale politico-militare creato con il Patto atlantico il 4 aprile 1949 a Washington tra dieci paesi europei (Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo) e due paesi americani (Canada e Usa), cui si aggiunsero Grecia e Turchia (1952), Repubblica federale tedesca (1955) e Spagna (1982). Il testo dell’accordo prevedeva la collaborazione politica, economica e militare per garantire la difesa collettiva in caso di aggressione contro uno dei paesi aderenti.

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Una parte sempre più consistente dell’opinione pubblica e della comunità scientifica viveva nell’angoscia e chiedeva che si evitasse lo scontro nucleare. Negli anni Sessanta, alcuni limiti erano stati fissati nel Trattato sulla messa al bando dei Test nucleari sottomarini, nell’atmosfera e nello Spazio esterno, e con il Trattato di non proliferazione delle armi di distruzione di massa. Furono intrapresi anche ulteriori tentativi per arginare la competizione, creando altri ambiti in cui misurarsi. Ma ciò non cambiava l’idea che la guerra costituiva uno strumento “legittimo” della politica. La gara nella produzione, perfezionamento ed approvvigionamento di ordigni di distruzione di massa e di armi chimiche, biologiche e simili, anche se al bando, era sempre aperta.

Nel nostro popolo, che aveva ancora vivi nella memoria gli orrori della Seconda guerra mondiale, l’inquietudine regnava incessante. Quando andavo nelle città e nei villaggi, le persone mi pregavano: “Michail Sergeevič, faccia di tutto per scongiurare il conflitto. Il resto lo sopporteremo”.

Negli anni Settanta e Ottanta, le ricerche degli scienziati – in primo luogo quelle sovietiche e americane – avevano mostrato gli effetti sul genere umano di una guerra nucleare. La teoria dell’ ”inverno nucleare” era eloquente.

Era necessario un cambiamento radicale dei principi che ispiravano la politica internazionale degli Stati. Questi derivavano da visioni dogmatiche del mondo, non da un’analisi lucida della realtà; erano piuttosto orientati a preservare gli interessi di un Paese e di un popolo, non a salvaguardare l’umanità; puntavano a una rigida opposizione tra blocchi e al tornaconto di una minoranza.

Questa era l’eredità lasciataci dal totalitarismo in politica estera. Va detto, tuttavia, che anche prima dell’avvento della Perestrojka, sotto la spinta di fattori interni e esterni, si erano avuti segnali di un rinnovamento in politica estera, era stata avviata un’analisi delle congiunture internazionali e della posizione assunta dall’URSS ed era stato compiuto qualche passo in avanti. Poi tutto si era arrestato.

Con la Perestrojka questo lavoro fu ripreso e svolto alla luce del sole. I centri scientifici, i singoli studiosi e gli specialisti di settore fornirono dati importanti sulle grandi trasformazioni alla base della situazione mondiale, in particolare sui cambiamenti dei pilastri tecnici e tecnologici dell’economia, generati dall’irrompere dell’informatica, dall’affermarsi di nuovi strumenti d’informazioni e dallo sviluppo di mezzi di trasporto più efficienti.

In questo scenario, problemi nazionali e planetari venivano ad essere profondamente correlati. Questo poneva in diverso rilievo la ricerca di comuni valori umani su cui fondare le relazioni internazionali: la lealtà, il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione e la fiducia divennero le condizioni

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indispensabili della nuova diplomazia. Si trattava di cambiare in primo luogo l’approccio nei confronti del ruolo della forza militare, dell’utilizzo della guerra come mezzo abituale non solo per difendere lo Stato, ma per realizzare disegni politici. Bisognava tornare a riflettere sui reali interessi nazionali del Paese, sugli effettivi parametri e sugli imperativi della sicurezza; le principali tendenze di sviluppo della comunità internazionale andavano valutate attentamente e, quindi, si doveva giungere ad un programma razionale e fattivo di politica estera.

Certo, sapevamo che non tutto era nelle nostre mani: la logica della competizione e la cultura politica del confronto erano insite in entrambe le parti della “cortina di ferro”. Ma eravamo consapevoli del fatto che molto dipendeva da noi. Negli anni dello scontro noi, l’URSS, con la nostra potenza atomica, con alcune nostre azioni e dichiarazioni, avevamo generato diffidenza e terrore in Occidente, non solo nei circoli ufficiali, ma anche nella popolazione. Determinante fu pertanto elaborare un concetto totalmente nuovo di politica estera, cercare principi e criteri moderni per la politica internazionale dell’Unione Sovietica che superassero le contraddizioni esistenti nelle vecchie concezioni sulla politica estera. Ad esempio, era inutile parlare di coesistenza pacifica quando il mondo era diviso e in competizione.

Questo pragmatismo mi permise di comprendere in modo corretto quali interessi accomunassero il mio Paese e tutta l’umanità, e quale collaborazione si potesse avviare per raggiungere risultati positivi. Innanzitutto andavano riviste le relazioni tra l’URSS e i Paesi della cooperazione socialista. Era il banco di prova per verificare se le intenzioni dell’Unione Sovietica nei confronti dei Paesi socialisti erano ancora di natura imperialista.

Quando giunsi al potere, mi scontrai con una serie di problemi legati alla natura stessa della Cooperazione. Ad esempio, essa usufruiva della possibilità di ricevere dall’Unione Sovietica risorse energetiche a prezzi contenuti. Per ciascun Paese questo era diventato di importanza vitale. Inoltre, i Paesi del COMECON9 ricevevano dall’URSS una quantità di merci pari a 17 miliardi di dollari, esportando prodotti del valore di soli 3,5–4 miliardi. Com’è ovvio, questa situazione derivava dal quadro generale dei rapporti internazionali.

Dopo aver avviato la Perestrojka, il governo sovietico stabilì differenti relazioni con gli Stati alleati. Si pose fine all’ingerenza nelle questioni interne: Mosca si astenne da consigli e tanto meno da ordini. Seguimmo piuttosto il

9 Il COMECON (Consiglio di Mutua assistenza economica) era un organo istituito nel 1949 dai paesi socialisti dell’Eu-ropa orientale (Urss, Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria), con l’eccezione della Jugoslavia, in contrapposizione al piano Marshall e per coordinare le economie dei paesi comunisti. Fu sciolto nel 1990.

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principio che ogni Paese del COMECON e del Patto di Varsavia era libero di decidere in modo autonomo ed indipendente. Non si doveva più ripetere ciò che era avvenuto in Cecoslovacchia durante la “Primavera di Praga”, quando avevamo risposto con i carri armati all’ipotesi di un socialismo “dal volto cecoslovacco”.

Mosca restò fedele alle nuove posizioni. E quando nei Paesi dell’Europa orientale iniziarono i cambiamenti, i risultati delle votazioni popolari furono riconosciuti subito come legittimi, in quanto espressione del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione. Fummo sempre coerenti con la nostra politica di non ingerenza, persino quando non furono eletti alcuni politici che avevano aderito alla necessità del cambiamento. Questa fu la conferma che volevamo intraprendere un nuovo corso; e ciò lo si vide anche nella questione dell’unificazione tedesca.

Ancora oggi ci rimproverano di aver privato l’URSS degli alleati dell’Europa orientale, di aver “ceduto” questi Paesi. Queste affermazioni riflettono una sostanziale, e purtroppo duratura, incomprensione della politica e dei metodi della Perestrojka. In realtà, abbiamo “ceduto” questi Paesi ai loro stessi popoli, che hanno scelto una via di sviluppo rispondente alle proprie esigenze nazionali. Furono convocate libere elezioni e i cittadini decisero in quale Stato e in quale sistema volevano vivere. Si trattò di rivoluzioni, questa volta “di velluto”. Perché bisognava umiliare i più vicini partner del patto di Varsavia, i popoli fratelli? Io credo che abbiamo agito in modo corretto. Per la prima volta in mille anni abbiamo dato al nostro popolo il diritto di scelta, in questo caso il diritto di scegliere le persone che avrebbero dovuto guidare il Paese.

Pertanto quando i demagoghi, rivolgendosi direttamente a me, gridano: “ha ceduto l’Europa orientale”, “ha svenduto la RDT10”, “perché non si è intromesso?”, io penso che chi parla è un ignorante o una gran presuntuoso. O che si tratta di speculazioni politiche.

Negli anni Ottanta anche i nostri alleati avevano bisogno di cambiamenti. Gli Stati in cui ebbero luogo le “rivoluzioni di velluto” stavano già cercando vie verso le riforme e la modernizzazione. L’Unione Sovietica non era in grado di soddisfare la loro richiesta di risorse tecnologiche e questi, naturalmente, tentarono di instaurare relazioni più strette con l’Occidente. Anche in questo caso le contraddizioni erano palpabili: le nostre conoscenze scientifiche avevano raggiunto livelli elevati e perfino l’America utilizzava le nostre scoperte, risparmiando miliardi con i nostri “cervelli”, che si era procacciata con metodi noti a tutti. Eppure, dal punto di vista tecnologico non costituivamo una

10 Repubblica Democratica Tedesca.

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garanzia per i nostri alleati e l’Accordo sulla collaborazione e l’integrazione nell’ambito del COMECON, pur in vigore, restava solo su carta. Insomma, Mosca non era in grado di far arrivare alla “periferia socialista” ciò che questa attendeva.

il nuovo Pensiero

In pieno comunismo, la politica estera sovietica era predeterminata, “imposta” dalla rigida ideologia del partito. La sua revisione implicava il riesame dei suo stessi postulati e delle sue basi, che erano profondamente radicati. A conclusione di questo lavoro ne scaturirono una filosofia e una metodica diplomatica nuove, definite “il nuovo pensiero”, che si svilupparono e affinarono mano a mano che cambiava la nostra percezione della realtà e si allacciavano relazioni con il mondo esterno, ma che già nel 1985, in soli nove mesi, erano solidamente impostate.

Questo fu il prologo verso l’applicazione accorta e consapevole di principi e metodi diversi attraverso i quali affrontare le questioni internazionali.

Questo cambiamento d’indirizzo in politica estera venne ufficializzato attraverso una serie di proclami, come era nostra consuetudine all’epoca, e nel corso di eventi di grande rilievo internazionale, come ad esempio nei comunicati che seguirono i colloqui con il presidente Reagan a Ginevra e con il presidente Mitterrand a Parigi, nell’autunno del 1985; nel mio intervento al XXVII congresso del PCUS; nel discorso a Togliattigrad nell’aprile del 1986; nel libro Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro Paese e per il mondo (uscito nell’autunno del 1987); durante la mia visita a Washington nel dicembre 1987; nelle tesi e relazioni portate alla XIX Conferenza di partito nell’estate del 1988; nel rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre del 1988; nel discorso alla Guildhall a Londra nell’aprile del 1989. Ed ancora, a Washington il 21 maggio del 1990; alla Sorbona il 5 luglio 1989; alla Conferenza paneuropea di Parigi nel novembre del 1989; ed infine, a Oslo nel giugno del 1991, alla cerimonia di conferimento del premio Nobel.

Le mie argomentazioni e valutazioni sul nuovo pensiero sono state dunque variamente spiegate. Qui, però, vorrei riepilogarle e riesaminarle alla luce di quanto realizzato negli anni 1985-1991 e con una prospettiva post-Perestrojka.

1) L’analisi condotta dai nostri scienziati sulle trasformazioni radicali avvenute nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale indicava che era

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necessario porre fine alla Guerra fredda e alla competizione nucleare. 2) Questo obiettivo non poteva essere raggiunto attraverso la lotta di classe e il conflitto tra i due blocchi, ma mediante il riconoscimento da parte della comunità internazionale degli interessi che accomunano ogni uomo.3) Intanto occorreva anche trovare una soluzione ai conflitti regionali e affrontare le altre numerose sfide della nuova epoca: la questione ecologica, i fenomeni demografici, il problema energetico e dello sfruttamento delle materie prime, quello della povertà e delle calamità nel “terzo mondo”, i problemi della democrazia e dei diritti umani. Il punto di partenza è stato comprendere che il mondo stava diventando

un’entità globale, integrata, correlata ed interdipendente, nonostante le diversità e le difformità. Per questo, era prioritario mettere al primo posto gli interessi e i valori comuni dell’umanità. Quest’idea divenne l’anima del nuovo pensiero.

Nelle fila dei precursori e coautori del nuovo pensiero, è possibile annoverare alcuni tra i più insigni studiosi russi, come Vladimir Vernadskij, Pëtr Kapica e Andrej Sacharov, e tra i pensatori stranieri, come Albert Einstein o Giorgio La Pira. Al contrario, i politici erano - e purtroppo molti di loro ancora sono - fermi al principio di competizione e giudicavano me e la mia idea addirittura pericolosa. Ma le mie opinioni non furono in realtà davvero decisive: determinante fu l’obiettiva esistenza di una comunità internazionale. Quando fu inventata la bomba atomica Einstein affermò: “Un problema si pone davanti a tutti - o si impedisce questo tipo di arma, oppure solo poche tracce di civiltà sopravvivranno”. Perciò non ho il merito di aver scoperto per primo che esistono degli interessi e dei valori comuni a tutti gli uomini. A volte vi sono solo interessi corporativi, o di classe, o nazionali; e questi purtroppo nessuno riuscirà ad abolirli. Ma è tempo che gli interessi personali passino in secondo piano rispetto alla necessità di preservare l’umanità dagli effetti micidiali della bomba atomica e da una possibile catastrofe ecologica globale. I problemi di una parte del mondo non si potevano più risolvere senza la partecipazione ai problemi della parte opposta; i differenti sistemi economici e socio-politici erano chiamati a collaborare e cooperare.

Nell’Unione Sovietica idee simili non erano facilmente digeribili. Il concetto di sviluppo mondiale che si era consolidato nel Paese dopo la Rivoluzione si basava sul postulato di un’inevitabile e profonda spaccatura fra i blocchi. E nonostante i cambiamenti radicali, il PCUS continuava a professare dogmi, idee e pratiche di fatto superate, e ad osservare la realtà attraverso un caleidoscopio di lotte di classe e di anticapitalismo che doveva

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necessariamente sfociare in un conflitto militare e politico per la spartizione del potere tra le due superpotenze.

Un aspetto importante nella teoria e nella pratica del nuovo pensiero fu dunque anche il nuovo significato assegnato alla sicurezza del Paese. Come preservare la sicurezza e allo stesso tempo liberare definitivamente l’umanità dalla minaccia dell’autodistruzione atomica? Finché durava la competizione nucleare il problema sarebbe rimasto lì, immutato.

Alla base del nuovo pensiero era l’intuizione che la guerra nucleare non avrebbe avuto vincitori. Si trattava pertanto di sostituire ad una dottrina della sicurezza basata sull’uso della forza militare, il valore dell’equilibrio degli interessi e della sicurezza mutua e paritaria. Infatti, la sicurezza, nella situazione attuale, può essere solo reciproca (soprattutto se pensiamo alle grandi potenze nucleari); e se guardiamo nel complesso alle relazioni internazionali, può essere solo generale.

In breve si può dire che il nuovo pensiero significò:- il superamento dello scontro ideologico con l’Occidente;- la fine della corsa agli armamenti, la liquidazione delle armi di

distruzione di massa, il ridimensionamento delle forze armate e della dottrina difensiva, il disarmo fino a un livello ragionevolmente sufficiente, il rifiuto dell’approccio militare nelle relazioni con il mondo esterno;

- l’integrazione dell’economia nazionale in quella mondiale e l’ingresso del Paese nel processo generale di civilizzazione;

- la libertà di scelta per tutti, compresi gli alleati dell’URSS e i Paesi da essa dipendenti, la non ingerenza nelle questioni interne;

- l’esclusione della forza nelle relazioni internazionali per imporre agli altri la proprie volontà;

- l’utilizzo della diplomazia della fiducia come fattore principale della politica mondiale;

- la disposizione alla collaborazione reciprocamente vantaggiosa e fruttuosa con chiunque lo avesse desiderato e fosse stato pronto ad essa;

- il sostegno dentro e fuori il Paese alla formazione di un nuovo ordine mondiale che prevedesse il cambiamento del paradigma stesso di essere umano, e un rapporto con la natura al servizio della sopravvivenza dell’umanità e dello sviluppo stabile del bene comune.

Insomma, il nuovo pensiero rappresentò la nostra risposta, etica e politica, alle sfide del XX secolo - l’era della minaccia atomica. Il significato morale della Perestrojka consisteva nel rifiuto del principio che “il fine giustifica i mezzi” per

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aderire piuttosto all’ideale che aveva tracciato a suo tempo il mahatma Ghandi. Il nuovo pensiero, sia in politica estera sia in politica interna, corrispondeva al tentativo di pensare e agire secondo il comune buonsenso.

In effetti, le principali decisioni prese dall’URSS in politica estera risposero a principi morali. E il nuovo pensiero ha senza dubbio creato una base del tutto nuova per la politica estera sovietica. Pur incontrando mille difficoltà. Si respirò da subito un clima di diffusa ostilità, si sollevarono contro quegli intellettuali e quelle forze sociali il cui potere era radicato nella vecchia prassi, la nomenklatura sovietica e a seguire tutti gli altri, dai generali agli studiosi, che avevano fatto carriera “dimostrando” l’inconciliabilità dei “due mondi”. D’altronde un lungo e complesso processo di trasformazione delle menti e delle azioni attendeva anche l’Occidente, ma lì il cambiamento corrispose ad un’intima necessità e fu perciò possibile.

Il rischio che la Storia non dia al nuovo pensiero il tempo di affermarsi in tutto il mondo esiste. Ma non vi è, secondo me, un’altra scelta; la logica del calcolo e del profitto può dirsi superata dagli eventi.

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Capitolo IIi primi passi(GLI ANNI 1985-1987)

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il PriMo PlenuM del coMitato centrale nella nuova situazione

Da come mi accolsero i membri del Comitato centrale capii che avrei avuto il loro sostegno. Il discorso di Andrej Gromiko mi diede l’impressione di essere improvvisato, e perciò lo considerai sincero. Ero commosso: non si era mai espresso così. L’ovazione che si alzò dopo che fu detto il mio nome mi convinse che avevo fatto bene a preannunciare i miei progetti. Ed ora tutti attendevano il mio discorso.

Affermai che la linea strategica elaborata nel corso del XXVI congresso sarebbe rimasta in vigore. Bisognava perfezionare il meccanismo di gestione e tutto il sistema di amministrazione, prestare maggiore attenzione alla politica sociale e allo sviluppo delle strutture democratiche del Paese, puntare sulla trasparenza nel lavoro delle organizzazioni statali sovietiche del partito e della società, favorire ordine, disciplina, osservanza della legalità, all’interno, e all’esterno sostenere una politica a favore della pace.

“Vogliamo – dissi – la cessazione e interruzione della corsa agli armamenti, e pertanto proponiamo di congelare gli arsenali atomici, di fermare l’ulteriore sviluppo dei missili; vogliamo un’effettiva e notevole riduzione degli armamenti accumulati e non la creazione di nuove armi”.

Dichiarai anche che il partito era una forza capace di unire la società e di stimolarla ai grandi cambiamenti necessari. A partire da ciò bisognava iniziare a preparare del congresso dove sarebbe stato approvato il nuovo programma e fissate le prospettive fino al 2000.

Fu un discorso ottimistico, che conteneva l’idea principale che era venuto il tempo delle trasformazioni profonde. Le reazioni furono positive: c’era emozione e in generale l’umore appariva sollevato.

Ai funerali di Černenko parteciparono le maggiori delegazioni straniere ed ebbi l’occasione di dialogare con i maggiori protagonisti politici del momento, Bush, Kohl, Mitterrand, Tatcher, Nakasone. Colsi l’occasione per anticipare i principi del nuovo pensiero e di spiegare che il governo sovietico intendeva basare su questi la nostra azione internazionale.

Tuttavia, ero preoccupato, e non solo io, ma anche qualche collega e gli osservatori esterni, dal fatto che in meno di tre anni, uno dopo l’altro, erano scomparsi tre Segretari generali, tre leader del Paese e alcuni eminenti membri del Politbjuro. Alla fine del 1980 era morto Kosygin. Nel gennaio del 1982 Suslov. A novembre Brežnev. Nel maggio del 1983 Pel’še. Nel febbraio del 1984 Andropov. A dicembre Ustinov. Nel marzo del 1985 Černenko.

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Tutto ciò aveva un valore simbolico. Il sistema si era avvizzito, il sangue invecchiato non aveva più linfa vitale. Sapevo che quali grandi responsabilità pesavano sulle mie spalle.

il PlenuM di aPrile

Nonostante in quel periodo nessuno di noi fosse in grado di formulare valutazioni realistiche sulla situazione corrente e programmi a lungo termine, tuttavia occorreva convocare il Congresso per rafforzare il nuovo corso politico e risolvere le questioni relative ai quadri dirigenti. Ero convinto che non dovessimo proporci come profeti che rivelano verità incontestabili. Il lavoro sui documenti programmatici ed i dibattiti sulla stampa, durante le conferenze e nel corso del Congresso stesso mi parevano il modo più adatto per mettere in movimento il partito e la società, per renderli ricettivi nei confronti dei progetti della Perestrojka.

Mi tormentavano, però, i problemi in campo economico. Tornavo con la memoria alle analisi condotte su incarico di Andropov che avevamo messo in luce come il Paese si trovasse sull’orlo di una crisi imminente.

Troppe risorse venivano ancora divorate dalle spese per la difesa. Le spese belliche equivalevano non al 16% ma al 40% (!) del bilancio dello Stato e il complesso produttivo militare non al 6% ma al 20% del PIL. Dei 25 miliardi di rubli erogati per la scienza, circa 20 venivano usati per le ricerche tecnico-militari e per la loro realizzazione.

All’inizio degli anni Ottanta la crescita economica si arrestò e con essa peggiorò anche il livello di vita della popolazione, già piuttosto modesto. Analizzando gli indicatori del reddito effettivo della popolazione, l’URSS occupava uno dei posti più bassi, anche rispetto agli altri Paesi socialisti, per non parlare delle nazioni occidentali progredite.

Il Paese si ritrovò in uno stato di degrado socio-economico, le finanze dissestate, l’economia sbilanciata e deficitaria. Non solo erano venuti a mancare i generi alimentari e i prodotti industriali, ma anche il combustibile, i materiali edili e le leghe metalliche; generi che sembravamo inesauribili. Il mercato nero lasciava intravedere l’esistenza di un’inflazione sommersa e di una crescente speculazione. Le relazioni economiche si legarono alla rete dei cosiddetti “rapporti non ufficiali”, cioè tangenti e corruzione, concussione, appropriazione indebita. I beni dello Stato iniziarono ad essere utilizzati in modo largamente personalistico dalla nomenklatura e dai suoi intermediari.

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Il deficit nazionale veniva compensato aumentando le vendite di alcolici e impiegando i risparmi dei cittadini conservati presso le banche statali.

L’organizzazione del lavoro risultava sconvolta. Mucchi d’impianti montati, tra i quali molti d’importazione, giacevano nei magazzini; le automobili e soprattutto i macchinari agricoli arrivavano ai consumatori incompleti, perché saccheggiati durante il trasporto, ed in loco bisognava rimontarli quasi ex-novo. Il caos interessava anche il settore dei trasporti ferroviari. Nei binari morti sostavano per mesi interi decine di treni abbandonati, colmi di merci necessarie al Paese, che si deterioravano o venivano depredate.

Tentammo di stabilire le cause della crescente crisi dell’economia nazionale e di fissare un percorso di risanamento. Anche se non c’era unanimità di opinione, tutti eravamo consapevoli che ci stava sfuggendo di mano la gestione economica del Paese e che, di conseguenza, non si riusciva a disciplinare il processo di produzione. Già Andropov aveva cercato di riportare l’ordine, ma la sua linea politica, inizialmente appoggiata, generò casi limite che ne discreditarono il programma. Una cosa divenne chiara: era necessario un approccio radicale.

Sin dall’inizio mi posi come regola, per l’esame delle questioni più importanti, di non limitarmi alle strutture di partito, ma di consultarmi anche con gli studiosi e gli specialisti che lavoravano direttamente nei vari settori. Il primo passo fu la convocazione al Comitato centrale dell’8 aprile 1985 degli operatori del settore economico, degli scienziati e dei dirigenti di partito. Il colloquio fu estremamente franco e si giunse alla conclusione che fosse indispensabile accordare ampia autonomia alle imprese e decentralizzare le strutture e le funzioni di gestione. Mi sorprese che queste proposte, che partirono da me, trovassero l’appoggio di alcuni inveterati funzionari; ma probabilmente essi ritennero che tale profonda ristrutturazione non li avrebbe riguardati.

Il plenum dell’aprile del 1985 può essere considerato il punto di partenza della Perestrojka, anche se in realtà le riforme erano state annunciate a marzo.

Dai tempi di Lenin, il problema della macchinosità, della bassa efficienza e della cavillosità dell’apparato burocratico era stato variamente analizzato. Secondo me, la questione poteva essere risolta lasciando ai dirigenti la strategia socio-economica e tecnico-scientifica, e demandando tutto il resto ai collettivi di produzione. Col senno di poi, bisogna dire che il cambiamento di sistema ha prodotto nella Russia contemporanea un aumento del numero dei burocrati.

La soluzione delle questioni sociali avrebbe determinato la modernizzazione dell’economia, l’allargamento dei diritti degli organi di potere locale, il

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superamento dell’egualitarismo e la chiusura dei canali illeciti di reddito. Nell’immaginare il programma sociale da presentare al XXVII Congresso ci domandammo se era possibile modernizzare la produzione e allo stesso tempo attuare importanti provvedimenti nella sfera sociale. E concludemmo che ciò era possibile attraverso un previo sviluppo del settore produttivo. In altre parole, il nostro pensiero era ancora prigioniero dei postulati abituali.

Tra i problemi improcrastinabili presentati al plenum di aprile vi erano, inoltre, l’edilizia civile, la gestione delle risorse alimentari, la riforma dell’istruzione nazionale, la riorganizzazione della sanità pubblica.

Il plenum di aprile segnò un punto di rottura, pur corrispondendo allo spirito dei tempi. In effetti, si puntava sull’innalzamento del “ruolo guida del PCUS” e il tema della democrazia si riduceva alla dichiarazione che “risolvere i problemi più grandi e complicati era possibile solo partendo dalla viva creatività del popolo”. Non era pensabile tutto a un tratto liberarsi dei dogmi del passato. Il percorso è stato lungo e difficile e lo testimoniano i discorsi che ho tenuto nel 1985, nel 1986 e nel 1987, e ancora nel 1991 e nel 1994.

Glasnost’Per quanti s’impegnarono ad avviare la riforma era chiaro che, se lo stimolo

al rinnovamento non fosse stato recepito dalla società nel suo complesso, la riforma stessa si sarebbe presto spenta. Bisognava dunque risvegliare la gente dal torpore.

Il 15 maggio andai a Leningrado. Visitai le imprese “Elektrosila”, “Kirovskij zavod”, “Svetlana”, “Bol’ševička”, la mostra “Intensifikacija-90”, incontrai gli insegnanti e gli studenti dell’Istituto Politecnico e, alla fine del viaggio, parlai con gli attivisti dello Smolnij.

I cittadini di Leningrado, sapendo del plenum di aprile, ascoltavano con attenzione le mie spiegazioni, ponevano domande, davano consigli, mi incoraggiavano. All’inizio avevano paura a prendere la parola. La maggior parte di loro non credeva affatto alla serietà delle nostre intenzioni e prevedeva che entro un anno avremmo rinunciato e ci saremmo allineati. Di fronte al loro scetticismo, io ribadivo che i tempi erano tali che imponevano a tutti - dall’operaio al ministro, dal semplice comunista al segretario del Comitato centrale - il cambiamento, e chi si fosse dissociato avrebbe dovuto necessariamente prendere un’altra strada e mettersi da parte.

Nell’immaginario popolare si radicò l’idea che proprio il mio viaggio a Leningrado avesse dato l’avvio alla glasnost’. Questa antica parola russa

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contiene in sé molti significati. E non è un caso se nessun traduttore sia mai riuscito a trasmetterne compiutamente il contenuto. Tuttavia nell’Occidente democratico se ne comprese il senso principale, ovvero il suo essere attributo e mezzo di libertà. Per la dirigenza sovietica significò innanzitutto fornire un’informazione trasparente e veritiera su quanto succedeva nel Paese e nel mondo che lo circondava. Ma prima di tutto la glasnost’ divenne uno strumento per spiegare il nuovo corso politico e coinvolgere i cittadini nella ricostruzione di una società attiva, autonoma e adeguata. Essa venne avviata dall’alto e proprio per questo la maggior parte dei dirigenti credeva fosse un’ennesima forma di propaganda, un modo per comunicare il nuovo corso politico alle masse dei lavoratori. Invece, in breve tempo, nell’assenza di repressione ideologica, essa si trasformò in effettiva libertà di parola e di stampa. Fu la principale e insostituibile arma della Perestrojka. Ma contemporaneamente, in virtù della natura stessa della “libertà russa”, ne fu anche la nemica.

La glasnost’ permise al popolo di esprimere liberamente il proprio pensiero e giudizio sulla dirigenza. Le informazioni non furono filtrate e censurate negli uffici e nei comitati e restituirono un quadro completo degli umori e dei desideri reali delle persone.

Ma la libertà di parola contiene in sé il pericolo di emancipare anche il Male; e ciò che avvenne nella fase iniziale della Perestrojka confermò in pieno le parole di Vaclav Havel. La glasnost’, di fatto, conteneva in se stessa più di un’incognita ed avendo iniziato la Perestrojka come un processo di trasformazioni democratiche era necessario che i mezzi per la sua realizzazione fossero altrettanto democratici. La glasnost’ partecipava all’obiettivo della Perestrojka di attrarre gli uomini alla politica ed iniziarli al progetto d’edificazione di una vita nuova; questo favoriva la realizzazione delle riforme stabilite e permetteva anche di superare i tentativi di sabotaggio.

Grazie alla glasnost’ si produsse una delle più profonde fratture psicologiche nella coscienza collettiva e si avviò un processo di cambiamenti irreversibile. Infatti, la glasnost’ s’identificò con il sostegno delle persone alla Perestrojka, ad un altro modello di sviluppo, democratico, libero, rispettoso dell’Uomo e della sua dignità. Si trattò di una straordinaria conquista.

La Perestrojka ha confermato che uno sviluppo normale e democratico della società deve escludere il mistero generalizzato e il segreto come metodi di gestione statale. Esso, invece, prevede l’apertura, la libertà d’informazione, la libertà di esprimere i punti di vista politici e religiosi, la libertà di critica.

Vedevo nella glasnost’ il mio principale alleato. Solženicyn una volta disse: “la glasnost’ di Gorbaciov ha mandato in rovina tutto”. Io credo, invece, che la glasnost’ ci abbia dato tutto: la Perestrojka e le riforme. Lo pensavo allora e

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ne sono convinto ancora oggi, anche se la libertà ha portato nella società russa un diffuso senso di permissivismo.

la caMPaGna anti-alcool

La decisione fu presa nel maggio del 1985, purtroppo nel quadro di un percorso amministrativo inerziale, e per questo produsse più danni che benefici.

L’alcolismo perseguita il popolo russo sin dai tempi della Rus’. Di tanto in tanto sono state indette delle battaglie: si è limitata la vendita degli alcolici, si sono inasprite le punizioni, si sono condannati gli alcolisti persino dai pulpiti delle chiese. All’inizio della Prima Guerra mondiale si vietò la vendita di alcool e, in particolare della vodka, inaugurando un periodo di proibizionismo, che durò sino al 1925. Quindi, Chruščëv nel 1958 si impegnò a sradicare questa calamità sociale russa, aumentando i prezzi degli alcolici e limitandone le vendite. Ma, poco per volta, tutto fu messo a tacere.

La situazione raggiunse livelli preoccupanti. L’alcolismo arrecava ogni anno all’economia nazionale un danno pari a 80-100 miliardi di rubli. Dalle ricerche statistiche risultava che nel Paese esistevano ben 5 milioni di alcolisti e che il consumo di alcool pro capite era di 10,6 litri, inclusi i lattanti. I dati erano allarmanti soprattutto se confrontati con quelli del 1914 e degli anni immediatamente successivi la fine della Seconda Guerra mondiale. L’aspettativa di vita si era accorciata e lo stato di salute dei cittadini era in costante peggioramento.

Le cause di un alcolismo così diffuso erano diverse: milioni di persone vivevano nell’ignoranza e in condizioni precarie, prive persino di alloggi adeguati. Le persone più fragili affogavano nell’alcool le paure generate da un clima sociale opprimente e dalla rigidità del regime. Esponenti della classe dirigente, d’altro canto, erano anch’essi alcolisti e concorrevano a diffondere la sensazione di una sostanziale tolleranza nei confronti dell’etilismo, al punto che il costoso ricovero degli alcolisti nei centri di disintossicazione e il loro impiego per la pulizia delle strade erano oggetto di barzellette.

La mia amministrazione ereditò questo problema. Sul tavolo del Politbjuro giacevano pile di documenti che restituivano un quadro drammatico della situazione. Decine di migliaia di uomini e intere strutture si trovavano in ostaggio degli alcolisti e reclamavano una rigida disciplina. Ricordo che quando Gromyko arrivò al Consiglio Supremo e venne informato del problema

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esclamò sdegnato: “Ti rendi conto, da noi bevono ovunque, persino negli asili!”. In effetti, allo Stato arrivavamo tantissime lettere, per lo più da parte di mogli e madri, che raccontavano vere e proprie tragedie familiari, di incidenti sul lavoro, di atti criminali legati all’alcolismo. La questione fu posta con forza da intellettuali e medici che reclamavano un ritorno al proibizionismo. Il dibattito nel Politbjuro fu teso. L’idea di reintrodurre il proibizionismo fu respinta. Le misure che al contrario vennero adottate previdero la graduale diminuzione della produzione dei superalcolici e contemporaneamente l’aumento di quella di vini secchi, birra e bevande analcoliche. In sostanza, si cercò di modificare il volume degli scambi anche allo scopo di bilanciare la perdita delle entrate derivate dalla vendita di alcolici.

All’inizio la risposta fu positiva, poi emersero perplessità, irritazione, malcontento, a volte persino rabbia. Come è spesso capitato in Russia, tra la fase progettuale e quella attuativa vi è stata un’enorme differenza, perché il realismo e il senso di responsabilità che contraddistinguevano il momento decisionale, durante l’attuazione lasciarono il posto ad ogni genere di provvedimenti. La campagna contro gli alcolici divenne, purtroppo, l’ennesimo esempio degli effetti negativi di un modo autoritario ed eccessivamente zelante nell’esercitare il potere. Con una procedura d’urgenza si dispose la chiusura dei negozi e delle fabbriche di vino e vodka, e l’abbattimento di alcuni vigneti. Si ordinò pure la riduzione della produzione di vini secchi, anche se non prevista dall’ordinanza, e della birra, così che i costosi macchinari giunti dalla Cecoslovacchia rimasero inutilizzati e si deteriorarono. La conseguenza fu che la gente iniziò a distillare l’alcool a casa, impiegando persino acque di Colonia a basso prezzo e causando la sparizione dal mercato dello zucchero, con ripercussioni nel settore dolciario. L’impiego di tutti i possibili surrogati portò, purtroppo, alla crescita delle malattie. Si sviluppò, insomma, un circolo vizioso. Le persone erano irritate dalle file lunghissime e dalle attese umilianti nella speranza di ottenere una bottiglia per festeggiare un evento qualsiasi. Più che con la dirigenza se la prendevano con il Segretario generale, che per tradizione era considerato il responsabile di tutto.

Va detto, comunque, che le misure adottate portarono a un calo degli incidenti sul lavoro, della mortalità, della perdita di tempo lavorativo, del teppismo e dei divorzi. La durata media della vita e il tasso di natalità aumentarono. Sarebbe ingiusto attribuire la colpa del fallimento della campagna anti-alcool solo ai divieti; sia io che il Politbjuro abbiamo grandi responsabilità. Tuttavia, oggi ci ritroviamo in una situazione analoga, se non peggiore.

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caMbiaMenti al vertice

Sarebbe stato ingenuo pensare di trasformare la società senza cambiarne i vertici. Per una parte dei membri del Politbjuro, il plenum di aprile rappresentò l’inizio di una nuova éra, nella quale tuttavia non si riconoscevano. La consapevolezza delle responsabilità che avevano nei confronti del Paese e l’istinto di conservazione li spinsero a sostenere il nuovo corso. Ma non c’era da fidarsi troppo.

Per prima cosa occorreva cambiare la politica estera, a cominciare dal Ministro degli Esteri. Gromyko non era più in grado di svolgere questo compito.

La mia scelta cadde su Ševarnadze. La situazione imponeva, infatti, che quel dicastero fosse affidato ad un politico, non ad un funzionario. Per la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri pensai invece che Ryžkov fosse adatto. Lo avevo conosciuto ai tempi di Andropov. Ryžkov condivideva la mia analisi economica e la mia volontà di ricostruzione. Di lui apprezzavo anche le qualità umane, la precisione, l’asprezza di giudizio, e l’abilità di lavoro appresa negli ambienti industriali. Ryžkov divenne il mio primo compagno di lotta nelle riforme: a quei tempi agivamo all’unisono e, nonostante ciò che avvenne in seguito, gli sono ancora grato per quel sodalizio.

Anche la sostituzione del primo segretario del Comitato cittadino di Mosca costituì un problema. Nella capitale non c’era nessuno in grado di ricoprire quel ruolo, e pertanto fu necessario cercare altrove. Ebbe così inizio la carriera politica di El’zin. Il suo curriculum soddisfaceva tutti i requisiti: aveva diretto uno stabilimento di produzione di prefabbricati per l’edilizia, era stato responsabile del Dipartimento per i lavori pubblici e, dal 1976, era primo segretario del Comitato provinciale della città di Sverdlovsk.

Il 22 dicembre il Politbjuro decise dunque di proporre El’zin. Nella sua relazione alla conferenza cittadina egli manifestò un animo profondamente riformatore. Io appoggiai palesemente i contenuti della sua drammatica analisi critica. Tuttavia, eravamo preoccupati per l’esito della votazione segreta, perché i membri del partito moscoviti erano stizziti del fatto che fosse stato indicato uno “straniero” e non un cittadino di Mosca. Fortunatamente però l’elezione si svolse senza ostacoli.

El’zin si mise al lavoro in modo energico. Ai moscoviti piacquero la sua severità e imparzialità. Insomma, in un primo momento parve a noi tutti che la scelta di El’zin per quel ruolo fosse stata un successo. Purtroppo però dovemmo ben presto ricrederci! El’zin era sì favorevole ad una rapida

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realizzazione delle riforme, ma in modo del tutto populista. E alla fine si svelò un semplice carrierista. La mattina poteva dire una cosa, il pomeriggio un’altra, la sera un’altra ancora. Insomma, era un uomo privo di personalità.

“Michail Sergeevič Gorbaciov, perché ha permesso a El’zin di arrivare al potere?” mi rimproverano spesso. Di questo errore, che è costato caro al Paese, ammetto di essere direttamente responsabile.

Io sono consapevole che il potere può essere inteso come la possibilità di servire la società o, al contrario, come valore fine a se stesso. Purtroppo ho compreso tardi che per El’zin il potere era potere, e basta.

la Glasnost’ inizia a funzionare

La glasnost’ abolì, per così dire, il “divieto di buonsenso” e, in pochissimi anni, realizzò una vera e propria rivoluzione dell’anima.

Ho già raccontato come avvenne la prima svolta verso la glasnost’, ma non ho detto quanto lungo e difficoltoso è stato il cammino per la sua piena attuazione. Inizialmente, nell’apparato del Comitato centrale e nell’agit-prop11 i cliché restarono gli stessi, e tutta l’immensa macchina ideologica del partito - dalla stampa alle scuole di partito - continuò a lavorare nel solito modo. Per cambiare la situazione occorreva in primo luogo “rompere” questo sistema chiuso.

L’occasione si presentò nel 1985. Nei mesi di settembre ed ottobre, infatti, due mie interviste al “Time” e alla televisione francese aprirono uno spiraglio.

Come di consuetudine, il giornalista del “Time” aveva dovuto inviare per iscritto le domande e, secondo la prassi, in un giorno stabilito era venuto a ritirare le risposte, anch’esse consegnate in forma scritta. Quella volta, però, fu anche registrata un’intervista dal vivo, che la “Pravda” pubblicò per intero. Fu un evento eccezionale e suscitò grande interesse nel Paese e nel mondo. Anche l’incontro con i giornalisti francesi alla vigilia della mia visita a Parigi costituì un’esperienza del tutto nuova, per me e per l’URSS. Mi scontrai in diretta con persone che conducevano l’intervista in modo irriverente e aggressivo, ma non ne uscii sconfitto. Queste due interviste segnarono una svolta.

Il progressivo affermarsi della glasnost’ moltiplicò gli interventi della gente comune sulla stampa e per radio. Si raccontarono tutte le porcherie e le

11 L’agit-prop (Otdel agitacii i propagandy) era la Sezione per l’agitazione e la propaganda del PCUS.

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ingiustizie subite. Si disse ad alta voce tutto l’indicibile. I giornalisti, fino a quel momento soffocati e asserviti, non appena ebbero

un po’ d’ossigeno per parlare, divennero ipercritici al punto che a partire dal 1986, pur continuando a credere nella validità della glasnost’, iniziai a maturare l’idea di una legge che normalizzasse l’informazione. Urgente, ad esempio, divenne il problema delle “zone vietate alla critica”: le spese militari, la situazione dell’esercito, lo stato delle ricerche del complesso militare - industriale. Su questi argomenti non era solo la gente comune a essere disinformata, ma gli stessi membri del Politbjuro; e questo nonostante che, di fatto, ratificassero provvedimenti anche su questioni estremamente delicate e importanti.

Unico ad avere libero accesso all’informazione e alla critica era - com’è ovvio! - il KGB, che ufficialmente diramava soltanto qualche laconica comunicazione sull’espulsione di una spia o sui legami di qualche dissidente con i servizi segreti stranieri; mentre ufficiosamente faceva fuoriuscire molti, moltissimi rapporti segreti.

Il settore commerciale era anch’esso soggetto a censura. I dati relativi alle forniture di armi, grano, petrolio, gas, metalli erano considerati segreti di Stato, nonostante fossero pubblicati su tutti i notiziari internazionali. Ancora, gli indici economici, sociali, culturali e persino – o soprattutto – demografici venivano resi noti esclusivamente su disposizione speciale del Comitato centrale, comunque con molte omissioni e dopo aver subito un’accurata ed estesa epurazione. Le statistiche relative al tasso di criminalità e gli indicatori chiave del sistema sanitario restavano, invece, inconoscibili e inviolabili.

Oltre al bilancio militare, anche quello statale era segreto; ed in particolare i deficit di bilancio. I milioni di risparmiatori russi ignoravano che per “pareggiare il budget” lo Stato prelevava risorse dalla Cassa di risparmio. E nessuno era al corrente che per molti anni i ritmi di crescita delle spese per la difesa avevano superato di una volta e mezzo - o due ! - l’aumento reale del reddito nazionale. Ai deputati del Consiglio Supremo il programma di bilancio veniva presentato già bello che confezionato. È vero che esisteva una voce “altre spese” che ammontava a 120 miliardi di rubli, cioè ad un quinto dell’intero bilancio, ma nessuno dei deputati aveva il coraggio di domandare: “ Cosa si intende per altre spese ? ” Aprire queste “zone segrete” rappresentò quindi una sfida di una difficoltà inverosimile. Accanita fu la resistenza dei dicasteri e dei custodi dei segreti; violenta la protesta degli ideologi. Il perché apparve subito chiaro. Tolto il velo che copriva le tante inadeguatezze del sistema, molte organizzazioni non sarebbero sopravvissute al proprio stesso fallimento. La glasnost’ fece emergere in tutta la sua gravità anche la questione ecologica. Una

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politica vandalica, fortemente connessa col potere finanziario, aveva prodotto uno scempio di proporzioni impensabili, di cui erano trapelate solo briciole d’informazione. Grazie alla glasnost’, le persone poterono conoscere la verità sull’inquinamento atmosferico, dei boschi e dei fiumi del territorio sovietico. Ne ricevette un potente impulso il movimento “verde” e la popolazione iniziò a opporsi con determinazione ai piani di costruzione delle centrali atomiche, degli stabilimenti chimici e metallurgici, degli aerodromi.

La glasnost’ rimise in circolazione film vietati e opere di autori marchiati come “nemici del popolo”. Tutta la letteratura dissidente e dell’emigrazione ricomparve sugli scaffali delle librerie.

Opere classiche come quelle degli storici Karamzin e Kostomarov, del filosofo Vladimir Solov’ëv e di Kljucevskij vennero ripubblicate ad alta tiratura; e così gli scritti di Bunin, Merezkovskij, Nabokov, Zamjatin, Aldanov… Quindi arrivò il momento di far “tornare in patria” tutti quei pensatori caduti vittima dell’ostracismo: Solov’ev, Berdjaev, padre Bulgakov, Florenskij, Il’in, Frank, Ern, Struve, Rozanov, Novogorodcev, Pitrim Sorokin… col rimpianto di non averli conosciuti quando ero ancora giovane studente. Ora so, infatti, che la nostra generazione è stata spiritualmente immiserita e denutrita, privata di capacità critica e di respiro storico.

rivolti all’euroPa

Quando, nel 1985, la nostra politica estera prese un indirizzo filoeuropeo, non si partiva certo “da zero”. Già l’anno precedente, in occasione del quarantesimo anniversario dalla fine della Seconda Guerra mondiale, il tema della sicurezza in Europa era diventato uno degli argomenti principali dei miei colloqui con Willy Brandt e Bettino Craxi. All’allora primo ministro italiano, chiesi di favorire l’avvio di trattative volte a far convergere mediazione politica e misure concrete in campo militare.

Fu questo nuovo corso nella nostra politica estera a determinare la scelta della Francia come Paese dove recarmi nella mia prima visita ufficiale in qualità di Segretario generale.

D’altronde proprio la nostra cooperazione con i francesi aveva dato impulso alla distensione degli anni Settanta. Alla vigilia della partenza, in quella famosa intervista alla televisione francese di cui ho già parlato, affermai: “viviamo in un’unica casa, sebbene vi entriamo da ingressi differenti. Dobbiamo collaborare e migliorare le vie di comunicazione in quest’abitazione”.

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Da qui l’espressione “L’Europa è la nostra casa comune”. Naturalmente ne parlammo anche a Parigi con Mitterrand. Egli mi rispose

con una mezza domanda: “Perché non ammettere la possibilità di avviare in modo graduale un percorso verso una più ampia politica europea?”.

Nel luglio dell’anno seguente, quando ci incontrammo con Mitterrand a Mosca, lo sentii formulare questo pensiero in modo preciso: “è necessario che l’Europa diventi nuovamente protagonista della propria storia, affinché possa rappresentare in pieno un fattore di equilibrio e stabilità nelle relazioni internazionali”.

Erano anche le mie intenzioni. I successivi incontri con i principali dirigenti dell’Europa occidentale divennero tappe fondamentali nel cammino verso un nuovo dialogo politico con l’Occidente.

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riavvicinaMento: Ginevra 1985Come ho già più volte detto, le riforme strutturali all’interno del nostro Paese

non sarebbero state possibili senza una favorevole situazione internazionale. Tanto per cominciare, era necessario avviare un dialogo con gli USA sui temi della Guerra fredda e dei conflitti indiretti. Era impensabile, infatti, una svolta significativa della situazione internazionale senza un miglioramento delle relazioni tra le due superpotenze nucleari.

Da tempo era stato progettato un incontro con il presidente Ronald Reagan. Il 19 novembre del 1985, alle 10 di mattina, ci incontrammo a Ginevra in modo molto informale presso la villa “Fleur d’eau” di fronte al lago.

Sei anni e mezzo ci separavano dall’ultimo incontro tra leader di URSS e USA, e dopo l’ingresso dei carri armati sovietici in Afghanistan la situazione era diventata rovente.

Anche se nessuno credeva in grandi intese, tuttavia tutti speravamo di porre i presupposti per il dialogo. Era importante che i dirigenti delle due superpotenze “familiarizzassero”. Un obiettivo non facile. Non si trattava, infatti, di trovare una comunione d’idee e di parole con il socialdemocratico Palme o con il socialista Mitterrand, ma con Ronald Reagan, colui che aveva

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definito l’Unione Sovietica “l’impero del male”. Tutto il mondo rivolse la sua attenzione su Ginevra: il summit fu seguito da ben 3.500 giornalisti.

Numerose furono le polemiche su chi aveva preparato le direttive e molti mi accusarono di aver deciso tutto da solo. In realtà venne rispettata la prassi: il Politbjuro approvò le direttive per il Segretario generale del Comitato centrale; e queste erano state elaborate – certo, con la mia partecipazione - dal Ministero degli Esteri, dal Dipartimento Internazionale del Comitato centrale e dal KGB. In particolare, si esaminarono meticolosamente le questioni inerenti la riduzione degli armamenti e si discussero numerose proposte concrete che resero possibile, sin dal primo incontro, un’intesa costruttiva sul disarmo nucleare.

Nel complesso, le trattative e gli altri colloqui a Ginevra durarono circa 15 ore. Ebbi cinque o sei incontri a tu per tu con Reagan, sempre sforando “il grafico di lavoro”.

Nel primo colloquio si degenerò persino in una disputa tra il “comunista n°1” e “l’imperialista n°1”. Mi ritrovai a difendermi dall’accusa di violare i diritti umani. Reagan, da parte sua, non si degnò di prendere in considerazione le mie insinuazioni sull’esistenza di un connubio negli USA fra potere militare ed industriale, sull’esistenza di una potente macchina propagandistica che aveva l’obiettivo di indebolire l’URSS. Entrambi, con foga, ci addossavamo l’un l’altro la responsabilità della folle corsa agli armamenti che aveva portato il mondo sull’orlo dell’autodistruzione.

Quando passammo all’analisi dei conflitti regionali i contrasti crebbero. Reagan parlò a lungo della nostra ingerenza nelle questioni del “terzo mondo” come un fattore scatenante della tensione tra Washington e Mosca. Affermai che noi non puntavamo a “esportare la rivoluzione” e che la nostra politica estera era del tutto simile a quella statunitense nelle zone considerate di interesse vitale; zone che, tra l’altro, per loro coincidevano in pratica con tutto il mondo. Proprio durante quel dialogo dissi, sebbene in modo vago, che non era nostra intenzione restare in Afghanistan e che anzi eravamo favorevoli a una soluzione diplomatica del conflitto. E successivamente aggiunsi che l’URSS non aveva come obiettivo una guerra contro gli USA.

In un momento di pausa sentii il bisogno di confidarmi con i colleghi. L’opinione che mi stavo facendo di Reagan come politico era che fosse non tanto un conservatore, quanto un vero e proprio “dinosauro”.

Quando si giunse a parlare del controllo degli armamenti, divenne evidente che il mio interlocutore non vedeva l’ora di combattere. Con poche parole sdegnose stroncò qualsiasi tentativo di portare il dialogo sulla politica del containment, causa della corsa agli armamenti. Poi farfugliò qualcosa sulla

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riduzione degli armamenti offensivi e sul passaggio ai sistemi difensivi. Infine sostenne in modo appassionato e convinto che l’Iniziativa di Difesa Strategica (SDI)12 era “la strada migliore” e che l’Unione Sovietica non avrebbe dovuto temerla. Ipotizzò addirittura l’idea di “laboratori aperti” e dichiarò che quando la loro tecnologia fosse stata messa a punto l’avrebbero condivisa con noi.

Questi argomenti suscitarono in me degli interrogativi. Di cosa si trattava? Di un volo di fantasia? Del desiderio di rendere l’URSS più malleabile? O forse era un astuto tentativo per tranquillizzarci, prendere tempo e raggiungere il folle obiettivo di creare uno scudo spaziale che avrebbe protetto l’USA e, contemporaneamente, permesso di assestare il primo colpo?

Non ebbi dubbi sulla risposta: il progetto SDI non era nient’altro che l’intenzione di trasferire la corsa agli armamenti nello spazio. Le assicurazioni dateci su questo punto dimostravano quanta sfiducia avevano gli USA nei nostri confronti. E noi perché ci saremmo dovuti fidare più di quanto loro si fidavano di noi? Se gli americani non capivano questo semplice ragionamento non ci sarebbe restato altro che rispondere nella maniera più efficace, rapida e meno dispendiosa possibile. Lo dico con senso di responsabilità: non si trattava di un bluff. Era un programma con un suo codice.

- “Sembra che siamo arrivati a un vicolo cieco” - conclusi. E calò un penoso silenzio.

- “Perché non andiamo a fare due passi?” – chiese il presidente. Scendemmo in un cortile interno e ci avviammo verso una casetta.

