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Melfi in time Produzione snella e disciplinamento della forza lavoro alla Fiat a cura di Ada Cavazzani, Laura Fiocco e Giordano Sivini

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Melfi in time

Produzione snella e disciplinamento della forza lavoro

alla Fiat

a cura di

Ada Cavazzani, Laura Fiocco e Giordano Sivini

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Sono raccolti in questo volume i risultati di una ricerca co-finanziata dal Ministero dell’Università e

della Ricerca Scientifica svolta presso il Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica

dell’Università della Calabria.

Una prima versione dei lavori era stata discussa con studiosi di diversi paesi che si occupano dei

problemi del lavoro nell’industria automobilistica, in un seminario internazionale a Rende dal 25 al

27 marzo 2000, realizzato con il contributo del Consiglio di Amministrazione dell’Università della

Calabria. Le loro relazioni sono disponibili sul sito: http://sociologia.unical.it/convdottorati.html. I

partecipanti al seminario avevano anche visitato lo stabilimento Sata di Melfi, grazie ad un

finanziamento della Presidenza del Consiglio della Regione Basilicata e alla disponibilità del

management Fiat.

Autori dei contributi, nell’ordine in cui vengono presentati, sono:

Ada Cavazzani, docente di Sociologia Urbana e Rurale

Giordano Sivini, docente di Sociologia Politica

Laura Fiocco, docente di Sociologia del Lavoro

Giuliana Commisso, iscritta al Dottorato di Scienza, Tecnologia e Società

Paolo Caputo, iscritto al Dottorato di Scienza, Tecnologia e Società

Francesco De Angelis, iscritto al Dottorato di Scienza, Tecnologia e Società

Gianni Oliveri, laureando in Scienze Economiche e Sociali

Valeria Pulignano, dottore di ricerca, docente di Industrial Relations presso la Warwick Business

School, University of Warwick, Gran Bretagna

Annamaria Vitale, docente di Sociologia dello Sviluppo

Graham Sewell, docente di Advanced Management Theory e di Management Research presso il

Department of Management, University of Melbourn, Australia

Paul Stewart, docente di Human Resource Management and Japanese

Studies presso la Cardiff Business School, University of Wales, Gran Bretagna

Ad eccezione degli ultimi due, gli altri compongono il Gruppo per lo studio dell’industria

automobilistica del Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria ([email protected]).

La premessa al volume è di Pietro Simonetti, a nome della Presidenza del Consiglio Regionale della

Basilicata, che si è interessata per la pubblicazione del volume.

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Indice

Pietro Simonetti, Premessa

1. Ada Cavazzani, Processi di industrializzazione nel Mezzogiorno: la costruzione del territorio

nel sistema di Fabbrica Integrata 7

2. Giordano Sivini, Le relazioni di potere e la fabbrica snella: un approccio foucaultiano 15

3. Laura Fiocco, I dispositivi strutturali di potere in fabbrica e i loro effetti normalizzanti 27

4. Giuliana Commisso, La fluidificazione del comando nella Fabbrica Integrata 49

5. Paolo Caputo, La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro 65

6. Francesco De Angelis, I tempi di lavoro 75

7. Gianni Oliveri, Soggetti, sindacato e conflitto: la dinamica operativa del modello partecipativo 87

8. Valeria Pulignano, Sotto il just in time. Controllo sociale e relazioni di lavoro nella filiera dell’auto 97

9. Annamaria Vitale, Governare la resistenza: la produzione sociale del greenfield 111

10. Graham Sewell, Controllo, resistenze e soggettività 127

11. Paul Stewart, L’operaio collettivo e la produzione snella 135

Riferimenti bibliografici 143

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Pietro Simonetti

Premessa

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Ada Cavazzani

Processi di industrializzazione nel Mezzogiorno: la costruzione del territorio nel

sistema di Fabbrica Integrata

Premessa

Nel 1991 la Fiat, principale gruppo industriale privato italiano, decide di localizzare in

Basilicata un nuovo stabilimento per la produzione automobilistica basato sui principi innovativi

della fabbrica integrata e della produzione snella, che rappresenta una delle più rilevanti iniziative

industriali degli ultimi vent’anni nel Mezzogiorno. Il “laboratorio” di Melfi diventa così un terreno

privilegiato non solo per la sperimentazione, da parte della Fiat, di un nuovo modello di

organizzazione della produzione, ma anche per l’analisi e l’interpretazione dei nuovi processi di

industrializzazione nel Mezzogiorno, da parte di numerosi enti di ricerca. Nella fase progettuale e di

prima attuazione dell’intervento diversi studi sono stati svolti dagli organismi tradizionalmente

attivi sulle tematiche dello sviluppo del Mezzogiorno (SVIMEZ, 1993; FORMEZ, 1994;

“Meridiana”, 1994; CENSIS, 1995), oltre che da economisti e sociologi di diverse Università

(Cerruti e Rieser, 1991; 1993; Carrieri et al., 1993; Bonazzi, 1993; Cersosimo, 1994).

La disponibilità della Fiat, certamente innovativa rispetto alla tradizione aziendale, a

confrontarsi anche con il mondo della ricerca ha stimolato lo sviluppo di analisi direttamente

connesse con la crescita dello stabilimento.

Tra i gruppi di ricerca che hanno lavorato in questi anni su Melfi, il Dipartimento di

Sociologia e di Scienza Politica dell’Università di Calabria ha promosso diverse attività, che

comprendono cicli di seminari con i responsabili dell’organizzazione Fiat (Magnabosco, Costanzo,

Massone), tesi di dottorato (Costanzo, Pulignano, Commisso, Caputo, DeAngelis, Fortunato),

ricerche (Della Rocca, Cavazzani, Fiocco, Oliveri, Sivini, Vitale) e pubblicazioni (Fiocco, 1997;

1998; Pulignano, 1997; 1999; Commisso, 1999; Sivini, 1999).

Altrettanto favorevole allo sviluppo delle ricerche è stato l’interesse delle istituzioni locali,

che hanno promosso alcune indagini finalizzate alla comprensione delle trasformazioni indotte a

livello locale dal nuovo insediamento industriale. Un ruolo particolarmente attivo è stato quello

della Regione Basilicata, che ha sostenuto sia la pubblicazione di diversi studi, nella fase di avvio

del progetto, che lo svolgimento di ricerche empiriche. Anche la Provincia di Potenza ed il Comune

di Melfi hanno contribuito allo sviluppo del dibattito.

Gli elementi più innovativi degli studi effettuati finora riguardano principalmente le

trasformazioni interne alla fabbrica, mentre le ricerche sul contesto territoriale esterno tendono a

riprodurre le analisi tradizionali sull’impatto territoriale degli insediamenti industriali.

Per spiegare le ragioni dell’insediamento Fiat a Melfi è opportuno richiamare brevemente il

contesto politico ed economico entro il quale l’iniziativa si colloca, con riferimento a due questioni:

l’industrializzazione per lo sviluppo del Mezzogiorno e la riorganizzazione del sistema produttivo

Fiat.

