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PANORAMA Traffico di esseri umani Storia di Shaima EDITORIALE Coronavirus Un mondo nuovo Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA PRETI CORAGGIO In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito DOSSIER Popoli oppressi Dimenticati dalla Storia 4 ANNO XXXIV APRILE 2020 Il Vangelo nelle favelas

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PANORAMATraffico di esseri umaniStoria di Shaima

EDITORIALECoronavirusUn mondo nuovo

Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

PRETI CORAGGIO

In caso di m

ancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. R

OMA ROMANINA previo addebito

DOSSIERPopoli oppressiDimenticati dalla Storia

4ANNO XXXIV

APRILE2020

Il Vangelonelle favelas

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MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIATrib. Roma n. 302 del 17-6-86. Con approvazione ecclesiastica. Editore: Fondazione di religione MISSIO Direttore responsabile: GIULIO ALBANESERedazione: Miela Fagiolo D’Attilia, Chiara Pellicci, Ilaria De Bonis. Segreteria: Emanuela Picchierini, [email protected]; tel. 06 6650261- 06 66502678; fax 06 66410314. Redazione e Amministrazione: Via Aurelia, 796 - 00165 Roma. Abbonamenti: [email protected]; tel. 06 66502632; fax 06 66410314. Hanno collaborato a questo numero: Massimo Angeli, Chiara Anguissola, Paolo Annechini, Mario Bandera, Roberto Bàrbera,Gaetano Borgo, Alessandro Bonfanti, Loredana Brigante, Franz Coriasco,Benedetta Jon Grak Donoran, Stefano Femminis, Giovanni Lago, FrancescaLancini, Paolo Manzo, Pierluigi Natalia, Enzo Nucci, Maria Lucia Panucci,Michele Petrucci.Progetto grafico e impaginazione: Alberto Sottile.Foto di copertina: Padre Giampietro Carraro svolge la sua missionetra i disperati delle periferie di San Paolo in Brasile (foto di: Missao Belem).Foto: Guillermo Legaria/afp, Apu Gomes/Afp, Ampe Rogerio/Afp, RodgerBosch/Afp, Tony Karumba/Afp, Mohammed Huwais/Afp, Sumy di Sadurni/Afp,Aaref Watad/afp, Phil Moore/afp, Alexis Huguet/Afp, David Cliff/Nurphoto, DesignCells/Science photo llibra/DCE/Science Photo library, Alex Mcbride/Afp, OrlandoSierra/Afp, Facebook/Homero Gomez Gonzalez, Paolo Annechini, AlessandroBonfanti, Gaetano Borgo, Paolo Boumis, Benedetta Jongrak Donoran, CaterinaFassio, Teresa Fernàndez, Firas Aridah, Paolo Berloni, Stefano Dal Pozzolo/TalithaKum, Giovanni Lago, Ismaila Mbaye, Marcelo Mendoça, Andrea Merli/Un MuroNon Basta, Paroquia Dom Bosco, Chiara Pellicci, Uff. Cooperazione missionariatra le Chiese Marche, Razan Zaitouneh.Abbonamento annuale: Individuale € 25,00; Collettivo € 20,00;Sostenitore € 50,00; Estero €40,00.Modalità di abbonamento:- Versamento sul C.C.P. 63062327 intestato a Missio o bonifico postale (IBAN IT 41 C 07601 03200 000063062327)

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Mensile associato alla FeSMI e all’USPI, Unione StampaPeriodica Italiana.Chiuso in tipografia il 23/03/20Supplemento elettronico di Popoli e Missione:www.popoliemissione.it

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CON I MISSIONARI A SERVIZIO DEI PIÙ POVERI:

- Offerte per l’assistenza all’infanzia e alla maternità, formazione dei seminaristi, sacerdoti e catechisti, costruzione di strutture perle attività pastorali, acquisto di mezzi di trasporto.

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1P O P O L I E M I S S I O N E - A P R I L E 2 0 2 0

L’argomento che, in questo tempo,riempie le pagine dei giornali,le trasmissioni televisive, i siti

internet e i social network, i nostridialoghi tra amici e parenti, assorbendogran parte della nostra vita, è chiara-mente questa pandemia del Coronavirus,Covid-19. E come non parlarne anchenoi? Vorremmo farlo, però, dal nostropunto di vista, con la nostra sensibilitàed esperienza di missionari.Una prima cosa che vorremmo sottoli-neare riguarda la preoccupazione delcontagio. E il nostro pensiero corre aquei Paesi, a quei continenti in cui lestrutture sanitarie non sono assoluta-mente all’altezza di affrontare questapandemia. Pensiamo a Paesi dell’Africadove non ci sono ospedali adeguati,rarissimi reparti di terapie intensive,scarsità assoluta di medici e infermieripreparati, scarsità di medicinali e ma-teriali sanitari. Pensiamo a Paesi in cuinormalmente il paziente, se vuole esserecurato in ospedale, deve comprarsi lemedicine, le garze e le siringhe perchél’ospedale non le fornisce. Paesi in cuile autorità e le strutture pubbliche nonsono assolutamente in grado di gestirele emergenze. Paesi già flagellati co-stantemente da epidemie come la ma-laria, la dengue, il colera e altre malattieche ogni anno mietono innumerevolivittime. E pensiamo ai nostri missionariche vivono tra queste popolazioni, im-pegnati soprattutto nell’opera di soli-darietà, nella informazione capillaredella gente, fino ai villaggi più sperduti,

nella prevenzione, nell’accompagna-mento dei malati, delle famiglie, dellecomunità. Missionari che generalmentesentono il pericolo e la paura di rimanerein quelle situazioni, ma che trovanonella loro vocazione e nella profondaspiritualità missionaria la forza di nonabbandonare quelle popolazioni proprionell’ora della maggiore necessità.Ma pensiamo anche oltre la pandemia.Perché questa preoccupazione del mo-mento non può oscurare la nostra at-tenzione verso quelle situazioni e popo-lazioni che vivono da molto più temponella guerra, nella fame, nella necessitàdi fuggire dalla loro terra. Pensiamo alproblema delle migrazioni che in questotempo è stato totalmente oscurato daimaggiori mezzi di comunicazione sociale.Pensiamo a coloro che continuano abussare alle porte di questa Europa e sitrovano davanti sbarramenti, muri difilo spinato, addirittura forze di poliziaed esercito schierati con manganelli egas lacrimogeni. Per questi poveri il Co-ronavirus rischia di essere l’ultimo deiproblemi di cui preoccuparsi e, Dio nonvoglia, può diventare per molti di loro ilcolpo di grazia.Noi missionari pensiamo oltre, anche inun’altra prospettiva. Se da un lato siamoabituati ad incontrare e affrontare si-tuazioni umane estremamente faticose,siamo anche allenati dalla nostra espe-rienza e dalla nostra fede a guardarepiù avanti, ad allungare lo sguardo sulfuturo con la immortale speranza di untempo in cui tutto questo passerà,

EDITORIALE

di GIUSEPPE [email protected]

(Segue a pag. 2)

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Un mondo nuovo

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Indice

EDITORIALE

1 _ Un mondo nuovo di Giuseppe PizzoliPRIMO PIANO

4 _ L’esortazione post sinodale Querida Amazonia Tutti i colori dei sogni di Francesco di Pierluigi NataliaATTUALITÀ

8 _ Mediterraneo frontiera di pace Affacciati sul mare del meticciato di Miela Fagiolo D’Attilia11 _ Corruzione in Angola Luanda Leaks e lotta alla povertà di Ilaria De Bonis FOCUS14 _ Intervista a don Giuseppe Pizzoli Tutti a scuola di missione di Miela Fagiolo D’Attilia

SCENARI18 _ Tra i disperati delle favelas in America Latina

Preti coraggio portano il Vangelo in strada di Paolo Manzo MO(N)DI DI FARE

21 _ Abbracci, inchini e paura del virus di Loredana Brigante

SCATTI DAL MONDO

22 _ L’invasione delle locuste

L’enorme nuvola nera sbatte le ali sull’Africa Testo di Roberto Bàrbera A cura di Emanuela Picchierini

PANORAMA

26 _ Traffico di esseri umani Storia di Shaima, la sposa scomparsa di Massimo Angeli

POPOL I E M I SS I ONE - A P R I L E 2 0 2 02

con la fiducia in un mondo nuovo, con lacertezza che il Regno di Dio è più forte di ognimale e troverà il modo di manifestarsi anchenelle situazioni più terribili.In questi giorni si dice frequentemente che,dopo questo periodo di oscurità, il sole torneràa brillare. Molti prendono coscienza che, dopoquesta pandemia, nulla sarà come prima: cambierànecessariamente il nostro modo di vivere, dipensare al lavoro, alla famiglia, alla politica, al-l’economia. Cambierà la geopolitica, cambierannoi rapporti tra le nazioni, cambieranno l’economiae la finanza. La nostra speranza di missionari èche, in questa situazione di emergenza globale,si prenda coscienza che veramente quel mondoche abbiamo costruito negli ultimi decenni nonpoteva reggere più, che non si risolvono iproblemi con la costruzione di muri o accettandopassivamente che la forbice tra i Paesi ricchi e iPaesi poveri aumenti costantemente, che illivello di vita di alcuni Paesi sia intoccabile,anzi, in continua espansione a scapito di nazionile cui risorse vengono costantemente ridotte. IlCoronavirus ci ha reso coscienti che siamo tuttisulla stessa barca. Se il mondo non sarà più lostesso, sarà la volta buona in cui troveremo lavolontà e la forza di costruire un mondo nuovo.Speriamo!

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DOSSIER

29 _ Popoli oppressi Dimenticati dalla storia di Chiara Pellicci e Ilaria De Bonis

37 _ Umanesimo digitale Mettici la faccia di Michele Petrucci

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

38 _ Migranti di successo

Ismaila e il suo djembe di Chiara Pellicci

40 _ In gioco il futuro del Sud Sudan

Sarà vera pace? di Massimo Angeli

42 _ Ancora un ecologista ucciso in Messico

Homero, l’amico delle mariposas di Miela Fagiolo D’Attilia

44 _ L’altra edicola Siria senza pace Lo stadio di Idlib e la paura del cielo di Ilaria De Bonis

47 _ Beatitudini 2020 La breve primavera di Razan di Stefano Femminis

48 _ Posta dei missionari Il suo amore è stato più forte

a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE51 _ Libri Chiesa, community e social di Chiara Anguissola La solidarietà in pillole di Maria Lucia Panucci

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OSSERVATORIDONNE IN FRONTIERA PAG. 6

Wala, più forte di Boko Haramdi Miela Fagiolo D’Attilia

GOOD NEWS PAG. 7

Di Stazione in Stazione con i poveridi Chiara Pellicci

MEDIO ORIENTE PAG. 15

In Afghanistan pace ancora lontanadi Ilaria De Bonis

AFRICA PAG. 16

Farmaci low price falsidi Enzo Nucci

ASIA PAG. 17

Coronavirus nelle prigioni cinesidi Francesca Lancini

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52 _ Ciak dal mondo Un divan à Tunis Ma Freud portava il fez? di Miela Fagiolo D’Attilia54 _ Musica OBONGJAYAR La Nigeria in Occidente di Franz Coriasco VITA DI MISSIO

55 _ Missio Ragazzi Grazie dal Congo

Tanti pulcini per i bambini di Kingoué56 _ Missione andata e ritorno Don Paolo Boumis, fidei donum rientrato dal Brasile Ascoltare le sofferenze nascoste di Loredana Brigante

57 _ Caterina Fassio, fidei donum rientrata dal Mozambico Il mio posto nel mondo è in missione di Loredana Brigante

58 _ Missio Giovani Tornerò a casa cambiato di Giovanni Lago

60 _ Don Nicola Spinozzi, Segretario Ufficio Cooperazione delle Marche Le Marche, regione “al plurale” di Loredana Brigante

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione di preghiera La fede per risorgere dopo le cadute di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM Biodiversità della missione di Gaetano Borgo

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4 POPOL I E M I SS I ONE - A P R I L E 2 0 2 0

PRIMO PIANO L’esortazione post sinodale Querida Amazonia

hanno dato la vita. E di sogni da realizzarein una conversione e in una testimonianzaautentiche ed efficaci, di una visioneche offre soluzioni concrete, parla nei111 punti di questa lettera, per aiutare a«risvegliare la preoccupazione per questaterra anche nostra», vitale per il mondoe per la Chiesa, perché «totalità» e «luogoteologico» che le impone di ricordarsicome essere davvero tale.C’è molto di papa Francesco in questotesto percorso e scandito dai versi di 12poeti e scrittori latinoamericani per en-trare nel cuore delle ferite e delle speranzeoltre le contraddizioni di questo universomultinazionale, multietnico, multiculturalee multireligioso, in quest’affresco chetraccia rispondendo al documento finale

di PIERLUIGI [email protected]

Tutti i coloridei sognidi Francesco

Tutti i coloridei sognidi FrancescoL’amata Amazzonia è una terra verde come isuoi alberi, nera come i roghi, rossa per ilsangue degli indigeni versato per interessieconomici e sfruttamento della terra.L’esortazione di papa Francesco arriva a pochimesi dal Sinodo per la regione Panamazzonicache si è tenuto a Roma dal 6 al 27 ottobre2019, e formula quattro grandi sogni per ilfuturo del polmone del mondo. Vediamo quali.

C he colori hanno i sogni e le vi-sioni? Che colori hanno i popoli?Che colori ha la storia, la nostra

storia quotidiana? E di quali colori ilpeccato degli uomini macchia la speranzadel mondo? Ci sono risposte all’apparenzavisionarie e pure concretissime nell’esor-tazione apostolica Querida Amazonianella quale papa Francesco raccoglie lesuggestioni e la ricchezza del Sinodosull’Amazzonia tenutosi lo scorso autunno

in Vaticano. Un documento con unostile di fortissima empatia, con un lin-guaggio nel quale la teologia, il “discorsosu Dio”, riscopre il suo autentico signifi-cato d’amore.Di colori il papa aveva parlato all’iniziodei lavori sinodali: il cuore verde diquesto polmone del mondo, il nero la-sciato dai roghi, il rosso del sangue deisuoi nativi brutalmente spazzati viaperché le loro culture contrastano l’egoi-smo predatorio di interessi diversi. E ilsangue del martirio di tanti missionariche per questa terra e per i suoi figli

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del Sinodo. C’è molto più della chiassosapolemica su “preti sposati” o “sacerdoziofemminile” che ne ha accompagnato lapreparazione e i lavori tra tanti sedicenticattolici secondo i quali il magisteropapale è valido solo se in accordo con iloro pregiudizi. Del resto il papa nonraccoglie la proposta avanzata da alcunivescovi e riportata nel documento finaledel Sinodo sulla possibilità di conferireil sacerdozio a diaconi permanenti perrispondere alla difficoltà di quelle co-munità impossibilitate a celebrare l’eu-carestia.

PROTAGONISMO DEI LAICISecondo il papa, infatti, indicare scor-ciatoie in questo aspetto cruciale del-

suscitare e accompagnare le vocazioniindigene.Le sfide dell’Amazzonia esigono dallaChiesa «di realizzare una presenza ca-pillare che è possibile solo attraversoun incisivo protagonismo dei laici», so-prattutto delle donne che di fatto svol-gono un ruolo centrale nelle comunitàamazzoniche e «dovrebbero poter ac-cedere a funzioni e anche a servizi ec-clesiali che non richiedano l’ordine sacro».E il papa sottolinea che questi servizi«comportano una stabilità, un ricono-scimento pubblico e il mandato da partedel vescovo» affinché le donne abbiano«un’incidenza reale ed effettiva nell’or-ganizzazione, nelle decisioni più impor-tanti e nella guida delle comunità».

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l’ecclesialità «sarebbe un obiettivo moltolimitato se non si cerca anche di suscitareuna nuova vita nelle comunità». Francescoindica invece la strada forse più difficile,ma anche più feconda, di un rinnova-mento che appare un ritorno alla Chiesadelle origini, puntando da un lato suiministeri non ordinati da affidare inmodo stabile ai laici, a cominciare dalledonne, e dall’altro sulla responsabilitàdella Chiesa universale, chiedendo insiemel’invio di nuovi missionari - e non è uncaso che il Sinodo si sia tenuto inottobre, il mese nel quale la Chiesa èchiamata a pregare e a riflettere propriosul senso della missione - e un impegnodi inculturazione del Vangelo, di unafede incarnata nella storia che aiuti a »

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PRIMO PIANO

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È sopravvissuta alle violenze di Boko Harame la sua storia è quella che molte altre

donne in Camerun non potranno raccontareperché sono morte. A 29 anni Wala Matari haassistito alla morte del fratello, dei suoi figli, deinipoti massacrati senza pietà. È stata violentatamolte volte durante i due anni di prigionia, è ri-masta incinta e ha perso il bambino dopoessere stata picchiata come una bestia. Ma èsopravvissuta ed è riuscita a fuggire. Lentamenteha cercato di ricostruirsi una vita con l’aiutodel Programma di sviluppo delle Nazioni Unite(UNDP), seguendo corsi di alfabetizzazione eformazione in zootecnia. Grazie al microcreditosi è impegnata in una piccola azienda per laproduzione di bilibili, una birra locale prodottacon semi di sorgo rosso. «Faccio birra al miglioper poter nutrire e vestire i miei figli. Prima vi-vevamo in estrema povertà. Con la mia birra almiglio, combatto per la mia famiglia».Wala è riuscita a riconvertire la rabbia e ildolore in voglia di farcela a superare il passato,anche se dice: «Se oggi incontro un combattentedi Boko Haram e ho la forza e un coltello inmano, gli taglio la gola. Mi fa male ricordarequello che ho sofferto». La sua vita è cambiataun giorno di settembre 2014, quando un gruppodi uomini armati ha attaccato la sua casa nelvillaggio di Zelevet, saccheggiando e bruciandocase, e trascinandone gli occupanti nella bo-scaglia, come racconta: «Sono venuti nel cuoredella notte, mentre dormivo con i miei figli emio marito. Hanno circondato il nostro quartiere,la nostra casa. Erano completamente mascherati,con solo fessure per gli occhi e la loro violenzacontro persone indifese è servita a terrorizzaretutto il villaggio». Come Wala, altre centinaia dimigliaia di persone sono dovute fuggire dai vil-laggi in Camerun, Niger e Ciad, lasciandosidietro distruzione e lutti. Ma questa donna co-raggiosa sta ricostruendo la vita della suafamiglia con dignità e ostinazione. Ogni domenicaattraversa la brousse per andare alla parrocchiadi San Giuseppe a Zamai e partecipare allamessa: «Vado in chiesa per dimenticare i bruttiricordi. Dormiamo meglio dopo avere ascoltatola parola di Dio. Dopo avere ascoltato la paroladi Dio, sono felice di essere viva».

di Miela Fagiolo D’Attilia

WALA, PIÙ FORTEDI BOKO HARAM

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

tortura/ e vasti i boschi/ comprati tramille uccisioni»: il papa parte dai versidi Ana Valera Tafur, per indicare il primosogno-progetto, quello di una vitasociale oltre l’ingiustizia e i crimini, de-nunciando apertamente gli interessi co-lonizzatori di ieri e di oggi, che dasempre distruggono la terra «legalmentee illegalmente», assediano, scacciano euccidono i popoli indigeni, provocando«una protesta che grida al cielo». E checontinuano a farlo senza riconoscere oignorando i loro diritti «come se nonesistessero, o come se le terre in cuiabitano non appartenessero a loro».Mentre proprio «la loro parola, le lorosperanze, i loro timori dovrebbero essere– dice papa Francesco – la voce più po-tente in qualsiasi tavolo di dialogo sul-l’Amazzonia».

UNA PROTESTA CHE GRIDA AL CIELOQuanto appena detto è il quarto e con-clusivo di quelli che il papa stesso defi-nisce “sogni”, ma che si declinano inambiti da rendere progetti, impegni,vie maestre per un’Amazzonia «che lottiper i diritti dei più poveri, dei popolioriginari, degli ultimi, dove la loro vocesia ascoltata e la loro dignità sia pro-mossa»; che «difenda la ricchezza cul-turale che la distingue, dove risplendein forme tanto varie la bellezza umana»;che «custodisca gelosamente l’irresistibilebellezza naturale che l’adorna, la vita»;che abbia appunto comunità cristiane«capaci di impegnarsi e di incarnarsi inAmazzonia, fino al punto di donare allaChiesa nuovi volti con tratti amazzoni-ci».«Molti sono gli alberi/ dove abitò la

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Indigeni di etnia Waiapi.

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si sottragga a qualsiasiforma di meticciato. Perquesto, l’interesse ad averecura dei valori culturalidei gruppi indigeni do-vrebbe appartenere a tutti,perché la loro ricchezza èanche la nostra». E ricordache «l’identità e il dialogonon sono nemici, la propriaidentità culturale si ap-profondisce e si arricchiscenel dialogo con realtà dif-ferenti e il modo autenticodi conservarla non è unisolamento che impove-risce».E l’altro sogno-progettoè quello di un’ecologia

(una parola composta, di derivazionegreca, che letteralmente significa “di-scorso sulla casa”, su quella casa comunedell’umanità, la Terra, oggi minacciatacome non mai in passato). Francescoricorda una verità talmente evidenteda risultare banale, se non ci fosseroenormi interessi finanziari locali e in-ternazionali a impedire di curarsenedavvero, cioè che l’equilibrio planetariodipende anche dalla salute dell’Amaz-zonia, proprio da quegli interessi com-promessa. E cita il suo predecessore,Benedetto XVI, quando diceva che «ac-canto all’ecologia della natura c’è un’eco-logia che potremmo dire “umana”, laquale a sua volta richiede un’“ecologiasociale”. E ciò comporta che l’umanitàdebba tenere sempre più presenti leconnessioni esistenti tra l’ecologia na-turale, ossia il rispetto della natura, el’ecologia umana». Se la cura delle per-sone e la cura degli ecosistemi sono in-separabili, diventa evidente, per papaFrancesco, che per «avere cura del-l’Amazzonia è bene coniugare la saggezzaancestrale con le conoscenze tecnichecontemporanee, sempre però cercandodi intervenire sul territorio in modo so-stenibile, preservando nello stesso tempolo stile di vita e i sistemi di valori degliabitanti».

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L’esortazione post sinodale Querida Amazonia

U na Via Lucis tra i poveri che vivono nellepiù grandi città d’Italia per portare loro la

speranza del Vangelo e di Cristo risorto. Èquesta l’essenza dell’iniziativa “Di Stazione inStazione”, un cammino lungo quattromila chi-lometri, che inizia il 19 aprile a Bari e si concludeil 2 maggio a Bologna, dopo aver fatto il girodella penisola e toccato 14 città (Coronaviruspermettendo).Ad ideare l’iniziativa è stato Giandonato Salvia,giovane pugliese inventore della app Tucum,un nuovo modo per donare, praticare l’economiasospesa, stroncare gli abusi legati ai falsi poveri,distribuire le elemosine ai bisognosi che possonocosì ritirare prodotti di prima necessità diretta-mente dai negozi convenzionati (per approfon-dire, vedi il n.4/2019 di Popoli e Missione e appacutis.it). “Di Stazione in Stazione” è pro-mossa dalla diocesi di Conversano-Monopoli, ilcui Ufficio di Pastorale Giovanile è tra gli orga-nizzatori.Questa Via Lucis a tappe «sceglie di sostarenelle stazioni perché è qui che i poveri spessosi concentrano, specialmente nelle città italianepiù grandi» spiega Salvia. Con un pulmino,Giandonato ed altri cinque giovani (tra cui unsacerdote) raggiungeranno tappa dopo tappa.Ogni sosta è così organizzata: al mattino, unavisita alle realtà caritative locali e un’esperienzadi servizio sul territorio; al pomeriggio, unapreghiera del rosario; alla sera, la Via Lucis instazione per tutti coloro che vorranno partecipare,una cena di fraternità con i poveri e l’adorazioneeucaristica notturna nella parrocchia ospitante.Il pezzo forte del programma quotidiano è latappa della Via Lucis: «Sarà un incontro semplicema strutturato – spiega Salvia - per vivere unmomento di preghiera attorno ad un passo delVangelo e alla presentazione di un “santo dellaporta accanto”, un giovane testimone dellafede che è nato o vissuto in quella regioned’Italia, da conoscere attraverso il racconto difamiliari e amici».Per chi volesse partecipare, ecco il calendariodelle diverse tappe: Bari, 19/4; Reggio Calabria,20/4; Catania, 21/4; Palermo, 22/4; Messina,23/4; Napoli, 24/4; Roma, 25/4; Cagliari, 26/4;Firenze, 27/4; Genova, 28/4; Torino, 29/4; Milano,30/4; Venezia, 1/5; Bologna 2/5.

di Chiara Pellicci

DI STAZIONE INSTAZIONE CON I POVERI

OSSERVATORIO

GOODNEWS

Ai saccheggi, nazionali e internazionali,che distruggono l’Amazzonia «e non ri-spettano il diritto dei popoli originarial territorio e alla sua demarcazione,all’autodeterminazione e al previo con-senso», il papa dà «il nome che a lorospetta: ingiustizia e crimine». Per questi«atroci crimini» bisogna «indignarsi echiedere perdono», «come si indignavaGesù davanti all’ingiustizia». Perché «nonè sano che ci abituiamo al male, non cifa bene permettere che ci anestetizzinola coscienza sociale, mentre una scia didistruzione e morte mette in pericolola vita di milioni di persone». E perchél’utopia di ieri può farsi realtà già oggi.Perché è «sempre possibile superare lediverse mentalità coloniali per costruirereti di solidarietà e di sviluppo».

