Microclientelismo. Circuiti territorializzati di ... · tra personalismo e arretratezza è un luogo...
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XXIX Convegno SISP
Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Arcavacata di Rende (Cosenza)
10 - 12 settembre 2015
Microclientelismo.
Circuiti territorializzati di aggregazione del consenso.
di Luciano Brancaccio
Work in progress – prego non citare
Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Napoli Federico II
1) Introduzione: la personalizzazione della politica
Le analisi più recenti sulle nuove forme della politica e sui rapporti tra cittadini-elettori e
rappresentanti-eletti concordano nel descrivere un quadro segnato dalla personalizzazione della
politica e dalla perdita di legittimazione di organizzazioni e istanze di ordine collettivo. È un
mainstream che riguarda in buona sostanza tutte le democrazie occidentali, al punto che è lecito
parlare di passaggio epocale, oppure, forse più sensatamente, di un ritorno, dopo la parentesi
fordista con la sua primazia delle grandi organizzazioni, alla dimensione interpersonale e
leaderistica della politica.
Non si è lontani dal vero, infatti, affermando che siamo definitivamente usciti dal tracciato
storico delle culture politiche novecentesche che hanno accompagnato la società fordista. Questa
affermazione, tanto perentoria quanto ovvia sul piano della periodizzazione storica, richiede una
attribuzione di senso nel concreto dei rapporti tra elettori e eletti e nelle forme che la politica
assume nei territori: in quella dimensione cioè in cui i passaggi di fase non sono mai netti e il
“nuovo” mantiene ancora l’impronta del precedente. Ad uno sguardo ravvicinato dei comportamenti
e delle strategie di azione dei politici locali emergono la complessità e la varietà delle situazioni
specifiche, la forma spuria che spesso assumono le aggregazioni politiche, e parimenti la genericità
delle categorie con cui siamo soliti inquadrare i fenomeni della politica.
Già Gunther Roth (1987) molti anni fa, riferendosi a un’epoca in cui resisteva ancora il
modello organizzativo dei partiti di massa, aveva fornito una articolazione del concetto di “potere
personale” assai ampia, che includeva sostanzialmente, con gradazioni differenti, tutte le forme
storiche della politica a lui contemporanea: dal sistema americano a quello sovietico, passando per
la Cina popolare. Come egli stesso ebbe a sottolineare, e come sarà ripreso da molti altri autori
successivamente, il personalismo politico può riguardare le caratteristiche della leadership
monocratica nel rapporto di legittimazione con i cittadini (la variante del personalismo
universalistico) così come i rapporti di scambio clientelare nei livelli intermedi dei partiti e delle
altre agenzie di mediazione (personalismo particolaristico).
Da questo punto di vista, dobbiamo ammettere che il campo semantico del concetto di
personalizzazione della politica o di personalismo politico è piuttosto vago. Le varie declinazioni
del concetto possono essere utilizzate per indicare fenomeni anche molto diversi tra loro, che spesso
si concretizzano in forze storiche in reciproca contrapposizione. Si pensi per esempio, sulla scia
delle categorie introdotte da Roth, alla tensione che si realizza, nei partiti attuali, tra la leadership
monocratica e il personalismo dei ranghi intermedi (Calise 2006). Il riemergere, dopo la parentesi
fordista, della forza di aggregazione rappresentata da singole personalità, siano esse consolidate sul
carisma e l’immagine pubblica oppure sul patrimonio e lo scambio particolaristico, non è dunque
sufficiente a dare contezza delle trasformazioni recenti. Certo, la categoria del personalismo ci aiuta
a tenere a bada la retorica collettivista e ideologica che spesso accompagna le rappresentazioni, di
senso comune o anche di carattere specialistico, dei fenomeni, ma non fa molto di più.
D’altronde di politica personale – o personalizzata – si parla già nelle analisi sulla
Democrazia Cristiana e sul Mezzogiorno degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (si pensi
alla formula del partito clientelare di massa di Caciagli: 1977). In questi lavori, messi a punto da
una prospettiva progressista e basilarmente marxista, il termine assume un significato dispregiativo,
come forma degradata della politica, o all’opposto come sopravvivenza di epoche storiche
premoderne, destinate, prima o poi, all’oblio1. Negli anni successivi, con il raffinarsi delle
interpretazioni analitiche e il procedere della ricerca empirica, la componente personale dei rapporti
politici e sociali conquista nuova centralità. Nuove impostazioni teoriche reinquadrano la questione
1 Il riferimento è in particolare ai primi studi sistematici sul clientelismo di Luigi Graziano (1974). Ma la connessione
tra personalismo e arretratezza è un luogo comune nelle ricerche di quegli anni, soprattutto da parte di autori di
formazione anglosassone, per esempio Tarrow (1967), Allum (1975), Chubb (1979).
meridionale e più in generale il ruolo delle relazioni personali e informali2. Queste ultime non
vengono più viste come elementi dell’arretratezza, o come il corollario del degrado morale delle
società locali, ma possono assumere anche un ruolo progressivo o comunque di bilanciamento e non
regressivo in una situazione di espansione dei rapporti di mercato e delle istituzioni per lo sviluppo
(Piselli 1985, Bagnasco 1988, Mutti 1991). D’altronde i vincoli di interesse basati su relazioni di
tipo particolaristico costituiscono una costante presente in gran parte dell’analisi sociale del mondo
moderno, anche in riferimento ad aree particolarmente dinamiche sul piano economico: ciò induce a
riflettere riguardo la validità di alcune teorizzazioni che assegnano all’universalismo, come
atteggiamento di individui e funzionamento di istituzioni, il ruolo di elemento caratterizzante della
modernità (Mutti 1998; Piattoni 2005).