Nel piccolo salotto ardeva il fuoco in un camino. Ci accomodammo sulle poltrone e Reagan tirò fuori dalla tasca un foglietto che mi passò. Vi erano elencate le proposte di controllo sugli armamenti in nove punti. Molti di essi in un modo o nell’altro erano stati esaminati dalle parti durante i colloqui, ma senza arrivare a soluzioni concordate. Dissi che anche alla prima lettura balzavano agli occhi cose per noi inaccettabili. E, soprattutto, l’accettazione di tale “pacchetto” avrebbe permesso agli USA di continuare la realizzazione del programma della SDI.

Il colloquio ebbe termine. Il fuoco nel camino bruciava, il salotto era caldo e accogliente, ma la conversazione non aveva migliorato gli umori. Quando uscimmo mi sembrò che in strada facesse molto freddo: o a causa del tepore del camino, o dell’accesa discussione. Inaspettatamente Reagan mi invitò a visitare gli Stati Uniti. Risposi invitandolo in URSS.

12 La Strategic Defense Initiative (di seguito, nel testo, SDI) è ciò che più comunemente viene definito lo “scudo spaziale”. Fu proposta dal presidente degli Stati Uniti d’America Ronald Reagan nel 1983 per utilizzare sistemi d’arma con base al suolo e nello spazio per proteggere gli Stati Uniti da attacchi di missili balistici con testate nucleari.

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- “Accolgo l’invito” - dichiarò il presidente.- “Ed io il suo” – gli replicai. Se non si giunse alla rottura, credo che fu per due fattori: la responsabilità

e l’intuizione. All’improvviso, come ispirato, Reagan disse: “Supponiamo l’inverosimile. Se dallo spazio giungesse una minaccia per i nostri Paesi, come valutereste allora una proposta di cooperazione?” – “Accetteremmo. Spero che anche il vostro Paese farebbe altrettanto”. “Sì, certo” - rispose Reagan.

Il giorno seguente fu la delegazione sovietica a ospitare quella americana. Di nuovo ci appartammo e il discorso cadde sul tema dei diritti umani. Reagan iniziò affermando che se l’Unione Sovietica voleva migliorare le relazioni con gli Stati Uniti doveva intervenire sulla questione dell’assenza delle libertà individuali. Esposi il mio punto di vista, sottolineando che non trovavo giusto il tentativo statunitense d’imporre i suoi standard agli altri Paesi.

Poi la conversazione continuò alla presenza delle delegazioni. Dissi al presidente e ai suoi colleghi che la SDI ostacolava la riduzione degli armamenti nucleari. Reagan restò sulla sua posizione, la discussione si riaccese e le divergenze apparvero di nuovo insuperabili. Forse una sola circostanza fu determinante: nessuna delle due parti voleva che l’incontro di Ginevra si concludesse con un nulla di fatto.

La sera di quello stesso giorno ci incontrammo per un invito a cena nell’alloggio dei coniugi Reagan. Gli esperti continuavano a lavorare al progetto di un documento conclusivo e, alla fine del pasto, ci portarono i materiali che avevano elaborato.

Alla relazione di Kornienko il Segretario di Stato degli USA Shultz reagì in modo brusco e tra i due nacque un diverbio. Kornienko usava termini duri e aveva un tono di voce irritato. Shultz, persona tranquilla e pacata, sbottò: “Signor Segretario generale, ecco come procede il nostro lavoro. Riusciremo forse a concludere qualcosa?”

Io e Reagan osservavamo la scena. Il presidente mi disse: “Battiamo il pugno sul tavolo”. E io: “Battiamolo”. Chiamai i miei e chiesi: “Che è successo?”. Dal tono di Kornienko e dal suo comportamento sembrava ci fossero divergenze radicali. Bessmertnych prese la parola e risultò che si trattava di un problema di parole, presto risolto.

Così in 15 minuti avevamo appianato tutti i “problemi”. Ecco come bisognava affrancarsi dallo stile tradizionale della nostra diplomazia, che riteneva fondamentale dimostrare fermezza, anche in assenza di calcoli politici e pratici.

Di notte fu redatta la versione finale del documento ufficiale. La mattina ebbe luogo la cerimonia conclusiva. Nella sala adornata di bandiere dell’URSS

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e degli USA, alla presenza dei giornalisti, Reagan e io salimmo sul palco e firmammo una dichiarazione davvero storica: i capi delle superpotenze constatavano che “una guerra nucleare non sarebbe mai dovuta scoppiare, perché in essa non ci sarebbero stati vincitori”. La corsa agli armamenti nucleari aveva perso di qualsiasi significato…

La dichiarazione continuava: “Le parti non cercheranno di ottenere la supremazia militare”. Non erano frasi generiche: ci stavamo impegnando a dare adeguate disposizioni alle delegazioni che si occupavano degli armamenti nucleari a Ginevra. Nel documento, inoltre, si esprimeva la volontà di favorire gli scambi culturali ed umani fra i due Paesi attraverso contatti tra i giovani e il ripristino dei collegamenti aerei.

Alla fine entrambi pronunciammo un breve discorso. Sia i contenuti che la forma di queste dichiarazioni non rientravano da tempo nel vocabolario degli esponenti di governo di URSS e USA. Gli osservatori esperti non si arrischiavano ancora a scrivere che si stava assistendo all’inizio di una nuova era nelle relazioni sovietico-americane e nella politica mondiale. Ma tutti percepirono che il primo passo, un grosso passo, era stato fatto: era nato “lo spirito di Ginevra”. Eravamo giunti a un momento di svolta verso un mondo denuclearizzato.

la traGedia di Černobyl

La tragedia sopraggiunse all’improvviso la notte del 26 aprile. All’alba mi chiamò Ryžkov. Noi, in realtà, non sapevamo cosa fosse successo. Ci avevano detto: un guasto e un incendio. I tentativi di ottenere informazioni più dettagliate erano serviti a ben poco. Per questo informammo la stampa con due giorni di ritardo.

Subito convocai i membri del Politbjuro. Dolgich, il Segretario del Comitato centrale, presentò un rapporto piuttosto generico dal quale non si riusciva a comprendere la dimensione dei rischi legati all’incidente. Si decise dunque di creare una commissione governativa coordinata dal vicepresidente del Consiglio dei Ministri Boris Ščebrin e di inviarla immediatamente sul posto. Pur nell’ignoranza dei fatti, percepivano d’istinto che la situazione era drammatica e avvertivamo l’esigenza di avere informazioni di prima mano.

Il 28 aprile Ryžkov riferì al Politbjuro quali erano stati i risultati dell’indagine svolta dalla commissione. La sera dello stesso giorno trasmettemmo un comunicato alla televisione e il giorno successivo la stampa lo pubblicò. L’eccezionalità dell’incidente mi suggerì di nominare un Gruppo operativo,

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alla cui guida fu messo Ryžkov, con l’incarico di lavorare giorno e notte alla risoluzione del problema. I materiali sul lavoro di questa équipe sono stati resi pubblici.

La commissione stabilì di evacuare gli abitanti della città di Pripjat’. Cosa estremamente complicata: le persone non volevano lasciare le proprie case e quindi fummo costretti a trasferirle con la forza. Nei primi giorni di maggio avevamo evacuato circa 155 mila persone e stabilito il controllo su tutta la regione.

Poi affrontammo il problema del blocco del reattore spaccato. Si presero provvedimenti per evitare infiltrazioni di sostanze radioattive nel Dnepr attraverso il terreno. Intervennero i militari esperti in attacchi chimici, si fecero arrivare le attrezzature necessarie e si avviarono i lavori di decontaminazione. I membri della commissione governativa inizialmente lavorarono senza sosta. Decine di problemi straordinari vennero risolti ogni giorno negli istituti scientifici di Mosca, Leningrado, Kiev e altre città. In quei giorni travagliati si rivelarono le migliori qualità della nostra gente: il senso di abnegazione, l’umanità, la generosità, la pronta e disinteressata disponibilità. Molti furono quelli che, volontariamente, andarono nella regione di Černobyl. Grazie alla collaborazione di tutti, fu possibile localizzare il guasto e a limitare il numero delle vittime.

I costi furono ingenti: solo per le misure d’emergenza furono spesi 14 miliardi di rubli.

Entro il mese di luglio fu elaborata l’idea del “sarcofago” e quindi, in tempi brevi, venne eretta una copertura unica al mondo per il reattore danneggiato. Gli esperti dell’AIEA13 non mossero critiche. Essi riconobbero che si stava facendo tutto ciò che era possibile e necessario.

Comunque, - è bene ribadirlo con chiarezza - nei primi giorni mancò una comprensione precisa dell’accaduto: noi non sapevamo che eravamo di fronte ad una catastrofe dal carattere planetario. La conoscenza delle reali dimensioni della tragedia si formò a mano a mano che ricevevamo informazioni. Fu poi la nostra ignoranza a generare menzogne e stati di panico. Allora, come ancora oggi, i giudizi sull’operato della dirigenza dell’Ucraina, della Bielorussia e del Centro furono estremamente critici. Per quanto ne so io, non è possibile accusare qualcuno di irresponsabilità e disinteresse nei confronti della sorte delle persone: se qualcosa non fu fatto subito fu per l’impossibilità oggettiva di capire cosa bisognava fare. Non lo sapevano i politici e neppure gli scienziati e specialisti.

13 Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

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Indubbiamente, negative si rivelarono la chiusura e la segretezza, appesantite dal campanilismo e dalla pretesa di avere un monopolio scientifico sull’energia atomica. Di questo parlai alla seduta del Politbjuro del 3 luglio 1986:

“Da 30 anni vi sentiamo parlare – studiosi, specialisti, ministri - di affidabilità. Voi contavate sul fatto che noi vi guardavamo come si guardano delle divinità. Invece, ora tutto è fallito e i ministeri e i centri scientifici si sono rivelati senza controllo. Nel sistema regnavano un fare servile, l’adulazione, un cieco spirito di gruppo e l’odio persecutorio contro i dissenzienti, l’amplificazione a dismisura dei successi, il radicarsi di relazioni personali e corporativistiche attorno ai dirigenti. La Guerra fredda e la segretezza reciproca su quanto avveniva nelle strutture militari, anche nel settore dell’energia atomica, hanno giocato un ruolo determinante. Un ottimismo beota, una sorta di spensieratezza erano sovrani.

Nel Politbjuro emersero due posizioni. C’era chi sosteneva che bisognava diffondere la notizia con gradualità, per non scatenare il panico; e chi pensava occorresse trasmettere tutte le informazioni attendibili a mano a mano che arrivavano, senza censure. Alla fine prevalse quest’ultimo punto di vista.

Alla seduta del Politbjuro del 3 luglio dissi: “In nessun caso accetteremo di nascondere la verità né per ragioni pratiche, né per motivi ideologici. Siamo responsabili dell’accaduto e di come è stato gestito. Il nostro operato è sotto gli occhi di tutta la nazione e del mondo intero. È inammissibile pensare che si possa ricorrere a dei sotterfugi, o fare i furbi, per mistificare le nostre implicazioni nei fatti. Serve un’informazione completa. Una politica da vigliacchi è una politica indegna”. La questione riguardava pure il futuro dell’energia atomica. Già prima della Perestrojka il tema era stato sollevato dal giornale ”Kommunist”. L’articolo dell’accademico Dolležal’ aveva avuto ampia risonanza, ma non ne permisero la discussione in pubblico. Nell’articolo, in particolare, venivano affrontati i problemi delle centrali nucleari di vecchia generazione, della costruzione di nuove soprattutto in zone instabili e sismiche (Armenia e Crimea). L’accademico Sacharov diceva: “E’ mio parere che, in prospettiva, l’energia atomica giocherà un ruolo sempre più significativo. È necessario, però, renderla sicura”. Già Kurčatov aveva avvertito: “Al reattore nucleare occorre dare del ‘lei’. Questo non ci assolve dagli errori. Gli incidenti accadono quando ci si dimentica delle nostre responsabilità”. Černobyl fece emergere i molti mali del nostro sistema, tutto ciò che si era tentato di seppellire: l’occultamento degli eventi straordinari e dei processi negativi, l’imprudenza e l’incuria, il lavoro alla “come viene, viene”, l’alcolismo. La sofferenza che produsse fu la molla per una riflessione profonda, l’ennesimo convincente argomento a favore di riforme radicali.

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il draMMa di reykjavik

Il mondo iniziò a guardare con grande interesse a quanto stava avvenendo in URSS all’indomani dell’incontro di Ginevra, ai nuovi contenuti espressi dal congresso del PCUS e alla Dichiarazione del 15 gennaio sul disarmo nucleare. Al contrario, a Washington si respirava di punto in bianco un clima di isteria anticomunista capeggiata dallo stesso Reagan.

All’improvviso ci fu chiesto di tagliare del 40% il numero dei diplomatici a New York. Vicino alle rive della Crimea spuntò una squadra navale americana. Alla vigilia della scadenza della moratoria nucleare gli USA realizzarono una potente esplosione in Nevada. Nonostante tutto, il governo sovietico non cedeva alle provocazioni e continuava a coinvolgere l’Occidente nel dialogo, con risultati positivi.

Decisi di scrivere un messaggio al presidente USA, con la proposta di vederci al più presto per dare nuovo impulso ai colloqui di Ginevra. Come luogo per l’incontro proposi Londra, Reykjavik o Parigi. Reagan acconsentì e scelse Reykjavik, perché era “equidistante da entrambi i nostri Paesi”. Tutto si svolse con rapidità.

Alla seduta del Politbjuro esposi il mio piano. Ci saremmo presentati con proposte realistiche e lungimiranti. Se gli americani le avessero accettate si sarebbero ottenuto un effettivo disarmo e la normalizzazione della situazione internazionale. Altrimenti avremmo reso noto il rifiuto e smascherato la politica degli USA. Il Politbjuro approvò. Invece i generali, e anche al ministero degli Esteri, rimasero perplessi. L’idea dello scontro era per loro un’ossessione e anche un’opportunità di promozione personale. Ad alcuni negoziatori, infatti, piaceva la “dolce vita” spesata con valuta estera: più a lungo si protraevano le trattative più a lungo sarebbe durata. Il Politbjuro approvò la composizione della nostra delegazione.

Giungemmo in Islanda il 10 ottobre del 1986. L’iniziale colloquio informale fu una delusione: non sentii nulla di rassicurante. Reagan mi elencò semplicemente le sue intenzioni. Decisi allora di entrare nel merito dei contenuti dell’incontro, ma la discussione languiva. Reagan sfogliava i suoi appunti, senza trovare risposte. La sua agitazione cresceva. Pensai di suggerire di coinvolgere i nostri ministri.

Quando Shultz e Ševarnadze si unirono a noi riferii che le trattative per la riduzione delle armi strategiche offensive si erano impantanate in discussioni senza fine. In quel momento la triade della competizione nucleare era composta da missili balistici con base a terra, missili lanciati dal mare,

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aviazione strategica. Proponemmo di ridurre del 50% ognuna delle parti della triade di armamenti.

Per quanto riguarda i missili balistici con base a terra, questa era la prima volta che l’URSS faceva una simile proposta. Si trattava dei nostri armamenti strategici più potenti, ma credevamo che un tale sacrificio avrebbe fatto uscire il processo di disarmo dalla fase di stallo nel quale era caduto in decenni di sterili negoziati. E comunque non mancava una contropartita: gli USA dovevano diminuire del 50% i sommergibili nucleari e l’aviazione strategica, campi nei quali già ci avevano superato.

Nonostante le polemiche riuscimmo a raggiungere un accordo di massima sulla riduzione del 50% delle armi strategiche offensive. E qui voglio ricordare quanto importante fu l’apporto dato alle trattative dal segretario di Stato USA George Shultz. D’altro canto anche la nostra delegazione e gli esperti coordinati dal maresciallo Achromeev erano ben preparati.

In tutti i negoziati precedenti gli americani avevano considerato prioritario mantenere il controllo. Secondo loro – ne erano convinti – non avremmo accettato regole severe. Ma è probabile che agissero con la speranza di metterci alle corde. Si sbagliavano.

Nella lontana Reykjavik ebbero luogo dei veri drammi shakespeariani: pause, riunioni, discussioni… Sembrava di essere sempre a un passo dal trionfo finale. Finchè la SDI divenne la pietra dello scandalo.

L’incontro stava ormai per finire. Avevamo imboccato un vicolo cieco e il clima si era fatto strano. Reagan, senza giri di parole, tentò una sortita iniziando a contrattare: “Mi venga incontro e vedrà quanto potrà fare l’America per il suo Paese”. Da parte mia, continuavo a ripetergli che mancava solo un passo perché entrasse nella Storia come Il presidente-pacificatore; che noi non avevamo la pretesa di minare la sicurezza degli Stati Uniti, ma che neppure gli Stati Uniti potevano chiederci d’indebolire il nostro sistema difensivo.

La delegazione seduta al tavolo delle trattative era consapevole dell’approssimarsi della sconfitta, politica e morale. L’incontro terminò. Uscimmo dal palazzo. Era giunto il crepuscolo. Stavamo in piedi accanto all’automobile di pessimo umore. Reagan mi mosse un rimprovero:

“Lei sin dall’inizio aveva ideato di venire sin qui per mettermi in questa situazione!”.

“No, signor presidente – obiettai – sono pronto anche subito a rientrare dentro e firmare il documento secondo i punti che abbiamo già concordato, a patto che voi rinunciate allo scudo spaziale”.

“Mi rincresce” – rispose Reagan…Dopo 40 minuti avrebbe avuto luogo la conferenza stampa. Reagan era già

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partito per la base militare da dove sarebbe decollato. Il mio primo desiderio fu di smascherare i pericolosi piani statunitensi, come avevo progettato prima dell’incontro.

Nel percorso dalla sede in cui si erano svolte le trattative all’hangar dove mi aspettavano migliaia di giornalisti da tutto il mondo – 400 metri – riflettei febbrilmente. Mi tormentava un pensiero: poiché avevamo raggiunto un accordo sui missili strategici e a medio raggio si apriva una nuova situazione. Valeva la pena sacrificare tutto per un vantaggio propagandistico momentaneo? L’istinto mi suggeriva di non scaldarmi. Ero ancora indeciso, ne ebbi poi conferma nell’enorme sala del press-center. Alla mia apparizione tutti si alzarono in silenzio. Nella sala si respirava angoscia… Ero agitato. Di fronte a me i rappresentanti del genere umano attendevano le mie parole come una sentenza fatale.

In quel momento mi resi conto di ciò che era davvero successo e di come era necessario continuare ad agire. Il mio intervento è stato ampiamente commentato da giornalisti e politici. È inutile dunque riportarlo qui per esteso. In sintesi, il suo significato sta in questa frase: “Nonostante la drammaticità, Reykjavik non è stato un fallimento. Per la prima volta abbiamo gettato uno sguardo all’orizzonte”. La sala uscì dal torpore. Uno dei giornalisti, in seguito, scrisse: “Mentre il Segretario generale presentava il fallimento dell’incontro di Reykjavik come una vittoria, Raisa Gorbačëva, seduta in sala, guardava al marito con entusiasmo e dal suo viso scendevano le lacrime”.

Avevamo saputo cogliere l’umore imperante nel mondo e, grazie a ciò, salvammo il processo dei cambiamenti. Nelle stesse ore, di fronte ai giornalisti nella base militare, Shultz definì Reykjavik un fallimento. Ma, tornato negli USA e conosciuta la reazione alla mia valutazione, cambiò versione e iniziò a parlare di “svolta” e di “prossimo lavoro”. Reykjavik dimostrò che l’Unione Sovietica era seriamente intenzionata a risolvere la questione del disarmo e che un accordo era possibile.

È vero, durante l’incontro non si era giunti alla firma di documenti, ma era emersa una disponibilità reciproca sulle questioni principali della sicurezza. In seguito, dopo una riflessione sui risultati dei colloqui, elaborammo misure concrete circa il disarmo nucleare. Alla fine, nel dicembre del 1987, fu firmato il Trattato sulla liquidazione ed eliminazione dei missili a corto e medio raggio. Fu il primo accordo della storia per l’eliminazione da entrambe le parti di una intera tipologia di armi nucleari. È difficile non riconoscere la portata di un simile passo.

A questo proposito, anzi, vorrei affrontare un argomento che sino a oggi suscita polemiche.

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C’è chi insinua che Gorbaciov ha firmato a occhi chiusi quello che gli hanno messo davanti, risolvendo così la questione. Si tratta d’illazioni tipiche di chi ignora completamente come si preparavano le decisioni, come si lavorava a ogni dettaglio, come venivano considerate tutte le sfumature. Un lavoro durissimo e una lotta al cui centro, è naturale, erano gli interessi della nazione.

Quando tu sei uno statista, conosci la situazione - e sai esattamente che un missile “Pershing-2” in due minuti di volo arriva a Mosca e in cinque fino al Volga – allora capisci che c’è una pistola puntata alla tempia della nazione. E di conseguenza decidi che bisogna fare di tutto per allontanare questa minaccia o, meglio ancora, eliminarla.

Poco dopo Reykjavik incontrai i partecipanti al Forum di Issyk Kul, organizzato su iniziativa di Čingiz Ajmatov. I più insigni rappresentanti della cultura mondiale, personalità pubbliche e studiosi si mostrarono preoccupati dalla minaccia atomica sospesa sulle civiltà. Proprio il Forum di Issyk Kul rappresentò una tappa cruciale e mi spinse a fare due dichiarazioni importanti:

1) “La politica che non riflette sulla sorte dell’uomo è una politica amorale e non merita rispetto. Per questo condivido il pensiero che riecheggiava nelle vostre relazioni, la convinzione della necessità di una collaborazione tra i politici e i rappresentanti della cultura contemporanea attraverso un continuo scambio di opinioni. Bisogna preservare la civiltà – nonostante le difficoltà e le contraddizioni – per la vita e per l’uomo. L’umanità in qualche modo le risolverà”.

2) “Esistono gli interessi nazionali e di classe, quelli corporativi e di gruppo, ma esistono anche gli interessi comuni a tutti gli uomini. Dobbiamo riconoscere la loro priorità, perché in presenza della minaccia nucleare e della crisi ecologica globale è in ballo la vita di tutto il genere umano”.

Queste riflessioni le ritengo ancora attuali.

la dichiarazione di delhi

La Storia talvolta fissa in modo bizzarro le proprie tappe e solo in seguito se ne comprende il senso. Dopo l’incontro con Reagan a Reykjavik, mi recai in India e lì, insieme a Rajiv Gandhi, il 27 novembre del 1986 firmai la Dichiarazione di Delhi sui principi alla base di un mondo non violento. Non si trattava soltanto di due differenti avvenimenti accaduti in punti

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geograficamente lontani del pianeta, ma della dimostrazione che nel mondo erano già presenti forze che spingevano per la creazione di nuove relazioni internazionali. Ma questo fu evidente solo a pochi.

La Perestrojka e le idee che ispiravano il nostro nuovo pensiero politico furono subito accolte dalla dirigenza indiana e in primo luogo da Gandhi, una persona sincera, lungimirante e pronta al dialogo, che univa ad un’innata conoscenza della grande tradizione filosofica dell’India e dell’Oriente lo studio approfondito della cultura europea. Rajiv proseguiva fedelmente l’opera del nonno, Jawaharlal Nehru, e della madre, Indira Gandhi. Il senso della sua vita s’identificava con la rinascita dell’India.

La vicinanza delle nostre posizioni trasformò la nostra relazione in un rapporto di fiducia e collaborazione in grado di generare le idee che costituirono l’ossatura teorica del nuovo ordine mondiale, come si vide appunto nella Dichiarazione di Delhi.

In essa sono contenuti una serie di principi che ritenevamo fondamentali per la costruzione di un mondo nuovo:

- la vita umana deve essere riconosciuta come massimo valore;- la non violenza deve essere alla base della vita sociale;- il diritto di ogni Stato all’indipendenza politica ed economica deve

essere universalmente riconosciuto e rispettato;- la sicurezza internazionale deve sostituire il principio di equilibrio

ottenuto col terrore.Infine, Unione Sovietica e India decisero di ratificare una convenzione

internazionale che vietava l’impiego - o la minaccia d’impiego - dell’arma atomica. Io credo che la Dichiarazione di Delhi sia stata e resti tuttora un documento di eccezionale importanza, il cui valore va ben oltre quel particolare momento storico.

il PlenuM del coMitato centrale del Gennaio 1987

A partire dall’autunno del 1986 si cominciò a preparare un plenum dedicato ai problemi del gruppo dirigente sovietico, che avrebbe dovuto svolgersi tra la fine di quell’anno e l’inizio del successivo. Ma la stesura della relazione preliminare si prolungò e il plenum venne rinviato ben due volte. Finalmente, il primo dicembre il Politbjuro approvò una bozza che conteneva le linee

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programmatiche principali. Nel corso dei lavori per la redazione definitiva del documento, si riproposero momenti di forte tensione e la discussione si riaccese attorno alle questioni legate alla composizione dello staff. Alla fine, però, il rapporto fu pronto. Conteneva talmente tanti elementi originali che, quando si arrivò alla sessione del 19 gennaio 1987, mi sentii agitato e timoroso. Si trattava, infatti, di avviare un processo di democratizzazione del partito, le elezioni avrebbero sostituito le nomine, i quadri dirigenti sovietici sarebbe stati designati direttamente dai cittadini. Significava la fine della nomenklatura sovietica.

La realtà superò ogni aspettativa. La maggior parte dei presenti appoggiò il rapporto. Giocò forse a nostro favore la complessità delle problematiche affrontate o più semplicemente si era diffuso un comune sentimento di rinnovamento. Il plenum si svolse in un clima pacato. Parlarono 34 delle 77 persone che ne avevano diritto e tutte criticarono il burocratismo in cui era precipitato il Paese. Si discusse in modo approfondito della Perestrojka e della politica della classe dirigente, del ruolo e delle responsabilità del Comitato centrale; di democrazia, rinnovamento, responsabilità; della necessità di fare in fretta.

Al momento della votazione si decise in modo concorde di avviare il processo di democratizzazione. Si approvò la relazione e ci si pronunciò a favore della realizzazione della Conferenza dei partiti dell’Unione. Paradossalmente, però, non venne mai messa in dubbio la legittimità del monopolio del partito e nessuno sollevò il problema di come conciliare libere elezioni con il sistema della nomenklatura. Inoltre, per la prima volta emersero delle opinioni contrastanti sulla glasnost’. Il vertice del partito intendeva difendere la sua prerogativa di controllare ed indirizzare l’opinione pubblica. La glasnost’ divenne, dunque, il terreno di scontro principale per quanti volevano difendere la libertà d’espressione e di pensiero. Nonostante i risultati positivi raggiunti nel plenum, la nomenklatura decise di non pubblicizzarli per evitare di entrare in conflitto con quei membri del Comitato centrale che non riuscivano ad accettare la riforma.

In effetti, il periodo a cavallo tra il 1986 e il 1987 rappresentò la prima seria crisi della Perestrojka. Si percepiva sempre più chiaramente la presenza di forze eversive che tentavano di opporsi alle richieste di rinnovamento provenienti da una società completamente ignara dei cambiamenti radicali e violenti che si stavano preparando.

Nel plenum di gennaio si fece il punto sulle conseguenze della stagnazione, sul malfunzionamento e il ruolo svolto dagli organismi elettorali, sullo strapotere decisionale di una ristretta cerchia di dirigenti della nomenklatura.

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Si trattò, in sostanza, di un decisivo passo in avanti nella puntualizzazione di problematiche d’ordine teorico e pratico, si aprì la strada alla XIX Conferenza del partito, alla riforma politica, e si posero le basi per la definizione degli aspetti strategici e tattici della Perestrojka.

Ma, come s’è detto, dopo il plenum non cambiò nulla, specie all’interno del partito. La nomenklatura esautorò di autorità ogni decisione presa. Il partito, insomma, frenava. L’ala reazionaria della dirigenza respingeva la riforma perché temeva di perdere il suo potere. Questo derivava dall’alto e probabilmente non sarebbe stato riconfermato da elezioni democratiche.

È questo il periodo più drammatico della Perestrojka. Molti errori vanno attribuiti al comportamento assunto dal partito, che purtroppo restò al potere sino all’autunno del 1991, e alla sua incapacità di riformarsi. In quel periodo, non mi mancò il sostegno del Paese e tuttavia c’era tanto disincanto, una sensazione d’impotenza e di amarezza. Le soluzioni e gli strumenti, che ogni tanto spuntavano fuori, erano ancora i soliti; ma non rientravano nella mia strategia che si fondava su idee democratiche e non contemplava spargimenti di sangue, né cambiamenti traumatici.

in cerca di nuove relazioni

i Miei interlocutori euroPei

Il 1987 fu un anno di grandi speranze. L’accordo raggiunto a Ginevra sul disarmo nucleare e l’incontro di Reykjavik sembravano aprire nuovi scenari, anche in politica interna. In politica estera guardavamo contemporaneamente ai due versanti, l’americano e l’europeo. Durante la mia visita ufficiale in Cecoslovacchia nell’aprile del 1987, colsi l’occasione per spiegare nei dettagli la mia idea di “casa comune europea”; idea che venne accolta con favore da tutti gli esponenti politici dell’Europa occidentale. La competizione tra URSS e USA li preoccupava, ma allo stesso tempo anche i segnali di distensione erano guardati con sospetto nel timore di un “complotto delle superpotenze”. Non fu facile dimostrare che il complotto non esisteva e chiarire che l’URSS immaginava un’Europa allargata agli USA e al Canada.

In quell’anno s’intensificarono gli incontri con il presidente Mitterrand e il primo ministro francese Jacques Chirac, i colloqui con Margaret Tatcher, le conversazioni con il cancelliere austriaco Franz Vranitzky e, più tardi, con il premier italiano De Mita, i miei contatti con i loro ministri e in generale con

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i rappresentanti della società europea. Mi convinsi che la contrapposizione dei blocchi era artificiosa e pericolosa, essendo più forte la percezione di una reale vicinanza storica e culturale.

L’Europa si sentiva minacciata da una guerra. Il Vecchio Continente era diventato terra di confine; qui erano stati accumulati gli arsenali nucleari. Allo stesso tempo, però, l’Europa sperimentava la possibilità di una convivenza civile tra Paesi con differenti istituzioni e regimi. Si trattava in conclusione di cambiare prospettiva e di immaginare per il nostro continente un destino diverso da quello di “teatro di operazioni belliche”.

Determinante fu il ruolo ricoperto da Margaret Tatcher. Già nel dicembre del 1984, quando conobbi la signora Tatcher ai Chequers, le brevi battute iniziali lasciarono su di me un segno profondo. In quell’occasione volli sottolineare l’eccezionalità dell’incontro, ricordando alla Tatcher che erano ben 12 anni che un premier britannico non veniva in visita in URSS. La Tatcher mi corresse: l’ultima volta che un primo ministro conservatore era stato in Unione Sovietica risaliva a più di 20 anni prima. Fu quindi il premier britannico a dettare la scaletta degli argomenti dei colloqui, che prevedevano la discussione sui pari diritti alla sicurezza, la diminuzione degli armamenti e la fiducia reciproca. Accettai. Non mi trattenni, però, da un accenno polemico alle dure dichiarazioni rilasciate dalla Tatcher sulla presenza della “mano di Mosca” dietro a quasi tutti i conflitti del mondo. La polemica sfociò in una discussione dai toni violenti nella quale ci accusammo reciprocamente di responsabilità e strategie specifiche. Io ricordai che l’Occidente sosteneva i regimi totalitari secondo il principio: “Sebbene sia figlio di un cane è il nostro figlio di un cane”. La Tatcher replicò che noi avevamo aggredito la Cecoslovacchia e l’Afghanistan, che l’Europa ci guardava con timore e ci considerava imprevedibili.

Alla fine riuscimmo ad arrivare a toni più concilianti.“Apprezziamo il vostro tentativo di migliorare la vita del popolo – disse

la Tatcher – e intendiamo come reciproco il diritto alla sicurezza del Paese e delle sue Istituzioni. Proporrei di basare su questi principi il nostro colloquio”. La questione della riduzione degli armamenti fu tuttavia affrontata con la solita ottica: l’arma nucleare rappresentava la più efficace garanzia di pace, eliminarla sarebbe risultato dannoso perché la sicurezza della Gran Bretagna dipendeva dal suo possesso.

Ribattei dicendo: “Oggi siamo vicini come mai prima a compiere un primo passo verso il disarmo. Eppure l’Occidente e la signora Tatcher si fanno prendere dal panico. Forse i Tories stanno cercando di ostacolare lo smantellamento degli arsenali nucleari ? “. In sostanza, in Occidente non

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si cercavano soluzioni, ma complicazioni! E la signora Tatcher, pur essendo donna, stava ostinatamente difendendo un’arma micidiale e disumana. Il premier britannico non rispose.

Credo che questa polemica sia servita a rafforzare la nostra reciproca simpatia. Lo prova il fatto che in occasione del mio viaggio negli Stati Uniti, nel dicembre del 1987, la Tatcher mi propose di fare una sosta nell’aeroporto Brize Norton per continuare la conversazione iniziata a Mosca e per riflettere insieme sul tema degli armamenti strategici prima del mio incontro con il presidente USA. Il premier conosceva bene l’argomento. Ma dopo aver iniziato ad affrontare la questione con estrema concretezza scoppiò a ridere:

“Forse uso un linguaggio fuori moda. È davvero inopportuno parlare di armi di primo e secondo impatto, sarebbe meglio discutere di riduzione e collaborazione”. “Lo credo anch’io – risposi – e penso che entrambi preferiremmo sederci su una comoda e morbida poltrona piuttosto che su un barile di polvere da sparo che potrebbe esplodere da un momento all’altro.”.

Nel luglio del 1986 venne in visita a Mosca François Mitterrand, uomo di grande intelligenza e finezza, capace di telefonare in un momento difficile solo per dire che la Francia e lui personalmente erano nostri amici e sostenevano la nostra posizione. Per questo lo rispettavo profondamente sia come partner in politica, che come persona.

Qualche giorno prima di arrivare a Mosca aveva incontrato Reagan. “La fiducia di Reagan nella SDI come rimedio ad ogni male – mi disse con ironia Mitterrand – ha un carattere più mistico che razionale. Qual è il suo scopo? Preferisce che l’Unione Sovietica investa nello sviluppo economico o, al contrario, si dissangui nella corsa agli armamenti? Secondo me, è chiaro che nel primo caso sarà più facile intraprendere un durevole processo di pace, mentre nel secondo probabilmente si arriverà alla guerra”. Dunque, le nostre posizioni sulle questioni principali combaciavano.

Tuttavia, dopo Reykjavik le relazioni con la Francia si raffreddarono. Mentre prendeva corpo la prospettiva dell’eliminazione dei missili a corta e media gittata dall’Europa e si avviavano i negoziati per la riduzione del 50% delle armi strategiche offensive, da Parigi giungevano sempre più spesso segnali di scetticismo. In particolare, negli anni 1987-1991, venne promulgata una legge che prevedeva l’aumento e la modernizzazione degli armamenti nucleari. Inoltre, alla Conferenza di Vienna sulla riduzione delle armi convenzionali e delle forze armate in Europa, Parigi assunse una posizione attendista e, pur dichiarandosi a favore dell’interdizione delle armi chimiche, insisteva sul diritto di produrre armi binarie. Insomma, era evidente che c’erano delle contraddizioni fra dichiarazioni e azioni politiche, e non mancai

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di sottolinearlo a Jacques Chirac durante la sua visita a Mosca nel maggio del 1987.

Intanto a febbraio anche il presidente del Senato della Repubblica Italiana, Amintore Fanfani, venne a Mosca. Si trattava di uno degli esponenti politici più esperti, sempre aperto al dialogo. Il nostro colloquio iniziò in modo leggero e scherzoso: “Lei ha un grande vantaggio rispetto a me, può consultarsi direttamente con il Papa e con Dio stesso. Che dobbiamo fare noi poveri peccatori?” Mi rispose con una frase del grande De Filippo: “Noi, uomini, dobbiamo cercare di agire in modo da non creare problemi a Dio”. Dopo qualche giorno ricevetti Giulio Andreotti, che mi confidò le sue impressioni sul viaggio negli Stati Uniti e sull’incontro con Reagan. Era convinto che il presidente volesse raggiungere risultati positivi dai negoziati sovietico-americani, come dimostrava anche quanto successo a Reykjavik.

Nel 1985 incontrai Felipe Gonzáles, presidente del governo spagnolo e leader del Partito socialista dei lavoratori. A questo primo breve incontro seguì nel maggio del 1986 una visita di Gonzáles in Unione Sovietica che segnò l’avvio del dialogo fra i due Paesi. Durante le nostre lunghe conversazioni, ci confrontammo sui problemi dell’URSS, dell’Europa, del Terzo Mondo e sulle prospettive che si aprivano al genere umano. Nel presidente spagnolo riconoscevo uno dei rappresentanti della nuova generazione di leader dell’Internazionale socialista, un autentico democratico. Purtroppo lo rincontrai solo dopo quattro anni, quando nell’ottobre del 1990 riuscii a recarmi in Spagna.

Alla fine degli anni Ottanta, l’URSS vantava accordi di collaborazione multilaterale con Francia, Italia, Spagna, RFT e altri stati e aveva gettato le basi per relazioni durevoli tra Mosca e Unione Europea. Un nuovo obiettivo era ora all’orizzonte: dopo la fine della competizione, occorreva creare in Europa un sistema ampio, solido e permanente di collaborazione pacifica.

verso la riforMa econoMica Nel biennio 1985-1986 si destinarono allo stato sociale quasi 40 miliardi,

più di quanto previsto dal piano quinquennale. Si trattava secondo me di un successo, frutto di una politica di concretezza. Aumentarono gli stipendi degli operai, dei medici, degli insegnanti e di tutti quei lavoratori che ricevevano i cosiddetti finanziamenti “residuali”. Varammo una legge sulle pensioni da 45 miliardi. L’obiettivo era vincere la povertà il più rapidamente possibile.

Tuttavia, queste misure crearono un notevole squilibrio tra capacità di

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mercato e circolazione monetaria: all’inizio il disavanzo fu di 55 miliardi di rubli, poi di 60, infine raggiunse i 70 miliardi! La speculazione dilagava, il deficit era alle stelle. Il prezzo del petrolio scese fino a 12 dollari e noi perdemmo all’improvviso i 2/3 degli incassi dall’export. La riduzione delle vendite di vodka sottrasse alle casse dello Stato 35 miliardi di rubli. I principali indici economici ne risultarono sconvolti, mentre la situazione sociale peggiorava. L’intenzione era di accrescere la libertà aumentando il potere di acquisto sui generi alimentari e sui prodotti di consumo. Ma come? La nostra politica economica cambiava troppo lentamente rispetto alle esigenze.

Il 25 giugno 1987 si aprì il plenum del Comitato Centrale, uno delle tappe fondanti della Perestrojka. Nella mia relazione inaugurale, intitolata “Sui compiti del partito per una profonda ristrutturazione della gestione economica”, criticai il lavoro dei dicasteri centrali, del Politbjuro, della Segreteria, del Consiglio dei Ministri e sottolineai la rilassatezza di molti dirigenti. Il tono ed i contenuti del mio discorso erano insoliti per una riunione di partito e finirono col suscitare stupore in sala.

Dopo aver elencato gli obiettivi prioritari da raggiungere, cioè derrate alimentari, abitazioni, produzione e servizi, affermai che occorreva una riforma radicale dell’economia. Occorreva trovare strategie per educare i cittadini alla proprietà privata ed alla cooperazione e qui far convogliare gli interessi della società, dei collettivi e del singolo lavoratore. Il plenum confermò il programma di democratizzazione e approvò i metodi per attuare la riforma economica. Si trattò evidentemente di soluzioni di compromesso, eppure l’opinione pubblica le percepì come decisioni radicali, persino rivoluzionarie. Avevamo, dunque, individuato il percorso. Non restava che intraprenderlo, anche se non avevamo idea in quale direzione orientare le riforme. Molto dipendeva dal governo e dagli organi centrali, che però consideravano le decisioni prese nel corso del plenum un cedimento ai riformatori o quantomeno l’ultimo atto di un sistema di gestione pianificato e centralizzato destinato a finire; mentre d’altro canto il burocratismo rallentava il processo.

il PriMo libro: il Mio credo

Dopo poco più di due anni dalla nascita della Perestrojka, la società russa iniziò a cambiare e contemporaneamente la politica cominciò a perdere contatto col popolo. In effetti, si avviò un processo di scollamento. Le questioni sul tavolo erano tali che i cittadini non riuscivano a recepirle in tutta la loro

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portata; nella squadra di governo emergevano le prime divergenze; infine, dubitavamo dell’immagine che di noi si stavano formando all’estero.

Così mi venne in mente l’idea di scrivere un libro: avrei utilizzato i contenuti dei miei interventi al Politbjuro e alle altre sedute riservate, sconosciuti in patria e tanto più in Occidente, e spiegato in questo modo i progetti e le metodiche d’approccio ai problemi della dirigenza.

Durante le mie vacanze estive in Crimea lavorai a lungo al manoscritto. Il libro venne tradotto in milioni di copie in tutto il mondo. In Italia è stato pubblicato da Mondadori con il titolo Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro Paese e per il mondo (trad. Roberta Rambelli, 1988). La sua enorme diffusione e l’entusiasmo con cui venne accolto mi ha permesso di spiegare pubblicamente cosa intendessi per ristrutturazione del sistema politico e socio-economico sovietico. La mia idea di riforma provocò, specie in Occidente, sospetto e sarcasmo: venne interpretata come una manifestazione di idealismo ingiustificato o come l’ennesimo trucco propagandistico. Qualche critico segnalò imprecisioni e superficialità. In realtà, pochi erano in grado di prevedere che saremmo stati in grado di avviare il processo di disarmo nucleare, porre fine alla Guerra fredda e sciogliere – non spaccare – i nodi gordiani della politica internazionale. In ogni caso nessuno lo giudicò un libro qualunque: era il manifesto dell’ideatore della Perestrojka. E in conclusione, le reazioni mi convinsero che il mondo era maturo per una svolta.

la relazione al settantesiMo anniversario della

rivoluzione d’ottobre Il 2 novembre 1987, durante una cerimonia solenne al Cremlino, presentai

una concisa relazione su “L’Ottobre e la Perestrojka: la rivoluzione continua”. Nonostante la brevità, si trattava di un passo significativo verso il ristabilimento della verità storica. C’erano ancora numerosi aspetti da comprendere, barriere psicologiche da superare e molti punti oscuri da esplorare. La mia visione, abbastanza equilibrata, non piacque gli estremisti di entrambi gli schieramenti: la mia analisi critica suonava, agli uni, oltraggiosa e denigratoria; agli altri, superficiale e bonaria. Prevedendo queste reazioni, non avevo insistito su alcuni nodi cruciali né pronunciato sentenze definitive. Intendevo superare il concetto di “culto della personalità” e piuttosto stimolare al dibattito aperto,

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ad un riesame critico del passato, al dubbio. L’autentica conquista fu l’aver eliminato dalla relazione il tabù dell’analisi

del passato da parte degli storici, dei teorici e dei politici. Il nostro lungo, tortuoso percorso aveva molto da insegnarci.

In quegli anni io mi sentivo un comunista, avevo preso le distanze dallo stalinismo e dal sistema stalinista ed ero deciso a riportare in vita la politica di Lenin.

Sulla stampa, apparvero sempre più numerosi articoli di argomento storico, a volte farciti di particolari inutili, falsificazioni, pregiudizi, offese nei confronti dei cittadini russi. Malvestiti e scalzi, affamati, senza ricevere nulla in cambio questi avevano compiuto miracoli di eroismo sul lavoro, costruendo industrie, fabbriche e nuove città in condizioni proibitive. Iniziarono allora ad emergere quelle ingiustizie che si sarebbero moltiplicate dopo la Perestrojka: le risorse faticosamente prodotte dal lavoro di generazioni di cittadini sovietici furono divise tra un gruppo ristrettissimo di oligarchi attraverso le privatizzazioni. Si trattò di una prepotenza scioccante.

Nell’affrontare il passaggio del Paese al socialismo bisognava tener conto della tempistica. La mia preoccupazione di mantenere sempre alto il grado di efficienza nelle trasformazioni venne interpretato come “irrisolutezza”, in quanto rallentava il processo. Ai tempi si fece riferimento in tutti i successivi dibattiti sulla Perestrojka. Rivoluzioni o evoluzioni che siano, stabilire il posto e il ruolo delle riforme nello sviluppo di una società è uno dei problemi eterni della Storia, soprattutto della nostra. La Perestrojka, se ne consideriamo l’essenza, fu di certo una rivoluzione, se guardiamo invece ai metodi utilizzati per realizzarla fu evoluzione, processo riformatore.

Su quali tempi era calcolata? una o due generazioni, almeno. La mia irrisolutezza, o lentezza, dipendeva dalla valutazione oggettiva dei tempi necessari per la trasformazione, dalla conoscenza dei rapporti esistenti tra fattori obiettivi e soggettivi. Si trattava di un’analisi complessa e che non poteva certo esaurirsi con me. D’altronde la prova dell’adeguatezza del mio atteggiamento politico sta nel cambiamento stesso. L’aver puntato sulla realizzazione delle riforme attraverso un percorso evolutivo testimonia della nostra comprensione del carattere articolato della società sovietica, della necessità di non generare caos nel periodo di passaggio da un sistema all’altro. Io credo che l’approccio sia stato corretto e che, anzi, scongiurò la vittoria dei putschisti, evitando spargimenti di sangue e permettendoci di arrivare alla svolta definitiva con tutte le risorse umane disponibili. Questo rappresenta una novità nella storia russa, caratterizzata da episodi di una violenza radicale e sanguinaria. La mia priorità assoluta fu di non ripetere gli errori del passato.

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l’affaire el’zin

Il 21 ottobre, mentre al plenum del Comitato centrale si stava esaminando la relazione per il 70° anniversario della Rivoluzione, si verificò un incidente con El’zin. Siccome sembrava non fosse necessario aprire un dibattito sui contenuti del testo che avevo presentato, Ligačëv, che presiedeva la seduta, voleva mettere ai voti la mia relazione. El’zin però chiese di parlare. Inizialmente disse che la relazione era stata già esaminata dal Politbjuro e da lui stesso e pertanto non solo non aveva obiezioni, ma anzi l’approvava in pieno. Poi si soffermò sul “momento corrente”, sul sospetto che la dirigenza del partito volesse riesumare un nuovo culto della personalità nella figura del Segretario generale. Concluse, quindi, chiedendo di essere sollevato dall’incarico di membro candidato del Politbjuro, perché si sentiva isolato, soprattutto da parte di Ligačëv.

Il tono perentorio e provocatorio del suo intervento suscitò una reazione emotiva, acuta e penetrante. Si trattava di amor proprio ferito oppure di eccessiva ambizione?

Mi era giunta voce che El’zin pensava lo stessi tenendo in disparte, nonostante gli importanti incarichi che ricopriva. E che questo mio ostracismo minasse la sua autorevolezza e gli impedisse di essere più risoluto nelle decisioni. Eppure nel Politbjuro c’erano ancora “i mastodonti e i dinosauri”, come egli stesso mi scrisse il 12 settembre. Naturalmente, era un suo diritto chiedere un cambiamento nella composizione del Politbjuro, esprimere insoddisfazione per il lavoro della Segreteria o per un’eventuale eccessivo elogio del Segretario generale. Era possibile e necessario discutere, ma le modalità non mi sembrarono corrette.

Probabilmente incise la sua personale ambizione e la ricerca di un radicamento nel potere. A Mosca El’zin si scontrò, infatti, con una serie di ostacoli imprevisti e pensò di fronteggiarli collocando nel modo più conveniente i suoi fedelissimi così da rafforzare la sua posizione. Non fu un’operazione semplice. La nomenklatura sovietica capì che si tentava d’intaccare il suo ruolo e si mosse in modo astuto per impedirlo. In breve, El’zin si ritrovò nel mezzo di conflitti d’interessi fra i vari organismi del vecchio sistema, che avevano come epicentro proprio Mosca. Si difese provocando opportunamente la sollevazione delle organizzazioni di partito e degli stessi cittadini moscoviti, eppure i metodi impiegati ebbero sin dall’inizio carattere populista e dittatoriale. Ad esempio, arrivava senza preavviso in una fabbrica, prendeva il direttore, lo portava a mensa e gli faceva una bella lavata di capo,

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atteggiandosi a salvatore del popolo. Oppure si faceva vedere su un autobus, in tram, in un negozio, in un ospedale in modo tale che il giorno dopo ne parlava tutta Mosca. Incoraggiato dal consenso che raccoglieva fra i moscoviti prometteva loro di risolvere in breve tempo i problemi degli alloggi, degli stipendi, della sanità e dei servizi pubblici. Promuoveva pittoreschi progetti di complessi industriali per la lavorazione della carne o centrali del latte, opere che secondo lui avrebbero posto fine all’eterno deficit di carne e latticini. I mezzi di informazione amplificavano il suo programma politico. Ma quando si avvicinò il momento di tirare le somme del lavoro svolto apparve chiaramente che, nella sostanza, nulla era cambiato e le sue promesse erano rimaste parole vuote.

Cercammo di aiutarlo sia attraverso il Comitato centrale, sia attraverso il governo. Furono approvate misure straordinarie per aiutare la città a uscire dalla crisi, ma purtroppo non si registrarono cambiamenti sostanziali. El’zin iniziò a spazientirsi e a mostrare una personalità scomposta e affatto democratica. Insomma, non si rivelò un riformatore neanche allora. Il lavoro quotidiano, la routine, e soprattutto la difficile ricerca del consenso non gli si addicevano. Forse dipendeva dalla sua originaria formazione di ingegnere edile, dall’abitudine propria dei costruttori a lavorare in tempi ridotti e guardando all’utile: in poche parole dalla familiarità con gli imbrogli. Oppure dal senso di impotenza e d’insoddisfazione rispetto ad una realtà che non andava per il verso giusto.

In ogni caso, credo che El’zin stesso scelse il cammino che avrebbe poi percorso. Il plenum di ottobre rappresentò per lui lo spartiacque. Quel 21 ottobre osservavo El’zin dall’alto della mia posizione e capivo cosa lo agitasse e la sua profonda inquietudine. Il volto esprimeva esasperazione, insicurezza e rimpianto; emozioni proprie delle persone poco equilibrate. I presenti, persino i suoi adulatori e sostenitori, lo attaccarono e il clima era diventato incandescente. Molti ne chiedevano la radiazione dal Comitato centrale. Allora intervenni: “Sentiamo El’zin. Ci dica lui cosa ne pensa degli interventi dei membri del Comitato centrale”. Insistetti perché gli fosse data la parola, spiegando che la democratizzazione del partito doveva iniziare proprio dal Comitato centrale. El’zin salì sul podio, le sue parole erano confuse, riconobbe di essere in torto. Cercai di aiutarlo proponendogli di ritirare le dimissioni. Ma lui fu irremovibile.

La risoluzione del plenum si articolò in due punti. Nel primo si dava una valutazione dell’intervento di El’zin. Nel secondo si incaricava il Politbjuro di sbrigare la questione insieme al Comitato cittadino e di risolvere così il problema.

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Il 3 novembre, come se nulla fosse successo, El’zin mi scrisse una breve lettera in cui esponeva l’opinione del Comitato cittadino e chiedeva di poter continuare a lavorare. Ma questo non era assolutamente possibile, nessuno poteva abrogare una risoluzione del plenum. La situazione si ingarbugliò perché sulla stampa straniera venne riportata una versione falsa dell’intervento di El’zin e diverse varianti del documento circolarono anche nel nostro Paese. Molto tempo dopo, negli anni Novanta, il caporedattore dell’edizione moscovita della “Pravda”, Poltoranin, già braccio destro di El’zin, raccontò cinicamente in televisione come avesse lui composto il testo falso. Da parte di El’zin non ci fu alcuna smentita. Evidentemente si sentiva un “eroe” che aveva sofferto per il suo popolo.

La mattina del 9 dicembre mi comunicarono d’urgenza che nel Comitato cittadino moscovita era stato proclamato lo stato di emergenza: El’zin era stato trovato sanguinante. Sul posto era accorsa una squadra di medici. La ferita era lieve, prodotta da una forbice che aveva appena sfiorato il costato. In sostanza, si trattò di un tentativo di suicidio, forse solo simulato. La versione ufficiale cercò di coprire l’imbarazzo per l’accaduto: El’zin, seduto a tavola nella sala riposo, era svenuto e, cadendo, si era accidentalmente ferito con le forbici che teneva in mano.