LE TERRE DEL METICCIATOC’è poi il sogno-progetto di una ricchezzaculturale imprigionata in uno sterminatocampo di concentramento, preda inun’immensa riserva di caccia di spietatiinteressi. Promuovere l’Amazzonia peril papa «non significa colonizzarla cul-turalmente, ma fare in modo che essastessa tragga da sé il meglio». Tuttavia,il papa sottolinea come non sia sua in-tenzione «proporre un indigenismo com-pletamente chiuso, astorico, statico, che

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Waiapi nellariserva Amapa,foresta Amazzonicabrasiliana.

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ATTUALITÀ

G iorni di profezia, di dialogo, diconfronto, vissuti con “stile si-nodale” quelli passati a Bari dal

19 al 23 febbraio scorso dove 60 vescoviprovenienti da 20 Paesi del Mare No-strum si sono dati appuntamento perl’incontro “Mediterraneo frontiera dipace”, conclusosi con la messa di papaFrancesco alla presenza di 40mila fedeli.Il pontefice è tornato nel capoluogopugliese dopo l’incontro con i patriarchidel Medio Oriente del 17 luglio 2018 e,

Mediterraneo frontiera di pace

Affacciati sul maredel meticciato

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

In una Bari “città aperta” che si propone comesponda di dialogo per le Chiese e le cultureaffacciate su questo mare “mosaico di tutti icolori”, si vivono conflitti e tensioni cheprovocano le migrazioni di migliaia di persone.La diseguaglianza tra la riva Nord e quella Sud èla distanza tra l’Europa, l’Africa e il MedioOriente. E per combattere le tensioni e le guerre èimportante l’impegno dei vescovi nelle comunitàdei vari Paesi affacciati sul Mediterraneo.

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MONSIGNOR PIERBATTISTA PIZZABALLA

CONTINUIAMO AD INCONTRARCI

Monsignor Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico “Sede vacante” del PatriarcatoLatino di Gerusalemme, ha sottolineato la forte valenza costruttiva dell’incontro dedicato al

Mediterraneo, ricordando che «guerre commerciali, fame di energia, disuguaglianze economichee sociali hanno reso questo bacino il centro di interessi enormi. Il destino di intere popolazioni èasservito all’interesse di pochi, causando violenze che sono funzionali a modelli di sviluppo crea-ti e sostenuti in gran parte dall’Occidente… Le nostre Chiese del Nord Africa e del Medio Orientesono quelle che pagano il prezzo più alto. Decimate nei numeri, non sono però Chiese rinuncia-tarie. Al contrario, hanno ritrovato l’essenziale della fede e della testimonianza cristiana».Monsignor Pizzaballa ha ricordato il tragico destino di «migliaia di migranti, che fuggono da situa-zioni di persecuzione e di povertà… Le Chiese del Medio Oriente e del Nord Africa hanno ribaditoche non hanno bisogno solo di aiuti economici, ma innanzitutto di solidarietà, di sentirsi ascoltate» per costruire vie di pace, svi-luppo e crescita, grazie a scuole, ospedali, iniziative di solidarietà e vicinanza ai poveri. Per questo ha insistito nel sollecitare inizia-tive di conoscenza reciproca, gemellaggi di diocesi e parrocchie, scambio di sacerdoti, esperienze di seminaristi, forme di volon-tariato. «Ora bisogna parlare con le Chiese e le loro realtà. L’ospitalità, che è tipica della cultura mediterranea, deve iniziare innan-zitutto tra noi. Siamo solo all’inizio di un percorso che sarà lungo, ma certamente avvincente». M.F.D’A.

nel solco del dialogo aperto, la città disan Nicola è destinata a diventare «ca-pitale dell’unità, di unità della Chiesa».Quando il cardinale Gualtiero Bassetti,presidente della Conferenza episcopaleitaliana, aveva presentato l’iniziativa alpapa, la risposta del pontefice era stataimmediatamente favorevole, come eglistesso ha detto, per «avviare un processodi ascolto e di confronto, con cui con-tribuire all’edificazione della pace inquesta zona cruciale del mondo». Dopotante testimonianze, momenti di ascoltoe di preghiera vissuti nei giorni dell’in-contro, la presenza di papa Francescoha suggellato l’impegno dei pastoriperché possano «agire come instancabilioperatori di pace» e combattere laguerra, definita «una autentica follia,perché è folle distruggere case, ponti,fabbriche, ospedali, uccidere persone eannientare risorse anziché costruire re-lazioni umane ed economiche». E hamesso in guardia dal rischio degli estre-mismi e dei fondamentalismi, dicendo:«Mi fa paura sentire discorsi che semi-nano paura e odio come negli anniTrenta del secolo scorso». Nel “maredel meticciato” bisogna invece pensaread una teologia dell’accoglienza e »

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ATTUALITÀ Mediterraneo frontiera di pace

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del dialogo a partire dal Documentosulla fratellanza siglato ad Abu Dhabiil 4 febbraio 2019.Quello che Giorgio La Pira aveva definito“il grande Lago di Tiberiade” ha unaimportanza inversamente proporzionalealle sue dimensioni e sempre più, hasottolineato papa Francesco, «siamochiamati a offrire la nostra testimonianzadi unità e di pace» a partire dalla grandesfida delle migrazioni, vivendo una«svolta antropologica che rende tuttipiù umani… A cosa serve una societàche raggiunge sempre nuovi risultatitecnologici, ma che diventa meno soli-dale verso chi è nel bisogno? Con l’an-nuncio evangelico, noi trasmettiamoinvece la logica per la quale non cisono ultimi e ci sforziamo affinché laChiesa, mediante un impegno semprepiù attivo, sia segno dell’attenzioneprivilegiata per i piccoli e i poveri».I migranti sono nel cuore di Francescoperché tra loro «vi sono quanti fuggonodalla guerra o lasciano la loro terra incerca di una vita degna dell’uomo. Ilnumero di questi fratelli – costretti adabbandonare affetti e patria e ad esporsia condizioni di estrema precarietà – èandato aumentando a causa dell’in-cremento dei conflitti e delle dramma-tiche condizioni climatiche e ambientalidi zone sempre più ampie». Ma «gliStati e le stesse comunità religiose nonpossono farsi trovare impreparati». Epapa Francesco ha fatto appello aivalori comuni di religioni diverse per lacostruzione della pace, per arrivare ad«una più attiva collaborazione tra igruppi religiosi e le diverse comunità,in modo che il confronto sia animatoda intenti comuni e impegno fattivo.Quanti insieme si sporcano le mani percostruire la pace e praticare l’accoglienza,non potranno più combattersi per motividi fede, ma percorreranno le vie delconfronto rispettoso, della solidarietà,della ricerca dell’unità».

PADRE MICHAEL CZERNY

QUERIDO MEDITERRANEO

«I n questi giorni abbiamo aperto tante finestre.Da questa parte del mare vogliamo conoscere

l’altra sponda, ma i vescovi del Medio Oriente non sisentono compresi a sufficienza e chiedono chesiano meglio conosciute le realtà in cui vivono.Sappiamo poco di molte realtà. Ad esempio, la vitaa Damasco è rimasta abbastanza stabile malgrado laguerra, se vogliamo aprire finestre dobbiamo averepiù attenzione. Molti vescovi chiedono dei gemellag-gi, dobbiamo fare ponti reali tra comunità cattolicheda una sponda all’altra». Monsignor Michael Czerny, gesuita canadese, sottosegretariodella Sezione migranti e rifugiati del Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppoumano integrale, porta al collo la croce di cardinale ricavata dai resti di una barca usatadai migranti per arrivare a Lampedusa. Le sue parole risuonano nella grande parrocchiadel quartiere San Paolo-Stanic, 30mila persone in questa zona di edilizia popolare vici-no all’aeroporto di Bari. Un quartiere che un tempo non godeva di buona fama ma cheoggi rivendica a pieno titolo la sua cittadinanza barese, nell’accoglienza ai vescovi delMediterraneo che hanno celebrato sante messe in moltissime zone della città e dell’hinterland del capoluogo, per permettere al maggior numero di persone possibiledi partecipare all’incontro del febbraio scorso.Padre Czerny, segretario speciale del Sinodo per la regione Panamazzonica, ha anchecommentato l’esortazione Querida Amazonia, dicendo che «questo documento è unalettera d’amore, papa Francesco sa che il mondo non conosce bene l’Amazzonia e ciinvita a farlo attraverso una migliore conoscenza, se non si conosce non si ama dav-vero. Così possiamo abbracciare la sofferenza, le esigenze reali dell’altro, condividerlee rispondere con solidarietà. La Chiesa deve essere sempre più missionaria, uscireverso le periferie, impegnarsi per una ecologia integrale che, a partire dall’Amazzonia,vale anche per gli abitanti del quartiere San Paolo di Bari». M.F.D’A.

MONSIGNOR MOUNIR KHAIRALLAH

LIBANO, UN PAESE IN BILICO

«I l Libano è un Paese mosaico: 18 comunitàconvivono insieme, rispettando diversità reli-

giose ed etniche. Migliaia di palestinesi già da annisono venuti a rifugiarsi in Libano e li abbiamo accol-ti». Il vescovo maronita di Batroun in Libano, monsi-gnor Mounir Khairallah, rappresenta un piccoloPaese mediorientale che è simbolo di convivenzareligiosa e di accoglienza, anche se oggi si è arrivatial default, come racconta: «Poi sono arrivati i profu-ghi siriani e anche in questo caso i libanesi li hannoaccolti, anche se sono diventati un peso non da poco. Attualmente nel Paese si trovano1,5 milioni di siriani e mezzo milione di palestinesi, per un totale di due milioni di pro-fughi su 4,5 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione. Come se l’Italia acco-gliesse 25 milioni di profughi. Impensabile! Sta diventando un serio problema politico,sociale, economico. Ma c’è di più: la politica internazionale si oppone al rientro di que-sta gente nelle loro terre. Più comodo tenerli lontani. Il peso di questa situazione per ilLibano non è sostenibile. E all’Europa dico: liberatevi dalla paura dell’accoglienza, aiu-tate i profughi che arrivano, aiutateli a formarsi perché possano poi tornare a dare unamano allo sviluppo dei loro Paesi». Paolo Annechini

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Baraccopolia Luanda,capitaledell’Angola.

Corruzione in Angola

Luanda Leaks elotta alla povertàLuanda Leaks e

Le baracche di lamiera e fango si allaganoe le famiglie sono costrette a lasciareper un po’ il misero alloggio.Nonostante la notizia che il Paese saràpresto il primo produttore al mondo didiamanti, e che nella miniera di Lulo (lapiù redditizia) è stata ritrovata di recenteuna gemma di dimensioni rare, 130 ca-rati, la povertà estrema in Angola rimaneuna costante. L’Indice di sviluppo umanosi attesta allo 0,574 (nel 2000 era di0,4. Il Paese con l’indice più basso almondo è la Repubblica Centrafricanacon 0,005), ponendo l’Angola al

F austina, giovane donna dalle brac-cia possenti, apre la porta di casasua alle telecamere di SIC Noticias,

canale televisivo angolano. Mostra lospazio angusto e affollatissimo dellasua baracca: pochi metri quadri di su-perficie, disseminati di secchi per rac-cogliere l’acqua, materassi e pentole.«Qui viviamo in otto», dice. «Otto per-sone?», chiede il cronista. «No, no, ottofamiglie», risponde lei. E quando l’acquadel mare sale, nella ex discarica di Po-voado, a pochi chilometri da Luanda,sulla costa, non c’è scampo per nessuno.

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A gennaio di quest’annol’impero della donna piùricca d’Africa, Isabel dosSantos, figlia del presidenteEduardo, crolla sotto i colpidi un’inchiesta giornalisticainternazionale. I LuandaLeaks svelano la fitta rete diilleciti finanziari a dannodel popolo angolano. Oggi ilPaese è impegnato acombattere la corruzione.Ma la povertà resta. »

di ILARIA DE [email protected]

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ATTUALITÀ

149esimo posto su un range di 186. Il48% della popolazione vive sotto lasoglia di povertà. Eppure il Paese è ric-chissimo di risorse.Ma la storia di Povoado è soprattuttosintomatica della gestione quantomenoarbitraria di Isabel dos Santos, figliadell’ex presidente Eduardo, al potereper 38 anni. La donna nel 2013 “sfratta”mille famiglie di pescatori dal villaggiolagunare di Areia Branca per costruircisopra un quartiere residenziale tramiteuna delle sue società commerciali, laUrbinveste.

GLI ILLECITI DI ISABEL DOS SANTOSPovoado, dalla parte opposta della la-guna, inizia così a popolarsi di famiglieche non hanno più casa e non sannodove andare. Da sette anni, 500 di loro,senza reddito e con molti figli, stannoancora lì. Nessuno ha provveduto aduna sistemazione più dignitosa. I bambinisi ammalano di febbre tifoidea, tuber-colosi e malaria, anche perché sguazzanotutto il giorno nel fango della paludepiena di immondizia.Da qualche mese a questa parte, però,la speranza si è riaccesa in Angola:l’impero di Isabel è crollato grazie aiLuanda Leaks, una grande inchiestagiornalistica condotta dall’InternationalConsortium of Investigative Journalists,che ha passato in rassegna oltre 700miladocumenti tra e-mail, lettere e fatturetra i diversi interlocutori. Portando alloscoperto le frodi fiscali (tra cui riciclaggiodi denaro sporco) della donna che èstata presidente della Sonangol, l’aziendapetrolifera di Stato. La dos Santos, ri-fugiata all’estero, oggi nega ogni accusa,ma il processo va avanti. Di recente ilPortogallo ha congelato i suoi conticorrenti.I Luanda Leaks sono stati «esplosivi»,svelando quello che tutti sapevanosenza avere le prove per dirlo. La sostanzadell’inchiesta è che padre e figlia hannoamministrato per anni il denaro pubblicocome se fosse il loro. Nel 2017 la So-nangol paga una cifra pari a 38 milioni

di dollari per una consulenza ad unasocietà di Dubai, di proprietà di unamico di famiglia. L’inchiesta ha sollevatoil velo che copriva tutta la rete deicomplici della famiglia al potere. Dasoli però i Luanda Leaks non bastano,perché non garantiscono né il rientrodei capitali sottratti, né il successivouso dei fondi pubblici a favore dell’interapopolazione angolana.

CORRUZIONE ENDEMICAÈ anche vero che il successore di dosSantos, Joao Lourenço, dal 2017 ha av-viato una massiccia campagna anti cor-ruzione, poiché in Angola, dicono attivistie giornalisti, la corruzione è endemicae non finisce certo con la donna piùricca d’Africa.Padre Tirso Blanco, vescovo di Lwena,

missionario salesiano argentino, da unavita a servizio della Chiesa in Angola, sibatte per una redistribuzione più equadelle risorse e di recente a VaticanNews ha dichiarato: «Noi esigiamo chechi è accusato di avere deviato i fondipubblici, li restituisca e si assuma la re-sponsabilità delle sue azioni, affinchéla nostra società possa vivere bene.Non è ammissibile che qualcuno si ap-propri di quello che è di tutti».La gestione personale delle ricchezzeimmense dell’Angola, con i suoi giaci-menti petroliferi in mare e le concessionidi esplorazione date alle maggiori oilcompany internazionali in cambio ditangenti, non è più accettabile.Padre Manuel Campbaje Lucas, salesiano,angolano di nascita, racconta al telefonoa Popoli e Missione che «la lotta alla

Veduta della capitale angolana.

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Corruzione in Angola

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è: “In difesa della democrazia, contro lacorruzione”.È notizia recente che il procuratore ge-nerale dell’Angola ha disposto in questesettimane il sequestro degli immobili diZango Zero. L’auspicio è che li usi perdare un’abitazione degna ai più poveri.Ma è molto più verosimile che gli ap-partamenti verranno venduti a dei privatistranieri. In effetti Luanda somiglia sem-pre di più alle città del Sud America: laparte moderna e lussuosa della capitale(che ha visto scoppiare un boom ediliziosenza precedenti nel periodo del piccopetrolifero, dopo il 2004) è in tuttosimile ad una ricca megalopoli occi-dentale. Grattacieli, hotel di lusso e pi-scine. Il nome più noto è Epic SanaHotel, un cinque stelle panoramico dovevanno a soggiornare gli uomini d’affaridi mezzo mondo.A raccontare anche visivamente, tramitefoto inequivocabili, la diseguaglianzatra ricchi e poveri a Luanda è il TheGuardian, con un reportage fotograficodel gennaio 2019 dal titolo “After theoil boom”. Proprio accanto a questiluoghi riservati al business dei com-mercianti di diamanti e petrolio, scriveil quotidiano britannico, ecco che siintravedono i barrios come Lixeira, Po-voado e molti altri. Anche i luoghi deldivertimento (le discoteche e i localipubblici per lo svago dei giovani) sononettamente separati tra ricchi e poveri.Una sorta di apartheid della povertà.Per altro il mercato degli immobili havisto crescere a dismisura i prezzi delmattone, tanto che Luanda è la cittàpiù costosa dell’Africa subsahariana.La prospettiva di cambiamento realenel Paese ancora una volta viene dalbasso: viene dai giovani che sono lastragrande maggioranza della popola-zione. Su 29 milioni e 780mila abitanti,l’80% ha meno di 30 anni. Come fanotare padre Victor Luis: «Questo è unPaese giovane e qui i ragazzi voglionostare, non vogliono emigrare. Restanoperché vogliono cambiare il Paese dal-l’interno».

corruzione ha di certo contribuito acreare un grosso cambiamento di men-talità nella gente: è come se adessotutti sapessero che l’impunità non esistepiù». Che perfino Isabel dos Santos,proprietaria di una decina di fondi diinvestimento e società offshore, puòessere processata per frode, esattamentecome chiunque altro si renda colpevoledi furto. E però, il passaggio tra la sco-perta degli illeciti, il ripristino di unagestione meno corrotta e una maggioreredistribuzione del reddito, è ancoralungo.«Noi percorriamo l’Angola da Nord aSud e da Est a Ovest – ci raccontanopadre Manuel e padre Victor Luis Sequeira,superiore dei salesiani a Luanda -. Ladifferenza tra ricchi e poveri qui è sempreevidente: c’è stato un tentativo di ri-

qualificazione dei barrios, delle periferie.Ma questo denaro è stato sempre dirottatoaltrove». Dove? Un esempio su tutti: ilquartiere di lusso Zango Zero e Kilamba,nei dintorni di Luanda, parte di un pro-getto di urbanizzazione avviato primadel 2015 dal China International Funddi Angola e Hong Kong, fondo di inve-stimento cinesi. Il quartiere (mai abitato,tanto che gli appartamenti di lusso sonovuoti) è stato finanziato con fondi pubbliciangolani, dunque sottratti alla riqualifi-cazione degli slum e alla spesa pubblica.A denunciare lo scandalo di Zango Zero,prima ancora dei Luanda Leaks, sonostate le organizzazioni per i diritti umani,la stampa internazionale e anche quellalocale, legata al noto giornalista d’in-chiesta Rapahel Marques, con il suoportale Maka Angola, il cui sottotitolo

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FOCUS Intervista a don Giuseppe Pizzoli

Un nuovo stile di formazione peri futuri diplomatici della SantaSede. Lo chiede papa Francesco

nella lettera al presidente della PontificiaAccademia ecclesiastica, monsignor Jo-seph Marino, resa nota il 17 febbraioscorso, in cui viene espresso «il desiderioche i sacerdoti che si preparano alservizio diplomatico della Santa Sedededichino un anno della loro formazioneall’impegno missionario presso una dio-

cesi delle Chiese particolari, al fine diformarli allo zelo apostolico per andarenei territori di confine, al di fuori dellapropria diocesi di origine». In questomodo «l’esperienza missionaria che sivuole promuovere tornerà utile nonsoltanto ai giovani accademici, ma anchealle singole Chiese con cui questi colla-boreranno e susciterà in altri sacerdotidella Chiesa universale il desiderio direndersi disponibili a svolgere un periododi servizio missionario». L’indicazionedel papa ribadisce l’importanza dellamissione come scuola formativa dalpunto di vista personale e pastorale,

perché i pastori vivano pienamente nelladimensione della “Chiesa in uscita”. Neabbiamo parlato con don Giuseppe Piz-zoli, direttore della Fondazione Missioche, con la sua esperienza di fidei donumin Brasile prima e in Guinea Bissau poi,ha acquisito una esperienza missionariaa 360 gradi. Spiega don Pizzoli: «La novità che papaFrancesco esprime in questa lettera ri-specchia una sensibilità comune all’in-terno della Chiesa, perché di fatto lavita dell’Accademia come quella nei Se-minari, è un po’ privilegiata, protettanon solo per quanto riguarda la quoti-

Tutti a scuoladi missioneTutti a scuoladi missione

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

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Lo dice papa Francesco in una lettera al presidentedella Pontificia Accademia ecclesiastica in cui siformano i nuovi nunzi apostolici. Un anno diesperienza missionaria in una parrocchia di unaChiesa locale, permetterà di entrare in contatto con lavita della gente a cui si porta l’annuncio del Vangelo,partecipando alla quotidiana attività evangelizzatrice.Una rivoluzione che cambierà lo stile pastorale, comespiega don Giuseppe Pizzoli, direttore di Missio.

dianità, ma anche per l’ambiente e ilinguaggi particolari molto tecnici especialistici che vengono usati. Di fatto,sono mondi separati dalla vita dellepersone, ambienti dove si vive l’ereditàdi una storia in cui era necessario sepa-rare il clero dalla gente e il clero venivaformato in condizioni specifiche. Dopoil Concilio Vaticano II, oggi, il ministeroci chiede di essere persone che sannosporcarsi le mani, che sanno andare inmezzo alla gente, dialogare con tutti inuna realtà che non è più di cristianitàgeneralizzata, ma è caratterizzata dallacompresenza di culture e tradizioni re-ligiose molto diverse, la cui convivenzasuscita problematiche complesse e difficilida affrontare. La formazione dunquedeve andare oltre un ambiente protettoe separato dalla realtà, oltre la dimen-sione di élite ristrette. Bisogna metterei candidati al servizio sacerdotale incondizione di conoscere e di aprirsi apersone, mentalità e culture diverse,imparando a relativizzare il proprio lin-guaggio per essere capaci di dialogarecon tutti».