Il quadro relativo all’analisi dei rapporti personali in politica, insomma, si presenta
complesso e popolato da categorie e concetti dai confini sfrangiati. Elementi utili per un
inquadramento più preciso possono venire dall’analisi empirica di casi circoscritti in sede locale. In
altri termini, appare produttivo su un piano teorico calare l’analisi nei contesti territoriali, tenendo
conto di alcune dimensioni significative dei circuiti personali oggetto di studio: a) lo spazio
(l’estensione territoriale); b) il tempo (la durata); c) la natura dei rapporti interni (le caratteristiche
organizzative). Queste coordinate dovrebbero aiutare la messa a fuoco di forme e dinamiche di
quelle aggregazioni politiche tendenzialmente – anche se non unicamente – basate su lealtà e
scambi ad personam e – sempre tendenzialmente – scevre da un metodo e una visione generale della
comunità desiderabile (cioè da una dottrina politica).
Questo contributo propone un’analisi dei cambiamenti che investono i sistemi di
formazione del consenso elettorale alla dimensione locale, presentando materiale empirico relativo
alla città di Napoli, e problematizzando le evidenze che vengono dai casi analizzati con la
letteratura recente sui modelli organizzativi di partito e sulle caratteristiche della classe politica.
Proverò anche a ragionare su una ipotesi di modello più generale che riguarda le forme storiche del
clientelismo (e come tale avente semplicemente valore indicativo di massima). In quest’ottica, nelle
pagine seguenti fornirò una lettura del passaggio dalle forme clientelari di partito alle nuove forme
pulviscolari, maggiormente territorializzate, più instabili dal punto di vista della collocazione
politica, con un giro di scambi di ridotto valore e una maggiore autonomia delle sedi decentrate.
2) La crisi della politica fordista e la riemersione dei territori
Nell’ottica di tracciare alcune coordinate del cambiamento che ha investito il sistema
politico italiano, possiamo partire da una descrizione schematica della fase, precedente a quella
attuale, basata sulle organizzazioni collettive e di massa.
La politica novecentesca aveva alcune caratteristiche tendenziali, valide in tutta la prima
fase repubblicana (approssimativamente dal dopoguerra agli anni Ottanta): a) si basava su un
numero limitato di partiti in campo (organizzati principalmente intorno a interessi di classe e
contrapposizioni di tipo economico); b) era esercitata da grandi partiti (sia per numero di elettori,
sia per estensione delle strutture burocratiche) più o meno articolati e differenziati al loro interno; c)
i partiti esercitavano il capillare ed esclusivo controllo dei processi di mobilitazione politica e di
aggregazione delle domande provenienti dalla società civile, ivi compresi i dispositivi minuti di
scambio personalizzato (i circuiti di voto clientelare); d) l’intermediazione politica tra Stato e
cittadini era esercitata prioritariamente da un personale politico che si reggeva su risorse pubbliche
(il finanziamento di Stato ai partiti); e) i partiti rappresentavano opzioni programmatiche di tipo
universalistico (e dunque godevano di un consenso distribuito su aree territoriali socialmente
omogenee) così assumendo un ruolo di integrazione sociale della popolazione nell’architettura
2 Particolarmente importanti in questo quadro sono le acquisizioni teoriche degli studiosi riuniti attorno alla rivista
Meridiana.
istituzionale e ideologica dello Stato-nazione. Naturalmente non erano tratti esaustivi, ma possiamo
ragionevolmente sostenere che il grosso del sistema politico era organizzato in questo modo.
Il cambiamento prodottosi a partire dagli anni Ottanta ha comportato la perdita progressiva
di questi tratti distintivi e l’apertura del mercato politico su più fronti. In particolare, le conseguenze
più evidenti hanno riguardato le forme organizzative dei partiti e la distribuzione territoriale del
consenso. Sinteticamente – e anche qui con una certa approssimazione – si può dire che le
organizzazioni di partito sono cambiate in direzione di un alleggerimento radicale degli apparati, di
una prevalenza delle rappresentanze istituzionali nei confronti dei centri di elaborazione e decisione
interni ai partito (il modello del party in public office) (Katz, Mair 1995), di una maggiore
autonomia degli organismi decentrati e dei livelli intermedi (Carty 2004), di un individualismo più
spinto con frequenti passaggi da un partito all’altro cui corrisponde – secondo un apparente
paradosso – il ricorso a leadership monocratiche (Musella 2014a).
Usando una formula semplificata si potrebbe sostenere che le liste elettorali sono più
sensibili alle dinamiche di aggregazione che si realizzano in sede locale. La distribuzione del
consenso dunque risulta più dipendente dai territori, sia in chiave identificativa (i vari casi di partiti
di identità territoriale), sia per quanto concerne i circuiti di scambio che non possono più contare
sulle risorse generosamente erogate del centro del sistema politico. D’altra parte è da lungo tempo
che, specialmente in Italia, la ricerca sociale e politica si è orientata verso la centralità delle variabili
territoriali e il superamento del modello fordista (si pensi alle pionieristiche ricerche di Bagnasco e
Trigilia sul particolarismo e il capitale sociale delle regioni a economia diffusa).