Questa interpretazione dei fatti non piacque a El’zin, che due anni dopo raccontò di aver subito l’aggressione di due teppisti e che durante la colluttazione era stato ferito con un coltello. Una spiegazione insomma che restituiva un’immagine più eroica del personaggio.

Fatto sta che il 9 novembre dovetti riconvocare i membri del Politbjuro. Dopo un po’ di tempo, telefonai a El’zin e gli dissi che ero venuto a conoscenza dell’episodio. Il plenum del Comitato cittadino di Mosca avrebbe avuto luogo dopo la sua guarigione.

Il plenum del Comitato si svolse il 12 novembre. Gli esiti sono noti. Volli sin dall’inizio evitare di dare all’affaire El’zin un carattere scandalistico

e piuttosto tentai di risolverlo secondo il nuovo clima che si era creato nel Comitato centrale, nel partito e nel Paese. Quando fu presa in esame la pubblicazione degli interventi al Comitato cittadino, consigliai di trattare con correttezza tutto ciò che riguardava la persona di El’zin e di non screditarne tout court la vita e l’operato. La mia proposta fu appoggiata. El’zin restò in convalescenza ancora per un po’ di tempo dopo il termine del plenum, poi andò in vacanza. Il 14 gennaio 1988 fu nominato Primo vicepresidente del Comitato statale per le costruzioni dell’URSS (Gosstroj), col rango di ministro. Mantenne il suo posto nel Comitato centrale.

In seguito, molti mi hanno rimproverato di non averlo radiato ed esiliato,

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o comunque di non averlo esautorarlo di qualsiasi potere. Altri mi hanno chiesto se a posteriori riconosco di aver commesso un errore fatale. Ma se avessi risolto in questo modo la questione avrei contraddetto quegli ideali per i quali mi stavo battendo.

Accettai, dunque, la decisione sulla nuova nomina di El’zin convinto che nel nostro Paese tutto dovesse costruirsi nel segno di uno spirito di collaborazione. Non c’era antipatia in me per El’zin, tanto meno sentimenti di vendetta. E non venni a compromessi neppure quando iniziò a lanciare contro di me accuse infamanti.

la visita a WashinGton e l’accordo sui Missili

di Media Gittata

Nel 1987 in occasione della sua visita a Mosca per preparare l’accordo sui missili di media gittata, Shultz mi comunicò l’invito di Reagan a incontrarlo negli Stati Uniti.

Il 7 dicembre 1987 insieme a Raisa Maksimovna e una folta delegazione atterrai a Washington. I colloqui avrebbero riguardato appunto il tema del disarmo. Nonostante l’importanza dei problemi in ballo, non mancarono le solite punte polemiche.

Reagan tentò persino di processarmi, ma io non mi lasciai coinvolgere, riportai la discussione su un livello politico e così a poco a poco entrammo in confidenza e smettemmo di opporci resistenza. Quando sorgevano conflitti ci scherzavamo sopra. D’altronde è noto che gli americani possiedono un positivo senso dello humour.

Intanto mi giungevano una gran quantità di lettere da parte di cittadini americani desiderosi di conoscere meglio la situazione sovietica. Pensai dunque fosse opportuno invitare alcuni autorevoli personaggi statunitensi all’ambasciata russa, dove risiedevo. All’incontro presenziarono anche noti esponenti del mondo della scienza e della cultura della nostra delegazione.

“Oggi sono presenti – dissi –teorici e sostenitori dell’equilibrio del terrore e del “containment”. Ma il mondo è cambiato e queste teorie non sono più attuali. Se non si coglie questo cambiamento, non sarà possibile ripensare le relazioni internazionali”.

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Durante un incontro con le maggiori personalità dell’alta finanza statunitense affrontai la delicata questione dei rapporti economici fra i due Paesi. Quindi, vidi gli editori più prestigiosi del Paese. La resistenza iniziale fu forte, ma poi li convinsi che per me la comunicazione era un tema prioritario, perché la consideravo lo strumento per vivere nel nuovo mondo.

Alla Casa Bianca l’atmosfera era cordiale. In nostro onore si era esibito il grande Van Cliburn. Altrettanto disteso fu il clima del ricevimento al Dipartimento di Stato, dove George Shultz ci riservò un’accoglienza calorosa. L’importanza e il numero degli ospiti era quella di un grande evento.

Il discorso che pronunciai in questa occasione fu il più riuscito di tutta la visita. Ne ricordo alcuni passaggi fondamentali:

“Oggi centinaia di milioni di uomini iniziano a capire che alla fine del XX secolo la contrapposizione non è più tra sistemi o ideologie, ma tra buonsenso e istinto di sopravvivenza, da una parte, e irresponsabilità, egoismo nazionale, pregiudizi, dall’altra. Il mondo contemporaneo non è monopolio di un Paese o di un gruppo di Stati, anche se molto potenti. La pace è il compito e il destino di un insieme di Paesi.

Quando si è in tanti ad interagire, se manca reciprocità e disponibilità al compromesso non si arriva ad alcun risultato, non si ottiene nulla. La pace garantita con la forza è una pace sostanzialmente fragile. Se traduciamo in un linguaggio semplice la parola ‘pace’, sia nella lingua russa che in quella inglese suonerà: ‘rinascita della speranza’”.

Il culmine della visita fu la firma del primo accordo sul disarmo nucleare, cui seguirono lo START-I e lo START-II 14 . Il processo era dunque iniziato con l’accordo per l’eliminazione dei missili a corto e medio raggio. Senza di quello difficilmente ce ne sarebbero stati altri. Nella conferenza stampa che seguì Reagan disse:

“Oggi, io a nome degli Stati Uniti e il Segretario generale a nome dell’Unione Sovietica abbiamo firmato il primo Trattato della storia sulla eliminazione di un intero arsenale di armamenti nucleari, americani e sovietici. Molti cosiddetti saggi più di una volta hanno profetizzato che non sarebbe stato possibile arrivare a un simile Accordo. Spero che il signor Segretario generale mi perdonerà se dico apertamente che nei momenti più bui, quando davvero sembrava che l’Accordo non si sarebbe realizzato, mi facevo coraggio con le parole di un grande russo, Lev Tolstoj: ‘Il tempo e la pazienza sono gli attributi più grandi di tutti i guerrieri’”.

14 Gli accordi START-I e START-II sono degli accordi internazionali tesi a limitare o a diminuire gli arsenali di armi di distruzione di massa.

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A mia volta sottolineai che potevamo essere fieri di aver piantato un seme in grado di generare un robusto albero di pace. E tuttavia, credevo troppo azzardato parlare di vittoria. Citando le parole del grande poeta e filosofo americano Emerson “La migliore ricompensa per una cosa ben fatta è averla fatta”.

L’8 dicembre 1987 sarà ricordata come una data storica, lo spartiacque tra l’era della crescita della minaccia nucleare e quella della demilitarizzazione della vita dell’umanità.

L’Accordo sull’eliminazione degli arsenali missilistici a corto e medio raggio contribuiva in modo concreto all’affermazione dell’idea di rinnovamento delle relazioni internazionali, sulla base del principio di sicurezza paritaria e di affrancamento dalla competizione reciproca.

Accrescendo il livello della sicurezza nel continente europeo non venivano pregiudicati gli interessi dell’URSS, che allora godeva della superiorità missilistica a medio raggio in Europa.

Le misure adottate erano state studiate in modo scrupoloso, anche col contributo della direzione politica e militare del Paese, e non era stato affatto trascurato il problema delle armi strategiche offensive. Le trattative su quest’ultimo tema si protrassero per tutta la durata della mia visita. Il lavoro sulle condizioni del Trattato ABM15 si concluse proprio il giorno in cui era prevista la cerimonia conclusiva, che si svolse come consuetudine nel prato di fronte alla Casa Bianca.

Il generale Achromeev mi si avvicinò per comunicare che si era arrivati a una formula di compromesso cioè il rispetto da entrambe le parti delle clausole firmate nel 1972. Questo significava soprattutto che l’attività di ricerca, perfezionamento e sperimentazione delle armi doveva attenersi a quanto deciso nel Trattato per un periodo di tempo definito.

Seguì un importante colloquio privato con il vicepresidente George Bush, che si svolse in automobile durante il mio trasferimento all’aeroporto, il 10 dicembre 1987.

Questi si presentò come il probabile futuro interlocutore dell’URSS e come garante certo di continuità in politica estera. Sottolineò come proprio il partito repubblicano e in generale i conservatori, prima con Nixon ora con Reagan, avessero aperto al dialogo, avviato e ratificato il Trattato sulla riduzione degli armamenti nucleari.

La volontà di Bush di confidarmi con tanta chiarezza il suo desiderio

15 Il Trattato ABM (Anti Missili Balistici) venne firmato da USA e URSS il 26 maggio 1972. Il suo scopo era limitare le possibilità di difesa antimissile delle due parti, in modo da frenare la proliferazione delle armi nucleari offensive

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di proseguire la politica di collaborazione con l’URSS, qualora fosse stato eletto presidente degli Stati Uniti, mi sembrò di buon auspicio per la fine della Guerra fredda.

* * *

Il biennio 1985-1987 fu fondamentale per la storia della Perestrojka. Avvenimenti, idee e misure, tutto contribuì a creare un nuovo clima di collaborazione. Si trattò di un preludio, una preparazione, una ricerca non solo teorica, una prova generale. Si arrivò anche a comprendere che le soluzioni a cui si guardava per risolvere i problemi di politica interna - cioè l’accelerazione del Paese, la riforma strutturale, economica e politica - avrebbero solo messo in discussione i postulati del sistema sovietico, ma non avrebbero garantito un reale miglioramento della situazione del Paese. Piuttosto, quei primi passi verso la fine della Guerra fredda ci permisero di ottenere un sensibile miglioramento del clima internazionale.

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Capitolo IIIla tappa decisiva

(gli anni 1988-1989)

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il PlenuM di febbraio

A cavallo fra il 1987 e il 1988 si registrò un sensibile progresso nelle scienze sociali. Dagli archivi e dai magazzini delle biblioteche furono tirate fuori le opere di quegli intellettuali ed artisti precedentemente sottoposti a censura. Storici, economisti, filosofi, sociologi, critici letterari: tutti si impegnarono in un riesame critico delle proprie posizioni, liberandole dai limiti imposti dallo stalinismo per giungere a una valutazione libera e serena degli eventi storici e sociali del nostro Paese.

L’enorme quantità di materiali e di dati nuovi che si poterono ora esaminare fece risaltare subito come la comprensione del socialismo e dei suoi valori era stata finora parziale e semplificata. Mentre l’evidenza dei fatti mostrava un declino in termini di qualità della vita e di produttività, specie rispetto a molti altri Paesi, e la sistematica violazione della libertà intellettuale e politica. I dubbi e le domande divennero sempre più frequenti e bisognosi di una risposta pubblica. Le persone non temevano più di essere accusate di “agitazione antisovietica”. I ragionamenti degli ideologi sulla “creazione delle basi del socialismo”, la sua “vittoria totale e definitiva”, e “l’edificazione di una società sviluppata socialista”, - che avevano avuto scopo esclusivamente didattico - ora interessavano solo gli stipendiati. La riforma economica intanto procedeva. Dal 1° gennaio del 1988 tutte le imprese erano passate ufficialmente al regime di autofinanziamento. Fu approvata la procedura di elezione dei consigli dei collettivi dei lavoratori e dei direttori delle imprese e degli enti. Entrarono in vigore le leggi sulla riforma della Banca nazionale e sulla creazione di istituti di credito specializzati.

Il Presidium del Consiglio Superiore dell’URSS approvò un regolamento sulle condizioni di salute psichica del personale e sulle modalità d’assistenza psichiatrica. Pubbliche manifestazioni in molte regioni del Paese richiamarono l’attenzione sui problemi ecologici. A gennaio incontrai di nuovo i dirigenti dei mass media, delle istituzioni ideologiche e delle società creative, e li invitai a riflettere sul fatto che, pur sussistendo le premesse per avviare attività imprenditoriali nel Paese, non si era ancora verificata una svolta su larga scala in materia di riforme, e il processo di democratizzazione presentava delle contraddizioni non facili da sciogliere.Il servizio di informazione era sempre più critico nei nostri confronti e sempre più spesso prima dell’inizio di una seduta o durante il dibattito del Politbjuro e della Segreteria si finiva a parlare dei contenuti di pubblicazioni o trasmissioni. Eppure occorreva un’ideologia del rinnovamento. Si era apparentemente tutti d’accordo sul fatto che la glasnost’

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era riuscita a portare a galla i vizi della nostra società e che la Perestrojkai fosse necessaria, ma dietro l’apparente unità spesso si nascondevano divergenze profonde. I vertici dell’apparato statale del partito ritenevano che il sistema non rispondesse più ad alcuna linea programmatica e andasse corretto. In sostanza, però, proponevano una ristrutturazione superficiale, come i lavori di tinteggiatura delle facciate dei palazzi del centro storico di Mosca in occasione delle feste. Al conservatorismo estremo si oppose un radicalismo altrettanto estremo. I vecchi dissidenti e una parte degli attuali intellettuali divennero attivisti politici e portarono avanti una battaglia per il rapido smantellamento di tutto il sistema, senza riflettere sulle conseguenze, sulla violenza e gli sconvolgimenti sociali che questo avrebbe potuto generare. E d’altro canto senza proporre un sistema socio-politico alternativo.

Proprio in considerazione del fermento che contraddistingueva quel periodo, nel plenum che si tenne a febbraio del 1988 evitai accuratamente qualsiasi valutazione storica e sociale sugli avvenimenti degli ultimi 70 anni. Il Paese non era stato solo teatro di crimini e il popolo aveva fatto fin troppi sacrifici in nome di un futuro benessere per essere offeso con revisionismi banali. Difesi piuttosto la glasnost’, il processo di democratizzazione e le riforme in campo economico, perché erano necessari a scongiurare il peggio e a risollevare le potenzialità del socialismo. Se molto non funzionava nel Paese, era a causa del cattivo funzionamento di qualche meccanismo interno al sistema e delle tante contraddizioni che investivano tutti i principali settori e anche la sfera intellettuale. Insomma, la crisi che colpiva il Paese aveva un carattere sistemico. La logica delle riforme richiedeva non solo una riorganizzazione del sistema, ma anche la profonda revisione dei suoi principi fondanti. Come aveva detto Lenin, era necessaria una “radicale trasformazione di tutto il nostro punto di vista sul socialismo”

il ritiro dall’afGhanistan

Il 9 febbraio 1988 annunciai pubblicamente la nostra intenzione di ritirare entro 10 mesi le truppe dall’Afghanistan. L’invasione di questo Paese rappresenta tuttora una ferita aperta. Tutto il mondo ci condannò: all’ONU 104 delegazioni avevano votato contro la nostra operazione, solo 17 l’avevano approvata. Ci criticarono aspramente governi e parlamenti, organizzazioni e singole personalità, il partito socialdemocratico, i sindacati. Persino i partiti comunisti italiano, spagnolo, inglese, giapponese, belga e svedese.

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Tutti deplorarono l’aggressione, la violazione delle norme internazionali, l’occupazione, il rallentamento del processo di distensione, l’accelerazione alla corsa agli armamenti, la violazione del mondo musulmano e l’attentato alle fonti petrolifere da cui dipendeva la vita di tutto l’Occidente e del Giappone. Le sanzioni furono pesantissime. Carter ci privò di 17 milioni di tonnellate di grano, proibì le altre esportazioni, bloccò tutte le trattative e cancellò le visite, boicottò le Olimpiadi a Mosca. Eccettuata la Francia, i Paesi occidentali ridussero il volume degli scambi socio-culturali e delle visite. Subimmo le condanne della Conferenza islamica di Islamabad e del Parlamento europeo. La Nuova Zelanda respinse il nostro ambasciatore. Le banche bloccarono i crediti. Stampa, televisione e radio condussero una campagna mediatica di una ferocia inaudita, diffamandoci e disonorandoci agli occhi dell’intera comunità internazionale. Sento perciò la necessità di raccontare i fatti di cui sono stato protagonista.

Nell’ottobre del 1985 incontrai Karmal a Mosca e gli comunicai che il nostro aiuto sarebbe stato solo momentaneo e limitato ai soli aspetti tecnici. Aggiunsi: “Entro l’estate del 1986 dovete aver imparato a difendere da soli la vostra rivoluzione, allargando la base sociale del regime, smettendo di pensare al socialismo e piuttosto chiamando al potere chi ha un consenso effettivo, anche eventualmente i vostri attuali nemici. Riabilitate l’Islam, basatevi sulle autorità tradizionali, imparate ad operare in modo che il popolo veda che è possibile ottenere qualcosa dalla rivoluzione. Trasformate l’esercito in qualcosa degno di chiamarsi con tale nome, cessate gli scontri tra la corrente Khalq e quella Parcham, aumentate il salario agli ufficiali, ai mullah. Create una nuova economia basata sul commercio privato”. Le mie parole sconcertarono Karmal. Era sicuro che l’Afghanistan servisse a noi più che a lui, e che lì saremmo rimasti a lungo, se non per sempre. Presentai quindi la mia relazione al Politbjuro, scrissi poi al Comitato Centrale e al Consiglio Supremo ricordando le perdite umane che avevamo subito nel conflitto e la caduta di prestigio internazionale. L’errore che era stato commesso andava corretto al più presto. E in ogni caso, con o senza Karmal, avremmo adottato una linea ferma che ci avrebbe permesso di ritirare le nostre truppe al più presto dall’Afghanistan.

All’inizio dell’anno Karmal venne sostituito da Najibullah. Nella riunione del Polibjuro del 26 giugno 1986 prendemmo atto che era iniziata una nuova fase. La nuova classe dirigente afgana appariva ora in grado di assumere maggiori responsabilità e di operare autonomamente. Deliberammo pertanto di nominare un nuovo ambasciatore, cambiare i consiglieri e ridurne il numero. Quindi informammo Najibullah delle nostre decisioni. Stavamo

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pagando caro l’errore commesso nel 1979. La guerra in Afghanistan ci era costata in termini di migliaia di morti fra soldati e civili e di 6 miliardi di rubli all’anno! E tuttavia sarebbe limitativo interpretare la nostra ritirata come una capitolazione, cercammo piuttosto di correggere gli sbagli e comunque non a qualsiasi prezzo. Seguimmo con attenzione le vicende politiche successive. Sotto i governi di Taraki e Amin si era creata una combinazione artificiosa che non corrispondeva alla situazione della società afgana e che non poteva durare. Fu un’esperienza drammatica, dalla quale sperammo scaturissero un governo e un sistema adeguati.

Il Politbjuro del 1 aprile 1988 espresse il suo apprezzamento per come avevamo risolto il problema afgano. La nostra nuova priorità era confermare alla comunità internazionale che il nostro approccio ai problemi di politica estera era davvero cambiato e lasciare senza argomenti i nostri avversari e oppositori.Rimaneva ancora da discutere se la decisione del ritiro doveva essere condivisa con gli Stati Uniti oppure no. Temevamo di lasciare agli americani piena libertà di azione in Afghanistan, e questo era paradossale dopo aver versato tanto sangue. In caso di accordo, inoltre, avremmo dovuto sì rispettare tempi e intese, ma avremmo anche conservato influenza e potere sul Paese. Il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan si concluse il 15 febbraio 1989. Giunsero molte lettere di ringraziamento.

In conclusione, per raggiungere il ritiro era stato necessario trovare una posizione unitaria e ferma all’interno della dirigenza sovietica; attendere i cambiamenti al vertice in Afghanistan e la realizzazione di una serie di importanti misure politiche e sociali; creare le condizioni internazionali favorevoli per il ritiro delle truppe, perché nelle vicende afgane erano coinvolti anche altri Stati, soprattutto Pakistan, Iran e, ovviamente, gli USA, che rifornivano i mujhaidin afgani di armi e sostenevano attivamente le azioni antisovietiche del Pakistan; intraprendere lunghe trattative diplomatiche, che si conclusero con l’accordo del 15 maggio 1988. A queste difficoltà si sommavano ragioni più generali. La Guerra fredda era ancora in corso e noi certo non ci potevamo permettere che il nostro ritiro si trasformasse in una fuga vergognosa. Volevamo inoltre lasciare in un ”Afghanistan neutrale e indipendente”, condizione imprescindibile del ritiro, qualche traccia di quel processo democratico che era stato avviato con la “rivoluzione” degli anni Settanta. Tentammo, infine, di evitare o quantomeno limitare la reazione negativa di coloro che ci avevano seguito, che avevano confidato e sperato in noi, convinti di operare per il bene nazionale.

In ogni caso, io credo che oggi gli afgani valutino positivamente la nostra scelta.

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la classe intellettuale sovietica a una nuova taPPa della Perestrojka

La glasnost’ fece emergere l’enorme potenziale e la forza morale della nostra classe intellettuale, dopo tanto oscurantismo stalinista. È sorprendente la quantità di talenti, abilità, originalità, coraggio e energia che vennero fuori!

Gli intellettuali scelsero il giornalismo per esprimere il loro pensiero. Inizialmente dalla stampa provennero critiche maliziose e faziose e la reazione immediata delle Istituzioni fu di censura. I capo redattori a Mosca denunciarono licenziamenti, ispezioni, sequestro di materiale compromettente sui giornalisti.

D’altronde non erano solo singoli dirigenti a frenare, il sistema stesso di gestione dell’informazione ereditato dallo stalinismo era concepito per impedire la glasnost’. Il centro controllava ogni settore “da Mosca fino ai più remoti confini del Paese”. I redattori erano uomini del partito e il Comitato centrale vigilava accuratamente su tutto ciò che veniva pubblicato. La “difesa” del regime si fondava sulla censura. L’organismo preposto alla censura si chiamava “Direzione generale per gli affari letterari e artistici” (Glavlit) e il suo scopo principale era impedire la divulgazione di segreti di stato. Una sorta di KGB ideologico. Il suo nome, apparentemente così rassicurante, faceva tremare redattori ed editori, biblioteche e archivi. Sulla base di criteri predeterminati venivano compilate le liste dei libri proibiti e stabilito cosa conservare nei depositi speciali, cosa segregare con apposite diciture: “segreto”, “rigorosamente segreto” e “per uso di servizio”.

Nel 1988 la censura fu abolita. Il Glavlit continuò a esistere, ma senza funzioni. Anche il sistema degli archivi speciali cadde in disuso. Nel giro di qualche anno, le opere proibite tornarono in circolazione.

Nacquero le testate indipendenti. “Moskovskije Novosti” fu tra le prime. I suoi articoli coraggiosi suscitarono allarme e il suo redattore, Egor Jakovlev, venne spesso criticato e attaccato. L’emancipazione della stampa si trasformò in una guerra di opinioni. Ogni giornale si trincerò dietro la sua particolare posizione e da lì accusava, mentiva, metteva in piazza fatti privati. Tanta spregiudicatezza nascondeva singoli, specifici interessi. Nei frequenti incontri con la stampa cercavo di moderare i toni e ricordavo ai giornalisti le loro responsabilità. Per qualche tempo funzionava, poi si ricominciava da capo.

Da strumento della politica della Perestrojka, la glasnost’ diventò nel migliore dei casi libertà di parola e mezzo di democratizzazione; nel peggiore, espressione senza freno di umori e opinioni; in generale, immagine del grado

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di responsabilità o irresponsabilità mediatica del Paese. Esemplare fu la revisione che i mass media proposero della storia del

comunismo sovietico dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Il racconto sinora leggendario del periodo sovietico venne rivisto integralmente; salvi l’eroismo popolare e la rivoluzione sociale, si resero pubblici gli atti di violenza, le repressioni di massa e l’oppressione intellettuale. Le pubblicazioni andarono a ruba. Per la seconda volta dopo il XX Congresso, vi fu un’ondata di demistificazione della figura di Stalin, poi di Lenin e infine di tutto il nostro socialismo.

Anche se finalmente vennero pubblicizzati fatti clamorosi, la ricostruzione degli eventi mancava di un’analisi rigorosa, di profondità e di respiro storico. Crollarono, è vero, cumuli di menzogne e demagogie, ma vennero rimpiazzate da altrettante superficiali mitografie culturali, colme di pregiudizi e d’esasperazione: si sostituirono cioè i miti “rossi” con quelli “bianchi”, in un generalizzato rifiuto di riconoscere la portata effettiva e le molte conseguenze positive della nostra grande Rivoluzione.

Io credo sia stato davvero utile analizzare lo stalinismo e le sue conseguenze, ricostruirne un quadro veritiero e trarre una lezione dal totalitarismo. Per sapere davvero cosa successe sotto lo stalinismo era necessario aprire gli archivi segreti e rendere ogni documento patrimonio pubblico, così come facemmo. Compito degli storici era evitare di spazzar via quanto di buono era stato fatto nel Paese in sette decenni. Intere generazioni si riconoscevano nella storia della rivoluzione sovietica. Negarne indiscriminatamente l’importanza era togliere senso alla loro vita: è quanto purtroppo è successo e sono convinto che questo contribuì a togliere energie alla Russia.

Un altro tema scottante finì sotto la lente d’ingrandimento dei mass media: la natura delle relazioni tra i diversi Stati che componevano l’URSS. Le tragiche vicende che finalmente affioravano e arrivavano a conoscenza dell’opinione pubblica dovevano essere esaminate all’interno del loro contesto storico e tenendo ben presenti gli sforzi fatti per giungere a una coabitazione pacifica e allo sviluppo in tutti i territori sovietici. Purtroppo prevalsero pregiudizi e intolleranza; e di questo approfittarono i nazionalisti per far carriera e arrivare al potere. L’idea stessa di Unione venne minata alla base, si esasperarono le tendenze separatiste e sorsero dispute tra gruppi nazionali, al loro interno sempre più compatti e strutturati.

Anche se mi resi subito conto che senza i nostri intellettuali non sarebbe stato possibile avvicinare il popolo alla Perestrojka, ottenere il loro coinvolgimento non fu impresa facile. Mi proposi di non mancare alle prime teatrali o cinematografiche e d’incontrare personalmente gli attori, visitavo le

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mostre, parlavo con gli scrittori, i musicisti, su loro proposta o su mio invito diretto.

La Perestrojka aveva prodotto profondi cambiamenti nel modo di pensare, in particolare proprio negli intellettuali che per la natura stessa del loro lavoro erano chiamati a valutare, comprendere e rappresentare la società e le sue dinamiche più profonde. Il doversi rinnovare, rimanendo tuttavia all’interno del ruolo, produsse effetti a volte drammatici. Alcuni precipitarono nel panico e attaccarono violentemente la Perestrojka. Altri, ubriachi di libertà, ostentarono un’audacia irragionevole. Altri ancora provavano nostalgia per un passato decadente ma prevedibile e certo. Quando poi passò la mia proposta di autorizzare le associazioni culturali a presentare propri candidati per le elezioni dei deputati, molti si buttarono in politica, non solo utilizzando il proprio potere mediatico, ma anche scendendo nelle piazze e diventando attivisti dell’ultima ora. Così la nostra classe intellettuale si ritrovò nelle stanze del potere e iniziò a giocare un ruolo nodale per l’introduzione del parlamentarismo nel nostro Paese. Apportò nuova linfa alle forme irrigidite di funzionamento del potere sovietico. Com’è ovvio ci fu anche chi non si dimostrò all’altezza della situazione, uomini privi di esperienza politica e con scarso senso della democrazia che da alleati divennero veri e propri avversari. E proprio da questi ambienti vennero per la prima volta pubblicamente richieste le mie dimissioni.

il ProbleMa nazionale della Perestrojka

La nostra dirigenza si trovò a dover trasformare una situazione incredibilmente complessa sia per la condizione in cui si trovava il Paese in quel momento, sia per la sua storia, sia per l’eredità del passato. Era un “mondo di mondi” tutti insieme a cavallo tra due continenti, un conglomerato di popoli con una lunga storia comune. Il diverso livello di sviluppo creava una varietà di culture, costumi e mentalità nazionali.

Il Paese si era configurato come un impero ben prima di Pietro il Grande, ma sotto lo zar aveva iniziato a consolidarsi velocemente come una nazione imperiale.

L’impero zarista si differenziava molto dagli altri imperi: la sua unità non era solo il risultato delle conquiste e dell’assoggettamento dei vicini. Molti Stati vi entrarono a far parte di propria volontà. Si allargò grazie alla naturale

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espansione del popolo e al trasferimento dei russi dagli sconfinati spazi del Paese in tutte le direzioni. La politica delle nazionalità degli zar fu lungimirante per quei tempi: diversificarono gli statuti e le forme di amministrazione tenendo in considerazione la provenienza dei soggetti annessi, da Helsinki a Tbilisi, dall’Uzbekistan alla Jakuzia. La misure violente e le repressioni armate venivano impiegate, ma, di norma, solo nei casi in cui erano messe in pericolo la stabilità e l’unità dell’impero, l’identità nazionale creatasi nel corso della storia. Pur trovandosi sotto le “ali imperiali”, numerosi popoli poterono conservare la loro originalità.

L’impero, (sebbene fosse spesso maledetto e giustamente accusato dai suoi cittadini più illustri) fu necessario come fattore principale di conservazione della nazione e di quei Paesi che in un modo o in un altro vi avevano aderito.

La Russia degli zar fu un “prigione dei popoli”? Se si accetta la definizione bisogna anche aggiungere che il primo prigioniero fu proprio il popolo russo. E proprio il popolo russo fece crollare l’impero in risposta alla orribile e delittuosa guerra nella quale lo zarismo lo aveva gettato, senza alcun senso, necessità o obiettivo.

I bolscevichi, con la forza e i grandi ideali di uguaglianza e di indipendenza, salvarono il Paese dalla catastrofe, riuscirono a mantenere quasi tutte le frontiere tracciate prima del XX secolo. Non importa se fu “fatto” anche in nome della “rivoluzione mondiale”. È un dato storico obiettivo riconosciuto da tutti (nonché un indubbio merito dei bolscevichi) che la Russia sia rimasta sulle carte geografiche come una potenza capace di stare in piedi con le proprie forze.

L’internazionalismo non fu un bluff: grazie a questo ideale si riuscì a creare uno stato dallo straordinario potenziale storico. La politica di Lenin a favore dell’autentico federalismo (nonostante le inefficienze e la frettolosa realizzazione dei primi anni) – disposta a limitare (persino a sacrificare) la grande nazione dominante a favore degli altri Paesi “offesi” dallo zarismo - fu non solo una politica giusta e di alta moralità, ma anche l’unica in grado di favorire lo sviluppo e il consolidamento di un Paese complesso come l’Unione Sovietica.

Il disegno di Lenin prevedeva molteplici possibilità “asimmetriche” di ingresso nella Federazione: dagli Stati nazionali che conservavano un alto livello di indipendenza (per usare un termine attuale potremmo definirli gli Stati “federati”) alla piena autonomia provinciale e distrettuale. Nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre esistevano nel Paese più di 5000 “regioni nazionali” che permettevano anche a minoranze esigue di conservare la propria

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lingua, i costumi e la cultura. In poche parole, la Federazione di Lenin diede modo a molti popoli di

avviare un percorso di sviluppo nazionale. Molti però ne approfittarono. È ovvio che dietro al progetto si celava il pericolo della disintegrazione e

del separatismo. Il suo successo dipendeva dalla sensatezza e dalla correttezza della politica del Centro dell’Unione. Purtroppo il popolo russo, che aveva riportato perdite incalcolabili nel primo conflitto mondiale e nella guerra civile, e che aveva perso praticamente tutti i quadri e “l’intellighenzia” della classe operaia, permise a Stalin di prendere il potere, attraverso quel partito che aveva iniziato a burocratizzarsi e già si era trasformato nella nomenklatura. Iniziò così l’epoca del “totalitarismo sovietico”. Lo Stato multinazionale si convertì in un violento sistema supercentralizzato. L’elemento nazionalistico diventò una decorazione per le cerimonie ufficiali.

Stalin e i suoi seguaci tracciarono arbitrariamente le frontiere, suddivisero le risorse naturali e ripartirono la produzione basandosi sulla convenienza economica (e neppure sempre!) ignorando tutto il resto. Anche la Russia, in passato, non aveva le stesse frontiere dell’attuale Federazione Russa. Ai confini del Kazakistan furono inseriti territori abitati in prevalenza da russi. Dal punto di vista nazionale la configurazione di Georgia, Abkhazia, Armenia, Azerbaijan e altre repubbliche fu anomala. Furono create repubbliche “doppione”, in certi casi si unirono popoli che non avevano nulla in comune. Qualsiasi questione o pretesa nazionale era considerata da Stalin espressione di antisovietismo e in quanto tale non era neanche presa in esame.

Per essere obiettivi, va detto che già da tempo, nel nostro Paese multinazionale, erano emersi il problema di una ristrutturazione profonda, la necessità di trasformare il sistema unitario in un sistema realmente federativo, l’urgenza di creare una federazione davvero moderna nella quale – come dissi ai Paesi baltici e agli altri che si sarebbero separati – “non avevamo ancora vissuto”. Riconosco che io e i miei colleghi, all’inizio della Perestrojka, non avevamo analizzato questo problema in tutta la sua entità.

I politici che si assunsero la responsabilità di elaborare le riforme possedevano una certa esperienza nella sfera delle relazioni tra le varie nazionalità. Ma questa esperienza fu insufficiente perchè era strettamente legata alle regole di vita del sistema sovietico. Il problema delle nazionalità ci divenne chiaro alla metà del 1987. La glasnost’ e la democratizzazione della società avevano sollevato la “cappa staliniana”.

Il movimento dei tartari di Crimea, nel 1944 trasferiti con la forza negli Urali, in Siberia e nell’Asia centrale, assunse forme ben definite. All’epoca l’operazione si era svolta con estrema crudeltà e aveva causato migliaia di

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vittime. Ora i tartari chiedevano di tornare nei propri territori. L’eco delle loro manifestazioni era giunta sino al Cremlino. Ma la situazione in Crimea era profondamente cambiata nel corso di quasi un quarantennio. La penisola era ora abitata da russi e ucraini. La popolazione era più che raddoppiata rispetto al periodo pre-bellico, e le persone vi si erano radicate.

Le questioni legate alla riabilitazione dei popoli repressi (tartari di Crimea, tedeschi del Volga, balkari, ceceni, karačaj, calmucchi, ingusceti, e altri) necessitavano di un approccio prudente e ben meditato. Senza tener conto della mutata situazione demografica e senza la ricerca del consenso democratico non sarebbe stato possibile risolverle. La Storia, purtroppo, non torna indietro. Nel frattempo, all’inizio del 1988, scattò la molla del Nagorno-Karabach. Sin dal principio pensai che la soluzione migliore fosse che armeni e azeri si riunissero, si accordassero da soli, e a Mosca ne avremmo accettato le decisioni. Ma la situazione si infiammò. Tra il 27 e il 29 febbraio non lontano da Baku, a Sumgait, ebbe luogo una terribile carneficina. Molti armeni, donne e bambini compresi, furono defenestrati e sbudellati. Morirono 30 persone, 197 restarono ferite.

Mandammo l’esercito. Soldati disarmati provarono a far rinsavire gli organizzatori inferociti del pogrom. Molti giovani soldati furono feriti, altri mutilati. Se fossero stati armati sarebbe stato facile immaginare le conseguenze. Numerosi soldati russi svennero alla vista delle atrocità compiute durante il pogrom.

La strage di Sumgait suscitò lo sdegno generale, scosse l’opinione pubblica. Allo stesso tempo nelle repubbliche musulmane si registrarono simpatie per i correligionari. Il rischio fu che la situazione sfociasse in un conflitto religioso.

Mi erano abbastanza chiari i motivi dello scontro. Quanto tempo si erano sopportati e quanto avevano sofferto armeni, persiani e turchi! All’epoca si erano rivolti alla Russia non per amore verso lo zar ma nella speranza di salvarsi. Era possibile forse cancellare dalla loro memoria il genocidio del 1915, quando un milione e mezzo di armeni erano stati massacrati dai turchi e due milioni erano stati costretti a scappare in tutto il mondo?!?

Anche gli azeri e i balkari avevano le proprie radici, che emersero con la glasnost’. Fu significativo che né nel Nagorno-Karabach, né in Azerbaižan, né in Armenia vennero scanditi slogan antisovietici. Nessuno, in quel momento, sollevò la necessità di separarsi dallo Stato sovietico.

Mosca ripeté ancora una volta agli azeri e agli armeni: “Mettetevi d’accordo”. Ma non fu trovata una soluzione, tanto più dopo i fatti di Sumgait. E neanche fu cercata.

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Alla seduta del Politbjuro del 6 giugno affermai in modo categorico: “L’unica cosa su cui non saremo mai d’accordo è appoggiare un popolo a discapito dell’altro. Che ci ricattino pure. Non dobbiamo permettere in alcun modo che si cerchi la verità con lo spargimento di sangue!”.

A un certo punto sembrò che fosse possibile trovare una soluzione: dare al Karabach e al Nachinčevan lo status di repubbliche autonome pur lasciandole nell’Azerbajžan. Ci fu un momento in cui tale eventualità parve attuabile. Ma, in contemporanea, il Consiglio Supremo di Erevan autorizzò la Provincia autonoma del Nagorno-Karabach a far parte dell’Armenia, e ogni possibilità si spense.

Il 1990 iniziò con una nuova recrudescenza delle relazioni armeno-azere, con i pogrom contro gli armeni a Baku, con l’”esodo” da quella città, nella quale per molti anni gli armeni avevano rappresentato una parte significativa della popolazione. A dispetto delle falsificazioni sull’invio delle truppe a Baku in gennaio, voglio ribadire che fummo costretti a proclamare lo stato di emergenza perché la situazione era diventata estremamente pericolosa. Se non avessimo varato tali misure si sarebbe verificata una carneficina dieci volte superiore a quella di Sumgait. Purtroppo ci fu uno spargimento di sangue. Ma bisognava stroncare quel massacro a ogni costo.

Quale situazione si era creata? Avevano luogo pogrom di massa di armeni, dalla repubblica fuggivano migliaia di persone, venivano violate le frontiere dell’URSS, in molte zone il potere era preso con la forza: l’estremismo imperversava. L’attività del Consiglio Superiore era paralizzata, i deputati subivano ricatti. In questa situazione gli incaricati speciali mandati da Mosca (il membro del Consiglio presidenziale Primakov e il Segretario del Comitato Centrale del PCUS Girenko) comunicarono che il Consiglio Supremo della Repubblica non poteva espletare le sue funzioni e che erano necessarie misure estreme da parte del potere centrale per scongiurare una strage ancora maggiore.

Così il 19 gennaio furono pubblicati contemporaneamente l’appello del Comitato Centrale del PCUS, del Presidium del Consiglio Supremo e del Consiglio dei ministri dell’URSS “ai popoli dell’Azerbajžan e dell’Armenia”, e il Decreto del Presidium del Consiglio Supremo sulla proclamazione a Baku dello stato di emergenza.

Le truppe entrarono nella capitale azera nella notte tra il 19 e il 20 gennaio. I guerriglieri del Fronte popolare aprirono il fuoco. I soldati risposero. Morirono 83 persone, tra le quali 14 militari e membri delle loro famiglie. Il 20 gennaio lessi un messaggio in televisione per offrire una valutazione della situazione e spiegare alla nazione l’operato della dirigenza.

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Le vicende e le misure prese furono considerate (e tuttora vengono considerate) con giudizi diversi. Alcuni dissero che avevamo fatto di nuovo tardi e che sarebbe stato necessario proclamare lo stato di emergenza prima. Ma le autorità dell’Unione non potevano, secondo quanto stabilito dalla Costituzione dell’URSS, scavalcare il governo di una repubblica. Il Centro intervenne in modo diretto solo quando fu accertato che i poteri repubblicani erano paralizzati.

Altri ci rimproverarono e ci accusarono per aver introdotto lo stato di emergenza. La lezione che ho tratto da questa storia è che il potere non è in grado di risolvere alcune situazioni estreme senza l’uso della forza. Ma una simile azione deve essere giustificata dall’assoluta necessità e limitata a provvedimenti rigidamente soppesati.

Nel biennio 1987-1988 tentai di elaborare un metodo democratico per risolvere le controversie tra le nazionalità. Il conflitto nel Nagorno-Karabach non aveva fatto passare in secondo piano quei processi - apparentemente più tranquilli nelle forme ma non per questo meno gravi - che si erano rafforzati nei Paesi Baltici, in Moldavia e in Georgia, ed erano sorti in Asia Centrale e in Ucraina. In molte regioni sempre più spesso venivano sollevate questioni sulle lingue nazionali, sulla sovranità economica e sull’allargamento dei diritti.

Nel 1987 nessuno parlò di uscire dall’Unione, a eccezione, forse, degli estremisti più radicali di Estonia, Lettonia e Lituania.

Le repubbliche baltiche godevano di un regime particolare in URSS. In risposta alle richieste avanzate dai loro governi erano stati realizzati ampi progetti di sviluppo industriale. Ma l’impetuosa costruzione di industrie, fabbriche e infrastrutture necessitava di forza lavoro presa dagli altri Stati della Federazione. Ciò generò un sensibile cambiamento nella composizione nazionale della popolazione.

La popolazione di nazionalità estone in Estonia si ridusse al 60%, i lettoni in Lettonia arrivarono a essere meno del 50%. Risuonavano proteste contro lo studio obbligatorio della lingua russa. Si accusavano gli stranieri di non voler imparare l’estone e il lettone. Esisteva realmente un problema a livello di relazioni tra i cittadini. Acuti divennero anche i problemi ecologici legati all’inquinamento del mare, dei fiumi, del terreno e dell’aria.

Di pari passo con le trasformazioni democratiche degli anni della Perestrojka e della glasnost’, nel 1987 i popoli iniziarono a pretendere la riabilitazione della verità storica. In un primo momento era questo l’obiettivo. Poi chiesero di ristabilire la situazione territoriale esistente prima del 1939.

Non cogliemmo subito la gravità dei fenomeni in atto e la nostra reazione fu tardiva.

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In occasione dell’anniversario del patto Ribentropp-Molotov si moltiplicarono le richieste di pubblicare il protocollo segreto allegato all’accordo e di fare verità sulle vittime delle deportazioni di massa.

Ritenevo che i problemi tra le nazionalità potessero essere risolti efficacemente solo in un contesto generale di riforme economiche e politiche. Fu proposta la formula: centro forte - repubbliche potenti. Ma tanti la pensavano al contrario: repubbliche forti – centro potente. Non c’era niente da fare. Il nuovo centro si sarebbe dovuto costruire su una nuova base e con altre funzioni. Le sue competenze sarebbero state la sicurezza, il coordinamento della politica economica, sociale e estera, la protezione delle frontiere e, ovviamente, l’arbitrato durante i conflitti.

la visita di reaGan a Mosca

Dopo la firma dell’Accordo sui missili a corta e media gittata le relazioni con gli Stati Uniti avevano acquistato vigore. Tuttavia le trattative a Ginevra sulle armi strategiche offensive non avevano ancora raggiunto quasi nessun risultato. Questa circostanza inquietava il governo sovietico.

Quando si affrontava il tema delle armi strategiche offensive la discussione si bloccava sui problemi del controllo. Dichiarai che saremmo stati favorevoli a un controllo totale che riguardasse sia la produzione sia l’utilizzo dei missili sulla terra, sul mare, sott’acqua e nell’aria. Eravamo pronti a un maggiore scambio di informazioni.

Questo fu uno dei principali temi del colloquio che ebbi con il Segretario di Stato George Shultz, giunto a Mosca alla fine di febbraio.

Durante l’incontro riprendemmo il discorso sulla stretta relazione tra l’accordo START e il Trattato ABM. Affrontammo anche il problema dell’interdizione delle armi chimiche. Gli proposi di preparare una dichiarazione in merito e di compiere un ulteriore passo avanti: individuare uno stabilimento chimico nei rispettivi Paesi dove sarebbero state messe a punto le procedure di controllo. Shultz accettò, sebbene mi avesse palesato il suo timore di “ricevere uno schiaffo in patria a causa di questa mossa”.

Esaminammo con attenzione i conflitti regionali. Poi dissi al Segretario di Stato:

“Continuate a valutare negativamente il nostro desiderio di collaborare per la soluzione dei problemi più gravi. Forse da voi si continua a pensare che l’URSS è e sarà sempre una potenza con la quale gli Stati Uniti si scontreranno ovunque nel mondo… Ma poiché sia noi che voi siamo dappertutto, ne

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deriva un’altra considerazione: siamo destinati alla ricerca dell’equilibrio degli interessi. Questa è la nostra filosofia”.

Il dialogo si spostò sui problemi mondiali più urgenti.“Non ho la sfera di cristallo per vedere il futuro – disse Shultz. Ma noto

che nel mondo si stanno sviluppando tendenze che necessitano di un nuovo pensiero. E se agiremo nello spirito di questo pensiero vedremo in modo diverso anche i nostri interessi”.

In risposta al ragionamento inatteso conclusi con una citazione biblica: “C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli. È giunto il tempo di raccoglierli”.

Shultz era ben disposto. Tuttavia non fu difficile notare che non aveva libertà di azione. A maggio mi divenne chiaro che non saremmo riusciti a firmare l’accordo sulle armi strategiche offensive. Ma avevamo raggiunto un’intesa sulla ratificazione dell’accordo sui missili a media e corta gittata prima della visita di Reagan. Il senato degli USA aveva approvato la proposta il 27 maggio. Il Consiglio Supremo dell’URSS il 28 maggio.

Il 29 maggio giunse a Mosca il presidente americano (erano trascorsi 14 anni dall’ultima visita di un presidente statunitense nell’URSS). L’importanza del primo colloquio non dipese tanto dai contenuti, quanto dall’atmosfera, dal mutuo desiderio di dare alle conversazione un carattere confidenziale. Proposi che uno degli obiettivi dell’incontro fosse la dichiarazione che nessuna questione controversa si sarebbe dovuta risolvere per via militare, che noi ritenevamo la coesistenza pacifica come il principio universale delle relazioni internazionali. Affrontammo anche il tema dei diritti dell’uomo e della lista di nomi che Reagan ci chiedeva di “lasciare andare” all’estero.

I colloqui ufficiali si aprirono il 30 maggio. Tema principale il disarmo. Al centro delle conversazioni fu posta la questione dei missili da crociera con piattaforma marina (SLCM) 16 . Gli americani tentavano con tutte le forze di escludere questi missili dall’accordo START. Non eravamo in nessun modo d’accordo. Dichiarai con fermezza che, come per le armi strategiche offensive, era necessario ridurre del 50% anche i missili da crociera con piattaforma marina. In caso contrario sarebbero rimaste aperte le possibilità di proseguire la corsa agli armamenti…

Reagan ribadì che secondo gli americani il tema della riduzione delle armi strategiche offensive avrebbe potuto essere unito all’accordo per la fissazione di un determinato periodo di adesione al Trattato ABM.

16 Acronimo dell’espressione inglese “Sea-Launched Cruise Missile”.

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Al contempo sottolineò che gli USA non avrebbero approvato un periodo determinato di adesione al Trattato ABM fino a che l’URSS non avesse cessato di violare tale accordo.

“E quindi, a che serve il SDI? – Chiesi io. Quali missili eliminerà questo sistema, se l’arma atomica verrà abolita?”.

“ Sarà creato per ogni evenienza” - rispose Reagan.“Gli uomini continueranno a conoscere la tecnica di creazione dell’arma

atomica. Qualche pazzo potrebbe sempre saltar fuori e sfruttarne i segreti. Di tanto in tanto simili figure appaiono nel corso della storia. Pensi a Hitler…”

Gesticolando il presidente rovesciò un bicchiere d’acqua e si scusò.“Non è successo niente, signor Presidente – gli feci notare. Essere

imprudenti con un bicchier d’acqua non è niente di grave. Differente sarebbe con un missile…”.

Ci mettemmo a ridere. Grazie all’imprevisto la discussione, che era diventata inutilmente “incandescente”, si rasserenò.

“Riteniamo – dissi – che il SDI non sia solo un programma difensivo, ma anche l’avvio per la creazione di un’arma spaziale in grado di portar danni alla Terra… Si sottovaluta il significato delle trattative per la riduzione degli armamenti strategici offensivi. Mi sorge un dubbio: possiamo davvero collaborare?”.

In risposta Reagan mi propose di osservare il lavoro fatto in ambito SDI e di partecipare agli esperimenti. Lasciai intendere che la proposta non era seria perché i servizi segreti non lo avrebbero permesso.

Per ciò che concerneva le armi convenzionali, suggerii di concludere l’analisi del tema delle trattative e di passare alla fase operativa. Il lavoro si sarebbe svolto in tre tappe. Nella prima si sarebbero identificati e liquidati gli squilibri e le asimmetrie… Nella seconda le parti avrebbero ridotto gli eserciti di circa 500 mila uomini. Nella terza sarebbe stato dato un carattere puramente difensivo alle forze armate dei due Paesi… Ecco qual era la nostra logica.

Shultz intervenne e propose che l’URSS e gli USA concordassero questo aspetto con i rispettivi alleati. Fu un’approvazione indiretta delle mie idee.

La mattina del 31 maggio ci incontrammo di nuovo a quattr’occhi. Su richiesta di Reagan gli raccontai con dovizia di particolari come stava andando la Perestrojka. Circa la collaborazione bilaterale lo invitai a rimuovere insieme le rovine del passato. Dio stesso ci aveva spinto a cooperare. La dipendenza dell’uno dall’altro garantiva anche la prevedibilità nella politica di entrambi i partner.

Reagan promise di fare ciò che era in suo potere e aggiunse che a volte

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pregava affinché Bush diventasse il futuro successore, dal momento che quest’ultimo condivideva i tentativi di rendere più costruttivi i rapporti con l’URSS.

Passeggiammo per il Cremlino. Mentre i visitatori lo salutavano qualcuno urlò: “Signor presidente, continuate a credere che l’Unione Sovietica sia ‘l’impero del male’?” Reagan rispose: “No!”. Credo che tale affermazione possa ascriversi ai principali risultati raggiunti durante la visita.

A Mosca furono siglati numerosi documenti: L’Accordo sulla realizzazione di un esperimento comune di controllo, l’Intesa sulla notifica della messa in moto dei missili balistici intercontinentali e dei missili balistici sottomarini, il Programma di collaborazione e di scambi per gli anni 1989-1990 dove, in particolare, si prevedeva di far studiare rispettivamente 1000 giovani sovietici all’anno in 100 istituti americani e altrettanti americani in 100 istituti sovietici.

Il 1° giugno al Cremlino, nella sala di San Vladimir, ebbe luogo la cerimonia per la firma dell’entrata in vigore dell’Accordo sovietico-americano sui missili a media e corta gittata. Alle 11.45 io e Reagan firmammo i documenti. Si era compiuto un atto che poteva essere definito in pieno come la conferma del trionfo della ragione. Le basi erano poste. Ma eravamo solo all’inizio.

“Il nostro dialogo non è stato semplice” - dissi - congedandomi da Reagan. “Per fortuna abbiamo conservato il realismo e la volontà politica di uscire da un percorso pericoloso. Abbiamo posto il treno delle relazioni sovietico-americane su un binario più sicuro”.

Gli esiti della visita furono esaminati al Politbjuro. L’incontro fu definito come il punto di arrivo di quel processo che da alcuni anni era in corso nella dirigenza americana: l’URSS non era più considerata come un Paese con il quale era possibile parlare solo con la lingua dello scontro.

l’intervento all’onuA volte avevo l’impressione che all’estero comprendessero il senso della

Perestrojka più che da noi. Mi correggevo sempre, rimproverandomi di essere ingiusto nei confronti dei connazionali. In tutti i miei viaggi nel Paese, infatti, la maggior parte dei cittadini si dichiarava a favore delle riforme. Il loro scontento e la loro apatia non ben definita provenivano dall’insoddisfazione per l’assenza di trasformazioni serie. Proprio da questa congiuntura interna sfavorevole acquistò autorevolezza la politica estera del nuovo pensiero.

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Avevo in agenda un intervento all’Assemblea generale dell’ONU. Iniziai a rifletterci sin dall’estate e affidai gli incarichi relativi ai ministeri e ai collaboratori. Prima del viaggio ebbi due incontri che si rivelarono importanti per l’evoluzione dello scenario europeo.

Nell’ottobre del 1988 giunse a Mosca il presidente del Consiglio dei Ministri italiano De Mita. Dal primo momento ebbi la percezione che avessimo la stessa lunghezza d’onda. Dopo avergli spiegato i problemi della Perestrojka e il nostro approccio alla politica estera, avanzai l’idea di organizzare uno scambio di opinioni tra dirigenti europei al più alto livello, al fine di rilanciare il processo europeo. De Mita apprezzò l’idea. Anche i ministri degli Esteri Andreotti e Ševarnadze si dissero d’accordo.