LABORATORIO DI ESPERIENZEVera e propria scuola di vita, la missioneè uno straordinario laboratorio di crescitae di scoperte, come racconta di averevissuto in prima persona il direttore diMissio: «Quando si arriva in un »

I l 29 febbraio scorso è stato un giornoepocale per l’Afghanistan: le delegazioni

degli Stati Uniti e dei Talebani si sono incon-trate a Doha per firmare un trattato di pacedopo 18 anni di guerra, iniziata con GeorgeW. Bush e terminata con Donald Trump. GliUsa danno avvio così ad una exit strategymolto significativa: Washington ritirerà lesue truppe e quelle alleate dall'Afghanistanentro 14 mesi, ma in 135 giorni i militari sulcampo dovranno ridursi a 8.600.Nonostante l’iniziale clamore per la notizia,diversi analisti hanno fatto notare che il ritiroamericano non significa necessariamente lapace per il popolo afghano. Anzitutto, con-dizione necessaria perché gli americanilascino il Paese è una de-excalation dellaviolenza tra truppe governative e talebane.E finora, al contrario, la violenza è aumentataanziché diminuire. Il Segretario di Stato MikePompeo ha dichiarato: «La strada che abbiamodavanti è dura» e «l’impennata di violenzain alcune zone dell’Afghanistan è inaccetta-bile». Deve «finire subito» o il processo dipace non potrà andare avanti. Tra i nodi dasciogliere, c’è quello dello scambio dei pri-gionieri: il presidente Ashraf Ghani ha fattosapere che non è per niente scontata la libe-razione di cinquemila detenuti da parte diKabul, come vorrebbero gli americani. Ma èsoprattutto la spartizione futura del poteretra chi resta, a lasciare perplessi. I talebanisono ben agganciati alle istituzioni e alla so-cietà, hanno rafforzato le loro roccaforti,non demordono. In definitiva, una voltauscite le truppe Usa dal Paese, inizierà lavera partita, quella inter-afghana. Per la po-polazione stremata da 18 anni di conflitto,l’addio dei marines, anziché una liberazionepotrebbe rappresentare ulteriore insicurezzae morte. Ma la politica estera di Trump loimpone: già da tempo spinge per abbando-nare un ginepraio che non ha portato fruttoe che rischia di fargli perdere ulteriore con-senso.

di Ilaria De Bonis

IN AFGHANISTANPACE ANCORALONTANA

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTE

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FOCUSFOCUS

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S econdo l’Organizzazione mondiale dellasanità (Oms), un prodotto medicinale su

dieci (farmaci, vaccini) venduto nei Paesi abasso reddito è falso oppure non risponde aglistandard di qualità necessari, risultando quindiinefficace o dannoso. In Africa la percentuale dimedicine fasulle sul mercato sale al 42%, perun giro di affari di 200 miliardi di dollari all’anno.Le conseguenze sono drammaticamente pre-vedibili. L’Oms stima che solo nel 2015 in Africasubsahariana ben 122mila bambini sotto i cinqueanni sono morti perché gli antimalarici lorosomministrati erano di pessima qualità. In alcunenazioni la percentuale delle medicine false siattesta addirittura al 60%. I sistemi sanitari delcontinente sono estremamente vulnerabili perchénon ci sono investimenti sufficienti nella sanitàpubblica. Di conseguenza si è sviluppato ilsettore privato a cui possono accedere solopochi fortunati, che resta però disarmato difronte a grandi emergenze come i contagi davirus. Quindi anche il sistema di controllo deimedicinali è inadeguato ai compiti: questo èinfatti un settore che richiede competenze emezzi, aggiornamento continuo.Anche il sistema europeo fatica a stare dietroalle velocissime evoluzioni del mercato fasullodei farmaci. I prodotti falsificati arrivano daCina e India, ma anche da Europa e MedioOriente: un mercato ricco e interessante che datempo solletica gli appetiti della criminalità or-ganizzata.Le nazioni africane stanno prendendo coscienzadi questa brutta speculazione fatta sulle lorospalle. Per questo lo scorso gennaio in Togosette capi di Stato hanno firmato un documentopolitico comune per fermare il traffico di farmacifasulli. I presidenti si impegnano ad aumentarela detenzione in carcere (almeno dieci anni) aitrafficanti, ma anche ad applicare più rigidamentele leggi, in particolare la convenzione delConsiglio d’Europa che criminalizza come illecitipenali tutte le attività di produzione, commer-cializzazione e traffico di medicinali falsi oscadenti. Un primo passo per non vedere morirei propri cittadini uccisi da una speculazione realmente criminale.

FARMACI LOWPRICE FALSI

AFRICAOSSERVATORIO

di Enzo Nucci

Paese dove non si conosce la lingua,dove non ti puoi esprimere e farticapire, non conosci gli usi, i costumi,gli alimenti, tutta la vita concreta diogni giorno è completamente rivolu-zionata. Nella mia esperienza personalemi sono sentito costretto a ricominciareda zero. E questo mi ha portato a rela-tivizzare tutte le esperienze che avevoacquisito come parroco fino a primadi partire dall’Italia. Cominciare a co-struire un altro bagaglio di esperienzadentro una realtà completamente nuo-va, è un arricchimento straordinario,apre la mente e il cuore e permettel’incontro con la vita di ogni giorno.L’esperienza in missione è particolar-mente provocatoria e significativa inquesto senso e oggi per la formazionedei sacerdoti avviati a ricoprire ruolinelle nunziature apostoliche è più chemai importante. Nella multiforme evariegata realtà di oggi si rischia altri-menti di diventare dei burocrati staccatidalla quotidianità».Lo spiega chiaramente papa Francesconella lettera a monsignor Marino làdove sottolinea, rivolgendosi agli stu-denti dell’Accademia che «la missioneche un giorno sarete chiamati a svolgerevi porterà in tutte le parti del mondo.In Europa bisognosa di svegliarsi; inAfrica, assetata di riconciliazione; inAmerica Latina, affamata di nutrimentoe interiorità; in America del Nord,intenta a riscoprire le radici di un’identitàche non si definisce a partire dallaesclusione; in Asia e Oceania, sfidatedalla capacità di fermentare in diasporae dialogare con la vastità di cultureancestrali». Per affrontare queste sfide,occorre che i futuri diplomatici dellaSanta Sede acquisiscano oltre alla solidaformazione sacerdotale e pastorale «an-che una personale esperienza di missioneal di fuori della propria diocesi d’origine,condividendo con le Chiese missionarieun periodo di cammino insieme allaloro comunità, partecipando alla quo-tidiana attività evangelizzatrice».

NELLE PARROCCHIE DI PERIFERIAIl servizio di un anno presso una par-rocchia di periferia di New Delhi, diYaoundé, o di Manila, sarà un importantearricchimento del curriculum della for-mazione accademica che permetteràl’apprendimento di nuovi alfabeti perdialogare con culture e popoli. Un cam-biamento profondo come spiega donPizzoli: «Quando un seminarista o unostudente dell’Accademia finisce gli studi,prova la tentazione di sentirsi maestro.Ha terminato il suo percorso di forma-zione, ha studiato tutto, sa già tutto eha solo da insegnare. Ma questo nella

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A l 1° marzo si contavano 555 persone infetteda Coronavirus nelle prigioni cinesi. A ri-

portare la notizia sono state le stesse autoritàgovernative, generando ulteriore preoccupazionetra i familiari dei carcerati. Come spiegato daAlice Su ed Emily Baumgaertner sul Los AngelesTimes, l’affollamento delle celle, la promiscuitàe le scarse condizioni igieniche creano un am-biente ideale per il contagio. Alcuni parenti, in-tervistati dalle giornaliste, non sanno se i lorocari sono malati o sani, vivi o morti. Soprattutto,quando si tratta di “prigionieri politici”, comedifensori dei diritti umani, attivisti ambientali,religiosi, dissidenti e più di un milione di Uiguri,ovvero membri della minoranza musulmanaperseguitata che abita nella regione occidentaledello Xinjiang (vedi pag.35). Qui – mentrescriviamo – sarebbero 76 i contagi e due i de-ceduti.A causa delle condizioni di prigionia, si trattadi individui già fragili. Sono stati privati dellalibertà senza un processo, l’assistenza di unlegale e la possibilità di vedere i loro cari.Alcuni avrebbero subito maltrattamenti. Dimolti non si ha alcuna notizia. Deng Xiaoyun,moglie dell’avvocato Qin Yongpei, è disperata.Suo marito è stato arrestato per aver criticatola corruzione dei funzionari cinesi e aver dife-so dei contadini che protestavano contro l’in-quinamento provocato dalle attività minerariestatali a Yulin, nella provincia meridionale diGuangxi. Dopo aver saputo della diffusionedel COVID-19 «mi sono paralizzata», ha dettoDeng in un’intervista telefonica al Times.Anche la femminista Zheng Churan, mogliedel sindacalista Wei Zhili, recluso da un anno,ha twittato di essere «impazzita» dopo aversaputo delle infezioni nelle carceri.E poi ci sono gli Uiguri e gli altri gruppi dimusulmani. Secondo le Nazioni Unite, un milio-ne è internato in campi, nonostante le smentitedi Pechino. E più di 80mila lavoratori, in baseall’indagine di un think tank australiano, sareb-bero stati trasferiti in massa e impiegati a forzain decine di multinazionali. Chi sta vigilando suiloro spostamenti e sulla loro salute?

di Francesca Lancini

CORONAVIRUS NELLEPRIGIONI CINESI

OSSERVATORIO

ASIA

POPOL I E M I SS I ONE - A P R I L E 2 0 2 0

Intervista a don Giuseppe Pizzoli

alunni, discepoli, mai maestri. Abbiamotante cose da condividere, ma mai soloda insegnare».

UNA RIVOLUZIONE CHE VIENE DA LONTANOSi tratta dunque di una rivoluzionepastorale? Don Pizzoli risponde con-vinto: «Sì, anche dal punto di vistadella formazione è importante chetutti i sacerdoti siano impegnati allostesso modo nell’essere servitori delVangelo. Un impegno che deve esserecomune al parroco di periferia comeal nunzio apostolico che si interfacciacon le diplomazie internazionali. Questoporterà ad un cambio di mentalitàdove, al di là dei piani gerarchici, sitratta di maturare meglio e con piùefficacia lo spirito del Concilio. Nondobbiamo assumere onori ma accettareoneri». E ancora, questa rivoluzione sembrapartire da lontano, dall’Amazzonia edal Sinodo a lei dedicato dopo cui,come scrive nella lettera il papa stesso,«ho manifestato il desiderio che i sa-cerdoti che si preparano al Servizio di-plomatico della Santa Sede dedichinoun anno della loro formazione all’im-pegno missionario presso una diocesi».Certo è che con la chiusura di questostorico evento di Chiesa «siamo entratiin una nuova stagione della Chiesa dovela pastorale è fortemente improntataalla missione - conclude don Pizzoli -.Dopo il Sinodo anche chi si sentiva an-corato a certe modalità tradizionali sista interrogando su come portare avantila missione della Chiesa in un mondocosì travagliato e carico di problematiche.Quella dell’Amazzonia diventa una sfidaemblematica, una scuola per tutto ilresto della Chiesa. Aspettavamo i cam-biamenti che sono emersi dal Sinodo.Prendere uno dei luoghi più dimenticatidel mondo come misura della Chiesauniversale è un gesto rivoluzionario neifatti che spinge tutti ad un cambiamentodi mentalità».

realtà del mondo di oggi non funziona.Il fatto di fare una esperienza nelleperiferie del mondo costringe ad unarevisione dei propri linguaggi, perchéin ambito missionario l’imperativo pri-mario è l’annuncio del Vangelo incarnatoproprio in quella cultura e in quellarealtà locale. Costringe a dire: “Ho im-parato tanto, ma non ho imparatotutto. Non sono un maestro per glialtri, devo ancora imparare tante cosedella vita quotidiana della gente diculture differenti”. E questo allarga no-tevolmente gli orizzonti. Oggi più chein passato è importante sentirsi sempre

Don Giuseppe Pizzoli,direttore di Missio.

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SCENARI

migliaia di zombie che popolano lestrade di San Paolo, la città più grandedel Sud America. Sono tanti i preti distrada in America Latina, a cominciaredall’oramai celebre padre Pepe (José

F rancesco, il papa che arriva “dallafine del mondo”, lo raccomandasin dal primo giorno di pontificato

ai suoi sacerdoti, pastori di Cristo finoagli estremi confini della Terra: «Mi-schiatevi al vostro gregge sino a puzzaredi pecora». Fa bene perché se non cifossero i “preti di strada” in Sud America«le cose per noi povera gente andrebberomolto peggio», chiarisce Eliseu, uno deitanti ex tossicodipendenti salvati proprioda un prete di strada, un sacerdote chepassa le sue giornate a cercare di salvare

Padre Gianpietro Carraro,originario del Veneto, da 25 anni svolge la suamissione a San Paolo, Brasile.

Preti coraggio portanoil Vangelo in strada

Maria Di Paola è il suo nome) che ilSanto Padre conosce molto bene perché,quando era arcivescovo di Buenos Aires,con lui e con altri curas villeros (i pretidelle villas, così in Argentina si chiamano

Padre Pepe in Argentina, padre Gianpietro inBrasile, ma anche suor Maria tra itossicodipendenti di San Paolo e fra NelsonSandoval, che vive con gli indigeni dell’etnia Yukpadi El Tukuko, in Venezuela: voci di pastorisconosciuti e instancabili che accompagnano gliultimi per portare la speranza del Vangelo.

di PAOLO [email protected]

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le favelas) andava a confortare i corpie le anime delle persone più dimenticatedalle istituzioni della capitale argentina.A conferma di come siano proprio loroi pastori prediletti dal papa, a fine gen-naio scorso è arrivata la nomina comesuo segretario personale dell’uruguayanoGonzalo Aemilius, che da 15 anni aMontevideo aiutava i bambini senzatetto e, sovente, abusati e finiti neltunnel del paco, come in Uruguay èchiamato il micidiale crack.Insieme ai noti padre Pepe e padreGonzalo, sono oltre un migliaio i sa-cerdoti sconosciuti che, in ogni angolodel continente sudamericano, ogni gior-no sfidano narcos ed istituzioni spessocorrotte e quasi sempre assenti, perdare una mano agli ultimi degli ultimi.

MINACCIATO DAI NARCOSUno di questi è Gianpietro Carraro,57enne parroco veneto che in 25 annidi missione in strada ha salvato circa100mila tossicodipendenti andandoliletteralmente a prendere nei tanti “tun-nel della morte” che ci sono a SanPaolo e nel resto del Brasile. In qualsiasialtro Paese sarebbe con-siderato un eroe, mentrequi è quasi tollerato dachi detiene il potere. Dalleautorità politiche chepromettono sempre senzamai mantenere, alla po-lizia che lo accusa di«proteggere la feccia».Per non dire dei narcosche non di rado lo mi-nacciano perché «troppoimpegnato nelle comu-nità», come politici e me-dia hanno ribattezzatole favelas.Padre Carraro non ama iriflettori ma, da quandonel 1987 è stato ordinatoprete, è un vero leonequando si tratta di salvarele vite di chi è emarginato

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Padre Carraro con alcuni ospitidi “Betlemme”, la missione dalui fondata che cura oltreduemila tossicodipendenti.

quali terminali, uomini e donne ridotticome larve, di cui il sistema sanitariobrasiliano non ha né tempo né vogliadi occuparsi.

SCHIAVI DEL CRACKSiamo nella favela del Belenzinho, chetradotto in italiano sta per “PiccolaBetlemme”, un paradosso visto l’am-biente circostante. Il nome è in realtàun programma di pace ed è per questoche padre Gianpietro ha battezzato“Betlemme” la sua missione (MissãoBelém) che, ogni giorno, manda instrada decine di volontari e ospita nellesue strutture oltre duemila disperatidella droga. Un quarto di loro vienecurato per sifilide, tubercolosi, Aids,tifo e lebbra, ma anche da ferite dataglio o da arma da fuoco, tutte lemalattie insomma che colpiscono chiper un pezzo di pedra - la “pietra” dicrack, un composto di scarti della co-caina con sostanze chimiche letali - èdisposto a fare qualsiasi cosa.Padre Gianpietro racconta con serenitàla sua missione con il sorriso sulle labbrae sul naso un paio di occhialini che »

Tra i disperati delle favelas in America Latina

e povero in Brasile. Cammina sveltomentre denuncia la connivenza delloStato brasiliano con i narcos. Nellazona di San Paolo dove 25 anni fa haavuto la “folle” idea di aprire la suamissione, incrociamo un’auto della po-lizia di pattuglia che vigila, mentre aneanche 150 metri di distanza ci sonoalmeno “cinque bocche di fumo”, unain fila all’altra. Li chiamano così daqueste parti i supermercati illegali eda cielo aperto della droga, “il fumo”per l’appunto. Si tratta di portoni dovechi vuole lo sballo del fine settimana odel “dia a dia”, sa che con una voce eduna manciata di reais (la moneta bra-siliana che vale un quinto dell’euro)può trovare non solo marijuana e ha-shish in quantità, ma anche e soprat-tutto la terribile pedra, il crack in ver-sione samba. Basta inalare questa drogauna volta per rovinarsi tutta la vitaperché dà un’assuefazione immediata:«È un orgasmo mortale, da cui perònon c’è quasi mai ritorno» raccontapadre Gianpietro, mentre ci fa vederel’ospedale dove, ogni giorno, si fa caricodi 500 “ammalati da droga”, molti dei

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Tra i disperati delle favelas in America Latina

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SCENARI

uccise, lui tentò di vendicarsi, accecatodall’odio, entrando nel giro del piccolospaccio. Lo arrestarono quasi subito ma,come spesso accade in Brasile, fu proprioil carcere la scuola dove ha imparatotutto ciò di cui aveva bisogno per di-ventare «un criminale di livello sulmercato brasiliano degli stupefacenti».

FRA NELSON E GLI YUKPAStrana gente, preti e suore di strada.Come il frate cappuccino Nelson San-doval, 49enne che da tre lustri vive congli indigeni dell’etnia Yukpa di El Tukuko,una comunità montana del Venezuela,vicina al confine con la Colombia. Quisopravvivono tra stenti indicibili, quasiquattromila indios, poverissimi e di-

sanno più di Gramsci che di prete abituatoa sporcarsi quotidianamente le manicon le miserie che la società brasilianafa sempre più fatica ad ignorare. Piace-rebbe un sacco a papa Francesco padreGianpietro che fa ciò che fa perché, as-sicura, «ricevo più di quanto do».

SUOR MARIA NEL TUNNEL DELLA MORTEStrana razza questi preti coraggiosi eanche le suore, come ad esempio Mariada San Bernardo do Campo, classe me-dio-alta, una laurea quasi in mano. Lei èuna suora di strada che ogni sera va coni mezzi pubblici nel centro di San Paolo,entra nel tunnel della morte armatasolo di un crocifisso e di un sorriso percercare di convincere chi si fa di crack,chi si prostituisce o accoltella per rubarepochi spiccioli, a farsi curare dalla MissioneBetlemme. «Abbiamo dormito per unmese in strada con loro ed è stato bel-lissimo – spiega -. Certo ho perso seichili e per lavarmi usavo i servizi dei barintorno a Piazza da Sé che gentilmentece li concedevano. Riuscire a convincereanche solo una di queste persone chehanno perso ogni dignità a farsi curareed incontrare il Signore, non ha prez-zo».«Qui tutto va avanti esclusivamentegrazie alla Provvidenza e alle forze deivolontari» spiega padre Carraro mentremi presenta Eliseu che, come molti vo-lontari che aiutano padre Gianpietro,riesce a capire chi fuma la pietra e,dunque, ad aiutarlo perché ci è passatolui stesso, anche se «sono nove anni chenon uso più il crack», dice. Eliseu non èun ex tossicodipendente qualsiasi. Suofratello era un piccolo trafficante didroga e quando una gang rivale lo

A fianco:

Nelson Sandoval, fratecappuccino, da 15 anni

vive con gli indigenidell’etnia Yukpa.

menticati dal governo di Caracas. «Daanni lo Stato ha smesso di fare la disin-festazione contro le zanzare - denunciapadre Nelson - e per questo è tornatala malaria». Se non ci fosse lui che dàda mangiare ai nostri 716 bambini cheogni giorno vanno alla scuola della mis-sione, «i nostri figli sarebbero già mortidi fame», denunciano gli indigeni Yupka,che difendono a spada tratta padreNelson, minacciato sempre più spessodal regime venezuelano per la sua azioneumanitaria apartitica. «Io non ho paurama, da frate cattolico che vive la realtàal fianco della povera gente di questaparte del Venezuela, non posso taceredi fronte alle ingiustizie di chi governae vive nel lusso più sfrenato».

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gna al gesto delle mani giunte, detto “anjali”. In Occi-

dente, è noto per via dello yoga ma, insieme all’inchi-

no della cultura Thai, potrebbe diventare un’alternati-

va alle forme di contatto che ci mettono più a rischio.

Alla stessa stregua, anche il mondo arabo e musulma-

no, con il suo “As-salam alaykum” (“la pace sia su di

voi”), non contempla fisicità con l’interlocutore. Nella ver-

sione completa, la mano tocca, in successione, il tora-

ce, le labbra e la parte centrale della fronte, come a dire:

“Ti offro il mio cuore, la mia anima e il mio pensiero”.

Ci sono poi, per contrasto, i baci e gli abbracci dei rus-

si e gli inchini dei giapponesi con mani ed occhi abbas-

sati. E, per sdrammatizzare, la nuova moda “salutista”

che sta spopolando tra i ragazzi in America e Inghilter-

ra: il “fiat bump”, cioè il saluto pugno contro pugno. Se-

condo una ricerca britannica, sembra che il trasferimen-

to di batteri da una mano all’altra si riduca del 90%, per-

ché «la zona di contatto è ridotta e il gesto è molto più

rapido». Ma la verità è che, ora più che mai, avremmo

tutti bisogno di guardarci negli occhi e dirci, come in Su-

dafrica fra le tribù del Natal, “Sawubona”: «Ti vedo in

tutta la tua realtà, con i tuoi bisogni e le tue paure. E

sei parte di me».

di Loredana Brigante

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Abbracci, inchini e paura del virus

MO(n)DI DI FARECi sono gesti che apronomondi: di valori,atteggiamenti, approccialla vita. Approfondiamo modi difare diversi, attraversandopopoli e culture deicinque continenti eattingendo all’esperienzadiretta di persone delluogo, missionari,volontari, migranti.

I n tempi di Coronavirus, anche il modo di salutarsi nel

mondo sta cambiando. Da più parti, infatti, si consi-

glia di mantenere le distanze e si ricorre ad altre con-

suetudini o se ne inventano di nuove. Ma come si sa-

lutano le persone nelle varie culture, a prescindere da

un virus? Riuscirà la paura del contagio a sconvolge-

re abitudini e tradizioni che, da secoli, caratterizzano

tanti popoli?

C’è da premettere che, con le nuove disposizioni, la

maggior parte dei saluti sarebbe bandita dal buonsen-

so, come per esempio l’usanza degli Inuit di sfregarsi

il naso o quella dei Maori di premere fronte e naso ver-

so il viso di un’altra persona, mescolando l’Ha, il “sof-

fio vitale”. Un benvenuto speciale della Nuova Zelan-

da chiamato “Hongi”, che ha un’origine divina ma, in que-

sto periodo, farebbe scappare chiunque al grido di «un-

tore».

Stride di meno ma è dentro l’impasse il lungo abbrac-

cio africano o l’atto di porgere all’altro la mano destra,

accompagnandola con la sinistra sotto il gomito. Un ap-

proccio interessante è quello legato alla parola Nama-

stè che, tradotta dal sanscrito, significa “io mi inchino

a te”: un antichissimo saluto indiano che si accompa-

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L’enorme nuvolanera sbatte le alisull’AfricaN el libro dell’Esodo si racconta la partenza degli Ebrei dal-

l’Egitto dove erano tenuti in schiavitù. Al faraone, che nonintendeva lasciare libero il popolo di Davide, Dio inviò 10pesanti avvertimenti tra i quali quello dell’arrivo di una invasionedi cavallette o locuste, che dir si voglia. La paura per quelpiccolo insetto da sempre ha coinvolto i popoli del pianeta. Unrecente studio internazionale, pubblicato sulla rivista Science

dalle Università britanniche di Oxford e Cambridge e da quellaaustraliana di Sidney, ha rilevato che le pacifiche cavallette incaso di scarsità di cibo, quando si trovano a dividere con lealtre lo stesso spazio e le risorse sono insufficienti, subisconouna vera e propria trasformazione. Nel loro organismo siverifica un forte aumento di serotonina e questa agisce afondo sul sistema nervoso. Il fenomeno allora trasforma gliinnocui insetti solitari e li spinge a creare enormi sciamicomposti da decine di migliaia di unità che spostandosidivorano qualsiasi raccolto incontrino sulla propria strada.Negli ultimi anni sono stati colpiti da invasioni di locuste laCina, gli Stati Uniti e ampi spazi di campagna australiana.Da alcuni mesi un vero e proprio ciclone di locuste ha divoratoi raccolti in Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Kenya e Uganda,ed il flagello ora sta arrivando in Sud Sudan. Poi, spinte da

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A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di ROBERTO BÀ[email protected]

Invasione di locuste in unvillaggio Samburu, Kenya.