Queste ricerche segnano le prime crepe nella concezione “modernista” della politica, come
sfera indipendente dai territori e dalle identità sociali e culturali, agita da organizzazioni di carattere
collettivo la cui natura riguarda meramente i cleavages che si realizzano nel mondo della
produzione. Invero, l’idea di autonomia della politica ha una sua fondatezza storica e teorica, che
deriva dalla nascita dello Stato moderno e dalla “costruzione” di un territorio di riferimento come
spazio neutro di applicazione del diritto positivo che consente una regolazione universalistica delle
istanze sociali e identitarie dei gruppi che vi abitano. Lo “spazio” di questa regolazione è appunto la
dimensione dell’autonomia della politica.
Con la crisi della rappresentanza politica, elemento ricorrente nelle analisi e nel dibattito
pubblico che segnano il nostro paese almeno dal passaggio dell’inizio degli anni Novanta, l’idea di
autonomia della politica dai territori, e dalle istanze particolaristiche di questi, passa decisamente in
secondo piano. La politica tende in modo più visibile ad articolarsi su diverse dimensioni spaziali:
nazionale, regionale, locale, di vicinato, a seconda degli interessi in campo e del gioco molteplice di
identità, circuiti di distribuzione delle risorse, fattori mediatici etc. Semplificando, con una certa
brutalità, giustificata dai fini limitati di questo contributo, possiamo distinguere due livelli della
politica elettorale: uno di carattere macro, dove conta la leadership mediatica, e uno fortemente
territorializzato dove emerge un micronotabilato attestato essenzialmente sulla erogazione dei
servizi di base della Pubblica amministrazione. Nel primo caso abbiamo a che fare con leadership
monocratiche, che possono essere ben classificate utilizzando la categoria di Roth di “personalismo
universalistico”; nel secondo ci riferiamo a nuove forme clientelari, ben diverse dal tradizionale
clientelismo di partito, classificabili secondo la categoria del “personalismo particolaristico” (Roth
1990) . Si tratta di circuiti più instabili dal punto di vista della collocazione politica, con un giro di
scambi di ridotto valore, con una maggiore autonomia delle sedi decentrate. Ciò riflette
l'arretramento delle strutture di partito centralizzate, il tramonto delle burocrazie, la drastica
riduzione della spesa pubblica dal centro. Le nuove risorse di scambio consistono principalmente in
prestazioni della Pa esternalizzate al privato e al privato sociale. Si formano così reti di scambio a
livello di vicinato e di quartiere, spesso associate a rapporti di corruzione, finalizzate alla raccolta
del voto e che includono figure di diversa natura: esponenti politici comunali, ceto politico
infracomunale, titolari di agenzie e centri servizi collocati nei rioni popolari e residenziali, tecnici
dell'amministrazione, professionisti.
Si tratta di forme politiche cresciute all’ombra della crisi del clientelismo di partito. Infatti,
la crisi della rappresentanza politica in Italia negli ultimi 20 anni non ha riguardato solo la forma
partito, ma avuto ripercussioni anche sulle cordate clientelari che da questo muovevano. Il
passaggio dalla “partitocrazia” a forme di potere monocratiche, organizzate attorno a leadership
personali e trasversali rispetto ai tradizionali schieramenti politici, in un contesto di maggiore
frammentazione e instabilità, ha messo in discussione i tradizionali canali di distribuzione delle
risorse alimentati dalla spesa pubblica. La stabilità delle clientele di partito – requisito
indispensabile per le aspettative dei clienti e dunque per il loro stesso successo – ne è risultata
profondamente minata. In seguito a questi cambiamenti lo scenario pubblico del nostro paese,
soprattutto nel Mezzogiorno, ha visto proliferare nuove leadership a livello locale, spesso eredi
dirette della tradizione di partito, ma ora orfane dei vecchi “boss” e dei flussi di spesa che questi
ultimi avevano il potere di indirizzare dal centro del sistema politico. Le nuove figure della politica
locale e di base così si sono riorganizzate attorno a circuiti di scambio di ridotta dimensione e
valore, ma allo stesso tempo hanno acquistato maggiore autonomia rispetto alle formazioni
politiche nazionali.
Schematicamente le tendenze in atto nelle forme della politica locale possono essere così
rappresentate:
- la maggiore indeterminatezza delle cordate politiche favorisce le aggregazioni estemporanee
in sede locale, organizzate in maniera relativamente indipendente da piccoli “boss” locali;
- tali aggregazioni sono maggiormente instabili, meno soggette al controllo di una
organizzazione centralizzata con comuni riferimenti valoriali e programmatici: ciò rende più ampio
lo spazio per la contrattazione di mercato riguardo alleanze e circuiti di scambio;
- l’apertura del mercato politico produce una crescita della mobilità degli esponenti politici
locali da un partito all’altro ;
- la riduzione dei finanziamenti alla politica favorisce la ricerca di fonti di sostentamento
alternative per il proselitismo politico e nuovi strumenti di raccolta del consenso.
Una sponda per la riorganizzazione di circuiti particolaristici di organizzazione del consenso
elettorale viene fornita dal settore del privato sociale e da società private (i Centri servizi) che
erogano in convenzione servizi pubblici. Nelle prestazioni fornite da questi centri si ritrovano le
nuove risorse di legittimazione dei politici “rionali”. La loro capacità di organizzazione del
consenso elettorale deriva dalla costruzione di reti di scambio alla dimensione di vicinato o di
quartiere. Se guardiamo la distribuzione delle preferenza dei principali esponenti politici del
consiglio comunale di Napoli notiamo una forte concentrazione del voto. Raramente il bacino di
consenso si estende al di là del quartiere di provenienza, spesso le preferenze sono concentrate in
massima parte in una decina di seggi territorialmente contigui.
