Meridiana | Marzo - Aprile 2010

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Il dibattito sul futuro del PdL sarebbe affascinante, se fosse un dibattito e non la riproposizione in chiave interna della dinamica schmittiana “amico-nemico”. Sarebbe appassionante capire chi siamo, come vogliamo organizzarci, quale spazio debba esserci nel centro destra per l’elaborazione culturale, per la scelta dei programmi, per la selezione della classe dirigente. Sarebbe bello non usare il condizionale e parlare a viso aperto di una formazione politica capace di rappresentare le istanze del nord come quelle del sud, in un esercizio democratico di composizione degli interessi diffusi che solo un grande partito popolare può essere in grado di fare. Invece no. L’unica elaborazione culturale (?) che popola i mezzi di informazione nostrana è un’autoreferenziale ricerca del posizionamento interno, della polemica “ad usum delphini”, della controdichiarazione senza un vero obiettivo. Gli anti-berlusconiani, categoria patologica della politica italiana, non hanno resistito alla tentazione di trasformare anche il PdL in un Senato romano, pieno zeppo di congiurati o presunti tali, tutti armati di coltelli che non riescono a piantare nella schiena di Cesare. Che peccato. Che peccato ridurre questa fase storica decisiva per le sorti dell’Italia e dell’Europa all’ennesima “pastrocchio” nel quale è difficile riuscire a cogliere elementi di novità e modernità. Vorremmo essere parte di un dibattito sulla forma-partito e invece restiamo spettatori del turpiloquio televisivo in stile “fratelli-coltelli”, così come ci piacerebbe partecipare a una fase costituente del PdL nella quale la selezione della classe dirigente fosse regolata contestualmente a una chiara investitura popolare della leadership; vorremmo buttare a mare la perversa logica del “70-30” fra ex Forza Italia e ex Alleanza Nazionale, convinti come siamo che il Popolo delle Libertà sia un soggetto nuovo nel quale l’identità si scommette e si costruisce giorno per giorno, senza rendite né vitalizi. Purtroppo non accade nulla di tutto questo e si perde tempo prezioso per spaccare il capello in quattro, anticipando processi di sostituzione del Capo che avrebbero invece tempi fisiologici e che dovrebbero essere metabolizzati dai propri elettori e non certo imposti dalle consorterie politico-intellettuali che se ne fanno artefici. Allora proviamo a far saltare il banco e usciamo da questo schema autodistruttivo: chiediamo alla nostra gente di raccontarci il “loro” PdL, le esigenze profonde che provengono dal territorio, la “loro” selezione della classe dirigente, la “loro” percezione delle sfide che l’Italia dovrà affrontare. Abbiamo creduto, e crediamo fortemente, che tre anni senza elezioni fossero uno spartiacque irrinunciabile per segnare la differenza fra quello che vorremmo rappresentare per gli Italiani e quello che riusciremo a lasciare loro: non è sensato gettare alle ortiche questa opportunità, anche perché liti e guerre di posizione rappresentano un crimine di fronte a una congiuntura internazionale che imporrebbe coesione e unità d’intenti. In questi mesi la nostra Associazione è impegnata a promuovere le proprie iniziative sul territorio, a raccogliere la voce profonda di questo popolo del centro destra che ha ancora fiducia in noi, malgrado noi. L’entusiasmo è sempre lo stesso, palpabile, genuino, tipico di chi ha sempre risposto presente ogni qual volta si sono chieste loro prove di forza o prove d’amore. A questo entusiasmo dobbiamo dare la speranza di un futuro fatto di concretezza e serietà. Noi ci siamo. Anno 0, N. 1 - diffusione gratuita - di Basilio Catanoso IN MEMORIA DEL 70/30 IN MEMORIA DEL 70/30 Il Popolo delle Libertà pensiamo debba essere un soggetto nuovo nel quale l’identità si scommetta e si costruisca giorno per giorno, senza rendite né vitalizi LA QUESTIONE MORALE Falcone e Borsellino, il nostro esempio nel fare politica. di Salvo Pogliese a pag. 8 EROI E FIABE Il premier Berlusconi, protagonista della recente storia italiana di Ulderico De Laurentiis a pag. 4 Anno 0, N. 1 - diffusione gratuita - M Meridiana Magazine WWW.MERIDIANAMAGAZINE.ORG Ogni giorno riflessioni, sondaggi e discussioni online su…

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Il dibattito sul futuro del PdL sarebbe affascinante, se fosse un dibattito e non la riproposizione in chiave interna della dinamica schmittiana “amico-nemico”. Sarebbe appassionante capire chi siamo, come vogliamo organizzarci, quale spazio debba esserci nel centro destra per l’elaborazione culturale, per la scelta dei programmi, per la selezione della classe dirigente. Sarebbe bello non usare il condizionale e parlare a viso aperto di una formazione politica capace di rappresentare le istanze del nord come quelle del sud, in un esercizio democratico di composizione degli interessi diffusi che solo un grande partito popolare può essere in grado di fare. Invece no. L’unica elaborazione culturale (?) che popola i mezzi di informazione nostrana è un’autoreferenziale ricerca del posizionamento interno, della polemica “ad usum delphini”, della controdichiarazione senza un vero obiettivo. Gli anti-berlusconiani, categoria patologica della politica italiana, non hanno resistito alla tentazione di trasformare anche il PdL in un Senato romano, pieno zeppo di congiurati o presunti tali, tutti armati di coltelli che non riescono a piantare nella schiena di Cesare. Che peccato. Che peccato ridurre questa fase storica decisiva per le sorti dell’Italia e dell’Europa all’ennesima “pastrocchio” nel quale è diffi cile riuscire a cogliere elementi di novità e modernità. Vorremmo essere parte di un dibattito sulla forma-partito e invece restiamo spettatori