Nel novembre del 1988 visitò l’URSS il presidente francese Mitterrand, che aveva appena riportato una nuova vittoria alle elezioni presidenziali. Alla vigilia del viaggio aveva rilasciato un’intervista alla “Pravda”, dalla quale emergeva che non c’era da aspettarsi cambiamenti radicali nelle posizioni della Francia sulle questioni del disarmo. I colloqui confermarono l’ orientamento.

Il 31 ottobre convocai Ševarnadze, Jakovlev, Černaev, Dobrynin, e Falin. Chiesi loro: “Con quali proposte andiamo all’ONU?” – e iniziai a riflettere ad alta voce.

Che cosa era avvenuto in tre anni nella testa dei popoli, dei politici, dei militari? Come erano cambiati? E come si era trasformato il mondo?

Queste erano le idee principali sulle quali fondare la nuova dottrina militare e politica. E in tal senso eravamo intenzionati a compiere passi unilaterali a favore del disarmo. Furono d’accordo con me: il nostro prossimo piano quinquennale avrebbe riguardato il disarmo.

Avevo intenzione di dedicare una parte dell’intervento al tema dell’ONU come strumento di pace. Ritenevo possibile proporre un insieme di principi direttivi per lo svolgimento della sua attività nella nuova situazione, e ragionare sul significato di “demilitarizzazione del pensiero” nella società mondiale, di “umanizzazione” delle relazioni internazionali.

Alla fine riuscimmo a elaborare idee e proposte concrete. Lavorammo a lungo per stabilire le misure unilaterali da adottare per ridurre le forze armate

Solo dopo una attenta riflessione passammo alla redazione del testo vero e proprio. La stesura continuò anche in aereo, mentre volavamo alla volta di New York.

Che cosa mi sembrò fondamentale in quel discorso? Nel testo c’erano numerose proposte pensate per migliorare la situazione internazionale; si esponeva la nostra decisione di ridurre nei due anni successivi le forze armate

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dell’URSS di 500 mila unità e, di conseguenza, gli armamenti convenzionali; si rendeva noto l’accordo raggiunto con i nostri alleati del Patto di Varsavia per il ritiro e lo scioglimento entro il 1991 di sei divisioni di carri armati dalla RDT, dalla Cecoslovacchia e dall’Ungheria. L’aspetto principale fu che mi sforzai di dimostrare alla comunità internazionale che stavamo entrando in un periodo della storia nel quale i vecchi criteri delle relazioni tra gli Stati, fondati sui rapporti di forza, avrebbero dovuto cedere il passo allo sviluppo comune e alla cooperazione reciproca.

Trattai diffusamente il concetto di interrelazione e di interdipendenza nel mondo contemporaneo. Un tema sostanzialmente nuovo, perché questo concetto non era stato utilizzato per favorire davvero l’interazione tra i due sistemi – il socialismo e il capitalismo – senza una valutazione preconcetta e unilaterale del nostro ruolo.

Per riassumere in breve il contenuto del discorso credo che basti ricordare alcuni dei principi universali enunciati.

- Tutte le nazioni, soprattutto le più potenti, dovevano in primo luogo autolimitarsi ed escludere l’impiego della forza all’esterno.

- Il principio della libertà di scelta era la condizione necessaria alla realizzazione delle numerose varianti di sviluppo di un Paese.

- Bisognava deideologizzare le relazioni internazionali.- Andavano cercati tutti i percorsi per affermare il primato dei

valori comuni a tutti gli uomini rispetto alle idee centrifughe e alle motivazioni egoistiche, pur se legali.

- Di fronte all’ONU si aprivano nuovi orizzonti in ogni settore, in particolare nella sfera dello sviluppo. Le condizioni di vita di centinaia di milioni di uomini nel “terzo mondo” erano diventate molto pericolose. Una situazione preoccupante si era creata in ambito ecologico. Nessuna comunità regionale di Stati era in grado di risolvere i problemi sorti nei principali contesti delle relazioni economiche mondiali: Nord-Sud, Oriente-Occidente, Sud-Sud, Sud-Oriente, Oriente-Oriente. Erano indispensabili sforzi comuni, e solo l’ONU era l’organizzazione in grado di coordinare tutti i Paesi.

- Circa il diritto internazionale, partivo dalla convinzione che dovessimo puntare a realizzare una comunità internazionale di Stati che subordinassero la propria attività di politica estera solo al diritto. Un accordo in ambito ONU sul recepimento uniforme delle norme del diritto internazionale, sulla loro codificazione, e l’elaborazione di misure per trovare nuove sfere di collaborazione avrebbero favorito tale finalità.

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- L’efficienza del diritto internazionale nel nostro secolo non doveva basarsi sulla coercizione, ma sulle norme che riflettevano l’equilibrio degli interessi degli Stati. I rapporti interstatali avrebbero rispecchiato gli autentici interessi dei popoli solo quando al centro di tutto fosse posto l’Uomo, con le sue preoccupazioni, i suoi diritti e le libertà.

Tuttora continuo a pensare che siano principi fondamentali. Arrivò il 7 dicembre 1988. Il mio intervento suscitò insolitamente calorosi

applausi. Non era solo un tributo di gentilezza. “The New York Times” scrisse in un editoriale:

“Forse da quando Woodrow Wilson proclamò i suoi 14 punti nel 1918, o da quando Franklin Roosvelt e Winston Churchill nel 1941 proposero la Carta atlantica, nessun altro leader mondiale aveva dimostrato di avere una visione del mondo come quella espressaieri da Michail Gorbaciov all’ONU. Come le personalità citate, il dirigente sovietico ha invitato a una profonda ricostruzione strutturale della politica internazionale – in nome del potere della legge e non della forza, di un approccio multilaterale e non unilaterale sia alle libertà economiche che a quelle politiche”.

Sul “Washington Post” Kaiser pubblicò un commento: “In uno dei più importanti discorsi pronunciati in tanti anni all’ONU, Michail Gorbaciov oggi ha proposto di cambiare le regole con le quali il mondo ha vissuto per quattro decenni, ha chiamato il mondo a trasformare le spade in vomeri, dopo aver proclamato che l’utilizzo o la minaccia della forza non possono più essere lo strumento della politica estera. Il coraggio dell’intervento di oggi è sorprendente”.

la riforMa Politica. le elezioni del conGresso

dei dePutati PoPolari

Il 1989 è entrato nella storia come l’anno della Perestrojka. Se si vuole tentare di caratterizzare il senso della riforma politica è possibile affermare che fu il trasferimento del potere dalle mani del partito comunista, che gestiva la politica in modo monopolistico, a quelle di coloro ai quali la politica apparteneva secondo la Costituzione, i Soviet. Fu un’operazione politica diabolica, complicata, particolarmente pesante – potremmo dire dall’esito

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mortale “- per gli ambienti della nomenklatura del partito.Vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulla situazione, poiché proprio

questa divenne argomento di frequente e feroce critica al mio indirizzo. Mi hanno spesso rimproverato di essere rimasto nel profondo dell’anima un “partitocrate” e di non avere dismesso l’affetto per quelle persone della nomenklatura con le quali avevo trascorso lunghi anni. In realtà non fu così. I cambiamenti dei quadri in molti casi non furono abbastanza rapidi perché tentai di evitare “l’ammutinamento” che avrebbe potuto causare il naufragio della Perestrojka.

Forse questa circostanza fu chiaramente visibile nell’episodio della cosiddetta “sotnja” di partito. Ieri come oggi sono convinto della mia correttezza quando ho presentato 100 candidati per 100 posti del PCUS. Non era pensabile permettere che si verificassero ballottaggi tra i membri della vecchia dirigenza del partito.

Con il livello di cultura politica e di strapotere che avevano i quadri della nomenklatura, molti sostenitori della Perestrojka, soprattutto dalle file dell’intellighenzia scientifica e creativa, avrebbero avuto poche chanche di venire eletti al Congresso dei deputati del popolo. La nuova tornata elettorale minacciava di creare un parlamento arretrato rispetto alla società, freno e non motore delle riforme. La rappresentanza diretta delle organizzazioni della società civile consentì di introdurre in parlamento un gruppo ristretto, ma fondamentale per la costruzione del futuro, di attivisti democratici provenienti dai sindacati, dal komsomol, ecc.

Nel 1989 ebbero luogo le prime elezioni libere e regolari in mille anni di storia russa. Limitati brogli locali non vanno presi in considerazione. Per la prima volta avevamo dato il diritto alle organizzazioni non governative (komsomol, sindacati, cooperative) di presentare i propri candidati: il pluralismo, insomma, fu introdotto nel sistema sin dall’inizio. Volevamo ridar vita al sistema. Anche i Soviet avrebbero potuto continuare a esistere.

Lo svolgimento della campagna elettorale dimostrò che ci trovavamo in una situazione mai sperimentata e insolita. Ebbe luogo una dura battaglia per la conquista dei mass media e, in particolare, degli spazi televisivi. Si accese una polemica pungente, a volte oltre i limiti della decenza, sulla stampa e durante gli incontri con gli elettori. Furono tirati fuori numerosi episodi compromettenti e sconosciuti prima di allora. Per alcuni membri della dirigenza tutto ciò era motivo di irritazione, angoscia e persino panico. Io, invece, mi rallegravo del fatto che eravamo riusciti a svegliare la società. Era l’obiettivo che avevamo fissato nei primi anni della Perestrojka: avvicinare il popolo alla politica. Le libere elezioni fecero emergere molte nuove personalità

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interessanti, ci chiarirono le posizioni dei vari strati sociali, delle quali, come si palesò, avevamo una comprensione approssimativa a causa dell’influenza dell’ideologia dogmatica.

Paradossale fu che, malgrado l’85% dei deputati eletti fossero membri del PCUS (quasi la metà di quelli del vecchio Consiglio Supremo), i vertici di potere accolsero i risultati dell’urna come una disfatta per il partito.

Il 28 marzo, quando si chiusero le votazioni, convocammo la seduta del Politbjuro. L’umore generale era di avvilimento. Ritenni le elezioni come il passo più significativo nella realizzazione della riforma politica. Attraverso il voto la società era approdata a una nuova fase, era stata colmata la distanza tra le norme costituzionali e la pratica politica. Il potere aveva acquisito legittimità a tutti gli effetti.

All’epoca ritenevo che la situazione nel partito non fosse senza speranza. Credevo che esistessero sia le possibilità sia il tempo per superare il crollo dovuto al distacco dal monopolio del potere. Il sostegno del popolo andava raggiunto non più con riferimento alla Rivoluzione d’Ottobre e alla Guerra Patriottica, ma con una politica efficace che garantisse la democrazia e un alto livello della qualità della vita. Credevo ancora, insomma, che il PCUS potesse trasformarsi.

Fino al 1989 nel nostro Paese non esistevano gruppi organizzati di opposizione alla Perestrojka. Dopo le elezioni di marzo, invece, il Politbjuro cessò di obbedire, peraltro pubblicamente: non era mai successo negli anni della mia dirigenza e neanche sotto i Segretari generali miei predecessori. Volevo iniziare la seduta e i membri del Politbjuro non smettevano di agitarsi: erano scossi dai risultati delle urne. Per la prima volta percepii un vero “stridore di denti”.

Dopo le prime libere elezioni, insomma, gli sconfitti iniziarono a coalizzarsi. Il PCUS, in generale, non aveva retto la prova della democrazia, della libertà e della trasparenza. E si sollevò – in maniera sempre più manifesta e violenta – contro la Perestrojka.

Le elezioni mostrarono “per chi era suonata la campana”. Svelarono che l’autorità del PCUS era crollata non appena le persone avevano smesso di temerlo.

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la visita a londra

All’inizio di aprile giunsi in visita a Londra. La mattina del 6, di fronte alla residenza del primo ministro a Downing Street 10, si erano raccolti circa 300 giornalisti. Insieme alla Thatcher salimmo nel suo ufficio.

Mi propose di mettere all’ordine del giorno le relazioni Est-Ovest, il controllo degli armamenti, i problemi regionali e i rapporti anglo-sovietici. Prima di tutto, però, mi chiese di raccontarle come stesse avanzando la Perestrojka, sottolineando che questo tema la preoccupava molto. Gliene parlai in modo dettagliato. In risposta mi disse che l’Occidente plaudeva alla Perestrojka.

La Thatcher affermò con sincerità:“Avevo previsto che adesso vi sareste trovati nel momento di maggiore

difficoltà. La cosa più complicata è cambiare il rapporto delle persone con il lavoro e con se stesse, stimolarle a partecipare alle trasformazioni economiche. Una cosa è ordinare agli uomini cosa devono fare e dove lavorare, altra è ottenere che lavorino da soli in modo corretto. Il vecchio ordine si spezza e non si sa cosa aspettarsi...”

Dalle sue parole si percepiva che temeva che l’opposizione avrebbe posto ostacoli insormontabili al processo di riforme. Inoltre identificava un altro pericolo nella eccessiva fretta delle trasformazioni. Per questo mi spiegò quanti anni fossero occorsi all’Inghilterra per costruire il sistema attuale e come fosse importante per un dirigente essere risoluto e cauto allo stesso tempo.

Durante il colloquio avemmo buoni motivi per sottolineare i risultati positivi del lavoro comune: lo spirito di collaborazione all’ONU, l’accordo sull’indipendenza della Namibia, l’armistizio tra Iraq e Iran, i passi in avanti nella soluzione del conflitto mediorientale.

Partecipammo alla cerimonia della firma di numerosi documenti d’intesa da parte dei nostri ministri degli Esteri. Alla fine rilasciammo delle dichiarazioni ai giornalisti. La Thatcher disse che i colloqui erano stati efficaci, approfonditi e improntati a cordialità. Io sottolineai che il dialogo con la Gran Bretagna si distingueva per la crescente comprensione reciproca.

Il programma della visita prevedeva un mio intervento al municipio di London City, la Guildhall. Focalizzai la relazione sul momento cruciale che stavamo attraversando.

“La comunità mondiale – dissi - è giunta a un bivio. Abbiamo di fronte la politica della forza ereditata dal passato e una nuova politica, in via di formazione, che mette al centro la priorità degli interessi comuni a tutta

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l’umanità. Sulle spalle dei responsabili della politica pesa il giogo di una scelta responsabile. Ci si è presentata la concreta possibilità di mettere fine all’ultimo atto della storia del dopoguerra e di avviarci verso una nuova epoca di pace. Vogliamo una dottrina del containment che non domi il mondo con l’ausilio dell’arma nucleare, ma che domi l’arma nucleare stessa”.

Dalla Guildhall ci recammo nella residenza di campagna della regina, il castello di Windsor. Ci accolsero Elisabetta II, il marito Filippo, duca di Edimburgo, e il principe di Galles. La regina ci accompagnò per le sale del castello e ci mostrò le bellezze del complesso. Conversammo piacevolmente. La invitai in Russia.

Incontrai di nuovo Margaret Thatcher nel settembre dello stesso anno. Aveva sostato a Mosca di ritorno dal Giappone. Volle conoscere il nostro punto di vista sulla situazione del Paese. Glielo esposi con dovizia di particolari, e poi passammo a parlare dell’Europa Orientale. Convenimmo di organizzare un nuovo giro di consultazioni tra gli esperti dei due Paesi sui problemi legati alla liquidazione delle armi chimiche.

“Affronteremo come al solito le questioni nucleari? – chiesi. Credo che sia indispensabile, altrimenti non ci capiranno. Come è possibile che si siano incontrati Gorbaciov e Thatcher e non abbiano neanche discusso un po’ su questo tema…”.

Mi lasciai andare alla battuta ironica perché non mi aspettavo che l’interlocutrice avesse cambiato idea. E infatti con tono fermo dichiarò che non avrebbe potuto approvare l’eliminazione delle armi nucleari tattiche.

La Thatcher tornò a Mosca nel giugno del 1990. Ero rientrato da pochi giorni da un viaggio negli Stati Uniti. La prima cosa fu complimentarsi per il “successo straordinario dell’incontro” con Bush. La conversazione fu interamente dedicata alla questione tedesca. La sua posizione mi rincuorò, avvalorò la mia certezza che fosse possibile trovare una soluzione accettabile per tutti.

Ebbi l’ultimo colloquio con la Thatcher durante il suo premierato a Parigi, il 20 novembre, durante la conferenza paneuropea. Parlammo a lungo della situazione nel Golfo Persico. Rispondendo a una mia domanda riconobbe che non credeva in una soluzione politica e che riteneva inevitabile l’uso della forza militare. Addirittura si lamentò che gli americani “agivano con troppa cautela”.

Come sempre ci soffermammo sulla situazione in Unione Sovietica. La Thatcher non nascondeva l’apprensione. Al momento dei saluti, sui gradini della mia residenza, disse a bassa voce: “Che il Signore la benedica!”.

Tornata da Parigi si rimise alle decisioni del suo partito e diede le

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dimissioni. Fu un gesto nobile. Alla fine di novembre mi scrisse una lettera di commiato.

“Stimato signor Presidente! Vorrei ringraziarla per la magnifica collaborazione che si è instaurata tra noi e per la profonda amicizia che mi ha manifestato durante il periodo in cui abbiamo ricoperto i nostri rispettivi incarichi. Abbiamo raggiunto molti traguardi. Le mando i più fervidi e calorosi auguri per il futuro. Le auguro anche di realizzare con successo le grandi riforme che ha avviato”.

Le risposi con una lettera informale e subito ricevetti una seconda missiva:

“Caro Michail Sergeevič. Credo che insieme abbiamo dato un importante contributo al cambiamento del nostro mondo. Il suo apporto è stato davvero notevole. Come lei, anch’io confido in un nuovo incontro”.

Margaret Thatcher aveva dimostrato un grande talento politico mentre ricopriva la carica di primo ministro. Aveva trovato un Paese in condizioni di estrema arretratezza rispetto alle altre potenze occidentali ed era riuscita a cambiarne la situazione, in patria e all’estero. I metodi ferrei, però, oltre l’opposizione irritavano anche l’entourage. Avevo l’impressione che con lei potesse lavorare solo chi fosse pronto a sopportare supinamente il suo stile e il suo carattere. Il tratto autoritario emergeva anche nella politica estera e nella propensione alle misure forti.

La dimensione nazionale le stava “stretta”. Per affermare il proprio ruolo nell’arena mondiale fece interventi utili a sostegno della Perestrojka, ovviamente intendendola a modo suo, come una variante sovietica del “Thatcherismo”. Sono convinto che ci volesse aiutare in modo sincero, mobilizzando le forze dell’Occidente per favorirla.

La Thatcher fu per noi un partner complesso, soprattutto se ne consideriamo l’anticomunismo che a volte le impediva di valutare con realismo le situazioni. In molti casi, tuttavia, illustrò le sue posizioni con argomentazioni che in seguito noi stessi fummo costretti a rivalutare.

autoliquidazione della coMunità deGli stati socialisti

Contemporaneamente alla rinascita nazionale in Unione Sovietica si accelerò il processo di disintegrazione dei nostri alleati nell’Europa centro-

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orientale. Una conseguenza naturale della nuova situazione internazionale generata dalla fine della Guerra fredda.

Ho esposto più volte il mio punto di vista sulle cosiddette “rivoluzioni di velluto”. È noto a tutti. In questa sede mi permetto solo di riprenderne alcuni passaggi.

Quando i dirigenti dei Paesi alleati si resero conto che il percorso sovietico di riforme sarebbe stato “serio e duraturo” iniziarono a guardare assai negativamente alla democratizzazione e alla glasnost’. La diffusione di tale processo, infatti, avrebbe causato la fine di quei sistemi che essi stessi personificavano. Non si sarebbe più potuto fare affidamento sui carri armati sovietici. Messi faccia a faccia con i loro popoli avrebbero dovuto dimostrare democraticamente il diritto a rimanere al timone del governo, oppure andarsene.

Iniziamo (con un salto in avanti) dalla Polonia, e in particolare da Katyń, che sino a oggi resta una macchia indelebile nelle relazioni tra i due popoli e continua a generare le congetture e i sospetti più disparati.

Il 13 aprile 1990 ebbi un lungo colloquio al Cremlino con il Wojciech Jaruzelski. “In questo periodo vengo aspramente e ingiustamente criticato” - mi disse Jaruzelski. Il generale considerava i rimproveri immeritati al pari di un tradimento. Ma conservava la dignità e non si lamentava. Poi sollevò un altro tema. “È in corso un fenomeno molto interessante – disse. I sondaggi rilevano un alto tasso di simpatia nei confronti della dirigenza sovietica. Nel 1987 avevano dichiarato di nutrire apprezzamento per Gorbaciov il 76% degli intervistati, nel 1988 il 79,6%, nel febbraio di quest’anno il 78,8%. Al contrario, le percentuali degli scontenti sono rispettivamente 6,2%, 5,2% e 4,9%. Va osservato, peraltro, che gli umori antisovietici si sono diffusi con insistenza con l’avvicinarsi dell’anniversario della tragedia di Katyń”.

Promisi di trasmettergli i materiali su Katyń. I documenti reperiti dimostravano la responsabilità diretta di Berija, Merkulov e altri collaboratori nella strage. Fu pubblicata una dichiarazione speciale della TASS17 . A Jaruzelski furono date le liste dei caduti nei campi dell’NKVD 18 di Kozel’skij, Ostaškovskij e Starobel’skij nel biennio 1939-1940.

Rendemmo noto il documento sugli effettivi colpevoli della tragedia di Katyń solo nel dicembre del 1991, prima della fine del mio mandato presidenziale. Fui informato dell’esistenza di una cartella di documenti su Katyń, conservata presso l’archivio particolare del Comitato centrale, dal

17 La TASS (Agenzia telegrafica dell’Unione Sovietica) era l’agenzia di stampa ufficiale dell’Unione Sovietica. 18 L’NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) era il ministero sovietico che nel 1934 assorbì le competenze

della polizia politica

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direttore dell’apparato presidenziale. All’interno vi era un appunto di Berija con la proposta di fucilare i polacchi internati. In alto, scritto con la matita blu di Stalin, si leggeva: “Risoluzione del Politbjuro”, e di seguito le firme: “A favore: Stalin, Molotov, Vorošilov, …”. La lettura di quel foglio diabolico mi tolse il respiro. Misi la cartella nella cassaforte e la tirai fuori durante un colloquio con El’zin, alla firma di un accordo per il trasferimento dell’archivio particolare del Comitato Centrale. Decidemmo di consegnarlo ai polacchi.

“Questa – dissi - è ora la tua missione, Boris Nikolaevič”. Tuttavia solo nel 1992, durante il processo al PCUS presso la Corte

Costituzionale, la squadra presidenziale di punto in bianco ritenne “opportuno” mostrare il documento su Katyń alla corte e trasmetterne una copia ai polacchi, aggiungendo che il documento era stato occultato da Gorbaciov. Così il tragico dramma delle relazioni sovietico-polacche fu utilizzato per gettare fango su di me.

Dalla primavera del 1990 in Polonia si accesero nuovi scontri politici, provocati dal diffuso e crescente malcontento per la politica economica del governo. Si invocarono le dimissioni del presidente. Anche in quella situazione Jaruzelski si distinse per la lungimiranza strategica, poiché propose al parlamento di convocare le elezioni presidenziali anticipate. Le elezioni si svolsero nel novembre del 1990 e come era facile attendersi le vinse il leader di “Solidarność”.

Allora e in seguito, durante i colloqui con i dirigenti polacchi, ho sempre sottolineato la profonda stima per Jaruzelski come uomo e come politico. Anche oggi penso che la Polonia debba essergli riconoscente perché riuscì a trasformare la società in modo non traumatico, pacificamente e senza spargimenti di sangue. Più di una volta ho parlato di Jaruzelski con Giovanni Paolo II. Il Papa aveva un’alta considerazione del generale. Sono fiero dell’amicizia con Jaruzelski. Un uomo che si è sempre mostrato degno di questo nome.

Il secondo aspetto che vorrei affrontare parlando dello sfaldamento della collaborazione tra i Paesi socialisti è l’unificazione tedesca. Tema molto delicato non tanto perché riguardava il più importante anello del Patto di Varsavia e del COMECON, oltre che il principale partner economico dell’URSS in Europa Occidentale (la RFT), quanto per la sua centralità nell’agenda politica europea e internazionale.

Erich Honecker partiva dal presupposto che sotto la sua guida la RDT aveva raggiunto traguardi significativi ed era entrata nel club dei dieci Paesi più avanzati. Sebbene, come risultò in seguito, fosse una esagerazione, i successi dei cittadini della RDT, che erano riusciti a garantirsi un tenore di

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vita più elevato degli altri Paesi socialisti, parlavano chiaro. Forse sulla base di tali successi Honecker iniziò a cambiare anche dal punto di vista psicologico: perse la capacità di valutare adeguatamente le trasformazioni nel mondo e nella stessa RDT, e iniziò a manifestare in modo smisurato il suo ego.

Ci incontravamo abbastanza di frequente. L’argomento principale dei nostri colloqui era come rendere più dinamica la nostra collaborazione.

Le divergenze emersero nel 1987 dopo il plenum di gennaio del Comitato Centrale del PCUS. Honecker aveva disposto di non pubblicare i materiali dell’assise. Il numero della “Pravda” con il mio intervento veniva venduto al mercato nero a prezzi altissimi. Le comunicazioni dall’URSS cominciarono a essere censurate. Poi fu vietata la diffusione di alcune testate moscovite. Insomma, l’incomprensione reciproca crebbe sino all’isolamento.

Alla fine del maggio 1987 andai a Berlino. In occasione del 750° anniversario di Berlino la dirigenza del SED19 aveva allestito una mostra assai pretenziosa sulle realizzazioni della RDT nella sfera dell’alta tecnologia. Come ci dissero gli stessi tedeschi, fu la loro risposta alla nostra Perestrojka. Del tipo: “Da voi vi occupate della democrazia, noi pensiamo al progresso tecnologico”.

Al fine di rendere convincenti le critiche alla Perestrojka, la dirigenza setacciava i miei interventi alla ricerca di “deviazioni dal marxismo-leninismo”. I risultati venivano sottoposti a Honecker in persona e spediti a destinatari ben precisi. L’astio verso la Perestrojka riavvicinò Honecker, Živkov e Ceauşescu.

La situazione nella RDT, al confine con la potente Germania Federale, era assai complessa. Ne eravamo consapevoli e non avevamo intenzione di costringere i vertici a imitare la nostra Perestrojka.

I mass media della RFT sfruttarono abilmente i tentativi di privare i cittadini della RDT di una corretta informazione sull’Unione Sovietica. Di conseguenza tra i tedeschi orientali, oltre che verso la propaganda, crebbe la sfiducia nei confronti della dirigenza del Paese.

Nonostante tutto l’URSS non diminuì gli sforzi per allargare la collaborazione. In tale contesto fu approvata la mia partecipazione alle solenni cerimonie del quarantesimo anniversario della RDT.

È difficile immaginare come si sarebbero evoluti gli avvenimenti se Honecker avesse proposto un percorso di riforme nel suo intervento in occasione dei 40 anni della Repubblica. Forse era già troppo tardi per cambiare qualcosa, ma la società era in attesa. Honecker perse l’occasione per l’ennesima volta. Il malcontento verso il regime sfociò in enormi manifestazioni di

19 Il SED (Partito Socialista Unificato di Germania) fu il partito costituzionalmente egemonico della Repubblica Demo-cratica Tedesca

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piazza. Fui spettatore diretto di una fiaccolata a Unter den Linden. Accanto alle tribune dove sedevano i dirigenti della RDT e gli ospiti stranieri sfilarono colonne di rappresentanti da tutti i distretti della Repubblica. Uno spettacolo impressionante. Orchestre, tamburi, fasci di luce, fiaccole e, soprattutto, decine di migliaia di giovani. I partecipanti alla marcia, come mi fu spiegato, erano stati selezionati con cura. Attivisti dell’Unione della libera gioventù tedesca, giovani membri del SED e di altri partiti vicini. Gli slogan più ripetuti erano “Perestrojka!” e “Gorbaciov aiutaci!”. Mi si avvicinò un polacco e mi disse: “Michail Sergeevič, lei non conosce il tedesco ma io sì, capisco quello che stanno gridando”. E mi tradusse: “Gorbaciov, salvaci un’altra volta!”.

Avvertii che le cose non andavano per il verso giusto appena ci muovemmo dall’aeroporto di Schenefeld. Lungo tutto il percorso migliaia e migliaia di giovani, assiepati sui bordi della strada, gridarono solo “Gorbaciov! Gorbaciov!” nonostante mi fosse accanto anche Honecker. Nessuno lo tenne in considerazione, nemmeno quando passammo per lo stretto corridoio del Palazzo della Repubblica. Il motto “Gorbaciov salvaci un’altra volta!” lo sentii scandire anche al Treptower Park, dove molte studentesse mi diedero fiori e biglietti di auguri. In quell’occasione si erano raccolte migliaia di ragazzi e ragazze. Prima di lasciare Berlino ebbi un colloquio con i vertici della RDT. “Chi ritarda in politica viene punito severamente dalla vita” - dichiarai. E conclusi: “La realtà esige anche da voi scelte coraggiose”.

Ripartii dalla Germania con sentimenti confusi. L’immagine dell’enorme fiume umano di migliaia di giovani tedeschi, energici, affabili e in attesa di cambiamenti, mi era rimasta impressa e mi dava speranza. Ma c’era dell’altro. Nella memoria restavano anche i volti diffidenti dei dirigenti del SED. Honecker non ci accompagnò nemmeno all’aeroporto.

La mia stima per Honecker, così come per molti altri comunisti tedeschi, dipendeva in primo luogo dall’impegno profuso per avvicinare i popoli tedesco e sovietico che erano stati costretti dal fascismo a combattere l’uno contro l’altro.

Il 18 ottobre il plenum del Comitato centrale del SED sollevò Honecker dalla carica di Segretario generale e di Presidente del Consiglio Statale della RDT. Le due cariche furono assunte da Egon Krenz.

Nel 1988 circa 10.ooo persone fuggirono dalla RDT in Occidente. Nel 1989 la cifra crebbe ulteriormente. Travestendosi da turisti migliaia di cittadini della RDT si spostavano in Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia, e lì ottenevano il visto presso le ambasciate della RFT. Si registrarono tentativi di fughe di massa alle frontiere con l’Austria. Poi i governi di Cecoslovacchia e Ungheria autorizzarono l’uscita ai tedeschi. In totale nel 1989 erano

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passate dalla RDT alla RFT circa 350 mila persone. Si moltiplicarono le manifestazioni spontanee nelle strade. I manifestanti chiedevano di aprire indagini sugli abusi, di democratizzare il regime e di abolire i privilegi. Il potere aveva perso il controllo della situazione. Tra l’8 e il 10 dicembre il plenum del Comitato Centrale rinnovò la composizione del Politbjuro. Fu nominato membro anche il “ribelle” Hans Modrow, che avrebbe guidato di lì a poco il governo di coalizione.

Nella notte tra il 9 e il 10 novembre cadde il muro di Berlino. A ragione questo evento fu considerato come la “campana funebre” della Guerra fredda. La successiva unificazione della Germania l’avrebbe seppellita per sempre.

la questione tedesca

Vorrei ora fare un digressione sul fattore Germania occidentale. Dal 1989 in Germania, “nodo nevralgico” di molteplici problemi europei e internazionali, iniziò un processo che sottopose all’analisi tutti gli aspetti positivi che si erano evidenziati sino a quel momento nelle relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti, e tra URSS e potenze occidentali. Il test fu complicato per tutti, soprattutto per Mosca e per la Germania.

Direi il falso se affermassi che avevo previsto in anticipo come si sarebbe evoluta la questione tedesca. Dubito che qualcuno dei politici dell’epoca, neanche il più abile, avrebbe potuto pronosticare uno o due anni prima il corso degli eventi. Tutto accadde in brevissimo tempo.

Nel 1985 la questione tedesca veniva vista da Mosca molto diversamente da come fu valutata tre anni dopo. La RDT era nostra alleata. La RFT, invece, figurava tra i “potenziali nemici”. Il disgelo delle relazioni avviato dall’Ostpolitik di Brandt negli anni Ottanta iniziò a sciogliere il ghiaccio. Il corso della RFT era valutato da Mosca in primo luogo nel contesto della competizione sovietico-americana. Le altre considerazioni “a catena” nascevano da quest’ottica: la RFT era il principale alleato degli USA in Europa; la RFT era la seconda “colonna” della NATO dopo gli USA; il Bundeswehr20 era il “primo esercito” dell’Alleanza Atlantica; sul territorio della RFT erano collocati i pershing21 americani in grado di colpire in pochi minuti l’Unione Sovietica. Nel quadro della competizione globale simili argomenti suonavano assai minacciosi.

20 Il termine Bundeswehr è il nome ufficiale delle Forze Armate della Germania.21 I pershing erano missili nucleari statunitensi a medio raggio dotati di una gittata compresa tra i 1.000 e i 5.000 km.

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Da questa logica derivavano i diversi approcci all’idea di “unificazione tedesca”. Dopo la creazione della NATO e l’ingresso in essa della RFT, qualsiasi discorso sul tema assumeva un carattere rituale-propagandistico sia in Occidente, che in Unione Sovietica.

Riconosco che anch’io, all’inizio, avevo avuto lo stesso approccio, sebbene già dubitassi che si potessero “paralizzare” le situazioni per l’eternità.

Nei primi due anni della Perestrojka la questione tedesca restò “congelata”. Bonn ripeteva con pedanteria tutti i passi del corso reaganiano, tanto che a Mosca avevamo l’impressione che dalle rive del Reno ci giungesse una buona traduzione dall’inglese al tedesco. Era palese che al governo federale mancassero o la fantasia o il coraggio politico per reagire alle trasformazioni in URSS. Quando Kohl dichiarò che i discorsi sulle riforme in Unione Sovietica erano solo demagogia paragonabile alla propaganda “goebbelsiana” mi sorsero forti dubbi sulla capacità dei vertici di Bonn di valutare in modo adeguato ciò che stava accadendo. Mi diventava però sempre più chiaro che non avremmo avuto una seria politica europea senza la Germania. Dopo il vertice di Reykjavik, nella seconda metà del 1987, fu evidente che a Bonn “si erano mossi”. Ricevetti alcune lettere dal cancelliere Kohl. In una si scusò per le “licenze” che si era preso, ma attribuì buona parte delle responsabilità alla stampa. Incontrai il ministro degli Affari Esteri Genscher, che in seguito divenne un caro amico. Trovai un’intesa anche con Strauss, che visitò Mosca nel dicembre del 1987. Strauss mi colpì, perché era un uomo fermo sulle sue posizioni e insieme capace di guardare al mondo in modo aperto e realistico.

Il 24 ottobre 1988 incontrai per la prima volta Helmut Kohl a Mosca. Il punto di partenza del ragionamento che gli feci fu che le relazioni URSS-RFT, così come erano in passato, non potevano più soddisfare né l’URSS, né i tedeschi, né l’Europa, né la comunità internazionale.

“Vogliamo – dissi – che le nostre relazioni si fondino sulla base della fiducia e del realismo, cioè che rispondano allo spirito dei tempi e ai suoi imperativi. Sono convinto che occorra voltare pagina nelle relazioni tra l’URSS e la Germania occidentale”.

“Sono pienamente d’accordo con lei”, - rispose Kohl. E, dopo aver sottolineato di essere disponibile a sviluppare i rapporti con l’Unione Sovietica, aggiunse: “Fra 12 anni finirà il XX secolo, il secondo millennio. La guerra e la violenza non possono più essere strumenti della politica. Pensarla differentemente significa auspicare il tracollo del mondo. I nostri contatti dovranno caratterizzarsi in modo nuovo”.

Insomma, non solo trovammo un “linguaggio comune”, ma ci giurammo fiducia reciproca come politici e come uomini. Il nostro rapporto crebbe

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sino a diventare una vera e propria amicizia. Circostanza che giocò un ruolo importante nelle successive vicende europee.

Nel giugno del 1989 visitai la RFT. Il risultato principale del viaggio non fu tanto la dichiarazione congiunta sugli esiti della visita, dove si sottolineava la nostra disponibilità a risolvere la questione tedesca, quanto la percezione di come fosse diventata la Germania Occidentale grazie ai cambiamenti democratici, al superamento e alla condanna da parte di tutto il popolo del passato nazista. Il Paese non era affatto la “culla del revanscismo” dove si stavano rinfocolando i preparativi per un “nuovo 1941”.

Durante la visita ebbi tre colloqui con Kohl. Ricordo che un mese prima si era riunito il Consiglio NATO e aveva accolto le proposte del presidente Bush sulla riduzione degli armamenti e delle forze armate in Europa.

Per la prima volta una nostra iniziativa sul disarmo aveva ricevuto una risposta concreta. E proprio la posizione della RFT aveva favorito l’adozione di soluzioni che ci venivano incontro. Al centro dello scontro tra i due blocchi, la RFT fu molto sensibile alla questione delle trattative di Vienna, dove si fissavano sulla carta gli interessi della sua sicurezza.

Anche per noi uno degli obiettivi principali era far uscire dal vicolo cieco le annose trattative sulla riduzione delle truppe e degli armamenti in Europa. Era venuto il momento di riconoscere che la superiorità degli armamenti convenzionali dell’URSS in Europa non aveva più lo stesso significato politico da quando era stato raggiunto l’equilibrio nucleare con gli Stati Uniti. Era ora di sostituire la meschina contabilità militare con un progetto politico di largo respiro. Con Kohl trovammo rapidamente un’intesa sulla questione della modernizzazione delle armi nucleari tattiche, per noi estremamente importante. Era un buon segno. La posizione di Bonn era tanto più rilevante dal momento che nei piani di modernizzazione un aspetto fondamentale era giocato dalla sostituzione dei missili americani “Lance”, dislocati proprio sui territori della RFT.

Alle relazioni bilaterali fu dato uno spazio considerevole durante i colloqui. Le proposte concrete vennero analizzate nei gruppi di lavoro. Con il cancelliere affrontammo quelle questioni che, come sottolineò Kohl, avevano un “particolare significato psicologico” per i tedeschi. Si trattava del problema dei prigionieri militari dispersi, dell’apertura di cimiteri per i soldati tedeschi nei territori sovietici, della possibilità per i cittadini della RFT di andare a Kaliningrad, del riconoscimento dell’autonomia ai “tedeschi sovietici”. Assicurai il cancelliere che su tutte le questioni avrebbe trovato in noi un partner affidabile. Durante quella visita firmammo 11 accordi. Le relazioni URSS-RFT acquistarono nuovo vigore. Furono colloqui più che favorevoli.

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dialoGhi con fidel castro ecolloqui in aMerica latina

Non ci fu mai incontro con i dirigenti americani in cui non fosse toccata la questione di Cuba. Sia a Malta che a Washington George Bush mi aveva chiesto con insistenza di esercitare pressioni su Fidel Castro affinché l’Avana fermasse le forniture di armi all’America Centrale. Avevo risposto che nessuno avrebbe potuto dare ordini a Fidel, e che la soluzione più semplice sarebbe stata incontrarsi con lui.

Non dubitai mai del carattere popolare della rivoluzione cubana. Aveva tradotto in azione le necessità nazionali maturate da tempo: questo era il “segreto” del successo di una manciata di prodi guidati da Castro. I tentativi di presentare la rivoluzione cubana come “il complotto di Mosca” erano sciocchezze. Fu l’impresa americana nella regione di Playa Girón nell’aprile del 1961 a spingere Cuba verso il comunismo. La minaccia della controrivoluzione non aveva lasciato altra possibilità di sopravvivere se non quella di affidarsi all’Unione Sovietica, “baluardo del comunismo”.

Castro mi raccontò della sua doppia percezione della crisi cubana. Sentiva di dipendere da Mosca, ma non voleva esserne ostaggio. La crisi, tuttavia, aveva generato la paralisi totale del Paese. I dirigenti cubani sotto assedio cercavano canali per soddisfare i bisogni elementari della popolazione. Va a loro onore il fatto che la priorità fu data all’istruzione e al servizio sanitario.

L’Unione Sovietica inviava con regolarità nell’isola forniture di petrolio e di altre materie prime. Il nostro contributo fu decisivo per la realizzazione di importanti infrastrutture nel settore dell’energetica, dei trasporti e dell’industria estrattiva. Aiutammo Cuba a produrre macchinari per la raccolta della canna da zucchero. Ecco perché si costruirono delle relazioni bilaterali così strette.

Per correttezza va però aggiunto che Castro volle conservare sempre l’indipendenza di giudizio e non accettò mai di ricevere ordini. I rapporti con Mosca, quindi, erano di alleanza, e non di supremazia o di sottomissione.

Comunque la si metta, in Unione Sovietica la simpatia verso i cubani era rimasta invariata.

Alla fine degli anni Ottanta divenne chiaro che le possibilità di aiutare a senso unico Cuba si erano esaurite. Ma il passaggio verso relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose, dettato dalla situazione internazionale e da quella economica dell’URSS, non piacque a L’Avana e divenne motivo di raffreddamento dei rapporti, persino di aperta critica.

Andai a Cuba nell’aprile del 1989. Le delegazioni erano numerose. Sedevo

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di fronte a Fidel. C’era un silenzio imbarazzante. Occorreva trovare le parole per distendere il clima. Dissi: “Abbiamo il compito di adattare il socialismo alla realtà odierna. La situazione attuale ha evidenziato che non esiste un modello universale che permette a tutti di risolvere i propri problemi. [..] Ogni stato ha le sue tradizioni, i suoi punti di vista, le sue dinamiche. [..] Ciò che stiamo attuando in URSS è necessario al nostro Paese. A voi stabilire se è utile, e in quale misura, anche a Cuba. Avendo esposto le mie valutazioni sullo sviluppo del mondo e essendomi informato sulla situazione nel Paese, volevo esprimere rispetto per la scelta dei cubani e evitare di fare ‘omelie’ e ‘prediche’ con la pretesa di essere il detentore della verità”.

In realtà durante i colloqui si parlò già di una nuova comprensione generale del socialismo e di una sua rinnovata realizzazione nel mondo, sebbene queste idee continuassero a esprimersi nel vecchio linguaggio tradizionale.

Con riferimento alla lettera di Bush ricevuta alla vigilia della partenza, affrontai con Fidel la possibilità di normalizzare le relazioni cubano-americane. Non ne venne fuori nulla, soprattutto per colpa degli USA.

In linea di massima ci trovammo d’accordo sul modo di vedere le questioni relative alla soluzione politica dei conflitti regionali, in particolare nell’America centrale.

La visita a Cuba, insomma, permise di allentare, per lo meno in quel momento, la tensione. Per buona parte fu merito di Fidel. Lo stimavo molto e continuo a ritenerlo un grande uomo. È senza dubbio un grande statista con un curriculum unico nel suo genere. Per decenni ha dovuto operare in condizioni estreme. Questa circostanza ha influenzato l’evoluzione del suo pensiero, determinandone la propensione a decisioni che poco si inquadrano nella cornice della “democrazia tradizionale”. Tuttavia conversando con Castro non ho mai avuto l’impressione di un uomo che “avesse esaurito le sue risorse” e che non fosse disponibile a prendere in considerazione idee nuove. Con Fidel fu possibile portare avanti un dialogo costruttivo, raggiungere un’intesa, contare sulla sua collaborazione.

Compresi che una nuova politica internazionale non sarebbe stata attuabile se si fosse continuato a guardare agli Stati dell’America Latina come agli “emarginati dell’imperialismo” e a considerarli l’obiettivo di espansione dello “spazio rivoluzionario”.

In quel periodo incontrai i presidenti di Argentina, Uruguay, Brasile e Messico; i ministri degli Esteri di Messico e Argentina; gli esponenti dell’Associazione per l’unità dell’America Latina, compreso l’ex-presidente del Messico, Luis Echeverría Álvarez.

I miei interlocutori provenivano da ambienti ideologico-politici molto

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differenti. Ma nelle loro posizioni non percepii nulla di “provinciale”. Erano dirigenti politici energici e colti di nuova formazione ai quali il destino aveva affidato il compito di far uscire i loro Paesi dal passato autoritario, di superare quell’eredità pesantissima per integrare l’America Latina nella comunità internazionale. Anche per questo la loro esperienza suscitava estremo interesse in URSS. E viceversa…

alla viGilia di Malta Il summit di Malta fu l’evento internazionale più importante dell’89,

ma va inserito nel contesto di altri grandi avvenimenti verificatisi su scala mondiale:

- l’avvio della soluzione della questione tedesca;- la stabilizzazione di feconde relazioni con la Gran Bretagna;- la normalizzazione dei rapporti tra URSS e Cina. - il soddisfacente e dinamico sviluppo di relazioni amichevoli con la

grande India, rafforzato dallo scambio di visite al vertice e dalla firma della “Dichiarazione di Delhi” nel 1986.

Alla vigilia del bicentenario della Rivoluzione francese mi recai in visita a Parigi. In quel periodo lo scetticismo francese nei confronti della Perestrojka aveva iniziato a dissolversi. Anche lì, finalmente, si erano convinti che le trasformazioni in URSS fossero qualcosa di serio! Dopo la stipula del Trattato per la liquidazione dei missili a media gittata, e il ritiro delle truppe di Mosca dall’Afghanistan, era difficile negare il carattere radicale dei cambiamenti raggiunti.

In occasione della visita fu preparata una quantità record di accordi. Notammo anche alcuni passi avanti nelle posizioni di Parigi sul disarmo.

Parlammo a lungo con Mitterrand dei conflitti nel mondo e della questione mediorientale. I colloqui fissarono il carattere positivo delle relazioni con la Francia ai massimi livelli.

L’incontro con l’intellighenzia alla Sorbona – luogo secolare e autorevole della cultura europea – fu estremamente simbolico. Visto che si svolse nel giorno dell’anniversario della Rivoluzione francese ritenni utile dichiarare:

“Le grandi svolte sociali e politiche sono state sempre precedute dalle rivoluzioni degli intelletti. Quella francese deve molto ai pensatori dell’Illuminismo. Alla fine del XX secolo l’umanità si trova di fronte a problemi globali senza precedenti, che possono essere compresi solo attraverso

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idee nuove.Occorre riconsiderare i tradizionali criteri di progresso, conciliare i bisogni

energetici con le esigenze ecologiche e demografiche, superare la frattura tra Paesi ricchi e poveri. Bisogna riconoscere che la reciproca tolleranza, il rispetto della libertà di scelta e la ricerca di strumenti politici pacifici per la soluzione delle controversie, sono diventati elementi essenziali alla sopravvivenza del genere umano.

Oggi vi sono molte aspettative nei confronti della politica. Si registrano un forte anti-intellettualismo e l’assenza di spiritualità. Un intelletto privo di fondamenti morali diventa pericoloso. Senza un organico collegamento tra ragione e morale la scienza contemporanea perde la sua dimensione umana. È essenziale che il consolidamento dei fondamenti morali della scienza si rifletta sui legami con la politica. La frattura tra politica, scienza, e morale, è foriera di conseguenze catastrofiche”.

Pronunciai questo discorso nel luglio del 1989. Numerose intuizioni emerse in quegli anni nelle relazioni internazionali sono rimaste ignorate, e a causa di ciò abbiamo pagato e continuiamo a pagare un prezzo molto alto.

Nel novembre del 1989 accolsi l’invito del governo di Roma a visitare l’Italia. Migliaia di romani mi salutarono lungo il percorso verso il Palazzo del Quirinale, dove incontrai il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Andai al Colosseo e anche lì c’erano tantissime persone ad attendermi.

All’epoca il capo del governo era Giulio Andreotti. L’incontro a quattr’occhi durò un’ora e mezza. Analizzammo, ovviamente, anche la questione tedesca. Insistetti sul fatto che non bisognasse forzare gli eventi e imporre i tempi e le scadenze dell’unificazione della Germania. Andreotti fu d’accordo. Riteneva prematura l’unificazione tra RFT e RDT. Al contempo riconobbe che in Italia si erano trovati impreparati di fronte all’impetuoso sviluppo degli eventi nella Repubblica democratica.

Collegammo la soluzione della questione tedesca alla costruzione della “casa comune europea”, e convenimmo che il processo sarebbe dovuto essere graduale. Già allora percepimmo la necessità di creare strumenti di integrazione economica e politica su scala europea.

Posi due questioni fondamentali, circa la dottrina politica della “risposta flessibile”, che aveva segnato il passo, e la sincronizzazione dei processi di integrazione nell’Occidente e nell’Oriente europeo.

Andreotti tentò di respingere le mie osservazioni critiche sulla dottrina militare e, in merito alla seconda questione, propose di accordarci per “non innalzare nuove barriere ma rimuovere o spostare quelle già esistenti”.

Un evento indimenticabile fu la visita del Campidoglio, dove ebbi

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l’opportunità di pronunciare un discorso. Tornai al tema che avevo affrontato alla Sorbona: “Il mondo è a una svolta. La cultura materiale si sviluppa con velocità vertiginosa. Intanto si manifesta sempre di più l’altra faccia del progresso tecnico-scientifico, con i rischi connessi di autodistruzione dell’umanità. La via di uscita è nella spiritualizzazione della vita, in un ripensamento del rapporto dell’uomo con la natura, con gli altri uomini , con se stesso. Ci vuole una rivoluzione nella coscienza. La crescita del ruolo dei principi comuni a tutta l’umanità non avviene cancellando, ma arricchendo l’originalità, elevando la funzione delle peculiarità nazionali e di altra natura. È evidente che il compito più generale e allo stesso tempo più impegnativo dei politici consiste nel cercare di garantire il progresso e la sicurezza reciproca sulla base del rispetto delle diversità, dell’equilibrio degli interessi e della libertà di scelta. Abbiamo rinunciato al monopolio della verità. In politica siamo ora fermamente guidati dal principio della libertà di scelta, dal principio del dialogo e dall’apertura a tutto quanto sia applicabile alle nostre condizioni e che, quindi, vada assimilato e utilizzato per il nostro progresso”.

Il programma del viaggio prevedeva alla fine, una visita a Milano. Ebbi l’impressione che tutti gli abitanti di quella antica città si trovassero in strada. Decidemmo di andare a piedi dal teatro “La Scala” al Municipio. A malapena riuscimmo a passare tra la folla. C’era una rumore così forte che non sentivo la voce di chi mi era accanto. Migliaia di milanesi ci dimostrarono con vivacità la loro simpatia: eravamo i rappresentanti del Paese della glasnost’ e della Perestrojka.

Il 1 dicembre ebbe luogo la prima visita di un capo di Stato sovietico in Vaticano, su invito personale di papa Giovanni Paolo II. Un evento straordinario e al contempo naturale nell’ambito dei cambiamenti che il mondo stava vivendo. Manifestai apprezzamento per l’importante missione di Sua Santità nel mondo contemporaneo e osservai che nei discorsi usavamo spesso le stesse espressioni. “Ciò significa, evidentemente, che abbiamo punti di partenza e pensieri in comune”.

Giovanni Paolo II mi rispose: “La vostra Perestrojka ci permette di cercare insieme una nuova dimensione della vita comune dell’umanità, che risponda in primo luogo alle necessità degli uomini e dei diversi popoli, ai diritti degli individui e delle nazioni. Non solo reputiamo interessanti gli sforzi che state compiendo, ma li condividiamo”.

E aggiunse un’altra importante riflessione: “Non è giusto pretendere che i cambiamenti in Europa debbano realizzarsi secondo il modello occidentale. Ciò contraddice le mie convinzioni più profonde. L’Europa, in quanto attore della storia mondiale, deve respirare con due polmoni”.

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Il Papa sottolineò che, non a caso, nel 1980 aveva proclamato protettori d’Europa, accanto a san Benedetto, rappresentante della tradizione latina, anche Cirillo e Metodio, esponenti delle tradizioni orientale, bizantina, greca, slava e russa.

Il tema della libertà di coscienza occupò un posto particolare nel colloquio. Giovanni Paolo II parlò dei “fratelli ortodossi” evidenziando lo sviluppo del dialogo con le Chiese della tradizione bizantina.

Esposi il mio punto di vista e, in particolare, affermai:“Vogliamo realizzare quanto ho appena detto con metodi democratici. Ma

la sola democrazia non basta. Occorre anche la tensione morale. Agli aspetti positivi della democrazia si possono accompagnare anche aspetti negativi. È la verità. Riteniamo importante che nella società si consolidino la morale e quei valori eterni comuni a tutti gli uomini quali la bontà, la carità e il mutuo soccorso. Riconosciamo la necessità di rispettare la dimensione interiore dei credenti, sia ortodossi che di altre confessioni cristiane, compresi i cattolici”.

Ci accordammo sull’istituzione di contatti ufficiali e sullo scambio di rappresentanti permanenti tra il Vaticano e Mosca.

Dal primo incontro con il Papa si avviò un dialogo che si concluse solo con la sua morte. Poco prima di morire Giovanni Paolo II parlò del bisogno di un nuovo ordine mondiale, più stabile, giusto e umano. Ho citato spesso queste parole nei miei interventi sulla situazione del mondo contemporaneo. Mi sembra che siano punti di riferimento imprescindibili della ricerca di vie verso un nuovo ordine internazionale.