L’oggetto dello scambio riguarda principalmente prestazioni della pubblica
amministrazione, erogate attraverso l’intermediazione di agenzie e società di natura privata o
afferenti alle sigle sindacali e di categoria: Caf, patronati, agenzie di pratiche burocratiche, centri
servizi. A volte questi soggetti giuridici – controllati da consiglieri municipali e comunali –
propongono offerte di servizi molto vari, come nel caso dei cosiddetti “centri polifunzionali” che
forniscono, ad esempio, prestazioni mediche ambulatoriali di tipo privato (spesso gratuitamente o
comunque a condizioni molto vantaggiose), consulenza legale, orientamento professionale, aiuto
nella compilazione di modelli burocratici, facilitazioni per l’ottenimento di agevolazioni e altre
forme di assistenza. Spesso si supera la soglia della legalità con truffe per l’ottenimento di false
pensioni di invalidità. In generale si tratta di forme varie di mediazione con i soggetti istituzionali e
con gli uffici della PA (sia locali che centrali), che sono possibili grazie alla corruzione di pubblici
funzionari e alla costruzione di reti di scambio con altre figure professionali. Si tratta di centri che
hanno ormai assunto un ruolo centrale nella vita di quartiere, costituendo un riferimento
irrinunciabile nell’economia quotidiana di tante famiglie, non solo nei quartieri popolari. Recenti
indagini della magistratura compiute a Napoli (ma anche altri territori risultano interessati) hanno
messo in luce casi che vedono convolti politici locali, professionisti, funzionari pubblici, truffatori
di professione, soggetti afferenti a famiglie e gruppi criminali.
Il quadro appena abbozzato traccia, in sintesi, l’affermazione di una gestione
neopatrimonialistica delle residue risorse di welfare che è possibile attivare in sede locale (Coco,
Fantozzi 2012). Un nuovo ceto politico, dotato di maggiore autonomia rispetto ai livelli istituzionali
sovralocali, si è radicato sul territorio riorganizzando la politica dei partiti in nuove strutture di
organizzazione del consenso fortemente territorializzate. Cambiano i luoghi della politica di base:
nella dissoluzione delle strutture di base dei partiti si affermano nuove centrali di aggregazione del
consenso di natura privata (Scalisi 1996). Risulta quindi particolarmente utile analizzare i recenti
cambiamenti delle forme della politica locale e dei criteri di reclutamento del consenso, in una fase
di crisi dei grandi partiti e di instabilità elettorale. Le nuove forme della politica locale, indebolitosi
il grande sistema distributivo della spesa pubblica rappresentato dal clientelismo di partito
tradizionale, si attestano alla scala rionale e coinvolgono principalmente, soprattutto nelle grandi
città del Mezzogiorno ma non solo, l'organizzazione dei servizi erogati e organizzati dai comuni
(pensioni di invalidità, assegni familiari, liste per l'edilizia residenziale pubblica, pratiche
amministrative di vario genere).
3) La concentrazione territoriale del voto.
La crisi della politica lascia emergere gli interessi frammentati della società, e con essi rende chiaramente visibile il “territorio”. La politica dei partiti tradizionali – anche nella variante democristiana del clientelismo di partito – era ancora in grado di produrre una sintesi delle domande provenienti dai territori, pur se la regolazione avveniva principalmente tramite la distribuzione di risorse pubbliche (posti di lavoro, appalti, sussidi, prestazioni di welfare ecc.). In altri termini, la mediazione politica di carattere particolaristico si realizzava dentro gli ambiti della pubblica amministrazione (enti locali, sanità, parastato). Forti di un notevole potere di elargizione, i leader delle correnti di partito riuscivano a costruire estese cordate con i politici di base, i quali, a loro volta, potevano aspirare a una propria carriera politica amministrando risorse di sottogoverno. Un consigliere municipale con base elettorale in un rione di periferia, ad esempio, poteva salire di grado, diventare un consigliere comunale, accedendo a nuovi bacini elettorali gestiti dalla stessa corrente attraverso altri mediatori territoriali. Una volta ottenuta la “promozione”, era in grado di gestire nuove leve di potere, e dunque di conquistare ulteriori proseliti. Nel tempo era in grado di costruire un consenso elettorale distribuito in più zone della città, secondo l’articolazione territoriale della catena clientelare.
Con la crisi delle risorse pubbliche, queste catene gerarchiche si sono via via indebolite, lasciando spazio alla concorrenza di mercato della politica di base. La proliferazione delle liste e la mobilità transpartitica dei politici rionali testimoniano il collasso del clientelismo di partito. Sul mercato della politica locale è ormai difficile trovare lo scambio clientelare centrato sulla distribuzione di posti di lavoro, merce sempre più rara. In genere il reclutamento del voto avviene a fronte di prestazioni di minore valore: una pratica al comune, la compilazione di un modello fiscale, la semplice fornitura di informazioni che gli uffici della pubblica amministrazione lesinano sempre più. Il lavoro di raccolta del consenso elettorale (portare una famiglia a votare, convincere i propri condomini a indicare una preferenza) che una volta era ripagato con merce pregiata oggi vale assai meno. Sul mercato elettorale napoletano, nelle zone più povere della città, “un voto può essere comprato con appena 50 euro” (int. 3.05.2011 consigliere municipale).
Questo passaggio dal clientelismo di partito al mercato dei politici rionali può essere illustrato analizzando la geografia del consenso elettorale dei consiglieri comunali più votati. Un confronto tra la situazione del 2006 e quella del 2011 consente di apprezzare il rapido mutamento in direzione della concentrazione territoriale del voto (Brancaccio, Martone 2012).