del turpiloquio televisivo in stile “fratelli-coltelli”, così come ci piacerebbe partecipare a una fase costituente del PdL nella quale la selezione della classe dirigente fosse regolata contestualmente a una chiara investitura popolare della leadership; vorremmo buttare a mare la perversa logica del “70-30” fra ex Forza Italia e ex Alleanza Nazionale, convinti come siamo che il Popolo delle Libertà sia un soggetto nuovo nel quale l’identità si scommette e si costruisce giorno per giorno, senza rendite né vitalizi. Purtroppo non accade nulla di tutto questo e si perde tempo prezioso per spaccare il capello in quattro, anticipando processi di sostituzione del Capo che avrebbero invece tempi fi siologici e che dovrebbero essere metabolizzati dai propri elettori

e non certo imposti dalle consorterie politico-intellettuali che se ne fanno artefi ci.Allora proviamo a far saltare il banco e usciamo da questo schema autodistruttivo: chiediamo alla nostra gente di raccontarci il “loro” PdL, le esigenze profonde che provengono dal territorio, la “loro” selezione della classe dirigente, la “loro” percezione delle sfi de che l’Italia dovrà affrontare. Abbiamo creduto, e crediamo fortemente, che tre anni senza elezioni fossero uno spartiacque irrinunciabile per segnare la differenza fra quello che vorremmo rappresentare per gli Italiani e quello che riusciremo a lasciare loro: non è sensato gettare alle ortiche questa opportunità, anche perché liti e guerre di posizione rappresentano un crimine di fronte a una congiuntura internazionale che imporrebbe coesione e unità d’intenti. In questi mesi la nostra Associazione è impegnata a promuovere le proprie iniziative sul territorio, a raccogliere la voce profonda di questo popolo del centro destra che ha ancora fi ducia in noi, malgrado noi. L’entusiasmo è sempre lo stesso, palpabile, genuino, tipico di chi ha sempre risposto presente ogni qual volta si sono chieste loro prove di forza o prove d’amore. A questo entusiasmo dobbiamo dare la speranza di un futuro fatto di concretezza e serietà. Noi ci siamo.

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di Basilio Catanoso

IN MEMORIA DEL 70/30IN MEMORIA DEL 70/30Il Popolo delle Libertà pensiamo debba essere un soggetto nuovo nel quale l’identità si scommetta e si costruisca giorno per giorno, senza rendite né vitalizi

LA QUESTIONEMORALEFalcone e Borsellino, il nostro esempio nelfare politica.di Salvo Pogliesea pag. 8

EROI E FIABEIl premier Berlusconi, protagonista della recente storia italianadi Ulderico De Laurentiisa pag. 4

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A proposito della struttura da dare al partito del Popolo della Liber-tà, alcune teste lucide (per mancanza di capelli, sospetto) avanzano la proposta di un partito leggero. Un organismo del genere si sfalderebbe subito, quando fra cent’anni venisse a mancare la guida carismatica di Berlusconi. La Regione Sicilia ne è lampante dimostrazione, dato che le lotte fra le baronie politiche lì non arretrano neppure davanti alla col-lusione con la sinistra, infi schiandosene delle idee in nome delle quali s’è chiesto il consenso.A pensarci bene, il partito leggero ha già mostrato i suoi limiti nel pas-sato. Se, infatti, ci spostiamo nell’Italia del 1860, vediamo che qualco-sa di simile fu il movimento garibaldino. C’era il capo carismatico, ma mancava la struttura. Mancava pure una specifi ca elaborazione teorica. Non a caso, dopo aver fatto l’Italia, non si seppe spiegare come fare gli italiani. Non tutti i militanti, per lo meno, vedevano la Patria allo stesso modo. Non tutti avevano le stesse idee sui problemi sociali. Forse, trop-pi non avevano neppure un’idea di cosa fosse la Patria. Uno dei risultati fu che i contadini della città siciliana di Bronte confuse-ro il concetto di unità con quello di guerra ai ricchi. Ovviamente, il loro sogno si sfasciò sotto il caldo agostano, quando irruppe una rivoluzione che si mosse come un elefante impazzito, completamente sorda ai ri-chiami del suo stesso domatore, l’avvocato Nicolò Lombardo. “Costui”

testimoniò Bene-detto Radice, coe-vo scrittore bronte-se, “era a capo di quel partito defi ni-to comunista, che nell’impazienza de-gli oppressi aveva sperato di cogliere la palla al balzo, per recare nelle sue mani il potere.”Così, quel giorno le stragi diventaro-no come le ciliegie:

l’una chiamava l’altra. I possidenti (i cappelli, come li chiamavano) furo-no tutti cercati, senza sconti, senza pietà, senza che nessuno venisse risparmiato. Ecco perché, quando arrivarono le camicie rosse, su ordi-ne del generale Nino Bixio, l’avvocato Lombardo e quelli che erano stati più in vista vennero arrestati, processati e condannati alla fucilazione. E, a proposito delle tasse che s’era promesso di abolire, i costi del Ri-sorgimento vennero pagati con la tassa sul macinato, cioè sul pane e sulla pasta. Di dare la terra ai contadini, non se ne discusse proprio.Il partito leggero, dunque, ha questo difetto: chiunque può fi ccarci qualsiasi cosa. Soprattutto se manca un capo carismatico, a garantire l’unità di intenti. Per noi sarà il caso, perciò, di prendere atto del fatto che Silvio Berlusconi sarà pure immortale, ma (ahimè!) non è eterno. E, quel ch’è peggio, non è in ogni luogo.Ciò non vuol dire, ovviamente, che abbiano ragione quelli che vorreb-bero il ritorno ai vecchi comitati centrali. Le ideologie novecentesche hanno già fatto troppi danni. Capisco che la perfezione non è di questo mondo; ma neppure l’imbecillità, spero. La nostra è una società complessa, nella quale i fl ussi migratori hanno messo civiltà divise da secolare diffi denza reciproca a cozzare fra loro nel contenitore globale ed i collegamenti di internet hanno stravolto gli antichi concetti di centro e di periferia. Ciò impone l’esigenza di un riproposizione dell’identità nazionale sulla base dei valori etici e non più