L’industrializzazione per lo sviluppo del Mezzogiorno

Nelle regioni del Mezzogiorno l’industrializzazione continua ad essere considerata uno dei

principali strumenti di promozione dello sviluppo e di riduzione degli svantaggi rispetto alle aree

del Centro-Nord. Intorno a questo obiettivo si sono create particolari convergenze di interessi tra le

forze politiche, sia locali che nazionali, e gli imprenditori, per lo più esterni al Mezzogiorno. Lo

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Stato ha assunto un ruolo centrale nel determinare le condizioni per l’industrializzazione delle

regioni meridionali, partendo dalla considerazione che in tali aree non esistevano sufficienti risorse

e capacità imprenditoriali.

Dopo una prima fase di “pre-industrializzazione”, avviata nel corso degli anni ’50 e

finalizzata alla creazione delle infrastrutture necessarie per gli insediamenti industriali, i primi

interventi di industrializzazione del Mezzogiorno hanno cominciato ad essere attuati a partire dagli

anni ’60. Lo Stato è intervenuto direttamente, attraverso l’insediamento delle imprese delle

partecipazioni statali vincolate a localizzare al Sud il 40 per cento dei propri investimenti,

principalmente nei settori di base della siderurgia, petrolchimica e chimica derivata. Ha inoltre

favorito, attraverso gli incentivi industriali, il trasferimento di iniziative industriali dalle aree del

Nord, dove si erano storicamente determinate le condizioni favorevoli allo sviluppo della grande

industria.

Nonostante l’alto flusso degli investimenti, il sistema industriale meridionale non si è

consolidato come struttura stabile ed è rimasto sostanzialmente dipendente dall’esterno. Gli studiosi

concordano sul fatto che le grandi imprese, operando come “cattedrali nel deserto”, non sono

riuscite a promuovere uno sviluppo del contesto territoriale ed a generare attività indotte localmente

(Giannola, 1986). Il limitato impatto a livello territoriale di questo tipo di interventi è stato

richiamato in un recente studio, che tende invece a valorizzare le potenzialità dell’insediamento Fiat

a Melfi per lo sviluppo del territorio (FORMEZ, 1994).

A partire dagli anni ’80 la politica di industrializzazione si è orientata anche verso il sostegno

alle imprese di piccola e media dimensione, con l’obiettivo di promuovere nuove forme di sviluppo

basate sulla valorizzazione delle risorse locali. Si mirava a riprodurre anche nel Mezzogiorno i

modelli di sviluppo realizzati nelle regioni della “terza Italia” ed in particolare nei distretti

industriali (Becattini, 1989). Un ampio dibattito sulle condizioni favorevoli allo sviluppo endogeno

nel Mezzogiorno ha accompagnato nell’ultimo ventennio le diverse esperienze che in alcune aree si

sono prodotte (Trigilia, 1992). Complessivamente, le analisi concordano nel valutare negativamente

gli effetti delle politiche di industrializzazione, finora perseguite, sul piano dello sviluppo

economico e sociale del Mezzogiorno (Jossa, 1991; Del Monte e Giannola, 1997). Il divario Nord-

Sud non si è ridotto ma continua ad aumentare; il tasso di disoccupazione al Sud è attualmente tre

volte più alto del tasso medio nazionale e per alcune regioni meridionali anche otto volte più alto

delle aree più sviluppate del Centro-Nord.

Localmente, d’altra parte, si continua a considerare qualsiasi investimento economico

proveniente dall’esterno come una buona opportunità di sviluppo. Inoltre, permane ancora l’idea

che l’industria sia il fattore trainante nello sviluppo economico e sociale. Questa è una vecchia idea

difficile da sradicare, soprattutto a livello delle forze politiche meridionali, che continuano a

considerare ogni progetto di trasferimento industriale, da parte della grande impresa, come

un’occasione di sviluppo da non perdere. Dato questo contesto, è evidente che le regioni

meridionali costituiscono un terreno di facile penetrazione per le imprese che, per ragioni diverse,

decidono di localizzarvi i propri impianti produttivi.

La Fiat dalla protezione nazionale alla competizione internazionale: l’adozione del modello

organizzativo della Fabbrica Integrata

Lo sviluppo della Fiat in Italia è strettamente legato alla storia politica del paese nell’ultimo

secolo (Castronovo, 2000). In particolare la Fiat Auto ha rappresentato, per l’opinione pubblica, un

simbolo importante della capacità imprenditoriale italiana. Grazie alla sua posizione di principale

impresa privata, la Fiat ha svolto un ruolo molto influente nelle scelte politiche ed economiche

nazionali. Ha quindi potuto, in particolare per il settore produttivo automobilistico, beneficiare di un

sistema di “protezione nazionale”, che tuttavia negli ultimi anni si è rivelato inadeguato a sostenerla

di fronte alla crescente competizione internazionale. Le difficoltà di questo settore, contrassegnato

da bassi margini, offerta superiore alla domanda, alti costi fissi, hanno determinato una situazione di

forte concorrenza tra le grandi aree di produzione (USA, Europa, Giappone, Corea). Oltre allo

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sviluppo dell’innovazione nei modelli, nelle tecnologie e nell’organizzazione produttiva, si sono

avviati processi di concentrazione tra i produttori, tramite acquisizioni e joint ventures.

Anche la Fiat ha recentemente (marzo 2000) sottoscritto un accordo con la General Motors

(principale produttore automobilistico mondiale), che ha implicato sul piano finanziario la cessione

di una quota del 20 per cento delle azioni di Fiat Auto (in cambio dell’acquisto del 5 per cento del

capitale GM) e sul piano industriale la costituzione di due joint ventures per la gestione degli

acquisti e la produzione di motori e cambi.

Questa operazione ha confermato che la Fiat non era più in grado di gestire il settore della

produzione automobilistica con le proprie forze e che la protezione nazionale non era più sufficiente

a garantire sufficienti margini di profitto. Sebbene per il momento Fiat abbia venduto alla GM solo

una quota del settore auto, molti analisti prevedono che in futuro si arriverà alla cessione di tutto il

settore (la GM ha un diritto di prelazione sulle future vendite). Nel frattempo anche questo

cambiamento potrà essere gradualmente accettato dalla società italiana.

Oltre a queste strategie di concentrazione, la Fiat Auto aveva da diversi anni iniziato a

introdurre innovazioni nel proprio sistema di organizzazione della produzione, al fine di controllare

la conflittualità interna e di sostenere la concorrenza internazionale. Dopo aver sperimentato in

diversi stabilimenti (Termoli, Cassino, Rivalta) l’automazione tecnologica sostitutiva della forza

lavoro, aveva infine messo a punto il modello della “fabbrica integrata”, che ha trovato applicazione

nello stabilimento di Melfi.

Questo insediamento ha rappresentato il più grosso investimento della Fiat in Italia

dell’ultimo ventennio. Il capitale investito ammonta a circa 4.800 miliardi, di cui quasi un terzo

(1.300 miliardi) è stato coperto con finanziamenti statali. La capacità produttiva media annuale

dello stabilimento è di 450.000 Unita con un totale di 7.000 addetti. Altri 3.000 addetti sono

occupati nelle imprese di fornitura localizzate all’interno della stessa area dello stabilimento, mentre

il personale impiegato nell’indotto al di fuori del comprensorio ammonta ad altri 5.000 addetti. Si è

trattato dunque di un investimento consistente anche in termini occupazionali.