Dopo la visita in Vaticano, volai direttamente a Malta per incontrare il presidente George Bush. Come il lettore ha potuto capire, alla vigilia dell’importante vertice era stato preparato un nuovo spazio europeo, già libero de facto dalla competizione.

Non ho menzionato tutti i Paesi europei con i quali, in quel periodo, istituimmo buone e proficue relazioni bilaterali. L’anello decisivo per la trasformazione del clima internazionale furono i nuovi legami allacciati con le più grandi e potenti nazioni del mondo. Nell’ottica del “pensiero nuovo” ho ritenuto di dover ricordare anche il Vaticano e Giovanni Paolo II. Parlando della fine della Guerra fredda è impossibile non menzionare la base paritaria e democratica sulla quale furono istituite le relazioni tra URSS e Vietnam, oltre che i rapporti di buon vicinato stabiliti con la Finlandia. Per lunghi anni, anche prima della Perestrojka, le relazioni con questo Paese avevano dimostrato la capacità di cooperazione tra Stati con diversi sistemi socio-politici, erano state una sorta di pionieristica “base sperimentale” di quella distensione che non a caso è legata alla conclusione del Trattato e al processo di Helsinki.

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il suMMit di Malta

Superata la lunga “pausa” dopo l’uscita di scena di Reagan, l’amministrazione USA ripristinò i contatti con l’URSS. Il Segretario di Stato James Baker, che aveva sostituito George Shultz, giunse a Mosca nel maggio del 1989. Ci sembrò un uomo serio, fermo sulle sue posizioni, ma anche pronto ad ascoltare gli interlocutori. Baker pronunciò parole molto importanti. Mi disse: “Consideriamo le trasformazioni in corso in URSS radicali e rivoluzionarie. Speriamo che riusciate a realizzare i vostri progetti. È vero, negli USA c’è chi pensa che se la Perestrojka fallisse l’Unione Sovietica diventerebbe più debole e l’America ne trarrebbe vantaggio. Ma nessun membro dell’amministrazione concorda con questo punto di vista. Noi abbiamo un altro parere: il successo della Perestrojka renderebbe l’URSS un Paese più forte, stabile, aperto e sicuro”.

Affrontammo il nuovo “ordine del giorno” delle relazioni sovietico-americane e convenimmo sulla necessità di riaprire i negoziati sulle armi strategiche offensive.

Poco tempo dopo il maresciallo Achromeev, che era stato a luglio negli USA, mi recapitò una lettera di Bush. Il presidente americano mi propose di incontrarci nel dicembre del 1989 a Malta.

Sulla località eravamo d’accordo: il luogo di congiunzione di tre continenti. Nel porto di La Valletta avrebbero attraccato l’incrociatore sovietico “Slava” e quello americano “Belknap”. Si suggerì di incontrarci a turno sulle due imbarcazioni, ma la tempesta improvvisa che si scatenò il 2 dicembre, al nostro arrivo, sconvolse il protocollo.

Tutti i colloqui si svolsero nel “nostro territorio”, sulla nave “Maksim Gorkij”, che avevamo previdentemente avvicinato a La Valletta.

Le trattative si articolarono in più momenti: colloquio a quattr’occhi con Bush; scambio di opinioni tra Ševarnadze e Baker; colazione di lavoro; negoziati con delegazioni. Il giorno seguente colloqui tra le delegazioni e conferenza stampa congiunta (la prima nella storia delle nostre relazioni bilaterali!) sempre sulla nostra imbarcazione.

Sul summit di Malta è stato scritto e detto molto. Ho dedicato numerose pagine delle mie memorie all’evento, con ampie citazioni dei miei discorsi e di quelli degli americani. Affrontammo in via confidenziale tutti gli argomenti che meritavano attenzione: la situazione nel mondo; il significato della Perestrojka per noi, per gli USA, per l’Europa e per la comunità internazionale; i rapporti commerciali bilaterali; i problemi del disarmo, dalle armi strategiche offensive

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a quelle convenzionali; le questioni del Medio e Lontano Oriente, Cina compresa; la situazione in America Centrale, in particolare a Cuba, Panama e in Nicaragua (dove era in corso la guerra civile); e, ovviamente, la questione tedesca. Decidemmo di non interferire nel processo in corso in Germania e di adoperarci affinché quel nodo cruciale per la società internazionale non si esasperasse e non minasse tutto ciò che era stato realizzato per normalizzare la situazione dell’Europa e del mondo.

Nel corso dei colloqui ci furono discussioni e polemiche, si chiarirono incomprensioni piccole e grandi, emersero differenti punti di vista sulla situazione del complesso mondo contemporaneo. Ragionammo anche sui “valori”, dell’Occidente e di tutta l’umanità, che valeva la pena tenere in considerazione in politica.

Ma l’aspetto principale furono la profonda comprensione reciproca; la disponibilità a rispettare le particolarità e gli interessi dei due Paesi; la consapevolezza che la complessità dei problemi globali, a cavallo dei due secoli, aveva addossato sulle due superpotenze una enorme responsabilità, paragonabile a quella che USA e URSS si erano assunte nel 1945 quando, con l’utilizzo della bomba atomica, avevano scelto la peggiore delle opzioni possibili. In quell’occasione un danno incalcolabile era stato arrecato all’umanità, allo sviluppo naturale del pianeta. Avevano condannato il mondo a un’evoluzione perversa, malgrado l’opportunità unica che si era presentata dopo la sconfitta comune del fascismo.

Chiunque fosse su quella nave lungo le coste di Malta sentiva l’urgenza di un gesto simbolico, di un passo che avrebbe significato l’ingresso in un periodo storico totalmente nuovo per la comunità mondiale.

Quel passo fu compiuto. Così intendemmo la stretta di mano che si scambiarono i capi delle due superpotenze dichiarando che “da quel momento i due Paesi non si sarebbero più considerati nemici”.

La Guerra fredda era finita. L’accordo conclusivo della Guerra fredda ebbe una forza estrema, affinché gli scettici e gli oppositori non potessero trovare argomenti per contrastarlo!

L’evoluzione della situazione mondiale ha messo in luce che le rovine del periodo della Guerra fredda non sono solide fondamenta per costruire il futuro. Ciò, tuttavia, non mette in discussione l’importanza storica di aver messo fine a una follia che durava da mezzo secolo.

Non potemmo prevedere tutte le conseguenze della fine della Guerra fredda. Nessuno di noi era in grado. Ma una cosa era chiara: la transizione a un nuovo ordine mondiale sarebbe stata complessa e rischiosa, in particolare per i Paesi dell’Europa orientale. Trasformazioni così profonde necessitano di

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un approccio filosofico-politico, di una comprensione storica del valore degli eventi.

Ero lontanissimo dall’idea che, dopo Malta, io e Bush avremmo “governato la storia” con conversazioni telefoniche.

La fine della Guerra fredda significò il riconoscimento del diritto per ogni Stato alla libertà di scelta. Inoltre, si comprese che se si voleva davvero la pace non c’erano alternative alla costruzione di ponti con la collaborazione paritaria tra popoli e Paesi.

Con il superamento dello scontro ci eravamo liberati da un pericolo terribile. Avevamo ottenuto l’eccezionale possibilità – per la prima volta dopo tanti secoli – di realizzare una convivenza pacifica in tutto il mondo tra uomini di differenti nazioni.

Certo, l’aver ottenuto questa possibilità non significò automaticamente l’aver saputo sfruttare le prospettive che si erano aperte. Per il momento, come è sotto gli occhi di tutti, non ci siamo ancora riusciti. Il passato ci ha lasciato una eredità così pesante e stratificata che non ce ne siamo ancora liberati.

Alla famigerata domanda “chi ha vinto?” replico che bisogna ribaltare il quesito per trovare la soluzione: “chi ci ha guadagnato con la fine della Guerra fredda?”. La risposta è evidente: ogni Paese, ogni popolo. Conosco i vari punti di vista sul tema. Esistono in Russia e in Occidente. Con la Guerra fredda avevamo perso tutti, soprattutto gli USA e l’URSS, bruciando 10 trilioni di dollari per la corsa agli armamenti. Il popolo sovietico, in particolare, aveva sciupato molte opportunità, aveva lasciato sfuggire un’intera epoca di sviluppo normale. Ci eravamo impantanati per lunghi anni e avevamo pagato a caro prezzo l’errore.

Ricordando il summit di Malta vorrei richiamare anche un’altra questione fondamentale: solo grazie alla Perestrojka l’URSS poté mettere fine alla Guerra fredda e respingere la minaccia più che concreta di una catastrofe nucleare. Malgrado ciò che spesso si dice, l’iniziativa di uscire da questo terribile vicolo cieco maturò con il nuovo pensiero della politica sovietica.

Cosa ne consegue? La riflessione sull’essenza dei problemi del mondo contemporaneo, sulle

vie di sviluppo, sui principi delle relazioni tra i Paesi e i popoli porta a una conclusione: è impossibile tentare di garantire e scoprire nuovi orizzonti per il futuro limitandosi solo a perfezionare la sfera delle relazioni internazionali e dei rapporti tra gli Stati. Infatti bisogna partire dalla realtà e dai processi profondi che determinano la vita della società umana.

Si impone una rivoluzione nelle coscienze. Solo su questa base sarà possibile costruire una cultura e una politica nuove, adeguate alle sfide dei tempi.

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Gli eterni insegnamenti morali e le semplici leggi dell’etica e dell’umanità diventeranno il fulcro per raggiungere questo obiettivo storico in cui tutti si riconoscono.

Nel XXI secolo l’umanità si trova oggi più che mai di fronte allo scottante problema dell’unità globale. Perseguire tale unità è un compito epocale… La scalata del genere umano verso la realizzazione del disegno della Storia deve avvenire senza creare un danno irreparabile all’ambiente naturale, senza lo sfruttamento del singolo cittadino e di interi popoli, senza perdite morali e spirituali irreversibili.

Non vedo altra via d’uscita se non approfondire e sviluppare i principi morali cardini di quella filosofia che abbiamo chiamato “nuovo pensiero”. Dall’interdipendenza globale del mondo deriva, prima di tutto, l’imperativo della reciproca responsabilità tra popoli e governi. I problemi non vanno risolti a scapito degli altri. Gli uomini non hanno il diritto di ricercare la propria gioia e il benessere a svantaggio delle future generazioni.

Con le riflessioni su Malta e sulla Guerra fredda ho tentato di fare un bilancio sul 1989, un anno così drammatico e al tempo stesso così ricco di eventi. Vorrei ora tornare alla questioni “di casa”, interne, prima di chiudere questo paragrafo.

Nel periodo successivo alla nomina a Segretario generale incontravo molte persone (nelle strade, alle riunioni, ecc.) e c’era chi, salutandomi, mi diceva sempre: “Michail Sergeevič, tutto, fuorché la guerra! Faccia il possibile per scongiurarla!”

Ed ecco che, alla fine del 1989, si poté dire con cognizione di causa che la guerra, così come la intendevano i miei concittadini (cioè simile a quella del 1941-1945) non ci sarebbe stata.

Grazie alla politica del nuovo pensiero furono elaborati i più urgenti presupposti esterni e internazionali al fine di sfruttare lo stato di pace per ristrutturare il Paese e sistemarlo all’interno.

Ma non ne approfittammo! In questa sede posso permettermi di affermare: non ne approfittammo, includendo nel “noi” i vertici, il partito dirigente e il popolo. Gli uni non furono in grado o tardarono, gli altri non apprezzarono ciò che avevano ricevuto o non vollero, tutti sprecarono energie in dispute, intrighi e ostilità reciproche.

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Capitolo IVcrisi e crollo della

Perestrojka(gli anni 1990-1991)

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dalla staraja Plosciad22 al creMlino

Non eravamo così ingenui da non capire che non sarebbe stato possibile realizzare alcun cambiamento se ci fossimo lasciati sfuggire le leve del potere che ci avrebbero permesso di superare l’opposizione alle riforme progettate. Il problema fu affrontato alla vigilia della XIX conferenza del PCUS. In quell’occasione mi resi conto che durante l’attuazione dei piani di riforma per trasferire il potere dal partito agli organi statali elettivi era indispensabile uno “scudo”. In altre parole, bisognava difendere le riforme finché il potere non fosse passato dalla Staraja Ploščad al Cremlino.

Sapevamo che trasformare le istituzioni era il processo sociale più complesso. I Soviet, nella forma in cui si erano conservati, non erano idonei a svolgere le funzioni di potere.

Nelle rivoluzioni armate simili questioni si risolvono in modo diverso: viene deposto il vecchio governo e il giorno seguente se ne insedia uno nuovo, non sempre con l’esperienza e le conoscenze necessarie a questo ruolo. Ma la Perestrojka non fu concepita come una rivoluzione armata, ma come un processo di riforme che escludesse i cataclismi, la distruzione delle forze produttive della società, le sciagure e la sofferenza degli uomini.

Purtroppo, però, non riuscimmo a portare a compimento l’operazione nei tempi ottimali.

La storica risoluzione sulla rinuncia del PCUS al regime di monopolio fu adottata durante la XIX conferenza di partito. La transizione al multipartitismo si rivelò molto complessa. Il PCUS, infatti, dovette rinunciare di propria iniziativa alla gestione incontrollata del potere, e dimostrare di essere disponibile a conquistarlo rispettando le regole comuni a tutte le altre forze politiche. Il passaggio alla democrazia rappresentò una frattura con il bolscevismo. Ma non riuscimmo comunque a rispettare dei tempi più o meno ragionevoli per realizzarlo.

Sul Paese, infatti, si abbatté il terremoto provocato dall’opposizione. La rumorosa campagna per l’immediata abrogazione del sesto articolo della Costituzione dell’URSS del 1977 divenne la loro prima grossa azione politica23 . Detenendo il pieno o parziale controllo di numerose testate,

22 La Staraja Ploščad era la piazza dove era ubicata la sede del Comitato Centrale del PCUS. 23 Il VI° articolo della Costituzione dell’URSS del 1977 sanciva il ruolo-guida del PCUS.

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sfruttando l’abilità dei sostenitori in tv e sulla radio, i radicali raggiunsero l’obiettivo di far passare questa campagna come la condizione necessaria alla prosecuzione della Perestrojka. Qualsiasi opinione contraria veniva tacciata di oscurantismo, accusata di essere un tentativo dei partitocrati di preservare il potere e di ostacolare la democratizzazione della società. C’era del vero in queste valutazioni. Ma il modo perentorio in cui fu posta la questione ridusse notevolmente, e in seguito eliminò del tutto, la possibilità di una transizione pacifica e graduale da un sistema politico all’altro.

Nella primavera del 1990 il plenum del Comitato centrale stabilì di portare al Congresso le proposte sugli articoli 6 e 7 della Costituzione a titolo di iniziativa legislativa. I tentativi di cancellare dal testo la menzione del PCUS, tuttavia, fallirono. E l’articolo 6 fu approvato in questa forma: “Il Partito comunista dell’Unione Sovietica, gli altri partiti politici, i sindacati, le organizzazioni giovanili, le altre organizzazioni della società e i movimenti di massa partecipano all’elaborazione della politica dello Stato sovietico e alla gestione degli affari dello Stato e della società attraverso i rappresentanti eletti nei consigli dei deputati popolari e nelle altre istituzioni”.

il PriMo Presidente dell’urssLa questione dell’articolo 6 fu esaminata insieme alla proposta di modifica

del massimo potere dello Stato con l’istituzione, per la prima volta nella storia del Paese, della carica presidenziale. La correzione dell’articolo 6 e l’aggiunta all’articolo 127 della Costituzione ebbero una naturale correlazione. Il primo articolo sancì che il nostro Paese avrebbe cessato di essere monopartitico con l’introduzione di uno dei principi fondamentali della democrazia: il pluralismo ideologico e politico. Il secondo fissò un principio democratico altrettanto importante, quello della separazione dei poteri.

Per alcuni mesi respinsi “l’ipotesi presidenziale”. A differenza dei miei collaboratori e degli specialisti insistevo sul fatto che alla base dei sistema politico dovessero restare i Soviet, con i quali la carica presidenziale con difficoltà si sarebbe armonizzata.

Poi capii di aver sbagliato, ma mi convinsi che era fisicamente impossibile conciliare la carica di presidente del Consiglio Supremo con le altre funzioni che ricoprivo. Mi persuasi anche che il potere legislativo e quello esecutivo necessitavano di approcci differenti: nella variante che avevamo scelto, invece, essi si “mischiavano”. E così non coglievamo uno dei vantaggi della separazione

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dei poteri. Arrivai con ritardo anche a un’altra considerazione. Per quanto le strutture statali create dai teorici e dai politici fossero perfette, non avrebbero funzionato senza la condivisione e il sostegno della cultura politica della società e della psicologia popolare. Nel corso dei decenni si era affermato un particolare culto del Politbjuro e del Segretario generale che presupponeva uno stato di sottomissione incondizionata. La scomparsa dell’autorevole organo di potere (rispettato e al tempo stesso temuto) si riflesse subito sulla vita dello Stato. Tanto più che le sue funzioni furono trasferite al Consiglio Supremo che, secondo l’idea radicata nelle nostre menti, era sempre stato un’istituzione per lo più decorativa. Non fu facile, almeno all’inizio, credere che fosse proprio il nuovo parlamento a governare il Paese. E per la maggior parte dei cittadini, lontani dalle formule politiche, fu complicato cogliere la differenza tra la carica di Presidente del Presidium del Consiglio Supremo e quella di Presidente del Consiglio Supremo.

Insomma, andava introdotta la carica di Presidente dell’URSS anche per motivi puramente psicologici. La contemporanea creazione del Consiglio della Federazione e del Consiglio di Presidenza (un equivalente del Politbjuro nel nuovo sistema politico) doveva servire a rafforzare l’autorità del nuovo organo di potere.

Non nascondo che nei miei progetti non rientrava la creazione di cariche presidenziali nelle repubbliche dell’Unione. Ciò ridusse quelle che credevo sarebbero state le conseguenze positive dell’introduzione dell’istituto della presidenza dell’URSS.

Dagli interventi dei deputati delle repubbliche federali fu palese che erano disponibili ad appoggiare la creazione della carica presidenziale a patto che nel Consiglio di presidenza entrassero 15 vicepresidenti (i dirigenti delle repubbliche federali) che avrebbero presieduto a turno questo organo. Si trattava, in altre parole, del vecchio modello di “Cooperazione”.

A loro volta i deputati delle repubbliche, delle regioni e dei distretti autonomi, si rivolsero al Congresso con una dichiarazione nella quale richiedevano una partecipazione al Consiglio della Federazione pari a quella delle repubbliche federali.

La stragrande maggioranza dei deputati approvò l’istituzione della carica presidenziale e l’elezione del primo presidente al Congresso. Fui eletto presidente con 1329 voti a favore e 495 contrari. Mi rivolsi al congresso con un breve discorso. Ai deputati che temevano che la presidenza avrebbe usurpato il potere dissi che non c’era alcun motivo per essere preoccupati: “Ne sarà garante la Costituzione stessa, che verrà ‘sorvegliata’ dai massimi organi rappresentativi del potere statale, quali il Congresso dei deputati popolari e

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il Consiglio Supremo dell’URSS. Ulteriori garanti saranno la glasnost’ e il pluralismo politico, già diventati una realtà effettiva del nostro Paese”.

Dopo aver preso la giusta decisione di introdurre l’istituto della presidenza non compimmo altri passi avanti. I benefici del sistema presidenziale, invece, si sarebbero potuti avere solo completando la costruzione del nuovo ordinamento. Nessuno contestava in pubblico le prerogative del massimo potere centrale, ma le sue iniziative non trovavano ampio consenso nel Paese.

Facemmo anche un altro errore: parallelamente alla costituzione dell’istituto presidenziale non creammo un solido potere giudiziario. Invece di una eccellente Corte Costituzionale istituimmo soltanto il Comitato di vigilanza sulla Costituzione. Prevedevamo che tale organo avrebbe occupato un posto importante nella vita dello Stato e ci avrebbe aiutato a risolvere i problemi. Ma il tempo passava e l’operato del Comitato era minimo. Nel migliore dei casi prendeva decisioni su questioni insignificanti, o pronunciava verdetti così ambigui che si prestavano a interpretazioni anche opposte.

Ricevemmo molti reclami contro la passività del Comitato, ma non ritenni di intervenire perché mi attenevo scrupolosamente al principio della separazione dei poteri.

Quale la causa principale della scarsa efficienza del potere presidenziale? Fu la “parata delle sovranità” avutasi subito dopo l’approvazione della Dichiarazione d’indipendenza da parte del Consiglio Supremo della Russia. E a seguire la cosiddetta “guerra delle leggi”. Le repubbliche stabilirono di riconoscere solo gli atti legislativi federali che avrebbero approvato i rispettivi parlamenti. Il potere centrale, in poche parole, era stato minato.

Capimmo che non saremmo riusciti a correggere la Costituzione. Occorreva stipulare un nuovo Accordo federale e, di conseguenza, modificare la struttura della Federazione. Così, dopo aver concluso a malapena un’importante riforma, fummo costretti ad avviarne subito un’altra.

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il 1990 l’anno dell’unificazione tedesca

Nell’estate del 1989, prima di ripartire da Bonn, commentai in questi termini i risultati della visita in Germania Occidentale durante una conferenza stampa: “Dall’incontro diretto con i cittadini della RFT ci siamo convinti che i punti di vista e le posizioni non stanno cambiando solo nel nostro popolo. Le trasformazioni sono in corso anche qui. Forse oggi possiamo affermare che i nostri popoli si stanno avvicinando, si vanno incontro, pensano a come collaborare. È una circostanza evidente, forse il fattore principale che va rilevato e che determinerà il futuro, che influirà sull’attività dei governi dei due Paesi”.

A una domanda sul muro di Berlino risposi: “Non c’è nulla di eterno sotto il sole. Speriamo di essere sulla strada giusta. Il muro è stato eretto in un preciso contesto. Potrà scomparire quando cadranno i presupposti che lo hanno generato. Non mi sembra un evento impossibile”.

Il nuovo stato d’animo dei cittadini sovietici fu decisivo per porre le premesse sulle quali elaborare la nostra politica sulla questione tedesca.

La Perestrojka pose fine all’isolamento dei cittadini russi dal mondo occidentale e avviò il processo di democratizzazione della società. Favorì inoltre l’accesso all’informazione, attraverso la quale venimmo a conoscenza dei profondi cambiamenti in atto nel popolo tedesco. La maggior parte dei cittadini della RFT, infatti, si era resa conto della natura della guerra che Hitler aveva imposto al Paese e aveva preso le distanze dalla barbarie nazista.

In autunno il problema tedesco divenne la questione principale della politica internazionale. La situazione divenne estremamente drammatica grazie (sottolineo, grazie!) alle posizioni degli stessi cittadini della RDT. I tedeschi della Repubblica Democratica capirono che l’Unione Sovietica non sarebbe ricorsa alla forza per impedire l’unificazione. Era un segnale: la loro voglia di unità si sarebbe potuta realizzare.

Durante il processo di unificazione tedesca il mio operato fu influenzato dai seguenti principi:

Morale. Ritenevo inaccettabile dal punto di vista etico difendere a oltranza la divisione in due parti di una grande nazione come la Germania, addossando le colpe del passato sulle nuove generazioni.

Politico. Sarebbe stato possibile ostacolare l’anelito all’unificazione dei tedeschi solo con l’impiego delle truppe sovietiche di stanza nella RDT. Il

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che avrebbe significato rinunciare a tutti gli sforzi compiuti per far cessare la Guerra fredda e la corsa agli armamenti nucleari; sarebbe stato un colpo irreparabile alla politica della Perestrojka; avrebbe screditato il mio Paese di fronte al mondo.

Strategico. Il ricorso alla forza contro la popolazione della RDT e la repressione del movimento democratico civile alla lunga avrebbero avvelenato le relazioni tra i nostri popoli e recato un grave danno agli interessi della Russia.

Invece le preoccupazioni che più mi assillavano all’inizio del processo furono:

- non ammettere che la pressione dei tedeschi destabilizzasse la situazione dell’Europa, e pertanto fare in modo che il processo si svolgesse con gradualità;

- i tedeschi avevano il diritto di scegliere il destino della propria nazione ma dovevano tenere presente gli interessi dei vicini;

- bisognava evitare qualsiasi forma o minaccia di violenza.La situazione però precipitò presto. Non è esagerato affermare che nel

1989 la congiuntura in Germania Orientale era diventata esplosiva. Autorevoli ambienti dell’URSS e della RDT reclamavano un immediato “ristabilimento dell’ordine”.

La Storia, “liberata dagli ostacoli”, ci travolse con il suo flusso impetuoso. Il destino della RDT e l’unificazione della Germania furono stabiliti dalla volontà di milioni di tedeschi, soprattutto orientali, che si erano raccolti con entusiasmo in un movimento popolare davvero democratico.

I nuovi dirigenti della repubblica capeggiati da Modrow, che il 13 novembre era diventato Presidente del Consiglio, tentarono di frenare il processo. A Mosca ancora si sperava che i nuovi vertici della RDT riuscissero a governare la situazione e, in caso di unificazione, sapessero realizzarla in modo graduale, salvaguardando la RDT il più a lungo possibile.

Incontrando i dirigenti delle due Germanie li invitai a non cedere alle emozioni, a non sfruttare le circostanze per meri interessi egoistici di partito e a non compiere passi sconsiderati che avrebbero fatto precipitare gli eventi.

Le vicende, però, si susseguirono in modo sempre più incalzante. In sostanza, già a novembre era iniziato il processo di dissoluzione delle strutture statali della RDT.

A partire dal 3 gennaio 1990 ogni giorno furono organizzate in tutto il territorio della Germania manifestazioni con centinaia di migliaia di persone. Le folle rivendicavano l’immediata unificazione. I tedeschi non accettavano nessun tipo di alleanza valutaria o di federazione. Volevano solo

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l’unità! Desideravano confluire in un unico Stato! Avevano espresso senza equivoci l’aspirazione a decidere da soli la loro sorte. I politici erano concordi: l’unificazione riguardava il futuro. Nessuno intendeva agire in fretta. Ma l’impetuoso movimento popolare li costrinse ad aprire gli occhi su quanto stava accadendo. Tutti, però, in primo luogo i tedeschi, comprendevano che “le chiavi dell’unificazione stavano a Mosca” (questa espressione, se non sbaglio, l’aveva usata Adenauer).

Neanche gli alleati della RFT in ambito NATO (inglesi, francesi e italiani) desideravano la riunificazione, tanto più se rapida. Me ne resi conto conversando con Mitterrand, Thatcher e Andreotti. George Bush mi aveva anticipato le loro posizioni già a Malta. In quell’occasione mi aveva anche assicurato che non avrebbe intrapreso nessuna azione avventata per accelerare l’unificazione.

Non sono d’accordo quando equiparano le mie posizioni a quelle dei Paesi europei della NATO alleati della RFT. Fu evidente che quelle nazioni tentarono di rallentare il processo di unificazione… con le mani di Gorbaciov, ritenendo che l’URSS fosse la più interessata a mantenere due Stati tedeschi anche per motivi ideologici. Ma conoscevo la situazione meglio di loro e capivo che opporre resistenza sarebbe stato fatale, che l’impiego della “forza sovietica” avrebbe creato quel caos che tutti volevamo scongiurare.

Il processo alla fine fu avviato e si svolse pacificamente. Perché il governo sovietico agì con così tanta sicurezza?Perché nel nostro Paese erano avvenuti cambiamenti significativi nelle

relazioni con i tedeschi. Nella Repubblica federale si erano verificate importanti trasformazioni democratiche e la dirigenza della Germania occidentale si era comportata con lealtà nei confronti dell’URSS. Invece era un dato di fatto la reputazione negativa del regime di Honecker, che bloccava qualsiasi tentativo di mutamento. Se Honecker avesse agito diversamente il processo di unificazione avrebbe potuto assumere caratteristiche diverse. Considerato quanto era accaduto nella RDT fummo costretti a concludere che Kohl sarebbe stato il protagonista di questo processo nonché il nostro partner privilegiato. Ciò nonostante fu stabilito di trattare contemporaneamente con Kohl, con i socialdemocratici della RFT, e con il nuovo governo della RDT.

Fu avanzata la formula “4+2”, cioè un gruppo speciale di rappresentanti dei quattro Paesi vincitori (URSS, USA, Inghilterra e Francia) più quelli delle due Germanie (RDT e RFT) avrebbe analizzato e cercato di risolvere i problemi europei e internazionali legati alla riunificazione della Germania.

L’obiettivo principale era garantire lo svolgimento pacifico del processo e salvaguardare gli interessi di tutti coloro che sarebbero stati coinvolti. Per

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questo ci si era appellati alle nazioni vincitrici, direttamente responsabili della situazione tedesca.

Il 9 febbraio del 1990 incontrai il Segretario di Stato americano Baker. Egli dichiarò che non era sua intenzione, né del presidente Bush, “ottenere vantaggi unilaterali dalle vicende in corso”. Ci tenne a sottolinearmelo.

Poi pronunciò un breve discorso in cui ribadì che non era ammissibile permettere che la Germania diventasse un Paese neutralista. L’argomento principale addotto fu che in questa circostanza i tedeschi si sarebbero potuti costruire un proprio potenziale atomico. Inoltre il neutralismo della Germania avrebbe messo in discussione la presenza statunitense in Europa e danneggiato il meccanismo che garantiva tale presenza, cioè la NATO. Nessuno desiderava l’uscita di scena degli USA.

Convenni che, in quel preciso momento, la presenza militare degli Stati Uniti in Europa aveva un ruolo stabilizzante. E chiarii che l’URSS non avrebbe richiesto il ritiro delle truppe americane durante le trattative per la riunificazione tedesca.

Baker affermò con tono solenne che: “La giurisdizione e la presenza militare della NATO non si sarebbero estese di un solo pollice a Est”. E aggiunse: “Crediamo che le consultazioni e il dibattito nel formato ‘2+4’ garantiscano che la riunificazione della Germania non porterà all’espansione della struttura militare NATO nei territori orientali”. Questo concetto fu inserito nero su bianco nel Trattato sulla soluzione definitiva della situazione in Germania.

Spesso mi chiedono: “Non si sbagliò la dirigenza sovietica quando chiese di fissare nel Trattato il divieto di espansione NATO solo nel territorio della RDT, e non in tutta l’Europa orientale?” Che dire? La nostra richiesta circa il territorio della RDT era del tutto pertinente e corretta. Pretendere in quella circostanza la non espansione della NATO nell’Europa orientale, invece, sarebbe stata una vera sciocchezza. All’epoca, infatti, esistevano ancora l’Alleanza atlantica e il Patto di Varsavia!

Si trattava di trasformare le due organizzazioni militari in formazioni politiche, di ridurne l’arsenale bellico. In altre parole, più che parlare di “divorzio” tra i blocchi, che avrebbe rappresentato lo scontro militare tra Est e Ovest, bisognava affrontare il problema di una loro profonda riorganizzazione, del cambiamento delle rispettive funzioni.

Il 10 febbraio 1990 ebbi una conversazione con Helmut Kohl a Mosca. Affrontammo tutti i punti principali della questione tedesca e fissammo le eventuali decisioni che avremmo potuto prendere collegialmente e separatamente, con l’accordo di USA, Francia e Inghilterra.

Kohl mi descrisse nei dettagli la situazione della Germania Ovest. A

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ragione riteneva che gennaio fosse stato un mese critico perché la situazione “era precipitata”. Inoltre era in corso un’emigrazione di massa dei cittadini della RDT e il marco orientale era crollato. Fra l’altro, nei luoghi dove erano dislocate le truppe sovietiche si erano verificati incidenti allarmanti e gli alti funzionari responsabili del funzionamento e della sicurezza delle centrali nucleari della RDT non garantivano di tenere sotto controllo gli impianti.

“Non voglio accelerare il corso degli eventi – affermò il cancelliere – ma vedo l’onda avanzare e so che non potrò fronteggiarla. È la realtà dei fatti”. Discutemmo a lungo. Kohl mi assicurò che la linea definitiva delle frontiere, in caso di unificazione, sarebbe stata tracciata dove passava il confine.

Un tema caldo fu quello della sicurezza militare. Il cancelliere, già informato del mio colloquio con Baker, si disse favorevole a un sensibile avanzamento del processo di disarmo e dichiarò di essere pronto a compiere qualsiasi passo pur di favorirlo. Sottolineò inoltre che la Germania riunificata avrebbe rinunciato in modo categorico agli armamenti nucleari, chimici e batteriologici.

Kohl era fermamente contrario alla eventualità del neutralismo della futura Germania: la Germania era già stata isolata dal resto d’Europa dopo il Trattato di Versailles del 1918 e le conseguenze nefaste di tale circostanza erano note a tutti.

Come Baker, il cancelliere mi disse: “Pensiamo che la NATO non debba espandere la sua sfera di azione”. Kohl assicurò che il nuovo parlamento tedesco che sarebbe sorto dall’unificazione delle Germanie avrebbe confermato la validità gli accordi stipulati dalla RDT … “è ovvio, con l’accordo di Mosca, Varsavia e delle altre capitali”. Voglio riportare parti del colloquio che ebbi con il cancelliere.

Gorbaciov: Sul punto di partenza siamo concordi: i tedeschi devono fare da soli la loro scelta. E devono essere informati della nostra opinione.

Kohl: I tedeschi lo sanno. Lei intende dire che la questione della riunificazione dipende da loro stessi?

Gorbaciov: Sì, nei limiti che la realtà ci impone. Kohl: Sono d’accordo.Gorbaciov: La realtà non si cambia. La guerra ci ha lasciato un’eredità

pesante. Ora si è aperta la possibilità di far avanzare la “questione tedesca” verso una fase nuova, realizzabile con sforzi comuni, senza considerare unicamente i nostri interessi, ma anche quelli dei vicini.

Kohl: Approvo l’impostazione.Gorbaciov: I tedeschi hanno dimostrato di avere tratto una lezione dal

passato. Una qualità apprezzata in Europa e nel mondo. È un principio che è stato fissato quando si è dichiarato che dalla terra tedesca non deve più

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scaturire alcuna guerra. Kohl: Ribalterei il concetto: “Dalla terra tedesca deve scaturire solo la

pace”.Gorbaciov: È una precisazione molto importante. Attesta la scelta univoca

dei tedeschi a favore della pace. Dobbiamo costruire una Germania unita sui valori fondamentali.

Il 12 febbraio informai Modrov dei miei colloqui con Baker e con Kohl. Il 28 febbraio, dopo la visita del cancelliere a Washington, ebbi una conversazione telefonica con Bush. Fu evidente che Bush e Kohl si erano accordati in via definitiva sull’ingresso della Germania unita nella NATO. Sarebbe stato il maggiore ostacolo di carattere internazionale nel processo di riunificazione.

In tutte le dichiarazioni pubbliche dell’estate del 1990 e nelle conversazioni con i leader stranieri ribadii che per Mosca la partecipazione della Germania unita all’Alleanza atlantica era inaccettabile.

Questa era la loro logica: i Paesi europei della NATO alleati della Germania ne temevano la potenza. La presenza di truppe americane era per loro garanzia di sicurezza. Ma la legittimità dello stanziamento militare USA si basava sulla NATO. L’Alleanza atlantica senza la Germania era destinata a scomparire.

Noi, invece, volevamo “sincronizzare” il più possibile la riunificazione tedesca con il processo europeo. Così la Germania non sarebbe rimasta isolata e la NATO e il Patto di Varsavia si sarebbero riorganizzati.

Ma non riuscimmo a raggiungere l’obiettivo. Il processo di unificazione si sviluppò in tempi incredibilmente rapidi. Dopo le elezioni per la Camera del Popolo della RDT del 18 marzo, vinte dalla “Alleanza per l’unità della Germania” (insieme alla SPD aveva ottenuto il 70% dei voti), la RDT perse ogni opportunità di opporsi all’unificazione: fu assorbita sulla base dell’articolo 23 della Costituzione della RFT. Il governo guidato da Lothar de Maizière a ragion veduta puntò proprio su questa forma di unificazione.

Si avvicinava il 45° anniversario della vittoria della Guerra patriottica. In quel periodo, come concordato da tempo, andai in visita a Washington. Per preparare il viaggio giunse Baker a Mosca il 18 maggio. Doveva dimostrare la convenienza e l’inevitabilità dell’ingresso della Germania unita nella NATO.

Ripeté molte volte che gli USA volevano la partecipazione della Germania alla NATO perché se il nuovo Stato tedesco non si fosse radicato nelle istituzioni europee si sarebbero potute creare quelle condizioni che c’erano state in passato dopo Versailles.

Alla fine Baker espose un programma predisposto dall’amministrazione USA, i famosi “9 punti”, per compensare l’ingresso della Germania nella NATO. Erano proposte ragionevoli e accettabili. Alcune furono inserite nei

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trattati di unificazione della Germania. Baker promise che sul territorio della RDT non ci sarebbero state truppe

NATO per un periodo di tempo determinato. Le divisioni sovietiche sarebbero potute restare in quelle zone con le stesse regole che vigevano al momento.

Inoltre assicurò che sarebbe iniziato un processo di trasformazione nell’Alleanza atlantica allo scopo di renderla sempre più un’organizzazione politica, riesaminandone la dottrina militare.

Espressi un parere di massima favorevole ai 9 punti, ma continuai a ritenere che la questione restava aperta e che avremmo dovuto analizzare a fondo il problema durante l’incontro con il presidente USA a Washington.

Capivo che la condotta dell’amministrazione faceva parte di un piano in cui Baker si muoveva con abilità. Glielo dissi con franchezza. In seguito, nelle sue memorie, riconobbe che l’intento principale del suo viaggio era convincermi dell’ineluttabilità dell’ingresso della Germania nella NATO.

Nelle parole di Baker c’erano tuttavia delle verità oggettive. È indubbio, bisognava evitare che la Germania si ritrovasse in una situazione analoga a quella del 1918; non era realistico immaginare che la Germania entrasse nel Patto di Varsavia; e soprattutto, era evidente che entrambi i governi tedeschi guardavano con favore all’adesione alla NATO.

Malgrado tutto, due settimane dopo provai a compiere l’ultimo tentativo durante il colloquio con Bush. Non che temessi l’ingresso della Germania nella NATO. Ero convinto, infatti, che la Guerra fredda non sarebbe mai ripresa e che non ci fosse nessuna minaccia per l’URSS da parte occidentale. Ma si era comunque conservata una concezione della politica in cui molta importanza veniva attribuita all’equilibrio delle forze militari.

L’ingresso della Germania unita nella NATO, in concreto, non avrebbe minacciato la sicurezza dell’URSS. C’era tuttavia un aspetto psicologico della questione da non sottovalutare: come i cittadini sovietici percepivano la NATO.

Qualche giorno dopo che Baker lasciò Mosca iniziò la mia visita a Washington.

Nei colloqui alla Casa Bianca del 31 maggio dedicammo alcune ore alla questione tedesca.

Al termine di una lunga discussione sul contenuto del comunicato congiunto finale arrivammo a una formula di compromesso: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica convenivano che la Germania unificata avrebbe scelto con autonomia in quale alleanza entrare, a patto che fosse concluso il processo di riassetto statale tenendo in considerazione gli esiti della Seconda guerra mondiale.

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Si può dire che da allora la questione tedesca cessò di avere le caratteristiche assunte sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Era venuto il momento di aprire le porte al futuro dell’Europa.

Il 15 luglio del 1990 arrivò a Mosca il cancelliere Helmut Kohl con una folta delegazione al seguito. Iniziarono le trattative che avrebbero dovuto portare a compimento il processo di unificazione, per poi lasciare i dettagli ai “tecnici della diplomazia”.

All’inizio del primo colloquio a quattr’occhi il cancelliere esordì con una citazione di Bismark: “Quando Dio cammina nella Storia bisogna sforzarsi di afferrare il lembo del suo mantello. Queste parole caratterizzano bene l’attuale situazione, soprattutto la prima metà del 1990. Una responsabilità particolare pesa sulle spalle della nostra generazione, sugli uomini del nostro tempo”. Ne condivisi il pensiero e replicai: “La Russia e la Germania devono di nuovo compiere molti sforzi: vivere in pace e in concordia, arricchirsi a vicenda, approfondire la mutua comprensione, coltivare una collaborazione reciprocamente vantaggiosa. Quando le due nazioni sono state divise le conseguenze si sono fatte sentire sui nostri popoli e ovunque. Possiamo realizzare insieme l’unità tra i due popoli. Ritengo che le nostre relazioni con la Germania siano importanti al pari di quelle sovietico-americane. Non hanno un risvolto minore per la storia”.

“La Germania vuole la pace, desidera nuove relazioni con la grande Russia – continuò sulla stessa onda Kohl. La storia dei nostri rapporti testimonia che tra russi e tedeschi non c’è mai stata una inimicizia congenita. Le forze del male, e non del bene, hanno aizzato i due Paesi l’uno contro l’altro, con conseguenze tragiche”.

Il cancelliere mi porse il progetto di “grande accordo” generale tra la Germania unificata e l’URSS. “Le lascerò il progetto – affermò – ma consideri che si tratta solo di un abbozzo di pensieri e considerazioni”.

Anch’io gli diedi un appunto con le mie valutazioni. Nel corso della conversazione affrontammo i contenuti principali dei futuri accordi.

Concordammo sulle più importanti questioni di principio da tenere in considerazione nel trattato principale e nelle altre intese: la Germania unita sarebbe sorta sui territori della RFT, della RDT e della città di Berlino; il nuovo soggetto si sarebbe astenuto da qualsiasi pretesa di cambiamento delle frontiere; la Germania avrebbe rifiutato gli armamenti nucleari, chimici e biologici; durante il periodo di transizione nei territori che appartenevano alla RDT non sarebbero state create strutture militari NATO; le truppe sovietiche sarebbero rimaste nell’area della RDT – dove erano allora stanziate – per tutto il periodo di transizione (3-4 anni); le condizioni di permanenza dei

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due eserciti sarebbero state regolate da un accordo separato; sarebbero stati aboliti i diritti e le responsabilità quadripartiti a Berlino ovest.

Il cancelliere approvò l’idea di costruire abitazioni per i militari in diverse zone dell’Unione Sovietica a spese della Germania. Mi confidò inoltre che, valutata la necessità di includere l’economia sovietica nel mercato mondiale, durante il “G8” di Huston aveva chiesto con fermezza di sostenere concretamente e attivamente la politica di riforme economiche varata in URSS.

Stabilimmo, fra l’altro, che tutte le questioni sarebbero state analizzate e risolte tramite consultazioni tra i governi di RFT e RDT. E i più importanti aspetti della riunificazione tedesca sarebbero stati discussi e concordati nell’ambito della formula “4+2”.

Il 12 settembre, a Mosca, si conclusero i negoziati. I ministri degli Esteri di USA, URSS, Francia, Gran Bretagna, RFT e RDT firmarono il “Trattato sullo stato finale della Germania”. Il 13 settembre fu siglato un Accordo di buon vicinato, partenariato e collaborazione tra Germania e Unione Sovietica. Il 3 ottobre 1990 entrò in vigore il trattato di unificazione di RDT e RFT.

Da quel momento la Germania unita divenne un membro paritario della comunità internazionale. Il 9 novembre andai a Bonn, la capitale del nuovo Stato unitario, per la solenne cerimonia della firma di importanti accordi sovietico-tedeschi. Resto convinto che se l’Unione Sovietica fosse sopravvissuta, tutto quello che insieme al cancelliere avevamo stabilito e proferito con sincerità sarebbe servito al bene dei nostri popoli, dell’Europa e del mondo intero, ben più di quanto in realtà sia accaduto.

Desidero anche aggiungere, per rispondere alle calunnie: la riunificazione della Germania non è avvenuta secondo le condizioni dettate dall’Occidente. Ancora nell’estate e nell’autunno del 1989, come gli occidentali, credevamo che l’unità della Germania sarebbe stato un problema del XXI secolo. Ci rendevamo conto che l’anelito del popolo era riunire in uno Stato tutti i tedeschi, ma pensavamo che fosse un compito delle generazioni future. D’improvviso si presentarono le “condizioni necessarie”. Non c’era nessuna pressione occidentale quando le folle, in primo luogo della RDT, uscirono nelle strade per reclamare l’immediata soluzione della “questione tedesca”.

Nei grandi eventi simili alla riunificazione tedesca vi sono sempre molti eroi. Ma in questa vicenda storica solo due furono gli eroi: il popolo sovietico e quello tedesco. Entrambi avevano attraversato un percorso di estrema difficoltà dopo la guerra e avevano saputo venirsi incontro l’un l’altro. La Storia iniziò a girare per il verso giusto. Gli uni si erano pentiti, gli altri avevano perdonato. Questa è la Storia.

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la crisi nel Golfo PersicoIn quel momento cruciale per la Perestrojka si infiammò lo scenario

internazionale: Saddam Hussein aveva all’improvviso aggredito e occupato il Kuwait, Paese arabo “fratello” e membro dell’ONU.

Mi trovavo in vacanza in Crimea. Quando venni a conoscenza dell’accaduto non ebbi neanche per un attimo il dubbio su come reagire: bisognava condannare e fermare l’aggressione, costringere l’Iraq a ritirarsi, muoversi in stretto contatto con il Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Non fu una decisione facile. L’Unione Sovietica era legata all’Iraq da una serie di intese e accordi che, de facto, lo rendevano nostro alleato. Se la crisi fosse scoppiata prima della formulazione del nuovo pensiero e della fine della contrapposizione, l’URSS e il mondo intero si sarebbero ritrovati in una situazione estremamente pericolosa. Il nuovo orientamento della politica estera ci permise di assumere una posizione di principio: non andava incoraggiata alcuna aggressione. L’aggressore, chiunque egli sia, non può essere la parte trionfante nel conflitto. Dal primo all’ultimo giorno della crisi mi attenni con scrupolo a questa linea. Ritenevo opportuno non far scivolare la situazione in un conflitto.

La dirigenza dell’URSS si adoperò per regolare la crisi internazionale con metodi politici pacifici, affinché l’Iraq rispettasse le richieste della comunità mondiale e le truppe occupanti si ritirassero dal Kuwait.

A questo scopo, non solo rimasi in contatto costante con il presidente USA e il Segretario di Stato Baker, ma tenni un filo diretto anche con i leader delle potenze in grado di influenzare la politica internazionale. Incontrai tre volte il rappresentante di Hussein, il ministro Aziz. In un’occasione negoziai con lui tutta la notte, ammonendolo, proponendogli varianti di ritiro, convincendolo che Baghdad, che confidava nei passati legami con l’URSS, non sarebbe riuscita a spaccare la coalizione internazionale guidata dal Consiglio di Sicurezza ONU, che l’Iraq sarebbe incappato in conseguenze molto serie se non fosse ritornato sui suoi passi e non avesse disposto il ritiro.

Sapevo che George Bush aveva intenzione di sfruttare la circostanza e di attaccare con tutte le forze il regime di Saddam. Ma il presidente era anche disponibile a una soluzione politica, sebbene senza compromessi, della crisi. Tuttavia Hussein, con le sue ambizioni provocatorie e l’intento di inasprire l’aggressione, “aiutò” l’inquilino della Casa Bianca a optare per la forza.

La crisi nel Golfo Persico fu il primo esame delle nuove relazioni tra URSS, USA e gli altri Stati occidentali. La prova, seppure non in nel migliore dei modi, fu superata.

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il Governo Pavlov

Torniamo alle questioni interne. L’11 gennaio 1991 firmai il decreto di nomina del nuovo premier e dei primi vicepremier. Il 14 si presentarono al Consiglio Supremo dell’URSS e furono approvati.

La formazione del governo si protrasse per alcune settimane. Sul processo influirono le conseguenze della caotica richiesta di sovranità da parte delle Repubbliche e la violazione dei rapporti economici. La recessione non toccò solo il settore industriale, ma anche quello della produzione di beni di consumo, che negli anni precedenti aveva avuto un’impennata. L’economia si trovò coinvolta nella crisi.

Forse era ineluttabile. Ma le forme acute che la crisi assunse non dipesero solo da fattori obiettivi: la nostra inadeguatezza fece la sua parte. Crebbe l’inflazione. Il budget del Paese iniziò a crollare. Nel 1991 il governo russo tagliò di 100 miliardi di rubli gli stanziamenti per la Federazione.

Alla vigilia del nuovo anno, su proposta del governo, firmai alcuni decreti di carattere economico. Ma come si chiarì ben presto, i documenti avevano molti difetti. Un esempio è il decreto per la creazione di fondi di stabilizzazione economica esterni al bugdet nazionale. Si trattava, nella sostanza, della “generazione” di banconote, e nient’altro. Quei fondi non avevano un potere d’acquisto reale e aumentavano l’inflazione.

Il 20 gennaio, qualche giorno dopo aver assunto la carica, Pavlov ne combinò un’altra: cambiò le banconote da 50 e 100 rubli. Il motivo era che una quantità immensa di banconote era stata accumulata e portata fuori dal Paese da gruppi criminali. I suoi calcoli si rivelarono illusori. Cercando di trovare una giustificazione alla sterile operazione, Pavlov dichiarò in un’intervista al giornale “Trud” che era in corso una congiura delle banche occidentali per destabilizzare la circolazione monetaria in URSS. Avevo appoggiato l’autonomia del premier, ma poco a poco mi convinsi che Pavlov non era adatto alla carica, sia per i ristretti orizzonti, sia per la comprensione superficiale dei problemi.

Il chiasso intorno al “complotto delle banche occidentali” confluì nella campagna contro il mio decreto del 26 gennaio “sulle misure di supporto alla lotta contro il sabotaggio economico e gli altri reati nella sfera dell’economia”. Fu evidente che l’indebolimento del potere aveva favorito la criminalità. In vari settori dello Stato crebbe la corruzione. E ciò che durante il periodo di “stagnazione” veniva nascosto all’opinione pubblica divenne noto grazie alla glasnost’. Sulla stampa comparvero articoli che denunciavano gli abusi degli alti funzionari, compresi i dirigenti delle Repubbliche, dei ministeri e

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del partito. Tali fenomeni suscitavano indignazione e necessitavano di severe misure per essere stroncati.

Questo era il mio obiettivo quando firmai il decreto. Credo che le proteste sollevate fossero ispirate direttamente dalle organizzazioni mafiose che stavano nascendo in quel periodo e spaventavano anche la nostra giustizia, la quale a sua volta non desiderava dare l’impressione di soffocare il libero business.

All’inizio del 1991 un compito improrogabile fu riformare i prezzi al dettaglio. Non era possibile continuare a rimandare. Avevamo perso il momento favorevole degli anni 1988-1990 e ora dovevano attuare questa manovra in una situazione ben più complicata. Nei fatti il passaggio al nuovo sistema dei prezzi era già avviato: erano stati introdotti nuovi prezzi d’acquisto per il grano e la carne, c’era un nuovo listino delle merci industriali all’ingrosso. Bisognava aggiornare i prezzi al dettaglio per risollevare le imprese che commerciavano i prodotti finiti.

Ma occorreva anche ottenere l’approvazione delle Repubbliche. Le trattative furono complesse. Le Repubbliche baltiche si rifiutarono di firmare. Anche la Russia creò problemi.

Quali furono i risultati della riforma dei prezzi che attendevamo da anni? Sui banconi dei negozi, vuoti a causa della crisi, comparvero la carne, il latte, i prodotti di pasticceria, diversi articoli di largo consumo. Purtroppo, però, questo “raggio di speranza” sparì presto. Il governo centrale aveva già perso le redini dell’economia: erano in mano alle Repubbliche. Così non fu possibile istituire un controllo effettivo sulla crescita delle entrate, sull’utilizzo degli introiti ricavati dall’aumento dei prezzi. Le Repubbliche smisero di appoggiare il fondo di sostegno sociale per la popolazione. Non si trattava solo di una decisione di principio. Buona parte di quei fondi erano stati impiegati per aumentare gli stipendi. In breve tempo l’insubordinazione minacciò di vanificare qualsiasi tentativo di soluzione della crisi.

Va detto che la riforma non fu assolutamente una “terapia shock”. Non furono toccati i prezzi delle medicine, di alcuni tipi di tessuti, delle calzature, degli articoli di maglieria, dei giocattoli, della benzina, del kerosene, dell’elettricità, del gas, del carbone, e persino della vodka. Per un largo gruppo di generi di consumo furono fissati dei limiti nell’aumento dei prezzi. Il Paese avrebbe potuto evitare l’improvviso aumento dei prezzi se si fossero applicati i criteri di risanamento finanziario citati. Il principale difetto della riforma fu di averla attuata al di fuori di un contesto generale di trasformazioni economiche.

