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PAOLO MAGLIANI LETTERATURA E AUTOBIOGRAFIA NELL’ALBUM RADICI DI FRANCESCO GUCCINI Da Van Loon Quanti anni, giorno per giorno, Dobbiamo vivere con uno Per capire cosa gli nasca in testa O cosa voglia o chi è; Turisti del vuoto, esploratori di nessuno Che non sia io o me. Van Loon viveva e io lo credevo morto, O -peggio- inutile, solo per la distanza Fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d'allora, La mia ignoranza; Che ne sapevo quanto avesse navigato Con il coraggio di un Caboto fra le schiume, Di ogni suo giorno, e che uno squalo è diventato, Giorno per giorno, pesce di fiume. 1

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PAOLO MAGLIANI

LETTERATURA E AUTOBIOGRAFIA

NELL’ALBUM RADICI DI FRANCESCO GUCCINI

Da Van Loon

Quanti anni, giorno per giorno, Dobbiamo vivere con uno

Per capire cosa gli nasca in testa O cosa voglia o chi è;

Turisti del vuoto, esploratori di nessuno Che non sia io o me.

Van Loon viveva e io lo credevo morto, O -peggio- inutile, solo per la distanza

Fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d'allora, La mia ignoranza;

Che ne sapevo quanto avesse navigato Con il coraggio di un Caboto fra le schiume,

Di ogni suo giorno, e che uno squalo è diventato, Giorno per giorno, pesce di fiume.

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Indice

1. LA DIGNITA’ LETTERARIA DEL CANTAUTORE: FRANCESCO GUCCINI

2. INTRODUZIONE A RADICI

3. Radici

4. La locomotiva

5. Piccola città

6. Incontro

7. Canzone dei dodici mesi

8. Canzone della bambina portoghese

9. Il vecchio e il bambino

10. CONCLUSIONI

11. BIBLIOGRAFIA

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LA DIGNITA’ LETTERARIA DEL CANTAUTORE: FRANCESCO GUCCINI

Il settantenne Francesco Guccini da Pavana è certamente uno dei più noti compositori italiani viventi nonché “il più colto tra i cantautori in circolazione” per dirla con Umberto Eco, che così lo definì nel 1980.

Guccini non è soltanto un eccellente paroliere ma anche novelliere, romanziere, etimologo e glottologo, ex giornalista e insegnante di letteratura italiana oltre che attore per diletto.

Un personaggio, dunque, assolutamente poliedrico che merita una profonda analisi critica in tutta la sua vasta opera comprendente fin qui una ventina tra romanzi, racconti e autobiografie più un Dizionario del dialetto di Pavana che raccoglie i termini dialettali del suo amato paese di origine e le relative traduzioni in italiano.

A fare la parte del leone all’interno della sua opera sono però le più di centoventi canzoni sparse in quindici album che coprono un periodo temporale lunghissimo, dal 1967 al 2004 e non ancora terminato, visto che è in cantiere un nuovo album previsto per il 2011.

Da diverso tempo si discute se i brani dei più prestigiosi cantautori nostrani vadano letti come autentici testi poetici, degni di essere studiati e portati sui banchi di scuola al pari dei vari Leopardi, Ungaretti e Montale.

Di sicuro non è azzardato affermare che il ruolo culturale un tempo appannaggio del poeta è stato soppiantato nella seconda parte del ‘900 dalla figura del cantautore, in Italia come altrove, anche grazie al contributo di alcuni notevoli artisti che a partire dagli anni ‘60 hanno mosso i primi passi sulla scena coniugando perfettamente musica e scrittura, verve poetica e talento musicale.

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In quegli anni la “beat generation” aveva cambiato radicalmente i canoni sociali e culturali del pubblico giovane: la canzone “d’autore” diveniva simbolo di una nuova era di ribellione e di rottura con il passato e i cantautori stessi “una specie di nuovi dèi in terra, di nuovi chierici, di nuovi intellettuali dis-organici del movimento giovanile” , capaci in seguito addirittura di “sostituire i leaders carismatici del ‘68” come affermava Claudio Bernieri nel 1978.

Il cantautore “impegnato” si trasformava in “guida” e “vate” di un’intera nuova generazione interpretando un ruolo molto più “ingombrante” e “politico”, dettato certamente dalle condizioni storiche del periodo, che allo stato attuale è andato perduto.

Il messaggio di Francesco Guccini è spesso stato banalizzato come “politicizzato” e di parte, ma oggi questa sembra un’affermazione azzardata e superficiale.

Il canzoniere gucciniano attinge a piene mani dalla letteratura antica e moderna senza perdere però un’originalità e un suo linguaggio profondo, fatto di ironia e misticismo, capacità narrativa e sintesi poetica di prim’ordine.

Proprio in quest’ottica verranno analizzate sette canzoni di uno specifico album di Guccini, Radici, trascurando almeno in parte l’elemento sonoro per dedicare un’attenzione esclusiva ai testi, cercando di far emergere il valore letterario dei brani al pari di una silloge poetica. Non sfugge che termine “canzone” fin dalla sua origine evoca l’inscindibile binomio testo-musica e le canzoni moderne nascono con uno spirito differente dalla poesia.

E’ infatti difficile e talvolta proibitivo scindere il testo dai relativi arrangiamenti sonori e dalla stessa voce cantante: proprio la distorsione ritmica dettata da chi canta accompagnato da strumenti acustici spesso trasforma in maniera netta la profondità delle parole e quindi il suo effetto sull’ascoltatore.

Ma nel caso di Guccini si vedrà come la sola lettura approfondita dei suoi brani, decontestualizzata dalla pur essenziale parte musicale, possa di per sé avere una sua autonoma struttura letteraria.

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Introduzione a RadiciDopo tre album, nel 1972 Francesco Guccini sforna il primo capolavoro, un’opera centrale per l’intera sua produzione musicale. Si tratta di sette canzoni (dalla durata totale di 40 minuti e 44 secondi) firmate per intero, sia nei testi che nella musica, tutte legate tra loro da un filo diretto come mai era accaduto fino a quel momento nella discografia gucciniana.

Infatti solo con il disco precedente, L’isola non trovata del 1971, si erano cominciati a intravedere e “intrasentire” (per usare un termine coniato da un altro noto cantautore degli anni ’70, Rino Gaetano) temi musicali e poetici più assonanti tra loro, pronti a rendere il disco più omogeneo di quanto non siano semplici raccolte di brani come erano stati in precedenza Folk beat n.1 e Due anni dopo.

Con Radici Guccini inaugura la stagione dei “concept-album” tipici del decennio dei ‘70, non solo nella canzone italiana. Un breve inciso occorre doverosamente fare anche sull’altro grande cantautore del periodo, il più meritorio tra “l’eletta schiera” ad assurgersi il gravoso titolo di poeta assieme a Guccini: Fabrizio De André.

Sull’onda lunga del ‘68 e della “rivolta” dylaniana, agli inizi del decennio più turbolento del secondo dopoguerra italiano, i due pongono le fondamenta del successo e della migliore espressione artistica in prossimità del rispettivo quarto album svolgendo un’operazione per ampi tratti assimilabile, anzitutto per la controtendenza rispetto al clima e all’atmosfera del periodo.

Sono infatti entrambi intrisi di riferimenti letterari, entrambi già molto popolari per le canzoni prodotte nel decennio precedente ed entrambi divenuti simboli di una stagione nuova nonché ricettori di quel fermento culturale e civile che avrebbe caratterizzato tutto il decennio successivo e che li ergerà alla figura di nuovi “vati” della propria generazione.

Nel 1970 l’autore genovese di Bocca di Rosa scrive La buona novella, eccellente e controverso album incentrato sulle vicende terrene di un Gesù Cristo fin troppo umano e poco divino, tratto dai Vangeli Apocrifi.

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(“Quando scrissi La buona novella nel 1969 si era in piena lotta studentesca e le persone meno attente -che poi sempre maggioranza di noi: compagni, amici, coetanei- considerarono quel disco come anacronistico. Dicevano: “Come, noi andiamo a lottare fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu ci vieni a raccontare una storia, che per altro già conosciamo della predicazione di Gesù Cristo?”Non avevano capito che in effetti La buona novella voleva essere un’allegoria che si precisava nel paragone tra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ‘68 e istanze dal punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma dal punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un signore, millenovecentosessantanove anni prima, aveva fatto contro gli abusi del potere e contro i soprusi delle autorità in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universale”. Fabrizio De André, 1998)

Due anni più tardi Guccini risponde con Radici, andando a cercare nel suo retroterra culturale contadino tutti quei segni di una civiltà rurale a cui si sente legato a doppio filo e dalla quale non può prescindere, come ricorderà in una delle sue canzoni più recenti, Addio, del 2000:

Io, figlio d'una casalinga e di un impiegato, cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna

che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia, io, tirato su a castagne ed ad erba spagna,

io, sempre un momento fa campagnolo inurbato, due soldi d'elementari ed uno d'università,

ma sempre il pensiero a quel paese mai scordato dove ritrovo anche oggi quattro soldi di civiltà...

E’ il passato legato ai simboli e ai luoghi della sua terra d’origine ad essere la pietra angolare della propria poetica, quasi a richiamare un altro illustre bolognese, Pier Paolo Pasolini:

Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d'altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli.

Così, ambedue a loro modo dissacranti (non solo della religione secolare, ma anche della nuova impostazione “rivoluzionaria”, che voleva fare “tabula rasa” di ogni forma di “vecchia cultura”, considerata, all’opposto, “reazionaria”) Guccini e De Andrè si guardano indietro a riscoprire i valori sui quali affondano le proprie radici di uomini e di artisti: proprio in questa universalità di fondo del loro messaggio sta il segreto di un perdurante successo che ha attraversato almeno quattro generazioni di giovani.

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Guccini, come ha ammesso egli stesso, ama definirsi “cantastorie” più che cantautore o poeta, termine dal quale rifugge come del resto lo stesso De André.

La sua antica vocazione al racconto, alla narrazione autobiografica (che in seguito si rivelerà nelle sue numerose opere di narrativa, da Cronache Epifaniche a Vacca d’un cane fino ai recenti Tango e gli altri e Icaro) si allaccia con evidenza alla più nota attività compositiva.

(Interessante, a questo proposito, come proprio sulla tradizione dei cantastorie e della musica popolare dell’Appennino emiliano avrebbe dovuto vertere la sua tesi laurea in lettere che non ha mai né scritto né discusso, dopo il compimento dell’ultimo esame avvenuto nel 1970 presso la facoltà di Magistero di Bologna).

Radici esce nella primavera del 1972 e proietta l’autore all’attenzione di un pubblico più vasto che non il precedente, circoscritto nel perimetro dell’area bolognese dove aveva mosso i primi passi in quelle “osterie di fuori porta” che prendono il nome di un’altra sua celebre canzone.

Da autore ancora “di nicchia”, Guccini diviene così artista di punta assieme ai più in voga colleghi del tempo che già avevano saputo distinguersi per l’innovativo e raffinato lessico adoperato nel genere della canzone popolare: Vecchioni, Dalla e De Gregori , Bertoli, Gaber e, ovviamente, De Andrè.

La complessità di Radici non si spiega esclusivamente con l’analisi del testo, materia essenziale che merita un’approfondita analisi poetico/lessicale, ma si completa anche con l’impatto visivo della copertina oltre che ovviamente, quello sonoro e canoro.

Come preambolo vanno dunque descritte le due fotografie “intime” che occupano il fronte e il retro dell’album e che svelano appunto l’assoluto legame con il titolo traducendo e anticipando in pieno il suo contenuto poetico.

Il fronte è costituito da un’immagine di quasi un secolo prima (1902 circa) e che ritrae gli antenati di Francesco in un tipico ritratto popolare degli inizi del ‘900.

Uno scatto che, per l’austerità e l’imponenza dei personaggi, ritratti con lo sguardo fisso sull’obbiettivo in posa seriosa, può ricordare le suggestioni della celeberrima opera pittorica Il quarto stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo, quadro in olio su tela del 1901 ed esposto attualmente alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.

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La tela rappresenta più di ogni altra opera pittorica il clima storico del periodo analizzato nel disco dove “un’altra grande forza spiegava allora le sue ali/ parole che dicevano: gli uomini son tutti uguali” per dirla con un verso di una delle principali canzoni di Radici, La locomotiva.

Da un primissimo piano sullo stesso quadro si ha l’inizio di Novecento, film capolavoro di un altro celebre emiliano, coetaneo di Guccini: Bernardo Bertolucci.

(Nella pellicola, datata 1976, si ripercorre la storia e le vicissitudini parallele di due famiglie del parmense, una di proprietari terrieri, l’altra di poveri braccianti nell’arco di storia che va dal 1901 al 1946).

Nella copertina di Radici appare la famiglia Guccini agli inizi dello scorso secolo, a tipica composizione patriarcale composta da sei persone, tre uomini e tre donne.

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Seduti, quasi come due regnanti, sono immortalati la signora Maria Fornaciari e l’omonimo Francesco, “Chicon” nonno di Ferruccio Guccini, a sua volta genitore del cantautore, ritratto mirabilmente nella stupenda Van Loon del 1987.

In piedi i figli della coppia: Maria Giuseppa e Teresa ai lati, Pietro e Enrico al centro. Quest’ultimo, Enrico Guccini, è il celebre Amerigo, il prozio del cantautore, emigrato poco più che ventenne negli Stati Uniti e successivamente cantato dal nipote nel 1978 con la magistrale canzone omonima (da cui prende il titolo l’album).