Per la gestione dello stabilimento di Melfi, la Fiat ha promosso la costituzione di una nuova

società, la Sata (Società Automobilistica Tecnologie Avanzate). Questa “innovazione istituzionale”

ha consentito, tra l’altro, una maggiore libertà nell’organizzazione e gestione delle relazioni di

lavoro. In particolare, la Fiat ha potuto così negoziare nuovi contratti, parzialmente svincolati dal

contratto collettivo nazionale e dai contratti aziendali vigenti negli altri suoi stabilimenti (Vedi

Accordo dell’11 Giugno 93 e del 18 Marzo 96).

Ma le principali innovazioni hanno riguardato l’adozione del modello della lean production,

basato su un’organica integrazione delle risorse umane e tecnologiche. Anche se la Fiat è stata

indotta a introdurre innovazioni radicali nel proprio sistema di produzione automobilistica,

riferendosi ai sistemi più avanzati della concorrenza, il sistema di organizzazione del lavoro dello

stabilimento di Melfi non è il risultato di una semplice implementazione del modello Toyota, basato

sui principi della total qualità e del just in time. In particolare, il tentativo è stato quello di adattare

il modello giapponese al contesto italiano e di coniugarlo alla storia organizzativa specifica

dell’impresa (Bonazzi, 1993).

La nuova logica organizzativa del processo produttivo, definito dalla Fiat total quality

manufacturing, è finalizzata al raggiungimento di due obiettivi fondamentali: ridurre i costi di

produzione e migliorare la qualità del prodotto.

La riduzione progressiva dei costi di produzione è uno degli obiettivi che il management Fiat

ha fin dall’inizio esplicitamente dichiarato. Riduzione dei costi significa nel linguaggio aziendale

diminuire il peso della struttura organizzativa attraverso la riduzione progressiva dei tempi, sia dei

tempi morti di produzione, adottando un ciclo continuo di lavorazione, sia dei tempi di

immagazzinamento dei materiali di fornitura, attraverso il just in time con i fornitori.

Incrementare la produttività degli impianti attraverso l’adozione di un ciclo continuo di

produzione appariva difficile negli stabilimenti già esistenti, sia perché in Italia c’è una forte

tradizione sindacale e di lotte sia perché le fabbriche del Nord avevano espresso un forte dissenso a

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tale progetto di ristrutturazione. L’introduzione del ciclo continuo era un obiettivo che la Fiat

perseguiva da tempo e che aveva già proposto in passato. Soltanto con il lancio del progetto della

Qualità totale e della Fabbrica Integrata fu possibile includerlo nel nuovo modello di produzione,

presentandolo come parte integrante e fondamentale della nuova filosofia produttiva ed eliminando

in tal modo qualsiasi discussione sugli effetti e sui possibili costi che i lavoratori avrebbero dovuto

sopportare.

Il secondo obiettivo era il miglioramento della qualità del prodotto. La qualità si era rivelata

un problema importante per la Fiat in particolare a partire da quando i concorrenti giapponesi e

americani avevano cominciato a produrre per gli stessi segmenti di mercato ai quali essa

tradizionalmente si rivolgeva.

A questo scopo la nuova organizzazione del lavoro prevedeva la partecipazione attiva al

processo produttivo di tutti gli operatori, e la Fiat definiva come operatori sia i managers di linea

che i lavoratori, operai di linea o addetti al funzionamento degli impianti. La struttura produttiva

adottata per l’applicazione di questa logica organizzativa è la Unità Tecnologica Elementare

(Bonazzi, 1993; Cerruti, 1994b). Questa nuova ideologia partecipativa, presentata anche come

accoglimento delle tradizionali richieste sindacali di “arricchire il lavoro”, appariva funzionale

rispetto alla necessità di integrare risorse umane e tecnologiche per velocizzare il processo

produttivo ed assicurare un prodotto qualitativamente competitivo (Sivini, 1999).

Inoltre, il modello di fabbrica integrata comprendeva un sistema di riorganizzazione e

controllo dei fornitori dei componenti, attraverso il principio del just in time, funzionale a risolvere

il problema delle scorte (Pulignano, 1997). L’applicazione che ne verrà fatta a Melfi rappresenterà

anche un avanzamento verso i processi di terziarizzazione che tendono ad essere sempre più

utilizzati dalla Fiat Auto. Questi processi diventeranno sempre più centrali nel nuovo modello

organizzativo della “fabbrica modulare” (Magnabosco, 1999).

La scelta del Mezzogiorno e di Melfi per la sperimentazione del modello produttivo della

Fabbrica Integrata

La decisione di localizzare a Melfi, nel Mezzogiorno, lo stabilimento pilota di questo nuovo

modello produttivo viene presa dalla Fiat sulla base di un’attenta comparazione con altre aree

italiane e straniere in cui il progetto di Fabbrica Integrata sarebbe potuto essere realizzato. In Italia

la Fiat aveva due alternative possibili: o implementare il modello nei vecchi stabilimenti del Nord

Italia, nell’area torinese, ma ciò era sicuramente problematico perché significava indurre un

cambiamento radicale nell’orientamento al lavoro dei lavoratori oppure, più semplicemente,

costruire impianto ex novo in un’area priva di tradizione industriale, assumendo dei giovani e dando

loro una formazione che potesse renderli adeguati alla nuova logica organizzativa, alla nuova

filosofia del lavoro.

La possibilità di ristrutturare vecchi impianti fu considerata anche per gli altri paesi europei

dove la Fiat era già presente con propri stabilimenti o dove si presentavano condizioni favorevoli

per l’implementazione del nuovo modello. La Spagna, il Portogallo e l’Europa orientale furono

valutate come possibili aree di destinazione. Alcune di esse, come il Portogallo, offrivano vantaggi

maggiori rispetto all’Italia per quanto riguardava gli incentivi statali. D’altra parte, queste aree

presentavano anche degli svantaggi rispetto all’Italia, che rimaneva comunque un ambiente più

conosciuto e più protetto rispetto ai possibili siti esteri. Costruire in Italia significava per la Fiat

“giocare in casa”, sentirsi cioè più sicura nell’intraprendere una nuova e importante avventura come

la realizzazione della Fabbrica Integrata.

Tra le principali ragioni che hanno determinato la scelta del Sud Italia si possono richiamare:

1. l’opportunità di ottenere rilevanti contributi finanziari da parte dello Stato;

2. la debolezza delle organizzazioni sindacali industriali e l’assenza di una tradizione di “classe

operaia”;

3. il contesto politico favorevole, con una classe dirigente desiderosa di attrarre investimenti

industriali;

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4. una strategia di localizzazione tendente a massimizzare i vantaggi derivanti dai precedenti

insediamenti della Fiat nel Sud. In particolare, risultava conveniente localizzare l’impianto di

assemblaggio in un’area prossima a quella in cui erano prodotti i motori e altri principali moduli

di componentistica;

5. l’esperienza più che ventennale della Fiat di produzione industriale nel Sud. Dopo i due primi

investimenti in Campania (Napoli, 1956) ed in Sicilia (Termini Imerese, 1965), a partire dagli

anni ’70 gli stabilimenti Fiat, sempre sostenuti da incentivi pubblici, si erano estesi a diverse

altre aree del Sud. Agli inizi degli anni ‘90 la struttura industriale della Fiat nel Mezzogiorno era

articolata in 38 unità produttive, localizzate in otto regioni meridionali, con oltre 45.000 addetti.