su quella della forza militare. La libertà e la tutela dell’individuo (materiale e spirituale), vere sol-tanto se pensate come armoni-ca relazione di singoli, di classi e di peculiarità storico-geogra-fi che, sono questi i grandi valo-ri di un moderno centrodestra. L’organizzazione del partito, perciò, se si vuol essere coe-renti con la sua ispirazione, deve essere al contempo centralistica e articolata in moltissimi spazi di ampia autonomia territoriale (avallata, però, dall’assemblea degli iscritti). In altre parole, sogno un soggetto politico autorevole sui suoi rappresentanti nelle istituzioni, dove i di-rigenti centrali (per scegliere i quali è ammessa qualche cooptazione) elaborano la linea delle battaglie legislative e quelli territoriali (nati dalle competizioni elettorali) sappiano tradurle in prassi amministrativa. Per valorizzare l’esperienza, perciò, lascerei alla dirigenza territoriale la scel-ta di gran parte delle candidature (partendo dai migliori amministratori). Il primato, comunque, deve restare del partito ed il capo del governo, ove si vincano le elezioni, non può che essere il capo del partito.Questo, più o meno, è il discorso che andrebbe fatto quando si parla di scegliere fra Stato centralistico e Stato federale. Io sono per l’unità della Nazione e l’autonomia gestionale, in ciò d’accordo con Vincenzo Natale, carbonaro e grande segretario del parlamento delle Due Sicilie del 1848, sulla vita del quale ho appena fi nito di scrivere un romanzo che uscirà prima dell’estate. Il suo impegno, infatti, pur nel rigore di un concetto unitario del Regno, mirò a dare maggiore autonomia ammi-nistrativa alla Sicilia, creando nuovi organi istituzionali. Ma, in un im-portante intervento chiarì pure quanto per lui fosse prioritaria la lotta al baronaggio, del quale il separatismo palermitano era il frutto avvelena-to. Fu la parte non caduca della sua opera politica, quanto mai attuale ancor oggi, a distanza di quasi duecento anni.Su questa premessa, Vincenzo Natale sviluppò un coerente ed alter-nativo programma di interventi economici, basato sull’abolizione del-le dogane interne. Così, si liberavano i commerci, i traffi ci marini e le esportazioni. Se lo avessero ascoltato, sarebbe nata, forse, una creatu-ra che aspetta ancora di nascere: la borghesia siciliana, cosa molto più necessaria dell’indipendenza.Così, sempre in parlamento, egli demolì i furori indipendentistici coi vantaggi che venivano dalle libere relazioni commerciali. Un altro cruciale campo di intervento riguardava il perenne confl itto tra contadini e baroni (che dell’indipendenza siciliana erano i più fi eri sostenitori). Il punto dolente era rappresentato dagli effetti che si ave-vano dalla quotizzazione e dall’assegnazione delle terre ecclesiastiche e demaniali ai privati, dal momento che con quella privatizzazione c’era stata pure la perdita degli usi civici, i quali, per quanto ridotti da nume-rose usurpazioni di nobili e massari valevano ad attenuare la miseria dei contadini. Le proposte di Natale, pur avendo ben presente il bisogno di superare lo sfruttamento promisquo delle terre (tipico degli usi civici), disordinato e poco redditizio, miravano a realizzare quote suffi ciente-mente grandi, che avessero le caratteristiche della moderna azienda agricola privata, con tutti gli annessi diritti: poter trasmettere in eredità, poter affi ttare e, magari dopo un certo numero di anni, poter vendere.Come si vede, il Popolo della Libertà, per defi nizione partito del fare, potrebbe acquisire tra i suoi padri nobili anche questo politico siciliano, capace nel 1848 di esprimere una concretezza più che apprezzabile, anche in questo nostro 2010.

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di Salvatore Paolo Garufi

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La dialettica interna ai partiti, che soprattutto negli ultimi anni sta assumendo spesso connotati patologici, è la risultante di una serie di spinte.Nel nostro paese, fondato su una cultura centenaria di pluripartismo, abbiamo innanzi tutto assistito alla nascita, a tappe forzate e con una scarsa metabolizzazione, di grandi aggregazioni politiche che vedono convivere al proprio interno idee, storie, appartenenze molto diverse, talvolta sideralmente lontane, tra loro: la strada dell’“all together”, lungi dall’eliminarle, si limita semplicemente a spostare all’interno dell’unico grande contenitore partito tutte quelle confl ittualità che prima erano vissute in una dimensione interpartitica.L’altro elemento che ha rappresentato un moltiplicatore di confl itti è dato dal susseguirsi

di leggi elettorali che sempre più hanno concentrato nelle mani dei vertici dei partiti le scelte degli eletti, con una scarsa, talvolta inesistente, possibilità per le realtà politiche territoriali di poter incidere negli assetti e con una ancor minore possibilità di scelta da parte degli elettori, non potendosi ritenere bastevole il fragile sistema all’ italiana delle primarie.Queste due variabili, le principali direi, hanno creato un corto circuito all’interno dei partiti, facendone il luogo sempre più del confl itto e con sempre maggiore diffi coltà, quello della sintesi e della compensazione.Il tema della democrazia interna alle strutture partito sarà il grande tema dei prossimi anni, sarà l’argomento più ingombrante nel dibattito politico e quello a cui i cittadini elettori sempre più presteranno attenzione.

Le formazioni politiche che hanno l’aspirazione di progettare e costruire il futuro saranno tanto più forti quanto prima si attrezzeranno a dare risposta a queste esigenze: non basta essere massimamente inclusivi nella possibilità di adesione se poi non si da voce e una reale e concreta possibilità di incidere a tutte le buone energie che si attraggono.Il coinvolgimento dal basso, la condivisione e soprattutto la responsabilizzazione nelle scelte, rappresentano un formidabile collante, capace di unire le persone nel fare, capace di formare una classe dirigente chiamata a scegliere, a decidere e a rispondere dei risultati.Si commetterebbe un madornale errore nel pensare che il buon vento delle vittorie elettorali possa bastare per sempre a condurci in porto.