La canzone è un pascoliano ritratto di una “tradizione di fame e fughe” con ancora “vaghe idee di socialismo” , tipiche di un ragazzo italiano migrante dal suo paesello per approdare nella sterminata America a cercare lavoro nei “primi anni del secolo” nominati ne La locomotiva.

L’antenato omonimo Francesco Guccini era mugnaio come nella tradizione di famiglia: lo stesso autore successivamente parlerà dei Guccini come antichi “munari” emiliani già dal sedicesimo secolo, come testimoniano documenti storici ritrovati dopo scrupolose ricerche personali.

Come si vedrà in seguito, nella sua quasi cinquantennale carriera, l’autore non rinnegherà mai le proprie radici storiche, culturali, familiari, antropologiche, perfino religiose, anche se di una religiosità tutta “contadina” pregna di un misticismo del focolare che proprio nell’album in questione esce fuori in tutta la sua potenza.

Pàvana, il piccolo paese di circa trecento anime in provincia di Pistoia nel comune di Sambuca Pistoiese, nel lato toscano dell’Appennino Tosco-Emiliano, è nel bel mezzo della linea “porrettana”, quel tratto che divide le due regioni e dove si colloca il centro dell’albero genealogico gucciniano.

Amerigo

Probabilmente uscì chiudendo dietro a se la porta verde, qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d'orzo.

Non so se si girò, non era il tipo d'uomo che si perde in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.

Quand'io l'ho conosciuto o inizio a ricordarlo, era già vecchio o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola.

Colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio, un cinto d' ernia che sembrava una fondina per la pistola.

Ma quel mattino aveva il viso dei vent'anni senza rughe

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e rabbia ed avventura e ancora vaghe idee di socialismo, parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe

E per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: "il fatalismo". Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre

e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina e già sentiva in faccia l'odore d'olio e mare che fa Le Havre,

e già sentiva in bocca l'odore della polvere della mina.

L'America era allora, per me i G.I. di Roosevelt, la quinta armata, l'America era Atlantide, l'America era il cuore, era il destino,

l'America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata, l'America era il mondo sognante e misterioso di Paperino.

L'America era allora per me provincia dolce, mondo di pace, perduto paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta,

e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache, un sogno lungo il suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra.

Non so come la vide quando la nave offrì New York vicino, dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla, castello

e Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell' Appennino, l'inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello.

E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri, di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera,

sudore d' antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri.

Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita, l'America era un angolo, l'America era un'ombra, nebbia sottile,

l'America era un'ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita, e dire boss per capo e ton per tonnellata, "raif" per fucile.

Quand'io l'ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio, sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo e non capivo che quell' uomo era il mio volto, era il mio specchio

finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo, finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo, finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo...

da Italy

(di Giovanni Pascoli)

Un campettino da vangare, un nido

da riposare: riposare, e ancora

gettare in sogno quel lontano grido:

Will you buy... per Chicago Baltimora.10

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Buy images... per Troy, Memphis, Atlanta,

con una voce che te stesso accora:

cheap! Nella notte, solo in mezzo a tanta

gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;

cheap!... Finalmente un altro odi, che canta...

Tu non sai come, intorno a te le cime

sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo:

chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.

"La mi’ Mèrica! Quando entra quel gelo,

ch’uno ritrova quella stufa roggia

per il gran coke, e si rià, poor fellow!

va pur via, battuto dalla pioggia.

Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.

Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia!"

Diceva alcuno; ed assentiano al detto

gli altri seduti entro la casa nera,

più nera sotto il bianco orlo del tetto.

Uno guardò la piccola straniera,

prima non vista, muta, che tossì.

"You like this country..." Ella negò severa:

"Oh no! Bad Italy! Bad Italy!"

Tra Bologna e Pistoia, prima di Porretta Terme, incastonato “tra i castagni dell’Appennino”, e lungo il suono “continuo ed ossessivo che fa il Limentra” (il torrente che scorre nei pressi dell’abitazione natale di Guccini) ecco Pavana, il cuore irradiatore del pensiero gucciniano, suo “buen ritiro” e porto sicuro dell’artista nonché culla del proprio personalissimo otium letterarium.

Non si può nemmeno evitare di menzionare la coincidenza della parola Pavàna: una danza di corte di origine forse spagnola di gran moda nelle corti europee per oltre due secoli a partire dal ‘500 e caratterizzata da un ritmo lento e maestoso con un passo tipicamente cadenzato il cui retaggio si può ancora ascoltare nel cosiddetto “passo dell’esitazione” della celebre Marcia Nuziale. Nel ‘800 tale danza è stata poi riscritta da vari autori, la versione più celebre resta quella di Gabriel Fauré (1845-1924).

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L’origine etimologica è la stessa. Quella “padana terra” che l’autore descriverà puntualmente non solo nelle opere musicali, ma soprattutto nelle opere di prosa narrativa, dai romanzi di formazione ai racconti ai gialli scritti a quattro mani con Loriano Macchiavelli.

Tale “padanità”, così lontana dall’attuale strumentalizzante termine abusato dalla politica nostrana, rappresenta l’humus essenziale per decodificare i luoghi e le suggestioni dell’autore che racconterà sempre dell’Emilia Romagna, e del paesaggio del nord Italia in generale, come una sorta di “piattaforma di base” su cui impostare la propria poetica.

Lo si può ben ascoltare nella esemplare Aemilia, scritta nel 1990 assieme a un altro celebre conterraneo suo collega, Lucio Dalla, autore pregno di quella bolognesità che Guccini spesso prenderà in prestito, essendo solo un modesto “modenese volgare” nonché bolognese d’adozione (si ascolti, a questo proposito, Bologna dall’album Metropolis del 1981 o Via Paolo Fabbri 43 del 1976).

“Vero, aperto, finto strano, chiuso, anarchico, verdiano, brutta razza, l’emiliano”, canta lo stesso Guccini in Aemilia, sottolineando ancora una volta la parte più intima, e nello stesso tempo più nota e popolare, dell’essere originario di questa terra.

Aemilia

Le Alpi, si sa, sono un muro di sasso, una diga confusa, fanno tabula rasa di noi che qui sotto, lontano, più in basso, abbiamo la casa;

la casa ed i piedi in questa spianata di sole che strozza la gola alle rane, di nebbia compatta, scabrosa, stirata che sembra di pane

ed una strada antica come l'uomo marcata ai bordi dalla fantasie di un duomo e fiumi, falsi avventurieri che trasformano i padani in marinai non veri...

Emilia sdraiata fra i campi e sui prati, lagune e piroghe delle terramare, guerrieri del Nord dai capelli gessati, ne hai visti passare!

Emilia allungata fra l'olmo e il vigneto, voltata a cercare quel mare mancante e il monte Appennino rivela il segreto e diventa un gigante.

Lungo la strada fra una piazza e un duomo hai messo al mondo questa specie d'uomo:

vero, aperto, finto, strano, chiuso, anarchico, verdiano... brutta razza, l' emiliano!

Emilia sognante fra l'oggi e il domani, di cibo, motori, di lusso e balere, Emilia di facce, di grida, di mani, sarà un grande piacere

vedere in futuro da un mondo lontano quaggiù sulla terra una macchia di verde e sentire il mio cuore che batte più piano e là dentro si perde...

passeggia un cane e abbaia al vento un uomo...

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Ora ti saluto, è quasi sera, si fa tardi, si va a vivere o a dormire da Las Vegas a Piacenza, fari per chilometri ti accecano testardi, ma io sento che hai pazienza, dovrai ancora

sopportarci....

da Bologna

Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli,

Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale, Bologna la grassa e l' umana già un poco Romagna e in odor di Toscana...

Bologna per me provinciale Parigi minore: mercati all' aperto, bistrots, della "rive gauche" l' odore

con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l' assenzio cantava ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare.

da Via Paolo Fabbri 43

Fra "krapfen" e "boiate" le ore strane son volate, grasso l'autobus m' insegue lungo il viale

e l'alba è un pugno in faccia verso cui tendo le braccia, scoppia il mondo fuori porta San Vitale

e in via Petroni si svegliano, preparano libri e caffè

e io danzo con Snoopy e con Linus un tango argentino col caschè!

Se fossi più gatto, se fossi un po' più vagabondo, vedrei in questo sole, vedrei dentro l'alba e nel mondo, ma c'è da sporcarsi il vestito e c'è da sgualcire il gilet:

che mamma mi trovi pulito qui all' alba in via Fabbri 43!

Ovviamente questo concetto emerge in maniera ancor più netta in Radici, un ideale percorso attraverso i luoghi della mente e del cuore. Nel retro della copertina, a confermare il passaggio di testimone tra i vecchi e i nuovi eredi, appare una foto a colori dei primi anni ‘70, scattata nel cortile della residenza bolognese di Guccini (la celebre Via Paolo Fabbri 43, toponimo che dà il titolo a un altro famosissimo album dove un’altra copertina, stavolta di un suo intensissimo primo piano, ne diverrà una vera e propria icona ancora oggi riconosciuta dal pubblico di ogni età).

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Compaiono, davanti a uno sfondo verde di giardino casalingo, la prima moglie Roberta Baccilieri e il poco più che trentenne Francesco, pronto a spiccare il volo nella celebrità e a inaugurare con Radici, la stagione più produttiva e prolifica, e certamente la più incisiva della sua intera carriera artistica.

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RadiciLa prima canzone, Radici, oltre a dare il titolo al disco, è una delle più significative e commuoventi dell’intero canzoniere gucciniano. Della durata di sette minuti e dodici secondi, introdotto da una bellissima overture di pianoforte, il componimento è dedicato alla propria casa natia, quella costruita appunto dai suoi antenati lungo il torrente Limentra e attorno alla quale il bisnonno Francesco ha costruito il suo mulino alla fine dell’800.

La canzone è divisa in cinque quartine a rima alternata il cui ultimo verso viene sempre ripetuto in una sorta di riecheggiare tipico della ballata (e tipico anche nel primo Guccini) inframmezzate da due ottave il cui ultimo verso viene parimenti ripetuto a chiusura.

Si comincia con l’immagine della casa, posta “al confine della sera” e “al confine dei ricordi”. Il poeta, solo, osserva quella “pietra antica che non emette suono” e comincia a udire nel suo viaggio mentale “voci forse di altra età”.

Alla ricerca di risposte per la sua generazione, Guccini è il poeta delle “domande consuete” (parafrasando un titolo di una sua canzone più recente, datata 1990) ma al tempo stesso eterne perché universali.

Si può anzi affermare che sta proprio nell’essenza stessa della domanda e nel porsi interrogativi che l’autore trova la sua “verità” artistica.

La casa natale diventa quindi il “punto di memoria” da cui partire per cercare le proprie origini e le risposte alle domande di giovane uomo, in un’epoca “rivoluzionaria” che già stava mutando gli slanci del ‘68 nelle forme di irrequietudine e fervore culturale e politico che avrebbero poi caratterizzato tutti gli anni ‘70.

L’analisi introspettiva sul significato delle radici familiari parte appunto dal suo piccolo paese di origine, Pavana, patria delle diverse generazioni di Guccini nel corso della storia, come poi documenterà nel suo incessante lavoro di ricerca.

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E’ il luogo dove viene interrogata la stessa casa paterna, la “domus” per eccellenza, come una sorta di essere vivente e al tempo stesso generatrice di vita (“quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te/come il fiume che ti passa attorno”) e unica testimone del passato. Il passaggio delle vite precedenti degli antenati richiama l’immagine frontale della copertina dell’album.

Torna nuovamente l’importante presenza del Limentra a far da sfondo a quelle esistenze trascorse cui Guccini sembra indissolubilmente legato e intrecciato (e te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato, e te li senti dentro come Mani, ma non comprendi più il significato) come emerge nella già citata Amerigo, dove il prozio Enrico viene descritto come una sorta di sua continuazione terrena, nella metempsicosi di sangue nella quale il discendente si rivede riflesso nell’antenato (“quell’uomo era il mio volto, era il mio specchio”),

Segni di passaggi persi nel tempo che l’autore non riesce, benché si sforzi, di interpretare appieno proprio perché “la pietra antica emette non suono” e soprattutto perché le domande poste sono “troppo grandi per un uomo”.

A ricordare anche l’essenza più ancestrale e sacra del focolare domestico (oltre a svelare come la sua poesia poggi anche su forti basi classiche) il riferimento ai Mani o “Manes” antichissime divinità latine protettrici della casa che sono gli spiriti dei precedenti abitanti e quindi per traslato gli antenati stessi.

Importante sottolineare come il Guccini cantante e musicista offra qui una delle migliori prove dal punto di vista prettamente canoro, sfoggiando una voce potente e forte, davvero inusuale per il suo stile quasi più vicino al parlato del “talking blues” che al cantato vero e proprio.

Il domandarsi continuo e senza scopo, ripreso poi in testi successivi come in Shomer ma mi llailah (canzone del 1983) sta al centro della sua poetica e del suo sguardo artistico sul mondo: il senso non è nella scoperta del significato della vita e della morte, ma nella ricerca stessa: mentre il profeta Isaia ripreso in Shomer ma mi llailah chiede all’umanità in ascolto di non smettere di domandarsi e di cercare, qui il poeta quasi si arrende di fronte al mistero e all’impotenza di raggiungere il significato alle grandi domande dell’uomo.