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L’INVASIONE DELLE LOCUSTE

venti favorevoli, sciami di locuste, dopo un viaggio di 300 chi-lometri, hanno toccato la sponda occidentale del Lago Albertovicino a Bunia, nella Repubblica Democratica del Congo, Paesedal quale erano sparite nel lontanissimo 1944. Altre schiere dicavallette hanno raggiunto Qatar, Bahrein e Kuwait e sicominciano a vedere in Iraq, nell’area di Bassora. I fameliciinsetti, inoltre, dopo aver attraversato il Golfo Persico, hannotoccato l’Iran. Intanto da Est, provenienti da India e Pakistan, lelocuste con una manovra a tenaglia si stanno dirigendo versoil Paese degli ayatollah e nello stesso tempo minacciano laCina.Daniele Donati della Fao ha spiegato: «Uno sciame può essereestremamente vorace. Una piccola moltitudine di un solo chi-lometro quadrato può arrivare a consumare il cibo per 35milapersone. In Kenya, per esempio, è stato individuato uno sciame

di 40 per 60 chilometri di lato, ovvero una massa di 2.400 chi-lometri quadrati, che ha il tasso di consumo di 85 milioni dipersone in un pasto. Come la Germania».Gli insaziabili insetti divorano qualunque cosa nasca dallaterra, dalla semplice erbetta alle foglie degli alberi e naturalmentealle coltivazioni. Insomma, qualunque cosa sia commestibilefinisce nelle loro mandibole. Tra i motivi dell’infestazione la de-sertificazione determinata dai mutamenti climatici. FedericaFerrario, responsabile della Campagna Agricoltura di Greenpeace,ha detto che le conseguenze dei danni ambientali «sono unadelle cause scatenanti che ha fatto aumentare la frequenza el’ampiezza di simili catastrofi». «La diversa disponibilità d’acquae l’umidità - ha aggiunto la dirigente ambientalista - hanno per-messo alle locuste di riprodursi in maniera più repentina e ab-bondante, nonché di spostarsi in maniera molto veloce.

23POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

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Sciame di cavallettesugli arbusti degli alberi.

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Sfruttando il vento riescono a percorrere in un solo giornoanche 150 chilometri. Se riescono a trovare altre zone con di-sponibilità idrica e vegetazione per nutrirsi e trovare un riparo,continuano a riprodursi».Ed infatti la situazione del clima è l’elemento centrale dal qualederiva la profonda insicurezza alimentare nel Corno d’Africa enon solo. L’anno scorso, tra marzo e la metà di maggio, leprecipitazioni sono state inferiori del 50% rispetto alla media

annuale nella regione e le forti piogge che si sono scatenatesuccessivamente, provocando inondazioni, hanno avuto unimpatto su quasi 2,8 milioni di persone in Etiopia, Kenya eSomalia colpendo e distruggendo ampie aree coltivate.Così in Etiopia, Kenya, Somalia e Sudan dieci milioni di personegià provate dalla crisi dell’agricoltura, adesso si trovano adover subire anche l’attacco delle cavallette. A loro si aggiungonoaltri 3,24 milioni di persone in Uganda e in Sud Sudan, oltre ad

S C A T T I D A L M O N D O

24 POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

Un uomo tenta di catturare locuste suun tetto a Sanaa, capitale dello Yemen.

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altre decine di migliaia negli altri Paesi colpiti dagli sciami. LaFao ha di recente calcolato che gli insetti in azione nel soloCorno d’Africa sono tra i 100 e i 200 miliardi di esemplari. Sitratta della peggiore invasione degli ultimi 25 anni. Mentre igoverni interessati hanno messo in campo anche i militari percombattere gli sciami, è fondamentale la mobilitazione deidonatori internazionali, ovvero dei Paesi ricchi. Come sempre,però, l’Occidente è passivo e l’Onu, fino a febbraio scorso,

aveva ricevuto solo 21 milioni dei 76 richiesti, necessari persradicare le locuste. La Cina, intanto, già impegnata contro ilCoronavirus, prevedendo l’avanzata verso Oriente delle locuste,ha deciso di opporre ai voraci insetti un singolare esercito. Letruppe di questa “forza di contenimento speciale” sarannocomposte da 100mila anatre che sono state inviate in Pakistan,prima che le cavallette riescano a raggiungere la provincia delloXinjiang. Quando alla natura si oppone la natura stessa.

L’INVASIONE DELLE LOCUSTE

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Soldati delle Forze di difesa popolaredell’Uganda (UPDF) spruzzano insetticidi suglialberi per arginare l’invasione delle locuste.

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Shaima era una giovane donna fuggita dal conflitto siriano e ri-parata, come migliaia di altri connazionali, in un campo pro-

fughi libanese. Navigando su un canale social conosce un ragaz-zo turco, i due si scrivono, iniziano una relazione a distanza chesfocia in una richiesta di matrimonio. Lui le manda dei soldi e ar-riva in Libano per incontrarla, segue lo sposalizio, cui partecipatutto il campo, e la luna di miele in Turchia. Di Shaima, a questopunto, si perdono le tracce. Sarà ritrovata solo un anno dopo, ca-davere e senza gli organi interni. Questa storia, simile a quella dichissà quante altre, è raccontata nel documentario “Wells of hope”(Fonti di speranza), prodotto da Aurora Vision (una società di co-municazione nata per fare spazio alle buone notizie e ai progettipositivi) con la regia di Lia Giovanazzi Beltrami. In un continuo ri-mando tra frammenti della storia di Shaima e le attività della retecontro la tratta Talitha Kum, il documentario presenta, in un linguag-gio semplice e volutamente comprensibile in ogni contesto cul-

Simile a quella di chissà quantealtre giovani donne, la storia diShaima è raccontata neldocumentario “Wells of hope”(Fonti di speranza). Un film per raccontare una piagadel nostro tempo che vedeimpegnate molte missionarie a fianco delle vittime.

Storia di Shaima,la sposa scomparsa

Nella foto le attiviste di Wells of hope,Esra' Ali Salameh, Alsheyab, NassimAlwan, Wafa Aqeel Saleem Almakhamrehe suor Marie Claude Naddaf.

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27POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

turale e religioso, questa grande piaga delnostro tempo.«Una piaga alla quale le donne non voglio-no sottostare e contro la quale si unisco-no a dispetto delle culture e delle religio-ni – spiega suor Gabriella Bottani, coor-dinatrice di Talitha Kum -. Il Bacino del Me-diterraneo è un luogo di incontro e noi sia-mo convinte che proprio l’incontro tra lediversità, e le relazioni di fiducia, siano labase per seminare gesti concreti di spe-ranza per tante donne, bambini e uominitrafficati e sfruttati in questa regione».Esra’a, Wafa e Nassim, le tre attiviste diWells of hope (che è anche una delle retipartner di Talitha Kum) protagoniste del do-cumentario, sono donne cristiane e mu-sulmane, che sono uscite allo scoperto,che non hanno avuto paura, che hanno ilcoraggio di parlare e raccontare. «I rac-conti entrano dovunque senza passa-porto – spiega Nassim -, nelle case e nel-la testa della gente. Per questo facciamoconoscere le storie di sofferenza, per sen-sibilizzare e radicarci sempre di più nei ter-ritori. Solo così potremo sconfiggere que-sta piaga dell’umanità».Focalizzare il fenomeno della tratta è »

Nella foto da sinistra: Padre Fabio Baggio, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiatidel Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, suor Gabriella Bottani,coordinatrice di Talitha Kum, suor Marie Claude Naddaf, coordinatrice di Wells of Hope eLia Giovanazzi Beltrami, regista del documentario.

“T alitha Kum” - Fanciulla, io tidico, alzati - sono le parole

che Gesù rivolge alla figlia di Giairo, labambina che giaceva, apparente-mente, senza vita, e sono quelle chela Rete Internazionale della Vita Con-sacrata contro la Tratta di Persone haassunto come nome e per definire lapropria identità. Nata nel 2009 su ini-ziativa dell’Unione Internazionaledelle Superiori Generali (UISG), e daldesiderio condiviso di coordinare erafforzare le attività contro la tratta,Talitha Kum è, in realtà, una rete di al-tre 52 reti organizzate differente-mente, a seconda del contesto in cui

si trovano ad operare, ma sempre nel rispetto della persona e delle culture: 10 in Africa,17 nelle Americhe, 15 in Asia, otto in Europa e due in Oceania. Oltre duemila le religiose,i religiosi e i laici che vi collaborano. Obiettivo primario quello di «restituire il profondodesiderio di dignità e di vita assopito e ferito dalle tante forme di sfruttamento». Propo-sito che viene realizzato promuovendo la collaborazione tra persone consacrate e altreorganizzazioni sociali, religiose e politiche a livello nazionale ed internazionale; rafforzandoazioni ed iniziative esistenti; ottimizzando le risorse per promuovere azioni di prevenzione,sensibilizzazione, protezione, assistenza e denuncia della tratta; sviluppando programmieducativi e di presa di coscienza su questo fenomeno; compiendo azioni profetiche, de-nunciando le cause dello sfruttamento della vita a fini economici e la tratta di persone epromuovendo campagne per il cambiamento della mentalità e di abitudini. Altre infor-mazioni su www.talithakum.info M.A.

La fanciulla è riuscita a rialzarsi

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Il business degli invisibili

Secondo l’Organizzazione Internazionale delLavoro (OIL) e l’Ufficio delle Nazioni Unite

Contro la Droga e il Crimine (UNODC), sonooltre 21 milioni le persone, spesso povere e vul-nerabili, vittime di tratta a scopo di sfruttamen-to sessuale o lavoro forzato, espianto di organi,accattonaggio, adozione illegale, servitù dome-stica, matrimonio forzato, maternità surrogata outero in affitto e altre forme di sfruttamento. Ilfenomeno rende complessivamente 34 miliardi di dollari l’anno ed è il terzo businesspiù redditizio, dopo il traffico di armi e di droga.La tratta di persone riguarda, di fatto, ogni nazione e si stima che, ogni anno, ne venga-no trafficate da 700mila a due milioni. Oltre a tante iniziative concrete, dal 2015, l’Unionedelle Superiore e dei Superiori Generali degli Istituti Religiosi ha promosso la “Giornatadi preghiera e riflessione contro la tratta di persone” che si celebra l’8 febbraio, memo-ria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, la suora sudanese che da bambina fece, inprima persona, la drammatica esperienza di essere venduta come schiava. M.A.

principale gruppo dirischio a causa dellaloro vulnerabilità, del-le risorse economi-che limitate e dellapredominanza di que-sto gruppo nei lavoriirregolari “invisibili”.Le persone più a ri-schio provengono dafamiglie impoverite o abasso reddito, dallezone rurali o dai quar-tieri poveri delle città.Altre categorie a ri-schio sono le mino-ranze etniche, gli esu-

li, gli emigrati clandestini, gli analfabeti, lepersone con un basso livello di istruzione,le adolescenti scappate di casa o le ragaz-ze dalle quali le famiglie si aspettano uncontributo economico, le persone chenon conoscono i propri diritti e che non sirendono conto di essere in condizioni disfruttamento.

cosa ardua, perché è complesso circoscri-verne i confini e identificare le vittime. «Sedalla visione della tratta in senso stretto ciallarghiamo a considerare lo sfruttamen-to, la cifra delle vittime supera di molto quel-la dei 20-25 milioni indicata dagli organi-smi delle Nazioni Unite», precisa suor Ga-briella. Di sicuro la tratta è in rapido aumen-to proprio nella regione del Mediterraneo,dove le guerre e le crisi economiche favo-riscono l’infiltrazione degli sfruttatori.«Realizzare “Wells of hope” non è stato fa-cile – racconta la regista Lia Beltrami – pervia del contesto geopolitico, la presenza diconflitti, la diversità di religioni e culture. Nonabbiamo potuto fare riprese in Libano e inSiria, e anche la delicatezza del tema del-la tratta ha precluso molte scene, obbligan-doci a scegliere una linea simbolica, dovela potenza delle immagini e della musicapotessero emozionare, comunque, lospettatore».Le storie narrate nel documentario voglio-no scuotere le coscienze, metterci a con-tatto con le ferite di una terra divenuta il«crocevia di un traffico disumano», spa-ventoso scenario di «rapimento, trasferi-mento e alloggio coatto» delle persone piùvulnerabili, in particolare donne e bambi-ni, intercettati anche da spietati traffican-

ti di organi. La distinzione forse è banalema, mentre i fenomeni migratori sono vo-lontari - anche se motivati da guerre o po-vertà -, la tratta è realizzata senza il con-senso degli individui e finalizzata al lorosfruttamento sessuale od economico, op-pure al prelievo degli organi.Le donne e i bambini costituiscono il

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POPOLI OPPRESSI

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Dimenticatidalla storia

UNA, MILLE, MILIONI DI PERSONE. TUTTE APPARTENENTI ALLO STESSOPOPOLO, TUTTE DESTINATE AD AFFRONTARE PROVE DURISSIME –PERSECUZIONI, FAME, ESODI, GUERRE – VISSUTE GENERAZIONE DOPOGENERAZIONE. APPARTENGONO ALLA FAMIGLIA UMANA MA SONOSEGNATI DA UN DESTINO MOLTO DIFFICILE. SONO I POPOLI OPPRESSICHE SOFFRONO SOTTO GLI OCCHI DISTRATTI DEL MONDO.

di Chiara [email protected]

e Ilaria De [email protected]

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di Ilaria De [email protected]

PERSEGUITATI PER MOTIVI ETNICI ED ECONOMICI, I COMPONENTIDEL POPOLO NANDE, NEL NORD KIVU, IN REPUBBLICADEMOCRATICA DEL CONGO, SONO IN PERENNE PERICOLO. UNMISSIONARIO COMBONIANO DENUNCIA LA VIOLENZA, RENDENDONOTO UN DOCUMENTO DELLA DIOCESI DI BUTEMBO-BENI IN CUI SIPARLA DI UN MASSACRO ANCORA IN CORSO.

L’ultima paziente malata di Ebola è stata dimessadall’ospedale di Beni, nel Nord Kivu, l’8 marzo

scorso. Il virus più temibile d’Africa sembra debellato.Non lo sono però le atrocità commesse dai gruppiarmati che imperversano nella stessa regione dellaRepubblica Democratica del Congo, da ben ottoanni. «Il popolo Nande è costantemente attaccatoda milizie paramilitari che fanno capo ad un gruppochiamato Adf, Forze Democratiche Alleate, di prove-nienza ugandese, guidate dal generale separatistaDelphin Kahimbi, che dal 2014 ha ucciso 2.700 per-sone. Io parlo di genocidio del popolo Nande, perchéqueste persone sono sistematicamente vittime e c’èuna volontà predeterminata di ucciderle». A raccontarcial telefono da Beni il destino quasi immutabile di unintero popolo perseguitato per motivi etnici, ma ancheeconomici (la regione è ricca di miniere d’oro ecoltan), è padre Gaspare Di Vincenzo, missionariocomboniano nella RDC.«Il 24 marzo Giornata di preghiera e digiuno per imissionari martiri – dice - qui nella diocesi di Butembo,celebriamo ogni anno una messa nella parrocchiadi Oicha, dove avvengono ancora oggi tremendimassacri. Scriviamo i nomi di tutte le vittime». Laloro missione è evangelica, ma anche di testimonianzadella realtà sul campo. La Chiesa vede, sa edenuncia. «Siamo vicini ai nostri fratelli e sorelle per toccare at-traverso di loro la carne di Cristo sofferente. Ai martirimissionari ormai ogni anno associamo anche i martiridi questo massacro etnico, e stiamo costruendo ungrande memoriale con un percorso di 15 stazioniche sono una vera Via Crucis, come educazionealla pace e alla riconciliazione» spiega il missionario.

Massacri pianificatiMa di riconciliare e faregiustizia ancora non siparla. Il governo sem-bra quasi assente e lamissione delle Nazioni Unite in Congo, la Monusco,come denuncia il missionario, «non ha o non vuoleusare la forza per contrastare questi ribelli. Cisentiamo soli, abbandonati. E la comunità interna-zionale ha grandi responsabilità».La storia dietro il massacro è surreale e più ingestibiledi una pandemia virale: in un dossier pubblicatodalla diocesi di Butembo si legge che «la popolazionecivile di Beni e Lubero è soggetta a massacri piani-ficati, assassinii mirati di individui influenti e rapimentiorchestrati ed eseguiti da stranieri, presumibilmenteribelli dell’Adf, un gruppo ugandese che opera suterritorio congolese in tutta impunità dal 1986».Dal 2012 ad oggi le sparizioni forzate - oltre 800persone sono state rapite e di loro non si sa piùnulla - e «le esecuzioni sommarie hanno gettatonella disperazione migliaia di famiglie congolesi,sotto gli occhi delle autorità militari e politico-ammi-nistrative del Congo» denuncia ancora il documentodella diocesi che è molto esplicito e non usa mezzitermini.

Gruppi armati e fondamentalismoMa perché proprio a Beni? Anzitutto, dice anche ilTerrorism Monitor di The Jamestown Foundation,istituto di analisi di Washington, Beni è vicina al Vi-runga National Park e alla foresta di Ituri e allemontagne di Rwenzori, luoghi selvatici e non sor-vegliati che sono diventati il quartier generale dell’Adfda decenni. Il gruppo armato affonda le sue radicinel Tabliqi Jama’at, un movimento islamico che di-chiarò di essere perseguitato politicamente già negli

I NANDE, POPOLO MARTIRE NEL NORD KIVU

Il carnage di Beni

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anni Novanta. Alcuni lasciarono in quegli anni lacapitale Kampala in Uganda per rivendicare deisupposti diritti all’interno di un movimento separatistache si era rifugiato sulle montagne Rwenzori. Ma imissionari comboniani assicurano che oggi non c’èalcun legame tra i gruppi armati e la religione. Ilmotivo non è religioso. Tant’è vero che nel mirino cisono anche cittadini di religione islamica. La perse-cuzione «è piuttosto politica ed economica» dicepadre Gaspare.Ai civili di etnia Nande vengono sottratte le terre ela casa: «E’ una vera espropriazione» che mira allaloro eliminazione fisica, probabilmente per usurparneil ruolo anche sociale.Beni è un Paese incredibilmente ricco di risorse,soprattutto oro e petrolio. Il popolo Nande, spiegaanche Ann Strimov Durbin, un magistrato che lavoracon The Jewish World Watch, ha usato questaterra promettente per eccellere nell’agricoltura enel commercio. Sono persone estremamente capacidi far fruttare un’economia legata alle miniere e allaterra e perciò sono finite nel mirino: le aree ruralicome quelle che fanno capo ai villaggi di Kamangoe Kakuka, sono abitate prevalentemente dai Nande.E i ribelli ugandesi vogliono appropriarsi delle riccheterre. Per poter usare sia il suolo, sia soprattutto ilsottosuolo.

Un popolo apolidePer rafforzare e proteggere la loro realtà economica,conquistata a duro prezzo, i Nande, pur essendoun popolo autoctono originariamente apolide, si

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sono integrati nella vita sociale della RepubblicaDemocratica del Congo: sia nel tessuto della societàcivile, delle ong locali e della Chiesa cattolica, sianell’ambito dell’istruzione, scuola superiore e uni-versità. E nella pubblica amministrazione. Hannooccupato posizioni strategiche di governo sotto ilregime di Mobutu. «Li vogliono eliminare perchéhanno avuto successo e le loro terre sono le piùredditizie – spiega padre Gaspare – e perché l’eco-nomia è al primo posto».La passività delle Nazioni Unite rispetto ai massacriè stata denunciata anche dal vescovo di Beni,monsignor Melchizedek Paluku Sikuli, qualchetempo fa a Vatican News: «Come è possibile cheuna simile strage avvenga sotto gli occhi di un im-ponente dispiegamento delle forze armate e unamassiccia presenza della Monusco?».Ma il silenzio della comunità internazionale è «lacosa che fa più male», dice oggi padre Gaspare.La Chiesa congolese più volte ha denunciato gli in-teressi dietro questa guerra strisciante nel NordKivu: il 20 marzo 2016 è stato assassinato padreVincent Machozi, sacerdote assunzionista congolese,che stava preparando un dossier sui massacri. Imissionari di Beni sanno che anche loro non sonoal sicuro e che di fatto rischiano la vita, ancheperché molti religiosi sono stati rapiti in questi anni,eppure continuano a denunciare la violenza. Oggila Chiesa è il testimone più credibile e anche il piùtenace nella Repubblica Democratica del Congo.

Il ritrovamento, nei pressi di Beni,del corpo di una vittima delleForze Democratiche Alleate (Adf).

Sfollati congolesi in fuga dagli attacchi dell'Adf.

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NON SI PUÒ PARLARE DI POPOLOPALESTINESE SENZA AFFIANCARGLIENE UNALTRO, QUELLO ISRAELIANO. SÌ, PERCHÉCIÒ CHE DA OLTRE 70 ANNI SI PERPETRANELLA TERRA DI GESÙ, COME SE NON CIFOSSE UNA SOLUZIONE, NON PUÒ ESSERECOMPRESO SE NON SI TORNA AL VULNUSDA CUI TUTTO HA AVUTO ORIGINE: QUELCONFLITTO IRRISOLTO CHE TANTIDEFINISCONO LA MADRE DI TUTTE LEGUERRE DEL MEDIO ORIENTE (E NONSOLO) E CHE COSTRINGE UN POPOLO AVIVERE SU UN FAZZOLETTO DI TERRACIRCONDATO DA UN MURO INVALICABILE.CON TUTTO QUELLO CHE NE CONSEGUE.

contesa nei millenni. Ma occorre considerare anchela sua unica posizione che la rende protagonista,insieme al resto della regione, di una situazione diattualità che persiste da oltre 70 anni.Fu, infatti, nel 1948 che le Nazioni Unite deciserola fondazione di due Stati, quello israeliano e quello

palestinese, nell’area chia-mata “Palestina storica”,fino a quel momento pro-tettorato inglese. Tale de-cisione fu il vulnus da cui ilconflitto ha avuto inizio etutt’oggi persiste, costrin-gendo il popolo palestinesea vivere su un fazzoletto diterra circondato da un muroinvalicabile. Con tutto quelloche ne consegue. Sì, per-ché i Paesi arabi limitrofinon accettarono questasuddivisione territoriale, nériconobbero la nascita deidue Stati: quello di Israelenacque comunque; quellodi Palestina no e gli arabi

L’OPPRESSIONE DEL POPOLO PALESTINESE

di Chiara [email protected]

«S e ci sarà pace a Gerusalemme, ci saràpace in tutto il mondo». Lo ripeteva spesso

il cardinale Carlo Maria Martini, nelle interviste cherilasciava o negli incontri che concedeva ai gruppidi pellegrini che gli facevano visita al PontificioIstituto Biblico della Città Santa, dove si era ritiratodopo aver lasciato la guida della diocesi di Milano.A prima vista questa frase - che attribuisce alconflitto israelo-palestinese non solo la responsabilitàdi tutte le guerre mediorientali, ma addirittura quelladi ogni conflitto nel mondo – può sembrare esageratao, almeno, enigmatica. Per comprenderla occorreconsiderare l’unicità di Gerusalemme, sia nellasua identità di città-madre per Israele, per la Chiesauniversale, per il popolo palestinese, sia nella suastoria di città-martire, tanto amata e altrettanto

A FIANCO:Una donna palestinese di Aboud(villaggio a pochi chilometri daRamallah) manifesta control’occupazione militare israeliana.

Cristallizzazionedi un conflitto

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vivere in pace su quel 22% di terra rimasta a lorodisposizione».Eppure, dal 1967 in poi, sono decine le risoluzionidelle Nazioni Unite in favore della causa palestinese,mai attuate; inoltre gli accordi di Oslo del 1993 (epoi del 1995) hanno assegnato ai palestinesi solo il18% della Cisgiordania, cioè solo le zone classificatecome “area A” (il rimanente 82% è, in tutto o inparte, sotto controllo israeliano, a seconda che siastato classificato – rispettivamente – come “area C”o “area B”). Non solo: la costruzione della barrieradi separazione eretta dal 2003 in poi da Israeleintorno alla Cisgiordania, per difendersi dagli attacchiterroristici kamikaze che all’inizio degli anni Duemilaseminavano morte e terrore tra gli ebrei, è lungacirca 700 chilometri, sebbene i confini della regionemisurino circa la metà. Ciò significa che con il suotracciato tortuoso toglie ai palestinesi altre partidella “quarta stanza”. Perché? La risposta sta nelfatto che in Cisgiordania dal 1967 in poi sono sorticentinaia di insediamenti israeliani, dove – secondola ong israeliana B’Tselem – vivono 620mila coloniebrei: se la costruzione del muro avesse seguito iconfini della Cisgiordania, tutti si sarebbero »

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A FIANCO:Don Raed Abusahlia, sacerdote del Patriarcato Latino di Gerusalemme, direttoreemerito di Caritas Jerusalem, oggi parroco di Reneh, alle porte di Nazareth.

dichiararono guerra al neonato Paese, che la vinse.Da allora, però, il conflitto israelo-palestinese nonsi è mai risolto. Anzi, dal 1967 si è maggiormenteacuito in quanto l’esercito israeliano ha occupatoanche quei Territori che, secondo le Nazioni Unite,sarebbero dovuti rimanere a sovranità palestinese.Rievocare il passato non è ostinazione: è, piuttosto,voler comprendere l’origine di un unicum nel pa-norama geopolitico mondiale della storia contem-poranea. Considerare la singolare situazione incui si sono trovati i palestinesi con la nascita delloStato d’Israele, è tener conto di quella giustiziasenza cui non può esserci pace.

