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Genevieve Vaughan Per-Donare Una critica femminista dello scambio MELTEMI

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Genevieve Vaughan

Per-DonareUna critica femminista dello scambio

MELTEMI

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Traduzione di Francesca Buff

Copyright © 2005 Meltemi editore, Roma

È vietata la riproduzione, anche parziale,con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,

anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editorevia Merulana, 38 – 00185 Roma

tel. 06 4741063 – fax 06 [email protected]

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Indice

p. 7 Ringraziamenti

Introduzione all’edizione italiana

15 Capitolo primoDa dove partire

15 Capitolo secondoLinguaggio e dono

15 Capitolo terzoLa reciprocità

15 Capitolo quartoLe definizioni e lo scambio

15 Capitolo quintoIl concetto di uomo

15 Capitolo quintoIl concetto di uomo

15 Capitolo sestoLe categorie “marxiste”

15 Capitolo settimoLa fonte collettiva

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15 Capitolo ottavoL’invidia della castrazione

15 Capitolo nonoÈ = $

15 Capitolo decimoIl valore

15 Capitolo undicesimoLo spostamento verso lo scambio

15 Capitolo dodicesimoDare valore allo scambio

15 Capitolo tredicesimoIl mercato e il genere

15 Capitolo quattordicesimoMeritare di esistere

15 Capitolo quindicesimoIndicare e patriarcato

15 Capitolo sedicesimoIl punto dell’Ego

15 Capitolo diciassettesimoCosa rappresenta la democrazia?

15 Capitolo diciottesimoGli agenti non-mascolati del cambiamento

15 Capitolo diciannovesimoSogno e realtà

15 Capitolo ventesimoDare e amore

INDICE

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15 Capitolo ventunesimoDal Giardino al Graal

15 Capitolo ventiduesimoSpeculazioni cosmologiche

15 Capitolo ventitreesimoDopo le parole: la teoria in pratica

155 Bibliografia

INDICE

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Il linguaggio è coscienza pratica che esiste anche per altri uomini [sic] e solo per questa ragione esiste in realtà anche per me individualmente.Karl Marx

A chi serve il Graal?La Folie Perceval, 1330

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Ringraziamenti

Ringrazio Luisa Capelli e Gabriella Capece di Meltemieditore per il loro lavoro e aiuto editoriale, Francesca Buffoper la sua traduzione di un libro non sempre facile e pieno dineologismi. Margherita Durando, Mariangela Capuana e Au-gusto Ponzio per i molti commenti sulla traduzione e le idee.In particolare vorrei far notare che la traduzione di alcune pa-role e frasi è stata difficile, non essendoci un termine diretta-mente corrispondente in italiano. È il caso di nurturing, tra-dotto “pratiche di cura”, scarcity, che vuol dire mancanza delnecessario, tradotto “scarsità”, o a volte “penuria”, come an-che i tentativi di rendere il s/he, oppure she or he, un egalitari-smo di genere che è molto più difficile in italiano che in ingle-se. Ringrazio anche le mie tre figlie, Amelia, Beatrice ed Em-ma per i molti aiuti che mi hanno dato e per la loro pazienza.

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Premessadi Robin Morgan

Il libro che avete nelle mani è un dono dall’autrice allettore, da una donna al Movimento delle Donne (e agliuomini di coscienza), in tutto il mondo.

In un certo senso, ogni lavoro di autentica teoriafemminista potrebbe rientrare in questa categoria. Maquello che Genevieve Vaughan ci ha dato è qualcosa diunico: un lavoro tanto appassionato nel suo sentimentoquanto serio nella sua analisi, un lavoro nel quale la ri-cerca scrupolosa risuona in sincronia, e non in opposi-zione, ai più raffinati impulsi del cuore umano.

Tale insistenza del sia/sia, di sfidare la mente e simul-taneamente riscaldare lo spirito, non è facile in un mon-do di opposizioni o/o. Ciò richiede una sana audacia an-che solo a tentare entrambi simultaneamente. Gen Vau-ghan sottolinea correttamente che le femministe già osa-no considerare “sospetto ogni sistema accademico” e vaoltre stimolandoci a rischiare di ritrovare la nostra “naï-veté”, a mettere in discussione tutto. Ma non fraintende-te: per naïveté lei non intende sentimentalismo o roman-ticismo offuscato, sebbene lasci uscire l’altruismo dall’ar-madio per farlo correre in strada in modo rinfrescante.Io trovo le sue teorie “naïf” altamente sofisticate nel sen-so migliore del termine: elaborate in modo intelligente,etiche, pragmatiche, fattibili a livello transculturale, e ap-plicabili sia nelle relazioni intime che nella politica globa-le. In altre parole, le trovo effettivamente trasformative.

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In questo testo lettori diversi scopriranno doni diver-si. Semiotici, linguisti, economi e studiosi di scienze po-litiche incontreranno una radicale sfida intellettualefemminista, rara nei loro campi rarefatti. Ma non c’è bi-sogno di conoscere niente di semiotica o altre disciplineaccademiche per apprezzare questo libro.

Gli attivisti vi troveranno un’analisi politica accessi-bile applicabile sia al denaro che alla mascolazione, all’a-noressia, alle armi o all’architettura: una teoria con im-plicazioni in sistemi chiusi e in sistemi cosmici.

I lettori uomini vi troveranno una teoria che non in-colpa semplicisticamente gli uomini e tuttavia non si sot-trae dal sezionare il patriarcato e insistere sulla respon-sabilità morale individuale e allo stesso tempo sul cam-biamento sistemico.

In generale, i lettori seri preoccupati da mode pedan-ti e da cliché populistici troveranno in queste pagine unapproccio che destabilizza allegramente molti concettitra i quali il decostruzionismo, il postmodernismo, la ca-rità e la co-dipendenza (per citarne alcuni).

Per me, una poetessa amante del linguaggio, c’ègrande piacere nell’intelligenza e nei giochi di parole diGen Vaughan (che delizierebbero gli affezionati di MaryDaly). In questo testo, troviamo costrutti, ad esempio“costrained reciprocity” che, io predico, potranno di-ventare delle frasi-tipo paragonabili a “reproductive ri-ghts”, “acquaintance rape” o alla memorabile frase diAdrienne Rich “compulsory heterosexuality”. Comefemminista, mi divertono le illuminazioni di coscienzache ho trovato in tutto il libro, così tante che alcunegemme vengono casualmente lasciate nelle note. Comeinternazionalista, sono profondamente grata per la sen-sibilità transculturale della Vaughan che trae esempi datutto il mondo. Come autrice di fiction godo del suo ap-prezzamento creativo delle favole, dei miti, archetipi estereotipi. Come teorica politica, ammiro il suo coraggio

ROBIN MORGAN

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nel rivendicare i “valori” dalla destra. Come qualcunoche s’interessa di metafisica, sono affascinata dalle im-plicazioni del Paradigma del Dono, dalle ultime ricerchesul cervello destro e sinistro alle visioni alternative sul-l’esistenza stessa. E come attivista politica apprezzo eammiro il modo in cui la vita di Gen Vaughan sia unesempio della sua teoria in pratica. Infatti ella è stata cosìoccupata per tanti anni a sostenere e partecipare l’ener-gia femminista globale che è stato difficile farla fermareabbastanza a lungo per finire questo libro.

Il suo libro può ora trovare il suo pubblico, e mi au-guro che sia un pubblico grande. Perché questo libronon solo vi farà pensare, ma vi persuaderà alla speranza,offrendovi un memento dell’umana capacità di trasfor-mazione. E ciò vi renderà stranamente felici, seppur cir-condati, come siete, dallo spirito mortalmente sfruttato-re e intensamente avaro del patriarcato. Ciò vi offriràuna terza via, di sfida al pensiero dello status quo chepone alternative biforcate improponibili come “egoi-smo” e “altruismo”. Questa possibilità, dal canto suo, vidarà un senso del vostro potere personale, non potere suqualcosa ma potere di. Se siete mai state madri, ricono-scerete quel potere: di dare, che sia dare alla luce, darenutrimento, o tempo, o cure, o attenzione. Se siete maistati innamorati, riconoscerete quel potere: esilarante, diabbondanza, di gioioso riversamento (da Giulietta: “Piùio do a voi, più io ho, perché entrambi sono infiniti”), lacelebrazione della quotidianità miracolosa.

In qualunque modo voi scegliate di aprirvi a questolibro, incontrerete un sé possibilmente più saggio e al-trettanto una società. La trasformazione di entrambi èresponsabilità di tutti noi. Queste pagine sono la partedi una mappa-in-progress per il viaggio. Questo libro èuno strumento per il nostro compito.

Proprio un bel dono.

PREMESSA

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Introduzione all’edizione italiana

I tempi difficili in cui ho scritto questo libro adessoappaiono come “pacifici” in confronto al presente e alleguerre che il mio paese ha intrapreso dopo l’11 settem-bre 2001. Ora negli USA, infatti, abbiamo un governo incui si può facilmente vedere come i valori del patriarca-to e del capitalismo sono intrecciati fra loro tanto da es-sere “la stessa cosa”. Questo patriarcato capitalista agi-sce per il privilegio dei pochi e il danno dei molti secon-do le molle che ho cercato di descrivere in questo libro.Infatti il paese nell’insieme, funziona come se avesseun’identità machista collettiva, che sfida tutti gli altripaesi come un bullo adolescente che vuole mostrarsi“più uomo” degli altri.

I valori che le femministe hanno tanto criticato, di so-pruso, di gerarchia e di competizione, si estrinsecano nelcapitalismo e funzionano come motivazione all’accumu-lazione. Premiano la presa del potere e puniscono la de-bolezza. Se non vogliamo lasciare il campo libero a que-sti valori dobbiamo capire come si possono sviluppare.Se pensiamo che sono dovuti alla cattiveria insita negliindividui, o nelle etnie, o nelle nazioni o anche nei gene-ri, non riusciremo mai ad affrontarli in modo efficace.Infatti sono talmente pervasivi da sembrare “naturali” ese non lo sono ci deve essere qualche altra cosa d’impor-tante sotto che non stiamo vedendo. Urge capire questoqualcosa ora perché ogni giorno che passa la situazione

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diventa più grave, la gente soffre di più, l’ambiente si de-grada e dietro a una facciata di menzogne il controllo deipochi sui corpi e le menti dei molti si estende.

Il femminismo ci ha fatto vedere il legame fra il perso-nale e il politico. Spesso la stessa cosa succede ai due li-velli, lo stesso schema si ripete. Questo vuol dire chepossiamo trovare dentro di noi degli indizi di quello chesuccede sul piano della collettività. Vuol dire anche cheoccorre una presa di coscienza e perfino una rivoluzioneinteriore per poter affrontare le cause dei terribili proble-mi che ci stanno davanti. Non intendo dire questo inmodo individualistico, ma voglio suggerire che ci sonostrutture sia esterne che interne che vengono dalla stessafonte. Noi le vediamo come parte di noi e come “naturaumana” ma sono invece strutture artificiali che funziona-no in modo parassitario sia sugli individui che sui grup-pi. Questa è un’ipotesi radicale e richiede una disponibi-lità profonda a rinunciare ai preconcetti e pensare in mo-do diverso. Infatti è difficile per l’oste riconoscere il pa-rassita che sta dentro la propria mente e dentro la societàin cui vive. Però se il comportamento pazzesco delle na-zioni e dei singoli non è biologicamente determinato, ètalmente pervasivo e pericoloso che deve venire da qual-cosa di questo genere. Ha le sue radici anche nel puntodi vista patriarcale che vive nell’Occidente da secoli nel-l’accademia, nel mercato, nella religione, nei governi.Dobbiamo sforzarci di vedere oltre questo punto di vistae riconoscere un’alternativa già esistente. Vedere l’alter-nativa può anche mettere in risalto le stesse strutture pa-rassitarie. Se non vediamo chiaramente quello che vera-mente succede non potremo mai liberarcene.

In questo libro cerco di mostrare che l’economia deldono è un’alternativa già esistente alle strutture patriar-cali. Propongo di prendere le donne come norma, e lasocializzazione all’identità “maschile” come una devia-zione da quella norma, seguendo un modello di genere

GENEVIEVE VAUGHAN

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creato socialmente a danno di tutti (donne, bambini euomini). Infatti penso che l’economia del mercato è ba-sata sul genere. Alcuni anni fa le femministe hanno rive-lato la grande quantità di lavoro non retribuito che fan-no le donne in casa. Questo lavoro gratis, hanno detto,aggiungerebbe il 40 per cento al prodotto nazionale lor-do negli Stati Uniti (di più in altri paesi) se fosse mone-tizzato. La risposta di molte donne a questo dato è statodi pretendere che il lavoro delle casalinghe fosse pagato.Io dico invece che si debba considerare questo lavorogratis come un tipo di economia diverso, allargando lanostra definizione al di là dell’“uomo economico” perincludere l’economia del dono come un’altra modalitàdi distribuzione (e quindi anche di produzione) che esi-ste già nella vita individuale e anche in modo occultato,nel mondo sociale, come fonte di profitto, come benicomuni non ancora mercificati, come l’acqua e l’aria, co-me le tradizioni del sapere comune. Queste aree di donicomuni sono rese più visibili adesso proprio dalla globa-lizzazione che le privatizza e le assimila al mercato, im-pedendo loro di far parte del mondo non monetizzatoche soddisfa i bisogni gratis.

L’economia nascosta del dono si deve identificarecon le donne in primo luogo perché sono loro che la de-vono praticare come madri, giacché i bambini piccolisono incapaci di scambiare qualcosa per costringere glialtri a soddisfare i loro bisogni. Qualcuno deve dare aloro gratis. Questa economia del dare viene screditatada tutti perché il contesto del mercato e del patriarcatola rende ardua ed è spesso più facile assecondare l’op-pressore piuttosto che cercare di farlo cambiare.

Anche se gli antropologi occidentali, studiosi del do-no nelle società indigene, in genere non legano la logicadel dono con la logica materna, noi lo dobbiamo fare inmodo programmatico per poter connettere il femmini-smo con le società indigene e con tutti quei movimenti

INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

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che cercano di creare un mondo migliore. Infatti le riso-luzioni dei problemi sociali possono essere viste comedoni a un livello generale e sono questi i doni che l’atti-vismo cerca di dare. La pratica del dono è stata esclusa,come modello interpretativo, da molte aree della vita.Con questo testo, spero di essere riuscita a reinserirladove essa è stata eliminata: fra l’altro, nello studio dellinguaggio, l’educazione, la comunicazione, i mass me-dia e nella critica della privatizzazione che trasforma idoni in merci. Ci sono anche fenomeni come il freesoftware che sono visti però sempre in termini di scam-bio pre-capitalistico da studiosi ancora patriarcali. (Peresempio vedono il riconoscimento o la reputazione co-me pagamento per il dono di migliorie nel software chesi dà gratis.) Di fatti senza una teoria del dono unilatera-le, è più facile che esperimenti di questo genere venganocooptati dal mercato. Per di più la scarsità voluta dalmercato per escludere alternative, rende più difficile ildare gratis. Come spesso succede, la “colpa” (altro ele-mento dell’economia di scambio, come richiesta di pa-gare per i misfatti) viene data alla vittima e si pensa chesia il dare gratis a essere un comportamento irrealistico,quasi “ammalato”. Invece dobbiamo capire che è il con-testo basato sullo scambio che rende l’economia del do-no difficile, ed è il contesto che dobbiamo cambiare.

Non voglio anticipare troppo i temi del libro ma vor-rei almeno menzionare che non penso questa sia unateoria “essenzialista” ma che il dono ha una sua logica,che è la logica umana del comunicare, da chiunque vie-ne praticata. Il fatto che gli uomini rinuncino a questalogica come identità di genere, cambia la loro praticacostringendola verso il dominio, fa sì che essi consideri-no la violenza come un sostituto del dare e li fa spessocolpire fisicamente o moralmente per fare del male e do-minare invece che dare per nutrire. La violenza stabili-sce un rapporto di gerarchia con l’altro non un rapporto

GENEVIEVE VAUGHAN

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di mutua inclusione come invece fa il dono. Dovremosocializzarci tutti verso l’economia del dono e i valoriche ne derivano in modo di arrivare a costruire una so-cietà che non sia volta all’autodistruzione e alla distru-zione del pianeta. Quello materno è un processo chefunziona a molti livelli e in modi diversi. Non è uno sta-to compiuto. Se fosse uno stato, o una serie di stati e nefacessimo astrazione, forse troveremmo una “essenza”.Invece siccome è un processo con delle connessioni alsuo interno, quando ne facciamo astrazione, troviamouna logica, la logica del dono.

La logica dello scambio è invece l’opposto del dono,e infatti funziona sul non-donare. Ogni merce viene can-cellata, come dono, dallo scambio con un valore uguale.Le equazioni dello scambio formano la base del nostropensiero e della nostra moralità auto riflessivi. Per que-sta ragione non vediamo il dono che sottende sia al mer-cato che alla vita stessa e le nostre interpretazioni delmondo sono sempre sfasate.

Quello che le donne hanno in comune non è un’es-senza o un istinto verso la cura dell’altro. Esse hanno,invece, in comune il fatto che non sono state fatte diven-tare uomini. L’aver cura dell’altro è la base della norma-le logica dell’umano, anche per gli uomini. Quello chedobbiamo investigare è perché molta gente, specialmen-te uomini NON si comporta così. Dobbiamo rigirare laquestione. È l’egoismo non l’altruismo, ciò di cui dob-biamo renderci conto.

È da molti anni che lavoro su queste idee. Già nel1964, quando sono venuta in Italia come ragazza ameri-cana appena sposata con un professore italiano, Ferruc-cio Rossi-Landi, sono stata messa in contatto con delleidee che mi hanno capovolto il mondo. Ferruccio fu in-vitato a Bologna a una riunione di gente che voleva fareuna rivista in cui si applicava l’analisi del denaro e dellamerce di Marx allo studio del linguaggio. Sono stata in-

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vitata anch’io e questa idea mi ha completamente affa-scinata. La rivista non è mai stata fatta ma Ferruccio hascritto molte cose su questo argomento. L’ho studiatoache io e ancora continuo a studiarlo adesso dopo 40anni. Attraverso gli anni ho sviluppato un approccio di-verso da quello di Ferruccio. Mentre lui vedeva il lin-guaggio “come lavoro e come mercato”, io lo vedo so-prattutto come dono. Il mercato, e lo scambio che è lasua logica, sono un derivato del dono, una sua distorsio-ne che cambia il dare nel non dare, l’implicazione delvalore dell’altro nella misurazione del valore di scambio.In questo il mercato crea una nicchia economica per l’i-dentità maschile formata in contrapposizione a quelladella madre nutrice. Rende l’abbondanza di cui necessi-tano le società che utilizzano l’economia del dono unnesso sociale, una possibilità solo per pochi nelle società“avanzate”. I valori della dominanza soliti nel patriarca-to possono dispiegarsi nel mercato in modo più sottilema forse anche più micidiale. È per questo che penso damolti anni che non solo il capitalismo ma lo stesso mer-cato e il patriarcato sono cresciuti insieme e devono es-sere anche smantellati insieme.

Non è solo il mercato libero e globalizzante a essereil problema; anche un mercato cosiddetto “giusto” crearapporti umani distorti e nocivi. È tossica la stessa logicadello scambio che pratichiamo tutti i giorni quando ven-diamo e compriamo. Distorce le nostre soggettività e fasì che interpretiamo tutto a sua immagine. Penso infattiche le varie idee che abbiamo della giustizia risentonomolto della logica dello scambio, nel senso che stabilia-mo un giusto pagamento per un crimine. Questo lo ab-biamo visto recentemente come giustificazione delle in-vasioni prima dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, in rappre-saglia all’attacco dell’11 settembre come se si potessestabilire una equazione fra danni (quantificando cosìl’inquantificabile). Una simile espressione dell’equazio-

GENEVIEVE VAUGHAN

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ne dello scambio c’è stata durante la Guerra Fredda conla produzione di armi nucleari nella escalation verso l’in-finito. Gorbaciov ha messo fine a questo con il dono deldisarmo unilaterale, cedendo il passo, salvandoci forsetutti almeno fino al nuovo round di produzione delle ar-mi nucleari da parte degli USA, aspirante nuovo padroneassoluto del mondo.

Allargando così il campo del dono alla comunicazio-ne e all’economia il materno si colloca in un ambitomolto più largo, lontano dalla famiglia in quanto tale. Ifili che sono stati spezzati tra il materno e il resto dellavita possono essere riallacciati e si può vedere il mercatocome comunicazione alienata, derivato da un uso secon-dario e distorto del nominare dovuto alla denominazio-ne bipolare del genere. Questa denominazione si propa-ga a tutti i livelli e diventa una contraddizione del mater-no che si fa nutrire da esso in modo parassitario. Que-sto, credo sia la radice nascosta dei grossi problemi checi assillano.

Vorrei aggiungere che penso che certi eccessi del po-stmodernismo sono dovuti al fatto che l’ordine simbolicoche in esso sembra reggere i rapporti sociali è basato an-cora su di un’interpretazione patriarcale dell’agire sim-bolico. Il riportare la pratica del dono come chiave inter-pretativa del simbolo fa sì che i rapporti che costituireb-bero un ordine di dominanza diventino visibili fonda-mentalmente come rapporti di soddisfazione di bisogni avari livelli. Per questo comporterebbero una motivazionesocial-altruista non un moto di dominanza astratta o con-creta che sia. Questa idea potrebbe riportare il simbolicodalla Legge del Padre alla pratica materna e, nel ridare illinguaggio e la comunicazione alle donne, lo libererebbedal mercato. Nel 1983, dopo il mio divorzio con Rossi-Landi, mi sono trasferita di nuovo negli Stati Uniti, doveho cercato di praticare il dono, creando una fondazioneper il cambiamento sociale in cui molti progetti innovati-

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vi sono stati iniziati e messi in atto da donne di etnie enazioni diverse. Parlo brevemente di questa fondazionenell’ultimo capitolo del libro. Ho dovuto chiuderla nel1998 avendo già speso quasi tutto il denaro che avevoereditato. Una piccola parte di queste attività continuaancora, ma penso che la cosa più importante che io possafare adesso è di far conoscere l’idea dell’economia deldono come paradigma per una nuova società e come ba-se dalla quale criticare a fondo il mercato e il patriarcatocapitalista. Dopo aver praticato il dono in questo modoper tanti anni ho finalmente scritto questo libro che èstato pubblicato negli USA nel 1997. Forse i lettori italianilo troveranno troppo insistente su concetti che per lorosono familiari, come quello dello sfruttamento interna-zionale. Può sorprendere gli italiani infatti quanti deimiei concittadini neanche immaginano che esiste questarealtà alla quale peraltro è dovuto il relativo benessere dimolti di loro. Sono grata al fatto di aver vissuto in Italiaper molti anni perché questo mi ha dato una prospettivainternazionale più ampia.

Recentemente con i miei collaboratori abbiamo or-ganizzato un convegno internazionale sul dono con lapartecipazione di donne da tutto il mondo, che hannopresentato le loro idee su questo tema. Donne indigenedi vari paesi, donne attiviste, accademiche e non, han-no offerto le loro prospettive sul dono da molti puntidi vista. Un libro con tutti questi contributi sarà pub-blicato nel 2005, per ora si possono ascoltare sul sitointernet www.fire.or.cr; altri materiali su tali argomentie altre iniziative sul dono sono reperibili su www.gift-economy.com. Nel 2004 invece è stato pubblicato unlibro di saggi, perlopiù in inglese, da parte di Meltemi:Il Dono/The Gift. Un’analisi femminista, che è il nume-ro annuale della rivista Athanor, edito da AugustoPonzio e Susan Petrilli della Università di Bari. A loroe Meltemi Editore, porgo i miei ringraziamenti più vivi

GENEVIEVE VAUGHAN

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per le collaborazioni che hanno dato luce a quel volu-me come a questo.

Vorrei dire anche che in genere nelle mia vita sonostata trattata bene dagli uomini e che questo libro nonè rivolto contro di loro personalmente, ma contro unsistema e un paradigma economico sociale, che fannomale a tutti.

Abbiamo bisogno di fare una rivoluzione femministasia interiore che internazionale, non una rivoluzione cheripeta i metodi patriarcali, ma che avvii un cambiamentoprofondo che permetterà a tutte le madri di curare i lorofigli/e in abbondanza e ai figli/e di amare le loro madri.La società stessa ha bisogno di essere materna e così an-che chi la governa. Le stesse strutture del governare so-no patriarcali, come cerco di dimostrare in questo libro,ma non sono permanenti. Sono intrise di paradossi cheperò possiamo e dobbiamo districare.

Gli esseri umani sono prima di tutto esseri che dona-no e ricevono. Questa azione è la base del loro pensarecome anche del loro linguaggio. Sono gli sviluppi sba-gliati di questi temi più semplici, che hanno portato allecomplessità dello scambio e del dominio. Possiamo ca-pire questi sviluppi per cambiarli, ma solo se riconoscia-mo la loro radice nella logica del dare e ricevere. Allorasarà chiaro che il patriarcato e il mercato sono stati undetour e possiamo finalmente tornare tutti sulla stradaprincipale, quella del dono.

Roma, febbraio 2005

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Capitolo primoDa dove partire

Il capitalismo e il comunismo sono entrambi patriar-cali. La filosofia di cambiamento sociale più ampia eprofonda, sia del primo che del secondo, è il femmini-smo. Ritengo che il femminismo sia una filosofia colletti-va, un corpo di pensiero e azione basato sui valori delledonne di tutto il mondo che si sta attualmente rivelandoalla coscienza di tutti. Il patriarcato ha contaminato ledonne e gli uomini per secoli, distorcendo la nostra pro-spettiva del mondo e deformando le nostre pratiche so-cio-economiche. Il programma del femminismo è libera-re tutti – donne, bambine/i e uomini – dal patriarcatosenza distruggere gli esseri umani, che ne sono il veico-lo, e il pianeta in cui essi vivono.

Cercare di pensare al di fuori delle logiche del pa-triarcato pone le donne in una situazione analoga a quel-la degli antichi filosofi presocratici che formulavano i lo-ro pensieri agli albori della cultura patriarcale occiden-tale. Se respingiamo quei modelli di pensiero che hannocorrotto e contagiato la cultura europea, si apre davantia noi un ampio terreno inesplorato. Abbiamo bisogno diricongiungerci con la nostra innocenza, con gli animiche non hanno fatto guerre e che ci hanno permesso diprenderci cura di bambini e di anziani invece di abusar-ne, anche in circostanze difficili. È necessario respingerela visione globale patriarcale e ricominciare da capo,guardando le cose con occhi “ingenui”.

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Quando smetteremo di credere a quello che ci è statodetto, scopriremo che la verità è vicino a noi ma la nostracapacità di riconoscerla è rimasta intorpidita e sepolta inprofondità, nello stratificarsi della storia di individui, diculture e della specie. È la prospettiva delle donne, risve-gliata e formulata collettivamente, a dimostrare che la spe-cie umana non è stata un errore di Madre Natura. È adot-tando questa prospettiva che le donne, e con esse gli uo-mini che le seguiranno, potranno invertire l’attuale ten-denza verso la distruzione del pianeta e degli esseri umani.

Per riuscire a respingere il pensiero patriarcale dob-biamo essere in grado di distinguere tale modello da qual-cosa di nuovo, da qualcosa d’altro. Le discipline accade-miche hanno la tendenza ad affermarsi rapidamente nel-l’ambito di una realtà che migliaia di ricercatori interna-zionali e di pensatori contribuiscono a creare. Invece difare dei “progressi”, essi convalidano una visione delmondo e una realtà in cui il perpetrarsi dell’abuso e delladominazione rimane endemico a diversi livelli. Mi sembrache vi sia un’incrinatura fatale, relativamente semplice,che mina il pensiero globale dei cosiddetti “paesi svilup-pati”, compreso il mondo accademico. I nostri studi e lenostre ricerche cominciano generalmente a valle, proprioa partire da questa incrinatura e siamo perciò già soggettialla sua influenza; il punto di vista ingenuo ci permette-rebbe invece di ricominciare a monte. Gli accademici for-mulano generalmente le loro teorie basandosi sul passatoe partono da una posizione che è già talmente a valle chela falla non può più essere individuata; infatti sembra checiò costituisca la realtà. È soltanto risalendo alla fonte chepossiamo sperare di trovare un’alternativa.

Per alcune circostanze della mia vita, ho potuto vol-gere lo sguardo ingenuo a un settore di studi accademiciche ha avuto una particolare importanza nel corso delXX secolo: lo studio del linguaggio e di altri sistemi se-gnici. A prescindere dagli altri risultati raggiunti in que-

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sto campo, le discipline della linguistica e della semioti-ca e la filosofia del linguaggio hanno fatto emergere ilruolo fondamentale del linguaggio nell’ambito dellacondizione umana. Se il linguaggio è importante, alloralo studio del linguaggio – nel campo della linguistica edella semiotica – è un buon punto di partenza per co-minciare a indagare il pensiero patriarcale.

La comunicazione per mezzo del linguaggio viene og-gi considerata dagli accademici un’attività regolata danorme autonome e isolate. Secondo alcuni linguisti, ilfatto che tutte le comunità umane facciano uso del lin-guaggio dimostra che esso sia trasmesso soprattutto ge-neticamente e non culturalmente. Le norme sintattiche eanche talvolta gli elementi del lessico sembrerebberodunque appartenere a un meccanismo biologico che sitrasmette di generazione in generazione. A me sembrache un tale tipo di patrimonio genetico determinerebbe apriori il nostro comportamento linguistico secondo unoschema del tipo “la biologia è il destino”; il linguaggiodiventerebbe simile al genere, le cui caratteristiche sonostate per secoli attribuite alla trasmissione biologica e perquesto ritenute immutabili e incontestabili, in particolareda parte del genere “geneticamente inferiore”.

Il fatto di considerare il linguaggio un dono offertocidal nostro DNA, e non un’eredità culturale, lo pone in unaposizione che trascende ogni possibilità d’intervento uma-no. Se al contrario riteniamo che il linguaggio sia un’ere-dità sociale che deve essere appresa da un insieme flessibi-le di corpi_menti giovani in formazione, allora la nostraidea dell’essere umano cambierà di conseguenza. Ciò cheviene appreso potrà essere soggetto a una revisione collet-tiva; coloro che apprendono potranno analizzarne i mec-canismi e le conseguenze potranno esserne alterate.

Per quanto possano sembrarmi strane, concezioni co-me quella della trasmissione genetica del linguaggio ven-gono prese sul serio e producono echi di vasta portata su

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altre discipline. Si crea così un ambiente in cui alcuneidee attecchiscono e prosperano perché vengono avvalo-rate come lecite e rispettabili, mentre alternative possibilivengono screditate. Il cosiddetto “libero mercato” delleidee, come anche il libero mercato in economia, spessopromuove il beneficio di pochi (geneticamente “superio-ri?”), travestendolo da beneficio collettivo.

Quando parliamo della condizione umana dovrem-mo sempre sottoporre il nostro discorso a due verifiche:“Cosa me ne viene materialmente?” e “cosa me ne vienepsicologicamente?”. La critica dell’ideologia ha mostra-to che alcuni sistemi di pensiero nel loro insieme sonoserviti al predominio di alcuni gruppi su altri. Qualun-que disciplina accademica dovrebbe essere sospetta: i si-stemi di pensiero che ci hanno presentato come veritàassoluta, sostengono quei sistemi politici ed economicidei quali essi stessi fanno parte.

Fortunatamente, io sono rimasta al di fuori del mon-do accademico e indipendente da esso per il mio sosten-tamento materiale; per questo il mio sguardo è potutorimanere ingenuo. Vorrei che ci fosse un cambiamentosociale radicale. Come madre, vorrei che le mie figlie e ifigli di tutte le madri possano avere un futuro sano e sa-lutare, libero dalle psicosi collettive del patriarcato. Riu-scire a contribuire in modo efficace a questo futuro co-stituirebbe la mia “ricompensa psicologica”.

Spero di poter dimostrare che esiste una spiegazionefemminista del linguaggio e che gran parte del nostropensiero può essere reinquadrato a partire da una praticabasata sulla donna. Esiste un paradigma completamentediverso, accessibile, ma nascosto dietro le astrazioni dellalinguistica e della semiotica. Alcune femministe, giusta-mente allibite dal dominio maschile del linguaggio, han-no scelto la poesia come forma espressiva alternativa; al-tre hanno invece deciso di rimanere in silenzio, per sot-trarsi al discorso patriarcale. La mia proposta è scoprire

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e abbracciare consapevolmente il paradigma celato, cosìda poter cominciare a liberare sia il linguaggio, sia la pra-tica sociale dal controllo patriarcale.

Nonostante le loro interminabili discussioni, i filosofinon sono stati in grado di rispondere alla domanda:“Come si agganciano le parole al mondo?”. Questo in-terrogativo è a capo di un filo che è rimasto intrecciatonel groviglio della filosofia patriarcale, un buon puntoda cui incominciare una ricerca “ingenua”. Tutte le ri-sposte date finora a questa domanda sono state influen-zate dalle posizioni patriarcali dei filosofi, soprattuttouomini, che si occupavano del pensiero. I loro punti divista si sono sviluppati nella negazione del modello fem-minile e sono serviti a sostenere le gerarchie patriarcalinel corso dei secoli1. Non ho intenzione di mettere in di-scussione una per una le teorie del linguaggio del passa-to né quelle attuali, cosa che farebbe di questo libroun’impresa accademica senza fine condotta proprio sulterreno di chi invece intendo sfidare; mi limiterò a pro-porre una teoria alternativa.

Identifichiamo alcuni interrogativi a cui è necessariodare una risposta: dobbiamo sapere come le parole, lefrasi, i discorsi “significano”. Come sono collegati tra lo-ro e con il mondo? Che significato ha il linguaggio perla natura degli esseri umani in quanto individui e inquanto specie? Perché è importante per noi saperlo?Dal momento che il ruolo del linguaggio è stato conside-rato determinante nel renderci “umani”, il rispondere aqueste domande nei termini di un sistema astratto, ci in-duce ad attribuire il nostro essere umani alla capacitàstessa di formulare pensieri astratti, con la conseguenzache chi tra noi è più abile a formulare i pensieri astrattisembra essere in qualche modo più umano degli altri.

Secondo uno stereotipo comune, alle donne è stataassegnata la sfera “emozionale”, mentre gli uomini si so-no appropriati dell’ambito “razionale”. Se il linguaggio

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viene visto come un sistema astratto in grado di renderci“umani”, allora la “superiorità” degli uomini sembre-rebbe giustificata dalla loro presunta capacità di astra-zione. Le teorie del linguaggio supportano dunque leteorie – o perlomeno le opinioni comuni – sul genere.

Su un altro livello di complessità, considerare la sin-tassi come un insieme di regole fa sembrare che anchel’essere umano debba essere governato da regole. Ven-gono così avvalorati i nostri sistemi di leggi, che appaio-no naturali dal momento che sono anch’essi costituiti daun insieme di regole e che richiedono un’attività gover-nata da regole. Ciò che accade nel mondo accademiconell’ambito del linguaggio può avere effetti di vasta por-tata sul resto del mondo. Le teorie economiche prove-nienti dal mondo accademico producono anch’esse ef-fetti importanti sul modo in cui le merci vengono pro-dotte e distribuite ovunque. Anche quando tali effettinon sono diretti, i presupposti che accompagnano que-ste discipline influenzano i comportamenti individuali edi gruppo in diversi ambiti della vita quotidiana.

Modificare i presupposti di base produrrebbe riper-cussioni ampie. Questi presupposti costituiscono la mo-tivazione e il fondamento logico alla base di politiche ecomportamenti, così come l’esistenza del complesso in-dustriale militare costituisce la motivazione e il supportoalla base della politica estera degli USA.

Co-creazione del patriarcato

È ormai luogo comune per il movimento New Agenegli USA parlare di co-creazione della “realtà”: si diceche grazie ai nostri pensieri possiamo determinare il veri-ficarsi di alcuni eventi piuttosto che altri. Spero di riusci-re a dimostrare il modo in cui noi esseri umani stiamocollettivamente creando una realtà patriarcale effettiva-

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mente bio-patica (nociva alla vita) e propongo di sman-tellare insieme questa realtà. I nostri valori e le interpre-tazioni della vita che formuliamo e realizziamo in funzio-ne di quei valori, creano un’illusione dannosa che ci por-ta ad agire e a organizzare la società in modo nocivo. Èanche in questo senso che i nostri pensieri determinanoil verificarsi di alcuni eventi. Se però riusciamo a com-prendere ciò che stiamo facendo, la realtà patriarcalepotrebbe essere modificata. Dobbiamo innanzitutto ave-re il coraggio di cambiare i presupposti base che servo-no da meccanismi di sicurezza volti a impedire il verifi-carsi di profondi cambiamenti strutturali.

Benché la dominazione maschile esista in molte cultu-re (forse la maggior parte), concentrerò la mia attenzionesulla dominazione dei maschi bianchi. Ritengo infatti chediversi modelli di dominazione e di sottomissione sianoandati convergendo, sino a creare un modello di domina-zione valido per questo gruppo su tutti i livelli2. Non in-tendo dire che tutti i maschi bianchi dominano o che sia-no soltanto loro a dominare, bensì che i modelli di sesso,razza e classe si combinano in modo efficace per consen-tire e incoraggiare il dominio dei maschi bianchi in diversiambiti dell’esistenza. Questi modelli di dominazione poisi propagano, così come i valori su cui essi si fondano.

Nella storia europea, l’ascesa del capitalismo e dellatecnologia, lo sterminio delle streghe, l’invasione delleAmeriche e il genocidio dei popoli indigeni, la schiavitùdegli africani e l’olocausto nazista sono tutte manifesta-zioni estreme di una cultura in cui sesso, razza e classeconvergono in un meccanismo gigantesco volto al privi-legio di pochi e allo svantaggio di molti altri. Sfortuna-tamente, questo meccanismo ha finito spesso per affer-marsi come norma, legittimando tendenze analoghe inaltre culture. Dittatori di tutto il mondo seguono ilcammino che i loro fratelli europei hanno percorso perprimi, perpetrando crimini e orrori.

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A oggi, i maschi bianchi sono ancora i maggiori pro-mulgatori del patriarcato; attraverso meccanismi quali illibero mercato, continuano a dominare l’economia glo-bale. È dunque compito di chi si prende cura di loro, inparticolare delle donne bianche, assieme ai loro alleatifra le donne e gli uomini di colore e fra gli uomini bian-chi stessi, ribellarsi al patriarcato e smantellarlo dall’in-terno. Ciascuna/o di noi deve smettere d’incentivarecomportamenti e sistemi bio-patici; le donne e gli uomi-ni che sostengono i valori dell’avere cura devono smette-re di alimentare il patriarcato.

Il capitalismo ha comportato vantaggi per molte don-ne, soprattutto donne bianche, avendoci esso permessodi assumere posizioni strutturali prima riservate ai soliuomini. Molte donne, avendo l’opportunità di parteci-pare alla forza lavoro e accedere a un’educazione direttaa ricoprire ruoli di prestigio, hanno acquisito una vocein capitolo, la capacità di esprimersi apertamente e defi-nire situazioni. Un risultato, questo, difficile da raggiun-gere per quelle donne che hanno accesso soltanto airuoli familiari tradizionali, in cui gli uomini detengonol’autorità assoluta.

Molte donne si stanno servendo della propria libertàdi espressione per prendere posizione contro il sistemache le ha “liberate”, sottolineando i molteplici difettiche gravano su di esse personalmente, come i bassi sala-ri, la mancanza di assistenza all’infanzia e il costanteprivilegio degli uomini. Condannano anche il sistemache sfrutta le loro sorelle e i figli/e di queste nel cosid-detto “Terzo Mondo”, negli USA e altrove, un sistemache provoca enormi sperperi di risorse con la guerra, laproduzione di armamenti e la distruzione endemicadell’ambiente.

Penso che le donne si trovino in una buona posizioneall’interno del capitalismo, per non lasciarsi ingannaredai suoi vantaggi apparenti, poiché veniamo ancora edu-

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cate ad allevare i nostri figli/e e veniamo al tempo stessoincoraggiate a emanciparci economicamente. Le con-traddizioni insite nei valori che sostengono questi duemandati, possono permetterci di individuare le profon-de contraddizioni proprie del sistema stesso.

Vari tipi di terapie e di farmaci cercano di rendercidisposte a “conciliare”, facendoci attribuire a noi stessele cause del nostro disagio. Molte femministe si rivolgo-no invece verso l’esterno, ribellandosi al sistema bio-pa-tico. Non stiamo utilizzando gli stessi metodi violentidel sistema ma cerchiamo altri modi per cambiare le co-se dall’interno.

Penso che non abbiamo ancora raggiunto il nostroobiettivo perché non ci rendiamo conto che abbiamouna prospettiva comune di base e che i problemi chedobbiamo affrontare sono sistemici. È rivelando i legamifra i diversi aspetti del patriarcato, riportando alla luce eaffermando i nostri valori alternativi comuni, che noidonne possiamo cominciare a smantellare il patriarcato,per ri-creare la realtà e riportare tutti dall’orlo della ro-vina verso la pace.

Il paradigma del dono

Esiste un paradigma fondamentale, i cui effetti sonoampi e di vasta portata e di cui tuttavia non ci si accor-ge. Potrebbe sembrare strano che oggi, nell’era dei viag-gi nello spazio, dei computer e dell’ingegneria genetica,una cosa tanto importante possa essere ignorata. Possia-mo pensare però all’esempio dell’“elefante in salotto”,metafora usata dagli alcolisti anonimi: chi nega l’alcoli-smo altrui non ne parla e per mantenere lo status quovolge l’attenzione altrove.

Mi sembra che vi sia una grande parte della nostraesistenza che viene negata e ignorata. In questo caso,

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contrariamente a quanto avviene per l’alcolismo, si trat-ta di un modo di essere salutare e normale, eppure noivolgiamo la nostra attenzione altrove per alimentare unarealtà fasulla, lo status quo patriarcale. Io definisco que-sta parte invisibile dell’esistenza il “paradigma del do-no”: si tratta di un modo derivante dalla pratica maternadi costruire e interpretare la realtà ed è perciò basatosulla donna (perlomeno finché saranno soprattutto ledonne a svolgere la pratica materna).

Il paradigma del dono sottolinea l’importanza del da-re per soddisfare i bisogni ed è orientato verso il biso-gno anziché verso il profitto. La pratica gratuita del do-no rivolta ai bisogni – ciò che nella pratica materna po-tremmo chiamare “pratica di cura” – viene spesso tra-scurata e può rimanere invisibile o sembrare senza signi-ficato nella società, poiché si basa su valori qualitativi in-vece che quantitativi. Il donare per soddisfare i bisognicrea però dei legami tra chi dona e chi riceve: riconosce-re il bisogno altrui e fare in modo di soddisfarlo è rico-noscere da parte di colei che dona l’esistenzadell’altro/a, così come ricevere da qualcun’altra qualco-sa che soddisfi il proprio bisogno, comporta che chi ri-ceve riconosca l’esistenza di tale altra.

I bisogni cambiano e si modificano in funzione deimodi in cui vengono soddisfatti; i gusti si evolvono esorgono nuovi bisogni. Crescendo, i bambini hanno bi-sogno di diventare autonomi e le madri possono soddi-sfare questo bisogno anche trattenendosi dal dare.

L’opposto della pratica del dono è lo scambio, per ilquale si dona allo scopo di ricevere. In questo caso sononecessari calcoli e misurazioni ed è necessario stabilireun’equivalenza tra i prodotti. Nello scambio, la tenden-za logica è l’orientamento verso l’Io invece che versol’altro; chi dona utilizza il soddisfacimento del bisognodell’altro come un mezzo per soddisfare il proprio biso-gno. È ironico constatare che ciò che chiamiamo “eco-

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nomia” si basa sullo scambio, mentre la pratica del donorimane relegata al mondo della casa – benché la parola“economia” significhi, in origine, proprio “cura della ca-sa”. Nel capitalismo il paradigma dello scambio regnaincontrastato ed è alla base della realtà patriarcale.

Persino molti di coloro che vorrebbero mettere in di-scussione il capitalismo concepiscono, nella maggiorparte dei casi, soltanto un’economia senza denaro –un’economia del baratto – che resta però basata sulloscambio. Mi sembra che in questo caso si tenda aconfondere la linea di separazione tra i paradigmi: inve-ce dello scambio, è il denaro a essere individuato comefattore responsabile e così non si riesce a capire in mo-do chiaro l’alternativa offerta dalla pratica del dono. Almantenimento dello status quo e dell’economia delloscambio, contribuisce una visione della “natura umana”come egocentrica e competitiva, caratteristiche richiestee incoraggiate dal capitalismo. Le caratteristiche richie-ste e incoraggiate dalla pratica materna sono l’orienta-mento verso l’altro, l’empatia e la creatività. Benché sia-no necessarie per allevare i figli, queste qualità vengonorese difficili e si è persino costrette al sacrificio di sé,dalla povertà a cui è destinata la maggior parte dellepersone e che è il più delle volte la conseguenza dell’e-conomia dello scambio. Queste qualità non vengonoconsiderate caratteristiche proprie della “natura uma-na”, né aspetti della realtà.

Io credo che il paradigma del dono sia presente ovun-que nella nostra vita, ma ci siamo abituate a non vederlo;lo scambio, con la sua esigenza di misurazioni, è moltopiù visibile. Tuttavia, persino il nostro saluto “come stai?”è un modo di domandare “quali sono i tuoi bisogni?”. La“co-muni-cazione” è darci doni insieme (dal latinomunus, “dono”) ed è così che formiamo la “co-muni-tà”.

Le madri, soddisfacendo i bisogni dei bambini cheda esse dipendono, formano il corpo delle persone che

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costituiscono la comunità e che vi convivono. Si occupa-no degli strumenti e inoltre li mantengono, come si oc-cupano delle abitazioni e degli spazi attraverso i quali eintorno a cui la comunità interagisce. Noi comunichia-mo attraverso il dono dei beni, attraverso la co-muni-ca-zione. Ciascun dono reca in sé qualcosa del processo dipensiero e dei valori di chi dà e afferma il valore di chiriceve. In effetti, i beni e i servizi che vengono offerti inmodo gratuito per soddisfare i bisogni, danno per impli-cazione valore a chi riceve3.

Scambio

Lo scambio, al contrario, rispecchia solo se stesso.Esige che l’attenzione sia concentrata sull’equivalenzatra i prodotti e così il valore che avrebbe potuto esseredonato all’altra persona, ritorna invece al donatore nellasoddisfazione di un suo proprio bisogno. Nello scam-bio, la soddisfazione del bisogno dell’altro è soltanto unmezzo per soddisfare i propri bisogni. Quando tutti sicomportano così, la co-muni-cazione risulta alterata eriesce soltanto a creare un gruppo di Io isolati, slegati eindipendenti e non una co-muni-tà.

Nel loro isolamento, questi Io tendono a svilupparenuovi bisogni artificiali di nutrimento e legami sociali,utilizzando il dominio per procurarsi un senso di comu-nità e di identità che gli manca, costringendo gli altri aprendersi cura di loro. Utilizzano ogni mezzo, dalla vio-lenza individuale alla manipolazione dei sistemi astratti,per ottenere la soddisfazione dei propri bisogni, soddi-sfazione che non proviene più da una loro partecipazio-ne diretta alle interazioni del dono.

Potremmo in effetti guardare al nostro mondo comea una società affamata di doni gratuiti e dei legami che sicreano grazie a essi. La nostra compassione è bloccata e

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sembra che si possa sopravvivere solo negando il dare-e-ricevere. Il non dare, però, uccide chi potrebbe darequasi come il non ricevere uccide chi ha bisogni mate-riali. Per mantenere questa situazione aberrante sonostate stabilite delle leggi e delle forze armate sono statepagate per imporle.

Vengono spese enormi quantità di denaro per ali-mentare il sistema giudiziario, il governo, la polizia e l’e-sercito, creando così la scarsità che ostacola la praticadel dono e fa dello scambio un meccanismo necessarioalla sopravvivenza4. I sistemi astratti di leggi e di orga-nizzazioni gerarchiche come lo Stato e l’esercito sono si-stemi di distribuzione di doni, che sottraggono i donidai bisogni della moltitudine nella comunità e li dirigo-no verso i bisogni di gruppi specifici di scambiatori chesono stati socializzati ad avere un ego affamato che vuo-le avere sempre “di più”.

Potremmo forse essere grati ai promotori dello scam-bio (gli imprenditori) per aver creato posti di lavoro, madovremmo renderci conto che i posti di lavoro sono unmezzo attraverso il quale gli imprenditori possono otte-nere ciò che Karl Marx chiamava il “plusvalore”, chepotremmo definire un dono gratuito di tempo e di lavo-ro regalatogli dal lavoratore. Per riuscire a sopravvivere,il lavoratore deve in aggiunta ricevere molti doni gratuitida chi lo/la cura. I doni vengono distribuiti dal bassoverso l’alto nella gerarchia, dal povero al ricco, dai do-natori agli scambiatori, eppure il flusso sembra apparen-temente andare nella direzione opposta.

La stessa interazione dello scambio appare così na-turale da non avere bisogno di studi approfonditi. In-vece, lo scambio è in realtà artificiale ed è il prodottodi un uso improprio della comunicazione. Se smettia-mo di considerare lo scambio come un processo natu-rale o uno dei principali pilastri che sostengono larealtà, possiamo smettere di concepire la nostra parte-

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cipazione a esso come criterio del nostro valore perso-nale. In effetti, molte donne hanno pensato che l’obiet-tivo della nostra liberazione fosse una maggiore parte-cipazione nella società; negli USA, questa società è il pa-triarcato capitalista. Le donne provano disagio a fareparte di essa, anche perché i nostri valori sono diversi equesto ci impedisce alle volte di avere successo. La ri-sposta al nostro problema non è cambiare noi stesseper adattarci al più ampio scenario patriarcale, bensìmodificare questo più ampio scenario per adattarlo aivalori delle donne. Perché si verifichi questa trasforma-zione è necessario rivendicare i valori “delle donne” inquanto più vitali e più realistici rispetto ai valori delpatriarcato. Dobbiamo capire il patriarcato e criticarloa fondo per riuscire a renderci conto che l’alternativa ègià nelle nostre mani.

Anziché cercare di conquistare il rispetto di chi haraggiunto una posizione nel sistema, dovremmo valoriz-zare la nostra posizione al di fuori del sistema stesso.Anche il “ri-spetto” ha a che vedere con la valutazione,la riconsiderazione e l’essere-pari-a, tutti principi cheprovengono dallo scambio e che contano solo fino almomento in cui il prendersi cura non è considerato lanorma.

Se spostassimo la nostra attenzione sul valore da at-tribuire al paradigma del dono individuando i difetti delparadigma dello scambio, molte cose acquisirebbero unaltro aspetto: il capitalismo patriarcale, che sembrava lafonte del nostro bene si rivelerebbe un sistema parassi-tario, in cui chi sta in alto viene nutrito dai doni gratuitidei suoi “ospiti” in basso. Il profitto è un dono gratuitoofferto a chi scambia dagli altri partecipanti al mercato eda coloro che li nutrono. La scarsità è necessaria al fun-zionamento del sistema di scambio e non è soltanto unasfortunata conseguenza dell’inadeguatezza umana o del-le calamità naturali.

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1 Guardando la superficie del linguaggio sottolineo la significanza psico-logica dei termini usati da filosofi e linguisti, specialmente quelli aventi a chefare con il dono o il bisogno, come “la dotazione genetica” o termini popolarieconomici come “abbienti e non abbienti” (haves and have nots). Sono indizidi trame patriarcali psico-sociali nascoste.

2 Non pretendo di fare una cernita di tutti i tipi di patriarcato che esisto-no nelle varie culture. Invece utilizzo il patriarcato euro-americano comeesempio al quale altri patriarcati possono essere confrontati, le loro comunan-ze trovate e le differenze identificate. V. il cap. 5 per questo tipo di ragiona-mento.

3 Sarebbe interessante guardare all’anoressia come a un rifiuto non solodel cibo ma del valore che sarebbe stato trasmesso al ricevente dal ricevere ilnutrimento. Può essere che l’anoressico assuma il paradigma dello scambio inmodo troppo profondo o troppo precoce.

4 Nel mondo si spendono 19 miliardi di dollari per gli armamenti ognisettimana. Questa somma sarebbe sufficiente per dare da mangiare a tutti gliaffamati della terra per un anno. Siccome le spese sugli armamenti non crea-no prodotti che sostengono la vita, esse agiscono come un salasso per l’econo-mia che soddisfa i bisogni.

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Capitolo secondoLinguaggio e dono

Dal momento che utilizziamo il linguaggio nella no-stra vita quotidiana e che gran parte del nostro pensieroavviene attraverso il linguaggio, sembra logico che essoabbia un forte impatto su di noi, non soltanto come pro-cesso o strumento, ma anche come modello. Il linguag-gio ha inoltre il potere di provenire dagli altri, dai molti:è una connessione profonda che abbiamo con altre per-sone all’interno della nostra società; è un elemento im-portante della nostra socializzazione.

Il fatto che tutte le società umane abbiano un lin-guaggio non implica necessariamente che esso abbia unabase genetica. C’è qualcos’altro che tutte le società han-no in comune: la pratica del “prendersi cura” svolta dal-le madri. La costante sociale non dipende tanto dalla na-tura biologica delle madri quanto da quella dei figli, chenascono completamente dipendenti: se nessuno si pren-de cura dei loro bisogni, questi ne soffriranno e mori-ranno. La soddisfazione dei loro bisogni deve perciò av-venire senza lo scambio, poiché i piccoli non possonorestituire l’equivalente di ciò che ricevono.

Chi cura i bambini è perciò costretta a praticare ciòche potremmo definire una sorta di altruismo funziona-le. La società interpreta normalmente le capacità biolo-giche delle donne – come la gravidanza, il parto e l’allat-tamento, allo scopo di assegnare alle donne il ruolo dimadre e di nutrice. Alle bambine vengono trasmessi sin

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da piccole i valori che le porteranno a sviluppare un at-teggiamento orientato verso il prossimo, necessario a ri-coprire questo ruolo.

Se vediamo la co-muni-cazione come pratica di curao dono gratuito che costituisce la co-muni-tà, possiamoconcepire le cure svolte dalle donne come il fondamentodella co-muni-tà dell’unità familiare. Le famiglie nuclea-ri, e in particolare il rapporto tra madri e figli/e, sonosoltanto le vestigia di una comunità basata sulla praticadiffusa del dono che potrebbe essere esistita nel passatoo che potrebbe esistere in futuro. L’isolamento fra lorodi nuclei comunitari rende stabilmente debole il model-lo del dono, mentre la scarsità in cui la maggior parte dinoi è costretta a vivere ostacola la pratica del dono, im-ponendo a chi dona il sacrificio di sé e rendendola dun-que “non realistica”.

Anche se il nutrimento materiale è ostacolato dallascarsità, c’è qualcos’altro che è invece disponibile inabbondanza e senza limiti, per la quale quasi ognunodi noi possiede i “mezzi di produzione”: è la risorsainesauribile del linguaggio, grazie al quale siamo ingrado di produrre frasi sempre nuove. Il nostro voca-bolario è limitato, ma ricombinabile quasi all’infinito.Noi riceviamo gratuitamente parole e frasi da altrepersone e le diamo ad altri gratis. Il linguaggio funzio-na come una sorta di economia del dono gratuito1.Non lo riconosciamo come tale, poiché non avvaloria-mo la pratica del dono all’interno della nostra vitaeconomica e in realtà riconosciamo l’esistenza specifi-ca delle pratiche di cura solo nel rapporto madre-figli.È per questo che non ci viene in mente di utilizzare lapratica del dono come un termine di paragone per illinguaggio. Attraverso il linguaggio creiamo quei lega-mi umani necessari, che abbiamo smesso di creare at-traverso la co-muni-cazione materiale; il linguaggio cioffre l’esperienza del prenderci cura l’uno dell’altro in

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uno stato di abbondanza, cosa che non avviene più – onon ancora – sul piano materiale.

Quest’idea mi ha portato a pensare che se il linguag-gio è ciò che ha permesso agli esseri umani di evolversi,allora è stato forse l’aspetto del donare-in-abbondanza –e non il sistema astratto – a fare la differenza. Se fossimoin grado di ripristinare una comunità basata sul donaremateriale, probabilmente ci evolveremmo ancora, comei sostenitori della New Age e molti altri sperano. Io cre-do in effetti che sia proprio l’economia dello scambio aimpedire la nostra evoluzione.

La logica della pratica materna vuole che chi nutredia attenzione ai bisogni dell’altra persona; la sua ri-compensa è il benessere dell’altro. Esistono molti tipidiversi di bisogni ed è talvolta una sfida comprenderlie provvedere a essi. Il donare e ricevere attraverso unprocesso continuo crea aspettative e ricompense, unaconoscenza dell’altra persona e del bene che soddisfa ilbisogno, un impegno verso ulteriori cure e l’aspettativadi un rapporto che perdura nel tempo. Ciascuna perso-na partecipe risulterà piuttosto cambiata a seguito diquesta esperienza.

Anche nel caso in cui i beni materiali non siano di-sponibili o non vengano utilizzati, può sorgere comun-que il bisogno di creare un legame con l’altra persona;lo definirei, questo, un bisogno comunicativo, un biso-gno di legami e di relazioni. Le parole sono elementiverbali sociali concepiti per soddisfare i bisogni comu-nicativi. Il fatto che utilizziamo le parole per soddisfarei bisogni comunicativi riguardo a qualcosa, ci permettedi considerare le parole come doni. La madre nutre lapropria figlia o il proprio figlio prima di tutto con benie servizi, ma li nutre anche di parole. La figlia o il figlioè effettivamente in grado di fare a turno con la madre,offrendole verbalmente doni comunicativi prima di po-terle offrire doni materiali2.

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Parole come doni

A questo punto sorge un interrogativo sulla materialitàdel dono verbale. La parola, benché possa essere identifi-cata come un’unità acustica di cui disponiamo in manieraripetibile e che condivide tale caratteristica con altre pa-role, può essere tuttavia utilizzata soltanto per soddisfare ibisogni comunicativi e non direttamente i bisogni mate-riali: la parola “pane” non soddisfa il bisogno di mangia-re. Ma i bisogni comunicativi possono essere talvolta indi-rettamente funzionali alla soddisfazione dei bisogni mate-riali. Ad esempio, la frase “nella credenza c’è del pane”può essere vista come un servizio che aiuterà qualcuno asoddisfare il suo bisogno materiale di pane; pronunciarela parola “pane!” in tono di richiesta soddisfa il bisognodi chi ascolta di sapere quello che vogliamo. Potremmoconsiderare il lessico un insieme di doni che soddisfanomolti bisogni comunicativi differenti. Ciascuna parola èuna sequenza di fonemi, un programma di comportamen-ti vocali che può essere identificato dal bisogno o dai bi-sogni comunicativi che la parola stessa soddisfa.

Bollire un uovo è una sequenza di comportamentiche ha a che vedere con diversi oggetti materiali e chesoddisfa il bisogno di mangiare un uovo cotto; pronun-ciare la parola “uovo” comporta una serie di comporta-menti vocali che soddisfano il bisogno comunicativo,instaurando una relazione con altre persone rispetto al-l’uovo o alle uova. La capacità di dare informazioniproviene dallo specificare un’esperienza attraverso l’usodi queste parole-dono, poiché la relazione instauratanon è soltanto con le parole in sé, ma anche con le cosesu altri livelli della realtà. La capacità di ricevere infor-mazioni basata sull’uso di parole attribuisce a questeparole un valore nell’ambito della soddisfazione dei bi-sogni materiali, così come nell’ambito della soddisfazio-ne dei bisogni comunicativi.

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Stabilire se le parole-dono siano dei beni piuttostoche dei servizi è come chiedersi se la luce sia compostadi particelle o di onde. I diversi tipi di bisogni comu-nicativi che le parole-dono soddisfano hanno prolife-rato per farne uso, così come l’occhio e la cornea si so-no sviluppate sul nostro pianeta per fare uso della lu-ce. È anche utile considerare che la materialità delleparole sia situata da qualche parte tra i beni e i servizi,poiché i doni a livello non verbale che le parole rap-presentano potrebbero anche variare per gradi diversidi materialità.

Ogni tipo di cosa non verbale è rappresentabile daelementi verbali: dall’amore al colore verde, dalla luna alcapitalismo, è così che si creano la co-muni-cazione ver-bale e la formazione di co-muni-tà linguistiche e talvoltamateriali3. Proprio come il dare-e-ricevere materiale dibeni forma i corpi fisici delle persone nella comunità, ildare-e-ricevere verbale contribuisce alla loro formazionein quanto soggetti sociali, dotati di identità psicologiche.

Relazioni

Il dare e ricevere parole-dono sistemate in frasi e indiscorsi crea una relazione umana tra le persone rispettoalle cose nel mondo. Il bisogno comunicativo è il biso-gno di relazione con le altre persone rispetto a qualcosa.Noi stessi non possiamo mettere in relazione l’altra per-sona con qualcosa. Possiamo però interpretare la suamancanza di relazione come bisogno di avere un mezzoper creare quella relazione e possiamo soddisfare quelbisogno con una parola-dono. Il bisogno di parlare diqualcosa sorge dalle circostanze in cui le persone si ri-trovano. Una persona dona all’altra delle parole-donoche rappresentano (ri-presentano, donano di nuovo) leparti pertinenti del mondo. Noi siamo esseri sociali e il

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linguaggio ci permette di includere gli altri perché fac-ciano esperienza del mondo assieme a noi.

Se dico “guarda il tramonto”, soddisfo il bisognodella persona che ascolta di sapere che in quel momentoil sole sta tramontando e di sapere che io ritengo che ciòsia qualcosa che vale la pena guardare. Offrendole que-ste parole (che lei già conosce) nel presente, soddisfo ilsuo bisogno di avere una relazione momentanea con mee con il tramonto, che corrisponde al mio bisogno diuna relazione con lei e con il tramonto. Si presume cheio abbia già notato il tramonto e così la mia frase avreb-be lo scopo di includere l’altra persona in quella espe-rienza, soddisfacendo quello che io percepisco come ilsuo bisogno di partecipare a quella relazione. La parola“tramonto” è stata fornita dalla società a tutti in genera-le, come una parola-dono che può essere usata per sod-disfare i bisogni comunicativi rispetto ai tramonti.

La ricezione creativa di quella parola-dono da partedella persona che ascolta la pone in una relazione umanainclusiva con me e al tempo stesso volge la sua attenzioneal tramonto. In questo modo possiamo includerci a vi-cenda non soltanto rispetto alle parole, ma ci possiamoporre in relazione reciproca in modo simile, attraverso lanostra attenzione a un’esperienza non verbale condivisa.La relazione con un’esperienza non verbale è anche, inuna certa misura, un dono, che chiamiamo normalmente“informazione”. Se guardare il tramonto insieme può es-sere un’esperienza positiva per entrambe le persone par-tecipi e, perciò, un’esperienza estetica che soddisfa uncerto tipo di bisogno, esistono anche un diverso tipo diinformazioni che risultano decisamente negative.

Ad esempio, “ti odio” crea una relazione comune tranoi basata sul mio sentimento negativo nei tuoi confronti.Questo sentimento in sé non è certamente un dono che ioti offro, ma ti sarà utile per sapere che lo provo e in talsenso la mia frase può essere considerata un dono o un

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servizio a prescindere dalla sua negatività. Credo che esi-stano nella vita, come nel linguaggio, molti livelli diversi didono, che sono però rimasti nascosti al nostro sguardogiacché non li abbiamo voluti vedere. Possiamo dirci cosepositive e prenderci cura l’una dell’altra in questo modo,ma anche se diciamo cose negative o neutre l’ascoltatriceha diversi modi di recepire ciò che le è stato dato, trasfor-mandolo in dono attraverso l’uso creativo che potrà farne.

La frase di Karl Marx che ho utilizzato nel frontespi-zio di questo libro – “il linguaggio è coscienza praticache esiste anche per altri uomini (sic) e solo per questaragione esiste in realtà anche per me individualmente” –identifica la logica dell’orientamento verso l’altro comelogica della comunicazione. Essa inoltre introduce la se-conda domanda sul Graal, “a chi serve il Graal?” o, piùsemplicemente, “per chi è?”. Questo interrogativo, sem-pre attinente alla pratica del dono, spesso non vieneneppure formulato né trova una risposta, in questa no-stra società imperniata sul profitto.

Processi generali e particolari

Uno degli aspetti della comunicazione tramite il lin-guaggio è che essa delimita la gamma di possibili espe-rienze al momento di un presente condiviso, anche se,certamente, può includere anche altri spazi o luoghi. Es-sa fornisce spesso un tema o una trama intorno a cui pos-siamo organizzare i nostri comportamenti, rivisitare e in-terpretare la nostra esperienza in comune. Le trame e gliargomenti delle nostre conversazioni sono anch’essi deidoni che formano un terreno comune sul quale si svilup-pano le nostre diverse soggettività.

Penso che il linguaggio funzioni combinando ele-menti generali e costanti, secondo modalità particolari econtingenti. Possiamo identificare gli elementi generali e

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costanti ed estrapolandoli dal flusso del discorso, neiprocessi della denominazione e della definizione. La lo-ro generalità viene messa in evidenza quando vengono“isolati” in questo modo. Ad esempio, la frase “i canisono quadrupedi che scodinzolano e abbaiano” ci per-mette di considerare i cani in generale e la parola “cani”nella sua generalità. È comunque l’uso che una comu-nità fa delle parole sistemandole in innumerevoli combi-nazioni e in frasi specifiche che dà loro la generalità. Leparole sono il prodotto comune della collettività, ma talisono anche i bisogni comunicativi generali.

Quando qualsiasi “cosa” diventa pertinente o suffi-cientemente valida per i molti, allora la gente sente il bi-sogno di formare relazioni inclusive mutue a suo riguar-do e sorge una parola a livello sociale per rispondere aquel bisogno. Se il bisogno di formare delle relazioni in-clusive è solo contingente e transitorio, lo soddisfiamocreando una frase, combinando cioè parole che soddisfi-no i bisogni riguardanti gli aspetti costanti della cosa odell’argomento in questione. Può sorgere un bisognocomunicativo contingente e transitorio riguardantequalsiasi parte dell’esperienza in corso.

Nella frase “dopo la tempesta il sole faceva scintilla-re le goccioline di pioggia”, il bisogno comunicativocontingente di una relazione con altre persone rispettoa una specifica situazione transitoria viene soddisfattocombinando tra loro le parole, che vengono poi usateanche altrove, in altre frasi riguardanti altre situazionicontingenti. Gli elementi di queste situazioni sono voltadopo volta importanti nella società di comunicatori; diconseguenza emerge la necessità comune di un donoverbale che possa essere dato al posto di quegli elemen-ti. Nasce così una parola che funziona come costanteper la soddisfazione di quel bisogno4. Una singola pa-rola può anche essere usata per soddisfare i bisogni ri-guardanti cose di diverso tipo con l’omonimia e un cer-

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to tipo di “cosa” può essere il riferimento di parole di-verse con la sinonimia.

I bisogni nascono l’uno in funzione dell’altro e i biso-gni comunicativi possono sorgere rispetto a contesti siaverbali che non verbali. Se una situazione che dà luogo aun bisogno comunicativo contingente è complessa, pos-siamo organizzare un discorso combinando frasi, cheutilizziamo per soddisfare i diversi bisogni comunicativicontingenti riguardanti quella situazione specifica. Lefrasi lavorano insieme all’interno di un discorso per por-tare avanti un argomento comune e per soddisfare i di-versi bisogni comunicativi che sorgono al riguardo.

La pratica del dono è la Ur-logica

Alcuni filosofi e linguisti hanno tentato di spiegareil linguaggio in termini di strutture logiche sottostanti,sia con l’esistenza di un linguaggio più semplice sotto-stante, che però non spiega il funzionamento del lin-guaggio in sé, sia con qualche altro processo o struttu-ra elementare. Uno di questi processi è quello di causa-effetto: si pensò che fosse possibile ridurre le strutturesoggetto-verbo-oggetto a una struttura basilare di cau-sa-effetto. Un esempio frequente era “John ha uccisoMary”, che veniva “tradotto” secondo il processo dicausa-effetto: “John ha causato la morte di Mary”. Pro-vo spesso orrore per l’ostilità (probabilmente incon-scia) nei confronti delle donne espressa dagli esempiofferti dai linguisti. È forse la prova della colpa chesentono negando il paradigma della pratica materna(Mary?) nel tentativo di spiegare il linguaggio. Succes-sivamente molti linguisti hanno ritenuto che il princi-pio di causa-effetto non fosse un processo al quale ri-durre il linguaggio, forse perché non è in grado di daresufficienti informazioni. Indubbiamente, non tiene

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conto dell’importanza delle relazioni umane, che inve-ce la pratica del dono considera.

Vorrei proporre la pratica del dono come il processologico al quale ricondurre il linguaggio. Non soltanto leparole possono essere viste come doni volti a soddisfare ibisogni, ma la stessa struttura sintattica soggetto-predica-to-oggetto può essere considerata derivante da donatore,dono (o servizio) e ricevente. Ad esempio, in “la bambi-na ha colpito la palla”, “bambina” è la donatrice, “hacolpito” è il dono, “palla” è la ricevente; la “traduzione”sarebbe: “la bambina ha dato un colpo alla palla”.

L’intenzionalità della pratica del dono può essere in-dividuata in molte azioni umane come anche nell’inten-zionalità del parlare. Il senso di movimento e di comple-tezza che ci viene dato da una semplice frase transitiva èsimile al movimento e alla completezza che hanno luogonella pratica del dono. Il donare è in effetti transitivo, èil movimento di qualcosa da un luogo o da un individuoa un altro. Nella frase passiva “la palla è stata colpitadalla bambina”, l’accento è posto sul ricevente del donoinvece che sul datore.

La pratica materna è un processo sociale necessarioche sta all’origine della vita e questo è anche il momentoin cui avviene l’apprendimento del linguaggio. La prati-ca materna è un universale culturale, richiesto dalla bio-logia, non degli adulti, ma dei bambini. Ogni diversacultura patriarcale può considerare che la pratica mater-na faccia semplicemente parte della natura delle cose,ma per le madri il bisogno di nutrire è sociale e il suocompimento intenzionale. La capacità delle madri di da-re il latte è un vantaggio biologico che favorisce il “pren-dersi cura”, ma le donne devono sempre praticare le lo-ro cure in un contesto culturale all’interno di determina-ti parametri sociali. Nella pratica materna, c’è un trasfe-rimento intenzionale di beni e servizi dalla persona adul-ta al bambino/a, dalla donatrice al ricevente.

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Questa esperienza è fondamentale per i figli/e, poi-ché le loro vite dipendono da essa ed è al tempo stessoimportante e formativa per chi dona le proprie cure – senon altro perché richiede moltissimo tempo. Non c’è dastupirsi che metà dell’umanità venga socializzata sin dal-la nascita alla pratica del “prendersi cura”, giacché ri-chiede molta attenzione e impegno. In un saggio recen-te, The Language Instinct, Steven Pinker (1994) attribui-sce le nostre capacità linguistiche al patrimonio biologi-co; allo stesso modo, fino a non molto tempo fa la prati-ca materna veniva considerata una prerogativa dell’istin-to. In entrambi i casi, la logica del dono è ciò che vienenegato e nascosto.

La condizione del “prendersi cura” è più fondamen-tale della condizione di oggettività. L’esperienza dei do-ni gratuiti dati dalla madre e ricevuti dai bambini è piùfondamentale per l’essere umano di quanto non lo sia laconoscenza di causa ed effetto. La madre è la donatrice– la sua cura è il dono o servizio – e il bambino/a è il ri-cevente. Questo processo si compie nel momento in cuiil bambino/a sta apprendendo il linguaggio allineandosicon una struttura sintattica di soggetto (donatore), pre-dicato (dono) e oggetto (ricevente)5.

Se le parole sono doni verbali che soddisfano bisognicomunicativi sociali costanti, nella struttura di una situa-zione di dialogo interpersonale, chi parla sarebbe il datore,le parole e le frasi sarebbero i doni e chi ascolta il riceven-te. Le frasi sono combinazioni di parole, che soddisfanobisogni comunicativi contingenti. Non sarebbe inverosi-mile pensare che il processo di combinazione delle parolepossa avvenire anche in funzione della logica del dono.

L’ipotesi che il linguaggio possa basarsi sulla praticadel dare e ricevere ci permette di considerare molteplicidiversi livelli su cui essa potrebbe attuarsi, in modo cheaspetti del linguaggio che appaiono come misteriosi di-vengano interpretabili come elementi di un processo di

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dono su vari livelli. Innanzitutto c’è il livello della comu-nicazione materiale (la madre offre doni o servizi al bam-bino/a); c’è poi la comunicazione verbale (la madre parlaal bambino/a)6. In terzo luogo, le parole sono doni socia-li e ciascuna soddisfa di bisogni comunicativi costanti.Quarto, le parole si combinano in frasi, che soddisfanobisogni comunicativi contingenti. Quinto, il messaggio el’argomento possono anche essere considerati dei doni,come nel caso in cui soddisfiamo il bisogno di una perso-na di conoscere qualcosa o di parlare di qualcosa. Sesto,a livello della sintassi (all’interno della frase), la relazionetra soggetto, predicato e complemento oggetto rievoca larelazione tra datore, dono e ricevente.

È importante considerare che si tratta di una relazio-ne sintattica che avviene al livello delle parole stesse, poi-ché al livello delle cose rappresentate dalle parole il “do-no” potrebbe essere negativo, come nel caso di “il ragaz-zo ha colpito la ragazza”, o anche “John ha ucciso Mary”(“tradotto”: “John ha dato la morte a Mary”). Al livellodella comunicazione materiale tale violenza è contraddit-toria e nociva e invece che soddisfare dei bisogni ne creaaltri, tormentosi. Tuttavia, al livello di struttura della fra-se, il processo del dono può funzionare indipendente-mente dal livello dell’esperienza. Così, le frasi “la ragazzaha colpito la palla”, “mia madre ha preparato una torta”e “John ha ucciso Mary” hanno tutte la stessa strutturasintattica – donatore, dono, ricevente – benché sul pianodella realtà siano eventi molto diversi tra loro.

A livello della sintassi possiamo anche guardare allerelazioni tra aggettivi e nomi o tra avverbi e verbi come adelle relazioni tra doni e riceventi. Nella frase “il canemarrone è corso velocemente verso il cancello”, “marro-ne” viene dato a “cane”, e “velocemente” a “è corso”. Ifilosofi solevano dire che “marrone” fosse una “pro-prietà” del cane e la velocità una “proprietà” della suacorsa. Marrone può essere definito una “proprietà” poi-

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ché viene dato al cane permettendo alla parola “marro-ne” di modificare la parola “cane” e unendoli come do-no e ricevente trasposti per soddisfare un bisogno comu-nicativo contingente che nasce dal cane di quel colore.

I linguisti sono soliti seguire un modello matemati-co, algebrico o scientifico, e non un modello di vita –ma continuano a parlare di parole che “colmano i vuoti(slots)” di altre parole all’interno di una frase. Potrem-mo considerare i “vuoti” come bisogni e le parole co-me i doni che li soddisfano. Nel caso di una parola chepossa essere collegata soltanto a un altro tipo specificodi parola (ad esempio, un articolo determinativo come“il” può essere collegato soltanto a un nome), si trattadi un tipo di dono che può essere dato solo a un certotipo di ricevente; solo quel tipo di ricevente avrà quindiun bisogno (un “vuoto”) da esso colmabile. Alcune pa-role o gruppi di parole devono unirsi ad altre; non pos-sono donare i propri doni da sole, ma servono a, o sonoservite da, un altro gruppo. Ad esempio, “verso il can-cello” deve essere funzionale; non può restare da solo.Non è di per sé una transazione di doni, né un donato-re, ma un dono a un altro dono. Se si formano delle re-lazioni tra ricevente e dono, forse attribuiamo lo stessoprocesso alle nostre parole. “Marrone” viene dato a“cane” da chi parla in quel momento, soddisfacendo ilbisogno comunicativo generato dal cane marrone. “Ca-ne” riceve il dono “marrone” e si lega momentanea-mente a esso.

La trasparenza e il cedere il passo

I doni, che vengono dati al livello verbale, interpreta-no la “realtà” ri-presentandola in termini di pratica deldono, ma sono di fatto trasparenti sul piano dell’espe-rienza. Nel nostro caso, essi sono trasparenti rispetto al-

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l’essere marrone del cane (esso aveva quel colore), pre-sentandolo quale parte di un’esperienza o argomentoche coloro che parlano tra loro possono condividere7.La trasparenza della struttura del dono richiama un’altracaratteristica della pratica del dono: chi dona può cede-re il passo, mettendosi da parte per dare valore a chi ri-ceve. In questo senso potremmo pensare che soltantociò che diciamo è un dono, dal momento che le infor-mazioni che trasmettiamo vengono comprese e utilizzateda chi ascolta. Non ci accorgiamo che il modo in cui lodiciamo è un processo di dono a più livelli.

A livello della “realtà”, le cose che potrebbero esserestate dei doni nella comunicazione materiale cedono ilpasso alle parole-dono, che prendono il loro posto; sifanno amabilmente da parte e lasciano che le paroleprendano il sopravvento. In effetti, la natura non com-petitiva delle cose ci fa dimenticare che molte di essenon avrebbero mai potuto essere in ogni caso trasferiteda una persona all’altra. Le idee astratte, i grossi oggettimateriali, le creature della fantasia, gli stati d’animo sog-gettivi ecc., tutte cedono il passo con uguale serenità, la-sciando che il loro posto venga preso e dando valore alleparole che prendono il loro posto.

Su un altro livello, si può dire che le emozioni che ac-compagnano il nostro discorso e talvolta lo stesso atto diparlare, nutrano gli altri, creando dei legami. Normal-mente non ci accorgiamo delle strutture del dono all’in-terno del linguaggio, proprio perché anche queste si fan-no da parte; cedono il passo per dare valore a ciò che vie-ne detto e a chi ascolta, a chi riceve il dono verbale. Unaltro motivo per cui non riusciamo a vedere le strutturedel dono sta nel fatto che esse sono diverse dalle strutturedella definizione-scambio, e i loro processi non funziona-no generalmente allo stesso modo. Le strutture della defi-nizione si appropriano delle strutture del dono come ap-parati militari costruiti sulle sorgenti sacre delle donne.

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La capacità interpretativa della pratica del dono èstata negata e sopraffatta dal fatto di vedere l’interpreta-zione come una sorta di “penetrazione” da parte dellamente. Frasi come “il modo in cui le parole sono aggan-ciate (are hooked on) al mondo” e “colmare i vuoti” (Fil-ling the slot) suggeriscono metafore sessuali maschili. In-vece, da un punto di vista femminista basato sul mater-no, possiamo vedere la relazione tra le parole e il mondocome una relazione tra doni a diversi livelli, in cui l’in-sieme della realtà stessa è un dono, dai “dati” sensorialiai “dati” esperienziali8. Il mondo viene reso accessibileagli umani attraverso i doni del linguaggio su molti livel-li diversi, che si manifestano nell’invio dei messaggi, nel-la comunicazione delle idee e delle informazioni e nellatrasmissione della cultura. In questo senso, potremmo ineffetti chiamare la nostra specie non homo sapiens, mahomo donans. La pratica del donare e ricevere precede ilnostro modo umano del conoscere ed è indispensabilealla sua stessa esistenza; è la base di una “grammaticauniversale” non soltanto del linguaggio, ma della vita.

La transitività

Possiamo individuare la pratica del dono anche sulpiano della transitività logica. Il sillogismo su cui si fon-dava la disciplina della logica (“la relazione di A con Be di B con C implica la relazione di A con C”) potrebbeessere visto come la trasposizione della transitività deldono: “Se A dà a B, e B dà a C, allora A dà a C”. La lo-gica, come il linguaggio, potrebbe dunque essere vistacome derivante dalla pratica materna e non dalla capa-cità di astrazione. I connettivi logici (articoli, preposi-zioni, parti del discorso, prefissi, suffissi) modificano iltipo di dono rappresentato dalle parole, dal momentoche vengono dati alle parole e vengono così connessi a

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esse di volta in volta in modo diverso. La risposta a do-mande sul “come”, “quando”, “dove” ecc., soddisfa bi-sogni comunicativi che si sviluppano attorno alla capa-cità stessa di dare e ricevere.

Quando un’esperienza che viene descritta non è unaeffettiva transazione del dono, potremmo comunque uti-lizzare la struttura del dono per dare il nostro messaggioall’ascoltatrice: “Il cane marrone è corso velocemente ver-so il cancello” è “intransitiva”. Il cane è dato in sensoostensivo: esso ci “presenta (dona) quel comportamento”in modo che noi lo percepiamo. L’informazione aggiunti-va data da “verso il cancello” aumenta l’aspetto funziona-le della frase specificando dove sia diretto il comporta-mento della corsa; “verso il cancello” serve “è corso”dandogli una collocazione, rendendolo più specifico.

Il patriarcato ha assegnato l’“attività e creatività” agliuomini e la “passività e ricettività” alle donne, poiché èrimasto cieco rispetto alla creatività del donare e riceve-re. Sia il donare che il ricevere sono creativi; è necessarioutilizzare ciò che ci è stato dato per renderlo un dono; senon lo utilizziamo viene sprecato, rimane senza vita. Ilfatto che la capacità di ricevere sia altrettanto importantedella capacità di donare si manifesta nella nostra capacitàdi trasformare le frasi attive in passive e viceversa. Così,chi è stata ricevente in un dato momento può diventaredonatrice in un altro, passando a sua volta il dono: “Laragazza ha colpito la palla, che ha colpito la finestra”.

La stessa persona che parla potrebbe essere conside-rata come ricevente di un’esperienza, che poi trasmet-terà a sua volta a chi ascolta. La persona che parla po-trebbe quindi essere considerata il termine intermediodi una transazione del dono: “A dà a B e B dà a C”.Questa persona (B), descrivendo un evento, passa aqualcun altro (C) il dono che le è stato dato dalla vita,da “come sono le cose”, dalla realtà (A). Chi parla offreun dono che coinvolge anche la sua ricettività creativa:

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avrà già necessariamente operato una selezione di alcunecaratteristiche della sua esperienza in quanto più impor-tanti di altre; la sua rappresentazione (il suo donare dinuovo) dà valore agli elementi da lei scelti.

Anche la persona che ascolta darà maggiore impor-tanza ad alcuni elementi tra quelli che le sono stati dati;collaborerà attivamente alla creazione del prodotto chericeve. A causa degli stereotipi di genere e per l’impor-tanza attribuita allo scambio nella nostra società, sembrache gran parte dell’attività umana (maschile) non sia undono e non sia diretta al bisogno. Riportare il paradigmadel dono al suo ruolo centrale nell’insieme dei registriinterpretativi attraverso i quali ci rivolgiamo al mondo cipermette di capire che la maggior parte dell’“attività”umana è orientata verso la soddisfazione di un bisogno aun qualche livello. Il linguaggio appare di conseguenzanon come una concatenazione meccanica di attività(verbali), ma come un insieme di doni e di modi di do-nare e ricevere, allineati con i bisogni comunicativi, chenascono dall’esperienza e si sviluppano su molti livellidiversi, dal momento che esistono moltissimi mezzi di-sponibili per la loro soddisfazione.

1 Molte delle parole che utilizziamo per riferirci al linguaggio sono paroledono: “attribuire” una proprietà; “dare” un significato a qualcosa, “trasmet-tere” un messaggio o informazioni. Il linguaggio, il mezzo di espressione col-lettivo, ha parlato di sé ma noi non gli abbiamo prestato attenzione perchéstavamo ascoltando il patriarcato. Il linguaggio non diceva quello che ciaspettavamo dicesse. Lo abbiamo invece guardato secondo una metafora po-stale: il confezionamento o la codificazione delle informazioni, l’invio e lasuccessiva apertura della confezione o decodifica. Penso che la metafora po-stale sia solo un modo per tenere nascosto il dono.

2 Vediamo il mondo attraverso le lenti dello scambio, perciò potremmotendenzialmente vedere il fare a turno come uno scambio. La motivazione delfare a turno non è reciprocità forzata, bensì condivisione, dare e ricevere al-ternato e comunicazione.

3 Secondo l’Oxford English Dictionary, la parola thing (“cosa”) provienedal termine che in antico norvegese significava “corte”; a mio parere questo im-

LINGUAGGIO E DONO

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plica un giudizio collettivo sul valore di elementi culturali. Mi sento giustificataquando considero sia le parole che le cose non verbali, di varia intensità e diver-so tipo di materialità, secondo i termini di un giudizio collettivo del loro valore.

4 I bisogni che danno luogo a espressioni idiomatiche possono essere si-tuati da qualche parte tra la costanza della parola e la contingenza della frase.

5 Il fatto che esistano diverse varianti in cui queste funzioni vengonoespresse nelle differenti lingue, rispetto all’ordine delle parole o alla sintassi,non esclude l’ipotesi che il dare e ricevere possano costituire strutture dicomportamento universali dalle quali le varianti sono poi derivate.

6 Inclusa nella gamma, tra pratiche di cura materiali e linguaggio, c’è an-che molta comunicazione non verbale; seppure il linguaggio si trovi all’estre-mità più astratta della gamma, dovrà essere compreso per primo per vedere lacomunicazione non verbale alla luce di esso.

7 Allo stesso modo, “una donna malata” attribuisce la malattia alla donnasecondo una struttura del dono, creando un tema condivisibile benché la ma-lattia non sia un dono da essere condiviso.

8 I doni, sia verbali che non verbali, non sono arbitrari, dal momento chevengono dati per soddisfare i bisogni e creare relazioni specifici. I doni sosti-tutivi comunque non hanno bisogno di apparire come gli originali, né diecheggiarli onomatopoeticamente.

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Capitolo terzoLa reciprocità

La logica del dare e quella dello scambio si contraddi-cono a vicenda, ma ciascuna di esse è anche costruita in-torno all’altra. Lo scambio è un doppio dono forzato, inquanto chi riceve deve restituire a chi dona l’equivalentedi ciò che ha ricevuto; il prodotto di una persona prendeil posto del prodotto dell’altra. Io credo che questa esi-genza di equivalenza e di scambio-di-posto sia un deriva-to della denominazione – in cui il dono verbale prende ilposto del dono non verbale – e della definizione, per cuialcuni doni verbali prendono il posto di altri doni verba-li. Nello scambio, che opera sul piano materiale, un “do-no” di ritorno prende il posto del proprio dono, e sem-brerebbe servire – come nel caso del dono sostitutivoverbale – a creare legami tra le persone che scambiano.

Comunque, la strada dell’inferno è lastricata di buoneintenzioni, e l’acquisizione del “dono” di ritorno equiva-lente diventa la motivazione unica del primo “dono”.Trasformare il processo del dono in uno scambio di equi-valenti annulla l’orientamento verso l’altro da parte dientrambe le persone che scambiano, rendendo la lorouguaglianza soltanto un’equivalenza dei loro interessipersonali. Lo scambio diventa una sorta di archetipo ma-gnetico attorno alla quale si organizza la nostra società; ilnostro pensiero gravita intorno a esso, dandogli moltissi-mo credito forse a causa della sua affinità con la denomi-nazione e la definizione (processi linguisti che noi conti-

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nuiamo a utilizzare). La pratica del dono prosegue inalte-rata, ma rimane invisibile e non riesce a diffondersi qualemodello legittimato dall’adesione di persone consapevo-li. In effetti, il paradigma del dono cede il passo, non en-tra in competizione con il paradigma dello scambio; sitrova così nella condizione di dare valore e di offriremolti doni allo scambio.

Lo scambio è auto-riflettente ed è perciò auto-convali-dante; ha una forma simmetrica e l’esigenza di equivalen-za tra i prodotti sovverte l’attenzione sviandola dal biso-gno dell’altro. Lo scambio si basa sull’interesse personaledi entrambe le persone che scambiano e lo incoraggia, eperciò si crea un’equivalenza non soltanto tra i prodottima anche nella motivazione delle persone coinvolte.

In quanto esempi d’equivalenza, i due elementi risul-tano poi ancora uguali l’uno all’altro, e ha luogo così uneffetto da sala degli specchi, sicché esso è di nuovouguale in ogni altro scambio che avviene, ad esempio,sul mercato. I processi di sostituzione e di equivalenzanel linguaggio ripetono e confermano i processi nell’am-bito del mercato che ne derivano, dando alla sala deglispecchi molti riflessi astratti.

Il bisogno astratto d’equazioni, che sorge in seguitoal processo di scambio in funzione dell’interesse perso-nale di ciascuna persona che scambia, acquisisce un’au-tonomia e una sorta d’esistenza propria. Qualsiasi cosapossa essere sostituita da un equivalente sembra diven-tare un valore (un valore di scambio), indipendentemen-te dal fatto che essa sia o meno diretta verso il bisognodi qualcuno. Ritengo che l’eccessiva importanza attri-buita al pareggiamento, che porta anche a ignorare lapratica del dono, sia all’origine dell’idea che gran partedell’attività umana non è diretta verso il bisogno. I biso-gni astratti del processo di scambio non vengono consi-derati bisogni, ma sembrano far parte di una logica del“così stanno le cose”. Soddisfarli diventa tuttavia più

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importante che soddisfare i bisogni umani, e il processodi scambio prende il sopravvento sulla pratica del dono,dando l’illusione di essere la fonte stessa dei valori“umani”. Così prevale la categoria, inumana e disuma-na, della “domanda effettiva” su cui si basa il mercato.

Lo scambio esige un’equazione, equivalente ad altreequazioni sul mercato ed altrove; per questo esso portacon sé una sorta di meta-livello intrinseco che gli per-mette d’auto-diffondersi e di continuare a porsi in pri-mo piano1. Allo stesso tempo, la pratica del dono (cheha soltanto bisogno di qualcuno che la imiti perché pos-sa servire da modello) viene spinta sullo sfondo e resainvisibile, nonostante continui a essere praticata in moltimodi. In effetti, lo scambio è inserito in modo parassita-rio in un più ampio processo del donare che in sostanzadona al processo di scambio, permettendogli di conti-nuare a prevalere; lo scambio stesso diviene l’“altro” ri-spetto alla pratica del dono.

La generalità della pratica del dono è catturata dalsuo essere praticata sullo scambio e viene dunque ridefi-nita come inferiore o come uno scambio fallito; appare,così, come un caso speciale di scambio incompleto unila-terale che non può avere esistenza propria. In realtà lalogica e la pratica dello scambio sono parassitarie rispet-to alla logica e alla pratica del dono; i doni che ricevonopermettono loro di dominare le vite e le visioni del mon-do sia di chi pratica lo scambio che di chi pratica il dono.

C’è un flusso verso l’alto di doni, contro la legge di gra-vità, diretto verso le posizioni più alte nelle gerarchie pa-triarcali e che si allontana dai bisogni. La compresenza dimolte di queste gerarchie di doni-scambio, che si sosten-gono a vicenda grazie alla loro affinità e talvolta al recipro-co servizio, viene chiamata “riproduzione sociale”. La saladegli specchi crea molteplici immagini della stessa struttu-ra – e così dà ancora una volta l’illusione di essere simile allinguaggio – ma noi siamo indotti dall’equazione rifletten-

LA RECIPROCITÀ

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te a lasciare che la nostra comprensione del mondo pren-da l’avvio dalla propagazione di simili immagini uno-moltiinvece che dall’aspetto del linguaggio rispondente al dono.

È forse a causa di simili strutture presenti su diversilivelli che il paradigma parassitico dello scambio vieneelevato al livello di un sistema che si auto-perpetua, conuna “mente” propria. Tali processi sono funzionali nellaformazione delle nostre menti individuali, nei rapporticonscio/subconscio ad esempio e, forse, essi formanoanche gli stessi modelli su una scala sociale più ampia.

L’auto-perpetuarsi è facilitato dalla conferma che sicrea ritrovando o generando delle immagini auto-similarisu diversi piani. Tali affinità tra strutture patriarcali su di-versi livelli non mi sembrano analogie, isomorfismi stori-ci o omologie, bensì modelli sociali auto-similari generatida feedback reciproci della forma della definizione sulladefinizione di genere (e viceversa, della definizione di ge-nere sulla forma della definizione) su diversi livelli.

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Figura 1. Una figura frattale è il risultato della retroazione dei risul-tati di un’equazione sulla stessa equazione ripetuta milioni di volte.Copyright; Clifford Pickover: ristampa grafica autorizzata. DaPickover 1996.

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L’idea di auto-similarita fu sviluppata da BenoitMandelbrot con lo studio della geometria frattale, nellaquale il matematico scoprì che un’entità ripeteva lastessa struttura di partenza su diversi livelli dimensio-nali, o su “scala” diversa. Un tipico esempio è rappre-sentato dal cavolfiore: tutti i fiori e ciascuna parte d’o-gni fiore sono uguali alla testa della pianta nel suo in-sieme2.

Credo che nella società avvenga la stessa cosa, in ciòche chiamiamo “strutture sociali”. Nei frattali, i mo-delli vengono creati rinviando il risultato di un’equa-zione alla stessa equazione milioni di volte; al livellosociale, facciamo la stessa cosa: riportiamo all’infinitola definizione di genere e le caratteristiche “maschili”,che ne risultano, sulla struttura di altre definizioni, e inquesto modo creiamo alla fine gli stessi modelli su di-versi livelli.

La reciprocità è scambio o fare a turno?

L’homo economicus, protagonista dell’economia neo-classica, è fatto a immagine e somiglianza dello scam-bio. Noi educhiamo i nostri figli a essere unità simili dimascolinità e a competere poi l’uno con l’altro per lasuperiorità economica e simbolica; educhiamo le nostrefiglie ad alimentare questo processo e a crescere i lorofigli/e secondo queste immagini. Ciò comporta che nel-la società del “libero mercato” (un ossimoro) vi sianopiù maschi dediti alla pratica dello scambio e più fem-mine ancora dedite alla pratica del dono.

I nostri sistemi economici si basano sullo scambio egli studi che facciamo di questi sistemi, le dottrine eco-nomiche, si basano anch’esse sullo scambio. Il capitali-smo stesso pratica i valori della mascolinità e la mascoli-nità i valori del capitalismo. Dal momento che si tratta di

LA RECIPROCITÀ

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ruoli sociali, questi valori possono essere praticati ancheda persone dell’altro sesso biologico; ma tale possibilitàpuò comportare maggiori difficoltà, poiché l’interpreta-zione sociale di genere crea molti impedimenti al succes-so di uno dei due generi in settori generalmente occupatidall’altro. Uno di questi settori è rappresentato dall’eco-nomia, la disciplina accademica che studia il capitalismo.

Lo studio della produzione e della distribuzione deibeni nella nostra società si basa sullo scambio auto-con-validante, ed è orientato verso di esso, perciò non consi-dera “economica” la pratica del dono; eppure il donareè produzione e distribuzione di beni. La microeconomiadi un sistema macro-economico diverso (basato sul do-no) avviene in tutte le famiglie; il lavoro-dono che prati-cano le donne, non monetizzato, è rimasto invisibile aglieconomisti fino a non molto tempo fa, poiché coloroche praticavano i valori dello scambio erano gli unici astudiare tale realtà.

Oggi alcune donne economiste, che come altredonne sono state socializzate alle pratiche materne edel dono, cominciano ad applicarne i valori allo studiodello scambio e alla propria professione e comincianoa fare esperienza di una salutare dissonanza cognitiva.Esse non hanno però ancora cominciato a mettere inquestione la validità del paradigma dello scambio in sécome prospettiva generale del mondo, forse perchéoperano ancora, con più o meno successo, al suo in-terno3.

È più semplice per chi sta, almeno in parte, al di fuo-ri della logica dello scambio, individuare e promuoverela pratica del dono come un paradigma non soltanto so-cialmente rilevante, ma che rappresenta la soluzione aiproblemi causati dallo scambio. Questa “avanguardia ri-voluzionaria” comprende non soltanto le donne, madrie casalinghe (che pratichino o meno lavoro monetizza-to), ma chiunque non profitti dallo scambio e stia invece

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inconsapevolmente donando a esso: gli uomini e le don-ne “ospiti” del parassita.

La maggior parte di noi è ancora all’oscuro rispettoalla pratica del dono a causa dell’interiorizzazione dellalogica auto-riflettente dello scambio. Anche nei momen-ti in cui svolgiamo la pratica del dono non la “ricono-sciamo”, non pensiamo a essa a un meta-livello né ab-biamo un meta-linguaggio con il quale parlarne. Conti-nuiamo a pensare in funzione dei valori dello scambioalla nostra cultura e ai casi di pratica del dono istituzio-nalizzati in altre culture.

Una scuola di pensiero sorta recentemente in Fran-cia, che s’ispira all’opera dell’antropologo MarcelMauss, dedica molta attenzione alla pratica del donoche vede composta di tre momenti: dare, ricevere e re-stituire4. L’accento che questa scuola pone sulla recipro-cità nasconde la natura comunicativa del semplice dona-re e ricevere senza reciprocità e non permette a questogruppo di distinguere chiaramente la pratica del dono equella dello scambio come due paradigmi opposti.

A questi sociologi sembra che la pratica del dono siasoltanto una variante dello scambio, con tempi più lun-ghi di restituzione e una minore attenzione all’egua-glianza; i legami sembrano ancora sorgere da una reci-procità forzata, invece che dalla soddisfazione direttadei bisogni. Come accade per la maggior parte degli uo-mini, il pensiero di questi studiosi ha dei limiti, poichéessi non sono stati socializzati all’esperienza adulta dicreare legami direttamente attraverso la pratica materna.La pratica del dono è per loro una semplice curiosità enon una logica di vita basata sulla madre, né un pro-gramma di cambiamento sociale5.

Verso la fine degli anni Cinquanta, la descrizione del-l’antropologo francese Lévi-Strauss (1958) dello “scam-bio di donne” tra i gruppi familiari ispirò nuove specu-lazioni di antropologi, psicoanalisti, linguisti e studiosi

LA RECIPROCITÀ

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di semiotica sul sistema dello scambio. Dal punto di vi-sta del paradigma del dono, le donne sono esse stesse lefonti delle pratiche di cura, così che il “donare” delledonne è un dono di donatrici: un meta-dono. Lo scam-bio (se è forzato e visto attraverso il nostro sguardo ca-pitalista) o l’avvicendamento (se non lo è) ha un conte-nuto che, nel caso discusso da Lévi-Strauss, è la donna,che è la fonte del donare.

È il dare e ricevere, e non la costrizione della recipro-cità, che crea i legami di base. L’interazione di praticare ericevere cure (o dare e ricevere le curatrici!) è il fattore vi-cendevolmente creativo, non l’imposizione o l’osservanzadelle leggi, né l’equivalenza dello scambio, né la costrizio-ne della reciprocità. Nelle società in cui lo scambio incidemeno profondamente rispetto alla nostra, le pratiche deldono (i cicli del dono) svolgono funzioni definitorie, inquanto definiscono le relazioni tra i membri del gruppo.Potremmo considerare queste pratiche come discendentidel linguaggio, di diversa stirpe rispetto allo scambio mache invece utilizzano il dare e ricevere doni – la co-muni-cazione – per creare una funzione di status (v. Fig. 2).

Le donne sono l’avanguardia

Lewis Hyde (1979), Jerry Martien (1996) e altri scrit-tori che si sono interessati allo “scambio” di doni hannoscritto opere che re-interpretano la letteratura storica eantropologica, riscattando almeno in parte l’idea di do-no dalle costrizioni del capitalismo. Forse perché nonhanno avuto l’esperienza della pratica materna, essi ten-dono a vedere il modello del dono come una cosa poeti-ca del passato, che è stata dimenticata, emarginata e sot-terrata – così come la loro esperienza personale del mo-dello del dono (con le loro madri quando erano bambi-ni) è stata sotterrata ma continua a rimanere nell’incon-

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scio, nei miti e nelle fiabe. Continuare a vedere la prati-ca del dono secondo il modello della reciprocità (cioèdello scambio) mantiene il discorso entro i parametridello status quo patriarcale.

Noi donne possiamo riconoscere più facilmente lapresenza della pratica del dono in ogni cosa, poiché neabbiamo un esempio concreto derivante dalla praticadel nostro ruolo sociale da adulte (per quanto esso pos-sa essere socialmente squalificato e svalutato). È perquesto che le donne sono l’avanguardia, le portatrici

LA RECIPROCITÀ

Figura 2. Una possibile genealogia della co-muni-cazione attraversodoni, linguaggio e scambio.

Le pratiche materne e laco-muni-cazione

La praticadel dono Il linguaggio

La definizione

Lo scambio

Il mercato

La pratica deldono continua

al parlare

I sistemi didoni simbo-lici come il“wampum”

La definizionecontinua

I cicli di doni checonferiscono uno“status”

Scambi di doni ce-lebrativi (Natale,compleanni ecc.)

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della pratica del dono come programma sociale, comemodo di organizzare la società odierna e futura.

L’assenza di una teoria del linguaggio come pratica deldono rende più difficile la comprensione del donare co-me un principio di vita. Tuttavia, il discorso del denarocome “dono” e del wampum come “parole” e “atti del di-scorso” proposto da Martien è un ponte tra il linguaggioe il dono materiale (quale era il wampum stesso). Martienci permette di concepire il wampum come un mezzo dicomunicazione materiale (interpretato dai colonizzatorieuropei soltanto come un tipo di denaro “primitivo”). Lecollane di conchiglie venivano inviate di luogo in luogoper definire specifiche situazioni e soddisfare particolaribisogni di legami, attenzioni e cure. Ad esempio, veniva-no mandate collane speciali a chi era in lutto, per soddi-sfare il bisogno di essere consolati; le conchiglie venivanoofferte per suggellare accordi e mantenere promesse tra igruppi sociali. Il wampum sembrerebbe essere una sortadi linguaggio materiale composto di diverse parole, cheandava oltre la definizione in sé per creare solidarietà einclusione mutua, mentre il denaro rimane allo stadio incui ogni cosa viene nominata quantitativamente per favo-rire relazioni umane più “primitive” di esclusione mutua,di chi ha o non ha proprietà privata.

Nel corso nella nostra vita, così come nello studio dialtre culture, sorge l’interrogativo se sia possibile seguiree affermare in modo chiaro un determinato modello dipratica del dono oppure se ogni transazione, puntandol’attenzione sulla restituzione, non venga assimilata co-munque dal modello dello scambio. In realtà è una que-stione d’intersezione di due logiche distinte, ma vienespesso letta come una questione morale (ci domandia-mo, “sta realmente compiendo un atto di altruismo, op-pure non è altro che uno scambio occulto?”), tutto ciònon fa altro che offuscare l’immagine e ci fa talvolta pa-gare lo scotto del nostro atto d’amore con vergogna.

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Commentiamo amaramente: “nessuna buona azione ri-marrà impunita”. L’interesse personale sembra essere lamotivazione di base di ogni essere umano, e la scarsità ilsuo complemento naturale. Il bene complessivo vieneidentificato, con Adam Smith, nell’aggregato degli inte-ressi egoistici di ciascuno, mentre l’orientamento versol’altro sembra poco realistico e auto-sacrificale. La reci-procità è un modo per continuare a sostenere l’interessepersonale di entrambe le parti coinvolte nell’interazione.

L’usanza di restituire un po’ più di quello che si è ri-cevuto è un modo per affermare il modello del dono, an-che quando, per la reciprocità, si corre il rischio che ven-ga percepito come uno scambio. Ma anche questo pro-cesso è stato assimilato allo scambio, come interesse suiprestiti: chi presta il proprio denaro lo fa con l’aspettati-va del dono extra di interessi che riceverà (questo tipo discambio è divenuto ormai la norma, a tal punto che unprestito senza interessi viene considerato un dono).

Gli antropologi, come tutti noi nell’ambito del pa-triarcato, hanno delle difficoltà a vedere oltre il riflessodegli specchi del paradigma dello scambio; così parla-no di “scambio di doni”, confondendo in partenza idue modelli. La pratica del dono appare ancora unavolta come una versione sottosviluppata dello scambio,invece che un metodo diverso e più vivibile di organiz-zare la società. Nelle società cosiddette “primitive” ildonare ha spesso una funzione simbolica. Ritengo chesia perché, a imitazione del linguaggio, come abbiamovisto nel caso del wampum, i doni sostitutivi materialispeciali (come i doni sostitutivi verbali) vengono datisecondo schemi predisposti allo scopo di creare speci-fici legami tra chi dona e chi riceve.

In altre parole, sia lo scambio tra merci e denaro sia lo“scambio di doni simbolici” sono variazioni sul tema del-la comunicazione; sono due usi alternativi di modelli in-trecciati tra loro. In effetti, sia il linguaggio che la produ-

LA RECIPROCITÀ

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zione e la distribuzione di beni materiali si trovano intutte le società e hanno coabitato per millenni. Le societàhanno imparato a impiegare i propri processi in modi di-versi per creare nuovi processi di comunicazione.

Il linguaggio è una seconda economia del dono (ver-bale), mentre definizione e denominazione sono specialiprocessi decontestualizzati del linguaggio. Questi pro-cessi decontestualizzati si evolvono nello scambio quan-do vengono trasposti sul piano materiale, quando le per-sone sostituiscono un prodotto con un altro e li equipa-rano quantitativamente.

L’introduzione del denaro fornisce un “equivalentegenerale”, un singolo dono sostitutivo (come la parola)in cui i valori di tutti i prodotti sul mercato possono es-sere espressi e valutati. Il denaro fornisce un elementoastratto aggiuntivo nel processo di scambio, ma non al-tera la sua logica di base. Perciò il baratto non è una so-luzione ai problemi causati dallo scambio; è invece sol-tanto un esempio della stessa logica, ma senza il denaro.Se consideriamo la distinzione tra scambio e pratica deldono come uno spartiacque tra due paradigmi basilaridelle interazioni umane, possiamo chiarire diverse pro-blematiche apparentemente non connesse tra loro.

I molti doni

Possiamo interpretare molti degli aspetti irrazionali enocivi del capitalismo patriarcale come il punto di con-tatto tra i due paradigmi. Il plusvalore – quella parte dimanodopera che non è pagata e che va a costituire il pro-fitto del capitalista – può essere considerato un dono,dietro coercizione, del lavoratore al capitalista. La ten-denza a pagare le donne meno degli uomini per lo stessolavoro può essere interpretata come un tentativo di man-tenerle in una posizione volta a donare, rafforzando la

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pratica del modello del dono invisibile e obbligandole adare ancor più lavoro (dono) non pagato dei colleghi uo-mini. A causa dell’equivalenza dello scambio e del valoreche gli attribuiamo (gli doniamo), tendiamo a dare credi-to al mercato come “giusto” anche qualora esso ci stiadanneggiando (mio padre sa ciò che è meglio per me).

È stato calcolato che il lavoro non retribuito svolto dal-le donne in casa aggiungerebbe almeno il 40 per cento delprodotto nazionale lordo se fosse monetizzato; questo èuno degli esempi più lampanti di lavoro-dono. Consideria-mo poi i doni che arrivano ai ricchi dai poveri, al Nord dalSud, alle economie basate sullo scambio dalle economieche sono ancora in una certa misura basate sul dono. I di-versi tassi di scambio, livelli di vita e di autosufficienza deipaesi “in via di sviluppo” fanno sì che da questi provengaun flusso di doni diretto ai cosiddetti paesi “sviluppati”.

Non soltanto questo flusso non viene riconosciutocome tale, ma viene anche letto nel verso opposto: ilNord sembra così offrire prestiti, assistenza materiale,informazione, tecnologia, mercati, protezione e persinouna “influenza civilizzatrice” al Sud, mentre questo vie-ne svuotato e paralizzato nel tentare di restituire quel“di più”, ossia l’interesse su ciò che gli è stato “dato”mentre in realtà è servito soltanto a stimolare ulterioridoni nascosti che prosciugano i suoi capitali.

Ad esempio, l’abbassamento del tenore di vita neipaesi del Terzo Mondo è funzionale al Primo Mondo inquanto fa abbassare il costo del lavoro – trasformando ildifferenziale del basso costo del lavoro e delle materieprime in doni collettivi dai molti del Sud attraverso i po-chi nel Sud verso i pochi al Nord. L’uso manipolatoredella pratica del dono allo scopo di trarre profitti (fa-cendone leva per prendere altri doni) è di per sé unoscambio. Tuttavia, interpretare la pratica del dono comefosse lo scambio e il profitto come cosa ”meritata”confonde i due paradigmi, e non è soltanto una tenden-

LA RECIPROCITÀ

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za accademica; è una prospettiva molto diffusa che faparte della pratica di sfruttamento e la sostiene.

I molti esempi di vera e propria schiavitù che hannoavvelenato la storia dell’umanità sono la prova della ten-denza a porre gruppi di persone, attraverso la “pro-prietà” su di essi, nella condizione obbligata di praticaredoni. Anche le donne di ogni razza e cultura si sono ri-trovate spesso in questo tipo di situazione rispetto aipropri mariti, che gli appartenessero o meno come loro“proprietà”. Perché si accumuli capitale, i doni in ecce-denza devono pur venire da qualche parte. Ad esempio,la schiavitù, benché sia costata un’immensa sofferenza,ha fornito quell’eccedenza “gratuitamente” ai “proprie-tari” degli schiavi nel Sud degli Stati Uniti.

Lo scambio fornisce però anche un meccanismo di ac-cumulazione efficace, occultando i doni che riceve dietrola facciata di un’equazione che appare “giusta” e di unatransazione che sembra il risultato di una “libera scelta”(trascurando il fatto che la mancanza di alternative riducaspesso i poveri a una condizione analoga alla schiavitù). Ilcapitale può essere visto come l’insieme di doni dei molticatturati dallo scambio e considerati, secondo i parametriauto-riflettenti di questo, il giusto profitto risultante daun investimento. Lo scambio equo non produce profittoe a tale scopo è necessario il lavoro-dono6.

Il lavoro-dono è facile da nascondere perché, comeabbiamo visto nel discorso sul linguaggio, il donare ètransitivo: se A dà a B e B dà a C, allora A dà a C; per-ciò, se una moglie offre la propria manodopera gratui-ta al marito e questo dà il proprio pluslavoro al capita-lista, il lavoro della moglie passa transitivamente al ca-pitalista attraverso il marito. Il dono è invisibile ancheperché distogliamo l’attenzione dalla fonte originaria;tuttalpiù vediamo B che dà a C. Ciò che risulta mag-giormente evidente è comunque il cosiddetto scambio“equo” tra B e C, in cui il capitalista paga al lavoratore

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uno stipendio determinato dal costo sul mercato diquel tipo di lavoro.