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(La miglior spiegazione del concetto emerge in una dichiarazione di Guccini riguardo allo stesso brano: “C'è sempre stata, pudica, sottile, nelle mie canzoni, una domanda sull'infinito, sul senso ultimo delle cose. Ma da agnostico, da vago panteista e spiritualista quale sono, da uomo che non crede nell'esistenza dell'anima ma forse coglie un fondo di infinitezza, di immortalità nel nostro destino, mi fermo alla domanda, all'interrogativo. L'importante è, però, che questa domanda non cessi mai, perché è uno dei sintomi preziosi della nostra vitalità come uomini”.)

da Isaia 21, 11-12

“Profezia contro Dumah. Mi gridano da Seir: Sentinella, a che punto è giunta la notte? Sentinella, a che punto è giunta la notte?. La sentinella risponde: Vien la mattina, poi anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; ritornate, venite”.

Shomer ma mi llailah

La notte è quieta senza rumore, c'è solo il suono che fa il silenzio e l' aria calda porta il sapore di stelle e assenzio,

le dita sfiorano le pietre calme calde d' un sole, memoria o mito, il buio ha preso con se le palme, sembra che il giorno non sia esistito...

Io, la vedetta, l' illuminato, guardiano eterno di non so cosa cerco, innocente o perché ho peccato, la luna ombrosa

e aspetto immobile che si spanda l' onda di tuono che seguirà al lampo secco di una domanda, la voce d' uomo che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell...

Sono da secoli o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace, non so più dire da quanto sento angoscia o pace,

coi sensi tesi fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad aspettare che in un sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare...

e li avverto, radi come le dita, ma sento voci, sento un brusìo e sento d' essere l' infinita eco di Dio

e dopo innumeri come sabbia, ansiosa e anonima oscurità, ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell...

La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato, sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato...

Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate, tornate ancora se lo volete, non vi stancate...

Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni 17

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e resteranno di uomini e di idee, polvere e segni, ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà,

che la risposta sull' avvenire è in una voce che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

Ultimo in ordine temporale dei testimoni passati da quella casa dove “nessuno ha mai saputo”, l’autore appunto si “arrende” in una sorta di consapevolezza interiore della propria impotenza di fronte al mistero dell’esistenza.

La chiusura è permeata di una struggente e consolante malinconia. La chiosa della prima canzone, semplice e al tempo stesso ferma e immutabile proprio come la stessa casa, è un motto che si sprigiona con la lunghezza della “a” finale di “dolcezza”, cantata come una lunga eco conclusiva: “la casa è come un punto di memoria, le sue radici danno la saggezza, e proprio questa forse è la risposta/ e provi un grande senso di dolcezza”.

RADICI La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta,

respiri un'aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età, e senti voci forse di altra età...

La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai

e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l'anima che hai, se vuoi capire l'anima che hai...

Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te come il fiume che ti passa attorno

tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei, lentamente, giorno dopo giorno

ed io, l'ultimo, ti chiedo se conosci in me qualche segno, qualche traccia di ogni vita

o se solamente io ricerco in te risposta ad ogni cosa non capita,

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risposta ad ogni cosa non capita...

Ma è inutile cercare le parole, la pietra antica non emette suono

o parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo, parole troppo grandi per un uomo...

E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato e te li senti dentro come Mani,

ma non comprendi più il significato, ma non comprendi più il significato...

Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi, tutto è morto e nessuno ha mai saputo o solamente non ha senso chiedersi,

io più mi chiedo e meno ho conosciuto. Ed io, l'ultimo, ti chiedo se così sarà per un altro dopo che vorrà capire

e se l'altro dopo qui troverà il solito silenzio senza fine, il solito silenzio senza fine...

La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza

e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza, e provi un grande senso di dolcezza...

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La locomotivaLa seconda canzone dell’album è un autentico marchio identificativo del pavanese e, forse, dell’intera generazione dei cantautori degli anni ‘70.

Le radici che Guccini vuole evocare sono principalmente due: quelle storico-politiche e quelle prettamente artistiche degli inni anarchici che anch’essi affondano le origini tra la fine del secolo decimonono l’inizio del ventesimo. La locomotiva è anzitutto una narrazione storica e, da narratore-cantore, Guccini si pone ancora una volta in prima persona, novello Omero, a raccontare fatti di quasi settant’anni prima, chiaramente idealizzandoli.

E’ stata definita la più politica tra le sue opere ma il segreto del suo grande successo va al di là di questa schematica lettura con cui i critici di ogni epoca hanno sempre voluto incasellarla.

E’ anzitutto, come ricordato dallo stesso Guccini, un omaggio alla lunga scuola dei canti anarchici alla Pietro Gori (specialmente Addio a Lugano datata 1895) e di tutta una cultura popolare emiliana impregnata nelle lotte libertarie e socialiste di inizio secolo, che ha certamente influenzato da vicino la vis artistica dell’autore.

Non va dimenticata la figura del Cantacronache di Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, attivi sulla scena musicale italiana tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ’60 e primi autori di testi “d’impegno” e politicamente marcati.

Addio a Lugano

Addio Lugano bella o dolce terra pia

scacciati senza colpa gli anarchici van viae partono cantando

con la speranza in cor.E partono cantando

con la speranza in cor.

Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori

che siamo ammanettati

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al par dei malfattorieppur la nostra idea è solo idea d'amor.

Eppur la nostra idea è solo idea d'amor.

Anonimi compagniamici che restatele verità sociali

da forti propagateè questa la vendetta

che noi vi domandiam.E questa la vendetta

che noi vi domandiam.

Ma tu che ci discacci con una vil menzognarepubblica borghese

un dì ne avrai vergognanoi oggi t'accusiamo in faccia all'avvenir.

Noi oggi t'accusiamo in faccia all'avvenir.

Banditi senza tregua andrem di terra in terra

a predicar la pace ed a bandir la guerra

la pace per gli oppressi la guerra agli oppressor.La pace per gli oppressi la guerra agli oppressor.

Elvezia il tuo governo schiavo d'altrui si rended'un popolo gagliardo

le tradizioni offendee insulta la leggenda

del tuo Guglielmo Tell.E insulta la leggenda del tuo Guglielmo Tell.

Addio cari compagni amici luganesi

addio bianche di neve montagne ticinesii cavalieri erranti

son trascinati al nord.E partono cantando

con la speranza in cor.

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(Riallacciandoci ancora una volta alla fondamentale Amerigo del 1978, il cui omonimo album è un necessario ponte poetico con Radici, va ricordato il verso “e rabbia ad avventura e ancora vaghe idee di socialismo” con cui il prozio emigra dall’Italia agli USA a inizio secolo).

La locomotiva è una delle canzoni più lunghe del repertorio di Guccini, nonché la più durevole (otto minuti e diciassette secondi) del disco.

E’ una narrazione quasi “giornalistica” di un fatto realmente accaduto il 20 luglio del 1893 a Bologna, dove un macchinista ferroviere ventottenne, Pietro Rigosi, provò a compiere un attentato che oggi definiremo “kamikaze” puntando la sua locomotiva nella precisa direzione di un treno a trasporto pubblico (“un treno pieno di signori”) e rischiando così una vera e propria strage, evitata all’ultimo momento per la deviazione finale della vettura in un altro binario (“una linea morta”).

Il fatto clamoroso, riportato sulle cronache dell’epoca, destò chiaramente scalpore per il valore “politico” ma soprattutto perché non era ancora contemplata l’idea che un uomo potesse compiere un atto così estremo, sacrificando la propria vita per un ideale, in questo caso anarchico.

Un inno del mondo “povero” e operaio, o dei lavoratori, contro i ricchi o “signori” o dei “proletari” contro i “padroni”: La locomotiva è a ben ragione la capostipite delle canzoni di protesta.

Alcune cronache riportano che il Rigosi sopravvisse ma questo non è importante ai fini della narrazione e della canzone: il Guccini cantastorie semplicemente traduce ed esalta in canto popolare questa vicenda di molti anni prima anche in virtù delle sue frequentazioni dei circoli anarchico-libertari bolognesi dell’epoca (la storia gli viene anche menzionata dal suo vicino di casa di via Paolo Fabbri, quel “pensionato” a cui dedicherà una canzone nel 1976). L’autore unisce così sapientemente la canzone “impegnata” alla tradizione musicale e letteraria, le radici territoriali a quelle politiche e sentimentali.

In questo senso è una canzone “antica” ma che guarda moltissimo al suo presente, da cui traspira il clima contemporaneo del compositore. Il 1972 è anche l’anno di un film fondamentale come La classe operaia va in paradiso di Elio Petri mentre lo statuto dei lavoratori del 1970 era appena stato

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approvato a seguito delle grandi lotte del movimento operaio a seguito del “biennio rosso” 1968-69.

Facile per il testo divenire un “inno alla rivolta” per la sinistra antagonista, cantato tuttora a squarciagola dal pubblico gucciniano al termine dei concerti. Il pezzo infatti da oltre trent’anni chiude le esibizioni pubbliche del cantautore che non ama “fare i bis” ma che sancisce, con la sua canzone più significativa, la fine della serata.

La canzone è composta da tredici strofe di cinque versi con i primi due a rima baciata, il quarto verso ha quasi sempre una rima interna mentre il terzo e il quinto rimano tra loro. Il quinto e ultimo si ripete sempre tre volte nello stile riecheggiante della ballata quasi come un ritornello.

Scritta “in pochissimo tempo”, come ricorda l’autore stesso, con i versi che si accavallavano nella mente durante la fase compositiva e dunque quasi di getto, La locomotiva ha una narrazione lineare che apre con una considerazione personale del cantautore per un’introduzione “mitologica” del personaggio protagonista , non senza una buona dose di ironia.

“Non so che viso avesse, neppure come si chiamava” è certamente un passaggio non privo di retorica ma assolutamente incisivo per aprire il testo. L’ironia sta in quella considerazione “gli eroi son tutti giovani e belli” che anzitutto svela per chi l’autore parteggi, riguardo alla vicenda narrata.

Sappiamo dunque che già si tratta di un “eroe”, anche se non ne comprendiamo ancora il motivo. In quanto eroe, e quindi mito, è inevitabile trasformarlo di in “giovane e bello”.

Il cantore, che parla in prima persona dunque non sa (nella finzione letteraria) nulla di quest’uomo (in realtà lo sa bene, data la scrupolosità nella propria documentazione personale) , né “con che voce parlasse” e “neppure come si chiamava” ma in poche battute veniamo a conoscenza della collocazione storica e del ruolo del protagonista: “i primi anni del secolo, macchinista ferroviere”.

La figura del ferroviere viene tradizionalmente accostata al mondo anarchico o comunque “di sinistra”: simbolo della fatica e del lavoro per eccellenza, alla fine dell’800 veniva inquadrato come mestiere “infernale”, che metteva continuamente a repentaglio la vita del lavoratore costretto a misurarsi con le vetture a vapore e la grande velocità delle nuove macchine.

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Lo sviluppo della società industriale e del progresso era proprio incarnato dalla macchina a vapore, che accorciava gli spazi e i tempi e rendeva più rapido e tumultuoso lo scambio di merci e la produzione. Si era da poco entrati nella modernità, fatta di contraddizioni sociali sempre più evidenti che sarebbero di lì a poco esplose.

Se il treno, carduccianamente rappresentato come “mostro” nell’inno A Satana, era appunto considerato “un mito di progresso/lanciato sopra ai continenti”, il lavoratore capace di domarlo e “cavalcarlo” assume contemporaneamente sia il ruolo di “sfruttato” da quella borghesia irrefrenabile di cui si sente vittima, sia quello di nuovo e consapevole attore sulla scena della storia.

da A Satana

(di Giosuè Carducci)

Un bello e orribileMostro si sferra, Corre gli oceani,Corre la terra:

Corusco e fumido Come i vulcani,I monti supera,Divora i piani;

Sorvola i baratri;Poi si nasconde

Per antri incogniti,Per vie profonde;

Ed esce; e indomitoDi lido in lido

Come di turbine Manda il suo grido,

Come di turbineL'alito spande:

Ei passa, o popoli,Satana il grande.

Passa beneficoDi loco in loco

Su l'infrenabileCarro del foco.

Salute, o SatanaO ribellione

O forza vindice De la ragione!

Sacri a te salganoGl'incensi e i voti!

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Hai vinto il GeovaDe i sacerdoti.

Nei primi versi il quadro si completa con il confronto tra la forza borghese (che Karl Marx definirà “brutale”) e “un’altra grande forza” che “spiegava allora le sue ali”, ossia proprio il movimento anarchico e marxista che, al grido di “proletari di tutto il mondo, unitevi” avrebbe di lì a poco scatenato la “guerra santa dei pezzenti”.

Infatti, con la rivoluzione bolscevica in Russia del 1917 si sarebbe aperta una nuova grande epoca di contrapposizione tra mondo borghese e mondo dei lavoratori (“L'intera società si divide sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato”, scrive lo stesso Marx nel Manifesto del partito Comunista del 1848) che il “vate” Guccini qui interpreta da narratore onnisciente.

La potenza sprigionata dal “mostro” portatore di “un potere tremendo, la stessa forza della dinamite” ha dunque un valore quasi soprannaturale (Sempre secondo Marx: “Controllo delle forze della natura, macchine, impiego della chimica nell'industria e nell'agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, navigabilità dei fiumi, popolazioni intere fatte nascere dal nulla: quale secolo passato sospettava che tali forze produttive giacessero nel grembo del lavoro sociale?”) e la macchina diventa nello stesso tempo carnefice del lavoratore e suo strumento (Ancora Marx: “Il lavoratore diventa un mero accessorio della macchina”).