La dialettica interna ai partiti, che soprattutto negli ultimi anni sta assumendo spesso connotati patologici, è la risultante di una serie di spinte

di leggi elettorali che sempre più hanno concentrato nelle mani dei vertici dei partiti le scelte degli eletti, con una scarsa, talvolta inesistente possibilità per le realtà politiche

Le formazioni politiche che hanno l’aspirazionedi progettare e costruire il futuro sarannotanto più forti quanto prima si attrezzerannoa dare risposta a queste esigenze: non

Coltivare le buone energie Coltivare le buone energie per costruire il futuroper costruire il futuro di Silvia Silvestri

di CyranoForse non tutti sanno che… l’attuale siste-ma elettorale l’ha inventato la Sinistra. In Toscana avevano già capito tutto e “blocca-to le liste” ben prima del “porcellum”, senza levate di scudi delle anime belle democrati-che, senza accuse di assalto alla diligenza, senza critiche alla nomenclatura: nell’Ap-pennino felix la nomenclatura comandava da anni, gestiva tutto, persino il dopolavoro ferroviario, quindi perché stupirsi se voleva evitare il fastidio del voto di preferenza? Poi venne Calderoli e la musica cambiò. Que-sto sistema elettorale non piace a nessuno, ma in fondo nessuno spinge davvero per cambiarlo, perché tutti sanno quanto sia dif-fi cile comporre liste che non scontentino la nomenclatura di cui sopra.

A noi questo sistema elettorale non piace perché cancella anche il benché minimo accenno di meritocrazia, rafforza le oligarchie e, a volte, mortifi ca il territorio. Questo non signifi ca che ci piacciano da morire le preferenze, perché in alcune zone d’Italia sono state e rimangono un odioso strumento di pressione e controllo del voto, capillare, minuzioso e gestito da consorterie politico-criminali. Allora? Allora forse sarebbe meglio tornare ai cari vecchi collegi, grazie ai quali il bipolarismo era una sfi da a due nella quale ci si sforzava di trovare candidati che avessero un qualche legame con la base, a parte qualche eccezione “paracadutata” dall’alto. Il sistema perfetto non esiste, i partiti cercheranno sempre spazi per

imporre uomini e candidature, ma l’obiettivo principale dovrà essere quello di limitare la discrezionalità delle scelte e affi darsi, dove possibile, a meccanismi di selezione su base territoriale. Tu chiamale, se vuoi, primarie: laddove questo fosse possibile e regolato da meccanismi chiari e intellegibili sarebbe un ottimo esercizio di democrazia interna. Primarie e collegi. Serve davvero poco per restituire ai cittadini un pizzico di amore in più per una politica bistrattata e per l’insostituibile ruolo della Politica, continuamente sabotata dai profeti dell’antipolitica. La nostra rivoluzione “interna” parte da regole condivise. Per farlo è davvero necessario distruggere il PdL?

di CyranoF t tti h l’ tt l i t

A noi questo sistema elettorale non piace perché cancella anche il benché minimo

imporre uomini ee candidature, ma l’obiettivoprincipale dovrà essere quello di limitare la

Una proposta “bonsai”: torniamo al Collegio

Organo dell’Associazione Culturale “Meridiana”www.meridianamagazine.org - [email protected]

PRESIDENTE “MERIDIANA”Basilio Catanoso

DIRETTORE RESPONSABILEAlessia Rosolen

COORDINATORE DI REDAZIONEUlderico De Laurentiis

Hanno collaboratoACME, Antonio Catanoso, Nello Donnarumma, Cyrano, Pasquale Fiorillo, Arturo Governa, Davide Infuso,

Antonio Nicolò, Salvo Pogliese, Silvia Silvestri, Alberto Spampinato, Costanza Martina Vitale.

Grafi ca ed impaginazione: Ulderico De Laurentiis, Francesco Maugeri.

Testata in attesa di registrazioneAnno 0, N. 1 - diffusione gratuita -

Stampa: Galatea Editrice Via Piemonte, 84 - 95024 Acireale (CT)

Orgawww.m

PRESIDENTE “MERIDIANA”Basilio Catanoso

ACME, Antonio Antonio N

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MAR-APR-MAG 2010MMeridianaMagazine

Silvio Berlusconi è un eroe. Ho già avuto modo di dirlo il 27 marzo dell’anno scorso, dinanzi all’immensa platea azzurra del primo congresso nazionale del Popolo della Liber-tà, ma voglio approfi ttare di questo spazio per tornare sul concetto con maggiore chia-rezza.In “Morfologia della Fiaba”, Vladimir Propp, linguista ed antropologo russo, individua funzioni, ruoli e caratteristiche dei personag-gi fi abeschi; tra questi vi sono eroi e princi-pesse, antagonisti e anti eroi ecc. L’eroe è per defi nizione il protagonista che dopo aver compiuto un’impresa, seppur ostacolato dai suoi antagonisti, trionferà.Nella favola italiana dei primissimi anni no-vanta, del dopo tangentopoli e della fi ne della cosiddetta “Prima Repubblica”, è pro-prio l’Eroe – Berlusconi a ritagliarsi un ruolo da protagonista, facendosi interprete di un paese che si affacciava nel mondo in via di globalizzazione mentre per via giudiziaria si ampliava a dismisura quel vuoto socio-po-litico che egli stesso provvedeva a riempire, dando da un lato piena legittimità a gover-nare alla destra, unica area politica uscita

sostanzialmente indenne dal terremoto di tangentopoli, ma rimasta sino ad allora fuori dall’arco costituzionale e dall’altro facendosi miglior rappresentante del buon senso della gente comune, che chiedeva una classe di-rigente all’altezza dei suoi bisogni, in grado di capirla davvero. Da qui la sconfi tta delle sinistre “progressiste” ad opera di un im-prenditore prestato alla politica, ma che della politica ha colto fi n da subito un paio di cose fondamentali: la necessità di fare sintesi e la capacità di essere realmente rappresen-tativi dello spaccato profondo di un paese. Su quest’ultima asserzione è lampante la descrizione che ne fa Galli della Loggia in un volume edito da “il Mulino” e titolato “Tre giorni della storia d’Italia”, in cui lo scrittore parla di un Berlusconi che vince “facendo leva sul desiderio ancora più tenace di tutti costoro di non essere governati da chi - essi credono - non li capisce, non è fatto della loro stessa pasta, dei loro stessi umori.”Proprio come nel più classico colpo di scena di un racconto, la discesa in campo del Ca-valiere ha “operato in Italia una straordinaria rottura del conformismo politico, consistita