Dato questo contesto, la scelta di Melfi in Basilicata è avvenuta sulla base di una rapida

indagine preliminare, affidata alla R&P di Torino, e finalizzata a valutare l’idoneità per la

localizzazione del nuovo stabilimento. La selezione è stata ristretta alle aree già attrezzate in termini

di servizi industriali (Aree di Sviluppo Industriale e Nuclei di Industrializzazione), confermando la

strategia adottata anche in passato dalla Fiat per i suoi insediamenti nel Mezzogiorno. Dati i tempi

brevissimi a disposizione dei tecnici (tre settimane) fu adottato un metodo “di selezione a stadi, per

approssimazioni successive, al fine di circoscrivere le aree di potenziale insediamento secondo

criteri di idoneità fisica, logistica, economica, e di compatibilità con alcuni vincoli territoriali”

(SVIMEZ 1993: 25). Delle 14 aree così identificate, quattro erano in Puglia, quattro in Calabria, tre

in Campania, dove c’era già un’alta concentrazione di stabilimenti Fiat, e tre in Basilicata. Infine la

scelta si indirizzò su Melfi, che presentava il miglior rapporto relativo tra fattori di forza e fattori di

debolezza. I fattori di forza erano:

- buona disponibilità di un’area vasta, integra e piana;

- livello massimo di incentivazione ammessa dalla legge 64;

- valida connessione logistica rispetto agli altri stabilimenti Fiat nel Mezzogiorno e costi

contenuti di collegamento;

- scarsa conflittualità connessa alla struttura prevalentemente agricola dell’economia locale.

L’area così prescelta, l’ASI di S. Nicola a Melfi, è situata nell’area settentrionale della

Basilicata, in una posizione strategica, poiché vicina a due altri importanti stabilimenti Fiat: gli

stabilimenti di Termoli e Pratola Serra (realizzato nel 1990 per la produzione integrata di motori).

Entrambi questi impianti forniranno infatti allo stabilimento di Melfi la più importante componente

dell’auto: il motore.

È evidente che la scelta di Melfi è stata operata, oltre che per le idoneità tecnico- logistiche e

per le opportunità finanziarie, soprattutto per le condizioni favorevoli dal punto di vista del contesto

locale:

- greenfield nel senso classico del termine: un contesto rurale privo di una precedente esperienza

industriale;

- scarsa conflittualità locale;

- ampio bacino di forza lavoro giovane e aperta ad assorbire la nuova logica del lavoro e ad essere

formata secondo i principi organizzativi della lean production.;

- ampia disponibilità di un territorio non ancora congestionato e sovraffollato da altri impianti o

grandi industrie.

Infine, l’area risultava idonea anche dal punto di vista tecnico delle risorse materiali, quali:

- soddisfacenti risorse idriche;

- efficiente sistema di comunicazioni;

- disponibilità di infrastrutture nelle “aree di sviluppo industriale”, attrezzate con servizi capaci di

attrarre investimenti industriali. La presenza di queste infrastrutture risultava essenziale, in

particolare, per assicurare i collegamenti dello stabilimento di Melfi con gli altri stabilimenti

Fiat e con la catena dei fornitori.

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Il territorio da “contesto” a spazio produttivo

La questione del rapporto tra territorio ed insediamenti industriali nel Mezzogiorno è stata per lo più

considerata in termini di “condizioni contestuali” e di “impatto territoriale”. All’impresa veniva

riconosciuto un ruolo sostanzialmente indipendente ed in larga misura autonomo rispetto al contesto

esterno. L’organizzazione specifica degli interventi comunque necessari a livello territoriale, per

consentire l’insediamento ed il funzionamento dell’impianto produttivo, era demandata agli enti

pubblici. In particolare per la Fiat, questa “indipendenza” si era tradotta, nel caso dei precedenti

insediamenti nel Mezzogiorno, nella chiara distinzione tra le funzioni proprie dell’azienda e le

funzioni proprie dei soggetti pubblici (SVIMEZ, 1993). A questi ultimi veniva lasciata la

responsabilità di contribuire alla creazione delle infrastrutture ed alla riproduzione della forza

lavoro, attraverso interventi relativi ai sistemi residenziali, strutture formative, servizi sociali,

servizi culturali e del tempo libero. Il principio fondamentale di questo orientamento era che

“un’impresa è un’impresa” (Giannola, 1990). In tal modo la grande impresa industriale rivendicava

il diritto di rimanere “estranea” rispetto al contesto territoriale, legittimando altresì la classe politica

locale alla gestione delle attività connesse con il suo insediamento.

Anche nel caso di Melfi, diversi enti pubblici locali sono stati chiamati a svolgere funzioni

essenziali per l’infrastrutturazione del territorio: la Regione Basilicata, il Consorzio ASI, la

Provincia di Potenza ed il Comune di Melfi. La complessità degli interventi, i vincoli burocratico-

procedurali cui sono sottoposti gli enti pubblici, lo scarso coordinamento tra i diversi soggetti hanno

determinato una serie di ritardi nella realizzazione delle inziative affidate agli enti pubblici, in

palese contrasto con la rapidità e l’efficienza dell’impresa responsabile della costruzione degli

impianti produttivi.

La questione della modernizzazione della pubblica amministrazione è stata quindi riproposta

come esigenza primaria per lo sviluppo locale e considerata in termini di positivo impatto

territoriale dell’iniziativa industriale. I sostenitori delle politiche di sviluppo industriale nel

Mezzogiorno continuano a pensare il territorio in termini di “alterità” rispetto alle strutture

produttive che, proveniendo dall’esterno, si insediano localmente. L’intervento industriale viene

considerato utile per gli stimoli che può produrre a livello di iniziative di valorizzazione delle

risorse endogene, attraverso la diffusione di una “cultura dell’organizzazione e di atteggiamenti

manageriali presso la pubblica amministrazione locale” ed alla “sensibilizzazione degli ambienti

imprenditoriali locali per avviare la creazione di sistemi di piccole e medie imprese” (FORMEZ,

1994: 16).

Questo tipo di analisi non coglie la portata dei cambiamenti che, come nel caso di Melfi, si

stanno producendo nei rapporti tra impresa e territorio. Tali cambiamenti, in larga misura

imprevisti, appaiono in contraddizione con i tradizionali orientamenti degli operatori pubblici e dei

soggetti politici che in modo “facile” avevano coltivato prospettive di sviluppo legate alle risorse

endogene (Vainieri, 1996). La concezione dell’organizzazione produttiva come Fabbrica Integrata

presuppone un rapporto di natura diversa con il territorio, che non si configura più come semplice

“contesto” ma diventa invece uno “spazio produttivo”. In uno dei suoi recenti saggi, Marco Revelli

sostiene che è attualmente in corso un processo di trasformazione del territorio in uno “spazio

direttamente capitalistico”, strutturato secondo le esigenze produttive (Revelli, 1997: 124). In questa

idea di “sussunzione reale del territorio al capitale” si esplicita la valorizzazione del territorio come

“forza produttiva sociale” e la sua trasformazione da semplice “condizione esterna della

produzione” o “contesto” in fattore produttivo diretto.