Concentrandosi sul salario quale “giusto” costo dellavoro, la nostra attenzione viene distolta dalla praticadel dono, quantificabile e non quantificabile che avvienenello stesso momento. Lo scambio si convalida da sé e sicombina con gli altri scambi che avvengono nel merca-to; galleggia come una schiuma sul mare dei doni nasco-sti, donati dalle donne, dagli operai, dai non retribuiti,dai sottopagati, dai poveri, dai disoccupati (che con laloro domanda di posti di lavoro mantengono basso il“giusto” costo del lavoro) e tutti gli appartenenti alleclassi sociali e ai paesi che si trovano nella posizione didover donare a classi e a paesi privilegiati.

Vi sono poi i molti doni dei consumatori, che paganotroppo cari alcuni prodotti il cui costo di produzione èrelativamente basso, quali la benzina, ma che risultanomolto utili per le persone i cui bisogni sono determinatidalle industrie del trasporto. Vi sono i doni del passato, incui il plusvalore è rappresentato dal “capitale fisso” maanche dai doni gratuiti (soprattutto delle donne) nellamanutenzione di edifici, beni, valori d’uso e persone dellegenerazioni precedenti – i loro figli/e, il loro linguaggio,la loro arte, cultura e i sottoprodotti delle loro vite. C’èun grosso flusso di doni non riconosciuti che scorre dalpassato al presente, così come da individui di gruppi epaesi che sono nella condizione di donare verso gli indivi-dui e i paesi che sono nella condizione di prendere.

Ci sono poi i doni della natura, pronti per il nostrouso: l’aria, l’acqua e la luce del sole, che siamo nella con-dizione – resa possibile dall’evoluzione – di ricevere crea-tivamente, ma che cominciano a inquinarsi e a scarseg-giare perché vengono privatizzati o consumati di nasco-sto, sperperati, allo scopo di tagliare i costi (offrire doni)al servizio del paradigma dello scambio. Questo inquina-mento costringe le generazioni future a consegnarci il lo-

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ro potenziale utilizzo dei doni della natura, perché noipossiamo trarne un rapido profitto. Stiamo bloccando ilflusso di doni che scorre verso il futuro. Nuovi generi dicommercio invadono le aree del dono e se ne appropria-no, dai ristoranti fast food alle lavanderie automatiche.L’eredità di tutti viene commercializzata dall’industriadella biogenetica, arrivando a trasformare persino i donigratuiti biologici dei molti nel profitto dei pochi.

1 Un meta-linguaggio è un linguaggio che parla del linguaggio. Terminiquale “sostantivo” o “frase” sono parte del meta-linguaggio della grammatica.L’effetto “sala degli specchi” generato dallo scambio fa sì che tutte le altreequazioni e strutture riflettenti all’interno della società legittimino lo scam-bio. A causa della loro affinità a esso, sembrano dire “Questo è normale!”. Latendenza auto-riflettente distorce la nostra prospettiva dando eccessiva im-portanza al processo di scambio e decontestualizzandolo, togliendolo dal suocontesto, dal suo “altro” nella pratica del dono. In Principia Mathematica,Bertrand Russell discute la sua teoria dei tipi logici, secondo cui alcuni livellilogici “superiori” sarebbero di tipo diverso rispetto ai livelli sottostanti; adesempio la classe di tutte le classi è una meta-classe su un livello logico supe-riore a quello dei membri che la compongono. I meta-messaggi sono messag-gi che parlano di messaggi e ci dicono come interpretarli. Io credo che l’effet-to sala degli specchi crei molti meta-messaggi che mantengono la nostra at-tenzione focalizzata sul processo di scambio. Bateson (1972) discute sullapossibilità di curare la dissociazione schizofrenica (i “doppi legami”) modifi-cando i meta-messaggi. Io credo che la dissociazione sia provocata da motiva-zioni e processi di scambio occulti, sul meta-livello. Riconoscere la pratica deldono come il contesto più largo in cui lo scambio e la classificazione sono in-seriti potrebbe portarci a ripensare l’economia e la logica, convalidando lapratica del dono e riacquistando la salute mentale.

2 Per un’altra utile spiegazione della geometria frattale e dell’auto-simili-tudine, v. Gleick 1987.

3 International Association for Feminist Economics (IAFFE) (Associazioneinternazionale per l’economia femminista).

4 Cfr., ad esempio, il lavoro di Alain Caillé, Jacques Godbout, Serge La-touche e la rivista «MAUSS», acronimo per Mouvement anti-utilitariste dessciences sociales.

5 In un’importante prefazione alla riedizione di Marcel Mauss, The Gift(1990), Mary Douglass discute dello scambio, o reciprocità, come elementodel dono che crea legami. Parla della propria esperienza in una fondazione,dove ha appreso che “il destinatario del dono non ama il donatore, a prescin-dere da quanto sia volonteroso”. Douglass ritiene che non si dovrebbero of-frire doni gratuiti, poiché “rifiutare di essere contraccambiati pone l’atto del

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donare al di fuori di qualsiasi legame mutuo” (p. VII). Le donne possono an-ch’esse rimanere ipnotizzate dal paradigma dello scambio e pensare così chela reciprocità e non la soddisfazione dei bisogni, sia la fonte delle relazioniumane. Vorrei solo accennare al fatto che in un contesto basato sullo scam-bio, il dono gratuito provoca disagi psicologici e gli atti di carità sono datispesso in modo paternalistico, umiliando i riceventi. Altro motivo per cui idestinatari potrebbero non amare il donatore “volonteroso” della Douglass.

6 Weatherford (1988) discute dell’impatto che l’oro e l’argento delleAmeriche hanno avuto sul capitalismo europeo, insieme agli altri innumere-voli doni, non riconosciuti come tali, che le popolazioni native hanno dato alresto del mondo.

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Capitolo quartoLe definizioni e lo scambio

La denominazione e la definizione, che ne è la suaforma più complessa, costituiscono momenti speciali dellinguaggio in cui le parole stesse vengono donate persoddisfare i bisogni meta-linguistici (i bisogni che ri-guardano il linguaggio stesso) di coloro che le ascoltano.Comunicando agli altri i nomi delle cose, o dando le de-finizioni delle parole, diamo loro i mezzi di produzionedella co-municazione linguistica. La situazione è diversadal discorso vero e proprio, poiché la denominazione ela definizione sono, almeno in parte, de-contestualizzatee i loro processi interni sono di tipo speciale. Usciamomomentaneamente dal flusso del discorso per porci suun meta-livello, così da fornire a chi ascolta qualcosache ancora non ha, un “nuovo” termine che soddisfa unbisogno comunicativo costante e generale1.

Al contrario, il bisogno che viene soddisfatto attra-verso il fluire del discorso è un bisogno di relazione pre-sente e contingente con qualcosa, soddisfatto nel mo-mento in cui chi parla dà un prodotto verbale a chiascolta combinando le parole (ognuna delle quali, presain sé, fornirebbe una relazione costante) in frasi. Nel di-scorso, chi ascolta potrebbe in teoria comporre da sé lefrasi di chi parla, ma non ha riconosciuto (in quel caso)il bisogno di farlo. Nel caso della denominazione e delladefinizione, invece, chi ascolta sente un bisogno poichénon ha ancora e non può ancora utilizzare le paroleadatte. Il suo bisogno è simile a quello materiale dei

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mezzi di produzione e in questo caso è un bisogno dimezzi di produzione dei doni verbali.

Nei processi di denominazione e definizione, chi par-la svolge un servizio per chi ascolta: avendo capito ciòche la persona che ascolta ha bisogno di sapere, le forni-sce una parola trovando il modo più adatto perché pos-sa apprenderla. Se sta parlando a un bambino/a o a unostraniero, potrebbe pronunciare la parola nello stessomomento in cui la “cosa” è lì presente, quale dato empi-rico; potrebbe indicarla, prenderla, tenderla verso l’altrapersona ecc., oppure, se ritiene che la persona che ascol-ta abbia già una conoscenza adeguata del vocabolariodella sua lingua, può ideare una frase definitoria2 utiliz-zando termini che immagina già noti a chi ascolta.

In quest’ultimo caso, ci si deve immedesimare nell’al-tra persona, pensare al suo grado di conoscenza, “leggerenel pensiero” il vocabolario e l’esperienza di vita dell’al-tra persona. La definizione esige dunque un orientamen-to verso l’altro da parte della persona che parla; questasarà in grado di arrivare alla sua deduzione dopo aversentito le parole utilizzate dall’altro mentre parlavano in-sieme e l’ascoltava. Anche per definire qualcosa rivolgen-dosi al pubblico in generale, chi parla o scrive deve uti-lizzare i termini che ritiene noti a coloro cui si rivolge. Seuna definizione scritta non è chiara, chi legge dovrà repe-rire ulteriori conoscenze linguistiche da altre fonti, adesempio un dizionario. Ma anche in questo caso, le defi-nizioni di un dizionario apparentemente impersonali esi-gono da chi le formula l’utilizzazione di termini com-prensibili agli altri. Le definizioni non stanno in piedi dasole, come i filosofi (influenzati da equazioni e dalloscambio) sembrano pensare: sono doni di parole prove-nienti da una persona e diretti a un’altra o a molte altre.

Il definiens è una frase che fa parte della definizionee funziona da dono sostitutivo provvisorio della cosa de-finita, rendendo possibile esprimere la relazione sociale

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generale della cosa con il suo nome. Il nome è una paro-la-dono sociale costante, che soddisfa il bisogno comu-nicativo generale rivolto a quel tipo di cosa specifica al-l’interno della società nel suo insieme. La persona cheparla fornisce un dono verbale provvisorio personale, losostituisce per la cosa data e per la parola-dono costantesociale (il nome) e lo presenta a chi ascolta. “Un animalepeloso e amichevole come quello di zia Maria” e “felinodomestico” sono entrambi doni provvisori che potreb-bero essere dati a chi ascolta per definire la parola “gat-to”. La scelta tra uno dei due o tra altre varianti, dipen-de dal vocabolario e dall’esperienza della persona a cuici si rivolge (e dal suo bisogno comunicativo), dedottedalla persona che parla. Il definiendum viene fornito co-me dono comunicativo sostitutivo sociale e costante (ilnome) per quel tipo di cosa e può sostituire molti altridefiniens che riguardono quel tipo di cosa (v. Fig. 3).

Ciò implica: il definiendum può fare ciò che il definiensha fatto rispetto alla cosa e anche di più. Nei nostri due

LE DEFINIZIONI E LO SCAMBIO

Figura 3. Doni che prendono il posto di altri doni nella definizione.

La parola-dono, il definiendum “gatto”

prende il posto della

parola-dono (frase) cioè il definiens “un felino domestico”

che prende il posto della

cosa-dono (gatti)

La parola-dono (nome) “gatto” è ora il dono sostitutivoper

la cosa-dono (gatti)

1. Definizione

A

B

C

A

B

2. Il definiens (frase) ha ceduto il passo.

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esempi, “un animale peloso e amichevole come quello dizia Maria” prende un gatto “esemplare”, mentre “felinodomestico” colloca l’animale in una tassonomia, che esigeun sistema di correlazioni complesso di definiens e defi-nienda per distinguere tra diverse categorie affini. “Gat-to”, il definiendum, è più generale di qualunque altro defi-niens (qualsiasi frase definitoria) e prende il posto di tuttele frasi definitorie possibili in quanto è il nome di quel tipospecifico di cosa per i parlanti di quella lingua.

Fornendo un nome mediante il processo di sostituzio-ne del definiendum al posto del definiens, la persona cheparla sta a sua volta anche trasmettendo il dono: una pa-rola che ha ricevuto da altre persone. Questo processogratuito del donare, ricevere e trasmettere crea le sogget-tività umane in relazione al linguaggio, al rapporto dellepersone fra loro e riguardanti una immensa varietà di co-se, eventi e idee qualitativamente differenti. In questa re-lazione mediata linguisticamente, noi umani scopriamodi essere una specie che si costituisce da sé, capace di le-garsi insieme in tantissimi modi possibili, tanti quante so-no le esperienze possibili. E utilizziamo i processi del do-no e i doni verbali per stabilire legami tra una persona el’altra, anche a un nuovo livello appena creato di orga-nizzazione delle esperienze, il livello degli argomenticondivisibili che ci vengono dati linguisticamente.

La definizione può essere considerata un “pacchet-to” contenente diversi doni a diversi livelli. Creando undefiniens dalla combinazione di parole che chi ascoltagià possiede, chi parla svolge un servizio per chi ascolta;mette in relazione cose del mondo e il definiens con ildefiniendum, fornendo così alla persona che ascolta l’u-so possibile di una parola nuova. Alle “cose”, ad esem-pio i gatti, viene fatto cedere il passo momentaneamen-te quali doni comunicativi, perché adesso c’è una frase-dono sostitutiva che viene data al loro posto – il defi-niens, ad esempio “felini domestici”; in seguito anche

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questa combinazione di parole, la frase che costituisceil definiens, “felini domestici”, deve rinunciare alla suaposizione equivalente a favore del definiendum, “gat-to”, che prenderà il sopravvento. Sia i dati esperienziali,la cosa-gatto, che il definiens “felini domestici”, cedonoil passo al definiendum, “gatto”, il dono verbale attra-verso il quale avviene normalmente la comunicazioneriguardante quel tipo di cosa tra le persone di una dataco-muni-tà.

La parola “gatto” viene usata più spesso dalla genteper parlare di gatti, ed è quindi più generale del defi-niens, “felino domestico” o “un animale come quello dizia Maria” o “un animale peloso e amichevole con la co-da lunga”; viene utilizzata da più persone e più spesso diquesti definiens. Questi possono tuttavia essere usati sesorge un bisogno comunicativo contingente di parlare diquegli animali in quel modo, a quel determinato livellodi specificità. “Gatto” è dunque più costante e più gene-rale di “un animale peloso e amichevole con la coda lun-ga”; il nome “nome” viene dato a “gatto”, e non a dellefrasi come “un animale peloso e amichevole” ecc.

Tutti questi doni sono legati tra loro attraverso il biso-gno comunicativo meta-linguistico della persona inascolto e il servizio di soddisfare quel bisogno svolto dal-la persona che parla. Quest’ultima non tiene per sé la suaconoscenza del lessico (sebbene alcune élite e gruppiesclusivi lo facciano), ma lo dona liberamente alla perso-na in ascolto, assumendosi il compito di creare e di forni-re un definiens che quest’ultima possa comprendere.

Pur essendo un pacchetto di doni, la definizione nonha un meccanismo di funzionamento interno risponden-te al processo donante-dono-ricevente, cui invece, ab-biamo constatato, risponde una frase transitiva. Funzio-na invece per sostituzioni interne ed esterne: sia un datonon verbale che una frase data come definiens cedono ilpasso a un termine generale, il nome che prende il loro

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posto come dono sostitutivo che soddisfa il bisogno co-municativo costante.

Vorrei soltanto accennare che il verbo “essere”, con-tenuto nella definizione, sostituisce gli atti sostitutivirappresentati dal definiens e dal definiendum, che a lorovolta gli cedono il passo; questo implica che tali atti so-no uguali poiché, in quanto atti, vengono sostituiti dallastessa parola, che porta così accuratamente l’intera ope-razione al presente (v. Fig. 4).

La relazione delle parole con le parole e delle cosecon le parole nella frase “la ragazza ha colpito la palla”,è diversa dalla relazione delle parole con le parole e del-le cose con le parole nella frase “la palla è un oggetto ro-tondo usato per giocare”. Nella prima, l’intera frase è undono, e al suo interno c’è il dono di un predicato offertodal soggetto all’oggetto. Nella definizione, qualcuno for-nisce il dono di una parola a qualcun altro che non laconosce, operando delle sostituzioni con qualcosa che

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Figura 4. “È” sostituisce gli atti sostitutivi nella frase.

Il verbo “essere” è il dono sostitutivo degli atti di sostituzione delle pa-role-dono per le cose-dono, di “gatto” al posto dei gatti ma anche di “fe-lino domestico” al posto di gatti.

“Gatto”

“È”

“Felino dome-stico”

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l’ascoltatore già conosce – ad esempio, “un oggetto ro-tondo usato per giocare” per qualcosa che non conosce,la nuova parola “palla”. L’enuncitore è il soggetto chedona, che dà il definiens e il definiendum all’ascoltatore,che diventa ricevente del definiendum come sua acquisi-zione permanente. Il definiens cede il passo al definien-dum, che prende il suo posto, così come la cosa specifica“cede il passo” prima al definiens e poi (in modo piùpermanente) al definiendum, come suo nome.

L’ascoltatore ha un bisogno meta-linguistico immedia-to di una parola che non “ha”. La memoria e la compren-sione di un determinato modello fonetico costituiscono “imezzi di produzione” di una parola-dono che i parlatoripossono dare per soddisfare i bisogni comunicativi deglialtri, e che gli ascoltatori possono ricevere, creando mutuilegami con loro riguardo a quella determinata cosa. Ilparlante dona la nuova parola all’ascoltatore, soddisfacen-do così il bisogno meta-linguistico di quest’ultimo.

L’origine dello scambio

Credo che lo scambio sia derivato dai processi di so-stituzione e di cedere il passo nella definizione e denomi-nazione. Nello scambio questi processi sono stati trasferi-ti all’indietro ai modelli d’interazione non verbali e sono-stati rielaborati, distorcendoli per mediare il tipo di biso-gno co-municativo che sorge dalle relazioni umane reci-procamente esclusive della proprietà privata. Le statisti-che mostrano che soltanto una minima parte della pro-prietà privata – forse l’1 per cento in tutto il mondo – ap-partiene alle donne (abilissime, peraltro, a svolgere i pro-cessi di denominazione e definizione). Per di più, la pro-prietà privata è un’istituzione propria delle cosiddette so-cietà “sviluppate”, e non delle cosiddette società “primi-tive”, le quali tuttavia devono pur avere i processi di de-nominazione e definizione. Così, le relazioni di inclusio-

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ne del linguaggio basato sul dono precedono lo scambioe le relazioni di reciproca esclusione di proprietà privatache sono da esso mediate. I processi di denominazione edefinizione, in cui prevalgono la sostituzione e il cedere ilpasso, sono stati forzati, strecciati e alterati nel momentoin cui sono stati trasferiti sul piano materiale. Ciò risultaparticolarmente evidente nello scambio monetizzato, incui il denaro, a causa della sua funzione di dono sostituti-vo, crea un’immagine auto-similare della parola su unascala diversa. Inoltre, in mancanza di una pratica del do-no e senza un processo di scambio, l’istituzione dellaproprietà privata mutuamente esclusiva andrebbe incon-tro alla sclerotizzazione e all’impossibilità di gestione, dalmomento che i proprietari non avrebbero nessun mododi accedere pacificamente al soddisfacimento del propriobisogno da parte degli altri.

L’uso di questi processi linguistici per evitare la praticadel dono e per mantenere l’isolamento di ogni operatoreeconomico contraddice il principio fondamentale, della vi-ta e del linguaggio, di “donare e ricevere”, e crea un am-biente misogino e ostile al quale i gruppi umani devonoadeguarsi. In effetti, vi ci siamo adattati talmente bene checi sembra naturale, e il genere di comportamento aggressi-vo e competitivo reso necessario per la sopravvivenza alsuo interno sembra essere proprio della “natura umana”.

L’esistenza degli stessi processi sul piano verbale e suquello non verbale crea molti ri-verberi. Nella societàcapitalistica attuale, ad esempio, c’è un circuito di retro-reazione tra definizione verbale e scambio non verbale,sicché l’uno convalida l’altro e ne assume la funzione.Una persona o un prodotto vengono definiti in funzionedella quantità di denaro che “valgono”; i nomi, le cate-gorizzazioni, i titoli professionali – da “poliziotto/a” a“dottore/ssa” – hanno un valore monetario.

Dominare le persone attraverso il salario, che è una de-finizione mediante il denaro, sostiene la capacità di deno-

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minare, etichettare e definire gli altri per poterli controlla-re. I nomi dei prodotti di marca “giustificano” i prezzi piùalti. Guardiamo a questi processi di definizione come sedessero “senso” alla nostra vita; se possediamo un titolo,una laurea, un nome da sposati, “siamo qualcuno”. Tuttoquesto denominare, tuttavia, avviene in una società chenon riconosce la pratica del dono come il principio fonda-mentale del significato del linguaggio e della vita.

Restituire i doni alla definizione

Lo scambio si riflette sull’idea che abbiamo della defi-nizione, facendola sembrare asettica: un’equazione intel-lettuale anziché un pacchetto composto di molti doni.Tra i diversi doni di cui abbiamo già parlato dobbiamoanche considerare, in senso più ampio, che la definizioneserve talvolta a trasmettere socialmente le parole tra le di-verse generazioni, gruppi linguistici ecc. Inoltre chi parlao scrive, trovando un “linguaggio comune” attraversol’uso di parole che molte altri già possiedono, sia nel di-scorso sia nello svolgimento del servizio della definizio-ne, è in grado di co-municare con persone che si trovanoaltrove nel tempo o nello spazio. Deve perciò riuscire aidentificare e a utilizzare i termini di cui già dispongonoaltri, e/o crearne di nuovi a partire da questi, sebbene glialtri potrebbero aver già fatto da soli lo sforzo di acquisi-re questi termini tramite l’istruzione, sviluppando un in-sieme di conoscenze su qualche disciplina o sfera di atti-vità, talvolta con un proprio linguaggio specifico.

Dal momento che il bisogno di definire i termini ècomune e che nessuno di noi nasce già con queste cono-scenze, le definizioni abbondano nei libri, nei dizionari enei trattati. Anche la natura delle cose viene esplorataattraverso discussioni in cui si tenta di definire generispecifici di cose. Se è ben congegnato, e fa uso di parole

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che gli altri generalmente già conoscono, il pacchetto-dono della definizione può continuare a funzionare indi-pendentemente da chi lo ha creato; i suoi doni “accorro-no” a soddisfare il bisogno del lettore non appena questiapre il dizionario.

Per questa sua capacità di continuare a soddisfare i(meta)-bisogni comunicativi autonomamente, l’origineumana della definizione e la relazione tra donatore e rice-vente sembrano avere poca importanza. In un certo sen-so, potremmo dire che è la società stessa, la collettività, adonarci questi “mezzi di produzione” verbali, stabilendocon noi un legame; per un altro verso, il generoso servizioincondizionato di chi definisce viene facilmente dimenti-cato nel momento in cui facciamo uso delle parole che cisono state date per creare le relazioni con gli altri.

L’equivalenza

Quando l’aspetto di servizio o di dono del linguaggioviene ignorato, tendiamo a pensare al fatto che le parole sisostituiscano tra di loro nella definizione, invece che essererivolte alla soddisfazione del bisogno, come processo basi-lare del linguaggio. Avviene una sorta di esaltazione fetici-stica per cui il “significato” sembra provenire dalla relazio-ne delle parole tra loro, invece che dalla relazione mutuatra persone che utilizzano cose o parole riguardanti le cose.Inoltre, dal momento in cui i filosofi hanno concentrato illoro pensiero sulle definizioni per svelarci ogni mistero,dall’umanità a Dio all’Essere in sé, analizziamo le definizio-ni per scoprire la relazione delle parole al mondo, e vedia-mo solo delle parole che prendono il posto di altre paroleall’interno di sistemi chiusi. Non vediamo le pratiche dicura come comunicazione, e neppure guardiamo al biso-gno comunicativo linguistico come a un bisogno social-mente rilevante, che sorge già necessariamente dal mondo

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e dagli altri e il cui soddisfacimento è un fine che motival’interazione verbale e non verbale tra gli individui3.

A causa dell’archetipo magnetico rappresentato dallalogica dello scambio, vediamo il bisogno dell’altra per-sona solamente come una cosa funzionale al nostro biso-gno personale. La sua “domanda” deve essere “effetti-va”; lei dovrà avere la quantità di denaro adeguata a so-stituire il nostro prodotto e a soddisfare il nostro biso-gno comunicativo di denaro4. Non vediamo l’aspetto di“servizio” della definizione, ma soltanto la sua cosiddet-ta “funzione di verità”, se la sua “intensione” (o signifi-cato) corrisponda, cioè, alla sua “estensione” (i casi ri-spondenti a quel tipo di cosa specifica nel mondo).

Ad esempio, l’espressione “il celibe è un uomo nonsposato” viene spesso usata poiché il “definiens” e il“definiendum” sembrano corrispondere totalmente: tut-ti gli uomini celibi sono uomini non sposati. Questo tipodi definizione è un dono che soddisfa solamente il biso-gno meta-linguistico di avere esempi filosofici di defini-zione; l’aspetto della parola come dono meta-linguisticoè divenuto secondario. Anche l’orientamento verso l’al-tro di chi fa la definizione sembra essere irrilevante ri-spetto alla questione se vi sia equivalenza tra “estensio-ne” e “intensione”. L’orientamento verso l’altro vieneperciò ignorato, mentre la definizione appare autonomae asettica, non toccata dalle relazioni umane.

Nel pensare al linguaggio veniamo influenzati dallepriorità dello scambio, dalla necessità di identificare lemerci, di misurarli e di valutarli in modo asettico e og-gettivo in funzione della loro equivalenza per risponderead entrambe le parti (o alla società nel suo insieme). Lacorrispondenza nel vendere e comprare diventa il mo-dello della corrispondenza tra linguaggio (prezzo) erealtà (merci). La motivazione verso il bisogno dell’altrapersona quale fine viene ignorata sia nello scambio chenello studio del linguaggio.

LE DEFINIZIONI E LO SCAMBIO

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Dal momento che le definizioni sono fatte di paroleche ne sostituiscono altre, la relazione delle parole colmondo sembra provenire dalla forma della definizione,dalla forma della sostituzione come un fine in sé, e passainosservata l’attività creativa del donare, ricevere e cede-re il passo. La relazione delle parole col mondo sembraprovenire dalla forma dell’equazione X=Y, dalle parolestesse, o dalla volontà delle persone che stanno pronun-ciando quelle parole. Concentrando l’attenzione sullasostituzione, senza l’idea di dono, è difficile ritornare almondo a partire dal linguaggio, e sembra soltanto che“il senso di un segno sia un altro segno”5 e così via, inun’infinita (benché sistemica) regressione, come se leparole non fossero per nulla “agganciate” al mondo.

La pratica del dono su entrambi i livelli

Sembrerebbe che la “rap-present-azione” sia un pro-cesso senza alcuna “present-azione” che lo sostiene allabase. Invece, la rap-presentazione (prendere-il-posto-di)è soltanto un momento di un processo del donare che èsia linguistico che non linguistico. Possiamo certamentesostituire un dono con un altro, ma l’intero processo,dall’identificazione del bisogno all’adattamento del do-no specifico – parole o frasi – per soddisfare il bisogno,implica molto di più che la sostituzione o il prendere-il-posto-di: implica l’orientamento verso l’altro, la capacitàdi riconoscere i bisogni dell’altro in relazione al mondo,e riconoscerne le cose come rilevanti per quei bisogni;implica il riconoscere se stessi come persone potenzial-mente in grado di soddisfare, utilizzando i tipi di coseadatte, i bisogni di altre persone, e la motivazione persoddisfare almeno i loro bisogni comunicativi, se nonquelli materiali; implica, infine, riconoscere gli altri co-me coloro in grado di soddisfare i propri bisogni. Una

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prospettiva patriarcale concepisce il mondo come com-posto solamente di cose per le quali dobbiamo compete-re, e non di cose che hanno un valore rilevante al soddi-sfacimento dei bisogni degli altri.

L’orientamento verso l’altro è necessario anche per es-sere in grado di utilizzare le parole che gli altri potrannocapire, per metterci nei loro panni e considerare ciò cheesse non sanno come un bisogno che noi siamo in gradodi soddisfare. Ciascun bisogno è un tema con diverse va-riazioni possibili. Il bisogno generale di comunicare sultema dei gatti – di formare relazioni umane riguardo igatti – comprende tutti i modi possibili in cui i gatti pos-sono essere presenti o importanti per gli umani. Noi rico-nosciamo individualmente quei modi come bisogni, chesorgono da contesti linguistici o extralinguistici e che lealtre persone potrebbero avere, così da instaurare una re-lazione con noi rispetto ai gatti. La parola “gatto” ci è sta-ta data socialmente come mezzo per soddisfare tutti queibisogni comunicativi, o almeno una buona parte di loro.

Dobbiamo essere stati in grado di ricevere material-mente e linguisticamente dalle altre persone nel passato,per essere in grado di dare alle altre persone nel presen-te. Dobbiamo, cioè, essere stati riceventi dell’orienta-mento comunicativo verso l’altro di altre persone; dob-biamo inoltre essere capaci di creare nuove frasi secon-do modelli del dono trasposti, come mediatori che met-tono le parole nella condizione di dare ad altre parole.Dobbiamo inoltre cercare e utilizzare i legami che creia-mo linguisticamente con gli altri e rispetto ai doni delmondo per sviluppare le nostre e le loro soggettività so-ciali. La pratica del dono è il contenuto della forma del-la sostituzione, che è la ragione stessa dell’esistenza dellaforma; è ciò che conta riguardo la forma, è la matrice(materna).

Il donare e il cedere il passo non sono stati compresicome pienamente umani. Nel patriarcato sono stati so-

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pravvalutati la vittoria, la sopraffazione e l’appropriazione.Il cedere il passo è tuttavia un complemento necessario delprendere-il-posto-di; l’essere sostituito è un complementoattivo e necessariamente relazionale della sostituzione; e,in modo analogo, il ricevere è il complemento creativo at-tivo del donare. Nella definizione, il processo del sostituiree cedere il passo dei doni sono gli elementi funzionali.Nella maggior parte delle frasi di un discorso contestualiz-zato, il processo di sostituzione non è nel primo piano, e iprocessi del dono su altri livelli creano trasparenza.

La sostituzione e l’essere sostituito sono i processi inquestione nella definizione e nella denominazione, poi-ché ciò che viene dato è una parola generale, il dono so-ciale riguardo a un certo tipo di cosa, donato attraversouna serie di sostituzioni. Il bisogno che viene soddisfat-to, in questo caso, non è in primo luogo un bisogno con-tingente di una relazione mutuamente inclusiva con altririguardo al mondo, ma un meta-bisogno dell’ascoltatoredei mezzi di produzione di doni riguardanti tipi specificidi cose. Forse a causa della forza del modello di scambio(che discende, dalla definizione), il processo del sostitui-re ed essere sostituito è stato reso unilaterale e il cosid-detto lato “passivo” della relazione è stato accantonato.Con un lato mancante, la relazione della sostituzione (edell’essere sostituita) o dell’appropriazione (e del cedereil passo) sembra così non essere nemmeno unarelazione6. Il linguaggio sembra non avere niente a chefare con ciò che è stato sostituito; appare invece comeun’attività unilaterale puramente verbale senza alcunarelazione con il mondo, come un sistema autosufficienteche fa uso di suoni arbitrari secondo principi governatida regole per “trasmettere” (dare) un “significato” (checomunque non si capisce).

Ad alcuni filosofi che ignorano la pratica del dono, larelazione di “gatto” con i gatti appare astratta, un attosui generis da parte del parlante (o della comunità), che

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in qualche modo equipara “gatto” con i gatti, o impone“gatto” sui gatti, tenendoli separati dai cani e dalle scim-mie, magari in base a una capacità “trasmessa” (data)geneticamente. Sembrerebbe che denominando una co-sa la stiamo inserendo in una categoria, che sembra esse-re il fine della comunicazione.

Sorge dunque l’interrogativo di che cosa c’entra lacategorizzazione con la comprensione. Passiamo così aun tipo di ragionamento legato alla proprietà privata,dato che ci chiediamo quali cose appartengano a qualecategoria; così, la persona più sapiente è colei che “ha”più categorie. Sistemiamo le categorie secondo gerarchiedi inclusioni e funzioni, “trasformando” frasi particolari,con la sostituzione di nomi più generali per altri più spe-cifici, procedendo verso l’alto lungo diagrammi ad albe-ro della frase e descrivendo le loro interazioni come go-vernate da leggi o da regole secondo ciò che è più ap-propriato per la loro identità o tipologia; equipariamopoi queste gerarchie alla “comprensione”.

Il diagramma ad albero (o a radice) della frase

Un tipo è soltanto un insieme abbastanza importantedi cose da avere un nome, perché sorgono bisogni co-municativi che lo riguardano. A un livello meta-linguisti-co, in effetti, nomi quali “frase nominale” o “frase ver-bale” servono a denominare tipi specifici di frase perchéi professori di linguistica hanno bisogno di parlarne. Leregole della sintassi mostrano il modo in cui le parole ele frasi possono “darsi” l’una con l’altra, mentre i dia-grammi ad albero della frase esprimono visivamente larelazione del dono attraverso ramificazioni di dipenden-za. I diagrammi ad albero mi sono sempre sembrati ro-vesciati, finché non ho capito che non si tratta assoluta-mente di alberi, bensì di sistemi di radici, in cui il flusso

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di doni va verso l’alto (dal particolare al generale), e nonverso il basso (dal generale al particolare).

La creatività linguistica, la capacità di generare frasisempre nuove utilizzando un numero limitato di parole,deriva ed è accompagnata dalla capacità di riconoscere ibisogni che quelle frasi e parole soddisfano. La praticaumana collettiva di soddisfazione del bisogno tramite uncerto tipo di cose dà un valore a quelle cose, che poi vie-ne a sua volta trasmesso in parte o dato per implicazionealle parole-dono che le sostituiscono. Non è la relazionedi categorizzazione dall’alto in basso che fa funzionare illinguaggio, bensì una dinamica creativa di soddisfazionedel bisogno, che muove sia il linguaggio che la vita.

Ritengo che siano le relazioni di doni all’interno dellafrase e non l’interazione di categorizzazioni, la forza mo-trice del significato della frase stessa. Abbiamo erronea-mente considerato che l’aspetto denominativo del lin-guaggio fosse la chiave di questa dinamica; non è l’“appli-care” le parole alle cose che crea lo spostamento di livello,portando il movimento “verso l’alto” dal livello dell’espe-rienza non verbale al livello della pratica verbale; c’è unaltro processo in corso, che noi non vediamo.

Diamo qualcosa a un gruppo di cose con la quale es-se possono entrare in relazione, quale loro sostituto; poivi trasponiamo una parte del loro valore, nel senso del-l’importanza per gli esseri umani, perché i bisogni vivengano associati. Il dono sostitutivo riceve una desti-nazione nella soddisfazione di un bisogno comunicati-vo, che può anche renderlo utile a distanza nella soddi-sfazione dei bisogni materiali. Ad esempio, nelle frasi“il pane è nella credenza” o “il treno parte dal binario12”, c’è un flusso di senso o di valore verso l’alto dalmondo di cui siamo parte, e non soltanto un’applicazio-ne dall’alto in basso, o una sistemazione in categorie.Un meta-linguaggio è solamente un insieme gerarchicodi termini di categorizzazione, un parassita a spese del

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linguaggio oggetto perché non ha una dinamica di donopropria.

La ramificazione del diagramma ad albero di una fra-se dovrebbe invece essere vista come la confluenza deglielementi che possono darsi l’uno con l’altro, un “assem-blaggio” cooperativo di termini. Noi possiamo dare“la”, o “la” può darsi a “ragazza”, e denominiamo que-sto atto di dono “frase nominale”; poi, come unità, en-trambe possono “dare” il verbo “ha colpito” all’unitàche viene formata quando “la” si dà a “palla”. Possiamorappresentare queste unità con un diagramma, asse-gnando loro dei nomi quali “articolo determinativo”,“frase nominale”, “verbo”, “frase”; esse ci dicono qualisono donatrici, doni, riceventi. Diamo alcune parti dellafrase “la ragazza ha colpito la palla” a parole quali “frasenominale”, perché queste le sostituiscano. Crediamo disapere più cose dopo aver stabilito questa gerarchia;sappiamo chi controlla chi e possiamo quindi destreg-garci meglio; ma non ci accorgiamo dei doni di valoreche filtrano dal basso verso l’alto.

L’albero della frase è quello cresciuto nel giardinodall’eccessivo denominare di Adamo. Non è perché ven-gono associate all’interno di categorie né perché seguo-no delle regole, che le parole restano unite (si mettonoin relazione) all’interno delle frasi. È invece perché sidanno l’una all’altra, si combinano e poi, assieme, dannose stesse a un’altra parola o parte della frase; e lo posso-no fare perché hanno ricevuto valore dalle cose (e dallepersone). Se neghiamo il flusso verso l’alto, sembrereb-be che l’unica cosa rimasta sia il meccanismo del deno-minare dall’alto in basso, e non riusciamo a vedere comeesso sia collegato al mondo.

La domanda non dovrebbe essere “dove si diramal’albero (a frattale)?”, bensì “dove confluiscono le radiciche portano i doni di valore verso l’alto, alla pianta?”.

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La domanda è “chi nutre chi?” e “chi sta svolgendo lepratiche di cura, il meccanismo del denominare o ilmeccanismo, atto a conferire valore, della pratica deldono?”.

La “mascolazione”

Può sembrare che le parole in sé, regolate dalla sin-tassi, contengano il segreto della loro relazione con ilmondo. Io credo che questa sia un’illusione provocatadalla definizione di genere, che inasprisce il fattore dellasostituzione.

Cosa accade quando un bambino scopre di apparte-nere a un genere diverso da quello della propria madredonatrice? Come in altre situazioni di denominazioneo di definizione, il nome o definiendum “bambino” loporta come cosa materiale e come dono non verbale a“cedere il passo”. Prima che capisca ciò che dicono gliadulti, si considera simile alla madre; nel momento incui però comincerà a comprendere le implicazioni deltermine del proprio genere, dovrà rendersi conto chenon deve essere uguale a lei. Il fatto che sia denomina-to o definito bambino (rispondente alla definizione so-ciale di “maschio”) lo porta a rinunciare in modo con-traddittorio al carattere del donare, per essere diversodalla madre (v. Fig. 5). Il nome del suo genere è quindimolto più nocivo per lui di quanto possiamo immagi-nare.Dal momento che la sua stessa vita dipende dallecure della madre, il processo di cambiamento di cate-goria del bambino, affinché diventi uguale al padre, ri-sulta incutere spavento. Il bambino diventa “uguale” aqualcuno che generalmente non conosce bene, e chepotrebbe invece non sembrare altro che (come la paro-la che “prevale”) un dominatore astratto. Un determi-nato aspetto del linguaggio va a “innestarsi” sul carat-

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Figura 5. La mascolazione: formazione del genere del bambino.

LA MASCOLAZIONE

Il bambino

Il padre

Il padre

Il padre Il padre

Termine di genere maschile

Termine di genere maschile

“bambino”

Il bambino

Il bambino

Il bambinoIl bambino

La madre

La madre

La madre

La madre

1

2

21

3

“bambino”

La madre cede il passo come “esemplare” per il bambino e il padreprende il sopravvento. Osservare la similitudine con la definizionein cui il definiens cede il passo e il definiendum (il nome) prende ilsopravvento.

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tere di genere del figlio. Un aspetto del processo delladefinizione, la sostituzione, prende il posto, in modoauto-riflessivo, del processo del dono, che cede il pas-so. La categorizzazione diventa più potente della co-muni-cazione; le parole non sono più doni comunicati-vi benefici, ma bacchette magiche in grado di trasfor-mare l’identità dei figli.

La domanda “che cos’è l’uomo?” deriva in realtà daun’altra domanda: “che cos’è l’uomo, se non è similealla madre?”. La risposta è: si tratta di una falsa do-manda; egli è simile alla madre, un essere che nutre,ma viene modificato dalla denominazione di genere,che diventa una profezia che si autoavvera. Dal mo-mento che basta una parola a far allontanare misterio-samente il bambino dalla categoria della madre, le pa-role sembrerebbero molto potenti. E dal momento cheil padre ha fatto la stessa esperienza prima di lui, i ma-schi scoprono una comunanza in tal senso. Il figlio – eforse chiunque nella società – non penserà che è statafatta una distinzione falsa e arbitraria; la comunità at-tribuirà piuttosto la differenza basilare del bambinodalla madre ai suoi genitali, e all’evidenza biologica chelui ha un pene, come il padre, che la madre non ha. Mase le pratiche di cura sono alla base della comunicazio-ne e della comunità, allora non esiste veramente nulla,nessun contenuto disponibile per questa sua categoriadi opposizione. È per riempire questo vuoto che la so-stituzione, la definizione e la categorizzazione diventa-no esse stesse il contenuto dell’identità (maschile) dellepersone a cui viene detto che non devono essere loro apraticare le cure.

In questo caso le parole vengono assegnate social-mente non come doni, ma come potenti categorizzatriciastratte che si appropriano dell’identità delle persone ela controllano. Secondo il meccanismo di sopravvivenzaper cui si tende a imitare il proprio oppressore, i bambi-

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ni diventano così uguali alla parola, come i loro padriprima di loro. L’identità di genere maschile imita l’aspet-to denominativo e “definitorio” del linguaggio, comeanche il processo di prendere-il-posto-di, dando impor-tanza all’equivalenza con gli altri, con il padre che pren-de il posto della madre (che cede il passo) come anchedi altri uomini. Il pene gioca una parte importante inquesto, poiché è proprio la caratteristica fisica che ci facollocare il bambino nella stessa categoria del padre.

I simboli fallici sono ovunque, sebbene abbiamo im-parato a ignorarli negando la loro importanza. L’equa-zione stessa, come momento di similarità e di scambio,riceve doni di attenzione e di valore dai molti. I segni diequivalenza (=) sono forse in origine due piccoli simbolifallici. È questa caratteristica (o proprietà) che il bambi-no ha e la madre non ha e che lo sottrae dalla categoriadella madre donatrice. Gli effetti psico-sociali derivantidall’“avere” o “non avere” tale caratteristica fisica sonodiventati estremamente importanti, come vedremo.

Il bambino riceve molti privilegi: a lui vengono spes-so date maggiori cure, essendo un maschio, di quantenon ne avrebbe ricevute se fosse stato una femmina, co-me la madre; viene spesso riconosciuto come superiore,anche rispetto a lei. Come la parola, egli ha la capacitàdi prendere-il-posto-di che, in assenza di un orienta-mento verso l’altro e della pratica del dono, diventa ap-propriazione e dominazione. Egli viene “compensato”con quella capacità e quei privilegi, poiché ha ceduto l’i-dentità di nutritore.

Ho coniato la parola “mascolazione” per indicare ilprocesso in cui il bambino viene socializzato con un’i-dentità falsa e non nutrice, incarnando la parola che loaliena. Mi sembra che questo sia un momento essenzialenello sviluppo del maschio che non viene riconosciuto eche genera, perciò, immagini auto-similari in molti di-versi settori della vita. Ripetendo questo processo su di-

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versi livelli sociali, la collettività spera inconsciamente diliberarsi da questo difetto fatale che si è autocreato; esi-stono però, al tempo stesso, diversi meccanismi che lomantengono al suo posto e che ci impediscono di vederein modo chiaro ciò che accade.

1 Ferdinand de Saussure (1931) distingue tra ciò che definisce langue, illessico, l’insieme delle parole prese fuori dal contesto e connesse tra loro inmodo puramente differenziale e parole o discorso. La denominazione e la de-finizione potrebbero sembrare requisiti indispensabili al resto del discorso,sebbene apprendiamo le parole anche soltanto ascoltandole dal discorso al-trui. Ciò che vorrei sottolineare, è che i processi per cui acquisiamo le parolee le consideriamo in sé, a prescindere dal contesto e nella loro generalità, so-no diversi dai processi in cui le utilizziamo legandole insieme. Ritengo che iprocessi di dono interni della definizione siano molto diversi dal discorso erappresentino modelli nascosti dello scambio; sono ciò che Roman Jakobson(1990b) definiva “equational statements” (enunciati equazionali).

2 Userò il termine definiens per indicare la frase che consente all’ascolta-tore d’identificare ciò che la “nuova” parola rappresenta, e definiendum perla parola che si sta definendo, la parola “nuova” stessa o il nome. Nella frase“il gatto è un animale domestico dalla lunga coda e le orecchie a punta”,“gatto” è il definiendum e “un animale domestico dalla lunga coda e le orec-chie a punta” è il definiens.

3 Senza l’altruismo, cioè l’orientamento verso gli altri, non potremmo giu-stificare l’esistenza della società né della cultura. Nessun gruppo può soprav-vivere come compendium di egoisti isolati; la coesione sociale è assicurata dal-la pratica del dono occulto e dall’orientamento verso l’altro/a da parte di tut-ti, in particolare delle donne.

4 Di solito, non consideriamo che la comprensione dell’ascoltatore siacompiuta nel soddisfacimento stesso del suo bisogno ma dobbiamo sentirlaespressa in altre parole, così come il bisogno dell’acquirente deve essereespresso in denaro perché costituisca una domanda effettiva; in caso contra-rio, non “esiste” per chi vende.

5 L’approccio di semiosis illimitata avviata da Charles Sanders Peirce (1931-35) ha catturato i suoi discendenti decostruzionisti (come quelli di Saussure) inuna regressione senza fine, prendendo sempre la posizione definitoria, lontanadal piano della co-muni-cazione della pratica del dono materiale. Catene di so-stituti negano l’importanza del “presente”come dono che soddisfa il bisogno.

6 Il movimento della non violenza di Gandhi ha dimostrato l’importanzapolitica del “cedere il passo”, mostrandoci ciò che le donne stavano già eser-citando personalmente. Rispondere alla sopraffazione con il “cedere il pas-so”, permetteva ai sopraffattori di capire che, tra l’altro, la loro azione era re-lazionale. Il donare e il cedere il passo sono i presenti alla base della relazionedi rap-present-azione.

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Capitolo quintoIl concetto di uomo

Così come il linguaggio, anche la capacità di costrui-re i concetti può essere attribuita a meccanismi biologicio alla socializzazione. Esistono diverse teorie in proposi-to: c’è chi sostiene che la nostra capacità di riconoscerel’affinità tra le cose dipenda dal patrimonio genetico; al-tri ritengono che l’essere umano formuli i concetti in ba-se a un processo di confronto e generalizzazione. Secon-do alcuni, tale processo si fonda su un prototipo, forsesull’immagine del primo esemplare di qualcosa o di unmembro di una categoria che un bambino/a incontranell’ambiente circostante; attraverso ripetuti confrontitra oggetti di uno stesso tipo, il bambino/a astrae alcunecaratteristiche comuni. Un esperimento in questo sensocondotto negli anni Venti dallo psicologo sovietico LevVygotsky (1962) è stato un precursore della teoria delprototipo, e Vygotsky potrebbe (dovrebbe) essere iden-tificato con tale orientamento della psicologia.

Uno-molti

Vygotsky ha delineato alcuni stadi nello sviluppo delconcetto che conducono a uno stadio finale in cui il pro-totipo o l’oggetto “esemplare”, è giunto ad assumereuna posizione stabile nella relazione uno-molti con de-terminati oggetti con esso confrontati, escludendo altri

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oggetti riconosciuti come differenti. I molti oggetti han-no acquisivano inoltre una relazione reciproca comune,a seguito del confronto con l’esemplare che ha permessodi riscontrare una stessa somiglianza tra loro. Ciò ha ge-neralizzato l’esemplare e la caratteristica comune deglioggetti simili tra loro si presentava come un riflesso diquella generalità. All’esemplare era stato assegnato unnome e questo è stato dato anche agli oggetti che posse-devano la stessa caratteristica comune.

La descrizione dell’esperimento di Vygotsky è general-mente quella proposta da Hanfmann e Kasanin (1942):

Il materiale utilizzato nei test per la costruzione del con-cetto consiste in 22 blocchetti di legno di diversi colori,forme, altezze e dimensioni. Vi sono 5 colori diversi, 6 for-me, 2 altezze (i blocchetti alti e quelli piatti) e 2 dimensio-ni della superficie orizzontale (grande e piccola). Sul latoinferiore di ciascuna figura, che non può essere visto dalsoggetto, viene riportata una delle seguenti quattro paroleprive di senso: “lag”, “bik”, “mur”, “cev”. A prescinderedal colore o dalla forma, “lag” è scritto su tutte le figuregrandi e alte; “bik” su quelle grandi e piatte; “mur” su tut-te le piccole alte e “cev” su quelle piccole piatte.All’inizio dell’esperimento, tutti i blocchetti (mescolati traloro quanto a colore, forma e dimensione) vengono dispo-sti in ordine sparso su un tavolo davanti al soggetto. L’esa-minatore rigira uno dei pezzi (l’“esemplare”), lo mostra ene comunica il nome al soggetto, chiedendogli di prenderetutti i blocchetti che ritiene possano appartenere allo stes-so tipo. Dopo che il soggetto ha terminato questa primafase, l’esaminatore volta uno dei pezzi scelti in maniera“non corretta”, gli spiega che si tratta di un tipo diverso elo incoraggia ad andare avanti; alla fine di ogni tentativoviene rigirato un blocchetto al quale è stata data una collo-cazione errata. Man mano che aumenta il numero deiblocchetti voltati, il soggetto acquisisce per gradi una basedi riferimento per scoprire a quali caratteristiche dei bloc-chetti rimandino le parole prive di senso.

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Appena il soggetto scopre il meccanismo, le “parole” pas-sano a indicare un tipo determinato di oggetti (ad esem-pio, “lag” i blocchetti alti e grandi, “bik” quelli grandi epiatti), e vengono così costruiti nuovi concetti per i quali illinguaggio non fornisce un nome. Adesso, il soggetto è ingrado di portare a termine il compito di separare i quattrotipi di blocchetti indicati dalle parole senza senso. Così,l’uso dei concetti ha un determinato valore funzionale perla prestazione richiesta dal test.L’uso effettivo del pensiero concettuale da parte del sog-getto nel tentare di risolvere il problema può essere dedot-to dalla natura dei raggruppamenti che egli costruisce edalla procedura che utilizza per costruirli; quasi tutti i pas-saggi del suo ragionamento si riflettono nella manipolazio-ne dei blocchetti. Tutte queste fasi dell’esperimento – ilprimo approccio al problema, il trattamento dell’esempla-re, la risposta alla correzione, la scoperta della soluzione –forniscono dati che possono servire da indicatori del livel-lo di pensiero del soggetto.

La struttura del concetto uno-molti in sé è impor-tante per la psicologia cognitiva, mentre la dimostra-zione sperimentale di Vygotsky riguardo le diverse pos-sibilità (“erronee”) di uso dell’esemplare rivela ancheciò che non avviene nel ragionamento concettuale uno-molti. Due delle possibilità di ragionamento “errato”lo dimostrano chiaramente: il complesso “nome di fa-miglia”, in cui l’esemplare rimane stabile e le caratteri-stiche secondo cui gli altri oggetti vengono trovati affi-ni a esso variano; e il complesso della “catena”, in cui ilcarattere uno-molti si perde perché in un oggetto si ri-scontra una caratteristica affine all’esemplare e nel se-guente viene rilevata un’affinità con il secondo oggettoma per una caratteristica diversa, e così via. Le strate-gie “errate” mostrano l’importanza di mantenere stabi-le l’esemplare e di tentare di ricavare un principio ge-nerale confrontando ripetutamente degli oggetti conl’esemplare secondo le medesime affinità. Alla fine del

IL CONCETTO DI UOMO

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Figura 6. Visualizzando l’esperimento di Vygotsky.

Illustrazione immaginario dell’esperimento di Vygotsky

Primo stadio: quale di questi è un “mur”, “bik”, “cev” o “lag”?

mur

mur

bik

bik

cev

cev

lag

lag

Soluzione del problema, stadio finale concettuale

Parole

Esemplari

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IL CONCETTO DI UOMO

Figura 7. Visualizzando l’esperimento di Vygotsky.

Illustrazione immaginaria dell’esperimento di Vygotsky, 2

Le caratteristiche non rimangono costanti ma variano a ogni passo

Complesso a nome di famiglia

L’esemplare è costante e gli oggetti sono in rapporto a esso e l’uno all’al-tro riguardo alle stesse somiglianze

L’esemplare rimane uguale ma le caratteristiche varianoIl concetto

Complesso a catena

Aggiunto perché il coloreè simile al precedente

Uno è simile per colore Uno per struttura Uno per forma

La forma è simi-le al precedente

La grandezza è si-mile al precedente

mur

lag

lag

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test, l’esemplare non sarà più necessario, poiché è statoriconosciuto che un determinato tipo di oggetto hauno dei nomi che erano stati assegnati ai diversi tipi dioggetto nell’esperimento.

Ci ho pensato a lungo, e mi sono resa conto che laparola in realtà prende il posto dell’esemplare e ne assu-me la generalità. Questo mi ha offerto una seconda ca-ratterizzazione delle parole, che ho potuto aggiungerealla mia precedente descrizione delle parole come doniin grado di soddisfare un bisogno comunicativo. In ef-fetti, la parola-dono era adatta per prendere il posto del-l’esemplare, che non sempre poteva essere dato in quan-to tale e che in genere non poteva forse rimanere stabilea lungo, se non come immagine. La parola, al contrario,con la sua infinita ripetibilità, ha la facoltà di essere “lastessa cosa” anche quando ogni sua manifestazione è inpratica un evento sempre diverso. Assumendo la funzio-ne uno-molti dell’esemplare, la parola contribuisce a or-ganizzare il concetto stesso, così che i componenti delconcetto vengono considerati affini tra loro grazie allarelazione comune con il loro nome, oltre che alla comu-ne relazione con l’esemplare.

Una volta stabilita la relazione di similitudine tra glioggetti in base alle stesse caratteristiche, l’esemplare nonè più necessario e la parola può portare gli oggetti allamente come tipo da sola. Questo perché nella relazioneuno-molti si stabilisce una polarità per cui l’uno è man-tenuto come punto di riferimento mentre i molti sonoconfrontati a esso uno per uno. Prendendo il postodell’“uno”, la parola mantiene la polarità continuando asostenere la relazione dei “molti” fra loro oltre che dei“molti” rispetto a essa (v. Figg. 8 e 9).

L’esemplare o prototipo deve essere tenuto fermo conle sue caratteristiche. Altrimenti, non possono essere co-struiti un tipo o una categoria rispondenti e i nostri pen-sieri potrebbero vagare da un’associazione all’altra. Tut-

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tavia, qualunque cosa appartenente a un determinato ti-po potrebbe essere scelta in origine quale l’“uno”, ed es-sere quindi mantenuta salda quale “esemplare”; poi, unavolta costruita la categoria, l’esemplare potrebbe retroce-dere dalla sua posizione uno-molti e tornare a essere sol-tanto un componente di quella categoria. Sottolineo vo-

IL CONCETTO DI UOMO

Figura 8. Immagini schematizzate degli stadi della formazione delconcetto.

Parola

Parola2.

1.

Esemplare

Cose di un tipo

Il posto del-l’esemplareè preso dallaparola

Le cose sono relazionate l’una all’al-tra come tipo in quanto relazionatealla parola come loro equivalente.

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Figura 9. L’esemplare diventa solo un altro membro dell’insieme, ilsuo posto viene preso dalla parola.

lutamente questo aspetto, poiché ritengo che la posizio-ne dell’“uno” (dell’esemplare) sia stata largamente frain-tesa intendendola come elemento costitutivo nella defi-nizione di genere e perciò eccessivamente enfatizzata, in-

Parola

Parola

Parola

Esemplare

Cose di un tipo

Cose di un tipo

Cose di un tipoCose di un tipo

Altre parole nella langue (gli esemplari ora fanno parte dei molti).

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vestita di privilegi speciali e proiettata nelle strutture del-la società come forme auto similari su molteplici livelli.

Il padre e la sua famiglia, il re e i suoi sudditi, il gene-rale e il suo esercito, il dirigente e la sua impresa ecc., in-carnano la relazione polare uno-a-molti che si costituiscenello sviluppo del concetto. La relazione tra il denaro ele merci1 è anch’essa un’incarnazione del concetto, e pos-siamo servirci di questa relazione polarizzata tra gli og-getti per chiarire e comprendere la relazione uno-moltitra le persone. Anche la relazione tra una persona e lasua proprietà può essere vista come una relazione uno-molti derivante dalla struttura del concetto (investita delgenere), (anche se forse assomiglia più al complesso “no-me di famiglia”).

L’“uno” privilegiato

Privilegiare la posizione dell’esemplare è particolar-mente pericoloso poiché la polarità e i concetti costrui-ti col suo aiuto sono essi stessi, in origine, modi utili einnocenti di organizzare i nostri pensieri e le nostrepercezioni. Si tratta di un livello di pensiero moltoprofondo e basilare, investito dalla tendenza nociva aprivilegiare la posizione dell’uno. Proprio perché è cosìfondamentale, tale “investitura” è difficile da esamina-re, e la proiettiamo all’esterno per riuscire ad affrontar-la. Dal momento che non pensiamo mai di ricondurrele origini del nostro strano comportamento uno-moltiallo sviluppo del concetto, continuiamo a inscenarequesto processo a diversi livelli della società, creandostrutture che potranno interagire tra loro, competere,sostenersi a vicenda e continuare a riprodursi in analo-ghe gerarchie uno-molti. Queste strutture prese insie-me costituiscono quei sistemi sociali auto-propagantichiamati “patriarcati”2.

IL CONCETTO DI UOMO

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All’origine di questi sistemi si trova, ancora una vol-ta, la questione dell’identità di genere maschile e dellamascolazione. Gli uomini sono stati presi come esempla-ri per creare la categoria dell’“umano”. La differenzia-zione di genere della categoria “bambini maschi” dalleloro madri nutrici ha dato l’illusione che i maschi deb-bano diventare “esemplari” (detentori della posizionedell’“uno”), per poter essere inclusi fra gli “umani”. Ledonne li hanno alimentati in tal senso, cedendo il passo,non presentandosi come “une” con le quali i molti si sa-rebbero dovuti confrontare per trovare la loro identitàdi “umano”. Le donne sono apparse carenti, quindi de-ficitarie rispetto alle presunte caratteristiche umane chegli uomini invece possiedono. Il pensiero astratto, l’ag-gressività, l’individualismo, il comando, l’autonomia (ca-ratteristiche che hanno a che vedere con il raggiungi-mento della posizione dell’“uno” attraverso la competi-zione) sono apparsi “umani”, mentre le donne sonosembrate “esseri umani inferiori” poiché quelle non era-no le loro priorità.

Le donne hanno in effetti continuato a praticare ilparadigma del dono, ogni qualvolta ciò non era reso im-possibile dalla scarsità, la guerra, e la violenza individua-le di vario tipo. Ci si è interrogati per secoli sul significa-to del concetto di “umano”, mentre i filosofi hanno con-tinuato a non considerare le donne esemplari appropria-ti per quel concetto. Nel frattempo, il paradigma del do-no (che le donne continuavano a praticare) era e conti-nua a essere la fonte del significato, della comunità epersino della vita stessa.

Quelle che abbiamo considerato caratteristiche chedefinivano il genere maschile sono in realtà proprie dellaposizione dell’“uno”, combinate ai modelli del prende-re-il-posto-di derivanti dal ruolo della parola nella defi-nizione e nel denominare. Questi sistemi vengono fattipropri dai bambini maschi per realizzare la profezia che

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si autoavvera del loro concetto di genere, in quanto dif-ferenti dalle loro madri. La posizione dell’“uno” che de-tiene il padre nei confronti della famiglia in quanto mol-ti, corrisponde a ciò che il figlio dovrà conquistare sevorrà essere chiamato “uomo”. L’ingiunzione edipicanon sarà quindi tanto quella di uccidere il padre, quantoconquistare la sua posizione di “uno”.

La semplice considerazione logica che non tutti pos-sono essere “l’uno” in un sistema polare e che questa siauna caratteristica relazionale e non permanente, puònon apparire evidente ai bambini ancora in tenera età. Ilmandato del genere maschile sembra recitare: “Sii diver-so dalle donne e cresci per essere uguale o più grande dituo padre, per essere in grado di assumere la sua stessaposizione e meritare così l’appellativo di ‘uomo’”.

Il bambino è relazionato all’esemplare donante, pri-ma di cominciare a comprendere le implicazioni delladenominazione del suo genere; poi, la parola “bambi-no” lo sottrae dalla categoria della madre. Così, il ruolopaterno di appropriazione e di predominio potrebbe de-rivare dalla capacità della parola di allontanare il bambi-no dal suo identificarsi con la madre. La capacità dimettere le cose in categorie sembra essere una prerogati-va del padre e un aspetto del ruolo dell’“uno”: il padre èla norma (come il denaro), e questa norma ha la capacitàdi parlare e (poiché prende il posto dell’esemplare ma-dre) di essere la parola, che crea categorie e divide. Ognigiudizio rimanda al potere che lui (o la parola che è ladenominazione del suo genere) sembra aver avuto, perdividere il maschio dalla femmina.

Il rapporto che il bambino ha con il padre diventa d’in-feriorità, il rapporto dei molti rispetto all’uno, della pro-prietà rispetto al proprietario, delle cose rispetto alla paro-la o all’esemplare (un esemplare che non alla pratica il do-nare). La mascolazione è una sorta di dis-umanizzazioneoriginaria, poiché il modello del padre è oggettivato, come

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una cosa non umana. Le donne vengono definite come“non (nemmeno) quello”, mentre il rapporto tra i membridel concetto di “uomo” è sopravvalutato.

Nel racconto biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli,la situazione è quella di molti fratelli che competono traloro per assumere la posizione dell’“uno”, l’eredità delpatriarca; il sogno di Giuseppe sui covoni di grano conil sole, la luna e le stelle che s’inchinano dinanzi a luiesprime simbolicamente questo tipo di relazione. Quan-do un bambino prende il padre come esemplare per for-mare il concetto di sé, egli è parte dei reali o potenziali“molti” rispetto all’“uno”. La sua identità di genere puòsembrare corrispondere a una lotta competitiva con glialtri membri dello stesso genere per conquistare la posi-zione dell’“uno”; il padre probabilmente farà lo stessonella sua vita lavorativa. Prendere-il-posto-di può appa-rire inoltre come il mandato del ruolo di genere in quan-to i maschi prendono-il-posto delle femmine; e l’esem-plare maschio (e la parola) prende-il-posto dell’esempla-re femmina e della sua pratica del dono.

Così, quello che i bambini percepiranno in tenera etàquale loro ruolo di genere è l’incarnazione della posizio-ne dell’esemplare stesso, e una parziale incarnazione del-la parola. Trovarsi sullo stesso livello dell’esemplare o es-sere come lui, e prendere-il-posto di altri diventa fonda-mentale per l’identità maschile, mentre l’orientamentoverso l’altro e la pratica del dono restano principi propridell’identità femminile. Fare del maschio l’esemplare perla formazione del concetto di “umano” elimina l’impor-tanza percepita del donare. Le femmine (e altri maschi)continuano ciononostante a donare ai maschi le cui iden-tità sono costruite in questo modo, privilegiandoli e so-prattutto premiando coloro che raggiungono la posizio-ne dell’“uno”. Perciò, la pratica del donare sostiene taleprocesso di costruzione dell’identità, persino quando neè negata l’esistenza ed essa è giudicata un comportamen-

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to “inferiore” (meno che umano) e “istintivo”. La praticadel dono permea le attività umane ed è ancora il mezzocon cui trasmettiamo beni e messaggi, comunichiamo eformiamo la nostra comunità; essa è stata tuttavia altera-ta, e utilizzata per gli “uni” contro i “molti”. A tutti vieneinsegnato sin dai primissimi giorni di vita di mis-cono-scere la pratica del dono e assegnarle altri nomi (“atti-vità”, “lavori domestici”, “tempo libero”, “plusvalore”,“profitto”). È solo dal momento in cui cominciamo a ri-conoscere le dinamiche dei due paradigmi, che possiamoinfine dare il giusto valore e attribuire i nomi appropriatialla pratica del dono.

Il Verbo incarnato

Nel processo di mascolazione, i maschi si incarnanocome doni sostitutivi, prendono-il-posto della madre,adottano l’esemplare del padre e rinunciano al donare3.È il momento del “peccato originale”, quando il bambi-no scopre che non potrà partecipare al modello comuni-cativo del donare materiale a causa della definizione delsuo genere.

Forse il maggiore (e minore) errore dell’umanità èstato dare alle figlie e i figli nomi di genere distinti, unerrore inconsapevole ma terribile, pesante come unframmento della piuma sulla bilancia di Maat. Ci chie-diamo a volte perché lo Spirito del Bene non ci abbia di-strutto, dati tutti gli orrori che abbiamo commesso, ge-nocidio, violenza, stupro etnico, violenza e percosse suibambini, distruzione e inquinamento di mari e terre, as-sassinio di specie e individui, tortura fisica e mentale;forse perché l’origine di tutti questi orrori sta in quel-l’innocente equivoco, così facile da compiere.

Abbiamo incarnato la parola, il processo del denomi-nare stesso, e la parola che abbiamo incarnato è “ma-

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schio”. Non era altro che una parola, ma abbiamo la-sciato che dominasse sulla nostra psicologia e sulle no-stre strutture sociali; l’abbiamo usata per alienare metàdell’umanità dalla norma del donare.

Dopo aver alienato i nostri figli nella categoria del non-donare, noi (madri e padri) attribuiamo loro una posizio-ne iperprivilegiata e li ricompensiamo, dando loro di piùche alle nostre figlie. In seguito, cerchiamo di insegnare lo-ro l’altruismo attraverso la moralità dell’autoritarismo e iprecetti religiosi derivati dalla “Legge Divina”. Ci chiedia-mo poi perché sia così difficile riuscirci, e per spiegarne ladifficoltà affermiamo che la “natura umana” è crudele.

Ci troviamo ora davanti a un bisogno comunicativoper tutta l’umanità: il bisogno di un nuovo termine chepossa mediare le nostre relazioni con i nostri figli/e. Ab-biamo bisogno di una nuova parola-dono per tutte quel-le piccole creature che sono il nostro dono migliore allanostra comunità, al futuro e a loro stessi/e. Facendo usodi questa nuova parola-dono, di un termine per entram-bi i generi, potremmo smettere di alimentare quei pro-blemi che stanno distruggendo le nostre specie, le nostremadri e la Madre Terra.

1 Cfr. il discorso di Marx sul denaro come “equivalente generale”, nelprimo libro del Capitale (1867-94).

2 L’esperimento di Vygotsky ha dimostrato la capacità dei bambini/e diidentificare consapevolmente i concetti e di utilizzare le strategie di pensieroconcettuale nella pubertà. Studi più recenti della psicologia dello sviluppohanno mostrato che i bambini/e sembrano utilizzare il modello della rela-zione basata sul prototipo sin dall’infanzia. A mio avviso, l’esperimento diVygotsky ha verificato un determinato livello di coscienza nell’uso del con-cetto. È interessante notare ciò che Carol Gilligan et al. (1990) hanno scrittoriguardo la scelta che operano le fanciulle in età puberale tra due modalità,che mi sembrano molto simili a quelle del dono e dello scambio. Forse sia ilpensiero uno-molti che la tendenza a privilegiare il maschio raggiungono unnuovo livello di enfatizzazione nella pubertà.

3 La transizione stessa somiglia moltissimo allo scambio come vedremonel capitolo Il mercato e il genere.

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Capitolo sestoLe categorie “marc-siste”

La co-muni-cazione crea l’inclusione mutua dei co-municatori, riguardante tutte le diverse parti del loromondo. Denominare i generi divide sin dall’inizio i co-municatori in due categorie opposte, che si escludono avicenda, contraddicendo l’inclusione mutua della co-municazione. Come i due modelli opposti del dono edello scambio, i generi entrano in una sorta di comple-mentarità, benché non stiano insieme in modo esatto.Sopravvalutare la dominazione rende difficile sia l’inclu-sione mutua sia i legami connessi con il dare e il riceverecreativo. Alcuni sviluppi bizzarri, come considerare ildominare e il sottomettersi come inclusione mutua, pos-sono sembrare talvolta la soluzione definitiva della con-traddizione; donare al dominatore può strutturarsi in unmodello permanente, come nel caso dei cosiddetti “va-lori della famiglia”.

Nella distinzione dei generi, gli aspetti del linguaggioche riguardano il donare e il “cedere il passo” vengonocosì identificati come comportamenti propri delle fem-mine biologiche, mentre gli aspetti della sostituzione edella categorizzazione vengono assegnati ai maschi.Questi due ruoli si sviluppano alla fine in pratiche di cu-ra “svuotate di potere” da una parte, e indominazione/scambio dall’altra. L’aspetto di esclusionereciproca tra i generi viene dal linguaggio stesso, nelquale “femmina” e “maschio” sono legati da un rappor-

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to di opposizione diretto1. Così, per sviluppare un com-portamento che si suppone appropriato per il portatoredel termine che identifica il proprio genere, basterebbeosservare il comportamento dell’altro genere e fare sem-plicemente l’opposto.

In uno dei primi saggi sugli universali del linguaggio,Joseph Greenberg (1966) discute di categorie linguisti-che “marcate” e “non marcate”, che si riscontrano al li-vello fonologico, grammaticale e lessicale di termini inopposizione. Ad esempio, termini quali “basso” e “al-to”, “largo” e “stretto”, “su” e “giù” rappresentano gliestremi opposti di un continuum; uno di questi oppostiè generalmente la norma linguistica. Nella domanda“How old is the girl” (“quanti anni ha la ragazza”) enon “how young (“giovane”)”, “old” è la norma, ciò chei linguisti chiamano termine “non marcato”. SecondoGreenberg, man (“uomo”) è il termine “non marcato”,mentre woman (“donna”) è “marcato”. A mio parere, leespressioni meta-linguistiche “marcate” e “non marca-te” sembrerebbero invertite: il termine più generale epiù inclusivo dovrebbe essere infatti “marcato” (e ri-chiamare così la nostra attenzione), mentre il meno in-clusivo “non marcato”; invece, mentre il termine di mi-nore rilevanza ha un “segno” aggiuntivo, che può essereun prefisso o un suffisso, il termine di maggiore rilevan-za, chiamato “segno zero” non ha alcuna aggiunta. Adesempio, in inglese il plurale si forma aggiungendo alsingolare una “s”, ma il “plurale” è la categoria “marca-ta”, e il singolare “non marcata”. I termini stessi che de-signano le due categorie hanno un significato curiosa-mente invertito: “marcato” (marked) non è marcato,mentre “non marcato” (unmarked) è marcato.

Greenberg cita l’articolo di Jakobson che definisce ladistinzione: “Il significato generale di una categoria “mar-cata” attesta la presenza di una determinata proprietà ‘A’;il significato generale della categoria “non marcata” corri-

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spondente non attesta nulla circa la presenza di ‘A’ ed èutilizzato principalmente ma non esclusivamente per indi-care l’assenza di ‘A’”. Poi Greenberg prosegue, aggiun-gendo: “Dunque, seguendo la teoria di Jakobson, ‘donna’attesta la presenza della categoria ‘marcata’ ‘femminile’,mentre ‘uomo’ è utilizzato principalmente ma non esclu-sivamente per indicare l’assenza di ‘femminile’”.

Tale analisi è “contro-intuitiva”, per le donne chehanno imparato alla “dura scuola della vita” che l’essereuomo costituisce la proprietà rilevante ed è proprio lamancanza di tale caratteristica a definirci come donne.Greenberg afferma ancora che “‘uomo’ ha due significa-ti: indica sia l’assenza esplicita di ‘femminile’ nell’ambitodel significato ‘essere umano maschile’, ma anche l’‘esse-re umano in generale’”. Secondo Greenberg, dunque, iltermine che indica l’assenza del “femminile” include il“femminile” stesso laddove esso viene usato in terminigenerali. Le donne sono incluse, mentre il “femminile” èesplicitamente indicato come assente.

Mi diverte fantasticare che se gli uomini e le donnefossero parole, gli uomini sarebbero il termine “marca-to”, con il prefisso del fallo – perciò, secondo questa teo-ria, di minore importanza, differenti –, mentre le donnesarebbero il segno “zero”, senza alcun prefisso, perciò dimaggiore rilevanza e rappresenterebbero dunque la nor-ma. Se è vero che “uomo” è definito in funzione dell’as-senza della proprietà femminile, che cos’è questa “pro-prietà”? La proprietà delle donne non è altro che l’assen-za della proprietà distintiva, della “marca” ed è (anche)l’assenza di proprietà nel senso di proprietà privata. Ledonne sono perciò la norma, in quanto “esemplari” man-canti e non accettati della specie umana.

È sulla base dell’assenza dell’esemplare femminileche gli uomini definiscono se stessi e definiscono l’uma-nità. Il fallo sarebbe il doppio negativo: l’assenza dell’as-senza. (Jacques Lacan parla di “mancanza della mancan-

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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za”). Non deve stupirci che tanto i bambini/e quanto ilinguisti siano confusi/e. E il termine stesso wo-man(“donna”) non è altro che man (“uomo”) con l’aggiuntadi un prefisso, il quale nasconde probabilmente il fattoche la madre ne è in realtà fisicamente priva. La diffe-renza, il suo non avere una “marca” (della donna), vienevisto come la sua (di lei) differenza, come una mancanzarispetto alla norma alla quale il bambino maschio è inve-ce simile. In tal senso, il termine mankind (“l’uomo, l’u-manità”) illustra bene il problema. Prendendo il falloquale “marca” degli uomini e gli uomini quali “esempla-ri” della specie, le donne appaiono “in difetto”, membri(sic) di un genere inferiore.

Lo stesso essere norma è diventato una caratteristicapropria del genere maschile e il fallo è diventato una“marca” della norma, paradossalmente, dal momentoche la norma è marcata. Il termine “maschile” e tutte lealtre parole utilizzate per la dominazione attraverso ladefinizione vengono investiti fallicamente, a causa del-l’affinità tra il mandato del genere maschile e la defini-zione stessa (dal quale esso deriva). Il termine “maschi-le” si appropria dei maschi stessi, quelli che hanno una“marca”, i quali a loro volta diventano appropriatori eutilizzano la propria “marca” per dominare o prendereil sopravvento. Dalla loro posizione di “autor-ità” resapossibile grazie alle loro “marche”, essi utilizzano le loroparole per definire e conquistare.

La comunicazione verbale tra gli uomini e le donnedovrebbe perciò tentare di creare un’inclusione mutuatra coloro che vengono definiti culturalmente come dia-metralmente opposti, in cui un estremo viene definito“superiore” all’altro, norma marcata ed “esemplare” perla specie. Le contraddizioni logiche che tale situazioneimplica creano doppi legami (double binds) dannosi, chela società non ha ancora risolto. Infatti, molti meta-mes-saggi riguardanti il genere sono orientati sull’ego, sono

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costruiti in funzione della logica dello scambio e confer-mano la superiorità del genere maschile. Questo librovuole essere un tentativo di meta-messaggio alternativodel dono riguardo le categorie di genere, rispondente albisogno di abolirle.

La sostituzione sopravvalutata

Dal momento che ai maschi “mascolizzati” viene at-tribuito socialmente un valore maggiore, allo stesso mo-do viene data maggiore attenzione all’aspetto linguisticodella sostituzione, che esercita così il proprio dominio,nella nostra comprensione, sull’aspetto del donare comepratica. Si sviluppano quindi alcuni modelli auto-riflet-tenti che esprimono la natura contraddittoria del generebasato sul linguaggio, perpetuandolo. La sostituzione, oil prendere-il-posto-di, diviene dominazione e si ripro-duce, prendendo il posto del donare che lo alimenta;l’uomo prende il posto della donna quale modello del-l’essere umano, e le donne continuano a donare agli uo-mini e a dare valore al modello maschile; il comporta-mento maschile della dominazione e della competizioneprende il posto della non competizione, della pratica deldono e del cedere il passo. Questi comportamenti ripro-ducono gli aspetti dei meccanismi di servizio e sostitu-zione che abbiamo visto nella definizione; dare valore èun aspetto del donare, che continua a sostenere la domi-nazione-sostituzione nella nostra società.

Al livello del linguaggio, diamo valore ai doni sostituti-vi che sono le parole, mentre al livello dei generi diamo va-lore al sostituto, all’uomo che prende il posto della donna(e di altri uomini). La nostra attenzione si concentra su co-lui che prende il posto, e non più sulla Madre Terra o sullamadre, o su qualsiasi donatrice, colei il cui posto è statopreso. La pratica del donare diventa a sua volta inferiore

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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(non le viene attribuito alcun valore) rispetto alla sostitu-zione, che è stata generalmente privata dei suoi aspetti didono così da apparire completamente l’opposto del dona-re. Così, in economia, lo scambio – che è un meccanismodi sostituzione e di cedere il passo – sostituisce, secondoun meccanismo auto-similare, l’intero sistema della praticadel dono, che cede il passo (v. Fig. 10).

Un’altra espressione della mascolazione è l’uso del-la definizione e della denominazione per controllare il

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Figura 10. Il prevalere e il cedere il passo a diversi livelli].

1

2

3

4

5

6

La parola

L’esemplare

Il maschio

La femmina

Il modello della sostituzione (pre-vale)

Il modello della pratica del dono(cede il passo)

La dominazione e la competizione(prevalgono)

La pratica del dono e il cedere ilpasso (cedono il passo e danno va-lore alla dominazione e alla compe-tizione)

Il denaro (prevale)

Il prodotto (cede il passo)

Lo scambio (prevale)Il denaro (prevale)Il prodotto (cede il passo)

La pratica del dono (cede il passo)

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comportamento degli altri attraverso il comando el’obbedienza (il cedere il passo della volontà). Quandoai membri che rappresentano metà della comunità èstato assegnato il mandato di essere “non nutritori”, èdifficile convincerli che dovrebbero esserlo nei mo-menti appropriati e in misura limitata. Così i bambinipotrebbero essere paradossalmente picchiati (un “so-pravvento” fisico) per non aver donato o ceduto ilpasso, per essere stati disobbedienti o aver mostratomancanza di rispetto. La moralità e la legge sono an-ch’esse strutturate in funzione del comando e dell’ob-bedienza, della dominazione della parola. La vendettae la rappresaglia sono le conseguenze della disobbe-dienza; e viene data la “giusta” punizione in cambiodell’inosservanza della legge. Il donare viene fatto ap-parire non realistico, mentre sarebbe necessario prati-care non tanto la “giustizia” – basata sulla definizione,la mascolazione e lo scambio – bensì l’empatia, la riaf-fermazione del paradigma del dono e del modello del-la pratica materna.

Una comunità divisa

Ognuno all’interno della comunità fa a turno neiruoli di parlante e di ascoltatore (donatore e riceventelinguistici). La co-municazione avviene certamente an-che tra le persone di uno stesso genere, così che i par-lanti e gli ascoltatori (i donatori e i riceventi) possonoanche appartenere allo stesso sesso. Ciascun genere svi-luppa il proprio tipo di co-munità d’inclusione mutuacon quelli dello stesso sesso, mentre tenta di colmare l’e-sclusione mutua formando una co-munità con quelli delsesso opposto.

Vi sono così due processi differenti per ciascun gene-re. Se formare la co-munità dà origine al tempo stesso

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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alle nostre identità individuali, vi saranno due tipi d’i-dentità per ciascun genere: un’identità costruita a parti-re dalla co-municazione con lo stesso sesso e un’altra co-struita dal co-municare con il sesso opposto. (Le dona-trici donano alle donatrici; esse inoltre donano e “cedo-no” a chi è impegnato a prendere-il-posto-di; chi pren-de-il-posto forma una comunità di simili che sono anchein competizione per prendere ognuno il posto dell’al-tro.) I principi basilari del meccanismo della co-munica-zione – il donare e la sostituzione – vengono inscenatinei due ruoli di genere in opposizione.

Gli usi impropri della definizione e della denomina-zione – che sarebbero stati altrimenti processi e mecca-nismi linguistici relativamente neutrali e benefici per lacollettività – sono resi possibili dall’invisibilità della pra-tica del dono, nel linguaggio e nella vita. Essi sono tantole cause quanto il risultato della mascolazione e dell’an-nullamento del modello della pratica materna. La resti-tuzione della pratica del dono alla nostra visione del lin-guaggio e della vita (così come la restituzione dell’ideadi servizio e di soddisfazione del bisogno comunicativoalla definizione e alla denominazione) può indebolire ilpossesso patriarcale di un processo reificato e disuma-nizzato di definizione, togliendo l’investimento fallicodella parola.

I valori della famiglia

In realtà, il modello della pratica materna è stato te-nuto all’interno della famiglia, svuotato di potere, e nonesteso al resto della società. È stato interpretato dallaideologia di destra come subordinato al modello domi-nante del padre. Le famiglie costruite su tali, oppressivi,“valori della famiglia” sono la chiave di volta del patriar-cato. In essi, chi svolge le pratiche di cura e le pratiche

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del dono viene catturato nel servizio (permanente) diun’altra persona che la dominerà e usurperà la sua posi-zione di modello per i figli – un fatto che la rende al tem-po stesso un modello di debolezza e di subordinazioneper le figlie. Invece, la pratica materna può rappresentareil fondamento ragionevole e realizzabile delle nostre isti-tuzioni sociali, e la pratica del dono può essere riscattatacome principio di un ordine sociale migliore.

Con questo non intendo dire che lo stato patriarcaledovrebbe cooptare le pratiche di cura, come già è statotentato con diversi tipi di scambio mascherati da doni eda programmi assistenziali. Negli USA, gli aiuti al “TerzoMondo” all’interno e fuori del paese sono quasi sempreuno scambio nascosto che va a beneficio dei “donatori”e a detrimento e umiliazione dei “riceventi”. Le pratichedi cura a partire dal modello maschile, seppure un mo-dello maschile collettivo, non hanno funzionato, comehanno dimostrato molti esempi, pagati a caro prezzo, dicomunismo (capitalismo di Stato) e di burocrazia2.

I governi, piuttosto, dovrebbero essere ri-organizzatiper essere liberati dalla rivalità per il predominio, cosìche gli individui e i gruppi relativamente piccoli possanoprendere parte alle pratiche di cura vicendevoli; una taletrasformazione esigerebbe poi la creazione di abbon-danza con la cessazione dello sperpero. Attualmente lapenuria viene creata artificialmente mediante la spesasuperflua di prodotti che non alimentano la vita, arma-menti, droghe, e beni di lusso simbolici. Tali sperperiesauriscono l’economia dei molti, assicurando il perdu-rare dei sistemi di sfruttamento socio-economici patriar-cali e il privilegio e il potere dei pochi.

È importante vedere il linguaggio come uno stru-mento a partire dal quale organizzare la società, poichéesso ha la proprietà di essere sia individuale sia sociale,sia nella nostra mente sia in quella dei nostri gruppi. Co-me fondamentale fattore creativo nella formazione delle

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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nostre identità individuali e collettive, esso contribuiscea colmare il divario tra il singolo e la collettività.

Lo scambio, costituito da un meccanismo di sostitu-zione e di cedere il passo come derivato della definizio-ne, è un archetipo auto-riflessivo molto potente, che cispinge a interpretare ogni cosa a sua immagine e somi-glianza, nascondendo al tempo stesso la pratica del do-no. Se riusciamo a individuare, comprendere e demisti-ficare i suoi meccanismi restituendo il principio del do-nare in abbondanza alla nostra idea di linguaggio, po-tremmo utilizzare il linguaggio come una guida per crea-re una società della pratica materna, qui, sulla MadreTerra. La pratica del dono e i suoi valori sono già dispo-nibili; dobbiamo soltanto modificare la nostra prospetti-va, togliendoci gli occhiali del patriarcato per vederli.

Categorie prive di genere

Anche quando parliamo del Bene o della Giustizia,che sembrano termini “non marcati” e di genere neu-tro, abbiamo davanti gli uomini come modelli, non ri-conosciuti tali. Il Bene è carico di immagini e figure didei maschili, mentre la Giustizia dipende generalmen-te da giudici maschi e leggi maschili. Il valore dato al-l’eguaglianza, importante fattore nella forma concet-tuale uno-molti e principio fondamentale della masco-lazione e dello scambio, favorisce anch’esso il perpe-tuarsi del modello maschile (le madri si prendono curadei bambini che sono diversi da loro, non uguali). Leimmagini e gli attori maschili portano con sé i valoriche sono stati dati loro socialmente, incluso il privile-gio della loro “marca”.

Inoltre, le categorie apparentemente neutre vengonoelevate a categorie speciali alle quali dovremmo cercaredi appartenere. Sono una sorta di stato di esistenza arti-

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ficiale “non marcata”, una norma più ampia nella qualei bambini piccoli, che hanno dovuto rinunciare alla cate-goria delle madri, possono sforzarsi di rientrare, inquanto adulti, senza subire il terrore del bisogno illuso-rio di castrazione. Comportandosi secondo le leggi, i co-mandamenti, le regole e le disposizioni dei padri posso-no diventare simili ai loro padri e fratelli, che in questonon sono poi tanto differenti dalle loro madri, dal mo-mento che le regole sono valide per tutti, anche se gliuomini hanno maggiore autorità.

Quando diventano adulti, i bambini possono così inparte spogliarsi della differenza immaginata che ha dete-riorato la loro integrità primordiale, la completezza e l’i-dentificazione con le loro madri, l’esperienza originariaautentica che hanno dovuto negare dopo aver scopertodi appartenere all’altra categoria. Le loro madri e le altredonne vengono “elevate” a un livello di equità con loro,poiché seguono le stesse regole e hanno teoricamente glistessi privilegi.

Le categorie neutre, oggettive (“imparziali”), promet-tono una sorta di utopia alla quale i bambini possonoambire se si comportano bene o se tutti si comportanobene. Comportandoci in modo da poter entrare a farparte della categoria dei “buoni” (o anche “democratici”e “americani”), sembra che abbiamo una possibilità disuperare l’estraniazione originaria dovuta alla presenza oalla mancanza della “marca”, la differenza di genere. Aquesto punto voglio insistere sul fatto che questo tristepercorso non è necessario, poiché l’estraniazione origina-ria non è necessaria. È l’interpretazione sociale di genereche estrania il bambino piccolo dalla madre, a causa del-la sua “marca”; e noi possiamo cambiare un’interpreta-zione sociale. Il bambino è in realtà ancora un membrodella categoria umana, che ha come modello la madredonatrice, così come la bambina. La “marca” è in realtàirrilevante rispetto alla categoria umana, sin dall’inizio.

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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“Um”

Gli adulti socializzano i figli a questi ruoli sia attraver-so il loro comportamento sia ricordando costantementeal bambino di essere maschio, dirigendolo verso l’iden-tità del padre, lontano dall’identità donatrice interattivadi cui fa esperienza ogni giorno con la madre (la questio-ne è ancora più grave se il padre non è mai disponibile eil figlio vede soltanto altri uomini per strada o in televi-sione). Noi adulti separiamo l’identità concettuale delbambino dalla sua esperienza; lui cerca soltanto di utiliz-zare il linguaggio riguardo a se stesso, così come lo usariguardo ad altre cose per capire che cosa sono.

In modo analogo, una bambina apprende dalla so-cietà che la categoria alla quale lei e la madre apparten-gono è “inferiore”, che spesso non è neppure distingui-bile come categoria e che la madre, che è ancora il suomodello, dà probabilmente valore al maschio con la sua“marca” più di quanto ne dia alla figlia, a se stessa o alproprio genere.

Un altro effetto della mascolazione è che il privilegia-re un genere, un tipo, piuttosto che un altro sembra es-sere legato a una “marca”. Il denaro, l’automobile, ipossedimenti funzionano come “marche” di classe; ilcolore della pelle, l’altezza e altre differenze fisiche fun-zionano come “segni” di categorie razziali o culturali.Ma tutte queste dinamiche hanno origine nella “marca”fallica, e nel definire la differenza tra il bambino e la ma-dre in base a una differenza fisica; promuovono l’idea diun “deviato” privilegiato. E sembra così che dovremmocomportarci ossessivamente in modo mascolato dal mo-mento che ognuno è legato alla (propria) “marca”.

Il denaro ad esempio, come il fallo, è la “marca” chesembra identificare la norma. Esso dequalifica la norma(del donare) il cui posto è stato preso, rendendo “inferio-re” chi non ce l’ha. Anche altri tipi di caratteristiche co-

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me la pelle bianca possono funzionare come “marche”della norma imposti culturalmente, per cui gli altri coloridella pelle verrebbero interpretati come categorie “man-canti” o “meno normali”. Ciascuna di noi agisce secondola definizione che ha di sé, come fanno i bambini e lebambine; seguiamo ciecamente le profezie che si autoav-verano dei nomi della nostra categoria, che recano in séle interpretazioni sociali sbagliate delle nostre differenzefisiche e non fisiche. Oppure potremmo affrontare leprofezie e contraddirle. Sarebbe più facile cambiare ledefinizioni, che cambiare la vita e i modelli sociali che so-no ormai già distorti a loro immagine e somiglianza.

Sia le donne sia gli uomini possono imparare (e moltilo stanno già facendo) a parlare ai figli/e riguardo il ge-nere a partire da un meta-livello, dicendo loro cose tipo:“Le parole che usiamo per parlare di noi non sono pro-prio esatte. Noi siamo un po’ diversi rispetto a comesembrerebbe: anche se diciamo ‘maschio’ e ‘femmina’,‘bambino’ e ‘bambina’, ‘mamma’ e ‘papà’, siamo tuttiumani. In realtà apparteniamo tutti a una stessa catego-ria”. In effetti, quando i figli/e sono piccoli/e, devonoanche riuscire a non tenere conto di altre differenze fisi-che importanti (come l’essere grandi o piccoli), per esse-re in grado di concepire la categoria “umana” e conside-rare se stessi parte integrante di questa categoria. Hannosenza dubbio una mente abbastanza aperta per non te-nere conto della differenza tra i genitali per definirsi, senoi non imponiamo loro altrimenti.

Consideriamo il modo in cui la gente che ha dei fi-gli/e piccoli/e parla di genere; quando sono vestiti/e, ibebè, femmine e maschi, sembrano molto simili tra loroe il genere è la prima cosa di cui la gente chiede (“è unmaschio o una femmina?”); persino l’abitudine di distin-guerli/e per il colore che indossano, azzurro o rosa, puòin realtà trarre in inganno. Non dovremmo imporre deglistereotipi sui nostri figli/e, ma piuttosto consentire loro

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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di crescere attraverso le interazioni della pratica del donoe di prendere coscienza di ciò che sono mentre crescono.Dovremmo forse permettere loro di scegliere il propriogenere nella pubertà, secondo la loro preferenza sessua-le, accogliendo la loro scelta con rituali e celebrazioni;non dovremmo opprimerli/e con una profezia che si au-toavvera, che li/e aliena da noi e da loro stessi/e.

Potremmo pensare che i bambini non siano abbastan-za intelligenti o abbastanza logici per cogliere queste di-stinzioni; ma se così fosse, sarebbe probabilmente perchéli abbiamo confusi sin dall’inizio caricando i termini delleloro identità con tali differenze complicate e false. Non lofacciamo soltanto a un livello individuale: fa parte ed è ilprodotto della tendenza sociale misogina nell’insieme. Lacategorizzazione stessa è diventata uno strumento di op-pressione legato alla valutazione economica di ogni cosain funzione del suo prezzo. Ma la pratica del dono e lasoddisfazione del bisogno sono più importanti della cate-gorizzazione per il benessere dell’umanità. La categoriz-zazione è stata soltanto distorta ed eccessivamente enfa-tizzata come conseguenza della mascolazione.

Potremmo anche evitare la mascolazione abolendotutti i termini di genere per i bambini/e: potremmo chia-marli/e ad esempio “um”, come diminutivo di“umane/i”, e dire così “come stai, um?”; alla domanda “èmaschio o femmina”, potremmo rispondere “è um”, op-pure potremmo semplicemente canticchiare3. Magari an-che gli adulti potrebbero cominciare a riferirsi a se stessinello stesso modo. Questo risolverebbe il problema dell’i-dentità mascolata basata sulla separazione, della definizio-ne di “femmina” come inferiore e della sopravvalutazionedel neutro o oggettivo, evitando d’imporre false distinzio-ni a priori. Il pene non è un dono speciale o una “marca”di una categoria superiore; è soltanto una parte del corpo.

Con ciò non intendo ignorare le caratteristiche posi-tive e vitali delle differenze sessuali, ma liberarle dagli

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stereotipi e in particolare dall’ossessione di mascolazio-ne che sta uccidendo noi e la nostra Madre Terra. È for-se perché non possiamo sentire la Terra dire “Siete co-me me! Fate parte della mia stessa categoria di chi do-na!”, che abbiamo fatto questo? Oppure non riusciamoad ascoltarla proprio perché abbiamo questa ossessio-ne? In quanto specie, ci siamo definiti qualcosa (“Uo-mo”) che è “altro” rispetto alla Madre, e dobbiamo agi-re secondo la nostra profezia che si autoavvera.

In altre parole, abbiamo fatto la stessa cosa con la Ma-dre Terra di quello che abbiamo fatto da bambini maschiguardando le nostre madri umane: abbiamo negato la no-stra affinità identificandoci come “qualcos’altro”, ma nonsappiamo in realtà di che cosa si tratti (così abbiamo fini-to per identificarci con la parola stessa). Il nostro esem-plare sembra essere un dio maschio proprio come noi,nell’alto del cielo più grande e più importante della Ma-dre. Noi cerchiamo di comportarci come lui dice di com-portarci, inventiamo una grande catena gerarchica dell’e-sistenza, di dominare e di cedere il passo e ci dimentichia-mo degli impulsi dei nostri cuori volti a donare.

Se ai bambini viene data fiducia e li si lascia giocare amodo loro, tuttavia, essi diventeranno molto intelligentie creativi, come ha scoperto Maria Montessori. Dobbia-mo lasciare che le definizioni di noi stessi si sviluppino apartire dalla nostra esperienza e dalla nostra libera atti-vità – il gioco, la creatività, le interazioni del donare –colmando di realtà vitale il nostro periodo più sensibiledi apprendimento. Non dovremmo far sì che i nostri fi-gli/e cerchino di adeguarsi alle categorie adulte di gene-re di opposizione preesistenti. Questo è più facile quan-do vi è abbondanza, e quando l’esperienza del bambi-no/a non è inaridita dall’abuso o dalla penuria.

Forse “um” (hum) può anche valere per “humus”, laterra, il terreno che noi e le nostre culture globali siamol’uno/a per l’altro/a, le basi dalle quali cresciamo e alle

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quali ritorniamo. Forse potremmo finalmente agire se-condo la pratica del dono, perpetuando la condizioneoriginaria madre-figlio/a, lasciandola infine fiorire sen-satamente e liberamente nella società intera.

Un esperimento personale

Non è difficile in realtà modificare il linguaggio che in-segniamo ai figli/e. Io stessa l’ho tentato, negli anni Ses-santa, con la mia figlia maggiore, Amelia: con lei ho evita-to di usare il pronome possessivo, non insegnandole “ilmio”, “la mia” o “la sua”. Dal momento che la madre èl’esemplare originario, una bambina apprende da lei, sen-tendola parlare, più che da altri/e, ho anche chiesto allepersone che erano con noi di evitare l’uso dei possessivi.Amelia li ha poi sentiti, alla fine, da altre persone che co-noscevamo meno, alla radio ecc. Cercavo di aggirare i casicritici, dicendo “papà lo usa”, invece che “è di papà”. Èinteressante notare che lei non ha appreso i possessivi fi-no ai tre anni circa, sebbene a quell’età parlasse già bene.

So in quale situazione li apprese: voleva giocare con ipiatti, e una persona le disse: “Non toccarli, sono di tuamadre”. Ho sempre pensato che fosse a causa della mo-tivazione illogica (in realtà non avrebbe dovuto giocarciperché potevano rompersi, non perché erano miei), uni-ta al fatto che la persona che possedeva i piatti ero io, lamadre, che mia figlia abbia infine cominciato a utilizza-re quella categoria. È difficile dire se il fatto di non im-parare i possessivi abbia reso mia figlia più generosa diquanto non sarebbe stata altrimenti, o se addirittura ab-bia avuto un effetto seppure minimo su di lei: l’esperi-mento è finito troppo presto, c’erano troppe variabili efarlo da sola non credo fosse realmente efficace.

D’altra parte, però, non l’ha neanche danneggiata;l’aggettivo possessivo non è tanto basilare quanto il gene-

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re e, comunque, la vita ha assorbito qualsiasi negativitàche potesse rimanere implicata. Evitare l’uso dei terminidi genere sin dalla tenera età potrebbe, tuttavia, avere ef-fetti concreti sul concetto che ha una bambina o bambi-no di sé, specialmente se viene messo in atto nel loro pe-riodo più sensibile di apprendimento del linguaggio.

Potremmo anche utilizzare termini androgeni nellescuole materne; potremmo parlare ai bambini/e dei ter-mini di genere a partire da un meta-livello su SesameStreet e Mr. Roger’s Neighborhood; potremmo dareesempi televisivi di madri e figli/e che usano termini pri-vi di genere, definendo le loro categorie come parte diun genere umano comune. Penso che anche in questocaso la vita correggerebbe qualsiasi eventuale elementonegativo che dovesse comportare l’esperimento.

Le donne hanno compiuto una tale differenziazionedel linguaggio negli ultimi decenni, eliminando la termi-nologia sessista. Potremmo sicuramente individuarenuovi modi di parlare con e dei nostri figli/e, per cuipossano continuare a identificarsi con noi, in un proces-so in evoluzione, al di fuori dei concetti di genere ste-reotipati. Così potremmo forse riconoscere tutti/e e ac-cettare le nostre reciproche parentele, i legami con lenostre madri e con la Madre Terra, e fare ritorno allanorma del dono.

1 Per Saussure (infra, cap. IV), la langue è un sistema di unità puramentedifferenziali. Ciascuna parola è legata a tutte le altre in base all’esclusione mu-tua e viene identificata come se stessa proprio perché non è le altre. Quandosignificante e significato sono considerati assieme, intervengono anche altreassociazioni e opposizioni, come il binarismo delle opposizioni e le variazioniparadigmatiche regolari.

2 Sebbene il comunismo possa essere visto come un tentativo di soddisfa-re i bisogni, esso è stato insidiato, come il capitalismo, dalle strutture patriar-cali. Marx e, fino a oggi, altri economisti maschi non hanno capito che la ma-nodopera gratuita delle donne è un lavoro che produce valore. Se il lavorodelle donne contasse (cfr. Waring 1988), dovremmo aggiungere almeno il 40

LE CATEGORIE “MARC-SISTE”

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per cento al PIL della maggior parte dei paesi occidentali e oltre nel caso deipaesi del Terzo Mondo. Gli economisti che trascurano tali macroscopici ele-menti, distorcono inevitabilmente le analisi, come se uno studioso del sistemasolare ignorasse il 40 per cento dei pianeti esistenti. Pertanto lo studioso do-vrebbe trovare altre spiegazioni per gli effetti provocati da questi pianeti, adesempio, le orbite irregolari; non sarebbe in grado di tracciare la mappa di unitinerario per il buon esito di un viaggio nello spazio. Il femminismo rappre-senta un’analisi più completa, più approfondita, di maggiore portata e unabase migliore di pianificazione sociale rispetto al comunismo o al capitalismopoiché, al contrario di questi, valorizza il lavoro gratuito.

3 Gioco di parole su hum per human e hum che vuol dire “canticchiaresotto voce”.

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Capitolo settimoLa fonte collettiva

Attraverso il linguaggio, ciascun individuo formulauna propria risposta all’interrogativo filosofico più com-plesso del nostro tempo: “Qual è il rapporto tra il singo-lo (l’uno) e i molti?”. La relazione tra l’individuo e lapropria cultura, quindi rispetto agli altri cinque miliardie mezzo di esseri umani oggi esistenti, è molto diversadalla relazione che si poteva avere con il proprio paese ogruppo sociale nei secoli passati. I mass-media ci porta-no immagini e informazioni su miliardi di persone chenon incontreremo né conosceremo mai, che sono altret-tanto umani come siamo noi; in modo analogo, l’astro-nomia ci ha permesso di vedere il nostro singolo pianetaTerra nel mezzo di milioni di galassie e miliardi di altrestelle con tutti i lori possibili pianeti. Dal momento incui la nostra conoscenza dell’umanità e dell’universo èaumentata, la nostra dimensione di individui, relativa-mente al tutto, si è incredibilmente ridotta. Eppure cia-scuna di noi rimane in primo piano rispetto a se stessa, eappare così molto grande, poiché non si concepisce chein base alla propria prospettiva.

La risposta al nostro interrogativo, dal punto di vistadel paradigma del dono, suona all’incirca così: ciascunumano è parte della collettività, poiché la sua identità siforma attraverso l’uso di doni linguistici, culturali e mate-riali della collettività, che vengono donati a ciascuno dinoi dagli altri, e da ciascuno di noi agli altri. Le nostre

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soggettività fisiche e psicologiche sono fatte di questa ma-teria, questa matrice (o madre) che noi stesse ri-formiamoe ridiveniamo per gli altri. Ciascuno di noi è un punto oun luogo, una maglia del tessuto costituito dalla trasmis-sione di innumerevoli doni. In questo tessuto, il processocollettivo mette in relazione le cose con le parole, le paro-le con le parole, le cose con le cose e noi l’uno con l’altro,verso e attraverso i doni su tutti i diversi livelli.

Il reiterare la mascolazione a diversi livelli ha alteratola configurazione di questo processo collettivo, dirigen-do il flusso verso una categoria di singoli dominanti chesi motivano da sé, che cercano di estendere la propriaimportanza individuale stabilendo relazioni di controllosulla collettività e sui suoi doni. Questi singoli sonospesso serviti da altri/e che accedono alla relazione con imolti indirettamente, attraverso la loro relazione con ilsingolo che domina i molti. Seppure sia concepibile chei singoli, aumentati, possano restituire i loro doni ai mol-ti, ciò non è in accordo con il mandato di genere, voltoal dominio. Sfortunatamente, la relazione di dominiodell’uno sui molti sembra avere un possibile esito nelladistruzione dei molti da parte dell’uno. Ultimamente, lacapacità di provocare una catastrofe nucleare ha reso ac-cessibile questo potere e alcuni “uni” hanno giocato conesso. Dobbiamo mettere in luce il carattere illusorio del-l’impulso volto a dominare e ad aumentarsi, e ri-crearciattraverso il processo del donare e ricevere, trovando ilmodo di metterci in relazione come nutritori, uno tra imolti e molti tra i molti.

Le nicchie ambientali

Una nicchia ambientale è un dono per il quale i rice-venti si evolvono; gli esseri viventi si sviluppano con bi-sogni che possono ricevere un certo tipo di nutrimento.

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Il linguaggio è il prodotto e il sottoprodotto della vitadelle generazioni passate, che le generazioni e gli indivi-dui nel presente possono ricevere e utilizzare; è una nic-chia ambientale culturale creata collettivamente.

Noi abbiamo bisogno d’interagire l’uno con l’altro ri-guardo alle cose, poiché esse hanno valore per noi collet-tivamente e individualmente in diversi modi; e abbiamobisogno di utilizzare le cose collettivamente e individual-mente in diversi modi per mettere a frutto il loro valore.Altre nella società hanno contribuito in larga misura alvalore delle cose, ed è lo stesso per il valore delle parole.L’aspetto relativo al “come farne uso”, almeno nell’ambi-to del nostro ambiente circostante, ci è stato dato gene-ralmente in modo gratuito, è stato lasciato lì perché noilo prendessimo o ci è stato tramandato dalle nostre ma-dri. Questo, insieme alla conoscenza di ciò che per noisarebbe più appropriato utilizzare, ci viene trasmesso da-gli altri nella società. Ma tutto questo, tutta la nostra cul-tura materiale, si trova lì perché altri vi hanno interagitonei secoli e hanno mediato le loro interazioni attraverso illinguaggio. Non soltanto sono state trascurate le donne ele cose, ma i processi vitali delle moltitudini nel passato(e nel presente) sono stati spesso ignorati dai filosofi chevalutano le parole al di sopra delle cose, poiché vedono ilmondo da un punto di vista decontestualizzato e masco-lizzato. La tendenza al sessismo è più ampia della que-stione di genere: dà origine alla negazione e alla distor-sione dei punti di vista che influenza molte altre questio-ni; s’inserisce nella dialettica interattiva tra le parole e lecose, tra chi definisce e ciò che viene definito, alterandoin profondità la prospettiva collettiva e l’immagine delmondo che si presenta al nostro sguardo.

Lo scambio ha misappropriato alcuni processi del lin-guaggio e, trasferendoli su un piano materiale, ha creatouna situazione in cui il dono viene in realtà annullato dal-l’esigenza di un “dono” di ritorno equivalente. Questa si-

LA FONTE COLLETTIVA

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tuazione artificiale si viene a creare usando in un altromodo una parte del modello in cui la parola prende ilposto di una cosa, rendendo il dono di quella cosa nonpiù necessario per la creazione della relazione umana delmomento: non ho bisogno di darti questo fiore per crea-re una relazione umana co-municativa con te, in questomomento; posso limitarmi a pronunciare la parola “fio-re”. La parola serve anche come esemplare-equivalente.Nella descrizione del processo del concetto, abbiamoconsiderato come la “cosa” esemplare non sia più neces-saria, quando la parola prende il suo posto come equiva-lente di tutte le cose appartenenti a quella determinatacategoria. Sul piano materiale dello scambio, nel momen-to in cui viene dato il “dono” di ritorno, esso annulla an-che il carattere di dono del primo dono ed esprime il suovalore, rappresentandolo. Questo risulta particolarmenteevidente quando il “dono” di ritorno è il denaro.

Il denaro prende il posto del prodotto come equiva-lente di altri prodotti (sostituendo così e annullando quelprodotto in quanto equivalente); esso valuta e rappresen-ta il valore del prodotto nello scambio in quanto “dono”sostitutivo (curiosamente, il denaro, arbitro dello scam-bio, funziona soltanto nel momento in cui viene datovia). Il denaro annulla inoltre sia il valore qualitativo siail valore di dono (l’implicazione che l’altra persona abbiavalore) sostituendoli con il valore quantitativo e il valoredi scambio, così che quelli vengono considerati nell’am-bito della categoria di ogni altro prodotto sul mercato.

La transazione umana del-donare viene alterata, e par-te del processo concettuale viene sostituito a essa per me-diare la relazione mutuamente esclusiva della proprietàprivata. Tale uso materiale del processo del concetto (edel processo linguistico) trasposti, permette a ciascunadelle parti che scambiano di inscenare a turno la defini-zione, per dare e ricevere la parola-dono sostitutiva, il de-naro. Coloro che scambiano possono così dare senza pri-

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varsi: danno valore alle cose e al loro sostituto, il denaro,invece che darsi valore l’una all’altra. Il denaro è il mezzodi comunicazione attraverso il quale viene definito il pro-dotto, e chi compra lo dà a chi vende così come chi defi-nisce dà il definiendum a chi ascolta. Il venditore deve asua volta cedere il prodotto, ciò che, per il processo di de-finizione, sarebbe la cosa definita. Mentre il prodotto pas-sa attraverso il processo del concetto incarnato, il suo va-lore di dono viene annullato e trasferito al denaro, che colprodotto viene scambiato. Quella somma viene così chia-mata il valore di scambio del prodotto. Nel momento incui il prodotto diventa di proprietà di chi compra, essoesce dal processo di mercato e diviene un “valore d’uso”.

Annullando l’attribuzione di valore al ricevente, ilprocesso di scambio cancella il valore di dono del pro-dotto in un modo non generalmente riconosciuto. È co-me se il valore d’uso si scrollasse di dosso ogni prece-dente esperienza: dopo averlo comprato e aver pagatociò che valeva, non ci preoccupiamo più della sua prove-nienza; non pensiamo più se la fonte del prodotto chestiamo usando risalga ai lavoratori sottopagati del “Ter-zo Mondo”, alla manodopera infantile o ai membri deisindacati statunitensi. Il prodotto è pronto per il nostrouso, ma chi lo ha fabbricato, non viene riconosciuto néringraziato e neppure il prodotto viene ricevuto da chilo ha fatto, come un dono nutritore che trasmette impli-citamente valore ai riceventi. Invece, il riconoscimento ela gratitudine vengono date al singolo che ha “fatto” isoldi, o magari al compratore, al venditore o allo stessoprocesso di mercato. Per questa ragione ritengo che visia una differenza logica invisibile tra il valore d’uso chepassa per il processo di scambio e il valore d’uso fattodalle persone direttamente per gli altri, in cui si trasmet-te il valore di dono. La persona che utilizza un valored’uso, preparandolo e adattandolo per la soddisfazionedei bisogni dei componenti della propria famiglia, ag-

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giunge a esso il valore di dono, ma il valore di dono chegli è stato dato dai fabbricanti è stato annullato (o dirot-tato verso il profitto di altri) dal processo di scambio.

Il mondo come punto di partenza

Nella sua analisi del denaro e delle merci (prodotti discambio), Marx ha considerato le merci come punto dipartenza; riteneva che tutti gli studiosi che sino ad alloraerano partiti dal denaro fossero in errore. Una simileconsiderazione può essere fatta anche sulla relazione trale parole e il mondo. Nel formulare il nostro interrogati-vo su questa relazione, normalmente consideriamo leparole come punto di partenza, ma questo ci mette sullastrada sbagliata: è necessario cominciare dal mondo,non dalle parole – dalla co-muni-cazione materiale, nonda quella verbale. La risposta, in entrambi i casi, passaper l’attività di dono degli esseri umani. Cominciandodalle parole stesse, non riusciamo a vedere il carattere didono delle parole e neppure delle cose; esso rimane na-scosto anche a causa della trasparenza delle parole, per-ché la posizione della parola è coinvolta nella mascola-zione e perché nella definizione c’è una tendenza versoil prendere-il-posto-di ecc.

La posizione delle donne, poste in una condizione “in-feriore” di donatori rispetto agli uomini mascolizzati, è si-mile a quella delle cose rispetto alle parole. Perciò risultapiù facile alle donne comprendere il linguaggio a partiredal punto di vista delle cose, mentre gli uomini assumonogeneralmente la prospettiva delle parole. Tutti gli umanisono certamente “cose in relazione alle parole”, quando sitratta di parlarne: “quella persona laggiù”, “il/la prossi-mo/a della fila”, “l’amico/a di Giovanna”; però, dal mo-mento che la parola è stata incarnata nel genere maschile,le donne assumono il ruolo analogo di cose in relazione a

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quella “parola”. Abbiamo sperimentato il ruolo di cose dicui si parla, invece di parlare; sappiamo cedere il passo al-l’uno che prende il nostro posto, che ci rappresenta, ci re-presenta in pubblico, mentre noi continuiamo a svolgerela nostra pratica del dono in casa.