Don Raed e la “quarta stanza”A spiegare tutto ciò con un semplice esempio èdon Raed Abusahlia, sacerdote del PatriarcatoLatino di Gerusalemme, direttore emerito di CaritasJerusalem, oggi parroco di Reneh, alle porte diNazareth: «Immaginate una famiglia che abita inuna casa di quattro stanze, ereditata dai genitori e,prima ancora, da nonni e bisnonni. Arrivano alcunepersone dall’estero e, davanti agli occhi del mondo,requisiscono tre stanze di quella casa. Comereagisce la famiglia? Forse griderà, chiederàgiustizia, chiamerà i vicini, ricorrerà al tribunale?».È questa la semplice spiegazione che il sacerdotepalestinese dà a chiunque gli domandi dell’atavicaquestione arabo-israeliana. La chiama “La quartastanza” e la spiega così: «Nel 1948 i nostri amiciebrei sono venuti dall’Europa e si sono stabiliti sul78% della Palestina storica. Hanno raso al suolo384 villaggi, cacciato dalle loro case 800mila pale-stinesi che ormai da oltre 70 anni abitano in decinedi campi profughi sparpagliati in Siria, Libano, Gior-dania e nella stessa Palestina. Ed è nato lo Statod’Israele. Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, èstata occupata anche la “quarta stanza”, la Ci-sgiordania. Oggi i palestinesi non pretendono laluna. Accettano i loro vicini e chiedono il minimo:

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L’insediamento israeliano di Har Homa occupaun’intera collina tra Gerusalemme e Betlemme.

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Il tortuoso tracciato della barriera di separazione a Betlemme.

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ritrovati nella situazione paradossale di vivere “al dilà del muro”; ecco perché il tracciato della barrieracerca di lasciare quante più colonie possibile all’in-terno di Israele.

Muro, checkpoint, insediamentiAd oggi la situazione sul terreno assegna ai pale-stinesi solo una piccola percentuale di quella terrasu cui questo popolo sfortunato ha vissuto fino al1948. «Almeno sulla parte che ci è stata lasciata –chiede don Abusahlia – sarà nostro diritto vivere inpace?».Ma la realtà dei fatti sembra rispondere di no.Qualche esempio? Il muro che isola la Cisgiordania

dallo Stato d’Israele impedisce ai palestinesi diuscire dai propri territori, salvo permessi specialirilasciati dall’autorità israeliana. Quei padri di famigliache li hanno ottenuti, ogni notte si ammassano aicheckpoint, unici passaggi nella barriera, e attendonodi oltrepassarla per recarsi al lavoro a giornata:una folla che diventa visibile solo prima dell’alba epoi sparisce, come se non esistesse più fino algiorno successivo. E’ dove le attiviste di MachsomWatch, associazione di donne ebree, fanno presenza:si recano ai checkpoint (in ebraico machsom) perosservare e denunciare le vessazioni dei militariisraeliani sui cittadini palestinesi in fila per usciredai Territori occupati. Armate di matita e taccuino

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S ono oltre 11 milioni e vivono nell’estremo Nord-ovest della Cina, nella spettacolare regione

dello Xijiang, tra montagne brulle e steppe infinite,in quella che era l’antica via della Seta. Gli Uiguri,perseguitati e in parte sottoposti dal governo di Pe-chino ad un tentativo di “rieducazione” attraversocampi di detenzione, possono essere a ragionedefiniti un popolo “martire”. Di religione musulmanaed etnia turcofona, dalla fine degli anni Novanta gliUiguri sono nel mirino delle istituzioni cinesi chevedono in loro una minaccia per la tenuta delsistema centralizzato e nazionalista. Anzitutto, de-nunciano le associazioni in difesa dei diritti umani,tra cui Human Rights Watch, il regime teme il sepa-ratismo: e in questo senso l’autonomia amministrativa

di cui godono gli Uiguri, assieme alla pratica dellareligione musulmana, sono percepiti come “pericolosi”.Questa regione è chiamata XUAR (Xinjiang UygurAutonomous Region) ed è la più estesa provinciacinese, con oltre 1,6 milioni di chilometri quadrati disuperficie.La vera e propria campagna di persecuzione controil popolo degli Uiguri è stata lanciata dal leadercinese Xi Jinping ufficialmente per “tenere sottocontrollo” il terrorismo di matrice islamica, ma inrealtà mira ad annientare l’indipendenza di unpopolo a tutto vantaggio di un altro, quello degliHan, più fedele al sistema e che vive in una zona li-mitrofa ed è più numeroso. Gli attivisti che monitoranogli abusi commessi dal governo di Pechino

e, quando riescono, di smartphone per girare brevivideo, riportano sul loro sito web ciò che vedono:l’attesa senza limiti è la norma, denunciano, poichéil tempo dei palestinesi non scappa mai, sembranon avere valore.Le violazioni delle libertà si perpetrano anche all’in-terno dei Territori occupati: le aree intorno agli inse-diamenti e le strade che li collegano alle cittàisraeliane non sono percorribili dai veicoli palestinesi(quelli con targhe verdi); tanto che spesso, perarrivare a destinazione, sono costretti a circumna-vigare colonie o roadblocks percorrendo decine dichilometri in più. In questo contesto la vita quotidianapalestinese si cristallizza nelle problematiche di chinon ha libertà di movimento, né diritto alla proprietàprivata (sono numerosi gli esempi di esproprio diuliveti per completare la costruzione del muro oaltro), né possibilità di lavorare e sostenersi econo-micamente.Se anche il conflitto non si fa sentire nelle sueespressioni più violente, il livore cresce tra le pieghequotidiane di un popolo schiacciato – in stragrandemaggioranza pacifico e rassegnato - che attende ildiritto di vivere in pace nella sua “quarta stanza”.

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di Ilaria De [email protected]

MINORANZA PERSEGUITATA IN CINA

Nei lagerdegli Uiguri

PERSEGUITATI DAL GOVERNO CINESEPERCHÉ MUSULMANI E APPARTENENTI ADUNA ANTICA CULTURA CHE NON VOGLIONOTRADIRE, GLI UIGURI SONO CONSIDERATITERRORISTI DAL GOVERNO CINESE. E PERQUESTO DETENUTI A MIGLIAIA IN CAMPI DI“RIEDUCAZIONE” CHE LE ONGDEFINISCONO PRIGIONI DOVE SI PRATICAUN “LAVAGGIO DEL CERVELLO” COLLETTIVO.

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A FIANCO E IN BASSO:Lavoratori palestinesi che ogni mattina, prima dell’alba, aspettano di oltrepassareil checkpoint di Al Maxum per poter lavorare a giornata a Gerusalemme.

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Attivisti per i diritti umani manifestano fuoridall’Ambasciata cinese a Londra per protestarecontro la persecuzione degli Uiguri.

nello Xijang, hanno stilato diversi report da cuiemerge che gli Uiguri stanno difendendo col sanguela propria cultura, la lingua e soprattutto la religione.Oggi rappresentano la maggioranza relativa dellapopolazione della regione, ossia il 46%, mentre ilresto degli abitanti sono cinesi di etnia Han ekazaki. Sin dal 2017 sono comparsi report sulle de-tenzioni arbitrarie perpetrate su larga scala ai dannidi un popolo che è tra i più numerosi e tenaci nellapratica della religione islamica (vietata in Cina comeogni altra forma di culto).Queste carceri vengono definite “scuole di rieduca-zione volontaria” dall’apparato cinese, ma di fattosomigliano a lager. In questi luoghi assolutamenteinaccessibili i detenuti subiscono violenze fisiche,privazioni di cibo e acqua e vengono tenuti in isola-mento. Diversi organi di stampa internazionali, tracui il Wall Street Journal e l’agenzia di stampa As-sociated Press hanno realizzato dei servizi sui“campi” clandestini, basandosi sui racconti di testimonioculari e su fonti locali. Ma il governo ha semprenegato ogni accusa, bollandola come leggendametropolitana o fake news. Molti di questi prigionierisono stati fatti sparire dalle loro case e dunquerapiti, senza peraltro che si potesse dare notizia aifamiliari delle loro condizioni di salute.Lì dentro avviene un brain-washing psicologico,una sorta di elettrochoc collettivo per rimuovereuna intera identità di gruppo: viene loro imposto didimenticare la cultura d’origine e di convertirsi aquella ufficiale cinese, comprese la lingua, il man-

darino, e la fedeltà al partito. Sophie Richardson,direttrice di Human Rights Watch China ha definitotutto questo una «enorme violazione dei dirittiumani». E ancora: «Credo sia giusto dire che ognipersona detenuta lì dentro è soggetta almeno aduna tortura psicologica, poiché nessuno di loro sarealmente quanto tempo passerà in prigione» con-clude.Ovviamente la versione del regime è differente: inun documento proveniente dall’Ufficio informazionedel Consiglio di Stato della Repubblica PopolareCinese (che è possibile reperire on line sul sito go-vernativo), Pechino mette nero su bianco i motivi diquelle che sarebbero le ragioni legittime della strettadi controllo sugli Uiguri. Il governo dice di voler «tu-telare i diritti umani» poiché protegge il resto dellaCina da attacchi terroristici di stampo jihadista, per-petrati da estremisti di religione islamica. I campi direclusione, come emerso da alcuni documenti di-vulgati dal New York Times, sono aumentati dal2016 con la nomina di Chen Quanguo a nuovocapo del Partito comunista per la regione di Xinjiang.Dai documenti trapela anche la volontà di Pechinodi allargare le restrizioni all’islam ad altre parti dellaCina. La portata di queste reclusioni arbitrarie èenorme: stando ad altri file rivelati dalla BBC, oltre15mila persone del Sud dello Xinjiang, in una solasettimana sono state imprigionate in questi campinel 2017. Molti di loro erano genitori di ragazzi chestudiano nelle grandi città e che al rientro a casanon hanno più trovato i loro cari.

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D ire finalmente addio alla passwordcon il nome e la data che non si ri-

cordano più o al documento cartaceocon foto di 20 anni prima in cui siamo ir-riconoscibili. Tramite i software di intelli-genza artificiale si può. Basta infatti unarapida scansione del viso per verificare intempo reale l’identità delle persone. Sichiama riconoscimento facciale la tecno-logia che consente di catturare immaginie volti e di raccogliere informazioni private,come spostamenti e comportamenti senzainterazione con la persona interessata. Ègià utilizzata per proteggere gli smartphonedi nuova generazione ma non solo. Lemaggiori aerolinee già consentono sulleprincipali rotte di salire a bordo semplice-mente mostrando il proprio viso, rispar-miando così ai viaggiatori file e controlliestenuanti. A Milano Linate un sistemasperimentale consente ai passeggeri di

di Michele [email protected]

Metticila faccia

UMANESIMO DIGITALE

transitare senza esibire passaporto e cartadi imbarco ai diversi check point dell’ae-roporto. E che dire dei principali produttoridi automobili che prevedono di dotare ifuturi modelli di veicoli di dispositivi confotocamera che, quando il proprietario siavvicina, sbloccano automaticamente ilveicolo? Per proteggerli da furti ma ancheper regolarne velocità, impostare accele-razione e parametri di guida. Anche lepolizie di mezzo mondo ci contano percombattere abusi e truffe. Tanto che buonaparte della forte crescita prevista per ilmercato globale dei prossimi anni (da3,9 billion dollari nel 2019 a sette billionnel 2024, per Marketsandmarkets) verràdagli investimenti di pubblica sicurezza.Anche per questo, però, il suo utilizzo ri-chiede garanzie. Per evitare l’effetto “grandefratello” che può divenire, in tempi di de-mocrazie fragili, strumento per controllare

le minoranze di qualsiasi tipo, non soloper i Paesi del Sud del mondo. Occorrononorme per regolarne l’applicazione e as-sicurare il rispetto delle garanzie e deiprincipi di privacy e sicurezza. Comequelle sperimentate da città come SanFrancisco o come propongono i regolatorieuropei alla Commissione che finora haenunciato soprattutto buoni propositi. Nes-suno auspica divieti che potrebbero osta-colare lo sviluppo tecnologico, ma soloregole globali, chiare, univoche ed etiche.Lo conferma un’indagine di Pew ResearchCenter secondo cui gli americani fannoaffidamento sulle norme (56%) più chesulla responsabilità (36%) delle tech com-pany. Un’altra sfida che il digitale ponealla politica mondiale ma anche ai gigantidel web che devono dare prova di re-sponsabilità, smettendola di proporre soloregole che piacciono.

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alto, capelli lunghi dreadlocks, pellelucida e brillante, sorriso irresistibile,musicista, modello, attore di successoper tv, cinema e teatro, è talmente untutt’uno con il suo tamburo, che nonriesce a vivere senza le percussioni.Sono queste ad avergli aperto unastrada in Europa, permesso di far co-noscere l’Africa ai bambini delle scuole,assicurato da vivere, procurato unaparte come attore-musicista nel film

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

Ismaila Mbayecon il suo djembe.

Ismaila eil suo djembeIsmaila e

di CHIARA [email protected]

Con i suoi capelli dreadlocksche ricordano la criniera diun leone, Ismaila Mbaye,alto, robusto, pelle lucida ebrillante, sorriso irresistibile,è prima di tutto unpercussionista. Senegaleseoriginario dell’Isola di Gorée,dalla quale per secolipartivano gli schiavi africaniper la tratta verso leAmeriche, il musicista –diventato anche attore disuccesso - racconta comevive la sua missione: quelladi svelare a tutti un’Africasconosciuta e sorprendente.

“Tolo Tolo” di Checco Zalone. Sono que-ste a permettergli di comunicare almeglio, tanto che «mi riesce più facileesprimermi con il djembe che con leparole», confessa.Oggi Ismaila ha 43 anni e come cittadinoitaliano e senegalese persegue quoti-dianamente un obiettivo: veicolare ilbello e il buono dell’Africa. La sua terra,infatti, non è solo fame, guerra, schiavitù,sebbene gli schiavi africani, per la trattaverso le Americhe, partissero propriodall’isola in cui è nato e cresciuto. Maci sono mille originalità e altrettanti

È difficile incontrare Ismaila Mbaye,senegalese in Italia da 19 anni,senza il suo voluminoso tamburo.

Per essere precisi si tratta di un djembe,strumento musicale tipico dell’AfricaOccidentale costruito in legno e pelledi animale. Ovunque vada, il djembe loaccompagna. Sì, perché quest’uomo,

L’attore mostra unodei vari premiricevuti per la suaattivitàcinematograficalegata al continenteafricano.

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no, una connessione molto importantetra le persone».Anche in Italia Ismaila gira gli istitutiscolastici con i “Laboratori di percussioniafricane”. Ma ultimamente il suo impegnoprincipale è diventato il cinema, senzatradire il djembe. Infatti è sempre grazieal ritmo africano che ha ottenuto unruolo nel film “Tolo Tolo” di Checco Za-lone, come musicista che fa parte dellacompagnia di viaggio del protagonista:«Ci incontriamo dentro un taxi-bus perla traversata dal Kenya al Marocco, perpoi arrivare in Europa. Insieme cantiamola canzone “Se ti migra dentro il cuore”:sicuramente divertente, ma non mancal’aspetto riflessivo su integrazione e con-taminazione».Anche l’altro importante lavoro cine-matografico di Ismaila tratta di immi-grazione: è il film “Nour”, per la regia diMaurizio Zaccaro, nel quale Sergio Ca-stellitto interpreta il medico di Lampedusa,Pietro Bartolo. «La sceneggiatura – svelaIsmaila - è molto fedele al libro “Lacrimedi sale”, scritto proprio da Bartolo suepisodi di vita vera. Il film è pronto datempo, ma non è ancora uscito nellesale, anche se è stato proiettato in alcuniFestival cinematografici europei. È un’ope-ra di denuncia. Io interpreto la partedello scafista». E a proposito di respon-sabilità del dramma che si consuma nelMar Mediterraneo, denuncia: «Basterebbe

Una scena del film “Tolo Tolo” di CheccoZalone, nel quale Ismaila recita la partedi un musicista migrante.

segreti nella cultura del Continentenero, nei ritmi che scorrono nel sangue,negli strumenti musicali così semplici epreziosi che diventano quasi l’estensionedel corpo di chi li suona. Quando parladi sé, non può far a meno di raccontarela sua prima esperienza in Europa: daragazzo, insieme ad altri che, come lui,suonano le percussioni, partecipa adun gemellaggio con una scuola francese.Partito dalla sua isola di Gorée portandocon sé il djembe, eccolo tra bambiniche soffrono di disturbi di interazionesociale e comunicazione: musica e ritmi,più che parole e attività, possono essereuna buona cura. «Arrivati a scuola, nonvolevamo aggredire i ragazzi con i ritmidei tamburi. Allora ci siamo nascosti inun’aula e abbiamo iniziato a suonare. Ibambini ci hanno sentito, sono venutispontaneamente e uno di loro ha iniziatoad accarezzare il mio tamburo. Poi tuttisi sono avvicinati e abbiamo insegnatoloro a suonare e cantare. Ho visto le la-crime della direttrice, commossa, perchéi suoi alunni non erano mai stati cosìfelici. Dopo sei mesi, sono venuti danoi nell’isola di Gorée, vincendo lapaura di allontanarsi dai genitori. Questomi ha fatto capire che le percussionisono il modo migliore per entrare incomunicazione». Mentre racconta, siemoziona ancora «perché la musica puòfare miracoli: è la prima lingua di ognu-

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Migranti di successo

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una mezza giornata per porre fine aiviaggi della morte. È assurdo che, dopoaver colonizzato un continente per 400anni, oggi l’Europa dica agli africani:“Avete la vostra libertà, ma non poteteentrare a casa mia”. E invece per quattrosecoli gli europei sono andati a prenderegli schiavi, per portarli altrove e trattarlicome merce. Spesso chi fa la traversatasa a cosa va incontro. Ma quando laviolenza è troppo forte e il dolore non sipuò spiegare, l’uomo si aggrappa alsogno e sceglie di andarsene, anche senon sa dove e come». Poi aggiunge:«Nelle materie scolastiche europee c’èsolo una riga che parla della schiavitù: èassurdo, perché si tratta di un genocidiodurato 400 anni che l’umanità non co-nosce. Se venisse insegnato a scuola,oggi non saremmo a questo punto».Nel frattempo Ismaila fa la sua piccolagrande parte educativa con il “Girod’Italia a tempo di musica. Percussio-nando”, un appuntamento per chi haun tamburo in casa, magari dimenticatocome soprammobile. «Non è vero chesolo gli africani hanno il ritmo nel sangue.Ce l’abbiamo tutti - dice - poiché chiun-que ha un cuore che batte a tempo diritmo. Ecco perché nelle varie cittàchiamo a raccolta chi ha voglia di sco-prirlo». E chi partecipa impara che ildjembe è ben più di un semplice tam-buro.

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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“gioco”, alla casella di partenza. Nono-stante le parole di perdono che i duegrandi nemici si sono scambiati recipro-camente, lo scetticismo resta elevato emolti si chiedono quanto reggerà la pacee la nuova formazione governativa.«Nel Paese c’è tanta speranza e tantatensione – commenta fra Federico Gan-dolfi, missionario dei Frati minori fran-cescani dal 2015 a Juba, la giovane ca-pitale del Sud Sudan -. Entrambi i leaderhanno rinunciato a punti precedente-mente definiti come non negoziabili, equesto è positivo per il processo di pace,ma l’esperienza della guerra, iniziataquando già c’era un governo di transi-zione, insegna a non fidarsi».La popolazione è letteralmente sfinitadalla guerra fratricida che ha contrap-posto l’esercito a maggioranza Dinka -controllato da Kiir - e le milizie armatedi etnia Nuer - sotto il comando di Ma-char -. Guerra sulla quale, neanche aparlarne, hanno soffiato svariati gruppidi potere in lizza per lo sfruttamentodelle enormi riserve petrolifere del SudSudan.«Il sentimento tribale nel Paese è fortee diffuso ed è stato, oltretutto, esacer-bato dalla guerra civile – racconta fraFederico -. All’interno del nostro terri-torio si trova un campo per la protezionedei civili sotto il controllo delle NazioniUnite, nel quale sono presenti oltre30mila persone di etnia Nuer. Vivono incondizioni drammatiche e noi facciamoquello che possiamo. All’interno delcampo abbiamo quattro cappelle e of-friamo diversi servizi, quali la formazionedei giovani e un accompagnamento psi-

C ome in ogni dramma che si ri-spetti, la svolta è avvenuta pro-prio all’ultimo istante, nel giorno

in cui scadeva il termine che la comunitàinternazionale aveva imposto ai due po-litici per formare il nuovo governo diunità nazionale. È così che Salva Kiir eRiek Machar, presidente e vicepresidentedel Sud Sudan, lo scorso 22 febbraiohanno firmato il sospirato accordo. Cisono voluti sette anni di guerra, 400milamorti e due milioni di sfollati prima diarrivare a tanto. Protagonisti entrambidel percorso che ha portato il Paese al-l’indipendenza dal Sudan nel 2011, Kiire Machar hanno saputo convivere ap-pena due anni prima di portare il SudSudan all’inferno e tornare, alla fine del

di MASSIMO [email protected]

Dopo la firma dell’accordo di pace tra Salva Kiir e RiekMachar, presidente e vicepresidente del Sud Sudan, loscorso 22 febbraio, ci si chiede come il giovane Paeseriuscirà a rialzarsi dopo sette anni di guerra che hannovisto la morte di 400mila persone e due milioni di sfollati.

Sarà vera pace?

Sopra: Salva Kiir e Riek Machar,rispettivamente presidente e vicepresidentedel Sud Sudan, in occasione della firmadell’accordo di pace siglato a Juba loscorso 22 febbraio.

A destra: Fra Federico Gandolfi,missionario dei Frati minori francescani,dal 2015 a Juba.

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bile, che fannoancora sperarein un futurobello e di pace.Così come le po-tenzialità eco-nomiche delPaese, ricchis-simo di risorse

minerarie, come il petrolio, il ferro edil rame, l’oro e l’argento. Ma nel SudSudan manca ogni genere di infrastrut-tura - le raffinerie di petrolio sono in

cologico per affrontare le si-tuazioni traumatiche chehanno vissuto».Le prime parole con cui fraFederico descrive il suonuovo Paese sono «miseria ebellezza». Miseria per lagrande povertà, degrado eumanità ferita che si respi-rano in ogni andito. Bellezza per la na-tura incontaminata, la vita semplice, lagrande generosità della popolazione. Eper i bambini in un numero incalcola-

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In gioco il futuro del Sud Sudan

quel Nord da cui si è staccato – e ilPaese ha altissimi tassi di analfabetismoe di mortalità infantile.«Nonostante tutto, vivere qui è moltobello. Specie se si guarda al di là di ciòche ci aspetta ogni giorno e se si saaccogliere la sofferenza come parte delquotidiano, che non distrugge l’uomoma lo costringe ad essere migliore –racconta ancora fra Federico -. La genteè generosa fino all’inverosimile e il po-vero, o il misero, ha una capacità di of-frire e di dare “anche ciò che non ha”,cosa che i ricchi e benestanti dei nostriPaesi non sanno fare».Il giorno stesso della firma dell’accordo,il presidente Kiir ha elogiato la Comu-nità di Sant’Egidio per il negoziato con-dotto a Roma, il quale ha permesso l’in-clusione delle forze di opposizione chenon avevano fino ad allora aderito alprocesso di pace - in particolar modo ileader del South Sudan Opposition Mo-vement Alliance (SSOMA) Thomas Ci-rillo, Paul Malong e Pagan Amun –, eha ringraziato papa Francesco «per lesue preghiere e per la sua richiesta dipace per il Sud Sudan». Quella pace cheil Santo Padre aveva, addirittura, sup-plicato mettendosi in ginocchio e ba-ciando i piedi ai due leader oggi ricon-ciliati.