Tale processo di trasformazione appare chiaramente visibile negli elementi che caratterizzano

il modello della fabbrica integrata: reti di comunicazione e di interconnessione, sistemi integrati di

fornitura e subfornitura, esternalizzazione di funzioni produttive e di servizi. Le risorse sociali

disseminate sul territorio sono “messe al lavoro” e “consumate” come materia prima e principio di

organizzazione. Per Bonomi (1997) il territorio diventa risorsa strategica per l’impresa capitalistica,

che incorpora nel suo sistema produttivo anche le risorse tradizionalmente definite come “locali”

(saperi, comunicazioni, reti sociali e istituzionali). Angelo Pichierri sostiene che “l’impresa snella è

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condannata a costruire un ambiente congeniale… In quest’opera di costruzione o di radicale

ristrutturazione dell’ambiente, l’impresa è destinata a incontrare duri ostacoli” (Pichierri, 1994:

190).

Queste tendenze erano state già identificate negli studi condotti in diversi contesti in cui era

stato introdotto il sistema della produzione snella, come nel caso dell’insediamento Nissan in Gran

Bretagna, nel 1986. Il dominio sul lavoro nel luogo immediato di produzione era sostenuto da un

parallelo dominio sul contesto esterno, inteso in senso non solo territoriale, ma anche economico,

sociale e istituzionale (Garrahan e Stewart, 1992).

I risultati delle ricerche condotte sullo stabilimento Sata di Melfi, presentate in questo volume,

confermano le trasformazioni determinate a livello dei rapporti tra impresa e territorio

dall’applicazione del modello di produzione snella.

L’insediamento industriale occupa una superficie totale di circa 2 milioni e 700 mila metri

quadrati. Circa un terzo di quest’area ospita il parco dei fornitori, costituito inizialmente da ventidue

imprese, delle quali venti sono fornitori di prima fascia e due di seconda. Gran parte delle imprese

di fornitura (53 per cento nel 1995) sono localizzate anche nel Nord Italia ma producono

componenti minori (circa il 20 per cento in valore della vettura). Le imprese localizzate nella stessa

area dello stabilimento o nelle immediate vicinanze, forniscono just in time componenti importanti

dell’automobile (complessivamente circa l’80 per cento in valore). I fornitori presenti nell’area

dello stabilimento sono per lo più imprese trasferite dal Nord. Pochi sono i fornitori locali che, nella

quasi totalità dei casi, si collocano al livello più basso (Pulignano, 1997).

La forte integrazione tra la casa auto e le imprese di fornitura, oltre che tra i fornitori di

diverso livello localizzati intorno allo stabilimento di Melfi, è assicurata dal Consorzio Auto-

Componentistica del Mezzogiorno (ACM) che raggruppa anche le 22 imprese di fornitura inserite

nel comprensorio di Melfi. Inizialmente costituito per facilitare l’accesso ai finanziamenti pubblici,

ha assunto in seguito il compito di garantire la gestione omogenea dell’organizzazione del lavoro e

di contrattare le condizioni di lavoro con il sindacato.

Il nuovo assetto produttivo della produzione snella è strutturato come una costellazione il cui

centro è rappresentato dal produttore di auto e i nodi dalle imprese di fornitura capofiliera o di

primo livello, dalle quali discendono le imprese dei livelli successivi che concorrono alla

formazione delle filiere di prodotto (Pulignano, in questo volume).

È evidente pertanto che il territorio, inteso come localizzazione delle imprese di fornitura,

come principio organizzativo della produzione e come spazio per i trasferimenti delle componenti,

assume una funzione centrale per l’organizzazione del processo produttivo, regolato dal principio

del just in time. L’infrastrutturazione materiale e sociale dello spazio determina così un processo di

“costruzione del territorio” da parte dell’impresa, definito anche built environment (Harvey, 1995).

Dalle analisi sviluppate in questo volume provengono anche altri elementi per la

comprensione dei processi che caratterizzano l’incorporazione del contesto locale nel sistema

produttivo della fabbrica integrata.

Le particolari caratteristiche cognitivo-relazionali richieste alla forza lavoro, unitamente alla

sua flessibilità e disponibilità ad essere utilizzata nella produzione snella, implicano la

valorizzazione, da parte dell’impresa, dei contesti sociali, culturali e istituzionali entro i quali i

lavoratori sono inseriti. Si determina in tal modo un processo di incorporazione delle capacità

relazionali e della socialità più in generale. Uno degli strumenti utilizzati a questo fine è l’ideologia

dello “sviluppo locale”, sostenuta da diversi soggetti istituzionali, che favorisce la penetrazione nel

contesto sociale di nuovi codici normativi di collaborazione e partecipazione. La nuova logica di

produzione viene ad essere diffusa anche all’esterno della fabbrica e interessa in particolare il

contesto in cui la forza lavoro si colloca. Le reti familiari e sociali sono indotte a sostenere il

singolo lavoratore nella accettazione dei ritmi lavorativi e dello stress mentale connesso con la

produzione snella. Tali meccanismi di normalizzazione e disciplinamento della forza lavoro sono

necessari per contrastare i processi di destrutturazione sociale e di resistenza che si manifestano a

livello locale. Il contesto, così ristrutturato, viene utilizzato dall’impresa per “prevenire le criticità”

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che inevitabilmente si presentano. Sulla base di queste considerazioni, Vitale reinterpreta la

funzione del greenfield non solo come condizione per attrarre investimenti industriali, ma come

prodotto di una logica organizzativa che presuppone la sua continua riproduzione.

Un altro elemento di incorporazione riguarda la dimensione politico-istituzionale e si riferisce

al ruolo assunto dai sindacati nel contesto di Melfi. L’adozione del modello partecipativo, implicito

nel disegno della nuova organizzazione del lavoro, si è rivelato uno strumento particolarmente

efficace per la prevenzione ed il controllo del conflitto operaio (Cerruti, 1994b). Oliveri analizza i

sottili meccanismi di integrazione del sindacato nella logica di strategia aziendale, che lo riconosce

come “risorsa” necessaria alla valorizzazione del contesto produttivo.

Dato questo quadro di valorizzazione delle risorse territoriali, sociali e istituzionali è

prevedibile che i processi di resistenza interesseranno non solo i lavoratori direttamente inseriti nel

sistema produttivo, ma anche il contesto esterno più allargato. Fino a questo momento sono stati

analizzati soltanto i processi interni e si sono riconosciuti i primi elementi delle resistenze esterne,

connessi con gli effetti dell’insediamento industriale a livello territoriale. Oltre ai problemi di

inquinamento ambientale, di congestione del traffico ed aumento degli incidenti, sta emergendo

recentemente anche la questione della competizione per le risorse disponibili sul territorio,

attualmente monopolizzate dall’insediamento produttivo della Sata.

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2

Giordano Sivini

Le relazioni di potere e la fabbrica snella: un appproccio foucaultiano

Per inquadrare i risultati di ricerca su “Produzione snella e forza lavoro nell’industria

automobilistica” relativi all’insediamento industriale della Fiat a Melfi sono necessari due

chiarimenti preliminari.

Il primo riguarda la produzione snella come “modello epocale”, ed occorre dire subito che

intendiamo parlare non di un modello di impresa ma di un modello di organizzazione del lavoro,

che si realizza in molti modi adattandosi ai diversi contesti. Il principio che caratterizza la

produzione snella è il just in time, che ridefinisce, rispetto al fordismo, le relazioni di potere sia

dentro la fabbrica, sia nelle interconnessioni con le filiere dei fornitori, sia, infine, nel contesto

locale in cui questo complesso industriale è insediato.