Nelle figure seguenti (1-4) ho rappresentato graficamente la distribuzione territoriale del voto di preferenza dei 2 consiglieri più votati nelle tornate elettorali del Comune di Napoli del 2006 e del 2011, ordinando i seggi in modo decrescente secondo il risultato ottenuto in termini percentuali
3.
Il politico più votato alle elezioni comunali del 2006 è Montemarano (Margherita), figlio dell’assessore regionale alla Sanità, quest’ultimo vecchio esponente politico democristiano. Nonostante fosse un esordiente, Montemarano diventa il consigliere comunale con il più alto numero di preferenze (7457) della storia repubblicana. Come si può vedere il voto di preferenza tende a distribuirsi in modo omogeneo (dev st. 0.09) e non ci sono seggi in cui raccoglie più dell’1%. Nei primi 10 seggi in cui raccoglie più voti compaiono ben 8 quartieri differenti. Non è difficile spiegare la ragione di una tale distribuzione: Montemarano ottiene voti principalmente attraverso la sanità pubblica e le aziende convenzionate che sono collocate in tutti i quartieri cittadini. Leggermente differente è la situazione di Paolucci (Ds), di stretta fede bassoliniana e commissario vicario per l’emergenza rifiuti. Paolucci ottiene voti principalmente nell’area nord-occidentale della città (4593 voti), ma il suo consenso tende a distribuirsi anche in altre aree (dev. St. 0,24).
Fig. 1 – Comunali 2006, concentrazione del voto di Montemarano (Margherita)
Totale voti = 7457; Dev. St. = 0,09; Nei primi 10 seggi = 4,9% (8 quartieri)
3 Sull’asse delle ordinate sono riportate le preferenze in percentuale, sull’asse delle ascisse gli 886 seggi cittadini.
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Fig. 2 – Comunali 2006, concentrazione del voto di Paolucci (Ds)
Totale voti = 4593; Dev. St. = 0,24; Nei primi 10 seggi = 17,2% (1 quartiere)
Fig. 3 – Comunali 2011, concentrazione del voto di Nonno (Pdl)
Totale voti = 3604; Dev. St. = 0,38; Nei primi 10 seggi = 28,8% (1 quartiere)
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Fig. 4 – Comunali 2011, concentrazione del voto di Borriello (Pd)
Totale voti = 3181; Dev. St. = 0,51; nei primi 10 seggi = 38,1% (1 quartiere)
Entrambi questi casi riguardano un sistema di reclutamento del voto che si basa su due grandi campi di mediazione, relativamente indipendenti dal territorio: nel caso di Montemarano, la sanità pubblica; nel caso di Paolucci, il commissariato per l’emergenza rifiuti. Si tratta di due esponenti che non hanno mai ricoperto in passato la carica di consigliere municipale, la loro carriera si realizza nei livelli istituzionali superiori e la loro credibilità politica deriva dal rapporto diretto con politici che gestiscono ingenti risorse centralizzate. Un clientelismo di partito possibile solo in una situazione di stabilità politica, garantita dalla permanenza al governo del centrosinistra locale per oltre un quindicennio.
Completamente diversa è la situazione nel 2011. Nel crollo di un sistema di potere si affermano i politici rionali fortemente radicati nei territori. Il più votato risulta Nonno (Pdl) con 3604 voti fortemente concentrati nella zona di Pianura (periferia occidentale). Nonno è stato imputato e incarcerato per gli scontri di Pianura del 2008, in cui gruppi organizzati di oppositori alla riapertura della discarica dei Pisani diedero l’assalto ai camion che scaricavano immondizia. Già consigliere municipale costruisce il suo consenso in virtù di una forte identificazione col territorio. Nei primi dieci seggi raccoglie oltre un quarto delle proprie preferenze, che non vanno molto il suo quartiere di origine (dev. St. 0,38). Il caso più eclatante è tuttavia quello di Borriello (Pd) secondo in graduatoria per numero di voti (3181). Borriello, fedelissimo di Bassolino e già presidente della VI municipalità (periferia orientale), raccoglie voti principalmente in due rioni di case popolari in cui costruisce un vero e proprio monopolio territoriale. La curva di distribuzione delle sue preferenze è particolarmente ripida: nei primi 10 seggi raccoglie il 38,1% dei voti. Praticamente non prende voti fuori dalla municipalità di provenienza.
Può essere utile illustrare un caso emblematico, che ho già presentato altrove (Brancaccio 2012)
4.
Salvatore Alajo è un disoccupato quarantenne, proveniente da una famiglia operaia. È nato e
cresciuto al Pallonetto, il borgo di pescatori e poi contrabbandieri sorto sulla collina di Pizzofalcone
alle spalle degli ormeggi di Santa Lucia e del Castel dell'Ovo. Nei vicoli dell'antico rione popolare
ha intessuto le relazioni che costituiscono il suo patrimonio politico: la parentela, il vicinato, le
relazioni strumentali e di piccoli affari dell'economia informale, i rapporti con il mondo
4 Altri casi sono illustrati nel paper di Antonella Avolio in questa sessione. Ancora, sul ruolo dei Caf a Catania, Vesco
(2012).
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dell'illegalità e della malavita. Sua moglie è imparentata con i Mazzarella, la principale famiglia
camorristica del centro cittadino. Dipendente del comune, viene distaccata alla regione, dove - con
un certo senso dell'ironia - diventa componente dello staff della commissione anticamorra. Il suo
mentore in regione Campania è un esponente politico del partito di Berlusconi che Salvatore
sostiene durante le campagne elettorali. Nella famiglia di Salvatore ci sono diversi punti di
collegamento con i circuiti illegali e con soggetti vicine alle famiglie di camorra. Il cognato di
Salvatore (marito della sorella), vicino alla famiglia Mazzarella, è implicato in varie vicende
giudiziarie ed è attivo nel giro degli affari illegali del quartiere. La suocera di Alajo appartiene a una
delle famiglie storiche del contrabbando di Santa Lucia (i Presutto, imparentati coi Mazzarella e con
i Zaza) attiva fin dall’inizio del 900.