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non rinunciare alla scelta Presa

Il 1991 si aprì con le vicende di Vilnius. È ormai noto che quanto accadde fu una provocazione per farmi cadere. Il piano non prevedeva solo di screditare il mio potere in URSS. Si voleva anche minare la mia autorità all’estero, dove credevano nella politica del “nuovo pensiero” come alternativa all’uso della forza nei conflitti politici e civili.

Fu avviata una campagna d’odio menzognera e distruttiva contro il potere centrale, contro lo Stato federale in quanto tale. Non solo i fatti delle Repubbliche baltiche, ma tutto ciò che proveniva dal potere federale veniva interpretato con un’unica chiave di lettura: macchinazioni ordite dai reazionari installatisi al Cremlino. Le pubblicazioni e le dichiarazioni più sediziose contenevano appelli diretti ad azioni di forza.

Il 14 gennaio, alla fine della visita a Tallin, El’zin convocò una conferenza stampa. Dichiarò che i dirigenti di quattro Repubbliche – Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan – avrebbero concluso un Trattato quadripartito senza attendere la fine dei negoziati per l’Accordo federale. Per fugare ogni dubbio sulla risolutezza del governo russo aggiunse: “È evidente che non riusciremo a difendere la sovranità della nuova alleanza senza l’esercito russo”.

Un’insensatezza simile, per non dire una follia, sarebbe stata difficile da immaginare. Il giorno seguente fui costretto a condannare la dichiarazione nel corso della seduta del Consiglio Supremo dell’URSS. El’zin non s’arrischiò a mettere in pratica le minacce circa la creazione di forze militari “proprie”, ma sta di fatto che dopo le sue parole l’attivismo dei radical-democratici superò i limiti.

Già allora le due ali – reazionaria e radicale – avevano iniziato a pianificare le proprie “strategie”: l’una aveva l’obiettivo di ripristinare lo Stato “supercentralizzato”, l’altra puntava a far crollare l’Unione Sovietica. I democratici gridavano: “Gorbaciov si è spostato a destra!”. Gli altri strillavano: “Gorbaciov si è venduto ai sinistroidi e ai radicali!”. Per fortuna erano fazioni “estremiste” e fu possibile manovrarle. Persino utilizzarle l’una contro l’altra. E far uscire il Paese da questa fase. Se in quel momento avessi fomentato lo scontro il Paese si sarebbe spaccato, sarebbe scoppiato, insomma, sarebbe stata un follia.

All’epoca non avevo a disposizione informazioni precise su tutti gli intrighi, ma l’intuizione mi suggeriva che stavano minando lo Stato federale, mettendone in discussione la stessa esistenza. Ritenevo che le questioni riguardanti il destino del popolo dovessero essere risolte con la consultazione dei cittadini. Il Consiglio Superiore appoggiò la mia proposta di indire un

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referendum. Il 16 gennaio emisi un decreto presidenziale che fissava la data del voto al 17 marzo.

Si accesero molte discussioni su come elaborare i quesiti. Riconosco che avremmo potuto limarne meglio la formula e lo stile, sebbene fosse arduo immaginare una variante ideale che avrebbe accontentato i desiderata di tutti i movimenti e dei vari strati sociali.

El’zin e i suoi sostenitori capirono che l’esito positivo del referendum avrebbe consentito al Presidente di salvaguardare lo Stato federale e, al contempo, di continuare a trasformarlo. Tale eventualità sconvolgeva i loro piani e ne metteva in discussione la certezza di prendere il potere. Per questo i radicali si lanciarono contro il referendum con furia estrema. Non si trattava di una “esercitazione di artiglieria”: era una vera e propria dichiarazione di guerra.

Il 19 febbraio El’zin, intervenendo in televisione, chiese ufficialmente le mie dimissioni e il trasferimento di tutti i poteri al Consiglio della Federazione. L’intervento fu pieno di insulti al mio indirizzo. Gli tremavano le mani. Si vedeva che non riusciva del tutto a controllarsi e che si sforzava di leggere un testo già scritto. Poco dopo, il 9 marzo, parlando alla Casa del cinema, affermò che Gorbaciov “ingannava il popolo e la democrazia” e chiamò i sostenitori a “dichiarare guerra alla dirigenza del Paese che ci stava portando nel baratro”. Il 10 marzo fu organizzata a Mosca una manifestazione “a sostegno di El’zin, dei minatori e della sovranità della Russia”.

Il III Congresso dei deputati popolari della RSFSR24 si aprì in un clima rovente. Alla vigilia del Congresso i manifestanti avevano minacciato di “assaltare il Cremlino”. Per evitare disordini nella capitale, il giorno di apertura dell’assise fu aumentato il numero dei poliziotti e dei soldati nelle strade. Le proteste raggiunsero picchi preoccupanti. Tutte le forze politiche si resero conto della situazione e agirono di conseguenza.

Il 29 marzo, durante i lavori del Congresso, El’zin si astenne dallo scontro diretto e si disse disposto a dialogare con il Centro. Ma per tutto l’intervento contrappose le due posizioni, quella di “Russia Democratica” 25 e quella della politica retrograda della dirigenza federale. In questa variegata situazione si definirono gli schieramenti dei “favorevoli” e dei “contrari” al mantenimento dell’URSS.

Il 26 e il 27 febbraio visitai la Bielorussia. Volevo farmi un’idea delle condizioni delle zone intorno a Černobyl. Colsi l’occasione anche per valutare

24 Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. D’ora in poi RSFSR.25 Coalizione creata nel 1990 in occasione delle elezioni dei deputati popolari della RSFSR.

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la situazione nel Paese e per trarne delle conclusioni. Durante gli incontri con i rappresentanti della intellighenzia della

Bielorussia, con i dirigenti delle città e delle regioni, delle imprese e dei ministeri, con i veterani di guerra e del lavoro, notai delle pericolose tendenze separatiste. Tutto ciò che di positivo era stato apportato col processo di democratizzazione, con l’aumento dell’autonomia delle imprese, delle repubbliche e delle regioni, era venuto meno.

Quello che stava accadendo non era una manovra del Centro bensì il risultato di una complessa lotta tra le forze politiche. Lo scontro divenne particolarmente acuto quando la Perestrojka giunse alla fase in cui andavano ridistribuiti i poteri e le proprietà.

Avendo percepito il pericolo sia a destra che a sinistra, per la prima volta esposi la mia idea sull’importanza del centrismo politico, una formula in grado di proporre alla società una concreta via d’uscita.

“Il centro che ho in mente, – dissi – non è l’equidistanza geometrica tra due punti. Una posizione intermedia sarebbe inutile. Il centro, per come lo intendo io, è una linea politica che si pone l’obiettivo di trasformare la società secondo principi nuovi, non sulla base della contrapposizione tra una parte e l’altra, né della competizione, tanto meno attribuendo all’altra parte il ruolo di nemico, ma sulla base della coesione della schiacciante maggioranza del popolo.

Siamo stufi dello scontro tra ‘bianchi’ e ‘rossi’, tra ‘neri’ e ‘azzurri’. La posizione centrista non accetta né il ritorno allo stalinismo, né l’autoritarismo dei radicali che tentano da un giorno all’altro di spingere il Paese nel mercato libero. La politica centrista è una linea che cerca di tenere in considerazione e di accordare gli interessi presenti nel Paese”.

All’epoca credevo nella possibilità di riformare il PCUS e ritenevo che a questo scopo il partito dovesse definire la sua posizione sia nei confronti delle correnti conservatrici a favore del socialismo senza democrazia, sia di quelle liberali-borghesi a favore della democrazia senza socialismo. Questi i contenuti principali dei miei interventi in Bielorussia. Mi sembra che furono compresi. Ma furono ignorati dalla stampa ufficiale.

Il 1° marzo iniziò il secondo grande sciopero dei minatori. Una delle richieste degli scioperanti erano le dimissioni del Presidente dell’URSS. Le manifestazioni dei collettivi dei minatori ebbero un ruolo fatale per il destino dell’Unione: nessuno era riuscito a compromettere a tal punto le posizioni del Centro. La gravità non stava solo nel danno economico arrecato dall’astensione dal lavoro nelle miniere del bacino di Kuzbass, di Tjumen’, di Pečora, e di altre città. Ben più dolorose furono le conseguenze psicologiche e politiche.

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Gli ideologi radical-democratici sfruttarono subdolamente i minatori come arieti per buttare giù lo Stato federale.

Una settimana prima del referendum furono pubblicati dei sondaggi di opinione. Visti i risultati non molto favorevoli, i radicali decisero di “garantirsi” inserendo nella scheda elettorale dei cittadini russi il quesito sulla istituzione della carica di Presidente della RSFSR.

Il 15 marzo lessi in televisione un messaggio ai cittadini dell’Unione. Fu necessario trovare le parole giuste per toccare le menti e i cuori della gente. Al contempo dovetti tener conto che in Russia, in Asia Centrale o in Caucaso avrebbero potuto comprendere lo stesso concetto in modo differente. Certo, in queste situazioni un discorso può incidere poco, ma credo che le mie parole abbiano avuto un effetto positivo.

Il referendum ebbe luogo. Malgrado gli sforzi enormi dei radical-democratici e i dubbi degli scettici, i cittadini si espressero a favore del mantenimento dell’URSS e del suo rinnovamento. La tendenza fu riscontrabile in tutte le Repubbliche dove si era svolto il referendum. Il 76% della popolazione del Paese e il 71,3% dei cittadini russi, avevano votato “si” al mantenimento dell’URSS. Altrettanto interessanti furono i risultati della consultazione popolare in Ucraina e Bielorussia. In assenza di un risultato così significativo non sarebbe stato pensabile l’incontro a Novo-Ogarevo che creò i presupposti per superare la crisi.

Il referendum influì anche sulle relazioni tra me e El’zin. Boris Nikolaevič si stava preparando alle elezioni del Presidente della Russia e avrebbe tratto vantaggio se da parte della Federazione e mia, in quanto Presidente dell’URSS, fosse stata manifestata lealtà. Per quanto mi attenessi a una posizione di neutralità, non nascondo che le mie simpatie non andavano alla sua parte. I cittadini russi ebbero il diritto di scegliere liberamente il candidato che andava loro a genio. Il livello di gradimento di El’zin era alto e pochi dubitavano che avrebbe vinto. Un fattore importante si rivelò anche la giusta candidatura del vicepresidente.

In quel periodo incontrai spesso El’zin. Affrontavamo tutti i problemi che man mano si profilavano. I colloqui, di norma, si svolgevano in un’atmosfera serena. Ma quando era di fronte a un microfono o in tv, al Consiglio Supremo o alla Casa del cinema, El’zin interpretava a modo suo le nostre conversazioni.

Nei mesi seguenti vi furono continuamente “litigi”. Pochi nel suo entourage avevano intenzioni pacifiche. Alcuni erano così ostili che non perdevano l’occasione per accusarmi. Tuttavia ebbi l’impressione che nei loro calcoli, in quei mesi, avesse prevalso la linea della “riconciliazione”, seppure parziale e temporanea. La strategia, insomma, era: che El’zin arrivi alla presidenza, poi si

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vedrà. Pur consapevole della precarietà della pacificazione, ritenni comunque di sfruttare questo attimo di respiro per concretizzare l’elaborazione dell’Accordo federale che si protraeva da troppo tempo. Mi sembrò importante spingere la dirigenza sovietica ad assumersi degli impegni che le sarebbe stato difficile non rispettare. Così nacque quel processo che, in seguito, avrebbe assunto il nome di “Processo di Novo-Ogarevo”.

la sindroMe lituana

Alla Lituania sono legate molte pagine drammatiche della storia russa. Così avvenne anche questa volta. Nel “poligono lituano” si giocò il futuro del Paese.

La composizione della popolazione nella Repubblica apparentemente non offriva motivi di inquietudine per la tenuta dell’identità nazionale (4/5 erano lituani, 1/5 russi e di altre nazionalità).

Ma il movimento “Sąjūdis” costruì la sua propaganda sulla tesi: se restiamo nell’URSS i lituani rischieranno di diventare una minoranza nel Paese dei loro antenati, come è già quasi accaduto agli estoni e, soprattutto, ai lettoni. “Sąjūdis” riuscì a conquistare il consenso di vari strati della società. Nel movimento confluì gradualmente anche il partito comunista lituano, che sollevò la necessità di far uscire il Paese dall’URSS.

Era molto rilevante capire cosa stesse succedendo nella Repubblica, quali sentimenti prevalessero, se fosse possibile o meno convincere i sostenitori della secessione. Con questi obiettivi svolsi una visita in Lituania nel gennaio del 1990.

Mi accolsero ovunque in modo cordiale, ma il tema delle conversazioni fu, nei fatti, uno solo: la separazione della Lituania dall’URSS. Ribadii l’importanza del dialogo con ogni interlocutore.

All’epoca “Sąjūdis” controllava quasi tutti i mass media. Poiché avevano ripetuto giorno dopo giorno che in caso di separazione i lituani avrebbero potuto vivere meglio, in breve tempo il concetto era diventato il “chiodo fisso” di tutta la popolazione.

Non intendo fare semplificazioni. I rappresentanti dell’intellighenzia avevano buoni motivi per volere l’indipendenza. Non vivevano certo in una federazione vera e propria: ma chi era in grado di garantire che si sarebbe senz’altro realizzata? Uno dei miei interlocutori mi sferzò senza mezzi termini: “Lei, Michail Sergeevič, resterà alla dirigenza ancora nove anni. Poi chissà chi arriverà, e magari ci farà tornare alla vecchia situazione!”.

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Pur ammettendo l’idea di secessione, speravo che l’evoluzione delle riforme economiche e politiche battesse sul tempo l’attuazione del disegno separatista.

Ero convinto che le persone, consapevoli dei benefici effettivi della formula federativa, avrebbero smesso di essere ossessionati dall’idea di totale indipendenza. Insomma, lasciai la Lituania con un sentimento di angoscia misto a speranza.

Trascorsero meno di due mesi e “Sąjūdis” vinse le elezioni per il Consiglio Supremo. Senza attendere il secondo turno, la notte dell’11 marzo, i dirigenti riunirono i deputati, aprirono la seduta, approvarono l’Atto di indipendenza della Lituania e proclamarono che le leggi dell’URSS non avrebbero più avuto vigore nei territori della Repubblica.

Il Consiglio Superiore della Lituania approvò uno dopo l’altro dei decreti provocatori che danneggiavano i cittadini non lituani. A Vilnius trovarono il coraggio di compiere questo passo perché avevano ricevuto assicurazioni di sostegno dai dirigenti sovietici.

L’atmosfera si arroventò. L’aumento dei prezzi al dettaglio fu la scintilla che causò l’esplosione. Questa misura, infatti, suscitò il malcontento dei lavoratori di ogni nazionalità.

Io assunsi una posizione coerente con la Costituzione dell’URSS e con la risoluzione del Congresso dei deputati popolari: utilizzare tutti i mezzi politici per evitare la separazione della Repubblica. In caso non fosse stato possibile e il popolo lituano al referendum avesse espresso la volontà di secessione, concludere il “divorzio” secondo la legge e provvedere a instaurare corrette relazioni tra l’URSS e il nuovo Stato lituano.

Al giorno d’oggi, quando cercano di dare valutazioni sui fatti del 13 gennaio 1991 a Vilnius, sia i politici sia gli studiosi cadono spesso nell’estremismo, ignorando il complesso contesto in cui si svolse la tragedia lituana. I fatti si susseguirono vorticosamente. L’8 gennaio ebbe luogo una manifestazione di massa contro l’aumento dei prezzi di fronte al palazzo del governo. Nello stesso giorno il Primo ministro Prunskienė diede le dimissioni. Il 9 fu convocata di nuovo una grande manifestazione, dove si chiedeva di introdurre al più presto il sistema presidenziale.

Compresi che eravamo a un passo dallo spargimento di sangue. Chiesi a El’zin di astenersi da dichiarazioni che avrebbero potuto spingere la dirigenza lituana a posizioni ancora più aggressive. Sottolineai che le cause del crescente malcontento in Lituania non provenivano dall’aumento dei prezzi. Il vero problema era la condizione di emarginazione in cui si trovavano migliaia di persone: lituani, russi, polacchi, ecc.

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Ci risolvemmo a inviare a Vilnius una delegazione del Consiglio della Federazione. In quello stesso giorno dichiarai in pubblico che la crisi sarebbe stata risolta con strumenti politici. Ma prima dell’arrivo della delegazione, la notte tra il 12 e il 13 gennaio, i militari sovietici occuparono la torre televisiva e l’edificio della radio, facendo molte vittime.

Non appena mi giunse la notizia dell’accaduto chiamai il direttore del KGB Krjučkov e pretesi spiegazioni. Egli mi disse che né lui né Pugo (l’allora ministro degli Interni) avevano autorizzato l’azione di forza. La decisione era stata presa in loco. Da chi, però, non era ancora chiaro. Interruppi Krjučkov e gli feci notare che erano morte delle persone, e le autorità ne erano responsabili. Poi chiamai il ministro della Difesa Jazov:

“Come è potuto succedere che siano stati utilizzati i militari? Chi ha dato l’autorizzazione?”

“Mi hanno informato – rispose – che è stato un ordine del capo della guarnigione”.

Era difficile credere che quel dirigente avesse preso una simile decisione senza l’approvazione del ministro. Ma allora mi fidavo di Jazov. A tale proposito, il giorno seguente, rispondendo alle interrogazioni del Consiglio Supremo, Pugo dichiarò che la protezione delle proprietà del PCUS a Vilnius era stata attuata in conformità col decreto del Consiglio dei ministri dell’URSS, ma né il Presidente né nessun altro dirigente del Centro avevano autorizzato l’impiego delle divisioni armate.

Il meccanismo che aveva portato all’operazione nella notte del 13 gennaio - l’occupazione della torre televisiva e dell’emittente radio - non fu chiarito.

Nel corso dell’inchiesta sul putsch dell’agosto 1991 la Procura della RSFSR trovò dei documenti relativi alle vicende di Vilnius. Nella cosiddetta “Informativa sugli esiti della missione a Vilnius” si legge: “Dopo che i vertici avevano deliberato di realizzare l’operazione nella notte tra il 12 e il 13 gennaio, si procedette al calcolo delle forze e dei mezzi necessari”.

Dunque, ci furono dei “vertici”? Ma se il Presidente e il Consiglio della Federazione si erano pronunciati a favore di una soluzione politica, di quali vertici si trattava?

Le mie previsioni più nere sulle conseguenze dei fatti di Vilnius ben presto si avverarono. Il problema non fu soltanto che dopo la strage del 13 gennaio tutti gli sforzi per scongiurare l’uscita della Lituania e delle altre Repubbliche baltiche dall’URSS si rivelarono inutili. Più grave ancora fu la svolta nell’opinione pubblica di tutta la Federazione. Le persone si chiedevano: “Conviene davvero trattenere i baltici con la forza e con lo spargimento di sangue? Se proprio vogliono l’indipendenza, che si separino! Dio li

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accompagni!”. Ai fatti di Vilnius seguirono dopo una settimana i violenti scontri di

Riga. Le vicende evolsero in modo analogo, ma non ebbero un epilogo così tragico.

Lo ripeto: anche in questa occasione ci sono tutti i motivi per supporre che gli scontri armati furono provocati di proposito.

I partiti separatisti giunti al potere agirono arbitrariamente, confidando nel sostegno della dirigenza russa. Subito dopo gli scontri di Vilnius El’zin volò a Tallin e lì firmò un documento in cui la Russia riconosceva la sovranità delle repubbliche baltiche.

Il 20 gennaio ci fu una manifestazione di protesta contro gli episodi di Vilnius, la piazza iniziò a chiedere le mie dimissioni. La stampa dichiarò che l’ordinamento federale era criminoso e mi attaccò con violenza. Il 22 gennaio intervenni in televisione sulle vicende lituane e sottolineai che non erano dipese in nessun modo dalla linea di potere presidenziale. Dopo aver evidenziato l’inaccettabilità dell’impiego delle forze armate, richiamai l’attenzione sulla necessità di rimuovere i problemi alla base dei conflitti e di ripristinare l’ordine costituzionale. Il giorno stesso la procura dell’URSS dichiarò che qualsiasi utilizzo non autorizzato delle forze armate sarebbe stato perseguito e i colpevoli puniti.

il Processo di novo-oGarevo

Se il referendum del 17 marzo aveva convinto me e i miei sostenitori della necessità di portare a termine il processo di trasformazione del Paese, per i conservatori la consultazione popolare aveva confermato che i cittadini volevano salvare la precedente formula dell’Unione. Questi ultimi ignoravano, però, che gli elettori avevano votato a favore del mantenimento della Federazione proprio in relazione alle trasformazioni previste dal nuovo Accordo sull’Unione degli Stati Sovrani, che era già stato pubblicato.

I dirigenti del partito erano preoccupati, perché dopo l’abrogazione dell’articolo 6 della Costituzione i membri della nomenklatura erano sì rimasti de facto al potere, ma questa situazione non sarebbe potuta durare a lungo. Si era infatti creata un’opposizione ed erano sorti altri partiti che attaccavano i “privilegi” dei funzionari di partito.

Il 22 aprile, durante il dibattito sulle misure anti-crisi, i deputati al servizio di Pavlov e i simpatizzanti di Lukjanov iniziarono a cavalcare il tema

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dell’introduzione dello stato d’emergenza nel Paese o quantomeno nei settori principali dell’economia. Dovetti per l’ennesima volta intervenire e riportare la situazione in parlamento alla normalità.

Semplificando, l’unica risposta razionale per scongiurare questo rischio fu cercare un accordo tra i centristi e i democratici. Il processo di “Novo-Ogarevo” fu una vicenda molto più complessa. Cominciò da un incontro tra me e El’zin. Alla fine di una discussione che si era protratta quasi per un intero giorno demmo alla stampa il testo di un comunicato congiunto. A dire il vero, il giorno seguente El’zin intervenne a una conferenza stampa e tentò di presentare l’accordo come una sua vittoria; il gesto si commenta da solo… In realtà il comunicato confermava un altro aspetto, cioè che era stato raggiunto un ragionevole compromesso per creare le basi di una collaborazione.

In forza dell’accordo decisi di accelerare la preparazione del Trattato federale coinvolgendo i dirigenti delle Repubbliche. La formula che in seguito fu definita “1+9”, o nell’accezione più diffusa “la decina”, mi sembrò uno strumento efficace per portare a termine l’accordo. Ovviamente nulla sarebbe stato fatto alle spalle e senza il consenso del Consiglio Supremo dell’Unione e delle Repubbliche.

Il 10 aprile riunii il Consiglio di sicurezza. Informai i membri della seduta del Consiglio dell’Unione del giorno prima, del programma anti-crisi esaminato, e di alcune questioni internazionali. Mi venne anche in mente che sarebbe stato utile organizzare un incontro informale con i dirigenti delle Repubbliche federali. Fu il primo passo all’origine del “processo di Novo-Ogarevo”, che permise di avvicinarci alla realizzazione della linea “centrista”. In quei giorni consultai spesso i miei collaboratori. Si rafforzò la mia convinzione che solo un sistema che riflettesse la reale proporzione delle forze politiche avrebbe reso possibili le riforme. Queste ultime, a loro volta, avrebbero favorito la tendenza unificatrice. Al meccanismo politico, infine, occorreva un programma anti-crisi e l’Accordo federale.

Non nascondo che le mie riflessioni furono stimolate per buona parte dal fatto che l’incontro con i dirigenti delle nove Repubbliche, fissato per il 23 aprile, sarebbe avvenuto alla vigilia del plenum del Comitato centrale del PCUS del 24 aprile. Occorreva prendere una decisione sul programma di azione e portarlo al plenum, costringendo i critici della destra e della sinistra ad assumere una posizione in pubblico su una questione che riguardava il programma di salvataggio nazionale.

Il 23 aprile mi incontrai con i dirigenti di Russia, Ucraina, Bielorussia, Uzbekistam, Kazakistan, Azerbajžan, Kirgisia, Turkmenistan e Tagikistan. La riunione si svolse non lontano da Mosca, nella località di Novo-Ogarevo (da

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qui l’espressione “Processo di Novo- Ogarevo”). All’apertura dell’incontro definii la situazione del Paese “estremamente difficile”. Per uscire dalla crisi si imponevano misure straordinarie, coordinate, ed efficaci. Bisognava lasciare da parte le divergenze relative alle questioni personali, tanto più quelle inerenti alle simpatie o alle antipatie individuali, e mettere al primo posto gli interessi del Paese. Bisognava elaborare un documento, breve e comprensibile, attraverso il quale i cittadini avrebbero compreso che i dirigenti erano intenzionati ad agire in modo concorde e risoluto. Un simile gesto avrebbe tranquillizzato l’opinione pubblica e smorzato l’atmosfera minacciosa che si era creata.

Dopo lo scambio di opinioni, i partecipanti sostennero all’unisono l’idea proposta. Fu subito redatto e approvato un documento comune, il “comunicato congiunto sulle misure d’urgenza per stabilizzare la situazione nel Paese e superare la crisi”. Il principale strumento di stabilizzazione fu individuato nella rapida conclusione delle trattative per l’Accordo federale. Nel comunicato si dichiarava che i governi partecipanti all’Unione avrebbero istituito tra loro relazioni di favore, mentre con le altre repubbliche avrebbero costruito i rapporti sulla base delle regole internazionali universalmente riconosciute. Fu inoltre confermata l’intenzione di continuare il percorso di riforma. Il Presidente dell’URSS e i capi delle Repubbliche si appellarono ai lavoratori e a tutte le forze politiche, chiedendo agli uni di cessare gli scioperi, e agli altri di operare attenendosi alla Costituzione.

Ma gli organizzatori dell’opposizione formatasi nelle file del PCUS intensificarono gli attacchi nell’imminenza del plenum del Comitato Centrale. Il 16 aprile si riunirono a Smolensk i funzionari di partito delle città “Medaglia d’oro”. Per lo più parteciparono i primi e i secondi segretari delle organizzazioni di partito di Mosca, Leningrado, Kiev, Minsk, Brest, Kerč, Murmansk, Novorossijsk, Odessa, Sebastopoli, Smolensk, Tula. Il motivo ufficiale della convocazione fu la preparazione del 50° anniversario dall’inizio della Grande guerra patriottica. Ma in realtà gli organizzatori dell’assise sfruttarono l’occasione per unire le forze a sostegno della richiesta delle mie dimissioni.

La parte del Politbjuro che tentava di esercitare pressioni su di me per introdurre lo stato d’emergenza e ripristinare i diktat del PCUS era a conoscenza di queste iniziative. Per non dire di più.

Insomma, le forze retrograde del PCUS decisero di trasformare il plenum di aprile in una occasione per esaminare a modo loro la questione del Segretario generale e lanciarmi un ultimatum. Fu persino preparato un progetto di risoluzione sulla situazione del Paese, nel quale, in sostanza, si pronunciava la “sentenza di morte” del corso riformatore, e si respingeva il programma anti-

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crisi del governo già approvato dal Consiglio Supremo dell’URSS.Quando venni a conoscenza di questi retroscena decisi di mettere le cose in

chiaro, di fare capire agli oppositori che non valeva la pena di aspettare la mia capitolazione, che avrei difeso la linea avviata senza compromessi. All’apertura del plenum dichiarai: “Sono in corso tentativi, non solo a parole, di deviare il Paese dalla rotta delle riforme: o lo si vuole lanciare in un’ennesima avventura ultrarivoluzionaria in grado di distruggere il nostro Stato, oppure riportarlo al passato, verso un regime totalitario un po’ edulcorato. Credo che non serva spiegare l’allusione ai piani dei radicali di destra e di sinistra. Entrambi gli orientamenti sono deleteri. E il maggiore pericolo del momento attuale è che essi si sono avvicinati, nonostante sembrassero del tutto incompatibili”.

La pubblicazione della dichiarazione di Novo-Ogarevo suscitò estremo stupore. Forse anche il mio discorso introduttivo frenò coloro che scalpitavano dalla voglia di combattere. Ma non a lungo. Quella notte, evidentemente, si riunirono, e il giorno successivo la veemenza degli oratori, infiammando la sala, si abbattè su di me. Gurenko intervenne senza mezzi termini:”Lei ha fatto ciò che neanche i nostri nemici sono riusciti a fare”. Pretese di “assegnare al PCUS per legge lo status di partito dirigente”, di ripristinare il vecchio sistema di nomina dei quadri dirigenti e il controllo del partito sui mass media. Era incredibile che si potesse essere così distanti dalla realtà.

Non furono da meno Prokof ’ev, Gidaspov, Malofeev (Primo segretario del partito comunista bielorusso). Quest’ultimo pretese direttamente che proclamassi lo stato di emergenza. Anche altri alludevano all’eventualità: se il Presidente non avesse introdotto lo stato di emergenza avrebbe dovuto dimettersi. Dopo l’intervento più sfacciato tra quelli dei partecipanti - mi sembra da parte di Zajcev – presi la parola e dissi: “Basta demagogia. Dò le dimissioni”.

Mi hanno chiesto più volte se presi la decisione influenzato dall’irritazione suscitata dagli attacchi o se avessi già riflettuto sulla mossa. Per strano che possa sembrare, in un certo senso sono vere entrambe le supposizioni. Certo, la vicenda mi coinvolse emotivamente: ebbi il desiderio di finirla subito con quella baraonda. Del resto già in passato non avevo escluso questo epilogo. Allora, forse, era arrivato il “momento della verità”

Durante la pausa si riunì il Politbjuro. Tentarono di convincermi a ritirare le dimissioni. Rifiutai e mi ritirai nel mio ufficio. Nella sala del Politbjuro continuava la discussione. Intorno a Vol’skij, Lacis, Bakatin e Gračev iniziarono a raccogliersi i membri del Comitato centrale contrari alle dimissioni di Gorbaciov. Mi sembra che, in tutto, fossero 72. Elaborarono una dichiarazione nella quale riconoscevano che l’attuale composizione del Comitato centrale

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non era in grado di guidare il partito e chiedevano la convocazione di un Congresso straordinario del PCUS.

Dopo un’ora e mezza il plenum, su proposta del Politbjuro, tolse dall’ordine del giorno la questione delle mie dimissioni con la maggioranza dei voti (13 furono contrari e 14 si astennero). La situazione si era un po’ normalizzata.

Il plenum aveva preso una decisione equilibrata. Nell’intervento conclusivo affermai che il confronto sulle questioni della teoria e della politica del partito sarebbe stato presto avviato nell’imminente discussione sul progetto del programma. Il partito avrebbe dovuto trasformarsi insieme alla società se intendeva conservare l’influenza su di essa. La società, infatti, viveva già in modo nuovo, in uno stato di democrazia che si andava rafforzando. Molti funzionari di partito non riuscivano a valutare in modo corretto la situazione a causa della nostalgia per il monopolio del potere da parte del PCUS. Ricordai anche le difficoltà in cui si trovavano le organizzazioni di partito. Non era il tentativo di sollevare una disputa generale. La politica ottimale era il centrismo, la ricerca degli interessi della maggioranza. Il partito doveva concentrarsi sulla realizzazione di un programma anticrisi e così avrebbe conquistato autorità presso il popolo. Infine mi appellai alla responsabilità di tutti nel valutare la dichiarazione di Novo-Ogarevo dei dirigenti dell’Unione e delle nove repubbliche.

Così fallì il disegno di obbligarmi a rinunciare alle riforme. Non mi faccio illusioni. Molti membri del Comitato centrale votarono contro le mie dimissioni non per simpatia verso di me. Essendo pragmatici si rendevano conto che il partito, in tal caso, si sarebbe definitivamente privato della possibilità di influire sulla politica. Sempre più spesso mi viene da pensare: non avrei fatto meglio a dimettermi in quel momento? Forse sarebbe stata la scelta migliore, ma allora non sentivo di avere il diritto di abbandonare il partito e, probabilmente, ho sbagliato.

l’obiettivo è vicino

I tentativi della nomenklatura del partito di far fallire le trasformazioni democratiche suscitarono delusione in tantissimi comunisti. Nel 1990 uscirono dal partito quasi 2,5 milioni di iscritti. Al 1 luglio 1991 si contavano nel PCUS 15 milioni di tesserati, cioè nel corso di un anno e mezzo gli aderenti erano calati di oltre 4 milioni (22%). Più della metà di coloro che lasciarono il partito lo fecero per motivi ideologici. Una persona su quattro affermava di non voler rimanere nella stessa formazione politica insieme a persone così

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indegne come i funzionari di partito. Cosciente della responsabilità di fronte a milioni di comunisti ritenni

necessario accelerare l’adozione del nuovo Programma del PCUS. La commissione congressuale, che da vari mesi si era riunita a Volynskoe, aveva già presentato cinque varianti, ma tutte si limitavano a idee e principi che non stavano in piedi. Allora decisi di entrare in gioco di persona, insieme ai miei collaboratori. Il risultato fu il documento presentato al plenum del Comitato centrale del luglio 1991.

Il progetto di Programma fu pubblicato nella seconda metà di luglio. Il 25 si riunì il plenum.

Tra la moltitudine di questioni riguardanti il Programma ne evidenziai una nella quale, si può dire, erano inciampate molte generazioni di sostenitori del socialismo: il rapporto tra socialismo e mercato. Dichiarai: “In passato i due concetti erano incompatibili in URSS perchè i rapporti di mercato contraddicevano il principio della ripartizione del lavoro, e sulla loro base si fondava lo sfruttamento di un uomo sull’altro. Nella realtà il mercato da solo non determina il carattere delle relazioni produttive: esso era e resta sin dai tempi antichi l’unico meccanismo in grado di misurare in modo obiettivo, e in qualche modo senza ingerenze burocratiche, l’apporto lavorativo di ogni produttore.

L’economia di mercato permetterà al Paese di inserirsi organicamente nell’economia mondiale. A questo fine è necessario stabilire regole generali per l’attività imprenditoriale, libertà di scambio delle merci, valuta stabile e, condizione indispensabile, uno stato di diritto e una società civile. Solo se garantiremo queste condizioni potremo occupare un posto degno nella distribuzione mondiale del lavoro.

Già da tempo è arrivato il momento di riconoscere che è passata l’epoca in cui i popoli non avevano altri metodi per cambiare la loro situazione se non quelli della presa della Bastiglia o del Palazzo d’inverno”.

Proposi di convocare il Congresso nel novembre - dicembre 1991 e durante l’assise approvare il nuovo Programma di partito.

La discussione fu accesa, violenta. Nonostante tutto il plenum affidò alla commissione di redazione il compito di concludere la stesura del progetto, il che fu fatto senza troppi danni. Alla fine dei lavori del plenum parlai della necessità di avere larghezza di vedute e pazienza verso i dissenzienti. La società non voleva lo scontro, aveva tirato un sospiro di sollievo quando era stato lanciato l’appello a mettere al di sopra di tutte le dispute partitiche gli interessi del popolo, della patria e dello Stato.

Il 10 luglio, durante una solenne seduta del Consiglio superiore della

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RSFSR, ebbe luogo l’insediamento di El’zin. Gli manifestai piena lealtà. Credevo che, avendo raggiunto l’obiettivo, il Presidente della Russia e la sua squadra si sarebbero occupati dell’amministrazione della Repubblica e avrebbero messo da parte i loro ambiziosi piani distruttivi.

Nello stesso mese fu avviato il programma anticrisi. Avevamo penato molto per realizzarlo vista la grande responsabilità di cui si gravava. Fummo denigrati sia da coloro che erano aggrappati al vecchio sistema economico, sia da quelli che volevano farlo capitolare subito. Alla fin fine elaborammo una variante che fu approvata anche dalle Repubbliche federate.

È noto che nei momenti di svolta della storia il tempo si condensa, si comprime. In tali periodi, sia per il significato sia per le conseguenze, i mesi, le settimane, e persino i giorni equivalgono a secoli. Così avvenne nella seconda metà del 1991. La molla scatenante fu la lotta intorno a tre questioni.

1) l’integrità del Paese e la sorte dello Stato federale: andare avanti uniti o dividersi?

2) il destino della Perestrojka e delle riforme economico-politiche iniziate nel 1985: sarebbero continuate? In caso affermativo, quale prezzo sarebbe stato pagato per il passaggio a un sistema più efficiente?

3) il potere: a chi? Quali forze sociali, partiti o leader avrebbero preso il timone del comando nella nuova tappa della nostra storia?

Alla fine di luglio, dopo un percorso complesso, riuscimmo ad avvicinarci a una risposta razionale a questi interrogativi.

Non intendo affermare che arrivammo a una soluzione definitiva. In conformità con il progetto di Accordo federale questo problema così carico di conseguenze per lo Stato fu risolto in modo ottimale: si evitò il conflitto e furono introdotti cambiamenti con la Costituzione, non con la forza delle armi.

l’inGresso nel G7Secondo i nostri piani il programma anticrisi avrebbe dovuto svilupparsi

parallelamente al passaggio graduale dell’economia sovietica a quella di mercato. Nei fatti, si trattava di avviare le relazioni con i Paesi del G7.

La Perestrojka prevedeva il rifiuto dell’autarchia alla quale, in un modo o nell’altro, era soggetta l’economia sovietica. Ne parlai all’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre del 1988 e, in seguito, nel colloquio del 18 gennaio ’89 con i rappresentanti della “Commissione tripartita” che aveva preparato la

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relazione sui rapporti tra Oriente e Occidente (Rockefeller, Giscard d’Estaing, Nakasone, Kissinger).

Scrissi una lettera al presidente Mitterrand. Inoltre, sapendo che l’incontro annuale del G7 a Huston si sarebbe incentrato sulla situazione dell’URSS e dei Paesi dell’Europa orientale, mandai un messaggio ai partecipanti al summit. Nei colloqui con i rappresentanti occidentali che ebbi nell’autunno del ’90 sottolineai sempre che il superamento della crisi e la riforma dell’economia erano compiti che nessuno avrebbe potuto svolgere al posto nostro. Anche l’Occidente, tuttavia, aveva interesse alla creazione di un’economia stabile in URSS. Ma mi obiettavano che la riforma in URSS andava troppo veloce, che l’economia non era ancora “di mercato”, e che ciò rallentava il movimento di avvicinamento all’Occidente.

Nella primavera del ’91 Kohl, Mitterrand e Andreotti appoggiarono l’idea di invitarmi al G7 di Londra. Anche John Major, che dal 1° luglio presiedeva il G7, guardò con favore all’eventualità. Quando ci incontrammo a Mosca, la Thatcher mi fece sapere che la sosteneva in pieno.

La situazione non appariva semplice, soprattutto per la posizione degli USA. Nella prima decade di maggio i giornali britannici resero noto che Major aveva intenzione di invitarmi a Londra. Il mio intervento del 5 giugno a Oslo, in occasione della lectio alla cerimonia di consegna dei Nobel, ebbe larga risonanza. In quella circostanza avevo sostenuto senza mezzi termini la necessità della partecipazione sovietica al G7. Fu così che, già alla fine di giugno, ricevetti un invito formale al summit di Londra.

Iniziammo a prepararci al vertice molto tempo prima. Alla fine di maggio, durante la seduta del Consiglio di sicurezza dell’URSS dedicata all’ingresso nel Fondo monetario internazionale, sollevai la questione dell’eventuale partecipazione al G7 di Londra. L’idea fu appoggiata.

Alla fine di maggio firmai il decreto sulla preparazione dei materiali in vista del vertice. I documenti furono portati all’esame dei dirigenti delle Repubbliche alla conferenza di Novo-Ogarevo dell’8 giugno. Il clima dell’incontro fu sereno. Vennero meno i timori che al G7 avrebbero presentato all’URSS delle richieste inaccettabili. Tutti i capi delle Repubbliche, a partire da El’zin, sostennero la mia posizione e mi diedero il mandato. L’11 giugno inviai ai leader del G7 le nostre proposte.

Alla vigilia del vertice ricevetti una lettera da Bush: “Vorrei sottolineare – mi scrisse – che io e i colleghi del G7 auspichiamo all’unisono il successo delle riforme in Unione Sovietica. L’introduzione del libero mercato e della democrazia non è solo vostro interesse, ma interesse del mondo intero. […] Sappiamo tuttavia che il destino delle riforme dipende solo dal popolo

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sovietico. Vorrei che cominciassimo ad ampliare i nostri sforzi comuni per progredire in quei settori nei quali potrete vedere in tempi brevi i risultati della collaborazione. So quanto sia importante, soprattutto all’inizio, avere delle conferme del successo delle scelte compiute. Il ministro dell’Agricoltura Edward Madigan, tornato dalla missione in URSS, continua a lavorare sulla questione degli approvvigionamenti alimentari. Siamo in contatto con i vostri esperti per fissare le date della visita dei nostri specialisti dell’industria della difesa al seguito del viceministro Donald Etwood. Quest’estate abbiamo inviato esponenti del governo e del mondo economico al fine di aiutarvi a elaborare una strategia per attirare i capitali nel settore dell’energia. Nei prossimi mesi lavorerò con Lei per trovare altri campi in cui potremmo sostenervi e confido nelle Sue proposte. Michail, attendo con impazienza di incontrarla a Londra”. Tale fu la lettera di Bush, con molti aspetti sottintesi e alcuni elementi di pressione. Dal testo traspariva quella particolare posizione dell’amministrazione statunitense che si sarebbe evidenziata al summit di Londra. Considerati i dubbi di alcuni leader del G7, la mia partecipazione fu pensata nella cornice di un incontro speciale a margine del vertice. Non diedi importanza al “dettaglio”, sapendo che la formula “7+1”, anche senza diventare G8, avrebbe avuto un’importanza decisiva. E così fu.

Giunsi a Londra il 16 luglio. La mattina seguente ebbi un colloquio con Bush. Col presidente americano conclusi l’accordo sulle armi strategiche offensive. Il vertice del G7 fu aperto solennemente nella Lancaster House. Major mi diede il benvenuto nel saluto inaugurale. Definì l’incontro “storico”, e disse che il mio messaggio ai partecipanti era stato esaminato ma necessitava di alcune spiegazioni. I leader del G7 volevano delle delucidazioni sui piani di privatizzazione e di liberalizzazione dell’economia; sulle modalità di soluzione del deficit di bilancio e dei prezzi; sul problema finanziario nelle relazioni tra il Centro e le Repubbliche; sulle particolarità del nostro futuro mercato.

Intervenni sottolineando che l’incontro di Londra era il simbolo delle trasformazioni in atto nei rapporti internazionali. Ciò che era impensabile solo due o tre anni prima ora era diventato logico e naturale.

L’idea di inserire il Paese nell’economia mondiale nasceva dall’urgenza di cambiamenti radicali in URSS e dai passi recenti intrapresi dall’Occidente. Formulai il concetto di “nuova qualità” della collaborazione economica e attirai l’attenzione sul pacchetto di proposte in merito ai programmi concreti. La mia relazione, insomma, rispose alle richieste di chiarimenti che mi erano state poste. Ne scaturì un dibattito, a tratti acceso, ma senza dubbio proficuo.

Ringraziai i partecipanti per il clima franco, responsabile e partecipe in cui si era svolto il vertice. Al termine del discorso affermai: “è importante quello

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che diremo al mondo su questo incontro. È stato davvero un brainstorming collettivo. Abbiamo riflettuto insieme e credo che le scelte intraprese rappresentino una svolta significativa”.

Riepilogando i risultati del summit Major affermò: “È stato un confronto sincero e disinvolto, senza formalità. Abbiamo affrontato questioni spinose alle quali siamo riusciti a dare una risposta. Il vertice ha dimostrato che abbiamo l’intenzione comune di lavorare insieme per favorire l’integrazione dell’URSS nell’economia mondiale”.

Le intese raggiunte furono riassunte da Major nei seguenti punti: - “Ci siamo accordati sulla necessità di concedere all’Unione Sovietica

lo status di partner associato delle organizzazioni economiche internazionali (FMI e Banca mondiale) come passo verso l’integrazione dell’URSS in queste strutture.

- Chiediamo a tutte le organizzazioni economiche internazionali di avviare una stretta collaborazione con l’Unione Sovietica e di offrirle un sostegno consultivo durante il passaggio all’economia di mercato.

- Vogliamo mettere a disposizione dell’URSS il nostro potenziale tecnico e intensificare la collaborazione nella realizzazione di progetti nei campi dell’energetica, della riconversione, dell’approvvigionamento e dei trasporti.

- Essendoci resi conto che, come ha sottolineato il presidente Gorbaciov, si è verificato un crollo delle relazioni economiche tra l’URSS e i Paesi vicini, tenteremo di ricostituire questi rapporti e ripristinare l’accesso delle merci provenienti da tali Stati nel mercato sovietico.

- Questo vertice non resterà un fatto isolato. Creeremo un organismo attraverso il quale il presidente di turno del G7 manterrà un contatto stretto con l’Unione Sovietica. I partecipanti al summit, inoltre, ritengono opportuno che, in qualità di presidente in carica, visiti l’Unione Sovietica entro la fine dell’anno e riporti al G7 le mie considerazioni.

- Abbiamo concordato che i nostri ministri dell’economia e delle attività commerciali visitino quest’anno l’URSS ed esaminino le questioni legate alle trasformazioni economiche in corso in Unione Sovietica”.

Il giorno seguente ebbi approfonditi colloqui con il primo ministro britannico. Major propose di inviare a Mosca il loro ministro delle Finanze e mi confermò che lui stesso era disponibile a venire in URSS entro la fine dell’anno. Fu così che, nell’agosto del 1991, iniziò l’abbattimento delle barriere e fu avviata l’integrazione dell’Unione Sovietica nell’economia mondiale.

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GeorGe bush a Mosca

Il presidente degli Stati Uniti d’America giunse in URSS alla fine di luglio per firmare il Trattato sulle armi strategiche offensive. Avemmo diversi colloqui: una conversazione privata la mattina del 30 luglio, a seguire le trattative con le delegazioni, infine lo scambio di opinioni durante la colazione di lavoro a Novo-Ogarevo il 31. Il clima di ogni incontro fu improntato alla fiducia e alla comprensione reciproca.

Di grande importanza fu la conversazione confidenziale a Novo-Ogarevo, “senza cravatta né protocollo”.

Ciò che mi premeva di più era l’analisi delle prospettive per la creazione di un sistema di sicurezza comune. Sottolineai che già avevamo raggiunto, grazie agli sforzi comuni, dei cambiamenti positivi nella situazione internazionale. Era giunto il momento di elaborare un nuovo concetto di stabilità strategica. In passato si guardava solo al fattore militare. Ora urgeva prendere in considerazione anche gli elementi di stabilità economica e politica. Diventava infatti sempre più palese il ruolo destabilizzante dei conflitti tra le nazionalità e, in alcuni casi, tra le religioni.

“Con il nostro operato abbiamo avviato rilevanti trasformazioni – dichiarai – e vogliamo che esse continuino. Abbiamo, tuttavia, un problema: come mantenere questo processo nei binari della legalità e della pace? Come impedire che venga strangolato dai cataclismi generati dal caos all’interno e all’esterno degli Stati? Un’altra incognita sarà la nascita di forti centri di influenza accanto alle due superpotenze atomiche: basta dare uno sguardo a ciò che sta avvenendo in Europa. Crescerà il potere geopolitico della Cina e dell’India le quali, da sole, contano due miliardi di abitanti. Si tratta di popolazioni antichissime che ora desiderano costruire autonomamente il proprio destino. […] I grandi cambiamenti nell’area del Pacifico avverranno se il Giappone si accontenterà di essere soltanto una potenza economica”. Sollevai anche i problemi delle risorse, dell’ambiente e dei processi demografici. Tutti, sebbene in modo diverso, ponevano interrogativi sul ruolo che i nostri Paesi avrebbero giocato nel nuovo contesto internazionale.

Bush dichiarò per l’ennesima volta che gli USA auspicavano che l’URSS diventasse un Paese potente, stabile dal punto di vista economico, capace di trasformazioni radicali in senso democratico. Sulla situazione dell’Europa affermò: “Vogliamo mantenere il nostro coinvolgimento in Europa. Continueremo a sostenere il processo dell’OSCE26 , ovviamente con la

26 Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.

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partecipazione dell’URSS”. Circa il futuro delle relazioni sovietico-americane Bush confermò che la linea dell’amministrazione USA era “appoggiare la politica di Gorbaciov”, nonostante le pressioni in direzione contraria da parte di alcuni ambienti americani.

In previsione dell’imminente visita a Kiev, Bush mi assicurò che né lui né nessun altro membro della sua delegazione avrebbero compiuto gesti interpretabili come un appoggio alle tendenze separatiste. Per esempio mi disse che il presidente del Consiglio Supremo della Lituania Landsbergis aveva cercato di ottenere che Bush, nel viaggio di ritorno, facesse una tappa a Vilnius. Il presidente avrebbe opposto un rifiuto.

Tuttavia, secondo Bush c’era da augurarsi che noi rispettassimo il desiderio delle Repubbliche baltiche.

Come nei colloqui precedenti, le questioni economiche occuparono un posto importante. Chiesi a Bush come aggirare il “periodo di prova” per l’ingresso dell’URSS nel Fondo monetario internazionale. Avevamo urgenza di usufruire del sostegno di quell’istituzione proprio allora. Dalla sua risposta capii che non c’era da aspettarsi un grande sostegno da parte degli USA. Decidemmo di continuare l’analisi della questione insieme ai ministri dell’Economia.

Per quanto concerneva lo smantellamento degli arsenali atomici convenimmo sull’opportunità di rilanciare i negoziati sul Trattato ABM e di riunire gli esperti di armi biologiche il 30 settembre 1991. Inoltre, appoggiammo la creazione di due gruppi di lavoro sulle questioni legate alla limitazione, alla prevedibilità e alla stabilità non solo dal punto di vista bellico, ma anche in relazione alla situazione nelle regioni ad alto potenziale di conflitto. Riguardo alla non proliferazione delle armi di distruzione di massa confermammo con reciproca risolutezza di voler concludere le trattative per la convenzione sulla liquidazione delle armi chimiche.

Alla questione mediorientale fu dedicato ampio spazio. L’obiettivo principale in quel momento era la convocazione della Conferenza di pace. Dichiarai che Mosca era disposta a riaprire le relazioni diplomatiche con Israele non appena fosse stata fissata la data d’inizio del summit. Aggiunsi che Bush avrebbe potuto trasmettere l’informazione agli israeliani.

Anche il tema jugoslavo fu trattato nei dettagli. Nell’analisi del documento ufficiale su questo problema proposi di formulare il testo in modo da chiarire che l’unica possibilità per risolvere i problemi interetnici sarebbe stato il processo costituzionale, con riferimento ai principi dell’OSCE sulla inviolabilità delle frontiere tra gli Stati. Bush non si oppose. Dalle sue affermazioni, fra l’altro, mi sembrò che tra gli europei occidentali si stessero consolidando le forze che

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appoggiavano il rimaneggiamento della carta del continente e che esercitavano pressioni sul presidente USA.

La cerimonia della firma dell’Accordo sulle armi strategiche offensive si svolse al Cremlino, nella sala di san Vladimir. Le trattative si erano protratte per oltre nove anni.

Bush dichiarò: “Con questo accordo stiamo rinsaldando le opportunità emerse nelle relazioni tra i nostri Stati e ci stiamo avviando verso un futuro più stabile”.

Oggi ricordo quella visita con un certo rammarico. Avevamo pensato al futuro e non avevamo previsto ciò che sarebbe accaduto dopo tre settimane…

Nel colloquio analizzammo i risultati del lavoro svolto. In quegli anni a informare le relazioni internazionali erano scenari del tutto nuovi. La politica era passata da una fase in cui le due superpotenze si consideravano nemiche a tal punto che avrebbero accettato di far precipitare il mondo nel baratro, a una fase in cui si erano normalizzati i rapporti tra i due Stati. Insomma, l’incontro del 31 luglio ’91 a Novo-Ogarevo fu la “stella polare” del nuovo pensiero e della politica estera a esso ispirata. Quando ci stringemmo la mano per salutarci sulla soglia del Cremlino, eravamo già entrati nel mese di agosto, del tragico agosto 1991.

***

Nel luglio del 1991 mi sembrava che tutto si fosse “concluso”. Eravamo giunti alla fine del percorso avviato nell’aprile 1985. Erano state poste le premesse per tirar fuori il Paese dalla crisi e far avanzare le trasformazioni democratiche. Per questo il 4 agosto andai in vacanza, convinto che due settimane dopo avremmo firmato l’Accordo federale a Mosca.

Continuai a seguire a distanza i lavori di redazione del documento. L’Accordo veniva attaccato da destra e da sinistra. Da una parte lamentavano che, con la firma dell’Accordo, avrei ceduto alle richieste dei separatisti. Dall’altra, con critiche violente dello stesso tenore, mi accusavano di voler preservare lo strapotere del Centro e la “supremazia della nomenklatura comunista”.