Ma le donne si mettono attivamente in relazione,svolgono il lavoro di mantenimento, si prendono cura eallevano i figli/e – tutta la miriade di compiti di cui ledonne si sono sempre occupate – dando continuamentevalore agli altri in diversi modi. Le cose non fanno lostesso in prima persona, come noi; non si pongono in re-lazione con le persone. Da cosa deriva il loro lato attivo?Dall’attività della collettività e dalla sua ricettività creati-va, aldilà dell’individuo, nel sottofondo dei molti, dovele donne sono state anonimamente per secoli. Il nostrodonare non riconosciuto, provvedendo agli altri diretta-mente e indirettamente, è il processo e il risultato di unacontinua dialettica interattiva collettiva con le cose. Nonsoltanto noi umani pratichiamo il dono ma, nel corso diquesto processo, lasciamo una notevole quantità di sot-toprodotti a disposizione di chiunque li prenda. È sem-brato talvolta che le donne (e le altre persone escluse)non fossero altro che sottoprodotti di alcuni uomini eche, come le cose, avessero soltanto il valore dato lorodalla collettività e non quello proveniente da loro stessein quanto donatrici interattive. Le cose sono come ledonne anche perché cedono il passo alle parole, lascian-do che queste prendano il loro posto.

Una tale prospettiva delle donne come “cose” chepraticano cure e cedono il passo, in una relazione da-molte-a-uno riguardo agli uomini, che prevalgono e lepossiedono o le controllano, ricalca la relazione tra cosee parole che i filosofi hanno sempre trovato così difficileda capire. I filosofi maschi hanno sempre assunto la loroprospettiva come punto di partenza, il punto di vista dichi si appropria, possiede, controlla, gli “uni” in opposi-

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zione ai “molti”. Le donne, trattate come cose, possonoassumere la prospettiva delle cose, dei molti e di coloroche donano e cedono il passo.

Qualcuno potrebbe chiedersi: “Ma le cose donano ecedono il passo realmente alle parole, come le donne ce-dono il passo agli uomini?”. Nel tessuto degli innumere-voli doni che costituisce il processo di vita della colletti-vità, le cose vengono forse animate dai nostri gesti magi-ci per diventare alla fine tanti Pinocchi obbedienti alleparole dei loro Padri? O non è altro che una proiezio-ne? Tralasciando le parole di Geppetto, le streghe (e lafata turchina) sono sensibili alla vita delle cose inanima-te, forse perché, in quanto donne, sappiamo di essereuguali a esse, sotto l’incantesimo dell’oggettivazione. Male nostre parole sono diverse, meno vuote di quelle degliuomini mascolati, perché noi pronunciamo non solo pa-role ma anche cose.

Le parole come punto di partenza

Partendo dalle parole, il fatto di mettere le parole inrelazione alle cose porta gli studiosi a concentrarsi sulleparole, ma divide la nozione di parola almeno in dueparti: il “veicolo” (suono, significante, segno, scritto, ge-sto del linguaggio dei segni) e il “significato” (meaning)(“idea”, “senso”, “riferente”, “designatum” ecc.). Io cre-do che noi stiamo in realtà restringendo parte del valoredelle caratteristiche delle cose a ciò che consideriamo il“significato” della parola. Le cose vengono così staccatedalla parola, rese prive del loro valore volto alla comuni-cazione, perché l’aspetto “per gli altri” sia delle cose siadelle parole non è riconosciuto e non gli è dato valore.Dovremmo vedere le parole non tanto come se posse-dessero un loro valore proprio, ma come doni sostitutiviche portano con sé il valore delle cose nella e per la co-

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municazione. Questo valore contribuisce alla formazio-ne della comunità in tutta la sua varietà, poiché permet-te che ciascuno di noi si relazioni ad altre persone inmodi specifici, e riguardo a tutte le parti del mondo. Èl’esistenza generale delle cose per gli altri.

Nella comunità distorta dalla mascolazione, i generiinscenano la relazione tra cose e parole (che non com-prendono). Ci siamo impegolati in questo problemaproprio perché gli umani, com’è evidente, sono più ca-paci delle cose a rispondere alle definizioni come profe-zie che si autoavverano, per quanto le cose possano sem-brare animate. Gli uomini inscenano il ruolo della paro-la, le donne delle cose. Gli uomini, prendendo il postodelle donne, sono i doni sostitutivi (“per gli altri”) delledonne e rappresentano il loro valore nella “comunica-zione” per il tipo di comunità che chiamiamo patriarca-to. Le donne contribuiscono a creare i rapporti specificiche formano e mantengono questa comunità. Gli uomi-ni sono i doni sostitutivi comunitari di questi doni indi-viduali nascosti che sono le donatrici. Anche le cosehanno un aspetto donatore nascosto, che viene attribui-to alle parole che prendono il loro posto. Le parole e gliuomini sono “autoreferenziali” (self-referential), mentrele donne e le cose sembrano non esserlo. Tutta questaconfusione deriva dal dividere la comunità di parlanti eascoltatori (e donatori e riceventi) che sarebbero mutua-mente inclusivi e creatori di sé e degli altri, in due cate-gorie di genere originali, ineluttabili e opposte.

“Significato”

Se prendiamo come punto di partenza le cose invecedelle parole, possiamo localizzare il “significato” nellecose in tutte le loro varianti di aspetto e di uso, con laloro relazione con le parole come relazione con i loro

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doni sostitutivi per gli esseri umani. Diversi tipi di coseche sono in relazione con una stessa parola (ciò che nor-malmente chiamiamo i diversi “significati” di una paro-la) possono anche essere simili l’uno all’altro. Ad esem-pio, la parola “dolce” può esprimere un sapore gradevo-le, come il miele, o una torta che ha quel tipo di sapore,o una persona che si comporta in modo gentile. Il miele,le torte, o un certo atteggiamento hanno un’importanzain sé per gli esseri umani. Se non fossero in relazionecon la stessa parola, sarebbero legati a parole diverse. Senon fossero legati a nessuna parola che fosse il loro no-me, potrebbero comunque essere legati a delle frasicomposte di parole che abbiano una qualche relazionecon alcune delle loro caratteristiche. Il fatto che le cosesiano in relazione con una parola implica che esse (ocose simili a esse) sono state usate per soddisfare i biso-gni di molti; hanno una certa misura di generalità. Nonsono soltanto le parole in sé a essere generali, ma anchele cose che sono in relazione con esse attraverso l’usoumano. Nella formazione del concetto, la capacità dellecose di esistere ripetutamente per gli altri come cose ap-partenenti a uno stesso tipo è resa evidente dalla genera-lizzazione dell’esemplare come uno rispetto ai molti edall’assunzione finale di polarità da parte di una parolagenerale. Il fatto che vi sia una parola per un tipo di co-sa specifica esprime la generalità di quella cosa, non sol-tanto della parola. In effetti, la parola non è nulla di persé; dipende dalla relazione delle cose con essa.

“Significato”1 è il termine che sta per la relazionetra le cose e le parole secondo uno schema dall’alto inbasso fondato sulla parola. Questa relazione è stabilitadagli esseri umani, l’uno per l’altro collettivamente eindividualmente in modo continuativo. Normalmentecrediamo soltanto a una relazione che va “dalla parolaalla cosa”, ma è invece la relazione che va “dalla cosaalla cosa” e “dalla cosa alla parola” a dare valore alle

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Figura 11. Le cose in relazione con le parole, le parole in relazionel’una con l’altra.

Le parole nella langue sono in relazione l’una con l’altra in modo mutua-mente esclusivo basato solamente sulla differenza: ogni parola è ciò cheè soltanto perché non è le altre. La maggior parte delle parole nella lan-gue sono equivalenti e parole-dono sostitutive con le quali le cose di uncerto tipo sono in relazione. Alcune parole, come i connettivi logici, nonsono equivalenti né sostituti, ma sono ancora legate ad altre parole attra-verso l’esclusione mutua nella langue. Potrebbero essere considerateistruzioni per l’uso delle parole e talvolta per l’uso delle cose.

Le cose appartenenti a un tipospecifico sono in relazione l’unacon l’altra come equivalenti, per-ché sono tutte in relazione con lastessa parola-dono come loro so-stituto e nome. Questa relazioneinclusiva è l’opposto della relazio-ne mutuamente esclusiva delle pa-role l’una con l’altra nella langue.L’omonimia e la sinonimia sonovariazioni su questo modello.

Parola

ParolaSinonimia Parola

Parole

Cose di un tipo

Cose di un tipoCose di un tipo

Omonimia

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parole per gli esseri umani; senza questa relazione, leparole non avrebbero alcuna utilità per noi. La rela-zione “dalla cosa alla parola” è funzionale alla forma-zione delle nostre identità anche per molte altre ragio-ni: gli umani sono anche “cose in relazione con le pa-role”, l’uno per l’altro (parliamo l’uno dell’altro); ciprendiamo cura l’uno dell’altro col linguaggio comeanche materialmente; e, come abbiamo detto, molti dinoi si modellano a partire da determinati processi lin-guistici.

Abbiamo proiettato questi processi linguistici sul-l’organizzazione della collettività, economicamente, po-liticamente e nella sua struttura familiare. Le proiezioniconfermano e ricompensano alcuni tipi di comporta-mento e ne sminuiscono altri, “educandoci”, influen-zando le nostre identità; confezionano il contesto in cuiviviamo, imponendoci i parametri della “realtà” nellaquale operano le nostre identità artificiali autogenerate(che chiamiamo “patriarcato”) (v. Figg. 11 e 12).

Negli USA, non soltanto noi donne prendiamo il no-me dei nostri mariti ma, secondo i ruoli tradizionaliqui come altrove, gli uomini prendono il nostro postonella sfera pubblica, parlano per noi e spesso decido-no per noi. Siamo conosciute attraverso colui col qua-le abbiamo un rapporto. Per conoscere la relazione trale cose e le parole, dobbiamo cominciare dalle cose,proprio come, per conoscere la relazione tra le donnee gli uomini, abbiamo imparato dal femminismo a co-minciare dalle donne. Gli uomini hanno ragionato persecoli passando dalle parole alle cose, proprio comehanno riflettuto a partire da loro stessi per cercare dicapire le donne (e i figli/e e le “cose”). Mi sembra chechi ricerca il significato della vita, così come chi cercail significato delle parole, parta da un approccio dal-l’alto in basso basato sulla parola. Invece, dobbiamotutti/e partire dalla pratica materiale del dono più che

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Figura 12. Relazioni di simili delle cose rispetto alle parole nella lan-gue, delle mogli tradizionali e i figli rispetto ai mariti e della pro-prietà rispetto ai proprietari.

da una pratica linguistica del dono, sostitutiva, di rap-presentazione. Dobbiamo donare le cose, non le paro-le, per soddisfare i bisogni materiali degli altri, percreare abbondanza per tutti, comunicando per forma-re le soggettività fisiche (i corpi) e non soltanto le sog-gettività linguistiche e psicologiche della comunità.Dobbiamo produrre cambiamenti sistemici che ren-dano possibile la co-muni-cazione materiale generaliz-zata per tutti su tutti i livelli.

Relazione della mutua esclusione

Le cose relazionate al-le parole

RSM (Rete disolidarietàmaschile).Relazionedella mutuaesclusione

Le parole nella ‘langue’

La proprietà

Le donne(e bambini)

Le famiglie

La

rela

zion

e in

clus

iva

La

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clus

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Le relazioni parassitiche

L’altruismo potrebbe talvolta sembrare ispirato dafalse motivazioni, e questo deriva dal fatto che l’egodello scambio mascolato artificiale ha imparato comepraticare l’altruismo, ma non secondo la logica dellapratica materna. Gli istituti di carità paternalistici dona-no piccole somme, appena sufficienti perché pochi in-dividui si sentano sollevati senza tuttavia cambiare ilquadro generale della situazione. Mantengono il con-trollo dei propri doni e dei riceventi con “l’accurata su-pervisione”, con l’idea che i riceventi debbano meritarela loro fiducia. Così le donne (anche le madri), soprav-valutando queste procedure “caritatevoli”, le assumonocome norma generale dell’altruismo. Se le donne conti-nueranno a screditare il modello (l’esemplare del con-cetto) della pratica materna, guardandolo solamente dalpunto di vista auto-riflettente e auto-convalidante dellamascolazione e dello scambio – che sia a seguito del no-stro successo personale nel sistema o soltanto per averassunto il punto di vista del maschio, dell’“altro” ma-schile sopravvalutato che ci degrada – perderemo il po-tenziale rivoluzionario (“ri-evoluzionario”) che oggi ap-passiona il movimento mondiale delle donne.

Dopo aver accettato per secoli l’imbroglio maschileche noi siamo inferiori (cioè “cose”), e accettando ades-so l’imbroglio che dovremmo essere “uguali” al loromodello, rischiamo di rinunciare al nostro allineamentocon la Madre Terra, alla possibilità che abbiamo di sal-varla, di salvare le nostre madri, noi stesse, le nostre fi-glie e figli dallo specchio affamato del paradigma delloscambio. Questa specie si autofagocita, perché non è ingrado di dare valore all’esemplare concettuale della ma-dre che dona in abbondanza, e neanche di vederla2. Ab-biamo reso la pratica del dono, la fonte della vita e dellagioia, schiava dell’Io mascolato artificiale e delle sue

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espressioni a livello economico, politico e ideologico.Questo fa riversare i doni dell’umanità nei forzieri deipochi, i cui eccessi priapei vengono sottratti ai bisogni etrasformati in armamenti fallici, “marchi” di morte, coni quali un gruppo può dimostrare la propria “superio-rità” (occupazione della posizione privilegiata dell’esem-plare del concetto) su un altro, che viene costretto a ce-dere il passo.

In questo modo, i doni forzati dei molti vengonosperperati in consumi distruttivi che non nutrono, pernon parlare dell’immolazione di milioni di cuori, mentie corpi di donanti. Dis-facendo i corpi della comunità,la co-municazione si rivolta contro se stessa, a immaginee somiglianza dell’esemplare del concetto. Nel frattem-po, questo stesso processo, provvedendo ai bisogni diguerra (alimentando uno scambio fallico), distrugge (at-traverso la spesa sugli armamenti) l’abbondanza cheavrebbe favorito la pratica del dono nelle regioni delmondo non direttamente colpite dalla guerra. Abbiamocreato una relazione su diversi piani in cui un numerorelativamente piccolo di persone agisce parassiticamentesul resto, ricreando una situazione di privilegio, che inorigine si è creata ponendo metà dei nostri/e figli/e inuna categoria “superiore” linguisticamente mediata enon-nutrice. Questa categoria è sopravvalutata dalle nu-trici, che donano a essa, a causa del suo mandato rispon-dente al raggiungimento della posizione dell’esemplaredel concetto (la posizione dell’esemplare non è altro cheun meccanismo concettuale funzionale all’organizzazio-ne delle nostre percezioni, e non un modo di “meritare”amore o abbondanza). L’ospite deve rieducare e persua-dere il parassita (che è comunque una parte di sé); nondobbiamo permettere al parassita di continuare a per-suadere l’ospite.

Il parassita è fatto di specchi – scambi, definizioni,giudizi – e deve ricevere da qualche altra parte ener-

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gia, denaro, cibo, tempo, cure per riuscire a diventareabbastanza grande per essere un “uno” privilegiato,sopraffacendo gli altri molti. Ma questo aberrante sta-to di cose non è colpa di nessuno; la colpa e il peccatoappartengono infatti al paradigma dello scambio, sonomodi di far “ripagare” gli altri. Non possiamo acco-modare il paradigma dello scambio ri-applicandolo ase stesso ripetute volte. Le nostre prigioni e le sedieelettriche stanno traboccando di persone che “paga-no” per i loro errori; non abbiamo bisogno di giusti-zia, ma di empatia. La giustizia in realtà non è altroche un tentativo di definire il reato perché non si ripe-ta. Cerchiamo di applicare questa definizione attraver-so un certo tipo di scambio, perché lo scambio derivadalla definizione. Il “pagamento” implica una comuni-cazione materiale forzata che esige che il reo rinunci aqualcosa e ceda il passo. Forse pensiamo che coinvol-gendo il piano materiale, richiedendo i suoi beni, ilsuo tempo o la sua vita stessa, in uno scambio “equo”,produrremo effetti migliori su chi fa del male. C’è unatendenza a valutare la gravità del reato in funzione dialtri reati (una sorta di quantificazione); il reo è anco-ra una volta mascolato, tenuto fisicamente a distanza(decontestualizzato) e posto in una categoria di “al-tro” con un “termine” o una “sentenza”.

Molti “uno-molti”

Pensando a tutto questo, ho notato che avevo trecampi di relazioni di similarità su cui ragionare: 1) Lemerci stanno al denaro come 2) le cose stanno alle paro-le come 3) le donne stanno agli uomini. Potevo usareciascuna relazione per chiarire le altre.

Tutti questi campi hanno relazioni “da-molti-a-uno”nella loro struttura. Tutte le merci sono “molte”, in re-

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lazione al denaro quale loro unico equivalente generale;sono poi “molte” in relazione a un prezzo specifico, cheè “uno”. Le cose sono in relazione alle parole in diversimodi, come “molte” rispetto a “uno”: come “molte” ri-spetto al linguaggio che è “un” tipo di cosa; come“molte” rispetto a “una” singola parola (ad esempio, laparola “cose”); e come “molte” in quanto tipi di coserispetto alla parola che “significa” quella cosa specificao la rappresenta. In quanto genere “inferiore”, tutte ledonne sono in relazione a ogni uomo come “molte” ri-spetto a “uno”. Ciascuna di queste relazioni implica an-che possibili relazioni da-uno-a-uno. La coppia umanaè una relazione da-uno-a-uno come la relazione piùtransitoria dello scambio di un prodotto con il denaro ecome l’idea saussuriana del segno come unione tra si-gnificante e significato. Le variazioni e i cambiamentinella relazione da-uno-a-uno avvengono nell’ambitodella relazione continuativa delle donne rispetto agliuomini, con la relazione della famiglia rispetto al padre.La madre stessa appare come “una” rispetto alla quale ifigli/e sono potenzialmente “molti”, ma viene sostituitadal padre come “capo” famiglia. Questi esempi di duepesi, due misure, come nei casi della sindrome di donGiovanni o della poligamia, implicano anche relazionida-molti-a-uno. Un’altra relazione da-molti-a-uno èquella della proprietà rispetto al proprietario, che è an-data spesso di pari passo con la relazione della famigliacome “insieme di beni di proprietà” rispetto al padre3.Ci sono poi i sudditi rispetto al re, i collegi elettorali ri-spetto ai loro rappresentanti eletti, le nazioni rispetto ailoro presidenti, gli impiegati rispetto ai loro capi. Vi so-no poi stadi successivi da-molti-a-uno, come i cattolicirispetto al loro parroco, i parroci rispetto ai vescovi, ivescovi rispetto ai cardinali, i cardinali rispetto al papa.Gli eserciti sono, allo stesso modo, in relazione ai loroufficiali e infine ai generali ecc. La sovrapposizione del-

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le strutture uno-molti crea un meccanismo gigantesco.È probabile che, se mancasse di alcune parti, esso sa-rebbe più benefico, ma il rafforzamento tra le strutturepatriarcali del “Primo Mondo” l’hanno reso più morta-le e fallico che mai: con le sue armi nucleari, pronti adannientare i molti e la sua immensa nuvola fallica a for-ma di fungo come dimostrazione che ha infine raggiun-to la posizione dell’“uno”.

Abbiamo sempre ragionato e agito dal punto di vistadelle parole in relazione alle cose, del denaro rispettoalle merci, degli uomini rispetto alle donne. A me sem-bra che la spiegazione sia che l’economia dello scambiopone l’io individuale in primo piano e dà valore e im-portanza soprattutto all’“uno”, la coscienza isolataastratta. L’importanza (e i modi di usare) la coscienzacollettiva, la coscienza di gruppo e l’esperienza del do-no tendente verso l’altro sono state ignorate, perché ab-biamo soltanto saputo come considerare noi stessi co-me punto di partenza, come individui isolati, e soltantoa chi ha avuto successo come individuo isolato sonostati dati autorità e credito per parlare. Questa centra-lità dell’Io è dovuta alla mascolazione, alla logica auto-riflettente dello scambio e al modello gerarchico direttodall’alto in basso; è fondamentale nel capitalismo, inparticolare nell’immagine dell’eroe culturale del “pro-duttore autonomo” (o dell’imprenditore). Gli accade-mici non sono più immuni da questa sindrome di altri,sebbene forse vorrebbero esserlo. La competizione, neitermini di un certo tipo di creatività e di acume (la cuiricompensa è il riconoscimento, l’autorità e il prestigiodell’Io), influenza la visione del mondo degli accademi-ci altrettanto quanto farebbero se le ricompense fosseroeconomiche. Il linguaggio è diventato uno strumento dipotere, e anche coloro che se ne occupano sono gene-ralmente non immuni dai modelli di conferma dell’Ioche rendono possibile tale potere.

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La luce e l’ombra

Anche le donne possono sviluppare un Io centrato suse stesso, ma noi rimaniamo spesso in certa misuraorientate verso l’altro poiché ci viene imposto sempre ilruolo di nutrici dei nostri figli/e. Fuori o dentro il mon-do accademico, la nostra visione del mondo è tenden-zialmente più ampia di quella degli uomini, soprattuttoquando non siamo intellettualmente subordinate al si-stema patriarcale; con il piede in due staffe, è più facileindividuare le contraddizioni. Ciò che vediamo è infattiche siamo metà nell’ombra, metà nella luce. Anchequando entriamo in competizione e abbiamo successonell’ambito dell’economia dello scambio, come indivi-dui ci sentiamo spesso parte della massa di donne invisi-bili e non riconosciute.

La nostra posizione nell’ombra ci permette anche divedere chi, oltre a noi, si trova al buio: la massa di per-sone, culture, donne, bambini/e e uomini relegati sullosfondo dall’ego mascolato; accanto a essi vi sono tutte lecose, animali, creature, piante, invenzioni, l’arte e gli af-fetti domestici che sono stati oggetto delle nostre cure,uso e manutenzione nel corso dei secoli. Qui nell’oscu-rità vi sono tutti i tavoli che abbiamo lucidato, il maische abbiamo macinato, i campi che abbiamo seminato, icavalli, le mucche e i polli che abbiamo nutrito, la neveche abbiamo spalato, i tetti che abbiamo ricoperto dipaglia, le catene di montaggio a cui abbiamo lavorato, ilavelli che abbiamo sturato, le danze che abbiamo dan-zato, i figli/e che abbiamo allevato. In tutte queste diver-se attività, abbiamo conferito valore alle cose permean-dole liberamente di sostanza vitale, che gli altri possonousare gratis. Anche quando la nostra attività ci è costatamolto, umanamente o economicamente, i risultati delnostro agire secondo i principi delle pratiche di curacontinuano a essere un’eredità gratuita per gli altri. L’e-

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redità consiste nella realtà materiale (la casa in cui si èvissute e di cui ci si è prese cura c’è ancora oggi; quellaabbandonata si è deteriorata e non c’è più), nelle prati-che di cura, nei cuori e nelle menti che donano valore eche non sono mascolati.

L’Io del maschio notoriamente teme la morte e amaciò che teme, poiché allontanando il suo sguardo daglialtri/e nega ciò che da essi/e ha ricevuto, e nega allostesso modo l’esistenza e l’importanza che hanno perlui. Così è tendenzialmente predisposto a vedere se stes-so come la sola fonte di ciò che invece gli è stato dato daaltri, dalle masse umane che l’hanno preceduto, dai la-voratori/rici delle sue fabbriche e nei suoi campi, dallamadre, moglie, sorella, figlia e (a volte persino) dal fra-tello. Questo è comunque un po’ più insolito, perché larete di solidarietà maschile (Old Boys Network) e i lega-mi dei maschi servono a intensificare il senso di potere eautonomia dell’ego isolato del maschio in quanto tale.Gli uomini imparano a riconoscere l’immagine auto-ri-flettente e a legittimarsi a vicenda. La posizione di“uno” funziona particolarmente bene nella negazionedel fatto che si riceve dagli altri/e. L’Io concepisce ognicosa in termini di prendere, o almeno di meritare ciòche ottiene (il meritare è un’altra trasposizione delloscambio, dal momento che esige un’equivalenza traazioni passate e ricompense presenti). La centralità attri-buita alla monetizzazione della manodopera nel capitali-smo ha concentrato l’attenzione soltanto su quell’ambitodella nostra attività e su quel tipo di rapporto umanoche consiste nel “fare soldi”. Dal momento che l’Io pen-sa alle proprie percezioni, al proprio mondo e alle pro-prie capacità come provenienti esclusivamente da sestesso, e non percepisce il suo carattere sociale artificia-le, esso corre il rischio del solipsismo.

Guardare al linguaggio dal punto di vista del para-digma del dono è un’ottima cura al solipsismo. Se consi-

GENEVIEVE VAUGHAN

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deriamo ogni parola un sottoprodotto dei processi vitali,mediati linguisticamente, della moltitudine di personeprima di noi – che hanno permesso a queste persone disoddisfare i bisogni comunicativi l’una dell’altra e che cisono state date liberamente – scopriamo di essere incontatto con milioni di altre persone donatrici e comu-nicanti, poiché da esse abbiamo ricevuto le nostre paro-le (e la nostra cultura e i nostri beni materiali). In realtà,il solipsismo nella nostra società non è tanto una posi-zione filosofica, quanto psicologica e politica. Esso spia-na la strada alla crudeltà senza responsabilità, portandoal nostro completo benessere di fronte al dolore altrui;la nostra compassione si inaridisce e le nostre anime di-ventano prigioniere dei nostri ego. Permettiamo ai no-stri governi di prendere continuamente decisioni che uc-cidono altre persone o che le lasciano morire, perpetran-do il genocidio economico e militare, mentre noi ce nestiamo al sicuro nelle nostre case chiedendoci se quellepersone siano mai veramente esistite.

Chi parla di riuscire a crearsi una propria realtà è for-se ispirato inconsapevolmente dalla illimitata creatività edalle proprietà magiche del dono del linguaggio, senzatuttavia riconoscere che la fonte del dono risiede negli“altri/e in generale”. Alcuni orientamenti religiosi, sia laNew Age che il fondamentalismo, tendono a sottrarsi al-la razza umana, in modo da non sentirsi impotenti tra imolti e poter pensare invece di far parte della posizioneprivilegiata dell’“uno”. Quando cominciamo a porci inrelazione soltanto con Dio (che spesso viene anch’essovisto come un “uno” mascolato e perciò simile a ciascu-no di noi come individuo isolato) e non con la razzaumana e il pianeta, il nostro atteggiamento tende a di-ventare megalomane e paranoico. Così agiamo isolata-mente e senza compassione, ignorando tutte le personeal di fuori della nostra attenzione più immediata, la cuispiritualità, dopo tutto, è altrettanto grande o piccola

LA FONTE COLLETTIVA

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della nostra. Se potessimo riformulare un concetto dinoi stessi a partire dalla consapevolezza di aver ricevutoda altre persone sia del passato sia del presente, a co-minciare dalle nostre madri, non saremmo più separati eimpotenti; il considerarsi un Io mascolato (che non rice-ve da altri se non “meritandolo”) ci rende effettivamenteimpotenti; perciò compensiamo in eccesso.

In ogni caso, il solipsismo viene confutato dal fattoche pensiamo usando il linguaggio che ci è stato dato daaltri/e. Secondo una teoria fondamentalista della crea-zione, Dio avrebbe seppellito le ossa di dinosauri in giroper “mettere alla prova la nostra fede” nel racconto bi-blico della Genesi. Analogamente, i solipsisti potrebbe-ro pensare che Lui/Lei avesse impresso il linguaggio nel-le nostre menti per “mettere alla prova la nostra fede”facendoci sospettare che vi fossero altre persone nelmondo esterno. In realtà, la Terra è talmente vasta e va-riegata che non potremmo mai viverci come singoli; ab-biamo bisogno della percezione comune dei molti perdare un qualche tipo di contesto reale alle nostre esi-stenze individuali. La società è una sorta di gigantescoocchio di mosca che, mettendo insieme le sue moltesfaccettature in una visione collettiva, riesce a vedere ildisegno nel suo insieme. Questa visione è agevolata etrascritta in linguaggio perché possa mediare le nostrereciproche relazioni sociali. Tale trascrizione fornisce asua volta una sorta di enorme timpano collettivo, cheriecheggia rispondendo a ogni cosa di una certa impor-tanza, che si trovi cioè a una certa soglia d’intensità oltreil livello individuale. Attraverso l’elaborazione collettiva,i valori culturali delle cose alle quali la comunità rispon-de sono immagazzinati nelle parole, tenuti in vita comedoni disponibili per tutti/e, per un uso costante4.

Eppure, l’ego patriarcale guarda soltanto alle cose cherientrano nel suo ambito d’attenzione immediato, facen-do risplendere su di esse la propria luce. Le persone al

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primo posto nel cosiddetto “Primo Mondo”, nell’adotta-re questo tipo di ottica, ignorano il flusso di beni, denaroe ricchezza proveniente dal cosiddetto “Terzo Mondo”,sia negli Stati Uniti che altrove. Quando non è la CIA adestabilizzare direttamente i governi del Terzo Mondo, ogli USA a finanziare tiranni fascisti contro l’interesse deimolti poveri, il patriarcato del “Primo Mondo” predomi-na economicamente. Mentre i nostri mass media e le no-stre terapie attirano la nostra attenzione sul qui e ora, inostri governi usano il nostro denaro, la loro influenza e iloro armamenti per distruggere le persone nell’ombra.Le grandi imprese si trasferiscono nel Terzo Mondo,provocando disastri ambientali ed economici, mentre al-cuni di noi qui raccolgono i profitti e altri perdono il loroimpiego. Quando le imprese sono incapaci di nasconder-si si creano una copertura di bugie e la loro attività vieneridefinita “sviluppo”. Dietro la maschera degli aiuti allepopolazioni in difficoltà, il “donare” viene messo in pri-mo piano ma in modo falso, per nascondere l’amara atti-vità di scambio e le pratiche di sfruttamento che vengonoin realtà messe in atto. Questo ha l’effetto di dipingere lapratica del dono come qualcosa di diverso da ciò che è, edi identificarlo con gli uomini, in particolare nel governoe nelle grosse imprese, che sono i più lontani dalla verità.Spesso, questi uomini a livello individuale non si sonomai curati di nessuno, avendo sempre operato esclusiva-mente nell’ambito del meccanismo dello scambio.

I nostri bisogni del “Mondo occidentale” vengonoin realtà soddisfatti in modo gratuito o a costi bassissi-mi (per noi) dai lavoratori del “Terzo Mondo”, che nonricevono indietro l’equivalente del lavoro che svolgono.Le differenze nelle economie permettono infatti agliimprenditori d’intascare la maggior parte del prezzoche noi paghiamo, depositarlo nelle nostre banche, tra-sferendo ancora una volta quel valore dai “non abbien-ti” agli “abbienti”, dall’ombra alla luce, dall’invisibile al

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visibile. Come in una chiusa su un fiume, il flusso di va-lore viene bloccato e trattenuto a un livello “superiore”.Le economie del “Primo Mondo”, nell’insieme, hannoricevuto enormi importi dalle economie del “TerzoMondo”; a livello individuale, potrebbe essere difficilela comprensione, o potremmo non vederne direttamen-te i benefici. Ma il fatto che qui circoli maggiore quan-tità di denaro è dovuto allo scambio ingiusto, unoscambio che in pratica finisce per essere un dono gra-tuito delle popolazioni del “Terzo Mondo” diretto anoi, del “Primo Mondo”.

I nostri propositi di profitto a breve termine, che tan-to bene si conciliano con il sistema dell’Io privilegiato,lasciano che le popolazioni nell’ombra (quelle del passa-to, quelle del presente nel “Terzo Mondo” e quelle delfuturo, tutti/e i nostri figli/e) vengano danneggiate o di-strutte dalla povertà, dall’inquinamento e dalle guerre,pagando per ciò che è in “luce”, il nostro ininterrottobenessere. Il problema non è la depravazione morale oun’inclinazione psicologica verso l’ingordigia, ma unavisione del mondo “normale”, una struttura dell’ego eun sistema economico che ben si combinano e funziona-no insieme a detrimento di tutti/e. Personalmente, noncredo che siamo consapevoli del nostro comportamento,altrimenti ci fermeremo, o gli uni fermerebbero gli altri.La nostra coscienza collettiva è in stato di negazione, edè quindi difficile che queste cose raggiungano la co-scienza individuale. È per questo che abbiamo dispera-tamente bisogno di un mutamento del paradigma.

Il mandato di sopraffare e di essere “uno” posseden-do e dominando viene trasmesso a tutti i livelli nella no-stra società, e la scarsità creata artificialmente dai poteridominanti per mantenere il sistema dello scambio inten-sifica gli svantaggi di chi non riesce ad adempiere almandato. Non ci rendiamo conto che è logicamente im-possibile che tutti possano essere “uno” in relazione ai

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molti e che la maggior parte degli uomini non ha a di-sposizione nessun altro programma di vita oltre la ma-scolazione in quanto tale. Quanto di significativo c’ènell’ambito del lavoro, dell’educazione e dell’intratteni-mento viene offerto quasi esclusivamente a chi è “ab-biente”, e tutte le persone che appartengono a questacategoria fanno comunque parte dell’economia delloscambio. Le bande criminali e la delinquenza sono l’uni-ca possibilità che hanno molte persone di seguire il pro-gramma di vita mascolato, sebbene anche la violenzacontro le donne rappresenti ancora una scelta possibileper gli uomini che sentano la necessità di agire come“uno” dominante. Sebbene sia comunque necessarioche tutte queste attività siano definite “sbagliate”, è sol-tanto attraverso una revisione e una ridefinizione dellasocietà nell’insieme che il problema potrà essere risolto.

Dobbiamo cambiare il paradigma ed educare tutti/ealle pratiche di cura e non mascolare i nostri bambinimaschi secondo una struttura dell’Ego che richiede pre-dominio e privilegi per sentire di adempiere al propriomandato d’identità di genere. Dobbiamo far riemergereil modello della pratica materna per tutti/e, educare an-che i nostri figli maschi a essere donatori, sin dall’inizio.Dopo essere stati educati ad abbandonare la madre eaver appreso a non praticare le cure, come potranno im-parare anni dopo a essere “buoni”, seguendo le regole,la sintassi comportamentale derivante dalla denomina-zione di genere, la Legge di prevaricazione del Padre?

1 Ancora una volta dovremmo chiederci “ per chi è, a chi è diretto?”. At-tribuiamo le caratteristiche delle cose alle parole e quelle delle parole alle co-se. Nell’esempio dei linguisti, “uomo” = adulto + maschio, “uomo” non ha lacaratteristica di essere adulto o maschio, poiché “uomo” è una parola mentreun uomo non lo è. Offuschiamo la relazione tra cose e parole con l’idea di unconcetto basato sulla parola, al quale possono essere attribuite (date) deter-minate caratteristiche. Trascriviamo le caratteristiche degli uomini con un’e-

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spressione basata su addizione e sottrazione, più e meno, che sono traduzioniquantificative del dare e prendere, creando un “significato” (mean-ing), “cru-dele” attività senza dono.

2 Mi sembra affascinante notare che i seni siano stati al tempo stesso de-gradati e oggettivizzati sessualmente nella nostra società. Fino a poco tempofa, i nostri biberon avevano un aspetto fallico: un altro sintomo del nostromale, della sostituzione del modello materno con quello paterno.

3 I figli/e possono far parte di molte di queste relazioni a diversi livelli. Larelazione di proprietà sembra simile ai complessi di Vygotsky: è da-uno-a-molti ma non dipende dalla somiglianza. Il figlio/a potrebbe essere proprieta-rio/a, ad esempio di giocattoli, già in tenera età ed essere a sua volta “di pro-prietà” del padre nella relazione familiare. I complessi associativi o la loro in-carnazione nella proprietà e nella famiglia, potrebbero essere tenuti insiemeanche da un “tono sensibile”, come diceva Carl Jung (1906) a proposito del-l’associazione della parola e dei complessi psicologici. Il tono sensibile deiconcetti sarebbe influenzato dalla mascolazione.

4 Talvolta, sebbene molte di noi raggiungano una competenza linguisticaadeguata, la mancanza di accesso a esperienze di diversità culturale e all’edu-cazione nei suoi aspetti positivi, priva di molti di questi doni coloro che sonosvantaggiate a livello economico.

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Capitolo ottavoL’invidia della castrazione

È stata intrapresa una battaglia tra abbienti e nonabbienti. Credo che le cause risiedano in ciò che hodeciso di chiamare “invidia della castrazione”. Le rela-zioni fondate sulla proprietà privata sono il prodottodella mutua opposizione delle categorie di genere,unita alla posizione privilegiata dell’esemplare delconcetto. Il bambino scopre di appartenere alla cate-goria opposta a quella della pratica del dono, a causadi ciò che ha (il pene), mentre la madre viene definitadonna perché dona (cura) e perché non ha (il pene).La categoria “avente” si oppone alla categoria “do-nante”; la pratica del dono e il non avere s’identifica-no reciprocamente e con l’essere donna. Il figlio ma-schio appartiene alla stessa categoria del padre (che èun esemplare del concetto privilegiato, l’“uno”), madovrà partecipare al ruolo dei “molti”, le cose, chi ce-de il passo, i deboli, prima che questa relazione possaessere invertita e lui possa, in quanto adulto, diventarel’esemplare o l’“uno”. Il ruolo del bambino è simileanche a quello della merce, nel confronto continuo auno standard di valore generale quantitativo. Mentrel’“avere” pone il bambino in una situazione competiti-va, che potrebbe essere considerata difficile e negati-va, egli è consolato dal fatto che appartiene al genereprivilegiato al quale viene dato di più.

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La proprietà e il denaro

Il denaro è il “dono” sostitutivo (materiale) della merce,e l’esemplare della categoria del valore. Prende il posto diogni altro modello concettuale come esemplare del valoredei prodotti di scambio, nella loro transizione di allontana-mento dal modello del dono. Il proprietario sta alla pro-prietà come il denaro sta alla merce, come il padre sta al fi-glio, come il pene del padre sta a quello del figlio, come l’e-semplare sta ai molti che vengono a esso confrontati1.

Il maschio è l’uno che possiede la “marca”, che lo met-te in evidenza sia come potenziale esemplare uomo sia co-me potenziale proprietario, in una relazione uno-molti conla sua proprietà. Il pene è forse l’elemento esemplare dellaproprietà; ma è inalienabile: l’uomo non può rinunciarviné vi rinuncerà2. Il padre patriarcale sta in una relazione disimilarità uno-molti con la famiglia, una relazione di pro-prietà. In un certo senso il controllo del padre sulla fami-glia sembra necessario considerando che, nella scarsità, chidona sarà mancante se non riceve da altri e chi invece tie-ne per sé e non dona non sarà mancante (c’è sicuramenteanche un aspetto di ritenzione anale in tutto questo). Allemadri e ai figli/e sotto il controllo del padre può essere im-posto di non praticare il dono al di fuori della famiglia, dinon soddisfare i bisogni di altri/e sessualmente o material-mente. Coloro che hanno continueranno perciò presumi-bilmente a sopravvivere, nella scarsità. L’uno che ha, pos-sedendo grosse quantità di denaro, l’esemplare del valore,assicura più alimenti per sé e per quelli che sono in rela-zione con lui, sotto il suo controllo uno-molti nella fami-glia strutturata in funzione del concetto.

Lo scambio, esigendo equivalenza, pone un elemen-to relativo a confronto con uno standard, e quindi que-sto elemento entra nel processo concettuale. Lo stessoprocesso si verifica in diversi ambiti della vita: nellamascolazione del bambino piccolo, in misurazioni e

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prove di ogni tipo, voti scolastici, record sportivi, con-corsi di bellezza; la relazione del presidente con i citta-dini, della star della musica e del cinema con i fan, diun maiale da primo premio con il porcellini, sono va-riazioni sul tema.

Analoga allo scambio è la cerimonia matrimoniale oc-cidentale, in cui la donna è un “elemento” che viene tra-sferito fuori dal gruppo familiare, relativo al padre quale“uno” esemplare, verso una nuova relazione con il mari-to quale “uno” esemplare. Negli USA questo modello co-mincia a cambiare in una certa misura, sebbene subiamoancora la sua influenza, mentre in altre parti del mondoesso è ancora consolidato nelle sue diverse varianti. Ben-ché il giorno delle nozze sia ritenuto il giorno più felicenella vita di una donna, un giorno esemplare, e la donnastessa venga considerata in quel caso l’esemplare di Don-na, ella semplicemente interpreta la parte di un oggettoesemplare in un processo in cui subisce l’appropriazioneda parte del suo (nuovo) sostituto, il marito, che funzio-na in modo molto simile alla parola. Perciò è opportunoche la donna prenda il nome del marito.

Si è formata una nuova unità autoreplicante di fami-glia-concetto, in cui i bambini continueranno a impararea diventare “maschi” rinunciando al processo del dono(talvolta penalizzandolo e degradandolo), e le bambinepoi impareranno a dare i propri doni e la propria fedeltàall’esemplare maschio. La proprietà, come il matrimonio,è basata sull’esclusione mutua degli “uni”3. Ogni pro-prietario/a è in una relazione uno-molti con le sue pro-prietà, e in una relazione mutuamente esclusiva con ognialtro/a proprietario/a. Il denaro interviene come esem-plare del concetto di valore, con il quale i prodotti sonoin relazione e dal quale vengono sostituiti, così come ilsacerdote interviene tra il padre e il marito per regola-mentare il trasferimento della donna (ancora donatrice)da un “concetto” familiare a un altro. La modifica della

L’INVIDIA DELLA CASTRAZIONE

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relazione tra coloro che appartengono a una categoria,rispetto a un esemplare, così che possano essere trasferitea una diversa categoria (mutuamente opposta) e a un di-verso esemplare, richiede una parola definitiva, pronun-ciata dal sacerdote o presentata dall’acquirente comeporzione effettiva della parola materiale e dell’esemplaredi valore (il denaro); gli atti, le licenze e i contratti sonorappresentazioni durevoli delle parole definitive.

Il lavoro e il denaro

Nella vendita di ore lavorative avviene pressappocola stessa cosa; ma la manodopera viene spesso prestatagratuitamente alla famiglia e ai conoscenti, e tali doni eservizi permeano in realtà gran parte della vita, così essaè alquanto più flessibile della proprietà privata. A causadella scarsità, i posti di lavoro (manodopera monetizza-ta) assumono l’apparenza di doni. Molte donne e uomi-ni non ricevono tale dono, di essere cioè definiti/e inbase al denaro, che consente la loro sopravvivenza. Lamonetizzazione, o l’assenza di essa, è uno strumento delpotere, poiché definisce un gruppo come rilevante ri-spetto al concetto di valore economico, l’altro gruppocome irrilevante (essi non hanno la “qualità comune”del valore di scambio). Questa categorizzazione implicache chi sta al di fuori del gruppo privilegiato potrebbeentrarne a far parte se solo fosse abbastanza bravo, effi-ciente o istruito; il suo successo o fallimento sembra di-pendere dal fatto se è “abbiente” o “non abbiente”4. Ilvalore di scambio è importante perché dà accesso allacategoria in cui è possibile sopravvivere. La scarsità,tuttavia (il “non avere”), necessaria perché lo scambioprevalga come processo, viene creata artificialmente co-sì che la categoria monetizzata (dell’“avere”) possa es-sere privilegiata.

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Gli uomini mascolati hanno tradizionalmente bisognodi donne che siano state abbandonate e private del donodi appartenere a una categoria privilegiata, senza un di-ploma o un titolo (un’altra mascolazione verbale), o un la-voro monetizzato (mascolazione monetaria), che si pren-dano cura di loro per renderli più capaci di avere succes-so nella spietata competizione per appartenere alle cate-gorie altamente monetizzate. Questo è il punto di contat-to in cui capitalismo e patriarcato fanno leva su a coloroche loro stessi definiscono “diversi”: il sistema complessi-vo ha bisogno e fa uso dei bisogni individuali di chi si tro-va al di fuori della categoria dei lavoratori. Ad esempio, ilmercato del lavoro ha bisogno dei disoccupati che voglio-no un impiego, per poter mantenere basso il costo del la-voro; coloro che svolgono lavoro monetizzato hanno bi-sogno del lavoro gratuito di chi non svolge lavoro mone-tizzato, lavoro che passa attraverso i lavoratori permetten-do di aggiungere più lavoro-dono al loro impiego. Il siste-ma ricompensa chi lavora contrapponendo il suo relativobenessere alle sofferenze provocate dai bisogni insoddi-sfatti dei disoccupati5. Così, gli “abbienti” sono incorag-giati ad attribuire un maggiore valore relativo a ciò chehanno, attraverso la paura dell’abbandono e delle soffe-renze sperimentati dai “non abbienti”. Analogamente, ilmaltrattamento di donne e bambine, persino (in alcuneculture) l’abbandono delle neonate perché muoiano, por-ta coloro che hanno la “marca” ad attribuire una maggio-re importanza a essa e al fatto di appartenere alla catego-ria mascolata, per via della paura che se fossero donne“non abbienti” potrebbero subire simili maltrattamenti.

L’errore primordiale

È come se ci fosse un ragionamento inconscio di que-sto tipo: se il bambino, a causa del suo pene, è stato po-

L’INVIDIA DELLA CASTRAZIONE

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sto nella categoria di quelli che non nutrono, potrebberimediare a questa estraniazione con la castrazione e,quindi, desiderarla per poter essere come la madre nutri-ce (Freud ha rivelato che spesso temiamo ciò che deside-riamo). Attraverso la misoginia, la società gli mostra chele ragazze, che sono nate “castrate”, vengono penalizzateancora più intensamente di lui, perciò egli dovrebbe darevalore a ciò che ha. Si potrebbe dire che abbia sofferto diinvidia della castrazione, ma che ne sia guarito da adultoattraverso il maltrattamento dei “non abbienti”. E mag-giori saranno i beni che otterrà da essi, maggiore sarà ilsuo “avere” e, si suppone, minore il suo desiderio di es-sere come loro o di invidiare le loro mancanze.

Forse il bambino vorrebbe dare il proprio pene allamadre, perché lei non ne ha uno, soddisfacendo così il“bisogno” di lei di appartenere alla categoria superiore.Decide però di tenerlo (lo tratta come una proprietà ina-lienabile e, perciò, di maggiore valore di ciò che darebbevia). Rinuncia a darlo e al tempo stesso rinuncia al para-digma del dono. Così, dimostra che il modello del donoè alienabile, o ha meno importanza per lui di quanto nonabbia il tenere il pene (non venire castrato) e rimanerenella categoria “maschio”. Nello scambio6, egli adotta lasessualità genitale al posto delle pratiche di cura, così co-me la società nel suo insieme adotta lo scambio economi-co al posto della pratica del dono. Come adulto, accu-mulando proprietà e denaro (che possono essere sia te-nuti che dati), egli ha una nuova possibilità di tornare aimpegnarsi nelle pratiche di cura selettive verso gli altri.Può infatti, se raggiunge un certo livello di ricchezza, da-re in abbondanza, se lo vuole, e apparire finalmente per-sino più bravo a donare di quanto non era la madre, checomunque gli era utile soltanto nell’infanzia. Donando apochi, egli può ripetere quel modello, privilegiando co-storo rispetto ad altri/e che sono non abbienti, ripetendoil proprio ingresso nella categoria privilegiata, rendendoli

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“abbienti” in opposizione alle loro controparti (econo-miche o femminili) “non abbienti”.

Un altro difetto che appare nel cedere il passo o met-tersi da parte della madre come modello per il figlio ma-schio è che il figlio, non risultando inalienabile non sembraessere riconosciuto prezioso; potrebbe anche sembrareche la madre abbia rinunciato al proprio pene, che lo ab-bia persino dato al bambino. Il padre, invece, non ha que-sto difetto, poiché ha tenuto il proprio pene, e mantiene ilfiglio nella propria categoria di genere; sembra sapere co-me non rinunciare a troppo. Se il padre fosse stato la ma-dre – potrebbe pensare il bambino – ella avrebbe il pene,ed egli stesso (il figlio) sarebbe ancora come lui/lei e sareb-be ancora in grado di svolgere le pratiche di cura. Questalinea di pensiero speculativa sarebbe comunque discutibi-le, poiché non è il pene che sottrae il bambino alla catego-ria della madre, bensì l’interpretazione sociale del pene, ela costruzione di genere basata sulla opposizione dei termi-ni di genere. Socialmente, lo denominiamo “maschio” per-ché ha un pene; se volesse rimanere nutritore – e sarebbeauspicabile, quale piccolo homo donans – non dovrebbemodificare il suo corpo, rinunciare al pene, ma solamentecambiare il nome e il concetto di genere nella sua società(un compito arduo, ma decisamente meno minaccioso cheperdere una parte del corpo). Questa cura del linguaggioeviterebbe che il ragazzo desideri ciò che deve pure temeree non deve raggiungere: cioè la sua castrazione. La societàriuscirebbe a smettere di iperprivilegiare gli “abbienti” epenalizzare i “non abbienti” sia rispetto ai genitali maschilisia rispetto al denaro e agli altri tipi di proprietà.

Puerarchia

I ricchi spesso temono il non avere, anche se potreb-bero desiderare di partecipare a un’economia del dono

L’INVIDIA DELLA CASTRAZIONE

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con coloro che non hanno. Lo stesso tipo di privilegioche premia i bambini a discapito delle bambine viene da-to ai ricchi a discapito dei poveri. La paura di castrazionesimbolica tormenta il ricco, ed egli percepisce il bisognodegli altri/e come un desiderio di prendere ciò che egliha, castrandolo dei suoi beni, relegandolo alla categorianon privilegiata. Le donne ricche occupano una posizio-ne contraddittoria, perché possiedono soltanto denaro oproprietà: non hanno la “marca” maschile del privilegio.Potrebbe essere questo il motivo per cui comprano og-getti costosi da indossare, come i gioielli, per dimostrarela loro appartenenza alla categoria superiore.

Pistole e coltelli sono marche che riaffermano l’equa-zione fallica e permettono talvolta al povero d’imporreal ricco la pratica del dono mediante il furto. Il ricco im-pone spesso la pratica del dono al povero mediante lapressione dei bassi salari e altri mezzi di sfruttamento;non lo definisce però furto, bensì profitto. Il sistema diricavo dei profitti viene difeso da gerarchie di polizia omilitari armati di pistole e coltelli; il povero viene pena-lizzato perché “non abbiente”, mentre il ricco ricom-pensato perché “abbiente”.

L’intensificarsi dei bisogni dei poveri dimostra lanecessità della economia del dono su larga scala. Ri-nunciare ai soldi assomiglia simbolicamente però a ri-nunciare al pene (castrazione), rinunciando alla cate-goria privilegiata e così alla possibilità di vivere nel-l’abbondanza. L’abbondanza è una buona cosa in sé,ma viene utilizzata per ricompensare l’“avere”, il non-donare e la categorizzazione, la definizione e le equa-zioni, che derivano dalla mascolazione. Creando unapovertà diffusa, il capitalismo pone le condizioni per ilprevalere dell’economia dello scambio, e trasforma ciòche sarebbe un’eredità di tutti nella ricompensa deipochi fortunati, così come fa la mascolazione con l’ab-bondanza della madre. La relazione tra “abbienti” e

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“non abbienti” inscena la combinazione di paura e de-siderio della castrazione che sorge dalle false catego-rizzazioni della mascolazione. L’ansia dei figli maschiha lanciato il suo incantesimo sulla società nell’insie-me, provocando danni incredibili. Potrebbe esseredifficile per noi riconoscere questa situazione, poichéinconsciamente sentiamo di dover ripagare il dannoche è stato fatto; in tal caso, tuttavia ragioneremo inu-tilmente secondo il paradigma dello scambio

Nessuna somma basterebbe a compensare il dannoche è stato fatto, ma il punto è che se vogliamo accede-re al paradigma del dono dobbiamo in ogni caso per-donare. Possiamo cominciare ridefinendo il sistema co-me qualcosa che ha bisogno di essere cambiato, nonsoltanto come un accettabile status quo, e possiamo co-minciare col soddisfare quel bisogno. Possiamo reinter-pretare il patriarcato alla luce del paradigma del donocome un brutto sogno, e ricominciare tutto daccapo.Dovremmo forse assegnare un nuovo nome a questo si-stema fondato su un tale incubo di castrazione infanti-le, chiamandolo non più patriarcato ma “puerarchia”,legge del bambino; oppure “puer”-archia – legge dellaparola “bambino”.

La misoginia

Il maltrattamento delle donne in genere può ancheessere visto come una rappresaglia contro la madre peraver ceduto il bambino all’altro genere. Un tale scam-bio (o pareggio del conto) non è forse solamente un at-tacco mercenario ma un rinnovato tentativo di formareun concetto creando ripetute istanze del problema diinclusione/esclusione in base alle proprietà fisiche.Questo tentativo non è riuscito, benché l’abbandonodei “non abbienti” da parte degli “abbienti” si sia veri-

L’INVIDIA DELLA CASTRAZIONE

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ficato su scala sempre più ampia. Adesso gli “abbienti”sono circa 250 milioni di persone, mentre i “non ab-bienti” sono 5,5 miliardi. Una delle ragioni di questofenomeno è che la traduzione del problema di avere omancare del pene nei termini economici di avere emancare dei mezzi di sussistenza ha creato innumerevo-li nuovi problemi e camuffato la loro origine comunenell’errata percezione infantile. Qui, contrariamente al-l’incubo infantile (in cui si può temere che le madri ce-dano il proprio pene ai figli maschi), i “non abbienti”danno in realtà agli “abbienti”, sebbene ciò venga dissi-mulato con un’eccessiva enfasi sul presunto valore emerito degli “abbienti”, la cui posizione di “uno” vienemantenuta dalle gerarchie e ottenuta mediante la com-petizione e la dominazione.

L’equivoco che crea una tale terribile distorsionedei valori (e della realtà stessa) è molto profondo matanto innocente ed evidente da risultare invisibile. Èsoltanto la mascolazione e il conseguente allontana-mento dal modello della pratica materna che ci fa darepiù valore alla morte e alla distruzione che alla vita eal benessere di tutti. Gli “abbienti” dovrebbero dona-re ai “non abbienti”, donare per soddisfare i bisogni, enon abbandonarli o ucciderli penalizzandoli perchénon hanno – o per far sì che gli “abbienti” possanodare maggior valore alle loro proprietà, gli impieghi, ildenaro, i falli e altro. Sto cercando d’individuare e dispiegare alcuni modelli che ritengo siano alla base deinostri problemi. Non nego che molti uomini amino lapropria prole, o che i bambini spesso mantengano lacapacità di svolgere le pratiche di cura (forse su alcunidi loro la mascolazione semplicemente non “prende”);ma credo che tali modelli creino profondi contrastinella nostra cultura, intacchino a fondo le nostre isti-tuzioni e influenzino il comportamento di tutti/e inmodo inutilmente negativo.

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La cura dello scambio

All’astrazione “bambino = padre” viene data una mag-giore importanza rispetto alla concreta relazione creativabasata sulle pratiche di cura, nell’elenco delle priorità sog-gettive (“marginali”)7 dei genitori. L’affinità fisica visibile èpiù importante di quella comportamentale e della costru-zione continua ad hoc dell’Io, fondata sull’amore. Ciono-nostante questa deve comunque avvenire, benché possavenire camuffata dalla sottomissione della madre e il “me-ritare” del figlio. L’equivalenza tra il figlio e il padre è au-to-convalidante grazie all’“effetto specchio”; il figlio riflet-te il padre che a sua volta riflette se stesso nel figlio (il pa-dre si autoavvera quale “uno” esemplare nel suo essere l’e-quivalente rispetto al quale il bambino è relativo) e attra-verso altri esempi di relazioni concettuali nel contesto piùampio. La pratica del dono è “convalidante dell’altro”. At-tualmente la pratica del dono si prende cura erroneamentedello scambio come suo “altro” e conferma l’equivalenzacioè il principio della sostituzione; alimenta la contraddi-zione di sé, la sostituzione della pratica del dono e il suorimpiazzo con l’equazione fallica. Le donatrici danno alprocesso dello scambio come fosse il loro “altro”, trasfor-mando in “altro” anche il bambino, lasciando che l’esem-plare del padre le sostituisca, creando l’immagine maschile(di equivalenza e sostituzione) perché il bambino la segua.Un processo semplice orientato verso l’altro dona a un al-tro processo complesso, artificiale e auto-riflettente.

La madre sostiene la similitudine del figlio con il pa-dre e la alimenta, se ne prende cura; afferma l’importan-za della loro similitudine mentre è ovvio (e non) che ellanon pretende che il bambino le assomigli perché lei inrealtà se ne prende cura. Egli è diverso da lei (in primoluogo perché è un bambino, poi perché lo si sta renden-do maschio). Il privilegio e l’attenzione del padre sem-brano dipendere dalla somiglianza del bambino con lui

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e forse dalla grandezza del figlio, e perciò anche dallagrandezza del pene, che non è certamente uguale a quel-lo del padre (l’equivalenza tra di loro è dunque soltantocontrofattuale e programmatica sin dall’inizio).

A questo si può aggiungere poi il bisogno o il desideriodi affermare la paternità e, perciò, anche il privilegiare al-tre affinità fisiche come i tratti del viso, il colore dei capellie della pelle, l’altezza; anche certi aspetti del comporta-mento possono essere identificati come similari. Ancora,l’obbedienza alla parola del padre fa sì che il bambino agi-sca in funzione dei suoi programmi, mostrando così a chi“appartiene” il figlio. Il carattere di “appartenere a” è im-portante anche per le bambine; hanno bisogno di apparte-nere al padre e, quindi, devono obbedire alla sua Legge,anche se alla fine dovranno essere uguali alla madre. Que-sta esigenza si verifica perché la proprietà e il concettocoincidono quali modelli uno-molti. Dal momento che ilpadre non può essere il modello di genere per la figlia(l’altro modello uno-molti), la relazione di proprietà emer-ge in modo più forte; le bambine seguono il modello dellemadri nell’appartenere al padre e nel dare importanza allarelazione concettuale uno-molti tra i maschi.

Per mantenere al loro posto i paradigmi dello scambioe del dono, è spesso necessario che gli scambiatori evitinopersino l’apparenza di pratica del dono. Nello scambio vie-ne tuttavia praticata una grandissima parte di pratica deldono, attraverso il plusvalore, il lavoro-dono, e come ri-sultato stesso della frode; persino cose come l’inflazione,la stampa di nuovo denaro e le differenze tra i tassi dicambio offrono doni gratuiti ad alcuni. Tutto questo vie-ne completamente occultato da una apparenza di scambioequo. È per questo che dobbiamo mantenere gli occhipuntati sull’apparenza di uguaglianza, e questo è un donodi uguaglianza, cioè che essa nasconde i doni della praticadel dono e il superamento della diversità. Lo stesso avvie-ne col cambiamento di categoria del bambino: l’ugua-

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glianza con il padre nasconde ciò che ha perduto per ac-quisire il suo privilegio, cioè il modello del dono di cuisembra sia stato privato, defraudato, da cui in realtà vieneil bene. Una volta che ha rinunciato alla pratica del dono,è come se la società decidesse di ridurre le sue perdite nelcompromesso. Lo scambio equo appare come la cosa mi-gliore che ci possa essere, così puntiamo l’attenzione suisuoi doni, che sono i valori del patriarcato: la sicurezzasotto la legge del patriarca onorato e (occasionalmente)benevolo, l’uguaglianza e la giustizia. Questi valori sonopoi accompagnati dalla dominazione e dalla cancellazionedei valori della pratica del dono e dell’abbondanza: l’o-rientamento verso l’altro, la gentilezza, la tolleranza, la di-versità e lo slancio d’amore attraverso la sinapsi.

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Figura 13. La partecipazione dei generi nei due paradigmi.

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1 Il denaro prende il posto del proprietario come “esemplare” del concet-to al quale le merci sono in relazione come valori, finché non è ceduto dalcompratore e i beni trasferiti si rapportano come proprietà al nuovo padronecome “esemplare”. Una relazione di proprietà uno-molti viene soppiantata dauna relazione del concetto di valore uno-molti e poi s’instaura una nuova re-lazione di proprietà uno-molti.

2 Vedi il saggio di Annette Weiner (1992) sulla logica economica del non-donare in varie culture.

3 Credo che la rete di solidarietà maschile (Old Boys Network), come ilgruppo dei proprietari, concretizza i valori basati sulla differenza delle parolein reciproca opposizione nella langue. Storicamente le donne e i bambini/estanno ai loro mariti e padri nella stessa maniera in cui le proprietà stanno ailoro proprietari e le cose alle parole che le rappresentano. Ogni membro dellacategoria mariti/padri è in relazione mutuamente esclusiva, basata sulla diffe-renza, con ogni altro, mentre è in una relazione uno-molti con la propria fami-glia. Il marito/padre deve impedire agli altri “uni” di prendere il suo posto, e iproprietari devono affrontare una simile sfida. Nella langue, ogni parola è inuna relazione differenziale con tutte le altre, mentre ha una relazione inclusivauno-molti con le cose legate a essa quale loro nome. Abbiamo detto che quan-do l’esemplare non è più necessario per formare il concetto, esso diventa sem-plicemente una delle cose appartenenti a un tipo. La sua rimozione potrebbetuttavia essere attribuita anche alla sua incorporazione o assunzione nella pa-rola, una sorta di logoficazione. I maschi, soprattutto quelli appartenenti allecategorie “superiori”, sembrano diventare parole e le femmine (e altri di cate-gorie “inferiori”) sembrano diventare cose “reificate” (v. supra, Fig. 12).

4 L’idea di vendere e comprare ore di lavoro sembra essere abbastanzachiara ma c’è molta differenza tra il possesso delle nostre vite e il possesso dibeni. La relazione che abbiamo con la nostra vita non è “uno-molti”, comeinvece la nostra relazione con la proprietà, per quanto potremmo dividerla inperiodi di tempo e potremmo avere o meno diverse qualità o competenzevendibili.

5 L’istituzione del welfare definisce “povera” la categoria esclusa e fa sìche lo Stato patriarcale svolga una minima pratica del dono. È una paradossa-le mascolazione di persone quali “non abbienti” con la conseguente umilia-zione che consente il mantenimento di una sottoclasse che identifica le causedella propria povertà nei difetti personali (“carenze”).

6 Forse il sostegno monetario che egli dà alla propria moglie è un mododi farle “avere” ciò che non ha potuto dare alla madre.

7 Il marginalismo in economia si basa sulla considerazione della relativaalienabilità e inalienabilità delle proprietà. Gli operatori economici dovrebbe-ro chiedersi che cosa sono meno disposti a cedere.

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Capitolo nonoÈ = $

Il bisogno che la parola-dono soddisfa non è un biso-gno volto direttamente all’oggetto, né un bisogno di con-sumare quell’oggetto. Per questo non dobbiamo portarefisicamente con noi le cose di cui parliamo, come faceva-no i filosofi nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Viavia che le nostre esperienze si accumulano, sorgono biso-gni comunicativi sempre nuovi di stabilire relazioni uma-ne inclusive reciproche, rispetto a tutte le parti del mon-do. Questi bisogni comunicativi vengono soddisfatti dan-do doni verbali per stabilire le relazioni, anziché dando ericevendo doni materiali. In questo modo, trasformiamociò che poteva sembrare un mondo oggettivo in un mon-do d’intensa pratica del dono, nel quale gli esseri umaniinteragiscono l’uno con l’altro sulla base del dono, alme-no in questo singolo ambito della loro vita, in ogni mo-mento. Il dare linguistico esiste sempre, qualunque altracosa facciamo, persino quando abbiamo un comporta-mento disumano l’uno nei confronti nell’altro. Se potes-simo quindi allineare le nostre azioni nel mondo materia-le agli aspetti di dono del linguaggio, avremmo posto lebasi per il fiorire dell’umanità.

Le parole-dono hanno comunque diversi vantaggi ri-spetto alla maggior parte dei doni materiali: per gli esse-ri umani le parole sono innanzi tutto facili da creare e daimmagazzinare; in secondo luogo, le diverse istanze diuna parola sono di fatto utilizzati come una sola parola.

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Il fatto che diversi eventi sonori sono capiti come unacosa sola permette che la parola sia per ognuno di noi la“stessa cosa” che è per gli altri; fa anche sì che la parolaabbia la caratteristica di essere in due o più posti nellostesso momento. In terzo luogo, tali peculiarità dannoluogo alla generalità della parola, dal momento che essapuò essere usata ripetutamente da molti, come qualcosaalla quale le cose possono essere messe in relazione e ri-spetto a cui si possono instaurare le relazioni umane.Una parola può essere potenzialmente detta da tutti eanche potenzialmente ricevuta da tutti.

L’atto di sostituzione dei doni verbali per i doni ma-teriali, così come per cose “immateriali”, eventi, situa-zioni, idee considerati in quanto per-gli-altri, è un attospecificatamente umano. La parola è un tipo di dono so-stitutivo speciale e i bisogni comunicativi che soddisfasono bisogni specificamente umani, che si sono ancheadattati ai mezzi volti a soddisfarli. Moltiplichiamo i bi-sogni per il numero di cose disponibili di cui parlare chesiano abbastanza significative da determinare la nascitadi una singola parola-dono (un nome) al riguardo, e ot-teniamo un plenum linguistico caratterizzato da una im-mensa varietà e capacità di combinarsi, al quale ciascunaparola partecipa come una tra le molte e che tutti nellacomunità possono potenzialmente usare.

L’essere meta

Esiste una parola astratta, il verbo “essere”, che hadato molto da riflettere ai filosofi. Anche se non vieneusata in tutte le lingue, quando c’è la sua presenza è af-fascinante. La sua trascrizione logica e quantitativa, nelsegno “=”, sembra essere tanto diffusa quanto l’econo-mia di mercato. Credo che, nella definizione, il verbo“essere” sia una parola-dono che soddisfa un bisogno

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comunicativo sorto dalla frase stessa nella quale è inseri-to. Sostituisce gli atti di sostituzione (di doni per lo piùnon verbali) che le altre parole nella frase hanno appenacompiuto o stanno per compiere. Nella frase “il gatto èun felino domestico”, “è” è il dono sostitutivo dell’atto

È = $

Figura 14. Sostituire gli atti di sostituzione inserisce un meta mo-mento nella frase. Come singolo sostituto di atti di sostituzione, “è”diventa molto generale.

Nella definizione, il verbo “essere” sostituisce l’atto disostituzione di una parola per altre parole o di una paro-la o proposizione per un tipo di cosa.

“Gatto”

“È”

“È”

“Felinodomestico”

Il verbo “essere” è la parola dono sostitutiva per (il tipodi) cose utili che sono atti di sostituzione

atti di sostituzione

atti di sostituzione

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di sostituzione, che si compie pronunciando “gatto”. Al-lo stesso tempo, sostituisce la sostituzione verbale se-guente, “felino domestico”, che così può essere visto co-me un atto dello stesso tipo di quello di “gatto”. Consi-derare il verbo “essere” un sostituto di altri atti del do-nare verbale, che avvengono all’interno della stessa frasedi cui esso fa parte, ci permette di considerarlo un ele-mento “meta” della frase (v. Fig. 14). Questo produce ilcarattere temporalmente presente del verbo “essere”, vi-sto che i suoi riferimenti (le “cose” in relazione a esso)sono immediatamente lì, in quanto avvengono all’inter-no della stessa frase. Questo atto di sostituzione con laparola-dono è di per sé un servizio, che viene svolto perl’altro: soddisfa un bisogno comunicativo meta-frasale, ilbisogno di una rappresentazione (re-presentation, un da-re di nuovo) degli atti che avvengono nella frase stessa,stabilendo una relazione tra le persone in riguardo agliatti nel qui e ora. Questa introduzione di un passaggio aun meta momento all’interno della frase media la suafunzione di definizione, permettendo al definiendum disostituire il definiens.

Se il linguaggio funziona effettivamente secondo ilprincipio di pratica del dono sostitutiva, è evidente chein qualsiasi momento devono verificarsi numerosissimiatti di sostituzione. L’atto è già di per sé molto generale.La parola che funziona come dono sostitutivo dell’attodi sostituzione è perciò la più generale di tutte; non esi-stono altre parole che abbiano lo stesso livello di genera-lità. Questo non le impedisce però di rimanere umile edi poter essere usata ampiamente. È per la sua posizioneunica che il verbo “essere” in sé è difficile da definire;ma noi cerchiamo comunque di definirlo, dal momentoche non sembra altro che una parola come un’altra. Lenostre menti hanno un sussulto e sembrano espandersial mondo intero e contrarsi al presente immediato,quando diciamo cose del tipo “l’essere è”. Forse perché

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“l’essere” – il verbo “essere” – è una meta parola-dono(non un semplice sostituto, bensì il dono-sostituto del-l’atto stesso di sostituzione della parola dono); è moltogenerale e al tempo stesso non ha un gruppo di terminisul suo stesso livello di generalità al quale possa essereopposto come valore1.

Perché le parole e i bisogni comunicativi che esse sod-disfano si sviluppino, deve essere mantenuto un pianoverbale appartenente a tutti che si aggiunge al piano del-la vita non verbale. Quando le cose diventano abbastan-za importanti sul piano non verbale, esse acquisisconosul piano verbale un dono comunicativo collettivo per-manente, sotto forma di una parola. Quella parola vieneusata nel momento in cui spostiamo la nostra pratica deldono comunicativo dal piano non verbale a quello verba-le. Questo spostamento può essere considerato una sosti-tuzione: possiamo accedere al dono verbale e utilizzarloal posto del dono non verbale (o, nella definizione, al po-sto di altri doni verbali) per creare legami con l’altro. Èproprio questo spostamento, o atto di sostituzione, chenominiamo quando diciamo “è”; per questo possiamousare “è” sia quando parliamo di una cosa non verbale,indicandola (“deissi”), come nel caso di “quello è un gat-to”, sia quando usiamo un definiens verbale, “il gatto èun animale peloso e amichevole dalla lunga coda”. In en-trambi i casi, “è” rappresenta lo spostamento da un dononon verbale a un dono verbale. Avviene uno spostamen-to dal piano della realtà a quello verbale (passando attra-verso l’elemento relativamente vuoto che prende il posto:“quello”); l’altro spostamento avviene dal piano dellarealtà al piano verbale, per poi passare nuovamente a unelemento più costante del piano verbale.

Le frasi combinano parole-dono collettive generaliper soddisfare bisogni comunicativi contingenti e parti-colari. Ogni aspetto di una situazione o di un evento,preso singolarmente, può essere considerato in relazione

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a una parola-dono, il suo nome. Quando le parole vengo-no prese insieme in sequenza (ciò che i linguisti chiama-no l’asse della “metonimia”), si combinano e collaboranol’una con l’altra (attraverso processi trasposti di dare e ri-cevere reciproci), particolarizzandosi a vicenda per sod-disfare un bisogno comunicativo reale sorto dalla situa-zione di cui parlante e ascoltatore stanno parlando. Insie-me, sono un modo transitorio e provvisorio di presentarealcuni elementi del mondo in quanto pertinenti, distin-guendoli da altri elementi non pertinenti; forniscono unacombinazione di parole con la quale gli elementi perti-nenti sono in relazione, almeno per il momento2.

La relazione tra le parole e le cose, come anche la re-lazione concettuale di cui abbiamo parlato, avviene sulpiano di ciò che i linguisti hanno chiamato l’asse della“metafora”. In questo caso, i termini sono in relazionel’uno all’altro su diversi livelli sulla base di un’equivalen-za e della capacità di un elemento che sta su un certo li-vello di prendere il posto di altri su un altro livello. L’assedella metafora implica spesso la polarità uno-molti3. Lametonimia e la metafora lavorano insieme nel discorso,come anche nelle definizioni. Sequenze di parole (meto-nimia), molte delle quali sono individualmente in relazio-ne uno-molti con le cose per cui esse sono doni sostituti-vi (metafora), vengono messe insieme secondo relazionidi dono trasposte. Fornire una parola come dono sostitu-tivo è già di per sé un tipo particolare di servizio.

Il verbo “essere” costituisce un’intersezione e un pas-saggio tra i due assi della metonimia (contiguità) e dellametafora (sostituzione). Come dono sostitutivo dell’attodi sostituzione è una metafora, ma come sostituto postoaccanto alle cose che indica (gli altri atti di sostituzionedel dono nella frase) è contiguo e forma una successionemetonimica. Come abbiamo visto sopra, una frase sul-l’asse della contiguità ripete le relazioni di dono che po-trebbero aver luogo a un livello non verbale. La defini-

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zione è comunque diversa da altri tipi di frase, poiché ècostruita secondo strati di sostituzione, per cui il defi-niens serve come frase (insieme di parole-dono) provvi-soria per il tipo di cosa che viene definita e il definien-dum prende poi il posto del definiens per l’ascoltatorecome nome generale e costante per quel tipo di cosa. Ladefinizione è un servizio che il parlante svolge per l’a-scoltatore, creando una relazione inclusiva e dando, mo-mentaneamente, qualcosa (una parola-dono) che puòdurare per l’ascoltatore tutta la vita.

I connettivi logici (come “sia… che”, “o… o” e“non”) modificano il (sono dati al) verbo “essere”, cosìda renderlo il dono sostitutivo dell’atto di sostituzionedi due o più unità: “il gatto è sia un felino che un anima-le domestico” ; di una delle due unità: “un gatto è o unfelino o un canino”; o di qualcos’altro rispetto all’unitàmenzionata: “Il gatto non è un canino” indica che il pri-mo termine non soddisfa lo stesso bisogno comunicativogenerale del secondo termine e, perciò, non può venireusato come suo sostituto. Il sillogismo “se… allora” (“Setutte le A sono B e tutte le B sono C, allora tutte le A so-no C”) indica che A, B e C sono doni sostitutivi dellastessa “cosa”. Il principio di sostituzione del dono, spo-stando i livelli, funziona tra il linguaggio e il mondo, co-me anche all’interno del linguaggio stesso nella defini-zione e su un meta livello con il verbo “essere” nella de-finizione. D’altra parte, quando usiamo il verbo “essere”per descrivere qualcosa nel mondo, come “il cane èmarrone” usiamo “è” per “dare” o attribuire “marrone”a “cane”. Il cane ha la “proprietà” o dono di essere mar-rone (che sia data dall’universo o dal pittore del cane,non fa differenza per il nostro discorso). Una trattazioneesauriente di tutte le possibilità di interpretare il lin-guaggio in base al paradigma del dono, per quanto affa-scinante, renderebbe questo libro troppo lungo e acca-demico. Vorrei soltanto suggerire alcune possibilità per

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poter proseguire, alla loro luce, con il discorso sulloscambio delle merci col denaro.

La definizione è diversa dalle frasi del discorso in at-to, poiché ha più a che vedere con il processo di sostitu-zione del dono in sé e svolge una funzione di dono me-ta-linguistico, soddisfacendo il bisogno dell’ascoltatoredi avere una parola che ancora non ha. Tuttavia, in uncerto senso la definizione è stata per secoli svuotata deisuoi aspetti di pratica del dono dai filosofi e dai linguistipatriarcali, per i quali veniva vista in qualità di espres-sione delle relazioni asettiche e “oggettive” tra leparole4, invece che delle relazioni tra le persone. Questerelazioni oggettive tra le parole sono regolate da leggi disintassi astratte simili alle leggi astratte che regolano lanostra società mascolata.

Possiamo restituire al linguaggio il principio del do-no, riconoscendo che i modelli di relazioni di dono trale persone continuano nel linguaggio, e sono anche tra-dotte o spostate dal livello umano a quello verbale. Dalmomento che la misoginia ci ha reso ciechi e ci ha impe-dito di riconoscere tali relazioni basate sul dono tra lepersone, non abbiamo mai pensato di cercarle nel lin-guaggio. Abbiamo invece riconosciuto leggi astratte earbitrarie simili a quelle che creiamo per regolamentareil comportamento mascolato nel patriarcato. Dovremmochiederci se le nostre leggi non siano una sintassi usataper regolamentare l’auto-supremazia di ciascuna dellenostre parole (maschili) incarnate isolate, o se la nostraidea di sintassi non sia derivata dalle nostre regole di do-minazione, autorità e obbedienza. Può anche sembrareche il verbo “essere” prosciughi la frase della pratica deldono così come la mascolazione prosciuga la società.

Credo in realtà che questa impressione derivi dal fat-to che il verbo “essere” viene associato alla definizione(che è in origine un processo benefico) dove il meccani-smo di sostituzione viene usato internamente in modo

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diverso rispetto al flusso del discorso. La pratica del do-no nella definizione avviene tra le persone su un livellometa-linguistico attraverso la sostituzione di alcune pa-role con altre. Dal momento che tale processo è diversodal resto del discorso, i suoi doni potrebbero non esserevisibili, e la funzione di “prendere il posto ” che ha il de-finiendum potrebbe apparire come un “difetto” del ver-bo “essere”. Ma in realtà è l’uso primordiale della defi-nizione nella mascolazione (i diversi livelli di sostituzio-ne contribuiscono a produrre l’effetto “sala degli spec-chi”) che viene trasferito al verbo “essere”, dandogli unacattiva fama. Qualcuno alla General Semantics ha pen-sato di dover evitare il verbo “essere” e lo ha eliminatodal suo linguaggio5. Ma non è il verbo “essere” che è pa-rassitario rispetto all’umanità, bensì la puer/patri/archiaFare ritorno al paradigma del dono nelle discipline eco-nomiche (come nel linguaggio) permetterà, tra le moltealtre cose, di restituire al verbo “essere” la sua legittimaposizione come parte della lingua materna.

L’essere e il denaro

Nella definizione succede la stessa cosa con “essere”che succede nell’attuale processo dello scambio per de-naro, dove il denaro è un sostituto dell’atto di sostituzio-ne del prodotto di un altro con il proprio e del propriocon quello di un altro. La sostituzione avviene anche se iprodotti in sé sono particolari, cioè non valgono comegenerali ma solo come equivalenti particolari e sostitutidei prodotti della persona con la quale avviene lo scam-bio. L’atto di sostituzione, inoltre, non è ancora comple-tato quando il denaro è stato sostituito a esso. Come nelcaso di “essere”, il denaro forma una successione meto-nimica con ciò che indica, ma lo fa in realtà interrom-pendo quell’atto e ponendosi al centro di esso, respin-

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gendo il primo prodotto. Il denaro del compratore ini-zia spesso il processo nello stesso luogo del prodottocon il quale si sta scambiando (contiguo a esso) ma poi,muovendosi sull’asse della metafora, soppianta material-mente il prodotto del venditore, cambiando di mano.

La sostituzione del denaro per un prodotto precedela sostituzione del denaro per un altro prodotto, e un’in-versione di ruoli tra venditore e compratore. Dal mo-mento che il denaro prende il posto di tutti i prodotticome loro equivalente generale, esso ha il carattere digeneralità che i prodotti non hanno. Ogni qualvoltaprende il loro posto, il denaro fornisce questo caratteredi generalità e di collegamento con altri nella società,per quella transazione specifica; ogni volta che il denaroè dato via in cambio di altri prodotti, questo carattere digeneralità e di collegamento è dato via dal compratore.La sostituzione dell’atto di scambio col denaro per l’attodi sostituzione diretto di un prodotto per un altro fa piùo meno la stessa cosa, nell’ambito economico, che il ver-bo “essere” fa nella definizione: crea un momento meto-nimico con ciò che ha sostituito (i prodotti); ma questoesige che gli esseri umani prendano parte alla “frase” co-me attori. Gli attori agiscono a turno nel loro ruolo divenditore e compratore e tale simmetria altera la succes-sione metonimica, impedendo che si sviluppi in altri tipidi “frase”, al di là della “definizione”6.

Coloro che scambiano possono comunque operaresul piano della sostituzione e comprare allo scopo divendere, così da aumentare la quantità di equivalentegenerale che possiedono. L’asse linguistico della metoni-mia è ricreato in modo diverso sommando l’una all’altraunità simili quantitativamente e qualitativamente (unapiù una più una) nel sistema numerico mediante il qualeil valore è valutato nel prezzo. Questo permette inoltrel’addizione di somme di denaro l’una all’altra, che con-sente l’accumulazione e lo sviluppo del capitale.

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Giacché il denaro ha mantenuto le caratteristiche didono materiale e di esemplare del concetto nell’ambitodella proprietà privata, esso dovrà essere sostituito fisi-camente per i prodotti e ricevuto o dato via al loro posto(asse della metafora). Quando il denaro è presente nellemani di qualcuno, i prodotti non lo sono; quando questisono presenti, il denaro non c’è. E in effetti dobbiamoportarlo con noi per poterlo dare ad altri, come sostitu-to dei loro prodotti. Il processo di sostituzione linguisti-ca è tornato al punto di partenza: la parola è stata re-in-carnata. E lo scenario di Swift si è dimostrato valido(Non lo sapevamo, ma abbiamo il verbo “essere” chetintinna nelle nostre tasche). Credo che le ragioni delsubconscio spesso influenzino i simboli, così come le pa-role che “atteschiscono” nella nostra cultura. Così, la so-miglianza stupefacente tra il segno del dollaro $ e IS,“è”, mi sembra sostenere l’identificazione tra il verbo“essere” e il denaro7.

Il denaro sostituisce il prodotto del venditore, e loscambio col denaro sostituisce l’atto di sostituzione delsuo prodotto, che avrà luogo nel momento in cui il ven-ditore diventerà il compratore. Nel caso del baratto, ilprodotto di ogni persona verrebbe sostituito con il pro-dotto di un’altra. Invece di ricevere direttamente il pro-dotto del compratore, il venditore riceve il suo sostitutonel prodotto artificiale, il denaro. Allo stesso tempo, que-sta sostituzione precede la successiva sostituzione da par-te del successivo venditore. L’intero processo prende ilposto del processo del baratto, che a sua volta prende ilposto della pratica del dono. Lo scambio col denaro creaun lasso temporale nella successione metonimica dei mo-menti del baratto. Il denaro può essere scambiato per unprodotto e poi tenuto per giorni o per anni prima chevenga scambiato per un altro prodotto. Esso riuniscel’interazione nei suoi diversi momenti creandosi un pro-prio spazio sociale, il mercato. Lo scambio pone i pro-

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dotti e la “parola” materiale che li definisce al di fuoridel contesto (decontestualizzandoli fisicamente), così daenfatizzare l’aspetto decontestualizzato della definizione.

Dato che il denaro ha la caratteristica di essere unamisura di valore, esso funziona anche come una parolain tal senso, sull’asse della “metafora” (sostituzione). Se-condo la sua modalità definitoria, alla domanda “checos’è?” risponde con un prezzo8. Il mercato può esserevisto come lo spazio sociale nel quale i prodotti e i loroequivalenti generali sono presi fuori dal contesto perchésiano definiti, valutati e scambiati. Questa coesistenza espostamento su piani diversi, come anche l’uso di mec-canismi verbali in ambiti non verbali, lascia posto perl’introduzione di variabili che non esisterebbero né conla pratica del dono né con il baratto.

Nel caso del baratto, il prodotto di una persona equi-vale a quello di un’altra; ma entrambi sono comunqueprodotti individuali, e appartengono a una diade. Essi sisostituiscono soltanto l’uno con l’altro e sebbene questodia loro reciprocamente una caratteristica comune inquanto sostituti, nessun concetto generale può essereformato al loro riguardo, poiché è necessaria una rela-zione uno-molti affinché ciò avvenga. In seguito l’interoprocesso di scambio col denaro prende il posto del ba-ratto, così che viene messo in atto un tipo di processo diformazione del concetto riguardante quei due prodotti oqualsiasi prodotto individuale, espressione della loro ca-ratteristica comune in quanto sostituti l’uno dell’altroma anche legati a tutti gli altri prodotti e, perciò, con unvalore generale.

A causa della scarsità e dell’esclusione reciproca dellaproprietà privata, coloro che scambiano vogliono soltantoscambiare unità equivalenti quantitativamente, perciò de-vono essere in grado di valutarle, di sapere “cosa sono” intermini di costo. Entra nuovamente in gioco la dialetticalinguistica: ciò che esse sono “per gli altri” in generale

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nella società determina ciò che sono, il costo che avranno,anche per gli individui. Un bisogno sociale di questa valu-tazione (e dell’equivalente sostitutivo con il quale vienecompiuta) comincia a esistere come bisogno comunicati-vo, come un elemento necessario alla comunicazione e al-l’interazione delle persone rispetto alla trasmissione (ildare) della loro proprietà privata dell’una all’altra.

Quindi sembra che abbiamo bisogno dell’equivalentesostitutivo in sé, il denaro, e non dei prodotti che essosostituisce. Ciò che era un bisogno comunicativo lingui-stico è diventato un bisogno materiale sul piano econo-mico. Questo è successo perché la proprietà privata alte-ra la comunità donatrice, isolandoci l’uno dall’altro inquanto proprietari di beni. La nostra mancanza di co-municazione materiale crea una situazione simile a quel-la di coscienze isolate senza linguaggio; abbiamo perciòil bisogno comune di un mezzo di comunicazione, distabilire e di modificare la nostra relazione l’uno conl’altro riguardo le cose, in questo caso la nostra pro-prietà privata. Questo mezzo di comunicazione è l’esem-plare materiale sostitutivo del dono, il denaro. Il valoredi scambio è il valore del prodotto (la sua pertinenza) ri-spetto a una comunicazione materiale distorta (lo scam-bio) in una situazione di proprietà privata; è quantitati-vamente valutabile attraverso l’equivalente esemplaremateriale e dono sostitutivo ($).

Dal punto di vista esterno di una terza persona estra-nea, la “proposizione” in cui il denaro è il verbo “esse-re” diventa completa per ripetizione (ad esempio, unacamicia = venti dollari = cinque chili di fagioli). Da quelpunto di vista, coloro che interagiscono stanno effettiva-mente soddisfacendo i bisogni l’uno dell’altro, per cuiuno dà all’altro ciò che l’altro non ha e riceve dall’altrociò di cui lui/lei ha bisogno. Il denaro è semplicementeun dono sostitutivo, dato dall’uno all’altro, che soddisfail bisogno comunicativo che sorge ogni qualvolta si deve

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decidere che cosa ricevere dagli altri. Ma questa è certa-mente una visione ottimistica: in realtà, se il prodotto oil lavoro di una persona non può essere venduto, rimanefuori dal mercato (come se si trovasse oltre i confini delconcetto) e non “esiste” nell’ambito dello scambio; nonè sostituibile con un altro prodotto, e non vi sarà alcunatto di sostituzione da parte del verbo-denaro $ riguar-do a esso. Se questo lavoro non ha valore per gli altri, ilpotere decisionale di chi lo svolge, quanto a ciò che rice-verà per soddisfare il proprio bisogno, è completamentenullo; la sua domanda non è “effettiva”; il suo bisognonon “esiste”, poiché la pratica del dono volta ai bisogniè stata anch’essa sostituita.

L’essere e la norma aberrante

Le funzioni similari del verbo “essere”, il fallo e il de-naro, suggeriscono un legame tra i diversi ambiti del lin-guaggio, della sessualità e dell’economia. È un legame ditipo “genetico”, nel senso che la mascolazione fornisce lagenesi del fallo e del denaro, come anche l’investitura fal-lica del verbo “essere”9. Se il padre non prendesse il po-sto della madre come esemplare, non ci sarebbe alcunapossibilità di sostituire questo atto di sostituzione (non cisarebbe nessun atto di sostituzione da sostituire). La ma-scolazione non esisterebbe più per proiettare lo scambionella società come propria modalità economica; così nonesisterebbe il bisogno comunicativo di denaro, ed essonon avrebbe la funzione della parola. Lo stesso verbo“essere” non sarebbe ipostatizzato, poiché non verrebbeinvestito psicologicamente, per equivalenza, con il fallo.Quindi, mentre i legami possono effettivamente esistere,essi sono artificiali, perché la mascolazione stessa è unaspetto artificiale, superfluo e dannoso della socializza-zione del bambino. Insieme, il fallo, il denaro e l’“essere”

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confermano una falsa immagine, o per dirla con altre pa-role, sono tutti “marche” della norma aberrante.

Forse il vero problema è la genitalizzazione fallicaprecoce che nei bambini prende il posto della fase orale;il pene, o fallo, prenderebbe il posto del seno come og-getto investito d’interesse. La “marca” del bambino gli“dà” un privilegio, poiché lo pone nella categoria “supe-riore” – in una collocazione condizionale “se X allora Y”– mentre il seno della madre gli ha dato in modo diretto.L’erotizzazione del seno coincide con l’estraniazione delbambino nella categoria privilegiata non-nutrice. Così,non soltanto può sembrare che lui abbia ceduto il seno eabbia preso il pene, ma il processo del dono potrà venireidentificato con le sensazioni interne di mangiare ed eva-cuare (che hanno a che fare con la fase orale), mentre ilsuo cambiamento di categoria ha a che fare con la genita-lizzazione e il pene (una parte esterna del corpo). L’iden-tità di genere del bambino dipende da un’equazione po-lare con il padre (più grande), che si trova sempre nellaposizione di equivalente ed è l’esemplare maggiore dellagenitalizzazione. Così, l’identificarsi del bambino in rela-zione a un equivalente polarizzato prende il sopravventosulla pratica del dono, sul fare a turno e talvolta su unacostruzione giocosa dell’identità con la madre. Qui laquantificazione comincia ad assumere importanza, poi-ché la quantità (la grandezza) del fallo può sembrare laragione per cui il padre, e non il bambino, si trova nellaposizione polarizzata dell’“uno”. La quantità fallica sem-bra essere la qualità più importante10.

Comunicazione materiale quantitativa

Nello scambio non vengono date una parola o una va-lutazione qualitative, bensì una parola o una valutazionequantitative. Il denaro sul piano materiale fa la stessa co-

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sa delle parole sul piano verbale. I prezzi esprimono informa esplicita i bisogni comunicativi materiali sotto for-ma di quantità di denaro; vengono serviti da quantità didenaro materiale che assumono il ruolo di parole-come-doni. Il bisogno comunicativo che i prezzi esprimono è ilbisogno di un mezzo di comunicazione che i venditori diquei prodotti non hanno. Il denaro è la parola, ma a dif-ferenza del linguaggio i “comunicatori” devono produrre(e in realtà cedere) le cose rappresentate dal denaro, perpoterlo avere. Il denaro, come l’identità maschile, è unaparola incarnata. Nel suo passaggio al piano materiale, èstato anch’esso piuttosto distorto, allontanato dalle fun-zioni originarie della parola. Come la parola, il suo unicouso reale sta nell’essere dato agli altri; ma il denaro puòessere accaparrato e accumulato.

Dal momento che il denaro è il dono-sostituto gene-rale dell’atto di sostituzione, esso influenza ogni singoloatto di sostituzione (scambio) mettendolo in relazionecon tutti gli altri. Il denaro è il materiale attraverso ilquale i valori dei prodotti in relazione tra loro e con noipossono essere espressi quantitativamente. In quanto ta-le, esso è come il linguaggio, nel quale le parole sono di-sponibili per esprimere i valori qualitativi di tutte le par-ti del nostro mondo in relazione tra loro e con noi. Il de-naro è un linguaggio (materiale) fatto di una singola pa-rola11. Chi non ne ha non può “parlare”; non appartienealla “specie”, alla categoria di coloro che ce l’hanno12.

1 Forse “esistere” ha quasi lo stesso livello di generalità.2 Nella definizione, una continua tensione o polarità tra ciò che viene det-

to e ciò che non viene detto, ciò che è presente come equivalente e ciò che èescluso, favorisce il prevalere degli elementi o argomenti pertinenti in quantoopposti a quelli che non hanno pertinenza o validità al momento. Dicendo “ilgatto è un animale quadrupede”, ad esempio, non ho bisogno di dire “il gattonon è un animale bipede” oppure “bipede non è quadrupede”, poiché l’affer-mazione “quadrupede” esclude già di per sé “bipede”. La selezione degli ele-menti rilevanti che avviene in modo graduale nel corso del processo di forma-

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zione del concetto (e più o meno deliberatamente nella definizione) è sempli-cemente sottinteso nell’uso di parole volte alla soddisfazione del bisogno co-municativo nel flusso del discorso degli adulti.

3 La metafora e la metonimia (sostituzione e combinazione) sono due polidella funzione del linguaggio riscontrabili anche nell’afasia (perdita della ca-pacità di parlare o comprendere le parole) in un “disordine nella similarità” o“disordine nella contiguità” (Jakobson 1990a).

4 Dovremmo sospettare l’“oggettività” di essere una reificazione o esalta-zione feticistica legata alla proprietà fallica e ai suoi corollari, dalle macchinet-te e i trenini giocattolo alle pistole e i missili. Il concetto d’identità maschiledel bambino e la proprietà privata sono due relazioni concettuali trasposte trale cose in quanto opposte a un’identità donatrice-e-ricevente ad hoc. Così larelazione concettuale tra le cose costituisce l’identità mascolata, e non la con-figurazione di soggettività costruite attraverso il dare e ricevere. Quando lecose che sono state private del loro carattere di dono sono proposte come“presenti” per essere “rappresentate”, il legame basato sul dono tra i diversilivelli diventa invisibile. Il “presente” sembra non essere legato che al tempo,e non al dono. Forse l’aspetto temporale del “presente” deriva, tuttavia, dalfatto che la soddisfazione dei bisogni ci fa concentrare sul qui e ora.

5 To Be or Not: An E-Prime Anthology, 1992.6 Nel baratto, lo scambio rimane una diade particolare, senza relazione con

un equivalente generale. Il sistema del baratto fornisce diversi momenti di scam-bio diadico che richiedono calcoli di equivalenza in funzione del tempo o diqualche altro standard. È importante non confondere il baratto con la praticadel dono: il baratto è ancora dare-allo-scopo-di-ricevere, mentre la pratica deldono è diretta verso il bisogno dell’altro; le logiche sono distinte. I sistemi del ba-ratto o di denaro alternativo che stanno sviluppando alcuni gruppi di Verdi egruppi “bio-regionalisti” potrebbero essere considerati un passo verso un’econo-mia del dono; continuano tuttavia a basarsi sullo scambio, e portano quindi consé i difetti dello scambio, come ad esempio il prendere-il-posto della pratica deldono. Voglio essere molto chiara sul fatto che la pratica del dono e il baratto nonsono la stessa cosa. Abolire il denaro sarebbe come abolire il verbo “essere”: nonrisolverebbe i problemi causati dalla mascolazione e dallo scambio.

7 Il denaro è in realtà un’icona delle parole, dal momento che tutte le mo-nete o le banconote di un certo taglio vengono considerate la “stessa cosa”,permettendo a “una cosa” di essere in diversi posti allo stesso tempo; è que-sto che permette al denaro di diventare generale come la parola.

8 Sia il mercato che il linguaggio sono modi di determinare se qualcosa èla “stessa cosa”, con lo stesso valore per le persone interessate, che sia un va-lore linguistico_culturale o economico. Stabilire un prezzo è un processo col-lettivo simile all’attribuzione collettiva di valore che dà vita a un nome.

9 Secondo questo ragionamento, il fallo rap-presenta o prende il postodell’atto di sostituzione della madre con il padre, e questo rende le sue fun-zioni analoghe a quelle del verbo “essere”, con la caratteristica simbolica so-ciale generale che Lacan riteneva fosse normale. Jean-Joseph Goux (1973) hamolto da dire sul fallo e il denaro come equivalenti generali. Consiglio viva-mente il saggio di Goux per un approccio storico e psicoanalitico su moltedelle questioni trattate qui, perlomeno quelle riguardanti lo scambio.

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10 Jerry Fodor (1972) sostiene che l’idea del concetto di Vygotsky siatroppo filosofica, e critica la sua convinzione che il concetto richieda l’astra-zione di una “invariante sensoriale”. Tuttavia abbiamo descritto una circo-stanza diffusa in cui la”marca” maschile è l’invariante sensoriale della catego-ria privilegiata, “astratta” dalle nostre pratiche di cura dei figli. Il denaro èl’invariante sensoriale per la categoria privilegiata delle persone che sono riu-scite a essere “uni” nell’ambito economico.

11 Come dimostra Jerry Martien (1996), il wampum era un linguaggio ma-teriale di molte parole. Non stupisce che gli europei avessero ridefinito il wam-pum in funzione del loro linguaggio materiale di una sola parola, il denaro.

12 È come se ci fosse stato un momento nella preistoria in cui chi sapevaparlare è entrato a far parte del gruppo, e chi invece non ne era in grado veni-va lasciato morire, per una crudele strategia “evolutiva”. Sembra che oggistiamo imitando quel momento preistorico: coloro che “hanno” la parola so-no privilegiati e coloro che “non hanno” sembrano meritare la morte. A par-tire dai greci, per i quali chiunque non parlasse il greco era un “barbaro”, si-no a coloro che oggi parlano altre lingue che non sia l’inglese standard, chinon possiede il linguaggio “esemplare” è escluso dalla categoria privilegiata.

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Capitolo decimoIl valore

“Gracias a la vida”

Se prendiamo sul serio la pratica del dono, possiamocapire meglio la nostra relazione umana con la realtà co-me qualcosa che ci è dato. Credo che esista una certa“grana”, una sorta di “struttura interna” della nostraesperienza, derivante dalla nostra capacità di dare e rice-vere; ci siamo evoluti per percepire le cose su questo li-vello. Ad esempio, percepiamo le mele come oggettitondi, rossi, che possiamo raccogliere sugli alberi e man-giare oppure dare ad altri perché ne mangino, e non co-me un’aggregazione di atomi, poiché non possiamo daree ricevere atomi. È concepibile che possiamo nutrirci diparti della natura in quanto atomi (per osmosi, forse),ma sarebbe molto difficile nutrirci reciprocamente conessi: portare gli atomi in un altro posto, maneggiarli eprepararli perché un altro ne faccia uso sarebbe piutto-sto complicato. A livello della percezione, dell’integritàfisica e della destrezza con le quali ci siamo evoluti, pos-siamo prenderci cura l’uno dell’altro in modo relativa-mente facile con cose di determinati tipi e grandezze. Illinguaggio amplia questa “grana” donante e ricevente,dandole ulteriori dimensioni d’importanza collettiva,astrazione, generalità, immaginazione, spazio e tempo.

Si potrebbe sviluppare una teoria della conoscenzache identifichi il sapere con la gratitudine provata dal-

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l’individuo in quanto destinatario dei doni dati dalla vi-ta, dalla natura, dalla cultura e da altri individui. Nellagratitudine, rispondiamo alla nostra esperienza in corsoe ricordiamo sia i doni che la loro fonte: il cibo che man-giamo e le parole che apprendiamo, le persone che cidonano queste cose e le culture dalle quali esse proven-gono. Chi viene privato delle cose buone della vita acausa della povertà, della crudeltà o della malattia, vieneprivato del suo diritto umano al sapere, al sentire le cosedate dalla vita con gratitudine (la canzone Gracias a lavida di Violeta Parra esprime la gratitudine che tutti noi,ricchi o poveri, possiamo provare per i doni più essen-ziali della vita). Sfortunatamente, abbiamo trasferito lanostra gratitudine dalla madre al padre, e abbiamo ripo-sto la nostra fede in questo cambio e nello scambio. Sia-mo, perciò, più consapevoli del padre e dello scambio; liconosciamo meglio di quanto conosciamo la pratica deldono, circa la quale abbiamo appreso a essere ingrati.Consideriamo lo “scambio” e l’Io necessari alla nostrasopravvivenza, e siamo grati dell’opportunità di parteci-pare al mercato.

La ricettività creativa e la “grana” donante

Se consideriamo passiva la ricettività (e ricettiva lapassività), non comprenderemo mai le nostre interazionicon l’ambiente, il linguaggio, gli altri. In effetti, le cosehanno caratteristiche che noi consideriamo valide nellamisura in cui possiamo rispondervi o possiamo riceverle(non esistono perché possiamo riceverle, bensì sono utiliperché possiamo usarle per i nostri bisogni). Una melaci appare rossa, rotonda e buona perché ci siamo adatta-ti fisicamente, psicologicamente e socialmente a ricever-la e a usarla creativamente. Ci siamo poi adattati fisica-mente, psicologicamente e socialmente a ricevere creati-

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vamente la parola “mela”, alla quale attribuiamo alcunidei valori culturali delle mele, poiché essa le sostituiscecome un dono nella comunicazione (sebbene la parolain sé non sia rossa, rotonda né buona da mangiare). Sefossimo stati in grado di dare e ricevere creativamente lemele come aggregazioni di atomi, ci saremmo probabil-mente evoluti percependole come tali; non conosciamonessun modo di maneggiarle o di darle l’uno all’altro suquel livello. Ci siamo invece evoluti fisicamente e cultu-ralmente percependole rotonde e rosse, grazie anche alnostro linguaggio. Il tipo di percezioni sensoriali che ab-biamo è pertinente al livello di complessità della nostraattività. Su questo livello, possiamo anche percepire isuoni come tali invece che come vibrazioni nell’aria.

Le percezioni legate a una grana più sottile, adesempio un’aggregazione di atomi o le azioni degli en-zimi nel nostro processo digestivo, o a una grana piùgrossa, come la migrazione di famiglie o di gruppiumani, non sono a nostra disposizione in sé e per sé,poiché non conosciamo modi di dare o di ricevere que-ste cose creativamente. Gli strumenti e i metodi, comei microscopi e le statistiche sociologiche, sono stati ef-fettivamente sviluppati per studiare gli eventi su diversilivelli di complessità con l’obiettivo di soddisfare i bi-sogni, che vengono essi stessi percepiti, alla fine, su unlivello di quotidianità. L’obiettivo è generalmente an-che quello di ricavare profitti: ad esempio, nel caso de-gli enzimi, per la ricerca di nuove medicine, o nel casodei lavoratori immigrati per l’accesso alla manodoperaa basso costo. Senza le informazioni che ci vengonodalle discipline specializzate, dobbiamo subire passiva-mente l’influenza di realtà di grana più grossa o piùsottile. Una volta che il cibo entra nel nostro stomaco,non lo percepiamo più a livello di dono, ma possiamosoltanto lasciare agire passivamente i processi automa-tici dei nostri enzimi.

IL VALORE

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Il nostro linguaggio e il mondo che percepiamo sonosintonizzati su un livello in cui noi possiamo dare e rice-vere reciprocamente senza speciali strumenti, microsco-pi, telescopi, rilevamenti o statistiche. Se consideriamoquesto livello prescindendo dal linguaggio, è il livellodei “dati sensoriali”, il mondo come un dato; possiamocomunque solo considerarlo così quando abbiamo il lin-guaggio. Se il linguaggio ha origine nella comunicazionedel dare e ricevere doni materiali, la sua grana è diventa-ta, oggi, più sottile di quella dei doni materiali che pos-sono effettivamente essere dati dagli umani vicendevol-mente. Possiamo comunicare l’uno all’altro il colore ros-so, il punto in cui si trova questo colore sul petto di unuccellino azzurro che cinguetta su un albero, ma nonpossiamo darci in realtà il colore o il luogo.

Gran parte della ricerca filosofica e scientifica è rivoltaalla natura dei nostri dati sensoriali e dei dati dell’espe-rienza complessa. Entrambi i tipi di ricerca, tuttavia, av-vengono quando la modalità comunicativa del dare-e-ri-cevere si è già instaurata dalle pratiche di cura nell’infan-zia, e quando i ricercatori hanno già appreso la lingua. Idati sensoriali e l’esperienza diventano interpretabili dallepersone come dati quando le pratiche di cura hanno giàinstaurato la pratica del dare e ricevere di grana grossa equando il linguaggio ha già dato loro le analisi di grana fi-ne, prodotte dal processo vitale della collettività.

L’estensione del numero di parole-dono, che com-prende gli aspetti dell’esperienza che non possono esse-re dati direttamente, fornisce la grana fine collettiva chepermette di concepire i doni non donabili come dati digrana più fine. Così, possiamo ricevere come dati il co-lore rosso, il punto in cui si trova in un determinato mo-mento l’uccellino azzurro, la storia geologica, botanica,biologica e culturale del mondo nei dettagli, poiché pos-siamo parlarne e soddisfare i bisogni comunicativi l’unodell’altro, formando le relazioni reciproche al riguardo

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attraverso il linguaggio, anche se non possiamo in realtàconsegnarci tali doni.

Vi sono diverse ragioni per cui alcuni tipi di dononon possono essere dati. Ad esempio, una montagnanon può essere data perché è troppo grande; il colorerosso non è donabile in quanto tale poiché aderiscetroppo saldamente agli oggetti di cui è parte: possiamodare una palla rossa, ma non il colore rosso senza la pal-la, o la palla senza un qualche colore. Altrimenti, se ilcolore rosso di cui parliamo è una sensazione soggettiva,come un’immagine persistente, esso non potrà esserepercepito dagli altri come tale, e ancora meno potrà es-sere consegnato loro. Alcune cose, come fatti ed eventi,non possono essere date direttamente poiché sono trop-po transitorie e fugaci.

Ad esempio, il fatto che l’uccello stia cantando sul-l’albero non può essere dato in quanto tale, poiché èfuggevole e gli elementi che lo compongono possono fa-cilmente cambiare: l’uccello potrebbe smettere di canta-re e volare via, creando uno, o molti, nuovi eventi. Pos-siamo tuttavia afferrare (ricevere) eventi fugaci come da-ti, e ridarli poi come doni, se mettiamo in relazione i lo-ro elementi costanti e ripetibili (l’uccello, il canto e l’al-bero) con i doni sostitutivi, cioè le parole che la genteusa nella nostra società per darsi l’uno all’altro in lorovece. Combinando quelle parole in modo ordinato (in-sieme ad altre parole meta-dono di istruzioni sull’uso, o“marche”, come “il” o “in” o “ando/endo”), facciamo sìche esse vengano anche date e ricevute l’una all’altra,formando doni sostitutivi (frasi) di durata relativamentebreve che ci diamo fra di noi. In questo modo rendiamodonabili degli eventi non donabili, formandoci come co-munità riguardo a essi. Attraverso i doni che diamo l’u-no all’altro, siamo in grado di ricevere creativamente leesperienze in continuo mutamento come un terreno co-mune, dato a tutti noi

IL VALORE

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Dopo aver appreso come comunicare e come usareil linguaggio, non abbiamo più bisogno di mettere inpratica l’una o l’altra capacità in ogni momento. Possia-mo mettere da parte il linguaggio e considerare i datisensoriali semplicemente come dei dati, ma i doni dellinguaggio sono generalmente già al loro posto quandoci avviciniamo al mondo come un dato senza di essi. Epoi, mettere da parte il linguaggio è in realtà un proce-dimento per il quale è necessario il linguaggio stesso. Ilmondo che viviamo è un dono e un dato perché noipossiamo dare e ricevere creativamente aspetti e partidi esso, elaborandoli grazie alla nostra capacità di rice-vere e dare i doni sostitutivi verbali (e non verbali) aiquali i dati cedono il loro valore per la comunicazione(forse la maggior parte delle cose non danno in realtàdoni l’una all’altra, ma siccome abbiamo il modello deldono possiamo interpretarle in questa luce). Anche ce-dere il passo, come il ricevere, può essere creativo e at-tribuire valore all’altro. Le cose cedono il passo alle pa-role come doni perché noi glielo facciamo fare1 – diamoloro un sostituto – ma al tempo stesso facciamo sì cheanche le parole facciano ciò che noi vogliamo. Cedere ilpasso attribuisce valore all’altro, nello stesso modo incui il dare implica il valore dell’altro. Il valore dato alleparole dalle cose, che lasciano così che la loro posizionein quanto doni venga presa, si unisce al valore che lagente attribuisce alle parole come mezzi per soddisfarei bisogni comunicativi degli altri; le parole sono così de-stinatarie delle attribuzioni di valore almeno da due di-rezioni (in aggiunta al loro valore come posizione nellalangue). Mettendosi da parte tutte insieme nel presente,lasciando che il loro posto venga preso dalle parole indiverse combinazioni, le cose appaiono in relazione l’u-na con l’altra e avere momentaneamente più valore ri-spetto a ciò che le circonda, e così noi diamo a esse lanostra attenzione.

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La mediazione linguistica di una percezione o di un’e-sperienza costituisce un dono secondario che ci dà un ac-cesso comune alla percezione o all’esperienza come valo-ri o come beni che soddisfano i bisogni materiali o co-municativi. Noi possiamo quindi agire in diversi modi ri-spetto al bene, che possiamo dare e ricevere reciproca-mente, consumare da soli, fare a turno nell’usare, combi-nare con altri beni, scomporre, mettere da parte per unmomento successivo ecc. Possiamo anche semplicementesoddisfare i bisogni comunicativi rispetto a qualcosa de-cidendo di essere chi siamo in quanto “percettori” co-muni di tali bisogni; ad esempio “percettori” di mele.Quando conosciamo una lingua possiamo anche soltantopensare alle mele nella loro sostituibilità senza metterledirettamente in relazione alle parole. Continuiamo a vol-gere il nostro pensiero verso la comunità2 perché le po-tenzialità per i bisogni comunicativi e per le parole-donoche li soddisfano sono sempre presenti.

Il valore dato dalle cose alle parole e dalle parole allecose a livello del lessico (langue) è di grana un po’ piùgrossa rispetto al valore attribuito attraverso le frasi. Ineffetti, come le cose, le parole sono doni generali dellacultura che vengono ricevuti creativamente dalla cultu-ra, come anche dagli individui (poiché i molti sono piùche un semplice insieme di “uni”). A parte i casi parti-colari di denominazione, definizione e insegnamento dellinguaggio, l’uso di parole combinate in frasi fornisce idoni di alcuni individui ad altri che li ricevono creativa-mente: la soddisfazione dei bisogni comunicativi e le at-tribuzioni di valore, di grana più sottile di quella delleparole prese singolarmente. Vi sono in realtà due pro-cessi diversi in corso: il dono meta-linguistico delle pa-role attraverso denominazione e definizione (sul qualesono costruiti la mascolazione e lo scambio) e il linguag-gio che fa uso di processi del dono per facilitare la co-municazione in corso, lo sviluppo del soggetto e dell’og-

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getto sociali, della comunità, del suo mondo e prospetti-va del mondo. L’esistenza di livelli diversi permette lapratica del dare e ricevere individuale sulla base del daree ricevere sociale, un’interazione di “grane”.

Le cose valide o importanti richiedono la nostra at-tenzione ricettiva-creativa; apprezziamo il valore che giàhanno e al tempo stesso gli attribuiamo valore. L’apprez-zamento e l’attribuzione sono simili al ricevere e darecreativi; la gratitudine è un aspetto di entrambi. Usiamole cose per soddisfare i bisogni e attribuiamo un valoreagli altri (o a noi stessi) soddisfacendo i bisogni.