Salvatore ha il pallino della politica. Inizia a occuparsene come referente di zona di un
consigliere comunale vicino ad Alfredo Vito5. Il capo di Salvatore realizza una veloce carriera: dai
banchi del consiglio comunale, passa al consiglio regionale nel 2005, dove tuttora siede. Sarà egli
stesso a promuovere nello staff della regione la moglie di Salvatore, da molti considerata la vera
mente del successo politico del marito.
La prima esperienza istituzionale Salvatore la realizza candidandosi alla circoscrizione con
Forza Italia: nel 1997 ottiene 270 voti risultando il primo dei non eletti, per poi subentrare nel corso
della consigliatura. Si realizza così la classica cordata verticale che lega gli esponenti apicali dei
partiti agli esponenti minori che siedono nelle circoscrizioni cittadine. Questi ultimi non vengono
scelti a caso o per la comprovata competenza in materia amministrativa, piuttosto per essere
selezionati devono rappresentare nodi centrali di network sociali ampi e variegati, devono essere
fortemente radicati nei territori e devono essere in grado all'occorrenza di movimentare un certo
consenso elettorale. Sono le qualità specifiche di Salvatore che insieme alla moglie apre un Caf nei
vicoli del Pallonetto. A partire da questa decisione i consensi crescono vertiginosamente (anche a
vantaggio del suo riferimento politico cittadino). Nel 2001 si ricandida alla circoscrizione, dopo
esser passato sotto le insegne del Partito democratico cristiano, la neonata formazione di
centrodestra messa in piedi da Vito. Questa volta viene eletto direttamente, con 623 preferenze. Nel
2006 torna nelle liste di Forza Italia e realizza un exploit senza precedenti: raccoglie ben 1.912 voti
di preferenza risultando il più votato dei circa 6.000 candidati alle circoscrizioni cittadine. Il
successo elettorale si basa sulle attività del Caf gestito dalla sua famiglia. Nei primi 5 seggi per
numero di preferenze, raccoglie il 55% delle preferenze, pari a circa 1.000 voti. I seggi sono tutti
collocati in tre plessi scolastici nelle immediate vicinanze della sede del Caf: un piccolo monopolio
territoriale (Fig. 5). Nel 2009 viene arrestato per truffa aggravata ai danni dello Stato. Nei mesi
successivi i magistrati dispongono l'arresto del padre, della madre e della moglie di Salvatore, di un
funzionario della municipalità e di oltre cento beneficiari di pensioni di invalidità false. Molti degli
arrestati sono collegati da legami parentali. La truffa era organizzata in modo tale che al Caf
andavano le mensilità arretrate, mentre i falsi invalidi (finti ciechi o portatori di patologie psichiche)
percepivano la pensione mensile dal momento del buon esito della pratica. Nel dicembre del 2010
Salvatore è stato condannato con rito abbreviato a sei anni e otto mesi di reclusione.
Naturalmente si tratta di un caso limite che va ben oltre la sfera della legalità. E tuttavia è
eccezionale solo nella portata, non nella sua natura. Salvatore e il consigliere regionale suo referente
politico sfruttano il vuoto lasciato dalle strutture di partito. Modificano la logica e l'organizzazione
della politica di base, creano nuovi canali di reclutamento del consenso, operano negli spazi lasciati
dal tradizionale clientelismo di partito. Cambiano continuamente gruppo politico e lista elettorale
(ultimo in ordine di tempo, il consigliere regionale è passato nel gruppo “Fratelli d'Italia”),
legandosi alle cordate più influenti. Salvatore costruisce reti di scambio al livello minuto dei
territori, recluta medici e funzionari che si prestano a falsificare le pratiche.
A partire da questo caso eclatante, nei mesi e anni successivi al 2010 le indagini si allargano a
molti altri quartieri cittadini. Complessivamente ad oggi si contano circa 400 arresti e circa 1.500
5 Alfredo Vito è uno dei più importanti leader della Dc degli anni 80, noto per il soprannome di “mister centomila
preferenze”. Dopo il coinvolgimento in tangentopoli collabora con il centrodestra di Berlusconi.
false pensioni di invalidità. Al centro delle indagini ritroviamo sempre il circuito costituito da centri
servizi di quartiere (Caf o altre sigle), esponenti politici, funzionari amministrativi e in molti casi
anche esponenti della criminalità organizzata. Circuiti di corruzione e gruppi di camorra si
incontrano negli spazi di intermediazione tra funzioni della pubblica amministrazione e cittadini,
laddove si creano i presupposti per la costituzione di poteri neopatrimoniali (Brancaccio 2015).