prima di tutto nell’aver portato nel campo del centrodestra la frontiera dell’innovazione politica, sociale, economica e istituzionale. A partire da questo, l’attuale premier ha costru-ito uno straordinario consenso trasversale”. Così Benedetto della Vedova in un articolo pubblicato di recente su “Il Secolo d’Italia”.Alla luce di questa caratteristica eroica e fi a-besca che avvolge la discesa in campo del Premier e la fondazione del Popolo della Li-bertà, si potrebbero intendere le diffi coltà di molti a leggere con serenità il percorso in-trapreso negli ultimi mesi da Gianfranco Fini, che sembra dover, suo malgrado, assumere il ruolo di anti-eroe, o addirittura di antagoni-sta (che spetterebbe alle sinistre). Tuttavia la sua storia personale e le sue radici lasciano in tutti noi la fi ducia e la speranza di poter utilizzare un’altra chiave di lettura, che veda lui, il Premier, noi tutti eroi e protagonisti di questa nuova favola - così come ebbi a dire un anno fa, in quel fantastico congresso -con il coraggio del cambiamento e per un’Italia che ritorni a crescere e vivere splendidamen-te.

EROI E FIABEFenomenologia di un Premier: Berlusconi e la storia d’Italia

* Dirigente nazionale Giovane Italia

Molte idee, tutte confusedi Jackal

Adesso è tutto chiaro. Ammettiamo la nostra sconfi tta. Vorremmo tutti che l’Unità, il Manifesto, il Riformista e il Fatto Quotidiano parlassero di noi. Fa tanto fi go, sarebbe un toccasana per il nostro atavico com-plesso d’inferiorità. Vuoi mettere essere invitati a Ballarò, Anno Zero, tutte le mattine a Omnibus, persino alla Domenica Sportiva? Come avranno fatto? Eppure era così semplice, perché non ci abbiamo pen-sato prima? Basta dire sempre ciò che mai si è pensato e leggere ogni mattina le dichiarazioni del Berlusca e scrivere un bel pezzo contro. E’ facile passare da fascisti molto immaginari a iperlaici pensatori ci-tati dalla gauche modaiola e a corto di idee di casa nostra: basta ribal-tare la regola aurea del giornalismo e scrivere per i critici anziché per i lettori, dimenticare di dover vendere copie e sperare che i “compagni” parlino di noi nelle loro rassegne stampa. L’uovo di Colombo. Berlusconi va a pranzo con Sarkozy? Il nostro idolo diventi Cameron. Il PdL? Boh, non c’ero, se c’ero non ho visto niente, se ho visto qual-cosa, non ho sentito nulla… Inquisiscono un Ministro? Facce contrite e giù a chiedere norme più severe, però non sempre: a orologeria, solo quando la misura dell’antipatia personale è colma. Qualche cri-tica a Comunione e Liberazione, qualche ammiccamento a Di Pietro, qualche capatina sulla Ikarus II di Massimo D’Alema, due o tre insulti

a Vittorio Feltri e dire qualcosa di destra diventerà persino superfl uo: sua maestà la recensione di Concita De Gregorio piomberà su di noi come una benedizione. Credevamo di aver detto tutto sulla destra moderna qualche decennio fa, quando parlavamo di “logica del superamento”, quando faceva-mo i convegni con gli antifascisti all’Università, quando spegnevamo il fuoco della violenza politica, mentre altri mettevano il tanto vitupe-rato “Capo” sulle magliette e predicavano improbabili evoluzioni del Fascismo nel nuovo Millennio; credevamo, sbagliando, che la grande svolta, la piccola svolta, la svoltina avessero detto tutto sul desiderio di cambiamento della destra politica in Italia. Che illusi! Mancava an-cora qualcosa, mancava la metamorfosi defi nitiva, mancava l’identità “a geometria variabile”, riedizione audace delle convergenze parallele di Aldo Moro: basta dire ciò che piace alla consorteria giornalistico-culturale che da decenni occupa le pagine dei giornali e si fi nisce in prima pagina e in prima serata. A pensarci bene sarebbe una strategia neo-berlusconiana, ma non diciamolo forte: i nostri eroi, i nostri Capi-tan Futuro, potrebbero crederci e fi nire di nuovo nell’oblio per assenza di “polemos”. Ci sorge un dubbio: vuoi vedere che se poi diventiamo pericolosi Con-cita non ci recensisce più?

di Ulderico De Laurentiis*

cattivi pensieri cattivi pensieri

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Visto dalla Calabria il federalismo prossimo venturo luccica di spe-

ranza. E si staglia come una delle poche possibili leve del cambia-

mento per il Meridione d’Italia. Più dei fondi comunitari. Più delle

grandi opere o della “Banca del Sud”. Un semplice e perciò rivolu-

zionario congegno di responsabilizzazione della spesa e dell’azione

di governo delle amministrazioni meridionali. Senza cui, la storia ha

già dimostrato, ogni intervento di spesa pubblica, ordinario o stra-

ordinario che sia, diviene al Sud acqua versata in una cesta (l’acqua

‘nto panaru, tipica dell’amore a distanza – l’amuri i luntanu – di un

celebre proverbio calabrese ). Che sgocciola inesorabilmente via e

diviene foraggio di clientele e benzina del crimine organizzato.

Responsabilità, quindi. Chiave, diremmo sinonimo, della logica fe-

derale per il Meridione. Si governa, prima e oltre ogni perequazione,

macinando il grano mietuto dai campi della propria terra. E del buon

uso del sudore fi scale del popolo si risponde con immediatezza.

Guardando negli occhi i propri conterranei.