Il 14 agosto chiamai El’zin e dall’altra parte del telefono ne percepii l’insicurezza. Mi chiese se fossi consapevole degli attacchi a cui si era esposto. Gli risposi che anch’io ero criticato, e aggiunsi che se venivamo accusati dagli estremisti di destra e di sinistra allora voleva dire che avevamo imboccato la strada giusta. E conclusi:

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“Boris Nikolaevič, non importa da che parte arrivino gli attacchi: non dobbiamo arretrare nemmeno di un passo dalle posizioni approvate. Manteniamo il sangue freddo e continuiamo a lavorare per la firma dell’Accordo”.

Ci salutammo con cordialità, ma ebbi l’impressione che El’zin avesse tralasciato di dirmi qualcosa. Solo in seguito si seppe che alcuni politici della sua cerchia avevano esercitato pressioni su di lui e avevano presentato delle condizioni da inserire nell’Accordo in cambio del loro voto a favore. Ma queste sono valutazioni tardive.

All’epoca ero sicuro che avremmo firmato l’Accordo. Conoscevo la posizione dei cittadini – che era stata espressa con il referendum – e sapevo che tentare di far fallire l’Accordo sarebbe stato un rischio troppo alto. A distanza di anni, invece, posso affermare che El’zin aveva messo in conto l’eventualità. Come raccontò in seguito Nazarbaev, El’zin in quel periodo sondava il terreno dietro le quinte per verificare la realizzabilità di un accordo alternativo “a quattro” tra Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan.

il Putsch

Cosa spinse coloro che sarebbero passati alla Storia come “putschisti” a lanciarsi in un’impresa così avventurosa?

Il 30 giugno incontrai El’zin e Nazarbaev a Novo-Ogarevo. Avevamo deciso di vederci prima che partissi per le vacanze per discutere i primi passi da compiere dopo la firma dell’Accordo federale. La data della firma era già stata fissata. Secondo loro, dal momento che l’Accordo raggiunto avrebbe riguardato anche le norme costituzionali e le modalità di elezione del presidente federale, subito dopo la firma urgeva convocare le elezioni. Fui d’accordo. Aggiunsero un’altra proposta (probabilmente concordata in precedenza): appoggiare la mia candidatura alla carica presidenziale. Queste le loro parole: “Le chiediamo di smentire che lei non ambisce al ruolo di presidente nel nuovo Stato federale. Con la sua posizione lei ci minaccia e ci ricatta”.

Il loro atteggiamento era la reazione a ciò che avevo affermato durante il dibattito sul progetto di Accordo: “Se i dirigenti delle Repubbliche ritengono che, battendomi per preservare l’Unione e il Centro federale, ambisca a tornaconti personali, sono pronto a firmare un documento in cui mi impegno a non partecipare alle prossime elezioni. Mi è più cara l’Unione che l’interesse personale. Ne è prova che io stesso ho attuato una riforma per limitare gli

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immensi poteri del Segretario generale, per raggiungere la separazione dei poteri e per convocare libere elezioni. Questo è Gorbaciov. Purché ‘viva l’amata nazione’ – come recita la nota canzone - sono pronto a non presentarmi alle elezioni”.

Poiché i processi di disintegrazione stavano crescendo nella società molto velocemente, El’zin e Nazarbaev erano favorevoli ad adeguare le strutture degli organi repubblicani al nuovo Accordo senza temporeggiamenti. Decidemmo di parlarne con i presidenti delle altre repubbliche.

La conversazione si fece seria. El’zin ripeteva: “Siamo sicuri che non ci stia ascoltando nessuno?”. (Aveva sesto senso. Come notò una volta un ambasciatore americano, El’zin “possedeva l’istinto degli animali, che ben percepiscono il pericolo”). Gli ribattevo: “Boris Nikolaevič, perché ti agiti?”. E lui: “Perché stiamo parlando di queste cose…”. E aveva ragione. Quel giorno restammo seduti dalla mattina alla sera. La nostra conversazione fu registrata per ordine del capo del KGB, Krjučkov.

Conosco di che cosa siano capaci i servizi segreti e sono certo che quel nastro è stato conservato. La formazione del Comitato di emergenza nazionale non fu solo la conseguenza del nostro colloquio. Fu anche il risultato del fatto che i golpisti non erano riusciti a raggiungere il successo con la lotta politica. Quando ascoltarono la registrazione e seppero che avevamo detto che Pavlov non aveva prospettive, che Krjučkov, Jazov e altri sarebbero stati pensionati, elaborarono il complotto. Krjučkov fornì il nastro, gli altri decisero di agire. Fino ad allora non gli era riuscito di coalizzare le forze, ma con quel “materiale” interessante centrò l’obiettivo. Nell’operazione non c’era nessun pensiero sulle sorti dell’Unione. L’Unione si sarebbe salvata solo con l’Accordo che stavamo per firmare. Ai golpisti erano a cuore solo i gretti interessi personali. Le dichiarazioni a favore della patria erano pura demagogia. Non che non si preoccupassero del destino del Paese: il problema è che lo identificavano con il ritorno al vecchio sistema e agivano con l’intento di preservare le loro poltrone.

Le notizie che dalla capitale mi giungevano in Crimea erano poco rassicuranti. Pensai che fosse urgente tornare a Mosca e chiesi ai compilatori dell’Accordo di affrettare il lavoro. L’aereo era già pronto. Il 18 agosto chiamai Šachnazarov a Foros per esprimergli le mie intenzioni. Fu l’ultima telefonata prima che la linea fosse isolata. Me ne accorsi alle 16.50. La conversazione con Šachnazarov era terminata alla 16.32.

Alle cinque mi comunicarono che erano arrivati all’improvviso nella mia residenza Baklanov, Šenin, Boldin, Varennikov e Plechanov. Mi meravigliai e dissi al capo-scorta che non avevo invitato nessuno. I guardiani avevano lasciato

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passare i visitatori perché tra loro c’erano i dirigenti dell’amministrazione presidenziale. In nessun altro caso avrebbero autorizzato l’ingresso di ospiti inattesi senza il mio permesso.

Quando decisi di mettermi in comunicazione con Mosca e di parlare con Krjučkov mi accorsi che tutti i telefoni, anche quello d’emergenza, erano muti. Persino la centrale telefonica della città era isolata. Uscii sulla veranda, dove Raisa Maksimovna stava leggendo i giornali, e le comunicai che erano arrivati degli ospiti inattesi non si sa per quale motivo. La situazione era grave…

Il gruppo arrivò senza tante cerimonie. Dopo averli invitati nel mio ufficio chiesi loro il motivo della visita. Baklanov mi informò che era stato creato un Comitato di emergenza nazionale perché la situazione del Paese stava precipitando. Nessuna misura avrebbe risolto il problema. Avrei dovuto firmare subito il decreto di proclamazione dello stato di emergenza. Insomma, erano venuti per darmi un ultimatum.

Baklanov elencò i nomi dei membri del Comitato, nominando anche Luk’janov. Aggiunse che El’zin era stato arrestato, ma poi si corresse: sarebbe stato arrestato nel viaggio tra Alma Ata e Mosca. Così i cospiratori intendevano farmi capire che tutto il potere era già nelle loro mani.

Respinsi in modo categorico le richieste. “Se non vuole firmare il decreto dia i pieni poteri a Janaev” – mi propose Baklanov. E continuò: “Si riposi. Noi svolgeremo il ‘lavoro sporco’ e poi potrà tornare a Mosca”. Varennikov suggerì: “Oppure dia le dimissioni”. Erano le parole rivolte da un generale al presidente del Paese, Comandante supremo delle Forze armate. Per quest’affermazione sarebbe stato passibile di condanna da parte di un tribunale militare.

“Non ci sperate! Siete dei criminali e risponderete della vostra impresa folle!” – gridai. Così terminò il nostro colloquio. Quando furono usciti non mi trattenni e li ricoprii di insulti “alla russa”.

Spesso mi chiedono perché non feci arrestare i golpisti dalla mia scorta armata. Prima di tutto, perché credevo che il rifiuto dell’ultimatum li avrebbe indotti a rinsavire. Non era la prima volta che avrei frenato qualcuno dal compiere passi sconsiderati e anche in quell’occasione speravo che la mia risolutezza si sarebbe rivelata vincente. Peraltro, tentare di arrestarli sarebbe stato impossibile. I cospiratori avevano pensato a tutto: avevano isolato il presidente a Foros; avevano tagliato le linee telefoniche; avevano messo due file di soldati a guardia della mia dacia, pure sulla riva del mare, nessuno poteva entrare, né uscire. Si trattava, in sostanza, dell’arresto del presidente. Avevano usurpato il potere.

I putschisti si resero conto che il mio rifiuto li aveva fatti passare nella posizione di delinquenti. Nel tentativo di legittimare l’operazione diffusero la

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falsa notizia che ero gravemente malato e che non potevo espletare le funzioni presidenziali.

Non essendo riusciti a convincermi, i cospiratori si scoraggiarono. Il tentativo di destituirmi così come con Chruščëv era fallito, e con ciò è spiegabile la loro successiva indecisione. Un duro colpo al disegno golpista fu dato dalla ferma opposizione del Presidente della RSFSR, del Consiglio Supremo della Russia, di numerosi generali e ufficiali, dei dirigenti moscoviti e pietroburghesi, di molti esponenti pubblici, dei deputati e dei cittadini della capitale.

Queste circostanze determinarono l’insuccesso del colpo di Stato. Gli analisti più fini hanno rilevato anche una causa più profonda: la maggior parte della società non voleva tornare al sistema del passato. Gli istituti democratici creati con la Perestrojka, nonostante la fragilità, superarono la prova.

In quei tre giorni di agosto io e la mia famiglia vivemmo al limite delle capacità umane. Per fortuna le vicende si conclusero in poco tempo, sebbene l’esito avrebbe potuto essere molto diverso. Non va dimenticato, infatti, che in un sondaggio svolto in seguito circa il 40% degli intervistati provava simpatia per gli insorti. E che i dirigenti delle Repubbliche, a eccezione della Russia, non avevano assunto una posizione decisa. Anche la reazione di molti Stati all’estero era stata attendista: il ministero degli Esteri di Mosca aveva inviato loro una nota sul cambio di potere al Cremlino.

Il putsch fu sconfitto, ma non escludo che se fosse avvenuto l’anno prima forse sarebbe andato in porto. È un’ulteriore conferma, la più convincente, a favore della politica della Perestrojka.

Seguendo gli avvenimenti con la mia radiolina tascabile, già il 20 agosto ebbi l’impressione che la situazione non andasse a vantaggio dei putschisti. Ne ebbi la conferma quando atterrarono a Foros i capi golpisti Krjučkov, Jazov, Luk’janov e Ivaško con la richiesta di incontrarmi

A conoscenza dell’arrivo diedi ordine alla scorta di presidiare la dacia e di aprire il fuoco in caso avessero tentato di entrare senza il mio consenso. Luk’janov e Ivaško convinsero i guardiani che non c’entravano niente con i golpisti e lo ripeterono quando, nonostante tutto, accettai di riceverli.

Posi loro una condizione: non ci sarebbe stato alcun colloquio fino al ripristino delle linee telefoniche. Così ottenni di poter parlare con El’zin, Nazarbaev, e altri dirigenti delle Repubbliche. Chiamai anche Bush.

Iniziai a dare i primi ordini. Innanzitutto, sollevai Jazov dai suoi incarichi, affidai la guida del ministero della Difesa a Moiseev e gli diedi il compito di garantire l’atterraggio a Bel’bek dell’aereo con il quale stava arrivando a Foros un gruppo guidato da Ruckij. Ordinai al capo delle comunicazioni

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del governo di isolare tutti i telefoni dei membri del Comitato di emergenza nazionale. Comandai all’amministratore di proteggere il Cremlino e di isolare tutti i putschisti che si trovavano all’interno.

Quando giunse a Foros la delegazione partita da Mosca ebbi la sicurezza di essere libero per davvero.

Atterrai nella capitale la notte del 22 agosto. Il 23 andai al Cremlino. Nel tragitto verso il mio ufficio rilasciai ai giornalisti una dichiarazione che in seguito fu spesso citata e rimodellata: “Sono giunto da Foros in un nuovo stato. Io stesso sono un’altra persona, non più quello di prima”. Era la prima impressione spontanea dell’accaduto. Allora non ero ancora consapevole delle dimensioni della tragedia. Molti fatti mi restavano oscuri e non riuscivo a elaborare tutte le informazioni che giungevano. I giorni trascorrevano in sedute senza fine per risolvere problemi improcrastinabili. Tornavo a casa la sera tardi con valigie cariche di documenti che leggevo fino alla mattina seguente: promemoria, dispacci degli ambasciatori, bollettini delle agenzie di stampa. Con gradualità mi si delineò il quadro della situazione.

Appresi che alcuni di quelli che avevo riconfermato nei loro incarichi subito dopo essere tornato a Mosca erano pronti a servire lo Stato e i golpisti. Fui così costretto a riesaminare le decisioni prese. Simili errori erano giustificati dalla nostra ignoranza di molti elementi legati all’accaduto. Alcuni si palesarono dopo qualche mese, altri sono tuttora poco chiari.

Venni anche a sapere della vergognosa condotta della maggioranza dei membri della Segreteria del Comitato centrale e di molti organi locali di partito, che avevano appoggiato il Comitato di emergenza nazionale. Non sopportò la prova neanche il Comitato centrale che, di fatto, aveva solidarizzato con il Comitato, sebbene diversi membri avessero condannato il putsch. Nazarbaev, Karimov e altri segretari di partito delle Repubbliche lasciarono il Politbjuro e uscirono dal Comitato centrale.

Dopo il golpe mi furono indirizzate tantissime critiche, a volte legittime, in altri casi ingiuste. Non potevo lasciare senza risposta alcune domande: non sarebbe stato opportuno servirmi del mio potere prima e in modo più risoluto per fermare quelle forze che in seguito organizzarono il putsch? Utilizzare i pieni poteri del mandato presidenziale non sarebbe stato un imperativo per rafforzare la posizione centrista rispetto a quelle dei radicali?

Già all’epoca dichiarai al Consiglio Supremo dell’URSS che sentivo la responsabilità di non aver tentato tutto il necessario per evitare il golpe. È evidente che avrei dovuto preoccuparmi di più di creare delle garanzie per scongiurare il pericolo non solo indebolendo le posizioni della nomenklatura, ma anche elaborando dei meccanismi che escludessero l’eventualità di

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utilizzare l’esercito e gli organi di sicurezza in operazioni simili. Spesso mi chiedono se sarebbe stato possibile, e con quali misure, volgere la situazione in positivo. Rispondo così: in nessun caso l’utilizzo della forza avrebbe sbloccato la situazione. Ciò che impedì ai putschisti di far tornare indietro l’orologio del Paese a prima della Perestrojka fu il nuovo clima politico diffusosi nella società e nel mondo, libero dai peggiori fattori di competizione della Guerra fredda. Era, insomma, il frutto dell’attuazione dei disegni della Perestrojka.

A settembre iniziarono a comparire sulla stampa degli articoli in cui gli autori esternavano il sospetto che io fossi in qualche modo “colluso” con i golpisti. Le abominevoli e infami menzogne su quelle vicende costruite sino a ora dai neostalinisti e dai nostri valorosi “democratici” sono ripugnanti.

La cecità politica e gli interessi personali portarono i membri del Comitato d’emergenza a compiere gesti che tolsero ogni freno ai radicali e ai separatisti. Questi ultimi ebbero un argomento importante a favore della disintegrazione dell’Unione. I putschisti, quindi, azionarono il meccanismo.

El’zin non si era deciso a mettersi apertamente contro l’Unione. I golpisti gli fecero un regalo. Glielo servirono su un piatto d’argento. Nel giro di due settimane tutte le Repubbliche federali proclamarono l’indipendenza. Il processo di decentralizzazione che era in corso, e che il nuovo Accordo avrebbe dovuto rafforzare con una cornice giuridica, si trasformò in un processo di disintegrazione. I tragici fatti di agosto allontanarono da Mosca, la capitale storica, molti popoli e provocarono le passioni nazionalistiche.

chi ha tradito chi?Non sono un uomo vendicativo e non credo che gli organizzatori del

putsch, oggi persone per la maggior parte anziane e malate, debbano finire la loro vita in prigione. Il processo, tirato per le lunghe intenzionalmente, fu chiuso grazie all’amnistia proclamata nel febbraio del 1994. Ma la Storia condannerà comunque i cospiratori. Pur ammettendo che i golpisti non avessero messo al primo posto l’obiettivo di salvaguardare le proprie poltrone e non avessero agito per interesse personale, ma per il bene della Patria, le conseguenze della loro impresa furono catastrofiche.

La riflessione sugli episodi dell’agosto del 1991 ci porta a toccare aspetti profondi della storia russa; a comprendere la differenza tra l’autentico patriottismo e quello apparente, tra la vera democraticità e il democratismo; ad affrontare il problema della innata tragicità della Storia, con tutte le

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opportunità non sfruttate e le perdite irreparabili. La conclusione dell’Accordo sarebbe stata l’unica alternativa concreta al

crollo del Paese, ma si preferì farla fallire. È stata l’opera del Comitato di emergenza nazionale. Gli autori del golpe tentano tuttora di convincere i russi del loro patriottismo. Il potere e alcuni mass media li aiutano nell’operazione. E non ci si dimentica di insignirli, di tanto in tanto, di qualche onorificenza! Presiedono conferenze solenni, il presidente concede loro attenzione. In questo quadro appaiono non del tutto logici i rimpianti per il crollo dell’Unione Sovietica.

La firma dell’Accordo avrebbe garantito un ragionevole equilibrio politico tra gli interessi delle Repubbliche e quelli del Centro federale. La salvaguardia, il rinnovamento e la riforma dell’Unione erano il mio obiettivo politico principale. E, permettetemi di aggiungere, anche morale.

Dopo i tragici avvenimenti di agosto la dirigenza sovietica fu costretta ad analizzare le cause dell’accaduto. Il putsch minò le posizioni del presidente dell’URSS e l’autorità del potere federale.

Fino a quel momento, come ho già scritto, eravamo riusciti a elaborare il nuovo programma del partito, a realizzare riforme radicali. Avevamo fatto chiarezza sui problemi del mercato e della proprietà, ma la situazione del Paese era gravemente peggiorata. Molti cercarono la via d’uscita nella disintegrazione dell’Unione, facendo leva sui sentimenti nazionalistici e sul malcontento popolare. El’zin iniziò a richiamarsi alla bandiera della Russia. Per attirare dalla propria parte le aziende federali promise di abbassare del 10% le imposte. I cittadini cominciarono a pensare: “Forse con El’zin andrà meglio?”.

Tornano alla mente i fatti del 1990, la cui miccia era stata la risoluzione del Consiglio Supremo della RSFSR circa la sovranità e la supremazia delle leggi russe sul territorio federale. Fu una delle cause principali della disintegrazione dell’Unione.

Tutte le considerazioni secondo le quali l’avvio del crollo dell’Unione Sovietica fu dato dai conflitti nazionali nei Paesi Baltici, nel Caucaso e nell’Asia centrale, sono tentativi a posteriori di giustificare la condotta irresponsabile di El’zin e dei suoi seguaci.

Eppure riconosco al Consiglio Supremo della Russia e a El’zin il merito del loro operato durante il putsch. Perché agirono in quel modo non ha importanza. Le vicende si svolsero così rapidamente che in molti casi fu difficile capire cosa ci fosse di personale e cosa di disinteressato nelle loro azioni. El’zin avrebbe potuto unirsi al complotto dei cospiratori. Glielo proposero ma non si lasciò andare.

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La mia tragedia personale fu che, avendo assestato un colpo decisivo ai putschisti con il rifiuto del loro ultimatum, persi l’opportunità di conservare il potere e di portare avanti le riforme avviate.

Anche se avessi saputo cosa mi sarebbe accaduto dopo la sconfitta del Comitato d’emergenza, del crollo dell’URSS, della formazione della CSI, e del tradimento dei compagni di lotta, non avrei mai accettato di entrare nel complotto dei golpisti. L’affossamento della democrazia e la scelta della violenza rappresentavano per me un suicidio morale e politico.

Desidero scrivere qualcosa sul destino del PCUS dopo il putsch. Decisi di dimettermi dalla carica di Segretario generale e raccomandai al Comitato centrale di sciogliersi, dando l’opportunità alle organizzazioni di partito di decidere in modo autonomo come procedere.

Fui molto criticato per questa scelta, nonostante avessi ricoperto la carica di Segretario generale fino alla fine, anche a scapito del ruolo presidenziale che occupavo. Non io, quindi, tradii il partito. Furono la dirigenza del PCUS e buona parte della nomenklatura a tradire il loro leader. E insieme a esso, la nazione.

I miei timori sulle posizioni delle autorità russe nei confronti dei comunisti non erano infondati. Non ero affatto d’accordo con i tentativi di screditare tutta la storia del PCUS, di demonizzarne il fondatore, di non riconoscere i meriti del partito di fronte alla patria, di sollevare scandali sugli immaginari miliardi di dollari accumulati nelle banche estere, di mettere in cattiva luce e ingigantire l’aiuto concesso ai partiti comunisti stranieri. Queste campagne erano indegne e per fortuna la Corte costituzionale non avviò una nuova “caccia alle streghe”.

Bisogna guardare alle circostanze in una prospettiva storica più ampia. Il crollo del PCUS era inevitabile in quel momento. Avrei voluto che avvenisse in modo democratico, attraverso la convocazione di un Congresso nel novembre del 1991 a fare da spartiacque. Secondo i risultati di alcuni sondaggi la variante di programma approvata sarebbe stata appoggiata da almeno 1/3 dei membri del partito. Gli altri si sarebbero sparsi in altre formazioni politiche.

La responsabilità che la fine del PCUS sia avvenuta nel modo più doloroso e abbia recato danni morali a milioni di tesserati ricade interamente sui putschisti e sui loro sostenitori.

Le vicende di agosto misero in luce il tallone di Achille del sistema democratico che avevamo creato: la debolezza degli organi rappresentativi. Nei principali istituti della democrazia il ruolo principale veniva giocato dai dirigenti, e quindi tutto dipendeva dalle loro qualità personali. Marx, a ragione, aveva detto che non sono gli uomini a doversi difendere dalle leggi,

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sono le leggi che devono salvare dall’arbitrio degli uomini.

il Putsch visto dall’estero

Le conquiste democratiche della Perestrojka e il nuovo corso di politica estera predeterminarono il fallimento del putsch. Dai colloqui che ebbi con i leader stranieri quando tornai a Mosca (Bush, Mitterrand, Kohl, Major, Andreotti, Mubarak, ecc.) mi convinsi che nessuno di loro approvava l’operato dei golpisti, a eccezione di Gheddafi e Hussein.

All’inizio di settembre si sarebbe dovuta svolgere a Mosca la Conferenza dell’OSCE sulla dimensione umana. Sorsero dei dubbi se riunirla comunque in URSS o realizzarla in un altro Paese. Molti aspetti non erano chiari, ma le consultazioni con i rappresentanti europei, americani e canadesi avevano mostrato che tutti erano favorevoli a svolgere la Conferenza a Mosca nelle date fissate. Ci fecero capire che sentivano di avere un obbligo di solidarietà verso di noi.

Nell’intervento all’apertura della conferenza sottolineai quegli aspetti relativi alla difesa dei diritti umani che la situazione creatasi in Unione Sovietica aveva messo in evidenza. L’importante incontro internazionale mi offrì la possibilità di incontrare numerosi amici e partner stranieri. A tutti chiesi di aiutarci nella soluzione dei problemi più gravi: produttivi, sanitari, finanziari. “Contiamo sul vostro sostegno in tempi brevi”, dissi ai miei interlocutori. Nei colloqui evidenziai che la futura Federazione degli Stati Sovrani avrebbe dovuto fare propri tutti gli elementi positivi creati in passato dall’URSS nell’arena internazionale.

Alla fine di ottobre conversai a lungo col mio amico Felipe Gonzales a Madrid in occasione della conferenza internazionale sul Medio Oriente. Mi raccontò di come si fosse adoperato per aiutare l’URSS durante il putsch. Il suo contributo era stato davvero importante, perché era riuscito a convincere Bush e gli altri leader occidentali ad assumere una posizione risoluta, ma allo stesso tempo attiva, contro i cospiratori.

Gonzales mi esternò anche le sue preoccupazioni: “Michail, in quei giorni mi è sembrato che l’Occidente avesse considerato l’epilogo inevitabile e che bisognasse rassegnarsi all’accaduto. Ho percepito questo stato d’animo anche tra i miei collaboratori più stretti. Dunque ne traggo la conclusione che i leader politici occidentali non hanno fiducia nelle capacità dell’Unione Sovietica di salvarsi e quindi accettano entrambe le eventualità, compresa quella del crollo

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dell’URSS. Ciò mi rattrista molto”. Gonzales non nascose lo sdegno per la posizione “infantile” – come lui stesso si espresse – e miope di alcuni colleghi della NATO.

i tentativi di rilanciare le riforMe. l’aGonia dell’urss

Il golpe scosse il Paese sino alle fondamenta. El’zin andò su tutte le furie: mentre io avevo già ripreso il controllo del potere lui continuava a emettere decreti da applicare in tutta l’Unione. Questa circostanza spinse ancora di più le Repubbliche a separarsi dal Centro federale. Dovetti prendere in mano la situazione perché, ovviamente, i separatisti avevano sentito che era giunto il loro momento. Non volevo arrendermi: la mia scelta era giustificata dal risultato del referendum del 17 marzo. La storia plurisecolare del Paese parlava di unità. Le esigenze della popolazione, la sicurezza dello Stato e dei cittadini richiedevano l’integrità territoriale. Mi incoraggiavano i dati dei sondaggi realizzati all’inizio di ottobre. Gli esiti mostravano che negli ultimi sei mesi non era calato il numero di coloro che volevano l’unità. Ma c’è di più. Se il 17 marzo nella RSFSR, in Ucraina e in Kazakistan aveva votato a favore dell’Unione il 73% degli elettori, in autunno nelle principali città delle stesse repubbliche si era detto favorevole il 75% degli intervistati. A Mosca i sostenitori dell’Unione passarono in mezzo anno dal 50% al 81%. Il dato stava a significare che il 17 marzo una parte dei moscoviti non aveva votato contro l’idea di Federazione ma contro di me, sotto l’influsso della propaganda di allora. La reale minaccia di dissoluzione dell’Unione aveva suscitato anche la reazione immediata dei sindacati della capitale e della maggior parte delle regioni russe. A Kiev i risultati dei sondaggi non furono così impressionanti, ma sta di fatto che più della metà degli intervistati si dichiararono a favore dell’Unione.

Insomma, ero certo che il popolo non volesse la distruzione del Paese. Ma le chiavi per risolvere i problemi erano nelle mani delle élite nazionali e dei leader politici. E perciò la situazione era complicata.

Nazarbaev fu il più coerente nella difesa dell’Unione. Avevamo parlato spesso di questo tema e si sentiva che per lui si trattava di una questione di principio, non di calcolo politico. I presidenti delle Repubbliche dell’Asia centrale assunsero posizioni analoghe. Anch’essi si rendevano conto che la

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dissoluzione dell’Unione sarebbe stato un danno enorme per i loro popoli. Non che appoggiassero senza riserve tutte le proposte degli organi federali o che non cercassero di liberarsi dal pesante supercentralismo. Ma conservavano sempre atteggiamenti ragionevoli.

Dopo il putsch, il sistema di potere era così dissestato che nessuna decisione, neanche la più ottimale, avrebbe avuto la chance di essere attuata. Le Repubbliche che avevano ottenuto la sovranità iniziarono a ignorare le disposizioni dei ministeri federali. A Mosca il potere era conteso tra il Cremlino e la Casa Bianca. Distratta dalle lotte intestine, la capitale perse il controllo dell’economia.

Fu avanzata l’idea di inserire i leader delle repubbliche nel Consiglio di sicurezza, ma poi si optò per la creazione di un Consiglio di Stato. Una misura temporanea. Sin dai primi incontri avvenuti a Novo-Ogarevo dopo il golpe si parlò della necessità di riprendere i lavori per l’Accordo federale. A settembre sembrò possibile giungere alla conclusione.

Ci rendevamo conto che sarebbe stato già impensabile contare sulla partecipazione di tutte le Repubbliche all’Accordo, e pertanto decidemmo di dare vita all’idea che avevamo discusso sin dalla metà del 1990: accanto all’Accordo federale proporre alle Repubbliche un Accordo economico. Credevamo che i vincoli commerciali avrebbero favorito il superamento della diffidenza verso le strutture federali.

Conscio del pericolo che la nuova situazione rappresentava per la democrazia, capii che il rilancio dei lavori per l’Accordo federale era la priorità principale. Fu questo pensiero alla base del mio discorso alla sessione straordinaria del Consiglio Supremo dell’URSS, convocato subito dopo il putsch, durante il quale si stabilì di convocare un Congresso straordinario dei deputati dell’URSS.

Al Congresso bisognava trovare una posizione comune tra il Presidente e i dirigenti delle Repubbliche. Nelle lunghe discussioni notturne nacque l’idea e fu elaborato il testo di una Dichiarazione comune: la firmarono 10 capi delle Repubbliche federali. La Georgia partecipò ai lavori, ma non firmò.

Non poche furono le speculazioni intorno alla vicenda. Alcuni arrivarono a dire che avevo compiuto un colpo di stato insieme ai leader repubblicani. Chiacchiere! Le risoluzioni di settembre furono adottate dal Congresso, cioè in modo costituzionale. Non era stato toccato l’organo più alto: il Consiglio supremo. La riorganizzazione federale non era stata decisa per capriccio dei capi, ma come misura necessaria dettata dalle conseguenze del putsch e dalla nuova situazione.

Riuscimmo a raggiungere posizioni condivise che si riflessero in un

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documento su come organizzare il potere nel periodo di transizione.Il documento fu il punto principale del dibattito al V Congresso

straordinario dei deputati popolari dell’URSS (2-5 settembre). Il clima della discussione fu burrascoso. Non mancarono scontri accesi. Divamparono le passioni. Dei deputati accusarono il Presidium di non dirigere in modo democratico i lavori. Avevano i loro motivi: il Presidium dovette presiedere le sedute con severità, altrimenti i dibattiti sarebbero andati avanti senza fine. Il problema non erano le questioni procedurali, ma l’evidenza che una parte dei deputati non voleva accettare che era impossibile conservare l’URSS con la struttura passato. L’unico modo per garantire l’integrità del Paese dopo il golpe era concludere l’Accordo sull’Unione degli Stati sovrani. La maggioranza dei deputati lo capiva. Le leggi sugli organi del potere statale e sulla gestione dell’Unione nel periodo di transizione furono approvate rispettivamente dai 3/5 e dai 4/5 del Congresso.

L’alta maggioranza con cui furono votate non corrispose alla loro efficienza. I mesi seguenti, infatti, mostrarono che il sistema non aveva retto alla prova. Ciò non dipese dai difetti di costruzione, ma soprattutto dal fatto che esso non rispondeva ai piani di El’zin.

Credevo, tuttavia, che superate le “turbolenze” del periodo post-golpe avremmo iniziato a lavorare per il bene dello Stato su basi nuove. La speranza era confortata dai risultati dei sondaggi. Alla domanda “quale pensate sarà l’ordinamento futuro dell’URSS?” i deputati avevano risposto così: il 15% “un insieme di Stati autonomi”; il 27% “una confederazione”; il 46% “una federazione”; il 3% “altro”. Nella dirigenza russa, tuttavia, c’era un altro punto di vista, che però veniva tenuto segreto.

Le conseguenze del putsch inasprirono la situazione economica. La crisi toccò ogni settore, a partire da quello industriale ed energetico. Le difficoltà valutarie divennero enormi. I crediti erogati prima del golpe vennero congelati.

Nel contesto creatosi, il sostegno economico delle riforme da parte dell’Occidente assunse importanza vitale. I partner occidentali ne erano consapevoli, ma continuavano a oscillare. Tra il settembre e il novembre 1991, nonostante i molteplici problemi di politica interna, incontrai i dirigenti occidentali quasi ogni giorno, tentando di spingerli a intraprendere passi concreti. Gli interlocutori di quei mesi furono Major, Kohl, Mitterrand, Bush, Andreotti, Gonzales, i ministri degli Esteri e delle Finanze del G7, i dirigenti e gli imprenditori di altri Paesi europei.

Sono riconoscente al premier britannico Major (allora coordinatore del G7), per essere venuto a Mosca il 1° settembre – primo tra i capi europei – allo

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scopo di discutere la realizzazione degli accordi di Londra. Egli mi assicurò che i politici occidentali guardavano con preoccupazione alla situazione in URSS ed erano tutti interessati al successo delle riforme.

In un colloquio a tu per tu parlammo del controllo sugli armamenti atomici e della sospetta prosecuzione degli esperimenti sulle armi biologiche in URSS. Gli promisi di avviare un’ulteriore inchiesta e di affidarla a persone nuove. Major mi pose un’altra domanda, che non mi sento in diritto di riportare, ma vorrei citare la mia risposta: “Potete partire dal presupposto che la collaborazione tra me e El’zin sia scontata. Se questa circostanza venisse a mancare le conseguenze sarebbero esiziali. Entrambi siamo consci che la nostra cooperazione è arrivata a una nuova fase”.

“Vorremmo molto – reagì Major alle mie parole – che nel nuovo contesto aveste rapporti corretti di collaborazione. E ci sembra che ciò stia avvenendo”.

La collaborazione occidentale verso il nostro Paese registrò una svolta all’inizio dell’autunno. Francesi, tedeschi e italiani mostrarono maggiore comprensione nei nostri confronti. Lo percepii dai colloqui che ebbi in quel periodo con Bérégovoy, Andreotti, Gensher, Dumas, De Michelis, Weigel e altri.

Ovviamente tutti coloro che incontrai volevano assicurarsi che il gli aiuti non sarebbero andati in fumo e che non sarebbero diventati “vittime della guerra” tra Mosca e le Repubbliche. Esplicative furono le parole pronunciate il 9 settembre da De Michelis: “Sono convinto che la mancanza di un centro di coordinamento nel periodo di transizione minacci di far saltare tutti i piani”.

A settembre fu definito il programma di partenariato con i Paesi del G7 per risolvere i nostri problemi più pressanti. Il lavoro congiunto con gli occidentali diede in breve tempo i primi frutti. Il 12 novembre Major mi comunicò che il G7 e la Comunità Europea avrebbero stilato un piano di aiuto immediato del valore di 10 miliardi di dollari. La notizia ci giunse il giorno dopo la fine della sessione del Consiglio NATO a Roma, nella quale si era analizzata la situazione dell’URSS. Me la comunicò il 13 novembre il consigliere di Andreotti, Vattani, inviato a Mosca in missione. La proposta di sostegno del G7 era condizionata dalla disponibilità delle repubbliche sovrane, Russia compresa, ad accettare i vincoli del debito esterno, e a “contenere” il processo di creazione delle forze armate nazionali.

Il 20 novembre accolsi a Mosca gli sherpa del G7, i quali avevano già incontrato i rappresentanti federali e repubblicani. Le trattative avevano presentato molte difficoltà, ma alla fine si chiarì che 8 o 9 repubbliche erano disponibili a firmare il memorandum di Accordo senza alcuna riserva.

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Nel frattempo fu raggiunta l’intesa per concedere all’URSS lo status di partner associato del Fondo Monetario Internazionale. Giunse a Mosca il direttore generale, Camdessus, con il quale discutemmo come il Fondo avrebbe potuto sostenere la riforma economica.

Nel nostro Paese è piuttosto diffusa la “teoria” che il crack dell’URSS fu il risultato di un complotto occidentale, mentre in Occidente sostengono che fu il risultato di una precisa strategia mirante al crollo dell’impero sovietico. Molti politici seri e responsabili di allora nutrivano il terrore della fine dell’URSS quantomeno per una semplice ragione: avere rapporti solo con Gorbaciov sarebbe stato meglio che avere rapporti con una dozzina di nuovi leader imprevedibili.

Perciò si può affermare con certezza che siamo stati noi stessi a far crollare l’Unione. Noi, fautori della Perestrojka, abbiamo tardato a riformare l’URSS e il partito, abbiamo determinato una situazione economica complicata. Il popolo cominciò a non sostenerci più e ad aprire la strada ad altre forze che sfruttarono la debolezza dei riformatori per i propri fini. Sono favole le teorie sulla mano di Washington. L’Occidente temeva il crollo della superpotenza atomica sovietica, perché tale eventualità avrebbe posto il mondo intero in pericolo…

la conferenza di Madrid sul Medio oriente

Mentre l’Unione Sovietica agonizzava e io ne cercavo in tutti i modi di rianimare il corpo malato, si avvicinava la data della Conferenza internazionale sul Medio Oriente. George Bush mi “implorò” di partecipare lo stesso al vertice, pur conoscendo la grave situazione in cui versavo. Senza il Presidente dell’URSS, infatti, il summit sarebbe fallito.

Il conflitto mediorientale è un conflitto antico e complesso che ha sempre occupato un posto particolare nella politica estera sovietica. Anche prima del 1985 Mosca ne aveva sostenuto la soluzione pacifica, ma la logica della Guerra fredda e la competizione con gli USA per la fornitura di armi avevano fatto naufragare ogni sforzo in quella direzione.

Giunsi molto presto a essere certo della necessità di mettere da parte la strategia della “competizione contenuta” alla base delle politiche americana e sovietica nell’area. Per intravedere una luce alla fine del tunnel urgeva cercare

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una soluzione di compromesso. L’assenza di relazioni ufficiali con Israele aveva aperto all’URSS ampio

consensi presso siriani e palestinesi. Sfruttando la circostanza avevo cominciato a convincerli che fosse meglio arrivare a una soluzione pacifica più che continuare lo scontro con Israele, e a indurli a capire che non eravamo intenzionati a guardare al Medio Oriente come a un campo di battaglia con gli americani. Lo avevo ripetuto a tutti gli esponenti siriani, compreso il presidente Assad.

Avevamo fatto il possibile per portare i palestinesi a posizioni realistiche, il che non significava solo accettare il riconoscimento di Israele, ma anche la prospettiva di una convivenza pacifica con gli israeliani. Il nostro lavoro aiutò senza dubbio la normalizzazione dei rapporti con l’Egitto. Tra il 1988 e il 1991 incontrai due volte il presidente Mubarak ed ebbi l’impressione che sarebbe diventato nostro alleato.

Sondammo anche gli umori dall’altra parte della barricata. Il 14 settembre 1990 ricevetti per la prima volta i ministri israeliani Modaj e Neeman.

Credo che la Conferenza di Madrid, nonostante le peripezie e le battute di arresto del processo di pace negli anni seguenti, abbia rappresentato una svolta nella storia di quel conflitto regionale così lungo e pericoloso. Per la prima volta si erano incontrati faccia a faccia i dirigenti ebrei e palestinesi e, di fronte all’opinione pubblica mondiale, si erano assunti la responsabilità di trovare una via di uscita pacifica al conflitto.

Fu anche la prima occasione in cui conferirono i rappresentanti di Israele e dell’URSS, ripristinando le relazioni diplomatiche e avviando rapporti amichevoli tra i nostri popoli.

Durante la mia permanenza a Madrid ci fu un momento memorabile. Il re di Spagna Juan Carlos invitò me e Bush a una cena informale a cui partecipava pure Felipe Gonzales. I commensali erano molto interessati alla situazione in URSS. Fu una chiacchierata da uomini, franca, che durò quattro ore.

Gonzales disse: “L’azione dei golpisti è l’esempio di come gli uomini spesso distruggano ciò che affermano di voler salvare. Nessuno aveva favorito le tendenze centrifughe in URSS come i putschisti. All’Europa e al mondo serve l’Unione Sovietica. Nel continente si stanno creando due centri principali, la parte occidentale va verso l’Unione Europea, l’altra verso l’Oriente, cioè verso l’attuale Unione Sovietica, l’Unione degli Stati sovrani per la quale vi state battendo. Se non si realizzasse il secondo centro verrebbe a mancare un importante fattore di stabilità in Europa e nel mondo. Si originerebbe un pericoloso vuoto”.

“Preoccupa noi tutti – affermò Bush – il destino dell’Unione Sovietica.

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Ma come dobbiamo intendere le parole che ha pronunciato El’zin il 28 ottobre?”

I miei interlocutori, persone abituate a essere razionali, avevano difficoltà a capire l’operato di alcuni dirigenti dell’URSS, soprattutto di quelli ucraini. Avevano l’impressione che il concetto di “autodeterminazione” potesse raggiungere picchi assurdi. Fino a che punto bisognava separarsi? Anche la località più sperduta aveva diritto all’autodeterminazione? All’epoca ne ero ancora convinto, e rassicurai i partecipanti all’incontro informale che avevamo ancora delle chance per realizzare la nuova Unione.

il destino dell’accordo federale

Il 5 settembre, il Congresso dei deputati dell’URSS, su proposta del Presidente e dei dirigenti delle Repubbliche, approvò la formazione dell’Unione degli Stati Sovrani e stabilì che si formulasse subito il progetto di Accordo. Io e El’zin fummo incaricati dal Consiglio di Stato di elaborare il progetto.

Il 16 settembre, la questione fu discussa alla seduta del Consiglio di Stato: otto Repubbliche (RSFSR, Bielorussia, Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan, Azerbajžan, Tagikistan, Kyrgystan) si comportarono in modo positivo. Durante la stessa seduta fu anche esaminato il progetto di Accordo sulla comunità economica. Il 18 ottobre, dopo la firma di otto Stati sovrani, compresa l’Ucraina, l’Accordo fu inviato ai parlamenti repubblicani. Vi erano i presupposti per ritenere che fossimo riusciti a rianimare il processo di Novo-Ogarevo.

I tempi di preparazione dell’Accordo federale dipendevano dalle modalità di inizio dei lavori. La squadra di El’zin cercava di inserire formulazioni che, anche a una rapida lettura, lasciavano intendere che tipo di Stato volessero creare: né una federazione né una confederazione. Puntavano a realizzare una comunità tipo l’UE, ma con funzioni ancora più indebolite degli organi centrali.

Dichiarai senza riserve a El’zin che su questa base non avremmo concluso nulla. Dopo qualche tentennamento accettò di riprendere il lavoro partendo dal progetto elaborato prima del golpe, ovviamente tenendo in considerazione le aggiunte “russe”.

Si rinfocolarono subito le discussioni sulla suddivisione dei poteri tra organi federali e repubblicani. Alla fine stabilimmo di non fissare nell’Accordo la ripartizione dei poteri ma di prevedere delle “sfere di comune competenza”. In un secondo momento avremmo raggiunto degli accordi multilaterali

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sull’alleanza economica, sulla difesa collettiva, sulla sicurezza statale, sulla politica estera, sulla collaborazione tecnico-scientifica e culturale, sulla difesa dei diritti dell’uomo, sulla cooperazione nelle sfere dell’ecologia, dell’energetica, dei trasporti e della lotta alla criminalità.

La variante rinnovata dell’Accordo fu datata 1° ottobre. Mentre a Mosca si lavorava sul progetto di nuovo Accordo, veniva inviato a El’zin, allora a Soči, un documento con la scritta “strettamente riservato”, sulla “Strategia della Russia nel periodo di transizione”.

Eccone un brano significativo: “Obiettivamente la Russia non ha bisogno di un centro economico alle spalle che ne distribuisca le risorse. Eppure molte Repubbliche hanno interesse all’esistenza di tale centro. Dopo essersi assicurate il controllo delle ricchezze nei propri territori, le Repubbliche, attraverso gli organi federali, tentano di ridistribuire a proprio favore i beni e le risorse della Russia. Poiché il Centro può esistere solo con l’appoggio delle Repubbliche, esso, a prescindere dalla sua composizione, porterà avanti una politica in contrasto con gli interessi della Russia”.

Delle due formule di unificazione – “unione economica più l’immediata indipendenza politica” o “indipendenza economica più un accordo politico temporaneo” – gli autori dell’informativa propendevano senza condizioni per la seconda.

Non so chi avesse redatto il documento, ma leggendolo è facile notare l’influenza dei principali ideologi di “DemRossija” 27 . Essi, infatti, professavano queste idee e sapevano imbrigliare El’zin.

Rimproverando il loro leader di aver “sciupato i risultati dell’impresa di agosto”, gli autori del documento esprimevano il proprio pensiero recondito: consideravano la minaccia di dissoluzione dell’Unione Sovietica come una “vittoria” e non come una tragedia.

La Russia non porta forse su di sé la responsabilità del destino di quei popoli con i quali è vissuta fianco a fianco per secoli, della sorte degli immensi spazi che ha conquistato nel tempo? È inutile aspettarsi un comportamento morale da persone che mettono al primo posto esclusivamente i propri interessi. Non separarsi dalle repubbliche era per la Russia un imperativo morale e anche economico.

Dopo essere venuto a conoscenza del documento mi inquietai, e nel successivo incontro con El’zin gli feci un “discorso concettuale”. Egli fu d’accordo con le mie argomentazioni e, in apparenza, fu sincero. Come ho già

27 “Demokratičeskaja Rossija” era un movimento politico, con la partecipazione della società civile, che si batteva a favore della fine dell’Unione Sovietica.

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scritto, però, molto spesso accadeva di parlare con lui, di mettersi d’accordo, e il giorno successivo, influenzato da questo o quello, si contraddiceva. Era la sua natura. E così si comportò pure in quell’occasione.

Il 28 ottobre El’zin intervenne al Congresso dei deputati popolari della RSFSR presentando un piano di riforme e chiedendo per sé poteri speciali. (Fu l’intervento sul quale mi chiese delucidazioni Bush durante la cena descritta in precedenza con il re spagnolo e Gonzales). Le misure proposte da El’zin avrebbero fatto saltare l’Accordo sulla Comunità Economica. Quando dichiarò di voler rinominare la Banca Nazionale dell’URSS in Banca Nazionale Russa, di essere intenzionato a ridurre del 90% gli impiegati del ministero degli Esteri dell’URSS e di puntare alla chiusura di 80 ministeri, tutti restarono scioccati.

Prima della seduta del Consiglio di Stato incontrai El’zin e, ritenendo che fosse giunto il momento di un discorso “da uomo a uomo”, gli dissi: “Tu stai cambiando politica, stai violando tutte le intese. Vuoi privare il Consiglio di Stato e l’Accordo economico di ogni significato: sei impaziente di prendere le redini del potere? Visto che è questo che vuoi, veditela da solo. Lo ripeterò a te e agli altri leader: vi ho portato all’indipendenza, ora l’Unione sembra che non vi serva più. Andate avanti come vi sembra opportuno, ma liberatemi da ogni incarico. La responsabilità del futuro del Paese ricadrà su di voi”.

Alla seduta del Consiglio di Stato del 4 novembre, El’zin arrivò in ritardo, mostrando di non dover rendere conto a nessuno e di disprezzare i partner. Alla presenza della stampa feci un intervento che suonò come un campanello di allarme: era di nuovo in corso un intrigo politico. Il Paese stava soffocando, il Consiglio di Stato si sarebbe spaccato. Urgevano azioni concordate dalle Repubbliche. Bisognava concludere al più presto l’Accordo e già pensare come agire con i ministeri degli Esteri, dell’Interno e della Difesa. Senza risolvere le questioni statali più importanti non avremmo trovato la soluzione ai problemi economici.

Pronunciai la parte più lunga dell’intervento al cospetto di El’zin, visibilmente contrariato. Durante la seduta ci fu un momento di tensione. Al mio invito a procedere con uno scambio di opinioni nessuno si fece avanti. Solo Nazarbaev prese la parola e disse: “Ci è tutto chiaro. La questione principale è che lei e El’zin troviate un’intesa”. El’zin annuì con la testa.

Come immaginavo a quel tempo la nuova Unione? Non avevo in mente solo la federazione come un’alleanza tra Stati, ma pensavo a uno Stato unito confederato, dove le istituzioni comuni si sarebbero conservate: il parlamento, l’istituto presidenziale, le elezioni popolari. Cioè pensavo a un’Unione che non fosse niente di più che una Confederazione.

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La moneta sarebbe stata unica, così come l’esercito. Al Centro federale sarebbero rimaste le competenze sulle questioni strategiche. Le Repubbliche avrebbero amministrato tutti i settori, senza entrare nel merito delle linee generali della politica estera. I cittadini avrebbero avuto due nazionalità: quella della Repubblica e quella dell’Unione. La nuova Unione si sarebbe appropriata di quanto c’era stato di positivo nel sistema sovietico, non rinunciando quindi a quello per cui milioni di uomini si erano sacrificati, alle acquisizioni nel campo della scienza e della cultura.

El’zin fu costretto ad accettare formalmente la proposta di concludere il progetto del testo dell’Accordo federale e di ratificarlo nella seduta successiva, fissata per il 14 novembre.

Ma quel giorno si accese un’ennesima aspra discussione sul futuro dell’Unione: Stato federale o federazione di Stati? Dopo quattro ore di dibattito si stabilì che la nuova Unione sarebbe diventata uno Stato unito confederato.

Tre erano le varianti proposte dai membri del Consiglio di Stato:- un’Unione di Stati sovrani senza un proprio ordinamento statale;- un’Unione federativa o confederativa con un potere statale centrale;- un’Unione che avrebbe svolto alcune funzioni statali, ma senza lo

status di Stato e senza denominazione. Vennero dibattute varie soluzioni di compromesso. Alla fine si accordarono

per la creazione di un’Unione di Stati Sovrani, cioè uno Stato confederativo che avrebbe svolto le funzioni delegate dagli Stati partecipanti all’accordo.

Sembrava che avessimo fatto tutto il possibile per salvaguardare lo Stato federale. Invece ci toccò superare un’altra tappa: la seduta del Consiglio di Stato del 25 novembre a Novo-Ogarevo. El’zin chiese di cambiare di nuovo la formula “Stato federale” in “federazione di Stati” e dichiarò che non avrebbe approvato il progetto prima dell’analisi del Consiglio Supremo della RSFSR. Si trattava di un sotterfugio.

Benché irritato per la sua slealtà, mi trattenni e tentai di indurlo a ragionare, insistendo affinché rispettasse gli accordi presi dieci giorni prima. Ma già si percepiva il nuovo equilibrio delle forze nel Consiglio e vari membri, per non mettersi in contrasto con il Presidente russo, tentennarono. Allora dichiarai: “Non ce la faccio più. Non parteciperò alla distruzione dell’Unione. Vi lascio, decidete da soli. Ma ricordate che la responsabilità del destino del Paese ricadrà su di voi”.

Tentarono di fermarmi, ma mi alzai e mi ritirai nel mio ufficio. Dopo mezz’ora arrivarono El’zin e Šuškevič. Mi presentarono il testo di un documento approvato dal Consiglio. Presi il foglio, lo lessi e ritenni che fosse accettabile. Necessitava solo di qualche correzione.

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Il programma dell’incontro prevedeva una conferenza stampa finale. I giornalisti mi chiesero se fosse ancora ipotizzabile la firma dell’Accordo all’inizio di dicembre. Risposi che se non all’inizio probabilmente ci saremmo riusciti nella seconda metà del mese.

il coMPlotto di belovež’eDa tempo mi ero accorto che il Presidente russo stava facendo il furbo e che

cercava espedienti per tirare per le lunghe la questione dell’Accordo: significava che aveva in mente un altro piano. Per questo motivo, prima che partisse alla volta di Minsk per incontrarsi con Kravčuk e Šuškevič, gli chiesi quali proposte avrebbe portato. Io pensavo: c’è un progetto di Accordo, l’Ucraina può unirsi oppure approvare alcuni singoli articoli. Ma El’zin si lasciò sfuggire: “Oppure si potrebbe trovare un’altra forma di unione”. Quando venni a sapere che a Minsk erano andati anche Burbulis e Šachraj, mi fu tutto chiaro.

Apro una parentesi. Già ero venuto a conoscenza dell’operazione di Burbulis per far crollare l’Unione. Avevo ricevuto dall’apparato presidenziale il suo memorandum spedito a El’zin. Il documento era circolato quando, dopo il fallimento del putsch, era iniziata la ricostituzione delle strutture dell’Unione ed erano stati avviati i lavori di preparazione dell’Accordo economico. L’Accordo era stato firmato anche dall’Ucraina, con l’aggiunta di 20 articoli sulle banche, sulle politiche sociali, sull’economia, ecc.

Queste vicende si erano svolte tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. El’zin si trovava a Soči. Burbulis vi si era recato con il memorandum e lì aveva trascorso due settimane. Era riuscito a trascinare El’zin dalla sua parte, convincendolo che l’astuto Gorbaciov aveva già sottratto la metà dei frutti della “rivoluzione di agosto”, della loro “impresa”. Pensava che attraverso il nuovo Accordo volessi conquistare l’appoggio delle Repubbliche.