Fig. 5 – I luoghi del consenso elettorale di Alajo
4) Elementi di discussione
Le forme attuali della politica “pulviscolare” sono il risultato dei cambiamenti
socioeconomici vissuti dai paesi avanzati dell’occidente. Il passaggio dal partito di massa (Duverger
1961) al partito pigliatutto (Kircheimer 1966) e ancora al cartel party (Katz, Mair 1995) e al party in
franchising (Carty 2005) può essere letto come un percorso di successiva individualizzazione del
rapporto tra cittadini e partiti e di articolazione e differenziazione interna alle organizzazioni di
partito. Il partito gramsciano, moderno principe, che accelera i processi di dialettica storica
incarnando lo slancio delle forze vitali della società è esistito, semmai, per un lasso di tempo
limitato alla espansione della società fordista. I confini politici delle categorie socio-economiche
sono andati sfaldandosi con il declino delle società industriali. Via via si è passati prima
all’interclassismo (catch all) e poi all’autoreferenzialità del partito state-centered o cartel party. Sul
declino delle culture politiche novecentesche si è poi inserito l’elemento localistico e dunque la
crescita di autonomia dei livelli decentrati e dei circuiti di distribuzione delle risorse in sede locale.
Dal punto di vista organizzativo si è passati dal party on the ground al party in central office.
Questo ha rappresentato un ritiro organizzativo dei partiti dalla società civile e dai quartieri di tante
grandi città. Con il cartel party c’è stato un processo di verticalizzazione del partito, ottenuto a spese
dei livelli di prossimità dell’organizzazione (il party on the ground). Nella fase successiva questo
modello entra in crisi. La scarsa efficienza dei dispositivi di collegamento con la società – la crisi
della rappresentanza – e il declino del finanziamento pubblico minano la tenuta di questo assetto
verticale dei partiti (Ignazi 2004, 2005). Ne consegue una frammentazione della struttura
organizzativa e una maggiore autonomia dei livelli decentrati cui corrisponde la crescita della
Vico Solitara al Pallonetto. Sede del Caf di Alajo
I plessi scolastici sedi di seggio
mobilità di partito (Ignazi, Pizzimenti 2014). Con il partito in franchising si nota un processo di
stratarchizzazione (Carty 2005) e di declino delle catene verticali di aggregazione delle correnti e
dei gruppi interni (in Italia soprattutto – come sostengono Ignazi e Pizzimenti – tra i partiti di
centrosinistra, cioè laddove permane un accenno di struttura che controbilancia, il potere del
leader). L’esito di questi processi può essere reso con il modello di partito a rete (Heidar, Saglie
2003), già tematizzato in relazione allo sviluppo storico dei modelli di partito in Italia e in
riferimento a specifiche situazioni locali (Musella 2014b; Delle Cave 2014).
Negli ultimi 20 anni si sono dunque moltiplicate le definizioni dei modelli di partito.
Rispetto alla linearità della società fordista si riscontra un lento adattamento a forme plurime, a
volte pulviscolari, delle formazioni partitiche. Tuttavia, le analisi politologiche non sembrano
considerare adeguatamente la riduzione della sfera della politica: insistendo sull’aspetto
organizzativo interno lasciano in ombra configurazioni di potere e reti di scambio che si estendono
ben al di là. Il punto è: cosa succede fuori dai grandi partiti presi in considerazione? Buona parte del
consenso elettorale viene raccolto a partire da forme neopatrimoniali relativamente autonome dai
partiti che nelle fasi elettorali entrano opportunamente nell’agone politico vero e proprio. Nelle
elezioni – locali e nazionali – i partiti si appoggiano a liste minori o comunque a personale esterno
che gode di relativa autonomia rispetto alle formazioni politiche e che è in grado di contrattare con i
vertici politici da una posizione di forza dovuta al radicamento nei territori e alla conseguente
capacità di mobilitazione del consenso elettorale. Giusto, in questo caso, parlare di forme di
micronotabilato locale (Calise 2013), proprio perché, nel senso weberiano, muovono dalla società
alla politica e non viceversa. Ma questi micronotabili sono – appunto – esterni e indipendenti dalle
singole formazioni politiche, che spesso se li contendono a suon di promesse. Essi mostrano una
scarsa lealtà nei confronti dei partiti ai quali – temporaneamente – aderiscono. Un indizio utile si
ritrova nell’alta mobilità di questi freelance del consenso elettorale, spesso imprenditori del
consenso nello spazio circoscritto di singoli rioni delle principali città.
Facendo riferimento alla letteratura sul clientelismo politico, queste reti di scambio alla
dimensione locale presentano alcune caratteristiche che possono essere inquadrate in un modello di
sviluppo storico del clientelismo. Come accennato, si tratta di circuiti di scambio ben diversi dalle
forme di redistribuzione clientelare dei partiti di massa di epoca fordista. In quel caso l’istituzione
centrale era il partito con amministrazione centralizzata, che assume la forma della political
machine negli Stati Uniti tra Otto e Novecento (Shefter 1994) e quella del partito di massa in
Europa (Duverger 1961). Quest’ultimo in Italia, nel secondo dopoguerra, con la Dc trova
declinazione nel partito clientelare di massa (Caciagli 1977). Nel caso statunitense, la preminenza di
alcune figure di leadership sull’apparato amministrativo e una scarsa connotazione ideologica
conducono a una gestione incentrata sulla figura del boss (Weber 1922, pp. 520-21); nel caso
italiano, invece, parliamo di clientelismo della burocrazia (Tarrow 1967, p. 313) o del partito
politico (Graziano 1974, p. 39). In ogni caso, si tratta di sistemi di controllo del voto in cui, assieme
all’apparato burocratico del partito, si sviluppano reti di scambio derivanti da una gestione
neopatrimoniale della cosa pubblica (Roth 1987). Si realizzano così vincoli e in parte anche fedeltà
personali ma in un quadro di sviluppo fordista, in cui centrali sono le categorie collettive (grandi
fabbriche, grandi sindacati, grandi partiti). Lo scambio clientelare di conseguenza tende a perdere la
connotazione diadica interindividuale per coinvolgere interi gruppi e categorie, secondo la formula
del clientelismo categoriale (Pizzorno 1974, pp. 334-36; Caciagli 1977, pp. 306-07).