Il secondo chiarimento riguarda l’inquadramento teorico della ricerca, che è quello

foucaultiano. L’approccio non è stato preventivamente questo; sono stati i ricercatori ad orientarsi

in questa direzione, tenendo conto che il campo era quello delle relazioni conflittuali di potere. Ora

che una prima fase di lavoro è conclusa, le ragioni del riferimento a Foucault diventano stimoli per

una attività conoscitiva in progress.

Produzione snella: un modello epocale?

Scrivono gli autori de La macchina che ha cambiato il mondo: “Ci siamo convinti che i

principi della produzione snella possano essere applicati analogamente in ogni settore industriale

del globo e che la conversione avrà un effetto profondo sulla società umana e cambierà veramente il

mondo” (Womack et al., 1993: 10). Questa previsione del gruppo di studio del Massachussets

Institute of Technology era basata su una vasta indagine sull’industria automobilistica che metteva

in evidenza i processi generali di transizione verso la produzione snella, e soprattutto le ragioni

“veramente inoppugnabili” (Ibidem: 299) per cambiare, e cambiare in fretta.

Le analisi fatte nell’ambito della Gerpisa (Groupe d’Etude et de Recherche Permanent sur

l’Industrie et les Salariés de l’Automobile) confutano questa tesi. La produzione snella, “un

amalgama di strategie di profitto e di modelli industriali differenti e tra loro incompatibili, non può

essere il modello industriale del ventunesimo secolo” (Freissenet et al., 1998: 45).

Non solo la produzione snella non può essere considerata l’one best way, ma neanche nel

passato - secondo gli studi di Gerpisa - possono essere rintracciate nell’industria automobilistica

altre best ways. “I tre sistemi produttivi che si suppongono si siano succeduti, artigianale, di massa,

e snello - si legge infatti (Ibidem: 2) – sono in realtà il risultato di amalgami storici e di ambiguità

concettuali. Il cosiddetto sistema artigianale comprendeva imprese basate sul lavoro di artigiani ma

anche vere e proprie industrie (…). La produzione di massa, nota anche come sistema tayloristico-

fordista, comprendeva modelli differenti, ammesso che avessero in comune certi principi (...) ”.

I lavori di Gerpisa sull’industria automobilistica, che hanno coinvolto un grande numero di

esperti di diverse discipline, mostrano in modo convincente che le innovazioni nel tempo e nello

spazio non sono avvenute e non avvengono per la diffusione di un modello di impresa, bensì con

l’adattamento ai diversi contesti delle conoscenze disponibili in un dato momento. La varietà di

pratiche innovative è frutto di un’ibridazione, cioè di una “interazione complessa di modelli

produttivi con risultati nazionali e contestuali” (…) “non semplicemente un processo fatto di

adattamenti ma anche un’importante dinamica di saperi e di innovazione (Ibidem: 1-2). Le scelte

che hanno fatto e fanno i produttori di automobili fortemente influenzate dalle traiettorie del loro

passato, hanno a loro volta un impatto sulla stessa ricomposizione dell’economia globale”

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(Freissenet et al., 1998: 42). La conclusione è che “non ci sono modelli puri da imitare: sia il

‘Fordismo’ sia lo ‘Sloanismo’ comprendono un’ampia varietà di pratiche e, persino nel Giappone

contemporaneo il sistema Toyotista non è egemonico” (Boyer et Al., 1998: 375).

Il lavoro di Gerpisa mostra che nel fordismo si era diffusa non un’impresa automobilistica

fordista, bensì, in una molteplicità di versioni, un’impresa sloanista che, per aver superato le rigidità

tecnologiche di quella fordista, si adattava meglio a società diversamente stratificate rispetto a

quella statunitense. Questa evidenza non è in contraddizione con la concettualizzazione ‘epocale’

del fordismo, quale fase storica della società capitalistica caratterizzata da un’organizzazione del

lavoro basata sulla catena di montaggio e finalizzata alla produzione di massa. Questa

concettualizzazione infatti non si riferisce a criteri e scelte imprenditoriali, bensì, per dirla con la

terminologia di Foucault, ad una genealogia sociale del potere.

La prospettiva genealogica ha fatto della catena di montaggio una metafora che trascende

l’impresa, e rende visibile il modo in cui in una data epoca la società viene disciplinata.

Analogamente la produzione snella viene qui assunta come rappresentazione metaforica dell’epoca

attuale. La metafora non riguarda l’impresa ma le nuove modalità di disciplinamento sociale che la

produzione snella sta diffondendo.

Il just in time è certamente uno degli ‘attrezzi’ dell’impresa snella (Freissenet et al., 1989: 30)

che trova una molteplicità di applicazioni imprenditoriali, e nella ricerca sulla Fiat di Melfi abbiamo

a che fare con questo ‘attrezzo’. Ma, se non ci limitiamo a considerarlo un mero strumento

organizzativo e lo cogliamo, invece, come principio disciplinare, vediamo che esso opera

nell’impresa ma anche che la trascende. La ricerca ha infatti concretamente verificato che lavorando

sullo spazio disciplinare definito dal just in time si individuano nuove modalità di connessione tra la

fabbrica di automobili, i suoi fornitori, e l’ambiente sociale in cui il complesso industriale è

insediato, che hanno un impatto tale da ristrutturare le relazioni sociali complessive.

I risultati della ricerca vanno oltre il caso Melfi non solo per la rilevanza innovativa trainante

dell’industria automobilistica (e Melfi è un luogo eminente di produzione snella), ma soprattutto

perché riguardano la ristrutturazione sociale che la produzione snella sta realizzando nel mondo. La

sua diffusione nella diversità imposta dai contesti (cfr. Durand, Stewart e Castillo, 1999) indica che

può ragionevolmente essere assunta come metafora di un disciplinamento sociale che oggi

definiamo ‘epocale’ per marcare, sia pure con approssimazione, la differenza rispetto a quello

fordista.

Il disciplinamento della forza lavoro della produzione snella: l’approccio foucaultiano

La teoria foucaultiana ha orientato la ricerca su Melfi. Le ragioni sono molteplici.

In primo luogo, nella teoria foucaultiana le relazioni di potere hanno una autonomia relativa

rispetto ad altre relazioni, e sono poste come oggetto di conoscenza per definire uno spazio

disciplinare che non è dato a priori. In questa ricerca lo spazio è definito teoricamente dagli effetti

di potere della produzione snella. Analiticamente riguarda la Fiat di Melfi, le imprese di fornitura ad

essa connesse, e lo spazio circostante. I rapporti sociali di produzione sono dati, presupposti a

questa analisi che riguarda il potere e non lo sfruttamento, di cui il potere in quanto relazione

disciplinare è effetto e condizione.

In secondo luogo, la teoria foucaultiana è una teoria conflittuale del potere. Indirizza la

conoscenza verso il potere come dominio e come resistenza ad esso. La resistenza non è mai in una

posizione esterna rispetto al potere. Come è noto, i lavori di Foucault si incentrano sulle modalità

con cui sono state pensate e prodotte relazioni di potere funzionali al dominio, nell’epoca in cui la

generalizzazione dei rapporti capitalistici avevano messo a soqquadro l’ordine preesistente. Il

riferimento ad istituzioni totali (prigioni, manicomi, ospedali) ha - secondo alcuni - resa

problematica l’individuazione delle forme di resistenza. Il potere non va però identificato le

istituzioni in quanto tali, ma con gli effetti che esse producono e ai quali reagiscono.