I molti valori del mondo per la comunità degli umanisono registrati nel linguaggio; e un processo simile fa sìche il valore di scambio delle merci sia registrato nel de-naro. Quando riceviamo la soddisfazione dei nostri bi-sogni da parte degli altri (e la conseguente implicazionedel nostro valore per loro) possiamo apprezzare ciò checi è stato dato, e apprezzare gli altri come fonte, congratitudine. Possiamo anche ignorare la fonte, o vederein noi stessi l’origine del nostro bene. Nella comunica-zione linguistica (e in altre comunicazioni basate sui se-gni) possiamo condividere uno stesso punto di vista e at-tribuire valore o dedicare attenzione alle stesse cose,scegliendole perché pertinenti a partire dalla nostraesperienza in corso e usando i doni sociali che prendonoil posto di quei doni o dati materiali (o immateriali).

Ciò a cui diamo valore è al centro della nostra atten-zione; e noi rivolgiamo la nostra ricettività creativa versodi esso; ciò a cui non diamo valore rimane al di fuoridella nostra attenzione primaria. La nostra motivazioneper dare valore a qualcosa nasce dai nostri bisogni e dal-la sintesi delle precedenti esperienze e delle precedentiattribuzioni e apprezzamenti di valore. Il mezzo colletti-vo per attribuire valore, che è un dono collettivo (la pa-rola), è sospeso nelle nostre menti ed è di facile accessoperché ne facciamo uso nell’esperienza in corso qualora

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ne sorga il bisogno. Tale bisogno è interpersonale, inorigine, sebbene possiamo anche usare le parole persoddisfare i nostri bisogni comunicativi comunitariquando pensiamo da soli, attribuendo un valore media-to socialmente a diverse parti della nostra esperienza, emettendole in primo piano nel presente quando ne ab-biamo bisogno.

Il valore, un meta-dono

Il valore può essere interpretato come una sorta dimeta-dono, un dare attenzione a qualcosa così da provo-care o variare il dare ulteriori doni. È la scelta di una co-sa sulla quale viene centrata creativamente un’attenzionericettiva. Spesso attribuiamo anche all’oggetto della no-stra attenzione la caratteristica “qualcosa per gli altri e,quindi, per noi stessi”. Dal momento che la pratica deldono è rimasta invisibile e non apprezzata, non abbiamopensato a collegare il valore al processo del dare, perciòè rimasto un mistero. Il valore di scambio ha preso il so-pravvento sul concetto di valore, divenendo il suo“esemplare”. Nello scambio, l’aspetto di orientamentoverso l’altro della pratica del dono non svanisce, ma vie-ne nascosto e strumentalizzato per gli scopi dell’ego. Lapratica del dono è inserita nello scambio in modo taleper cui sembra contraddirsi da sé. Questo pas doble lo-gico esige che noi paragoniamo il nostro soddisfare i bi-sogni degli altri al loro soddisfare i nostri, ed entrambi auno standard che è comune a tutti. Tutti i bisogni dipen-dono quindi da questo processo contraddittorio per illoro soddisfacimento.

Lo scambio diventa onnipresente nella vita, e noi glidiamo valore come requisito indispensabile per la so-pravvivenza di tutti. Facendo questo, nascondiamo escreditiamo la pratica del dono, negando così l’aspetto

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di orientamento verso l’altro del valore basato sul dono.Quando questo aspetto viene reso invisibile, il valorenon può essere capito correttamente, e i legami tra valo-re di scambio e altri valori culturali rimangono nascostie negati. Il valore è diviso e conquistato. Solo dando va-lore alla pratica del dono possiamo cominciare a risolve-re l’enigma del valore, recuperando il suo contenutod’orientamento verso l’altro3.

Il valore è fondamentalmente uno strumento di (ri)di-stribuzione dei doni. È un dono di energia e di attenzio-ne rivolte ai doni, che ci aiuta a sceglierne alcuni rispettoad altri per gli altri e per noi stessi. Dando eccessiva enfa-si al valore di scambio, stravolgiamo questo meccanismocollettivo di distribuzione, allontanandoci dal dare e daibisogni e rivolgendoci invece al numero relativamente li-mitato di cose che hanno valore per i processi di scambioe per il mercato. L’egoismo e il valore (e l’attenzione) chediamo a esso possono essere visti come effetti del prepa-rarsi a quei processi e farne pratica. Ci siamo abituati avedere le cose al contrario, come se lo scambio e il mer-cato fossero esiti naturali dell’egoismo e dell’avidità uma-ne. Ed è proprio questa visione e i valori che essa pro-muove (la ri-distribuzione di doni) che contribuisce a te-nere in piedi il monopolio del processo di scambio.

Le modalità del valore

Il valore viene sia attribuito sia apprezzato: dato gra-tuitamente alla gente, alle cose e alle parole, e da esse ri-cevuto. Può comportare un processo di auto-stimolazio-ne, nel senso che diamo valore a qualcosa scegliendolo,concentrandoci su di esso; così volgiamo la nostra ricet-tività creativa su di esso, apprezzando il suo valore. Po-tremmo poi dimenticare il nostro intervento nell’attribu-zione che era stato dato gratuitamente. Scegliere una co-

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sa tra le altre, metterla in primo piano, adattarla ai biso-gni e darla ad altri per i loro bisogni sono processi attra-verso i quali attribuiamo valore a qualcosa e apprezzia-mo il suo valore. Come conseguenza questo valore vieneanche trasferito ad altri e ai loro bisogni, dal momentoche diamo loro delle cose che soddisfano i loro bisogni(possiamo anche attribuire-apprezzare il loro valore di-rettamente, semplicemente dandogli la nostra attenzio-ne). Dare a qualcosa un dono-sostituto, includendo reci-procamente altri al riguardo, dà e riconosce il valore diquel tipo di cosa e degli altri reciprocamente inclusi.

Ci sono quattro modalità principali di attribuzione-apprezzamento del valore: le pratiche di cura, il linguag-gio, la mascolazione e lo scambio. Credo che due traquesti siano la norma (le pratiche di cura e il linguaggio)e due siano distorsioni (la maschilizzazione e lo scam-bio). Guardando alla norma possiamo comprendere me-glio le distorsioni; e guardando alle distorsioni e alle lo-ro conseguenze, possiamo allo stesso modo comprende-re meglio la norma.

L’attribuzione di valore delle pratiche di cura

La felicità – non la ricerca della felicità – non è soltan-to un diritto ma una necessità epistemologica, se la grati-tudine è un archetipo fondamentale per la conoscenza.L’“afferrare” è generalmente associato alla comprensionee ritenuto necessario per la conoscenza, ma non è altroche una piccola parte specifica del ricevere, resa necessa-ria dalla scarsità. Privando la gente dell’abbondanza, del-la possibilità di ricevere e di dare, la priviamo del suoprocesso umano. L’homo donans (e recipiens) precedel’homo sapiens4. Questo perché quello che conosciamosono i doni, e la nostra conoscenza è la risposta di grati-tudine a essi, che si tratti del latte delle nostre madri, dei

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dati empirici, delle parole e frasi, degli argomenti di con-versazione, degli atti benevoli, dei neonati, dei temporalie della pioggia, delle nuove macchine, delle opere d’arteo delle torte al mirtillo. (Siamo grati di poter conoscere lecose negative, come anche quelle positive, perché quellaconoscenza ci aiuta ad affrontarle). Se una persona sod-disfa i nostri bisogni possiamo apprezzare il valore che ciha dato e attribuirle valore. Parte della nostra gratitudineè una disposizione ad avere cura delle cose che hannoavuto particolare cura di noi. Non lo facciamo per unoscambio ma, per il momento, assumendo il donatore co-me modello, per dare a nostra volta cure.

Le pratiche di cura implicano un trasferimento di va-lore al ricevente. Il donatore spesso si auto-cancella co-me fonte, facendo così sembrare che il valore o l’impor-tanza del ricevente sia la ragione del dono. Ad esempio,una madre crede di avere cura del neonato/a perché ilneonato/a è importante, non perché la madre gli/le at-tribuisce valore; tuttavia, se la madre non gli attribuissevalore e non si prendesse cura di lui/lei, il neonato/amorirebbe. Il valore è quindi una proiezione utile, siadell’individuo sia della cultura e della comunità. La vitaquotidiana è composta di attribuzioni di valore innume-revoli ed è forse questa ragione che ha (finalmente) atti-rato di recente l’attenzione dei filosofi.

Diamo valore al prossimo tra l’altro suscitando, ri-spettando, intensificando, specificando, educando i suoibisogni. Le madri, ad esempio, possono rimanere affa-scinate dal fatto che i propri figli comincino a mangiarecibi solidi, facendo diverse prove per capire le loro pre-ferenze. L’insegnamento in sé può essere visto come unmodo d’intensificare il bisogno degli altri di conoscerediversi tipi di cose. La conoscenza dei mezzi per pratica-re le cure, che un tempo si tramandava in linea maternadalle nonne alle madri e alle figlie, attribuiva valore edera apprezzata nella cultura materiale. Questi valori e le

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maniere di attribuirli si sono persi nel momento in cui lepratiche di cura sono state assorbite dallo scambio. Oggiè la pubblicità a educare i nostri desideri e non l’amore,l’intelligenza o l’inventiva delle nostre nonne volta asoddisfare i bisogni e orientata verso l’altro. Il valore delricevente non è implicato direttamente o in modo ma-terno, ma solo attraverso il mercato, come “meritevole”o responsabilità dello Stato custode.

Attribuiamo valore alle cose che riteniamo possanoessere particolarmente utili per gli altri o per noi stessi;quindi ne apprezziamo il valore5. L’attribuzione di valo-re è di per sé un dono, che viene dalla nostra disposizio-ne a dedicare attenzione a qualcosa, ed è un elementodella nostra gratitudine. Al rovescio, l’apprezzamento(di cui la gratitudine è un aspetto) è un elemento dell’at-tribuzione di valore. I due comportamenti sono stretta-mente connessi fra loro, sebbene l’attribuzione sia piùattiva e rifletta il donare, mentre l’apprezzamento è piùricettivo e riflette il ricevere6.

L’attribuzione di valore attraverso il linguaggio

Le cose diventano pertinenti per gli umani a secondadell’uso che ne viene fatto in relazione ai bisogni. I biso-gni proliferano e si diversificano secondo il modo in cuivengono soddisfatti. Vengono anche, in una certa misu-ra, identificati proprio in base alle cose che lisoddisfano7. Nel linguaggio, attribuiamo parte del valo-re qualitativo co-muni-cativo di un certo tipo di cosa auna parola che prende il posto di un esemplare (general-mente) non verbale e che funziona da dono sostitutivocon la funzione di formare relazioni e interazioni uma-ne. La cosa o il tipo di cosa cede il passo come possibiledono momentaneo e la parola (che ha anche un valore-come-posizione nella langue) diventa il veicolo del suo

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valore nella comunicazione, cioè nello stabilire o modifi-care le relazioni umane riguardo quel tipo di cosa. Laparola diventa il veicolo del valore delle cose nella lorofunzione di stabilire o modificare le relazioni umane. Vi-sto che ogni tipo di cosa (e perciò ogni parola) ha un va-lore qualitativamente diverso da tutti gli altri nel suo es-sere in relazione con bisogni umani diversi8, la combina-zione di alcune parole secondo gli schemi del dono inuna qualsiasi enunciazione o proposizione può ancheservire a comunicare (dare) informazioni specifiche.

Noi scegliamo parti della nostra esperienza come datiai quali dare attenzione, e diamo nuovi doni risisteman-do i vecchi. Soddisfiamo i bisogni comunicativi dell’a-scoltatore sul momento e, in questo modo, anche i nostribisogni. Possiamo ricordare ciò che era stato scelto edenfatizzato nella nostra co-municazione, immagazzinan-do tali informazioni per applicarle a futuri bisogni comu-nicativi o materiali. Non i codici, ma la logica e la praticadel dono sono alla base della nostra comprensione.

Un codice è soltanto un insieme di marche astratte.Nella crittografia serve a mascherare, piuttosto che aesprimere la verità. Il linguaggio, come la vita, è mossodal bisogno. La capacità di soddisfare i bisogni deglialtri è l’aspetto della vita che crea la società e ci per-mette di evolvere culturalmente e alla fine, forse, biolo-gicamente. In altre parole, usiamo i nostri doni per unaltro scopo: non per avere indietro un equivalente, co-me nello scambio, ma per alterare la relazione degli al-tri con l’ambiente, presentando una cosa come un va-lore per loro nel presente; questo ci permette di condi-videre la nostra relazione con loro rispetto a questa co-sa. Ciascuno di noi sa quello che l’altro conosce o rico-nosce come un valore sul momento; selezioniamo quel-la parte della nostra esperienza, in quanto esseri socia-li, sulla base di ciò che è stato selezionato per soddisfa-re i bisogni di altri prima di noi, come mostrato nel les-

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sico. Con i doni sostitutivi che ci diamo reciprocamen-te, attribuiamo valore sociale alla stessa cosa insiemeper il momento, e possiamo così coordinare le nostreazioni e i nostri comportamenti riguardo a essa9.

Le selezioni che facciamo nelle nostre esperienze incorso sono simili al processo di selezione che svolgiamonello sviluppo dei concetti. Nel discorso, tuttavia (per-ché stiamo soddisfacendo bisogni comunicativi presentie contingenti, invece che bisogni di processo generaledel concetto o i bisogni meta-linguistici della definizio-ne), stiamo praticando il dare doni su molti altri livelli.Le nostre esperienze e interazioni in corso danno impor-tanza ad alcune cose verbalmente e non verbalmente(rendendole “dati”) e di conseguenza ne mettono conti-nuamente altre sullo sfondo (rendendole “non dati” nelpresente). Persino nel dire una cosa tanto semplice co-me “la bambina ha colpito la palla” stiamo selezionandoparte di un’esperienza complessa: avremmo potuto dire“il cielo era azzurro sul campo da baseball” e/o “un uc-cellino stava cantando”; se poi proseguiamo dicendo “lapalla ha colpito la finestra”, stiamo costruendo sui datiche sono i doni di “la bambina ha colpito la palla”.

I bisogni (e i desideri) comunicativi sorgono per in-staurare rapporti reciproci (confermando il valore l’unoper l’altro) riguardo a un’attenzione specifica su aspettideterminati di cose che per l’altra persona potrebberonon essere ancora evidenti. Potremmo infatti considera-re che la nostra attenzione ci dice continuamente “lìpotrebbe esserci un dono”. Soddisfacendo i bisogni co-municativi degli interlocutori si focalizzano alcuniaspetti di una determinata situazione rispetto a loro; glisi dà un primo piano apprezzato comune e uno sfondonon apprezzato (più o meno) comune. Insieme, parlantie ascoltatori considerano pertinenti alcuni elementi diuna situazione e ne considerano altri non pertinenti;danno attenzione, partecipano, alle stesse cose. Ciò che

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è stato messo sullo sfondo in un caso può anche passarein primo piano in un altro caso. Quando soddisfiamo ibisogni comunicativi degli altri riguardo a una cosa –qualcosa che abbiamo considerato un dono per loro inrelazione a noi – gli altri vengono portati a parteciparecon noi nel presente10. Si stabilisce una relazione condi-visa riguardo al dono che il parlante ha dato ma che an-che l’ascoltatore che “ha” la maggior parte delle stesseparole avrebbe potuto dare (in questo è diversa dallasoddisfazione dei bisogni materiali, nella quale diamoqualcosa che l’altra persona non ha). La relazione del-l’ascoltatore è stabilita dal parlante ma, forse come po-tenzialità non espressa, ha la stessa influenza sul com-portamento rispetto alla parte manifesta della comuni-cazione.

Un’interazione condivisa è anche la matrice delloscambio in cui gli altri mostrano di dare valore al nostroprodotto cedendo una somma equivalente di denaro.Così il denaro (con la sua caratteristica sociale astratta)diventa il modello nascosto ma potente per la nostracomprensione del linguaggio e della vita. E questo nonsoltanto perché il denaro è “figlio” del linguaggio, maanche a causa della effettiva affinità dei processi: darevalore dando qualcosa (altro).

Sia il parlare che l’esperienza possono dare origine anuove attribuzioni di valore e a nuovi bisogni comunica-tivi. Per di più, i tipi di cose cui prestiamo attenzione, itipi di valore che scopriamo (e attribuiamo) dipendonoda una sintesi in corso delle nostre esperienze di vitaprecedenti, che possono essere molto simili o molto di-verse da quelle degli altri. Ciò che appare non pertinen-te in un dato momento può diventare pertinente in unmomento successivo, o per un’altra persona (e riguardoa qualcos’altro), così ogni cosa vale sempre potentior(anche se esclusa nel presente perché non pertinente).

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Questa possibilità rende l’esperienza un giardino del-l’Eden immanente, del quale raccogliamo e condividia-mo i frutti poco alla volta, quando ne abbiamo bisogno,cogliendone nella loro fantastica abbondanza. La scar-sità materiale nella quale molte persone vivono nascon-de la natura di dono della vita, bandendo queste perso-ne al di là del muro del giardino. Ristabilire l’abbondan-za permetterebbe di conferire nuovamente valore secon-do l’esperienza individuale e collettiva, invece di con-trapporre l’individuo alla collettività (come avviene nel-lo scambio fondato sulla scarsità). Le nostre disciplineeconomiche potrebbero allinearsi con la parte del no-stro linguaggio che umanizza e crea i legami, invece dicontrapporvisi a causa dell’eccessivo valore che (incon-sciamente) attribuiamo collettivamente alla definizione ealla mascolazione.

L’attribuzione di valore mascolato

Il tipo di Ego che serve allo scambio è in realtà l’Egomascolato. Il sistema di valori che promuove questo Egolo rafforza attraverso le ricompense e le penalizzazionieconomiche, l’avere o il non avere tipi e quantità di pro-prietà; e l’Ego è soggetto alla pubblicità che educa i suoidesideri. Può sembrare che il valore venga trasferito a co-loro che ricevono la soddisfazione di questi desideri o bi-sogni attraverso il mercato, ma in realtà viene trasferito alvenditore dell’oggetto, che ha portato il consumatore acomprare il prodotto manipolando la verità. Il tipo di va-lore-come-posizione acquisito da una persona mediante“averi” comparativi può essere visto come uno status enon soddisfa realmente i bisogni soggettivi dell’individuobasati sul dono. Il consumatore ha bisogno di avere sem-pre di più, perché il suo avere non dà in realtà valore alui, ma dà maggiore valore economico al venditore.

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Mentre può essere vero che senza uno strumento tec-nologico (o utensile fallico) gli uomini potrebbero nonconoscere il mondo oggettivo (perché loro, e lo stru-mento, stanno al di fuori della “grana” del dare e riceve-re), noi donne stiamo più spesso all’interno di questa“grana” grazie al nostro ruolo di nutrici. Siamo perciòpiù inclini a trasformare il nostro sapere in gratitudine apartire dai dati della nostra esperienza. Senza l’oggetto,non esisterebbe lo strumento; e le donne sono oggettooltre che soggetto. Ad esempio, il pene e la vagina sonogli archetipi psicologici dello strumento e dell’oggettodel sapere. Se lo scopo della sessualità è altro rispetto aldare e ricevere, al soddisfare i bisogni l’uno dell’altro, il“sapere” strumentale tratta l’“oggetto” come se fosseuna cosa non vivente, ricettiva in modo non creativo, daessere “penetrata” con la forza. La “gratitudine” prova-ta in questo caso dal “sapiente” fallico mascolato riguar-da soltanto il rafforzamento del suo Ego, in una posizio-ne di superiorità uno-molti di dominio della terra; non ègratitudine o sapere orientato verso l’altro, ma in realtàsi avvicina di più al ricevere il passaggio di proprietàdello scambio.

Gran parte della conoscenza fallica strumentale delmondo oggettivo si è ispirata alla spinta al profitto del-l’Ego e riflette i limiti della prospettiva con la quale èstata interpretata. Mettere sullo sfondo i bisogni umanidei molti gli ha dato il potere distruttivo dell’acquisizio-ne con la forza o dell’indifferenza non curante. Chi con-tinua a vedere la realtà attraverso la “grana” del dare sicontrappone ai prodotti del sapere scientifico che mi-nacciano la possibilità che tutti diano e ricevano. Nes-sun uso – che si dice benefico – di tecnologia nucleare,manipolazione genetica o veleni chimici può far diventa-re di grana donante gli aspetti negativi di queste tecno-logie, o convincere chi si interessa ai bisogni che si trattirealmente di doni per l’umanità.

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Le donne possono conoscere con gratitudine la vagi-na, l’“oggetto”, internamente senza lo strumento fallico.È interessante pensare che se le donne fossero “cose” rei-ficate, la vagina corrisponderebbe alla “cosa in sé” presu-mibilmente sconosciuta dai filosofi. Poi nel sesso diver-rebbe “per l’altro/a e perciò in effetti anche per noi”.

In quanto curatrici di cose per gli altri, conosciamole cose meglio di chi non soddisfa i bisogni degli altri at-traverso di esse. Possiamo richiamare l’attenzione sullepiante curative, sulle pratiche di cura, come anche suidifetti delle argomentazioni a favore della violenza. Lanostra energia vitale è stata spesso rivolta alla cura e almantenimento dei corpi degli altri e dei nostri, senzascambio e senza una definizione mediatrice o una valu-tazione basate sullo scambio.

Il valore di scambio

Il valore di scambio è valore comunicativo (linguisti-co) nel genere di comunicazione distorta che è lo scam-bio. Lo scambio è come la definizione che individuaqualcosa riguardo al suo nome e quindi rispetto a tuttele altre cose. Il fatto che una cosa abbia un nome dipen-de dal valore culturale di quel tipo di cosa per gli esseriumani; il nome specifico che ha dipende dall’insiemedella langue. Questa relazione differenziale è stata “tra-dotta” quantitativamente nell’ordine dei prezzi.

Il processo linguistico di attribuzione di valore vieneusato anche nello scambio, quando ognuno di noi dà lostesso valore ai prodotti che vengono scambiati in baseal loro valore sociale generale. Lo facciamo ogni voltache diciamo: mezzo chilo di fagioli = un dollaro. Il fattoche una persona ceda i fagioli e un’altra ceda il denarodimostra che queste due persone danno lo stesso valoreai fagioli e al denaro. I fagioli hanno quel prezzo in fun-

IL VALORE

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zione di tutti gli altri scambi che avvengono sul mercatoin quel periodo, in particolare quelli riguardanti i fagioli.Analogamente, l’uso di parole dipende dal modo in cuiesse sono usate da altri che parlano quella stessa lingua.

Il principio dello scambio è do ut des (do perché tudia). Il principio della comunicazione basata sul dono èsimile, eccetto per la divergenza di fondo costituita dalfatto che la pratica del dono è mutuamente inclusivamentre lo scambio è mutuamente esclusivo. Nella comu-nicazione basata sul dono, una persona dà – in modoche l’altra possa dare – attenzione e valore all’argomen-to, come anche al parlante e all’ascoltatore stessi. Sia ilparlante sia l’ascoltatore hanno bisogno di un mezzo peressere in grado di dare valore a qualcosa insieme; le pa-role servono a tale scopo, ed è dando le parole che gliinterlocutori danno il valore. Concordare sul prezzopermette a coloro che scambiano di dare un valore equi-valente. Gli effetti della co-muni-cazione e l’attribuzionedello stesso valore da parte di parlanti e ascoltatori e daparte di venditori e compratori sono diversi, perché loscambio è mutuamente esclusivo mentre la comunica-zione verbale è mutuamente inclusiva. Nello scambio, ilprincipio del do ut des materiale richiede che il riceventerestituisca l’equivalente al donatore; la pratica del donosoddisfa invece unilateralmente il bisogno dell’altro.

Con l’altruismo noi attribuiamo lo stesso valore, cosìda stabilire relazioni comuni tra noi come esseri umaniriguardo alle cose. Nello scambio questo altruismo vie-ne usato invece per servire il nostro egoismo. L’affinitàstessa dei due processi ha nascosto il lato altruistico dipratica del dono della comunicazione dietro la facciatadello scambio, poiché lo scambio è ormai un’attivitàestremamente importante per tutti nella nostra società.Diamo soltanto a condizione che l’altro dia l’equivalen-te, perché vivendo in un sistema basato sulla scarsità eil mercato consideriamo noi stessi in funzione della

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quantità di cose (o di valori di scambio) necessarie allanostra sopravvivenza.

Ogni cosa che diamo o spendiamo, ogni valore cheattribuiamo, sembra togliere qualcosa da quella totalità,valutabile nel salario, il “vivere” che ci guadagniamo. Loscambio è come una lingua in cui le cose sono in realtà“cedute” nel momento in cui le parole sono pronunciate(e anche le parole sono “cedute”). Pensiamo sempre acalcolare se abbiamo o siamo abbastanza, come se aves-simo un’ansia da prestazione (o competenza). Esiste unavalutazione del valore economico degli esseri umani, unnome economico (mascolato), un salario, che ci è “da-to”; sembra che le persone non esistano o non meritinodi esistere se non sono mascolate, e se non esistono nonmeritano di mangiare. Anche se forse possono comun-que mangiare, se solo sono in relazione con un “uno”mascolato, come nel caso della moglie.

Sia individualmente sia socialmente investiamo la no-stra energia in ciò che consideriamo abbia valore, anchese questo andrà a nostro discapito o degradazione o aquelli degli altri. Ad esempio, investiamo energia e de-naro in droghe e violenza; gli individui attribuiscono va-lore a queste attività, forse per il piacere fisiologico e ilmomentaneo rafforzamento dell’Io che gli procurano.Anche se la società non approva consapevolmente le at-tività di questi individui, dà però valore al tipo di Egocon il quale queste attività coincidono. Infatti, l’edoni-smo va d’accordo con la mascolazione, con l’orienta-mento verso l’Ego e non verso gli altri. Sembra ancheche accumulando grandi quantità di capitale si possaavere più valore degli altri in modo praticamente illimi-tato; una considerazione che fornisce all’Ego artificiale iltipo di riconoscimento di cui ha bisogno per accumularedi più. Il potere sugli altri, che sembra una prerogativadella posizione di esemplare, viene usato per fornire lericompense che motivano l’Ego mascolizzato. Le intera-

IL VALORE

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zioni basate sulla pratica del dono soddisfano tuttavia inmodo più genuino e vengono spesso cooptate come“bottino” del successo.

Il valore di scambio sembra quello più valido o persi-no l’unico tipo di valore possibile; la società che si basasu di esso dà a intendere di provvedere al bene generalepromuovendo come obiettivo la somma dei valori orien-tati verso l’Ego. Questo esclude inevitabilmente i valorie la gente orientati verso l’altro, come anche coloro chenon hanno successo. La prospettiva della rete di solida-rietà maschile che vede l’homo economicus come porta-tore del bene generale è stata sfidata di recente dalleeconomiste femministe11. Io credo che considerare il va-lore di scambio l’unico tipo di valore o quello più im-portante ci impedisce di criticare in modo genuino e ra-dicale l’homo economicus. In alternativa, propongo diconsiderare principale e primario il valore culturale del-le cose per gli umani in quanto creato attraverso la prati-ca del dono ed espresso nel linguaggio, che funziona se-condo la pratica del dono. Il valore di scambio può cosìessere visto come una distorsione del processo di attri-buzione del valore.

La (ra-presentration)

Il linguaggio continua a mantenere la nostra modalitàdi pratica del dono anche mentre facciamo le nostreesperienze all’interno di un’economia basata sullo scam-bio e perciò non comunichiamo più materialmente. Latecnologia, motivata dal profitto, espande la nostra per-cezione in un’altra direzione, oltre la pratica del donoverso una sorta di oggettivazione disumana: essa sbirciasotto il livello degli eventuali doni, per rilevare impres-sioni intese come reazioni elettrochimiche, e al di sopradel livello dei doni attraverso i telescopi, permettendoci

GENEVIEVE VAUGHAN

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di vedere le origini dell’universo; lavora anche contro lacomunità donante, facendo uso della sua sapienza percreare armamenti convenzionali, biologici, chimici e nu-cleari. Mentre i livelli di “realtà oggettiva” scoperti dallatecnologia di là della pratica del dono possono talvoltaessere utilizzati per un impegno umano verso la soddi-sfazione del bisogno, sono anche usati per causare gravidanni; sono imprese patriarcali mosse dallo scambio (enon dal dono). Abbracciando la grana non donante, chedà effettivamente buoni redditi ai ricercatori nel campodell’economia dello scambio, gli accademici possonoscreditare chi sceglie la grana donante in quanto “reali-sta ingenuo” (a causa della scarsità, i “realisti ingenui”generalmente non hanno comunque accesso alla tecno-logia che gli permetterebbe di vedere le cose in mododiverso). Quando il “presente” è stato svuotato dellapratica del dono dallo scambio, il contatto tra il linguag-gio e la vita si è oscurato. Così è la rap-present-azione, enon il patriarcato, che appare come la ragione della ti-rannia agli occhi dei pensatori post-moderni.

Il valore linguistico ed economico hanno entrambi ache vedere con la rappresentazione, cioè con la comuni-cazione attraverso sistemi di doni sostitutivi. Dobbiamoriconoscere quello che hanno in comune per poter capireil valore. Solo quando ho considerato questi elementi co-muni ho cominciato a vedere la mascolazione come unadiramazione della rappresentazione: una errata rappre-sentazione dell’identità del bambino, che lo forma a suaimmagine e somiglianza, sopravvalutandolo proprio acausa di questo processo e infine trasmettendo questomeccanismo nella società in genere (è come se una parterotta del proiettore cinematografico fosse proiettata sulloschermo insieme al film). La mascolazione è una distor-sione del processo di attribuzione del valore, alla paricon lo scambio e che avviene prima di esso; attraverso loscambio e la misoginia, essa alimenta la rap-present-

IL VALORE

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azione, dando eccessiva enfasi agli aspetti di superioritàgerarchica e dominanza “uno-molti” e negando la prati-ca del dono.

Il valore di scambio è valore di cura (o di dono) fil-trato attraverso il processo anti-dono dello scambio, mo-dellato sulla mascolazione. La mascolazione toglie valo-re alla pratica del dono e dà invece valore alla posizioneuno-molti, alla sua incarnazione nelle gerarchie e allacompetizione per il primo posto. Molti dei doni e granparte del valore che la mascolazione dà alle propriepriorità scorrono in realtà attraverso di essa transitiva-mente da chi nutre, che dà prevalentemente agli uominie al processo della mascolazione stesso. Le pratiche dicura normali, non distorte, danno direttamente valore aibisogni, ai riceventi dei doni e ai mezzi per la soddisfa-zione di questi. Il linguaggio fornisce la pratica del donoverbale di grana sottile, basata sul valore della co-mu-nità, che media interazione e cooperazione in sintonia,creando il valore dato dai molti che lavorano insiemecon uno sforzo comune e contribuendo alle soggettivitàfisiche e fisiologiche individualizzate dei co-muni-catori.

Stiamo considerando il valore non economico comela norma nascosta, invece che come un “sottocaso” delvalore economico. Basando la nostra idea di valore noneconomico sul valore linguistico, la nostra idea di lin-guaggio sulla pratica del dono e la nostra idea di valorelinguistico sull’importanza dei doni del mondo per lacomunità, possiamo avere una prospettiva diversa dallaquale vedere non soltanto il valore economico, ma an-che quelli che sono generalmente chiamati valori “mora-li”. Il patriarcato, separando tra loro i diversi tipi di va-lore e negando la pratica del dono (o al massimo consi-derandola una cosa curiosa e rara dovuta a una propen-sione irrazionale a nutrire), ha imposto i valori della ma-scolazione sulla società nell’insieme. Esso pratica la do-minazione attraverso la categorizzazione: ripete cioè su

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ogni cosa in termini diversi la mascolazione, che è appli-cata ai bambini maschi attraverso la loro definizione digenere nel momento in cui sono categorizzati come se-parati e superiori. In queste circostanze, i valori “mora-li” sono un tentativo di regolare gli interessi mutuamen-te esclusivi lontano dal danno, di mitigare i loro effettinegativi e di reintrodurre la pratica del dono come unelemento puramente ausiliario in una realtà basata sulpatriarcato e sullo scambio. Invece, è la pratica del donoe non la mascolazione il fondamento per creare una so-cietà in cui ognuno possa avere cura dell’altro senzadanno.

Altri valori culturali, come quelli estetici, storici, spi-rituali o etnici sono originariamente situati nell’ambitodi un contesto creato dalle pratiche di cura e dal lin-guaggio, ma adesso vengono generalmente alterati dallamascolazione e dallo scambio. Quando saremo infine ingrado di smantellare il patriarcato sarà possibile consi-derare cosa sono i valori culturali al di là di questa alte-razione. Molti di essi contengono già, comunque, la spe-ranza di un mondo migliore; sono doni della fantasiache guariscono alcune delle sofferenze subite dall’uma-nità nel corso dei secoli.

1 Fa differenza se questa è solo una proiezione sulle cose, dal momentoche funziona perché esse diano valore alle parole per noi? Nel patriarcato ab-biamo creduto che le donne fossero passive nel cedere il passo agli uomini,ma in realtà stavano ancora dando loro valore per implicazione. Il particolarecedere il passo delle mele, delle montagne, di un uccello che canta su un albe-ro o di una bambina che colpisce la palla sono abbastanza simili per dare va-lore alle parole-dono che prendono il loro posto, anche se sono molto diversecome parti del mondo. Le idee astratte (come la giustizia) o le creature dellafantasia (come gli unicorni) oppongono una resistenza ancora minore nel la-sciare che il loro posto venga preso.

2 Leggendo della prospettiva filosofica sul lavoro di pratiche di cura delledonne, ho capito finalmente in cosa concordo con la frase di Marx sul linguag-gio come coscienza pratica che esiste per gli altri e, perciò, esiste in effetti an-che per me. Il lavoro del prendersi cura è coscienza pratica, e il linguaggio uno

IL VALORE

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dei suoi aspetti generali. Per la prospettiva delle pratiche di cura, cfr. Ruddick1989. In un contesto più specificatamente economico, cfr. Folbre 1994.

3 Il valore d’uso è una categoria del mercato, definito in opposizione al“valore di scambio” e analogamente sottratto alla pratica del dono. I doni so-no beni con una fonte e una destinazione, fanno parte di una relazione uma-na. È dal punto di vista del paradigma dello scambio che identifichiamo qual-cosa come un valore d’uso, con un potenziale generalizzato e neutrale persoddisfare il bisogno umano, “nominabile” con il denaro, oggettivato comeproprietà. Il valore d’uso è il requisito indispensabile del valore di scambio,che rende al tempo stesso il prodotto estraneo al processo del dono, al di fuo-ri della “grana” donante. Dal punto di vista del paradigma del dono, i valorid’uso dovrebbero essere parte di un processo più completo in cui partecipa lagente. Mentre è vero che dopo aver scambiato, la gente usa i prodotti persoddisfare i bisogni, la relazione con il produttore quale fonte originaria deiprodotti risulta generalmente spezzata. Per di più, nel capitalismo, i produt-tori non producono valori d’uso come doni, ma come oggetti che la gente pa-gherà per utilizzare. La gratitudine viene data al mercato, e al processo discambio stesso. Che la logica del dono sia ancora forte lo dimostra il fenome-no dell’“etichetta”, che identifica la fonte dei beni in una particolare societàcome se questi fossero doni, ricreando una relazione umana artificiale con il“donatore” in modo che i “riceventi” comprino di più. L’affare, i saldi e lasvendita hanno una dinamica simile.

4 Nella preistoria le pratiche di spartizione del cibo erano diffuse tra i pri-mi ominidi. Ma gli archeologi mascolati attribuiscono normalmente alla cac-cia un ruolo maggiore nello sviluppo dell’uomo.

5 Volosinov (1930) dice: “Ogni fase nello sviluppo di una società ha unapropria sfera di elementi speciale e ristretta, che da sola ha accesso all’atten-zione di quella società e che grazie a quell’attenzione può essere dotata di unrilievo di valutazione. Solo gli elementi inerenti a quella sfera realizzeranno laformazione segnica e diverranno oggetti nella comunicazione semiotica”.Ognuno di questi elementi “dev’essere associato ai requisiti indispensabili so-cio-economici vitali per l’esistenza di quel gruppo”. Penso anche alle pitturenelle caverne preistoriche, che (oggi si ritiene) furono ottenute disegnandocon la bocca – sputando il colore sui muri – come ancora avviene per alcunipittori aborigeni nelle caverne dell’Australia: la pittura è prima espulsa con labocca (attribuita) sul muro, poi rimirata. L’analogia, che mi sembra maggiorein questo caso rispetto alla pittura con le mani o col pennello, risiede nell’al-terazione fisiologica del respiro e della saliva necessaria a emettere il colore.Un’accelerazione del respiro o un aumento della saliva potrebbero servire da“ancore” fisiologiche per gli accenti o le attribuzioni di valore, che avvengonocontinuamente nella nostra esperienza in corso ma dei quali non siamo nean-che consapevoli. L’attribuzione, l’apprezzamento (e la proiezione) del valoreattraverso il linguaggio coinciderebbe quindi con l’enfasi data attraverso le al-terazioni del respiro. Anche il respiro implica il ricevere (inspirare) e il dare(espirare).

6 Michel Foucault (1966) parla del valore, all’interno del paradigma delloscambio, come “attributivo”, “apprezzativo” e “articolativo”.

7 Vedi Karl Marx (1859) per una discussione sul carattere relazionale di

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produzione e consumo, sulla specificazione dei bisogni attraverso la produ-zione che li soddisfa così come sulla specificazione della produzione attraver-so il tipo di bisogni che devono essere soddisfatti.

8 Credo che questa relazione con dei bisogni diversi sia alla base dei valori“puramente differenziali” che Saussure identificava come principio di organiz-zazione astratto della langue. Vengono usati tipi di cose diverse in processi deldono diversi, per soddisfare tipi di bisogni diversi, e queste cedono il passo aparole diverse che prendono il loro posto come doni comunicativi. I casi diomonimia e sinonimia non sono problematici finché l’esclusione mutua simantiene sul piano fonetico e i bisogni soddisfatti rimangono nettamente di-versi l’uno dall’altro. Il valore-come-posizione mutuamente esclusivo che sitrova nella langue si ripete nella struttura delle istituzioni derivanti dalla ma-scolazione, come l’OBN (le reti di solidarietà maschili) o la proprietà privata. Legerarchie hanno una struttura simile a quella di termini linguistici di classi su-periori o subordinate, secondo la generalità e l’inclusività. Ad esempio, un ter-mine di classe superiore come “pianta” è più generale delle subordinate in es-so incluse come “fiore”, “albero”, “vite”, mentre “fiore” è di classe superiorepiù generale dei termini che include come “rosa”, “margherita” o “mimosa”.

9 La metafora postale: emittente (codificatore), pacchetto (messaggio) ericevente (decodificatore) è la pratica del dono vista come “servizio postale”.Il codice è un insieme comune di “marche” che un gruppo “ha” e un altrogruppo “non ha”. Codificare e decodificare, inviare e ricevere un messaggiosono metafore dell’impacchettare e aprire un regalo. Un’altra situazione dieconomia del dono nella nostra società (oltre alla pratica materna) è in effettil’invio e la ricezione di doni celebrativi in occasione di compleanni, Nataleecc. Cfr. Cheal (1988) sui doni celebrativi.

10 Credo che quelli che gli studiosi di semiotica chiamano “segni natura-li” possano anche essere interpretati come doni, anche se i comportamenti at-traverso i quali sono utili per gli animali possono essere meno complessi deinostri. I fiori, attraverso il loro colore e profumo, dicono agli insetti: “qui c’èil nettare”. Il colore e l’odore sono doni secondari, che portano al dono mate-riale del nettare. Il dono dipende dal ricevente per il suo esistere come dono:una nube nera è un dono (un segno naturale) per chiunque possa usarlo pertornare a casa prima che cominci a piovere; un albero che cade nel bosco èun dono per chiunque possa usarlo in quanto tale. Ho sentito di recente unacanzone ambientalista sugli alberi che cadono nella foresta pluviale.

11 «The Journal of the International Association for Feminist Economics»(IAFFE) è stato fondato nel 1995 ed è pubblicato da Routledge.

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Capitolo undicesimoLo spostamento verso lo scambio

Quando usiamo le parole invece dei doni materialiper comunicare, ci spostiamo su un altro piano che ab-biamo creato: il linguaggio, che funziona secondo i prin-cipi co-muni-cativi similari. Ma quando ci spostiamo dal-la pratica del dono materiale allo scambio economico, cistiamo in realtà spostando verso la logica della sostituzio-ne, che prende il posto della logica del dono. La logicadella sostituzione (che ha una funzione linguistica), in unprocesso auto-similare, si sostituisce alla logica della pra-tica del dono. A causa della doppia sostituzione su duelivelli: tra il denaro e i prodotti e tra una logica e l’altra,facciamo più strada di quanto pensiamo; c’è un maggioredivario tra la pratica del dono e lo scambio di quanto vene sia tra le cose e le parole (è un divario che viene col-mato da una parte con il “meritare” e dall’altra con lacorrispondenza tra parola e cosa, forse ciò che chiamia-mo talvolta la “verità”)1. C’è uno spostamento dal micro-scopico al macroscopico attraverso le strutture auto-simi-lari della sostituzione e dello scambio (v. Fig. 15).

L’allineamento di strutture auto-similari crea una sortadi distorsione mentale, un buco nel tetto, una breccia diforte corrente ascensionale che ci trascina nella “nuova”impostazione mentale dello scambio. Poi, questa nuova at-titudine, o paradigma, attrae a sé l’attribuzione di valore (è“nuova” soltanto in quanto opposta alla pratica del dono,che la precede ontogeneticamente e filogeneticamente).

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Figura 15. Lo scambio prevarica sulla pratica del dono e sul baratto.

Spostamento verso lo scambio

Nel baratto, le cose vengono equiparatee una prende il posto dell’altra

Nello scambio monetizzato, i prodotti e il denaro vengono equipa-rati, e il denaro sostituisce ciascun prodotto a turno

Lo scambio col denaro come processo prende il posto del barattocome processo.

Lo scambio col denaro ha preso il posto del baratto e prende il postodella pratica del dono, che cede il passo anche se continua a esistere

Prezzo: Unprodotto inscambio è mes-so in relazionea un prezzo co-sì come una co-sa è messa inrelazione a unaparola qualesuo nome

Prodotto

Scambio

Scambioscambio monetizzato

dono

Baratto

Baratto

Prodotto

DenaroDenaro

Beni

Bisogni

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A causa del carattere autoreferenziale e di similaritàsui diversi livelli, diamo almeno la stessa credibilità allasostituzione dell’intera logica del dare da parte della logi-ca della sostituzione di quanto facciamo con la semplicesostituzione di una cosa con l’altra. Il nuovo livello mate-riale di grana più grossa ci è familiare; sappiamo incon-sciamente come funziona il micro livello di grana sottile,perché utilizziamo continuamente quel processo di sosti-tuzione quando apprendiamo il linguaggio e definiamo lecose. Ci siamo spostati sul nuovo livello quando abbiamoacquisito il linguaggio, e avere il linguaggio ha mediatoogni aspetto del nostro essere. La somiglianza alla ma-scolazione del ricevere un nuovo “nome” col prezzo, del-l’essere dati via dal “produttore” e allontanati dalla prati-ca del dono verso la nuova logica di sostituzione, creaancora una volta conferme reciproche. Lo scambio citrascina con sé, e il paradigma dello scambio prende ilsopravvento, prendendo il posto di altri modelli possibiliper il nostro concetto di interazioni umane2.

Se allo scambio non venisse continuamente attribuitoun valore superiore a ogni altro, esso non esisterebbepiù in quanto tale. E neppure l’uomo mascolato esiste-rebbe più come tale, se non gli venisse attribuito un va-lore superiore. La pratica del dono, insieme all’estensio-ne e valorizzazione del paradigma del dono, rendereb-bero superfluo lo scambio. Così adesso, in realtà, la pra-tica del dono sostiene il suo “concorrente” (la concor-renza è indubbiamente un aspetto dello scambio, nondel paradigma del dono). La logica e la pratica delloscambio hanno bisogno di questa attribuzione di valoree tutti soddisfano questo bisogno, anche chi pratica ilparadigma del dono. Avendo ricevuto un valore superio-re, lo scambio diventa l’unico modo per riuscire a so-pravvivere, mantenendo la sua posizione, pervadendo lanostra vita e rendendo marginale o escludendo ognipossibile alternativa a esso.

LO SPOSTAMENTO VERSO LO SCAMBIO

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L’istituzione sociale dello scambio col denaro ci por-ta a spostare paradigma ogni qualvolta compriamo ovendiamo. Lo spostamento stesso diventa un fatto co-mune a tal punto che non lo notiamo neppure; permeala nostra vita. Sia il “nuovo” paradigma che lo sposta-mento diventano ai nostri occhi una cosa assolutamentenaturale e normale; il “vecchio” paradigma di beni e ser-vizi gratuiti è “sprezzato” e sembra privo di valore alconfronto, sebbene continui a funzionare.

Le persone orientate verso l’Ego attribuiscono valoreallo scambio, non solo perché ne hanno bisogno per so-pravvivere, ma anche perché partecipando a esso po-tranno meritare e ricevere individualmente valore extra,che sembra provenire da loro stessi (la fonte della lorosuperiorità). Per di più, il modello mascolato delloscambio riproduce quello stesso processo di raggiungi-mento della superiorità. Le persone orientate verso l’al-tro attribuiscono valore allo scambio anche come conse-guenza logica, perché attribuiscono valore non solo a sestesse ma anche ad altre che hanno bisogno dello scam-bio per sopravvivere. Lo scambio sta in primo piano eattira l’attenzione, perché promuove la competitività,per la quale la visibilità è funzionale: il venditore deveincoraggiare la scelta del compratore attraverso la visibi-lità e l’attrattiva del prodotto-in-cambio.

La sostituzione del dare – escludendolo – fa sì che latransazione dello scambio assuma un carattere di anta-gonismo. Giacché l’altra persona si comporta come noiin una diversa fase dello stesso processo (dando denaromentre noi diamo il prodotto, ad esempio), quella per-sona sarà la nostra immagine riflessa anticipata o ritar-data e, come noi, nella scarsità sarà sempre pronta adacquisire il nostro prodotto a un prezzo minore o a ven-derci il suo prodotto a un costo maggiore; persino atruffarci. Nello scambio, quando ci “mettiamo nei pannidell’altro”, stiamo riconoscendo i nostri interessi anta-

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gonisti. Una parte della logica del nostro altruismo s’in-ceppa nel riconoscere che l’altro ha bisogno di truffarci,così come noi abbiamo bisogno di truffarlo. Questo av-verrebbe negli “interessi” mutuamente esclusivi di cia-scuno di noi.

Lo spostamento allo scambio e la mascolazione siconvalidano l’uno con l’altra, così che l’uno attira unaparte del valore attribuito all’altro e viceversa. Come av-viene nella mascolazione, il passaggio allo scambio an-nulla e invalida la fonte del dare, in modo che chi svolgela pratica del dono sembra isolato. È questo spostamen-to a stabilire la norma nel campo economico e spessoanche della “realtà” stessa. Ciò che è simile allo scambiosembra non soltanto valere di più ma anche di esserereale e normale, mentre tutto il resto rimane non conva-lidato e indefinito (un altro modo di screditare le donnee la pratica del dono). Lo scambio ha a che fare aperta-mente con il valore palese, lo denomina, lo accumula elo immagazzina come denaro, prevede le sue fluttuazio-ni sociali; lo fa apparire come il nodo della questione. Inaltre parole, a questo livello il processo di scambio at-trae il dono del valore. Noi oscilliamo tra l’apprezzarlo el’attribuirgli valore, paradossalmente ricevendo da esso– dal processo – e dando a esso. Alitiamo il soffio vitaledel valore nel processo di scambio, come Dio alitò il sof-fio vitale nelle narici di Adamo. Il valore dato allo scam-bio da coloro che partecipano a esso, come anche da co-loro che stanno al di fuori di esso, è influenzato dalleforze del mercato e infine accumulato nel capitale, chefornisce le ricompense agli “abbienti” e penalizza i “nonabbienti”, motivando l’intero processo.

L’importanza dello scambio è sovra-determinata,com’è prevedibile, ma anche la pratica del dono riceve-rebbe valore e conferme da parte di molti diversi setto-ri, se i suoi doni e il suo valore non venissero riversatinello scambio. Molti processi possono essere interpre-

LO SPOSTAMENTO VERSO LO SCAMBIO

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tati come dare-e-ricevere doni: dalla sessualità alla na-scita, all’allattamento, al respirare, a Madre Natura chelascia cadere il suo fazzoletto perché noi lo raccogliamo(dalla frutta che cade col vento ai sincronismi), e allemoltissime forme di pratiche di cura di cui abbiamoparlato su ogni livello. Queste possono essere e sonosimboleggiate attraverso diverse forme, a cominciare daMadre Terra e Sorella Acqua, la cornucopia e il graal.La pratica del dono, però, rimane spesso nascosta per-ché lo scambio (come la mascolazione) è in competizio-ne con essa e dipende in modo parassitario da essa peril valore che gli viene attribuito. Lo scambio ha bisognodi rimanere in primo piano, per camuffare la pratica deldono o cancellarla, e per dare l’impressione di riceverevalore perché lo merita.

Lo scambio ha bisogno in realtà che il suo valore sem-bri rivelarsi da sé, invece che essere attribuito dagli altri;ha bisogno, cioè, di far credere che la fonte del propriovalore risieda nella sua stessa doppia logica, come se stes-se soltanto riprendendo l’equivalente di ciò che esso, loscambio, ha “dato”. Lo scambio sembra re-istituire lapratica del dono come se fosse un suo meta-livello (par-ziale), e noi potremmo essere indotti a credere che loscambio sia un dono benefico per la comunità. Infatti, lecomunità cosiddette “in via di svilluppo” hanno spessoquest’idea, quando iniziano a coltivare i prodotti per lavendita, invece che per il loro consumo. L’iniziale incre-mento di prosperità e di “autonomia” sembra giungerecome per magia, ma presto subentrano i difetti della di-pendenza dall’economia di mercato. Questa dipendenzaprivilegia in realtà solo i pochi, mentre agli altri fa crede-re che le ragioni del loro fallimento risiedano nei loro di-fetti: mancanza d’intelligenza, strategie inefficaci, sceltesbagliate, e sfortuna. Dare la colpa agli individui (inveceche al sistema) del loro fallimento permette che si conti-nui a dare eccessivo valore allo scambio e al mercato.

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Dal momento che lo scambio sembra essere l’unicafonte dei beni per la sopravvivenza in un’economia basatasulla scarsità, esso sembra meritare tutta la nostra attenzio-ne. Il sistema, tuttavia, ha bisogno di creare la scarsità co-me requisito indispensabile allo scambio, perché la praticadel dono in una situazione di abbondanza sovvertirebbe loscambio rendendolo superfluo. L’economia monetizzata,espandendosi, occupa lo spazio che era in precedenza di-sponibile per la produzione e il consumo del dono, ren-dendo difficile la sopravvivenza per coloro che non parte-cipano allo scambio. Le risorse naturali vengono utilizzateo sfruttate (intenzionalmente o meno), così che non posso-no essere usate come fonte di sussistenza per coloro chetradizionalmente si nutrivano attraverso di esse. L’emargi-nazione economica degli indigeni americani e la distruzio-ne delle numerosissime mandrie di bisonti dalle praterienordamericane, che costituivano la fonte gratuita di sussi-stenza di molte tribù, è uno dei tanti, tragici, esempi.

È dimostrando come lo scambio sia parassitario ri-spetto ai doni del paradigma che nasconde e nega, chepossiamo finalmente renderci conto che esso non costi-tuisce la fonte primaria del benessere economico e che,anche secondo i suoi stessi criteri, non merita l’attenzio-ne e il valore che gli diamo. È dando valore a una metaprospettiva più ampia per il bene di tutti che possiamospostare di nuovo il paradigma dallo scambio verso lapratica del dono.

1 In realtà, dire la verità dovrebbe essere considerata comunicazioneorientata verso l’altro, che soddisfa i bisogni comunicativi degli altri di cono-scere una determinata situazione così da soddisfare i loro altri bisogni com-plessi. La menzogna è orientata verso l’Io; come lo scambio, essa usa gli altriper la soddisfazione dei bisogni propri. La pubblicità ingannevole è una men-zogna che promuove uno scambio. La verità “oggettiva”, la cosiddetta corri-spondenza tra le parole e le cose, può essere vista come un riflesso delloscambio equo, al di fuori della grana del dare e ricevere.

2 La nuova denominazione è usata anche nel cristianesimo fondamentali-

LO SPOSTAMENTO VERSO LO SCAMBIO

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sta, con il battesimo e l’essere rinati, che è simile all’acquisizione di un nuovovalore (di scambio) mettendo se stessi in relazione all’equivalente generale. Ilbattesimo fondamentalista è anche simile alla mascolazone e crea quasi unaterza identità di genere, con i suoi relativi mandati di comportamento.

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Capitolo dodicesimoDare valore allo scambio

Dare al mercato

Lo scambio non dà valore in sé, anche se può sem-brare che dia attraverso il processo di definizione mone-taria, includendo qualcosa nella categoria delle cose chesono scambiabili con il denaro. Qualunque cosa vengainclusa in quella categoria riceve in realtà valore, datoalla cosa e alla categoria nell’insieme dall’esterno. Il va-lore viene attribuito alle cose in quella categoria non sol-tanto perché la gente vuole comprarle e cede quindi ilproprio denaro per riceverle, ma viene dato da tutti alprocesso nel suo insieme (così come al processo dellamascolazione), a quella parte del processo che è la cate-goria “prodotti sul mercato” e a tutte le tortuosità delcapitalismo costruite su di essa.

Nella pratica del dono il valore passa transitivamentedal donatore al ricevente, ma nello scambio il valore deldono non passa all’altro, perché la soddisfazione del bi-sogno torna indietro a ogni persona che scambia. Loscambio non implica l’importanza di chi riceve il pro-dotto o dei suoi bisogni, ma l’importanza di chi ha datoinizio allo scambio e dei suoi bisogni. Il denaro che vie-ne dato al venditore fa sì che un prodotto che ha quelvalore di scambio possa ritornare al compratore, che èstato a sua volta un venditore e che quindi “merita” unarestituzione. Se il compratore non riceve “ciò che vale il

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suo denaro”, più valore passerà al venditore, e questapuò essere una delle motivazioni per truffare.

Quando si compra allo scopo di vendere si cerca diincrementare il valore che verrà dato al prodotto dagli al-tri e, perciò, l’ammontare del valore che verrà ceduto peresso. Potremmo aspettarci, ad esempio, che portando ilprodotto in un altro luogo gli altri gli attribuiscano mag-giore valore; il suo essere raro potrebbe persino renderloun prototipo o prodotto esemplare e, in quanto tale,molto richiesto. Il commercio diventa possibile perché alprodotto viene data un’immagine di accessibilità, dure-volezza, convenienza ecc., grazie alla quale gli altri gli da-ranno più valore dall’esterno. Anche la minaccia di unamancata soddisfazione dei bisogni porterà la gente a darepiù valore ai prodotti. La scarsità è funzionale a questoaumento di attribuzione del valore e spesso viene creataproprio a tale scopo. La creazione della scarsità vienechiamata eufemisticamente “aumento della domanda”.

La rarità di un prodotto sembra aumentare il valoredi chi lo possiede, e il compratore paga per questo, ripe-tendo lo schema. A molti prodotti viene dato un valoreanche in quanto “marche” di uno status (mascolato), equesto aumenta il valore che il compratore si dà attra-verso lo scambio. Tutte queste attribuzioni di valore in-fluenzano le priorità e le decisioni “marginali” del com-pratore. Le sue attribuzioni di valore sembrano espri-mersi nelle sue scelte, che in definitiva vengono inter-pretate dagli economisti come forme del suo egoismo.Queste scelte avvengono chiaramente entro i parametridello scambio, con il mercato come un “dato”.

Il fatto che i prodotti si trovino nella categoria dellecose scambiabili li rende disponibili a ricevere un’attri-buzione di valore dall’esterno. Ai prodotti sul mercatoviene dato più valore che ai beni di prima necessità dicui vi è abbondanza, come l’aria e l’acqua, o le cose chenon possono essere vendute perché rotte o difettose o

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evidentemente abbondanti. Il fatto di stare sul mercatorivela anche il valore che i prodotti hanno già, che gli èstato dato da altri nel passato, un valore che general-mente si calcola e si esprime sotto forma di costi di pro-duzione. Il mercato pone le cose – e le persone – in unaposizione decontestualizzata nella quale il loro valoreviene “rivelato” dalla sostituzione, e dove il valore gliviene dato in contrapposizione a ciò che non ha valoredi scambio. Portare qualcosa al mercato è simile, perciò,al dare attenzione a qualcosa riguardante la quale poi sicomunicherà – riguardante la quale modificheremo lenostre relazioni umane – apprezzandone il valore e at-tribuendoglielo. È una riproduzione al rallentatore di se-miotizzazione su un piano materiale.

Nel mercato, modifichiamo le nostre relazioni di pro-prietà mutuamente esclusive riguardanti un prodottospecifico, trasferendo quel prodotto a un nuovo pro-prietario e mantenendo il suo valore sotto forma di de-naro. Nel linguaggio, modifichiamo le nostre relazionimutuamente inclusive riguardanti le cose cui diamo at-tenzione, creando un’esperienza condivisa e un terrenocomune sulla base di doni sostitutivi condivisi. Alteran-do le nostre relazioni umane reciproche in modo coordi-nato e coerente riguardo qualcosa, si rivela e si utilizza larelazione generale di questa cosa con il gruppo. Vicever-sa, noi usiamo la sua relazione generale col gruppo perincluderci, modificando le nostre relazioni con essa sulmomento, rendendole specifiche.

Nel mercato, portiamo di solito le cose materialmen-te in un posto, ad esempio un negozio, dove saranno ca-tegorizzate come valori per il processo relazionale uma-no di comunicazione materiale (distorta), lo scambio, esaranno cedute. Nel discorso, modifichiamo general-mente le nostre relazioni con le cose usando le parole al-le quali quelle cose specificamente cedono il passo e acui danno valore, dimostrando che tali cose sono già ap-

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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prezzate come valori per il processo relazionale umanodella comunicazione linguistica e, perciò, per i comuni-catori. Nello scambio, il prodotto accede alla categoria“valore” quando viene messo in relazione con il denaro.Nel linguaggio, una cosa diventa inizialmente un valorenella cultura, che porta alla semiotizzazione; viene messasocialmente in relazione con altre cose dello stesso tipo(e con una parola quale suo nome) ed è capace di essereesplicitamente messa in relazione con le parole dei co-municatori presenti. La sua categorizzazione è parte del-la sua relazione con i molti, così come lo è la categoriz-zazione di un prodotto sul mercato in quanto valore discambio. Il valore viene apprezzato e attribuito dalloscambiatore, o dall’interlocutore, ai prodotti, o alle cose,legati ai loro nomi. Il primo caso fornisce la categoriadel valore di scambio, e il secondo il valore semantico oculturale di ogni differente categoria.

L’attribuzione di valore a una categoria o al mercatoè simile all’attribuzione di valore alle gerarchie con i lo-ro diversi livelli (ad esempio, attribuiamo valore all’eser-cito nel suo insieme dall’esterno). Le gerarchie trasferi-scono valore e beni verso l’alto; sono serie verticali didefinizioni mascolanti. I molti danno verso l’alto sia allecategorie privilegiate sia ai loro “uni” esemplari privile-giati. Le strutture dello scambio e quelle della gerarchiaspesso s’intrecciano (come nell’esercito o nella Chiesa),mentre chi sta all’esterno delle categorie valorizzate so-stiene chi sta all’interno (ad esempio attraverso le tasse ole decime). La struttura gerarchica canalizza gli ordiniverso il basso e l’obbedienza e i servizi dei molti versol’alto, verso livelli di “uni” sempre più alti.

Il valore di prodotti particolari è rivelato dalla loroposizione nell’insieme delle cose sul mercato, e il valoreviene dato all’insieme dall’esterno con il lavoro gratuitoe altre pratiche del dono1. Il valore viene attribuito almercato gratuitamente perché, nella scarsità, il mercato

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appare come la fonte di ogni bene; la sopravvivenza di-pende da esso. Ci sono poche altre possibilità di soprav-vivenza. Frugare nella spazzatura e chiedere l’elemosinasono considerate alternative per la sopravvivenza social-mente prive di valore, e le cosiddette “comunità di auto-sufficienza” sono sviluppi relativamente recenti e isolati.Perciò, il valore per il mercato diventa l’esemplare delconcetto di tutti i valori.

Il valore viene dato al mercato dall’esterno da ognu-no di noi, ma generalmente si pensa che provenga dalloscambio, dal mercato o dai prodotti stessi. Il feticismodella merce viene dal rifiuto e dall’annullamento dell’at-tribuzione di valore del dono. Qualsiasi valore che nonsia “meritato” attraverso il mercato viene considerato unfurto, perché non viene riconosciuto il contributo dellapratica del dono all’insieme. Se prendiamo qualcosa gra-tis o la paghiamo meno rispetto al suo prezzo di merca-to, sembra che in origine non vi sia stato un contributoal mercato di una nostra produzione, corrispondente alnostro consumo; potrebbe sembrare ingiusto ricevere“qualcosa per niente”. Invece la questione è totalmentefuori luogo, perché, di solito, abbiamo contribuito aglialtri e al mercato stesso attraverso le cure, il pluslavoroche crea profitto, e anche attraverso il credito che abbia-mo dato al mercato come sistema, a tutti i prodotti inu-tili e deleteri e ai politici e alle idee che gli danno valore.In realtà tutti danno gratuitamente al mercato moltissi-mi contributi che non sono riconosciuti.

Quando compro un giocattolo inutile, un cornettoper la colazione o una crema per il viso che siano dispo-nibili sul mercato e di cui è stata fatta pubblicità, stodando valore in più non soltanto ai produttori e ai ven-ditori del prodotto, ma anche al processo del mercato,senza il quale non lo avrei comprato. La pubblicità sti-mola continuamente il dono gratuito della nostra atten-zione. Le nostre menti, i nostri cuori e le nostre case so-

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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no piene di prodotti che provengono dal mercato o chevi sono destinati, e così anche gran parte del nostro tem-po. Il principale destinatario della nostra attenzione perquasi tutta la vita è il mercato e tutte le varianti della no-stra partecipazione a esso.

Dare valore

Il valore è anche un versante di un’opposizione bina-ria con ciò che non ha valore. È la via di accesso per unarelazione con gli esseri umani, perché creiamo una rela-zione reciproca più stretta rispetto a ciò che ha valore,che rispetto a ciò che non ne ha. Le cose che hanno va-lore si prestano alla nostra attività di formazione deiconcetti. Esiste anche un valore negativo, al quale po-tremmo dare attenzione, e a cui dovremmo forse daremolti doni per contrastarne gli effetti.

Soddisfare il bisogno di un altro dà transitivamentevalore a quella persona. Nello scambio, visto che la sod-disfazione del bisogno dell’altro viene usata soltanto perprocurare la soddisfazione del proprio bisogno, si can-cella il dono e si crea un equilibrio, così che né il dononé il valore passano transitivamente all’altro. Stimolarepiù bisogni per aumentare la produzione è ancora menocompassionevole dell’equilibrio, perché crea anche piùbisogni che non possono essere soddisfatti.

Offerta e domanda in equilibrio somigliano moltissi-mo alla domanda e alla risposta nel linguaggio. La do-manda effettiva è l’espressione del bisogno (l’esplicitadomanda o richiesta) attraverso il denaro; la produzioneè la “giusta” risposta. Ma la loro interazione è un’imita-zione e una trasposizione, addirittura una caricatura deldare e ricevere, che risponde direttamente ai bisogni. Sicrea un circuito chiuso simmetrico, per il quale ognipersona egoista che si dà valore da sé, che dà solo allo

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scopo di ricevere, è uguale a tutte le altre che fanno lastessa cosa, e trova in questa equivalenza la qualità di va-lore “umano” comune a tutti. L’equilibrio del mercato èuna proiezione del circuito simmetrico dello scambio.Ma la pratica del dono e i bisogni che essa soddisfa, co-me anche i bisogni che restano “ineffettivi” e insoddi-sfatti, rimangono fuori da questo circuito, mentre peròlo nutrono e si rifanno a esso.

Le gerarchie e le comunità improvvisate

La modalità autonoma e noncurante dello scambioimpone una struttura caratteristica, attraverso la quale co-munichiamo materialmente in maniera distorta per diven-tare una comunità: è la struttura concettuale gerarchicatrasposta della sopraffazione (presa del potere) e della so-

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

Figura 16. I doni scorrono verso l’alto.

Livelli gerarchici: chista in basso dà e ce-de il passo a chi stain alto

Chi sta in altodefinisce e co-manda chi sta inbasso

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stituzione, che s’incarna quando i bisogni delle personeche occupano la posizione di “uni” privilegiati vengonosoddisfatti dagli altri – i molti – che vengono tenuti nellaposizione di dare doni (così l’attribuzione di valore vaverso l’alto) (v. Fig. 16). Questi molti sono coloro chevengono pagati per creare capitale attraverso il pluslavo-ro, o per servire i loro esemplari privilegiati in diversi mo-di, fornendo loro le ricompense che costituiscono almenoin parte lo stimolo all’accumulazione del capitale.

Nello scambio non diamo valore al bisogno o alla per-sona che ha un bisogno, bensì al prodotto che potrebbesoddisfare il bisogno, in quanto membro o parte della ca-tegoria delle cose da scambiare. La valutazione del pro-dotto in termini di denaro, e la valutazione strumentaledel bisogno di quel prodotto da parte di chi ha il denaroper pagarlo, catturano la nostra attenzione e la nostraproduzione, lasciando poca energia per i bisogni di altriche “meritano” e ancora meno per altri che “non merita-no”. I legami comunitari s’indeboliscono e scompaiono.Rispetto a come avrebbero potuto essere, le nostre co-munità nell’insieme sono pietosamente “mancanti”.

Questo vuoto umano viene riempito in vari modi: conil solito comportamento gerarchico della “legge e ordi-ne”, ma anche con parecchia pratica del dono non rico-nosciuta. Esistono diverse attività di volontariato con lospecifico obiettivo di creare legami, e grazie alle qualivengono creati o ravvivati molti legami comunitari che ri-marrebbero altrimenti indifferenti o estranei. Di recente,diversi studiosi hanno lavorato sul tema dei regali di Na-tale e di compleanno (Cheal 1988), attività svolta princi-palmente dalle donne. Il lavoro volontario, le organizza-zioni no-profit, gli istituti di beneficenza, tentano di cu-rare le ferite e di colmare i divari che si creano continua-mente a causa delle economie egoiste a circuito chiuso.Le organizzazioni religiose incoraggiano o richiedonomolti doni gratuiti di denaro e di tempo e, perciò, danno

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valore al proprio bisogno di diffondersi. Tra i loro mem-bri si crea un senso di comunità, perché ognuno dà inve-ce di scambiare, e dà allo stesso bisogno organizzativo alargo spettro. La fedeltà e l’obbedienza vengono dateesplicitamente alle priorità, interpretazioni e regole diqueste organizzazioni. Ogni ego mascolato e basato sulloscambio sente così di avere caratteristiche e credenze incomune con altri al di là del proprio egoismo.

L’alcol e le altre droghe sociali, stimolando i feromo-ni e liberando le inibizioni, rendono più facili e imme-diati i legami umani. Forse bere alcolici socialmente so-stituisce il darsi il latte a vicenda, cioè nutrirsi reciproca-mente! o almeno essere nutriti insieme, nonostante lamistica maschilista dell’alcol. Il bere eccessivo, infatti,stimola spesso comportamenti mascolati di sopraffazio-ne, come alzare la voce, l’iperattività e la violenza fisica.Gli alcolizzati hanno bisogno di cure speciali da partedegli altri, e per questo sembrano assumere una posizio-ne gerarchica superiore rispetto ai loro “servitori”.Gruppi quali gli Alcolisti Anonimi creano una comunitàvenendosi incontro l’uno con l’altro e rispondendo al bi-sogno di sostegno per risolvere un problema comune.La comunità che viene a crearsi sostituisce i legami chesi erano formati bevendo insieme, che a loro volta sosti-tuivano i legami resi difficili dall’economia dello scam-bio. La tendenza a lasciarsi andare e ad avere fiducia inun potere superiore è una cura alternativa alla tendenzamascolata di sopraffazione.

Le attività sportive ci offrono l’esperienza condivisa(anche come spettatori) di cercare di raggiungere obietti-vi comuni mediante competizioni mascolate relativamen-te di breve termine. Forse è il condividerne l’esperienza ele sue priorità come cose valide che ci permette di comu-nicare con successo della stessa cosa, formando legamiriguardo l’esclusione o l’accesso nella categoria dei vinci-tori. Queste istituzioni e abitudini sociali, come molte al-

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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tre, rispondono a un bisogno di comunità creato dal si-stema economico basato sullo scambio e sulla strumenta-lizzazione del bisogno dell’altro orientata verso l’ego, cheporta all’isolamento di ogni ego individuale. Le rispostedei volontari, delle organizzazioni di solidarietà e comu-nitarie sono, a loro modo, doni al livello del gruppo; eriescono a creare una comunità attraverso la pratica deldono. Molte donne possono seguire questa linea d’azio-ne, perché danno una collocazione sociale e un maggioreraggio d’azione alla tendenza verso l’altro che stanno giàpraticando nelle famiglie (per le donne che vengono an-cora socializzate verso la pratica del dono, si crea unacontraddizione e una tensione interna tra l’orientamentoverso se stesse e l’orientamento verso l’altro, tra il para-digma dello scambio e quello del dono).

Le stesse organizzazioni e istituzioni comunitarie ri-mangono un ibrido tra il dare e lo scambio, e servonospesso a mantenere lo status quo del paradigma delloscambio soddisfacendo i bisogni della comunità da essocreati. Hanno sì l’effetto positivo di creare lo spazio per-ché il paradigma del dono venga praticato all’esterno del-la famiglia, ma la pratica del dono che svolgono è spessoal servizio dell’ideologia patriarcale, o viene riassimilatanel contesto dello scambio. La recente critica all’orienta-mento verso l’altro come co-dipendenza considera l’indi-viduo isolato la norma e aberrante la cura dell’altro, scre-ditando precisamente la pratica del dono che è alla basedella guarigione. Dobbiamo senz’altro sapere anche co-me non dare cure quando noi stessi, o altre persone, ab-biamo bisogno d’essere autonomi; anche il non dare è avolte un dono necessario. L’economia dello scambio vuo-le individui isolati, comportamenti di uni privilegiati emolti “meritevoli” che li servono. La colpa è di questo si-stema economico, non dell’orientamento verso l’altro.

A me sembra che i diversi movimenti per un cam-biamento sociale radicale, attivi oggi negli USA e in altri

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paesi, riuniscano alcuni vantaggi di questi sforzi, rivol-gendosi alla società da una prospettiva più ampia e cer-cando di cambiare il sistema, sia esso inteso come pa-triarcato capitalista, razzismo organizzato o tirannia fa-scista. Questi movimenti femministi, etnici, pacifisti eambientalisti svolgono moltissima attività di volonta-riato e diverse attività collettive. Viene creata una co-munità in divenire. Anche se tra gli attivisti negli USA

sembra esserci la coscienza comune che “tutte le que-stioni sono legate tra loro”, lo scambio non è ancorastato considerato qualcosa di negativo, ed è ancoramolto presente il comportamento mascolato dell’“unoprivilegiato”.

I movimenti per il cambiamento sociale abbraccia-no ancora i principi di equivalenza e di equilibrio pro-pri dello scambio, anche se ci sono alcuni tentativi dicelebrare la diversità e onorare la madre. Usare i prin-cipi dello scambio come la corte d’appello finale conta-gia nuovamente i movimenti, con alcuni valori dellostesso sistema che si cerca di cambiare. Questo indebo-lisce e rende più superficiali le alternative proposte,come l’uso del baratto senza denaro al posto dell’attua-le sistema di scambio per denaro. Questi tentativi nonpossono risolvere il problema; potrebbero forse offriremomenti di transizione verso un’economia del dono,ma soltanto se non fossero considerati una soluzione fi-nale. D’altra parte, i principi di uguaglianza e di equili-brio potrebbero portarci a ripetere il paradigma delloscambio, cercando una rappresaglia, un pagamento oun castigo per i deplorevoli errori che sono stati com-messi. Questi valori riconfermano gli stessi principi delsistema che ha causato gli errori. Nonostante tutte lebuone intenzioni, perciò, non fanno altro che riforma-re il sistema localmente e a breve termine, senza cam-biarlo radicalmente.

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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Dare le donatrici

Il valore può anche propagare auto-similarità su unmeta-livello, come un dono del dare il dare. Abbiamo det-to prima che quando l’antropologo francese Lévi-Straussaffermò che lo “scambio di donne” tra uomini di diversigruppi familiari creava legami tra di essi, e funzionava co-me uno scambio di merci, non si rendeva conto che il “da-re” le donne è in realtà un meta dono, di donatrici. Il biso-gno di donatori esiste in tutte le società, e il dono del do-natore è il dono che, come la cornucopia, può potenzial-mente soddisfare tutti i bisogni. Le donne sono le portatri-ci della comunicazione materiale e, in quanto tali, creano ilegami della comunità ovunque si trovino, che siano o me-no sottoposte esse stesse, come le merci, allo “scambio”,che siano date come doni o che decidano del loro destino.Spesso le donne non riconoscono il proprio contributo nési attribuiscono il meta-dono del valore, così come non ri-conoscono consapevolmente, loro o gli uomini mascolati,la madre come fonte del dare, o il paradigma del dono co-me cammino percorribile.

Da un punto di vista femminista (“ginofilista”), possia-mo vedere il valore come il dare del dare, che nel valore discambio è fatto duplicare e si cancella. Anche se in originec’era un’opposizione binaria tra valore e mancanza di va-lore basata sul dare orientato verso l’altro, lo scambio è unnuovo tipo di dare che non è per gli altri, nella sua desti-nazione finale. Il valore di scambio crea un nuovo oppostodel dare (il dare del non-dare), un opposto del valore di-verso dalla mancanza di valore. Il valore di scambio costi-tuisce una terza opposizione e non c’è più un’opposizionebinaria, bensì un’opposizione tri-polare, a tre punte: il va-lore, la mancanza di valore e il valore di scambio.

Questa immagine a tre punte viene presto modificatadall’aggiunta di una quarta punta: il valore d’uso. Così ildono del valore viene dato allo scambio, e al valore d’u-

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DARE VALORE ALLO SCAMBIO

Figura 17. Il valore viene dato allo scambio; il valore del dono diven-ta invisibile.

Dando valore al suo opposto, lo scambio (il non dare), il valore-dono di-venta invisibile e sembra privo di valore.

1.Valore-dono

2. Valore di scambio(Il non dare)

Valore nullo

Valore nulloValore di scambio

Valore nullo

Valore nullo

Valore d’uso

Valore d’uso

Valore nullo

Valore d’uso

Valore-dono

Valore-dono

Valore-dono3.

4.

Valore di scambio

Valore di scambio

Valore di scambio

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so, cancellando il donare (v. Fig. 17). Noi attribuiamoerroneamente il dono del dare allo scambio, al mercato,e ciò che non è valore di scambio o non è passato per ilprocesso di scambio sembra privo di valore. Il valore discambio diventa l’esemplare del concetto di valore. Loscambio prende il sopravvento sulla pratica del dono.Noi gli diamo collettivamente e individualmente troppaimportanza, mentre neghiamo qualsiasi importanza aldare. Non siamo consapevoli del dare che in realtà pra-tichiamo; non gli diamo alcun valore.

Dando valore allo scambio si dà anche valoreall’“esemplare” ideale del maschio mascolato capitalisti-co di successo in quanto opposto alla madre. Il dono delvalore e quello della donatrice (la madre) rimangono im-prigionati nel valore di scambio, perché danno valore alloro opposto e al non dare (e molte madri e figlie vengo-no letteralmente imprigionate dai mariti, i padri, i figli, ifratelli ecc.). Il dare del dare non è generalmente visibilein quanto tale, anche perché la visibilità è connessa allinguaggio e alla caratteristica della sostituzione, che faparte del processo di scambio. Se lo scambio crollasse (ose cominciassimo a pensare al di fuori dell’opposizionebinaria), potremmo apprezzare il valore del dare il dare,e il bisogno di esso, che dipende da una complessa si-tuazione sociale diffusa, e non soltanto dal “meritare”che sembra provenire dall’auto-similarità e dalla parteci-pazione nel processo di scambio.

Per-donare

Lasciare che il denaro (come la parola) prenda il postodi un prodotto (o di una cosa) significa dire del prodotto:“ecco un dono, qualcosa che soddisfa il bisogno”. Dalmomento che la parola-denaro viene di fatto trasferita co-me proprietà da una persona a un’altra, entra nella logica

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anti-comunicativa del non-dono: “per me, dunque nonper te; per te (o altri), dunque non per me”. La nostracultura identifica tuttavia questo processo anti-dono co-me un dono, come un processo utile socialmente, e gli dàil nome di “scambio”, grazie al quale possiamo soddisfareil nostro bisogno comunicativo linguistico riguardo a es-so. Infatti ci impegniamo moltissimo nel processo discambio. È una cosa valida; soddisfa il nostro bisogno diuna fonte dei beni in una situazione in cui i beni sono sta-ti resi artificialmente inaccessibili, mantenendo la pro-prietà e abolendo la pratica del dono. Facendo in modoche l’accesso ai beni dipenda dalla produzione di altri be-ni di uguale valore e dalla loro valutazione e scambio, in-terrompiamo il processo di conferimento di valore dellapratica del dono materiale e cancelliamo i legami e la co-munità che esso avrebbe potuto produrre. Ci mettiamo inrelazione con lo scambio come se fosse la fonte, la madre,mentre lo scambio è analogo alla mascolazione e perciòconcomitante al processo che ha alienato il bambino (e ilpadre a suo tempo) dalla madre. Forse è per questo che lepersone sentono di avere un legame così appassionantecon lo scambio, con il mercato, il capitalismo e la stessamascolazione; si legano a questi processi, perché i proces-si sembrano nutrirli, prendersi cura di loro.

Il “dono” dello scambio contraddice la pratica deldono. I bisogni che lo circondano sono i bisogni di unanon-comunità, di gente che vive secondo le stesse rela-zioni “antagoniste” esistenti tra compratore e venditore.Anche se continuiamo a comunicare per mezzo del lin-guaggio e di altri segni, la nostra comunicazione mate-riale è diventata drasticamente alterata e contraddittoria,e di conseguenza i nostri atteggiamenti reciproci sonodiventati di paura e risentimento.

Per-donare diventa una questione morale, mentre inrealtà è soltanto la manifestazione psicologica del para-digma del dono. Quando perdoniamo rifiutiamo il ran-

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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core, la rappresaglia, la “misurazione” dei misfatti e glialtri riflessi psicologici dello scambio (ci rifiutiamo dicedere il dono per il non-dono; non cambiamo per loscambio). Cerchiamo di capire le motivazioni degli altriin funzione dei loro bisogni non soddisfatti; e cerchiamodi capire le ragioni personali e sociali di quei bisogni,soddisfacendoli e cambiandone il contesto quando siapossibile, risolvendo i problemi. Rispostare il paradigmaverso la pratica del dono è un modo di per-donare tutti.

È più o meno come se la parola “perdonare” stesseindicando il cammino verso uno spostamento del para-digma. La pratica del dono, infatti, non è qualcosa chefacciamo a un’altra persona; è un cambiamento nei no-stri valori, nel nostro stesso atteggiamento nei confrontidella pratica del dono e lontano dalla colpa, dal rimpro-vero, dalla manipolazione e dalla punizione, che sonomodi di mantenere e promuovere il paradigma delloscambio al livello psicologico. Modellando questa prati-ca diamo inoltre alla logica del dare un effetto moltipli-catore, perché gli altri possano infine vederla svelata eseguire il nostro esempio. Se potessimo cambiare il pa-radigma e mutare consapevolmente le nostre logiche dicomportamento, demistificando e sminuendo collettiva-mente lo scambio e la rappresaglia, potremmo ottenereun effetto permanente. Dovremmo guardare al cambiodi paradigma come a una soluzione pratica per tutti in-vece che soltanto come a una scelta morale. La strutturadella moralità limita la portata del per-donare all’indivi-duo, mentre il bisogno di tutti i figli/e della Terra è diuno spostamento collettivo verso la Madre.

Sostenere la non-comunità aliena

Continuiamo a dover dare senza scambio ai bambinimolto piccoli e a formare una comunità con loro, socia-

GENEVIEVE VAUGHAN

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lizzandoli come esseri comunitari. La nostra comunica-zione materiale più importante e diffusa con gli altri ingenerale, in quanto adulti, è tuttavia lo scambio. Abbia-mo formato una non-comunità aliena nella quale i nostrifigli devono cercare di adattarsi e sopravvivere.

La non-comunità di coloro che scambiano esige moltidoni gratuiti: ha bisogno di lavoro-dono (plus-lavoro)per poter fornire la ricompensa del profitto, con la qualei capitalisti sono motivati a creare e a mantenere le im-prese; ha bisogno del lavoro gratuito delle donne, che siprendono cura dei valori d’uso, danno ai lavoratori e ri-producono la forza lavoro, incrementando il margine deiprofitti; ha bisogno del dono della nostra fiducia, dellanostra convinzione che sia un cammino percorribile epersino “giusto”. Ma la non-comunità richiede ancheche gli esseri umani continuino a praticare il dare ancheal di là o a prescindere dallo scambio, non solo come co-municazione attraverso il linguaggio, ma anche attraver-so tutti gli atti di benevolenza, amore, generosità, ospita-lità e amicizia per i quali “vale la pena vivere”.

L’esperienza estetica è, in larga misura, il riceverecreativamente un dono, anche se possedere un oggettod’arte non è gratuito. Il pensiero non professionale coin-volto in ogni tipo di impresa o di attività è gratuito. Tal-volta i prodotti vengono portati gratuitamente sul mer-cato, e il trasporto dei compratori verso il mercato è aloro carico. I bisogni dei consumatori sono altamente in-fluenzati dal loro prendersi cura l’uno dell’altro, in par-ticolare attraverso le scelte delle donne (e uomini) chedevono comprare i mezzi di sostentamento. Lo sviluppodi bisogni e desideri in sé avviene gratuitamente attra-verso le pratiche di cura, anche se oggi risulta profonda-mente alterato dalla pubblicità.

Il dono del valore è dato non soltanto allo scambio,ma anche a un bisogno dell’ego antagonista sistematico (estrumentale, condizionato) di sapere o valutare quanto

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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abbia dato una persona, analizzando la sua produzione intermini quantitativi rispetto a tutte le altre persone. Que-sta valutazione viene fatta apparentemente per restituirelo stesso ammontare che è stato dato, ma in realtà ha loscopo di dare il potere a quello che giudica chi “merita”di avere accesso allo scambio, chi “merita” che gli altri glidiano doni, e chi alla fine “merita” essere l’uno privile-giato, l’esemplare. (Il privilegio e la generalità dell’esem-plare derivano dalla polarizzazione del processo del con-cetto nel quale l’esemplare stesso è immerso, e non sonodovuti al fatto che l’esemplare abbia dato più di altri).Nei nostri giudizi sul “meritare” viene dato un valore ec-cessivo all’equivalenza o alla corrispondenza tra cosa eparola, o tra prodotto e denaro, o tra lavoro e salario; e aibisogni in quanto tali viene dato pochissimo valore.

Neanche le equazioni hanno valore in sé; a loro sonodati “valori”, ma il loro valore proviene anche dall’ester-no. Abbiamo visto che nel nostro pensiero le equazioniprendono il posto che avrebbe dovuto avere il rapportotra cose e bisogni, e noi le sopravvalutiamo per questoruolo. Lo scambio non potrebbe esistere se non fosse in-serito nella pratica del dono di molti tipi e su diversi li-velli. Il “dono” del non-dare e la comunità aliena deinon-donatori sono possibili perché sono immersi in unacomunità di donatori (e da essa nutriti).

Tra i doni che diamo al non-dare, consumati nei suoistessi processi, vi è la nostra attenzione verso lo scambioe la nostra cecità nei confronti dei processi del dono.Noi non formiamo la nostra comunità riguardo la prati-ca del dono; i nostri bisogni comunicativi linguistici nonsorgono riguardo a essa, perché in realtà la stiamo for-mando soprattutto sul modello dello scambio. Quindi,non comunichiamo granché sulla pratica del dono (que-sta ragione “funzionale” sostiene le motivazioni più mi-sogine del nostro rifiuto della pratica del dono e ci aiutaa per-donarci per questo. Il senso di colpa, il biasimarsi,

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“il doverla pagare”, confermano soltanto in modo piùincisivo la logica dello scambio). Lo scambio ha preso ilposto della comunicazione del dono materiale, così co-me la comunicazione con il linguaggio ha preso il postodella comunicazione materiale, così come gli uominihanno preso il posto delle donne. Coloro che scambianosono infatti relazionati l’uno all’altro in modo molto in-dividualistico, e questo coincide perfettamente con l’im-magine ideale della mascolazione, quella del cacciatoresolitario antagonista e individualista.

Tra i doni che vengono dati dalla comunità, che agi-sce ancora secondo la pratica del dono su un livelloastratto, il più importante è il meta-dono del valore,che dirige altri doni e servizi. Noi apprezziamo il valoree lo attribuiamo all’arte, alla musica, alla letteratura,cose che attribuiscono a loro volta valore in modi com-plessi, belli e sorprendenti. Diamo valore ai doni delpittore o del romanziere, come anche quelli dell’orga-nizzatore politico, e persino il dono della parlantina delrappresentante. Essi convogliano la nostra attenzionein nuovi modi, modificando le nostre abituali attribu-zioni di valore. Amiamo i doni della natura, della cultu-ra, della storia, della scienza, che nel soddisfare i nostribisogni attribuiscono valore anche a noi. Tuttavia, dan-do valore allo scambio e alle cose che appartengono al-la modalità di questo, continuiamo a permettergli diesistere, dirigendo verso di esso quasi tutti i nostri benie servizi.

Un altro modo in cui il valore viene attribuito alloscambio, allo spostamento auto-similare verso la logicadella sostituzione e a tutte le manifestazioni della masco-lazione, è mediante la conferma per riflesso, per la loroaffinità reciproca. Se non capiamo consapevolmente lesue cause ed effetti negativi, la ripetizione dello schemasembra dare valore alle sue diverse espressioni. Il mo-dello stesso acquisisce un certo grado di autonomia e

DARE VALORE ALLO SCAMBIO

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possiamo immaginarlo galleggiare nell’universo dandovalore ad altre mascolazioni, dovunque esse si formino.

L’umanità, infatti, inscenando lo schema della masco-lazione, dandogli ripetute manifestazioni, può farlo di-ventare “un tipo di cosa”, una cosa che può quindi esse-re messa in relazione con una parola, alla quale possia-mo cominciare a dare valore, e verso la quale possiamorivolgere la nostra attenzione per la formazione dei con-cetti. Cerchiamo un esemplare e cerchiamo poi le carat-teristiche comuni delle cose legate a esso in quanto simi-lari. Apprezziamo l’importanza dello schema e al tempostesso gli attribuiamo importanza; ne parliamo e gli dia-mo un nome.

Ad esempio, lo chiamiamo “patriarcato”. Denomi-nandolo, lo mettiamo in relazione con una parola; co-minciamo a trasformarlo facendogli “cedere il passo” allaparola che è il nostro dono l’uno per l’altro. Le donne siformano come comunità parlando del patriarcato, comesto facendo io in questo libro, e come fanno ovunque imovimenti progressisti e femministi, indicando i diversitipi di oppressione e cercando d’individuare i loro colle-gamenti. Dobbiamo anche darci l’un l’altro/a: tempo, at-tenzione e cure, formando co-muni-tà materiali al di làdello scambio. Stiamo lavorando per trasformare la“realtà”, e per far dono al futuro di una buona terra.

1 Questa situazione è simile a quella in cui i conoscitori danno valore gra-tuitamente al concetto, un valore che viene invece di solito percepito comeproveniente dal concetto stesso o dalle cose incluse in esso.

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Capitolo tredicesimoIl mercato e il genere

Una realtà alterata

Sto cercando di tracciare gli schemi auto-similari delpatriarcato in diversi ambiti della vita per poterli ricono-scere. Noi donne e altri non-abbienti potremmo pensareche se soltanto “avessimo” realizzeremmo le nostre po-tenzialità, diventando “uguali” agli abbienti, e quindi,pienamente umani. Perciò, aspiriamo alle ricompensedel patriarcato e contribuiamo involontariamente a dareuna ragione di vita al sistema. Se potessimo invece rico-noscere gli schemi, potremmo usare il sistema per la so-pravvivenza e al tempo stesso cambiarlo, senza dargli va-lore, senza dargli i nostri cuori (v. Fig. 18).

Il mercato è come un linguaggio che si evolve da unostato passato a un altro stato futuro, secondo un valorequantitativo (invece che qualitativo), ed è dotato di unasola parola, il denaro. Le costrizioni su questo linguag-gio derivano dal tipo di relazioni umane che deve me-diare, le relazioni mutuamente esclusive della proprietàprivata. Il denaro “denomina” continuamente i prodotticome valori1 ma, per la modalità dello scambio che con-serva l’orientamento di tutti verso l’ego, non possonopiù svilupparsi nuove relazioni materiali mutuamente in-clusive; gli scambiatori umani non possono evolversipienamente come comunità.

Il mercato sembra normale, che ci sia stato “dato”perché le cose stanno così; invece è una realtà alterata.

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Perché mai gli esseri umani dovrebbero lasciare che ilprocesso di denominazione stia tra coloro che hanno ibeni e coloro che hanno i bisogni? Il mercato richiedecontinuamente la denominazione o la definizione permezzo della parola-denaro (“questo impermeabile = 50dollari; quest’altro = 200 dollari; questo sacco di patate= 8 dollari”). L’equazione tra prodotti e denaro, che èun momento del processo di denominazione, diventa unmomento importante per la società nell’insieme; sembraessere la porta d’accesso a tutti i valori, viene usata infat-

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Figura 18. Il rapporto tra prodotti e denaro, e tra cose di un tipo euna parola è auto-similare su scale molto differenti.

Auto-similarità tra il mercato e una categoria di cose

Prodottisul mercato

Cose non relaziona-te a quella parola

Cose relaziona-te alla parola

Prodotti rifiutati dalmercato

Denaro

“Esemplare”

Parola

Mercato Categoria

Prodottoche entranel mercato

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ti per portare alcuni prodotti nella categoria del “valo-re”, lasciando che altri sembrino non avere valore pernon essere vendibili, o per essere gratuiti (i doni dellanatura: aria, acqua, luce del sole ecc.).

La mascolazione ha dato a ognuno l’aspettativa di es-sere “elevato” o la paura di essere degradato per esserestato messo in una categoria piuttosto che in un’altra. Ilmomento del denominare con un termine di genere –come “John è un bambino” – o di denaro – “un etto dicaffè = 3 dollari” – pone la persona o il prodotto nellacategoria di coloro che hanno valore in relazione a quel-la parola o a quella somma di denaro. Le donne e i pro-dotti che non sono vendibili o che sono gratis (i donato-ri e i doni della natura) non appartengono alla categoriasuperiore. Così, il termine di genere per la donna attri-buisce in partenza a una persona il valore contradditto-rio di non essere nell’apprezzata categoria superiore. Es-sere messo in una categoria superiore grazie a: “… è unmaschio” sembra privare i membri della categoria dellaloro capacità di dare nel presente, dando loro un’altramodalità attraverso qualcos’altro: parole, posizione, de-naro per il quale lottare (una distrazione e una sorta didipendenza). La denominazione di genere e lo scambiodi prodotti per denaro ci fanno concentrare sul presen-te, ma senza riconoscere in realtà i doni e sopravvalutan-do l’eguagliamento e la sostituzione.

Diamo valore alle definizioni piuttosto che alle perso-ne o alle pratiche di cura, che rimangono nascosti, nel-l’ombra. I doni danno valore al ricevente, lo scambio no,tranne che attraverso il processo del “meritare”, in cui ilcontraccambio sembra venire dalla persona che scambia,dal suo valore, da ciò che ha prodotto fino a quel mo-mento ecc. Come nella mascolazione (in cui i ragazzi im-parano a “meritare” il nome “maschio”), la definizioneprende il sopravvento e il modello del dono cede il pas-so. Il dono sociale, il nome, predomina sui doni indivi-

IL MERCATO E IL GENERE

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duali, ed essendo generale appare come qualcos’altro,come se avesse un qualche occulto potere. La posizioneuno-molti, se usata come un privilegio, come un esem-plare investito fallicamente di potere nel mondo reale,sostiene questo potere feticizzato del nome. Quando“guadagniamo” una qualifica professionale, possiamochiamarci “giornalista” o “dottore”; entriamo a far partedi una categoria privilegiata. Comportandoci in modoadeguato, e imparando a mettere in pratica le specifichecompetenze che abbiamo acquisito, siamo in grado dicorrispondere alla definizione. Come il bambino ma-schio, “guadagniamo” il diritto a portare il nome e ciguadagniamo da “vivere” nell’economia dello scambio.

Un parassita auto-duplicante sull’albero della vita

A un vero meta-livello riconosceremmo la parzialitàdello scambio, così come riconosceremmo la parzialitàdel genere maschile (e della sua definizione). Ma la pra-tica del dono non si riconosce da sé e neanche i donatorisi riconoscono come suoi “altri” creativamente ricettivi;il meta-livello viene confuso dai diversi tipi di riflessi au-to-similari. Qualsiasi cosa che attribuisca importanza so-prattutto a se stessa è necessariamente parziale, perchésminuisce il suo altro e si decontestualizza, si pone al difuori del proprio contesto (mentre i riflessi della struttu-ra del concetto la fanno apparire come l’unica cosa esi-stente). I doni richiedono la presenza di “altri” che li ri-cevano. Ma la gente nel sistema chiuso del patriarcatogerarchico estremo attribuisce importanza a se stessastrumentalizzando chi è “diverso” o “inferiore”; usa glialtri all’unico scopo di migliorarsi, negando la loro im-portanza come fonte del suo bene. Questo processo dàcompletamento a questi ego artificiali e facendoli sem-brare auto-generati sia che siano nutriti perché lo “meri-

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tano”, sia con la manipolazione o la forza, o perché l’al-tro è “inferiore”, sia perché è nella sua “natura”, o“istinto” o dovere dare a uno in quella posizione. “È ov-vio che lei si prenda cura di lui; è il marito”.

L’uomo occupa la posizione di “esemplare” o di uno,esigendo che altri si mettano in relazione con lui inquanto molti, reinstaurando il momento di confronto edequivalenza tra unità relative ed esemplare nel processodi formazione del concetto. I molti, poi, cedono il passoe danno all’uno che prende il sopravvento, ripetendo loschema della relazione “molti-a-uno” che c’è tra le cosee il loro nome. Questi schemi si auto-convalidano, anchegrazie alla loro affinità con un meta-livello più astratto.L’“uno” umano ignora i molti e rimane da solo, fuori dalcontesto, auto-riflettendosi come un’istanza di uno. Poi,pensando alla propria posizione di “uno”, applica dinuovo a essa il processo del concetto; vedendosi comeuno solo, è uguale a se stesso e ad altri uni soli.

Il processo si ripete e si riflette a diversi livelli. Vistoche il ri-conoscimento si basa sul confronto e sull’equi-valenza, il confronto e l’equivalenza appaiono come re-lazioni importantissime anche sul meta-livello2. Quindi,anche riflettere sulla situazione su un meta-livello conva-lida il processo di formazione del concetto decontestua-lizzato nelle sue diverse incarnazioni. Ma l’equazione ela forma del concetto soltanto sembrano costituire l’in-tero meta-livello. Invece, sono solo un ramo dell’albero(frattale), il cui tronco è la pratica del dono. Forse po-tremmo dire che le loro strutture auto-similari sono unrampicante, un parassita dell’albero.

Riformulando la metafora: non è soltanto il troncodell’albero che ha la struttura di pratica del dono. Lapossibilità di dare e ricevere produce infatti un alberovivente: la foglia riceve la luce del sole, la usa nella foto-sintesi, distribuisce i suoi prodotti lungo tutto l’alberoper soddisfare i suoi bisogni di energia, le radici ricevo-

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no e trasmettono l’umidità della pioggia, i minerali dellaterra e dell’humus di foglie e alberi precedenti. La di-sponibilità dei doni della terra, dell’acqua, dell’aria edella luce del sole permettono lo sviluppo di cose viven-ti che possono ricevere i doni. L’eguagliamento deconte-stualizzato e il concetto, le classi, lo scambio, le gerar-chie e il meta-livello auto-riflettente traggono anch’essila possibilità di esistere dai doni che gli sono dati, attra-verso le radici che hanno piantato nella modalità del do-no. Questi “doni” astratti servono gli esseri viventi chesi sono deformati e distorti per riceverli. L’intera societàriceve questo nutrimento alterato.

Le strutture patriarcali si sviluppano in una “cultura”di pratica del dono, perché anch’esse sono in grado diricevere in modi speciali e di ridare a esseri che si sonoadattati per riceverle. La decontestualizzazione è soltan-to un momento dell’astrazione usata nella formazionedel concetto, è stata trasformata in una condizione per-manente di isolamento di ego, che serve l’economia, lapsicologia e tutte le istituzioni costruite sulla mascola-zione. Il patriarcato mantiene il controllo attraverso l’in-terazione di sostegno tra diverse strutture auto-similaridecontestualizzate. Il rampicante, cioè il parassita, è l’ec-cessivo sviluppo dell’eguagliamento, della struttura delconcetto, delle classi, è composto di sequenze di defini-zioni umane organizzate in gerarchie, che succhiano idoni per alimentare gli “uni” in alto. Il patriarcato nonpuò esistere da solo, ma si avvolge intorno all’albero del-la pratica umana del dono e si nutre di esso, facendo de-fluire i doni lontano dai bisogni, creando la scarsità cheè l’ambiente necessario alla sua stessa esistenza.

Il parassita artificiale diventa credibile e si auto-con-valida ripetendo la sua stessa forma. Lo scambio, sosti-tuendo un prodotto con un altro, sostituisce continua-mente il dono diversificato qualitativamente e orientatoverso il bisogno con l’eguagliamento diversificato quan-

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titativamente e qualitativamente semplice. Impone partedel processo del concetto, l’eguagliamento, come“realtà”, mentre sostituisce la donna donatrice con ilmaschio esemplare. La pratica del dono orientata quali-tativamente viene sostituita da un processo di denomi-nazione quantitativo, in cui sono stati cancellati gliaspetti del dono. Questa sopraffazione è una messa inscena della mascolazione. L’eguagliamento sembra esse-re un dono, che appare “inalienabile” o forse inevitabi-le; in realtà, crea un’attenzione privilegiata attorno a sé ericeve importanza dagli altri attraverso i suoi riflessi.

Essere e avere

Stiamo considerando qui l’incontro psico-socio-eco-nomico tra essere e avere, nella relazione tra la parola el’esemplare, l’esemplare e le sue unità, il padre e i suoifigli, il proprietario e le sue proprietà, anche nel senso diproprietario del corpo maschile e delle parti del corpo3.Il bambino mascolato identifica ciò che “è” in ciò che“ha” e nell’affinità tra ciò che “ha” e ciò che gli altri“hanno”, invece di creare la propria identità in un pro-cesso in divenire secondo ciò che dà e riceve. Poi lasciache la relazione sia inscenata simbolicamente mentre co-struisce la propria identità intorno ad altri possedimenti,molti dei quali sono simboli fallici. Visto che il fallo eret-to è proprietà del maschio adulto, che è il modello delbambino, il fallo simbolico – nelle automobiline e nellepistole giocattolo – fa privilegiare al bambino quell’ave-re nel presente immaturo.

È la relazione mutuamente esclusiva della proprietàprivata che rende necessario lo scambio. La proprietà èuna relazione in cui le molte cose cedono il passo e dannoall’uno proprietario. Questo la rende simile alla relazionetra gli uomini come possessori delle parti del corpo, con il

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fallo in primo piano, e le donne che sono “mancanti” mache danno e cedono il passo all’uno che “ha”.

Le donne interiorizzano il desiderio di proprietà e lasfiducia nel dare che fanno parte del paradigma delloscambio e questa è forse una delle ragioni per cui nonproponiamo il modello del dare ai nostri figli maschi.Spingiamo i nostri figli lontano dal dare verso lo (s)cam-bio di categorie e la somiglianza con i loro padri, così daessere sicure che i ragazzi avranno il giusto tipo d’iden-tità per ottenere ciò che vogliono e mantenerlo. Se se-guissero il nostro modello potrebbero essere considerati“femminucce” ed esclusi dal patriarcato eterosessuale,esiliati in una terra di nessuno, dove non sarebbero némaschi né femmine. Questo strano comportamento ma-terno esiste perché il genere è in realtà un’identità eco-nomica. Quelle che consideriamo caratteristiche “ma-schili” di competitività, aggressività, sublimazione delleemozioni, attenzione primaria agli obiettivi invece che alprocesso ecc., sono caratteristiche ricompensate dal ca-pitalismo; e questo perché il capitalismo è un sistemaeconomico basato sulle caratteristiche del genere ma-schile. Il capitalismo è la ripetizione su molti livelli dello(s)cambio di categorie provocato dalla definizione di ge-nere e dalla negazione delle pratiche di cura.

Possedere l’“esemplare” del valore

Il patriarcato nega e scredita la pratica del dono perconservarsi. I due paradigmi restano coerenti con lorostessi: la pratica materna sembra dare via la proprietà-pene e il bambino (e venire privata di entrambi) conti-nuando però a dare, e il dare doni sembra perciò unapratica masochistica, persino auto-mutilante. Chi prati-ca il paradigma dello scambio sembra che stia cedendola madre, ma ricevendo in cambio il pene, l’identità ma-

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schile superiore, e il modello dello scambio stesso. Lalogica dello scambio si auto-conferma, e la logica del da-re doni conferma “l’altro” 4.

Il denaro prende il posto del proprietario comeesemplare privilegiato del valore, al quale è legata laproprietà. E si ripete la stessa cosa quando un altro ven-ditore precedente compra. Lo schema uno-molti è in-carnato prima nel possesso, poi ripetutamente nella rela-zione uno-molti del denaro (v. Fig. 19).

Anche se lo scambio per denaro è un processo comu-ne, in realtà è molto più strano di quanto pensiamo. Dob-biamo osservarlo attentamente, al rallentatore, per indivi-duare le sue affinità con il linguaggio, con il processo delconcetto e con la mascolazione. Una somma di denaro èinfatti il valore di un prodotto specifico sul piano inter-personale – “per gli altri e quindi anche per me” – social-mente. Il denaro fa economicamente la stessa cosa che fala parola sul piano del linguaggio. I prodotti non possonoarrivare ai bisogni, tranne che attraverso lo scambio. Vistoche i prodotti non possono essere dati nella co-muni-ca-zione, “se ne parla” con il denaro. Come la parola, il de-naro fa da mediatore tra le persone riguardo qualcosa, equesta mediazione trasforma la loro relazione da un tipodi attitudine generale “tutto è possibile” a un’altra per cui

IL MERCATO E IL GENERE

Figura. 19. Il proprietario del denaro è un “uno” umano con il qualela proprietà è in relazione come “molti”. Il denaro, l’“uno” esempla-re del valore, è un’unità della proprietà, ma è in relazione, comeequivalente, ai molti prodotti in scambio.

Proprietà

Denaro

Prodotti in scambio

Proprietario

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qualcosa è pertinente nel presente, riguardo ad altre per-sone, rispetto ad alcuni bisogni. La relazione di coloroche scambiano rispetto a qualcosa diventa una relazionepresente, scelta tra qualsiasi altra cosa possibile.

Il denaro prende il posto di ogni persona a turno, co-me “esemplare di valore” con cui il prodotto è in rela-zione, quando la persona cede la proprietà. Il proprieta-rio del denaro è un “esemplare uno-molti” umano alquale l’esemplare del concetto di valore – il denaro – èlegato come proprietà. In quanto venditore, ognuno la-scia che il denaro di un altro prenda il posto di un’unitàdel proprio avere e, facendo questo, diventa proprieta-rio del denaro. Potremmo dire che egli è “meta” rispet-to al denaro, mentre il denaro è “meta” rispetto ai pro-dotti. In quanto compratore, egli lascia che il propriodenaro prenda il posto del prodotto di un altro, trasfe-rendo la relazione di possesso del denaro al venditore edel prodotto a se stesso (v. Fig. 20).

La relazione (mutuamente esclusiva) di proprietà ri-

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Figura 20. Il denaro è l’esemplare del concetto di valore, i proprieta-ri sono esemplari del “complesso” della proprietà. Il denaro comeesemplare ha una relazione con i prodotti uguale (o simile) a quelladei proprietari con la proprietà.

VenditoreProprietario

CompratoreProprietario

Prodotti come valori discambio

Denaro

ProprietàProprietà

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mane perciò la stessa, mentre il tipo di proprietà che sipossiede è astratta in quanto denaro e concreta in quan-to prodotto. La relazione di proprietà cambia i livelli dalconcreto all’astratto e di nuovo al concreto, a seconda diciò che si possiede, se un prodotto o il denaro. Questopermette che la parte effettiva di proprietà che è statavenduta venga sostituita con un’altra (o altre) che costi-tuiscono lo stesso valore e rimangono in un certo sensola “stessa” cosa. Allo stesso tempo, la relazione del ven-ditore diventa una relazione di possesso dell’esemplareastratto, il denaro. La relazione di possesso uno-molti sipuò applicare al denaro, l’esemplare del concetto uno-molti stesso, come un’unità della proprietà.

Un solo tipo di sostituzione viene attuato ripetutamen-te, nel momento in cui il denaro viene dato continuamen-te ad altri come esemplare del concetto sostitutivo dei lo-ro prodotti (un’altra affinità tra il denaro e la parola)5. Ildenaro sta sempre nel ruolo concettuale di esemplare delvalore del prodotto, mentre il proprietario sta sempre nelruolo concettuale uno-molti trasposto del possesso6. Ilproprietario può avere diversi ruoli uno-molti sovrappo-sti: può essere ad esempio un padre, un re, un papa, unconsigliere comunale o un dirigente d’azienda e possede-re comunque denaro; può anche non avere accesso allaposizione di “uno” nella gerarchia umana ed essere peròun “uno” rispetto alle sue proprietà, soddisfacendo così ilbisogno di diventare un “esemplare”.

Il nesso sociale: la sessualità maschile si appropria del-la pratica materna

L’incarnazione del genere maschile nel padre è diver-sa dall’incarnazione del valore nel denaro, ma presentanocomunque molte affinità, rispetto alla posizionedell’“uno”. Il denaro prende il posto del proprietario co-

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me l’“uno” al quale le merci sono legate come valori, se-condo lo schema del processo del concetto, e si può direla stessa cosa quando il termine di genere e il padre pren-dono il posto della madre come esemplari per il bambi-no. Inoltre, il proprietario viene soppiantato come “uno”dal denaro, che funziona da esemplare-parola incarnataper il concetto di valore della merce, e la madre vienesoppiantata dal padre come esemplare del concetto per ilfiglio. L’affinità tra gli schemi porta al ripetersi dell’alie-nazione del bambino nella categoria “maschio”, attraver-so l’alienazione del prodotto nella categoria del valoreeconomico e la sostituzione del prodotto con il denaro.

La “castrazione” della madre si ripete quando ilcompratore cede il denaro-fallo-parola e riceve la ricom-pensa con i beni di nutrimento di cui ha bisogno. Chiaccaparra e accumula denaro non subisce questa castra-zione simbolica e, nel capitalismo, trova un modo di in-crementare il denaro-fallo-parola praticamente all’infini-to. Il mercato serve da “spazio sicuro” nel quale insce-nare il trauma infantile del cambiamento di categoriadel bambino a causa della denominazione del suo gene-re. Questo ha l’effetto curativo di mostrare che cedere ilprodotto per la vendita, trasferendolo alla categoria delvalore e alla categoria del possesso di un altro, non è unprocesso dannoso in sé e per sé (v. Fig. 21).

Cedere il denaro comporta una castrazione simbolicache appare benigna, non dannosa per il compratore.Sfortunatamente, l’intero processo dello scambio perdenaro prende il posto della pratica del dono come for-ma di vita della comunità. Quindi i donatori danno alprocesso di scambio, dandogli valore al di sopra delprocesso che stanno invece praticando, dando doni alprocesso di scambio e a chi lo pratica, allo stesso modoin cui danno validità alla mascolazione, ai propri figli ead altri uomini. Lo scambio è un processo che, in unacerta misura, allevia il peso psicologico che ha a che ve-

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dere con la mascolazione e la castrazione ma che com-porta un aggravarsi del problema su altri livelli.

Nell’ambito economico la dipendenza del bambinodalla madre è inscenata anche nella dipendenza dellamoglie dal marito. La moglie e i figli sembrano stare inuna relazione concettuale “molti-a-uno” con il padre, si-mile alla relazione di proprietà del proprietario o dellecose con una parola. Lui dà loro il proprio nome. Nellafamiglia tradizionale il padre sembra dare il denaro-pa-rola-fallo alla madre, che a sua volta lo dà ad altri, com-

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Figura 21. La madre-lavoratrice-proprietaria permette che il propriofiglio-prodotto venga “denominato” dal denaro fallico e “lo” dà via.Il compratore cede il denaro fallico esemplare-di-valore e rimanefallicamente “mancante” ma incolume, con un valore d’uso.

Madre-proprietaria-produttrice

Venditore

Madre compratrice

Madre compratrice

Parola-denarofallico

Prodotto-figlio

Valore d’usoDenaro fallico datovia dall’acquirente

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prando i mezzi per dare, doni a lui e ai figli. I doni delpadre sono visibili e contati, mentre quelli della madresono invisibili e non contati.

In realtà la moglie riceve comunque il sostegno (mez-zi del dare) del marito per aver dato il bambino alla suacategoria e aver ceduto il proprio posto come esemplaredel concetto, diventando (in pratica) proprietà del mari-to. Spostando la convalidazione al marito e allo scambioe mascolazione, la moglie abdica dalla posizione diesemplare del paradigma del dono e al suo posto metteil paradigma dello scambio. Facendo questo riceve il“dono” del salario del marito. Anche la figlia viene dataal padre, perché segue il modello di una madre che cedeil passo e dà al patriarcato e al padre7. In un contesto discarsità, i luoghi dell’economia del dono dipendono daidoni provenienti da alcuni settori del sistema delloscambio. Le donne hanno tradizionalmente ceduto tuttoper mettersi in una posizione da cui poter ricevere que-sti doni. Adesso si sono unite al paradigma dello scam-bio come sue attrici, usando il denaro che guadagnanoper sostenere e nutrire i loro figli.