Nella situazione attuale invece gli scambi clientelari non danno vita a un sistema stabile di
redistribuzione centrato sui partiti politici. Il clientelismo cessa di essere un sistema di
compensazione entro una rete complessa di debiti e crediti sociali, per diventare un fenomeno di
scambi diadici, interindividuali e secolarizzati. Data anche l’assenza di riferimenti collettivi che
possano costituire un elemento di stabilizzazione dei rapporti, gli scambi tendono a essere realizzati
sincronicamente e a coinvolgere due soggetti secondo transazioni specifiche. Questo impianto,
portato alle estreme conseguenze, configura la fattispecie giuridica della corruzione, che
rappresenta l’altra faccia del clientelismo, il suo lato oscuro.
È possibile individuare anche alcuni riferimenti più specifici alla situazione italiana e in
particolare del suo Mezzogiorno. La crisi economica globale incide pesantemente sulle possibilità
di spesa e di intervento degli Stati. In Italia, e segnatamente nel Mezzogiorno, ciò conduce a una
crisi del clientelismo come modo di distribuzione delle risorse e di integrazione in posizione
subalterna di ampie fasce di elettori attraverso configurazioni relazionali stabili. Incapace di
programmare – e promettere – interventi differiti nel tempo, la politica tende ad assestarsi su
rapporti di scambio sincronici, che si risolvono una volta realizzata la transazione. Si fanno largo
così nuove forme di aggregazione del consenso, altamente instabili, che su scala locale danno vita a
circuiti di scambio di ridotta dimensione e fortemente concentrati territorialmente.
Lo spazio che si determina a causa della ritirata delle organizzazioni di partito è stato
riempito da una serie di attori e di reti sociali che si aggregano sulla base di dinamiche di scambio,
ma anche identitarie: nuovi movimenti, comitati civici, associazionismo civico e culturale,
constituency di piccoli leader locali di stampo “bonapartista”, circoli sociali di carattere popolare,
cerchie di socialità borghesi, associazionismo sportivo o escursionistico, organizzazioni di interessi;
ma anche sindacati, patronati e agenzie di servizi territoriali.
Con la manifestazione definitiva della crisi della politica negli anni Novanta i partiti hanno
drasticamente ridotto il proprio radicamento sociale e di conseguenza nuovi attori e forme
organizzative hanno preso a svolgere compiti di rappresentanza e di offerta politica. Si realizza così
un deficit di rappresentatività che viene riempito, nelle realtà con maggiore disagio sociale,
dall’immissione nel mercato politico di servizi tecnici. Ma che hanno anche la capacità di rafforzare
le identità di carattere locale (Guterbock 1980). Una caratteristica che in genere possiedono i
comitati civici e altre forme di mobilitazione politica (Toth 2003). I circuiti di scambio basati sui
caf sono anche centri di aggregazione di identità localistica, non passano infatti solo beni materiali,
ma anche “cura” intesa in senso generale, e si costruiscono rapporti di fiducia e identificazioni con
il contesto di rione e di quartiere (Marwell 2004).
La crisi della rappresentanza politica in Italia produce effetti su molti piani. Uno di questi
riguarda l’indeterminatezza e l’instabilità delle sue forme. Si tratta di un fenomeno che investe
l’intero paese (e oltre), ma che nel Mezzogiorno e soprattutto nelle sue grandi concentrazioni
urbane, dove più debole è il tessuto produttivo e sociale, assume maggiore evidenza. Per lungo
tempo il clientelismo di partito ha svolto nelle regioni meridionali un’azione di integrazione sociale
e aggregazione delle domande politiche provenienti dai territori all’interno di formazioni politiche
di carattere nazionale. Seppur secondo forme di mediazione impropria, ciò ha consentito la
costruzione di un orizzonte di regolazione unificante. La drastica riduzione di risorse pubbliche e il
crollo di credibilità della classe politica hanno prodotto negli ultimi anni l’indebolimento, e in molti
casi il collasso, delle catene clientelari di partito, e l’emersione di nuovi centri di aggregazione del
consenso (ad esempio, i Centri di assistenza fiscale e altri tipi di sportelli-servizi) con base nei rioni
e nei quartieri delle maggiori città. Nuove figure di capi-elettori locali, relativamente indipendenti
rispetto alle formazioni politiche nazionali, tendono a imporsi, in rappresentanza di circuiti di
scambio e reti di fiducia e reciprocità di corto raggio. Ciò riflette l'arretramento delle strutture di
partito centralizzate, il tramonto delle burocrazie, la drastica riduzione della spesa pubblica dal
centro. Le nuove risorse di scambio consistono principalmente in prestazioni della PA esternalizzate
al privato e al privato sociale. Si formano così reti clientelari a livello di vicinato e di quartiere che
includono figure di diversa natura: politici comunali e infracomunali, tecnici dell'amministrazione e
delle società partecipate, professionisti e operatori del privato sociale, a volte esponenti della
criminalità organizzata.
Per studiare queste realtà occorre incrociare i tradizionali strumenti di analisi politologica
con altre tradizioni di ricerca, in grado di mettere a fuoco fenomeni esterni al campo definito dalle
organizzazioni di partito e dalla competizione politica in senso stretto. Da questo punto di vista gli
studi sulla corruzione, sulla criminalità organizzata, ma anche la tradizione degli studi urbani e di
comunità possono arricchire la conoscenza e consentire la formulazione di categorie e modelli più
adatti alle nuove forme della politica.
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