Ecco dunque che ai simboli di quella borghesia opprimente e distruttrice viene contrapposta “la bomba proletaria” rappresentata proprio dal treno, creazione della stessa borghesia e dello sviluppo dell’industria e della modernità. Infine l’aria illuminata dalla “fiaccola dell’anarchia” lascia esplodere tutto lo slancio ideale del testo, sempre più enfatizzato e carico di tensione.

Si chiude dunque il quadro introduttivo: abbiamo il protagonista, un “eroe” la sua condizione sociale, “l’epoca dei fatti e qual era il suo mestiere” e siamo pronti a calarci in medias res. La vicenda vera e propria scatta dal quinto verso in poi dove veniamo a conoscenza che “un treno di lusso” “passava ogni giorno per la sua stazione”.

Di colpo gli occhi diventano quelli del protagonista che cova “una rabbia antica” di “generazioni senza nome” degli sfruttati dalla storia, tutti quegli uomini che hanno vissuto nell’ingiustizia sociale, oppressi da altri uomini.

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L’eroe si fa gigante nel raccogliere l’urlo ideale di vendetta di questa massa di ignoti proletari del passato, ancora inconsapevoli, e perciò in attesa di riscatto postumo.

Il macchinista carica sulle spalle questo enorme peso, non riconosce il volto di quelle moltitudini ma intuisce il senso del riscatto, ha una sorta di illuminazione. La “bomba proletaria”, diventa magistralmente “la bomba sua la macchina a vapore” per eseguire così la “vendetta”.

Balena in lui l’idea dell’attentato simbolico e sanguinoso, come atto rabbioso di purificazione vendicativa e lo si immagina premeditarne il gesto dall’escalation narrativa della canzone. Quel “treno pieno di signori” diventa la rappresentazione del suo nemico e, per simbiosi, della stessa lotta di classe. La grandezza ideale del gesto ne esalta la miticità.

Il ferroviere capisce immediatamente che sarà proprio il treno a vapore la sua arma distruttrice, i cui sbuffi ne fanno quasi un essere vivente da cui pulsa il battito di “un giovane puledro”.

E arriviamo al momento culminante. E’ “un giorno come tanti”, un giorno ordinario, una normale giornata di lavoro. Ma l’eroe ha forse “più rabbia in corpo”, del solito, come il cantore torna a dirci in prima persona. Il macchinista decide che è giunto l’attimo giusto. Monta in lui la consapevolezza dell’ingiustizia, la giustificazione per il suo progetto di morte: “pensò che aveva il modo di rimediare a qualche torto”.

Con un gesto secco “salì sul mostro che dormiva” accendendo dunque quel locomotore spento, che sa domare perfettamente, mettendosi in marcia lungo i binari.

“Prima di pensare a quel che stava a fare/Il mostro divorava la pianura”: il verso indica la repentina decisione del macchinista, preso forse dall’amletico dubbio e già dal rimorso per il sanguinoso gesto da compiere.

Intanto appare all’orizzonte “l’altro treno ignaro” dato che “nessuno immaginava di andare verso la vendetta”. Da principio nulla turba la tranquilla quotidianità della giornata quando “alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno”: “un pazzo si è lanciato contro al treno”.

Il ferroviere, nelle parole disperate dei colleghi della stazione, che si accorgono di un treno fuori linea in corsa contro un treno passeggeri, si trasforma in “pazzo”, incomprensibile e perciò spaventoso.

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La quartultima e la terzultima strofa segnano un continuo crescendo del pathos: con la ripetizione del verbo correre al presente, si giunge di colpo alla contemporaneità con l’azione, fin qui narrata al passato remoto (“corre, corre, corre la locomotiva”, “corre corre corre sempre più forte”).

Mentre il treno continua la sua pazza corsa verso “la grande consolatrice” (la morte), il macchinista “corre al proprio dovere” e vede “i contadini curvi” al lavoro.

E’ qui che l’idealismo del brano raggiunge il culmine nel quadro volutamente enfatizzato del cantore: l’operaio macchinista, nell’attraversare la pianura Padana, saluta col fischio della sua locomotiva i braccianti che scorge al lavoro nei campi sottostanti. Con quel gesto sacrificale il ferroviere vuole chiamare alla lotta tutti i lavoratori e unirli contro l’unico e ingiusto nemico che ora sta affrontando da solo (“fratello non temere che corro al mio dovere”) per poi finalmente gridare “trionfi la giustizia proletaria” che suggella la climax ascendente dell’intera canzone. Raggiunto lo spannung narrativo, si ha l’epilogo. Torna in ballo la storia con la “s” minuscola, ossia la semplice cronaca, a parlare di “come finì la corsa”.

L’attentato è sventato perché il treno viene deviato su un’altra linea “morta”, come ci viene narrato, ad anticipare la fine del treno e del macchinista stesso. L’esalazione conclusiva della locomotiva-mostro che “eruttò lapilli e lava” nel momento fragoroso del deragliamento, è in parallelo a quel “lo raccolsero che ancora respirava”, preludio alla morte inevitabile del ferroviere, ancora vivo dopo l’incidente ma anch’egli agli ultimi istanti di esistenza, come la sua locomotiva.

E nella strofa di fondo l’enfasi riprende con un nominativo plurale (“a noi piace pensarlo ancora dietro al motore), a sottolineare come l’eroe sia ormai patrimonio di tutti gli spettatori della Storia (con la “s” maiuscola). La sua immortalità correrà per sempre nel canto e nella fantasia del mito.

Ni versi conclusivi il cantore auspica un nuovo gesto purificatore “e che ci giunga un giorno ancora la notizia/ di una locomotiva come una cosa viva/lanciata a bomba contro l’ingiustizia”. Questo richiamo profetico al ripetersi degli avvenimenti storici e in qualche modo leggendari verrà ripreso successivamente nel 2000 con Stagioni, canzone dell’omonimo dell’album dedicata ad un altro mito-eroe moderno e rivoluzionario, Ernesto “Che” Guevara: “Da qualche parte un giorno, dove non si saprà/ dove non lo aspettate, il Che ritornerà”.

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LA LOCOMOTIVANon so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,

quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l'immagine sua:

gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli...

Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il suo mestiere: i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere,

i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti sembrava il treno anch'esso un mito di progresso

lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti...

E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:

ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite, sembrava avesse dentro un potere tremendo,

la stessa forza della dinamite, la stessa forza della dinamite, la stessa forza della dinamite..

Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali, parole che dicevano: "gli uomini son tutti uguali"

e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via la bomba proletaria e illuminava l' aria

la fiaccola dell'anarchia, la fiaccola dell'anarchia, la fiaccola dell'anarchia...

Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione, un treno di lusso, lontana destinazione:

vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori, pensava al magro giorno della sua gente attorno,

pensava un treno pieno di signori, pensava un treno pieno di signori, pensava un treno pieno di signori...

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Non so che cosa accadde, perché prese la decisione, forse una rabbia antica, generazioni senza nome che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore:

dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore, la bomba sua la macchina a vapore, la bomba sua la macchina a vapore...

E sul binario stava la locomotiva, la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,

sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno mordesse la rotaia con muscoli d' acciaio,

con forza cieca di baleno, con forza cieca di baleno, con forza cieca di baleno...

E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto.

Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura e prima di pensare a quel che stava a fare,

il mostro divorava la pianura, il mostro divorava la pianura, il mostro divorava la pianura...

Correva l' altro treno ignaro e quasi senza fretta, nessuno immaginava di andare verso la vendetta,

ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno: "notizia di emergenza, agite con urgenza,

un pazzo si è lanciato contro al treno, un pazzo si è lanciato contro al treno,

un pazzo si è lanciato contro al treno..."

Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva

e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria: "Fratello, non temere, che corro al mio dovere!

Trionfi la giustizia proletaria! Trionfi la giustizia proletaria!

Trionfi la giustizia proletaria!"

E intanto corre corre corre sempre più forte e corre corre corre corre verso la morte

e niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice,

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aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto della grande consolatrice, della grande consolatrice, della grande consolatrice...

La storia ci racconta come finì la corsa la macchina deviata lungo una linea morta...

con l' ultimo suo grido d'animale la macchina eruttò lapilli e lava, esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo:

lo raccolsero che ancora respirava, lo raccolsero che ancora respirava, lo raccolsero che ancora respirava...

Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore mentre fa correr via la macchina a vapore e che ci giunga un giorno ancora la notizia

di una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia, lanciata a bomba contro l'ingiustizia, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!

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5.

Piccola CittàCon la terza canzone si cambia scenario, sempre però restando sul tema della rivisitazione interiore del proprio passato. Siamo ancora nel paesaggio emiliano ma non è più la minuscola Pavana o il capoluogo Bologna a fare da sfondo alla Piccola città del titolo.

Il “bastardo posto” con cui viene subito bollata Modena, fin dalla prima strofa, rimane l’epiteto più secco e così poco diplomatico al luogo in Guccini è nato il 14 giugno del 1940 (quattro giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, come tiene a ricordare lo stesso autore) in cui il cantautore ha vissuto l’adolescenza dopo i primi anni vissuti tra le montagne pavanesi.

Il ricordo di Modena è a tinte fosche, quasi tetre. E’ infatti la “nemica strana” di un giovane Guccini ritornato con la famiglia a cinque anni dalla nascita al termine della seconda guerra mondiale. Del modenese (più precisamente di Carpi) era originaria la madre, Ester Prandi che convinse gli altri famigliari a scendere dall’Appennino per avvicinarsi ai congiunti e per permettere al marito Ferruccio, di ritorno dalla guerra in Grecia, di svolgere la sua attività di postino.

Come ricordato da Guccini nel 1982, nel commentare il titolo del suo album Metropolis, all’autore non interessano tanto le città in sé ma “i luoghi in cui l’uomo vive”. Nel caso di Modena il ricordo di vita vissuta di un bambino approdato in una grande città (anche se in realtà non così grande ma certamente dispersiva e “spaventosa” per chi ha visto fino a quel momento solo un piccolo mondo rurale) dopo la felice infanzia nell’agreste realtà pavanese (dove la guerra non è mai passata direttamente contribuendo a crearne il mito del paradiso perduto), è un rievocare un forte shock emotivo, mai del tutto superato. Ecco spiegato l’asprezza del testo, solo appena lenita da un breve velo di ironia mista a sarcasmo, elementi fondanti nella poetica gucciniana.

Piccola città, dalla durata di quattro minuti e trentotto secondi, è composta da sei sestine, ognuna di esse introdotta dal vocativo diretto che da il titolo al testo, tranne la quarta (che comincia con “Sciocca adolescenza”).

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In ogni strofa sono presenti rime interne tranne negli ultimi due versi che rimano tra loro, mentre troviamo rime imperfette alla fine della seconda (miseria/dopoguerra) e della terza (bilia/via Emilia e il West, rima ipermetra). Nella quinta e nella sesta strofa addirittura il finale non è rimato (sera/te, diverso/finirà) ma riprendono le rime interne che caratterizzano tutta la canzone.

E’ una canzone dall’andamento irregolare che trasmette emozioni quasi di getto e in modo volutamente confuso, a sottolineare il disagio interiore espresso in quel “periodo di buio gettato via”. Modena, che non viene mai nominata ma solo descritta dai vari aggettivi sparsi lungo la canzone, non è un luogo reale ma immaginario perché vive nella mente del poeta pronto a rievocare il passato della prima giovinezza e adolescenza.

E’ innanzitutto un “bastardo posto”, dove Guccini, che anche qui parla in prima persona, viene alla luce prima che il “fato” lo porti a tornare a Pavana dopo poco tempo ( “il fato che in tre mesi mi spinse via”).

Il 10 giugno 1940, quattro giorni prima della sua nascita, Benito Mussolini aveva annunciato la dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Regno Unito. Le ristrettezze portarono la sua famiglia a tornare nella casa in montagna per tutto il periodo bellico. Modena verrà lasciata in autunno prima di farvi ritorno definitivamente qualche anno più tardi, a guerra cessata (“io, la montagna nel cuore scoprivo l’odore, del dopoguerra”).

Se in Radici la protagonista è la casa, qui è la città ad essere regina indiscussa e vera “attrice” più che sfondo, della canzone. Pavana è la radice paterna e contadina, Modena quella materna e cittadina. Parla in prima persona, Guccini, rivolgendole di volta in volta frasi poco dolci ma velate anche qui di una malinconia nostalgica.

“Piccola città io ti conosco” è un modo per parlare direttamente a una Modena estranea se paragonata alla realtà pavanese. Da notare il “non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio”: di solito nel rievocare la propria infanzia si tende a ricordare episodi piacevoli o comunque idealizzati mentre qui tutto si perde tra le “nebbie e il fumo” della memoria, nuovo secco passaggio dopo l’aggettivo iniziale, tutt’altro che positivo. Poi il poeta, vagando per le vie del centro, ricomincia la sua proustiana “recherche”.

E si tornano a udire frammenti di passato, tra le “pietre sconosciute” o solo “diroccate da guerra antica”, dove emergono le “macerie” e i “visi e mattoni che parlano”, al contrario della casa in Radici dove “la pietra antica non emette suono”. Muri che qui raccontano miseria e povertà dell’universo

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amaro della seconda metà degli anni ‘40 e della prima dei ‘50 e che ritornano a vociare nella sua mente, appena chiusi gli occhi tesi al ricordo.