Lo strumento analitico di Foucault è il dispositivo di potere, che orienta la ricerca all’esame

dell’insieme di tecniche che fanno sì che le attività sociali siano assunte e vissute dagli individui

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come senso e bene comune. L’esito di questo esame consente di definire i dispositivi specifici che

operano in un dato campo, e che hanno come effetto un disciplinamento di cui si dimentica la fonte,

e che perciò occulta il dominio. Le resistenze al disciplinamento operato da un dispositivo non

dipendono però dalla scoperta di questo occultamento, ma dalla difficoltà di ricondurre le pratiche

soggettive a pratiche sociali normali. È la soggettività che determina le resistenze, anche a

prescindere dall’individuazione di chi esercita il potere. La contraddizione tra soggettività e

normalità tende però a produrre la conoscenza dei meccanismi e dei soggetti implicati nella

relazione di potere.

Le resistenze, secondo Foucault, si manifestano raramente con rotture radicali. Vanno perciò

ricercate nella molteplicità variabile di punti che in un determinato spazio strutturano le relazioni di

potere. Esplicitando il senso delle sue ricerche Foucault (1991: 74) ha detto: “Sono preoccupato di

capire gli effettivi meccanismi di dominio, e lo faccio in modo che coloro che sono inseriti in certe

reflazioni di potere, che vi ci sono coinvolti, possano sottrarvisi con le loro azioni di resistenza e di

ribellione, possano trasformarle per non esserne soggiogati più a lungo”.

In terzo luogo la teoria foucaultiana pone a fondamento delle relazioni di potere dispositivi di

disciplinamento che sono di tipo strutturale, perché prescindono da relazioni interpersonali. Per

disciplinare “basta mettere - dice Foucault (1976: 218) - un supervisore in una torre centrale ed in

ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro”. La

metafora ha una portata generale, e ogni popolazione ha la sua specifica torre centrale - il proprio

dispositivo panottico - che svolge la funzione disciplinare. Però, come si sa, questa funzione è

realizzata indipendentemente dal supervisore, per la sola forza dei messaggi che la torre invia, e

delle relazioni immaginarie attivate da questi messaggi. È sufficiente che i destinatari stiano dentro

il campo di visibilità della torre e sappiano di poter essere sorvegliati e puniti.

Foucault non ha specificamente studiato la fabbrica, ma vi ha spesso fatto riferimento in modo

discorsivo, oscillando nel considerare i lavoratori come popolazione che sta in un campo panottico

o come oggetti di relazioni personali di sorveglianza. Queste due dimensioni si intrecciano, per

esempio, in questa affermazione: “Si tratta ora di un controllo intenso, continuo; corre lungo tutto il

processo di lavorazione; non verte – o non solamente – sulla produzione (natura, quantità di materie

prime, tipo di strumenti utilizzati, dimensioni e qualità dei prodotti), ma prende a suo conto l’attività

degli uomini, il loro savoir-faire, il loro modo di comportarsi, la prontezza, lo zelo (…). Diviene

indispensabile un personale specializzato, costantemente presente e distinto dagli operai” (Foucault,

1976: 191).

Le due dimensioni del disciplinamento, quella iscritta nell’organizzazione materiale del

processo produttivo e quella manageriale, sono state spesso confuse. “La sorveglianza (l’occhio che

tutto vede del Panopticon) è diventata una funzione manageriale”, afferma per esempio Sakolosky

(1992: 240). Questa confusione ha impedito di sviluppare la ricerca delle tecniche di

disciplinamento iscritte nella struttura della fabbrica, ben oltre il panottico elettronico (Zuboff,

1988) di cui è stato relativamente più facile cogliere l’analogia con la struttura panottica di Bentham

e di Foucault.

Lo sviluppo della ricerca a livello strutturale viene dunque specificamente stimolata

dall’approccio foucaultiano. Nelle relazioni di fabbrica la torre centrale è oggettivata nei

componenti materiali della struttura produttiva che definiscono campi di visibilità e producono

segnali. “L’ordine non deve essere spiegato, neppure formulato; è necessario e sufficiente che

faccia scattare il comportamento voluto (…) Si tratta non di comprendere l’ingiunzione, ma di

percepire il segnale, di reagirvi subito secondo un codice più o meno artificiale stabilito in

precedenza” (Foucault, 1976: 181). Il controllo tayloristico del management sui lavoratori si è

imposto proprio per i limiti del disciplinamento realizzato da una struttura produttiva concepita per

sussumere i corpi e non le menti. Nella produzione snella questi limiti sono superati e la ricerca

degli effetti panottici deve essere ampliata nella fabbrica e fuori di essa.

In quarto luogo, infine, Foucault induce a connettere questa dimensione strutturale con quella

relazionale. Le tecnologie panottiche definiscono la socialità delle pratiche quotidiane, ma le

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relazioni sociali implicite in queste pratiche rafforzano la normalità. La rafforzano se sono percepite

come improntate al buon senso e al bene comune, sia che si tratti di relazioni tra pari (come nel caso

del team), sia di relazioni asimmetriche (come quelle dello Human Resource Management).

L’effetto disciplinare si basa sul contenuto comunicativo di queste relazioni che sono interpersonali,

a differenza dell’effetto panottico che si basa su segnali che i singoli individui ricevono e che

assumono come indicazioni di comportamento.

Questa duplice dimensione di analisi è importante nel momento in cui si fa riferimento a

Foucault per cercare di capire la situazione prodotta dalla produzione snella (McKinlay e Starkey,

1998). Nell’epoca del just in time la forza lavoro deve avere un alto grado di adattabilità ai

mutamenti di ritmo e di mansione; deve saper leggere il flusso di informazioni e saper lavorare

comunicando. Informazione e comunicazione diventano perciò due componenti analitiche

dell’attività disciplinare.

Il disciplinamento realizzato attraverso quella che Foucault chiama ‘segnalizzazione’ fluisce a

partire da una fonte strutturale; è specificamente panottico, “in modo che non è necessario far

ricorso a mezzi di forza per costringere il condannato alla buona condotta, il pazzo alla calma,

l’operaio al lavoro, lo scolaro alla applicazione, l’ammalato all’osservanza delle prescrizioni”.

“Colui che è sottoposto ad un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni

del potere; le fa giocare spontaneamente su se-stesso; inscrive in se-stesso il rapporto di potere nel

quale gioca simultaneamente i due ruoli, diviene il principio del proprio assoggettamento”

(Foucault, 1976: 221).

Il disciplinamento realizzato dalla comunicazione è invece relazionale. Presuppone - entro lo

spazio definito strutturalmente per segnalare i comportamenti normali - rapporti intersoggettivi che

rafforzano la disciplina panottica, intervenendo su ciò che a livello strutturale resta indeterminato o

sulle resistenze. Nei luoghi di produzione lo Human Resource Management è strumento di

disciplinamento in uno spazio di rapporti comunicativi asimmetrici. L’organizzazione in team

determina invece uno spazio di comunicazione tra soggetti in posizione formalmente paritetica che

rafforza l’efficacia della disciplina panottica, riconducendo ad essa i problemi che si manifestano in

processo. Il fondamento relazionale della prestazione lavorativa presuppone una disposizione

mentale prodotta e riprodotta fuori dalla fabbrica.