Responsabilità che va esercitata, però, innanzitutto, a Roma nella

fase di attuazione della fi scalità federale. Il passaggio dal criterio

della spesa storica a quello della spesa standard è, ad ogni latitudi-

ne, un processo diffi cile e rischioso. Per la fi nanza pubblica italiana,

così irrigidita dal debito pubblico e dalla stagnazione economica,

diventerà un tuffo olimpico. Con ripetuti salti mortali carpiati e ro-

vesciati. Occorre la saggezza e la gradualità che si addice alle scel-

te necessarie e coraggiose. Irreversibili. È in gioco l’osso del collo

dell’intera Nazione.

Responsabilità a Roma che, una volta attuato il federalismo fi scale,

sarà tuttavia vana se non troverà un pari riscontro a Bari, a Paler-

mo, a Reggio Calabria. È su questo aspetto che è mancata, sinora,

la necessaria rifl essione. Non c’è federalismo che regga senza un

nuovo personale politico nel Meridione, adeguato alla sfi da

dell’autogoverno. Che sia, innanzitutto, scelto

dal libero voto dei cittadini meridio-

nali. Non dalle camarille romane,

ma neanche da truppe locali di

clienti e mafi osi organizzati. Un

personale politico che sia in gra-

do di organizzarsi in partiti degni

di questo nome. Di confrontarsi

differenziandosi in correnti che non

somiglino a congreghe devote al cul-

to della peggiocrazia e del servilismo. Di

prendere decisioni, quando occorre, in auto-

nomia da logiche e convenienze coloniali.

È illusorio credere che tale ceto politico germoglierà

spontaneamente, si autoselezionerà al semplice attuarsi della

fi scalità regionale. Che la responsabilizzazione politica e ammini-

strativa sarà, insomma, un processo indotto e naturale del riordino

federale. Al contrario, senza una contemporanea azione di profonda

riforma della politica, è alto il rischio di partorire, comunque, un fe-

deralismo monco. Fondato sulla deroga, la proroga, l’eccezione alla

regola di rigore e responsabilità per tutti. In cui l’atavico piagnisteo

delle sorelle “povere” del Sud rischierà di sfociare in una continua

rivendicazione di risorse e interventi straordinari, ben oltre la solida-

rietà perequativa, da parte di dirigenze meridionali inadeguate. In

un confl itto pericoloso e permanente tra territori, tale da mettere in

continua discussione la pace sociale e l’unità istituzionale.

Non c’è al mondo territorio federato privo della fi erezza che è conna-

turata all’autonomia dei popoli che lo compongono. Alla consapevo-

lezza di contribuire con le proprie gambe all’avvenire della Nazione,

di costituirne valore aggiunto, attraverso la prosperità e la liber-

tà prodotta ed espressa dalla propria regione. E, quale ineludibile

corollario, non c’è territorio veramente e stabilmente federato che

rinunci a manifestare tale fi erezza facendosi rappresentare da una

dirigenza politica che abbia nel cuore e nei gesti la determinazione a

dare alla propria terra un futuro di orgoglio e dignità.

Questa fi erezza oggi al Sud latita perché manca da troppo tempo

ormai una politica suffi cientemente in sintonia col popolo da tirarne

fuori l’orgoglio, da sconfi ggerne la rassegnazione. È una latitanza

che il federalismo rischia di rendere insopportabile. E cui bisogna

porre rimedio giammai rinunciando al federalismo, che è una parte

della soluzione, ma integrandolo con immediate riforme ed energici

interventi per ridare credibilità alla politica meridionale. Ne avremo il

coraggio?

Visto dalla Calabria il federalismo prossimo venturo luccica di spe- regola di rigore e responsabilità per tutti In cui l’atavico piagnisteo

Federalismo responsabile e riforma della politicaFrancesco Spanò

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SUL CONCETTO DI COMUNITA’:L’Enciclica “Caritas in Veritate”Nella società dell’immagine rimangono impressi nella memoria di ciascuno di noi, fotogrammi che acquistano nel tempo un valore che rimane e travalica il presente per assurgere a simbolo di un evento: credo che per sempre rimarranno inscritte nella storia di questa crisi di inizio secolo, le immagini di quegli impiegati che frettolosamente abbandonavano con le loro scatole gli uffi ci che occupavano decine di piani all’interno di quei grattacieli che all’improvviso diventavano a loro volta simbolo di giganti che cadevano sotto i colpi di un disastro fi nanziario che si sarebbe presto tradotto in un collasso economico per l’intero pianeta.All’indomani di quella crisi ben altri fatti, più veri delle immagini, perché vissute direttamente da milioni di famiglie, di lavoratori in tutto il mondo hanno dato il senso vero e profondo di una crisi economica i cui effetti non sono ancora cessati e fi niscono per gettare una pesante ipoteca sul presente e sul futuro delle società in cui viviamo.Milioni di disoccupati, milioni di famiglie impoverite, a fronte di arricchimenti spropositati e spesso ingiustifi cati, impongono, ancor prima che la rifl essione scada in un generico atto d’accusa nei confronti della società capitalistica e della produzione di ricchezza, di porre alcuni passaggi obbligatori, sul bisogno di ritornare a porre un vincolo stretto e irrinunciabile fra etica ed economia.L’invito posto esplicitamente all’interno dell’Enciclica “Caritas in Veritatem” a superare l’ormai obsoleta dicotomia tra sfera dell’economico e sfera del sociale, non può non essere condiviso.Dopo secoli in cui un’idea di mercato, che poneva alla base del proprio funzionamento la sua sola autoregolamentazione, sembrava dovesse trionfare in eterno, le società occidentali hanno fi nito per scontrarsi con una realtà che altre società, meno sviluppate e meno prospere della nostra, già

conoscevano: il mercato da solo non basta.Perché come ha avuto modo di affermare anche il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi “secondo la dottrina sociale della Chiesa, se l’autonomia della disciplina economica implica l’indifferenza all’etica, si spinge l’uomo ad abusare dello strumento economico; se non è più il raggiungimento del fi ne ultimo – il bene comune – il profi tto