Anche quando le stesse donatrici lavorano nell’eco-nomia dello scambio, spesso devono cedere i propri figlialle definizioni e ai modelli forniti dalla scuola, dalla te-levisione e dalla strada, vendendo la propria manodope-ra per sostenerli. Il modello economico della pratica ma-terna viene ancora una volta sminuito mentre le donnelo stanno rappresentando su un altro livello, cedendo illoro tempo lavorativo in cambio di denaro con il qualeprovvedere ai loro figli e cedendoli perché siano educatida altri nell’economia dello scambio.

I cambiamenti economici su larga scala dell’epoca diguerra (ad esempio quelli avvenuti nella seconda guerramondiale) portano le donne nella forza lavoro capitali-sta, indebolendo il legame tra attività economica e gene-re maschile, che continua a essere promosso dalla ma-

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scolazione. I cambiamenti del quadro generale hanno uneffetto sul quadro locale, che cambia più lentamente.Anche se adesso molte madri sono impegnate nel lavoromonetizzato, ci si aspetta che i ruoli di genere continue-ranno a essere diversi. Le strutture sociali uno-moltiprendono il posto del padre fallico.

I personaggi famosi del cinema e della televisionecreano padri immaginari; la “parola” diventa ancora unavolta astratta. La spinta verso l’equivalente generale, ildenaro, produce molte cose a sua immagine e somiglian-za: i programmi ci mostrano uomini dominanti uno-molti, dai commissari di polizia ai padri, dai superuomi-ni ai cantanti. Anche le star donne svolgono ruoli uno-molti come oggetti sessuali, donne manager, super spie.Anche il conduttore/rice del telegiornale, in quantouno/a parlante visibile al quale sono legati i molti ascol-tatori invisibili, risponde a questo schema. Il modello didominazione/sottomissione insieme alla gerarchia e allacompetizione è visibile ovunque nella nostra industriadel divertimento, nel mondo degli affari, nella politica enel mondo accademico, e continua a offrire la mela-do-no avvelenata al piccolo principe azzurro, fornendo imodelli patriarcali nocivi che non sono più a portata dimano nelle famiglie incentrate sulla madre single8.

Anche i rapporti nelle bande di strada forniscono tal-volta personalmente i modelli (violenti) paterni uno-mol-ti, che si stanno perdendo nelle famiglie di madri single.La sessualità maschile, che si forma in base alla denomi-nazione e allo spostamento di categorie, sopraffà la prati-ca materna secondo ciò che Alfred Sohn-Rether chiamail “nesso sociale”9, lo schema profondo sul quale si co-struisce la società. Io credo che, nonostante le difficoltà,le famiglie incentrate sulla madre stiano cominciando acambiare questa situazione. Troppo spesso, però, il di-scredito della madre single, oltre alla mancanza del pa-dre, rende il bambino vulnerabile rispetto agli altri esem-

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plari mascolati più negativi, nel seguire il groviglio dischemi uno-molti che compongono il patriarcato.

Inscenare la mascolazione nel mercato

Il mondo delle merci imita il mondo del patriarcato.La merce-figlio viene presentata al padre-denaro e vienetrovata simile, relativa a quest’ultimo quale equivalente;gli viene dato accesso alla categoria di “altro”, la catego-ria privilegiata delle cose che hanno un valore monetario,e viene dato via dalla madre-proprietario-produttore (colsuo “travaglio”) all’“altro”. Il posto della madre-proprie-tario-produttore viene preso prima dal denaro, qualemodello del concetto per la merce-figlio, poi dal compra-tore come l’uno al quale quella proprietà è legata inquanto suo proprietario. La madre-proprietario-produt-tore dà via la merce-figlio per metterlo in relazione conqualcun altro che sarà il nuovo proprietario. Poi cambia iruoli e il padre-denaro-fallico gli/le serve come ciò a cuisi rapporta il prodotto di un altro. Un’altra madre-pro-prietario-produttore sta cedendo il prodotto-figlio.

Quando il prodotto viene trovato uguale al “lui”, sipuò portare il padre-denaro-fallico a soddisfare il biso-gno comunicativo di un mezzo per (alterare) una rela-zione e per spostare dall’esemplare della madre a quellodel padre mentre il prodotto passa dal compratore alvenditore. Il venditore del momento (ruolo della ma-dre) mette in relazione il proprio figlio-merce con il de-naro (ruolo del padre), confrontandoli, trovandoli simi-li, appartenenti entrambi al concetto privilegiato dellecose che hanno valore. Il processo di denominazionedel prodotto come valore-nello-scambio, come il pro-cesso che denomina il bambino “maschio”, si appropriadi un bene utile dal processo di dare-e-ricevere. Non èil bisogno dell’altro che determina lo scambio, ma la

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domanda effettiva. Il denaro dell’altro diventa pertinen-te al proprio bisogno di denaro come mezzo per altera-re la relazione di proprietà di qualcun altro ancora conil loro bene utile, per soddisfare il proprio bisogno. Ilmeta-bisogno definitorio s’impone con la forza sul biso-gno materiale.

È interessante l’uso inglese del termine labor (“lavo-ro”, ma anche “travaglio”), come se la madre cedesse ilproprio figlio appena finito il proprio labor e lui venisse“consegnato” per essere “generato” (gendered, “reso ge-nere”), per essere messo in relazione al termine “ma-schio” non appena la levatrice o il dottore dice “è unmaschio”. La madre lo cede così velocemente, e cede lapropria capacità di esemplare, a favore di… cosa? Unaparola! “In principio” – appena nato – “fu la parola”; ilneonato ha mai avuto altre possibilità?

Nel comprare per vendere, il padre-denaro-fallico simette continuamente in mostra nella società, permetten-do a figli-merce di entrare in relazione con lui, confer-mando così “se stesso” come equivalente generale. Il pro-prietario umano o collaboratore porta poi il figlio-mercead altri di cui quest’ultimo soddisferà i bisogni, e per iquali il suo valore è maggiore, così che la quantità del pa-dre-denaro-fallico nelle mani del collaboratore umano au-menta. L’operatore economico s’impegna in una sorta diattività sessuale, comprando il bene non per soddisfare isuoi bisogni, ma per cederlo di nuovo e incrementare cosìl’ammontare del suo avere-denaro fallico.

Dal punto di vista linguistico, l’interazione dei comu-nicatori economici mette in gioco il “denaro-nome” perrapportare la cosa con un essere umano per mezzo dellaequivalente-generale-parola socialmente convalidata. Laparte visibile di questo processo possiamo riscontrarlanei negozi, dove si trova la gerarchia dei prodotti con iloro prezzi dal più basso al più alto, i “figli” con le loro“marche”, le loro etichette del prezzo, che ciondolano

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con i numeri scritti sopra a dimostrare “quanto” essimeritano il denaro-nome.

Una psicosi collettiva

Stiamo creando collettivamente la nostra realtà inmodo dannoso e inutile. Non intendo dire che gli al-beri e le mucche, le montagne e le macchine, i figli/e ele nonne non ci siano; voglio dire che stiamo interpre-tando un processo distorto, usando le immagini cheesso genera di se stesso come l’insieme dei principi inbase al quale organizzare la nostra vita. L’errata inter-pretazione di chi siamo e cosa dovremmo fare si risol-ve nella ricompensa per “avere” e la penalizzazioneper “non avere”10. La mascolazione crea una psicosicollettiva mediante la quale i singoli competono tra diloro per essere l’uomo esemplare e interi eserciti com-petono tra loro per fare della propria patria la nazioneesemplare.

La capacità di “sopraffazione” (sostituzione) chehanno le parole viene gonfiata per diventare dominazio-ne, mentre il cedere il passo delle cose (che sono sosti-tuite) diventa sottomissione. Queste attività complemen-tari possono riscontrarsi su molti livelli diversi. La so-praffazione viene talvolta messa in atto violentementenella famiglia come ruolo del genere mascolato, o attra-verso il predominio dell’adulto sul figlio/a. Cedere ilpasso sembra essere il ruolo della donna (o figlio/a) cheobbedisce alle parole o agli ordini dell’adulto. Nel mer-cato, il denaro prende il sopravvento e il prodotto cedeil passo, mentre il processo di scambio prende il soprav-vento e la pratica del dono cede il passo11.

Il patriarcato è un insieme di definizioni verticali, incui alcuni aspetti sono auto-similari con relazioni nelmercato, dove alla verticalità delle serie subentra la pro-

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gressione numerica del prezzo. Le definizioni del merca-to sono molte, di breve durata e velocissime rispetto alleposizioni definizionali a lungo termine della sopraffazio-ne e del cedere il passo, tipiche dei ruoli di comando eobbedienza, come nelle gerarchie del governo, dell’eser-cito o della Chiesa.

Anche se nelle gerarchie si compiono molti atti disopraffazione e cedere il passo e di comando e obbe-dienza a breve termine, questi confluiscono per creareruoli stabili a lungo termine. Nel mercato, la posizione“a capo” è solo una: il denaro, l’equivalente generale,mentre nelle gerarchie umane c’è una catena in cui gliuni in alto prendono il sopravvento su quelli in basso,e quelli in basso danno e cedono il passo a quelli in al-to, agli uni più privilegiati.

Il momento intermedio tra il prodotto e il bisogno,che si basa sullo scambio e sull’equazione, diventa ilfulcro dell’intera società, esigendo equivalenza12 con ildenaro per l’accesso ai beni. La definizione mascolan-te sopraffà le pratiche di cura e si impone come unmodello ovunque.

Invece di risolvere i nostri problemi inscenandol’incarnazione della parola, abbiamo distorto la realtà,distribuendo i beni in modo psicotico a beneficio deipochi messi a un livello quasi di onnipotenza, comenel sogno infantile. Stiamo usando la nostra capacitàlinguistica per denominare o definire, per trasferire ilprivilegio ad alcune persone invece che ad altre, ren-dendole “abbienti” invece che “non-abbienti”. Lepriorità della mascolazione hanno alterato collettiva-mente la realtà in modo nocivo, ma se comprendiamo,come hanno sempre detto le religioni orientali, chequesta realtà è un’illusione, un incubo, possiamo ritor-nare a un’economia del dono che sia il vero sognosempre presente nel quale possiamo finalmente risve-gliarci, ri-creando una realtà che sia un dono per tutti.

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Il lungo braccio della definizione di genere

Nonostante le posizioni strane e screditate che la pra-tica del dono è costretta ad assumere, essa continua a es-sere creativa e a nutrire la vita. È necessaria per dare vita-lità alle attività basate sulla definizione, attività che, diper sé, sarebbero astratte e aride. Così, la negazione deldare doni prevede talvolta l’incorporazione post hoc dialcuni elementi del dono nel modello mascolato. Le reli-gioni patriarcali lo fanno, soddisfacendo bisogni spiritua-li (e sminuendo al tempo stesso l’importanza del modellodi pratica materna) e professando l’altruismo. Talvolta gliuomini mascolati creano bisogni che poi soddisfano. Adesempio, un gruppo isola e svuota di potere i propri do-natori femminilizzandoli o rendendoli schiavi; poi dà lo-ro “protezione” imponendo la propria egemonia fallicasu di loro e su altri gruppi maschili simili che gli potreb-bero sopraffare. È il caso della potenza militare.

La buona volontà degli uomini mascolati, che nehanno ancora molta, entra in gioco quando ormai le loropersonalità sono state formate da tempo cedendo il pa-radigma del dono e assumendo la loro identità di gene-re. La buona volontà degli uomini stabilisce gli standarddell’“azione morale”, mentre lascia da parte il paradig-ma che normalizzerebbe la soddisfazione dei bisogni,non solo nella vita degli individui, ma anche nelle istitu-zioni economiche e politiche del gruppo. Se la societànell’insieme stesse già donando e dando valore ai biso-gni secondo il paradigma del dono, la moralità sarebbeuna cosa ben diversa. L’eroismo individuale e la “forzadella volontà” sarebbero molto meno necessari, perchéil bene degli altri sarebbe già un presupposto di vita perognuno e per il gruppo.

La definizione dalla quale la pratica del dono è statacancellata è più ampia della definizione di genere e noncoincide del tutto con essa. Visto però che sta alla base

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della mascolazione, entra in forte risonanza con l’identitàdi genere maschile. Il definiendum e la posizione equiva-lente nella formazione del concetto sembrano sopravvalu-tarsi da sé, anche se in realtà sono ricontaminati dalla defi-nizione di genere (che hanno contribuito a creare). Perciò,il denaro, l’esemplare del valore e i modi di dominare at-traverso la denominazione e la definizione, come il discor-so accademico o la legge, sono sopravvalutati, ma la parteche il genere svolge in questa enfasi non è immediatamen-te evidente, come neanche quella della pratica del dono.

Altre categorie apparentemente di genere neutro, comequella della razza, seguono lo schema del genere, istituen-do una competizione per essere l’esemplare del concettodell’umano, prevaricando sulle altre razze, considerandoinferiore chi è diverso dall’esemplare scelto. Come il gene-re, queste differenze sono considerate culturalmente comefisiologiche, mentre in realtà è la forma della definizione“caricata” dalla mascolazione a implicare che alcuni grup-pi siano “superiori” ad altri, che devono poi cedere il pas-so e dare al gruppo “superiore”. Possono verificarsi situa-zioni simili con i sistemi politici o ideologici e con i nazio-nalismi: chi è nato entro i confini nazionali di un paese po-trebbe considerarsi superiore a chi è nato all’esterno diquei confini, anche quando non ci sono altre differenze aincidere effettivamente i corpi o le menti dei nazionalisti.L’intera nazione assume quindi la posizione (esemplare) diequivalente generale, rinforzando potenzialmente gli egodell’intera popolazione rispetto alle altre nazioni. I sistemipolitici, le religioni, i gruppi d’interesse seguono gli stessischemi nel loro cammino verso l’egemonia.

Il profitto

La definizione può essere manipolata per la superio-rità di coloro che la utilizzano in altri ambiti della vita,

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così come viene usata per confermare e perpetuare lasuperiorità degli uomini. Sembra che se siamo in rela-zione con ciò che occupa la posizione del definiendumeconomico (il denaro-parola), possiamo essere miglioridegli altri. È come se si ripetesse la situazione della na-scita, mettendo continuamente una persona nella cate-goria superiore per una relazione con l’equivalente ge-nerale e allontanandolo dal dare. Inoltre, fornendo l’e-quivalente generale, alcuni di noi possono comprare econtrollare il tempo di altri per i propri fini. Richiederealle persone per il cui tempo forniamo l’equivalente ge-nerale anche di dare lavoro-dono (plus-lavoro) non re-tribuito, di cui vendiamo i prodotti, ci permette di otte-nere profitti e di accumulare capitale. Se consideriamoche anche l’equivalente generale è fallico, e il capitale loè ancora di più, possiamo capire l’aspetto sessuale del-l’investimento, del mettere il denaro “dentro” qualcosa,riprendendolo aumentato e reinvestendolo finché nonne ricaviamo un profitto.

Dovremmo renderci conto che ogni volta che “creia-mo” un profitto, alcune o forse molte altre persone stan-no dando un dono. Invece, pensiamo che il nostro profit-to sia una ricompensa o che ce lo siamo guadagnato. Maquesto ripete lo schema del “meritare” dell’uomo, perchéagendo in modo mascolato egli può accedere di nuovo al-la categoria privilegiata, “meritando” il nome “uomo”.L’uomo viene infatti ricompensato con i doni che ha ri-nunciato a dare quando è entrato per la prima volta inquella categoria. Se alcune caratteristiche essenziali o pri-marie del genere maschile fossero messe in atto nelle no-stre vite economiche, sarebbero più facili da rintracciare eidentificare. Ma sia le caratteristiche di genere dell’uomo,sia le caratteristiche funzionali della nostra economia discambio provengono da un “antenato comune”, ossia ladefinizione grazie alla quale gli uomini sono privilegiati eal tempo stesso alienati dalle loro madri nutrici.

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È come se la mente collettiva infantile del maschiettodicesse: “Perché sono un bambino, e non sono come lamia meravigliosa mamma?”. La risposta, “è così e ba-sta”, diventa ciò che il bambino non può superare mache deve seguire; ciò di cui lui, come suo padre prima dilui, seguirà il modello e che “scoprirà” poi essere le suecaratteristiche “maschili” o “umane”. È come se l’esserein sé, essere uguale, essere uguale a un esemplare, esserel’esemplare ed essere la parola si fossero tutti ripiegatil’uno nell’altro come caratteristiche normali della so-praffazione maschile attraverso la categorizzazione e ladenominazione. Questa situazione dolorosa viene poiproiettata sull’intera società e diventa alla fine la Le-bens-form della modalità economica dello scambio. Il“padre-esemplare” ha le stesse caratteristiche dell’essere,come le aveva suo padre prima di lui, comportandoquindi, un infinito retrocedere attraverso le generazionidi “padri-esemplari”. Non deve stupirci che l’identitàmaschile, che negando la pratica del dono è stata vistafino a poco tempo fa come l’identità umana, abbia avutouna posizione tanto prevalente nelle discussioni filosofi-che. È, e continua a essere, la fonte, non di un qualche“destino superiore”, ma dei nostri numerosi problemi.

L’avere di più

La spinta all’aumento può forse risalire al fatto che ilmembro del bambino piccolo è effettivamente molto di-verso e più piccolo di quello del padre. Se il fallo è la“marca” della categoria maschile, forse il bambino nonpuò considerarsi veramente “uguale” e appartenente aquella categoria finché non avrà un membro più grande.Il bisogno di diventare il modello del concetto, di occu-pare la posizione dell’equivalente generale o della paro-la, implicherebbe anche il bisogno di un membro gran-

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de. Il figlio non ha certamente il potere di far sì che ciòaccada, mentre lui, i fratelli, la madre e le sorelle posso-no essere dominati (e talvolta maltrattati) dal grande pa-dre fallico, che in fine sta interpretando il mandato delladefinizione mascolante in base alla quale si è formatonell’infanzia.

Il figlio, già in competizione con il padre per la posi-zione di equivalente, può anche sentire il bisogno di ungrande fallo e dei suoi equivalenti simbolici ed economi-ci, per poter difendere se stesso e le donne con le qualista ancora partecipando (fino a un certo punto) a una si-tuazione di pratica del dono, dal padre e da altri uominiche potrebbero cercare di prendere il sopravvento. Ilbambino impara a dominare, giocando a sua volta ilruolo del definiendum. Mentre il nutrimento della ma-dre supera le differenze di dimensione fra lei e il figlio,facendo assumere a questo, ancora molto piccolo la po-sizione di ricevente umano (e donatore e ricevente di se-gni), la definizione di genere pone il figlio in netto svan-taggio. Per il momento lui non può conquistare il suomandato di genere; deve essere relativo e parte dei mol-ti, perché a quanto pare è troppo piccolo. La vera ragio-ne, dopo tutto, è nella logica stessa della situazione: cipuò essere soltanto un “uno”.

Forse alla base dell’impulso alla violenza, al potere eall’avidità c’è questo desiderio di essere più grande (ave-re di più dell’equivalente fallico), per poter occupare laposizione dell’“uno” richiesta dalla definizione di gene-re. Le bambine possono entrare a far parte della compe-tizione per essere superiori, anche se non hanno fisiolo-gicamente il fallo e spesso mantengono almeno alcunidei valori del dono e della pratica materna verso i qualisiamo state socializzate (Gilligan et al., a cura, 1990).

Visto che il padre è spesso assente, il figlio, che è statoallontanato dal modello della pratica materna, può esserelasciato senza un modello per la propria identità (oltre

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alla definizione in sé) o un contenuto per la propria cate-goria. Aggiungiamo a questo la violenza che molti uomi-ni grandi perpetrano su chi è più piccolo di loro, e diven-ta chiaro che la dimensione (o quantità) può diventarel’ossessione non solo degli individui, ma di intere cultu-re. Un essere di un altro pianeta in visita sulla Terra ri-marrebbe sicuramente sbalordito dai grattacieli semprepiù alti con i quali il mondo degli affari dimostra il pro-prio orgoglio corporativo. Coloro che hanno uffici nelletorri d’acciaio sono senz’altro superiori a quelli che han-no uffici in edifici più piccoli e meno eretti; hanno piùdenaro e più potere, il che li rende più vicini al modelloconcettuale del padre, del maschio adulto, a cui il bambi-no piccolo può soltanto aspirare. E ancora, a parte ognisenso erotico, è l’erezione a essere diversa e molto piùgrande del membro del bambino, ed è questo che i grat-tacieli (le pistole, i razzi, i missili) imitano.

Tutti questi edifici sono costruiti sull’abbandono delmodello di pratica materna. L’abbandono stesso è diret-to non verso il bambino, ma verso coloro che mancanodel fallo-parola-denaro. Chi ha bisogni è lasciato morireda chi ha i beni. Chi non ha il fallo deve pagare per avermesso il bambino in una categoria differente; deve infat-ti continuare invisibilmente a trasferire a lui il denaro-fallo come plusvalore. Paradossalmente, la pratica deldono orientata verso l’altro sembra essere ipocrita e cer-tamente non all’altezza dello scambio come metodo didistribuzione.

Ciò che rimane nascosto in modo evidente è il deflui-re della ricchezza nei simboli fallici e nel capitale in infi-nita espansione, lontano dai bisogni dei molti. Ricchezzaed energia fluiscono dai molti agli “uni”; fluiscono an-che dalla pratica del dono al mercato e al capitale, e dal“Terzo Mondo” al “Primo Mondo”. L’illusione è che siaal contrario13. Come nella formazione del concetto, l’e-semplare riceve il proprio valore dall’esistenza di altre

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unità dello stesso tipo, ma adesso c’è un effettivo trasfe-rimento di ricchezza da queste a lui.

La punizione per la scarsità

Questa situazione globale può anche essere vista co-me una rappresaglia della società contro la madre e lasua modalità di pratica del dono, per aver ceduto il fi-glio al padre. La vendetta è senz’altro parte dello scam-bio ed è coerente con esso. L’allontanamento dei benidai bisogni, nelle mani di coloro che hanno sempre piùfallo-parola-denaro, crea la scarsità che grava sulla prati-ca del dono e la scredita, rendendola impossibile o sacri-ficale. Continuare a praticare il dare doni, nonostante lascarsità, richiede un enorme sforzo e un senso di deter-minazione quasi ossessivo. Per questo le donne sono sta-te spesso tacciate di masochismo.

Invece, il peso delle prove dovrebbe ricadere su colo-ro che stanno creando la scarsità e sul sistema che licrea. Le loro motivazioni sono da ricercare nel tentativodi rimediare al cambiamento della loro categoria di ge-nere durante l’infanzia. Forse nella nostra tenerezza ma-terna siamo inclini a capirli e a compiacerli, ma questodeve finire. Non è la giusta risposta alle conseguenzedelle loro azioni e istituzioni, come la morte di milionidi persone per la guerra, la fame e le malattie e la distru-zione ecologica del pianeta.

La scarsità offre diversi vantaggi al patriarcato: rendedifficile il dare doni così che questa pratica non possaoffrire un’alternativa visibile e percorribile allo scambio;punisce le madri e la loro modalità del dare per aver ce-duto i propri figli alla categoria del padre, dando allostesso tempo al bambino la seduzione dell’accumularepiù di ogni altro l’equivalente generale. Per di più, chiriesce a diventare esemplare privilegiato può anche ma-

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terializzare i propri eccessi economici priapei in simbolifallici di ogni tipo. Se i cittadini non riescono individual-mente ad accumulare di più, possono magari entrare afar parte di una qualche corporazione che ha di più, fu-cili, aeroplani, bombe più grandi.

Avere questa eccedenza, mentre altri non hanno ab-bastanza beni per sopravvivere, permette a chi ha di con-siderarsi superiore e di distribuire piccoli doni di caritàmanipolando, controllando il comportamento dei non-abbienti. La definizione mascolata è anche usata diretta-mente per manipolare coloro che hanno bisogno di giu-dizi positivi, anche questi resi scarsi: giudizi di intelligen-za, bellezza, efficienza o competenza, sono spesso ac-compagnati da giudizi monetari, con cui si completano.

Le economie e gli ecosistemi sono stati alterati neltentativo di accumulare grandi quantità per i pochi,sfruttando le risorse dei molti. La dimensione relativadei possedimenti dei pochi aumenta grazie a questi mez-zi. Il desiderio di sicurezza è intensificato anche attra-verso la minaccia di scarsità, e può sembrare che senzaun margine considerevole anche i maschi rischino di es-sere di nuovo trasferiti dalla categoria degli abbienti aquella dei non-abbienti.

Forse saremo scusate per le considerazioni tanto ir-riverenti sul mercato e il patriarcato. Sembra una spe-cie di sacra rappresentazione tragicomica, in cui l’alie-nazione del bambino dalla madre nella categoria delpadre viene rappresentata all’infinito. Il sintomo delnostro disordine psicologico pervade le nostre menti eil nostro tempo, impedendoci di seguire la modalitàmaterna, mentre milioni di bambini reali di entrambi igeneri soffrono la fame. Gli occhi dell’alieno extrater-restre si riempirebbero di lacrime di compassione perquesta nostra specie straordinaria che si è messa tantonei guai per ciò che, dopo tutto, comincia come un er-rore piccolo e innocente.

IL MERCATO E IL GENERE

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Per quanto riguarda me, caro/a lettore/rice, ululonella notte.

Se mi capite, forse lo fate anche voi.

1 Abbiamo parlato dello scambio come definizione. Visto che esiste sol-tanto una parola materiale, il denaro, qui sto parlando della denominazione.Molte delle funzioni della definizione sono intrecciate l’una con l’altra nelloscambio monetizzato.

2 La classe di tutte le classi decontestualizzate (classi estrapolate dal con-testo) è una classe decontestualizzata. Tuttavia, un vero meta-punto di vistasarebbe logicamente più ampio e includerebbe la pratica del dono, includen-do così il diverso (l’altro), portando alla contestualizzazione e distruggendo laclasse decontestualizzata. La prospettiva patriarcale sopravvaluta le classi esottovaluta il contesto della pratica del dono, così come la società patriarcalesopravvaluta le classi e sottovaluta il paradigma del dono. Si potrebbe obiet-tare che confrontare lo scambio con la pratica del dono sia come confrontarele mele con le arance. Io sostengo che queste mele esistono soltanto nel con-testo delle arance, che per di più danno doni alle mele.

3 Jacques Lacan ha descritto ciò che ha chiamato la “fase dello specchio”,un livello d’integrazione-dell’immagine delle parti del corpo del bambinotroppo avanzato per la sua età. Io direi che è la relazione di proprietà che leintegra in quanto “sue” (di lui), e che il loro fratturare la relazione con l’e-semplare maschile si riflette nello scambio. Cfr. Ragland-Sullivan (1986) eWright (1991).

4 Inoltre le madri, che temono la competizione del padre con un figliodonatore per avere il loro affetto, potrebbero anche essere motivate a render-lo simile al padre, così che il padre non lo distrugga. Come la vera madre diMosè, negano che il figlio sia-loro, lo danno a qualcun’altro che abbia mag-giore potere, e gli restano accanto per servirlo e prendersi cura di lui.

5 Il denaro viene sostituito solo quando, dopo essere stato “investito”,torna indietro accresciuto, un’altra mascolazione trasposta, forse come unbambino che nasce dalla testa di Zeus. Il capitalista è l’uno che fa sì che que-sto accada.

6 Il possedere è forse più simile al complesso del “nome di famiglia” diVygotsky, che al concetto; visto che le proprietà possedute sono diverse tra lo-ro, non hanno caratteristiche comuni eccetto quella di essere proprietà diquell’“uno”.

7 La figlia può essere considerata il “bene” o il “valore d’uso”, che fa dinuovo parte della modalità delle pratiche di cura dopo che il compratore haceduto l’equivalente fallico. Potrebbe anche essere considerata un bene chenon viene scambiato, almeno finché non si sposerà.

8 La normalità dello scambio è rafforzata dal predominio del verbale sulnon-verbale nella società e nell’infanzia, visto che il figlio sta imparando il lin-guaggio proprio nella fase edipica, durante la quale avviene la mascolazione.La possibilità di una genitalizzazione precoce nei bambini è stimolata dall’im-

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portanza data al linguaggio, alla denominazione e allo spostamento del bambi-no dalla categoria della madre a quella del padre (o in ogni caso a quella delmaschio esemplare). Lo scambio economico per denaro in realtà riconsidera erinforza la condizione edipica, come anche questo momento di genitalizzazio-ne. L’ex-change (“scambio”) è di fatto un sex-change (“cambiamento di sesso”).

9 Sohn-Rethel (1970) ritiene che il nesso sociale sia l’“astrazione delloscambio” derivante dallo scambio di beni. Io credo che lo scambio di beniderivi dalla mascolazione, che è quindi alla base dell’astrazione dello scambio.

10 Anche la Bibbia dice: “A lui che ha molto sarà dato”.11 Su un altro livello dello stesso processo, lo scambio per denaro prende

il sopravvento e il baratto cede il passo. Nello scambio per denaro sono coin-volti almeno questi tre strati di sopraffazione e il cedere il passo. Possiamo ri-scontrare che ci sono ancora perché in ogni momento possiamo ritornare allostadio “precedente” secondo la volontà degli scambiatori. Possiamo barattareinvece di scambiare per denaro, o possiamo decidere di non richiedere unoscambio e dare semplicemente il prodotto alla persona che ne ha bisogno.

12 Credo che i movimenti per il cambiamento sociale considerino troppol’eguagliamento come criterio, perché non capiscono che il suo uso nel mer-cato lo diffonde ovunque come valido. Penso, invece, che dovremmo celebra-re le diversità qualitative.

13 I “doni” del “Primo Mondo” al “Terzo Mondo” contengono scambiocculti e in realtà ritornano continuamente al “Primo Mondo”. V., ad esem-pio, il lavoro del collettivo DAWNE e di Sen, Grown (1977); e Shiva (1989).

IL MERCATO E IL GENERE

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Capitolo quattordicesimoMeritare di esistere

Le contraddizioni umane nel mercato

Mi sono sempre chiesta come sia possibile che il pro-fitto derivi dallo scambio individuale equo. La rispostache intravedo è che il profitto scorra dai settori del nonscambio allo scambio e al mercato attraverso i doni.Questi doni vengono in primo luogo dal nostro dare va-lore all’eguagliamento (come fanno le madri dando valo-re alla somiglianza del figlio con il padre), in secondoluogo dal nostro dare valore all’orientamento verso l’egoe allo scambio, terzo, dal nutrire/prendersi cura del la-voratore e quarto dal dare al capitalista attraverso il plu-svalore. Esiste un altro scambio “equo”, tra lavoratore ecapitalista, al quale il valore viene dato dall’esterno. Illavoratore accetta di lavorare per un salario, ma soloperché non può sopravvivere in un altro modo. L’orariolungo, l’attenzione, la manodopera in più e la fedeltà so-no doni dati in cambio del “privilegio” di essere pagaticon la tariffa corrente per il lavoro di un certo tipo. “Sa-lendo” di uno scalino logico, la possibilità di avere unlavoro retribuito, nella scarsità, è un “dono”. L’attenzio-ne, l’onestà, la fedeltà, l’eccellenza sul lavoro e il buonumore vengono dati in cambio del “dono” del lavoro(potremmo considerarlo in pratica come uno scambioreciproco di doni, come avviene in alcune società pre-capitaliste). Mentre su un certo livello gli scambi di mer-

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cato possono essere equi, su un altro livello ci sono doninon visti che vengono dati costantemente a questi scam-bi, attraverso di essi e intorno a essi.

Il “plusvalore” secondo Marx è il valore di lavoro ineccesso rispetto a un salario basato sul costo per ripro-durre il lavoratore. In realtà, il plusvalore costituisce undono dal lavoratore al capitalista. Visto che il lavoro-do-no della madre o moglie non viene monetizzato nella ri-produzione del lavoratore, anche il valore di questo con-fluisce nel plusvalore. I posti di lavoro scarsi vengonosopravvalutati, e i doni scorrono verso di essi e verso co-loro che li hanno, da coloro che non li hanno.

Gli operatori economici non prestano generalmenteattenzione alla natura della fonte, ma soltanto ad accu-mulare quantità per un uso futuro senza una varietà qua-litativa. In questo sono giustificati dalla sala-degli-spec-chi, dall’auto-similarità di tutti gli scambi equi che avven-gono nel mercato e ai diversi livelli che costituiscono ilcontesto di ogni scambio. Inoltre, l’omogeneità o il carat-tere “di singola parola” del denaro permette al mercatodi sostituire il vocabolario linguistico diversificato quali-tativamente con la gerarchia quantitativa dei prezzi1. Nelmercato, l’unico modo per denominare e quindi ricono-scere e apprezzare un dono come valore è scambiandoloper denaro, cosa che però contraddice il suo carattere didono. Così il dono rimane invisibile e svalutato.

Il profitto proviene, in parte, dal nostro dare all’u-guaglianza, e darle valore piuttosto che al bisogno. Chipartecipa allo scambio equo viene stimato di valore, enon chi ha semplicemente un bisogno. Qualsiasi ecce-denza che sarebbe altrimenti andata alla persona che hasemplicemente un bisogno è così “libera” (free) di fluirecome dono nel profitto dello scambiatore equo. Chi haun bisogno è considerato iniquo, sempre che non abbiaanche lui qualche altro prodotto o denaro risultato dauna qualche transazione precedente. In realtà, essere

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uguali nello scambio implica semplicemente che le per-sone che praticano il comportamento dello scambiohanno prodotto merci scambiandole con altri gruppi dipersone ugualmente egoiste e rivali. La loro uguaglianzacome attori e come valori nel processo di scambio impli-ca l’interscambiabilità, la sostituibilità reciproca e la loromancanza di legami implica l’indifferenza.

Esistono bisogni che provengono dal processo discambio stesso – come i bisogni derivanti dal processodella mascolazione – che devono essere soddisfatti con idoni dati a quel processo dall’esterno. La modalità deldare si mette da parte perché lo scambio prenda il so-pravvento, trasferendo il proprio valore potenziale sco-nosciuto come modo di distribuzione allo scambio, nu-trendolo e nutrendo coloro che lo praticano. Se si sfidalo scambio, se c’è abbondanza di un prodotto, ad esem-pio per la sovrapproduzione, i prezzi scendono; se iprezzi scendono, più valore del prodotto è dato al con-sumatore come un dono, e la futura produzione per loscambio viene messa a rischio.

Il mercato, come l’ego mascolato, è un’invenzionepsico-socio-linguistica artificiale che fa uso della decon-testualizzazione. Come l’ego, ha bisogno di ricevere va-lore direttamente (senza uno scambio) dalla pratica deldono, mentre allo stesso tempo le fa concorrenza e vin-ce. Le persone che partecipano all’invenzione artificiale,che stanno facendo lo scambio, sviluppano il bisogno diessere valutati in opposizione a chi è esterno al mercato;e hanno anche bisogno di essere mantenuti dagli altri.Per essere motivati a impegnarsi in questa pratica artifi-ciale, aggiungono una ricompensa extra per se stessi (un“incentivo”) al prezzo dei loro prodotti. Il profitto chericevono è un dono, non solo dai produttori di plusvalo-re (e coloro che nutrono i produttori), ma anche daicompratori dei beni scarsi. È un contributo di doni daimolti sconosciuti di cui non sono coscienti. La scarsità

MERITARE DI ESISTERE

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di posti di lavoro e la scarsità di beni funzionano insie-me per tenere in alto gli scambi equi e mantenere il flus-so di doni diretto agli “abbienti”.

Meritare è un modo auto-similare di dare valore nonsoltanto a coloro che scambiano, ma anche allo scambio.Coloro che producono per il mercato meritano una ri-compensa. Coloro che scambiano ricevono il valore diessere definiti equamente come avversari appartenentialla stessa classe contraddittoria. Vengono consideratisuperiori a chi è disoccupato o non impiegabile, a chinon può vendere o comprare. L’uguaglianza tra i loroprodotti e il denaro sembra implicare l’uguaglianza (mu-tuamente esclusiva) tra di loro, così come la capacità diusare le stesse parole riguardo cose simili implica un’u-guaglianza (mutuamente inclusiva) tra gli interlocutori.

Se i nostri ego comunitari si sviluppano attraverso illinguaggio e il dare materiale, allora lo scambio, l’intera-zione materiale del non-dare, può essere visto come labase di un particolare tipo di ego. Materialmente svilup-pa un proprietario privato, mentre psicologicamente svi-luppa un ego che è funzionale al processo e alla pro-prietà: competitivo, che si batte per avere di più, peravere e/o essere il definiendum, e per diventare l’unomascolato privilegiato.

Chi ha un ego adattato allo scambio accede alla clas-se dominante dei molti egoisti, che stanno cercando diessere tutti uni privilegiati. L’azione competitiva del ma-cho individuale coincide con la logica della sostituzioneprendendo il posto della pratica del dono. Così fannoanche le nazioni, le classi, le razze o le religioni mascola-te, sopraffacendone altre che sono costrette a cedere edare valore e beni ai conquistatori. I gruppi che rifletto-no se stessi sopraffanno i gruppi orientati verso l’altro esono da essi nutriti. Gli ego prodotti dallo scambio defi-niscono “civiltà” la propria espansione e l’espansionedel sistema di mercato.

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La definizione come modello: un altro giro di vite del-l’auto-similarità

Il genere è in realtà una cosa che noi creiamo e conti-nuiamo a imporre a noi stessi, ma per la cultura sembraessere biologico e, perciò, impossibile da cambiare. Ten-diamo a considerare costanti i ruoli di genere e a consi-derare variabili gli adattamenti dell’individuo. Ad esem-pio, le differenze di temperamento individuale sono vistecome differenze di genere: di una bambina aggressiva sidice che “si comporta come un maschio”; di un bambinocompiacente che “si comporta come una femmina”. L’i-dea che una nostra caratteristica sia propria della nostranatura ci porta a guardare dentro di noi per trovarla. Mase è una costruzione culturale stiamo cercando qualcosa,almeno nelle prime fasi, che non esiste ancora dentro dinoi, che dobbiamo creare, secondo i modelli e le defini-zioni che ci vengono dati. Il linguaggio stesso è un im-portante elemento modellante. Torniamo a considerarequal è il suo funzionamento nella mascolazione.

Non ci siamo resi conto di quanto i fattori culturalisiano responsabili della definizione di genere perché laforma della definizione è intrappolata nel contenuto digenere e la sua genesi concerne la sua pratica presente.Questi sono fattori culturali complessi che facilmente ciconfondono. La definizione di genere incarna la strutturadella definizione nel suo contenuto, quando il maschioprende il posto della femmina. Il comportamento maschi-le si sforza di assumere la posizione generale del definien-dum di sopraffazione. Noi riconosciamo questo compor-tamento come una cosa legata alla parola “maschio” e loreinseriamo nell’equazione originaria, determinando unastruttura sociale auto-similare. C’è un meta-livello coin-volto, anche se forse non ce ne rendiamo conto. Noi inse-riamo la forma della definizione nel genere; poi reinseria-mo il genere nella forma della definizione.

MERITARE DI ESISTERE

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Immersi come sono nel linguaggio, i termini di gene-re sono mascherati per sembrare uguali ad altri termini2,e il travestimento si aggiunge al loro potere come profe-zie che si autoavverano. L’auto-similarità tra i termini digenere e i loro referenti, aggressivi e prevaricatori nel ca-so dei termini per maschi, oppure nel caso di terminiper femmine non competitive, con le cose che cedono ilpasso, fa sì che il mandato di comportamento di queitermini appaia come incassato all’interno dei terministessi (v. Fig. 22). Il mandato sembra risiedere “all’inter-no” dei termini ma in realtà dipende da un contestoesterno che è già stato influenzato dal mandato stessoper generazioni. Quando il figlio lo prende come unmodello, il comportamento di genere del padre è già sta-to influenzato dal termine “maschio” che si autoavvera.La madre, come sua madre prima di lei, rinforza l’errorecedendo il suo essere modello per il bambino. Quandolo dà all’altra categoria perché è una donna, diventa ilmodello del dare via e cedere il passo per la bambina.

Il padre, che è in rapporto come esemplare alla paro-la “maschio”, assume nella famiglia anche la posizione

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Figura 22. I ruoli di genere e la definizione coincidono, creando im-magini auto-similari sui livelli della forma e del contenuto.

Il definiendumprende il sopravvento

Il definiendum cedeil passo

L’uomo prende ilsopravvento La donna cede il

passo

uomo donna

È

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della parola, prendendo il posto della madre comeesemplare. Nel frattempo la “cosa” – la madre – legata aquesta “parola maschile” si mette da parte come esem-plare, assumendo la posizione relativa di una tra i molti.La figlia ne segue l’esempio mentre il figlio seguirà allafine le orme paterne. È così che sorge l’analogia con ilnostro processo del concetto, in particolare quando laparola prende il posto dell’esemplare, che non saràquindi più necessario come punto di confronto per so-stenere la caratteristica comune delle unità relative.

La madre cede la posizione d’esemplare e assume laposizione di una cosa tra le molte cose legate al padre-parola che adesso mantiene la polarità per quella catego-ria. La posizione di esemplare (auto-riflettente) del padrecoincide con la parola perché, come questa, domina sullamadre in quanto esemplare. Questa situazione familiaresi ripete anche nella definizione, dove il definiens svolgeun servizio e cede il passo, funzionando come la madre.Il definiendum prende il sopravvento come equivalentepermanente e sostituto delle cose di quella categoria,funzionando come il padre. Il padre possiede il fallo e lamadre, ed è la “parola-esemplare incarnata” del concettodi bambino e forse di tutti i concetti (come potrebberovederlo i bambini di entrambi i sessi)3. Ancora una volta,la situazione in cui l’uomo prende il posto della donna (ei valori patriarcali prendono il posto dei valori delle don-ne) ripete la situazione in cui l’intero processo di scam-bio prende il posto della pratica del dono.

Le donne servono e si fanno da parte, e l’economiadel dono si fa da parte, mentre gli uomini si fanno avantie prevaricano come equivalenti al centro dell’attenzione.Questo schema si può vedere riflesso anche in un altromodo nella definizione. Il carattere del definiendum siriflette all’indietro sul definiens quando il contenuto èmaschile; e viceversa, quando il contenuto è femminile,il definiendum diventa “femminile”, più simile al defi-

MERITARE DI ESISTERE

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niens. Ad esempio, nella frase “le donne sono il sessodebole”, “sesso debole” come definiens si fa debolmenteda parte, e “le donne” prende il sopravvento come defi-niendum. Così, il contenuto (le donne come cose o esse-ri che cedono il passo) entra in risonanza con la funzio-ne di transizione del definiens di cedere il passo. Le “co-se” (donne) legate al definiendum hanno in questo casocaratteristiche del definiens.

“Gli uomini sono il sesso forte” funziona nel sensoopposto, con la forza che ripercuote o ripete le caratte-ristiche “prevaricatrici” del definiendum, che prende ilposto del definiens. Le “cose” (uomini) legati al defi-niendum hanno in questo caso caratteristiche del defi-niendum. L’auto-similarità costruisce quindi un pontetra il livello del contenuto e il livello della forma nelladefinizione. Nessuno dei due livelli dev’essere necessa-riamente così, ma su entrambi grava la funzione chesvolgono nella costruzione sociale del genere. Dopo chela definizione è stata incarnata nel comportamento“prevaricatore” mascolato, la definizione di genere si ri-percuote sulla propria immagine comportamentale ete-rosessuale.

Il livello epistemologico, costruito in base alla granadonante e ricevente, è sicuramente influenzato dal modoin cui creiamo le nostre definizioni, ed è infettato dallenostre errate interpretazioni culturali di genere. Gli es-seri umani sono portati artificialmente nei ruoli “ma-schili” e “femminili” perché noi interpretiamo male inostri “dati” fisici ad implicare la nostra appartenenza acategorie drasticamente diverse, quasi a specie diverse.Il maschio crea artificialmente un contenuto per il pro-prio genere ripercorrendo alcuni passaggi della catego-rizzazione, e questo schema torna a riflettersi sui mecca-nismi linguistici che avevano imposto inizialmente la ca-tegorizzazione. Le femmine permettono che questo mo-dello si ripeta servendolo e questo le porta a farne parte

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perché, in realtà, è uno schema asimmetrico di nutri-mento e categorizzazione-dominazione.

La modalità del dare è quindi imprigionata in una re-lazione con la categorizzazione che vi si oppone. Quindicede il passo come principio da applicare coscientemen-te ed è cancellata dalla dominazione, la quale, in un motoauto-similare, prende il sopravvento. C’è complementa-rità fra le due modalità in conflitto al livello d’oggetto eal meta-livello. La denominazione del bambino come“maschio” è proiettata nei rapporti umani nella società, equesti riconfermano la denominazione del bambino co-me “maschio” (v. Fig. 23). Così ogni definizione diventaun esercizio di eterosessismo artificiale. Ogni definizioneriecheggia le proiezioni sociali della definizione di gene-re; quindi la definizione di genere è riproiettata conti-nuamente sulla coscienza individuale attraverso il nostrodiscorso, la nostra capacità di autodefinirci e di definiregli altri. La definizione stessa diventa la norma e dequali-fica non solo il servizio del suo definiens femminile, mal’importanza e persino il diritto a esistere di chi non cor-risponde ai suoi schemi eterosessuali.

Ad esempio, i giudizi dei bigotti di destra hanno unaspetto di autoconferma perché la forma eterosessualedella definizione (e della denominazione) convalida ildominare e dequalifica l’importanza di coloro che cedo-no il passo alle loro definizioni. Attraverso gli epitetiusati dagli adolescenti per dominare le adolescenti, “ca-gna” e “puttana”, o i giudizi espressi dai capi, mariti oaltre figure autoritarie, “incompetente” e “stupida”, alledonne si chiede che cedano il passo al definiendum pre-varicatore quando lo dicono loro, gli uomini mascolatiche le donne servono.

Gli atteggiamenti sprezzanti nei confronti dei gay,delle diverse etnie, ideologie, religioni ecc., “degenera-no” spesso anche nella violenza fisica. Chi definisceprende il sopravvento e chi è definito cede il passo. I de-

MERITARE DI ESISTERE

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finitori che prevaricano sono “diventati” i definiendum,i definiti sono “diventati” i definiens, o la cosa che cedeil passo.

Noi non riconosciamo l’eterosessualizzazione dellaforma della definizione in parte perché le abbiamo datoun “esemplare” che ci fa ignorare il suo funzionamento

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Figura 23. L’azione reciproca della mascolazione e della definizionegenera le auto-similarità sociali

Impressione dell’autrice di un frattale sociale derivante dalla mascolazio-ne inserito nella definizione. Al lettore si chiede di immaginare le diffe-renze in scala

Mercato uno-molti, denaro-prodotti

Famiglia patriarcale uno-molti

Relazioni internazionaliuno-molti

Classe

Definizione

Definizione

Governo

Mascolazione

Razza

Religione

Esercito

Accademia... ecc.

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rispetto al genere. Quell’esemplare è l’equazione astratta,che sembra essere la forma o “essenza” della definizionestessa. L’uso della notazione alfabetica “A=B” sostitui-sce dei segni vuoti prendi-posto per parole o “valori”.Giacché i prendi-posto sono vuoti, non generali (comeinvece sono le parole-dono di cui è stata costruita la ge-neralità in quanto esemplari sostitutivi), sembrano im-plicare la sostituibilità reciproca: se A=B, B=A4. Inoltre,l’equazione sembra essere semplicemente una versionepiù complicata della tautologia (completamente recipro-ca): A=A. Considerare l’equazione, che è un’imitazionesemplificata e astratta della definizione, l’“esemplare” ditutte le definizioni, il loro modello o “forma”, ci permet-te di mettere da parte, in quanto irrilevante, la prevari-cazione e il cedere il passo che di fatto avvengono nelladefinizione eterosessualizzata.

Infatti, l’equazione reciproca, neutra (dovremmo dire“sterilizzata”?) prende il sopravvento sulla definizionecosì come lo scambio prende il posto del baratto e dellapratica del dono e anche della servitù forzata. Noi dia-mo poi valore a questa immagine di neutralità o “ugua-glianza” e i processi di prevaricazione, del dare doni e dicedere il passo ricominciano. L’equazione di valore delmercato è usata solo tra quei prodotti che (come gli uo-mini mascolati nella rete di solidarietà maschile) già ap-partengono alla categoria ritenuta valida e si occupa sol-tanto della quantità di quel valore. È usata esclusiva-mente con le cose che già si considerano scambiabili.Nell’equazione tra un prodotto e il suo prezzo, sebbenesembri neutrale, il denaro diventa il definiendum incar-nato che prende materialmente il sopravvento mentre ilprodotto in scambio cede materialmente il passo. Allostesso tempo l’intero processo di scambio per denaroprende il posto della pratica del dono.

Il reinserimento della forma eterosessualizzata delladefinizione nella definizione produce immagini patriar-

MERITARE DI ESISTERE

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cali auto-similari su diversi livelli sociali. La posizioned’inferiorità delle donne (come quella dei definiens) ser-ve come qualcosa di non visto perché la forma della de-finizione si reinserisca in essa (e la cancelli). Quindi l’at-tività non vista del dare doni che viene da questa posi-zione dà valore alla forma della definizione e dell’equa-zione e lascia che questa prenda il suo posto come mo-dello delle interazioni umane. E ne deriva una prolifera-zione di immagini auto-similari. Le donne, le classi “piùbasse”, i molti, i bambini, il passato, il futuro (tuttoescluso gli uomini dominanti dotati di doni nel tempopresente) interpretano il ruolo del definiens rispetto aldefiniendum degli uomini. Su una scala macroscopica, larelazione si ripete tra le nazioni dove uno domina e mol-ti servono. Ad esempio, gli USA dominano le nazioni nel-la propria area d’influenza, che cedono il passo e servo-no la sua egemonia economica e culturale. Queste rela-zioni di dono sono invisibili alla maggioranza della po-polazione negli USA.

Il sé auto-similare contro il sé orientato verso l’altro

La definizione (insieme al suo specchio sterilizzato,l’equazione) è incarnata in noi nei processi dell’ego.Prende il posto della pratica del dono orientata versol’altro e dà valore a se stesso. Fa sì che gli altri le dianovalore perché (come ogni definizione) ha bisogno diavere un valore datole dall’esterno, per funzionare.

Nel mercato, sul micro-livello, in ogni scambio c’è an-che uno spostamento in “alto” che prende il posto dellapratica del dono. Ogni scambio, con la sua equazione divalore che prende il posto della pratica del dono, funzio-na in modo simile al macro-livello del mercato, che pren-de il posto della pratica del dono come modo di distribu-zione. Il micro-livello e il macro-livello si confermano a

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vicenda (perché la somiglianza sembra costituire unaconferma). Allo stesso tempo, viene dato molto valoredall’esterno al mercato come totalità dominante fatta diinnumerevoli scambi, e da lì a ogni scambio è dato valoresuperiore alla pratica del dono. Analogamente, nel pen-siero dell’ego mascolato il micro-livello di eguagliamentoe definizione è uguale (nella sua struttura o processo) aespressioni di macro-livello di un’identità maschile auto-similare e auto-riflettente che sopraffà5.

Le incarnazioni su larga scala della parola e della de-finizione, nello scambio e nelle gerarchie, nelle organiz-zazioni commerciali e nelle istituzioni sociali, religiose epolitiche, funzionano come macro-livelli, che di nuovoconfermano i micro-livelli dell’ego mascolato e la formadella definizione o del giudizio (eterosessualizzati). Que-ste istituzioni forniscono anche delle nicchie dove gliego mascolati possano interpretare i propri destini so-ciali, creando catene di dominazione. Abbiamo creatodelle strutture sociali auto-similari, e diversi livelli suiquali queste strutture possono riflettersi l’una con l’al-tra. La forma della definizione (e della mascolazione) siripete continuamente, giustificando la maggiore impor-tanza data alla similarità rispetto alla differenza, e ilmaggiore valore dato ai processi concettuali uno-moltibasati sulla norma rispetto ai processi di pratica del do-no diretti al bisogno.

Alla pratica del dono non è concessa nessuna capa-cità esplicativa, così le attività basate sul dono (e la stes-sa attribuzione di valore) vengono spiegate da stimatiprofessori come derivanti da categorie e concetti, da si-stemi di elementi mutuamente esclusivi, da gerarchie discelte marginali nella scarsità, o da processi fisiologici opsicologici sui generis, oppure restano un mistero6. Lanostra società è intrappolata in una sala-degli-specchi, enoi abbiamo degli specchi nelle nostre menti, nelle no-stre organizzazioni e nei nostri portafogli.

MERITARE DI ESISTERE

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Il dare doni, il sé “tendente verso l’altro”, non dipen-de dal pensiero per esistere, perché chi lo pratica diven-ta socialmente rilevante soddisfacendo i bisogni degli al-tri e ricevendo da essi. Anche gran parte dell’identitàmascolata proviene forse dalla partecipazione al dare ericevere non riconosciuti, ma la capacità di formare l’i-dentità è attribuita al pensiero, all’equivalenza, al riflet-tersi, e al “trovare se stessi”. L’identità dei donatori e ri-ceventi di doni si crea e viene convalidata nel processodel dare materiale, e non attuando solo o soprattutto unprocesso analogo, nel linguaggio e nel pensiero.

Per di più, siccome chi deduce la propria identità dalpensiero ha molti altri bisogni, il donatore li soddisfa edà valore a questa persona (generalmente, non necessa-riamente, un maschio) in quanto “meritevole”. Nel casoin cui la persona con un’identità più astratta raggiungeuna posizione sociale generale, chi la nutre può esserevisto come uno che dà all’intera società transitivamenteattraverso questa persona (è il caso anche di coloro chenelle gerarchie si trovano nella posizione di dare doniservendo chi occupa posizioni sociali più alte).

Le donne hanno elargito cure agli uomini insieme ailoro specchi. Ma invece di distribuire specchi a tutti,dobbiamo posarli e rivolgere i nostri doni l’uno versol’altro e verso la risoluzione dei problemi sociali chequesti hanno creato. Noi donne dobbiamo personal-mente nutrire e risolvere i problemi sociali generali, enon trasferire la nostra autorità agli uomini mascolatiauto-riflettenti. Dobbiamo occuparci della società nel-l’insieme, promuovendo il modello della pratica deldono a un livello generale, per tutti. Non solo prati-chiamo l’orientamento verso l’altro nella nostra vitapersonale e nella soluzione dei problemi generali, adesempio dando denaro, tempo e inventiva per soddi-sfare i bisogni di pace e dell’ambiente, i bisogni econo-mici e sociali generali, ponendo fine alla fame, alla

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guerra e all’inquinamento, ma proponiamo la praticadel dono come il modello di uno spostamento di para-digma necessario per tutti.

Pensare ed essere

“Io penso, dunque sono” sono le parole del “esempla-re proprietario” privilegiato. Il cogito di Cartesio negaval’importanza dell’esistenza degli altri, della madre, dell’in-tera società e della natura, a favore della propria esistenzaindividuale. Cartesio assunse una posizione di scetticismoradicale, non accettando niente come un “dato”. Il suoprimo passo fu quello di decontestualizzarsi dalla praticadel dare e ricevere e cercare di trovare la base auto-eviden-te del suo essere. Visto che dequalificare l’orientamentoverso l’altro non permette alla persona che scambia di tro-vare la conferma della propria esistenza nella soddisfazio-ne dei bisogni dell’altro e nella continua esistenza e benes-sere dell’altro, la persona che scambia deve trovare la pro-pria fonte nel riflettersi da solo. La mancanza di gratitudi-ne del ricevente nei confronti del donatore comporta an-che ignorare l’altro come fonte.

C’è un aspetto di auto-similarità nel processo che in-fluenza la formazione dell’ego, e in particolare la forma-zione dell’ego mascolato nel cogito. Qui, come nelloscambio, c’è uno spostamento verso la logica della sosti-tuzione che prende il posto della logica del dare. Unesempio della logica della sostituzione: “pensare” vienefornito, perciò è giustificato l’uso del verbo “essere” (io“sono”). C’è anche uno spostamento dal discorso alla de-finizione e all’auto-definizione, che lascia da parte i biso-gni comunicativi contingenti. Visto che è decontestualiz-zato (o lui stesso si decontestualizza), l’ego deve general-mente essere convalidato e sopravvalutato continuamen-te per continuare a esistere. Cartesio ha dato una convali-

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da interna dell’ego concentrandosi sulla sua auto-simila-rità. Il cogito è influenzato dall’equazione e dall’auto-si-milarità dello scambio e implica il dare maggiore valoreall’uguaglianza (anche alla tautologia) e alla conseguenzalogica, rispetto al bisogno. L’uguaglianza tra il pensiero el’essere scaturisce dalla stessa fonte: il linguaggio-nel-di-niego-del-dare7. Si suppone che in genere l’essere dell’e-go dovrebbe includere le relazioni con gli altri!

Il dono di Cartesio al patriarcato è stato la soddisfa-zione del bisogno comunicativo dell’ego per una provalogica della sua esistenza. Questo bisogno è derivato dal-la negazione del dare-e-ricevere doni che dimostra e creagià materialmente l’esistenza umana. L’auto-similarità nelpensiero costruisce una norma, una sorta di specchio sulsoffitto cui fare riferimento, un riflesso del sé, che è inrealtà un suo prodotto. È un riverbero nel microfono chescambiamo per un messaggio dall’universo o dalla strut-tura della comunicazione e dell’umano, e sembra essereuna prova che il sé sia la fonte del sé. Come nel concetto,dove il maschio esemplare è messo in relazione alla paro-la “maschio”, “io penso, dunque sono” è auto-similare,auto-referenziale. Cartesio riconobbe il pensiero comedefinizione; quindi la definizione stessa è diventata ilfondamento tautologico (“io sono io”) di “penso, dun-que sono”. Qui la definizione ha una fonte prevaricatri-ce, lui stesso.

Il pensiero definizionale riflesso nell’equazione di-venta la “marca” dell’“uno” che è l’esemplare del con-cetto di esistenza. Entrambi sono sopravvalutati, comelo scambio. Come il fallo, cioè la “marca” auto-similareche pone i maschi nella categoria privilegiata, il tipo dipensiero che Cartesio stava elaborando nel momento incui formulò la sua frase immortale pone coloro che loelaborano in una categoria privilegiata in quanto “esi-stenti” e quindi prende il posto del dare come giustifica-zione dell’essere. Il pensiero definizionale e il verbo “es-

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sere” funzionano entrambi con l’uso della sostituzione, e“essere” porta il pensiero (gli atti di sostituzione in rap-porto alla parola) nel presente. Il pensiero si definiscedefinizionale, equazionale, logicamente consequenziale(se/allora), invece che pratica del dono trasposta8.

Ma l’“essere” di qualcosa significa soltanto che que-sto qualcosa è socialmente abbastanza proponibile per-ché venga messo in relazione con le parole (per altri),con un atto che può essere sostituito con il verbo “esse-re”. Quindi, pensare è un’attività socialmente valida, e ilsoggetto sociale che lo sta facendo “è”, soprattutto se rie-sce a renderlo valido (per altri). Il fatto che Cartesio diceche sta pensando comporta un carattere sociale generaledel pensare, che lui identifica con se stesso. “Sto pensan-do” è auto-referenziale e sembra ovvio o chiaro perché èauto-similare: chiamiamo quest’attività – espressa in frasiquali “penso” “sono” e “penso, dunque sono” – il pensa-re. C’è uno spostamento verso la sostituzione all’internodella frase stessa, così come succede con il verbo “esse-re”. Questo soddisfa i bisogni altrui di sapere che esisto-no, quando leggono il suo libro. Che dono!

Ma Cartesio in realtà non era solo, sebbene fosse de-contestualizzato, perché il pensiero doveva già aver valoreper altri perché potesse stare in relazione con una parola-dono quale suo nome e in relazione ad altre persone dellafrase. Nella sintassi sia il pensiero che le parole sono pro-ve dell’esistenza di altri, e del contesto in cui il pensatore(presumibilmente decontestualizzato) sta operando. Alpensare è stato dato valore dai molti nel passato.

Ma anche al pensatore nel presente è dato valore,non solo da lui stesso, ma da tutti quelli che lo nutronoin modo generale come parte della società, e individual-mente come una persona che conoscono. La formula è:prendiamo il pensiero come la caratteristica importante(l’invariante sensoriale?) della cosa che è l’esemplare,poi che diciamo lo stiamo facendo (pensando), perciòsiamo uguali all’esemplare quindi sostituibili dall’esem-

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plare e dalle parole che si sostituiscono a esso, quindi inostri atti sono tutti sostituibili dal verbo “essere”, per-ciò esistono e noi esistiamo. È un altro “avere” che ci fa“meritare” di esistere; noi corrispondiamo alla parola“esistenti”. Forse potrei chiamare questo critica “lingui-stica anticartesiana”: Cartesio stava solo ri-scrivendo ilpensare come essere, o viceversa; e (come Chomsky e imolti altri pensatori che sono stati guidati male dallamascolazione) egli sopravvalutava l’importanza del pro-cesso stesso di ri-scrivere (ri-nominare).

L’essere è maschile

Appartenere alla categoria privilegiata è un requisitoindispensabile per diventare magari alla fine una sua nor-ma. Per i bambini maschi è la possibilità di diventare unuomo, un padre, un esemplare per la famiglia e perl’“umano”; oggi, sia per i bambini che per le bambine,potrebbe implicare una posizione professionale di suc-cesso. Essere un membro della categoria privilegiata creail bisogno di continuare a essere rilevanti in quel ruolo,per meritare la definizione. Per i bambini maschi (e altriscambiatori) è il bisogno di sviluppare un’identità ma-scolata (dello scambio), che significa sopraffare, cedere lamadre e la pratica del dono ecc.

Il dono che il maschio (o la persona che scambia) ce-de è la sua identità nutrice “femminile” (in realtà, uma-na). Gli altri gli danno valore per questo, almeno econo-micamente, e lo ricompensano con l’autostima concessaa chi agisce secondo la norma mascolata, diventandouna persona che ha successo “nel sistema”. Queste per-sone sembrano esistere e “meritare di esistere” più diquelle che non hanno successo. Abbracciamo il paradig-ma dello scambio, così come da piccoli abbiamo abbrac-ciato il linguaggio, o come i bambini hanno assunto la

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loro identità maschile. Sembra che sia così semplice-mente perché le cose stanno così.

Abbiamo detto che il verbo “essere” sostituisce gli at-ti di sostituzione delle altre parole nella definizione, dan-do all’essere una parziale affinità con la mascolazione econ lo spostamento verso lo scambio. “È” (IS) diventa si-mile a “$”. Il grado di esistenza degli uomini sembra su-periore a quello delle donne, come anche quello di alcu-ne razze e classi rispetto ad altre. Se poi aggiungiamo l’i-dea di meritare, possiamo vedere come i diversi “sposta-menti” su un livello “superiore” convalidano tutti la pre-sunta superiorità dei maschi bianchi della classe alta, chesembrano “meritare di esistere” più di altri.

Svolgendo il ruolo del definiendum nella tautologia(“io sono io”) o in “sono un essere pensante”) i maschistanno sostituendo l’atto di sostituzione, come il verbo“essere” che sostituisce l’atto di sostituzione nella defi-nizione. Essere sembra implicare essere mascolato e ilpiù mascolato (o il più spesso mascolato) sopraffà gli al-tri, e “merita” di esistere più di tutti. Questo avvieneperché l’“essere”, come la mascolazione, è già collegatoalla sostituzione e allo scambio.

Gli ego mascolati sono i categorizzatori, che includo-no se stessi nella categoria come esemplari, convalidatidal verbo “essere” e dal denaro, quindi usano “natural-mente” il denaro per sostenere la loro stessa esistenza.Come potrebbero meritare di essere categorizzatori senon meritassero di esistere? Perciò quelle donne o classio razze o gruppi di preferenza sessuale a cui viene fattocredere di non meritare di esistere (non sono “abbastan-za bravi”) devono giustificare la propria esistenza pren-dendosi cura di coloro che “meritano”, servendoli.(Ognuno di loro può anche essere messo nella categoriadei non meritevoli da parte di chi controlla la definizio-ne). L’“esistenza” diventa quindi nient’altro che una del-le categorie privilegiate.

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L’esistenza per procura

Lo scambio pone le persone e le cose in una catego-ria speciale, che riceve valore dall’esterno. Nel loro ruo-lo di dare valore a quella categoria, anche i molti cheservono i meritevoli meritano. In un certo senso, sem-brano partecipare alla categoria privilegiata per procu-ra. Dando valore al sistema e aiutando un’altra personaad avere successo nel sistema, ci poniamo in una catenadi transitività, così che alcuni beni scorrono verso dinoi dagli scambi di chi sta in quella categoria. È il casodelle mogli che “non lavorano”, che ricevono gli scartidello scambio. Il fatto che alcuni beni tornino indietrofa apparire lo scambio come la fonte dei doni, il grandenutritore.

Questa è una ragione per cui noi donne continuiamoa nutrire lo scambio e coloro che scambiano con la no-stra attenzione, il nostro amore e il nostro lavoro nonmonetizzato. Il modello della mascolazione ci apparepiù attraente e meritevole del modello della pratica ma-terna, e noi gli facciamo da madri. Nella pubertà sceglia-mo il modello mascolato come più vitale del modellomaterno. Molte figlie lasciano le loro madri (almeno nel-lo spirito) perché si convincono che la mascolazione siaumana, e che sia loro dovere nutrire qualcuno in quellacategoria o diventare qualcuno in quella categoria, qual-cuno che “contribuisce” e che, perciò, merita di esisteree di essere nutrito.

La persona che non riesce in qualche modo a meritaredi esistere rimane nella terra di nessuno. La sua mancanzadi “autostima” è dovuta in realtà alla cooptazione dell’esi-stenza (privilegiata) da parte di donne e uomini mascolaticon successo e di quelli che li nutrono. Sia il meritare chel’esistenza portano con sé la sostituzione della mascola-zione e dello scambio al posto della pratica di cura. Dob-biamo unirci ai sostituti e rinunciare alla pratica del dareoppure nutrirli, se vogliamo meritare di esistere.

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L’essere bilanciati

Alle donne può sembrare di poter “bilanciare lavoroe famiglia” mantenendo un’attitudine nutrice verso imariti e i figli e lavorando allo stesso tempo nell’econo-mia dello scambio. Questo stesso equilibrio convalidaperò la modalità mascolata. Dando uno stesso valore aldare doni e allo scambio, nascondiamo la creatività e lafertilità della pratica del dono, costringendola a un con-fronto secondo i principi dello scambio e offuscando lesue capacità come modello; prosciugando l’energia deidonatori. Torniamo a dare poi di nuovo valore alloscambio usando i suoi stessi principi per regolare la pra-tica del dono.

Gli uomini vengono anche incoraggiati a “riscoprirela parte femminile” che c’è in loro, attenuando gli estre-mi della mascolazione senza spostare il paradigma. Comeil riformismo o la carità, questi atteggiamenti non fannoaltro che rendere il patriarcato più vivibile ad alcuni deisuoi membri. Il principio di “niente in eccesso” vieneusato in eccesso. I gruppi privilegiati “bilanciano le loroparti maschile e femminile” mentre usufruiscono deivantaggi di un sistema economico e ideologico sfruttato-re mascolato, che costringe i molti nella posizione di darea loro. Le equivalenze vengono ancora una volta soprav-valutate e i bisogni ignorati. Il giusto mezzo che quantifi-ca le cure (mettendole sullo stesso piano delle non cure)è solo crudele; permette ai gruppi privilegiati di viverepiù comodamente l’uno con l’altro, senza risolvere i pro-blemi che stanno causando l’infelicità generale.

Il modello dell’equilibrio, come il modello più palese-mente mascolato, scredita di fatto l’aspetto più creativo eoriginale del dare e ricevere. Confonde le acque integran-do il femminile secondo lo standard maschile. C’impedi-sce di guardare ai bisogni che stanno reclamando di esse-re soddisfatti. C’è, prima di tutto, un meta-bisogno che

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tutti noi possiamo andare oltre l’equilibrio, per soddisfarei bisogni di tutti; ma questo non è certamente un punto divista equilibrato. I principi della mascolazione e della pra-tica materna lottano, producendo un effetto altalenante.Siamo come una persona che si sposta da un piede all’al-tro senza mai perdere completamente l’equilibrio per fareun passo avanti o verso l’alto, verso un vero meta-livello;e neanche siamo abbastanza decisi da fare un passo perfermare la distruzione del pianeta.

Tutti abbracciano il modello mascolato: le figlie am-mirano i padri e fidanzati e danno per scontate le loromadri; le madri sopravvalutano i figli e i mariti, sottova-lutando il proprio sistema di pratica del dono per sé eper le figlie, che spesso alla fine fanno la stessa cosa. An-che se il femminismo ha cominciato a cambiare questostato di cose, e si scrivono storie, poemi e anche studisociologici sul pensiero e sul comportamento di curadelle donne, noi non gli attribuiamo lo stesso tipo di va-lore che attribuiamo allo scambio, al pensiero e al com-portamento mascolati.

Le pratiche di cura sono l’origine della nostra specie,non la competizione e la gerarchia o la sopravvivenzadel più “forte”. Le madri umane assicurano la sopravvi-venza dei più deboli, i bambini piccoli. E ognuno di noiè debole per molti aspetti: la nostra pelle sottile, lo sto-maco delicato, i denti corti e una dieta diversificata cirendono animali con molti bisogni che i doni degli altripossono e devono soddisfare. La nostra stessa adattabi-lità permette una proliferazione e una specificazione dibisogni e desideri (ho fame – non solo di qualsiasi cosa,ma dei tamales come li fanno nel Sud del Texas – anchese non so farmeli da sola. Il mio bisogno – in questo ca-so, il mio piacere – è specifico e viene dalla mia storia).

Il processo di identificazione e di soddisfazione deibisogni – durante il quale impariamo a conoscere le va-rietà culturali specifiche di beni e servizi con cui si può

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provvedere a moltissimi bisogni e desideri, e poi effetti-vamente impariamo a provvedervi e anche a riceverequelle cose dateci da altri – è il processo umano basilare.Dare più valore alla pratica del dono, e in questo casoalla trasmissione della cultura, potrebbe permetterci diaccedere alla generalità che adesso crediamo di trovarenel denaro e nelle altre strutture sociali uno-molti. Ades-so il bisogno artificiale di scambio è stato esteso a tutti ecrea un grado di generalità nei mezzi di scambio che èavvicinato soltanto dai capi di Stato, le cui immagini,dopotutto, sono stampate su di essi.

La creazione della scarsità da parte di chi merita diesistere

Lo scambio minaccia la nostra possibilità di soddisfa-re i bisogni degli altri, condizionando la nostra sopravvi-venza al nostro essere “adeguati” per produrre, in unprocesso di “selezione innaturale”. Alcune specie di ani-mali sviluppano delle gerarchie in tempo di scarsità men-tre, in tempo di abbondanza, il modello di predominioviene allentato, e accoppiamento e nutrimento seguonoschemi meno strutturati. La creazione della scarsità chefacilita lo scambio tra gli umani fa apparire la modalitàgerarchica essenziale per la sopravvivenza. Noi imitiamoil comportamento gerarchico dei gruppi animali oltre alquale ci eravamo già evoluti grazie alla pratica maternageneralizzata. La pratica del dono nel linguaggio mantie-ne il nostro progresso evolutivo su un piano astratto,mentre nel concreto sembriamo essere regrediti, renden-do il nutrimento/le cure estremamente difficili, compor-tandoci in maniera feroce, parassitica e antagonista.

Le tecnologie di vario tipo, incluso quelle per il ri-spetto dell’ambiente, hanno le potenzialità per fornireabbondanza a tutti. Questa abbondanza minaccia lo

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scambio perché lo rende inadeguato e inutile. La praticadel dono in una situazione di abbondanza può provve-dere a tutti, e l’abbondanza è necessaria per una praticadel dare efficace che migliori l’esistenza di tutti. Il dareforzato, nell’abbondanza, così come appare nello scam-bio e nelle gerarchie, non ha ragione d’essere perché ibisogni possono sempre essere soddisfatti da una molti-tudine di fonti già disponibili.

Le gerarchie vengono usate per ricreare continuamentela scarsità dirottando la ricchezza in eccesso. Esse manten-gono così lo scambio come modalità di distribuzione pertutti. Si combattono guerre per contrastare le minacce allegerarchie e ai mercati da parte di altre gerarchie e altrimercati. Queste guerre distruggono le risorse, creando pe-nuria, e assicurando così la continuazione di un ambienteadeguato allo scambio. Prepararsi alle guerre e spendere ildenaro in armamenti ad alta tecnologia e per il sostegno dipotenti forze armate esaurisce l’economia civile in “tempodi pace”, in modo che l’abbondanza non accumula.

Eppure sembra accadere l’inverso. L’occupazionenelle industrie di guerra nazionali è altamente visibile elucrativa e sembra “contribuire” all’economia. Ma que-sti sono lavori che non producono nulla, doni che van-no dalla gente ai lavoratori nelle industrie di guerra; so-no pagati dalle tasse e, volti a proteggere il gruppo o ilsistema, sembrano avere la generalità e rilevanza socialea cui tutti aspirano nella società. Sfortunatamente, icontenuti di quella generalità non sono le pratiche dicura ma la diffusione di morte. I prodotti di quell’eco-nomia non fanno parte mai dell’economia del nutri-mento, e vengono invece usati per distruggere l’abbon-danza potenziale della co-muni-tà locale e globale.

La crescente spesa pubblica necessaria in tempo diguerra (e i doni di tempo, energia ed entusiasmo dati daicittadini patriottici per l’impegno nazionale) immettepiù elementi di pratica del dono nell’economia globale,

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che la stimolano (creando maggiore profitto) e permet-tono però di “usare” la produzione – distruggendola nelcombattere la guerra – così da non minacciare il sistemadello scambio, cosa che accadrebbe se restasse nell’eco-nomia creando abbondanza.

Le colonie e i territori conquistati forniscono il lavo-ro-dono (monetizzato al minimo) e le risorse che per-mettono ai pochi nei paesi colonialisti di accaparrareprofitto enorme, che può poi essere reinvestito come ca-pitale nelle industrie di guerra dei paesi colonialisti. Idoni vengono così da “altrove” e non minacciano l’eco-nomia monetizzata “sviluppata” con la loro presenza ab-bondante, perché possono essere velocemente riciclatiin una produzione superflua: gli armamenti.

Adesso, nonostante la distanza geografica, il Nord hatrovato che fosse utile creare la scarsità nel Sud median-te la Banca Mondiale e i prestiti del Fondo Monetario,la riconversione strutturale e lo sfruttamento ambientaleintensivo. Questo permette di incanalare i doni dei moltiin modo ancora più accurato nelle imprese che noncreano quell’abbondanza che minaccerebbe il sistema.

Invece, il flusso di doni – la manodopera a basso co-sto (manodopera che è, in alta percentuale, un dono) ematerie prime a basso costo (anche con un alto quozien-te di dono) – crea un’abbondanza di beni di consumoalla quale ha accesso soltanto chi lavora nell’economiadello scambio a un certo livello, con la sua “domandaeffettiva”. Questi beni distinguono ancora una volta gli“abbienti” dai “non abbienti”. L’industria della comuni-cazione utilizza radio, televisione e computer per diffon-dere informazione, musica e immagini “gratuite”, i pro-dotti dei nostri doni artistici. Questi prodotti vengono“scelti” dal mercato e, quindi, contribuiscono general-mente non soltanto a vendere altri prodotti (modifican-do bisogni e desideri), ma anche a creare un consensointorno allo stesso sistema del mercato.

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Tutti questi risultati drastici derivano da un gran nu-mero di strutture auto-similari sovrapposte e male inter-pretate che convalidano la mascolazione. Dai governi al-la lingua, dalle economie alla religione, dall’esercito al-l’università, queste strutture si sovrappongono, si ripeto-no e si convalidano l’una con l’altra. Il modo in cui for-muliamo le nostre idee sull’esistenza, sull’essere e il pen-siero decontestualizzato convalida i maschi mascolati at-traverso l’affinità tra i loro processi e il processo dellamascolazione (che ha comunque origine nella denomi-nazione e nella definizione).

Lo scambio, come sostituzione della pratica del donocon la logica della sostituzione, pone la questione delmerito e la questione del potere, e dell’inclusione o del-l’esclusione dalla categoria alla quale si dà valore. Il no-stro affermare di “essere”, benché possa essere logica-mente e temporalmente antecedente allo scambio, con-valida lo scambio mediante la similarità e viceversa unavolta avvenuto lo spostamento. Molti dei diversi proces-si di sostituzione – la mascolazione, il verbo “essere”, loscambio, e i giudizi di corrispondenza e di merito – ade-riscono tra loro per formare una “realtà” che si auto-struttura e si auto-perpetua, una sorta di servomeccani-smo che, su molti livelli diversi, prende il posto e so-praffà un mondo basato sul dono sempre presente e an-cora possibile.

La “nuova” realtà sembra essere più valida, più“reale” rispetto a quella originaria che, ciononostante,continua a sostenerla. Anche se ignorato, il processo deldono, come un’ostrica che trasforma in perla un granel-lo di sabbia, continua a dare alla dura realtà dello scam-bio, rendendolo un cammino percorribile e umanizzan-dolo (fino a un certo punto). Lo status quo mascolato,con le sue gerarchie e gli uni privilegiati, viene mante-nuto dai doni delle donne e degli uomini sia all’internoche all’esterno. Come quello che è, sembra meritare diesistere più di ogni alternativa possibile (le realtà alter-

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native delle popolazioni cosiddette “primitive”, adesempio) e noi lo nutriamo.

Nel frattempo, per non essere da meno dei donatorinascosti, chi ha avuto successo nell’economia delloscambio compensa talvolta il proprio egoismo dispen-sando un po’ di carità (generalmente non abbondante)alle classi povere, o proponendo soluzioni tendenzioseai problemi sociali che lui stesso ha contribuito a creare.Ad esempio, ho sentito recentemente di una propostaper cui i bambini di madri con sussidio dovrebbero es-sere mandati in orfanotrofio, come se per occuparsi deibambini possano essere migliori degli “esperti” profes-sionisti pagati dalle istituzioni invece delle madri single.Dopo aver ridotto le madri in estrema povertà, renden-do quasi impossibile le pratiche di cura, i politici e i“pensatori sociali” propongono di prendere il loro po-sto con un altro modello paternalistico monetizzato.

La ricompensa, per questi pensatori, sta nel “dimostra-re” che il modello mascolato è non solo più efficace maanche più compassionevole delle madri che curano i figlidirettamente. La pratica materna diventa un altro lavorodal quale le donne possono essere licenziate, con il poteresull’inclusione o esclusione dalla categoria data ancora unavolta agli uomini e alle istituzioni mascolati. L’identità del-le madri come donatrici di doni non viene riconosciuta e,anche se il loro lavoro non è monetizzato, può essergliportato via. Derubate dei loro figli, sono anche privatedella loro identità donatrice e della loro identità delloscambio. Non hanno modo di creare un’identità né di me-ritare di esistere. Non avendo alcuna possibilità di masco-lazione data dall’accesso alle categorie superiori, questedonne danno alle categorie privilegiate per contrapposi-zione, e ricevono una punizione per essere mancanti. Que-sta punizione mitiga la paura e l’invidia degli aventi facen-do espiare alle donne il loro crimine, che sta nell’aver pro-posto il modello di pratica materna senza gli uomini.

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Lo Stato interviene di fatto come sostituto del padre,offuscando ancora una volta il modello della donna. Siacome governo assistenziale capitalista, sia come gestionedelle risorse di uno Stato socialista o comunista, la leggeo la carità dei padri collettivi dequalifica e spesso di-strugge la realtà di un’esistenza del dare.

L’extraterrestre in visita sulla Terra rimarrebbe col-pito dal fatto che le donne svolgono circa il 60 percento dell’attività agricola mondiale mentre possiedo-no circa l’1 per cento delle proprietà globali. Le fem-ministe pensano di solito a questa curiosa sproporzio-ne in termini di giustizia, pensano cioè di realizzarecambiamenti perché le donne abbiano la stessa quan-tità di proprietà degli uomini. Vorrei suggerire che laragione per cui le donne possiedono così poca pro-prietà è che hanno un modo diverso di relazionarsicon l’ambiente che le circonda. Dobbiamo smantellarele strutture del patriarcato, incluso le strutture dellaproprietà basate sulla mascolazione, e proporre unmodello di proprietà femminile basato sulla praticadel dono.

Esiste la pratica del dono?

Il denaro è il mezzo per soddisfare il bisogno co-mu-ni-cativo, nella comunità di coloro che scambiano, deipossessori di proprietà privata. Il valore di scambio è lapertinenza dei prodotti a una comunicazione mutua-mente esclusiva contraddittoria. Come il verbo “essere”,il denaro sostituisce l’atto di sostituzione di un prodottocon un altro.

Io credo che il valore comunicativo delle cose siesprima nelle parole, che prendono il loro posto comedoni nel creare i legami umani. Le parole possono ancheessere viste come dotate di un valore posizionale relativo

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l’uno all’altro nel sistema della langue. Se tipi di cosenon fossero continuamente pertinenti per gli esseri uma-ni, non entrerebbero in relazione con le parole quali lo-ro nomi (anche se si potrebbe parlarne comunque condelle frasi)9. Quindi, la ragione per cui ognuno di noi hadelle parole che gli sono state date dagli altri, è che que-ste sono in uso in una collettività che è composta damolti altri, che non conosceremo mai.

Il valore di qualcosa per la collettività è al di fuoridell’interazione comunicativa individuale e al di fuoridella transazione dello scambio di denaro individuale; èrealmente per gli altri. L’identità di un’unità culturale sipuò trovare nel suo dono sostitutivo verbale, al di fuoridell’interazione comunicativa individuale, nella colletti-vità. Per la determinazione quantitativa di un prezzo ilcaso è analogo: il prezzo viene determinato in base al va-lore che il prodotto ha per altri nella società che noi nonconosceremo mai. Se guardiamo al valore qualitativodelle cose per la comunicazione espressa in parole, e alvalore quantitativo delle cose per il tipo di comunicazio-ne contraddittoria che è lo scambio materiale, espressoin prezzi, e li correggiamo con la differenza tra il valorequalitativo e il valore quantitativo, possiamo capire ilmeccanismo di entrambi.

In entrambi i casi, infatti, è l’importanza delle coseper la comunità che li porta in primo piano nella no-stra conversazione, o in primo piano nel mercato. Essisono “per altri e quindi anche per me”. I gatti si chia-mano “gatti” in italiano perché per ognuno di noi sonociò che sono per gli altri; un barattolo di caffè costa 5Euro anche perché è così per gli altri. Quando la som-ma che gli altri daranno per il caffè cambierà, cambieràanche per ciascun individuo. Possiamo guardare al va-lore delle diverse parti che compongono il caffè, ilprezzo dei chicchi pagati al coltivatore di caffè, il prez-zo della manodopera pagato ai lavoratori, il prezzo del

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trasporto dei chicchi, la macinatura, il prezzo del ba-rattolo ecc.

Ognuna di queste parti, così come altre parti che pos-sono comporlo, dipendono da ciò che quella parte è“per gli altri”, ciò che gli altri danno per essa. Per ognitransazione linguistica o economica, l’identificazione diciò che qualcosa è dipende da ciò che è per la collettività– per i molti – al di fuori della stessa transazione. Abbia-mo parlato del verbo “essere” quale sostituto dell’atto disostituzione, e del denaro che segue un processo simile.Per gli ambiti linguistico ed economico, qualcosa è vali-do quando è abbastanza importante per la collettività daavere il suo posto preso da una parola quale suo nome,da “è” quale sostituto di quell’atto di sostituzione, o daun altro prodotto in scambio e dal denaro come suoequivalente nella quantità espressa dal prezzo.

Sia il linguaggio che lo scambio lasciano la praticadel dono comunicativa fuori dal centro dell’attenzione(in particolare quando il valore di scambio è diventatol’esemplare del valore) e questo avviene nella mente col-lettiva. Gli aspetti del dono nella vita rimangono relati-vamente inconsci e non discussi. I doni che prendono-il-posto-di-doni (per esempio nel linguaggio) sono stati as-similati allo scambio (che è un vero e proprio modellomagnetico) e alla definizione influenzata dalla mascola-zione. Per questa ragione, il valore della pratica del do-no non viene riconosciuto collettivamente; non vienequasi nominato10. Sarebbe un paradosso dire che la pra-tica del dono ha valore: il valore è l’esistenza di qualcosaper la collettività, e l’esistenza della pratica del dononon è riconosciuta dalla collettività.

D’altra parte, se guardiamo sia al verbo “essere” sia aldenaro come sostituti dell’atto di sostituzione, possiamoconstatare che la pratica del dono – che non viene sosti-tuita – sembrerebbe ragionevolmente non pertinente peril linguaggio né valida per lo scambio. Così, se il linguag-

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gio e lo scambio richiedono entrambi la sostituzione peraffermare l’esistenza o il valore, allora la pratica del do-no, che non implica la sostituzione, può sembrare inesi-stente o priva di valore. La mascolazione, al contrario,che è una costruzione di sostituzioni auto-similari, sem-bra esistere e avere valore. Non sorprende che attragga imolti doni che non vengono dati alla pratica del dono.

D’altra parte, sia l’“essere” che lo scambio per dena-ro sono influenzati e “afflitti” dalla mascolazione, chereinserisce il principio di sopraffazione nella definizionee nell’economia, così che “essere” o “aver valore” sem-brano implicare la sopraffazione o anche essere l’uno ol’esemplare. Ancora una volta, nessuna di queste cose èper “colpa” nostra. Queste contraddizioni sono dovutesoprattutto a grovigli logici.

Quindi il verbo “essere” e il denaro riflettono il po-tere che abbiamo dato al linguaggio per allontanarcidalle nostre madri e dalla Madre. Non consideriamol’“essere” o il “valore” pertinenti per la sostituzioneperché neghiamo la realtà di ciò che è stato sostituito,così come neghiamo la madre (e la terra) come modellosostitutivo, come se non esistesse (specialmente se l’esi-stenza ha a che vedere con la sostituzione). Noi dimen-tichiamo (for-get) che la madre è attiva e che dà attiva-mente e cede il passo compassionevolmente. La nostrastruttura originaria viene dalla pratica del dono ma, perla mascolazione e per le cure date a chi è stato mascola-to e ai suoi processi, impariamo a dare valore agli aspet-ti definitori del linguaggio e della vita – la sostituzione,l’avere, il mantenere lo scambio e l’“essere” – inveceche agli aspetti del dare.

La madre non deve cedere il passo. Se la madre noncedesse il passo, potremmo riformulare la nostra visionedel mondo e constatare quanta vita sia già nella sua mo-dalità del dare doni. Potremmo vedere le cose come do-ni della Madre Terra – non solo come prodotti dei nomi

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dominanti di Adamo – e le tratteremmo perciò con lacura di cui hanno bisogno se non devono essere distrut-te. Molti di noi lo stanno già facendo, apprezzando i do-ni della natura, della cultura, della sincronicità, la buonavolontà e lo stesso dono della vita. Ciò che sentiamo co-me immanenza dell’“essere” è in realtà il risultato dellanostra modalità ricettiva-creativa rivolta con gratitudineverso i doni della vita e della terra, nella sospensione(momentanea) dell’angosciosa mediazione del linguag-gio e dello scambio.

Forse potremmo vedere la comunità come partedella Madre, che dà valore alle cose in quanto cose chedanno a noi e danno valore a noi, e alle cose che dannovalore ai propri nomi, che noi diamo poi l’uno all’altro,dandoci valore. La terra comunicherebbe con noi at-traverso i suoi frutti e il canto degli uccelli, i nostri cor-pi e i nostri sé donanti; parteciperemmo a una relazio-ne co-muni-cativa con la natura. Adesso il modello del-la comunità è formato di proprietari mutuamenteesclusivi uno-molti con le loro proprietà, che danno ase stessi un valore-come-posizione e screditano le cate-gorie dei “non abbienti”.

La proprietà, che ha a che vedere con la pratica deldono (la proprietà che può essere data e ricevuta), è di-versa dalla proprietà privata che passa attraverso loscambio. Possiamo creare una relazione di cure con laproprietà, invece che una relazione di dominazione.Forse il paradigma del dono comporterebbe un tipo diproprietà più leggero, più simile alla proprietà dei no-stri corpi che (in una condizione di sicurezza) sono es-senzialmente condivisibili ma che generalmente per ilmomento non vengono condivisi. Avremmo una rela-zione di “amicizia” con la proprietà, di uso, gratitudinee gestione rispettosa. Potremmo considerarla secondo ilmodello del seno, non del pene, come la proprietà diqualcosa che può dare in un processo in divenire, inve-

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ce che la proprietà di uno strumento penetrante o diuna “marca” che ci pone in una categoria superiore.

Un modello femminile darebbe attenzione ai bisognie, nell’abbondanza, i bisogni potrebbero proliferare invarietà e specificità. Includerebbero anche i bisogni psi-cologici di sicurezza e di un legame amichevole conl’ambiente che ci circonda, e chi cura qualcosa sarebbecolei (o colui) per la quale la cosa è. Nell’abbondanza, ilbisogno di proprietà sarebbe meno intenso di adessoperché il non-avere comporterebbe semplicemente che idoni verrebbero da un’altra parte. Quando l’avere e ilnon-avere non sono più investiti psicologicamente degliincubi infantili, la legge e la retribuzione non sarannopiù “necessarie”; neanche lo Stato avrebbe più ragionedi essere, o non gli sarebbe permesso d’intervenire comepadre-proprietario della collettività.

Attualmente, il tipo di proprietà che comporta il con-dividere con serenità e il trarre piacere dalla natura edalle sue risorse abbondanti è generalmente riservata alricco come ricompensa per avere di più. Il punto non èimpedire a tutti, incluso al ricco, di godere dell’abbon-danza della natura e della cultura, ma di estendere que-sta possibilità a tutti. Tutti noi dobbiamo capire quantola nostra società sia rimasta profondamente stregata dal-l’incantesimo di una psicosi collettiva. Dobbiamo curar-la e curarci urgentemente.

Le culture delle popolazioni indigene hanno usato eusano in molti casi il modello materno e la modalità deldare, molto più della nostra. Sarebbe interessante scopri-re fino a che punto questi popoli hanno integrato i mec-canismi linguistici alla loro pratica del dono e quali tipidi proprietà propongono. Gli irochesi, una società ma-triarcale in cui un consiglio composto di donne aveva unimportante potere decisionale e che usava la parola per“donna” (invece che una parola per uomo) per dire “es-sere umano”, davano nomi propri diversi a ogni membro

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tribale; un nome veniva usato soltano quando la personache lo aveva moriva. I nomi dei membri tribali costitui-vano perciò una langue, e potremmo considerare i mem-bri della tribù come le “cose” con valore sociale – unacultura, un mondo – in relazione a quelle parole. Nel pa-triarcato europeo – o puerarchia – abbiamo fatto diven-tare cose alcune persone: le donne; e altre persone, paro-le: gli uomini, e noi mediamo tra le loro “proprietà” chehanno valore sociale con il “denaro-parola”.

La nostra condizione patriarcale non è certamente ilmodo più razionale di organizzare la società, rispetto al-la società degli irochesi fondata sul governo delle donne.Tutte le diverse culture che esistevano prima di esseresopraffatte, distrutte e ridefinite dall’Uomo Bianco e daisuoi sistemi erano esperimenti socio-economici intrapre-si dai molti. Alcune di esse davano valore alle madri e al-la pratica del dono comunicativa e simbolica; e da que-ste possiamo imparare modi di vivere alternativi.

Nella modalità del dono, “essere” è in realtà co-mu-ni-cazione con la terra o con altri umani, e di fatto noistiamo ancora moltissimo nella modalità del dono, no-nostante la nostra partecipazione allo scambio. Il no-stro stesso fare esperienza implica ricevere percezionisensoriali e informazioni, dando degli scopi ai datiesperienziali nei bisogni che possiamo soddisfare; chesiano i bisogni di altri, i nostri, o i bisogni dell’ambien-te che ci circonda. I bisogni crescono in funzione deimezzi che esistono per soddisfarli; l’orecchio si abituaal tipo di musica che ascolta. Alcuni bisogni sono piùfondamentali di altri, ma anche questi si diversificanoin gusti e preferenze per i diversi mezzi che li soddisfa-no, i diversi doni che forniscono Madre Cultura e Ma-dre Natura.

L’esistenza delle donne non consiste in cedere il pas-so o essere possedute o possedere, ma in una relazionecompletamente diversa con il mondo (e con la pro-

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prietà); una relazione che potenzialmente non è mutua-mente esclusiva ma ha la sua “destinazione” nel bisognoe nell’altro. I confini sono resi necessari solo dalle lottetra gli “uno-molti” per essere “esemplari” più grandi. Sedessimo valore ai bisogni, riconoscendo e apprezzandola loro complessità, potremmo anche riconoscere e sod-disfare i bisogni reciproci di avere e di essere indipen-denti. Le cure delle donne si estendono ovviamente al-l’ambiente circostante. Dare valore ai bisogni su tutti ilivelli ci permette anche di dare valore ai bisogni genera-li su larga scala.

Oggi il bisogno di curare il pianeta è un bisogno del-la collettività, ed è affrontato collettivamente senza,però, passare per il modello umano materno. Molti dinoi si preoccupano della Madre Terra ma consideranoinutile la pratica umana materna. È nel dare e ricevere lapratica materna, tuttavia, che possiamo trovare il model-lo per vivere in pace l’uno con l’altro, per poter fermarela sopraffazione e la distruzione della Terra.

Se potessimo sminuire l’economia dello scambio e lesue motivazioni di avere e non-avere originate dall’invi-dia della castrazione, potremmo vivere in armonia conuna sorta di proprietà semi-privata, che sarebbe anchepertinente per la collettività come ambiente. I boschinon sarebbero più preziosi per le compagnie forestaliche li possiedono, ma lo sarebbero per gli umani e glianimali che li abitano e che usano i loro doni diretti conrispetto e gratitudine, avendone cura. I boschi trasfor-mati in tronchi d’albero non soddisfano un bisogno rea-le della collettività, ma solo il bisogno di profitto delproprietario privato. Il bisogno dei compratori con la lo-ro domanda effettiva deve essere creato, ma esistono al-ternative alla trasformazione degli alberi in carta igieni-ca, bastoncini per mangiare, o materiali da costruzione; ibisogni della gente possono essere educati verso di essee verso il bene collettivo e ambientale.

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Invece, su larga scala, lo scambio capitalistico usa lacollettività come un mezzo per soddisfare il bisogno ditutti del mezzo di comunicazione economica: il denaro.Il bisogno di profitto è astratto; abbiamo tutti bisognodella stessa cosa, e questo bisogno unitario comune di(più) denaro distorce la nostra prospettiva dei bisognidegli altri. Il valore del denaro è come il valore linguisti-co di ogni cosa, dell’“essere”, visto come sostituzione(sopraffazione), non come immanenza del dono.

Il nulla non è l’opposto dell’essere. L’opposto del-l’essere implica una reinterpretazione del verbo “esse-re”, che comprende una co-muni-cazione non-segnicacollegata al linguaggio attraverso il processo del donoche soddisfa i bisogni, non attraverso la sopraffazione ola sostituzione e il cedere il passo. Analogamente, l’op-posto della relazione di proprietà uno-molti11 non è ilnon-avere, ma la proprietà gentile basata sulla donna. Acausa della mascolazione, una relazione nutrice di ab-bondanza con la proprietà sembra essere un premio de-gli “abbienti” privilegiati; e analogamente, una moglienutrice sembra una ricompensa data agli uomini per ilfatto di essere uomini. Tenere la proprietà lontana daglialtri ci rende incapaci di ricevere e di trasmettere il suovalore, e incapaci di apprezzare la sua pertinenza perun collettivo che potrebbe condividerla. Secondo la lo-gica linguistica, la proprietà è per noi stessi e, dunque,non per gli altri e dunque… neanche per noi. Quandomanteniamo qualcosa nel sistema di proprietà privatamutuamente esclusiva non possiamo imitare con essa ilmodello materno.

Di recente negli USA sono diventati popolari i reso-conti sui cosiddetti popoli “primitivi”, perché descrivonomodi di vivere centrati sulla pratica del dono, che hannouna fonte spirituale. La storia degli aborigeni australianiche viaggiano per l’entroterra senza provviste, la cui so-pravvivenza dipende dai doni del creatore – che ricevono

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– è un esempio di modo di vita basato sul dono (anche sein questo caso in una situazione di scarsità). Queste sto-rie diventano popolari negli USA perché indicano un at-teggiamento che ha un effetto curativo per noi, nono-stante pratichiamo un’economia che lo contraddice.

Le religioni e le terapie della New Age professano lagratitudine per le benedizioni che riceviamo, ponendociin una struttura di dono. A questo punto sorgono alcu-ne domande: “Possiamo curarci individualmente o spiri-tualmente mentre la società a cui apparteniamo saccheg-gia la terra e distrugge la stessa gente che ci ispira con lasua fede e i suoi sistemi alternativi?”; e “le nostre cureindividuali possono cambiare il paradigma, invece dirinforzarlo assimilando individualmente alcuni dei suoiprincipi?”. I nostri tentativi di curarci individualmente espiritualmente devono essere collegati ai tentativi di cu-rare la collettività e il pianeta.

Al contrario, anche chi tenta di curare la collettività,come il movimento femminista, i movimenti di “sini-stra” per un cambiamento sociale ed economico e il mo-vimento ambientalista, devono passare per la cura indi-viduale. Il modello della madre esiste sia sul piano col-lettivo che su quello individuale. Il paradigma del dono,con la pratica materna quale sua portatrice, è la normafunzionale e poetica a cui la società può tornare.

Secondo la logica della scambio, il sistema di pro-prietà delle donne merita di esistere per via di quelloche ha già contribuito alla comunità. Se vogliamo spo-stare il paradigma verso questo sistema, però, non pos-siamo usare la logica dello scambio, ricreando una mo-dalità del contraccambio. Dimenticare (for-getting) lamadre vuol dire abbracciare lo scambio, allontanarsidalla madre mettendo qualcos’altro al suo posto. Quan-do dimentichiamo (for-get) non per-doniamo (for-give) lamadre e la modalità della madre. Dobbiamo invece per-donare tutti uniformemente perché il sistema del dono

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funzioni; e dobbiamo lasciare le nostre definizioni su unpiano verbale invece che incarnarle.

1 I prezzi costituiscono un sistema differenziale come la langue di Saussu-re, però organizzata secondo la quantità in una progressione numerica inveceche secondo la qualità.

2 Alcuni linguaggi non usano specifici pronomi di genere. Altri estendo-no, in modo compassionevole, le distinzioni di genere a tutti i sostantivi, co-me per confortare i bambini mostrando loro che ogni altra cosa è anche simi-le a, o diversa dalla madre, e che questo ha poco rilievo rispetto al loro valore.

3 Si dimentica spesso che la definizione nel suo insieme è un servizio cheviene svolto da un parlante o scrittore per un ascoltatore o lettore, e così larelazione tra prevaricare e cedere il passo sembra che abbia luogo tra le paro-le in sé, senza l’intervento umano. Il valore viene dato alle parole e viene datol’uno all’altro dagli interlocutori “dall’esterno” della frase, ma generalmentequesto aspetto non viene considerato.

4 Nel linguaggio, il bisogno comunicativo è un elemento determinante. Ivalori astratti dell’equazione sembrano essere più simili a quelli della perce-zione: percezione X = percezione Y, sembrerebbe un contenuto adatto perun’equazione. Ma non c’è bisogno però di parlare di questa equazione connoi stessi o con gli alti nella nostra vita quotidiana, perché lo sappiamo già. Inostri apparati percettivi funzionano. Ciò che percepiamo è generalmente giàun dato, rispetto alla nostra coscienza di esso. I nostri bisogni comunicativisorgono in relazione agli altri, riguardo le percezioni a cui noi stiamo dandoimportanza e la loro rilevanza per le collaborazioni, gli accordi, le idee perso-nali o collettive, i miti, le storie, le concezioni del mondo ecc.

5 Quando si stabilisce un ordine gerarchico in cui un maschio divental’“esemplare” o prevaricatore rispetto ad altri maschi, chi cede il passo puòancora mantenere la sua identità come “esemplare” e prevaricatore riguardoalla propria moglie e ai propri figli.

6 Anche il “valore-lavoro” di Marx può essere visto come una porzione divalore di dono intrappolato nel processo di definizione dello scambio e filtratoattraverso di esso. Se il lavoro potesse soddisfare direttamente i bisogni, risul-terebbe nella co-muni-cazione e attribuirebbe valore alle persone. Tuttavia,dato il mercato, il lavoro speso su un prodotto è espresso relativamente al la-voro speso su tutti gli altri prodotti mediante l’equazione del valore, come va-lore di scambio. In questo, è come una cosa relazionata a una parola (divisaquantitativamente). Marx non ha incluso nessuno degli altri doni dati al pro-cesso lavorativo – il lavoro delle donne in casa, i doni dei prezzi più alti o piùbassi o i doni della natura – che di fatto contribuiscono al valore del lavoro.

7 Analogamente, l’equivalenza tra lavoro e denaro scaturisce dalla distri-buzione che nega e nasconde il donare.

8 Forse l’homunculus, l’omino che i filosofi immaginano stia dentro le no-stre teste e riconosca regressi infiniti, è l’immagine interiorizzata del fallo checorrisponde a ogni cosa che è nella posizione di “esemplare” ovunque. Ma,come i filosofi hanno capito, è solo una nostra immaginazione, un riflesso di

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riflessi. Loro hanno pensato che, se la conoscenza è basata sul riflesso dellarealtà, e abbiamo una certa immagine della realtà in mente, dovremmo rico-noscere quelle immagini e, perciò, avere immagini di quelle immagini. Nellenostre menti ci sarebbe quindi un certo tipo di omino con immagini delle im-magini e un omino nella sua mente con ancora altre immagini ecc. Ciò a cuinon pensano i filosofi è che l’homunculus dovrebbe essere sostituito da unadonnina (o meglio, una piccola madre, una matericula). Invece di starsenesemplicemente seduta a immaginare, di riconoscere l’immagine del bambi-no/a che piange, una madre riconosce il bisogno e interviene: fa qualcosa alriguardo (gli/le dà da mangiare, ad esempio). Quindi, se ci fosse la matericulanelle nostre menti, riconoscerebbe l’immagine del bambino/a che piange masentirebbe il bisogno di fare qualcosa in più, di soddisfare cioè i bisogni chel’immagine le ha suggerito. La matericula e l’homunculus gestirebbero in mo-di diversi il divario tra interiorità ed esteriorità. Questo perché riconoscere lesimilitudini è più statico, meno informativo, rispetto al processo di soddisfa-zione dei bisogni. Così, quando soddisfare i bisogni viene trasferito in unoscenario interiore, il processo può rimanere attivo. L’homunculus è totalmentedipendente dalle cure della matericula, perché non può fare altro che rifletter-si. Non sembra però creare immagini di matericula, né nella “propria” mentené nel mondo esterno. Forse lei si muove troppo velocemente per lui; forselei si muove tanto velocemente quanto una scarica elettrica da una sinapsi al-l’altra. Infatti, non potremmo vedere l’attività cerebrale in termini di dare, diun movimento che va da un’abbondanza verso una carenza? In questo caso,non staremmo facendo qualcosa sul piano fisiologico che più o meno si ac-corda con ciò che stiamo facendo sul piano linguistico e nel mondo esterno?Forse chi è interessato/a alle questioni cervello-mente potrebbe cercare disoddisfare i suoi bisogni con questa teoria-cinematico della realtà (moving-picture theory of reality).

9 Sebbene la relazione fondamentale delle parole fra di loro nella languedi Saussure sia quella di esclusione mutua puramente differenziale, esse han-no invero alcune similitudini coi complessi di Vygotsky.

10 Ad esempio, ho avuto qualche difficoltà nell’usare termini come nurtu-ring (“pratiche di cura”, “nutrire”) o mothering (“pratiche materne”), che siriferiscono troppo all’infanzia.

11 Incluso la proprietà “uno-molti” dello Stato.

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Capitolo quindicesimoIndicare e patriarcato

Il processo di engendering (“procreare, generare”) –che in inglese significa più o meno “portare alla realtà”– è un atto di pratica del dono precedente al genere. Ildono è il bambino vivente; poi il maschio viene dato“via” perché riceve ciò che sembra un “dono” materiale,che non viene dato alle femmine, per il quale gli vienedato più valore. Il “dono” che privilegia chi lo possiedesin dall’inizio è il pene. Riesaminare lo stadio edipico diFreud dal punto di vista del paradigma del dono con-sentirebbe questa interpretazione. Ma il bambino, cosìpiccolo, non è adatto a “ricevere” creativamente la pro-pria superiorità sociale; nella sua mente devono sorgeremolti dubbi in proposito, come ipotizzava Freud.

Tutte le possibilità logiche implicate in questo “do-no” e nella fonte del dono sono problematiche. Se venis-se dalla madre, lei avrebbe dato ciò che non aveva, op-pure avrebbe dato il proprio; se venisse dal padre, luiavrebbe dato ciò che non ha perso. Visto che il pene è la“proprietà” che toglie il bambino alla categoria dellamadre donatrice, lui rinuncia a moltissimo per averlo(cede il proprio potenziale umano di pratica del dono).

Infatti è la sua continua esperienza delle pratiche dicura che dà un contenuto a qualsiasi categoria possa for-mare il bambino, inclusa la sua stessa identità. Dirgli cheappartiene a una categoria non nutrice lo definisce ester-no al processo vitale che sta vivendo. Le definizioni e i

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modelli della mascolinità sono tentativi di dare un conte-nuto alla categoria di genere maschile dove, al di fuoridel nutrimento, c’è ben poco contenuto. La strutturastessa della definizione e della denominazione diventa laspina dorsale dell’identità mascolata come ideale sociale.

Ci sono poi molte varianti individuali a questa storiae, fortunatamente, le cose cominciano a cambiare. Oggi,grazie al femminismo, molti uomini hanno scelto di par-tecipare alla cura dei figli. Donne più forti e più consa-pevoli, minore enfasi sulla mascolinità in alcune famigliee nuovi modelli di un ruolo paterno che nutre, stannocambiando l’educazione dei bambini negli USA e altrove.L’eredità della mascolazione nella società è forte, però, econtinua a essere incorporata nelle strutture sociali e dalì a ritrasmettersi nella famiglia. Temi di violenza e didominazione maschili pervadono il nostro immaginarioin televisione, nel cinema e nella realtà; si continuano aperpetrare stupri, aggressioni e omicidi contro donne ebambini. Dietro un’apparenza benefica si nascondonoorrori segreti: padri “perfetti” violentano e torturano iloro figli in casa; la School of the Americas addestra sol-dati stranieri alla tortura e al fascismo; la CIA destabilizzagli Stati con la corruzione, le torture e gli omicidi. Con-tinuando a donare ai pochi, si continua a creare la po-vertà endemica, che porta alla morte di milioni di perso-ne; si continuano a combattere guerre, devastando viteumane in tutto il pianeta; l’inquinamento a lungo termi-ne, causato dalle grandi imprese e dalle guerre, degradaquotidianamente l’ambiente.

A parte qualche eccezione di minore mascolazione allivello individuale, l’imponente meccanismo sociale delpatriarcato sta danneggiando tutti e deve essere radical-mente cambiato. È verso questo meccanismo che le don-ne e i loro alleati uomini che si prendono cura degli altridevono rivolgere la loro attenzione. Tutti dobbiamo capi-re come funziona questo meccanismo per riuscire a cam-

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biarlo; e per capirlo dobbiamo osservarlo, anche se ciòche scopriremmo potrebbe causarci sconforto. Altrimen-ti, anche con tutta la buona volontà, rischiamo di ricrearele sue parti e le sue strutture. Ad esempio, anche gli uo-mini consapevoli potrebbero riproporre senza volerlo larelazione uno-molti impressa così profondamente nellanostra società: prendendo il posto delle donne come mo-dello, ricreano la stessa struttura del problema; le donne,lasciando che il loro posto venga preso, fanno lo stesso.

Icona e indice1

Qualche anno fa, mentre riflettevo sulla strutturaconcettuale uno-molti, mi sono imbattuta nel lavoro diTran Duc Thao (1973), un filosofo vietnamita che crede-va che il linguaggio derivasse dal gesto dell’indicare. Ap-plicandolo alle questioni di cui mi stavo occupando, hoscoperto una cosa ovvia: mi sono accorta che indicare èun gesto uno-molti, che mette in primo piano un’unitàdi un tipo, il dito indice, e mette allo stesso tempo sullosfondo altre unità dello stesso tipo, le altre dita. Perciò,indicare è in realtà un’icona, una rappresentazione cine-stetica, tattile e visiva della relazione tra l’esemplare e leunità relative nella formazione del concetto. Provate aindicare con l’indice, capirete cosa voglio dire.

Il gesto ha due funzioni: ci induce a selezionare qual-cosa da uno sfondo fatto di altre cose, e di vederla comeuna cosa potenzialmente nominabile o condivisibile, co-me “uno” di un certo tipo di cosa. L’indice suggerisceuna relazione uno-molti esterna in una sorta di proiezio-ne “questo è qui – e là” della sua stessa immagine (v.Fig. 24). Portare qualcosa di esterno in evidenza è con-validato perché condivisibile (e comprensibile) come re-lazione tra un’unità e altre dello stesso tipo, e tra un’u-nità e uno sfondo. Comunque è condivisibile anche per-

INDICARE E PATRIARCATO

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ché ognuno di noi sta dando la propria attenzione allastessa cosa. C’è una specie di proiezione dell’icona uno-molti sul mondo che sta oltre la nostra mano, come sel’unità che si stava indicando stesse rispondendo alla in-dicazione (pointing back). Pensavo a Dio e Adamo nellaCreazione di Michelangelo (v. Fig. 25).

Questo mi ha portato anche a pensare che identifichia-mo il pene con il dito indice, come se fosse un altro indice.Diamo al bambino il nome “maschio” perché ha questoindice e le donne, comprese le madri, non ce l’hanno. Di-ciamo che appartiene a quella categoria perché è come ilpadre, o ha quell’indice, come il padre. Forse un’altra ra-gione della supremazia fallica è che noi attribuiamo (erro-

GENEVIEVE VAUGHAN

Figura 24. Indicare ripete come un’icona il processo del concetto elo proietta nel mondo.