L a Fraternità francescana internazionale di Juba (con fra Federico c’è unconfratello croato ed uno irlandese) guida la sconfinata parrocchia della Holy

Trinity, che si estende fino ad 80 chilometri dalla capitale e include una decina divillaggi. Sono più di quattromila i battesimi celebrati dal 2014. Oltre all’impegnonel locale campo profughi Onu, i francescani offrono un servizio per i ragazzi distrada insieme ad una giovane associazione di volontariato, la Peace and GoodPeople, che ha anche ricevuto il plauso di papa Francesco, ed un orfanotrofio, laCasa Santa Chiara, che, al momento, ospita 31 bambini. Tutti vanno a scuola esono seguiti dai servizi sociali, che continuano ad affidare alla fraternità ancheneonati trovati in strada. Si tratta di un servizio impegnativo e costoso che vedeimpegnate molte persone locali, sia come dipendenti che come volontari. Unfrate vi svolge anche attività psicoterapeutiche tramite l’arteterapia. Per insegnareil rispetto delle regole, e unire le persone in una società divisa, è stato avviato ilJuba Football Camp, con la prima squadra di calcio femminile del Paese. M.A.

I FRANCESCANI, I BAMBINI E LA SQUADRADI CALCIO FEMMINILE

Sopra:Foto di gruppo con i bambiniospitati nell’orfanotrofio, la

Casa Santa Chiara.

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non lontano dalla sua factory dove ognianno in autunno emigrano milioni difarfalle, in fuga dal clima freddo delNord America.In Messico, come in altri Paesi del-l’America Latina, chi si batte in difesadell’habitat rischia sulla propria pelle,come dimostra il fatto che lo scorsoanno solo in Messico sono stati uccisi12 attivisti ecologisti, in prima lineacontro i network criminali dello sfrut-tamento illegale della terra. Homerocontrastava gli interessi di chi sfruttaillegalmente la foresta e la sua oasi perle Danaus plexippus, le farfalle monarca,aveva ricreato l’habitat ideale fatto dialberi ricchi di fogliame, felci, cespugli

Homero Gòmez Gonzales, guardiano della riserva naturale “El Rosario”.

E ra il guardiano delle farfalle, lebellissime mariposas a rischioestinzione che si davano appun-

tamento nella fattoria El Rosario, nellaregione messicana di Michoacan. Ho-mero Gòmez Gonzales, 50 anni, agro-nomo ed ecologista, resta nella nostramemoria come un uomo robusto dalsorriso aperto, circondato da uno stuolodi farfalle dalla ali nere e arancio sullespalle, sulla testa, sulle braccia aperte.Il 2 febbraio scorso l’uomo è stato ri-trovato cadavere in un pozzo a Ocampo,

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e fiori. La riserva naturale era statacreata nel 2006, due anni dopo erastata dichiarata patrimonio mondialedell’Unesco per la peculiarità della suamission: proteggere «una specie e unfenomeno naturale di una bellezza ec-cezionale per l’equilibrio dell’ecosistema».L’ecologista messicano aveva un forterapporto con questi meravigliosi insettiche chiamava «le fidanzate della terra»che ogni anno si lasciavano alle spallel’estate in Canada per una migrazionedi otto mesi per arrivare in Messico. Lariserva naturale, che Homero era riuscitoa preservare dagli interessi dei trafficantidi legname, era visitata ogni anno damigliaia di persone che qui potevanoavere un contatto ravvicinato con lemariposas, vederle volare, riprodursi,posarsi fiduciose sugli uomini. Doponumerosi avvertimenti e minacce, il 14gennaio scorso, Homero è sparito. Lasua famiglia ha ricevuto molte richiestedi riscatto, attraverso Silvano Aureoles,governatore dello Stato di Michoacàn.Malgrado la famiglia abbia pagato lasomma richiesta, il ritrovamento delcadavere ha reso evidente che si eratrattato di falsi rapitori, di sciacallisenza scrupoli.

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

Homero,l’amico dellemariposas

I loro nomi sono poco

conosciuti, gli assassini

restano impuniti: sono i

leader ecologisti che ognianno vengono uccisi nel

mondo. Come Homero

Gòmez Gonzales, come

Berta Caceres e come Isidro

Baldenegro Lopez, tanto per

citare tre storie di coraggio

e non violenza esemplari.

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Mondiale, e lacompagnia localeDesarrollos Ener-geticos) progetta-va di costruire di-ghe idroelettrichesul fiume Gualcar-que, e la Caceresaveva organizzatouna resistenza pa-cifica che per oltreun anno ha impe-dito l’accesso nel-l’area persino allapolizia. Prima dilei, un altro atti-vista, Tomas Gar-cia, era già stato ucciso presso unblocco stradale, e dopo anni di minaccee tentativi di rapimenti, nel 2016 si ècompiuto anche il destino di Berta.Secondo il rapporto del 2018 di GlobalWitness, la lista nera dei leader am-bientalisti uccisi nel mondo si è attestataa 164 vittime, con le Filippine delregime di Duterte al primo posto con30 morti, seguite dalla Colombia (24assassinati), la regione amazzonica con

30 morti uccisi inun solo anno, ilGuatemala, il Mes-sico, ecc. Senza di-menticare gli atti-visti morti in Africae nel resto del mon-do, anche in questoreport si confermail triste primato delcontinente latinoa-mericano con lametà delle uccisioni,a causa degli inte-ressi dell’agrobusi-ness. L’esempio e ilsacrificio di questi

eroi del Creato non devono essere di-menticati ma devono restare a guardiadei luoghi in cui il loro sangue è statoversato come un monito, come unconfine da non superare. Il 15 gennaio2017 Isidro Baldenegro Lopez, contadinoe leader della comunità messicana deiTarahumara, è stato ucciso a 51 anniper l’appassionata difesa delle forestedella Sierra Madre nella regione del Chi-huaua. In questa zona la deforestazione

è arrivata quasi al90% per lasciarespazio alle pianta-gioni di coca e ma-rijuana per i trafficidei potenti narco-boss locali. Balde-negro, che avevavisto uccidere suopadre quando erapiccolo, era perfet-tamente coscientedei rischi a cui an-dava incontro con-tinuando a denun-ciare i traffici ille-gali, ma nulla è riu-scito a fermare ladifesa per le terreereditate dai suoiantenati.

In realtà, in questi anni il “mestiere” diattivista ambientalista è diventato unimpegno che espone ad altissimi rischi.Fino a perdere la vita in modo violento,in agguati e assassini che il più dellevolte restano coperti da potentati esotterranei interessi economici e politici.Secondo la ong Global Witness, nel2017 ben 197 leader ecologisti sonostati uccisi nel mondo, la maggior partedei quali in America Latina: 46 in Brasile,32 in Colombia, 15 in Messico. Tra gliassassinati da sicari il più delle volteimpuniti, si registra una maggioranzadi esponenti di comunità indigene locali.Gente scomoda, troppo povera ed emar-ginata per attirare l’attenzione deimedia e della polizia sugli agguati chelasciano a terra corpi crivellati di colpidi arma da fuoco. Come nel caso em-blematico di Berta Caceres, la leaderhonduregna insignita del Goldman En-vironmental Prize, uccisa il 3 marzo2016 a La Esperanza per il suo impegnoin difesa delle terre abitate dal popoloLenca. Proprio in quella regione dell’Honduras infatti una joint venturedi imprese (la cinese Sinohydro, la Banca

Ancora un ecologista ucciso in Messico

Ritratto di BertaCaceres, honduregna,insignita del GoldamEnvironmental Prize,uccisa il 3 marzo 2016a La Esperanza.

Isidro Baldenegro Lopez, leader dellacomunità messicana dei Tarahumara.

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L’altraedicola

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LA NOTIZIA

LA BATTAGLIA PER IDLIB ÈQUELLA FINALE: IL REGIMESIRIANO NON RINUNCIA ARIPRENDERSI L’ULTIMAROCCAFORTE RIBELLE. INMEZZO, TRA RUSSIA ETURCHIA, MIGLIAIA DIPERSONE IN TRAPPOLA. LASTAMPA ESTERA RACCONTALE STORIE DELLA GENTE CHEVIVE SOTTO LE BOMBE.

di ILARIA DE [email protected]

«O gni volta che sento il rumore di un aereo comincio a correrecome un pazzo, perdo la ragione. Mio fratello è stato ucciso, ei russi ci bombardano». A parlare è Hassan Yousufi una delle cen-

tinaia di persone accampate allo stadio di calcio di Idlib. Nonostante il ces-sate il fuoco tra Turchia e Russia (tregua che fa fatica a reggere ed è stataripetutamente violata), la gente ha paura. E non a torto. C’è sempre il rischioche le cluster bomb o altro tipo di armi (niente affatto intelligenti), giun-gano dalla contraerea russa o dal fuoco “amico” del regime di Assad e fini-scano sulle case. La popolazione di Idlib è sotto assedio da mesi. Stretta in una

Il campo che accoglie centinaia di profughisiriani nello stadio di calcio di Idlib.

LO STADIO DI IDL

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morsa e praticamente in trap-pola. L’assedio è il modo che ilregime ha di riprendersi l’ul-tima città rimasta nelle manidei ribelli. Ma questo a costodi uccidere i siriani stessi, blin-dati dentro. A scriverne inmodo così dettagliato è unagiornalista che ha avutomodo di entrare per mezzagiornata ad Idlib, assieme adun fotografo e ad un inter-prete. Si tratta di Carlotta Galdel New York Times. Cheviene accompagnata tra icrolli e la devastazione da al-cuni componenti del grupporibelle Hayat Tahrir al-Sham.Il reportage corredato di fotoha per titolo: “The only choiceis to wait for death”, “L’unicapossibilità è aspettare lamorte”. L’altro reporter en-trato per dieci ore a Idlib èBenjamin Barthe di Le Monde. «Centinaia di migliaia di per-

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tre due anni fa: un assedio infinito, servito al regime per ri-conquistare il quartiere orientale di Damasco, con Douma. Alprezzo di migliaia di persone morte sotto le bombe. Già allo-ra si mise in guardia la comunità internazionale sui rischi pertutti coloro che erano stati trasferiti con bus ed altri mezzi ver-so Idlib, facendo intuire che Idlib sarebbe stata la futura Dou-ma. E così è accaduto. Il New York Times mostra le foto del-lo stadio di Idlib riadattato prima a campo profughi e poi a cam-po d’emergenza, con tende e senza tende, ed oltre 100 fami-glie accampate e spaventate. Il terrore viene dal cielo. E fuggire non si può. Questo è l’al-tro elemento inquietante in Siria, lo dicono chiaramente di-verse fonti.Da Idlib è praticamente impossibile in questi mesi andare via.Chi ci riesce è fortunato. Come Abdullah al-Mohammed, il papàdella bimba che ha commosso il mondo. Per distrarre la pic-cola durante i bombardamenti, Abdullah cercava di farla ri-dere e aveva inventato il “gioco delle bombe”. Il video delle ri-sate genuine di questa bambina in braccio al papà, è diven-tato più che virale. Questa storia, divulgata praticamente datutti gli organi di stampa internazionali, è riuscita ad andareoltre il muro di indifferenza. E a far capire, grazie alla forza del-le immagini, il dramma di un popolo intero. L’esito felice del-la vicenda ha costituito un surplus di lieto fine.Altre fonti preziose come il Syrian Network for Human Rightshanno divulgato invece materiale toccante e tragico: come la

sone scappate dalla guerra di Siria sono finite ad Idlib. Ma conla linea del fronte a cinque miglia la città non sarà molto a lun-go un rifugio sicuro», dice uno degli intervistati dalla Gal. E in-fatti non lo è. Ma chi ha portato una consistente parte di si-riani in questa città nord-occidentale della Siria? Lo spiega-no diversi organi di stampa mediorientali, tra cui Al Monitore Al Jazeera. In seguito agli accordi di “ricollocamento” ne-goziati ad Astana tra i contendenti siriani, turchi e russi, ad Idlibsono confluiti i miliziani attivi nelle varie aree e soprattuttomigliaia di civili che vivevano nelle zone controllate dai ribel-li. A Idlib quindi si sono ammassati migliaia di rifugiati. E orasta accadendo quello che accadde nella Goutha orientale ol-

storia di Iman Mahmoud Laila, la bimba di un anno e mezzoche viveva con la famiglia in una tenda, morta assiderata dalfreddo nel governatorato di Aleppo. La sua foto ha fatto il girodel mondo, criptata e non. La stampa araba è chiaramente quel-la più attenta alla questione siriana: in particolare Arab Newspropone una dettagliatissima analisi ricca anche di intervistee testimonianze, dove oltre a ricapitolare la questione politi-ca, riporta la voce dei dislocati e profughi siriani. Sul versan-te di analisi politica, Arab News parla del ruolo della Turchia,che in questo caso “gioca” la parte del Paese amico dei pro-fughi, dice il giornale, e si pone come la potenza mondiale anti-russa in Siria, ma in realtà combatte sul territorio martire »

Siria senza pace

LIB E LA PAURA DEL CIELO

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L’altraedicola

Siria senza pace

Le tende dei profughi neisotterranei dello stadio.

gliono rientrare nel Paese. Infine, il set-timanale Vita fa una considerazioneimportante proprio sulla polarizzazionedelle opinioni e sugli stereotipi. Il gior-nale dice: abbiamo creduto per anni chestare con Assad significasse stare control’Isis. Ma oltre a questi due protagonisti,c’erano in mezzo milioni di persone e so-prattutto una opposizione. «Dal marzo2011 ad oggi, al grande pubblico sono sta-te date in pasto le immagini e le notiziesul presidente Bashar al Assad, figlio delmilitare golpista Hafiz, e sulla formazio-ne terrorista transnazionale dell’Isis – scri-ve Vita -. Della società civile e delle di-verse anime delle opposizioni, in partico-lare di quella pacifica, indipendente e lai-ca, si è parlato solo in modo marginale».E ancora, dice Asmae Dachan su Vita:«Difficilmente i civili hanno trovato spa-zio nella cronaca di guerra, ma è da lì chebisognerebbe partire per ridare un vol-to umano alla Siria e domandarsi perchésia stato possibile abbandonare milionidi persone inermi a sé stesse».

siriano esattamente come fa Putin, os-sia per tornaconto personale.L’elemento più potente di queste crona-che del fronte, sono proprio le testimo-nianze della gente, di chi soffre sotto lebombe. Parlando alla BBC, Ibrahim Ab-dul Aziz, rifugiato siriano, riassume il di-lemma di decine di migliaia di compatrio-ti e lancia un grido di allarme da ascol-tare: «Ci siamo spostati a causa dellebombe e siamo arrivati a Darat Izza (cit-tà a Nord della Siria). Ma poi qui ci sonostati ancora più bombardamenti. Ades-so non sappiamo più dove andare». Questo è il punto: i rifugiati non posso-no rifugiarsi da nessuna parte. Quelli ar-rivati per fortuna in Turchia sono ostag-gio del braccio di ferro di Erdogan (chesfida l’Unione europea); coloro che si ri-trovano nelle zone riservate ai rifugiatisiriani sotto i ribelli, vivono nella costan-te paura degli attacchi di regime (e deirussi). Il paradosso più grande è che il pri-mo responsabile dell’immane tragediamondiale siriana in corso da 10 anni, è

ancora lì, ben saldo sul suo scranno: Ba-shar al-Assad è intoccabile e di proces-so per crimini contro l’umanità non siparla.Il Financial Times in questo senso offreun’analisi davvero interessante: ossiaspiega che la strategia del regime siria-no è quella di fare in modo che i rifugia-ti di questi 10 anni di guerra (oltre die-ci milioni di persone che hanno abban-donato il Paese) non ritornino in Siria. Equesto perché potrebbero costituire un“problema” per la sicurezza e la tenutadel regime. Secondo il Financial Times leparole del generale Jamil al-Hassan,pronunciate il 27 luglio 2018, sono mol-to emblematiche: «Una Siria con 10 mi-lioni di persone fedeli e obbedienti allaleadership, è meglio di una Siria con 30milioni di vandali», ha dichiarato il mi-litare. Dichiarazioni molto pesanti che ac-creditano l’idea che, come dice il titolodi questo pezzo “Assad’s strategy is tostop refugees wanting to return”, la stra-tegia di Assad è fermare i rifugiati che vo-

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tazione delle violazioni dei diritti umani.Nel 2011, prima che la guerra travolgessetutto, c’era lei tra i protagonisti dellaeffimera “primavera siriana”, un ten-tativo pacifico di fare evolvere demo-craticamente la società siriana, maidavvero supportato dall’Occidente.Allo scoppio del conflitto, destinato afare della Siria il terreno di scontro trapotenze straniere, l’impegno di Razansi raddoppia: fonda il Violations Docu-mentation Centre (Centro per la docu-mentazione delle violazioni), che peranni non solo ha tenuto il conto dellevittime, ma ha cercato anche di dareloro un nome e un volto, oltre a indagaresulle condizioni di detenzione in Siria.Sempre più conosciuta all’estero, RazanZaitouneh è stata insignita del PremioSakharov per la libertà di pensiero edel Premio Anna Politkovskaya, utiliz-zando i soldi per pagare le complessecure di un amico attivista, colpito dalfuoco di un carro armato. Dopo esseresfuggita a un’irruzione di agenti dellasicurezza nazionale in casa sua, il 9 di-cembre 2013 Razan è stata sequestratada gruppi jihadisti a Goutha, alla peri-feria di Damasco, insieme al marito e adue collaboratori. A dimostrazione diquanto il suo lavoro fosse prezioso,dopo il rapimento l’Onu ha sospeso ilconteggio delle vittime in Siria. Il 17febbraio 2020, infine, fonti governativehanno riferito che uno dei corpi ritrovatiin una fossa comune è presumibilmentequello della donna.Le parole di un altro attivista siriano,Assaad al-Achi, spiegano bene perchénella vicenda di Razan si può leggerein filigrana il destino complessivo diun Paese: «La sua sparizione ha segnatoun passo avanti verso la completa ra-dicalizzazione tra due forze del male:il regime e i fanatici islamisti». Comegià successo a padre Paolo Dall’Oglio,rapito nello stesso anno, a pagare perprimi lo scontro tra opposti estremismisono sempre gli uomini e le donne dipace.

di STEFANO [email protected]

La breve primaveradi Razan

BEATITUDINI 2020

L’inferno in terra: non è esage-rato descrivere così la Siria del2020, che a Idlib sta vivendo

l’ennesima crisi umanitaria. Ma la Siriapre-guerra non era certo il paradiso.

Arresti e detenzioni arbitrarie, controllidegli oppositori politici, corruzioneerano le basi su cui si fondava il regimedi Bashar al Assad. Una situazione che,quando ancora le armi tacevano, qual-cuno aveva iniziato a denunciare.Tra i protagonisti di quella stagione c’èRazan Zaitouneh. Nata nel 1977, studi

da avvocato, già nel2002 aveva ricevutoda Damasco il di-vieto di lasciare ilPaese: era accusatadi mettere in cattivaluce la patria con ilsuo lavoro, in parti-colare con il SyrianHuman Rights In-formation Link, as-sociazione impegna-ta nella documen-

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Il suo amore èstato più forte

I ncontrato Gesù, Tee, giovane thai-landese, non può far altro chespendersi per farlo conoscere al

mondo. Per questo ha scelto di entrarenella Congregazione delle Missionariedi Maria (più conosciute come SuoreSaveriane), dove sta proseguendo lasua formazione religiosa.

Mi chiamo Benedetta Jongrak Donoran(Tee). Sono nata a Khon-Kaen (Thailandia)nel 1975 e sono stata battezzata a Pasquadel 2012. Attualmente sono postulantenella Congregazione delle Missionarie diMaria. La mia famiglia d’origine è buddistae vive secondo l’insegnamento che anch’iocondividevo: fare il bene ci libera e ciassicura il paradiso. Chi fa il bene riceveil bene. Perché dev’esserci Gesù cheprende su di sé le conseguenze dei nostripeccati al nostro posto?Mentre studiavo, ebbi l’opportunità dientrare in una chiesa cattolica, nel miopaese, la chiesa dell’Immacolata Conce-zione. Avevo allora 15 anni e le suore,Figlie della Carità, avevano invitato noiragazze ad una celebrazione domenicale.Ci andai con le mie amiche e appenaentrata in chiesa vidi la statua di unadonna: non sapevo chi fosse, ma micolpì la sua bellezza e il suo modo diguardarmi. Poi vidi l’immagine di unuomo crocifisso: mi faceva molta paura.Da allora ho iniziato a partecipare dimia iniziativa alla messa della domenica:ero attirata dalla bellezza di quella donnae volevo conoscerla meglio. Cominciai

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

Nelle pagine:

Tee, giovane thailandese, entrata nellaCongregazione delle Missionarie di Maria -Saveriane, dove sta proseguendo la suaformazione religiosa.

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quietudine e il mio disagio crescevano.Una notte, in un dormiveglia inquieto,sentii una voce che mi ordinava: «Vai alavorare altrove! Vai lontana da questogruppo!». E un’altra voce diceva condolcezza: «Tee, io ti amo». Questa miportò tanta pace e calma nel cuore.Dopo poco più di un anno, chiesi di ri-cevere il battesimo. Il padre mi invitò adaspettare ancora. Rimasi male: era comeperdere la faccia, perché ero andata

sicura di poter ricevere ciò che chiedevo.La verità è che non ero ancora prontaper ricevere il sacramento del battesimo:volevo solo curare il malessere chesentivo, ma non chiedevo la misericordiadi Dio. Pian piano mi resi conto che ilbattesimo non potevo riceverlo per miomerito, ma solo per dono di Dio.Frequentai il catechismo per un altroanno. Ora, in ginocchio, chiedevo la mi-

così a conoscere la Madonna e Gesù.Non credevo che Gesù fosse Dio e michiedevo come potesse, un uomo, eli-minare i peccati di altri uomini. Avevo,però, tanta fiducia in Maria: pregavo ilrosario che avevo imparato dalle suoree partecipavo alle attività domenicalicon i cristiani. Non avevo, tuttavia, in-tenzione di cambiare religione o di di-ventare suora; non ero neppure interes-sata alla catechesi, perché temevo chemi venisse fatto il la-vaggio del cervello: fa-cevo di tutto per di-fendermi dallo stare vi-cino a Gesù.Continuai a lavorare estudiare nella stessascuola. A 33 anni, decisidi licenziarmi per se-guire il mio ideale e de-dicarmi al bene dellasocietà come insegnantevolontaria nei villaggidi montagna. Ero sullamia strada quando glieventi mi fecero incon-trare, a Chiang Mai, pa-dre Raffaele del Ponti-ficio Istituto MissioniEstere (PIME). Andai alavorare con lui alla Casadegli Angeli, nella par-rocchia di Nostra Si-gnora della Misericordia,à Nonthaburi, e con leMissionarie di Maria,Saveriane.Dopo un certo tempo, volli curiosare trai gruppi di catecumenato per vederecosa si faceva. Conobbi un po’ di piùGesù e ascoltai il suo Vangelo. Sentii lasua Parola lavorare come lama affilatanel mio cuore. Le sue esigenze mi in-quietavano, eppure non volevo cedere:continuare ad ascoltare la sua Parolaera come giocare col fuoco. La mia in-

sericordia di Dio. La grazia venne comeconversione del cuore: quella personache resisteva e lottava con autosufficienza,convinta di poter fare il bene da séstessa, il Signore la rendeva più umile epiù mite: «Vi darò un cuore nuovo,metterò dentro di voi uno spirito nuovo,toglierò da voi il cuore di pietra e vi daròun cuore di carne» (Ez 36,26). Attraversoil battesimo sono morta e rinata di nuovonel Signore Gesù. Mi sono lasciata vincere

dal suo amore, dalla sua pa-zienza, che aspettava chesua figlia tornasse a Lui.Non avrei creduto senzaavere l’esperienza dell’amoredi Dio. Avevo sempre rifiu-tato me stessa al SignoreGesù chiudendo occhi, orec-chi e cuore. Ma alla fine hosperimentato il suo amorenella mia vita, il suo aiutoconcreto. Il Signore mi haistruita e condotta attraversole prove, mi ha fatto vederetanti segni divini nella miavita. Alla fine ho potuto ac-cettare la mia debolezza.Non tenterò più di fare ilbene da me stessa, senzal’aiuto che viene dall’amoredi Gesù per me.Dio è amore e si è manife-stato in Gesù. Io l’ho incon-trato! Ecco la Buona Notiziaper la quale anch’io desideroora donare la mia vita.

Continuerò a cercare la volontà di Dio.Lo ringrazio per il dono grande del SuoFiglio e dello Spirito Santo che hanno il-luminato la mia vita e per aver mandatoi missionari a testimoniare il suo amorein Thailandia. Davvero la parola di Dionon è semplicemente lettera scritta inun libro, ma è Parola viva che dona vita.