rischia di generare povertà. Lo sviluppo non è di per sé garantito da forze impersonali né é automatico, ma necessita di persone che lo sospingano vivendo nelle loro coscienze il richiamo del bene comune , perché ogni decisione economica ha conseguenze di carattere morale”.Il “mercato” deve essere concepito in modo alternativo sia alla defi nizione che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in cui possono trovare soluzione tutti i problemi della società. E la parola chiave che ricorre

nell’Enciclica, nel capitolo terzo, per aspirare al nuovo concetto di mercato è “fraternità”. Occorre che, anche all’interno dei meccanismi economici e di mercato, sia presente la reciprocità propria della fraternità e che essa sia motivo di giustizia sociale, di redistribuzione e di solidarietà. Come non far coincidere il concetto di fraternità così come delineato con quel fi lone culturale che si è tradotto nel termine di comunità, e che ha dato vita a quella dottrina comunitaria da cui oggi muove gran parte della politica nazionale.L’enciclica Caritas in Veritate evidenzia come a seguito della globalizzazione la politica non sia più in grado di rappresentare da sola l’elemento di redistribuzione e di solidarietà; probabilmente non c’è più corrispondenza tra attività economica e Nazione, considerando che i confi ni dell’attività economica e fi nanziaria si sono dilatati, sicché la ricchezza prodotta in un luogo non rimane più nello stesso luogo. Una siffatta confi gurazione del fenomeno fa sì che esso vada governato non più soltanto con tradizionali strumenti (prelievo fi scale, politiche del lavoro): si rendono necessarie nuove prospettive di azione, proprio a seguito della crisi economica e occupazionale che ha evidenziato queste problematiche.Le istituzioni possono così sostenere i lavoratori con un avvicinamento delle politiche sociali alle politiche del lavoro, sostenendo la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico, un investimento sociale e non un consumo sociale.Questa è la vera sfi da: lo sviluppo nella centralità delle persone attraverso un nuovo welfare comunitario e referenziale basato su sussidiarietà e solidarietà..Le nuove soluzioni competitive e socialmente sostenibili trovano le proprie basi, oltre che sui diritti della persona, sul merito e sulla concorrenza intercalati sul territorio e sulle comunità locali, per arrivare ad una reale crescita qualitativa del lavoro, in particolare dal punto di vista della previdenza sociale, della responsabilità sociale e delle pari opportunità.

di Alessia Rosolen*

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* Consigliere Regionale Friuli Venezia Giulia

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Campo Cyrano, è questo il nome del campo

studentesco che si terrà a Sorrento tra il 9 e

l 11 Luglio 2010. Il campo che si ispira alle

gesta di Cyrano De Bergerac, spadaccino

terribile e tenerissimo amante, è il sogno

di tutti i giovani che hanno idee, progetti e

passioni. I Sogni, ormai effi meri tra i giovani,

dovranno essere supportati e incoraggiati,

perché stimolano la fantasia e aiutano a

raggiungere gli obiettivi senza i “vizi” degli

adulti. Per la seconda edizione, il campo

studentesco rappresenterà un momento

importante di aggregazione e formazione per

gli studenti delle scuole superiori provenienti

da tutta Italia. Lo spirito del campo, non è

solo quello di far accrescere le esperienze

culturali e artistiche degli studenti, ma far

conoscere e confrontare le proprie idee e i

propri sogni. Sulla spiaggia per raccontare

la nostra spensieratezza e la nostra libertà,

nel periodo delle vacanze estive, quando le

scuole sono chiuse e anche le improbabili

“Onde” si riposano e casomai accarezzano

dolcemente la battigia; con la musica, grazie

al protagonismo di giovani gruppi musicali

che esprimeranno a Campo Cyrano le loro

capacità artistiche; con la cultura, espressa

in dibattiti e confronti tra personalità politiche,

letterarie, fi losofi che e artistiche del mondo

italiano e tra i giovani; e poi con un sano e

consapevole cazzeggio...

In poche parole, gli studenti staranno

insieme per essere protagonisti della loro

generazione e, tra un tuffo e l’altro, avranno

un‘unica parola d’ordine: “Non la sopporto

la gente che non sogna…”.

La “maleducazione” Siberianadi DiapasonImmagina una società a regole invertite, dove il confi ne tra legalità e illegalità si fa evanescente limite tra due mondi simili, a parti invertite, quasi speculari. Una società statuale controversa, quella della Transnistria, regione meridionale

dell’ex URSS p r o c l a m a t a s i indipendente nel 1990, con le sue leggi uffi ciali, la sua autorità, il suo ordine costituito; maschera non tanto effi cace che mal cela il retaggio di un regime totalitario, con

i suoi abusi e le sue violenze. E dall’altro lato della linea gli illegali, i criminali non per professione ma per cultura e tradizione, i criminali onesti. Una tradizione tramandata da padre in fi glio, una società parallela sorretta dalle proprie regole, dal proprio codice d’onore, dalla contrapposizione materiale e ideologica con la “società uffi ciale”.“L’educazione Siberiana” di Nicolai Lilin

racconta la storia di una società al di fuori di qualunque canone di legalità, che fa del crimine la scelta di vita. Ma all’interno di questa visione ricostruisce, anche attraverso elementi autobiografi ci, la storia e la cultura degli Urka, briganti siberiani fi gli degli anticomunisti che il regime scelse di deportare in quella zona dell’Unione Sovietica. In quel margine di società si temprò un sistema frutto del codice primitivo dei criminali, fatto di sopraffazione, violenza, ma con una sua etica.E tra furti, risse, omicidi, scontri tra baby gang e accoltellamenti si dispiega la vita di un giovane transinistriano, nel suo percorso educativo che lo vedrà formarsi nel rispetto del rigore degli insegnamenti degli anziani, apprendendo le regole degli Urka e perfezionando la conoscenza di quel mondo attraverso i suoi usi, i suoi tipi umani, le sue chiavi di lettura. Gli anni e l’esperienza che conferiscono un ruolo via via più alto all’interno della società. I tatuaggi che diventano la mappa di una vita, impressa sul proprio corpo come una ferita: la famiglia di appartenenza, le esperienze in carcere.Niclai Lilin ricostruisce così, parallelamente al percorso criminale, un universo in