Modello delconcetto

Ripetizione del modellodel concetto nell’indicare

Altre istanze della stes-sa parola

Parola

Parola

Esemplare

Esemplare

EsemplareCose di un tipo (le dita)

Indicare

Cose di un tipo

Cose di un tipo

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neamente) le caratteristiche dell’indice al pene. Se il penedel figlio viene indicato come unità, indicato come un “in-dicatore”, può sembrare un esemplare, già in una relazio-ne uno-molti con altre unità dello stesso tipo.

Quello del padre è certamente diverso, ed è più gran-de del suo, così che, nel confronto, deve essere l’esem-plare, e quello del bambino una delle unità della serie.La relazione tra i peni diventa quindi una relazionecompetitiva tra indicatori o indici esemplari, quelle coseche possono indicare altri esemplari, modellando la“realtà” a propria immagine.

Se oltre a questo consideriamo che il fallo è social-mente investito di superiorità in quanto segno della ca-tegoria privilegiata del “maschio”, possiamo constatareche l’affinità tra i genitali del padre e quelli del figlio haun grande significato. Il dito indice, il pene e l’esempla-re del concetto (in particolare l’esemplare di “maschio”e dell’“Uomo” mankind sono confluiti l’uno nell’altro.Viene dato troppo valore alla somiglianza, e soprattuttoalla somiglianza con il padre, perché lo strumento perselezionare gli esemplari – l’indice, che è un’icona dellasua stessa attività – viene identificato con la “marca” cheseleziona i maschi da uno sfondo di donne.

INDICARE E PATRIARCATO

Figura 25. Dio indica Adamo, Adamo risponde indicando.

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Il pene diventa così l’icona dell’indice e dell’esempla-re. Come icona dell’esemplare come tale, può generaliz-zarsi per essere l’icona di qualsiasi esemplare, e così l’i-cona del concetto stesso2. Mentre però tra le dita dellamano c’è già una relazione uno-molti, non è così nel ca-so del pene. Il membro di un individuo è perciò in unarelazione comparativa con quelli di altri maschi, e si sta-bilisce una competizione per essere scelto come la “mar-ca” della superiorità o per avere uno status di esemplaretra gli altri, diventando l’esemplare degli esemplari; sa-rebbe come dire: “Quale dito sarà l’indice?”.

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Figura 26. “Quella è una pesca!”.

indicando

esemplare

molte cosedi un tipo

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In realtà l’esemplare viene investito di superiorità inmodo falso. Nell’esperimento di Vygotsky, qualsiasimembro della categoria può essere usato come “esem-plare”. La polarità che viene stabilita per il concetto èsemplicemente funzionale alla ricerca della “caratteristi-ca comune”, e per trovarla l’esemplare deve essere simi-le alle altre unità, non superiore a esse.

C’è una contraddizione quando nel sesso l’uomopunta il proprio indicatore sulla “mancanza” di indica-tore della donna, e diventa più grande nell’erezione.“Avere” si identificherà quindi con l’avere il pene e l’in-dicatore, mentre “mancare” con la mancanza del pene,l’esclusione dalla categoria degli “esemplari”, e (in prati-ca) l’incapacità di ragionare concettualmente (la man-canza dell’indicatore esemplare sembra infatti implicareche non possiamo indicare point out “esemplari”)3. En-trambe le condizioni diventano erotiche per l’uomo, chedeve inscenare il proprio ruolo di genere mascolato inuno scenario di sopraffazione e cedere il passo4.

Mancare l’obiettivo (Missing the point)

Se le donne sono considerate mancanti del pene indi-catore, sembrerebbero allora non-verbali o pre-verbali,pre-concettuali, senza l’esemplare (corporale) del concet-to, e perciò anche senza parole, mute. Ciononostante,possono essere messe in relazione con il pene come molterispetto a uno, come nel caso di Don Giovanni, che deveindicare quante ne ha “avute”. Se le donne sono pre-ver-bali, forse sono soltanto le fornitrici di una euforia dipen-dente, nient’altro che cose, in opposizione alla parola in-carnata del padre. Il padre soppianta la madre, anche co-me esemplare dell’umano competente verbalmente; lamadre viene persino privata della capacità di dare il lin-guaggio ai propri figli. Forse, come pensavano gli antichi

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patriarchi, la madre è proprietà del padre, il suo “benemobile”, nient’altro che una cosa che trasmette meccani-camente la cultura, un recipiente vuoto, un meccanismoche consegna la parola, la cultura, la legge del padre.

La donna può mettersi in relazione con la parola co-me cosa, che dando al maschio e risaltando attira l’at-tenzione, fa in modo che lui la indichi; oppure, in quan-to “proprietà” dell’uomo, può farlo risaltare come cosaesemplare e “uno” privilegiato. La bellezza della donna,che fa sì che altri uomini la indichino, mette in evidenzal’uomo in quanto importante, perché “ha” lei. L’aspettopre-verbale è importante perché fa sembrare la curauna pratica solo infantile e debole. Questa è forse unaragione dell’abuso sessuale dei bambini da parte degliuomini? Pensate a Marilyn Monroe e al suo viso dabambina.

L’eguagliamento tra il pene e il dito indice potrebberafforzare la nostra convinzione che gli uomini siano gli“esemplari” del concetto “umano” e che noi donne nonpossiamo essere “esemplari” perché non abbiamo quel-l’indicatore. Ma il pene in realtà non è un indice, e non ènecessario per il pensiero concettuale. L’indice fa un la-voro migliore perché è un’icona migliore, visto che le al-tre unità della serie, le dita, fanno parte della stessa ma-no e vengono ritratte per permettere all’indice di indica-re. Quasi allo stesso modo collochiamo sullo sfondo al-tre unità nel contesto e altre unità della serie. E poi, l’in-dice è guidato dalla volontà.

Rendere il pene relativo ai peni di altre persone, co-me serie o come esemplare, pone la unità di uno in con-trasto e competizione con quelle di altri al di là di luistessi (v. Fig. 27). Visto che la situazione è la stessa an-che per gli altri, e visto che c’è un mandato di genereche impone di essere l’esemplare, gli altri di quel tipo, imembri di quella classe, possono sembrare pericolosi edi voler ferire o castrare il bambino maschio, così da eli-

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minarlo dalla competizione. Sembra forse essere succes-so proprio questo alle femmine.

I coltelli, le frecce, le pistole e altri simboli fallici chehanno a che fare con la morte hanno la capacità di eli-minare coloro che competono per lo status di esempla-re. Se pensiamo a come sono fatte le pistole, possiamoconstatare che l’indice viene spinto all’indietro per pre-mere il grilletto, diventando per un istante una dellemolte dita sullo sfondo della mano del tiratore, e per-mettendo alla pistola fallica con il suo indice-proiettileletale di prendere il suo posto, indicando la morte del-l’altro, pronunciando ad alta voce la “parola” che, comela denominazione di genere, pone l’altro nella categoriaaliena non-comunicante e non-indicante dei morti. Misono sempre interrogata sul doppio significato della pa-rola inglese arms (“braccia” ma anche “armi”). Adessocapisco che le arms sono quelle cose che terminano conindicatori mortali ma noi, nel nostro diniego, obbedien-ti, non cogliamo il punto (do not get the point).

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Figura 27. Competizione tra i membri della categoria degli “1” indici.

I falli sono analoghi agli indici, ma sono in competizione per essere“uni” privilegiati tra gli uni. Anche se il pene è la marca della categoria“maschile” privilegiata, ognuno ha il mandato contraddittorio di con-quistare lo status di esemplare sopraffacendo gli altri “uni”. La relazioneuno-molti viene inscenata nella competizione tra gli uomini, invece diessere solamente esemplificata dalle dita della stessa mano.

Esemplare “uno”

Molti “uni” relativi

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Il saluto “heil Hitler” è forse l’apoteosi negativa dellarelazione tra il singolo pene esemplare (“superiore”) e imolti. Hitler usava quella “marca” per manipolare ilprocesso uno-molti, facendo di se stesso il sedicente“esemplare” della categoria “tedesco” o “ariano”. Lo fa-ceva per riunire i molti allo scopo di annientare violen-temente altre categorie umane, nel tentativo di diventarel’esemplare del concetto della razza umana (v. Fig. 28)

Il pugno stretto sollevato mostra forse l’unità dei molti– ma io continuo a vederlo come un simbolo del pene. Ildito puntato è autoritario, accusatorio; ha infatti molto incomune con il pene violento, che penetra lo spaziodell’“altro” (v. Fig. 29). Potremmo invece usare semplice-

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Figura 28. Il saluto nazista è un chiaro esempio di braccia (o armi)falliche uno-molti.

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mente i nostri indici puntatori per mostrare che siamotutti umani in grado di scegliere un dito tra gli altri, e diidentificare uno di un tipo come esemplare esterno a noi;potremmo usarli per dimostrare che siamo uniti comespecie per la nostra capacità di sapere, di sapere insieme,e di condividere le nostre percezioni e i nostri doni.

Punti simbolici

I seni sono in realtà due punti uguali tra loro che fan-no parte di una stessa persona, come le nostre due manio due dita che indicano, che indicano entrambi qualcunaltro per dare il latte. L’immagine di due puntatori do-

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Figura 29. I molti indicano all’uno indicatore, ripetendo lo schemadel concetto nella dinamica di gruppo.

Gli “uni” – che sono già esemplari rispetto alle altredita della stessa mano – competono per essere piùgrandi, più forti, per essere l’“uno” esemplare. “Pun-tare” il dito “mostra” il carattere esemplare dell’unoche sta indicando (pointing), che a volte compete conciò che sta indicando.

“Molti” chenei propri con-testi sono“uni”

Uno-molti fra uni

“Uno” esemplare

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nanti uguali è un archetipo potente per la società. Forse,passando per lo stadio intermedio dei nostri due indici idue punti sono stati trasposti e trasformati in punti sim-bolici, alcuni dei quali sono senz’altro meno benefici. Ilsimbolo delle corna, per molto tempo sacro, potrebberappresentare due peni simbolici uguali (e pericolosi)sulla testa del toro, e allo stesso modo (risolvendo infinela differenza di genere) sulla testa della mucca. Sfortuna-tamente, le corna puntano verso l’esterno per ferire. Leali sugli uccelli sia maschi sia femmine potrebbero ancheessere considerate trasposizioni simboliche di uguaglian-za. Il becco è un altro simbolo fallico, e “uccello” in al-cune lingue è un termine colloquiale per fallo.

Forse questi e altri simboli sincretici hanno contri-buito ad alleviare le ansie dei bambini in passato, chepotevano essere danneggiati dalla mascolazione tantoquanto lo siamo adesso. I seni delle donne puntano ver-so altri per nutrire, mentre i peni degli uomini mascolatipuntano verso altri per cercare o imporre la loro iden-tità; si misurano nel confronto con altri per trovare la lo-ro uguaglianza, o la propria superiorità come “più”. Di-ventando l’esemplare, essi penetrano per ingrandirsi, avolte per provocare piacere all’altro, ma a volte violente-mente, per causare dolore, o simbolicamente sotto for-ma di pistole e missili, per uccidere.

Il vero dare dal “punto” è latte dal capezzolo, la pri-ma esperienza del bambino, visiva, cinestetica e tattile(come anche gustativa e olfattiva) di portare in primopiano o mettere sullo sfondo. Il capezzolo non soltantoè erettile, ma è da lì che proviene realmente il latte. Lanostra attenzione non passa per il nostro dito indice.Abbiamo inventato le penne, da cui l’inchiostro scorreper scrivere le parole, così da rendere visibili all’esternocome modelli di riferimento costanti non solo le coseesemplari, ma anche le parole esemplari5.

Il dito che indica partecipa nello stesso tempo a di-verse modalità di significato: è l’“indice” prototipico ed

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è un’“icona” fisica del concetto uno-molti sul piano del-la metafora, ripetendo nel corpo umano una distinzioneche viene fatta anche nel mondo esterno. Quindi il ditoche indica può in realtà essere usato per toccare l’ogget-to di attenzione, stabilendo una potenziale contiguitàcon l’oggetto e creare così una situazione di metonimia6.

Inoltre, l’atto di ritrarre alcune dita per poterne spin-gere una in avanti ripete metaforicamente nella mano lasituazione sociale in cui alcune persone cedono la loroposizione per permettere a un altro di essere l’esempla-re; lo servono cedendo il passo, tenendosi indietro. Lacombinazione e lo spostamento di modalità ha l’aspettodi un processo praticamente meccanico come quellodello scambio, e come quello della definizione, che puòdare l’impressione di un’attribuzione di valore automati-ca attraverso la sostituzione.

Lo spostamento verso lo scambio sostituisce, però, lalogica del dono nell’insieme con la logica della sostitu-zione. Lo spostamento dall’icona all’indice, dalla me-tafora alla metonimia, e dalla rappresentazione all’attua-zione del concetto con la possibilità di toccare realmen-te l’esemplare esterno (o incitarlo a venire avanti) non èuno spostamento completo alla logica della sostituzione.La rappresentazione iconica del concetto mediante la re-lazione uno-molti delle dita non sostituisce l’esemplareche indica, ma serve soltanto a metterlo in primo pianoper il momento7. Aggiunge soltanto un’altra dimensioneal piano della pratica del dono e della comunicazionelinguistica, e spesso serve a entrambe.

Indicatori verbali e non-verbali

L’attività di centrare in primo piano e mettere sullosfondo che accompagna l’allattare da un seno si ripetecon il secondo seno, e anche continuamente nel tempo.

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Forse i due punti del seno che nutrono servono da iconainiziale per il carattere comunicativo della ripetizione disuoni. I seni sono due fonti di doni materiali identifica-bili che sono parte del corpo della madre. Poi una delleprime parole, “mamma” viene usata per la madre nel-l’insieme e “papà” per il padre nell’insieme. Per i bebéche non vengono nutriti dal seno, i biberon possono es-sere in modo analogo iconici, sebbene non tanto poetici.

Le parole “mamma” e “papà” esistono in molte lin-gue, come sostiene Roman Jakobson nel famoso saggioWhy “Mama” and “Papa” (1990a, cap. 19). Jakobsonspiega come il bambino usi queste due consonanti performare le sue prime parole per la facilità che ha di for-marle e perché i suoni della “m” e della “n” sarebberoun’evoluzione dei suoni che emette e dei movimenti checompie mentre succhia dal seno. Secondo me la cosapiù interessante di queste parole è la ripetizione dei fo-nemi. Questa è presente in molte delle parole che usia-mo con i bambini, che per loro sono psicologicamenteimportanti (come bim-bo, mmh-mmh, pò-pò). Moltibambini distorcono le parole mentre imparano a parla-re, creando una sillaba doppia: “car-car”. Jakobson diceche la ripetizione della sillaba identifica la parola comeparola tra i diversi suoni non-linguistici, e che è un’e-spressione della stessa ripetibilità.

Potremmo considerare la ripetizione dei suoni all’in-terno di una parola come un’icona della ripetibilità dellaparola; cioè, la parola “mamma”, nelle sue istanze diver-se, contiene in sé un esempio del fatto che le cose chesono suoni possono essere simili l’una all’altra e che so-no importanti per questa ragione (le cose che sono donipossono anche essere importanti per la loro ripetibilità).Tra “ma” e “ma” c’è la stessa relazione di similarità chetra la parola “mamma” e tutti gli altri casi della parola“mamma”. La parola “mamma” è come una valigia checontiene due valigie, e con questo dimostra che la valigia

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più grande non è unica: esistono anche altri oggetti dellostesso tipo. Come la bottiglia trovata da Alice nel paesedelle meraviglie, con su scritto “bevimi”, la parola“mamma” suggerisce “ripetimi” (v. Fig. 30).

Come l’indice, “mamma” e “papà” cambiano le mo-dalità; c’è uno spostamento dall’interno della parola“mamma” verso l’esterno alle sue altre istanze. Bisognafare un salto induttivo per considerare i diversi eventiche sono diversi casi di una parola, “una cosa” che si ri-pete; le ripetizioni interne di “mamma” e “papà” aiuta-no a compiere questo salto. La stessa ripetibilità di“mamma” corrisponde al senso in sviluppo del bambinodi modelli di “costanza dell’oggetto”, all’aspettativa chel’esperienza della madre sia ripetibile, e che lei continuia esistere in sua assenza. La parola è sempre disponibileper essere pronunciata, e la madre è disponibile in qual-che posto per farne un’esperienza. C’è poi un altro spo-stamento dall’icona all’indice: l’icona della ripetibilità in“mamma” diventa indice della madre, e di fatto la chia-ma, fa sì che lei dia rilievo a quella parola e al bambinovenendo lì. Il figlio diventa la destinazione della madre,la destinazione del suo “esemplare”!

INDICARE E PATRIARCATO

Figura 30. La ripetibilità interna alla parola presente è un’icona dellaripetibilità della parola all’esterno. Il linguaggio funziona perché con-sideriamo diverse istanze della stessa parola come una singola “cosa”.

Il rapporto interno alla parola “Mamma” è simile al suo rapporto ester-no a ogni altra istanza della parola “Mamma”. Qualsiasi parola detta epresente è un esemplare di quel tipo di cosa che è quella combinazionefonetica ripetibile.

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Ci sono poi altri esempi dell’uso di ripetizioni: si ri-trovano in molti gesti, come il dire sì o no scuotendo latesta, rendendoli simili alle prime parole del bambino.Alcune lingue usano la ripetizione di una sillaba nellaparola che sta per “popolo” (come la stessa parola po-po-lo), ad esempio “shoshone” o “mau mau”. È come sele parole stessero dicendo: “Questo è un gruppo di per-sone per cui la ripetizione ha un valore”. C’è ripetizioneanche nelle parole onomatopeiche per i suoni animali,come “bau bau” per i cani o “muu muu” per le mucche.Forse ai bambini piacciono tanto perché sembra che ipiccoli degli animali stiano anch’essi pronunciando leloro prime parole.

Il carattere internamente ripetitivo, auto-referenziale,di “mamma” e “papà” fornisce una sorta di indizio, unmanuale basico di istruzioni per l’apprendimento dellalingua. La relazione interna della parola è iconica con larelazione esterna della parola, rispetto ai suoi altri casi, econ implicazioni riguardanti la costanza o la ripetibilitàdelle cose nel mondo esterno. Analogamente, il gestod’indicare implica una relazione di cose l’una con l’altraall’esterno del gesto stesso.

Inoltre, sia le parole del bambino che il gesto dell’in-dice avvengono nel contesto di altri, così che “mamma”viene sentito e utilizzato da altri come ripetibile, e la“stessa cosa”. Il gesto dell’indice funziona anche per glialtri come un’indicazione per scegliere qualcosa da unosfondo. Via via che il bambino cresce, il fatto che ci siauna similarità di suoni ripetibile che può essere data e ri-cevuta per qualcosa, attira la sua attenzione su un’espe-rienza, la fa “venire avanti” (point back, “rispondere indi-cando”). È un’indicazione di importanza, un’attribuzio-ne di valore. L’uguaglianza dei suoni può sembrare diper sé importante, ma in realtà la sua importanza derivadal fatto che usiamo i suoni ripetibili come doni sostituti-vi. Ai cambiamenti dal piano interno a quello esterno e

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dall’icona all’indice per il gesto o la parola viene dato va-lore anche dal fatto che altri li usano nello stesso modo.

Il denaro ripete lo spostamento icona-indice del ditoindicante. È come il dito, in quanto è un’icona della re-lazione uno-molti, sebbene su un livello molto più com-plesso. È l’equivalente generale, l’unica merce che staper tutte le altre8. E anche il denaro si sposta verso l’a-zione, creando contiguità nell’andare concretamenteverso l’altra persona, mettendo in atto la sostituzione nelprendere il posto del suo prodotto. Anche il denaro ècome la parola nella sua ripetibilità e singolarità presen-te; come la parola, può essere in diversi posti allo stessotempo; ogni “denominazione” è sia una cosa sia molte.Nel momento in cui scrivo questa frase, prendo una mo-neta statunitense per riguardarla e leggere le parolescritte sopra: E pluribus unum (Tra i molti, uno).

Artefatti simbolici

I passaggi ad altri livelli sono significativi. Forse la lororappresentazione concreta sono le scale, e la nostra azioneonirica nel sonno REM (Rapid Eye Movement) di muovereripetuti passi su una scala, ripete gli spostamenti di “livel-lo”. La musica fornisce il ritmo dello spostamento, deicambiamenti di enfasi, di mettere sullo sfondo e portarein primo piano. La bacchetta del direttore d’orchestravolteggia, indica; la musica risponde. L’indice è facilmen-te un “segno di se stesso”. Nel “dirigere”, ogni volta chesi muove il dito o la bacchetta, è di nuovo un esemplareche può far venire avanti un altro esemplare dallo sfondo.

L’extraterrestre potrebbe raccogliere artefatti ordina-ri, con i quali capire la nostra strana società: i nostri oro-logi sono fatti da due o tre indici che indicano unità ditempo di diverse grandezze; l’indice-coltello è aiutato daquella piccola mano con le dita di sostegno che è la for-

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chetta; poi ci sono la falce, il forcone e la zappa, tuttevariazioni sul tema; e ancora, possiamo addirittura guar-dare, attraverso l’indice, nei telescopi e nei microscopi. Isimboli fallici hanno una risonanza con l’indice, ed è dif-ficile dire quale sia l’uno e quale l’altro. Ad esempio, il“bastone” con il quale si batte il figlio è un prevaricatorefallico, e si suppone che gli indichi cosa non deve fare.

È interessante osservare il meccanismo di diversi tipidi armamenti come trasposizioni del gesto d’indicare.Ad esempio, nell’arco e la freccia, una mano serve me-taforicamente da dita, tirando indietro la corda, poi fa-cendo volare la freccia, come un indice trasposto, cheindica l’esemplare nel mondo che è oltre le mani, e difatto diventa contiguo a esso… penetrandolo, per ucci-dere (l’obiettivo, con il suo centro del bersaglio, sembraun seno bidimensionale che “risponde indicando a suavolta”). Premere il grilletto di una pistola riporta l’indi-ce al gruppo delle altre dita, lo mette sullo sfondo e po-ne in primo piano un altro indice, la canna, e un indicetrasposto, il proiettile.

Nell’indicazione, selezioniamo qualcosa all’esterno,come un individuo o come uno di un tipo. Anche le ditasi potrebbero guardare allo stesso modo: ciascuna indi-vidualmente o come una delle dita della mano; contan-do sulle dita, possiamo sollevarle una per una o additar-le una per una con l’indice dell’altra mano (v. Fig. 31).

Lo spostamento al contesto

Il gesto d’indicare viene fatto talvolta risalire a untentativo di afferrare, ma afferrare può essere considera-to parte di un’interazione di dare e ricevere. Il punto divista dell’altro come potenziale donatore o ricevente èdisponibile perché noi possiamo comprendere, e l’og-getto che viene indicato diventa qualcosa che può essere

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potenzialmente dato o ricevuto o messo in relazione conparole che possono essere date e ricevute. L’oggetto in-dicato spicca, discontinuo rispetto allo sfondo, e la suasingolarità o pluralità può diventare con ogni probabi-lità pertinente per il gesto del donatore come anche perl’afferrare del ricevente9. Il gesto di indicare non ci favedere, ma ci permette di vedere ciò che vede l’altro,per analogia; mette in primo piano una cosa, rendendolapiù accessibile e aggiungendovi una nuova caratteristica,il suo valore interpersonale. Indicare identifica l’oggettocome un valore per gli altri e per sé, che è anche un do-no perché siamo capaci di riceverlo creativamente.

Indicare è un segno a diversi strati; è auto-affermanteper la sua capacità di essere auto-referenziale. Il dito in-dice è sia una rappresentazione sia un attivo attuatore diconcetti, come esemplare che indica esemplari (uni). Perquesto l’indicare può sembrare il momento iniziale e lamotivazione del dono, creando l’illusione che il dono sia

INDICARE E PATRIARCATO

Figura 31. Contando sulle dita, indichiamo ogni dito a turno come“uno” esemplare].

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il prodotto o la derivazione di un gesto di espressione disé, invece che il risultato di un movimento verso i biso-gni dell’altro. Ad esempio, possiamo pensare che l’auto-affermazione e i suoi prodotti siano la fonte di doni cheesistono per essere “presi” attraverso la nostra auto-af-fermazione, invece di pensare che quei doni sono il ri-sultato del lavoro, orientato verso il bisogno, di una per-sona o della collettività. Attribuiamo valore al momentoauto-riflettente e allo spostamento di livelli nel processodi indicare di una persona10.

Il problema dell’errata identificazione della fonte,che sorge con la mascolazione, permea tutte le nostre re-lazioni interpersonali. Qui il trasferimento di attenzioneda una modalità all’altra, dall’icona all’azione, dalla me-tafora alla metonimia, sembra aumentare “automatica-mente” il valore d’uso che un qualcosa ha per noi. Ma inrealtà l’utilità aumenta perché il gesto include gli altri suun altro piano. In questo l’indicare è simile allo scam-bio, e alla definizione oggettivata quando sembra esserciun trasferimento di significato o valore da un termine aun altro senza attori umani. Invece, nello scambio e nel-la definizione, chi soddisfa un bisogno materiale o co-municativo lo fa usando lo stesso tipo di cose che usanogli altri nella società per quello stesso scopo11. I gesti, leparole e il denaro come mezzi di comunicazione sono ilrisultato di processi che coinvolgono gli altri e sono allabase di ulteriori processi.

L’auto-similarità del proprio gesto è rinforzata dallasua similarità con i gesti degli altri. Lo spostamento del-la maniera nella quale qualcosa è messa in primo piano,dall’icona all’indice, che tutt’e due hanno la strutturauno-molti, si ripete nello spostamento dalla rappresenta-zione all’attuazione della relazione concettuale, e dalpiano personale a quello interpersonale, dove anche altrilo ripetono. Cioè, il proprio dito indice sta per e insiemeagli indici di tutti gli altri; e questi, forse insieme a tutte

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le altre dita che non indicano (il resto delle dita dellemani) funzionano come molti rispetto a quell’uno. Que-sto si vede quando il fatto che anche gli altri stiano indi-cando viene riconosciuto. Anche ogni altra cosa che po-trebbe essere indicata come argomento comune è poten-zialmente legata all’argomento presente e al dito. L’auto-similarità e lo spostamento possono sembrare fonti dinuovo valore, ma il valore sorge in realtà solo perché glialtri stanno già usando l’indicare, attribuendo valore in-dividualmente e collettivamente.

L’auto-similarità con l’indice è suggerita anche nellaserialità delle parole, ognuna delle quali viene messa inprimo piano per un istante nel presente, per essere poisoppiantata da un’altra e un’altra ancora (e la fine di ognifrase scritta è indicata con un punto). Ogni parola è an-che in una relazione esclusiva “uno-molti” con tutte le al-tre parole che non sono lei; mantiene il proprio caratteredistintivo in quanto opposta alle altre parole nella frase,che quando sono dette anche collaborano e si danno re-ciprocamente. Le relazioni esterne alla parola sono similialle relazioni esterne al dito che indica. Gli altri diconoparole simili o fanno gesti simili, per loro volontà. Noiindichiamo qualcosa e anche gli altri possono indicarla;diciamo qualcosa, e gli altri possono usare le stesse paro-le, alle quali cose simili sono in rapporto.

La modalità del dono che forma la comunità nonconsiste primariamente nello spostamento di livelli manell’uso degli spostamenti, dei livelli, degli originali e/odei sostituti per la soddisfazione comune dei bisogni. Èun meccanismo interessante: il meccanismo icona-indiceè auto-similare con la struttura del concetto su un livellodiverso, e anche la cosa indicata sembra avere la stessastruttura. Il valore del processo, tuttavia, deriva dall’ac-cesso che esso dà al gruppo. È perché gli altri indicanoanche per altri che l’indicare di un individuo è significa-tivo. La motivazione dell’indicare è anche includere l’al-

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tro come donatore attivo di attenzione (o valore) versola stessa cosa, che ha l’effetto secondario di socializzarela propria attenzione.

Indicare, come anche usare una parola, crea una rela-zione mutuamente inclusiva con gli altri riguardante(letteralmente) qualcosa. Noi stiamo in un contesto; cisono altri “lì fuori” che possono indicare e rispondere ainostri gesti, dare a noi e ricevere da noi nella modalitàostensiva. Il processo comunicativo passa per un mo-mento auto-similare e comporta un maggiore livello dicollaborazione.

1 Gli studiosi di semiotica distinguono tre tipi di segni: le icone che corri-spondono agli oggetti che rappresentano per isomorfismo o similarità; gli in-dici, che vanno incontro a una relazione di dipendenza tra il segno e il suooggetto; i simboli, che si riferiscono ai loro oggetti attraverso regole e associa-zioni di idee (cfr. Malmkjaer, a cura, 1991).

2 Sebbene il suo carattere fallico venga in qualche modo mascherato, ilmonolito nero di 2001: Odissea nello spazio mi sembra un’icona dell’“esem-plare”, e gli effetti a lungo raggio del monolito nel film sono paragonabili aglieffetti prodotti dal contatto umano con i nostri processi cognitivi di formazio-ne del concetto investiti fallicamente. Lo sviluppo di strumenti, armamenti eastronavi può essere certamente dovuto al nostro uso eccessivo di questo“esemplare” fallico del concetto. L’investitura fallica dell’“esemplare” è artifi-ciale ed estraneo, provenendo dall’imposizione del genere attraverso la ma-scolazione. Possiamo immaginare una tecnologia non-competitiva, nutrice,non-fallica, basata su un esemplare influenzato dalla madre o dal seno (un di-sco volante?); o magari potremmo semplicemente liberarci tutti dall’investi-mento sessuale nei nostri “esemplari”.

3 Avere l’indicatore, che corrisponde all’indice e può aumentare, dà unabase fisica e psicologica a un’ossessione di misurazione e quantificazione e po-ne l’enfasi sulla questione dell’eguaglianza e dell’ineguaglianza quantitative.

4 Il piacere dell’uomo rinforza così il tipo di pensiero coinvolto nella defi-nizione e nella definizione di genere così come viene inscenato nell’atto ses-suale dominante del maschio (quest’enfasi è stata suggerita da Susan Bright).Il fatto che la sessualità non funzioni sempre allo stesso modo ci dà qualchesperanza di liberarci dalla mascolazione, o perlomeno la umanizza.

5 Si può considerare in effetti che la distinzione fra type e token tanto cara alinguisti e filosofi derivi dal fatto che ogni parola formulata nel presente è un“esemplare” delle parole assenti dello stesso tipo. Inoltre, ogni volta che guar-diamo una parola scritta essa è un “esemplare” che rimane costante all’esterno.Perciò, (come l’indice o il fallo) il token – giustamente solo uno dei molti – sa-

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rebbe già un “esemplare”, e noi lo prenderemmo come rappresentante di ungruppo o tipo astratto. Poi generalizziamo ad altre cose che, per la loro materia-lità, possono in realtà essere presenti come unità relative insieme all’unità sceltacome equivalente ed “esemplare”. Quindi il tipo (poiché stiamo vedendo tutti icasi come esemplari) sembra una categoria astratta, che possiamo attribuire aun qualche schema o attività cerebrale (anche in questo caso spostando i livelli).

6 Il piano della metafora funziona secondo la somiglianza e la sostituzio-ne, mentre il piano della metonimia funziona mediante la contiguità (serven-do come contesto per qualcos’altro). Vedi il discorso di Roman Jakobson suquesta distinzione basica (1990a).

7 L’indice è “uno”, come il denaro, che “indica” (points at) ogni cosa co-me una di un tipo e le dà il prezzo di mercato di quel tipo.

8 Il denaro altera la neutralità dell’equazione tra se stesso e le merci per-ché è uno standard costante. Analogamente, neanche l’eguaglianza tra uominie donne è neutra, perché gli uomini sono lo standard.

9 Quando confrontiamo la nostra realtà condivisa con ciò che può esserevisto con gli strumenti della tecnologia, possiamo vedere che gli atomi nonsono doni ma insiemi di punti. Risistemare gli atomi con la nanotecnologiapuò creare una condizione di abbondanza grazie alla quale ogni bisogno puòessere soddisfatto senza sforzo da tutti; dare doni materiali diventerebbe tan-to facile quanto comunicare per mezzo del linguaggio. Sfortunatamente, i bi-sogni artificiali creati dalla mascolazione rendono estremamente pericolosa lafacile manipolazione degli atomi. Le armi che soddisfano i bisogni di masco-lazione potrebbero essere prodotte tanto facilmente quanto il pane. Nel sag-gio Nano, The Emerging Science of Nanotechnology (Regis 1995) vengono de-scritti gli usi mascolati individuali: “ci sarebbero corpi umani giganteschi,umanoidi a quattro ruote motrici con i loro muscoli pompati, con i loro penismisurati, e Dio solo sa cos’altro”. È necessaria un’economia del dono basatasulla donna per un uso umano della nanotecnologia.

10 Per analogia potremmo credere che l’atto sessuale maschile, con i suoispostamenti di livello, il suo mettere in primo piano e sullo sfondo, sia all’ori-gine dei bambini, che sarebbero semplicemente la conseguenza del processomaschile di “auto-affermazione”.

11 Ad esempio, il pane è la cosa materiale che noi e gli altri utilizziamo persoddisfare il bisogno materiale culturalmente specifico per pane, e “pane” è laparola che noi e altri utilizziamo di solito per soddisfare il bisogno comunicati-vo riguardante il pane fra parlanti in italiano. Per il pane, vengono scambiatespecifiche quantità di denaro che costituiscono il suo prezzo, identificato col-lettivamente, soddisfacendo il bisogno comunicativo economico distorto, cul-turalmente specifico, del mezzo di scambio riguardante il pane.

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Capitolo sedicesimoIl punto dell’ego

Io credo che la coscienza derivi in parte dall’intera-zione di diversi livelli di cooperazione. Nel patriarcato,però, non soltanto diventiamo coscienti ma formiamo lacoscienza basata sull’ego mascolato come segue: quandonoi (o altri) attribuiamo un carattere esemplare a noistessi, considerandoci “il punto”, così come faremmo ri-spetto a qualcosa del mondo esterno, diventiamo ancheil nostro stesso argomento, la cosa che “risponde indi-cando”. Questa auto-referenzialità chiude tutti i ponti,le porte, blocca la visione dei suoi antecedenti, riflette;prende il posto dell’altro, interrompendo il flusso orien-tato verso l’altro. Noi diamo credibilità a questa porta-specchio chiusa (sembra uno specchio non solo perchésembriamo vedere noi stessi, ma perché anche gli altrisono presi nell’auto-referenzialità). Crediamo nel nostroessere presenti a noi stessi, come se questa fosse la fontedi noi stessi. In base a questo creiamo un ego dominan-te, come esemplare rispetto al quale possiamo confron-tare i nostri diversi momenti (i nostri “molti” interni) ealtri più o meno come noi esternamente. Alimentiamoquesto momento di equivalenza interna che è auto-simi-lare con gli altri schemi interni ed esterni del processo dimascolazione.

Il voler trovare un’identità di genere diventando rela-tivo al padre quale equivalente, si rinforza reinserendol’equazione prevaricatrice nella coscienza individuale at-

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traverso l’auto-referenzialità1. Poi invece di dare cureagli altri, diamo valore all’equivalenza al di sopra dellecure anche internamente. Questo diventa alla fine un va-lutare l’essere al di sopra del dare, l’astratto al di sopradel concreto, il generale sul particolare, anche se questecose non sono certamente tutte concomitanti. La verafonte costante dei nostri sé è invece interattiva e provie-ne dal nostro orientamento verso l’altro, dalla presenzadegli altri per noi, e dalla nostra presenza per gli altri.Confondiamo le proiezioni comuni dei nostri auto-ri-flessi auto-referenziali con il centro della nostra creati-vità. La fonte della nostra capacità di vedere quelleproiezioni e di dare e ricevere è, però, nascosta in fondoal nostro orientamento verso gli altri, come il fuoco cheproietta le ombre nella grotta di Platone.

La gente dall’ego mascolato si esprime con le parole,come ogni altro, creando la propria coscienza mediatalinguisticamente. Lo specchio dell’ego auto-referenzialediventa il soggetto parlante prevaricatore, ma questa nonè una necessità sociale né psicologica. Possiamo avere unamediazione linguistica, un’interazione con gli altri, unosviluppo del sé senza lo specchio dominante dell’ego, cioè1 = 1 = 1, che ripete il contenuto della sala degli specchidell’equazione. Molte donne si sentono infatti a disagionella nostra società individualistica capitalistica perchégeneralmente non abbiamo questo tipo di ego2. Molti uo-mini si sentono anche loro a disagio perché, nonostante lepressioni della mascolazione, hanno mantenuto un lega-me con il modello della pratica materna.

Libero arbitrio (mascolato)

L’auto-similarità di ogni “uno” con l’indice si verificaanche perché possiamo mettere in pratica attivamentel’indicazione, muovendoci verso l’esemplare, come il di-

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to. Dal momento in cui centriamo l’attenzione su di noiin modo auto-similare, mettendo sullo sfondo alcunenostre parti, rendendoci internamente uno-molti, pos-siamo intraprendere l’azione verso un obiettivo, un ar-gomento centrale, una destinazione che abbiamo sceltotra le altre. Spesso chiamiamo questo processo “vo-lontà”. Ma a quel punto di solito non stiamo prendendoin considerazione l’impulso comunicativo o di praticadel dono, che sta dall’altra parte della porta-specchiodell’ego. La motivazione del donare sembra far parte deimolti, di tutti gli altri contenuti della nostra coscienza dicui non ci stiamo occupando. Possiamo decidere di la-sciare o meno che le nostre e-mozioni, i nostri impulsi diorientamento verso l’altro, oltrepassino la porta, facen-doci ignorare lo specchio e soddisfare i bisogni degli al-tri. La nostra “giusta” motivazione, il punto delle nostreazioni, sembra venire dal riflesso auto-similare.

Valutiamo, “cosa è meglio per me?”. Il bisogno diquesto filtro è stato creato dal contesto competitivo delpatriarcato; dobbiamo sapere anche “chi siamo” per so-pravvivere3. Dobbiamo essere in grado di dire di che ge-nere, classe, razza, religione, sessualità siamo e così, co-noscendo la definizione di noi stessi, conosciamo il no-stro posto nel patriarcato e le regole che ci vengono ap-plicate: come sopravvivere nel sistema, come essere me-no vulnerabili. L’auto-similarità che ha luogo a diversi li-velli ci permette di dire: “Questo è come me; quest’altronon è come me”, modellandoci ancora a immagine delleimmagini mascolate in diversi ambiti della vita. L’ego inrelazione al subconscio è anche un tipo di esemplare delconcetto con le ripercussioni che questo ha all’esterno,dalla famiglia al governo, anch’esse fatte a loro immagi-ne. Anche l’esperienza delle donne è di solito in qualchemodo diversa da quella degli uomini, perché noi venia-mo definite dagli uomini, e quando l’uomo-parola pren-de il nostro posto nel matrimonio, noi diventiamo la

IL PUNTO DELL’EGO

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“cosa” esemplare il cui posto è stato preso dalla “paro-la”; “sappiamo” che il nostro posto nel sistema è nonstare in cima.

Potremmo vedere l’ego con la sua volontà comeun’altra icona dell’indice, che muove letteralmente ilcorpo verso il proprio oggetto o destinazione (lasciandoindietro altri aspetti del sé). Ma quando pratichiamo lecure, l’attività che soddisfa il bisogno, il nostro compor-tamento si riallinea con la motivazione che sta “oltre laporta-specchio”. Quando ci impegniamo nella sopraffa-zione, nel miglioramento dell’ego, nel comportamento(dello scambio) che nega gli altri, non facciamo altroche espandere il momento auto-similare, lo specchio, ri-portando il momento del confronto nel concetto. I va-lori dell’ego mascolato filtrano il comportamento deldonare escludendolo.

Molte varianti, è ovvio, sono presenti in questa si-tuazione autoduplicante. Alcune donne credono possi-bile avere un Ego orientato verso l’altro che può creareautoconservazione. È anche possibile praticare il darepost-mascolato, come fanno le donne e gli uomini chesostengono le loro famiglie con il salario che guadagna-no. Nel dare post-mascolato, come nella coscienza, c’èun filtro, il bilancio familiare, che dipende dal darepriorità ai bisogni. Questo non è mosso però dal biso-gno, come lo sarebbe in una situazione di abbondanza,ma dalla disponibilità.

Nella coppia, gli uomini assumono tradizionalmenteil ruolo dell’ego e le donne il ruolo di nutrici, i molti, ilsubcosciente. Chi è stato screditato, o addirittura ab-bandonato, in quanto non-uguale (non analogamenteauto-similare), riaccede come colui/colei che dà le cureallo standard (maschile) auto-similare. La sua modalitàdel dare viene filtrata via dalla scena pubblica, e centra-ta sulla famiglia; la sua energia nutre e sorregge il filtro,la scena pubblica e chi ha successo all’interno di essa.

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Il salario e l’ego

La stessa coscienza di sé è un tipo di filtro basato suscambio-e-mascolazione che media tra la modalità del do-no e quella dello scambio. Anche il possedere proprietàfiltra via la pratica del dono, ma la coscienza delle donne ègeneralmente socializzata a proseguirla. La partecipazioneall’economia di mercato permette una riconciliazione tar-diva e parziale delle due modalità. Il lavoratore sostieneuna famiglia, dando a essa dalla “proprietà” della propriadefinizione monetaria, il salario. Il mercato si basa sullamascolazione, e il suo processo è perciò regolato meglio suchi lo ha vissuto come bambino maschio.

Il mercato è, per le donne, un contesto esterno nelquale possono ovviamente avere successo, ma che mal siconcilia con la loro categorizzazione originaria. Guada-gnare un salario e sostenere una famiglia risolve i conflittipsicologici che una donna in origine non ha, perciò nonha lo stesso effetto su di lei. Il suo vantaggio è che parteci-pando al mercato può risolvere il problema pratico dellostatus “non abbiente”, e consente ad alcune donne l’ac-cesso alle categorie privilegiate costruite dal patriarcato.

Il salario, che è una porzione dell’equivalente genera-le, determina la categoria a cui appartiene l’uomo nellafamiglia tradizionale, ciò che “vale”. Poi l’uomo, dandoparte del proprio “nome denaro” alla moglie, può “gua-rire” la propria mascolazione. Il denaro è un sostitutotemporaneo del termine di genere “maschio”. Lui nonpoteva condividere “maschio” con la madre, darle tuttoo parte del suo nome di genere, ma può condividere ilsuo “nome denaro” con il successore della madre, la mo-glie donatrice. Il salario determina ciò che lui può riceve-re e ciò che può dare ed è, perciò, un filtro, come l’ego.Il giudizio sull’identità di una persona sembra determi-nare ciò che questa persona può avere, perché si adeguaa esso, considerandolo una profezia che si autoavvera.

IL PUNTO DELL’EGO

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Le case che una persona aiuta a costruire, come ma-novale, prendono il posto dei doni della natura e diven-tano proprietà di qualcuno. Ma il “nome” monetario dellavoratore spesso non gli dà sufficiente denaro per com-prarle. Il suo “dare” alla comunità (come scambio) pren-de il posto del dare individuale orientato verso l’altro edel creare la comunità con la sua famiglia. La “parola-de-naro”, $, prende il posto di questo atto di sostituzione.

Gli uomini o le donne che danno il proprio salarioalla famiglia sono come la persona che dà il nome “ma-schio”, il nome che privilegia il bambino e fa sì che altridiano a lui. Ma il bambino riceve il “nome” perché ha la“marca”, come l’etichetta del prezzo. Quando un uomosostiene la moglie (e la famiglia) con il salario, le sta dan-do il “nome” anche se lei non ha il “segno”; ma quandolei produrrà un figlio, la sua mancanza sarà risolta. Ge-nerando un figlio, sembrerà “meritare” il fatto che ilmarito condivida con lei il proprio nome-denaro.

Il rapporto tra il lavoro casalingo gratuito delle don-ne e il salario del marito è influenzato da questa traspo-sizione della definizione di genere e non è identico alloscambio. L’uomo dà alla moglie parte del proprio nome-denaro, mentre lei continua a lavorare praticando le cu-re gratuite, un lavoro che non viene definito attraverso ildenaro né valutato quantitativamente. Il salario del ma-rito è la parola reincarnata con la quale, nella scarsità, lamoglie può comprare i mezzi per nutrire, per continuarea praticare il dare gratuito in tutte le sue varianti qualita-tive (in pratica è come se lei venisse resa dipendente dal-la mascolazione del marito, del suo termine di genere,per i mezzi per nutrire mentre i suoi seni sono i primi diquesti mezzi. Condividendo il proprio nome denaro conla moglie, il marito denomina o categorizza (e accaparra)la pratica di cura di lei come “per lui”.

Oggi tutto questo è stato rielaborato dall’accesso delledonne alla forza lavoro e dalle donne madri-single. Le

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stesse donne lavorano per il nome-denaro e forniscono imezzi per curare i propri figli. Perciò è chiaro che il dena-ro non è altro che una “parola”, un termine di genere tra-slato, che tutti possiamo potenzialmente acquisire; come iltermine di genere, non ha una base biologica ma sociale.Guadagnare un salario dà potere alle donne, permettendoche la loro sopravvivenza sia meno incerta e dipenda me-no dalla capacità di guadagno dell’uomo. L’intera econo-mia dello scambio è, però, un prodotto della mascolazionee rende necessariamente “non abbiente” la maggior partedella popolazione. La mascolazione economica di alcunedonne non risolverà i problemi generali causati dalla ma-scolazione psicologica ed economica della società.

(Etero)sessualità e uccisione

L’imposizione del genere e il suo esito, la sessualitàeterosessuale basata sul dominio del maschio, sopraffan-no la pratica di cura come modello per entrambi i sessi,accordandosi con il linguaggio che prende il posto dellacomunicazione materiale. Anche solo il menzionare ilgenere del figlio sembra dirci che quel genere (cioè ladifferenza o la similarità con la madre), e alla fine la ses-sualità, è più importante della pratica di cura; che la dif-ferenza fisiologica-culturale tra il bambino maschio e lamadre è più importante della modalità nutrice della ma-dre. Analogamente, uccidere con un simbolo dell’indicefallico, che può essere visto come (etero)sessualità tra-sposta, sarebbe più importante del nutrire/dare cure.L’animale o la persona si sottomette passivamente difronte alla volontà di colui che spara.

Ma l’animale che è ucciso dall’indice fallico prevari-catore può essere poi usato per nutrire: come la donnache è dominata, sopraffatta e sulla quale il suo domina-tore può diventare parassitico. La caccia stessa è comelo scambio, perché l’oggetto, che riceve l’“indicazio-

IL PUNTO DELL’EGO

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ne”, viene trasformato e ricategorizzato; diventa pro-prietà del cacciatore, separato dalla propria volontà,come il prodotto che viene separato dal suo proprieta-rio nello scambio (o il figlio dalla madre, per la sua de-finizione di genere). Poi lo sparatore uccide altri uomi-ni (i suoi avversari) per proteggere ciò che possiede ochi lo nutre o la propria natura o i propri meccanismidi mascolazione, o per la sicurezza di tutti i meccani-smi auto-similari della mascolazione che si trovano nel-la sua Patria.

Il dare cure post-mascolato richiede ri-conoscimento(un altro simile dello scambio). Le donne (e gli uominimeno potenti) nutrono il dominatore, e quest’ultimo la-vora attraverso lo stesso meccanismo della mascolazio-ne, nutrendo in un certo qual modo, sopraffacendo e/o“contribuendo”. La coscienza maschile permette di pra-ticare il dare post-mascolato invece del dare non-masco-lato. La “marca” è come un suffisso del caso nella sintas-si linguistica, che mostra che questo è il suo ruolo (dilui). Lui ha quella “marca” (o “etichetta”), e così puòdare tradizionalmente soltanto in specifici modi sperso-nalizzati determinati socialmente, che comportano l’alie-nazione del prodotto, del dare alla comunità, agli altri ingenerale, in cambio del “nome denaro” grazie al qualelui può diventare un ricevente privilegiato. È, questo, lostrano modello che il bambino deve imitare.

Anche il denaro può essere visto come un insieme dimarche del caso quantitative. Come una trasformazioneda attivo a passivo, l’etichetta e la “marca” maschile in-dicano anche che i loro portatori devono essere trattatida riceventi di doni specifici. Quindi un uomo, quantepiù proprietà o denaro “possiede”, quante più marchequantitative del caso “possiede”, tanto più controllerà e“meriterà” di ricevere.

La donna dominata rinuncia a dare sessualmente achiunque altro che non sia il marito, e a dare materialmen-

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te a chiunque altro che non sia il marito e i figli. Lo sposta-mento di modalità dal dono allo scambio, dal dare mater-no al dare post-mascolato, passa a identificarsi con la mar-ca del maschio. L’icona dell’esemplare si sposta verso laprevaricazione e la mette in atto. E il pene stesso cambia,diventando eretto; non ha un’auto-similarità come la ma-no, una ripetizione della relazione dell’esemplare con delleunità relative, perciò deve trovare la propria identità di“uno-a-molti” all’esterno, in una relazione di competizio-ne con i peni degli altri uomini, per la superiorità. Quinditutti gli uomini vengono considerati “uno” in relazione al-le donne quali molte prive di “marca”, e praticano la do-minazione su di loro per dimostrare la propria superiorità.

Sparare

L’indice precede il pene come strumento della cono-scenza sia sessuale sia non sessuale e, infatti, il pene non ènecessario a nessuna identificazione. L’identificazione (do-potutto falsa) tra il pene e l’indice è stata forse ribaltata,così che l’indice appare come un pene staccato, che puòessere poi trasformato in proiettile o freccia. E dirlo lo favero tanto nella mascolazione quanto nello sparare: “È unmaschio!” e “bang, bang, sei morto” hanno simili effettialienanti. Quando s’identifica qualcosa come membro diuna categoria, si possono escludere le sue altre possibilitàcome oggetto costante individuale. Sparare è fatto a imma-gine della mascolazione.

Indicare il bambino, denominandolo “maschio” –quel rumore esplosivo – lo allontana dalla vita del dare.L’indice è il dito-che tira-grilletto e lo spostamento di li-velli è come il meccanismo del grilletto, che è anch’essouno spostamento di livelli, quando il dito si tira all’in-dietro per sparare con la pistola. La parola è il suono delproiettile, che denomina “l’altro”.

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Puntiamo il dito, selezionando o indicando un ogget-to esemplare; poi pronunciamo la parola, lo denominia-mo, spostandoci dal non verbale al verbale. L’esplosioneaccompagna la contiguità dell’indice trasposto con l’og-getto che penetra. Ci spostiamo dall’icona concettualedell’indice (più l’azione concettuale del selezionare) ver-so la parola (v. Fig. 32)

La penetrazione dell’altro con il proiettile-“dono” èdi fatto un servizio per l’ego del “donatore”-sparatore.Sparare rafforza la logica dello scambio mentre la pene-trazione violenta del corpo (e del cuore) dell’altro ri-chiama e rinforza lo stupro. La pistola e il pene funzio-nano entrambi come “uno” così che il portatore possaraggiungere lo status di “uno” privilegiato.

L’arco e la freccia sono fatti per funzionare tirando lacorda all’indietro, poi rilasciandola, così che l’attenzio-ne-energia venga trasferita nella freccia. Come dita coo-

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Figura 32. La pistola è un meccanismo costruito su indici di diversemisure investiti fallicamente.

Indicare e uccidere (questo stesso modello vale pergli eserciti come per gli individui)

L’indicatore-martello

Parola

L’indice che tira il grilletto

Il grilletto indicatore

L’ i n -d i c a -tore canna

L’indicatore fucile

Bang! Bang! Sei morto!

L’indicatore-pallotola chesoppravienesull’esemplare

L’esemplare che spic-cando dallo sfondo,muore

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peranti che si ritraggono per far sì che l’indice indichi, ledita tirano all’indietro la corda dell’arco (v. Fig. 33).

Succede la stessa cosa con l’indice che preme il gril-letto, rilasciando il martelletto precedentemente armato,sul proiettile indicatore. Come il trattenere e poi rila-sciare la parola e/o il dito indice, la forza dei molti chesostengono l’uno viene avanti in modo esplosivo. L’ener-gia di ciò che viene trattenuto si concentra sull’indice.Forse si può tracciare un’analogia con le molte azioniche richiede la caccia – andare nel bosco, cercare la pre-da – le molte azioni cooperanti che riportano all’uccisio-ne, e concorrono a sovradeterminarla.

Quando indichiamo animali o persone con un fucileper ucciderli, dobbiamo trattenere i nostri impulsi nutri-tori diretti a loro, per renderli esemplari che diventeran-no oggetti morti: l’animale utile come cibo o la personache, morendo, elimina un pericolo o la competizione. Ir-rigidiamo la nostra volontà internamente contro l’orien-tamento verso l’altro o la pratica di cura (povero coni-

IL PUNTO DELL’EGO

Figura 33. La freccia è un “uno” prevaricatore che indica l’esempla-re, uno tra i molti (E pluribus unum). Questa indicazione non è di unqualche prodotto da scambiare ma di un essere vivente da uccidere.

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glio), poi li selezioniamo come cose esterne, allontanan-do da loro i doni della vita, rendendoli oggetti passivi. Ilmeccanismo interno della scelta, che allo stesso tempomette da parte la pratica di cura, è come il meccanismointerno del fucile. Con il nostro dito indice, spingiamoindietro il grilletto-indice; il martelletto-indice cade sulproiettile-indice, facendo esplodere la sua carica e facen-dola procedere in avanti lungo la canna del fucile-indi-ce-fallico. Il proiettile-indice colpisce il cuore dell’ani-male o della persona, mettendo fine al suo dare interno,trasformandolo in un oggetto in nostro possesso.

L’esplosione nella camera di scoppio del fucile corri-sponde all’esplosione nella camera del cuore di chi vieneucciso; e anche del cuore e della mente dell’uccisore, oforse del suo pene, dove analogamente, l’indicare e laprevaricazione fanno uscire qualcosa in modo esplosivodall’indice-esemplare. Volontà mascolata = pene = fuci-le, e ci sono anche delle analogie economiche. Ci vuoleun’esclusione interna del dare per creare un’esclusioneesterna del dare dentro il corpo di un altro, attraverso imeccanismi interni del fucile, che vengono esternati inmodo esplosivo.

La lancia o arco e freccia indicano e uccidono. Lamessa a fuoco mette sullo sfondo la vita dell’animale,dando valore non a questa, ma alla vita dell’indicatore ealla conseguente morte dell’animale. Poi la preda diven-ta un dono di cibo. In questo la caccia ha una strettaanalogia con l’indicare per la comunicazione, perché l’a-nimale ucciso diventa condivisibile, un dono, come l’ar-gomento su cui si richiama l’attenzione. Analogamente,la morte di un nemico ucciso da coltelli, lance, fucili emissili che indicano, diventa un dono condivisibile pergli individui, le bande, l’esercito e la Patria.

Questo dono intriso di sangue, il nostro terreno comu-ne, viene diviso in proprietà che ci appartengono e che dinuovo difendiamo l’uno dall’altro con fucili e coltelli. In-

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teri eserciti si indicano a vicenda, con la loro tecnologiafatta a immagine e somiglianza degli indici reificati che di-mostrano che sono nella categoria superiore, eliminando“l’altro”. In un periodo di tensione internazionale, il pae-saggio è costellato di postazioni sotterranee missilistiche ecircolano ovunque carri portamissili pronti ad alzare i lo-ro indici e a sparare le loro testate contro il nemico. Dalcoltello al fucile al missile nucleare, dall’individuo armatoalle forze armate, la reiterazione della definizione e lamarca del “maschio” trasformano la nostra civiltà in unimmenso schema a frattale che consiste di immagini auto-similari di mascolazione a diversi livelli. Lo schema si au-to-convalida e fa fluire l’energia di tutti e del pianeta neisuoi programmi, sacrificando milioni di vite umane. Mal-grado i nostri sforzi per colorare e mascherare questoschema, rimane comunque un brutto quadro.

Anticamente il cacciatore si limitava a trasformarel’animale in cibo, proprietà, dono. Un circolo di atten-zione comune, il circolo di cacciatori, il fuoco del consi-glio, il fuoco per cucinare, accettavano il dono. L’argo-mento centrale – il fuoco, il cibo, il dono di nutrimento– diventava l’obiettivo comune e la “cosa” rapportata auna parola, l’esemplare ripetibile. Anche i raccoglitori egli agricoltori mettevano insieme il loro raccolto. L’argo-mento centrale veniva messo insieme con i doni del pas-sato, gli argomenti del passato, i raccolti e i fuochi delconsiglio passati, i punti di vista individuali insieme. Noisiamo gli altri ai quali i doni delle cacce e dei raccoltipassati erano anche destinati, e li facciamo rivivere perla gente del passato, facendoli sopravvivere, anche se lo-ro non lo sapevano mentre conversavano e mangiavano.E lasciamo anche dei doni per la gente del futuro.

Le generazioni sono come l’acqua che scorre lungoun pendio, che crea delle conche e poi straripa, e checontinua a scorrere e crea nuove conche. L’argomentocomune è un dono. In altre parole, un “extra” che arriva

IL PUNTO DELL’EGO

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a noi nel presente e nel futuro è che anche altra gentedel passato può farlo, sedersi in circolo insieme a noi,come noi possiamo fare con la gente del futuro. La do-minazione “uno-molti” non contribuisce a un argomen-to centrale o dono per il futuro perché i beni che forni-sce non sono condivisibili, dal momento che sono mo-nopolizzati dall’uno o usati per costringere. I “molti”danno tutti all’“uno”, non si danno a vicenda.

La pratica del dono contro la sala degli specchi

La pratica del dono viene spesso screditata come unafollia perché minaccia d’interrompere la sala degli specchia frattale. Un’attenzione comune verso gli altri rende l’au-to-similarità dell’ego inutile, irrilevante. La pratica del do-no è infatti migliorata grazie alla diversità degli altri aiquali si dà (tra le altre cose perché i loro bisogni sono di-versi da quelli del donatore e perciò sono motivo di cre-scita e varietà, non di competizione). Visto che la moda-lità del dare minaccia il paradigma dello scambio econo-mico e la sua struttura dell’ego, noi la escludiamo dallacoscienza e costringiamo le donne che la praticano, nono-stante siano numerosissime, all’isolamento, nella famiglia.

In questo modo si può contare su di loro per assicu-rare il mantenimento di quasi tutti i bambini a prescin-dere dalle numerose e schiaccianti difficoltà provocatedalla scarsità. Come donatrici isolate, le madri mettonoa repentaglio la propria sopravvivenza dando troppo, inmodo circoscritto, senza avere la possibilità di cambiarele strutture sociali. In questo caso il “vicolo cieco” stanel fatto che le strutture sociali non potranno esserecambiate finché la pratica del dono non sarà riconosciu-ta come un’alternativa percorribile, e la possibilità cheessa sia realmente percorribile non verrà riconosciutafinché non cambiano le strutture sociali.

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Impegnarsi in una cosa che appare impossibile è unastrategia che può a volte essere usata per dimostrare l’im-portanza di questa cosa. Praticare il dare fino all’auto-di-struzione sembra però dimostrare che esso non funziona,perché annulla il donatore. Il contesto stesso della scar-sità e l’isolamento dei donatori l’uno dall’altro provoca ladistruzione e l’estenuazione dei donatori. Altri dovreb-bero cominciare a seguire il modello del dare in tempoperché chi già lo pratica possa ricevere dagli altri, oltre adare (anche se questo potrebbe assumere l’aspetto diuno scambio)4. Per questa e molte altre ragioni, i donato-ri devono riconoscere ciò che stanno facendo, denomi-narlo e praticarlo consapevolmente; e questo è realmenteproponibile solo quando coinvolge i molti e crea un con-testo, come una soluzione generale, non individuale.

Dato che la pratica del dono minaccia lo scambio,degli ostacoli che hanno un’apparenza benevola vengo-no messi sul suo cammino. Ad esempio, l’“umiltà” comevirtù necessaria (“non te ne vantare”), impedisce ai do-natori di affermarsi come modelli. Un uomo che stabili-sce dei confini per proteggere la “propria” donna, sta inrealtà proteggendo la propria donatrice, a suo favore,perché non dia ad altri uomini. La struttura interna delmaschio mascolato orientato verso l’ego è la struttura in-terpersonale all’interno della coppia tradizionale. I valo-ri della famiglia patriarcale affermano il diritto dei pa-rassiti dominanti rispetto ai loro ospiti donatori. Il fallocome l’indice investe il maschio mascolato (o la sua co-scienza o volontà egoiste) come indice, facendolo tende-re verso la sopraffazione e la dominazione della praticadel dono, compreso la dominazione delle proprie moti-vazioni interne verso il dono. Se un altro maschio esem-plare esterno “risponde indicando” verso di lui, entram-bi dovranno chiaramente competere per il dominio.

L’ego è uno-molti riguardante altri elementi del sé, gliego di altre persone, e tutti gli esemplari che possono es-

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sere scelti nel mondo. Diventa relativo ad alcuni esempla-ri più grandi come suoi equivalenti, come il bambino pic-colo rispetto al padre. Dall’antico Egitto ai moderni StatiUniti, grossi simboli fallici dello Stato, che personificanoil padre del paese, stile monumento di Washington, im-pongono uno status relativo su molti esemplari altrimentiprivilegiati. Tutti i cittadini di un paese possono unirsi pa-triotticamente l’uno con l’altro ed essere così relativi alproprio paese quale uno (rispetto ai molti altri paesi), conil capo quale loro umano esemplare nazionale.

Il culto della personalità di alcuni leader recenti, lecui immagini colossali dominano gli spazi pubblici, ne èun esempio; nei paesi comunisti, fino a poco tempo fa, icapi del movimento ritratti in fotografie gigantescheguardavano in basso verso i luoghi d’incontro delle mas-se. Recentemente, in occasione della morte di Kim II

Sung nella Corea del Nord, la televisione mostrava la fol-la che si batteva il petto e piangeva disperata di fronte al-l’immensa statua del suo leader. La conservazione delcorpo di Lenin nel Cremlino ha dato dell’Unione Sovie-tica un’immagine di costanza dell’ego-volontà mascolato,mentre l’abbattimento della sua enorme statua con il ditopuntato proteso è un altro esempio che indica il punto.

Destinazione

Una differenza tra molti dei livelli auto-similari è iltempo necessario per portarli a termine. Pronunciare unafrase richiede meno tempo che scambiare, così si possonoanche pronunciare più frasi insieme allo stesso tempo. Lamascolazione richiede anni. Noi stessi siamo degli indici; inostri movimenti verso un obiettivo sono gesti che indica-no. Possiamo sia indicare un obiettivo sia andare fisica-mente verso di esso, per toccarlo. Abbiamo orientamentiper il futuro, un obiettivo o una destinazione trasposti nel

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tempo dallo spazio. Possiamo anche indicare a ritrosoverso lo spazio da cui proveniamo, e indietro nel tempo.

Indicare può richiedere pochissimo tempo, lo stessoche impieghiamo per sollevare un dito, oppure tantoquanto è necessario per viaggiare verso una destinazio-ne. Ci muoviamo come l’indice quando percorriamo uncammino da un punto di decisione nel quale scegliamo inostri obiettivi. Scegliamo un luogo verso il quale anda-re, che è uno tra molti. Possiamo intendere metaforica-mente questo processo: come i fini che “giustificano” (odominano) i mezzi.

Un obiettivo che viene identificato come destinazioneo punto d’arrivo può essere qualcosa di diverso dallasoddisfazione di un bisogno. La nostra motivazione aviaggiare è orientata verso l’ego o verso l’altro? Lo scam-bio sembra permetterci di fare entrambe le cose o nessu-na, semplicemente aumentando l’esemplare (denaro). Lecarovane viaggiavano verso destinazioni lontane per farescambi commerciali. Il viaggio è come il fallo nel sesso,che va verso una destinazione. Il viaggio dei pionieri aOvest, alla conquista della natura, indicava terre “vergi-ni” dove gli uomini con i loro indici-fucili uccidevano gliuomini con gli indici-archi-e-frecce e poi s’inserivano pa-rassiticamente, insediandosi sulle terre “libere” (free).

I cavalli, con la loro forte energia, possono sembrareindici fallici mentre galoppano verso una destinazione. Leautomobili sono simili, ma in questo caso possiamo viag-giare dentro di esse insieme, indicando una destinazione,e richiamando l’attenzione sui punti di interesse nel cam-mino. La strada e il paesaggio vengono messi in primopiano e sullo sfondo in un flusso costante; la strada versola quale la macchina punta e la destinazione sono argo-menti centrali che si hanno in comune. Qui il meccani-smo è quello del mettere in primo piano e mettere sullosfondo. Prestiamo attenzione al primo piano e non guar-diamo allo sfondo, che scorre verso il passato. Ma è il

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meccanismo nel suo insieme che sopraffà i processi delnon-meccanismo, che noi non vediamo (lo spostamentodi modalità dell’indice è una proto-tecnologia originale?).

Poi indirizziamo i nostri razzi verso la Luna per con-quistarla, e piantiamo su di essa il nostro piccolo palo colpennone all’arrivo. I nostri scienziati si affannano con l’o-biettivo di creare bombe più grandi, di vincere la guerra,e di produrre un fungo nucleare che metta in evidenza ilproprio carattere inequivocabilmente fallico, uccidendocentinaia di migliaia di persone nell’immediato, e milionio miliardi di persone a lungo termine, attraverso la ra-dioattività (invisibile, non indicata). Con l’indice possia-mo uccidere, ma per creare è necessaria l’intera mano.

Cambiare di mano

L’altro aspetto del mettere in primo piano è il metteresullo sfondo al quale non prestiamo attenzione, ma che èugualmente un’attività. Nell’indicare, il ritrarre le moltedita è altrettanto intenzionale e consuma altrettanta ener-gia che estendere l’indice; eppure difficilmente lo consi-deriamo, forse perché ci concentriamo sulla ripetizionedello schema uno-molti tra l’indicatore e ciò che vieneindicato. Ma le altre dita, ritraendosi, aiutano l’indice; ri-trarre alcune dita rientra nello stesso proposito di esten-dere un dito. La stessa cosa accade nelle relazioni inter-personali, quando alcune persone fanno un passo indie-tro o cedono il passo per lasciarne avanzare altre. Puòrientrare nello stesso proposito del gruppo. Tuttavia, vi-sto che la nostra attenzione centrale va verso l’uno (oesemplare), non va verso i molti, che poi è facile dimenti-care (così come gli “esemplari” mascolati dimenticanochi sta dando a loro e cedendo loro il passo).

Esistono due “molti”: le molte dita che fanno partedella mano, che forse rappresentano anche delle altre

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cose o considerazioni interne delle quali l’indicatore nonsi sta occupando; e i molti all’esterno, le altre cose chenon vengono indicate. Se le dita aiutano effettivamentel’indice, per analogia le cose all’esterno “aiutano” l’unoche è al centro dell’attenzione, a venire avanti, cedendoil passo o rinunciando a essere al centro dell’attenzione.Nella famiglia, le donne sono state tradizionalmente ledita escluse; all’esterno della famiglia, sono state le unitàescluse. Nella rete di solidarietà maschile, gli indicatorimaschi competono per la posizione dell’uno al centrodell’attenzione, così come indicano ai propri superiori inalto nella loro gerarchia.

Forse a questo contribuisce il fatto che il pene nonha altre “dita” da escludere. Le altre dita sono soloscomparse nella trasposizione ed “evoluzione” psico-so-ciale del segno dall’indice ai genitali. Se il pene è il “di-to”, il corpo maschile è analogo alla mano.

Vorrei suggerire che la parola inglese man (uomo)proviene dal latino manus (mano), come il corpo-manodal pene-indice. Wo-man (la donna) sarebbe perciò l’u-tero-mano (womb-hand), l’intera mano che crea e dà.

Considerare il punto di vista degli altri fa parte dellapratica del dono. Gli uomini (e le donne) smettono gene-ralmente di farlo quando rinunciano al dare. Allo stessotempo, molte donne rinunciano a indicare, o a essere ilpunto, e assumono il punto di vista dell’indicatore dell’uo-mo, che ha bisogno di puntare e di diventare un “esempla-re”. Noi donne aiutiamo gli uomini. Consideriamo ciò dicui hanno bisogno e ciò che indicano perché il nostropunto di vista è stato escluso. È stato trattenuto, esclusoper loro e da loro e, perciò, noi stesse ci escludiamo permettere al centro dell’attenzione il loro lavoro e per ap-poggiarli nell’essere gli esemplari, che dominano su di noi.A volte arriviamo al punto di non sopportarlo più, unpunto di partenza, e così prendiamo posizione dal puntodi vista della pratica del dono, che può vedere se stessa.

IL PUNTO DELL’EGO

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Dare e nutrire sono attività che si praticano general-mente con le mani, e in questo caso avere o mancare delpene è irrilevante. Anche l’indicare del bebé può esserevisto come la richiesta di un gesto di dono da parte dellamadre, un tentativo di sollecitare il suo utero-mano didonna (wo-man’s womb-hand). Come hanno recente-mente dimostrato gli uomini che si prendono cura deipropri figli, la mano che indica può essere trasformata inuna mano che dà. Sto trattando questo punto per solle-citare il dono di tale trasformazione non solo a un livelloindividuale ma a un livello sociale, sistemico.

1 Infatti il risultato è il punto centrale, il sé “esemplare”, l’uno. Una voltacominciato a contare, abbiamo bisogno di un contesto di “uni”; dire un“uno”, due “uni” ecc., e una volta “uno” uguale “uno”, richiede probabil-mente la conoscenza di altri “uni”, da qualche altro contesto.

2 Forse, intuendo il ruolo che ha la definizione per l’identità maschile, di-pendiamo dalle parole degli uomini, sperando che ci dicano che siamo “bel-le”, “intelligenti”, “una buona moglie”. In questo modo creiamo praticamen-te un ego auto-referenziale a loro immagine.

3 L’investitura patriarcale della posizione di esemplare investe l’esem-plare dell’ego di sopraffazione quando questo non lo farebbe da solo. Inol-tre, i maschi si considerano “uni” perché stanno abbandonando la praticadel dare e l’orientamento verso l’altro, per l’auto-referenzialità. Io credoche l’esperienza dell’ego sia “ancorata” al corpo proprio come, secondo iteorici dei programmi neuro-linguistici, altri tipi di esperienza sarebberoancorati al corpo.

4 La terapia della co-dipendenza definisce “smodati” i donatori e le perso-ne con bisogni non soddisfatti. Questa terapia si concentra sulla cura delle ma-lattie/disagi (dis-ease) individuali, non sul sistema malato (diseased), che stacreando un contesto di scarsità e genera in questo modo enormi quantità di bi-sogni non soddisfatti e non soddisfacibili (che vengono in realtà usati come mo-tivanti economici). L’altruismo è creativo e migliora l’esistenza, tranne quandoviene catturato e assorbito da un dominatore, o reso impossibile da un contestodi scarsità. Ho letto da qualche parte che il 98 per cento della popolazione degliUSA sarebbe co-dipendente. Questa percentuale mi sembra chiaramente il frut-to di un’interpretazione sbagliata. È normale essere altruisti. Non ci viene per-messo di praticare il nostro normale comportamento di dare cure, perché i no-stri mezzi per nutrire vengono derubati dal sistema, come anche dagli “uni”privilegiati all’interno e all’esterno delle nostre famiglie. La teoria e la terapiadella co-dipendenza, convalidando il non dare, ci permettono di risolvere i pro-blemi individuali e di vivere nel sistema dello scambio senza minacciarlo.

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Capitolo diciassettesimoCosa rappresenta la democrazia?

Il linguaggio è una risposta ai bisogni comunicativi,che proliferano e si diversificano a seconda del modo incui vengono soddisfatti e dell’esperienza in corso. Que-sti bisogni comunicativi si sovrappongono o si unisconoai bisogni riguardanti le cose direttamente, i bisogni diconsumare cose ma anche di usarle strumentalmente, ed’individuare tra esse i propri bisogni o quelli altrui,percepirli in modo più preciso, prevedere le conseguen-ze dei loro processi ecc.

Soddisfare i bisogni reciproci riguardanti le cose creai legami tra gli esseri umani in quanto gli stessi sono ele-menti speciali del mondo materiale esterno che appar-tengono alla nostra stessa specie, che ricevono e dannoreciprocamente. I legami creati dal linguaggio sono si-mili ai legami che si creerebbero condividendo cose, sepotessimo farlo. In alcuni casi, la possibilità di condivi-dere è ostacolata dal fatto che ci sono cose che non pos-siamo dare l’uno all’altro, come le montagne o la nostrapercezione del colore rosso, o il sogno che l’era nuclea-re non sia mai esistita. In altri casi, la possibilità di con-dividere è ostacolata dalla scarsità, poiché molte cosenon bastano per tutti; in altri casi ancora, il condividereè ostacolato dalla proprietà privata e dalla nostra abitu-dine al non-dare. Potrebbero essere le differenze tra lecause del non-dare e ricevere a rendere così astratta e“psicologica” l’effettiva condivisione del linguaggio, tra-sformando la mente in qualcosa di diverso dal corpo.

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Noi condividiamo in modo astratto ma questo generedi condivisione produce soltanto ego e menti, non comu-nità materiali che vivono in pace e nell’abbondanza. Noncondividiamo concretamente i beni con i molti. Arrivia-mo al punto, nel migliore dei casi, di praticare il dare solocon le nostre famiglie più prossime e con gli amici più in-timi. Ciò che invece condividiamo è il non-dare delloscambio, che ci divide e ci rende rivali, tenendoci legatil’uno all’altro soltanto attraverso le leggi dello Stato, e avolte neppure con quelle. Lo scambio ci trasforma in coseche danno l’uno all’altro solo attraverso il linguaggio, ecosì smettiamo di appartenere alla specie comune che nu-tre/dà cure. Ci organizziamo invece in “concetti”, che so-no a loro volta organizzati in “concetti” più generali.

La rete di solidarietà maschile degli “uni”

Nel governo, creiamo rappresentanti a immagine dellaparola perché prendano il nostro posto, organizzandogruppi più grandi che si occupino di prendere decisioni,comandare, legiferare su ciò che resta della pratica del da-re, in forma di obbedienza, servizi pubblici, tasse. I rap-presentanti stanziano (danno) i nostri soldi delle tasse.

Come abbiamo detto il lessico, ciò che Saussure chia-mava la langue, è un sistema puramente differenziale diparole viste come valori, nelle quali ogni elemento è le-gato negativamente a tutti gli altri in base a ciò che nonè, ed è legato positivamente alle cose che rappresenta.Ad esempio, la parola “cane” è ciò che è solo perchénon è “gatto” o “bello” o “giustizia” o “corsa”. Questesono le relazioni negative che ha con le altre parole;mentre la parola “cane” ha poi una relazione positivacon i cani, che rappresenta.

Abbiamo identificato una relazione molto simile nel-la proprietà privata, dove ogni proprietario è legato ne-

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gativamente a tutti gli altri, per mutua esclusione, ed èlegato positivamente alla proprietà che possiede. Il de-naro, come il verbo “essere”, media tra questi elementimutuamente esclusivi, creando una seconda sostituzio-ne, un esemplare concettuale del valore divisibile quan-titativamente1 al quale la proprietà può essere momenta-neamente legata, e per cui la proprietà di un proprieta-rio può diventare la proprietà di un altro senza ricorrereal dare. Dare ai bisogni implica delle ineguaglianze,mentre lo scambio implica e richiede uguaglianze, na-scondendo i bisogni e la pratica del dare.

Parlando del denaro come “equivalente generale”,commentava Marx, non è affatto ovvio che la caratteri-stica di essere generalmente e direttamente scambiabilesia, per così dire, polare, e che sia pertanto inseparabiledal suo opposto polare (ossia la caratteristica di non es-sere direttamente scambiabile) quanto il polo positivo diun magnete lo è dal suo polo negativo. La gente, dandolibero sfogo alla propria fantasia potrebbe così immagi-nare che tutte le merci possono acquisire simultanea-mente la caratteristica di essere direttamente scambiabi-li, così come, volendo, potrebbe immaginare che tutti icattolici possono diventare contemporaneamente papa.Marx dice anche che “una merce può funzionare comeequivalente generale soltanto perché, e nella misura incui, tutte le altre merci la distinguono da loro stesse co-me equivalente” (1930)

Marx si riferisce in questo caso al denaro come ciòche io chiamerei l’esemplare incarnato del concetto.Ciò che lui considera “polarità magnetica” è in realtàla polarità tra l’uno e i molti, tra l’esemplare del con-cetto e le unità a esso relative, e/o tra la parola che hapreso il posto dell’esemplare come equivalente di quelconcetto e le unità a esso relative. Nella sua descrizionedel denaro come equivalente generale, Marx identifica-va un momento importante nella formazione del con-

COSA RAPPRESENTA LA DEMOCRAZIA?

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cetto e nell’incarnazione del concetto mascolato, anchese ovviamente, data l’epoca non poteva così. È notoche la sua analisi della relazione tra il denaro e le merciè una questione particolarmente complessa, e questoperché dietro quella relazione si nascondono molte al-tre questioni.

Nella mascolazione, la famiglia è organizzata come ilconcetto, laddove il padre patriarcale è l’esemplare o“l’equivalente generale”. Il padre prende il posto deglialtri membri della famiglia nel prendere le decisioni,nell’istituire il comando e l’obbedienza attraverso la suavolontà prevaricatrice, e li rappresenta nella società de-gli uomini, la rete di solidarierà maschile. Abbiamo vistoche la proprietà è legata a chi la possiede secondo la mo-dalità del concetto molti-a-uno (o del complesso “nomedi famiglia”). Con il nostro governo il caso è analogo.

Curiosamente, Marx personalizza le merci, dicendoche sono esse stesse a eleggerne una all’interno del lorogruppo come equivalente: questo non è altro che il pro-cesso democratico personificato. La Dichiarazione di In-dipendenza degli USA diceva che “tutti gli uomini sonostati creati uguali”, escludendo all’epoca, com’è noto, ledonne e gli schiavi (i donatori di doni gratuiti) dal pro-

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Figura 34. Il denaro è l’equivalente generale.

Prodotti(merci)

“Tutte le altre merci la distinguono da loro stesse come equivalente”

Il denaro, l’equivalente generale

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cesso democratico. I padri fondatori costituivano una re-te di solidarietà maschile, composta di proprietari maschibianchi; essi si dividevano in gruppi, secondo la rispetti-va posizione, e ogni gruppo sceglieva uno di loro perchéfosse l’equivalente generale, perché prendesse il loro po-sto come rappresentante nei corpi governativi compostidi tutti gli “uni” rappresentanti degli altri gruppi.

Ciascun “membro” della rete aveva già di per sé, perscelta o per forza, una relazione di “uno” rispetto allasua famiglia, e una relazione auto-similare di “uno” ri-spetto ai suoi possedimenti. I “rappresentanti” prende-

COSA RAPPRESENTA LA DEMOCRAZIA?

Figura 35. La democrazia è inserita in un contesto fatto di altreestrinsecazioni del concetto.

Concetto

Famigliapatriarcale

Proprietà

Denaroe merci

Democrazia

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vano decisioni che riguardavano sia chi aveva facoltà discelta che chi non ne aveva. Il contesto composto di“rappresentanti” formava un nuovo meta-gruppo, unarete nella rete, che aveva le sue dinamiche interne. Dalgruppo di chi decideva veniva poi scelto un equivalentegenerale, che divenisse l’equivalente generale e il rap-presentante di tutti, il presidente.

Il processo per cui agli abitanti di uno Stato vieneconcesso di scegliere i loro rappresentanti sembra riflet-tere in modo più diretto il processo del concetto diquanto non faccia, ad esempio, la monarchia. I rappre-sentanti appaiono allora non solo come esemplari maanche come “parole” che prendono il posto di tutti imembri della comunità o del gruppo. Come le parolenella langue, essi hanno una relazione reciproca mutua-mente esclusiva, ma una relazione positiva, anche se po-lare, con coloro che rappresentano. Da questa posizio-ne, i rappresentanti si ricostituiscono come comunità,

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Figura 36. Governo rappresentativo (confronta con la Fig. 37).

Rappresen-tanti (Congresso)

Elettorato

Senato

Vice PresidentePresidente

Democrazia degli USA

Le linee delle relazioni sono solo indicative e dovrebbero essere molti-plicate molte volte

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dandosi reciprocamente e ricevendo in diversi modi, fa-cendo accordi, coalizioni ecc; questa comunità acquisi-sce vita propria e ha potere sulla vita dei molti.

I confini nazionali diventano quindi come i confinidel concetto. Coloro che stanno all’esterno sono “cose”senza relazione con gli “esemplari” o le “parole” all’in-terno; non sono rappresentati, anche se le scelte dei rap-presentanti incidono su di loro, in particolare le decisio-ni prese dalla nazione che conquista lo status di “uno”tra tutte le altre nazioni.

Mantenendoci a una certa distanza e chiedendoci:“Se è così, che significato ha questa struttura?”, le stra-tegie che abbiamo per interpretarla passano attraverso ilprocesso del concetto stesso e noi siamo portati a ripete-re il problema. Forse se accediamo e diamo valore al

COSA RAPPRESENTA LA DEMOCRAZIA?

Figura 37. Rapporto di rappresentazione tra parole e cose nella langue.

Parola

Cose

Esemplare

Le cose sono relazionate a ogni parola inmodo che le loro qualità comuni (proprietàcondivise o doni) sono evidenziate

Le parole nellalangue (rap-porto di mutuaesclusione)

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modello della madre donatrice, possiamo evitare diproiettare i nostri schemi linguistici e concettuali nei no-stri governi.

Potremmo individuare un modo di organizzare la so-cietà che sia libero dalle proiezioni e dalle loro ripercus-sioni sul subconscio. Non avremmo bisogno di esclude-re mutuamente gli altri per avere delle identità nazionalio individuali e non avremmo bisogno di creare rapportidi superiorità e inferiorità di “cose” e “parole”, di “mol-ti” e “uni”, per prendere delle decisioni individuali ocollettive. La co-muni-cazione, che forma la co-muni-tàsoddisfacendo i bisogni su tutti i livelli, sarebbe vista co-me fondamento del significato e come principio portan-te sul quale organizzare la società.

Coloro che occupano la posizione della “parola”, irappresentanti, sono organizzati talvolta come i concettidi genere. I democratici USA, ad esempio, prestano gene-ralmente maggiore attenzione ai bisogni della popolazio-ne mentre i repubblicani sono in genere più interessatial profitto e all’egoismo nazionale. Entrambi i partitifunzionano sul modello maschile: quello di destra comepiù macho, mentre quello di sinistra assume il modellodi chi nutre/dà cure in modo paternalistico.

Il punto sessista della democrazia

La moderna democrazia rappresenta maggiormenteil problema della mascolazione rispetto alla tirannia o al-la monarchia, perché si è sviluppata in un’epoca discambio dove il re, l’equivalente generale, è il denaro-parola, anziché il re in persona. Questo fatto ci permetted’inscenare e forse di capire il problema come propriodel sistema, invece di attribuire le nostre difficoltà al ca-rattere individuale dell’“uno”, al re o al padre, all’ere-dità della casa reale o alla superiorità della razza o della

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nazione. Per quanto si possano feticizzare l’oro o altri ti-pi di denaro, è evidente che non si tratta di una persona.Secondo il “Sogno Americano”, ognuno di noi ha lapossibilità di “fare soldi”. Abbiamo spostato il problemadella posizione dell’esemplare privilegiato a un ambitoin cui esso somiglia di più alla mascolazione, anche se lacorrispondenza non è del tutto completa. A prescindereda classe sociale o razza, dice il Sogno chiunque abbiaabbastanza fortuna, energia e know-how può acquisiremoltissimo dell’equivalente generale, così come a ognu-no di noi, a prescindere da classe o razza, può essere“dato” geneticamente un fallo, l’organo grazie al qualeverrà indirizzato alla mascolazione; potrà così “avere”invece di “mancare”.

“Mancare” è infatti il rovescio della medaglia, eognuno di noi può anche essere come una donna “man-cante”. La supremazia del denaro slega la posizione pri-vilegiata dell’esemplare dall’ereditarietà, e ci permette dimeglio individuare le cause del privilegio all’interno del-la socializzazione e delle circostanze, oltre che nei com-portamenti capitalistici e di “accumulazione”2.

La democrazia dell’antica Grecia era esattamente ilregno del fallo, come ci illustra Eva Keuls nell’omonimolibro (1985). A quell’epoca, le donne e gli schiavi erano“non abbienti”, esseri “inferiori” che provvedevano allasoddisfazione dei bisogni. Il genere coincideva con lanazionalità e la classe per creare una categorizzazioneper la quale a un gruppo di pari relativamente grandeveniva consentito l’accesso a posizioni privilegiate di“uni”. Nel suo libro, la Keuls ci parla delle “erme”, sta-tue antropomorfe di peni con i peni, poste davanti agliusci delle case dei greci. Questi appaiono come tentatividi concretizzare una relazione auto-similare.

Questo è al contempo uno spunto possibile per ungioco di parole che ha sempre stimolato la mia curiositàpur eludendomi in parte, cioè l’affinità tra il capitale (ca-

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pital) monetario e il capitello (capital) della colonna.Jean-Joseph Goux, nel suo saggio Freud, Marx. Écono-mie et Symbolique (1973), parla molto di capitalismo e dicaput, la testa. Forse le colonne sono immagini di falli de-rivati o trasposti dalle erme, che ritte sorreggono il tem-pio, l’immagine dello Stato fallico. Il capital (capitello/ca-pitale) è perciò la testa, non della persona, ma del fallo.

Atena, la dea guerriera che dava il nome alla città eche aveva cura dei cittadini maschi proteggendoli in guer-ra, è ospitata (o intrappolata) all’interno del tempio. Natadalla testa di Zeus, questa dea adempiva alla funzione ma-scolante di privilegiare gli ateniesi, avendo cura di loro eproteggendoli, facendosi lei stessa portatrice del compor-tamento maschile del guerriero. Gli ateniesi erano masco-lati in quanto maschi, ma erano legati tra loro come cosedello stesso tipo, portatori del nome di lei. Tra i temi ri-correnti dell’arte ellenica ci sono le immagini di battagliein cui le amazzoni vengono trucidate dai greci. Atena è ladonna che aiuta gli uomini a conquistare le donne, oltreche le altre nazioni e le altre classi; Atena è il simbolo del-la attribuzione del potere collettivo agli uomini e della lo-ro supremazia sugli altri e viene ricordata attraverso ilsimbolo delle loro erezioni colonnari collettive. Il suo no-me, dato alla loro città-stato, ben si accorda con la coesio-ne sociale allora esistente, che non consisteva nel nutri-re/dare cure delle donne, ma nei legami maschili, nellebattaglie o nell’oratoria e nelle competizioni sportive, conl’obiettivo di diventare “uni” privilegiati. Gli ateniesi era-no anche uniti nel godimento privilegiato delle loro li-bertà, piaceri non concessi né alle donne né agli schiavi.

La mascolazione è un costrutto artificiale, e ha biso-gno di immagini di se stessa che la confermino (è soprat-tutto l’apparenza fisica – avere il pene – che pone ilbambino nella categoria non-nutrice). La mascolazioneha bisogno di immagini falliche a riprova delle struttureauto-similari su diversi livelli, nel tentativo di creare un

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universo più familiare e amichevole per il bambino dis-identificato dalla madre. Qualunque siano le motivazio-ni, il patriarcato (o la puerarchia) crea ovunque immagi-ni di sé che rappresentano il fallo, ogni volta che è inquestione l’accesso a una categoria privilegiata.

Mi sembra, comunque, che la chiave (anch’essa sim-bolo fallico a immagine dell’erma) stia nell’affinità tra leerme, le colonne e gli uomini. La colonna è un gigante-sco pene; l’erma è la statua a misura d’uomo di un penecon un pene (Keuls 1985). Possiamo dire che l’uomoeretto richiama esso stesso l’immagine del pene, auto-si-milare rispetto al proprio fallo eretto, e che la sua testasia come la “testa” del fallo? Il bisogno di un’immaginefallica auto-similare sarebbe perciò soddisfatta almenoin parte dal corpo dell’uomo; il fallo sarebbe l’immaginedell’uomo e, viceversa, lui sarebbe l’immagine del fallo.

Siamo diventati ciechi di fronte a queste immagini, oabbiamo imparato a non parlarne. A me sembrano piut-tosto il sintomo di una psicosi di massa provocata dallamascolazione. Quando ci toglieremo le bende dagli occhi,potremo riconoscere le immagini per ciò che sono. Esseoscurano la nostra storia. Un’altra immagine dell’antichitàè l’ureo, il cobra sacro raffigurato sul copricapo di faraonie divinità egizie. La testa del serpente fallico sulla testaumana era il simbolo del loro potere uno-molti.

Molti strumenti riguardanti la morte, come abbiamovisto, sono simboli dell’indice-fallico. Ogni “membro”delle forze armate ha un “fucile” proprio. Segni dellaconquista, dagli obelischi ai pennoni, costellano i nostripaesaggi patriarcali. Altri esempi comuni più modernisono gli skin-heads (le “teste rasate”), in cui si allude al-l’organo della violenza maschile; o “Joe Camel”, checom’è noto sembra un fallo, e in modo auto-similare fapubblicità alle sigarette, come un’erma. Il suo viso falli-co diventa un’erma, con la sigaretta auto-similare chespunta come un piccolo fallo.

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Se consideriamo la proprietà come ciò che gli uniprivilegiati “hanno”, il capitale sarebbe la proprietà chesi mascola in auto-similarità fallica, crescendo all’infinitoper il continuo meritare un nome-denaro più grande, elavorando o producendo per adeguarsi al nome, crean-do un flusso di doni (nascosti) diretto a un “uno” cen-tralizzante e che può ingrandirsi all’infinito. Il capitale,immagine economica auto-similare della masculazionecon impulsi fallici (il sangue scorre infatti verso il glandecome i doni occulti scorrono verso gli investimenti dicapitale), si trasforma da parola, che controlla il com-portamento dei lavoratori attraverso il salario, in “esem-plare-denaro” equivalente del valore dei prodotti inscambio. Il capitale, l’accumulazione che consente a unapersona di imporre sugli altri la propria volontà, crea uncapitalista fallico esemplare a sua immagine e somiglian-za; al contempo il capitalista crea il capitale a propriaimmagine e somiglianza. Ci sono adesso numerosi gran-di capitali, che sorreggono lo Stato; le loro teste sono ipilastri e i capitalisti delle comunità.

L’erezione appare come “uno” privilegiato e ha unarelazione con un oggetto sessuale che viene anch’esso mo-mentaneamente scelto come esemplare uno-molti, adesempio una donna come esemplare di tutte le donne.Atena serviva da donna esemplare (ipostatizzata) attraver-so la quale i cittadini acquisivano la loro posizione-in-co-mune fallica. Anche il “fascio” era un mazzo di ramoscelliraccolti e legati insieme da un ramo del loro stesso tipo.Una funzione analoga animava il saluto fallico nazista“heil Hitler”. Devono esistere altri modi di organizzare loStato, che non richiedano una leadership di falli, e in ef-fetti, l’erezione-in-comune allude allo stupro di gruppo.

Non è la coincidenza tra parola e cosa (o tra erezio-ne e donna scelta tra le altre) a creare il “significato”,bensì la risposta ai bisogni umani riguardanti le parole,le cose e la conseguente proliferazione positiva di biso-

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gni comunicativi. Analogamente, non è la coincidenza ola corrispondenza tra il denaro e i prodotti a creare ilvalore economico, bensì la risposta ai bisogni comuni-cativi e materiali, malgrado l’ambito generalizzato delnon-dare.

La corrispondenza tra le parole e le cose, il denaro e iprodotti, l’uomo e il bambino, l’uomo e la donna, attiracontinuamente la nostra attenzione soprattutto sullestrutture auto-similari e sulle loro relazioni di uguaglian-za e di modelli astratti allontanandola dai bisogni. Que-sta è una delle ragioni per cui non riconosciamo il valorecome un dono che viene attribuito e apprezzato in Co-mune in ogni diverso campo. Ciascun ambito auto-simi-lare del patriarcato viene considerato separatamente eindipendentemente da tutti gli altri, perché l’esemplaredel concetto di ciascuno di essi è in evidenza rispettoagli altri ed è da questi diverso.

Gli “esemplari”, inoltre, appaiono spesso come fontedel loro stesso valore. Ad esempio il rapporto tra il pre-sidente e gli elettori, o tra i senatori e i membri del con-gresso e l’elettorato, viene considerata completamentedifferente dalla relazione tra il denaro e le merci (v. Fig.38). Anche se è vero che i livelli sono molto diversi, iocredo che abbiamo imparato a non vedere le affinità e asminuirle quando le vediamo.

La nostra concezione del patriarcato è dunque fram-mentata, divisa e conquistata, e noi ci ritroviamo ad ana-lizzarne le singole parti, anziché proporre una critica ge-nerale e offrire un’alternativa globale. Le critiche parzia-li non possono che produrre risultati parziali, per quan-to importanti possano essere, perché gli aspetti del siste-ma patriarcale si rimpiazzano a vicenda. Quando riu-sciamo a decapitare una delle “teste” dell’idra, molte al-tre sono subito pronte ad attaccare.

Individuando gli schemi che creano queste “teste”,possiamo rivolgerci collettivamente all’intero meccanismo.Il capitale, dopo tutto, è solo una delle teste dell’idra.

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1 Il valore di scambio è qualitativamente semplice e singolo, così che puòessere diviso quantitativamente. Il denaro è la “parola-esemplare” quantitati-va che soddisfa il bisogno comunicativo sorto dal tipo di comunicazione alte-rata che è lo scambio di proprietà privata. È il bisogno comunicativo di unrappresentante del dare senza dare.

2 La proliferazione delle carte di credito e delle operazioni bancarie su in-ternet stanno smaterializzando il denaro, ritrasformandolo da una parola ma-teriale a un elemento del linguaggio.

GENEVIEVE VAUGHAN

Figura 38. Auto-similarità sociali.Presidente

Presidente

Rappresentanti

Elettorato

Proprietario

ParolaParola

Cose

Cose Cose

Proprietà

Definiendum

Definiens

(Esemplare)

DenaroMerci

Padre

Madre

Bambini

(Moglie)

Elettorato

Rappresentantieletti

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Capitolo diciottesimoGli agenti non mascolati del cambiamento

Le donne danno gratuitamente ai figli dai propri seni(e in infiniti altri modi), però, dal momento che vienedata eccessiva importanza al pene, noi donne veniamoconsiderate donatrici per una “mancanza” della “mar-ca”; e visto che la scarsità è stata creata per privilegiarel’avere, noi donne in realtà diamo in un ambito econo-mico di mancanza. Tutto questo è aggravato dal fattoche gli uomini rinunciano all’economia del dono. Loscambio “dà” il dono del non-dare, mentre il seno rap-presenta concretamente il dono del dare.

Possiamo immaginare i seni come il modello origina-rio dell’indice: il capezzolo è l’indice e la bocca del neo-nato è l’“oggetto” che viene scelto tra tanti e richiamatoalla nostra attenzione. Quindi i “punti” di vista vengonoribaltati: per il neonato, la propria bocca è al centro del-l’attenzione e il capezzolo è l’“oggetto” scelto tra gli al-tri; poi l’“oggetto”, in effetti, risponde indicando, e dà illatte. Oppure, per la madre, se l’“oggetto” non sta pun-tando indietro con la bocca e la lingua, almeno “coglie ilpunto” e riceve il latte.

Proviamo a considerare l’avere come avere i seni,avere qualcosa da dare1. Noi siamo mammifere. Anchese i maschi hanno dei seni piccoli, ci sono sicuramentemolti modi in cui loro e le donne che non stanno allat-tando possono nutrire/dare cure agli altri (in realtà il pe-ne viene “dato” a un’altra persona solo quando il bam-

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bino diventa adulto, ma, alla vista e al confronto, vienedato molto prima).

Questi modi sono stati male interpretati, nascosti emascherati attraverso il discredito e l’isolamento dellapratica materna sin dall’infanzia, e attraverso l’attenzioneprimaria che il patriarcato dà all’esemplare, allo scambio,al riflesso, all’avere e tenere. Le modalità del dare inclu-dono, tra le altre cose, il linguaggio, la soluzione dei pro-blemi e la produzione di beni e servizi come un provvede-re ai bisogni senza l’intermediazione del meccanismo del-lo scambio, derivato dalla mascolazione. “Avere” è ancheavere le mani, gli strumenti che possono essere usati perdare e per dare cure. Le mani non servono solo a fabbri-care utensili (o, peggio ancora, a fabbricare armi).

L’auto-duplicazione dell’esemplare

Il dono che il padre sembra dare al figlio (il dono delpene) è il dono dell’affinità o dell’uguaglianza, ed è il va-lore che viene dato all’uguaglianza, all’equazione in sé,al figlio in quanto uguale al padre che è la norma non-nutrice a sua volta legata analogamente al nonno. È undono carico di significato, perché l’uso psicologico chese ne fa nella società, l’errata interpretazione che gli vie-ne attribuita, crea un bisogno artificiale. Per questo il fi-glio deve cercare di soddisfare quel bisogno diventandocome il padre. Anche il padre ha bisogno che il figlio siasimile a lui, così da poter raggiungere la posizione diesemplare, il proprio mandato di genere che lo rende unequivalente rispetto al quale non solo ogni donna maanche gli altri maschi (più piccoli) sono relativi.

Nel patriarcato, il padre deve dimostrare che si è ripro-dotto da solo. Deve dimostrare che, grazie al pene indice-esemplare, ed essendo lui stesso l’esemplare del maschio,ha anche il potere creativo di fare altri a sua immagine

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(dimostrando che il potere creativo non è tutto nell’esem-plare materno, che lui ha offuscato). Alla base dell’osses-sione degli uomini per la paternità non c’è quindi solo larelazione di possesso ma anche l’adempienza al mandatodella forma del concetto come realizzazione della propriaidentità di individuo, di genere e di specie. Sebbene fun-zioni così da generazioni, questa “logica” contribuisce acreare una prospettiva completamente falsa2.

Mi sembra probabile che la sovrapposizione delle di-verse incarnazioni uno-molti del concetto l’una sull’altrasia stata come un dott. Frankenstein che ha creato il mo-stro bianco del patriarcato. Nelle società in cui la funzioneeducativa del padre spetta al fratello della madre, il fallonon ha bisogno di essere enfatizzato come esemplare chedi fatto “crea” il bambino. In queste società la trasmissio-ne della cultura attraverso l’insegnamento e la disciplinaviene distinta dalla sessualità; colui che svolge un ruolo di-sciplinare (il fratello della madre) non ha bisogno che ilbambino sia come lui. In queste società sembra ci sia pocaviolenza e che lo stupro sia praticamente sconosciuto(Watson - Franke 1993).

I maschi, come le femmine, hanno bisogno di restarenella modalità del dare e ricevere, così che le loro iden-tità possano formarsi attraverso la co-muni-cazione mate-riale e segnica, creando una soggettività costruita suun’interazione in continuo mutare di nutrimento/curecon gli altri (un’interazione che implica anche il prender-si reciprocamente a modello l’uno dell’altro e fare a tur-no), invece che sul mandato artificiale e assurda di rag-giungere l’astratta posizione di uguaglianza con l’esem-plare. A peggiorare le cose, questa posizione di ugua-glianza ha nascosti in sé in modo contraddittorio due li-velli di superiorità (di ineguaglianza): una categoria supe-riore di chi è diverso dai donatori e uguale all’esemplare(e che potrebbe, perciò, diventare lui stesso esemplare),e un’altra di chi è superiore perché è già esemplare. Il

GLI AGENTI NON MASCOLATI DEL CAMBIAMENTO

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mandato crea competizione laddove non sarebbe neces-sario, e fa sì che metà dell’umanità convalidi come moda-lità di comportamento il dominio e la sopraffazione.

Poiché s’impone come norma, questa modalità siestende dunque all’intera umanità, portando chi ha altrivalori a essere subordinato, invisibile e non abbastanzaumano. Essa pone le persone “uguali” in una categoria eche sembra conferire ai “membri” il diritto di farsi daredagli altri attraverso l’uso della violenza e/o le gerarchieorganizzate, l’esercito o la polizia. Riapplicando a questasituazione la stessa logica del concetto (che richiede unarelazione “uno-a-molti” per sviluppare generalità), sco-priamo che ciò che più si confà a questa logica non è lafelicità degli esseri umani, bensì il fatto che poche perso-ne siano gli esemplari generali per le loro diverse catego-rie; e questo significa, ovviamente, che i molti non di-ventano “esemplari”. Abbiamo così, ad esempio, moltepersone organizzate in gruppi nazionali, ognuno deiquali ha delle gerarchie interne guidate da pochi uomi-ni, con un uomo alla testa.

Considerando i principi della forma del concetto co-me logica della specie e coloro che hanno successo in es-so come gli esemplari della specie (dimenticando che ledonne fanno le cose in modo diverso), il dominio, la so-praffazione e il tentativo di incarnare l’esemplare delconcetto e l’esemplare della specie diventano le forme dicomportamento convalidate.

Purtroppo, le donne hanno alimentato questo stato dicose e gli sforzi dei figli e dei mariti che vogliono riuscir-ci. Adesso, anche noi abbiamo cominciato a prenderviparte. Fortunatamente, la nostra “mancanza” del peneha dimostrato, ancora una volta, che esso non è l’esem-plare della specie e che non è indispensabile per riuscirenel sistema. Pur avendo probabilmente reso sospetta lasuperiorità maschile, tale fatto non ha smantellato ilmandato e la sua logica ma li ha semplicemente spostati

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ad altre categorie. Adesso, ad esempio, tutti gli abitantidei paesi privilegiati possono considerarsi loro stessi pri-vilegiati, o “esemplari”, rispetto agli abitanti di altri paesiche “dovrebbero” per questo dare loro e servirli. Tutte lepersone che appartengono a una stessa razza, sia maschisia femmine, possono considerarsi superiori rispetto adaltre razze e possono “dimostrarlo” dominando altre raz-ze (e facendosi dare da queste, che assumono così i com-piti di nutrimento/cure “femminili”).

Sebbene tutto questo possa sfociare in comportamentiorribili e vergognosi degli individui di un gruppo controaltri, questi stessi comportamenti adempiono a un man-dato maschile considerato per secoli “umano” dall’Occi-dente e da molte altre società. Si tratta perciò di un siste-ma basato su una falsa logica, e questa, non gli individui,deve essere ritenuta la responsabile; è il sistema che deveessere smantellato. Cambiare gli individui senza cambiarela logica e i principi non fa altro che ricreare lo spazioperché altri individui seguano ancora la stessa logica eprincipi. Come dice un vecchio detto: “Pur dando a tuttile stesse opportunità in partenza, solo alcuni arriverannocomunque in alto”. Questo vuol dire soltanto che, finchénon individueremo la malattia e non la cureremo, alcuniindividui continueranno a inscenare quei principi a detri-mento di altri che non hanno la “spinta” o l’“ambizione”(leggi: “che non sentono il bisogno di diventare esempla-ri”). La malattia è una sorta di “virus” auto-duplicante(che deriva forse da vir, la parola latina per “uomo”).

Le “marche” dominatrici

Un esempio di imposizione di un gruppo comeesemplare su altri è l’invasione europea delle Americhe.La superiorità tecnologica degli europei non fu la solacausa che portò al genocidio delle popolazioni native,

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bensì il fatto che gli europei fossero portatori della ma-scolazione a diversi livelli: misoginia, proprietà privata,linguaggio, economia, religione, filosofia, educazione deifigli, legge, architettura, agricoltura ecc. erano tutte cosemolto diverse presso le culture locali. Sarebbe anche po-tuta andare diversamente: gli europei avrebbero potutoimparare dai popoli nativi invece di distruggerli.

Dopo essersi imposti come categoria “superiore” ri-spetto a un intero emisfero, i nostri antenati acquisironoanche la proprietà uno-molti di altri esseri umani comeschiavi, costringendoli a dare i doni che servivano al lo-ro profitto e consentivano l’accumulazione del capitaledei proprietari di schiavi. La categoria dei “superiori”deve essere facilmente identificabile da moltissime per-sone; questa è stata la funzione principale del pene nellacategorizzazione. E la pelle bianca ha lo stesso scopo: inentrambi i casi, la “marca” della “superiorità” inverte ilruolo della madre, facendo sembrare l’anormalità unanorma e il donatore inferiore e anormale. Se la mascola-zione e lo scambio non fossero una modalità di vita nellasocietà, questa dinamica non esisterebbe.

Gli europei ipermascolati uccisero e ridussero inschiavitù la popolazione meno mascolata nelle Ameri-che e in Africa, “dimostrando” così di trovarsi in unacategoria “superiore” (più maschile), che era la normae consentiva la loro simbolica e infinita crescita fallica,mascolandoli in una classe ancora più alta della catego-ria “superiore”. Anche avere molti soldi permetteva lo-ro di comprare, produrre e costruire oggetti con i qualipotevano venire ancora identificati come appartenentialla categoria “superiore”, i privilegiati tra i privilegia-ti. Case, veicoli, gioielli, vestiti, grattacieli, pistole, edu-cazione, viaggi: tutto ciò può essere acquistato ed èprova macroscopica e percettivamente evidentedell’“avere”, che continua a collocare gli “aventi” nellacategoria privilegiata.

GENEVIEVE VAUGHAN

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Io credo che i paesi del cosiddetto “Primo Mondo”siano diventati oggi le “categorie superiori”, identificabiliper la loro collocazione fisica e i documenti di cittadinan-za, e che questi stiano costringendo i paesi del “TerzoMondo” a dare loro mediante meccanismi politici, cultu-rali ed economici che risultano generalmente invisibili agliocchi dei cittadini. Lo sfruttamento che è in atto potrebberimanere ancora invisibile se non fosse per gli enormiflussi di immigranti che tentano saggiamente di collocarsinella categoria geograficamente privilegiata. Corriamo ilrischio, attraverso i meccanismi del “libero mercato”, diincrementare lo schema dei paesi dominanti-maschili edei paesi donanti-femminili, che si svilupperebbe, infine,in paesi schiavi e paesi di padroni di schiavi. Sulla terra èsancita a grandi lettere la mascolazione (e mi ha sempremeravigliato l’adeguatezza del nome di Castro).

L’esistenza quantificata

Il tendere verso l’altro delle madri ci dà, tra le altrecose, corpi, linguaggio e socializzazione verso i nostriruoli di genere. Noi, però, siamo motivati dalla possibi-lità di ricevere di più attraverso la definizione come èsuccesso attraverso possibilità di essere denominati “ma-schio”. Coloro che accumulano profitto trasformano glialtri nelle loro madri mascolanti; si fanno dare dagli al-tri, dimostrando di “meritare” il profitto proprio perchédanno loro in modo limitato e li usano come mezzi.

Forse è anche per l’aspetto che il denaro ha di essereuna “parola” unica, singolare, e per la mancanza di ac-cesso al sistema di una langue diversa qualitativamente(e quindi per la nostra incapacità di esplorare la varietàdei valori pronunciabili nella loro relazione reciproca),che il denaro e il valore di scambio mantengono la pro-pria egemonia sociale, comparendo e scomparendo mol-

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to rapidamente, nel passare di mano all’interno del pro-cesso di scambio. La cosa che significa la parola materia-le “denaro” è il prodotto (il potenziale dono) sottopostoallo spostamento, della sostituzione della logica (e l’atto)della sostituzione per la logica (e l’atto) del dare, cioè loscambio. Il valore-nella-comunicazione di quel significa-to è il valore di scambio, espresso in una specifica quan-tità di denaro. Sebbene una langue non sia presente aquesto livello materiale per mantenere un complesso divalori-mediatori diversi qualitativamente, l’auto-simila-rità della sostituzione del prodotto con il denaro e deldare con la logica dello scambio crea un meccanismoauto-convalidante che mette continuamente in evidenzalo scambio nascondendo la pratica del dono3.

Il capitalismo unisce mascolazione e scambio, dandoa ognuno di essi un nuovo obiettivo. Per la mascolinità, ilnuovo obiettivo è accumulare ricchezza fallicamente; perlo scambio, è ripetere continuamente il processo dellamascolazione, quindi accumulare e avere “di più”, meri-tare un “nome” equivalente quantitativo o mascolanteancora più grande e porre il proprietario nella categoriaa cui vengono dati sempre più doni gratuiti non visti.

L’esistenza è identificata con la mascolazione, e cosìdiventa quantificabile: questo dà alla gente uno stimoload avere di più, per poter essere qualcosa in più. Il poteree la potenza sono immersi in una spirale negativa tenden-te verso l’alto, per la quale alcuni uomini (e donne) “disuccesso” possono diventare più mascolati di altri – esi-stere di più – avendo più “valore” quantitativo. Questi in-dividui sembrano, perciò, meritare maggiormente di esi-stere, la qual cosa permette alla classe alta di auto-convali-darsi e di giudicare chi viene da loro sfruttato come “me-no meritevole di esistere”, o forse già “meno esistente”.

Il pensiero viene posto alla base dell’identità compe-titiva autoritaria (dello scambio). La capacità di attuarele definizioni e le sostituzioni è un processo ripetibile ri-conoscibile, che fornisce una costanza interna (io = io) e

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si concentra sull’ambito di esclusione mutua necessarioalla proprietà privata e al successo della competizione edell’attività orientata verso l’ego (con i processi continuie variati del dare e ricevere doni si creerebbe inveceun’identità interiore positiva). Lo scambio strumentaliz-za la soddisfazione dei bisogni altrui per la soddisfazio-ne dei propri e viene continuamente supervalutato ri-spetto al dare. Chi ha la volontà impegnata nell’avere (enell’avere più degli altri) sembra essere pensante e razio-nale, mentre chi continua a praticare il dare derivandoda questo la propria identità, sembra “irrazionale”.

Il capitale è la volontà mascolata

Il capitalismo è mascolazione per accumulazione. Èmeno sessista della definizione di genere perché permet-te ad alcune donne di essere “aventi” (persino “aventiche si sono fatte da sé”). Tuttavia, anche le donne disuccesso sembrano ancora esistere – e meritare di esiste-re – meno degli uomini mascolati. Il loro maggiore con-tatto con le (emozioni, che potremmo definire come lapresentazione interiore dei bisogni), pone le donne par-zialmente al di fuori della razionalità del capitalismo. Leemozioni sembrano perciò la “ragione” per cui le donne(e gli uomini) che hanno emozioni mal si adattano all’e-conomia dello scambio.