Le prime esperienze scolastiche, rievocate anche qui con amara ironia: il “mesto odore di religione” e le “vecchie suore nere” fanno spettacolarmente da contraltare all’immagine degli scolari, tra cui il giovanissimo Guccini, che ascoltano le religiose insegnanti pur sognando “gli eroi le armi e la bilia”.

Il sogno di un mondo nuovo, nel mito di quell’America vincente e irresistibile nel fascino e da cui sarà poi inevitabilmente legato, sia per motivi artistici (l’influenza dei Presley e Dylan nel campo musicale) che per motivi letterari (autori come Hemingway, Salinger, Lee Masters hanno inevitabilmente “nutrito” non solo Guccini ma anche l’intera sua generazione) oltre a quelli familiari e personali (oltre all’America del prozio Amerigo ci sono gli USA delle vicissitudini sentimentali cantate in Canzone delle situazioni differenti o 100, Pennsylvania Ave.)

da 100, Pennsylvania Ave.

E immagino tu e lui, due americani sicuri e sani, un poco alla John Wayne, portare avanti i miti kennedyani e far scuola agli indiani:

amore e ecologia lassù nel Maine.

E là insegnare alla povera gente per poco o niente, vita quasi pia, fingendo o non sapendo proprio niente di quello che può ancora far la CIA,

santi dell'occidente, per gli USA, e così sia...

da Canzone delle situazioni differenti

Andammo i pomeriggi cercando affiatamento, scoprivo gli USA e rari giornaletti.

Ridesti nel vedermi grande e grosso coi fumetti, anch'io sorrisi sempre più scontento.

Gli Stati Uniti come mito di nuovo o “perduto paradiso” lanciato dalle nuove pubblicità, dalla nuova musica (il rock’n’roll), da tutto quello che traspirava in quegli anni da un popolo vincente e dinamico, che affascinava e “rapiva” le nuove generazioni.

Ma proprio perché mito commerciale e plastificato, il Guccini adulto ne riconosce la vacuità, in pratica definendolo come un’infatuazione giovanile, per aver subito tale fascino. La durezza con cui viene descritta così la sua “sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza” non lascia

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scampo: l’America diventa il “vuoto mito americano di terza mano” con i cui eroi cinematografici e musicali era cresciuto.

Modena e l’America sono mondi lontanissimi e pur legati indissolubilmente in quegli anni di infanzia e di scoperta del mondo. Un’epoca ormai quasi arcaica e quindi già per certi versi leggendaria e che rivela il mito fondante della frontiera e dell’avventura incarnato appunto dagli States, un concetto slanciato e sintetizzato egregiamente nel verso “correva la fantasia verso la prateria/ tra la via Emilia e il West”.

Anche il nome del locale “Neo-Florida Dancing” (ex Gruppo Rionale Fascista Sinigaglia e oggi Casa del Popolo, come poi spiegato successivamente in Vacca d’un cane) fa tornare ancora alla mente l’evocato mondo americano, “mito di progresso” (per usare un’espressione de La Locomotiva) di un’Italia in piena ricostruzione post-bellica: “sei lontana/ coi peccati fra macerie e fra giochi consumati dentro al Florida”.

L’adolescenza come periodo non amato e da rimuovere esce chiaramente nelle narrazioni dei “casti affetti denigrati”, e delle “frustrazioni e amori a vuoto mai compresi” tipiche delle iniziali e traumatiche (perché goffe) esperienze con l’altro sesso.

Poche e semplici pennellate per ritrarre l’inquietudine adolescenziale in una città che solo nel finale viene chiamata con una punta di affetto, ma sempre alludendo ai primi tentati amori, con l’ossimoro “vecchia bambina”, certamente un termine più morbido della definizione iniziale che si aggancia al “bimbe ora vecchie”dell’ultima strofa mentre le “rime e fedi giovanili” alludono al primo cimentarsi con il verso e la poesia (altra attitudine dell’adolescente) .

Il finale riassume perfettamente il tumultuoso gorgo della memoria quasi a dischiudere gli occhi dell’autore con un percorso a ritroso là dove aveva cominciato ad aprire il cerchio dei ricordi: “piango e non rimpiango la tua polvere, il tuo fango, le tue vite/ le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie”.

La luccicante bellezza del duomo modenese mista alle abitazioni fatiscenti perché semidistrutte, la miseria delle pietre e l’oro dei monumenti: tutto viene cancellato dall’oblio in attesa dell’eterno ritorno.

“Così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso, sempre diverso” si riallaccerà al ritornello della successiva Canzone dei dodici mesi: la visione

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eraclitea dell’universo che sarà ripetuta in numerose altre opere, così come “le notti ed il fiasco” conferma inoltre la predilezione dell’autore per l’atmosfera notturna (descritta nelle tre “canzoni di notte”) e per il vino, altra fondamentale chiave di lettura per l’intero e complesso universo-Guccini.

PICCOLA CITTA’Piccola città, bastardo posto,

appena nato ti compresi o fu il fato che in tre mesi mi spinse via; piccola città io ti conosco,

nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio, ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano

visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano...

Piccola città, io poi rividi le tue pietre sconosciute, le tue case diroccate da guerra antica;

mia nemica strana sei lontana coi peccati fra macerie e fra giochi consumati dentro al Florida:

cento finestre, un cortile, le voci, le liti e la miseria; io, la montagna nel cuore, scoprivo l' odore del dopoguerra...

Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola, la parola ha il mesto odore di religione;

vecchie suore nere che con fede in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione: gli occhi guardavano voi, ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia, correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West...

Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza, vuoto mito americano di terza mano,

pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce, a toni acuti, casti affetti denigrati, cercati invano;

se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia e tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via...

Piccola città, vecchia bambina che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele tre lunghi mesi;

angoli di strada testimoni degli erotici miei sogni, frustrazioni e amori a vuoto mai compresi;

dove sei ora, che fai, neghi ancora o ti dai sabato sera? Quelle di adesso disprezzi, o invidi e singhiozzi se passano davanti a te?

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Piccola città, vecchi cortili, sogni e dei primaverili, rime e fedi giovanili, bimbe ora vecchie; piango e non rimpiango, la tua polvere, il tuo fango, le tue vite,

le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie: così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso, sempre diverso, cerco le notti ed il fiasco, se muoio rinasco, finché non finirà...

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6.

IncontroIl quarto pezzo, Incontro è certamente il più “cinematografico” tra le canzoni di Guccini. Dal cinema infatti è mutuato lo sguardo rapito e incisorio dell’occhio del narratore/attore, che divide la canzone in pochi ma taglienti “ciak” in cui si descrive la storia, appunto, di un incontro con una vecchia amica (Betty Di Giusto), avvenuto a una decina di anni di distanza dall’epoca in cui si erano conosciuti.

Nuovamente l’“innominata” Modena fa da scenario alla vicenda in una tipica canzone del “quasi” gucciniano. L’autore infatti ama molto le atmosfere indecifrate e indecifrabili del passaggio, dell’inafferrabilità, dell’indefinito senso di scorrere del tempo e dello spazio e lo dimostra ancora una volta con un’abilità sintetica notevole.

Incontro è una storia quasi triste, quasi malinconica, quasi d’amore (altro titolo di un futuro pezzo) e, perciò, quasi d’addio. Anche questa è una vicenda personale, narrata con l’occhio del regista e del protagonista, visto che si tratta di un episodio autobiografico raccontato in prima persona.

Cinque strofe compongono il pezzo più breve del disco con i suoi tre minuti e trentasette secondi. C’è una rima baciata fra i primi due versi di ogni strofa tranne nel caso della prima (lei/due) così come gli ultimi due (tranne le rime imperfette (fredda/nebbia nella prima, buio/saluto nella quarta). Il verso centrale, il terzo, presenta sempre una rima interna.

Irregolare e frammentata, fatta di piccoli squarci descrittivi (come fotogrammi) e anche di brevi abbozzi di frasi colloquiali che permettono all’ascoltatore di calarsi nell’atmosfera del racconto, la canzone è un altro amaro affresco/riflessione sul passato vissuto.

Questa volta non è più l’adolescenza ad essere analizzata ma la prima giovinezza di un Guccini ventenne. Il passato è sempre in agguato e riaffiora all’improvviso nel volto di una persona nota, non una vecchia fiamma, anche se probabilmente innamorata di lui.

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“E correndo m’incontrò lungo le scale”: il verso iniziale del testo suggella l’impatto dell’entrata in scena della protagonista femminile, che non viene mai chiamata per nome. Un’irruzione improvvisa, che offre l’idea del movimento e della concitazione di chi giunge “correndo”, imbattendosi nell’autore “lungo le scale” di un’abitazione.

La congiunzione “e” rappresenta il trait d’union tra il tempo sospeso della narrazione e l’immediato ingresso dell’azione, oltre che un’insolita apertura poetica.

Sembra che l’incontro avvenga per caso e quel “quasi nulla mi sembrò cambiato in lei” suggerisce l’immagine di un tempo trascorso, anche non molto lungo: il “quasi” lascia aperta l’idea della mutevolezza che gli anni formano immancabilmente su una persona.

Non priva d’ironia quella “tristezza che ci avvolse come miele”, a evidenziare un immobilità sospesa dal grande sentimento nostalgico dei tempi andati che entrambi i personaggi nutrono: il successivo e sublime “stoviglie color nostalgia” citato nella seconda strofa . Il paesaggio si completa con un sole al tramonto che “rosseggiava” una città “già nostra e ora straniera”.

Dunque ancora una Modena estranea, ancora una volta una città del passato dal valore di “déjà vu”, quindi uno sfondo onirico e surreale a nutrire i personaggi avvolti nel mistero (“ci circondava la nebbia”) e a suggerire l’oscura e aliena presenza di uno scenario quasi ostile ai protagonisti.

Seconda strofa e seconda scena: i due dialogano sui bei tempi andati, ma si ascoltano solo piccole domande e periodi interrotti (“Cosa fai ora? Ti ricordi?”).

Mentre Modena è la stessa (diversa e uguale, per dirla con il compositore), il tempo è comunque trascorso: una frase sintetica e speculare “Vecchi muri proponevan nuovi eroi” porta alla mente i graffiti murali cittadini inneggianti agli idoli del tempo dell’azione ossia gli anni ‘70 (da Ho Chi Min a Rivera o Mazzola?) contrapposti ai miti personali dei due protagonisti che sono “morti ormai” (come Hemingway appunto, sia mito americano che letterario che viene fatto rimare, ma solo per l’occhio, con l’avverbio “ormai” con un’audace accostamento linguistico, non nuovo in Guccini).

E’ un altro passaggio amaramente ironico, con i due giovani a pronunciare “frasi quasi fossimo due vecchi” riproponendo nuovamente il tema centrale dell’America come in Piccola Città.

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Ma se nella canzone precedente (e nel periodo di vita precedente) l’ideale America rappresentava il sogno indefinito dell’adolescenza, ora lo sguardo ormai deluso dei due trentenni è puntato su una realtà molto più amara dato che sono “la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste”.

E i miti letterari e cinematografici statunitensi, anch’essi già accennati in precedenza, vengono in qualche modo riproposti, ma in chiave ribaltata nella chiusura della quarta strofa (o scena): la ragazza racconta “la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films”, ossia il sua tragico presente rappresentato dal suicidio dell’amante (avvenuto “per Natale”). L’ironia diventa sarcasmo, se si paragona il “triste racconto” di un “libro scritto male” con un romanzo di Hemingway (anch’egli suicida!) o con un film hollywoodiano.

Insomma, la tragicità (reale) della vita diventa sempre più paradossale e assurda prima della strofa conclusiva. Già si era passati al terzo scenario cittadino, dopo “le scale”, “le auto ferme”, “i vecchi muri” e “la cena a casa sua”: siamo adesso alla stazione ferroviaria, dove l’incontro sta per tramutarsi in addio.

Amara la visione tra la “povera amica” intenta a raccontare i suoi “dieci anni in poche frasi” e un Guccini già salito sul treno di ritorno (verso Bologna?) che inizia a meditare “dondolato dal vagone” proprio sul destino degli uomini e del tempo (“cara amica, il tempo prende il tempo dà”).

L’immagine del treno, così violenta e terribile ne La locomotiva, qui si raddolcisce divenendo una morbida culla che alimenta il pensiero e la meditazione introspettiva.

Un treno ora veicolo non più della forza dell’ideale ma catalizzatore di considerazioni sulla vita e sulla morte. “Le impressioni di un momento e le case intraviste da un treno” sono lampi, immagini di una vita incomprensibile e breve nella ricerca disperata del suo significato. Come nel testo di apertura, Radici, l’autore chiude il componimento con il sublime “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”, che riassume perfettamente la personale morale sull’esistenza umana.

Incontro in qualche modo richiama nei temi i pezzi che lo precedono estendendone il punto di vista in un altro quadro di intima realtà autobiografica. La sinteticità del testo e la sua ricchezza di suggestioni ne fanno una delle canzoni stilisticamente più raffinate del suo repertorio e, al tempo stesso, una perla poetica dal valore inimitabile.

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INCONTRO

E correndo mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei,

la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due. Il sole che calava già rosseggiava la città

già nostra e ora straniera e incredibile e fredda: come un istante "deja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi, dieci anni da narrare l'uno all' altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi:

"cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi, ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via".