Benedetta Jongrak Donoran

Posta dei missionari

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dove i prezzi sono piùconvenienti.Alcuni venditori pensa-vano che io avessi unorfanotrofio, invece cheun Seminario.Un giorno mi fermai achiacchierare con loro,chiesi perché non an-dassero a scuola e se ci fosse stato qual-cuno volenteroso di farlo. Mi raccontaronotutte le loro difficoltà e disavventure.Ma uno, Peter, mi disse che voleva ri-provarci. Allora abbiamo trovato unascuola che lo accettasse, comperato ladivisa e tutto l’occorrente. In alcunematerie come la matematica era il piùbravo e si meravigliava come gli altritrovassero difficoltà; in altre, come l’in-glese, faceva più fatica. Dopo qualchemese, però, ha lasciato. Non ne potevapiù, perché alcune volte andava a scuola

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Posta dei missionariMISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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C’è speranzadi Risurrezione

Ragazzi al mercato di Morogoro (Tanzania).

con la divisa stropicciata o sporca eveniva deriso. Essendo il più grande dellaclasse, sapeva difendersi dagli attacchidei compagni ma veniva punito dall’in-segnante. Si è convinto che non serveandare a scuola e che al mercato puògià vivere come i grandi.Tra questi ragazzi non c’è rassegnazione,rancore o tristezza per il loro stato divita. Sono sempre allegri e contenti. Conun niente sanno divertirsi e sono moltoinventivi. Nonostante la povertà, tra loroc’è speranza, c’è voglia di vita.I bambini che vivono nella miseria hannola gioia di vivere e nonostante tutto,trovano come giocare e, soprattutto,sorridere. Il loro sorriso incanta. Il lorofuturo è il presente ed hanno moltasperanza nell’avvenire.Insomma, c’è speranza di Risurrezione.Anche gli apostoli, quando Gesù fu con-dannato e messo in croce, si sono trovatidavanti ad un fallimento: tutto quelloche avevano pianificato e sognato ècrollato, ed erano abbattuti. Poi Gesù èrisorto. Sono stati un po’ increduli escettici, ma con la Pentecoste hanno ri-preso coraggio e fervore.

Fratel Alessandro Bonfanti, missionario della Consolata

Tanzania

Ogni settimana mi capitava di an-dare al mercato per comperare ilnecessario per il mantenimento

del Seminario. Qui in Tanzania abbiamouna trentina di giovani tre i 23 e i 28anni che frequentano l’università cattolicae si preparano a diventare missionaridella Consolata.Quando raggiungevo il mercato e par-cheggiavo la macchina, un drappello diragazzini mi correva incontro per aiutarmia portare la spesa e poi ricevere duesoldi di mancia. Sono ragazzi tra i settee 13 anni. Non vanno a scuola perchépoveri e con problemi familiari. Sonolasciati a se stessi e si devono automan-tenere. Alla fine della giornata, tra irifiuti di frutta e verdura trovano semprequalcosa con cui sfamarsi.Non mi hanno mai preso niente, anzi:sono sempre stati per me come la guardiadel corpo e mi hanno aiutato ad andare

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“P osso darti una mano?” di Piero Stefani propone un’indagine sui motivi profondi chespingono alcuni uomini ad aiutare gli altri. Si tratta di solo altruismo? È sempre

spontaneo, magari in attesa di una ricompensa nell’aldilà?Per l’autore sono almeno cinque le ragioni che ci spingono ad aiutare gli altri: perché convienein una prospettiva tanto economica quanto relazionale; per un moto di compassione solidale;perché ci viene “comandato” sia in ambito civile che religioso; perché nessuno di noi è com-pletamente autosufficiente; per combattere il male presente nel mondo. Motivazioni, queste,che spesso nella vita pratica possono coesistere.Basta la volontà di fare il bene o bisogna agire con competenza e senso pratico? Questa èuna domanda sulla quale l’autore riflette a lungo, soprattutto per il momento storico chestiamo vivendo, in cui l’accento sulle competenze si fa sempre più pressante. Il pregio dellibro sta proprio nell’organicità e nel legame tra dottrina (teoria, pensiero) e prassi, sostenutoda esempi di bene attivo, come l’opera di don Giovanni Barbareschi che, anche in violazionedella legalità, mise in salvo molti ebrei, o quella di un soldato della Wermacht che accompagnòla filosofa ebrea ungherese Agnes Heller e la madre nella zona internazionale, dopo essersiassicurato di non essere visto da nessuno. Nel percorso l’autore fa riferimento a diversi testisacri e cita anche il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani che parla difratellanza, in cui, però, ravvisa il rischio che le componenti più forti della società si prendanocura degli altri solo in virtù dei propri interessi.Nella prassi è importante anche soffermarsi sul “come” aiutare gli altri. Qui la vera lezione sta nel “posso”, nella sua valenza dirichiesta discreta fatta con un sorriso, lontano dalla cupezza rancorosa dell’accidia e soprattutto nel rispetto della dignità dellapersona. Maria Lucia Panucci

N ell’era dell’infosfera,del cyberspazio e del

web 3.0, occorre inter-rogarsi e riflettere appro-fonditamente sui mediadigitali. L’impatto di in-ternet e dei social, infatti,incide sul comportamen-to delle persone e nei rap-porti interpersonali me-diati dalle reti sociali. Vin-cenzo Grienti, giornalistae digital editor, nel libro“Immersi nell’Infosfera.Chiesa, comunicazione ecomunità” dà alcune lineeguida per comprendere il funzionamentodell’economia digitale fondata sullo sfrut-tamento dei dati, sulla pubblicità on line,sulla monetizzazione e su tutti gli aspettidel marketing a cui, spesso, non si fa

bienti della vita sociale, politica ed eccle-siale. Darsi delle buone regole aiuta a rag-giungere l’obiettivo, che poi è quello dicomunicare ciò che si fa. Questo permetteanche di trasmettere contenuti e messaggidi qualità.La presenza della Chiesa in questo nuovocontesto comunicativo del web deve con-siderare e rispondere a domande circal’approccio con i cosiddetti new media.Internet e i social network sono un test diverifica per la Chiesa che oggi più chemai deve ripensare il modo di comunicaredentro e fuori il mondo digitale, per daremaggiore valore alle relazioni interpersonali,al dialogo e all’incontro delle persone nellavita reale. Solo con la comunicazione in-terpersonale è possibile creare comunitàche nei social network possono diventarecommunity credibili, ridando alla Rete ilsenso e il significato più intenso e affa-scinante: la condivisione e l’interazione.Il volume si chiude con l’utile glossariodell’infosfera.

Chiara Anguissola

caso quando si apre unaccount.Prima di buttarsi nel maremagnum del web, bisognaporsi delle domande pre-cise: a chi mi voglio rivol-gere? Cosa voglio comu-nicare? Quali risorse sonodisposto ad impegnare?

Quali account ufficiali saranno integrati?Bisogna avere un progetto in mente -spiega l’autore - e ricordarsi la forza am-plificatrice dei social network che oggi piùche mai pervade e incide su tutti gli am-

Vincenzo GrientiIMMERSI NELL’INFOSFERA.CHIESA, COMUNICAZIONE ECOMUNITÀEdizioni DehonianeBologna - € 12,50

LIB

RI

Chiesa, community e social

Piero StefaniPOSSO DARTI UNA MANO?Edizioni Dehoniane Bologna - € 10,00

La solidarietà in pillole

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un poliziotto, Naim (Majid Mastoura), chela vigila insistentemente (anche per riusciread andare a cena fuori con lei).Di fatto nel film scorre una galleria di per-sonaggi che rappresentano i cambiamentidella storia recente della Tunisia del postBen Ali, che suscitano incomprensioni edistorsioni in alcuni soggetti in modo par-ticolare. Selma ascolta i malesseri di unasocietà che ha bisogno di comprenderele trasformazioni delle relazioni e dei co-stumi sociali. I pazienti sono diversi uno

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Un divan à Tunis

usando la satira e la commedia.Nel Paese dominato dall’incer-tezza, la storia di Selma (l’attricefranco-iraniana Golshifteh Fa-rahani) e dei suoi originali pa-zienti, apre uno spaccato sullasocietà tunisina in bilico tra mo-dernità e tradizione, delusa dallesperanze di democrazia sfioritecon le Primavere, e ancora scet-tica nei confronti di stili di vitaoccidentali. Abituati a scambiarsiconfidenze tra i vapori deglihammam, dal parrucchiere perle donne o nei caffè per gli uo-mini, tanti non vedono di buonocchio la 35enne psicanalistache riceve in casa uomini solisu appuntamento, veste in jeans,non porta il velo, non è sposatae fuma in pubblico. Molti infattinon credono in questo approc-cio terapeutico alla malattia men-tale, a partire dallo zio Mourad(Moncef Ajengui) che le consi-glia di tacere sul fatto che il ritratto sulmuro di Sigmund Freud raffigura un ebreo.E l’immagine del vecchio con la barbaarricchita da un fez sulla testa incarna iltentativo di introdurre la psicoanalisi inuna realtà che non l’aveva mai praticataal di fuori di élite sociali e culturali. Peresercitare la sua professione, Selma habisogno di una licenza speciale e la bu-rocrazia locale e le relative pratiche la co-stringono ad una serie di spiegazioni, nonsi sa quanto comprese, in particolare da

M entre molti cercano di andarseneda Tunisi, Selma imbocca la dire-

zione contraria. Lascia la Francia dove èemigrata con la famiglia a dieci anni, doveè cresciuta e ha studiato, per tornare nellacittà di origine della sua famiglia e aprireuno studio di psicanalista. Sua cuginaOlfa cerca di convincerla a rinunciare, leiche indossa il velo per le vie di Parigi nonper osservanza religiosa ma per coprirela tinta sbagliata che il parrucchiere le hafatto ai capelli. Ma Selma ha deciso: pro-prio dove la psicoanalisi veniva un tempoguardata con diffidenza, lei andrà ad eser-citarla. E per prima cosa comprerà un di-vano dove mettere comodi i pazienti, unluogo in cui ognuno possa parlare inlibertà dei suoi problemi irrisolti. “Un divanà Tunis” (Arab Blues) opera prima dellaregista franco-tunisina Manele Labidi, pre-sentato con successo al Festival cine-matografico di Venezia 2019 per le “Gior-nate degli Autori”, mette in scena una Tu-nisia post rivoluzione dei Gelsomini (2010),

Ma Freud

portava il fez?

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ben chiari nell’immaginario collettivo locale(a partire dal ruolo dell’uomo nei confrontidella donna). Selma sembra riscoprire,sotto la veste professionale, la culturaoriginaria di provenienza, e la guarda oracon un approccio diverso. La bravissimaGolshifteh Farahani interpreta con natu-ralezza la terapeuta come icona di unadonna moderna, che sperimenta le con-seguenze della sua libertà in ogni minutodella sua vita: in un tono di rimprovero obeffa, con umorismo o brutalità, il suo

dall’altro ma tutti bi-sognosi di passaredel tempo sul divanodi Selma. Sedutadopo seduta, affiora-no le loro singolaritànascoste dietro ma-schere di convenien-za sociale, dietro abi-tudini difficili da eli-minare, preconcetti osogni inconfessabili.Ogni paziente è unastoria emblematica,raccontata con l’humor e il ritmo di unacommedia, laddove invece avrebbero po-tuto essere usati toni drammatici di de-nuncia di malessere e disorientamentosociale, diffuso in ogni fascia della po-polazione.“Un divan à Tunis” usa il genere dellacommedia per pensare, si serve dellarisata come un’arma per rivelare e superarele tensioni, senza arrivare mai alle forzaturedi una narrazione macchiettistica rappre-sentando i tunisini secondo dei clichè

comportamento è giudicato in relazionea norme a volte maschili, a volte femminili,a volte sociali. E la testardaggine che ma-nifesta durante il film dice molto sullalotta che le giovani generazioni femminilidevono combattere nel mondo islamico.Selma, che incarna la mutazione dellaspecie (femminile), dimostra l’importanzadi dare ascolto agli altri, per arrivare allareciproca libertà di mostrarsi per ciò chesi è davvero, nella propria peculiarità,senza accettare le gabbie dei ruoli e deglistereotipi. La regista Labidi ha spiegatoche «scegliere come espediente la psi-coanalisi e declinare la storia in forma dicommedia mi ha permesso di creare per-sonaggi complessi, mettere l’accentosulla loro dolce follia, ma anche mostrareil terreno impervio nel quale la crisi eco-nomica e l’ascesa dell’islamismo ha spintoquesti individui». Un punto di vista nuovoe originale per guardare alla Tunisia, distesisu un divano.

Miela Fagiolo D’[email protected]

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OBONGJAYAR

La Nigeriain Occidente

Londra, ha cominciato a mettere in mostrail suo talento sul web finché è stato notatoda un pezzo grosso della XL Records chegli offrì il primo contratto.Il suo stile spazia dal funk all’elettronica,mischiando melodie, rap e talking, soulmodernista e afrobeat: un melting-pop chesottintende la sua naturale predisposizionea mescolare culture diverse ed etnie di tuttoil mondo. In molte sue composizioni Obon-gjayar sottolinea le sue origini africane, male rilegge attraverso i paesaggi urbani oc-cidentali e con gli spunti offerti dalle in-quietudini postmoderne, dalle intolleranzerazziali, dalle cronache contemporanee:per esempio, in Dreaming in transit (unodei brani del suo recentissimo Which wayin forward?) ci sono riferimenti al tragicoincendio della Grenfell Tower del 2017, nelquale morirono 72 persone.Obongjayar è un figlio del nuovo millennioche sa dare voce alle tensioni di questopresente, e lo fa con una vocalità scurae molto più matura di quella che ci siaspetterebbe da un ventiseienne. Masono soprattutto gli aromi, le atmosferee i ritmi della madre Africa ciò che, findal primo approccio, sprizza dalle suecanzoni, unitamente a una propensioneverso una spiritualità profonda, figlia an-che di una personale rielaborazione del-l’educazione ricevuta nell’infanzia (anchese oggi il suo sentire è meno connotato,

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S i chiama Steven Umoh, ma nel mondomusicale tutti lo conoscono come

Obongjayar. È uno degli astri nascenti dellanuova musica africana e uno dei personaggipiù in vista della scena nigeriana contem-poranea. Anche se in realtà Steven si ètrasferito a Londra appena diciassettenne,non ha tagliato i ponti con le radici cheanzi - col suo arrivo in Occidente e conl’ingresso nel music business - parrebberoessersi ancor più rinsaldate. Cresciuto aCalabar, città turistica all’estremo Sud ni-geriano, affacciata sull’Atlantico, Obongjayarha una storia difficile alle spalle: è cresciutocon la nonna (la madre era scappata in In-ghilterra per sfuggire a un marito violento)e ha sviluppato il suo amore per la musicaascoltando le stelle dell’hip hop occidentale,da Eminem a Usher. Raggiunta la madre a

da ragazzino Steven era un devoto cattolico):«Religione e spiritualità sono due cose di-verse – ha affermato di recente –. La spi-ritualità è un sentimento, un senso dell’es-sere. Si tratta di capire chi sei, invece difartelo dire da qualcun altro. Concentratisull’essere una brava persona, fai agli altriquello che vuoi che sia fatto a te stesso:se c’è un paradiso, ci andrai comunque».Ora anche la stampa internazionale si stainteressando a lui e fioccano recensionientusiastiche: «Obongjayar ha un potenzialesenza limiti, ed è eccitante pensare a dovepotrà portarlo in futuro il suo talento» hascritto Thomas Hobbs su Crack Magazine,ed è probabilmente vero. Anzi mi viene dapensare che i tanti travagli della Nigeriaodierna – in primo luogo i deliri e le stragijihadiste di Boko Haram – potranno iniziarea risolversi anche grazie agli approcci ditanti nuovi artisti che, come lui, sanno tra-durre ed esportare le speranze di un popoloattraverso la forza universale della creati-vità.

Franz [email protected]

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VITA DI mIssIo

I n occasione della Pasqua 2019 avevamo lancia-to la Campagna “Un uovo di Pasqua speciale”. Con2 euro si poteva contribuire all’acquisto di un pul-

cino a favore dei bambini accolti nel Centro di Kin-goué, nella Repubblica Democratica del Congo.Grazie alla vostra generosità abbiamo raccolto la ci-fra di 4.700 euro per un totale di 2.350 pulcini.Riceviamo e pubblichiamo la lettera di don GhislainNgamouna, presidente dell’Associazione Maison duCoeur-Amis du Congo e responsabile del progetto.

Tanti pulciniper i bambinidi Kingoué

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Grazie dal Congo

Carissimi amicie benefattori di Missio,a nome dell’Associazione Maison du Coeur-Amisdu Congo, voglio esprimere tutta la gratitudineper la vostra solidarietà. Abbiamo ricevuto dallaFondazione Missio, l’ammontare di € 4.700 per ilprogetto dell’Orfanotrofio di Kingoué. Abbiamogià iniziato a riempire il pollaio di polli cheforniscono uova fresche ogni giorno. Man manoche riusciremo ad ingrandire il locale del pollaione acquisteremo altri. Nel frattempo, abbiamoiniziato anche a seminare l’orto per raccogliereverdure fresche al più presto. I bambini, le lorofamiglie e tutti i membri dell’Associazione vidicono “infinitamente grazie”! La nostramissione è sempre aperta e vi aspetta a bracciaaperte.Grazie a tutti i benefattori per i doni fatti conamore! Il Signore vi renda il centuplo!

Don Ghislain Ngamouna

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VITA DI mIssIo

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di LOREDANA [email protected]

DON PAOLO BOUMIS, FIDEI DONUM RIENTRATO DAL BRASILE

C’è un albero, nel Sertão, che sichiama Algaroba: «Non è unapianta autoctona, è stato in-

trodotto per l’estrema velocità di cre-scita e si usa per il legname ottimo daardere». Don Paolo Boumis, della dio-cesi di Roma, gli somiglia un po’. Anchelui in Brasile non ci è nato, ma tra unvia vai durato 13 anni e due espe-rienze come fidei donum, ha certa-mente dato i suoi frutti e acceso glianimi della gente.«Ho iniziato nel 1996 e, dopo aver ac-compagnato diversi progetti, ho chie-sto di partire», racconta don Paolo, 54anni, rientrato in Italia nel luglio 2019per motivi di salute. La sua prima mis-sione si colloca tra il 2008 e il 2011 nelMaranhão, nel Nord-est del Brasile,dove è anche stato docente e rettore

è occupato di «dare attenzione, con vi-site, incontri nelle comunità e nellescuole. Il 70% di persone prendeva psi-cofarmaci, mi sono dedicato per il90% del tempo ad ascoltare». In que-gli anni, infatti, «non c’è stato nessunsuicidio e la parrocchia ha cominciatoa sentirsi più autonoma e degna; i lai-ci si sono messi al lavoro».Floresta è una diocesi di 300mila abi-tanti e con un clero scarso: «C’erano vil-laggi che non vedevano un sacerdoteda 20-30 anni e, finalmente, si sonosentiti importanti e preziosi». E quella,per il fidei donum romano, è stataun’esperienza bellissima: «La missionemi ha insegnato a farmi tanti chilome-tri al giorno per cercare la gente, adascoltare senza pregiudizi, ad accetta-re gli eventi. Ti cambia il modo di ve-dere il mondo». E i brasiliani, con la lorotravolgente capacità di accogliere, glisono rimasti nel cuore e gli hanno of-ferto diversi spunti per un nuovo ap-proccio pastorale.

nel Seminario São Luis.La seconda esperienza,invece, dal 2014 al 2019,sempre nel Nord-est, si èsvolta nella diocesi di Flo-resta, a Itacuruba: «Unapiccola città di cinquemi-la abitanti», dove donPaolo è stato parroco diNossa Senhora dó ó (“inattesa del parto”, ndr).Una zona molto aridache, negli anni Ottanta,ha pagato a caro prezzo lacostruzione di sette enor-mi dighe; diverse città,completamente allagate,vennero ricostruite ex

novo in altri territori, con ciò checomporta un tale sradicamento.Così, per «famiglie divise, disoccupazio-ne, perdita dell’identità e 30 anni di sus-sidi governativi», Itacuruba vanta «il re-cord della città con il più alto tasso didepressione e di suicidi». Per questa ra-gione, don Boumis, fin dal suo arrivo,ha cercato soluzioni per creare lavoro(costruzione di pozzi, acquisto di ter-reni, progetti agricoli) e, soprattutto, si

Ascoltare lesofferenze nascosteDon Paolo Boumis celebrala messa della Madonnadi Lourdes, la prima festapatronale per il popolo Pankarà.

Albero di Algaroba.

La prima uscita sul Monte Serrote del grupposcout fondato da don Boumis nel 2016.

Paesaggio di Itacuruba.

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57POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

Missione andata e ritorno

di LOREDANA [email protected]

A sinistra:Caterina Fassioconsegna a papaFrancesco, durante lavisita apostolica inMozambico delsettembre 2019, unacroce fatta con tappi dibottiglia rivestiti dastoffe africane, operadei bambini ospitidell’orfanotrofio.

vita: dei banditi sparanosul pick up della missione di-retto all’ospedale di Wam-ba e muore, davanti ai suoiocchi, l’uomo anziano sedu-to in cabina. «Gli avevo ce-duto il mio posto in segnodi rispetto e mi ero andataa mettere dietro, nel casso-ne. Il Signore ha preso lui eha risparmiato me».Quel 14 luglio 1998, cam-bia di posto anche la pau-ra; conclusa la missione,accetta di ripartire per ilMozambico, dove resteràper 20 anni sempre a fian-co di don Pio Bono, rientra-to con lei dopo 50 di mis-sione. «Oltre che dare un si-gnificato pieno alla mia vita, era ilmodo per restituire la grazia ricevuta»,dice Caterina, che ha amato fin da su-bito l’espressione “missionari laici fideidonum”. «Ho sempre sentito che non an-davo a titolo personale, ma che rappre-sentavo la diocesi che mi ha inviata. Edessere donna mi ha reso più facile en-trare in empatia con la gente».

Arrivano il giorno dopo il passaggio delciclone Eline del 22 febbraio 2000, inuna terra già martoriata dall’alluvionee dalla lunga guerra civile. Dopo un pri-mo periodo a Maimelane, il vescovo diInhambane chiede di aprire una missio-ne a Inhassoro, una cittadina affaccia-ta sull’Oceano Indiano. «Qui abbiamoiniziato dal nulla, celebrando le primemesse sotto una pianta. Poi abbiamo co-struito la chiesa, due collegi (femmini-le e maschile), un orfanotrofio, unCentro pastorale, 12 asili e, con l’aiutodelle Acli, una scuola tecnica di eccel-lenza per 700 studenti, Estrela do Mar.Ora, è tutto nelle mani dei mozambica-ni: un Paese povero, una Chiesa ricca disperanza».

Il mio posto nel mondoè in missione

CATERINA FASSIO, FIDEI DONUM RIENTRATA DAL MOZAMBICO

Q uando è partita la prima volta,a 25 anni, Caterina Fassio pen-sava di «fare un’esperienza al

massimo di 24 mesi»; invece, è rientra-ta dopo 28 anni. Praticamente, poco piùdella metà della sua vita si è svolta inAfrica: dal 1991 al 1999 in Kenya e dal2000 a gennaio 2020 in Mozambico. Piùche perdere la cognizione del tempo,però, in missione, ha trovato il suo «po-sto nel mondo». Originaria di Cigliano,della diocesi di Vercelli, aveva studiatocome assistente sociale. «Venivo dal-l’esperienza del volontariato: servizio alCottolengo, catechismo, parrocchia,oratorio. Ma tutto ciò non riempiva lamia vita».Con lei, nella sua prima esperienza nel-la diocesi di Meru, i sacerdoti fidei do-num vercellesi don Pio Bono e don Lu-ciano Pasteris. «Un’attività missionaria ditestimonianza e carità nel deserto, tra ipastori nomadi della tribù Borana, pre-valentemente di religione islamica». AMerti, zona pericolosa del Kenya, unevento segna profondamente la sua

In alto:Caterina Fassio con le maestre di asilo di Inhassoro.