In una situazione in cui gli esseri umani sono compe-titivi e dominanti nella comunità, e si usano reciproca-mente come mezzi, l’e-mozione umana è solo un accen-no di ciò che sarebbe stato possibile al di fuori delle “ra-gioni” (ratios) auto-similari. È la nostra emozione ir-ra-zio-nale che continua a fuoriuscire verso i bisogni deglialtri, anche quando siamo bloccati, tagliati fuori dalleazioni che potrebbero rispondere ai bisogni. Forse noidonne continuiamo a provare queste sensazioni più de-

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gli uomini mascolati perché ancora pratichiamo il dare.Sono modi di tracciare il cammino verso un mondo mi-gliore. La gioia è la celebrazione dei bisogni soddisfatti,la danza divinamente scandita dell’anima libera dallagabbia dello scambio, che vive infine in armonia con sestessa e con gli altri.

Dal danno che è la creazione violenta di nuovi biso-gni scaturisce la rabbia, e le forti emozioni si oppongonoall’ingiustizia che è danno istituzionalizzato.

La questione della giustizia è strettamente legata al bi-sogno di definire alcuni tipi di azioni in quanto dannose.È il fallimento di queste definizioni a influenzare il com-portamento che stimola la rabbia e la volontà di vendica-re chi è stato danneggiato. È invece possibile promuoveretali definizioni senza la rappresaglia, che fa parte del para-digma dello scambio, e prevenire i crimini soddisfacendoi bisogni che li provocano prima ancora che l’impulso acommetterli abbia avuto la possibilità di svilupparsi. Mauna soluzione di questo tipo è impossibile a causa dellascarsità necessaria al paradigma dello scambio e per viadelle evidenti ingiustizie che restano non definite e sem-brano ormai far parte di un sistema immutabile.

Il capitale è l’ego mascolato; è attribuzione di valoreincarnato nello spostamento verso lo scambio, volontàmascolata, che dirige l’energia verso l’accumulazione dimaggiore ricchezza e potere; è il desiderio e la capacità diessere di più. Più denaro è, infatti, più essere e più capa-cità di sostituire, di prendere-il-posto-di. Il “libero arbi-trio” del capitale, come il libero mercato, non è realmentelibero; è rivolto alla sopravvivenza e alla supremazia di sestesso, secondo il mandato della mascolazione. In altre pa-role, non è libero di praticare il dare e il nutrire/dare cure(poiché vorrebbe dire contraddirsi, praticare il masochi-smo, non creare la scarsità per gli altri, non accrescere lapropria abbondanza). La pratica del dono è inadeguata aisuoi scopi. Alla pratica del dono non viene dato valore

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perché il valore, per lo scambio, è rinchiuso nella sua stes-sa auto-similarità e non riconoscere il dare permette di oc-cultare lo sfruttamento oppressivo dello scambio “equo”.

Il libero mercato e il libero arbitrio capitalistico sonoossimori, se si considera il termine “libero” (free) come“gratis” (free) (anche andare a fare le compere è un la-voro gratis, anche se non riconosciuto: è il lavoro della“libera” scelta. Non siamo liberi se non compriamo enon scegliamo, perché non mangeremmo. Se non avessi-mo denaro, non saremmo liberi di comprare e di sce-gliere; non “meriteremmo” di essere). Ma anche leggen-do “libero” come “libero da obblighi”, il mercato e lavolontà sarebbero liberi per chi li pratica al prezzo dicostrizioni maggiori per le loro vittime. Gli esecutori dellibero mercato e del libero arbitrio capitalistico sono li-beri dall’“orientamento verso l’altro”, dall’impegno diservire i bisogni degli altri, e devono esserlo se voglionoavere successo. Alcune delle nostre multinazionali sonopersino più mascolate dei nostri singoli figli (maschi).

Ciò che consideriamo l’etica del libero arbitrio non èaltro che la possibilità dei singoli ego mascolati di sce-gliere secondo valori più “altruistici” in contraddizionecon la loro socializzazione al potere, o che permetta lorodi limitarsi alle equazioni di “giustizia” (mentre quasitutte le donne scelgono già con una “voce differente”).Valendosi della capacità di dare cure che hanno accan-tonato, gli uomini contraddicono le loro volontà masco-late di dominio e di essere “più”, accettando le “costri-zioni” dell’orientamento verso l’altro.

Nello stesso tempo, chi è stato socializzato a cure è li-bero d’imitare i modi mascolati, adattandosi a una societàmalata; può sviluppare un ego dello scambio lavorandonell’ambito delle proiezioni sociali della mascolazione, co-me il mercato, sposando i valori del patriarcato. Le donnecontinuano però a essere socializzate diversamente, versoil dono; e per questo sono sempre potenzialmente in una

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posizione di malattia/disagio (dis-ease) all’interno del si-stema, e in conflitto interiore con loro stesse.

Le donne tendono inoltre a scegliere l’“umiltà”, criti-candosi per una mascolazione che per loro non funzio-na, cercando di sbarazzarsi di un difetto che in realtànon hanno. Esse criticano la mascolazione come se fosseuna loro parte, invece di riconoscerla come, al limite,l’interiorizzazione di uno schema auto-similare maschile(rispetto al quale non sono “uguali”) e della società nel-l’insieme. Le donne affollano così le chiese, le sedute te-rapeutiche e i gruppi di sostegno collettivo, ispezionan-do le loro anime in cerca di qualche traccia di arroganzao mania di potere, mentre in realtà non sono altro che levittime del comportamento mascolato di mariti, capi,scuole, università, uffici, governi e altre istituzioni pa-triarcali. Pur creando una comunità e dei valori comuni,quasi tutti gli approcci “curativi” continuano a nascon-dere i valori del dare che gli danno vita, al riparo dallacortina fumogena dei valori mascolati di autonomia, re-sponsabilità, colpa e punizione individuali.

Se guardiamo al capitale come volontà mascolata,possiamo vederlo libero di acquisire potere, di “esseredi più” a discapito di altri per un’infinita accumulazio-ne. Praticare la filantropia permette al capitalista di ef-fettuare la “libera” scelta dell’“orientamento verso l’al-tro” nel contesto di ciò che già esiste, continuando a“fare soldi”. Gli atti caritatevoli permettono al capitali-sta di diventare una persona “più completa”, compen-sando lo scambio con la pratica del dare e soddisfacen-do allo stesso tempo alcuni degli stessi bisogni creatidalle istituzioni e dai sistemi patriarcali mascolati4. Unatale attitudine è probabilmente più sana dello sfrutta-mento indiscriminato, ma si limita a migliorare il destinodi pochi individui trasformando l’individuo donatore-caritatevole in un individuo più buono. L’orientamentoverso l’ego del sistema si appropria della pratica del do-

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no e ci incoraggia a usare i nostri doni, rivolti agli altri,per il miglioramento di noi stessi.

È solo dando per il cambiamento sociale da un meta-livello, – con un meta-messaggio che dice: “Questo do-no co-municativo è fatto per cambiare il sistema verso lapratica del dono” – che il capitale-volontà diventerebbegenerale, liberato e liberante; dando per cambiare lostesso sistema (dello scambio) che lo ha creato. Questascelta libererebbe il capitalismo dalla mascolazione e,provvedendo alle risorse finanziarie, libererebbe infinetutti noi per poter nutrire/dare cure, per praticare un’e-conomia del dono, la modalità delle donne. Chi occupauna posizione privilegiata, non può creare un cambia-mento pretendendo di non essere privilegiato, o sempli-cemente dando via le proprie “marche quantitative” perdiventare individualmente non privilegiato. Si dovrebbe,piuttosto, trovare il modo di usare il proprio privilegiosu un meta-livello per convalidare il modello e la logicadel dare al posto del modello dello scambio.

Ho sentito una frase che viene attribuita a WinstonChurchill: “Il punto non è distribuire equamente la po-vertà, bensì distribuire equamente la ricchezza”. A partel’uso della parola “equamente”, mi sembra un’idea mol-to importante: dobbiamo centrare l’attenzione sulla ric-chezza per tutti, non su un nuovo sistema di povertà pertutti. Non è rendendoci tutti ugualmente poveri checambieremo il sistema per il bene di tutti. Solo l’abbon-danza permetterebbe infatti il prosperare della praticadel dono. Dobbiamo perciò usare la nostra ricchezza dirisorse, il denaro accumulato nel capitale, la nostra terra,la nostra educazione, esperienza, capacità comunicativa,sapere politico, psicologico e organizzative, i nostrigruppi e reti per creare una transizione intelligente, nonviolenta, dal sistema basato sullo scambio a un sistemabasato sulla pratica del dono nell’abbondanza.

Un passo nella giusta direzione sarebbe arrestare la

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spesa enorme che viene sprecata oggi in tutto il mondosugli armamenti e sugli eserciti. Un altro passo sarebbeper-donare il debito del cosiddetto “Terzo Mondo”, conla consapevolezza che il debito non è altro che un mec-canismo artificiale di sfruttamento che in realtà è già sta-to ripagato milioni di volte. E ancora, fermare la distru-zione dell’ambiente, assicurerebbe l’accrescimento del-l’abbondanza nel futuro invece di farlo sparire in unecosistema artificialmente impoverito e tossico. Una ri-duzione ben pianificata dello sfruttamento e dello spre-co consentirebbe l’accumulazione di una ricchezza de-stinata alla pratica del dono tra gli individui, come an-che tra i gruppi e le nazioni.

Una leadership delle donne

Per il modo in cui le categorie della mascolazionehanno proliferato, molti di noi appartengono a varie ca-tegorie differenti: siamo privilegiati in quanto bianchi,ma non privilegiati in quanto poveri; siamo privilegiaticome ricchi, ma non privilegiati come donne; siamo pri-vilegiati come maschi, ma non privilegiati come personedi colore. Dobbiamo unirci attraverso le categorie nonprivilegiate perché siamo consapevoli della sofferenza,ma abbiamo anche bisogno di unirci dall’interno dellecategorie privilegiate per trovare un rimedio alla soffe-renza, per cambiare il sistema per tutti. Se ristabilissimoil modello materno e ci preparassimo alla logica dell’e-conomia del dono, potremmo prestare attenzione ai bi-sogni degli altri e soddisfarli, non solo a un livello indivi-duale, ma anche sociale. La vera svolta non consiste nelporre una categoria piuttosto che un’altra in una posi-zione privilegiata, bensì nel mettere in atto l’orientamen-to verso l’altro basato sulla madre come normalità gene-rale, che superi e abbatta ogni categoria.

GENEVIEVE VAUGHAN

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La mascolazione convalida l’interesse egoista su tuttii livelli (anche quello di una categoria o gruppo); dob-biamo anche essere altresì capaci di convalidare l’inte-resse dell’altro su tutti i livelli. La risposta non è certa-mente nelle categorie, ma nel dare e ricevere, nel co-mu-nicare l’uno con l’altro quali esseri umani e nel collabo-rare per risolvere i problemi generali, i bisogni di tutti,cambiando il sistema costruito sulla mascolazione.

È questo il cambiamento di paradigma cui aspirano laNew Age e gli altri movimenti spirituali. Esso non si basasolo sulla consapevolezza – anche se questa ha un ruoloimportante nel necessario spostamento di prospettiva –,ma sulla reale e pratica soddisfazione dei bisogni e solu-zione dei problemi. A una tale pratica devono contribui-re una certa lungimiranza e una sensibilità culturale, cheindividuino i possibili modi di soddisfare i bisogni psico-logici e spirituali, come i bisogni di dignità e rispetto, perl’indipendenza e l’autodeterminazione di chiunque stiacompiendo la transizione dallo scambio alla modalità deldono. Il cambiamento di paradigma può essere attuatodalle donne, al di là di ogni categoria. Le sue operatrici sitrovano già in tutto il mondo, nel movimento internazio-nale delle donne; gli agenti non mascolati del cambia-mento sono già presenti in tutte le case.

1 È forse per questo che ci è chiesto di coprirli; perché sollevano la que-stione dell’abbondanza e del paradigma del dono?

2 Anche le donne possono seguire i passi del padre, entrando in competi-zione con altre donne che hanno un ruolo materno e offuscandole. General-mente queste donne vengono poi a loro volta offuscate dagli uomini. Le fem-ministe devono capire che non è prendendo più doni nascosti e cancellando ildonatore che riusciremo a migliorare il mondo. Dovremmo invece promuove-re la logica del dono e rispettare il modello di chi lo pratica in tutti gli ambitidella vita.

3 Il denaro è attaccato all’immagine di se stesso. La faccia del re o delpresidente sulle monete è forse l’immagine stessa dell’auto-similarità.

4 Anche un gruppo come l’United Way, che raccoglie milioni di piccolicontributi, li incanala in progetti che si prendono cura degli individui senzaagitare troppo le acque.

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Capitolo diciannovesimoSogno e realtà

Io penso che la separazione tra conscio e subconsciopossa essere una sorta di riproduzione interiore dei dueparadigmi e (forse anche l’emisfero destro e sinistro delcervello riproducono questa separazione). È ovviamentedifficile capirlo perché, almeno quando siamo svegli, èsempre all’interno della coscienza che siamo presenti anoi stessi; e nella coscienza, spesso serviamo la nostradefinizione di noi stessi, attuando le sue profezie che siauto-avverano.

I doni delle parole covano negli strati profondi dellanostra mente, pronti a saltare fuori quando è necessario.Sono lì che vibrano, in risonanza con le parole dellostesso tipo di tutte le altre persone. Muovendoci nelmondo esterno, ogni cosa in cui ci imbattiamo assume lacaratteristica di un potenziale rapporto con le nostre pa-role e le loro combinazioni, e/o con le parole degli altri.I nostri bisogni comunicativi di legami reciproci in rela-zione con il mondo sorgono e vengono soddisfatti daiprodotti collettivi delle generazioni precedenti, che noiricombiniamo collettivamente e individualmente e cheusiamo poi per creare doni sempre nuovi, a cui le partidel nostro mondo sono legate come loro sostitute nellacomunicazione.

Noi creiamo le nostre soggettività ad hoc, insieme,dando doni l’uno all’altro a un livello sia materiale che lin-guistico. Il grosso potenziale perché ci sia sviluppo umano

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attraverso questo processo è intralciato dal patriarcato. Cirimane ancora sufficiente umanità collettiva per continua-re a capire i discorsi l’uno dell’altro, a trasmetterci infor-mazioni e a funzionare come promotori più o meno effi-cienti degli ego che abbiamo sviluppato attraverso la defi-nizione, l’auto-definizione e lo scambio. Il fatto che inqualche modo continuiamo a vivere non è una prova dellafunzionalità dell’ego mascolato, bensì della creatività dellapratica del dono e della vita stessa, che ci portano con sénel loro fluire nonostante il guscio vuoto auto-riflettentedell’ego e nonostante la società auto-similare.

Nel patriarcato, la comunità che formiamo attraversola comunicazione viene generalmente frantumata in millepezzi oppure resta un desiderio, un’astrazione che flut-tua da qualche parte dietro di noi (un “avrebbe potutoessere”, un ideale, un diverso mondo possibile). Le no-stre parole-doni sono state rivolte agli scopi dello scam-bio attraverso la pubblicità e la propaganda, e le nostremotivazioni seguono una lista di priorità che definiscenoi e gli altri, ponendoci in alto come uni privilegiati, so-stenuti dai possedimenti o dalle relazioni e posizioni al-l’interno di altre gerarchie. Non ci rendiamo neancheconto della presenza della società nelle nostre parole, an-cora meno nella nostra vita, perché la proprietà privata(anche delle nostre coscienze) non c’incoraggia a guarda-re al di fuori, agli altri come fonte del nostro bene o co-me persone con dei bisogni che noi possiamo soddisfare.I nostri pensieri sembrano essere “nostri”, perché siamoisolati dagli altri. Invece, come individui siamo la comu-nità alienata, che pensa.

Se potessimo tornare al dare cure materiali, ricree-remmo la nostra comunità e noi stessi su una base terre-na più solida, curandoci l’un l’altro e curando il pianeta.Invece guardiamo ai valori dell’ego e non ai corpi; gliego dei ricchi competono contro i corpi dei poveri. Leprove del parassitismo abbondano: ogni luogo destinato

GENEVIEVE VAUGHAN

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ai test nucleari, allo scarico dei rifiuti, alle miniere, aipozzi petroliferi testimonia la distruzione della madreper gli scopi dei doni ridenominati “profitto” che loscambio porta con sé.

Il nostro condividere è stato riportato a un passatomitologico (o beatitudine infantile) e ai sottoprodottidell’attività del nostro ego, ed è diventato l’inconsciocollettivo, dal momento che la co-scienza (conoscenzainsieme) nella nostra società è basata sulle definizioni esullo scambio. Forse il personaggio principale della mi-tologia greca per la perdita della madre non è Persefone,figlia di Demetra, ma Ade, il figlio di Gaia, che è diven-tato il dio dell’oltretomba.

La conoscenza del cuore

I nostri cuori pompano il sangue che porta l’ossigenoe il nutrimento necessari alle nostre cellule; poi, quandoil sangue si esaurisce, ritorna al cuore per essere nutrito.Questo è un archetipo fisiologico che il paradigma delloscambio c’impedisce di seguire. Anche individualmente,il nostro subcosciente ci suggerisce informazioni sepol-te, e le idee ci arrivano da un luogo sconosciuto, repenti-ne, doni da una fonte ignota che chiamiamo i nostri Sé,la fantasia, Dio.

Gli umani sono sostanzialmente esseri amanti. Le no-stre strutture sociali e la logica dello scambio sono di-storsioni patriarcali dell’amore. Il condividere e il darecure che viviamo nella relazione originaria madre-bambi-no sono spesso l’unica esperienza di amore gratuito cheabbiamo, e diventano il nostro modello per tutta la vita.Per questo la prima infanzia è tanto importante nella no-stra psicologia. Per il resto della vita, dobbiamo avere ache fare con le varie distorsioni e ostacoli dell’amore. Lanostalgia dell’infanzia, come anche dell’utero, è il rim-

SOGNO E REALTÀ

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pianto del nostro primo periodo di salute che non è maipiù tornato, perché non esiste nessuna struttura sociale oeconomica che lo permetta. La nostra indipendenza ètanto distorta che sminuiamo la dipendenza, invece di ri-spettarla. Insistiamo nel voler stare da soli, e invece sia-mo una massa di individui che si disperano perché vor-rebbero essere toccati, nutriti, accarezzati, sostenuti.

La libera circolazione del sangue tra la madre e ilbebè nell’utero è il naturale paradigma di una società sa-na. È il modello di una collaborazione che-dà-vita,quando entrambi i cuori pompano lo stesso sangue e ilnutrimento viene condiviso. Come il vento che si spostada una zona di pressione più alta a un’altra zona piùbassa, una buona circolazione si muove da chi ha di piùa chi ha di meno. Dopo la nascita e dopo aver comincia-to a respirare l’aria di cui i suoi polmoni hanno bisogno,cominciando così a interagire con il mondo libero ester-no, il neonato riceve e percepisce, per quanto gli è possi-bile, l’ambiente abbondante e dona il suo nuovo essereumano alla contemplazione degli osservatori, dà il suotocco ad altri corpi, rivelando chi è e chi sarà.

La circolazione dell’utero è cominciata a un nuovolivello: è partita dall’interno di un corpo per finire tradue corpi diversi, è diventata tra corpi. I cuori nonpompano più lo stesso sangue ma pompano risa, lin-guaggio, gesti, movimenti verso il bisogno che è rico-nosciuto, un flusso di beni e di cure. Il neonato ricevecreativamente, è una creatura interpersonale, un cuoreinterpersonale, un soggetto di attenzione, che dà an-che attenzione. Il latte scorre al suo stomaco bisogno-so attraverso la bocca che riceve in modo attivo. Il lat-te non gli viene negato. Non ci sono estorsioni, ade-scamenti, pagamenti. Anche se i segnali del bambinopossono farci intuire i suoi bisogni, non si tratta discambi ma di prodotti gratuiti che scaturiscono natu-ralmente dal suo intero essere.

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Come la sinapsi, per la quale i nervi non trasmettonogli impulsi mediante un contatto diretto, ma attraversoprocessi lungo spazi diversi, la vita viene trasmessa gratui-tamente in molte forme diverse dalla madre al bambino,dal bambino alla madre e ad altri che lo amano. La madree il bambino sono contenti della gratuità del proprio da-re. Nessuno dei due s’imbarazza per la relazione di dipen-denza, che esige e permette la circolazione, così comenessuno s’imbarazza per la dipendenza dall’aria, che esigee permette di respirare. In questa relazione possiamoprendere ciò che viene dato gratuitamente e dare gratui-tamente, provando gioia e toccandoci dall’esterno, sensa-zione che passa per e va verso un’altra sensazione, condi-videndo nello scorrere del tempo all’esterno dell’utero.

La nostra società s’imbarazza per la dipendenza e ilbisogno di dare gratuito, ma in realtà farebbe qualsiasicosa per averli. Quindi noi costruiamo barriere semprepiù alte contro di essi, che includono una certa flessibi-lità, alcuni luoghi per scaricare la pressione che accumu-liamo dentro di noi per non poter avere quello di cui ab-biamo veramente bisogno. Continuiamo tuttavia a lavo-rare per avere o prendere per noi stessi più di quanto cibasterebbe, in modo che a noi sembri gratuito (solo anoi, non agli altri). Dal momento che accediamo sola-mente alla nostra esperienza di bebè con la madre, perscoprire poi che il mondo e le sue regole sono diversi,potremmo pensare che nessun altro abbia mai avuto, oabbia bisogno di avere, l’esperienza di cure gratuite.

Invece, la libera circolazione da chi può dare versochi ha bisogno, la capacità di chiedere liberamente, diricevere liberamente, di dare liberamente costituisconoil processo basilare, attraverso il quale il flusso della vitacircola senza impedimenti. La consapevolezza delle di-verse cose che vengono date e ricevute è condivisa cosìcome sono condivisi la percezione o il linguaggio, libe-ramente in tutte le loro trasformazioni, nel passaggio

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dei doni da una persona all’altra, dalla natura alla gentee dalla gente alla natura. Questa è la nuova coscienzadella natura, un’evoluzione, una nuova vita condivisadella vita.

Dare e ricevere la vita non si limita al concepimento,alla gravidanza o al partorire fisicamente i bambini, masi compie in ogni atto di soddisfazione del bisogno. Loscambio, ponendosi tra il dare e il ricevere, tra il dona-tore e il dono, tra il ricevente e il dono, ha ostruito la si-napsi e ci ha confuso. I processi sono distorti, non liberi(unfree). Non diamo più né riceviamo più vita in modocreativo e intelligente, ma basiamo le nostre interazionisulla mascolazione. Recentemente è stato offerto unpremio al primo uomo che rimanga incinto, ma dare ericevere sono sfruttati e sminuiti ovunque al di fuoridell’utero.

Il nostro sogno comune

Proviamo a considerare che i giudizi sulla realtà e l’ir-realtà (e sull’essere svegli e sognare) dipendano dalla mi-sura in cui la modalità dello scambio e la relazione masco-lata del concetto entrano in gioco. Il sogno esplora altrerelazioni sincretiche, libera gli esemplari della loro inve-stitura fallica e soddisfa i nostri bisogni di capire median-te il simbolismo, che non è uno-a-uno né uno-a-molti,bensì “determinato da fattori concomitanti”, dove un’im-magine rappresenta un certo numero di questioni, unità oeventi diversi e in apparenza slegati tra loro. Complessi esincretismi1 di vario tipo permettono di fare associazioniche non faremmo mai secondo il nostro sistema di classi-ficazione gerarchica (e sistema di classi sociali).

Nei sogni, le nostre immagini non sono costrette a se-guire una linea direttrice, legandosi a esemplari o parole,fornendoci un aiuto concreto socialmente convalidato

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per gestire la nostra vita nel mondo di veglia “reale”.Possono invece andare a ruota libera, soddisfacendo inostri bisogni non appena ci arrivano alla mente, o allamemoria. Le immagini sono soggettive, possono seguireuna linea di tipo “prima-io”, ma senza l’egemonia dell’e-go mascolato. Nei sogni, i nostri bisogni vengono appa-gati secondo il principio del piacere, e non implicanouna nostra attività volta a soddisfarli. I nostri bisogni rea-li sono simboleggiati, il nostro intuito è rivolto a essi; vie-ne dato un aiuto reale. Nei sogni, ci trattiamo come se vi-vessimo in un’economia del dono. La ragione per cui ilsogno è soltanto soggettivo e basato su delle illusioni èche il mondo esterno è strutturato sullo scambio. I tera-pisti autoritari potrebbero non vedere di buon occhioquesta modalità “infantile” e “regressiva”, ma perché,poi, non vederla da un altro punto di vista, come utopi-stica e materna? Il sogno sembra essere la soddisfazionedei nostri bisogni co-muni-cativi su una base individuale.Se solo potessimo soddisfare i nostri bisogni co-muni-ca-tivi collettivamente potremmo vivere tutti i nostri sogni.

Al nostro risveglio, entra in gioco un giudizio sullarealtà e irrompe allo stesso tempo una strategia cognitivauno-molti; così usiamo l’uno per sostenere l’altro. Ci me-ravigliamo della stupidità dei nostri sogni, screditiamo ilnostro pensiero sincretico e convalidiamo il nostro pen-siero uno-molti. Questo ci fa negare o dimenticare e de-qualificare i nostri sogni in quanto inferiori al nostro sta-to di veglia, forse perché anche le nostre strategie per ri-cordare sono uno-molti. I bambini appartengono sincre-ticamente alla “categoria” dei sogni, in quanto sciocchi,non-razionali e non-fallici; anche le donne e i desiderivengono spesso relegati al mondo ultraterreno del sogno.

Sopravvalutando e investendo fallicamente il pensie-ro concettuale nella società intera e proiettandolo sullestrutture delle istituzioni, abbiamo creato collettivamen-te una realtà sociale diversa dai nostri sogni e inospitale

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per quel tipo di pensiero. Convalidando la “realtà” ognivolta al nostro risveglio, stiamo screditando il tipo direaltà di cui sono fatti i nostri sogni e le molte parti non-falliche del nostro mondo di veglia. Perciò può accadereche, ogni volta che ci svegliamo, affermiamo inconsape-volmente il dominio, la misoginia, e l’odio verso i bam-bini, la natura e la pratica del dono, dicendo a noi stessi:“Quello non era reale; questo è reale”.

Se non altro, i sogni soddisfano un bisogno condivisoda tutti: offrono un’alternativa, così come il comunismolo ha fatto rispetto al capitalismo (e viceversa), comuni-candoci che il mondo “reale” non è l’unico mondo pos-sibile, e che il pensiero concettuale mascolato investitofallicamente non è l’unico tipo di pensiero possibile. Seil sogno funziona secondo i processi non mascolati deldono, esso è un cammino possibile verso un mondo mi-gliore, come il linguaggio e la pratica materna. Il sognocomune dell’umanità è il volto di un mondo futuro.L’intimazione che dice all’umanità di “svegliarsi” è sba-gliata. Dobbiamo piuttosto cambiare la re-altà per far sìche i nostri sogni si avverino2.

L’imposizione della re-altà

La lingua ci parla, e ci dice che l’inconscio collettivoha visto qualcosa che noi abbiamo invece collettivamenteignorato. Io credo che nella lingua ci siano moltissimetracce delle questioni qui discusse: il concetto mascolato,lo scambio, le gerarchie e la pratica del dono. Le paroleche stiamo menzioniando in questa pagina sono indizilungo il cammino regale (royal) verso la scoperta dellanatura della “real-tà” (in spagnolo, real vuol dire “rega-le/reale”); e quegli indizi ci stanno suggerendo che nonpossiamo percorrere il cammino regale da soli. Dobbia-mo avvicinarci al “soggetto” da una direzione diversa.

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Perciò il regime del re (kingship) o il regno delle cose(thingship) – dal latino rex (“re”) o res (“cosa”) – ci staparlando della base “uno-molti” della re-altà. Il gioco diparole esisteva già in latino. Esso indica gli schemi deldominio auto-similare nella nostra conoscenza del re-ale,al di fuori della grana donante. E anche l’ego in quanto“re” fa parte di ciò che definisce questa re-altà, coinci-dendo con essa nella struttura, mentre la pratica del do-no ne rimane al di fuori. La re-altà è un terreno comune,che deriva dalla pratica del dono, ma è dominata dalpensiero concettuale capitalista fallicamente-investito.

Basare il pensiero sul concetto sminuisce le diffe-renze, oppure le rende importanti principalmente co-me segnali di un altro concetto:. “A quale concetto ap-partieni?” sembra essere la domanda reale. Mettiamoda parte i tuoi bisogni e il tuo essere particolarmenteinteressante e bella, la scintilla nei tuoi occhi, e ti chie-diamo piuttosto se sei abbastanza simile al modello oesemplare per appartenere al concetto di “bella”, alconcetto di “amabile”, o di “persona in carriera di suc-cesso” o “accademica”.

L’affermazione della re-altà mascolata è forse il rico-noscimento di un dato esterno, o l’imposizione di undono che dobbiamo ricevere? Magari ci sentiamo obbli-gati, per il principio dello scambio, a “restituire” qual-cosa alla re-altà; il ri-conoscimento forse? La re-altà sod-disfa i nostri bisogni comuni distorti, ma potrebbe ac-cantonare i nostri bisogni individuali salutari non reali-stici. A quali conseguenze porta non ricevere il presen-te? All’abbandono? Alla follia? E a quali porta invece ri-ceverlo? Rinunciamo forse alle verità della nostra pro-spettiva soggettiva per la visione collettiva mascolata,così da non essere lasciati fuori dal concetto di umano esano? Se rifiutiamo la re-altà siamo forse ingrati, egoisti,“indulgenti con noi stessi”, come dice uno psichiatra aproposito dei malati mentali? Se diventiamo matti, forse

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stiamo solo spostando il nostro giudizio sulla realtà dauna posizione mediata collettivamente a una posizionesoggettiva. Lo facciamo perché siamo tutti dei “feritiambulanti”.

Una prospettiva collettiva egoista

Il giudizio collettivo sulla realtà è, dopotutto, un’at-tribuzione di valore collettiva che sarà probabilmentepiù funzionale a ognuno di noi di quanto non sarebbeun’attribuzione di valore puramente individuale. Quan-do insistiamo sull’empatia, o sul desiderio di un mondomigliore, e gli altri dicono che non siamo “realistici”,stanno ricorrendo a un’attribuzione collettiva di qualitào di valore che assicura, almeno, un certo grado di fun-zionalità, di adattabilità per l’individuo e per il gruppo;dicono che per il nostro bene (interesse personale), do-vremmo adattarci al giudizio collettivo, non cambiareniente né concepire alcunché di diverso.

Perché la visione collettiva sembra essere meno egoi-sta? Esiste una separazione tra l’ego e la collettività, eciò che non è collettivo sembra essere egoistico. Ma lostesso ego è un prodotto collettivo, ed esistono moltimeccanismi e valori collettivi che gli danno forza; ecoincide poi con una sorta di orientamento generalizza-to verso l’ego della collettività specifica cui appartiene,come la razza, la classe, la religione, la nazione.

L’ego dipende anche da un’attribuzione collettiva divalore e di realtà alla configurazione individuale interio-re, che la convalida per ognuno di noi, ma soprattuttoper gli uomini mascolati (di successo). Le strutture auto-similari nella società svolgono questa funzione. L’unoprivilegiato, il processo dello scambio e la negazione deldare, le istituzioni basate sulla mascolazione, il denaro eil concetto investito fallicamente, sono tutti meccanismi

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sociali attraverso i quali viene attribuito valore colletti-vamente all’ego individuale.

L’ego e l’egoismo possono essere visti come una posi-zione collettiva, mentre la posizione soggettiva può esse-re di fatto più donante e orientata verso l’altro. Colletti-vamente possiamo essere molto egoisti; ma collettiva-mente possiamo anche collocare la linea di divisione inqualche altro punto tra l’individuale e il collettivo, e con-validare un diverso tipo di ego e un diverso tipo di dare,creando un diverso tipo di collettività. Per poter vedereche la divisione è nel punto sbagliato, forse abbiamo bi-sogno di una prospettiva tridimensionale. Se ci rendessi-mo conto che ciò che pensiamo di essere è fatto attraver-so un dono sociale come il linguaggio come anche attra-verso i doni della vita, forse smetteremmo di concepireun’opposizione polare tra l’individuale e il collettivo, l’E-go e l’altro. Questa riformulazione permetterebbe di di-videre diversamente il soggettivo dall’oggettivo, l’incon-scio dal conscio, i sogni dalla realtà.

La realtà si afferma e si definisce a partire dall’impo-sizione della modalità mascolata sulla collettività. La co-munità distorta è costruita per mettere in atto questaimposizione, e la sua definizione di “reale” fa parte dellacostruzione. Il giudizio sulla realtà è un meta-messaggioche serve a mantenere lo status quo patriarcale. Così larealtà sembra essere organizzata squallidamente, basatasulla crudeltà della “natura umana”; qualsiasi cosa ci vabene, perché crediamo nella meta-affermazione “la gen-te è così e basta”.

L’individuo dà il valore della realtà ad alcuni episodidella propria esperienza, creando un’attribuzione in di-venire con un costante dono d’impegno e di energia. Maquesta stessa realtà sembra non essere donatrice né in-cludere il paradigma del dono; la pratica del dono nelmondo esterno viene continuamente male interpretata, ela modalità del dono interna non viene vista né ricono-

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sciuta in quanto tale. Talvolta, quando non siamo op-pressi dalla scarsità e dall’eccessivo lavoro, possiamo vi-vere l’aspetto donante della natura e degli altri, ma permolta gente, questi momenti di felicità non sono fre-quenti.

Tutto questo fa sì che la nostra modalità del dare in-terna non abbia una corrispondenza nella realtà, anchese forse i nostri sforzi di farci dare dagli altri possonoconsiderarsi tentativi sbagliati di fare in modo che la“realtà” rifletta il nostro donatore interno (forse il no-stro donatore interno ci appare riflesso come un “al-tro”). Sembra giusto o armonioso che gli altri diano anoi. Visto che abbiamo convalidato lo scambio e messoin un’altra categoria la madre, sembra giusto o armonio-so che gli altri diano a noi.

Se guardiamo con occhi compassionevoli agli sfrutta-tori, possiamo notare come questi siano convinti dellarealtà e forse della permanenza della scarsità, e che sen-tono di doverla sfidare, superare individualmente, pren-dendo, ossia facendosi dare dagli altri. Il loro parassiti-smo è in pratica un tentativo, nell’ambito della scarsitàcreata dal loro stesso sistema, di far sì che la natura nu-tra almeno loro, se non può nutrire nessun altro; forse èun tentativo di rendere loro madre la realtà. È forse que-sta la ragione segreta dell’avidità? Lo sfruttatore è forseun bambino che succhia da solo dalla reali-tettà?

Quando credono di meritare più degli altri perchéhanno prodotto di più o perché sono più forti o più intel-ligenti, gli sfruttatori partecipano alla modalità delloscambio e cancellano il dono, che è, paradossalmente, ciòche stavano cercando. Nessuno può trasformare la realtànella propria madre, a meno che non restauriamo per tut-ti il paradigma del dono per tutti. La realtà è una costru-zione collettiva, e se collettivamente costruiamo la realtàper nutrire/dare cure solo a una persona o a poche perso-ne a spese dei molti, distruggiamo i molti, che sono la col-

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lettività. Dobbiamo far sì che il nostro donatore internocorrisponda alla pratica del dono reale all’esterno; questolibererà sia l’individuo sia la collettività. Nel frattempo,restaurare il nostro contatto con la natura può aiutarci atrovare una nicchia ecologica all’esterno per il nostro do-natore interno. La natura ha bisogno che ci si prenda cu-ra di lei, di essere restituita a se stessa come libera dona-trice; in questo modo possiamo essere in linea con lei.

Lo scambio, in realtà, significa rimuovere quella che sa-rebbe la soluzione al nostro problema: il dare sia internoche esterno. Lo scambio esige che l’“altro” assuma la mo-tivazione orientata verso l’Ego che viene interpretata daogni scambiatore. Tutti noi diamo, ma per qualcosa chesta al di là del presente, qualcosa di diverso dalla soddisfa-zione dei bisogni dell’altro. L’aspetto o natura o realtà do-nanti dell’“altro” vengono male interpretate e tradotte in“giusta” o “equilibrata” corrispondenza tra dare di più eprendere di più. Così la realtà sembra non dare gratuita-mente, ma solo rispondere a uno scambio. E visto che lapratica del dono non è modellata sulla realtà, noi riflettia-mo l’equazione distorta. La soluzione è il dare collettivo,l’altruismo collettivo; il denaro, come prodotto collettivo,può essere usato per dare inizio a questo processo.

I sogni si avverano all’interno e all’esterno

Forse, se il sognare è nella modalità del dono, SpiderWoman (la Donna-ragno degli indigeni) sogna veramen-te il mondo, come dice Paula Gunn Allen. Ma la re-altàmascolata è un incubo collettivo, un dono collettivo permettere fine a tutti i doni, che taglia fuori la pratica deldono assimilandola allo scambio; moltissime personedanno inconsapevolmente la loro energia alla realtà ma-scolata. Dobbiamo sognare collettivamente qualcos’al-tro, e dare la nostra energia delle ore di veglia per creare

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una realtà diversa, facendo avverare i nostri sogni di unmondo migliore invece che i nostri incubi. Se ci fossemaggiormente presente la pratica del dono nella realtà,verrebbero dati più poteri al nostro donatore interno,alla nostra creatività e al nostro amore.

La creazione artistica è in la realtà, pratica del dono edè un ponte verso un mondo migliore perché il mezzo o ilveicolo del dono è a sua volta un dono gratuito, che sod-disfa e crea i bisogni estetici. Ad esempio, il canto è gra-tuito per l’ascoltatore, e il veicolo, la voce, soddisfa un bi-sogno, un nostro potenziale per godere di armonie, suoni,ritmi, belli e gradevoli; le parole soddisfano invece i biso-gni comunicativi. Nel caso dell’arte visiva avviene una co-sa simile: i colori, le forme, e le composizioni possonoprodurre sensazioni piacevoli, qualunque sia il soggetto oil tema centrale dell’opera. Anche se molti tipi di artepossono essere comprati e venduti, hanno tutti un aspettoin comune: la soddisfazione gratuita dei bisogni, che è, es-senzialmente, il loro canale co-municativo. Non c’è scam-bio tra l’orecchio e la musica, tra l’occhio e il dipinto, an-che se l’accesso a queste esperienze è spesso costoso. L’o-pera d’arte in sé dà. Il dono creativo dell’artista è la capa-cità di creare qualcosa che dia (abbiamo detto prima, incontrasto con l’antropologo Lévi-Strauss, che le donnenon dovrebbero essere interpretate come merci o comemessaggi scambiati tra diversi gruppi di parentela, ma co-me fonti di doni, doni-che-danno). Diverse attività basatesullo scambio diventano parassitiche rispetto all’arte, co-me anche rispetto ad altre fonti della pratica del dono.

Anche se l’arte ristabilisce in una certa misura la prati-ca del dono nel mondo esterno, non è sufficiente per av-valorare il modello cancellato. Per il momento, la praticadel dono sta nei sogni e nel subconscio, e non viene rico-nosciuta in quanto tale nell’arte, nei racconti, nei miti. Iracconti possono avviare dolcemente i bambini allo scam-bio attraverso la comunicazione, soddisfacendo questo lo-

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ro bisogno. Mostrano loro la transitività di una cosa checonduce a un’altra, la soddisfazione di un bisogno chepermette la soddisfazione di un altro bisogno, un’azioneche ha come risultato qualcos’altro. L’azione può essereinterpretata come un dare; e soddisfare un bisogno, quin-di, ne crea un altro: dopo aver mangiato, un bambino habisogno di dormire, o di uscire a giocare; la madre ha bi-sogno di riordinare, di riposare, di tornare al lavoro.

La struttura se-allora, tuttavia, s’impadronisce deldono con una conseguenza: se metti la mano sul fuoco,ti brucerà. Quando s’introduce una struttura di ricom-pensa sociale e punizione, la transitività del dono si tra-sforma in consequenzialità logica dello scambio. Se/allo-ra diventa “fai questo, prendi quest’altro”; e così puòsembrare che quando il bambino fa qualcosa, ciò che larealtà gli “restituisce” è ciò che lui “merita”. Cenerento-la meritava di andare al ballo e di sposare il principeperché lavorava tantissimo? Cappuccetto Rosso merita-va di essere mangiata dal lupo per aver disubbidito allamadre? Questi racconti sono esplorazioni nello scambiotra la “realtà” e i protagonisti della storia, per i bambiniche cominciano appena a considerare il loro comporta-mento secondo la modalità dello scambio.

Qual è il prezzo che paghiamo per non aver dato,quali le ricompense che otteniamo per aver dato? Questiscambi sono tutti retti da un equilibrio, almeno nelle fa-vole. Non appena i bambini cominciano a imparare co-me scambiare, la loro moralità cor-risponde. Fare obbe-dire i figli, istituendo un sistema di ricompensa e puni-zione, li allontana dalla modalità del dono a cui stavanopartecipando con le loro madri e li prepara alla modalitàdello scambio, dilagante nella cosiddetta “realtà”. I rac-conti soddisfano il bisogno dei bambini di essere intro-dotti mediante una comunicazione dolce in un mondoreso alieno dallo scambio.

È vero: abbiamo bisogno, come i bambini, che ci

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venga insegnato come adattarci alla realtà; ma questoperché la realtà è distorta. Il bisogno di adattarsi vieneimposto da un ambiente alterato artificialmente e perva-sivamente dal paradigma dello scambio. La socializza-zione impone un’evoluzione verso la funzionalità nel si-stema, e un adattamento ai ruoli dell’avere o non-avere atutti i diversi livelli. Se il nostro funzionamento seguisseil paradigma rivolto allo sviluppo umano e planetario,non avremmo bisogno che qualcuno c’insegnasse il daree ricevere dall’esterno, ma lo apprenderemmo dalle no-stre esperienze, così come impariamo a dare un senso al-le nostre percezioni, a gestire le attività del nostro corpoe, almeno in gran parte, a parlare.

Insegnare ai bambini come obbedire impone loro loschema di dominio-sottomissione, che racchiude i mec-canismi di ricompensa e punizione dello scambio, conavvertimenti del tipo: “Se metti la mano sul fuoco, tibrucerai”. Questa frase è puramente informativa, maviene usata a sostegno della dittatura parentale, come:“Se non dici ‘sì mamma’ non puoi uscire a giocare”.Questi dettami funzionano secondo la modalità delloscambio, dando un valore alle nostre azioni in termini diconseguenze: “Hai disobbedito: sei in punizione per tregiorni”. L’autoritarismo del genitore è, spesso, non sol-tanto una riproduzione della propria infanzia e della re-lazione con i genitori, ma un’attitudine di oppressionecontro il proprio “figlio interno” donante e ricevente.Le nostre scuole, con la loro pratica di classificazione,riducono il processo di ricompensa e punizione a totalidi “conoscenza” acquisita valutabili quantitativamente.

Gli irochesi e l’uomo bianco

Quando le donne sostengono le donne, o le nutricinutrono le nutrici, c’è una transitività della pratica del do-

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no, così che il bene viene trasmesso e ritrasmesso e il rice-vente riceve dai molti e dà a essi. Se questo diventasse unprincipio, la gente ne diventerebbe cosciente e la realtàsarebbe costituita da più azioni determinate in questomodo. Se il paradigma del dono venisse convalidato epraticato consapevolmente, tuttavia, non avremmo biso-gno di concepirlo come un principio; potremmo esserepiù flessibili, sperimentare e agire secondo il caso. Forse,se lo trovassimo utile, in alcuni casi potremmo persinopraticare tranquillamente lo scambio, perché il contestostesso sarebbe comunque portatore della pratica del do-no. Le tribù di americani nativi in cui le donne hanno ilruolo dominante, come gli irochesi, hanno creato unarealtà di pratica del dono alternativa di questo tipo. Ilcontesto implicava i valori del dono seppure in una certamisura venisse praticato anche lo scambio – almeno loscambio simbolico –, e talvolta si combattessero guerre.

I valori dell’economia del dono minacciano chi prati-ca l’economia dello scambio, e io credo che questa siauna delle ragioni della ferocia dell’uomo bianco contro lepopolazioni native. Anche l’uomo bianco aveva una ma-dre; imparò a ucciderla nel massacro delle streghe. Nonpoté farlo però senza uccidere anche se stesso, la propriamadre interna. Il genere non esiste; gli umani si formanotutti secondo la pratica del dono. Uccidendo e riducen-do in schiavitù la propria madre europea, l’uomo biancosi è privato del modello del proprio potenziale umano.Lasciando la terra madre e penetrando nelle Americhe,l’Uomo Bianco ha portato la propria umanità a compiereil falso programma di conquista mascolato. Al suo arrivo,ha trovato delle società fondate sulla pratica materna, leha sfruttate e ha perpetrato un genocidio. Ciò che luiconsiderava civilizzato erano l’Ego e lo scambio, con laloro logica vuota derivata dalla definizione.

Tuttavia l’Uomo Bianco ha un cuore. Ha vissuto nel-l’utero della madre, è stato da essa nutrito, ha ricevuto i

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suoi doni e le ha dato i propri. Ciò che non ha capito èche tutti gli uomini e le donne condividono lo stesso so-gno, lo stesso modo di sognare e lo stesso modo di par-lare. Noi abbiamo già un linguaggio comune. Il linguag-gio non è solo co-municazione di doni materiali, anchese quest’aspetto è importante; è anche comunicazione didoni verbali. Ciò che conta non sono i suoni-dono speci-fici, ma il fatto che noi li diamo l’uno all’altro. La torredi Babele non è altro che il simbolo fallico della masco-lazione, che non ci lascia vedere che tutti i nostri lin-guaggi e le nostre vite provengono dalla Madre e dallaPratica Materna. Se abbandonassimo la mascolazione efacessimo ritorno alla madre e al figlio che sono dentroognuno di noi, potremmo restaurare il sogno.

Dalla re-altà alla dea Rea-ltà

Il dare e lo scambio sono profondamente intrecciatitra loro al livello della re-altà economica, e questo ponediversi ostacoli sul cammino di un’efficace attività di cam-biamento sociale orientata alla pratica del dono. Inoltre,l’obiettivo del cambiamento sociale spesso s’identifica er-roneamente con l’integrazione di ognuno di noi all’econo-mia dello scambio. È un falso obiettivo perché ignora ilfatto che, perché il mercato funzioni, da qualche parte de-vono arrivare i doni gratuiti diretti a esso.

Molti gruppi sono esclusi dal sistema di mercato ca-pitalistico, e i loro prodotti non hanno accesso al merca-to o non possono competere al suo interno. Il lavoro ar-tigianale delle popolazioni indigene, ad esempio, seppu-re della migliore qualità, generalmente non ha accesso almercato, tranne che attraverso intermediari sfruttatori.

Di recente, gente di buone intenzioni ha avviato pro-getti di aiuto agli artigiani per inserire i loro prodotti sulmercato, attraverso finanziamenti a fondazioni o ad altre

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entità. Il problema è che le loro opere devono essereequivalenti agli altri pezzi dominanti sul mercato: ???(dev’essere uno “scambio equo”).

La contraddizione è che l’obiettivo è individuato nel-l’assimilazione di questi gruppi alla stessa economia cheli ha esclusi e sfruttati, e che continua a escludere e asfruttarne degli altri, appropriandosi di grandi quantitàdi lavoro-dono nascosto. Solo pochi di essi possono di-ventare “uguali” ai pochi dominanti sul mercato che so-no “uguali” tra loro, e la cui “uguaglianza” è possibilegrazie ai doni nascosti di altri. Il dono dei finanziamentia questi progetti prende il posto del lavoro-dono nasco-sto per un certo periodo, ma generalmente l’“autosuffi-cienza” all’interno dell’economia capitalista è un’illusio-ne, perché il capitalismo ha bisogno dei doni nascostiper poter funzionare. L’“autosufficienza” spesso non èaltro che dipendenza dal mercato capitalista, ed è cosìper le donne che accedono al mercato del lavoro per es-sere “autosufficienti”.

La produzione di ornamenti di perline degli america-ni nativi sul mercato di Hong Kong è un esempio cal-zante. Lo sfruttamento internazionale produce a costiminori, con più competitività, e prodotti “più equi” chela giustizia sociale o i progetti di autosufficienza. Graziea esso, nelle relazioni di sfruttamento tra le nazioni di-venta disponibile il fattore del quoziente-dono (che pro-duce la differenza tra i livelli di vita), insieme al “dono”del lavoro dei lavoratori sfruttato nelle imprese indivi-duali straniere. L’illusione è che i gruppi “esterni” alflusso dominante possano avere successo se soltanto iloro prodotti fossero abbastanza buoni per essere com-petitivi. Si ignora che, perché questi prodotti siano “ab-bastanza buoni”, uguali o anche solo appartenenti allostesso “settore”, è necessario aggiungere una quantitàrelativamente grande di doni nascosti.

Forse producendo un nuovo prodotto o monopoliz-

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zando il mercato, chi sta al di fuori dell’economia capi-talista può accedervi e avere successo al suo interno,dando giovamento alla propria comunità. Ma per questoè necessario conoscere il mercato; e ciò è possibile solocon l’educazione e l’esperienza nel mercato stesso, cheporta, di solito, a cercare di avere successo per il proprioprofitto, non per la comunità, secondo i valori capitali-stici di “ognuno per sé”. Anche il tentativo di accedereal mercato, di produrre prodotti uguali o competitivi,convalida il mercato stesso e lo “scambio equo” come ilsistema migliore (o addirittura l’unico sistema) per avereabbondanza. Ogni alternativa viene considerata pocopratica o inesistente. L’economia del dono, nascosta eintegrata nell’economia dello scambio come lavorosfruttato, viene sacrificata; non le viene dato nessun va-lore; resta invisibile o viene screditata e disprezzata.

A un livello psicologico individuale, il subconscionon è visibile, ma serve come fonte di energia per le no-stre menti coscienti. Molte motivazioni e associazioni in-consce non arrivano mai in superficie e vengono scredi-tate. Nello stesso modo, la gente esterna al mercato so-stiene chi sta all’interno; e analogamente, le donne so-stengono gli uomini nelle loro relazioni “eque” con altriuomini e nella loro competizione volta al dominio, senzariconoscere l’impegno che esse e altre donne hanno in-trapreso per nutrirli/dare loro cure. Noi dobbiamosmettere perciò di dare valore al tipo di coscienza basatasullo scambio e sulla mutua esclusione, all’uguaglianzasul mercato, al rendere “competitivi” i nostri prodotti, onoi stesse o i nostri figli, e sperimentare delle alternativeche siano totalmente diverse.

Quand’anche sembri difficile creare progetti di prati-ca del dono nella realtà presente, io credo ci siano inrealtà molti modi possibili, che non vengono però rico-nosciuti come tali. Molte donne che conosco personal-mente forniscono dei servizi gratuiti: aiuti domestici,

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formazione e sostegno alle altre donne, spesso credendodi essere “matte” perché non vogliono essere pagate. Sistanno facendo diversi esperimenti di consorzi fondiaricostituiti da donne, movimenti per l’autosufficienza eper un vivere più leggero sulla terra.

I movimenti contro la violenza domestica e sessualehanno a che vedere con la soddisfazione gratuita dei bi-sogni, così come i movimenti contro la dipendenza dalledroghe. Chi è in questi movimenti, come anche chi è at-tivo contro il razzismo e per la liberazione dei popoli,contro la distruzione del pianeta, contro i giochi puer-iliche si fanno con i rifiuti radioattivi e le bombe chimichea orologeria, contro la guerra, contro il militarismo e laspesa militare, tutte queste persone stanno dedicandomoltissimo tempo ed energia per soddisfare importantibisogni generali di cambiamento sociale.

Gran parte del lavoro volontario viene svolto dalledonne, ma molto anche dagli uomini. Chi è coinvolto intali attività miste non si rende conto del fatto che, nellosvolgere questo lavoro non monetizzato di soddisfazionedei bisogni, sia gli uomini sia le donne stanno seguendoil paradigma del dono basato sulla pratica materna. Per-ciò la leadership delle donne che credono nei valori deldare non viene considerata uno standard; e le donne,però, appoggiano spesso gli uomini che seguono il pro-gramma mascolato anche nelle attività che hanno comeobiettivo il cambiamento sociale. In molti casi, di fatto,il programma mascolato non viene neanche riconosciutocome problematico.

La pratica del dono ha spesso acquisito una bruttafama, e la gente è stata dissuasa dal seguirla, perché leorganizzazioni di beneficenza patriarcali hanno impostoi propri doni sui riceventi, considerandoli passivi e infe-riori, senza curarsi della valutazione dei loro bisogni.Anche in questo caso, le donne e gli uomini hanno ab-bracciato il paternalismo a detrimento di ogni persona

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coinvolta, offuscando il legame tra le donne e il paradig-ma del dono senza riconoscere la differenza tra la prati-ca del dono e lo scambio. Queste organizzazioni, infatti,hanno spesso usato la pratica del dono come un pretestoper dominare e accumulare profitto in vari modi.

Ho ripensato a un vecchio detto: – “È meglio nondare pesce ai poveri ma insegnare loro a pescare” conun risvolto che punta al cambiamento sociale. Dobbia-mo chiederci prima di tutto come è stata creata la scar-sità. Perché la gente non ha avuto accesso al lago perimparare a pescare? Il lago era forse proprietà privata oera controllato da una corporazione o dal governo? Èforse mai possibile che un gruppo di persone affamatepotesse vivere vicino a un lago, avendovi accesso, senzaimparare a pescare?

Dobbiamo riuscire a modificare le cause della po-vertà, e una delle cause principali è il sistema basato sul-lo scambio. Creare progetti per far accedere la gente almercato non modificherà le cause. Dobbiamo creare uncambiamento nella coscienza, che ci permetta d’indivi-duare le cause sistemiche e di puntare a cambiarle.

È importante creare delle alternative al capitalismopatriarcale, degli esperimenti basati sul tipo di organizza-zione delle diverse economie dei cosiddetti “popoli pri-mitivi”, esterni al sistema del mercato. Io propongo di fi-nanziare o altrimenti promuovere dei progetti alternativi,come dei doni locali non monetizzati, o dei circoli dicondivisione, o dei progetti per restituire le terre fertili achi ne è stato espropriato, perché possano viverci e colti-varle (molte donne hanno già cominciato a comprare e acondividere le terre con altre donne). Questi progetti de-vono essere resi possibili mediante il dare doni monetari,il finanziamento, che è in sé un sistema economico diver-so. Anche se il finanziare può sembrare parassitico neiconfronti del capitalismo, sarebbe quindi un parassita sulparassita; avrebbe perciò una meta-visione (parasight) e

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potrebbe mettere in pratica un sistema diverso.Finanziare in questo modo le economie del dono, an-

che se in modo sperimentale, ha una conferma sul meta-livello. È donare per donare. Affermando l’esistenza dialternative, possiamo affermare il valore della differenzae disinvestire dall’uguaglianza capitalistica. Dall’internodelle classi che sono privilegiate per il dominio del se-gno dell’uguaglianza (=), le donne possono almenoascoltare l’appello echeggiante del primo comandamen-to della Ragione Altruistica: “Proviamo qualcosa di di-verso. Questo non funziona!”.

Mater-Madre

Materia(matter)-spirito, madre(mater)-anima sonoprobabilmente delle false opposizioni. L’illusione è che lamater non conti perché sta attribuendo importanza all’al-tro e non sta prendendo credito per sé, ma questo inrealtà vuol dire che essa conta di più. Dobbiamo invecefare in modo che la mater conti. La pressione atmosfericasposta l’aria, e nello sviluppare il bisogno di aria, espan-dendo i nostri polmoni, essa viene inspirata, soddisfa ilbisogno. Le cose della natura soddisfano i bisogni: dallaclorofilla nella foglia che fornisce zuccheri alla radice, alplancton sulla superficie del mare, dove le balene si nu-trono, ciondolano e si riposano; dalle antiche rocce conle quali costruiamo le nostre case, ai torni dei vasai.

Questo perché i bisogni, anch’essi parte della natura,sono creativi. Le creature, compresi gli umani, si adatta-no a ciò che viene loro dato, oltre a modificarlo. La ma-ter(ia) è già ragione: parti di essa si occupano l’una del-l’altra, i bisogni sorgono e vengono soddisfatti. Ma lamente umana si è auto-interpretata secondo il paradig-ma dello scambio e si è perciò staccata dalla propria ma-trice, riflettendosi su se stessa. Nel lasciare che i donato-

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ri – le donne, la madre e la figlia che è in noi, i molti – siprendano cura di lei, la mente non si sta occupando diloro. Impegnata nel proprio orientamento verso l’Ego,essa cerca filosoficamente d’inseguire ciò che sta facen-do da sola.

Forse la mente (e il cervello) possono essere megliocompresi se si considerano dal punto di vista del para-digma del dono. Se riportiamo la mater alla materia,possiamo capire quanto essa conti (how she minds),quanto la pratica materna sia ragione (how mind ismothering), e perché adesso dobbiamo soddisfare il no-stro bisogno, dell’umanità e della terra, di riconoscere lamater come un dato. Lo spirito difficilmente conta (mat-ters) nel riflesso; viene soffiato sullo specchio, una cosache appartiene a un concetto diverso. Ma in realtà, lamadre e il vento seguono principi simili: vanno dove c’èuna mancanza, un vuoto, il bisogno di loro; e portanocon sé le parole che abbiamo bisogno di ascoltare perriformare le nostre comunità.

La Madre Nutrice

Vado a fare una passeggiata in campagna: ci sono co-sì tante creature, insetti, piante, fiori di campo, così spe-cifici e diversi l’uno dall’altro per il luogo e il modo incui crescono. In ogni metro quadrato di terra c’è una va-rietà, una danza lenta, selvatica e magnificente di vitaanimale e vegetale. Ogni tipo è in rapporto a una parolaquale suo nome, ma in rea-ltà nessuno è assolutamenteuguale a un altro. Adesso la combinazione di concetto,definizione e scambio ha prodotto un ambiente in cui lecose sono in realtà identiche tra loro. Non raccogliamopiù le bacche dai cespugli; prendiamo identiche confe-zioni di frutta al supermercato.

La dea non è stata completamente distrutta: prepara-

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re, cuocere e mangiare il cibo che cuciniamo; sentire,stare in movimento, provare una gioia profonda in di-versi modi, dal sesso alla poesia, alla contemplazione diuna tempesta, sono ancora maniere di abbracciare i suoidoni. Ma costringere la natura a dare ha a che fare conla violenza maschile: scavare, trivellare, bombardare. Seobblighiamo qualcuno a dare, saremo sicuri che lo farà,e questa sicurezza dà forse il conforto necessario all’Egoartificiale dello scambio.

Dovremmo considerare la Rea-ltà come Madre Natu-ra, Madre Nutrice. Si sta facendo con lei la stessa cosache è stata fatta con noi: esaurirla così da costringerla adare, per dimostrare che gli uomini lo fanno nel modogiusto o nell’unico modo possibile, che hanno il controllodella Rea-ltà e della re-altà. E questo avviene per non darenutrimento/cure alla natura né attribuire valore al dare.Cancellare la madre fa apparire come processi basilaridella vita, la meccanica causa-effetto, se-allora, i metodioggettivi dello scambio. Si nasconde così un’intera gam-ma di intenzionalità nutrici, dalle meno “umane”, come ilvento o la possibilità che un’ameba trovi per caso un boc-cone prelibato, alle più “umane”, una rivoluzione femmi-nista o una ninna-nanna. In principio, ontogeneticamentee filogeneticamente, le madri nutrono i loro bambini.

L’Emozione

Nell’attività di mantenimento del mondo si continuaad attribuire valore materialmente seppure “servilmen-te”. Nonostante la monetizzazione e lo scambio, i biso-gni continuano a essere riconosciuti dalle donne (e daalcuni uomini) sia emozionalmente sia intellettualmente.Io credo, in effetti, che alla base della vita emotiva uma-na ci sia la connessione umana tra i bisogni degli altri e inostri. Gli Ego mascolati, immersi nello scambio, sono

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notoriamente (e infelicemente) slegati dai bisogni, “in-sensibili”. L’attenzione ai bisogni sembra essere irrazio-nale, perché ciò che consideriamo razionale si basa sulloscambio. Dal momento in cui abbiamo permesso che loscambio pervadesse il nostro mondo, escludendo il dare,abbiamo sdegnato tutti i nostri valori, rendendoli piùastratti di come sarebbero stati se si fossero basati suldare. Così il valore stesso è stato lasciato all’astrazione.

Le emozioni continuano a volteggiare intorno ai bi-sogni insoddisfatti, attirando l’attenzione su di essi, dan-do loro valore perché possano essere soddisfatti, maqueste emozioni vengono spesso ignorate, screditate, de-qualificate o altrimenti soppiantate dalla logica dell’e-goismo. Dare valore al ragionamento astratto allontanala nostra attenzione dai bisogni. Anche se talvolta il ra-gionamento astratto potrebbe essere utile per capire co-me soddisfare dei bisogni complessi, esso può divenireun fine in sé e una scusa per trascurare i bisogni e leemozioni che ci conducono a essi, per sempre.

Il patriarcato ha re(x)ificato la re-altà. Ha esteso lapropria rete di immagini auto-similari – i concetti inve-stiti fallicamente –, appropriandosi dei doni della collet-tività, come una rete di solidarietà maschile di uominid’affari alla conquista di nuovi mercati. Soffocare questiconcetti nella “realtà” porta a sminuire il suo aspetto dinutrimento/cure, rende invisibili i bisogni, scredita leemozioni che rispondono ai bisogni, e la realtà diventameccanica e oggettivata. Ciò che viene dato per sconta-to, si ritiene importante solo perché è stato organizzatoin concetti, reso relativo agli uni privilegiati. Ci troviamotuttavia ancora nell’ambito del ricevere, anche se non loriconosciamo. La realtà è sempre nutrice/curante, anchese i concetti astratti lo nascondono e c’ingannano. La re-te dei concetti, il sistema auto-similare, sono un intrec-cio invisibile, condiviso astrattamente, che allontana lanostra attenzione dai doni reali della dea Rea e la convo-

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glia verso i Rex e Res fallici.

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Capitolo ventesimoDare e amore

Credo che l’espressione “conoscenza carnale” sia unabuona scelta. Gran parte della nostra esperienza inter-personale di amore e sesso ha a che vedere con il cono-scere e percepire l’altro fisicamente e spiritualmente, se-condo la “grana” donante e ricevente. Questa conoscen-za richiede o favorisce un orientamento verso l’altro dacui in parte deriva l’esperienza di “perdersi”, ben notaalla letteratura amorosa. In una società fatta a immaginee somiglianza del paradigma dello scambio, molti di noihanno imparato a non essere orientati verso l’altro, evi-tando così che l’amore possa essere un’esperienza tra-volgente, un viaggio nell’economia del dono, un concen-trarsi sull’altro, una possibilità di ripercepire il mondo,di ricreare una società umana a due.

Il modo in cui formiamo i nostri legami e le nostrerelazioni reciproche riguarda le nuove percezioni di do-ni. Come Adamo che denominava le creature dell’Edene ne parlava con Eva, noi diventiamo coscienti delle par-ticolarità e universalità l’uno dell’altro, e diventiamo co-scienti della consapevolezza reciproca che abbiamo diesse. L’amore altera la nostra attitudine individuale ri-volta all’orientamento verso l’altro, almeno per il mo-mento. Cominciamo ad avere bisogno l’uno dell’altro ea voler dare l’uno all’altro. Cominciamo anche ad averebisogno del bisogno che l’altro ha di noi, del nostro stes-so darci, legandoci al desiderio dell’altro. Forse è pro-

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prio l’aspetto di orientamento verso l’altro dell’amoreche ci porta a cantarlo, a parlarne, a desiderarlo tantonella nostra società. “La giusta via è l’amore”, dicono ipredicatori e gli attivisti pacifisti; gli unici a non dirlosono gli economisti (e i terapisti preoccupati della co-di-pendenza).

Una parte della nostra mente vera ci sta dicendo cosafare e usa le nostre relazioni per dircelo. Suppongo cheper questa parte sia difficile generalizzare, non sapendoche il suo stesso contesto è in realtà economico. Essa cidice: “Dai, cambia l’Ego, nutri l’altro con abbondanza”.Freud e scrittrici femministe come Nancy Friday, sco-prendo che noi cerchiamo in realtà la relazione con lenostre madri negli uomini che sposiamo, hanno accesoun barlume di economia del dono che viene general-mente stroncato sul nascere.

I rapporti d’amore infatti, causando “orientamentoverso l’altro”, possono portare un uomo a praticare lecure più di quanto non abbia mai fatto, comportandosicome una madre farebbe con il proprio figlio (“Ti vogliobene, baby!”), soprattutto se la madre fosse abituata avivere nell’economia dello scambio e avesse assunto isuoi valori. Il sentimento di beatitudine che viene daldarsi cure reciproche (facendo a turno – non scambian-do – perché ognuno è orientato verso l’altro) è un’espe-rienza di economia del dono tra adulti, messa in risaltodal fatto che sono una società a due, e che la pratica deldono non è il sistema economico scelto dal mondo incui vivono. Invece, la loro relazione può sembrare, ed èeffettivamente, un angolino di beatitudine in un mondodiventato matto.

Come altri casi di economia del dono, questa societàa due viene presto alterata nella sua natura e possibilitàdi sopravvivenza dal carattere estraneo dell’ambientecircostante. Come un fiore tropicale in un clima freddo,esso ha bisogno di circostanze particolari, di molto lavo-ro, premure, protezione, che alla fine fanno defluire il

DARE E AMORE

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sentimento di calore e accoglienza così che la fragilepianta capisce (a ragione) di trovarsi in un ambientesbagliato. Ma ancora una volta, questo non è un “difet-to” dell’amore, bensì della penuria di amore e della pe-nuria di beni create dalla mascolazione e dallo scambioin tutto il mondo. Più atti crudeli avvengono nel mondo,più ostile sarà l’ambiente per una relazione di nutrimen-to/cure tra due adulti.

Per riuscire a sopravvivere in una situazione discarsità, gli amanti si adattano. Si dividono tradizio-nalmente il lavoro eterosessualmente: l’uno entra pie-namente nel paradigma dello scambio, mentre l’altracontinua a dare cure, seppure lavorando anch’essanell’economia dello scambio. I loro Ego si alterano diconseguenza. Noi donne diamo i nostri doni migliori:diamo vita ai nostri figli, poi pratichiamo il paradigmadel dono con loro perché ce lo impongono. Siamo co-strette, per la loro reale dipendenza, ad adattarci allamodalità orientata verso l’altro. I compagni maschi ac-cedono alla gerarchia della competizione per gli scarsibeni ma generalmente non hanno la salvezza psico-economica di dover dare cure ai figli. La partecipazio-ne all’economia dello scambio diventa l’unica tecnicaper la sopravvivenza e le donne, perciò, cominciano arafforzare psicologicamente nei loro partner (e talvoltain loro stesse) le caratteristiche che li aiuteranno adavere successo dove sono. Le donne rimandano il loroamore, mettono da parte il loro nutrirsi/dare cure re-ciproco, a un momento più opportuno. Alla fine, arri-vano a pensare che l’esperienza dell’amore sia una co-sa infantile, un’illusione. L’amore ricorda loro, a ragio-ne, l’infanzia, perché la relazione tra la madre e il fi-glio è l’unica esperienza importante di economia deldono che quasi tutti noi conosciamo.

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Il dare racchiuso nello scambio

Per il sistema della doppia responsabilità, molte don-ne svolgono sia il ruolo del dono sia quello dello scam-bio. Vengono pagate meno degli uomini per un lavoroparagonabile, non solo per dimostrare la loro inferioritàe l’inferiorità del paradigma del dono, ma anche perchécontinuino ad aver bisogno del denaro cui gli uominiprovvedono loro con i frutti della loro attività economi-ca di scambio. Questo sostegno sembra diventare unasorta di pagamento per i servizi che la donna svolge. Inaltre parole, il dare cure gratuito della donna, sia alcompagno sia ai figli, viene “compensato” con il denaroche le dà il marito. Così la pratica di cure gratuita vienecome racchiuso all’interno del paradigma dello scambio,che se ne impadronisce e lo riformula come scambio.Generalmente, però, il denaro che la donna riceve è ap-pena sufficiente per comprare i mezzi di nutrimento/cu-re alla famiglia. In un ambito di scarsità, il lavoro gratui-to delle donne sembra (e talvolta è) una specie di schia-vitù. L’opposto della schiavitù potrebbe sembrare il la-voro retribuito, mentre invece dovrebbe essere la libera-zione al dare gratuito in un ambito di abbondanza.

Dare nell’abbondanza è una scelta possibile per lagente ricca, dove il marito lavora nell’economia delloscambio per produrre denaro in abbondanza, e la moglie(che non lavora in quella economia) ha tempo di pratica-re il nutrire/dare cure su larga scala, svolgendo un lavorovolontario o opere di carità, cosa che anche il marito puòfare. Sfortunatamente, la beneficenza di questo tipomantiene lo status quo, alleviando i problemi senza mo-dificarne le cause. Inoltre, il volontariato che dipende dalcapitalismo patriarcale fa apparire la modalità delloscambio necessaria a sostenere la pratica del dono.

La beneficenza convalida la modalità dello scambioconsiderandola un suo requisito indispensabile. Anche

DARE E AMORE

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gli esempi riusciti di marketing solidale hanno questo di-fetto. Dobbiamo piuttosto modificare l’intero contestospostandoci al paradigma del dono per tutti, e dobbia-mo usare i nostri doni per fare che ciò sia possibile.

Pur essendo psicologicamente positivo per qualcunodare cure agli altri a partire da un ambito di abbondan-za, nell’attuale situazione di penuria generalizzata la pra-tica del dono può apparire inusuale o addirittura esserevista come un atto pio. Questo può provocare fissazioniegoiste di vario tipo da parte dei donatori, e in una man-canza di rispetto nei confronti dei destinatari. Conside-rare il paradigma dello scambio e la sua logica alla radi-ce del problema spersonalizza le azioni dei donatori edei riceventi. La soddisfazione del bisogno non dovreb-be riprodurre lo scenario dell’abbiente e non-abbiente,migliore e peggiore; invece fa parte di una modalità piùattuabile e umana, è un bene per la personalità e il be-nessere materiale del donatore e del ricevente, liberi dal-l’umiliazione e dalla fissazione dell’Ego sul difendere l’e-conomia dello scambio. È la cosa più logica e co-muni-taria da farsi.

I tipi d’impiego disponibili nella nostra società nonpermettono lo sviluppo della modalità e della mentalitàdel dare gratuito. L’intera società convalida la produzio-ne di beni e servizi per lo scambio, e la valutazione degliesseri umani secondo lo standard monetario. Nell’ambi-to delle nostre relazioni personali, della nostra esperien-za immediata, possiamo sperimentare le correnti socialiche scorrono attraverso di noi. Possiamo “dare” reci-procamente moltissimo di noi stessi, perché non lo stia-mo facendo socialmente su un piano materiale. Chi pos-siede ricchezza materiale deve sentire almeno inconscia-mente la spinta dei bisogni degli altri. Ogni giorno, gen-te che muore di fame ci osserva da dietro gli schermi te-levisivi; fuori dalle nostre case vediamo i senzatetto,ubriachi e infreddoliti.

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Esiste una prospettiva vera, seppure cinica, sul dare,che dice: “Se darò tutto ciò che possiedo a un altro,questo sarà egoista tanto quanto lo sono stata io”. Se sicontinua a convalidare il paradigma dello scambio, gli“abbienti” continueranno a opprimere i “non abbienti”.Se una persona leggermente più generosa dà il propriodenaro a un’altra persona, è difatti possibile che que-st’ultima diventi più egoista. Il segreto è nel dare percambiare il sistema e convalidare il paradigma del dono.Qualsiasi comportamento volto alla soddisfazione delbisogno, se attuato con consapevolezza del paradigmacui appartiene, contribuisce a questa convalida.

Il dare sessuale

Io penso che stiamo cercando di praticare il dare co-muni-cativo nei nostri rapporti d’amore, magari ancheattraverso la promiscuità. Noi ci diamo sessualmente achi sembra avere bisogno di noi, perché siamo spinti dalnostro subcosciente a dare mentre stiamo tuttavia viven-do nella scarsità materiale o siamo stati convinti che da-re materialmente non sia una cosa da fare. Darci sessual-mente ci permette di provare l’emozione di dare e rice-vere direttamente “sulla nostra pelle”; ci permette di fa-re qualcosa per qualcun altro, soddisfacendo un bisognosenza trasferire concretamente i beni dall’uno all’altro.In effetti può essere molto imbarazzante dare e riceverebeni materiali mentre il dare e ricevere sessuale è conva-lidato come un desiderio “normale”. Il sesso promiscuoci permette di essere orientati verso l’altro rispetto a uncerto numero di persone, dando loro su quel piano,mentre la società non ci permette di dare loro sul pianodel bisogno materiale.

Nelle nostre relazioni interpersonali viviamo i proble-mi della società. Ad esempio, le donne danno troppo ai

DARE E AMORE

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figli o continuano a dare ai mariti che le maltrattano. Iocredo che inconsciamente sappiamo che il dare è la giustavia. Ciò che non vediamo è che spesso stiamo dando nelposto sbagliato e sul livello sbagliato, e che non possiamopraticare il dare concretamente finché esso non verràconvalidato socialmente come la modalità di comporta-mento al posto dello scambio. Penso che in effetti si fac-cia confusione tra il dare cure materiale e l’amore, e perquesto pensiamo di amare qualcuno ogni volta che siamoorientati verso l’altro rispetto a lui/lei. Ogni bisogno chesoddisfiamo sembra essere pratica del dono, anche se è ilbisogno di ferirci di qualcuno che ci sta danneggiando.

Ma forse questo è dovuto alla confusione tra l’orien-tamento verso l’altro del sesso e dell’amore e l’orienta-mento verso l’altro materiale che si verificherebbe conuna giusta pratica del paradigma del dono. Potremmocominciare anche subito a praticarlo dando il nostrotempo, denaro ed energia per cambiare le strutture checi opprimono. Se ci spostassimo al paradigma del dono,l’intera società sarebbe orientata verso l’altro e gli altrisoddisferebbero i bisogni, e così ascolteremmo conti-nuamente l’appello dei bisogni degli altri.

Ma in quel caso, molte altre persone starebbero sod-disfacendo i bisogni, e perciò anche i bisogni dei nostricompagni potrebbero essere molto diversi da come sonoadesso. Essere capaci di praticare l’orientamento versol’altro materiale al di fuori delle famiglie e per il bene ditutti ci permetterebbe anche di avere un migliore orien-tamento psicologico verso i nostri amati. Ricevere daglialtri-in-generale come anche dare loro permetterebbe dilegarci di più a essi, e noi non dipenderemmo dal sessoper una “co-muni-cazione” significativa. Abbiamo chia-mato col nome giusto la ricerca di una vita “che abbiaun significato”. Questa è una vita in cui si attribuisce va-lore dando e ricevendo, ed è quello il motivo per cui leviene conferito valore.

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È vero che siamo particolarmente dipendenti l’unodall’altro nei nostri rapporti personali, perché è l’unicoambito in cui quasi tutti possiamo praticare il dare e ri-cevere e il paradigma del dono, anche se in modo im-perfetto. È perciò il più “umano” dei nostri comporta-menti, a cui diventiamo molto legati. L’abbandonarsisembra essere una minaccia per la nostra umanità. Il da-re e ricevere che pratichiamo sessualmente, che fa fiorirenei nostri corpi diversi bisogni mentre avanziamo soddi-sfacendoli l’uno per l’altro, crea un terreno comune perla comunità a due, a cui è difficile rinunciare.

I nostri io crescono attraverso questa comunità, cosìcome crescono nella famiglia d’origine in cui ci differen-ziamo come individui sulla base del nostro terreno co-mune con gli altri. È più probabile che l’ego mascolatoo basato sullo scambio abbandoni l’altro, che sia compe-titivo, che neghi il legame e l’intimità, e che usi l’altroperché rafforzi con il suo nutrire il senso della propriaimportanza. Sfortunatamente, la socializzazione degliuomini in opposizione alla pratica di cura permette chela comunità sessuale abbia questo tipo di distruttività.La seduzione e l’abbandono (“amale e poi lasciale”) è lamalattia del macho, anche se è talvolta la donna a lascia-re l’uomo. Il desiderio di dominio – che è ben funziona-le nell’economia competitiva dello scambio – si realizzanei rapporti personali con la forza, l’abbandono o lecrudeltà mentali, come la denigrazione e la mancanza dipartecipazione.

Il nutrire la competizione

I paradigmi del dono e dello scambio funzionano co-me due ambienti naturali che coesistono fianco a fianco,e ciò che è comportamento adattabile per uno è distrutti-vo nell’altro. L’ambiente della “sopravvivenza del più

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forte” viene considerato un sostegno per l’ambiente fa-miliare di cure. Le famiglie più adeguate all’economiadello scambio sopravvivono. Ma questa è un’illusione,perché è proprio l’esistenza dell’ambiente competitivoche minaccia la modalità del dare cure e che la opprimefino all’esaurimento. In realtà è il nutrire/dare cure chesostiene l’ambiente competitivo, non viceversa. Ed essonon può essere eliminato senza che venga distrutto anchel’ambiente competitivo, perché la modalità dello scam-bio ha bisogno dei doni gratuiti per continuare a esistere.

Gli stessi competitori sono mantenuti da chinutre/dà cure, e molti dei loro vantaggi vengono dal ti-po di nutrimento che hanno ricevuto; anche molti deiloro premi e ricompense vengono da chi nutre, inclusele stesse persone nutrici. Le donne belle o sexy, o anchele “buone mogli”, vengono spesso considerate un pre-mio per gli uomini di successo. A un livello individuale,nessuno di questi aspetti sembra legato al resto, e le in-terazioni sembrano dipendere dalle differenze, scelte ocaratteristiche personali. Da una prospettiva più ampia,possiamo però rilevare che i due comportamenti sonostrettamente connessi, uniti dalle catene della loro com-plementarità. Per quelli competitivi è vantaggioso che larelazione non venga considerata da una prospettiva chepermetterebbe a quelli che nutrono di liberarsene inmodo consapevole. Infatti, come molti parassiti, i com-petitori assumono un aspetto mimetico, e sembra cosìche siano loro a praticare il nutrire/dare cure.

Gli accenti di valore

I due paradigmi vengono distinti l’uno dall’altro an-che perché la capacità di definire e le sue trasposizioninelle attività di misurazione e conferimento del valore,che mediano la proprietà privata sostituendo una cosa

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con un’altra e che stabiliscono equivalenze tra diversi ti-pi di cose che dovranno essere scambiate, tutte vengonoviste post hoc come cose appartenenti all’ambito dellamascolazione.

Delle donne si dice che sono “immerse nell’esperien-za”; e in effetti si può considerare l’esperienza come unacosa che funziona secondo la grana donante nella moda-lità del dono. Esiste un senso in cui tutte le nostre perce-zioni ed esperienze arrivano a noi gratuitamente. Anche sedobbiamo talvolta impegnarci per avere un tipo di perce-zione piuttosto che un’altra (uscire dalla porta per vedereil tramonto), se i nostri sensi funzionano in modo correttoc’è sempre qualcosa di presente da percepire. La strutturadella nostra immagine del mondo dipende dall’esperienzadel passato e dalla pratica di un paradigma piuttosto chedi un altro, come anche dagli “accenti di valore” che si tra-smettono attraverso il linguaggio e la cultura.

Le donne vengono relegate dagli uomini in quell’a-spetto della vita relativo alle percezioni e alla materialità.Gli uomini ci descrivono, condividendoci come un loroterreno comune attraverso il linguaggio mentre noi sia-mo, secondo lo stereotipo, immerse nel “sentire”. Hoparlato prima delle donne come coloro che stannonell’“ombra”, l’aspetto della mater(ia), e i molti. Abbia-mo questo a cui fare ricorso; è al confine dell’economiadel dono, così come il linguaggio è al confine dell’eco-nomia dello scambio.

Ma l’aspetto della mater(ia) e dei molti si perde nellanebbia, mentre al linguaggio si dà un’importanza prima-ria. Sotto la superficie del linguaggio e dei dati della per-cezione si nasconde l’attività gratuita svolta nei secoli,ossia il lavoro di mantenimento delle cose da parte delledonne, come anche tutto il lavoro tendente-verso-l’altronon retribuito dell’intera società. Tutti i doni gratuiti delpassato determinano le cose specifiche che percepiamo,e cioè le parti della cultura materiale che hanno persisti-

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to nel tempo per costruire il nostro mondo. Potremmoanche considerarci noi stessi come doni dati da altri, econsiderare i nostri figli come i nostri doni. I nostri iotendenti-verso-l’altro sono meno auto-similari di quellimascolati, più “trasparenti”; abbracciano l’altro in mo-do schietto senza il filtro dell’Ego. Noi siamo i figli/eche ricordano le madri (e le madri che ricordano i figli/ee che vengono ricordate dai figli/e).

I nostri aspetti “maschile” e “femminile”, almeno nel-la specificità con cui ci appaiono nella società occidenta-le, sono di fatto trasposizioni dell’Ego mascolato delloscambio e dell’io tendente-verso-l’altro quali prodotti eprocessi dell’economia dello scambio e dell’economia deldono. Visto che le due modalità economiche esistonofianco a fianco nella società, le strutture dell’Ego da essepromosse possono essere interiorizzate insieme. Questocrea un terzo tipo di struttura della personalità, che seanche può considerarsi come una transizione tra i due ti-pi di economia e avere alcuni dei vantaggi di entrambe,comporta diversi paradossi. Il nostro “donatore interno”forma legami rispondendo ai bisogni, e se i bisogni nonpossono essere soddisfatti possono sorgere forti emozio-ni. In contrasto l’Ego mascolato cerca invece l’indipen-denza e il dominio. Non è una coincidenza del tutto ap-propriata, né interiormente né esteriormente.

L’Ego mascolato e il contenuto dei suoi pensieri pos-sono essere diretti al proprio guadagno o a quello dellapropria famiglia, come un’estensione di se stesso. L’Egomascolato considera “oggettiva” la propria esperienza,priva del carattere di dono ma anche priva del dovere dimantenimento verso il proprio ambiente circostante. Èmeno consapevole dei bisogni dell’ambiente, dal lettonon rifatto al bambino affamato alla discarica di rifiutitossici. Impiega molto del suo tempo centrando l’atten-zione sul linguaggio, sulla burocrazia, sugli strumenti ditipo sociale o materiale per far fare cose agli altri, o per-

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ché gli altri diano così che lui possa ricevere. L’Ego ma-scolato ignora persino le cose che sono in lui; perciò isuoi bisogni devono essere soddisfatti da altri, come nel-lo stereotipo del professore distratto. Senza una nutriceesterna, l’aspetto donante della sua personalità potrebbealla fine doversi ribaltare e prendersi cura del proprioEgo mascolato. Così, le rimanenti parti orientate-verso-l’altro della sua personalità vengono rivolte all’“altro in-terno” e la persona diventa ancora più centrata su di sé.

Chi viene socializzato alla pratica del dare sviluppaun io che è già orientato verso gli altri, e l’aspetto chenutre/dà cure viene incluso come parte dell’Ego che sisviluppa nella partecipazione alla modalità dello scam-bio. Forse questo spiega la popolarità della terapia “pri-ma-io” tra le donne. Dai gruppi di co-dipendenza aquelli per promuovere la sicurezza di sé, la nostra so-cietà basata sullo scambio ci sta insegnando a metterenoi stessi per primi. Fortunatamente, visto che siamostate educate alla pratica del dono, la modalità del donorimane parte dell’io che affermiamo. Potrebbe sembrarefunzionale per lo status quo disfarsi della pratica del do-no, delle sue idee e ideali, ma l’economia dello scambiofinirebbe distrutta se ciò accadesse.

Ci sono poi ovviamente dei casi patologici di orienta-mento verso l’altro, ma è molto più probabile che sial’orientamento verso l’Ego a essere patologico. Social-mente, quest’ultimo sta avendo effetti nocivi su tutte lecreature del pianeta, mentre viene elevato a modello disalute. Nessuno di noi ha il sospetto che stiamo facendotutto questo perché non riconosciamo la pratica del do-no come un paradigma sullo stesso livello dello scambio.Dovremmo infatti affermare la paragonabilità dei dueparadigmi, non l’uguaglianza dei sessi.

L’uguaglianza che deriva dalla mascolazione e dalloscambio è uguaglianza preliminare alla quantificazione,o uguaglianza quantitativa. L’essere diretti verso l’altro

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dà importanza alla varietà qualitativa. Paradossalmente,l’economia del dono produce più differenze individuali,perché non le misura secondo un unico standard di va-lore quantitativo. Se ci concentrassimo sull’economiadel dono come paradigma, invece di umiliarlo e di circo-scrivere le sue manifestazioni, potremmo anche usarloper gettare luce su ciò che il paradigma dello scambiosta facendo. Potremmo leggere affermazioni quali: “Ledonne sono altrettanto brave degli uomini”, come meta-affermazioni che in realtà vogliono dire: “Il paradigmadel dono va altrettanto bene (o è meglio) del paradigmadello scambio”.

I giudizi

Tra le altre caratteristiche del paradigma dello scam-bio c’è la capacità di esprimere giudizi, mettendo unacosa in una categoria piuttosto che in un’altra. Comel’usanza matrimoniale per cui la donna acquisisce il no-me del marito, le azioni e i desideri delle donne vengonogiudicati dagli Ego mascolati come buoni o cattivi, ap-propriati o inappropriati ecc. Noi donne accettiamoquesti giudizi degli altri per via del nostro (altrimentipositivo) orientamento verso l’altro. Per noi non è facileesprimere un giudizio sulle nostre qualità, anche se forsel’Ego interiorizzato può farlo al nostro posto. “Sarò in-telligente? Sarò bella? Sarò brava?”: possiamo preoccu-parci all’infinito per queste cose, orientandoci verso l’E-go anche nel definire il nostro orientamento verso l’al-tro. La nostra capacità di vederci attraverso lo sguardodell’altro ci fa cercare la definizione che lui dà di noi e ciporta a giudicarci come lui farebbe.

Mettendo in atto la definizione, come definiens noiserviamo il definiendum che l’uomo ha di noi cercandodi meritare una sua parola positiva. Confondiamo il sot-

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tovalutarsi con l’“umiltà” e lasciamo che gli stereotipi ciguidino come profezie che si autoavverano. Assorbiamointeriormente la divisione tra le parole e le cose, tra lamente e il corpo, anche se, come partecipanti all’econo-mia dello scambio, possiamo vivere oggi questa divisio-ne in modo un po’ diverso. Le donne del passato rinun-ciavano al lavoro linguistico astratto, come la matemati-ca o la finanza, perché non veniva considerato femmini-le. Persino oggi, dobbiamo batterci per meritare il giudi-zio di noi stesse, misurando il nostro valore su uno stan-dard creato per le donne dagli uomini, dagli Ego masco-lati per le donatrici.

Uno dei principi del dare è che esso non venga prati-cato per cercare ricompense. Così, se ci battiamo per es-sere giudicate dagli altri o anche da noi stesse come“brave” o “belle”, stiamo sconfinando nell’area delloscambio. Gli altri possono anche giudicarci gratuita-mente in modo positivo, e questo a noi sembra un donoper il quale dobbiamo essere grate. A volte riceviamo ildono del giudizio “brava” o “bella” anche se non ci sia-mo battute per esso. Aspiriamo a questo giudizio “gra-tuito” degli altri, per la difficoltà che abbiamo di rima-nere interiormente nella logica del dono. Cercare di te-nere fede ai nostri standard innesca una dinamica di au-to manipolazione.

Forse l’autocritica ci permette di rivolgerci al nostrogiudizio rimanendo nel paradigma del dono. Se ci pu-niamo per ciò che facciamo di “sbagliato”, sembra cheagiamo meno per una ricompensa che se dovessimo giu-dicarci “brave”. Sembra che molte brave persone voglia-no sfuggire all’ossessione dell’Ego. Può forse sembrareche, evitando il comportamento mascolato, potremmomantenerci nel paradigma del dono. In realtà, seguireun paradigma piuttosto che un altro è forse determinatonon dal dominio di sé o dalla manipolazione, ma damolte ripetute azioni, motivate in una direzione o nel-

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l’altra in diversi tempi e situazioni e su diversi livelli. Icontesti esterni e interni determinano il successo e la va-lidazione pratica di queste azioni.

Il bisogno che si abbia bisogno di noi

Noi donne cerchiamo forse di coltivare in noi le ca-ratteristiche cui gli uomini darebbero valore, miglioran-do il nostro essere “attraenti” perché ci diano attenzio-ne, perché usino i nostri doni e ci diano il dono del lorogiudizio positivo su di noi. In effetti abbiamo sempreavuto l’incubo della “vecchia zitella”, della donna i cuidoni siano rimasti inutilizzati, magari per non essere ab-bastanza brava; e senza nessuno che abbia bisogno dilei. Abbiamo bisogno del bisogno degli altri per poterpraticare l’economia del dono con loro, sia dando lorocure con diversi tipi di beni, sia “dandoci” a loro. Averbisogno del bisogno dell’altro è stato screditato dallanostra cultura, ma fa parte della perplessità creata dallacoesistenza di pratica del dono e scambio.

Ad esempio, le madri “asfissianti” protraggono trop-po a lungo la cura dei figli. Queste hanno bisogno che siabbia bisogno di loro perché il loro dare è rimasto in-trappolato all’interno della famiglia. Sono incapaci ditrovare bisogni da poter soddisfare all’esterno della fami-glia, o di rivolgersi agli “altri-in-generale” lavorando peril cambiamento sociale. Paradossalmente, in un ambitodi penuria, c’è anche una penuria di bisogni cui i donato-ri possono avere un accesso che sia socialmente convali-dato e “significativo”. Se l’economia del dono fosse con-siderata una norma, tutti avrebbero bisogno di tutti.

In un’economia del dono, probabilmente alcuni tipidi interazioni specifiche e abituali si formerebbero sullabase del riconoscimento generale dei valori del paradig-ma del dono e delle strutture della personalità a esso

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connesse. L’accesso alle persone che hanno bisogni nonverrebbe negato a chi ha la capacità e l’energia di nutri-re/dare cure, e il flusso di doni non si arresterebbe. Da-re e ricevere non verrebbe più etichettato come “umi-liante” ma diventerebbe un comportamento normale.La terra ci attrae a sé, l’acqua scorre lungo i pendii, iventi si spostano secondo la pressione atmosferica; an-che nelle cose umane esistono una gravità e una pressio-ne specifiche, che devono essere rispettate. Lo scambiofunziona come un sistema di chiuse lungo un fiume, chefa salire l’acqua verso l’alto, allontanandola da chi ha ibisogni e dirigendola verso coloro che hanno già più chea sufficienza. Il nostro altruismo viene manipolato e ri-volto contro di noi. Abbiamo un disperato bisogno diconvalidare il flusso originario.

Anche nelle relazioni personali esiste una gravità, eanche su questo livello il flusso può essere alterato. Sicomincia a contare sul nutrimento/cure di qualcun al-tro, interiorizzandolo come qualcosa che “meritiamo”,considerandolo una ricompensa per la nostra buonaazione di un certo tipo. Poi si afferma la validità di que-sto fondamento logico insistendo per essere nutriti/cu-rati nel modo in cui siamo abituati. Quando l’altro nonlo fa per noi, lo facciamo noi per noi stessi, procurando-ci o prendendo ciò di cui abbiamo bisogno o di cui cre-diamo avere bisogno, senza più rispettare i desideri del-l’altro. È fin troppo facile comportarsi così nell’econo-mia dello scambio in cui viviamo, perché questo tipo diatteggiamento è “normale”. Se vivessimo in un’econo-mia del dono, manterremmo una situazione di orienta-mento verso l’altro, guardando ai bisogni degli altri esoddisfacendoli, ma anche confidando nel fatto che glialtri faranno lo stesso nei nostri confronti; e la strutturadell’ego mascolato non sarebbe necessaria.

Io credo che, in pratica, una tale fiducia ben ripostarenderebbe più trasparente la nostra esperienza. Nonesisterebbero tante paure, bigottismi e odi, perché nonsarebbe necessario doversi continuamente difendere, sia

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dall’appropriazione violenta degli altri, dall’indifferenzae dalla manipolazione, sia dalla nostra stessa autocriticaper aver fatto qualcosa agli altri “per la nostra sopravvi-venza”. In altre parole, non esisterebbero più le struttu-re artificiali che bloccano il flusso della compassione.Queste strutture provocano inoltre i timori, l’autocom-miserazione (l’orientamento verso l’Ego della compas-sione) e l’afflizione che bloccano la limpidezza dei nostriio e le nostre interazioni. Vorrei solo ribadire che io noncredo che questi siano “colpe” della persona orientataverso l’ego, visto che è l’intero sistema del patriarcato aspingerla in quella direzione; i termini della colpa e delpagamento sono in realtà valori basati sullo scambio eperciò convalidano il paradigma dello scambio, anche seapplicati a uno dei suoi difetti.

Sono invece le più ampie strutture sociali auto-simi-lari che convalidano la logica dell’ego mascolato a doveressere riconosciute come poco pratiche, obsolete e dan-nose. La mascolazione e le sue proiezioni esterne do-vrebbero essere considerate modificabili e di fatto noci-ve per la società in generale, come anche per l’individuo.Praticando le cure verso chi possiede o è posseduto daun ego mascolato, possiamo renderci conto che questapersona ha in realtà bisogno di smantellarlo e di ricom-porlo; che sarebbe più felice e più efficace senza di esso,perché sarebbe più orientato verso l’altro. È possibilecreare un ambiente in cui l’orientamento verso l’altro siaconvalidato e interiorizzato in quanto tale, e che non siarivolto principalmente verso “l’altro interno” o il domi-natore esterno o interno. Tutto questo sarebbe possibilese evitassimo di mascolare i nostri maschi e se cambias-simo il paradigma dello scambio con il paradigma deldono, convalidando i valori che la maggior parte delledonne (e molti uomini) hanno già.

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La monetizzazione e la moralità

La monetizzazione della manodopera non solo incar-na alcuni dei processi della definizione, come la sostitu-zione e l’equivalenza, ma funziona anche come un giudi-zio sul valore di una persona per la società. Il denaro e illibero mercato ci misurano secondo uno standard che sisuppone uguale per tutti e obiettivo, e per questo è an-cora più difficile sopportare se in base a esso veniamogiudicati negativamente, o se rimaniamo completamenteesclusi dall’economia monetizzata. I salari delle donne,essendo più bassi di quelli degli uomini, ci definiscononegativamente come “meno” degli uomini, in partenza.L’esemplare economico del giudizio in funzione del sala-rio ha quindi un risvolto su altri tipi di giudizio, e raffor-za il loro potere su di noi. Noi ci misuriamo e ci motivia-mo in base a uno standard monetario, influenzando ilnostro giudizio di noi stessi e degli altri in quanto bravi,intelligenti, efficienti ecc.

Questi giudizi sembrano venire da un qualche stan-dard esterno per il quale il valore è valutato “obiettiva-mente”, e che ben si concilia con la valutazione quantita-tiva dell’ego mascolato. Siamo una società ossessionatadalle valutazioni, dalle classificazioni nelle scuole al con-teggio delle calorie, dai notiziari sul tempo ai test psicolo-gici. Ci sottomettiamo ai test e lasciamo che la valutazionedomini il nostro comportamento. Persino nel nostro inti-mo esame di coscienza ci giudichiamo e ci dominiamocon l’autovalutazione. Gran parte dei movimenti per l’au-tostima sono volti a contrastare gli effetti totalmente ne-gativi del dominio attraverso l’autovalutazione negativa.

È chiaro che diamo valore ai criteri e ai giudizi, se cisottoponiamo a essi; l’autoritarismo parentale, la moralitàe la religione sono concepiti per farci dare questo tipo divalori. Ma se non lo facessimo sarebbe molto più difficileper gli altri dominarci, soprattutto psicologicamente.

Si è creato una sorta di sistema di scambio seconda-rio, nel quale noi ci battiamo per il riconoscimento. Sot-

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toponiamo alcune nostre azioni all’esame attento deglialtri, e il giudizio che essi ci danno è la nostra ricompen-sa. Persino il dare viene spesso praticato con questa idea.Aspiriamo ai giudizi di altri che ci dicano “bravo” o in-telligente, o capace; poi, dopo averli ricevuti, li usiamoper formare le nostre identità, i nostri concetti dell’io.

Dare o rifiutare questi giudizi, e dare un giudizio ne-gativo, sono i modi in cui alcune persone hanno poteresu altre. Uno dei motivi che ci portano a voler ricevereuna definizione positiva dagli altri e ad attribuirle tantaimportanza, è lo schema fondamentale del giudizio in ba-se al salario, che è a sua volta influenzato dallo schemafondamentale della determinazione del prezzo dei pro-dotti. Anche i nostri rapporti d’amore seguono spessoquesti schemi. Ognuno di noi viene “valutato” da chi ciama, scelto perché “migliore” di altri “prodotti” o “im-piegati” simili (adesso gli economisti parlano addiritturadi “mercato dei matrimoni”). Non dovrebbe essere così;siamo troppo influenzati dagli archetipi inconsci delloscambio, mentre saremmo molto più felici senza di essi.

Talvolta interiorizziamo il processo di valutazione egiudizio, dominandoci secondo i valori della società o se-condo i nostri valori personali. Mediante questa attivitàinteriore, che sia per il dominio o l’accettazione di sé,confermiamo noi stessi in quanto “bravi” ecc. La mora-lità segue queste stesse linee, inducendo alla “giusta con-dotta” in un ambito basato sullo scambio. Incapace di ri-solvere realmente i problemi esistenziali o di spostare ilparadigma socialmente, la moralità, come la beneficenza,fa buon viso a cattivo gioco. Probabilmente salverà indi-vidualmente chi la pratica, facendolo diventare “buono”invece che “cattivo”; ma costui sarà comunque incorag-giato a concentrarsi sulle proprie qualità, rimanendo cosìorientato verso l’Ego, senza minacciare il paradigma.

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La compassione

Il “prezzo” del non praticare le cure e del non darevalore al dominatore può anche essere la violenza fisica.Il “dono” viene così forzato, e diventa come il “dono”del lavoro di uno schiavo. Per secoli, nel corso del pa-triarcato, la gente è stata costretta in situazioni in cui laviolenza era la punizione per non aver dato. I molti ven-gono puniti dagli uni o dalle gerarchie per inadempien-za o ribellione; l’obbedienza diventa perciò un’abilitànecessaria alla sopravvivenza.

In una tale situazione, l’espediente temporaneo dellagenerosità personale può sembrare l’unica risposta con-creta alla sofferenza. Quando però si pratica il dare indi-vidualmente, non sembra che si stia proponendo un mo-dello sociale percorribile e non si offre quindi una solu-zione al problema generale, che deve invece avvenire suuna scala più ampia. Molti degli individui che nutro-no/danno cure vorrebbero forse cambiare i paradigmisociali; ma il problema è che non vedono le cose in que-sti termini né sanno come ciò sia possibile.

I movimenti contro la violenza sessuale e domesticahanno coordinato attività di cure individuali per un cam-biamento sociale al livello della famiglia. Non stanno an-cora sfidando altri aspetti del patriarcato, come la violen-za ambientale e internazionale, anche se stanno accen-trando l’attenzione su un problema importante; stannopraticando i valori delle cure, e sono organizzati. Altrimovimenti per un cambiamento sociale, i movimenti perla pace, per l’ambiente, per la giustizia economica e per laliberazione dei popoli stanno svolgendo attività importan-ti per un cambiamento sistemico, ma generalmente nonindicano gli schemi patriarcali come problema di fondo,né i valori delle donne come soluzione al problema.

Si possono fare considerazioni simili sul tipo di solu-zioni proposte dalle strutture governative: nonostante i

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buoni propositi, che a breve termine possono anche esse-re funzionali, queste si stanno muovendo a partire dallefondamenta dello scambio. Ad esempio, il richiamo allaresponsabilità individuale contro la dipendenza, che miraa eliminare l’assistenza sociale integrando le persone almercato, è una soluzione che aggrava il problema, enfatiz-zando gli stessi valori che lo hanno provocato. La praticadel dono, così come viene svolta dallo Stato paternalisti-co, è umiliante e inefficace. La colpa viene erroneamenteattribuita all’atto del ricevere, che viene considerato passi-vo e stupido, denigrato come una cosa praticamente sub-normale. Il dare-e-ricevere creativo viene in questo modosostituito dall’integrazione individuale allo scambio e dalrafforzamento dei valori capitalistici mascolati.

L’altruismo individuale può forse offrire un modellodi pratica del dono, estendendo il proprio campo d’in-fluenza a un gruppo più ampio. Ma pur essendo un ten-tativo di giungere alla radice del problema, è solo unmodo di vivere all’interno del paradigma dello scambio,che contribuisce a un certo grado di sanità mentale e aun comportamento di aiuto verso gli altri ma senza cam-biare niente radicalmente. La compassione, la benefi-cenza e la moralità, se praticati soltanto come approcciindividuali, non portano a uno spostamento di paradig-ma, che è invece necessariamente un processo collettivo.

Per questo è importante vedere la presa di coscienzadelle donne – del movimento internazionale delle donne– alla luce del paradigma del dono. Il paradigma del do-no è già nei valori di cura delle donne, e quando le don-ne convalidano individualmente i propri valori (nonquelli del patriarcato), fanno già parte di una collettivitàdi oltre il 50 per cento dell’umanità. Il paradigma deldono è profondo, molto esteso e non riconosciuto. Lamascolazione avviene presto nei maschi, ma le donne as-sumono i valori della mascolazione più tardi, nel vedereil mondo con lo sguardo dei loro “altri”, cioè di quegli

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umani che la società ha alienato da noi e che noi nutria-mo in eccesso.

Prendendo coscienza dei nostri valori orientati versol’altro in quanto paradigmatici, le donne che lavoranoper un cambiamento sociale possono liberare tutti noidai valori della mascolazione che si sovrappongono aivalori delle cure. Proponendo il paradigma del dono co-me una modalità umana per tutti, possiamo anche libe-rare gli uomini e l’intera società dalla sala degli specchidel paradigma dello scambio. Gli uomini e le donnepossono riconoscere il carattere estraneo e inutile dellamascolazione, fare un passo indietro e smantellarla inmodo non mascolato e non violento. La transizione ver-so un sistema diverso può risultare facile, perché il siste-ma alternativo non deve essere inventato da zero; essoesiste già, nella pratica del dono svolta da metà dell’u-manità e che forma la matrice nascosta dell’altra metà.

Riportare l’umanità alla madre

Il tipo di orientamento verso l’altro funzionale allacura dei figli è interattivo e diverso dalla moralità checerca di imporre la “giusta azione” e i “giusti comporta-menti” sugli altri o su di sé. La moralità può anche scon-finare nel nutrire/dare cure, soprattutto quando è diffi-cile soddisfare i bisogni a causa della scarsità o dellepressioni: in tempi difficili, è possibile doversi “forzare”ad agire in modo orientato verso l’altro nei confronti delfiglio o dell’altro, assumendo cioè il nutrire/dare curecome una questione morale.

I filosofi reazionari e macho hanno interpretato il le-game madre-figlio come “naturale”. Dare valore ai biso-gni dell’altro non è “naturale” in senso irrazionale, manon fa neanche parte della moralità basata sulle regole. Èun principio sui generis – di un tipo specifico in sé – che

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può non essere riconosciuto in quanto tale perché noncontiene in sé quegli elementi dell’ego auto-riflettentimediante i quali di solito riconosciamo qualcosa come unprincipio, o come “re-ale”, perché il nostro pensiero av-viene tanto spesso nell’ambito della modalità mascolata.

Se i nostri ego e le nostre interpretazioni filosofichedella re-altà sono orientati verso l’ego e sono prodottidallo scambio e dalla mascolazione, le cose non orientateverso l’ego che facciamo rimangono fuori del loro ambi-to; non diventano coscienti, o almeno non allo stesso mo-do. L’egoismo è strumentalizzato così da costringerci adare valore a ciò che può essere utile ai suoi scopi, e nonad altre cose. Esso vede riflesse le proprie strutture, e de-finisce “reale” questa visione familiare, mentre le coseche non hanno quella impronta sono estranee, irrilevanti,irreali. L’Ego auto-similare è un po’ come un animale chemarca il proprio territorio con l’urina, e poi lo riconoscecome proprio. Nella pratica del dono, non siamo impe-gnati di solito a marcare il nostro territorio, ma a provve-dere al benessere dell’altro su un qualche livello.

Se il linguaggio è basato sulla pratica del dono, que-sta non può essere considerata prevalentemente pre-ver-bale e infantile. Se potessimo aggiungere al linguaggioaltre manifestazioni di pratica del dono, come il sogno,l’arte e l’attività volta al cambiamento sociale, vedrem-mo cominciare a emergere il dare come il massimo prin-cipio non riconosciuto della specie umana. Dobbiamocapire che la Madre è per-donante e che sia gli uominisia le donne possono esserlo; e che lo scambio – scaturi-to dal processo di denominazione e definizione – non la-vora per soddisfare i bisogni dei molti. È soltanto assu-mendo il principio della Madre – non in quanto biologi-co o istintivo, ma come una pratica umana cosciente ecreativa – che saremo in grado di soddisfare i diversi bi-sogni materiali e culturali dei 5 miliardi e mezzo di per-sone che vivono oggi in tutto il mondo.

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Ciò che dobbiamo fare adesso è portare la modalitàdel dono alla coscienza orientata verso l’Ego, per rivela-re la sua convenienza per tutti. Ciò è possibile guardan-do alle cose a partire da un meta-livello, con una pro-spettiva globale, e nei termini di una totalità. L’interessedell’ego e l’interesse per l’altro coincidono infatti sul li-vello globale. La sopravvivenza del pianeta (interesseper l’altro) coincide con la sopravvivenza dell’ego indivi-duale e anche dell’intero sistema complementare discambio-e-pratica-del-dare. Se siamo tutti destinati a pe-rire nella distruzione del pianeta, ognuno di noi può da-re la propria energia per risolvere i problemi che stannoportando alla sua distruzione, comunque sia orientata lanostra motivazione, verso l’ego, verso l’altro, o versouna combinazione di entrambe le cose. Per chi è orien-tato verso l’ego, questo è un momento di transizioneverso la pratica del dono. Da un meta-punto di vista,che tiene conto di entrambi i paradigmi, possiamo tuttioptare per uno spostamento di paradigma. Questo è ilprincipio della soluzione.

Io credo che le pratiche spirituali che fanno appelloalla singolarità di ognuno di noi stiano cercando inrealtà questo meta-livello, mentre impostano la loro ri-cerca in termini che si richiamano alla superiorità dell’u-no in opposizione ai molti. Pur proponendo un uno in-clusivo – e l’inclusione è un aspetto della logica del do-no – non si concentrano sulle effettive dinamiche pa-triarcali tra l’uno e i molti.

Da un punto di vista più globale, è possibile include-re entrambi i paradigmi sullo stesso livello d’importan-za. Il paradigma dello scambio auto-riflettente non è piùimportante del paradigma del dono, anche se la sua for-ma auto-similare crea questa illusione. Il paradigma deldono può costituire da solo la logica del comportamentoumano. Guardando a entrambi i paradigmi da una pro-spettiva più ampia, reintroducendo il criterio della com-

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petizione tra i paradigmi – che non è contraddittorioperché sta avendo luogo su questo livello “superiore” –possiamo constatare che il paradigma del dono ha la me-glio, in quanto sistema umano più funzionale di pensaree di agire.

Possiamo smettere la nostra lotta individuale per di-ventare esemplari e lasciare che sia il paradigma del do-no a diventare l’esemplare del comportamento umano.Se poniamo fine alla mascolazione, allora il linguaggio,la definizione e la denominazione, liberi dalle loro incar-nazioni auto-similari, potranno portare avanti la media-zione creativa delle soggettività e delle culture umane inun mondo in cui la pratica del dono materiale sia la nor-ma. Se analizziamo e capiamo abbastanza bene lo scam-bio, l’Ego e i suoi elementi, possiamo conservare even-tuali loro aspetti che siano utili per tutti. Nello stessomodo in cui potremmo usare alcune tecnologie in modopacificamente ed ecologicamente sano per fornire i mez-zi per nutrire/dare cure a tutti in abbondanza, possiamoforse decidere di mantenere alcuni elementi dello scam-bio e della coscienza orientata verso l’ego per provvede-re ad alcuni tipi di attività utili e ad alcune parti dellastruttura della nostra personalità.

Reinterpretare la moralità come un comportamentoche può creare la transizione verso il paradigma del do-no suggerisce che dovremo agire secondo l’orientamen-to verso l’altro e il dare vita e promuovere la consapevo-lezza di questo comportamento come paradigmatico1.

Amore condizionato e incondizionato

La moralità non funziona in modo efficace, e questoper via degli schemi di dominazione che permeano le sueregole. Un dono forzato sia dall’esterno sia dall’internoperde molti degli aspetti positivi del dono. Noi ci mettia-

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mo inoltre in una posizione tale da poter essere manipo-lati. Come nella mascolazione o nella definizione in baseal denaro, noi dipendiamo in larga misura dal giudiziodegli altri. Vorremmo soltanto che le nostre azioni fosse-ro misurate e valutate nel modo giusto. Nell’amore, po-tremmo cercare forse di fare in modo che gli altri sianoorientati-verso-l’altro nei nostri confronti invece che es-sere noi orientati-verso-l’altro nei loro confronti; alcunitipi di giudizi positivi su di noi sembrano renderlo possi-bile. Ad esempio, sollecitiamo i giudizi positivi degli altrirendendoci belli; poi li amiamo perché loro ci amano.Così, abbiamo con loro la stessa attitudine che abbiamoverso di noi amando noi stessi: la parte di noi che ama ilnostro Ego basato-sullo-scambio. Nelle nostre relazionicon noi stessi e con gli altri, interiorizziamo ed esterioriz-ziamo le relazioni tra i paradigmi.

Nella nostra società crivellata di terapie di vario tiposi parla molto dell’amore incondizionato. Ciò che i tera-pisti hanno scoperto è forse la qualità curativa dell’amo-re come dono orientato-verso-l’altro, in una società del-lo scambio, dove gran parte dell’amore che viene dato èstrutturato secondo il ricatto e il baratto, “dato” secon-do il principio se/allora. Coloro che si amano al di fuoridel paradigma dello scambio possono considerarsi mes-saggeri di un mondo migliore.