E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi, per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i

suoi. I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,

il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste: la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì ed infine, in breve, la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films:

come in un libro scritto male, lui s'era ucciso per Natale, ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:

povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone "cara amica il tempo prende il tempo dà... noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo

sa... restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,

le luci nel buio di case intraviste da un treno: siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli

pieno..."

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Canzone dei dodici mesiNel 1971 con la canzone Il Tema, tratta dall’album L’isola non trovata l’autore annunciava l’argomento principale della sua poetica futura: “canterò soltanto il tempo”.

Il Tema

Un anno è andato via della mia vita, già vedo danzar l' altro che passerà. Cantare il tempo andato sarà il mio tema perché negli anni uguale sempre è il

problema:

e dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi,

canterò soltanto il tempo...

Ed ora dove sei tu che sapevi ridare ai giorni e ai mesi un qualche senso. La giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso:

e dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni, racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni

e canterò soltanto il tempo...

E via, e via, e via parole vane che scivolano piane dalle chitarre e se ne vanno e vibrano, non resta niente, un suono che si sente e poi scompare...

E sono qui sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, e cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi,

e canterò soltanto il tempo...

Un anno e un album dopo ecco Canzone dei dodici mesi, il quinto pezzo di Radici, vero e proprio inno all’avvicendarsi delle stagioni e quindi allo scorrere del tempo e alla sua ineluttabilità legata alla morte.

Un argomento che ha sempre affascinato Guccini, basti pensare a brani come Un altro giorno è andato (sempre del 1971) o Canzone delle osterie di fuori porta (1974), oppure un semplice verso di Farewell del 1994 (“Ora il tempo

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ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo/ sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo”).

L’autore torna qui sul “luogo del delitto” analizzando l’intero anno solare e riproponendo una serie di piccole odi, una per ogni mese. Apre nuovamente gli orizzonti a una visione “collettiva” perché come nell’album vengono alternate realtà appartenenti alla sua sfera personale (Radici e “Incontro) a quelle di respiro più vasto e sociale (La locomotiva e Canzone dei dodici mesi).

Nella descrizione dei mesi dell’anno Guccini si rifà nuovamente alle tradizioni della cultura contadina e all’universo di quella “padanità” che sente radicata nel proprio dna artistico e umano. Egli compie quindi ancora una volta una doppia operazione: riscoprire i valori antichi della sua terra d’origine e tradurli in visione poetica, mescolando ogni suggestione in un corpo di versi racchiusi in ballata.

Altre radici, insomma, e questa volta e il riferimento temporale è certamente il medioevo. Ne offre la prova la citazione diretta di Folgòre di San Gimignano, o Jacopo di Michele, nominato nella canzone in riferimento al mese di Maggio.

Poeta toscano vissuto a cavallo tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo e autore di una corona di sonetti dedicata proprio ai dodici mesi dell’anno e ai relativi “piaceri” da vivere, Folgòre è nominato assieme al suo contemporaneo “rivale”, l’aretino Cenne de la Chitarra, che rispose in tenzone con altrettanti componimenti, stavolta in parodia, volti invece a narrare ironicamente le “noie” e i dispiaceri che l’uomo incontra mese per mese:

da Folgore da San Gimignano

D'april vi dono la gentil campagnatutta fiorita di bell'erba fresca;

fontane d'acqua, che non vi rincresca,donne e donzelle per vostra compagna;

ambianti palafren, destrier di Spagna,e gente costumata alla francesca

cantar, danzar alla provenzalescacon istormenti nuovi d'Alemagna.

E d'intorno vi sian molti giardini,e giacchito vi sia ogni persona;

ciascun con reverenza adori e 'nchini

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a quel gentil, c'ho dato la coronade pietre prezïose, le più fini

c'ha 'l Presto Gianni o 'l re di Babilona.

da Cenne de la Chitarra

D'aprile vi do vita senza lagna:tafani a schiera con asini a tresca,

ragghiando forte, perché non v'incresca,quanti ne sono in Perosa o Bevagna;

con birri romaneschi e di Campagna,e ciaschedun di pugna sì vi mesca:e, quando questo a gioco no riesca,

restori i marri de pian de Romagna.

Per danzatori vi do vecchi armini;una campana, la qual peggio sona,

stormento sia a voi, e non refini.

E quel che 'n mil[l]antar sì largo dona,en ira vegna de li soi vicini,

perché di cotal gente sì ragiona».

La verve giullaresca del cantastorie medievale è presa ad esempio da Guccini che intende imitare Cenne nel genere burlesco dei versi. Inoltre la chitarra è per entrambi lo strumento essenziale oltre a esserne la protagonista assoluta nell’arrangiamento della canzone.

Ma è altrettanto importante evidenziare anche il riferimento alle arti figurative dei duomi romanici emiliani, in particolare proprio quello di Modena, dove fanno mostra di sé le celebri “allegorie dei mesi”, opere dello scultore Wiligelmo (XII sec.) che abbelliscono gli stipiti di uno degli ingressi, la Porta della Pescheria, e che si riferiscono proprio ai dodici mesi dell’anno.

Ritratte nel marmo in bassorilievo, in una sorta di “fumetto ante-litteram”, possiamo ammirare le attività di una civiltà rurale che poteva rivedere se stessa immortalata nei vari lavori imposti ciclicamente dalla natura: la semina, il raccolto, la vendemmia eccetera.

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Abilità umane avvicendate con il ritmo eterno delle stagioni che Guccini canta orgogliosamente nel nome di un passato su cui sente nuovamente affondare le radici della sua storia personale e quella dei suoi antenati.

Con una lunga didascalia l’autore si cala quindi nelle vesti del cantore medievale o giullare di corte approfittandone per sfoggiare in tutto il testo un tappeto di perle di citazioni, rimandi e allusioni letterarie giocate in parte con l’arte dell’ironia, in parte con il tono vaticinante ma anche canzonatorio della sua migliore energia artistica.

Canzone dei dodici mesi è un lungo componimento di quindici strofe composte di undici quartine a rima baciata (anche se non sempre perfetta: campi/stanchi, viene/crudele, amore/sole, pazze/basse) sempre ripetuta due volte, divise da una terzina-ritornello ripetuta ogni tre strofe. Il ritornello ha una rima interna (via/mia) e un’altra imperfetta (uguale/giocare) che viene ribadita più volte in occasione della strofa conclusiva.

Si comincia ovviamente con Gennaio, ritratto “silenzioso e lieve” a far compagnia al “corpo malato” del poeta, che allude ovviamente ai malanni di stagione invernali, tipici del primo mese dell’anno.

Ad ampi squarci “pittorici” fanno contrapposizione agli sguardi paesaggistici gucciniani: notiamo quindi una pianura (padana ovviamente) ricoperta dalla neve (“bianche file di campi”) e, paragonati per una felice antitesi cromatica “amanti dopo l’avventura”, i “neri alberi stanchi” che la popolano e ricordano proprio il Gennaio del Pascoli di Myricae:

Nevica: l'aria brulica di bianco;la terra è bianca, neve sopra neve;

gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco,cade del bianco con un tonfo lieve.

Subito a ritmo crescente incalza Febbraio, con il mondo ribaltato e “a capo chino” a causa del Carnevale, tradizionale periodo di “anarchia” in cui i ruoli sociali vengono invertiti, che va festeggiato nonostante “i dolori” della vita. Il riferimento diretto alla più celebre maschera italiana, Arlecchino, precede la “speranza” in fondo al cuore dell’imminente fine dell’inverno nonostante “sia lungo ancora”.

E questo freddo pungente è ancora vivo nel mese di Marzo che pure porta in sé il “riso del disgelo” con la sua nebbia e la sua neve “sciolta nelle rogge”.

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E’ una stagione invernale ormai tramontata mentre all’orizzonte “la primavera danza”. Il ritmo dell’orologio temporale è incessante e inesorabile, impossibile da contenere: “l’ala del tempo batte troppo in fretta” è l’amara considerazione di un presente che muta già in passato e la mera constatazione di un eterno e millenario gioco che l’uomo può soltanto osservare e contemplare (“la guardi e già lontana”).

Per scacciare la tristezza è necessario riempire il bicchiere di vino, come abbiamo già visto elemento cardinale di tutta la poetica gucciniana, chiaramente influenzata dal già citato poeta latino Quinto Orazio Flacco, le cui odi qui risuonano palesemente:

Ode I, IV

Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni       trahuntque siccas machinae carinas, 

     ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni       nec prata canis albicant pruinis.

(Se ne va l’aspro inverno, gradita torna primaverae con lei il Favonio, mentre gli argani traggono di nuovo in mare

le barche e il bestiame non prova più gioia della stalla,né il contadino del focolare. I prati non sono più candidi di brina.)

Ode IV, VII

Diffugere nives, redeunt iam gramina campisarboribus comae;

mutat terra vices et decrescentia ripasflumina praetereunt;

(Si son dileguate le nevi, tornano l’erba nei campi, sugli alberi le fronde;

muta la terra d’aspetto, e via via men grossi negli argini rientrano i fiumi;)

Ode I, XXXVII

Nunc est bibendum, nunc pede libero       pulsanda tellus, nunc Saliaribus 

     ornare puluinar deorum       tempus erat dapibus, sodales. 

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(Ora si deve bere, ora battere la terra coi piedi scalzi e ornare il letto degli dei

era ormai tempo con vivande dei Salii, o amici.)

E proprio nella terzina-ritornello, che scatta qui dopo i primi tre mesi/strofe (ogni mese ha una strofa ciascuno tranne luglio e agosto, condensati nella nona stanza) abbiamo l’invocazione diretta all’alternarsi delle stagioni (“O giorni mesi che andate sempre via”) dove Guccini crea un parallelo tra lo scorrere dei giorni e i mesi e la sua stessa esistenza terrena (“sempre simile a voi è questa vita mia”).

Inoltre torna nuovamente, come in Piccola Città, l’espressione “diverso e uguale” a ricordarci nuovamente che “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”.

Col riferimento diretto al tarocco bolognese, antica forma di divinazione ormai sconosciuta (per questo “la mano di tarocchi che non sai mai giocare”) l’autore vuole indicare proprio la trasformazione operata dal tempo che cambia il corpo (diverso) ma non l’anima immutabile (uguale).

Nella strofa dedicata ad Aprile sta molto della sintesi artistica guccinana: l’unione della citazione alta e letteraria (l’allusione al poeta inglese T.S Eliot, “che ti chiamò crudele”, assieme ai classici motti di uso popolare come “aprile dolce dormire”.

Questa mistura di generi delle più diverse estrazioni caratterizza fortemente l’arte compositiva di Guccini rendendola quasi un unicum nel panorama dei cantautori italiani novecenteschi.

Così l’Eliot di Waste Land è in tutta la sua espressività fin dalle primissime battute del suo poema

April is the cruellest month, breedingLilacs out of the dead land, mixing

Memory and desire, stirringDull roots with spring rain.

Winter kept us warm, coveringEarth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers.

(Aprile è il più crudele dei mesi, genera Lillà da terra morta, confondendo Memoria e desiderio, risvegliando

Le radici sopite con la pioggia della primavera.

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L'inverno ci mantenne al caldo, ottuse Con immemore neve la terra, nutrì Con secchi tuberi una vita misera.)

che a sua volta riprende il grande cantore medievale Geoffrey Chaucer nel prologo ai racconti di Canterbury

Whan that April with his showres sooteThe droughte of March hath perced to the roote,

And bathed every veine in swich licour,Of which vertu engendred is the flowr;

(Quando i dolci acquazzoni di aprile hanno penetratola siccità di marzo, e l’hanno penetrata fino alla radice,

e ogni vena è impregnata di quell’umiditàla cui forza che risveglia genererà i fiori;)

mentre gli uomini e la terra preferiscono darsi al sonno (“addormentarsi dopo fatto l’amore”, “la terra dorme nella notte”).

Con Maggio viene cantato il mese simbolo della primavera e assieme al più poetico dei suoi prodotti, la rosa “che è dei poeti il fiore”. Per questo “ben venga maggio” riprendendo quasi interamente una delle più celebri Rime del poeta quattrocentesco Agnolo Ambrogini meglio conosciuto come il Poliziano:

Ben venga maggioe 'l gonfalon selvaggio!Ben venga primavera,

che vuol l'uom s'innamori:e voi, donzelle, a schiera

con li vostri amadori,che di rose e di fiori,

vi fate belle il maggio,venite alla frescura

delli verdi arbuscelli. Ogni bella è sicurafra tanti damigelli,

ché le fiere e gli uccelliardon d'amore il maggio.

Chi è giovane e bella deh non sie punto acerba,

ché non si rinnovellal'età come fa l'erba;

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nessuna stia superbaall'amadore il maggio Ciascuna balli e canti

di questa schiera nostra.Ecco che i dolci amanti

van per voi, belle, in giostra:qual dura a lor si mostra

farà sfiorire il maggio.Per prender le donzelle

si son gli amanti armati.Arrendetevi, belle,

a' vostri innamorati, rendete e cuor furati,

non fate guerra il maggio.Chi l'altrui core involaad altrui doni el core.

Ma chi è quel che vola? è l'agiolel d'amore,

che viene a fare onorecon voi, donzelle, a maggio.

Amor ne vien ridendocon rose e gigli in testa,

e vien di voi caendo.Fategli, o belle, feste.