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di Giovanni Lago

58 POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

TORNERÒ A CASACAMBIATOTORNERÒ A CASACAMBIATO

una spada di Damocle: da una parte, mi aiuta a rivivere queimomenti indelebili; dall’altra, però, mi fa sentire un forte sen-so di nostalgia. Di certo, svegliarmi ogni mattina con que-sta foto sulla parete della mia camera non è semplice. Sonoprofondamente legato ad ogni singolo particolare di que-sta immagine.Lei si chiama Mariam. Era l’ultima arrivata lì, in orfanotrofio aMigoli, e aveva due mesi. Quando la mattina andavamo adare una mano alle suore in orfanotrofio, venivamo a cono-

T utto ha avuto inizio nel 2016, un anno di svolta per la miaesistenza: stavo per terminare il percorso da liceale per

iniziare quello da universitario. Ero convinto che questo sa-rebbe stato il cambiamento più grande che stava per affac-ciarsi alla mia vita, ma non avevo fatto i conti con quello che,mese dopo mese, si stava sempre più consolidando nellamia testa e nel mio cuore: la convinzione che in quell’esta-te di transizione sarei partito, sarei partito per andare altro-ve, sarei partito per un posto che mi avrebbe offerto unosguardo diverso. Ad aiutarmi in tutto questo è stato, di cer-to, il Centro missionario della diocesi di Padova con il per-corso “Viaggiare per condividere”, offerto ogni anno a tut-ti i giovani che hanno nel cuore il desiderio di incontrare econoscere culture diverse.A quel punto c’era solo una domanda che dovevo pormi:«Gio, dove vuoi andare?». Nemmeno il tempo di capirmiun attimo, e subito la risposta mi si stava palesando: «Dio-incidenza su Dio-incidenza». Nulla infatti in quell’anno è sta-to casuale, c’era un luogo che continuava a tornare, ad emer-gere anche in contesti apparentemente staccati tra loro: laTanzania. Mi piace pensare che non sono stato io ad averscelto lei, ma lei ad avere scelto me.«Tornerai a casa cambiato», «Non tornerai più a casa», «Avraitantissimo da raccontare ma non ce la farai»: queste eranole frasi quasi intimidatorie che mi accompagnavano nell’at-tesa del tanto agognato mese di agosto. Cosa dovevo aspet-tarmi? «No, Gio, non devi aspettarti nulla. Accogli tutto quel-lo che viene», continuavo a ripetermi.A distanza di quattro anni mi ritrovo qui a sognare di rive-dere quella terra, quel ventre che mi ha accolto, mi ha vo-luto bene e che mi ha donato una nuova casa.Ma come facevo prima a vivere senza aver provato questaesperienza di vita? Rivedere le foto di quei momenti è come

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59POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

scenza delle storie dei vari bambini. Quella di Mariam è ri-masta impressa in tutti noi. Facilmente tra noi c’era chi eragià emotivamente sul piede di guerra contro la mamma diquella creatura… È bastato pochissimo per bloccare i pen-sieri e lasciare spazio solo all’ascolto.Poche settimane prima, la madre di Mariam aveva affidatoalle cure delle suore sua figlia dicendo: «Mi spiace dover-la lasciare qui, ma purtroppo io non riesco in alcun modoa darle da mangiare. Se la lascio a voi so che qui avrà i pa-sti assicurati… Mi raccomando, abbiate cura di lei». Nel no-stro orizzonte conosciuto, una mamma lascia la figlia per-ché non la vuole; ma in Tanzania, come in tanti altri Paesi, que-sta decisione è solo ed esclusivamente frutto d’amore perla vita della propria creatura, per salvarla dalla morte.Mi piaceva molto tenere in braccio Mariam. Quando arriva-vamo in orfanotrofio, le suore ci “affidavano” i bambini e ame toccava quasi sempre lei. Con i suoi grandi occhi con-tinuava ad osservare ciò che le stava intorno. Non piange-va mai. Sembrava addirittura che non sbattesse le palpebre.Era veramente piccola, piccola. Le piaceva quando, disten-dendo al massimo le braccia verso l’alto, le facevo vedereil mondo da un’altra prospettiva: rideva felice. Un giorno unaltro bambino, mentre faceva a gara per provare a salirmi inbraccio, mi disse: «Tu, papà mio e di Mariam».A volte mi dimenticavo dove fossi. Mi dimenticavo che lasperanza di ciascuno di loro era quella di vedere arrivare qual-cuno che avrebbe avuto cura di loro per sempre. In quei mo-menti mi fermavo e mi guardavo intorno. C’erano tanti ospi-ti: la più piccola aveva due mesi e i più grandi avevano lamia età, ma sembravano più adulti di me per i pesanti far-delli di vita che recavano sulle spalle. Si era formata una verafamiglia: le suore si facevano aiutare dalle ragazze più gran-di per far addormentare e dare da mangiare ai piccoli.Ogni volta che guardo questa foto, rivivo intimamente la curache avevano tutte le persone. Avevano cura di ciascun ospi-te, non si prendevano semplicemente cura: “avere cura” ri-manda ad un rapporto tra persone pienamente umano, doveè chiamato in gioco l’amore puro e sincero verso l’altro. Que-sto è proprio quello che ho vissuto anch’io in questa terradi missione: mi sono sentito voluto bene, un ospite impor-tante e, allo stesso tempo, uno di famiglia.Solo una volta tornato a casa, solo ora, ho capito - e com-prendo sempre più - cosa significava una delle frasi che ciè stata donata a conclusione della nostra esperienza: «Nonè il cuore a dover trattenere ciò che l’occhio ha visto, ma èl’occhio che deve trattenere ciò che il cuore ha visto».

VITA DI mIssIo

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COME PARTECIPARE:

Marzo 2020

(Quaresima)

Febbraio 2020

Gennaio 2020

Dicembre 2019 (Avvento/Natale)

Novembre 2019

Aprile 2020

Maggio 2020 (Pentecoste)

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importante e, allo stesso tem-po, singolare. Da una parte,«partecipano attivamente allavita missionaria della Chiesamarchigiana come, per esempio,per l’incontro regionale dei Giovani Mis-sionari di Loreto nel 2018». Dall’altra,

di LOREDANA [email protected]

VITA DI mIssIo

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«Una regione vivace nelle di-namiche e varia nelle realiz-zazioni locali, come si intra-

vede nel suo stesso appellativo “alplurale”». Così definisce le Marche donNicola Spinozzi, Segretario regionaledell’Ufficio per la cooperazione missio-naria tra le Chiese, oltre che direttoredel Centro missionario diocesano di SanBenedetto del Tronto–Ripa-transone-Montalto. In effet-ti, «in tutte le diocesi ci sonosvariati gruppi e responsabi-li laici che si adoperano pertenere vivo lo spirito missio-nario», pur tra le difficoltà le-gate alla scristianizzazioneprogressiva del territorio.Per don Nicola «è un humusche lega passato e presen-te e fa vivere alla nostra re-altà ecclesiale l’apertura almondo». Processo in cui igiovani giocano un ruolo

Le Marche,regione“al plurale”

Le Marche,regione“al plurale”

si rivelano sfuggenti al coinvolgimen-to in un progetto continuativo, puresprimendo «atti sorprendenti di gene-

rosità e grande entusiasmo».«Forse, è un segno dei tem-pi», commenta con lucidaobiettività il sacerdote mar-chigiano che, tuttavia, avver-te l’urgenza di “un ricambiogenerazionale”: «Nei Centrimissionari c’è una buona pre-senza, anche se l’età dei com-ponenti è piuttosto elevata».Ragion per cui occorre «nomi-nare come direttori, giovanipresbiteri e favorire un nuovoslancio missionario cercando un

Don Spinozzi e monsignor D’E

rcole in Albania.

Monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno edelegato per le Missioni delle Marche, in Marocco.

Sopra:Don Nicola Spinozzi, Segretarioregionale dell’Ufficio per laCooperazione missionaria tra leChiese delle Marche.

POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

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to partecipate e varie iniziative. Rispet-to alla «sensibilizzazione missionariadella realtà ecclesiale marchigiana»,inoltre, don Nicola menziona i 200 sa-cerdoti di origine non italiana presen-ti nelle varie diocesi e i fidei donum, sul-la scia di Matteo Ricci. «Lo spirito diquesta figura straordinaria del XVI se-colo è nel Dna della Chiesa nelle Mar-che, anche grazie al Seminario Redem-ptoris Mater di Macerata, che prepa-ra sacerdoti per l’Oriente e per la Cinain particolare». Questo “fuoco missio-

nario” anima anchedon Nicola Spinozziche, quando fu infor-mato dal vescovo del-la sua nomina, rimasemolto stupito: «Io chenon ero mai andato inmissione, se non perbrevi visite, Segretarioregionale. Di certo,quello che non mimanca è la voglia diportare il kerygma atutte le genti e di met-termi al servizio dellaChiesa spinto dalloSpirito Santo».

tive «per educare ad essere responsa-bili in una “Chiesa in uscita”». Essa «haaperto, per noi della Commissionemissionaria regionale e per il Semina-rio, una finestra sul mondo islamico esulla presenza evangelica di cristiani“servitori della speranza”». Così come ilviaggio in Albania nel 2017, l’esperien-za è stata guidata dal vescovo delega-to, monsignor Giovanni D’Ercole. LeMarche hanno vissuto intensamenteanche il Mese Missionario Straordina-rio dell’ottobre scorso, con veglie mol-

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In questa sintesi del pensiero di monsignor Giovanni D’Ercole, alcuni aspet-

ti della missionarietà della regione Marche.

Le Marche sono una regione con una molteplice presenza di propulsione mis-

sionaria, sostenuta dai vescovi da sempre: dagli Istituti di vita consacra-

ta con carisma missionario ai fidei donum, dalle diocesi gemellate con le

missioni al Seminario regionale Pio XI di Ancona. È inoltre evidente l’azione

dello Spirito Santo, che ha suscitato nel corso dei secoli belle figure di mis-

sionari, autentici e coraggiosi pionieri dell’annuncio del Vangelo. Se il gesui-

ta maceratese Matteo Ricci, apostolo dell’evangelizzazione in Cina, è il più

conosciuto, non meno importante è padre Carlo Orazi, francescano, nato

il 20 maggio 1673 a Castorano (Ascoli Piceno) e giunto in Cina nel 1700. Fu

uno dei principali assertori delle posizioni di Propaganda Fide e della San-

ta Sede sul problema dei riti cinesi. Ripartì per l’Italia nell’ottobre 1733, e

nel 1742 fece ritorno al paese natale, nelle Marche, dove morì il 1º febbraio

1755. Sulle tracce di entrambi, le nostre comunità ritrovino un rinnovato slan-

cio apostolico e missionario, arricchito dallo scambio con le Chiese di più

recente evangelizzazione.

LE MARCHE, TERRA DI PIONIERI DELL’EVANGELIZZAZIONE

POPOL I E M I SS I ONE - A PR I L E 2 0 2 0

Don Nicola Spinozzi, Segretario UfficioCooperazione delle Marche

coordinamento maggiore», conside-rando che alcune realtà «sono parte in-tegrante della Chiesa diocesana ed al-tre vanno per conto proprio».Una «feconda e diretta collaborazione»che don Spinozzi evidenzia è quella coni Saveriani, gli Scalabriniani, i Combo-niani, ecc. A cui si aggiunge «una bel-la condivisione» con il Seminario regio-nale di Ancona, per «allargare gli oriz-zonti pastorali parrocchiali e far cresce-re i pastori di domani in apertura dimente e di cuore, in un mondo checambia».Diverse le attività di formazione eprogettazione messe in atto, tra cui: lapartecipazione di un seminarista alla vi-sita missionaria in varie parti del mon-do, «per essere vicino ai sacerdoti mar-chigiani in terra di missione»; la borsadi studio di un anno in Missiologia pres-so l’Università Urbaniana per un semi-narista marchigiano; una serie di incon-tri di testimonianza e riflessione deimissionari rientrati, programmati dal-la Commissione per i seminaristi stes-si».Anche la visita, nel settembre 2019, allaChiesa del Marocco e ai monaci di Ti-bhirine si può annoverare tra le inizia-

La Commissione missionaria regionale con monsignorGiovanni D’Ercole e don Claudio Marchetti, Rettore delPontificio Seminario Regionale Marchigiano “Pio XI”.

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renza un rapporto intimo con Dio,con il coniuge, con la famiglia e congli amici. Quando le ferite vengonoguarite, non c’è più bisogno di auto-medicarsi», anche se le cicatrici riman-gono. La presenza di un cammino difede è di grande aiuto, perché la per-sona in difficoltà ha un enorme biso-gno di sapere che nessuna strada le è�preclusa e che il valore che porta in sé�e la sua dignità come persona nonvengono meno di fronte a Dio. È� per-ciò di grande urgenza pastorale che talitematiche siano fatte oggetto di rifles-sione nelle comunità ecclesiali e neidiversi cammini formativi. In questocaso, quando il problema viene discus-so e affrontato con competenza e conl’apporto di tutti, diventa un puntocruciale, capace di contrastare effica-cemente quel clima di apatia sotter-ranea tra gli addetti ai lavori che ali-menta ogni tipo di dipendenza, daquelle più leggere e innocue a quellepiù pesanti che incidono in forma esi-stenziale sul vissuto delle persone. Ilcammino in questo caso può essere fa-ticoso e impegnativo. Certamente nonè impossibile da percorrere per chi concoerenza sincera cerca nuove strade pervivere il Vangelo.

Intenzioni missionarieA P R I L E

I N T E N Z I O N E D I P R E G H I E R AMISSIO

NARIA

men

te

di MARIO [email protected]

62 P O P O L I E M I S S I O N E - A P R I L E 2 0 2 0

La fede per risorgeredopo le cadute

“AFFINCHÉ TUTTE LEPERSONE SOTTOL’INFLUENZA DELLEDIPENDENZE SIANOBEN AIUTATE EACCOMPAGNATE

P ur nella diversità delle sue mani-festazioni, le dipendenze pre-

sentano molti aspetti in comune.Come in tutte le dipendenze è indi-spensabile riconoscere di avere un pro-blema e di non poterne uscire da soli,e perciò occorre impegnarsi affinchétutte le persone con queste problema-tiche siano ben aiutate e accompagna-te nel loro cammino di liberazione. In-nanzitutto occorre “lasciarsi aiutare”.E il passo insieme più difficile e im-portante va compiuto quando si toc-ca il fondo. Insieme a ciò è� indispen-sabile individuare le porte di ingres-so alle varie dipendenze. In questocaso le “calamite” non sono necessa-riamente sessuali; possono essere le-gate allo stato d’animo (noia), algioco, o a momenti critici (frustrazio-ne sul lavoro, momenti di difficoltàfamiliari, ecc.). Per comprendere me-glio è� indispensabile l’apporto di ungruppo di sostegno, composto da per-sone alle prese con lo stesso proble-ma e perciò in grado di comprende-re e consigliare le migliori strategie daprendere. È� poi necessario ritornaresulle ferite del passato, una costante,questa, frequente nelle dipendenze: untrauma, una violenza, un abbandono,

un lutto non elaborato, che si cercadi “medicare” il più delle volte con ri-medi discutibili, a volte purtroppo an-che con il porno o con il gioco d’az-zardo.Un percorso terapeutico-spirituale è�indispensabile per una guarigione:«Perdonare coloro che hanno ferito otradito, chiudere delle relazioni infe-lici, iniziare e portare avanti con coe-

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63P O P O L I E M I S S I O N E - A P R I L E 2 0 2 0

I N S E R T O P U M

MISSIO

NARIA

men

te

di GAETANO [email protected]

P O N T I F I C I A U N I O N E M I S S I O N A R I A

Biodiversitàdella missione

come di oggi. Cominciai a vederemeglio il molto bene che già avevoricevuto e che poteva perdersi se nonprovavo a spezzarlo con altri. Sì, eradiventato sufficientemente chiaroche solo Gesù col suo Vangelo po-teva essere una strada affidabile». AVenezia lascia la facoltà di architet-tura e inizia un percorso vocaziona-le varcando la porta del Seminariopatavino. «Furono anni belli e ric-chi di stimoli e di incontri: tutto miaiutò per fare un buon lavoro di di-scernimento. Vivevano in me intui-zioni, luminose e promettenti, maancora da mettere a fuoco».

Don Giancarlo Pavanello

»

A lla fine degli anni Settan-ta, Giancarlo Pavanellovive la prima parte della

sua giovinezza tra sport e parrocchia,tra povertà e sociale, tra diploma euniversità. Trait d’union è la passio-ne di un padre che lo inizia all’an-tico e appassionante mestiere delfabbro. Arriva il tempo della levamilitare, ma trova uno spazio perscegliere diversamente, grazie alla ri-flessione che nasce nel gruppo par-rocchiale quando incontra il memo-rabile scritto di don Milani “L’ob-bedienza non è più una virtù”.Racconta: «Il priore di Barbiana aiu-tò a chiarire che sul servizio milita-re un cristiano non può far finta dinulla. L’esercito non è lo strumen-to più adatto per le battaglie per cuisarei stato disposto a scendere incampo. Prima di ogni altro nemi-co restano da combattere tante po-vertà, molte discriminazioni, dirit-ti umani negati, nazionalismi sem-pre risorgenti». Cade ogni esitazio-ne e con altri amici parte per il ser-vizio civile alternativo a quello mi-litare, per ben 20 mesi. Sarà perGiancarlo un’esperienza fondamen-tale per le sue scelte future. Certo

che lasciare la bottega di papà e ve-dere la mamma impegnata con i fra-telli ancora giovani, sono stati mo-menti che hanno tracciato in modoindelebile il suo percorso.

IL SERVIZIO CIVILE, SCOPERTA DI PROFONDAUMANITÀQuei 20 mesi lasciarono il segno inGiancarlo, aiutandolo a mettere inluce il filo rosso della sua vita.«Erano gli anni delle nascenti Ca-ritas diocesane e per quasi dueanni mi ritrovai a fianco di vite mar-ginali, “residui sociali” di allora

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MISSIO

NARIA

men

te

adeguatamente accolta ripartendoincessantemente dal mandato diGesù. L’obiettivo resta chiaro: dare vi-sibilità a tutta la biodiversità dell’amo-re: la vita stessa del Dio trinitario».

UN NUOVO CONTINENTEOra per padre Giancarlo è il tempobuono per partire per un altro con-tinente. Dopo l’ordinazione, avvenu-ta nel 1988, la prima missione è interra ivoriana. «La terra e la Chiesadella Costa d’Avorio mi accolsero inquella che allora era la prima missio-ne di Villaregia in Africa. Con le so-relle e i fratelli di comunità, tutti gio-vani e inesperti, toccavamo le feritenon ancora rimarginate della recen-te tragedia coloniale insieme allaforza di una Chiesa che da pochi de-cenni stava mettendo radici. Questinovelli missionari percepiscono ildono che stanno ricevendo vivendoin terra d’Africa, nella banlieued’Abidjan con 200mila persone in-torno: questa la cornice. Vedevamoi poveri venire a Gesù e trovare vitaben al di là di noi. Più che sufficien-te per stancarsi senza affannarsi».

P O P O L I E M I S S I O N E - A P R I L E 2 0 2 0

Padre Pavanello ha un incontro for-te con la malattia, una chiamata im-provvisa che rimette in gioco le scel-te e le priorità. Il suo percorso uma-no e di fede si rimodella e scaturiscein lui uno stile missionario diverso,con approccio totalizzante per annun-ciare alcune pagine di Vangelo. «Pos-so sussurrare solo qualcosa. La con-vivenza col tumore, esperienza anco-ra in corso, è stata un vero fuori pro-gramma ma anche “un regalo” vero.Fino a poco tempo fa ho goduto deldono della salute. L’improvvisa espe-rienza della malattia ha provocatocome un’immediata dilatazione del-la mia esperienza missionaria. Di col-po, sulla mia carne, toccavo conmano la sterminata gamma dellefragilità che per tutti sono sempre die-tro l’angolo. Velocemente, con rela-

P O N T I F I C I A U N I O N E M I S S I O N A R I A

SI APRE L’ORIZZONTENel frattempo il percorso di padre Pa-vanello si sta realizzando e contem-poraneamente maturava anche l’in-contro con la missione: non era solouna tenue sfumatura vocazionale, maprendeva sempre più tinte forti in luiil desiderio di annunciare il Vange-lo e il Regno di Dio, non solo tra isuoi, ma con un orizzonte grandecome il mondo. «Per me ha preso ilvolto della Comunità Missionaria diVillaregia che, all’inizio degli anni Ot-tanta, generosamente accolta dallaChiesa di Chioggia, muoveva i suoiprimi passi nel cuore del Delta del Po.E da questo angolo marginale dellapenisola dove terra, fiume, mare e cie-lo diventano uno, lo Spirito ha ini-ziato a spingere al largo coppie di spo-si, donne e uomini toccati dal fuocodella missione». Giancarlo sente chequesto carisma missionario è il suo ve-stito, potrebbe veramente diventarela sua quotidianità: «La mia “scom-messa” missionaria nasceva e conti-nua a giocarsi sull’intima convinzio-ne, assunta come carisma, che la buo-na notizia del Vangelo possa essere più

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MISSIO

NARIA

men

te

naria in alcuni Seminari d’Italia: «LaChiesa esiste per evangelizzare» affer-mava in modo lapidario san Paolo VInella sua profetica Evangelii Nuntian-di, rimasta un prezioso distillato delConcilio. Voglio credere che ad oltre50 anni questo possa essere un tassel-lo ineludibile che illumina il miste-ro del nostro essere Chiesa. Dalla miaesperienza di incontro con i semina-risti e i loro formatori, scorgo chedopo una feconda stagione dove laChiesa italiana ha risposto generosa-mente all’appello dell’ “ad gentes”, an-che nei Seminari, per tante ragioni,ora si vive la fondamentale dimensio-ne missionaria con incertezza e diso-rientamento. Gioca molto “l’epoca dicambiamento” in cui siamo immer-si, iniziata almeno nel XIX secolo eche ora mostra i nodi che arrivano alpettine, a cominciare dall’individua-lismo imperante». Il missionario ri-flette sulla sua esperienza di anima-zione nei Seminari e si chiede «se riu-sciremo veramente ad accogliere laGrazia della missione come la stradamaestra di ogni possibile rigenerazio-ne ecclesiale». Tirando la somma diquesto percorso di animazione capia-mo ancora di più che la fede cresce(solo) donandola, lo ammoniva a tut-ta la Chiesa, dobbiamo ricordarcelo,proprio san Giovanni Paolo II nellasua Redemptoris Missio.Buona missione padre Giancarlo egrazie per l’entusiasmo e il tuo stiledi vivere e interpretare l’annuncio allegenti. Intuisco nella tua esperienza lapoliedricità, la biodiversità della mis-sione che genera e rigenera, nonostan-te tutto. Ti auguriamo di poter por-tare un annuncio che realizzi il tuo so-gno di discepolo missionario: unaChiesa missionaria povera, per e coni poveri.

P O P O L I E M I S S I O N E - A P R I L E 2 0 2 0

I N S E R T O P U M

tivo poco sforzo, vanno a fuoco lecose che contano e su cui vale dav-vero la pena investire il meglio di sé.Tutto il resto diventa sfumato e ac-cessorio. Forse ora capisco meglioPaolo quando afferma che quandosiamo deboli è allora che possiamo es-sere forti. Non sono forse la stragran-de maggioranza le vite in situazionedi carenza, frustrazione, debolezza, in-giustizia?». Affonda i suoi colpi la ri-flessione di padre Giancarlo, lucidi-tà e interpretazione serena di questotratto di vita. Si sente nel guado del-la missione. Anzi, dalla sua esperien-za capisco e mi suggerisce che, inter-pretandola, c’è una biodiversità del-la missione. È veramente un percor-so impegnativo, è uno slalom tra dif-ficoltà e affaticamenti, ma nello stes-

so tempo gli oc-chi guardanoavanti, il cuorescruta un oriz-zonte più am-pio e profondo:«Mi chiedevoper quale plausi-bile motivo do-vrei esserne pre-servato? Ognidiscepolo mis-sionario è chia-mato a stare nelmondo senza es-

sere del mondo e allora anche unamalattia impegnativa può essere unarisorsa preziosa per stare nella chia-mata ricevuta, probabilmente conmaggiore lucidità. O no?».

ANIMAZIONE E MISSIONEÈ un interrogativo che fa riflettere esprona a vivere una fede profonda-mente accanto all’uomo che ognigiorno è in ricerca di un benessere cheva oltre la propria pelle. Il racconto-vita di padre Giancarlo è veramentecoinvolgente. Nonostante tutto, no-nostante questi passaggi che segnanouna vita, riprende la sua missione piùbella che è l’entusiasmo dell’annun-cio, qui e in qualsiasi luogo. Adessoil suo impegno e le sue energie sonoconcentrate nell’animazione missio-

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Giornata Missionari Martiri

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La Chiesaper lapace

Anno XXIII – Aprile 2020 • Numero 4

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