Benché Burbulis fosse riuscito a persuadere El’zin questi, tornato a Mosca, non fu in grado di cambiare radicalmente posizione e di rifiutarsi di preparare il nuovo Accordo. Altrimenti tutti i piani sarebbero falliti e si sarebbe dovuto assumere la responsabilità personale dell’accaduto.

Insomma, nel novembre del 1991 vennero recitati due copioni: da una parte quello di Novo-Ogarevo e, dietro le quinte, quello del complotto, ben coordinato da tempo. L’anima dell’operazione furono El’zin e l’Ucraina. Non so se la Bielorussia, con Šuškevič, partecipasse all’iniziativa. Nazarbaev fu sempre un sostenitore dell’Unione.

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Nella “fuga” delle Repubbliche un ruolo decisivo fu giocato dalle élite politiche di comando, desiderose di realizzare le proprie ambizioni. Persone affamate di potere, senza la minima preoccupazione per la popolazione.

Per tornare al mio colloquio con El’zin prima della partenza per Minsk, gli chiesi: “Di cosa parlerete?”. Rispose: “Ho delle questioni generali da risolvere con i bielorussi. Nell’occasione parlerò anche con gli ucraini. Kravčuk non vuole venire a Mosca, ma è d’accordo a raggiungermi lì”.- Di cosa parlerete insieme a Minsk? – chiesi di nuovo. Visto che dobbiamo

incontrarci a Mosca lunedì possiamo invitare anche Kravčuk.- Parleremo con i bielorussi, ascolteremo Kravčuk, ecc.- Boris Nikolaevič, assicurami che nell’incontro in Bielorussia non

oltrepasserete i limiti fissati dall’Accordo federale.- Kravčuk potrebbe rifiutare l’Accordo: dopo il referendum del 1° dicembre

l’Ucraina è già indipendente. - Allora proponetegli di diventare un membro associato.- Potrebbe non essere disponibile.- Allora risolveremo il problema qui, a Mosca, lunedì.Questo fu il contenuto del colloquio, confermato anche da El’zin. Dopo un giorno dalla sua partenza non ricevetti alcuna notizia. Chiamai vari

ministri e mi dissero che non sapevano niente. Telefonai a Šapošikov, il ministro delle Difesa, che mi fornì delle informazioni. Era già da tempo “in contatto” con El’zin. Lo avevano cercato da Belovež’e per comunicargli che stavano preparando una dichiarazione dei tre partecipanti all’intesa, nella quale si prevedeva il mantenimento delle forze armate unite, e quindi della sua poltrona ministeriale. Mi chiamò Šuškevič.

- Michail Sergeevič, sono stato incaricato di telefonarle.- Perché proprio lei?- Me lo hanno chiesto El’zin e Kravčuk. Boris Nikolaevič ha parlato con

Bush e lo ha messo al corrente della situazione. Io ho ricevuto l’ordine di chiamarla.

- È uno scandalo! Avete chiamato il presidente americano, scavalcandomi, e alle mie spalle avete preso accordi. Dov’è Boris Nikolaevič? Me lo passi!El’zin prese la cornetta e cominciò ad agitarsi. Si esprimeva con diffidenza.

Mi espose in breve il contenuto dell’accordo. Lo interruppi: “Lunedì mattina ci vedremo e ne discuteremo insieme. Devo leggere quello che avete scritto”.

L’incontro dei tre presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia si era svolto in una tenuta di caccia vicino a Minsk, nel bosco di Belovež’e. Malgrado le intese stabilite al Consiglio di Stato dell’URSS, violando ogni promessa, El’zin aveva apposto la sua firma in calce al documento che liquidava l’Unione

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Sovietica. Il presidente russo e il suo entourage, insomma, sacrificarono l’URSS all’impellente desiderio di installarsi al Cremlino.

Espressi la mia opinione sull’Accordo di Minsk nella Dichiarazione del presidente dell’URSS, pubblicata il 10 dicembre:

“Il destino di uno Stato multinazionale non può essere determinato dalla volontà dei dirigenti di tre repubbliche. Un questione del genere va risolta solo attraverso un percorso costituzionale, con la partecipazione di tutti gli Stati sovrani, e tenendo conto del volere dei popoli. Dichiarare che non sono più in vigore le leggi federali è un’operazione illecita e pericolosa che può solo aumentare il caos e l’anarchia nella società. La velocità con cui è spuntato fuori il testo dell’Accordo suscita diverse perplessità: il documento non è stato discusso né dai cittadini, né dai Consigli Supremi, a nome dei quali è stato firmato. Tanto più che proprio in questo momento nei parlamenti delle Repubbliche è in corso il dibattito sul progetto di Accordo dell’Unione degli Stati Sovrani, elaborato dal Consiglio di Stato dell’URSS”.

Visto che nell’Accordo si proclamava “una nuova forma statale”, sottolineai la necessità di convocare il Congresso dei deputati popolari dell’URSS.

Ma era già tardi. I deputati non sarebbero venuti a Mosca perché erano stati presi accordi dietro le quinte. Avevo perso il controllo dell’esercito, e seppure avessi confidato nell’appoggio di una parte di esso sarebbe scoppiata la guerra civile. Fra l’altro una simile operazione sarebbe stata interpretata come un tentativo per restare al potere.

Mi chiedono spesso: “È sicuro di aver utilizzato in quel momento tutti i poteri di cui disponeva per salvare l’Unione?” Si, ritengo che sfruttai tutti mezzi politici di cui disponevo. Perché non ricorsi alla forza e non arrestai i partecipanti al complotto di Belovež’e? Forse sarebbe convenuto “fare la parte di Stalin” e risolvere il problema col pugno duro? No, non mi sarebbe mai saltato in mente, non sarebbe stato da me. Altrimenti non avrebbe avuto senso aver avviato la Perestrojka. Anche se mi fossi convinto di ricorrere alla forza per salvaguardare il potere, senza pensare e senza preoccuparmi delle conseguenze, un’Unione lavata nuovamente col sangue non avrebbe giovato a nessuno.

In quelle ore difficilissime non persi la speranza nei Consigli di Stato di Russia, Ucraina e Bielorussia, organi nuovi creati dopo le elezioni libere del 1990. Essi avevano la responsabilità di rappresentare il volere di popoli espresso con il referendum. Ma la maggioranza dei membri votò a favore della dissoluzione dell’URSS.

L’operazione di Belovež’e mise le Repubbliche asiatiche di fronte al fatto compiuto. L’allusione all’eventuale “ruolo secondario” nella formazione della

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nuova Unione ebbe conseguenze catastrofiche. Va riconosciuto, tuttavia, che i presidenti e i parlamenti del Kazakistan e delle Repubbliche centro-asiatiche furono estremamente realistici, ebbero un comportamento ben più civile dei colleghi dell’URSS europea.

Mi sembra che le vicende accadute dopo il complotto di Belovež’e debbano essere valutate solo con la categoria della “irrazionalità”. I piani carrieristici avevano offuscato le menti dei politicanti. La nomenklatura partitica che aveva appoggiato in agosto i putschisti per far saltare la firma dell’Accordo federale ora aveva votato per la fine dell’Unione!

Va ricordato, inoltre, che i miei poteri dal golpe di agosto si erano indeboliti. Le risoluzioni dei Consigli Supremi delle repubbliche e la passività dei cittadini mi avevano tolto la facoltà di adottare rigide misure contro l’Accordo di Belovež’e. È strano e sorprendente: sembrava che nel dicembre del ’91 solo io avessi bisogno dell’URSS! E ora la maggioranza delle persone ne rimpiange il crollo. Si sono resi conto in ritardo del loro operato. Io mi prefiguravo le conseguenze già da allora e più di una volta lo avevo ripetuto.

Il 23 dicembre discutemmo a lungo con El’zin tutti gli aspetti del passaggio dallo Stato federale alla CSI. Il 25 firmai il decreto di cessazione dei poteri del presidente dell’URSS e intervenni in televisione con un messaggio alla nazione.

Ripenso spesso a quegli eventi e mi persuado sempre di più che non avrei avuto il diritto di agire diversamente. Già allora ero consapevole di quanto fosse limitato il mio campo di azione, poiché mi attenevo a soluzioni costituzionali e legali che escludevano la violenza.

Oggi coloro che si erano riuniti a Belovež’e, e i politologi che all’epoca li appoggiavano, affermano: “Che abbiamo fatto di male? Attuammo la scelta giusta, tanto l’Unione sovietica stava crollando. Avremmo potuto finire come la Jugoslavia. Non c’era altra via d’uscita. Abbiamo agito correttamente”. Simili dichiarazioni sono il tentativo di riabilitarsi di fronte alla Storia e alle nuove generazioni che non conoscono gli avvenimenti di quegli anni. Eppure mentono. Sostengono teorie menzognere e ingannano la gente. Sono stati loro a causare il crollo dell’URSS! I putschisti, El’zin e gli altri folli della cerchia!

Continuo a soffrire per non essere riuscito a portare a termine la Perestrojka e per essere stato sconfitto come politico. Abbiamo perso perché non abbiamo affrontato in tempo i problemi nazionali. Confidavamo tutti nella saldezza dell’Unione. Nessuno nel mondo si aspettava il crollo dell’URSS. Davvero nessuno. Tanto meno noi. Credevamo che, come aveva detto Andropov al sessantesimo anniversario dell’URSS, la questione nazionale ereditata dallo zarismo fosse risolta. Quanti brindisi alla salute dell’incrollabile Unione! La

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fede nell’URSS albergava nel profondo di ognuno: è la spiegazione psicologica della nostra mancanza di attenzione ai processi che pian piano si andavano manifestando.

Mi chiedono di continuo perché permisi a El’zin di arrivare al potere. Ho già descritto come avvenne la sua ascesa. Mi sbagliai. Credo sia opportuno terminare questo paragrafo sul complotto di Belovež’e proprio con El’zin, poiché su di lui ricade la responsabilità della fine dell’unità della grande potenza sovietica.

l’eco all’estero

I leader degli Stati stranieri, mossi dagli interessi nazionali, avevano puntato sulla conservazione dell’integrità dell’URSS. Per qualsiasi politico serio era ovvio che il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe provocato un “buco nero” nel mondo.

Il 3 dicembre, prima della riunione di Belovež’e, mi chiamò Kohl, molto ansioso di conoscere come si stessero evolvendo i fatti. Gli descrissi la situazione e gli chiesi di aiutarci a scongiurare il peggio.

Il 4 dicembre ebbi un colloquio telefonico col presidente polacco Lech Wałęsa. Manifestò di appoggiare i miei piani di riforma dell’URSS e si disse disposto a rivolgersi ai popoli dell’Unione Sovietica con un appello a sostenere il processo di trasformazioni in corso.

Major mandò a Mosca un inviato speciale del governo britannico per chiarire la questione degli impegni internazionali dell’Unione Sovietica nel nuovo contesto.

Nello stesso giorno mi chiamò Bush e mi comunicò che Baker sarebbe arrivato a breve in URSS. Quando lo incontrai mi disse che l’amministrazione USA avrebbe fatto di tutto per non ingerirsi nelle questioni interne sovietiche: “Ci interessa che la trasformazione si svolga nella norma e nella cornice costituzionale, altrimenti le conseguenze saranno estremamente negative per voi e per il mondo intero”.

Il giorno seguente mi telefonò Mitterrand: “Nell’ultimo incontro – affermò – le avevo espresso l’augurio che le repubbliche restassero unite. L’ho affermato allora e lo ripeto: è nell’interesse di tutta l’Europa, non solo del vostro Paese… Le vicende accadute in URSS ci stanno a cuore e al contempo ci preoccupano. Come prima continuo a pensare che lei sia il garante della stabilità e della continuità del Paese. La Francia segue ogni sua azione con

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grande comprensione, ogni suo passo con simpatia”.Il 23 dicembre ebbi un colloquio con Major. Alla sua domanda sulla

situazione dell’URSS risposi: “ È vero, anche guardando alle vicende del nostro Paese nel modo più ottimistico esse appaiono tragiche. Io la penso così: va bene, non volete l’Unione, ma non è accettabile che gli episodi di questi giorni arrechino perdite per noi e per gli altri. Quale il mio ruolo? Resto saldo nelle mie posizioni ma vedo il processo per quello che è. Allo stato attuale non credo che finiremo come la Jugoslavia. È un obiettivo che mi auguro anche lei condivida. Prestate attenzione a ciò che accade in URSS. Bisogna sostenere la CSI e soprattutto la Russia. Al momento è una questione prioritaria”.

“Come guardiamo al futuro? – replicò Major -: pensiamo che non si debbano vanificare i risultati raggiunti. Ecco perché vogliamo aiutare il vostro Paese. Immaginiamo quanto saranno duri i prossimi mesi”.

“Abbiamo anche bisogno di aiuto economico – dichiarai – 5, 10, 15 miliardi. In caso contrario, se il processo di trasformazione venisse fermato, sarete costretti a pagare un prezzo molto più alto, dieci o cento volte maggiore”.

Il 24 dicembre incontrai l’ambasciatore italiano Ferdinando Salleo. Portò un messaggio dal presidente Cossiga e una lettera strettamente personale scritta dal presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti.

Il 25 dicembre ebbi l’ultimo colloquio con Bush. Gli comunicai che due ore dopo avrei reso pubbliche le mie dimissioni e che gli avevo inviato una lettera di congedo.

“Sul mio tavolo c’è il decreto del Presidente dell’URSS – conclusi. In conformità con la fine dell’adempimento dei miei doveri di Comandante in capo trasmetterò il diritto all’utilizzo dell’arma atomica al presidente della Federazione Russa. Il decreto entrerà in vigore subito, quindi potrà trascorrere un Natale sereno”.

“Le assicuro – mi rispose Bush – che continueremo a interessarci ai vostri affari. Cercheremo di aiutare soprattutto la Repubblica russa, tenendo in considerazione gli attuali problemi e quelli che potrebbero acutizzarsi in inverno. Oggi le ho scritto una lettera nella quale ho esternato la mia convinzione che ciò che ha fatto entrerà nella Storia e che le generazioni future apprezzeranno il vostro operato”.

Il 25 dicembre inviai una lettera di congedo ai dirigenti politici con i quali per sei anni avevo lavorato per risolvere i più complessi problemi internazionali.

Non ci fu nessun pranzo d’addio. Nessuno dei dirigenti statali della CSI mi telefonò. Né il giorno delle dimissioni, né in seguito…

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La mattina del 25 dicembre mi chiamarono dal Cremlino e mi dissero che alle 8.30 El’zin, Chasbulatov e Burbulis avevano occupato il mio ufficio e si erano scolati una bottiglia di whisky. Fu il trionfo dei rapaci: non posso esprimermi altrimenti.

Mi ingiunsero di lasciare entro tre giorni l’appartamento presidenziale e la residenza fuori città.

La sciagura del Paese si intrecciò con la mia disgrazia personale. Il potere passò nelle mani di persone irresponsabili, incompetenti, ambiziose e spietate. Oltre la Russia tutte le altre ex-Repubbliche dell’URSS si trovarono in una situazione estremamente difficile.

Fu il risultato del golpe di dicembre, una pagina nera nella storia della Russia e dell’Unione.

il ruolo della Perestrojka nella storia

La rivoluzione del 1917 avrebbe determinato molti cambiamenti nel corso del XX secolo. Alla Perestrojka si deve la svolta che sta coinvolgendo il nostro Paese e il resto del mondo. Nel 1917 i bolscevichi puntarono sulla dittatura come strumento per risolvere i problemi della Russia e del mondo, mentre gli ideatori della Perestrojka si sono posti lo stesso obiettivo attraverso un percorso pacifico e democratico.

Il sistema creato dai bolscevichi uscì di scena, ma sarebbe un grave errore ritenere che l’”esperimento russo” sia stato inutile e abbia arrecato solo danni.

Da un punto di vista storico, la società sovietica era entrata in un vicolo cieco. Ma sia allora che per il futuro si erano imposte scelte determinanti a beneficio di milioni di persone. I nostri nonni e i nostri padri non hanno vissuto invano. I cittadini sovietici, anche quelli appartenenti alle fasce più basse, non versavano in uno stato di abbandono sociale. Fu creata un’industria potente e all’epoca d’avanguardia.

Ed è anche importante notare un altro aspetto: i bolscevichi, con la rivoluzione culturale e lo sviluppo delle scienze, crearono una società istruita che alla fine, in modo paradossale e contro le loro intenzioni, rovesciò il regime. Il regime fu rigettato a livello culturale. É fondamentale ricordarlo.

Ogni epoca si presta a trarre insegnamenti preziosi dagli errori del passato.

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Le epoche si differenziano a seconda del prezzo che pagano gli uomini per conseguire i successi. Sappiamo quanto hanno pagato i cittadini sovietici sotto Stalin. La Perestojka non si è svolta senza perdite. Le vicende si sono succedute in maniera così vorticosa che fu difficile controllarle. Ma non arrivammo ai metodi staliniani delle fucilazioni, delle coercizioni, delle azioni punitive.

La Storia non ha confermato l’ineluttabilità della sconfitta del capitalismo… Per il momento non l’ha confermata e, credo, non la confermerà. La “Primavera di Praga”, invece, aveva già preannunciato l’ineluttabilità del crollo del “totalitarismo socialista”: la repressione con i carri armati aveva significato l’inizio della fine del sistema totalitario.

Nonostante le affermazioni degli oppositori e dei critici della Perestrojka, essa costituì un avvenimento sorprendente per tutta la società. Solo le generazioni dei nostri nipoti o pronipoti potranno valutarne appieno la portata.

Con la Perestrojka volevamo far uscire il Paese dal totalitarismo. Desideravamo una società nella quale fossero presenti i valori comuni a tutti gli esseri umani: la giustizia, la solidarietà, le idee cristiane e democratiche, e la reciproca comprensione.

Abbiamo aperto un fronte attraverso il quale andare avanti. Abbiamo introdotto ciò di cui necessitava il Paese: la libertà, la trasparenza, il pluralismo politico, la democrazia. Abbiamo reso l’uomo libero. Abbiamo dato ai cittadini la possibilità di scelta, le libertà di coscienza, di pensiero e di parola.

Sono convinto che il mondo non tornerà più a relazioni internazionali selvagge: si sono auto-liquidate, sebbene esista tuttora il rischio di regimi autoritari. Il futuro non va più guardato nell’ottica della dicotomia capitalismo/socialismo. Dobbiamo edificare una società che prenda gli aspetti migliori del liberalismo, del socialismo e delle altri varianti del progresso. Non so come si possa chiamare questa nuova società, ma penso che essa debba far proprie tutte le ricchezze culturali, spirituali e materiali elaborate dal genere umano in millenni di storia.

I funerali dell’ideale socialista non hanno avuto luogo. Ma l’idea socialista deve liberarsi dalla pretesa di monopolio e deve diventare uno strumento di dialogo con le altre idee e filosofie, per arricchirsi reciprocamente e costruire la società del futuro.

La lezione principale lasciataci dalla Perestrojka è che non si può trasformare un sistema con salti bruschi o con rovesciamenti improvvisi. Tale logica è insita nella mentalità dei russi: abbiamo dovuto sempre aprirci dei varchi, difenderci, mobilitarci. In nome di grandi ideali o obiettivi abbiamo rinunciato a tutto, ci siamo limitati. È illusorio che si possa risolvere ogni situazione con una mossa. Dobbiamo smettere di sbatterci da un estremo all’altro.

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La Perestrojka va valutata non per quello che non ci ha potuto dare o non ha fatto in tempo a darci, ma per l’immenso cambiamento che ha rappresentato per la storia secolare della Russia, per le conseguenze positive per il mondo intero.

La Perestrojka è stata, in primo luogo, la risposta alle necessità crescenti della società sovietica, ai problemi e alle contraddizioni. In essa si sono riflessi anche i grandi processi legati allo sviluppo mondiale dell’ultimo quarto del XX secolo. La Perestrojka ha di nuovo inserito il nostro Paese nella scia dei processi internazionali.

In tal senso è annoverabile nella “terza ondata delle rivoluzioni democratiche” avutesi in Europa alla metà degli anni Settanta (Grecia, Spagna, Portogallo) e sviluppatesi nel decennio successivo in Occidente. La Perestrojka ha raccolto la staffetta e l’ha portata nell’Europa orientale, che era rigidamente separata dalla cortina di ferro.

Accanto alla Perestrojka si è sviluppato il fenomeno di più larga portata quale quello della globalizzazione. Negli anni ’80 e ’90 quasi tutte le nazioni si erano rifiutate di accettare le sue sfide. Nella sua proiezione internazionale le Perestrojka si presentò come un progetto alternativo alla versione neoliberale dominante della globalizzazione. Nel pensiero della Perestrojka erano esposti con più fermezza i temi sociali. Il suo “quadro del mondo” si costruiva sul bilanciamento degli interessi, e non delle forze. Finché esistette l’Unione Sovietica un simile sviluppo internazionale dopo la fine della Guerra fredda costituiva una buona prospettiva.

Ogni popolo, a seconda della propria storia, della cultura, della mentalità e delle possibilità, ha diritto alla libertà di scelta. Dalle differenti scelte scaturiscono numerose varianti di sviluppo. Non è accettabile limitare le scelte di nessuno. Da questa convinzione prese avvio il mio “revisionismo”: partivo dalla constatazione che anche le sorti della democrazia dovessero essere decise in base al principio della libertà di scelta e del pluralismo.

Nel corso dei quasi sette anni di Perestrojka l’approccio a essa variò nelle diverse fasi del suo sviluppo. All’inizio non fu accolta seriamente e fu considerata l’ennesimo trucco propagandistico del Cremlino. In un secondo tempo, con dubbi e difficoltà, si iniziò a credere nella fondatezza del nuovo corso intrapreso. In seguito fu fervidamente appoggiata, persino difesa dagli attacchi dei nemici. Gran parte della comunità internazionale guardò al tragico finale della Perestrojka con sincero rammarico. È comprensibile. Con la fine della Perestrojka tanti videro sfumare la speranza di un profondo rinnovamento del mondo, di un balzo democratico verso il futuro.

Che cosa ha dato la Perestrojka al Paese e al mondo? Elencherò solo alcuni

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elementi.La Perestrojka ha eliminato il monopolio del partito unico e dell’ideologia.

Fu messa fine allo stalinismo, alle repressioni politiche e ideologiche. Centinaia di migliaia di uomini condannati ingiustamente furono riabilitati in pieno.

Cessò la censura, fu concessa la libertà di parola, di stampa, di associazione e di protesta; fu proclamato il diritto di creare organizzazioni politiche e partiti; fu data la possibilità di scegliere i dirigenti sulla base di un sistema alternativo; furono realizzati organismi rappresentativi e compiuti i primi passi verso la separazione dei poteri. Insomma, sorse un sistema politico in grado di portare il Paese al parlamentarismo

I diritti dell’uomo divennero un principio imprescindibile. Per la prima volta si presentò l’opportunità di uscire dal Paese liberamente e di criticare in pubblico qualsiasi dirigente, persino il governo. Pur senza riuscire a mettere in pratica tutti i diritti e le libertà, il movimento avviato dalla Perestrojka in questa direzione è ormai inarrestabile.

La transizione alla nuova società si svolse senza spargimenti di sangue. Riuscimmo a scongiurare la guerra civile. Le riforme furono spinte così avanti che la tendenza rinnovatrice divenne irrefrenabile. Tuttora tanti si meravigliano della capacità di raggiungere questi obiettivi in un Paese così grande e complesso.

La strategia economica della Perestrojka si sviluppò attraverso un graduale smantellamento del sistema amministrativo di gestione e l’inserimento di aspetti propri dell’economia di mercato.

I tentativi di riformare democraticamente lo Stato multinazionale unitario supercentralizzato, per trasformarlo in una federazione vera e propria, ci portarono quasi a concludere il nuovo Accordo federale che si fondava sul riconoscimento della sovranità di ogni Repubblica, pur conservando uniti gli elementi necessari all’integrità del Paese: la politica economica e sociale, il diritto, la difesa e gli orientamenti della politica estera.

Alcuni critici della Perestrojka – coloro che dicono che allora sapevano come sarebbe stato meglio agire – affermano: “bisognava iniziare la trasformazione partendo dal partito”. È quello che abbiamo fatto. Ma proprio qui ci siamo imbattuti negli ostacoli più grandi: abbiamo combattuto l’opposizione della nomenklatura, all’inizio silenziosa e in seguito sempre più palese, e al contempo siamo stati colpiti dalla crescente crisi di autorità e di legittimità del PCUS, a seguito della denuncia dei crimini staliniani.

Il rinnovamento del partito si sarebbe dovuto completare al XXIX Congresso con l’approvazione del nuovo programma.Al momento della convocazione del Congresso straordinario sarebbero dovuti nascere almeno

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tre partiti politici espressione delle idee democratiche, comuniste e liberali. Le trasformazioni all’interno del Paese portarono inevitabilmente alla

svolta in politica estera. Il nuovo corso corrispose al rifiuto degli stereotipi della logica del confronto, della separazione del mondo in “nostri” e “loro”, degli sforzi maniacali di imporre il proprio stile di vita al mondo circostante. Permise inoltre di rivedere i principali parametri della sicurezza statale e le misure per garantirla, stimolò un dialogo fecondo sui nuovi principi dell’ordinamento mondiale.

Malgrado le difficoltà nazionali e internazionali, la politica estera della Perestrojka, ispirata alle idee del nuovo pensiero, ha raggiunto senza dubbio dei risultati positivi. Il principale è stato la fine della Guerra fredda. Si chiuse per sempre un periodo lungo e potenzialmente letale della storia mondiale, durante il quale tutta l’umanità aveva vissuto sotto la continua minaccia della catastrofe atomica. Da vari anni continua la discussione su chi ha vinto e chi ha perso nella Guerra fredda. Formulare il quesito in questi termini significa rendere un tributo al dogmatismo staliniano. In realtà, se ci pensiamo bene, capiamo che abbiamo vinto tutti. Si sono consolidate le basi della coesistenza pacifica nel pianeta.

Le relazioni tra gli Stati – sia in Oriente sia in Occidente – sono state avviate su un piano di normalità che esclude la legge della competizione. Sono state gettate le fondamenta di una partnership paritaria che risponda agli interessi di tutti, in primo luogo ai nostri interessi nazionali. Si è presentata l’opportunità di ridurre sensibilmente il peso delle spese per le guerre e gli armamenti, è stato possibile destinare una parte dei fondi risparmiati alla produzione civile. Il desiderio profondo di coloro che avevano vissuto il 1941, di non incorrere in vicende analoghe, trovò finalmente una risposta positiva.

Durante il periodo della Perestrojka anche nella sfera della politica estera non tutto fu (e non sarebbe potuto essere!) ideale: qualcosa avrebbe potuto essere realizzata con maggiore precisione ed efficacia. Avevamo gli strumenti? Forse sì. In ogni caso, le principali misure pensate e messe in pratica erano conformi alle necessità del nostro Paese, ne avevano accresciuto l’autorità e l’influenza internazionale, ne avevano consolidato la sicurezza.

Tali furono gli esiti determinanti della Perestrojka. Anche se stilassi l’elenco completo dei successi conseguiti non riuscirei a confutare l’opinione diffusa sul fallimento della Perestrojka. Eppure molti furono i risultati raggiunti. Il dissolvimento dell’URSS ha eliminato l’opportunità di sviluppare il nostro Paese, ha tolto dallo scenario mondiale un fattore colossale per normalizzare e pacificare i processi internazionali. La Perestrojka stimolò la crescita della autocoscienza nazionale nelle Repubbliche. Un fenomeno di per sé positivo. Ma

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sfruttando l’insorgere delle passioni, le élite nazionali tentarono di accaparrarsi in breve tempo e senza freni le risorse economiche, di mettere sotto il loro controllo ciò che era di proprietà dell’Unione. Certo sarebbe stato necessario porre nuove fondamenta all’ordinamento statale dell’Unione. La dirigenza del Paese lo aveva capito e lo aveva ammesso. Tuttavia sopravvalutammo la robustezza del sistema sovietico e, soprattutto, sottovalutammo la cupidigia e le ambizioni delle élite nazionali. Il loro obiettivo era sfruttare la furia popolare per ottenere il potere politico. Pur di conseguirlo non si fermarono neppure di fronte alla distruzione dell’Unione. Come recita il proverbio russo: “Erano pronti a dar fuoco alla casa pur di scaldarsi le mani”. E così fecero. Mirarono a Gorbaciov e colpirono l’Unione.

Un ruolo estremamente negativo per le sorti dell’URSS fu giocato dalla politica distruttiva della dirigenza della RSFSR, guidata da El’zin. Nascondendosi dietro all’esigenza del tutto legittima di soddisfare le necessità della popolazione russa, essa di fatto silurò tutti i progetti di Accordo federale e, con premeditazione e egoismo, portò allo sfaldamento dell’integrità statale.

Oggi, guardando al passato, mi convinco sempre di più che sarebbe stato possibile salvaguardare l’unità del Paese o, almeno, la componente principale, attraverso il rinnovamento dell’Accordo federale. A volte si sostiene che l’URSS fosse destinata alla rovina, che motivi obiettivi ne avessero preannunciato il fallimento. Tale punto di vista è la conseguenza di un approccio meccanico alla Storia, regolato da leggi “ferree” e regole univoche. È una posizione dettata dal tentativo di discolpare i responsabili del crollo dell’Unione.

A distanza di venti anni è facile disquisire su ciò che non è stato compiuto durante la Perestrojka, sui nostri errori, sulle circostanza infauste che la fecero naufragare.

Il paradosso drammatico della Perestrojka è strettamente legato all’eredità lasciataci: nelle condizioni in cui trovai il Paese quando giunsi al potere, azzardarsi ad avviare delle trasformazioni fu un grande rischio, ma rifiutarsi sarebbe stato ancora più pericoloso.

Tornando con il pensiero al passato vedo con maggiore precisione le cause fondamentali che complicarono il processo di riforma della società sovietica. Mentre democratizzavamo il Paese resuscitarono e presero forza le pretese e le contraddizioni accumulatesi nei settant’anni dell’epoca sovietica. Esse furono sfruttate con abilità da ideologi spregiudicati e politicanti irresponsabili fattisi subito avanti.

La riorganizzazione degli istituti statali fu ritardata dal crescente scontro tra la dirigenza riformatrice del Paese e gli oppositori. L’indebolimento dei sistemi di controllo e dell’ordine legale attizzò il desiderio di una parte della

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nomenklatura di arraffare le proprietà dello Stato. L’abolizione del controllo totalitario sulla società non fu interpretato come un invito delle autorità al dialogo e alla collaborazione, ma come una debolezza del potere da sfruttare. L’infrazione delle leggi divenne la norma. Le organizzazioni mafiose, non interessate alla creazione di una economia di mercato ma alla spartizione criminale dei beni statali, iniziarono a esercitare un’influenza tangibile sull’economia.

Un ruolo decisivo fu giocato anche dalla fatale combinazione delle circostanze: la catastrofe di Černobyl, il terremoto in Armenia, l’improvviso crollo dei prezzi delle materie prime nei mercati internazionali. Avvenimenti che limitarono i piani riformistici e minarono l’ottimismo della popolazione.

Sarebbe tuttavia erroneo e disonesto spiegare il finale drammatico della Petrestrojka solo con i motivi obiettivi, con le tragiche casualità, con le peculiarità russe e i tratti caratteristici del passato sovietico. La nostra dirigenza fece degli errori e dei calcoli sbagliati, sotto il fuoco incrociato dei conservatori e dei radicali, uniti dallo scopo di abbattere il potere centrale. Riconosco che non sempre trovammo la soluzione ottimale dei problemi.

Senza dubbio non utilizzammo in modo corretto l’indiscusso appoggio che la società ci aveva dato all’inizio. Non so se nella nostra storia ci sia mai stato un sostegno popolare allo Stato così fervente. Ma lo perdemmo gradualmente. Non sfruttammo il momento per risolvere i problemi della formazione dei prezzi e del mercato. I cittadini attendevano e noi non ci decidevamo a mettere da parte le vecchie politiche, continuavamo a erogare miliardi di dollari per obiettivi obsoleti e costosi. Avremmo dovuto equilibrare il mercato dei beni di consumo, convertire con più coraggio e decisione l’industria militare alla produzione di articoli di qualità per il popolo.

Ritardammo con le riforme dello Stato e non trasformammo in tempo il partito. Furono due gravi errori.

È noto che l’URSS fosse uno “Stato partitico” dove l’organo politico-ideologico nella persona del PCUS e gli istituti statali erano strettamente legati tra loro. Di conseguenza l’indebolimento del partito causò l’indebolimento dello Stato. Il partito era personificato dalla nomenklatura. Ma, come la Storia insegna, è proprio essa che divora i riformatori. La tragica contraddizione consisteva nella circostanza che con lo “Stato-PCUS” – eredità dell’epoca storica che volevamo sradicare – non potemmo compiere nessun passo avanti, né sviluppare le riforme, ma al contempo eliminarlo subito avrebbe significato esporre il Paese a un grande rischio, dal momento che a ogni gradino del potere sedeva la nomenklatura.

Una eventuale soluzione di questa contraddizione avrebbe potuto essere

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l’avvio di uno scisma da parte della dirigenza del partito e la nascita di una nuova formazione politica di tipo riformatore. In caso di scissione credo che la maggior parte dei membri del PCUS (a prescindere dai punti di vista) avrebbero appoggiato la dirigenza riformatrice, lasciandole nelle mani le risorse principali dell’immensa organizzazione partitica. In questo caso l’antica tradizione e l’abitudine alla disciplina ci sarebbero state di aiuto. Ma il putsch di agosto seppellì il piano insieme al nuovo Accordo federale.

A causa della presenza di una corrente molto conservatrice nel Politbjuro e nelle alte sfere del partito spesso non arrivammo in tempo a risolvere i problemi più gravi. Un momento importante fu l’elezione del Presidente dell’URSS durante il Congresso dei deputati popolari. È opinione comune che, visto che ero stato eletto con una maggioranza assoluta (pochi dubitavano della mia vittoria), nei momenti fatali del 1991 l’assoluta legittimità del potere presidenziale mi avrebbe permesso di adottare misure più severe contro i liquidatori dell’URSS.

Alle opportunità di tipo amministrativo che non si realizzarono va annoverata anche l’omissione del controllo sulla osservanza delle leggi, elemento indispensabile per garantire la stabilità durante i processi di trasformazione politica.

Le conseguenze di questo errore si fecero sentire nel corso dei molteplici conflitti etnici, a cominciare dalla strage di Sumgait nel 1988. Non furono adottate le misure necessarie per condannare e punire gli esecutori dei pogrom, per sciogliere i gruppi armati illegali. Mostrammo una eccessiva presunzione sulle questioni legate alle relazioni tra le nazionalità. È indubbio che nei decenni successivi alla Rivoluzione d’ottobre erano stati conseguiti enormi risultati in questa sfera. Ma durante la realizzazione della politica delle nazionalità nel periodo post-rivoluzionario, e soprattutto sotto Stalin, erano rimasti anche molti problemi irrisolti ereditati dal passato.

Avremmo dovuto prevedere che, avviato il processo di democratizzazione, sarebbero venuti a galla vecchi problemi e nuovi ne sarebbero nati. È ciò che in effetti avvenne. Dapprima emersero le questioni legate ai trasferimenti forzati delle popolazioni: ingusci, ceceni, karači, balcari, calmucchi, tartari di Crimea, tedeschi. Saremmo stati in grado di risolvere questi problemi ma arrivammo troppo tardi. Ci rendevamo conto che serviva un nuovo accordo, ma le vicende si susseguivano così velocemente e la situazione si stava disgregando a tal punto che bastò il solo putsch ad accendere la scintilla delle passioni centrifughe.

Il sistema politico dell’URSS aveva anche dei pregi. Oggi in Russia, dopo l’esperienza amara degli anni ’90, molti cittadini rimpiangono il potere

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sovietico. Lo apprezzano più di quanto si facesse nel periodo precedente alla Perestrojka, quando dei Soviet era rimasta solo la forma esteriore che copriva lo strapotere della nomenklatura di partito. Rappresentare il passato abbellendolo è una reazione al cinismo dell’attuale classe politica. Il cinismo è una malattia perniciosa che ha infestato la nostra politica e i mezzi d’informazione di massa.

Il merito storico dei riformatori del tempo della Perestrojka è aver avviato le trasformazioni radicali che erano in incubazione nel Paese, e averle attuate democraticamente, passo dopo passo, allargando gli spazi di libertà, le proporzioni e la profondità dei cambiamenti. La Perestrojka permise di migliorare la qualità della società, di darle una dimensione democratica. Per questo motivo la constatazione degli errori compiuti durante la Perestrojka non deve trascurarne i pregi.

La Perestrojka si presentò come l’alternativa a due eccessi storici: al capitalismo egoista della proprietà privata e al totalitarismo staliniano. Fu un movimento spontaneo e al tempo stesso consapevole, finalizzato a operare una sintesi degli elementi positivi del capitalismo e del socialismo.

Non importa come si sarebbe chiamata questa sintesi. L’aspetto più importante è che quel tentativo di grandiosa creatività sociale mirava a superare l’antagonismo “maledetto” tra efficienza e giustizia. La Perestrojka era destinata a dimostrare l’inesauribilità della Storia, a condurre il genere umano su un piano diverso di realizzazione del suo potenziale.

La Perestrojka fissò sulla propria bandiera le parole “giustizia”, “democrazia” e “trasparenza”, e in parte le mise in pratica. Le grandi riforme, tuttavia, provocarono una situazione non prevista: esse generarono la totale illegalità, la violazione dei diritti umani (causata dall’abisso creatosi tra il tenore di vita della maggioranza dei cittadini e quello di un ristretta cerchia di privilegiati), la crescita esponenziale della criminalità, la corruzione sistemica, la guerra in Cecenia.

La Perestrojka fu per certi versi un’impresa storica: la società sovietica si liberò dal totalitarismo con le proprie forze e aprì la strada della libertà e della democratizzazione ad altri Paesi e popoli. Nonostante i differenti punti di vista sulla Perestrojka, i nostri connazionali, persino a livello inconscio, godono tuttora delle sue conquiste, soprattutto nella sfera dei diritti e delle libertà civili e politiche. Il 70-80% dei russi condivide e sostiene i valori democratici di base che la Perestrojka ha apportato alla nostra vita. Resta elevato anche il livello di consenso alle linee principali della politica estera di quel periodo. Le differenze tra il tempo della Perestrojka e il successivo emergono sia nella politica interna che estera.

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L’umanità è entrata nel XXI secolo con un carico di problemi del passato irrisolti e si è scontrata con le nuove sfide globali. Per affrontarli e risolverli si impone un nuovo ordine mondiale democratico. Le premesse poste dalla Perestrojka e le prospettive da essa aperte sono un fattore che continua ad agire, che impedisce agli Stati di scivolare in una nuova competizione, che ricorda esempi di concreta collaborazione nella soluzione dei più complessi problemi globali.

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ePiloGo

Infine vorrei dire qualcosa su di me. La sorte ha voluto che mi toccasse un compito che di rado spetta a una sola persona. Un carico così pesante che solo coloro che mi furono molto vicino sanno quanto fu doloroso portare, a volte fino alla disperazione.

Non mi lamento del destino che ho avuto. Ma non lo auguro a nessuno. Tuttora continuo a pagarne le conseguenze. Comunque credo che il fato sia stato anche particolarmente generoso, avendomi offerto una chance così importante e rara.

Seppure avessi conosciuto in anticipo tutte le difficoltà non avrei rinunciato alla scelta fondamentale: cambiare il Paese che avevo trovato quando arrivai ai vertici del potere. Tuttora ritengo che quella scelta sia stata corretta. La Storia ha le sue leggi, e il tempo su cui scorre la vita morale soggiace a vari fattori. La mia convinzione, che difendevo e continuerò a difendere, è che nella Storia ci sono sempre diverse opportunità e alternative. La Storia, di per sé, è prendere decisioni, è la Storia degli uomini e della società.

Ritenevo (e continuo a ritenere) che i principali valori politico-sociali fossero la libertà, l’eguaglianza, la giustizia e la solidarietà. Sono i valori professati da intere generazioni di uomini che hanno lottato per la libertà e la dignità del genere umano. In nome di questi valori sorsero grandi movimenti di massa. In ogni caso sono convinto che senza il valore della libertà, senza l’idea di giustizia nella politica e nella vita, senza la solidarietà e senza le norme morali comuni a tutti gli uomini, una società diventa totalitaria o autoritaria.

Spesso mi chiedono se sia felice. Non è facile rispondere. Mi rammarico a tutt’oggi di non essere riuscito a condurre in acque tranquille la nave che mi ero trovato a guidare; di non aver completato il processo di riforma dello Stato; di non essere stato in grado di realizzare la Perestrojka secondo i miei disegni. Soffro perché la mia responsabilità è stata grande nelle vicende interne dell’URSS e in quelle della politica mondiale.

Se si guarda da una prospettiva ampia, considerato come ha disposto il destino, rendendomi non solo partecipe di una delle più importanti svolte della Storia, ma designandomi come colui che iniziò il processo di rinnovamento e lo portò avanti, allora posso dire di essere stato fortunato. Bussai alle porte della Storia ed esse si aprirono, si aprirono di fronte a coloro per i quali mi ero impegnato.

Non ho ambito al potere per il potere, né ho cercato di imporre la mia volontà a ogni costo. Quando divenni Segretario generale dovetti prestare

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attenzione alle circostanze, alle conseguenze delle mie scelte, al parere degli altri membri della dirigenza. Mentre ero ai vertici del potere, dovetti rispondere spesso a chi mi chiedeva come mi sentissi e se avrei lasciato il posto presidenziale in caso non mi avessero riconfermato. Mi posero la domanda in modo diretto in un dibattito televisivo nel corso di un visita all’estero. Chiarii che una simile circostanza sarebbe stata indice di democrazia e che il cambiamento del presidente attraverso una votazione democratica avrebbe rappresentato una delle conquiste della mia politica.

Concludo le mie riflessioni con una parabola, che mi raccontò il mio amico Čingis Ajtmatov. Eccone il contenuto. Una volta arrivò da un governatore un profeta veggente. L’ospite disse: “La tua fama si va diffondendo, mi è giunta voce che sogni di colmare di benefici il tuo popolo per l’eternità, che vuoi indicare agli uomini la strada della felicità e intendi dare la libertà al popolo”. “Si – rispose il governatore – sto per fare proprio così”.

Il saggio vate continuò: “La tua intenzione ti varrà imperituro onore. Ma ho il dovere di dirti tutta la verità. Hai di fronte due strade e quindi due destini. La prima è rafforzare il rigido governo, perseverando nella tradizione dei tuoi avi. Sei ora al vertice del potere e puoi restarci sino alla fine dei tuoi giorni.

La seconda strada è il pesante percorso del martire. Devi sapere, infatti, che la libertà che donerai si rivolterà contro di te per l’ingratitudine di coloro che riceveranno questo dono. Così avviene di solito. È sempre stato così in passato, e così sarà in futuro. Ti attende lo stesso destino. Sperimenterai il dolore e l’umiliazione, e fino all’ultimo secondo della tua vita non ti libererai dal desiderio di chi ti è accanto di farti fuori e di infangare il tuo nome…”.

Il governatore disse allo straniero: “Fermati nella mia corte e attendimi sette giorni. Mi immergerò nella riflessione e se fra sette giorni non ti avrò chiamato vai via, tornatene sulla tua strada…”. Dopo aver ascoltato questa parabola ho detto al mio amico Čingis: “Capisco di che si tratta. Ma non bisogna aspettare sette giorni. Anche sette minuti sono troppi. Ho fatto la mia scelta e non retrocederò per nessun motivo. Che arrivino la democrazia, la libertà, la liberazione dal passato terribile e cessi qualsiasi forma di dittatura. Che il popolo mi giudichi come vuole… Sono pronto a questo cammino anche se molte persone non mi capiranno”.

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i n d i c e

Presentazione di Gianni Puccio................................................................................................. pag 5

Prefazione all’edizione italiana di Michail Gorbaciov ............................................................... “ 7

Prologo .................................................................................................................................... “ 9

Capitolo I - Le cause, i motivi, il progetto ................................................................................ “ 11

• Come siamo arrivati al 1985 .................................................................................... “ 13

• Logica di sviluppo del progetto ................................................................................ “ 19

• il fattore della politica estera ..................................................................................... “ 22

• il nuovo pensiero ..................................................................................................... “ 27

Capitolo II - I primi passi (Gli anni 1985-1987)...................................................................... “ 31

• Il primo plenum del Comitato centrale nella nuova situazione ................................. “ 33

• Il plenum di aprile ................................................................................................... “ 34

• Glasnost’................................................................................................................... “ 36

• La campagna anti – alcool ........................................................................................ “ 38

• Cambiamenti al vertice ........................................................................................... “ 40

• La glasnost’ inizia a funzionare ................................................................................. “ 41

• Rivolti all’Europa ..................................................................................................... “ 43

• URSS-USA. Il primo passo del riavvicinamento: Ginevra 1985................................ “ 44

• La tragedia di Černobyl ........................................................................................... “ 48

• Il dramma di Reykjavik ............................................................................................ “ 51

• La dichiarazione di Delhi ......................................................................................... “ 54

• Il plenum del Comitato centrale del gennaio 1987 .................................................. “ 55

• In cerca di nuove relazioni. I miei interlocutori europei ........................................... “ 57

• Verso la riforma economica ..................................................................................... “ 60

• Il primo libro: il mio credo ...................................................................................... “ 61

• La relazione al settantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre ...................... “ 62

• L’Affaire El’zin ......................................................................................................... “ 64

• La visita a Washington e l’accordo sui missili di media gittata .................................. “ 67

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Capitolo III - La tappa decisiva (gli anni 1988-1989) .............................................................. “ 71

• Il plenum di febbraio ............................................................................................... “ 73

• Il ritiro dall’Afghanistan .......................................................................................... “ 74

• La classe intellettuale sovietica a una nuova tappa della Perestrojka .......................... “ 77

• Il problema nazionale della Perestrojka .................................................................... “ 79

• La visita di Reagan a Mosca ..................................................................................... “ 85

• L’intervento all’ONU .............................................................................................. “ 88

• La riforma politica. Le elezioni del congresso dei deputati popolari .......................... “ 91

• La visita a Londra .................................................................................................... “ 94

• Autoliquidazione della comunità degli Stati socialisti ............................................... “ 96

• La questione tedesca ................................................................................................ “ 101

• Dialoghi con Fidel Castro e colloqui in America Latina ........................................... “ 104

• Alla vigilia di Malta ................................................................................................ “ 106

• Il summit di Malta .................................................................................................. “ 110

Capitolo IV - Crisi e crollo della Perestrojka (gli anni 1990-1991)............................................ “ 115

• Dalla Staraja Plosciad al Cremino ............................................................................ “ 117

• Il primo presidente dell’Urss .................................................................................... “ 118

• Il 1990: l’anno dell’unificazione tedesca ................................................................... “ 121

• La crisi nel Golfo Persico ......................................................................................... “ 130

• Il governo Pavlov ..................................................................................................... “ 131

• Non rinunciare alla scelta presa ............................................................................... “ 133

• La sindrome lituana ................................................................................................. “ 137

• Il processo di Novo-Ogarevo ................................................................................... “ 140

• L’obiettivo è vicino .................................................................................................. “ 144

• L’ingresso nel G7 ..................................................................................................... “ 146

• George Bush a Mosca .............................................................................................. “ 150

• Il Putsch .................................................................................................................. “ 153

• Chi ha tradito chi? ................................................................................................... “ 158

• Il Putsch visto dall’estero ......................................................................................... “ 161

• I tentativi di rilanciare le riforme. L’agonia dell’Urss ............................................... “ 162

• La conferenza di Madrid sul Medio Oriente ............................................................ “ 166

• Il destino dell’Accordo federale ................................................................................ “ 168

• Il complotto di Belovež’e ......................................................................................... “ 172

• L’eco all’estero ......................................................................................................... “ 176

• Il ruolo della Perestrojka nella storia ........................................................................ “ 178

Epilogo ................................................................................................................................. “ 189

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libri Pubblicati dall’associazione

culturale italo-slava

in lingua russa:

L’ ITALIA È MOLTO PIù VICINA DI QUANTO VOI PENSATEAletheja, San Pietroburgo, 2006

GLI ITALIANI IN RUSSIA. DUE MILLENNI DI AMICIZIAAletheja, San Pietroburgo, 2007

TUTTE LE BANDIERE SONO NOSTRI OSPITI!CONTRIBUTO DEGLI STRANIERI NELLA CIVILTà RUSSA

Aleksandria, San Pietroburgo, 2008

in lingua italiana:

ALLA CORTE DEGLI ZAR. IL CONTRIBUTO OCCIDENTALE NELLA CIVILTà RUSSA

Paoline Editoriale Libri, 2009

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Associazione Culturale Italo-Slava onlus

Questa Associazione, con sede in Roma, è ormai nota per aver lanciato un vero e proprio “ponte

culturale”, così richiesto, fra Italia e Russia. L’attività della Associazione si è svolta in vari settori, anche con la pubblicazione di numerosi libri sulla storia bimillenaria dei contatti fra le due Paesi. Nel cor-so della sua attività vi è stato un incontro fortunato con la Fondazione Gorbaciov, che ci ha affidato la traduzione e diffusione di un importante libro di Michail Gorbaciov, che noi qui presentiamo: “La Pe-restrojka. Vent’anni dopo” Riteniamo che questo sia il miglior modo di rendere omaggio a questo Gigan-te, facendolo conoscere alle nuove generazioni che purtroppo hanno una scarsa conoscenza dell’Uo-mo, cui tutti noi dobbiamo, in qualche modo, tanta riconoscenza.

c e n t r o i t a l o s l a v @ a l i c e . i twww.associazioneitaloslava.com

La Fondazione Gorbaciov

La Fondazione Gorbaciov di studi socio-economici e politici è stata istituita nel gennaio 1992 da Mikhail Gorbaciov. La Fondazione è una organizzazione non governativa e non commerciale e decide in via autonoma le direzioni di sviluppo sia sul territorio russo, sia altrove, in conformità alla legislazione dei Paesi nei quali svolge la propria attività. Il motto che riassume l’attività della Fondazione è «Verso la costruzione di una nuova civiltà». A questo motto fanno riferimento attività quali: gli studi su problemi sociali, economici e politici; il contributo alla formazione di scienziati e di politici; la divulgazione di nozioni scientifiche. L’attività di studio della Fondazione si è indirizzata verso i seguenti temi: problemi relativi alla globalizzazione; sviluppo economico e problemi sociali nel mondo, in Russia e nei Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti; sicurezza internazionale e disarmo; storia della Perestrojka nell’URSS.Attualmente la Fondazione è impegnata a sviluppare i seguenti programmi: «Globalizzazione e Pace nel secolo XXI» e «Progetto europeo e prospettive dell’integrazione paneuropea». Da un paio di anni, attraverso l’attività organizzativa della propria sede italiana, la Fondazione ha istituito i «Summit Mondiali dei Premi Nobel per la Pace» che riuniscono periodicamente un gran numero di personalità che hanno ricevuto il Premio Nobel per la loro attività a favore della Pace nel Mondo.

L’ASSOCIAZIONE CULTURALE ITALO-SLAVA

L’Associazione culturale Italo-Slava è stata creata per sviluppare e rafforzare i rapporti fra Italia e Russia, con la ricerca dei punti di comune interesse tra i due popoli. L’Associazione culturale Italo-Slava svolge ricerche linguistiche e progetti di scambio studenti au-pair. L’associazione accoglie le persone con stessi interessi che sono appassionate della storia dei rapporti fra l’Italia e la Russia.Il Presidente Gianni Puccio è una persona particolare. Nato in una famiglia di giornalisti e letterati. Padre italiano e madre polacca. Poliglotta e con una particolare passione per la lingua russa, l’etimologia e la storia della Russia hanno spinto Gianni Puccio a scrivere tre libri in Russia, in russo, per i russi e un libro in Italia che riassume, per gli italiani, i tre libri:- L’Italia è molto più vicina di quanto voi pensate (Aletheja, San Pietroburgo, 2006)- Gli italiani in Russia, due cileni di amicizia (Aletheja, San Pietroburgo, 2007)- Tutte le bandiere sono nostri ospiti! Contributo degi stranieri nella civiltà russa (Aleksandria, San Pietroburgo, 2008)- Alla corte degli Zar (Paoline editoriale Libri, 2009)

Gianni Puccio racconta dei russi più famosi che sono stati in Italia e, degli italiani che hanno lavorato in Russia, e dei tanti legami fra i due popoli.