Qual sarà la più prestaa dargli el fior del maggio?-Ben venga il peregrino.- -Amor, che ne comandi?-

-Che al suo amante il crinoogni bella ingrillandi,ché gli zitelli e grandi

s'innamoran di maggio.-

Nell’inneggiare alla stagione che ispira idealmente il fiorire poetico, Guccini brinda direttamente ai suoi illustri e già nominati predecessori Cènne e Folgòre mentre Giugno, è “maturità dell’anno” per la sua posizione centrale del calendario e dunque come paragonata l’età della ragione per l’uomo.

L’autore omaggia il mese della sua nascita (come già detto avvenuta il 14 giugno 1940) con un “di te ringrazio Dio” facendosi una voce sola con quella coscienza contadina che vede nel mese del raccolto, delle messi e del grano, il tempo della speranza e della prosperità. Se maggio il mese della rosa, giugno è quello del grano e delle spighe che donano “all’uomo il pane e alle femmine l’oro”, intendendo proprio il grano come antico sinonimo di ricchezza e di prosperità.

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Un cambio di registro e di ritmo avviene con Luglio, a testimoniare il salto temporale con la seconda metà dell’anno.“Luglio il leone” si riferisce al segno zodiacale dominante, come il caldo più forte dell’estate che trasforma il mondo “come in una visione”, proprio come Agosto, dove “non si lavora nelle stanche tue lunghe oziose ore”.

Ma l’estate al declino consente solo l’ozio delle ferie e le gioie del corpo grazie al sole e al vino (“riposa e bevi”, “é meglio inebriarsi di vino e di calore”) che restano quasi gli unici strumenti “vitali” da conservare.

Una riflessione sulla vita torna mirabilmente nella strofa dedicata a settembre, il “mese del ripensamento sugli anni e sull’età”, che piega i pensieri nuovamente al senso dell’esistenza umana, vista come “il gioco della tua identità”.

Ma anche l’autunno oramai alle porte, consegna all’uomo i migliori frutti della natura: Ottobre è il mese della vendemmia, della raccolta del’uva, del “mosto” e dell’“ebbrezza”, facile esaltarlo come il mese da cui nascerà proprio l’amato vino, il migliore tra i frutti della terra.

Nuovamente possiamo ascoltare l’eco di Carducci, precisamente di San Martino:

La nebbia agli irti colliPiovigginando sale,E sotto il maestrale

urla e biancheggia il mare;Ma per le vie del borgo

Dal ribollir dè tiniVa l'aspro odor de i vini

L'anime a rallegrar.Gira sù ceppi accesi

Lo spiedo scoppiettando:Sta il cacciator fischiando

Su l'uscio a rimirarTra le rossastre nubiStormi d'uccelli neri,Com'esuli pensieri,

Nel vespero migrar.

Ciò vale anche nel lugubre mese di novembre che “cala” nell’oscurità delle ore sempre più piccole e buie dove “si festeggiano i morti”, nei “giardini consacrati al pianto”, con enfasi romantica i camposanti popolati da quanti omaggiano i defunti nella consueta giornata del 2 novembre.

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Significativa l’allusione alla morte/sorte che cambierà un giorno “in fango della strada” la giovinezza, ricalcando la già citata Un altro giorno è andato:

Nel sole dei cortili i tuoi fantasmi giovanili corron dietro a delle Silvie beffeggianti,

si è spenta la fontana, si è ossidata la campana: perché adesso ridi al gioco degli amanti?

Sei pronto per gettarti sulle strade, l'inutile bagaglio hai dentro in te,

ma temi il sole e l'acqua prima o poi cadrà e il tempo andato non ritornerà...

Si giunge infine alla conclusione con il mese di Dicembre che all’ascolto nel disco porta una suggestiva sovrapposizione tra la chitarra e l’organo, tipico strumento da funzione religiosa. Un passo a un cristianesimo “pagano” (i simboli religiosi appartenenti all’antichità mescolati a quelli cristiani si ritrovano nella festa del Natale che coincide con le antiche festività precristiane del solstizio di inverno del 21 dicembre) è il riferimento alla nascita di Gesù Cristo, intesa come la fine dell’inverno e dell’anno solare con l’inizio del nuovo.

Ancora una volta torna un componimento eliotiano, precisamente Gerontion in cui é presente l’allusione al Cristo-Tigre:

The word within a word, unable to speak a word, Swaddled with darkness. In the juvescence of the year

Came Christ the tiger

(La parola in una parola, incapace di dire una parola, Fasciata di tenebra. Nell'adolescenza dell'anno

Venne Cristo la tigre)

In pochi tratti torna nuovamente il sonno, questa volta del letargo della natura ma anche della morte. Una morte solo temporanea, perché la primavera è pronta a tornare e a introdurre l’uomo in un nuovo tempo (interessante come Guccini nasca in Giugno, “maturità dell’anno” mentre Cristo giunge, per Eliot, “nell’adolescenza dell’anno”).

Le “esili ombre pigre” che il sole dicembrino proietta sulla terra e fanno da ingresso trionfante al giorno “dei profeti detto” (i biblici Michea, Daniele e

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Isaia) in cui la resurrezione di Cristo, e della natura, può esplodere nella sua gloria.

CANZONE DEI DODICI MESI

Viene Gennaio silenzioso e lieve, un fiume addormentato fra le cui rive giace come neve il mio corpo malato, il mio corpo malato...

Sono distese lungo la pianura bianche file di campi, son come amanti dopo l'avventura neri alberi stanchi, neri alberi stanchi...

Viene Febbraio e il mondo è a capo chino, ma nei convitti e in piazza lascia i dolori e vesti d’Arlecchino, il carnevale impazza, il carnevale

impazza... L'inverno è lungo ancora, ma nel cuore appare la speranza

nei primi giorni di malato sole la primavera danza, la primavera danza..

Cantando Marzo porta le sue piogge, la nebbia squarcia il velo, porta la neve sciolta nelle rogge il riso del disgelo, il riso del disgelo...

Riempi il bicchiere, e con l'inverno butta la penitenza vana, l'ala del tempo batte troppo in fretta, la guardi, è già lontana, la guardi, è

già lontana...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.

Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare.

Con giorni lunghi al sonno dedicati il dolce Aprile viene, quali segreti scoprì in te il poeta che ti chiamò crudele, che ti chiamò

crudele... Ma nei tuoi giorni è bello addormentarsi dopo fatto l'amore,

come la terra dorme nella notte dopo un giorno di sole, dopo un giorno di sole...

Ben venga Maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera, il nuovo amore getti via l'antico nell'ombra della sera, nell'ombra della

sera... Ben venga Maggio, ben venga la rosa che è dei poeti il fiore,

mentre la canto con la mia chitarra brindo a Cenne e a Folgore, brindo a

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Cenne e a Folgore...

Giugno, che sei maturità dell'anno, di te ringrazio Dio: in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io...

E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro, con le tue spighe doni all' uomo il pane, alle femmine l'oro, alle femmine

l'oro...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.

Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

Con giorni lunghi di colori chiari ecco Luglio, il leone, riposa, bevi e il mondo attorno appare come in una visione, come in una

visione... Non si lavora Agosto, nelle stanche tue lunghe oziose ore

mai come adesso è bello inebriarsi di vino e di calore, di vino e di calore...

Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull'età, dopo l'estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità...

Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità, come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità...

Non so se tutti hanno capito Ottobre la tua grande bellezza: nei tini grassi come pance piene prepari mosto e ebbrezza, prepari mosto e

ebbrezza... Lungo i miei monti, come uccelli tristi fuggono nubi pazze,

lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse, fumano nubi basse...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.

Diverso tutti gli anni, e tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

Cala Novembre e le inquietanti nebbie gravi coprono gli orti, lungo i giardini consacrati al pianto si festeggiano i morti, si festeggiano i

morti... Cade la pioggia ed il tuo viso bagna di gocce di rugiada

te pure, un giorno, cambierà la sorte in fango della strada, in fango della strada...

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E mi addormento come in un letargo, Dicembre, alle tue porte, lungo i tuoi giorni con la mente spargo tristi semi di morte, tristi semi di

morte... Uomini e cose lasciano per terra esili ombre pigre,

ma nei tuoi giorni dai profeti detti nasce Cristo la tigre, nasce Cristo la tigre...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.

Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare

che non sai mai giocare, che non sai mai giocare che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

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Canzone della bambina portogheseLa sesta e penultima canzone non si discosta dal tema centrale di tutto l’album: la riflessione esistenziale sul tempo e il significato da cogliere riguardo alla vita. Il senso dell’esistenza viene raggiunto solo per un attimo dalla piccola protagonista del testo, la bambina portoghese, simbolo di un’umanità che si interroga, sul proprio destino, al confine del tempo e dello spazio. La canzone è divisa in due parti: le due sestine che aprono e chiudono il testo (presenti solo rime interne) e la parte centrale, composta da due quartine e un’altra sestina di andamento irregolare. Un componimento non facile a cui solo l’estensione vocale del cantante dà quell’effetto narrativo utile ad apprezzarne in pieno la forza anche se resta uno dei pezzi di più difficile lettura della produzione gucciniana. Un’altra volta, come in Incontro, il brano viene aperto dalla congiunzione “e”, come a introdurre il testo in un sorta di frase colloquiale, o meglio, di sfogo.

L’autore, da moderno “vate”, patisce il disagio verso una società colma di ipocrisia e falsità che già aveva etichettato duramente nella celebre Dio è morto del 1964:

Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede,

nei miti eterni della patria o dell' eroe perché è venuto ormai il momento di negare

tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, una politica che è solo far carriera,

il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l' ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto

e un dio che è morto, nei campi di sterminio dio è morto,

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coi miti della razza dio è morto con gli odi di partito dio è morto...

Una società dove tutti “ti san dire cosa fare” ma che, in fondo, rimane vuota di valori morali e di spiritualità cancellata dal bigottismo e dall’assenza di pensiero.

Per questo tutti gridano (“fanno a chi parla più forte”) per evitare la ricerca proprio delle risposte sulla vita e sulla morte (che fa “paura” al pari delle “stelle”, simbolo del mistero dell’universo e della stessa vita).

L’evocato misticismo porterebbe ad accostare la bambina portoghese al mistero della Madonna di Fatima: anche il testo cambia decisamente scenario, pur rimanendo nella stessa cornice ambientale, il Portogallo con “l’Atlantico immenso di fronte”.

Lo sfondo è decisamente onirico, una visione vaticinante che lo stesso Guccini canta con voce pacata ma potente. Vediamo scendere al mare la protagonista che sembra ovattata dai “rumori soltanto come voci sorprese” della spiaggia: la bambina rimane assieme ai suoi amici che però “sembravan sommersi dalla voce del mare” e quindi al tempo stesso rimane come isolata in una bolla (“restaron soltanto il mare il bikini amaranto”).

Qui avviene la “rivelazione” della protagonista, che sembra riesca a intuire qualcosa, in quel punto “al limite di un continente”, fronteggiando la maestosità dell’oceano.

Ma anche il poeta non riesce a spiegare in pieno cosa abbia intuito (“qualcosa di grande che non riusciva a capire”). L’impossibilità di comunicare della ragazzina è la stessa dell’autore, capace solo di cantarne solo l’“epifania” rivelatrice ma di arrendersi di fronte al mistero, quasi come in Dante (Par., XXXIII):

Oh quanto è corto il dire e come fiocoAl mio concetto! E questo a quel ch’i’vidi

È tanto, che non basta a dicer “poco”

Il sogno della bambina si chiude in una sorta di svenimento simile ad un sonno profondo, alimentato dal grande calore della spiaggia che la fa abbandonare quasi in un’estasi divina: “ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire/ e fu solo del sole, come di mani future”.

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Si giunge all’ultima strofa, che riprende nel ritmo la parte iniziale. L’incipit identico “e poi, e poi” apre ancora la profonda e cupa meditazione sull’età e sul tempo della vita umana, talmente breve che “una sera e una stagione son come lampi”.

La risposta, l’affermazione che chiude il componimento è alla fine svelata: “la vera ambiguità è la vita che viviamo” che di per sé resta l’unico “vizio che ti ucciderà” al contrario del “fumare e bere”.

Vivere è dunque il peccato più grande e la vera malattia, in un pessimismo cosmico di chiare origini leopardiane ma di cui non si può negare l’accostamento al più vicino Italo Svevo, che aveva fornito il paragone tra la stessa esistenza e la malattia nel suo principale romanzo, La coscienza di Zeno:

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre

malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena

curati.

CANZONE DELLA BAMBINA PORTOGHESE

E poi e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose. E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote...

E tutti, sai, ti san dire come fare, quali leggi rispettare, quali regole osservare, qual è il vero vero... E poi, e poi, tutti chiusi in tante celle fanno a chi parla più forte

per non dir che stelle e morte fan paura...

Al caldo del sole, al mare scendeva la bambina portoghese, non c'eran parole, rumori soltanto come voci sorprese,

il mare soltanto e il suo primo bikini amaranto, le cose più belle e la gioia del caldo alla pelle...

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Gli amici vicino sembravan sommersi dalla voce del mare... O sogni o visioni, qualcosa la prese e si mise a pensare,

sentì che era un punto al limite di un continente, sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte...

E in questo sentiva qualcosa di grande che non riusciva a capire, che non poteva intuire,

che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, quell'oceano infinito... Ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire

e fu solo del sole, come di mani future; restaron soltanto il mare e un bikini amaranto...