I bisogni urgenti di chi ci è vicino possono richiamareil dono dell’amore incondizionato. La tragica epidemiadi AIDS ha stimolato molta pratica del dono senza attac-camento. I movimenti contro gli abusi infantili, le aggres-sioni, la dipendenza dalle droghe, per la pace, l’ambien-te, e i movimenti anti-nucleare, i movimenti per la libera-zione dei popoli, richiedono tutti ore di dedizione sconfi-nate, un grande impegno di energia vitale e d’inventiva.

“Liberare” gli altri dalla nostra attenzione (come sug-geriscono i maestri del pensiero positivo) funziona perchéassicura la continuazione dell’orientamento-verso-l’altro

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nei confronti di qualcuno senza che debba esserci un qual-che ritorno da parte sua. D’altra parte, una posizione tan-to estrema come l’amore unilaterale non sarebbe necessa-rio se la società non fosse distorta tanto profondamentedallo scambio. Il dare e ricevere attivo, il fare a turno, è uncomportamento appropriato tra due persone (come anchetra loro e il resto della società) e può avere luogo senza im-plicare necessariamente il dare allo scopo di ricevere.

È solo dopo essere stati tanto feriti dallo scambio edalla dominazione da non avere più fiducia negli altri, cheabbiamo bisogno che gli altri ci amino unilateralmente eincondizionatamente. Ma è probabile che vedremmo condiffidenza anche questa soluzione, visto che i terapisti, co-me anche la società e i nostri genitori, ci hanno insegnatoche è sbagliato ricevere senza dare niente in cambio. Vor-remmo l’amore come dono incondizionato, ma ci è statoinsegnato che lo scambio è l’unico modo rispettoso eumano di comportarsi, perciò potremmo sospettare chel’amore come dono sia in realtà un trabocchetto, la primamossa di uno scambio in cui ci siamo ritrovati senza vo-lerlo (ci hanno amato senza che noi glielo chiedessimo!) eche non potremmo mai “ripagare”.

Essere genitori

Molte delle nostre pratiche relative all’essere geni-tori sono barbariche. Facciamo obbedire i figli minac-ciandoli di abbandono o malmenandoli, insegnando inquesto modo lo scambio e il ragionamento condiziona-le se/allora: “Se farai questo, potrai avere quest’altro”2.Facciamo in modo che i figli diano valore a noi e allenostre parole, secondo la nostra volontà. In questo ca-so, la rinuncia della volontà e la soddisfazione del biso-gno dei genitori di essere obbediti sono imitazionigrottesche del nutrire ed essere nutriti.

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Anche da adulti, la minaccia dell’abbandono ci per-seguita. La società fa con noi la stessa cosa che hannofatto i nostri genitori. Lo spettro di rimanere senza casa,soli e senza un impiego, incombe su ogni casa, posto dilavoro, famiglia e individuo. C’è una minaccia costantedi scarsità d’amore, come anche di scarsità di denaro edi beni di nutrimento. Nella nostra società orientata ver-so lo spreco, secondo il modello del prodotto per il qua-le non esiste nessun mercato o che viene usato appenadal ciclo accelerato di produzione-scambio-consumo,potremmo improvvisamente ritrovarci scaricati su unmucchio di spazzatura. Rigettati dalle categorie privile-giate del mercato, veniamo messi nelle pattumiere deltempo e dello spazio. Una tale situazione influenza gliego sia “maschili” sia “femminili”, intimidendoli in unaposizione di dominio o sottomissione, facendo loro se-guire il modello di don Giovanni di dominio uno-moltidel denaro o il modello del prodotto utile della SuperMamma, per paura di essere scartati o abbandonati.

Sfortunatamente, le immagini falliche e i modi fallicirafforzano in ogni momento l’Ego mascolato nella no-stra società. La mancanza di rituali e di attività significa-tivi al di fuori di questi schemi mette in luce gli schemidella mascolazione. Ogni cosa, dall’esercito all’economiadi sfruttamento, integra l’idea di mascolinità con quelladi aggressività. Gli adolescenti maschi imparano a domi-nare gli altri ostentando grosse macchine falliche o mol-te fidanzate; le adolescenti femmine imparano a prestareattenzione alle grosse macchine e alla possibilità di esse-re sedotte e abbandonate. Dal missile al numero 1, dallaTrump Tower alla torre d’avorio, l’immagine fallica au-to-similare attira l’attenzione su di sé, creando ritualicristallizzati con i quali tutti nella società possono conti-nuamente relazionarsi secondo la loro posizione o ruolospecifico. Dato che questi oggetti sono presenti nella vi-ta di tutti i giorni non riconosciamo il loro continuo po-

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tere, ma in ogni momento il nostro comportamento e lenostre motivazioni ne subiscono inconsciamente l’in-fluenza.

Praticare lo scambio per poter praticare il dare è ilcompromesso o ibrido tra i due paradigmi che proponela società. Ma se diamo allo scopo di ricevere economi-camente è più probabile che poi facciamo lo stesso nellenostre relazioni. Quando soppesiamo lo scambio emoti-vo e sentiamo di non aver ottenuto abbastanza, ci sem-bra più ragionevole rinunciare, per non essere autodi-struttivi. Il nostro compagno può non contribuire abba-stanza in casa, talvolta monetariamente, oppure non da-re abbastanza emotivamente, o andare con altre, e per-ciò non “scambiare” con noi. I terapisti e gli amici aiuta-no a valutare le azioni giuste o sbagliate del compagno,misurando l’opportunità che si rimanga attaccati a lui.

Nelle relazioni basate sulla pratica di cura, il dare èun dato in sé, che assicura uno spazio per entrambi, la-sciando un maggiore margine di sviluppo. L’attrazionesessuale suscita moltissima attenzione da parte dell’altro.Ciascuno “investe energia” nell’altro, poi vuole darglinutrimento/cure ed essere ricevuto da lui/lei. Io credoche in realtà quasi tutte le relazioni comincino col dare eche poi, non appena cominciano a capitare cose negati-ve, irrompa il ragionamento dello scambio: il donatorecomincia a voler essere un ricevente e a calcolare quantoha dato; “stabilisce dei limiti”, soprattutto quando vedeche non può continuare a dare così e che deve parados-salmente passare alla modalità dello scambio per potercontinuare a dare.

Agendo secondo il paradigma del dono, co-muni-ca-re materialmente ci rende più suscettibili di continuaread amare unilateralmente. Forse è per questo che tantedonne continuano ad amare, a mantenere i figli che gliuomini abbandonano, e a rimanere fedeli persino al ma-rito donnaiolo. Anche in un ambiente ostile, l’economia

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del dono si auto-perpetua, almeno per un po’. Se prati-cassimo il dare in abbondanza – non solo in casa, ma so-cialmente, come un modo di organizzare la nostra eco-nomia e le nostre istituzioni – le nostre relazioni umanemigliorerebbero e i nostri conflitti interiori sarebberopiù facilmente risanati.

1 In questo modo potremmo riconsiderare l’imperativo categorico kantia-no così da poterci chiedere non solo se il principio (il paradigma) che sta allabase delle nostre azioni possa essere generalizzato, ma anche in modo tale dapoter diventare coscienti della sua generalità e istituzionalizzarla. Il paradig-ma dello scambio non può essere generalizzato come modalità di comporta-mento per tutti, perché ha bisogno dei doni dei molti per poter funzionare.Richiede, cioè, che molti pratichino il paradigma del dono verso di esso. Chivuole estendere il “libero” mercato a tutti non prende in considerazione que-sto fatto.

2 Russ Rymer ha descritto il caso di una bambina “selvaggia” priva di lin-guaggio. Il libro di Rymer (1993) dimostra la scarsa pratica del dare ricevutadalla bambina. In primo luogo, come vittima d’isolamento e abuso da partedei genitori, poi come pedina degli interessi accademici burocratici, era al-trettanto lontana dal nutrire/dare cure che Victor of Aveyron, che un secoloprima aveva subito il severo autoritarismo di Jean-Marc Itard. Genie era ingrado di categorizzare, ma non imparò mai la sintassi. Aveva una stanza pienadi contenitori, secchielli di sabbia e bicchieri di plastica: a me sono sembratianaloghi alle categorie della parola senza doni. Credo che l’idea di “apparte-nere a” o di proprietà non fosse sufficiente per apprendere il linguaggio. Ave-va bisogno della co-municazione di nutrimento/doni prima del linguaggio.Non partecipava abbastanza al dare e ricevere esterno allo scambio per esserein grado di generalizzarlo alle relazioni nel linguaggio e per attribuire valorecome gli altri. Rymer sostiene che anche dopo essere stata liberata dalla catti-vità, la bambina fu usata come cavia da esperimento da chi si “prendeva cu-ra” di lei. Genie raggiunse lo “stadio chiave” di sviluppo, ma non poté andareoltre; non sapeva proiettare le relazioni di dono in parole. Le incapacità diGenie mostrano il difetto dello scambio: per lo scambio, la categoria è piùimportante dei contenuti. Inoltre, gli umani (soprattutto i maschi mascolati)sono valutati per ciò che hanno e per ciò con cui si suppone siano nati: il ge-nere maschile, l’anima, una personalità, un’identità e (ritengono alcuni) il lin-guaggio; mentre invece la pratica del dono costruisce queste “proprietà”. AGenie non fu dato gratuitamente e, perciò, non conobbe il modello del daregratuito con il quale avrebbe potuto dare valore orientato-verso-l’altro ai con-tenuti delle categorie o costruire linguisticamente il proprio io sociale.

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Capitolo ventunesimoDal Giardino al Graal

Criticando il patriarcato o puerarchia, non voglio ne-gare la spiritualità, ma solo dimostrare che è stata usatain modo da ostacolare la pratica del dono. Il nostrofraintendimento della pratica del dono dipende in partedal fatto che vediamo Dio come il grande donatore, eDio è maschio; per questo, confondiamo le caratteristi-che del dare con quelle della mascolazione.

Se comprendessimo Dio, il donatore, come una fem-mina, potremmo forse essere più coscienti del paradig-ma. Forse lui/lei è realmente puro altruismo, uno spirito“prima-tu” (you-first), e per questo è invisibile; crea lecose e le ama in un modo “prima-tu” e poi continua acreare e ad amare gli altri. Se non possiamo amarci l’unl’altro, blocchiamo il suo movimento. Forse gli spiritidella natura, le fate e gli angeli sono parti della dea unpo’ meno “prima-tu”.

Situare il dare nell’ambito del modello maschile na-sconde che le donne lo stanno già praticando in tutto ilmondo da sempre. Persino il sacrificio della vita di Cri-sto distoglie la nostra attenzione dalla quantità di sacrifi-ci che le donne stanno facendo ovunque per i loro figli, imariti e altri. La nostra gratitudine è rivolta verso il do-natore maschio come fonte, e questo maschera il model-lo della madre.

Io credo che l’aspetto più dannoso del Cristianesimosia l’esaltazione del sacrificio, perché non è rivolta alle

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situazioni che rendono il sacrificio necessario. Il sistemache crea la scarsità, la guerra e il degrado ambientale eumano deve cambiare, e questo bisogno non dev’esseremesso sullo sfondo a favore dei sacrifici di chi sta facen-do buon viso a cattivo gioco. Dobbiamo avere il corag-gio socio-politico di non sacrificarci, ma riconoscere lecause del problema e unirci per cambiarle, dando que-sto dono generale a tutti. Se potessimo cambiare il para-digma, il che implicherebbe anche cambiare il sistemadella ricompensa e la struttura dell’Ego dello scambio,potremmo dare senza esaurirci. Durante la transizioneda un paradigma all’altro, dobbiamo creare delle orga-nizzazioni alternative, usare la nostra energia, la nostrainventiva e le nostre risorse. Dobbiamo decidere se la-sciarci svuotare o distruggere nel processo, se rinuncia-re, oppure continuare a essere dei modelli di donatoriche non si sacrificano.

In una situazione di penuria, è fin troppo facile darefino al proprio esaurimento, perché il dare non è gene-ralizzato e infatti gli altri possono non dare ai donatoriisolati. Nel corso della storia, le donne sono state dona-trici perché i bisogni dei figli lo richiedevano; tuttavia,intrappolate dal paradigma dello scambio, siamo statespesso messe in croce, costrette a dare la nostra vita percontinuare a soddisfare i bisogni, perché le circostanzein cui ci troviamo sono tanto ostili da ucciderci. Le don-ne sono nel giusto, il dare è la giusta via. Ma dobbiamogeneralizzare il dare e cambiare il contesto perché, se cilimitassimo a farlo individualmente, verremmo distrutte.

La mascolazione e lo scambio si fanno avanti, si auto-convalidano e richiamano i doni degli altri. Perciò, chipratica le cure non riesce a vedere ciò che fa né a daredignità alla sua pratica come norma; ha accettato i valoriorientati-verso-l’Ego degli altri e così, paradossalmente,potrebbe non avere il coraggio dei propri valori e azioniorientati-verso-l’altro. Le donne potrebbero pensare ad-

DAL GIARDINO AL GRAAL

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dirittura che sia sbagliato dare, anche se poi lo praticanolo stesso. Hanno paura del paradigma che praticano econfondono la minaccia del sacrificio masochista dovutoalla penuria (un pericolo reale che viene dal contesto so-ciale) con l’idea che sia il dare a creare la penuria. Sacri-ficarsi per qualcosa può essere un modo di salvare que-sta cosa dalla distruzione, dandole valore, o un modo diriconoscerla o di denominarla, “pagandola”. Il sacrifi-cio, d’altra parte, è spesso un prodotto del dominio conla forza.

Il dare mascolato

L’unica cosa che abbiamo sbagliato al principio è sta-to lo spostamento dal paradigma del dono a quello delloscambio. Forse la storia del Giardino dell’Eden parlaproprio di questo. Nel paradigma del dono, nessuna re-stituzione è necessaria; solo quando ci spostiamo al pa-radigma dello scambio sentiamo la necessità di dover ri-cambiare. Vedendo la consumazione della mela come unpeccato di disobbedienza, che esigeva un contraccam-bio, la Bibbia mostra gli umani che entrano efficacemen-te nel paradigma dello scambio con Dio, assegnando aLui il ruolo di punitore, che provvede alla “giusta” rap-presaglia. Se fosse stato un Dio per-donante, che agivasecondo il paradigma del dono, non avrebbe richiestoun contraccambio; avrebbe piuttosto insegnato ai figli lapratica del dono, facendo da modello.

Forse il sacrificio di Cristo fu un tentativo di plasma-re il dare e perdonare, ma il modello maschile del Padree del Figlio ha cancellato il modello della dea (madre)(tutte le immagini della Madonna e del Bambino avreb-bero potuto mostrarci il bisogno dei figli maschi di se-guire le loro madri nutrici. Invece, l’orientamento-verso-l’altro della madre non si è mai autoconvalidato; non ab-

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biamo mai compiuto il passo logico verso l’alto; l’atten-zione è sempre stata sull’“altro” rispetto alla madre).Perciò abbiamo pensato che la collocazione più appro-priata al dare fosse la pratica materna nei confronti delfiglio maschio. E poi, i valori delle donne non sono statiproposti in quanto tali per una soluzione sociale, ma al-terati e tradotti secondo la figura maschile.

Se Cristo era un modello maschile di pratica del do-no, e il paradigma dello scambio la griglia interpretativa,allora Cristo ha “pagato per” i peccati dell’umanità. Lasua morte ha allora “pareggiato il debito”, ma questonon ha permesso all’umanità di uscire dal paradigmadello scambio. Anche se ha pagato in anticipo, per i pec-cati che la gente avrebbe commesso in futuro, è ancorauna questione di scambio. L’archetipo dello scambio èalla base di ogni nostra azione, e influenza moltissimo lenostre coscienze. Anche quando il nostro intuito spiri-tuale e i nostri cuori ci portano verso l’altruismo, questischemi riportano noi e le nostre interpretazioni della re-ligione al modello mascolato. Come abbiamo visto, lanostra coscienza e la re-altà in cui viviamo si formano se-condo i valori della mascolazione. La pratica del dono –il modello femminile – arriva alla nostra coscienza attra-verso il filtro della mascolazione e dello scambio. Oggi ilfemminismo e il movimento internazionale delle donneci hanno permesso di slegare la madre dal suo “altro” edi considerare le donne portatrici dei valori tendenti-verso-l’altro di tutta la specie.

Comunicare con gli dei

Gli umani hanno sempre cercato di stabilire una co-muni-cazione con gli dei, dando loro innumerevoli “do-ni”, dal sacrificio di animali al sacrificio umano, dalle no-vene alle decime. Il “dono” della vita di Cristo a Dio può

DAL GIARDINO AL GRAAL

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anche essere interpretato come un atto di co-muni-cazio-ne, la Parola, il Verbo. Non avendo riconosciuto il para-digma del dono e la sua importanza nella comunicazione,possiamo considerare il nostro tentativo d’interazionecome un momento della logica di scambio. Ricattiamo ladivinità: “Ti do una cosa se tu me ne dai un’altra”.

Forse per le pressioni della mascolazione, o per l’i-deologia dello scambio, oppure per un difetto dell’im-maginazione, consideriamo che i maggiori sacrifici di-pendano dal tipo di doni che soddisfano i bisogni deglidei. Forse la nostra difficoltà di comunicare sta nel fattoche quel tipo di doni affligge la Divinità così come af-fligge noi. L’urlo dell’animale sacrificale che viene sgoz-zato fa orrore a Lui/Lei (o all’“Um”). Dobbiamo conce-pire altri tipi di dono, più empatici e semplici, così comesono le parole per noi: l’incenso, la musica, i fiori e il ci-bo. La nostra crudeltà reciproca crea un’atmosfera tossi-ca, dove lo spirito non può volteggiare liberamente dauna persona all’altra.

Forse sono semplicemente le nostre attitudini masco-late a non permettere che si formino unità collettive ab-bastanza grandi quali soggetti co-muni-canti, che possa-no ascoltare ed essere ascoltate dall’Um. Se potessimorealmente spostarci al paradigma del dono, e sbrogliarela logica della comunicazione dalla logica dello scambio,potremmo forse ritrovare il giardino dell’Eden. Potreb-be essere il regno di Dio o della Dea, ma non credo chesarebbe un regno, né una democrazia; piuttosto un go-verno di un tipo nuovo.

Dal complesso al concetto

Nelle celebrazioni natalizie, esprimiamo la nostragioia per la nascita dei bambini, il desiderio che gli uma-ni siano migliori, la nostra salvezza, la soluzione dei no-

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stri problemi; e vediamo nei figli la soluzione di tutti inostri problemi. Questo è in effetti un risultato del con-flitto tra paradigma del dono e dello scambio. La donnadà il figlio; l’uomo dà il nome, l’eredità. Il figlio prendeil posto dei genitori. Il futuro viene scambiato con ilpresente, o prende il suo posto, e il conflitto viene tra-mandato, come “dono”, di generazione in generazione.Questa eredità è uno strano tipo di dono, che implicauna divisione contorta del lavoro, come quella tra i ma-riti stipendiati e le mogli non stipendiate.

Scambiamo nel presente per poter dare agli altri nelfuturo; ma nel futuro, gli altri scambieranno o daran-no? Oggi, alla soglia del XXI secolo, stiamo impegnandosia il presente sia il futuro nello scambio; stiamo ren-dendo il futuro un “dono” a noi stessi, e non stiamotramandando una buona terra. Stiamo creando la scar-sità, rendendo impossibile l’economia del dono per inostri figli e per le generazioni future; stiamo convali-dando il sistema, stiamo dando un meta-giudizio a favo-re dello scambio, e così diventa impossibile praticareeffettivamente il dare1.

La madre ha sempre dato il dono dei propri figli al

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Figura 39. Dio, Cristo e la Parola (il Verbo)

Dio

Parola

Parola (an-che Cristo)

Dio (an-che Cristo)

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Figura 40. Il processo della formazione del concetto, Vecchio e Nuo-vo Testamento

1. Inizio del concetto

2. Diventa un complesso

3. Altri elementidisuguali si aggiun-gono al complesso

Dio

Adamo ed Evafatti ad imma-gine di Dio

Adamo edEva peccano eora non sonosimili a Dio

Adamo, Eva, Caino, Abele

5. Trasformazione del Complessoin Concetto attraverso il Dio/Uo-mo. Parola/Esemplare

4. Complesso “Nome di fa-miglia”

Dio

Dio

Dio

L’umanità re-denta, la suaqualità comunerestaurata

6. Il Concetto riformato

L’umanità ora consiste in elementi che sono tutti uguali l’uno all’altro inquanto sono relazionati all’esemplare/parola uomo/Cristo/Dio

Umanitàpeccatrice

Cristo

Cristo

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marito. L’antico diritto di primogenitura era una formaderivante dalla mascolazione in uso tra le famiglie ricchee potenti. Secondo la logica del Cristianesimo, se Cristoera il figlio di Dio ed era anche un uomo, e gli uominierano fratelli, la relazione uno-molti di Cristo con loroera come quella del primogenito con i fratelli; la relazio-ne uno-molti di Dio creatore con gli uomini (mankind) èuguale alla relazione uno-molti di Cristo con gli uomini(mankind). Queste relazioni sono simili all’esemplareuno-molti e alla parola uno-molti.

Anche se la relazione dell’artigiano con i suoi prodot-ti (che lui ha fatto a propria immagine) o del padre con ifigli è un “complesso” di somiglianza familiare, può tra-sformarsi in una relazione concettuale quando venga in-dividuata la caratteristica comune tra le unità. La carat-teristica comune degli umani è espressa nelle loro anime“redente”, che sono in relazione con Cristo quale esem-plare uno-molti. In questa relazione, Cristo è ancheuguale a Dio, ed è la Sua parola incarnata o rappresen-tante sulla terra. Se Cristo è Dio, e il figlio è il padre, luista da entrambe le parti dell’equazione tra la parola el’esemplare. Il mythos cristiano può anche essere lettocome un’esplorazione del processo di formazione delconcetto (v. Figg. 39 e 40).

Adesso risultano evidenti altri elementi dello scam-bio di cui abbiamo parlato. Ad esempio, anche Cristo èl’equivalente generale, e la sua vita è il mezzo di scambio– il denaro – che paga per i peccati degli uomini. Se lepersone sono peccatori, non sono uguali tra loro e nonpossono accedere alla relazione concettuale con Dio co-me “molti-a-Uno” perché mancano della caratteristicacomune. Molti racconti della Bibbia descrivono i peccatidegli umani. Il peccato di Adamo ed Eva li rende diversida Dio e, rivelando la loro nudità, dà loro la consapevo-lezza di essere diversi l’uno dall’altro. L’omicidio permano di Caino del fratello, Abele, ha reso anche Caino

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diverso dagli altri uomini. L’Antico Testamento è unacronaca delle differenze umane. Pagando per l’umanitàe per-donandola, Cristo ha reso gli uomini simili tra loroe capaci di accedere alla relazione concettuale con luiquale esemplare identico al Padre.

La disobbedienza di Adamo ed Eva sembra abbiacreato un debito con Dio, e l’idea di debito appartieneal paradigma dello scambio. Il debito ha fatto credereagli umani di dover dare a Dio (creando co-muni-cazio-ne), una motivazione dall’aspetto di dono ma che è inrealtà il pagamento per una trasgressione. Si è forse pen-sato che pagando per il peccato non ci sarebbe stato piùdebito, e così sarebbe tornato il paradigma del dono. In-vece, gli umani non hanno commesso un peccato, néhanno contratto un debito, né hanno compiuto un attodi non-dare (non-dare obbedienza a Dio). Era solo per-ché hanno abbracciato l’idea di restituzione, di scambio,che hanno poi dovuto pagare. Sfortunatamente, come lastoria ha poi dimostrato, il “pagamento” di Cristo nonha dequalificato il paradigma dello scambio, anche seCristo era “per-donante”.

Pagare per i peccati dell’umanità fu uno scambio, an-che se il sacrificio della vita di Cristo era forse un tenta-tivo di mostrare il modello del dare in una situazione incui la giustizia era scarsa e l’empatia veramente manca-va. In realtà, le donne si sacrificano continuamente in si-tuazioni simili, non per pagare per qualcosa, ma persoddisfare i bisogni di chi è sottoposto alle loro cure.

Forse il fatto che Cristo sia nato da una vergine lo fasembrare figlio del paradigma del dono, al di fuori dellasessualità genitalizzata e al di là dell’Ego maschile2. Pro-porre una pratica del dono derivante dal modello ma-schile è comunque pericoloso. Le Chiese che onoravanogli insegnamenti di Cristo hanno instaurato la misoginia,le gerarchie religiose mascolate, che hanno a loro voltaappoggiato le gerarchie politiche ed economiche, invaso

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altri territori e massacrato i popoli di altre fedi con lascusa d’insegnare loro l’“altruismo”.

Per cambiare i paradigmi, dobbiamo identificare ilparadigma del dono con le donne in modo generale, se-guire la loro guida, e non ripetere le strutture mascolateuno-molti che si auto-propagano, che generano le gerar-chie e promuovono la competizione e la dominazione.La sopravvalutazione della posizione dell’esemplareconcettuale di “uno” è senz’altro una parte importantedel problema. È un elemento del processo della masco-lazione che deve essere smantellato per poter tornare alparadigma del dono come norma. Sfortunatamente, gliaspetti sia logico sia organizzativo del Cristianesimohanno associato l’immagine di un dio maschio donatorealla posizione dell’“uno” e alle caratteristiche mascolatedella sopraffazione e della dominazione.

La pratica del dono su scala sociale viene continua-mente male interpretata, mentre la modalità del dono suuna scala interiore individuale non viene vista. La praticadel dono interiore, in effetti, non dà soltanto un’immagi-ne statica, come abbiamo accennato nel caso dell’homun-culus. Ma il dare interno viene spesso paralizzato e resoinconscio, per la mancanza di modelli convalidati di prati-ca del dono all’esterno. Forse i modelli del sacrificio diCristo e del sacrificio dei santi della religione fornisce uncontesto che, almeno in parte, convalida il dare e l’indivi-duo. Tuttavia, se rendiamo la pratica del dono sacrificalee il paradigma del dono una pratica pia, invece di ricono-scere la loro esistenza in ciò che le donne e gli uomini fan-no già tutti i giorni, li allontaniamo dalla nostra portata.

Il padre autoritario

La religione patriarcale fornisce un certo numero difalse immagini del donatore maschio. Il Padre, che si

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suppone non abusi dei suoi figli, li ha in realtà espulsi dalGiardino dell’Eden per aver mangiato una mela e perciò,come i padri umani, esige che siamo ciechi e ignoriamola sua ingiustizia. Come modello di donatrice, interior-mente ed esteriormente, la Devozione (Godliness) lasciaspazio a molte trasgressioni, soprattutto sulla linea del-l’autoritarismo. Quanti bambini hanno subito abusi innome della volontà di Dio, e quanti hanno subito violen-ze in nome della santità dei loro padri e della necessità dipietà filiale? In realtà è sbagliato chiamare “buono” ilDio di questi padri, perché la compassione sembra pas-sare in secondo piano rispetto alla loro idea di buonaazione, di un’azione che rafforza i loro Ego mascolati.Dopo aver proiettato i loro valori su un onnipotente Pa-triarca, gli uomini lo usano per giustificare il rafforza-mento dei loro Ego, giudicando buoni i modi autoritari.

Quando mettiamo in questione la presenza del malee della sofferenza nel mondo, ci viene risposto che essava oltre la nostra comprensione. In realtà, l’immagineautoritaria di Dio convalida gli schemi violenti negli uo-mini, e non convalida il nutrire/dare cure e la compas-sione delle donne, perché dice che il Dio maschio, che èanch’esso autoritario, è assolutamente buono, e non am-mette nessuna immagine femminile di Dio. Questa èuna delle cause della sofferenza. Se pensiamo di non po-terlo capire alimentiamo solo l’ignoranza dell’abuso.Abbiamo un tabù sull’idea che il nostro concetto di Diopotesse causare che gli uomini mascolati continuino acreare la sofferenza.

Allo stesso modo, spesso le madri rifiutano di vederegli abusi che i padri continuano a perpetrare sui figli, efanno affidamento sul lato buono del marito, e sulla“imprevedibile volontà di Dio”. Possono perciò tollera-re gli abusi e, così facendo, diventano anch’esse parteci-pi. L’immagine del donatore viene quindi assimilata al-l’immagine dell’Ego mascolato autoritario oppure ri-

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sponde alla figura femminile senza potere, che nutre/dàcure al maschio, e al massimo intercede come la VergineMaria, difendendo umilmente la causa del figlio davantiall’Autorità maschile.

Nel frattempo, il bambino che la madre sta allevandoè in realtà lui, l’autorità maschile in miniatura. Perciò, laMadre che è in noi si trasforma in piccole iniziativeorientate-verso-l’altro o in rimorsi di coscienza che fannoappello alla nostra volontà mascolata per il potere. Smi-nuiamo l’intercessione della madre a favore di altri comecompassione non realistica, come fremito di un cuore ad-dolorato. Se lei riesce a suscitare in noi qualche accennodi orientamento-verso-l’altro, viene dato credito al BuonPadre, l’Ego mascolato “caritatevole”. Potremmo forsecancellare quest’immagine illusoria del padre e assumereil modello di Maria. Dovremmo cambiare l’immagineche abbiamo di lei, slegare il suo orientamento-verso-l’al-tro dall’idea di obbedienza e d’intercessione rivolgendo-lo alle pratiche di cura dell’umanità e del pianeta conpieni poteri, soprattutto delle donne e dei figli. Recente-mente, in effetti, il movimento della spiritualità delledonne (Women’s Spirituality Movement) ci ha restituitomolte immagini femminili del Divino, come quella di deedonatrici che sono anche potenti.

Il Santo Graal e l’alchimia

Il Santo Graal è una fonte gratuita di abbondanza. IlGraal, la coppa, è anche simbolicamente la cornucopia ol’utero. Forse l’aspetto spirituale del racconto sulla ricer-ca del calice dell’Ultima Cena da parte di eroi leggendarici dice ancora una volta che il problema non è biologico,ma sociale. Il Graal non è una cosa materiale ma una lo-gica, un modo di organizzare il nostro comportamentoeconomico. Il Graal è il paradigma del dono; non è un

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oggetto fisico – non è l’utero né la vagina, non è il senoné il pene, non è un corno né una spada, non è un calicené una lama – ma è il rifiuto di allineare in modo sbaglia-to microcosmo e macrocosmo; è il rifiuto di creare lospostamento verso la struttura artificiale dello scambio edel suo Ego al posto dell’abbondanza e le pratiche di cu-ra. Il Santo Graal è il dono che dà, il dono del paradigmadel dono che tutti noi riceviamo dalle nostre madri; dob-biamo soltanto superare i nostri complessi dell’infanzia ele nostre errate interpretazioni mascolate del linguaggio edella vita, per essere infine capaci di riceverlo.

A sostegno di questa interpretazione sociale del San-to Graal possiamo provare a interpretare la pratica del-l’alchimia in termini marxisti. Qualsiasi merce può di-ventare l’equivalente generale scelto socialmente, il de-naro, anche se di fatto l’oro è quello che l’ha fatto. L’al-chimia poneva in realtà una questione rispetto a unascelta sociale; trasformare i metalli non nobili in oro è laproiezione fisica del problema: “Come può una cosa di-ventare denaro?”. Questa domanda rimanda a un altrointerrogativo: “Come può un bambino diventare ma-schio?”, oppure, “come può una parte del corpo diven-tare un pene, una marca della categoria ‘maschio’?”, oancora, a una questione ancora più nascosta: “Comepuò una parte del corpo diventare vagina, utero o seno,produttrici di vita e di pratiche di cura?” e “come pos-sono l’utero o i seni diventare “l’esemplare’?”.

Sia l’alchimia sia la storia del Santo Graal mostranoalcuni aspetti del problema sociale della mascolazioneinterpretato su un piano materiale. Abbiamo visto che laposizione dell’esemplare viene attribuita socialmente enon è una caratteristica propria degli oggetti materiali. Ilvalore speciale dell’oro non viene dal metallo in sé; èpiuttosto una caratteristica sociale, che deriva dall’usodell’oro come equivalente generale – l’esemplare del va-lore – nello scambio.

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Potremmo assegnare socialmente questo ruolo a pez-zi di piombo specificamente designati, così come lo ab-biamo assegnato socialmente alla carta stampata. La re-lativa scarsezza di oro lo ha reso un mezzo di scambiofunzionale; e la relativa scarsezza è possibile per la parti-colare stampa della cartamoneta in quantità limitate. Po-tremmo stampare altrettanto facilmente pezzi di piom-bo, anche se sarebbero pesanti da portare in tasca. Perironia, se gli alchimisti fossero riusciti a trasformare ilpiombo in oro, ci sarebbe stato tanto oro che non sareb-be più servito come equivalente generale, e si sarebbeperso lo scopo stesso della trasformazione.

La trasformazione dei metalli non nobili in oro è difatto avvenuta. L’unico elemento a non essere entrato nelprocesso è l’identità fisica materiale del piombo e dell’o-ro. Nella trasformazione, l’identità fisica delle unità sot-toposte alla trasformazione era di fatto irrilevante; era es-senziale invece l’affinità tra le unità usate come denaromateriale (le banconote, le monete ecc.) e la loro produ-zione in quantità limitata. Questo ha permesso il loro usosociale come equivalente generale. Il piombo che conta-va era, alla fine, quello usato per stampare la cartamone-ta. La scelta dell’oro o della carta stampata come equiva-lente generale è dovuta a diversi fattori sociali e storici. Ilfatto che scegliamo un oggetto come esemplare del valo-re di scambio è dovuto alla mascolazione e alla suaespressione psico-economica nello scambio.

La ricerca del Santo Graal è il segno di un problemaanalogo: la ricerca di un cambiamento sul livello sba-gliato. L’oggetto fisico, il graal, non è la fonte dell’ab-bondanza. E non lo è neanche l’utero, quale equivalen-te simbolico della coppa. Anche se l’utero riporta all’i-dea di madre, e la ricerca del Graal all’idea di oggettoprivilegiato, la soluzione del mistero non è nel trovarel’oggetto o contemplare l’utero, né nel dare un utero fi-sico agli uomini o castrarli per poterlo fare (o ferirli per

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dare loro una “vagina”). E la risposta non è nemmenonella ricerca in sé.

La risposta è invece nello spostamento dai livelli fisi-co e metafisico ai livelli sociale e psicologico. Capendo esmantellando il processo sociale della mascolazione,possiamo restituire il modello materno a tutti, provve-dendo a un’economia di nutrimento/cure (un cornuco-pia o graal sociale), che soddisferebbe tutti i bisogni inabbondanza. Un’economia di nutrimento/cure non ri-chiederebbe nessun cambiamento nei corpi fisici del-l’uomo o della donna, nessuna castrazione o aggiunta diorgani dove in origine non ci sono. Sarebbe sufficientecambiare la nostra interpretazione di queste differenze,e smantellare le loro proiezioni psicologiche, economi-che e sociali. Siamo stati costretti a cercare la fonte diogni bene perché non ci siamo posti la (giusta) doman-da; il punto non è “che cosa affligge il cavaliere?”, anchese questo solleva la questione della castrazione e il lega-me con la ricerca della pratica del dono (in realtà la do-manda somiglia moltissimo al nostro saluto “comestai?”, che può potenzialmente iniziare un’interazioneco-muni-cativa).

La domanda che avremmo dovuto porci, sia in passa-to sia oggi è all’incirca questa: “Come possiamo provve-dere all’abbondanza per tutti?”, la cui risposta, sia inpassato sia oggi sarebbe simbolicamente il Graal, “seguiil modello materno che pratica le cure e dà vita”. L’ulti-ma domanda di Percival, “a cosa serve il Graal?”, è si-mile alla domanda “per chi è?” che sta alla base della di-visione tra pratica del dono e scambio. È per l’altro oper l’Ego, è per il Re Pescatore presente o futuro o è perDio? O dovremmo forse applicare al Graal la risposta diMarx alla questione del linguaggio e vedere la sua infini-ta creatività nella logica tendente-verso-l’altro della so-cializzazione umana, la logica che va un passo più in là:“Per gli altri e, perciò, effettivamente anche per me?”.

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In un recente saggio sul Santo Graal, Graham Philli-ps (1996) stabilisce una corrispondenza tra il romanzocavalleresco medievale francese, La Folie Perceval e i ta-rocchi, e in particolare la carta della papessa (l’immaginedi una donna in una posizione papale uno-molti). Philli-ps tenta anche d’identificare il Graal con il segreto Gno-stic Gospel of Thomas Didymus, di cui pare fu scopertauna copia completa in Egitto nel 1945. Un brano citatoda Phillips sembra avere un rapporto con il modello ma-terno e la liberazione dalla mascolazione:

Gesù vide dei figli che venivano allattati, e disse ai suoidiscepoli: “Questi figli che vengono allattati sono comecoloro che entreranno nel Regno”. E i discepoli dissero aGesù: “Quindi noi, come figli, entreremo nel Regno?”, eGesù disse loro: “Quando farete di due uno, e quando fa-rete l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno el’alto come il basso, e quando trasformerete il maschio ela femmina in un singolo uno, così che il maschio nonsarà maschio e la femmina non sarà femmina, quando fa-rete gli occhi al posto di un occhio, e una mano al postodi una mano, e un piede al posto di un piede, e un’imma-gine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.

Diversi elementi di questo passaggio ricordano il re-cupero del modello materno che nutre/dà cure, in parti-colare l’unità non mascolata del maschio e della femmi-na, e il modello del seno. L’unità tra gli opposti e il ritor-no alla sostituzione di alcune cose con altre, sono forsetrasposizioni della co-muni-cazione materiale.

Le pratiche di cura maschili

La transustanziazione attraverso la definizione o ladenominazione (“questo è il mio corpo; questo è il mio

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sangue”) dimostra in effetti la questione dell’alchimia.Dio o Cristo quale esemplare del concetto di uomo(mankind) trasforma il pane e il vino nell’esemplare (sestesso). In quanto uomo esemplare che nutre/dà cure, sitrasforma in cose da mangiare e da bere1. La transustan-ziazione, come anche la mascolazione, dimostra il poteredella definizione. L’effetto della denominazione non è fi-sico, come sarebbe per un miracolo (come nella trasfor-mazione dell’acqua in vino), ma sociale. Il Santo Graal,il simbolo della madre, è il posto in cui creare un ma-schio che pratica le cure, reinterpretando e riformandoil meccanismo sociale della denominazione, in particola-re della denominazione di genere. La sostanza (sub-stan-ce) non è altro che comprensione (under-standing).

Forse, nei sacramenti o nella Chiesa, viene data piùattenzione alla qualità esemplare del processo di transu-stanziazione che al carattere materiale del pane e del vi-no. Dal pane e vino materiali dobbiamo solo passare alcarattere esemplare di Dio, non a un altro materiale fisi-co. E Dio è il “il divino dalla forma umana”, un’idea so-ciale, che segue il processo di altre idee sociali, chelui/lei esista in quanto tale o meno.

La “transustanziazione” somiglia moltissimo alloscambio e alla mascolazione. È un cambiamento di statodi qualcosa, che avviene mettendo in relazione questacosa con una nuova parola quale suo nome. L’“esempla-re degli esemplari” denomina (e indica) qualcosa comese stesso, e il prete ripete questo processo. Se il Dio ma-schio è l’Uno equivalente generale, il suo trasformarsi incibo trasforma questa materia in esemplare e trasformal’esemplare maschio in colui che nutre/dà cure. L’“ospi-te” è, dopotutto, solo un “assaggio” (taste), un esempla-re. Nello stesso momento in cui il pane e il vino si tra-sformano in corpo e sangue, il modello si sposta dal ma-schio alla femmina, dalla sopraffazione al nutrire/darecure; e questo è realmente l’assaggio di un mondo mi-

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gliore, anche se è nascosto nel tabernacolo della religio-ne patriarcale autoritaria.

La forma simbolica del Graal coincide con i suoicontenuti, trasponendo un sacrificio reale in uno simbo-lico, dando un dono che può facilmente essere dato (pa-ne e vino) invece di un dono che non può esserlo (il cor-po e il sangue). I preti maschi hanno quindi potenzial-mente qualcosa da dare, diventando con le loro parolepiù simili alle donne nutrici, modellando il dare gratui-to. Per le loro parole, “questo è il mio corpo, questo è ilmio sangue”, nel rituale, si presume che i preti cambinola sostanza delle cose, il pane e il vino. Cambiando lenostre parole di genere, potremmo cambiare la sostanza(la comprensione, under-standing) dei maschi in coloroche nutrono/danno cure. La comunione punta all’uma-no privo di genere, che si nasconde all’interno del mo-dello del maschio che pratica le cure.

Adesso abbiamo bisogno di reinstaurare il modellodella donna che pratica il dono. Questo modello o en-trambi i modelli devono servire per cambiare il sistemamascolato, per il quale il sacrificio è funzionale. Conquesto cambiamento, potremo creare un sistema nelquale saremo in grado di condividere non il cibo simbo-lico ma il cibo reale, localmente e globalmente, trasfor-mando in questo modo la realtà. Potremmo comprende-re le parole come il potere della collettività di trasforma-re la nostra comprensione, e gli “uni” come elementi deinostri processi concettuali, liberando lo spirito dal pa-triarcato.

Il sacrificio umano

Oggi stiamo sprecando la nostra ricchezza in coseche non soddisfano i bisogni, per stimolare l’economia;in questo modo i nostri doni di valore non vengono dati

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l’uno all’altro, ma all’economia. Sprecare e distruggere iprodotti crea la scarsità. I prezzi sono alti perché le mer-ci non si accumulano e perciò non creano l’abbondanzache renderebbe inutile l’intero sistema. Chi partecipacome venditore al ciclo di creazione dei falsi bisogni ar-tificiali e degli scarti riceve maggiori profitti in cambiodei suoi sforzi. Non solo riceve i doni del plusvalore deiproduttori nel suo paese e all’estero (e la questione delladifferenza tra i tassi di cambio e i livelli di vita fa sì chel’economia globale di un paese dia all’economia globalee agli agenti economici individuali di un altro paese), mariceve anche i doni dell’ombra di tutti i bisogni che ri-mangono insoddisfatti perché l’abbondanza non è statafatta crescere.

Non può esserci “sgocciolatura” (trickle down) per-ché la coppa che avrebbe potuto essere il Graal non vie-ne mai riempita fino all’orlo né lasciata traboccare; i do-ni fuoriescono come scarti da un’incrinatura nel fondo.Nel frattempo, i bisogni insoddisfatti di milioni di per-sone, tra cui i quarantamila bambini che ogni giornomuoiono di fame e di malattie evitabili in tutto il mon-do, sono sacrifici umani che danno valore ai “bisogni”del libero mercato. I sacrifici umani rituali che permet-tevano di mantenere la società piramidale degli antichiMaya prevedevano l’uccisione di poche persone scelteper il bene di tutti; forse i Maya erano, dopotutto, piùcompassionevoli e più consapevoli di noi.

Sacrifichiamo milioni di vite umane per creare lascarsità necessaria a far funzionare il nostro sistema, permantenere le piramidi sociali, le gerarchie, le catene didoni verso l’alto, e le catene di definizioni e di comandiverso il basso. Ma per chi è al potere, questi sacrifici av-vengono “altrove”: i doni che ci vengono dati sono invi-sibili e, se pure vengono visti, non viene riconosciuto illoro legame con la nostra economia. Le ribellioni cheavvengono “altrove” vengono soffocate con l’uso di ar-

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mamenti abbondanti, la cui fabbricazione converte l’e-nergia e il denaro in mezzi di distruzione, e porta piùprofitto a produttori e venditori, esaurendo ancora dipiù le riserve dei mezzi per nutrire/dare cure.

Nel “Primo Mondo”, vediamo immagini di gente me-nomata o che muore di fame in altri paesi (o per la stra-da), e attribuiamo la loro condizione a calamità naturalilocali o alla “natura umana”. Ma se si fossero trovati inun sistema diverso, in un ambito di abbondanza, la lorosituazione sarebbe stata diversa; perciò le loro morti,conseguenza della scarsità creata artificialmente e dei lo-ro doni eccessivi rivolti a noi, danno valore al nostro si-stema, cedendo il passo. Pensiamo che il nostro benesse-re sia dovuto a una buona sorte circoscritta o al nostro“meritare”, e neghiamo il trasferimento di ricchezza e divalore che arrivano a noi da altri paesi e classi sociali.

La civiltà Maya improvvisamente si estinse; e con es-sa finirono i loro rituali sacrificali umani. Sono state for-mulate diverse ipotesi sulle cause di questa fine a quantopare improvvisa, come la siccità, le malattie o la conqui-sta. Io preferisco pensare che qualcuno abbia infinecambiato la propria comprensione (under-standing) pro-nunciando le parole sacre: “Così non funziona; fermia-moci subito”; e che quindi l’intero gruppo, con un gran-de atto di civiltà, abbia deciso di fare ritorno alla vita ru-rale, per vivere in pace con i propri amati, per rinuncia-re ad attribuire valore alla piramide sacrificando e dan-do beni e obbedienza in modo piramidale. Noi possia-mo fare lo stesso.

I Maya sacrificavano l’“uno” come un dono nella co-muni-cazione materiale con gli dei, che si pensavaavrebbero restituito doni di abbondanza; facevano poiscorrere il sangue dalla lingua (la parola) e dal pene (la“marca” della posizione di uno) del re. Come nel caso dimolte altre culture, i Maya sacrificavano l’“uno” privile-giato come rappresentante del gruppo.

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Oggi stiamo sacrificando la vita di milioni di persone,non per gli dei, non come rappresentanti, ma per darevalore al sistema mascolato, che percepiamo come fontedel nostro nutrimento/cure, la nostra unica fonte natu-rale di vita. Il valore culturale dato al profitto e alla ric-chezza proviene anche dal sacrificio dei figli e delle ma-dri del futuro, visto che oggi il degrado ambientale stadistruggendo i loro mezzi per praticare le cure. Il can-cro, dovuto alle radiazioni nucleari e alle sostanze chimi-che nocive, attacca il simbolo e la fonte della pratica deldono delle donne, il seno. Negli USA ha raggiunto livelliepidemici: sembra che una donna su otto contrarrà untumore al seno.

Sembra di fatto che quasi metà della popolazionecontrarrà un qualche tipo di cancro. La malattia attaccaanche la “marca” della mascolazione, con il cancro allaprostata; e anche gli spermatozoi, soprattutto negli uo-mini bianchi, si stanno riducendo drasticamente negliultimi anni, a quanto pare per cause ambientali. Se nonsfidiamo le statistiche incomplete sul cancro fornite da-gli apologisti del libero mercato, come l’American Can-cer Society e l’American Medical Association, il sacrifi-cio dei nostri seni, la nostra capacità di riprodurci e lanostra vita continueranno a dare valore all’economiadello scambio. Le fonti del cancro quali le radiazioni nu-cleari e le sostanze chimiche tossiche che le industrie dellibero mercato rilasciano nell’ambiente rimangono invi-sibili, continuano ad accumularsi e diventano perma-nentemente abbondanti, mentre le risorse che danno vi-ta diventano sempre più scarse.

Le persone coinvolte nella cura delle malattie ricevo-no i loro mezzi di sussistenza dal sistema e danno a essola propria gratitudine e fede; perciò è improbabile cheattribuiscano allo stesso sistema la causa dei tumori. Co-me le donne che sopravvalutano la mascolazione, questepersone danno valore agli stessi processi che causano il

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problema, mentre cercano di prendersi cura degli indi-vidui che sono rimasti colpiti da essi. Il sistema non è so-lo un marito caritatevole, anche se talvolta duro, a cuidobbiamo dare valore e che dobbiamo seguire, cercan-do di limitarne i danni; è un meccanismo pericoloso, chedobbiamo riconoscere, capire e smantellare passo perpasso, così da non distruggere tutte le persone che vivo-no al suo interno e intorno a esso.

In questo modo, potremmo cambiare le nostre co-scienze e cominceremmo ad attribuire valore non alloscambio, ma ai bisogni di tutti e alla loro soddisfazionesu tutti i livelli. Smetteremmo di sacrificare noi stessi, inostri figli e i miliardi di esseri umani sconosciuti permantenere il nostro sistema piramidale, e dirigeremmo inostri doni verso la co-muni-cazione con tutti nell’ab-bondanza. Possiamo cominciare a costruire un SantoGraal per la società nell’insieme, la cornucopia della co-muni-cazione, pronunciando le parole sacre della tran-sustanziazione, cambiando la nostra comprensione (un-der-standing) sociale: “Fermiamo questa devastazionesubito”2.

1 Forse lo scudo spaziale di Guerre stellari e ora la mascolazione dellospazio sono un tentativo di proteggere lo scambio dal dare a un livello meta,sopra, nello spazio. La metafora di meta è stata portata così lontana con unaspesa di miliardi di dollari, perché semplicemente non capiamo quello chestiamo facendo.

2 Infatti il rapporto fra Dio, Maria, Giuseppe e Gesù ricorda quelli nellesocietà nei quali il fratello della madre (una persona che non ha rapporti ses-suali con lei) ha il ruolo paterno per i figli di lei.

3 L’idea cristiana non era nuova. Per esempio nella tradizione della gran-de dea, il dio figlio Dionisio è anche stato mangiato nelle sue varie forme.“Come dio della vegetazione è stato sacrificato nel rito, generalmente su di unalbero (prototipo della più tarda croce). Si mangiava la sua carne come pane,si beveva il suo sangue come vino…” (Sjoo, Mor 1987).

4 Colpisce che la bomba di Hiroshima avesse il nome “Little Boy”(Ma-schietto). Il nome “El Niño” indica la fonte a varie profondità dei nostri pro-blemi con il tempo.

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Capitolo ventiduesimoSpeculazioni cosmologiche

La vita sulla Terra è un tentativo della Terra di imita-re o di esprimere la sua relazione con il Sole. Dal mo-mento che il processo della vita e della morte ha lasciatoun humus del passato con il quale il futuro potesse cre-scere, questa espressione è cambiata nel tempo. La Ter-ra, in tutta la sua fertilità e varietà, è un prodotto dell’in-terazione tra il Sole e la stessa Terra, per la quale il Soledà un tipo di energia costante e la Terra dà una gran va-rietà di energie. La Terra ha una storia e un’evoluzione;il Sole no, o almeno non sembra averle, visto che la suaevoluzione è molto più lenta. Ciò che accade oggi sullaTerra si basa su ciò che è rimasto delle cose accadute inpassato. Gli strati della Terra su cui crescono le piante, esu cui camminano persone e animali, sono sottoprodottidi eventi passati, per ognuno dei quali la Terra ha usatol’energia del Sole. I sistemi ciclici, come gli alberi e i filid’erba, si rivolgono in alto verso il Sole; dopo aver in-corporato l’energia della luce, diventano loro stessi raggisolari della Terra, o “raggi terreni” che si stendono versolo spazio.

Gli animali e gli esseri umani eretti, su quattro gambeo su due, o gli uccelli che volano in alto verso le nuvole,sono energie della Terra in movimento verso l’alto. Ma aldi là di questo c’è la nostra capacità di locomozione versoun obiettivo. Guidati dalla nostra vista, ci muoviamo daun posto all’altro, così come la luce si muove dal Sole alla

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Terra. In questa dimensione, la vita imita la propria origi-ne. Analogamente, gli spermatozoi si muovono verso l’o-vulo; l’ovulo prodotto si muove verso il luogo dell’uteroin cui avviene la fecondazione. Ma anche nella dimensio-ne della coscienza, sorge un’intenzionalità all’autopropul-sione; come un raggio di Sole che si sprigiona verso laTerra, questa si muove verso il proprio obiettivo, talvoltacombinandosi con altri elementi di vita del passato perprodurre un certo risultato, un raggio solare incorporatoai raggi della Terra, energie terrestri che danno frutti.

Le nostre voci e le voci di animali, di pesci e uccelli,si sprigionano dalla gola e arrivano alle orecchie ricetti-ve, dove vengono incorporate e diventano comprensio-ne e comportamento e sensazione. La luce solare dellanostra attenzione illumina la nostra esperienza passata,presente e futura, come anche l’esperienza di altri chearriva a noi attraverso i sensi, o attraverso le loro storie,o leggendo e osservando. La nostra attenzione coscientebrilla sui nostri io, e ci aiuta a pianificare e a decidere, achiarire le nostre intenzioni e a metterle in atto. Ma so-cialmente si è creato una sorta di gioco degli specchi,per il quale restiamo intrappolati nel nostro stesso rifles-so, concentrando energia dentro di noi.

Questo gioco si è combinato con l’uso dell’energia ac-cumulata dagli altri, o dal gruppo, per alimentare l’ener-gia che si concentra sull’io. È come se il raggio solare ve-nisse incorporato alla Terra e ritornasse indietro verso sestesso moltiplicato, come se anche i raggi solari fosseroun sistema chiuso. Si fa confusione tra la vita – piante eanimali – e l’energia. Per di più, sotto questa forma, l’at-tenzione concentrata sull’io di una persona può danneg-giare gli altri, appropriandosi della loro energia per in-tensificare la propria. Il Sole non funziona in questo mo-do. Il gioco degli specchi crea un appetito insaziabile diconcentrarsi e di risplendere sull’Ego in modo più inten-so, attraendo continuamente l’attenzione degli altri.

SPECULAZIONI COSMOLOGICHE

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In quanto esseri umani di varietà e culture differenti,abbiamo cercato di capire chi siamo, cosa stiamo facen-do o pensando di fare e dove stiamo vivendo. Solo di re-cente l’astronomia ha cominciato a darci una visione piùcorretta dell’universo, del nostro pianeta e della nostrastella. Non è strano né sorprendente, perciò, pensare diaver potuto commettere degli errori rispetto alla direzio-ne che abbiamo scelto per noi e all’idea che abbiamoavuto dei nostri obiettivi.

Freud ha capito bene che nella sua epoca (ma inrealtà anche nella nostra) i figli avevano un’idea piutto-sto distorta del funzionamento del sesso, che influenza-va il loro pensiero e le loro emozioni. Sembra logico cheuna falsa cosmologia possa avere gli stessi effetti negativisul nostro immaginario collettivo. L’idea che il Sole fosseal centro dell’universo può aver influenzato il nostropensiero e comportamento sociale più di quanto pensia-mo; e l’idea di trovarci in un minuscolo granello di pol-vere illuminato da un fascio di luce nel mezzo di miliar-di di altri granelli colpisce la nostra immaginazione enon le giova. Invece, la Terra vista dalla Luna è una pro-spettiva dalla quale possiamo forse porci in un contestocreativo: la Terra è un luogo molto speciale, una gocciadi vita che risplende; e noi siamo parte di essa.

Non aveva ragione Copernico, ma Tolomeo: la Terraè al centro dell’universo, del nostro universo, perché sia-mo esseri umani. Adesso che cominciamo a capire cos’èla Terra, potremo forse capire meglio cosa siamo e cosadobbiamo fare.

Dobbiamo prima di tutto rispettare il pianeta, allacui vita apparteniamo tutti noi. In questo caso non èsorprendente che i raggi solari risplendano nella nostradirezione, ma che la Terra sia capace di creare qualcosacon essi. Dobbiamo vederci come luce incorporata, vitaincorporata. Dobbiamo essere come Goldilocks e trova-re la cosmologia della nostra dimensione, una visione

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della Terra che sia “giusta” per noi. Dobbiamo trovarela nostra posizione sulla Terra e all’interno del sistemasolare, per poter chiarire la nostra relazione reciproca.Un problema specifico che molti di noi hanno oggi è ve-dersi come persone singole, legate come individui allaspecie umana di cinque miliardi e mezzo di persone. Èstupefacente l’affinità di questo problema con la consi-derazione della nostra Terra e del Sole nel loro rapportocon miliardi di altri soli e possibili pianeti, via via chevengono scoperte molte altre nuove galassie.

Potremmo chiamarla la teoria della conoscenza perproiezione: proiettiamo un interrogativo umano pres-sante su uno specifico ramo della conoscenza, e poi loritroviamo in esso. Non intendo dire che la conoscenzache si ottiene in questo modo non possa essere vera, mache l’impulso a cercarla sia un problema esistenziale col-lettivo o sociale, piuttosto che un motivo di “curiosità”scientifica puramente asettica, o un motivo individualenon-così-asettico rivolto al profitto. E l’avidità di cono-scenza non è forse una sorta di traduzione della bramo-sia o avidità di beni e denaro che motiva la nostra so-cietà basata sullo scambio?

La teoria dell’evoluzione secondo la sopravvivenzadel più adeguato, che si è sviluppata contemporanea-mente all’economia capitalista secondo la sopravvivenzadel più adeguato, è un altro esempio calzante. Forse, secapissimo il meccanismo della proiezione, potremmo ca-pire perché lo stiamo facendo, qual è il disagio persona-le o sociale che stiamo cercando di curare. Così potrem-mo scoprire quanto contribuisce la proiezione nella no-stra prospettiva, quanti elementi vengono visti o ignoratia causa di essa. Cosa ancora più importante, potremmoforse curare i nostri disagi umani, e in questo modo per-cepire in modo più chiaro l’universo. Se sapessimo chestiamo proiettando, potremmo prendere in considera-zione e capire le distorsioni che noi stessi creiamo, e usa-

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re questa conoscenza per pianificare in modo coscienteun mondo migliore, in cui i problemi che causano leproiezioni non esistono.

Torniamo adesso alla nostra idea della Terra che sivede nella sua relazione con il Sole. Nella nostra societàatomistica e individualistica, abbiamo cominciato a smi-nuire l’importanza delle relazioni, considerando il be-nessere della persona l’obiettivo principale delle intera-zioni e del processo sociale, come anche la ragione d’es-sere dell’individuo. Le terapie per la co-dipendenza e lefamiglie disfunzionali sono molto seguite e ben accoltenegli USA e producono sia denaro sia convalidazione so-ciale dei loro seguaci.

I nostri disagi rispetto ai rapporti umani dimostranoquanto essi siano importanti per noi. Le canzoni d’amo-re pullulano nei programmi radio, i racconti d’amoreriempiono le riviste, gli scaffali delle librerie, le comme-die cinematografiche. I rapporti sono realmente moltoimportanti per gli esseri umani: è (in parte) attraverso diessi che diventiamo umani. Solo che non sappiamo co-me coltivarli: non abbiamo molti buoni esempi. La miaipotesi è che il migliore modello di rapporto che abbia-mo sia quello tra la Terra e il Sole. Possiamo proiettare lìfuori i nostri problemi, poi vederli in modo più chiarodentro di noi.

Ma perché non pensare alla questione tenendo contodi una maggiore intenzionalità? L’“Ipotesi di Gaia” con-sidera la Terra come un essere vivente: noi siamo Lei cheprende coscienza; la Terra sta prendendo coscienza dellasua relazione con il Sole e della parte che lei ha in essa,della sua creatività nel prezioso miracolo della vita. Noisiamo forse la proiezione del suo problema. Gli umanisvolgono il ruolo di amanti e di amati, di Sole e di Terra;e interiorizziamo questi ruoli nella coscienza e nel no-stro essere oggetto d’attenzione (dando e ricevendo at-tenzione). Riceviamo forse le nostre cure o quelle degli

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altri così come la Terra illumina, usandole per la creati-vità, oppure le riflettiamo (come fa la Luna) in uno steri-le gioco di specchi di chi è più luminoso, più grande,più caldo?

La fonte della vita è il Sole o la Terra? Come uomini edonne, noi li insceniamo: gli uomini sono attivi, i soli; ledonne sono passive, le terre; questo è l’eterno stereotipo.Tuttavia, da un altro punto di vista, entrambi i ruoli sonocreazioni della Terra. La Terra ha prodotto perciò coloroche recitano il Sole e coloro che recitano la Terra. L’inte-ra commedia è in effetti messa in scena dalla Terra.

È la Terra ad aver reso il Sole donatore di vita, rice-vendo la luce creativamente; per quanto ne sappiamo,gli altri pianeti non hanno fatto lo stesso. Allo stessomodo, gli animali maschi producono miliardi di sperma-tozoi; se però non c’è l’utero o l’uovo femminile a incon-trarli, la vita non si produce. I semi cadono dagli alberio vengono trasportati dal vento ma, se non vengono ac-colti dalla Terra, rimangono senza vita; in ogni caso, glispermatozoi e le uova, i semi e l’humus vengono tuttiprodotti dalla Terra.

Come accade in molte delle nostre relazioni eteroses-suali, sopravvalutiamo una persona, di solito maschio, esottovalutiamo l’altra, di solito femmina. Una donna,per la sua creatività, attribuisce un’importanza solare al-l’uomo, e lui viene visto come fonte di vita, di reddito,di creatività. Ricevendo questa attenzione (come la Ter-ra), l’uomo diventa creativo più attivamente e il valoreche gli si attribuisce sembra così legittimato. L’intera so-cietà partecipa a un sistema, che privilegia un polo nellarelazione e nasconde o ignora l’altro. Noi donne definia-mo come definitori coloro che definiscono; poi nascon-diamo il nostro ruolo attivo, e gli uomini sono felici diappropriarsi di questo credito.

Se stiamo svolgendo il ruolo della Terra, perché nondovremmo riconoscere il nostro/suo potere, creatività,

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le caratteristiche di dare vita e conferire valore? La soli-tudine, forse? Lei è così lontana da ogni altro pianeta oSole. Il Sole è forse anch’esso vivo, ma su un piano di-verso? Forse la Terra non vuole rendersi conto che stafacendo tutto da sola? Noi esseri umani potremo maiamarla abbastanza? E lei potrà mai amarsi abbastanzaper compensare il fatto che il Sole non è vivo? Ma forseil Sole è vivo, vivo come lo è la Terra e sullo stesso livelloo su un livello diverso di realtà e solo.

La nostra attenzione imita il Sole, ma quando ci con-centriamo su una stella, la stella è nella stessa posizionedella Terra. Ed è lo stesso con lo spazio. La dimensionedi ricettività che la circonda conforta la nostra MadreTerra e la conoscenza che abbiamo acquisito la mette inun determinato contesto, le dà una casa. La confusioneprovocata dall’esistenza di milioni di galassie si dissolvequando pensiamo che da qualche parte esisteranno sicu-ramente altri esseri viventi.

La Madre Terra, come ET, potrà forse essere in gradoun giorno di telefonare a casa alle sue sorelle. Nel frat-tempo, dobbiamo conservare una speranza, imparare avivere l’uno con l’altro e non rovinare questa squisitabellezza e armonia prima che lei conosca altra vita. Sia-mo forse tanto distruttivi per interpretare meglio il ruo-lo del Sole secondo la percezione che ne abbiamo, conti-nuando a screditare il ruolo della Terra? Abbiamo forsecreato un Dio patriarcale-Sole-maschio anche perché citenga compagnia, proiettando noi e il suo problema (di“lei”) al di là del sistema solare, verso l’universo?

Credo dovremmo accettare il fatto che non sappiamoancora molto dell’universo. Abbiamo però un accesso im-mediato ai nostri apparati percettivi e al nostro contestosociale. Dobbiamo far risplendere la nostra attenzione co-sciente immediata sui nostri meccanismi psico-sociali, perscoprire perché stiamo vedendo ciò che stiamo vedendo.Esistono meccanismi di selezione sconosciuti che hanno

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origine nella nostra motivazione, che ci portano a cercaree a trovare alcune cose piuttosto che altre. Queste cose siripercuotono poi sui contesti dai quali erano sorte le mo-tivazioni, riconfermando gli stessi problemi che le aveva-no suscitate. Soltanto quando cureremo le nostre motiva-zioni questi meccanismi potranno funzionare in modochiaro come dovrebbero, creando un allineamento tra idiversi tipi di realtà di cui facciamo parte.

Forse la nostra attenzione cosciente corrisponde alSole, e il nostro subconscio corrisponde alla Terra, equesto per l’interiorizzazione di una polarizzazione so-ciale tra attivo e passivo. Ma il nostro lato terreno, comeabbiamo detto, è solo apparentemente passivo: in realtàesso riceve creativamente, dando alla coscienza non soloun contenuto, ma anche un contesto e un valore; dà allacoscienza la sua potenzialità di sapere, come parte di unessere umano, dove stanno accadendo molte cose.

La coscienza è come la luce del Sole rifratta attraver-so l’atmosfera. Essa può attraversare e toccare molte piùcose di quanto sembri. Visto che gli umani sono prodot-ti sociali, per ognuno di noi c’è il contributo dei molti edel passato. La nostra coscienza solare non solo illuminamolti aspetti di questo contributo l’uno dopo l’altro, maviene anche da esso definita. Forse, come la Terra, e co-me le donne nei loro modi di pratica del dono, il nostrosubconscio produce coscienza, senza però riconoscerviil proprio contributo. Così, sembra che la coscienza nonprovenga dalla Terra ma dal cielo.

Nel XX secolo la nostra conoscenza (e attraverso dinoi la conoscenza che ha la Terra) del sistema solare,della galassia e del cosmo si è notevolmente accresciuta,mentre la conoscenza della natura della Terra e della suarelazione con il Sole non è ancora ben chiara. Allo stessomodo, nelle nostre relazioni umane non capiamo la rela-zione madre-figlio, di pratiche di cura uno-a-uno, primadi avventurarci nella relazione con i “molti”; non capia-

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mo cosa succeda in casa prima di avventurarci nel mon-do esterno. La relazione tra la Terra e il Sole, che haprodotto tanta vita miracolosa, non è una relazione di-sfunzionale, il sistema solare non è una famiglia disfun-zionale. Identificando il padre con il Sole, però, abbia-mo riprodotto l’immagine sociale auto-similare mascola-ta dell’esemplare, sottovalutando l’attività e la creativitàdella “ricevente” femminile “passiva” e dei molti e dan-do invece eccessiva importanza all’intraprendenza del“donatore” maschio “attivo”.

Il bisogno è essenziale per il dono, poiché senza diesso il dono non è niente. Così, la Terra ha creato miria-di di bisogni che il Sole può soddisfare con la sua luce,che sarebbe altrimenti inutilizzata e arida. L’interazionetra questi bisogni ricrea le interazioni di dare-e-riceveredel Sole e della Terra. L’asimmetria è la chiave. Il Sole silimita a dare, mentre la Terra riceve e dà di nuovo, an-che se si presume che non possa ridare al Sole, visto cheil Sole è troppo lontano e si suppone che non possa rice-vere. Dunque ciò che avviene è che molte delle relazionidi vita sono realmente immagini auto-similari della rela-zione tra la Terra e il Sole; sono giochi di ruolo, modi diinscenare il dare e il ricevere creativamente. Il bambinoriceve le attenzioni amorose della madre; poi, crescendo,si mette attivamente in relazione con la madre, facendoa turno.

L’ameba s’imbatte in alcune parti di materia che puòricevere e usare creativamente, così come la Terra s’im-batte nella luce del Sole nel suo viaggio per lo spazio.Allo stesso modo il filo d’erba usa la luce del Sole per isuoi processi; il bruco trova attivamente il filo d’erba,questo raggio terrestre fatto di luce incorporata creativa-mente, e lo usa per i suoi processi; l’uccello, sulle suezampe, più attive, trova il bruco.

Ma noi, e forse la Terra stessa (ha forse dei problemidi autostima?), attribuiamo più importanza al maschio,

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identificandolo con l’“uno” e con il Sole (sun) (il figlio,son), perché non consideriamo creativo il ricevente; e ibisogni vengono visti come mancanze, e non come ciòche è necessario per completare i doni.

Potremmo anche considerare che quasi tutte le rela-zioni di vita siano una metafora della relazione tra il Solee la Terra: un’immensa varietà di riproduzioni della rela-zione asimmetrica di dare unilaterale e ricevere creativoe di nuovo dare (e lasciare fuori dal processo i sottopro-dotti e gli scarti, che diventano poi i doni di un altro or-dine, o ordini, di vita). Tutta la vita può essere vista co-me un tentativo della Terra di entrare in comunicazionecol Sole, per entrare in relazione con lei. Perché il Soledia come in effetti dà, la Terra deve creare i bisogni chepossano ricevere i doni, e cioè ricreare qualcosa nellasua stessa posizione (di Terra). Poi assume la posizionedel Sole, dando per soddisfare i bisogni. Attraverso lavita, la Terra dice al Sole: “Questo è ciò che avviene trame e te; questo è ciò che avviene”.

Tutto questo accade sulla superficie del pianeta, doveil Sole risplende, presente (un dono) alla sua “vista”. Lavita nella sua varietà può essere vista come un’immensaproliferazione di immagini della relazione tra la Terra eil Sole, ciò che in termini umani può essere visto comeun’immensa ricerca filosofica gioiosa su questa relazio-ne; e, in termini umani, questa relazione si chiamerebbeamore. Forse è il tentativo della Terra di co-muni-carecon esseri di un altro ordine, è la sua opera di gratitudi-ne per quel calore che la accarezza nella profonda oscu-rità dello spazio, una ricerca sulle loro identità e relazio-ni reciproche.

Per noi umani è importante allinearci con questa re-lazione, non interpretarla male, come abbiamo fattomolto spesso a causa degli schemi di mascolazione, crea-ti da alcune parti della nostra organizzazione sociale edel nostro linguaggio, che l’hanno oscurata. Non avendo

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potuto vedere la Terra dallo spazio, non abbiamo nean-che saputo che lei c’era o che stava facendo qualcosa. Leeravamo troppo vicini; potevamo guardare solo versol’esterno. Abbiamo pensato che fosse passiva, che si li-mitasse a ricevere la luce, così come abbiamo pensatoche le donne fossero passive. Abbiamo offuscato il no-stro dare, il suo dare, e abbiamo visto soltanto il Sole,l’esemplare-luce privilegiato, come donatore. Gli schemipatriarcali hanno generato immagini falliche auto-simila-ri di io ovunque, e si sono convalidati l’uno con l’altro.

Ci è sembrato che la Luna e il Sole competessero co-me dominatori dei cieli, e che entrambi fossero “uni”privilegiati per la loro ripartizione del tempo. La Luna ècambiata nelle sue fasi ed era i molti rispetto al Sole.Abbiamo pensato che l’idea di luce riflessa fosse l’iden-tità delle donne, della Luna. Abbiamo dimenticato chela grande Terra scura e creativa fosse l’immagine stessadella madre. Ma il riflesso che abbiamo attribuito allaLuna era in realtà quella parte dell’Ego che non dava, lameta-immagine falsa, statica, non-donante della vita edella relazione Terra-Sole.

Abbiamo considerato la Terra e il Sole, le donne e gliuomini, i figli e le madri, le cose e le parole, i cittadini e ipresidenti, le merci e il denaro, relazionati reciproca-mente in modo inattivo e non equivalente, ma catturatiin un immaginario più o meno statico del riflesso. Lad-dove uno era reale, l’altro serviva solo a restituire quellarealtà. La Luna, però, fornisce una sorta di meta-livellocosmico alla Terra, e dice semplicemente: “Il Sole ri-splende anche qua, sebbene io non lo riceva creativa-mente come la Terra. E anche l’oscurità e la luce sonoqua”. La Luna ha influenzato il modo in cui la Terra hasviluppato la vita e la coscienza. Il suo fascio luminosostimola la nostra immaginazione. Essa sembra essereuna sorta di aspetto auto-referenziale della Terra; il suotocco leggero muove le nostre maree.

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Per secoli, per gli umani, la Luna ha preso il postodella Terra quale “altro” del Sole, mentre in realtà laTerra era l’altro donatore-di-vita rispetto al Sole. Ci èsembrato che il riflesso della luce del Sole fosse oppostoe complementare al dare attivo del Sole, mentre in realtàera il suo uso creativo nel dare la vita. Perciò, può sem-brare che lo scambio, basato sul riflettere ciò che è statodato, abbia onorato il Sole in modo più preciso, lo abbiamigliorato.

Ciò che è stato dato è stato restituito attraverso unequivalente. Il riflesso ha convalidato lo scambio comemodalità di vita, e gli schemi mascolati dell’Ego , della so-praffazione e della competizione sono sembrati modi perinterpretare i ruoli attivo del Sole e passivo della Luna.Abbiamo perciò pensato che il Sole prendesse l’iniziativarispetto alla Terra, ritenuta passiva. La Terra non restitui-sce soltanto un riflesso o un’immagine del Sole, ma molteimmagini viventi della sua relazione con il Sole, molte im-magini del Sole e di sé e della loro relazione reciproca. Cisono poi anche le immagini della Luna, i riflessi del rifles-so del creare un’immagine, l’immaginazione.

Il fatto che nel cielo esistano due corpi celesti ci hasuggerito l’importanza della duplice relazione, anchequando pensavamo che la Terra fosse piatta, perché li ab-biamo visti nel cielo e li abbiamo guardati nei termini del-le nostre relazioni di genere, che erano già immagini di vi-ta creata dalla Terra della relazione Terra-Sole. Abbiamopensato che la relazione Sole-Luna fosse la stessa della re-lazione Sole-Terra e abbiamo identificato la Luna con ledonne, come “luci minori”, sconfitte nella competizioneper essere il più luminoso. Forse, quando abbiamo co-minciato a conoscere le dimensioni relative della Terra,del Sole e della Luna, abbiamo cominciato a pensare allaTerra e alla Luna come figlie e al Sole come padre. Perquesto l’immagine della donna-figlia si è sovrapposta aquella della donna della creatività, nascondendola.

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Non solo gli individui sono entrati in queste relazionie le hanno interpretate, ma diversi tipi e ordini di imma-gini viventi delle relazioni si sono dovuti mettere in rap-porto l’uno con l’altro. Può sembrare una questionecomplessa, ma in realtà è abbastanza semplice da segui-re se vediamo il Sole come il donatore unilaterale, la Lu-na come colei che riflette, e la Terra come donatrice e ri-cevente, ripetendo (incorporando piuttosto che riflet-tendo) la relazione. (Un meta-livello completo non sa-rebbe fatto del semplice riflesso dell’altro, ma del rifles-so della relazione di dare e ricevere con l’altro, includen-do l’io, e del riflesso della relazione di riflesso.)

Se noi siamo la Terra, che prende coscienza di sé, ab-biamo seguito delle concezioni sbagliate dovute alla no-stra incapacità di vederci nel nostro contesto reale (equello della Terra) riguardante la Luna e il Sole. Se gliumani sono immagini della cosmologia più vicina a noi,è necessario che la capiamo e ci allineiamo con essa. Al-linearci con le concezioni sbagliate ci sta affliggendo esta portando la nostra Madre creativa alla distruzione.

Se il principio della vita è nella creatività dei bisogniper usare i doni, non dobbiamo lasciare che i bisogni egli esseri che li hanno muoiano perché noi stiamo riflet-tendo o cercando di agire secondo la nostra idea di Sole,cadendo negli schemi di mascolazione creati dalla nostrasocietà. I bisogni formano una sorta di gravità, verso laquale devono scorrere i nostri doni; come l’acqua, il do-no liquido che scorre verso il centro della gravità, e lapioggia, come una cascata di luce solare convertita sullepiante assetate. Il vento soffia dalle zone di alta pressio-ne a quelle di bassa pressione; dare ai bisogni è la rispo-sta che soffia nel vento (“The answer that is blowing inthe wind”).

L’errata interpretazione della nostra sessualità siestende e va a combaciare con l’errata interpretazionedella nostra cosmologia. Consideriamo la nostra Terra in

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qualche modo mancante, invece che come la grandefonte di dare e ricevere quale è. In effetti, ignorando lacreatività, sopravvalutiamo l’“autonomia” del Sole, che,come abbiamo visto nelle immagini della Luna, non hacreato niente “autonomamente”. È stato invece il Solein relazione alla Terra a essere creativo, e la Terra in re-lazione al Sole. A causa della presenza preminente delSole, per la sua visibilità, e per quella della Luna, la Ter-ra è stata ritenuta “minore” perché non dava luce (davaperò il fuoco, che, come le parole, può essere dato viapur mantenendolo). Tutto questo è in linea (e in riso-nanza) con lo schema sessuale e sociale degli uomini co-me “uni” attivi e le donne come “molti” passivi.

Forse la Terra stessa si è sentita incapace nel confron-to con il Sole o con la Luna, ed estranea e solitaria, cosìlontana da altri pianeti e stelle. Quali suoi figli, gli uma-ni hanno contribuito a questo sentimento. Non solol’abbiamo ignorata e interpretata male, attribuendo va-lore a tutto tranne che a lei, incluso a noi stessi, ma ab-biamo anche, con la stessa mentalità che ci ha portatonello spazio e ci ha infine permesso di vederla dal difuori, rovinato e degradato molte delle sue principalicreazioni più delicate.

Ci consideriamo i figli dell’universo, e speriamo divedere la vita sui pianeti di Aldebaran, se soltanto esi-stesse. Siamo pronti a spendere bilioni di dollari in pro-grammi spaziali con quello scopo ultimo; e allo stessotempo diamo talmente poca importanza all’incredibilevarietà di insetti delle foreste pluviali sulla Terra che la-sciamo che si estinguano senza muovere un dito perproteggerli. Dobbiamo imparare ad attribuire valore allanostra Madre creativa, sia alle nostre madri umane siaalla nostra Madre Terra. Dobbiamo vedere i bisogni noncome mancanze, rivalutare la vagina simbolica quale ilgrande luogo creativo nascosto, dove la vita cresce e siperpetua, e dobbiamo capire che il tipo di creatività a

SPECULAZIONI COSMOLOGICHE

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un solo colpo che il fallo simbolico rappresenta si basasulla negazione del valore e del lavoro femminile in di-venire. Dobbiamo praticare tutti le cure nei confronti ditutti e della Terra; dobbiamo restituire un posto d’onoreai bisogni e soddisfarli.

In quanto coscienza della Terra dobbiamo essere lasua autostima, lasciando che il nostro amore scorra co-me l’acqua verso il centro della gravità. Lei sta soffren-do, così come molta della sua gente e delle sue creature.Dobbiamo agire per il suo bene. C’è tanta mancanza dicompassione nel nostro aspirare allo spazio esterno, nelnon badare a questo miracolo in cui viviamo. È soltantola nostra predisposizione mentale patriarcale, il nostroerrato allineamento con la relazione Sole-Terra, che cifa annoiare del presente e ci rende ciechi di fronte alGiardino dell’Eden, portandoci a essere dannosi l’unoper l’altro e a rovinare la Terra. La gente povera in tuttoil mondo è costretta a interpretare il ruolo della madrenegata e svuotata, sfruttata, sprecata e disprezzata; l’im-magine auto-similare della Madre Terra che viene di-strutta da un patriarcato il cui figlio luminoso e sanoesce nello spazio con la sua astronave fallica per “fecon-dare” altri pianeti.

Dobbiamo prendere atto della gravità della situazio-ne e rivolgere il nostro amore e il nostro denaro verso ibisogni. In questo modo, potremo seguire il comanda-mento della Madre Terra: “Praticate le cure reciproca-mente”, imitando la sua evidente relazione cosmicacreativa. Possiamo liberarci e liberarla dall’infatuazionedel riflesso e dell’accrescimento dell’esemplare.

La molteplicità che la Terra ha creato con la vitacompete con la molteplicità della galassia. Dobbiamocominciare a dare valore alle relazioni “molti-a-molti”,che gli Ego orientati-verso-l’altro possono promuovere.Dobbiamo innanzitutto rivolgere la nostra attenzione almondo in cui viviamo, onorare e benedire la nostra Ma-

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dre, soddisfare i suoi bisogni, i bisogni dei popoli dellanostra Terra.

Forse è vero che siamo capaci di raccontare ciò cheabbiamo appreso su un certo livello e di sentire su un al-tro livello. Io sono stata spesso lontana dalle personeche amavo, e ho amato una persona unilateralmente permolti anni. Non ricevendo alcuna risposta alla mia co-muni-cazione, sono diventata più creativa, portandoavanti il mio dare verso dei progetti di cambiamento so-ciale. So come devono sentirsi la Terra e il Sole. Io sonoin linea con una parte dell’immagine, poi con un’altra.Quando l’amore umano è contraccambiato, possiamosenz’altro fare a turno nell’essere Sole e Luna l’uno perl’altro.

Vorrei quindi suggerire che, liberandoci dalla masco-lazione, facciamo ritorno alle nostre radici nella nostracosmologia. Forse il termine “um”, che unirebbe nell’in-fanzia i maschi e le femmine con chi si prende cura diloro, chi li nutre, e l’uno con l’altro, può essere sostitui-to da adulti non con “donna” e “uomo”, ma con “Ter-ra” e “Sole”. Non può che essere una cosa curativa,quando alla Terra venga restituito il posto che le spetta,quale fonte creativa di esseri umani sia maschi sia fem-mine, e il Sole quale donatore unilaterale d’energia. Po-tremmo forse rEgo lare la nostra condotta su quella dichi oggi ci considera androgeni, contenenti sia il ma-schio sia la femmina, attivi e passivi, e chiamarci “terre”nel momento in cui stiamo ricevendo creativamente e“soli” quando stiamo dando unilateralmente (in entram-bi i casi, avremmo già slegato coscientemente i nostri iodalla struttura uno-molti del concetto e dalle distorsionidella definizione di genere).

Dovremmo cercare di co-municare con la Terra, noncon le stelle. Se Gaia è viva, ha senz’altro un linguaggio.È la dea che ci parla attraverso la sincronicità e le prati-che di cura, oltre che in altri modi. Come possiamo par-

SPECULAZIONI COSMOLOGICHE

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larle? È un essere di un altro ordine. Siamo come celluleall’interno del corpo che cercano di comunicare conl’intero corpo. Quali doni possiamo dare? Innanzitutto,credo che possiamo darle il dono della pace tra tutti noi,curando le nostre società. E questo ci aiuterebbe a darleil dono del nostro rispetto per la sua bellezza e creati-vità, mettendo fine all’inquinamento, curando la deva-stazione che abbiamo causato; con i nostri doni, po-tremmo trovare la nostra lingua Madre comune.

Dal momento che tutta la nostra attenzione si è con-centrata sull’“uno”, i molti sono rimasti nell’oscurità,sconosciuti e non riconosciuti, come stelle di altre galas-sie, dove sembrerebbe trovarsi ogni risposta. Le stellesono così tante, come le cellule del nostro cervello. Que-ste ultime sono forse immagini delle stelle? Le stelle so-no forse i neuroni della Terra, ma al di fuori di essa, co-me noi ma al rovescio? La Terra sarebbe un minuscolocorpo dentro un immenso cervello di stelle.

Stamattina svegliandomi ho visto le stelle; mi sonosembrate tantissime. Questo è il problema “uno-molti”:la Terra si sta ritrovando all’interno di questo enormespiegamento di altri prima di sapere cos’è lei, o cosa so-no il Sole e la Luna; e per noi la situazione è simile, concinque miliardi e mezzo di persone sulla Terra. Noiumani possiamo formare gruppi per relazionarci con al-tri gruppi più grandi, ma la Terra può formare un grup-po con altri pianeti? I pianeti viventi non sono troppolontani? La Terra è forse l’unica figlia vivente del Sole?E gli altri pianeti sono vivi, anche se non c’è vita su diessi? La Terra sta forse cercando di raggiungerli attra-verso i nostri viaggi spaziali? Dobbiamo formare una co-muni-tà con lei, qui; dobbiamo confortarla per il suo es-sere sola.

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Capitolo ventitreesimoDopo le parole: la teoria in pratica

Ci sono molti modi diversi di creare una transizioneverso un cambiamento di paradigma. Vedremmo adesempio effetti immediati e di lunga portata se le istitu-zioni del Primo Mondo per-donassero il debito del “Ter-zo Mondo” (che in realtà è già tornato indietro moltevolte al “Primo Mondo”); potremmo cominciare per-do-nando gli interessi. Potremmo, oltre a questo primo pas-so positivo, iniziare una co-municazione materiale con il“Terzo Mondo” in modo rispettoso e per una vita mi-gliore; potremmo poi dare denaro in abbondanza ai pae-si dell’ex Unione Sovietica, riconoscendo che la nostratendenza capitalistica al saccheggio non ha permesso lo-ro di creare una società migliore ma li ha soltanto ridottia una povertà estrema. Cosa ancora più importante, po-tremmo porre fine allo spreco delle ricchezze mondiali inproduzione di armi e in apparati militari, e usare invecele risorse per un’economia di pratiche di cura.

Negli USA potremmo trasformare l’industria e la menta-lità della detenzione punitiva in una comprensione dellecause sociali del crimine e nel tentativo di dare ai figli e aigiovani una vita che valga la pena di essere vissuta; po-tremmo riconoscere il bisogno e il diritto umano di tutti diessere grati per una vita buona e felice, e il diritto di averequalcosa da dare; potremmo porre fine ad alcuni dei terri-bili torti che vengono commessi, come il traffico sessualedi donne e bambini; potremmo riconoscere che quasi tuttigli immigranti che si spostano dal Sud al Nord stanno solo

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seguendo il cammino delle risorse che il Nord sta prosciu-gando dai loro paesi sotto forma di doni non retribuiti; eporre fine a questo prosciugamento, accogliendo le nostresorelle e fratelli (se non spendessimo il denaro in arma-menti ce ne sarebbe moltissimo per tutti); potremmo por-re fine alla devastazione dell’ambiente, che dovrebbe esse-re considerato un dono per i nostri figli e per i figli dei no-stri figli; potremmo eleggere molte più donne con valoricompassionevoli nei servizi pubblici. Progredire in qua-lunque di questi settori – e ne esistono molti altri – avreb-be ripercussioni positive ovunque e metterebbe in eviden-za i valori del paradigma del dono. Possiamo cominciare amuoverci verso uno spostamento di paradigma ricono-scendo il dare che stiamo già praticando e rifiutandoci didare valore al sistema basato sullo scambio; possiamo co-minciare a praticare il dare in via sperimentale nelle istitu-zioni politiche e sociali, in modo che abbia un effetto mol-tiplicatore e che non ci porti all’autodistruzione.

Il punto di vista del paradigma del dono deve esseremesso in pratica in modo consapevole. Io ho cercato difarlo istituendo la Fondazione per una società compassio-nevole1 (FFACS), e il gruppo più politico (non deducibiledalle tasse), Femministe per una società compassionevole.Dal 1981 pratico la teoria espressa in questo libro, usandole mie risorse per un cambiamento sociale. Prima di for-mulare la teoria, ho praticato il paradigma del dono inmodo meno consapevole, come moglie e come madre.

Per quanto mi riguarda, uno degli effetti positivi del-la teoria è stato liberarmi dalle pressioni psicologiche esociali che m’impedivano di dare ai bisogni al di fuoridella famiglia, e credo che l’aver assunto un ruolo di do-natrice attivista mi abbia aiutato a curare alcuni dei pro-blemi psicologici contro cui mi stavo battendo. Oggi ve-do molto più chiaramente quanta pratica del dono si stasvolgendo nel mondo in ogni momento, e sono convintache la pratica del dono sia il normale comportamento

DOPO LE PAROLE: LA TEORIA IN PRATICA

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umano. Le pratiche di cura di ognuno di noi vengonobloccate dallo scambio e ostacolate dalla penuria, maanche dai valori patriarcali, che interpretano il dare co-me scambio, lo accantonano come debole e inefficaceoppure gli danno un’enfasi eccessiva tacciandolo di sen-timentalismo. Individuare la pratica del dono nel lin-guaggio ci permette di considerarla come ciò che ci ren-de umani. Io mi auguro che affermando il dare come lamodalità umana promuoverà la sua pratica cosciente.

Sfortunatamente, dare per soddisfare i bisogni degliindividui non modifica di fatto il sistema sociale checrea i bisogni. Quando avremo cambiato il sistema, dareper soddisfare i bisogni sul livello individuale ma anchesu tutti gli altri livelli sarà il nostro principio guida. Almomento c’è un enorme bisogno di risorse da dedicareal cambiamento sociale; e tutti noi dobbiamo dare sul li-vello del cambiamento sia individuale sia sociale custo-dendo allo stesso tempo le nostre diverse energie perevitare di esaurirci mentre stiamo ancora vivendo nelparadigma dello scambio.

Il fatto che gli stessi donatori nascondano il loro dareè in parte dovuto all’idea che possano dare per ottenereil dominio dell’Ego necessario alla mascolazione. Lacontraddizione logica in questi casi di “altruismo orien-tato-verso-l’Ego” getta dei dubbi sull’altruismo in sé, fa-cendolo sembrare inesistente. Chi è coinvolto nell’inte-razione del dare e ricevere può superare tale contraddi-zione sviluppando la fiducia radicale e il perdono (forgi-veness) che sono possibili nel movimento femministaper il cambiamento sociale. Un altro motivo per cui lagente non dà in modo visibile è che le religioni e i pre-cettori della morale promuovono il dare e il sacrificionascosti in quanto moralmente superiori. Anche se conquesta tattica si può forse sfuggire alla trappola del do-minio dell’Ego, di fatto essa non permette che il model-lo diventi visibile e che possa avere ampie ripercussioni.

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Moltissimi dei disagi psicologici sono sorti intorno aldare e ricevere, forse perché nella maggior parte dei casiesso è profondamente connesso all’infanzia ed è statocomunque bloccato e stroncato. Le nostre reazioni in-terne rispetto alla questione sono estreme e non vengo-no studiate, le nostre difese e i nostri disagi sono imme-diati. Ci sembra più facile avere a che fare con lo scam-bio, che appare più rispettoso, più “fico”. Le nostre rea-zioni psicologiche convalidano un abito mentale del da-re “appropriato” – un dare che non raggiunga l’eccesso– e perciò, ovviamente, nulla cambia in concreto.

Come aspiranti donatori esitiamo seguendo una linea“politicamente corretta” in una società che sta devastan-do il pianeta e creando quotidianamente la fame e lamorte di milioni di persone che vivono “altrove”. La no-stra immagine è salva al prezzo della nostra efficienza, el’impulso negativo dello status quo prevale. Chi è ancorasensibile alle sofferenze dei molti e alla malattia del si-stema viene colto dalla disperazione perché non vedel’aspetto della vita totalmente basato sul dono che conti-nua a esistere, o le tracce di cambiamento sociale che so-no concrete e presenti. Le religioni, le corporazioni e igoverni cooptano la pratica del dono, facendola appari-re come un’altra manovra mascolata, spesso uno stru-mento dell’avidità e della corruzione. Nel migliore deicasi, sembra esserci un dovere civile di “restituire” allacomunità, entro i parametri prestabiliti del sistema.

Considerato tutto ciò, io ho deciso di praticare il da-re doni per il cambiamento sociale in modo visibile,creando le organizzazioni cui ho accennato. Ho creato eappoggiato progetti per il cambiamento sociale, usandolo scambio – il lavoro stipendiato – per cambiare il siste-ma verso la pratica del dono; la Fondazione e le Femmi-niste per una società compassionevole sono soluzioniibride di questo tipo. Ho poi usato il denaro che ho ere-ditato anche per finanziare progetti progressisti e fem-

DOPO LE PAROLE: LA TEORIA IN PRATICA

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ministi già esistenti per il cambiamento sociale. Per di-versi anni sono stata consigliata da mia cugina, Sissy Fa-renthold, che aveva già fatto strada come leader politicafemminista e attivista, ed era più “pratica del mestiere”;Sissy mi ha aiutato a trovare dei gruppi ai quali potessidare. Ho poi acquisito un luogo fisico (terra ed edifici)dove si sono avviati dei progetti guidati da donne; hoanche avviato o sostenuto dei progetti attivisti ed educa-tivi, assumendo delle donne per gestirli e portarli avanti.Alcune di queste donne avevano già intrapreso dei pro-getti per conto loro o li hanno iniziati in seguito, con osenza la mia collaborazione e appoggio. Adesso sto scri-vendo un libro sulla mia vita, in cui vorrei anche parlaredei miei incontri e collaborazioni con organizzazioni im-portanti quali Dawne, Sisterhood Is Global, Wedo, Fe-minist Press, Feminist University of Norway, CoMadresde El Salvador, Resourceful Women e molte altre.

Mi sono cimentata con le contraddizioni inerenti allapratica del dono per cambiare il sistema, che mi hannodato i mezzi per vivere; e anche con le contraddizioniderivanti dall’uso dello scambio – dare salari alle donne– per cambiare il sistema dello scambio verso la praticadel dono. Ho dovuto seguire il principio di non dareagli individui per il loro profitto personale, perché eraessenziale destinare il denaro ai progetti per il cambia-mento sociale. C’è forse chi ha pensato ad altri modi dimettere in pratica la teoria; questo è ciò che ho pensatodi fare io, grazie anche alla Dea che mi ha donato il tem-po opportuno e la buona sorte.

In alcune occasioni ho avuto qualche disaccordo conle donne di FFACS, o ci sono stati degli screzi tra loro. Cisiamo confrontate in lunghe discussioni talvolta penose,ma le abbiamo superate grazie alla nostra amicizia e in-tegrità femminista. Ho sempre cercato di fare della Fon-dazione un luogo più diversificato possibile, e in effettihanno collaborato tra loro donne di colore e donne

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bianche, anziane e giovani, gay e non gay, donne statuni-tensi e donne di altri paesi; credo sia diventata una spe-cie di nicchia ambientale per la pace, in cui si possonoascoltare miriadi di voci e dove risalta il pensiero deimolti. Sono molto grata alle donne che si sono impegna-te con FFACS nel corso degli anni e mi sento molto fortu-nata per essere stata insieme a loro. Ogni mercoledì lostaff si riunisce per ascoltare le relazioni di ognuna dinoi: l’incredibile varietà di informazioni ed esperienze,di impegni e di azioni ingegnose e coraggiose confermae ispira la nostra sorellanza, e dà speranza persino al vi-sitatore più stremato.

Sono sorti talmente tanti bisogni sociali generali a cau-sa della pratica psicotica del patriarcato, che gli attivistiper il cambiamento sociale sono impegnatissimi nell’ani-mo e nella pratica. La verità è che ogni bisogno è legato atutti gli altri bisogni: i bisogni dell’ambiente sono legati aibisogni umani, la fame alla militarizzazione, il rispetto perle ragazze madri alla pace nel mondo, la violenza domesti-ca alla violenza razziale e a quella internazionale. Tirandoun filo del groviglio dei problemi si smuovono tutti gli altrifili. Soddisfare qualsiasi bisogno di cambiamento sociale –“facendo una differenza” come spesso si dice – dà a ognu-no la possibilità di praticare il paradigma del dono in mo-do visibile e intelligente su un livello sociale generale.

Il modello delle donne che danno per soddisfare i bi-sogni sociali, che danno tempo, intelligenza, creatività,impegno e denaro, dimostra il potenziale del paradigmadel dono generalizzato come soluzione all’insieme di tuttii problemi causati dalla pratica del paradigma delloscambio. Il paradigma del dono praticato in modo visibi-le dalle donne, per un cambiamento sociale, può avereeffetti di lunga portata. Esistono oggi diversi progetti at-tivisti negli USA e in altri paesi, ma molti di essi continua-no a operare secondo le strutture patriarcali e perpetua-no perciò quegli stessi problemi cui si stanno indirizzan-

DOPO LE PAROLE: LA TEORIA IN PRATICA

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do. I programmi contro la violenza negli USA cercanospesso di cambiare l’individuo o di far applicare alcuneriforme legislative specifiche, senza cambiare la societànell’insieme. Il legame tra la violenza domestica e quellainternazionale, ad esempio, viene spesso ignorato. Cio-nonostante, tutte le persone coinvolte oggi in movimenticontro la violenza domestica e sessuale, per la giustiziasociale, per la pace e per i diritti umani, per porre fine al-la fame, alla guerra, al razzismo e ai problemi dei senza-tetto, come anche le persone impegnate nella cura dellatossicodipendenza e dei problemi psicologici dovuti allaviolenza patriarcale, si stanno spostando verso il paradig-ma del dono, che siano uomini o donne, che lo sappianoo meno. Io credo che in questa transizione sia importan-te promuovere la leadership delle donne, perché origina-riamente esse non sono mascolate, e hanno un modelloche è già molto diverso da quello dell’“uno privilegiato”.

Nel 1997 la Fondazione per una società compassio-nevole ha compiuto dieci anni, anche se diversi progettisono nati molto prima. Il Stonehaven Ranch è un ritirovicino San Marcos, in Texas, che è diventato operativonel 1984; ogni fine settimana è aperto ai ritiri di gruppipacifisti e femministi, che vengono ospitati gratis o a co-sti minimi. Nel corso degli anni letteralmente migliaia dipersone che lavorano per il cambiamento sociale sonostati “nutriti” in questo ambiente diretto dalle donne.Oggi lo dirige Margie First, “nutrendo chi nutre”. Altriprogetti avviati negli anni Ottanta, come la Austin Wo-men Peace House, sono durati diversi anni e sono poi sisono chiusi per una ragione o per l’altra. Un programmasettimanale della Austin Community Television, Let thePeople Speak (“Lasciate parlare il popolo”), condotto daTrella Laughlin, è stata una delle nostre attività dal 1985al 1994; si sono mandati in onda anche diversi altri pro-grammi regolari sulla rete televisiva locale, tra cui la miatrasmissione Feminist Values, un programma di Sally

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Jacques, Arts and Activism, e un altro di Frieda Werden,Women’s News Hour.

Praticare il dono nell’ambito dell’economia delloscambio esaurisce la donatrice che agisce da sola. E, aparte qualche contributo relativamente piccolo, io sonol’unica persona che dà denaro all’organizzazione (anchese le altre donne danno tempo, energia e inventiva); per-ciò le mie risorse finanziarie si stanno esaurendo, e io hodovuto interrompere il programma di donazione attivodal 1981 al 1994 e alcuni altri progetti. Il GrassrootsPeace Organizations Building aveva ospitato gli ufficidella Fondazione offrendo alcuni spazi anche agli ufficidi altri gruppi per la pace che includevano sia uomini siadonne. Situato sulla strada principale del centro di Au-stin, questo piccolo edificio è stato un avamposto per ilcambiamento sociale nel flusso della “mainstream”; manel 1996 ho dovuto venderlo per continuare a mantene-re la Fondazione. Il nostro secondo centro di ritiro,chiamato Alma de Mujer, una bella costruzione sul lagoTravis, ha fatto parte della Fondazione dal 1988 al 1996,quando l’ho donato alla Indigenous Women’s Network;oggi viene ancora gestito con successo dalla scultrice in-digena Marsha Gomez, con l’aiuto di Esther Martinez.

Nel 1985 sono riuscita a finanziare e a organizzare,insieme a un gruppo che ho contribuito a far nascere,The Feminist International for Peace and Food, la PeaceTent (“tenda per la pace”) presso la UN Decada delleDonne, Conferenza di Nairobi. La tenda ha avuto ungrande successo, fornendo una spazio sicuro per il di-battito e la discussione tra le donne di paesi in guerra traloro; sono giunte migliaia di donne per partecipare aglieventi. Due delle donne che hanno aiutato a organizzarela tenda, la tedesca Ellen Diederich e la cantante afro-te-desca Fasia Jansen, hanno lavorato molti anni con laFondazione, organizzando una carovana per la pace inUnione Sovietica (prima della caduta del muro di Berli-

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no) e creando in seguito il negozio Four Directions (untentativo di cause related marketing). Molti altri gruppihanno collaborato alla Tenda della Pace, incluso il WILPF

e WIDF; è stato un modello riuscito di dialogo tra donne,da allora imitato in molte altre occasioni.

Anche negli USA sono state organizzate delle Carovaneper la pace, in cui alcune donne attraversavano città epaesi per parlare dell’incontro di Nairobi. La quaccherastatunitense Alice Wiser e la tedesca Gertrude Kaudererle hanno coordinate per diversi anni tutte le estati. Nelfrattempo, abbiamo svolto un’importante attività di soste-gno ai movimenti di autodeterminazione centroamerica-ni, inviando a El Salvador varie delegazioni che indagas-sero sugli abusi ai diritti umani, sulle attività degli squa-droni della morte e sul coinvolgimento del governo USA.

Ellen e Fasia hanno organizzato un tour delle madri sal-vadoregne dei desaparecidos in Europa, che è stato utileper divulgare informazioni; la Fondazione ha inviato unadelegazione di procuratori generali USA in Centro Americaper indagare sui fatti (anch’io facevo parte della delegazio-ne); ho appoggiato molte donne del Sud globale a viaggiarenegli USA, per raccontare la realtà dei loro paesi (attraversoil Women’s Project per il “Terzo Mondo” dell’Istituto pergli Studi di Politica diretto dalla cilena Isabel Letelier).

Tutte queste attività sono culminate in due incontritra donne leader statunitensi e le commandantes donnedell’FMLN di El Salvador. Durante questi incontri ami-chevoli è emerso abbastanza chiaramente che i valoridelle donne potrebbero superare ogni guerra e antago-nismo. Abbiamo parlato dei nostri figli e del futuro; ab-biamo avuto delle discussioni politiche serie, ma abbia-mo anche ballato e cantato insieme.

Mi sono impegnata in attività a lungo termine per ledonne del Sud globale e del femminismo internazionale.Ho appoggiato le donne di gruppi e conferenze interna-zionali e ho collaborato alle pubblicazioni e alle reti

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informatiche. Nel corso degli anni, ho sostenuto un cer-to numero di progetti nel Sud e alcuni progetti di donnedel Sud che vivono nel Nord. Al momento l’attivista fi-lippina Charito Basa fa parte dello staff, lavorando conle donne immigrate che vivono in Europa.

Credo che i mass media siano un mezzo importanteper trasmettere al grande pubblico il punto di vista delledonne. Nel 1991 ho avviato FIRE (Feminist InternationalRadio Endeavor), una trasmissione quotidiana della du-rata di due ore presentata da una prospettiva femminista,un’ora in inglese e una in spagnolo, su Radio for PeaceInternational, una stazione a onde corte della Costa Rica.Le promotrici delle trasmissioni sono Maria Suarez, diPuerto Rico, e la cilena Katarina Anfossi. Si possono sen-tire i programmi ora sul sito internet www.fire.or.cr.

Nel 1986, Frieda Werden e Katherine Davenport han-no creato da sole il WINGS, il Women’s InternationalNews Gathering Service. Dopo la morte di Katherine Da-venport, Frieda è tornata ad Austin e si è unita allo staffdella Fondazione nel 1992. Da allora ha continuato a pro-durre trasmissioni WINGS settimanalmente, con la colla-borazione di diverse volontarie che ha formato personal-mente. Frieda dirige anche dei corsi di formazione ra-diofonici presso il WATER, il Women’s Access to Electro-nics Resources, una struttura di Austin creata e curata dalvideografo Fern Hill. dove le donne ricevono gratuita-mente corsi di formazione video, radio e computer. Intor-no a WATER si è sviluppata un’ampia comunità di donne,che usano le sue risorse e offrono volontariamente molteore-donne. Un impegno collaborativo particolarmenteentusiasmante è l’International Women’s Day Media Fe-stival, un evento annuale multimediale della durata di 24ore, allestito unicamente da donne e che coinvolge diver-se altre strutture mediatiche in tutta la città.

Alla frontiera tra Messico e Texas esiste un centro emuseo di risorse indigene aperto al pubblico, la Casa de

DOPO LE PAROLE: LA TEORIA IN PRATICA

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Colores, di cui si occupa Helga Garcia Garza: si pro-muovono festival di danza che riuniscono giovani e an-ziani; medicina e cure tradizionali si uniscono alle anti-che tradizioni spirituali dei popoli indigeni degli USA edel Messico. Questi incontri, insieme al museo di arte eartefatti, permettono agli abitanti del Nord e del Sud delmondo di ricongiungersi con la propria eredità culturale.

Parte dell’impegno volto al cambiamento dei valoriconfluisce nel movimento per una spiritualità alternativa,in particolare il Goddess Movement, e nel sostegno alletradizioni spirituali dei popoli indigeni basate sul contattocon la terra. Uno dei programmi in corso è il StonehavenGoddess Program, organizzato dall’attivista spirituale PatCuney, attraverso il quale molti scrittori e insegnanti delGoddess Movement hanno svolto la loro attività.

Io ho costruito un tempio alla dea egizia Sekhmet neldeserto del Nevada, accanto a un sito di test nucleari,per onorare la nascita delle mie figlie e prendere posi-zione contro il nucleare dal punto di vista della spiritua-lità delle donne. La statua di Marsha Gomez della deadalla testa di leone ha una targa che dice: “Possano ledonne essere tanto forti quanto un leone nel dare alla lu-ce il futuro”; con la statua Madre del Mundo, anch’essadi Marsha Gomez, condivido questo spazio sacro. La sa-cerdotessa wicca Patricia Pearlman si occupa del tempioe accoglie chi viene a meditare, chi a protestare contro ilnucleare e chi a celebrare i misteri. Ho restituito i ventiacri di terra su cui è costruito il tempio agli shoshoneoccidentali, proprietari originari dell’intera zona.

Una preoccupazione specifica riguarda i danni all’am-biente e alla salute dovuti alle radiazioni nucleari. Le don-ne che lavorano in un certo ambito dell’organizzazione(più direttamente politico, non deducibile dalle tasse), leFemministe per una società compassionevole, hanno crea-to programmi eccellenti ed efficaci per opporsi al progettodi una discarica di scorie nucleari nel West Texas, nel pic-

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colo centro di Sierra Blanca al confine col Messico. ErinRogers ha svolto un’efficace attività organizzativa contro ladiscarica e di coordinamento con altri gruppi attivisti.

Susan Lee Solar ha creato il Peace Caravan, un mu-seo itinerante anti-nucleare, e viaggia di paese in paeseper discutere della questione del nucleare; il trasportodelle scorie nucleari è molto pericoloso, e il museo iti-nerante informa efficacemente la gente lungo il cammi-no. La Fondazione si è anche impegnata in indagini sul-la salute nei pressi delle ex basi militari per rivelare lapresenza di residui nucleari e di rifiuti tossici e studiar-ne gli effetti sulla popolazione. Yana Bland, che hacreato tra le altre cose l’Associazione di donne dell’areamediterranea con il sostegno della Fondazione, ha con-dotto un’indagine nei pressi della base aerea militare diKelly a San Antonio, in Texas; si sono avviate indaginisulla salute anche presso le basi di Clark e di Subic nel-le Filippine.

È difficile descrivere in così poco spazio tutti i proget-ti delle diverse organizzazioni. Abbiamo organizzato direcente una serie di conferenze: in una di esse, su “Valorifamiliari femministi”, Angela Davis, Maria Jiménez, Glo-ria Steinem e Mililani Trask hanno parlato davanti a due-mila persone; una seconda conferenza, “Femminismo efondamentalismo”, ha riunito attivisti e pensatori di di-verse tradizioni per discutere della religione patriarcaleda un punto di vista femminista; Mahnaz Afkami, MartaBenevides, Yvonne Deutsch e Robin Morgan hanno illu-strato il loro pensiero insieme a una commissione localedi cui faceva parte l’attivista Cecile Richards.

Ogni anno si riunisce una rete di donne che si batto-no contro il ciclo del nucleare. Nel corso di ogni nostraattività, prendiamo atto del legame esistente tra le diver-se questioni, in particolare lo stretto rapporto tra la spe-sa militare, la creazione della povertà e il degrado del-l’ambiente. Dopo la vendita del Peace Building abbiamo

DOPO LE PAROLE: LA TEORIA IN PRATICA

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trasferito i nostri uffici in un edificio più tradizionale,dove lavora un nucleo di speciali coordinatori di proget-to, tra cui Pat Cuney, Sally Jacques, Suze Kemper, MariaLimón, Sue MacNichol e Doll Mathis. Gli uffici dellaFondazione e dell’amministrazione delle Femministe so-no gestiti da San Juanita Alcalá, Rose Corales e NancyWilson; la nostra risoluta ragioniera è Mary Nell Mathis.

I video e le cassette audio di molti eventi della Fon-dazione o di altri eventi a essa legati possono essere ri-chiesti al nostro ufficio, all’indirizzo: P.O. Box 3138,Austin, Texas, 78764, USA. Potete anche scrivere a medirettamente, allo stesso indirizzo o a [email protected];m’interessa molto conoscere la vostra opinione. Il nostrosito web è www.gift-economy.com

Tutte queste attività, oltre a diverse altre su cui nonmi dilungo, sono state un tentativo di praticare il para-digma del dono su diversi livelli e ambiti della “realtà”dai quali generalmente rimane esclusa. La Fondazione ècresciuta in modo organico con molti risvolti diversi; co-me la vita, essa è confusa e tumultuosa, pratica le cure erisveglia le coscienze. Esistono tante cose e teorie fattedall’uomo, che sono come la plastica, con le loro mole-cole tutte perfettamente allineate, o come le città, con leloro case ben disposte in interminabili file tutte uguali.

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Mettere in pratica una teoria significa che essa deveentrare nelle menti al di là delle contraddizioni e delleincomprensioni, al di là dello scetticismo e delle diversedisposizioni, per poter crescere, fiorire e dare frutti inmolti modi diversi. Il fatto che io stia pubblicando que-sto libro solo adesso, dopo molti anni di pratica, è unadelle difficoltà: mi sono limitata a illustrare la teoria ver-balmente e, forse, non sempre in modo del tutto convin-cente; ho potuto correre questo rischio perché ritengoche, per la nostra socializzazione alle pratiche di cura,tutte (o quasi tutte) le donne stiano già operando secon-do i valori del paradigma del dono.

Questi valori sono tuttavia spesso sepolti sotto lostrato di credenze del paradigma dello scambio. Le con-traddizioni proprie di ogni donna vengono giustificatein un modo o in un altro, e noi impariamo a vivere nelpatriarcato rimanendo inconsapevoli dei nostri valori, orelegandoli all’ambito delle emozioni. La Fondazioneper una società compassionevole e le Femministe peruna società compassionevole, oltre a tutti i servizi chehanno svolto e ai cambiamenti che hanno potuto pro-muovere, sono organizzazioni per una presa di coscien-za. La loro esistenza altera la re-altà, soddisfacendo il bi-sogno di avere un esempio del dare esterno praticatodalle donne che possa convalidare il donatore che è den-tro ognuno di noi, dando al paradigma del dono la di-gnità che gli spetta, perché venga riconosciuto come ilprincipio attraverso cui l’umanità raggiungerà la pace.

Alcune parole mi sono sopraggiunte in sogno: “Lapace sulla Terra è il prossimo passo nell’evoluzione uma-na”; speriamo che avvenga al più presto.

1 La parola “compassion” in inglese non ha il senso pietistico che ha initaliano.

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Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema au-tore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandiai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora ne-gli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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TESTATINA

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GENEVIEVE VAUGHAN

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