cui un’identità di gruppo si distingue nettamente dai valori classici di riferimento, sovvertendoli radicalmente. In cui il carcere, il prezzo da pagare per aver violato i precetti comportamentali, diventa un’esperienza naturale e necessaria per la formazione del carattere e per il conseguimento del rispetto. E in una narrazione fl uida e accattivante, ricca di particolari e capace di trasportare emotivamente il lettore in un mondo a tinte fosche, l’Educazione Siberiana rappresenta una fi nta anomalia tra i romanzi. Innovativo per la storia e per lo stile, è uno di quei romanzi in cui il personaggio negativo diventa il motore di una storia in cui i personaggi positivi sono solo le vittime di alcuni delitti. In un susseguirsi di vicende tragiche, l’antieroe, il protagonista, apre il sipario su un palcoscenico mai ammirato prima, un mondo nascosto oltre l’ormai dischiusa cortina di ferro. Una storia di un mondo che via via sparisce travolto dai moderni criminali, quelli disonesti. Un rischio a fi ne lettura c’è: che nel romanticismo di una vita pericolosa e nell’incarnazione di una vita in cui atrocità e riferimenti valoriali cercano un precario equilibrio, ci si dimentichi che in fondo, onesti o no, di criminali si tratta.

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di Davide Infuso

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Non la sopporto Non la sopporto la gente che non sognala gente che non sogna

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MAR-APR-MAG 2010

di Salvo Pogliese*

Quando arriva il mese di Maggio ci prende una fi tta fortissima al cuore. Il mese delle rose, il mese della primavera che sboccia, da noi, in Sicilia, è purtroppo il mese che segnò l’inizio della stagione delle stragi “eccellenti” di mafi a. Giovanni Falcone saltò in aria a Capaci in una già afosa giornata di Maggio e portò con sé la moglie e i poveri agenti della scorta. Poi toccò a Paolo Borsellino, che uffi cialmente morirà a Luglio, ma uffi ciosamente si spense, come testimonia anche il fi glio Manfredi in una toccante testimonianza, proprio in quel Maggio di fronte alla camera ardente dell’amico Magistrato. Quando la fi tta si fa più forte ci vengono in mente le ragioni profonde che hanno spinto molti di noi a fare politica, gli striscioni strappatici di mano per imbavagliare il nostro urlo di dolore per l’abbattimento di una villa liberty a fi ni speculativi, le feste con Paolo Borsellino che ci esorta a non mollare mai, a credere della bellezza dei nostri sogni. Filosofi a? Utopia? Roba da ragazzini? Siamo certi che non sia così, oggi più che mai, preoccupati di tracciare un percorso per una formazione politica che rappresenta quasi il 50% degli Italiani e dei Siciliani. La nostra questione morale non è un paravento dietro il quale nascondere i vestiti sporchi, né può essere contrabbandata da improbabili

“tutori” esterni: la nostra questione morale è ragione stessa del fare politica, è la nostra storia che deve diventare imperativo morale per tutti, sono regole da scrivere accanto ai nomi di chi chiamiamo a rappresentarci. Che lo si chiami codice morale, tavola delle leggi, prontuario ad uso dei pubblici amministratori, ha poca importanza: la cosa importante è

dotare il popolo delle Libertà di un meccanismo dal quale nessuno possa sfuggire, che intrappoli i furbi, che smascheri eventuali collusioni e che disincentivi chi pensa di iscriversi a una società per azioni (negative) piuttosto che a un partito politico. Sentiamo già il coro di proteste: che bisogno c’è di regolamentare un pre-requisito, l’onestà, già sanzionabile per legge? C’è bisogno perché il deterrente posto dall’ordinamento giuridico non può bastare a chi deve rappresentare il popolo italiano, i propri elettori, il proprio vicino di casa, i propri fi gli. Le vicende degli ultimi mesi non sono un fulmine a ciel sereno, ma sono purtroppo il frutto avvelenato di sistemi consolidati, di commistioni fra politica e apparato burocratico, imprenditori, sistema produttivo; non possono non allarmare, ad esempio, i dati snocciolati a febbraio dal Procuratore

Generale della Corte dei Conti Mario Ristuccia: aumento reati concussione del 223%, aumento reati corruzione 156%. È necessario, oggi più che mai, scardinare questo meccanismo anche ribadendo l’ovvio: chi vuole guadagnarci non può fare politica, chi ha amici impresentabili non può fare politica, chi sbaglia da pubblico amministratore sbaglia più degli altri. La proposta del Ministro Meloni di prevedere aggravanti reali e impossibilità di ricandidarsi per chi fosse riconosciuto colpevole di reati di corruzione è sacrosanta e auspicabile. Più che mai in una terra come la nostra, la Sicilia, dove questi reati nascondono quasi sempre trame inconfessabili e relazioni pericolose, oggi più che ieri per la necessità di segnare una discontinuità rispetto a un passato e a un presente nel quale la politica è costretta, per proprie colpe, ad inseguire gli avvisi di garanzia e i rinvii a giudizio. Ecco perché il PdL può rappresentare una novità nel panorama politico italiano se non aspetta che sia la magistratura a dettare i tempi e a consegnare le patenti di onestà e rispettabilità. Facciamolo da soli perché ne siamo capaci, perché le storie della maggior parte di noi sono storie di impegno e militanza, lotta al malaffare e ardore giovanile contro chi specula sui bisogni altrui, antimafi a nei fatti e non ostentazione professionale della propria “diversità”. Facciamolo per quel futuro che raccontiamo nei comizi di voler lasciare in eredità ai nostri fi gli, perché domani sentano una fi tta al cuore, ogni mese di Maggio, pensando che qualcuno non si è sacrifi cato invano nel nome della legalità e del rispetto delle regole.

di Salvo Pogliese*

Quando arriva il mese di Maggio ci prende una

La questione morale essenza del nostro fare politica

* Vice capogruppo PdLAssemblea Regionale Siciliana

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