E poi e poi, se ti scopri a ricordare, ti accorgerai che non te ne importa niente

e capirai che una sera o una stagione son come lampi, luci accese e dopo spente

e capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini...

E poi, e poi, che quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere, vivere e poi, poi vivere

e poi, poi vivere...

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9.

Il vecchio e il bambino

L’album si chiude con un’altra canzone “onirica” o comunque “fantastica”: l’origine de Il vecchio e il bambino viene innanzitutto dal mondo letterario dei fumetti, a cui Guccini guarda molto, specie nei primi anni di carriera.

Le letture dei generi del genere fantascienza hanno contribuito molto a fornire elementi surreali alla sua narrazione canora giovanile. Ma le radici evocate qui sono anche musicali, dato che il già citato e coetaneo Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan (il più celebre cantautore del mondo) già aveva descritto mondi irreali o immaginari reduci da un futuro prossimo post-nucleare e quindi desolante in testi come It's a hard rain's a-gonna fall:

Oh, where have you been, my blue-eyed son?And where have you been my darling young one?

I've stumbled on the side of twelve misty mountainsI've walked and I've crawled on six crooked highways

I've stepped in the middle of seven sad forestsI've been out in front of a dozen dead oceans

I've been ten thousand miles in the mouth of a graveyardAnd it's a hard, it's a hard, it's a hard, and it's a hard

It's a hard rain's a-gonna fall.

(Oh, dove sei stato, figlio mio dagli occhi azzurri?Oh, dove sei stato, caro giovane figlio?

Ho inciampato sul fianco di dodici montagne nebbiose,ho camminato e strisciato su sei strade tortuose,

ho camminato in mezzo a sette foreste tristi,Sono uscito, davanti a dodici oceani morti,

Sono stato per diecimila miglia nella bocca di un cimitero,E una dura dura dura pioggia cadrà.)

Sempre Guccini in due altri famosi brani, Noi non ci saremo e L’atomica cinese (entrambi del primo album, Folk beat n.1 del 1967) aveva già

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affrontato l’argomento di un paesaggio terrestre devastato da un disastro atomico:

Noi non ci saremo

Vedremo soltanto una sfera di fuoco, più grande del sole, più vasta del mondo;

nemmeno un grido risuonerà e solo il silenzio come un sudario si stenderà fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno,

ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

Poi per un anno la pioggia cadrà giù dal cielo e i fiumi correranno la terra di nuovo

verso gli oceani scorreranno e ancora le spiagge risuoneranno delle onde e in alto nel cielo splenderà l'arcobaleno, ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E catene di monti coperte di nevi saranno confine a foreste di abeti:

mai mano d' uomo le toccherà, e ancora le spiagge risuoneranno delle onde e in alto, lontano, ritornerà il sereno,

ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E il vento d'estate che viene dal mare intonerà un canto fra mille rovine,

fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà, fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,

ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E dai boschi e dal mare ritorna la vita, e ancora la terra sarà popolata;

fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà gli spazi di sempre per mille secoli almeno, ma noi non ci saremo, noi non ci saremo,

ma noi non ci saremo...

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L’atomica cinese

Si è levata dai deserti in Mongolia occidentale una nuvola di morte, una nuvola spettrale che va, che va, che va...

Sopra i campi della Cina, sopra il tempio e la risaia, oltrepassa il Fiume Giallo, oltrepassa la muraglia e va, e va, e va...

Sopra il bufalo che rumina, su una civiltà di secoli, sopra le bandiere rosse, sui ritratti dei profeti,

sui ritratti dei signori sopra le tombe impassibili degli antichi imperatori...

Sta coprendo un continente, sta correndo verso il mare, copre il cielo fino al punto dove l'occhio può guardare e va, e va, e va...

Sopra il volo dei gabbiani che precipitano in acqua, sopra i pesci che galleggiano e ricoprono la spiaggia e va, e va, e va...

Alzan gli occhi i pescatori verso un cielo così livido, le onde sembra che si fermino, non si sente che il silenzio

e le reti sono piene di cadaveri d'argento...

Poi le nuvole si rompono e la pioggia lenta cade sopra i tetti delle case, tra le pietre delle strade,

sopra gli alberi che muoiono, sopra i campi che si seccano, sopra i cuccioli degli uomini, sulle mandrie che la bevono,

sulle spiagge abbandonate una pioggia che è veleno e che uccide lentamente, pioggia senza arcobaleno

che va, che va, che va, che va, che va!

Questi due testi, così come Piccola Città e Canzone della bambina portoghese, verranno ripresi dai Nomadi, tuttora la più longeva band del panorama musicale italiano, che adopereranno sempre una versione musicale molto diversa da quella originaria. Il contributo della celebre band di Novellara è stato decisivo nel portare al centro della ribalta il nome del compositore pavanese a metà degli anni ’70.

(L’inimitabile voce dell’allora leader Augusto Daolio dette ai testi gucciniani quella popolarità che ancora oggi resiste dopo quattro decenni e che nel 1979 li porterà a incidere insieme Album Concerto, disco “live” registrato in presa diretta in due serate al “Kiwi” di Modena e al “Club “77 di Pavana).

A suggellare il connubio artistico tra i reggiani Nomadi e il modenese Guccini sarà l’album I Nomadi interpretano Guccini datato 1974, due anni dopo

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l’uscita di Radici nel quale compariranno, tra le altre, proprio Piccola Città, Canzone della bambina portoghese e Il vecchio e il bambino.

Ne Il vecchio e il bambino il pavanese canta con varia intensità ed enfasi la sua canzone, quasi a volerla sussurrare, mentre i Nomadi incatenano il testo in una sorta di valzer cadenzato dandogli una regolarità di ritmo assente in origine.

Se l’occhio del cantautore durante tutto l’album è rivolto al passato, qui volge l’attenzione a un temuto futuro distopico, dominato dalla paura diffusa per gli effetti di una possibile esplosione nucleare e per gli eventuali stravolgimenti della natura a causa dell’uomo.

“I protagonisti sono due ma il protagonista vero è il paesaggio”, ammetterà proprio l’autore e l’“immensa pianura” ritratta dai suoi versi certamente può ricordare la familiare pianura Padana anche se lo scenario è generalizzato. La canzone ha un ritmo molto regolare ed è composta da sette quartine a rima baciata (con tre rime imperfette: nessuno/fumo, soli/stagioni, sognante/altre , anni/sogni) tranne la prima che presenta rime alternate. Si tratta di una favola, dove i due attori principali, appunto il vecchio e il bambino, attraversano al tramonto una landa ormai desolata dove “il sole brillava di luce non vera” al contrario di “rosseggiava la città” che faceva capolino in Incontro.

Anche qui troviamo il colore rosso della sera ma dentro un’inquietante “polvere” che “si alzava lontano” e che lascia intendere qualcosa di distruttivo e terribile alle loro spalle. E’ un altro sguardo panoramico sulla “sua” pianura, completamente deserta e anzi, coperta solo di “torri e di fumo” a descrivere con pochissimi tratti una natura brutalizzata dall’industrializzazione e dall’antropizzazione forzata. La coppia di personaggi avanza nello spettrale paesaggio e comincia la narrazione in prima persona dell’uomo che si commuove nel ricordo antico di come quella terra un tempo fosse florida e rigogliosa (“il vecchio parlava e piano piangeva”).

Ma non a caso è collocata al centro del componimento la struggente strofa riferita al mondo degli anziani: sublime è il passaggio “i vecchi non sanno nel loro pensiero distinguer nei sogni il falso dal vero”. La confusione e lo stordimento dell’età e le nebbie di una memoria che resiste a cancellare il penoso presente: sarà sogno o pura fantasia di un anziano che ormai sovrappone le due realtà?

Guccini dà voce al vecchio che parla al bimbo silenzioso e attonito nel racconto di un passato prosperoso e colorato, ricco di vita: il campo pieno di

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grano, la pianura verde alberata e popolata, a far da contraltare allo squallore della realtà ai loro occhi.

Magistrale la chiusura, che suggella canzone e album: la frase finale è proprio quella del bambino che non crede a ciò che il vecchio dice, parole a lui completamente incomprensibili perché raccontano cose “mai viste” e quindi assolutamente fantastiche.

“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!” termina degnamente e in maniera affascinante il viaggio attraverso la memoria gucciniana, un tuffo nella sua dimensione poetica e umana che ancora oggi ogni ascoltatore può compiere a quasi quarant’anni dalla sua data di creazione. Con la profondità e la delicatezza del miglior “burattinaio di parole” della canzone italiana del secondo ‘900.

IL VECCHIO E IL BAMBINOUn vecchio e un bambino si preser per mano

e andarono insieme incontro alla sera; la polvere rossa si alzava lontano

e il sole brillava di luce non vera...

L'immensa pianura sembrava arrivare fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare

e tutto d'intorno non c'era nessuno: solo il tetro contorno di torri di fumo...

I due camminavano, il giorno cadeva, il vecchio parlava e piano piangeva:

con l'anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati...

I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero...

E il vecchio diceva, guardando lontano: "Immagina questo coperto di grano, immagina i frutti e immagina i fiori e pensa alle voci e pensa ai colori

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e in questa pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde,

cadeva la pioggia, segnavano i soli il ritmo dell'uomo e delle stagioni..."

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose mai viste

e poi disse al vecchio con voce sognante: "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"

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ConclusioniMa mai come nel caso di Guccini i testi delle canzoni si coniugano con il termine classico di “poesia”. La celebre traduttrice e critica musicale Fernanda Pivano, recentemente scomparsa, è stata una delle prime figure a parlare di “poeti d’oggi” riferendosi in particolare a Fabrizio De Andrè e a Bob Dylan, due tra i più nobili paladini della canzone d’autore, “sdoganando” di fatto la figura del cantautore verso la piena dignità letteraria.

A dimostrare la validità di questa tesi è stato proprio un compositore come Dylan (non a caso un nome d’arte in onore a un grande poeta, Dylan Thomas), candidato più volte negli ultimi anni al premio Nobel per la letteratura.

Da parte sua Guccini è certamente uno dei più autorevoli esponenti della canzone d’autore italiana e parte integrante di una nuova cultura popolare nata alla fine degli anni ‘60 del ‘900.

Le sue parole finemente cesellate entro lo schema della canzone ne hanno fatto uno degli autori più ascoltati ed amati, specie dal pubblico giovanile, nonché dei più studiati per il suo linguaggio aulico e povero, illustre e popolare e certamente unico nel suo stile.

La poetica gucciniana è tutta incentrata verso un personalissimo esistenzialismo, venato di ironia, di epos, di dotta citazione tutta volta alla riscoperta di valori arcani e tra questi, certamente, l’essenza più profonda dell’uomo e della sua natura spesso descritta nella piccola realtà quotidiana.

Radici ne è l’esempio più lampante ma tutta la sua produzione è una continua ricerca e un’autoanalisi lucida su temi eterni come il rapportarsi continuo col tempo, con la morte, con il senso della vita e dell’uomo mescolando e facendo suoi in molte occasioni luoghi e personaggi della letteratura di ogni tempo.

Esemplificativa, in quest’ottica, è la canzone Gulliver del 1983, tratta dall’album che porta il suo nome, Guccini:

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Poi dopo, ripensando a quell'incedere incalzante dei viaggi persi nella sua memoria,

intuiva con la mente disattenta del gigante il senso grossolano della storia

e nelle precisioni antiche del progetto umano o nel mondo suo illusorio e limitato,

sentiva la crudele solitudine del nano, sentiva la crudele solitudine del nano

nell'universo quasi esagerato,

L’autore, immergendosi nei panni del personaggio swiftiano, offre uno sguardo sul mondo con l’occhio piccolo dell’uomo di fronte al mistero e all’immensità del creato.

Per questo è gigante e nano allo stesso tempo, pieno di quel dubbio e irrequietezza esistenziale che lo caratterizza e che lo rende cantore e rivelatore di un messaggio al tempo stesso alto e universale, assolutamente meritorio di attenzione non solo dagli “addetti ai lavori” musicali ma anche, soprattutto, letterari.

da Lettera

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni,

gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, l'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?

Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa e c'è il sospetto che sia triviale l'affanno e l'ansimo dopo una corsa,

l'ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita, il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa...che chiami...vita...

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Bibliografia

Mimma Gaspari

“L’industria della Canzone. Dischi, cantautori, tecnica poesia, Il mondo che ruota a 33 giri, Musica pop fra evasione e cultura” Editori Riuniti. Libri di base Periodico quindicinale 15 gennaio 1981

Claudio Bernieri “Non sparate sul cantautore. Padri, padroni, leaders carismatici: i cantautori delle scuole di Bologna, Milano, Roma. Vol.2” Grabriele Mazzotta editore. Periodico trimestrale 30 ottobre 1978

Massimo Cotto“Un altro giorno è andato: Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto” Firenze, Giunti, 1999

Paolo Jachia“Francesco Guccini. 40 anni di storie, romanzi, canzoni”Roma, Editori Riuniti, 2002.

Francesco Guccini “Non so che viso avesse. Quasi un’autobiografia” Arnoldo Mondadori editore. I edizione Febbraio 2010

Francesco Guccini “Icaro”Arnoldo Mondadori editore. I edizione Maggio 2008

Francesco Guccini “Vacca d’un cane”Giangiacomo Feltrinelli editore. I edizione Ottobre 1993

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