Foucault e la scomparsa della conflittualità in fabbrica

Ci sono controindicazioni all’approccio foucaultiano?

Negli anni recenti si è diffuso un linguaggio che nega l’esistenza di conflitti nei luoghi di

lavoro: “l’occupazione è diventata appartenenza, il controllo è ridefinito come coinvolgimento, il

management si tramuta in leadership” (McKinlay e Taylor, 1998: 173). In una rassegna della

sociologia industriale britannica è stata avanzata l’ipotesi che queste forme di occultamento dei

rapporti di dominio siano diffuse nelle ricerche a causa di un pesante effetto ideologico di origine

foucaultiana. Nella generalità dei lavori - non tutti peraltro foucaultiani – il successo delle nuove

pratiche manageriali ha emarginato l’attenzione alle resistenze e “il lavoro è scomparso dalla teoria

a causa della tendenza a credere che il management e i suoi agenti detengono il monopolio della

conoscenza” (Thompson e Ackroyd, 1995: 624).

Dunque, dal momento che la tradizione britannica di ricerca sul lavoro industriale era

imperniata sulla resistenze e sull’insubordinazione, “tutto è tranquillo sul fronte del posto di

lavoro?” si sono chiesti gli autori della rassegna.

L’ipotesi di un effetto ideologico foucaultiano lascia sorpresi, perché la teoria foucaultiana è

conflittuale. Prima di guardare agli effetti specifici dell’approccio di tipo foucaultiano, occorre

sottolineare che sull’attività di ricerca hanno influito e stanno influendo altri fattori di occultamento

del conflitto.

In primo luogo, in passato essa si è sviluppata assumendo in larga parte una sorta di identità

tra attività sindacale e conflitto, e tra resistenze e conflitto aperto. Questa identità risale alla fase

fordista, quando “il riconoscimento della contrapposizione tra le parti sociali era una componente

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essenziale del processo di ricomposizione [tra lavoro e capitale], e la stessa ricomposizione era il

frutto dei rapporti di forza contrattuali che le parti agivano sul terreno dello scontro” (Oliveri, in

questo volume). Con la produzione snella si è avuto il passaggio “dal binomio conflitto/contratto al

binomio negoziazione /soluzione”, che implica “la rappresentazione dello spazio della produzione

capitalistica in termini di un luogo neutrale di produzione di cose sulla base di un comune interesse”

(Ibidem). Questa nuova collocazione del sindacato nella fabbrica influisce sulla ricerca, soprattutto

nella misura in cui non si opera la necessaria distinzione tra il conflitto organizzato sindacalmente

(che tende a scomparire per il diverso ruolo che assumono i sindacati) e le resistenze soggettive (che

si manifestano).

In secondo luogo succede - come osserva Fiocco (1998: 76) – “che l’emergenza della

soggettività antagonistica si dà in forme diverse dal passato, e proprio per questo è difficile da

individuare nell’apparente pace sociale. Questa apparenza è dovuta al fatto che la

microconflittualità non solo è prevista dal modello, ma è anche sussunta nelle relazioni sociali

interne; occultata dalla forma-gruppo; e affrontata gestendo le tensioni palesi come se fossero

normali disfunzioni operative del lavoro in cooperazione”.

Al ricercatore riesce dunque difficile individuare, e persino intuire, le nuove forme di

resistenza nella fabbrica, e non è aiutato dalle vaghe indicazioni metodologiche foucaultiane. Si

concentra perciò sulle pratiche disciplinari, e finisce con il guardare al potere come dominio da esse

realizzato, piuttosto che come processo di parziale assoggettamento delle resistenze al dominio.

L’apporto teorico della ricerca alla Fiat di Melfi

La ricerca si è sviluppata con analisi di dettaglio lungo tre assi: il lavoro all’interno dello

stabilimento Fiat di Melfi; il lavoro all’interno delle sue imprese di fornitura con riferimento alla

filiera di produzione del sedile; e l’ambiente circostante l’insediamento industriale da cui proviene

la forza lavoro. Questi tre assi sono iscritti nello spazio delle relazioni di potere definite dal just in

time.

I risultati della ricerca, presentati separatamente dai diversi autori in questo volume, sono di

portata diseguale, perché diseguali sono stati i punti di partenza e i livelli di approfondimento finora

realizzati. L’esame preliminare della letteratura ha fornito indicazioni utili sui rapporti interni alla

fabbrica automobilistica, e il lavoro sul campo a Melfi ha consentito di articolare l’analisi di

dettaglio relativa ad alcuni problemi rilevanti. Più difficile è stato sviluppare le problematiche

relative agli altri due assi. Nel caso dei rapporti tra fabbrica automobilistica e imprese di fornitura,

qualche indicazione metodologica è venuta dalla critica alle diverse interpretazioni che la letteratura

dà di questi rapporti. Nel caso dell’ambiente circostante è stata necessaria una riflessione - basata

anche sull’attività di terreno - per uscire dall’impasse meramente descrittiva in cui si trova la

letteratura su greenfield e brownfield, e produrre un quadro teorico che dovrebbe servire a futuri

approfondimenti.

Tutti i lavori si sono basati su tecniche qualitative: osservazione sul campo (con qualche breve

stage alla Fiat), colloqui, analisi di casi.

L’attenzione foucaultiana ai dettagli ha, ovviamente, bisogno di sintesi. Ciascun lavoro cerca

di farlo nell’ambito che gli è proprio, e con specifico riferimento al proprio oggetto di analisi. Qui si

cerca di raccordare i risultati, tenendo conto della loro possibile rilevanza teorica, oltre il caso

Melfi.

Nel suo insieme il contributo della ricerca alla comprensione delle relazioni di potere che si

stanno realizzando nella fase della produzione snella riguarda:

a. L’identificazione di un assetto produttivo cellularizzato connesso just in time, che riguarda non

solo la fabbrica automobilistica ma anche le filiere dei suoi fornitori, che frammenta

spazialmente la forza lavoro e la disciplina. È un assetto alternativo alla concentrazione fordista.

b. La qualificazione dell’ambiente in cui si realizza un insediamento industriale come luogo di

relazioni sociali e istituzionali non già date (greenfield o brownfield) bensì prodotte per

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disciplinare la forza lavoro alla flessibilità e al coinvolgimento nel lavoro richiesti dalla

produzione snella.

c. L’importanza attribuita agli elementi strutturali nel disciplinamento della forza lavoro in

fabbrica con l’identificazione di dispositivi strutturali (il kanban e il team, coniugato al

panottico elettronico) oltre che relazionali (ancora il team, lo Human Relation Management

nella forma della fluidificazione del potere, e le relazioni sindacali).

d. La chiarificazione del concetto di soggettività, in maniera tale da esplicitarne il legame con le

resistenze al disciplinamento e la contrapposizione al commitment.

La ridefinizione della struttura produttiva e sociale nell’epoca della produzione snella

Lo spazio produttivo dell’epoca della produzione snella viene a configurarsi come una

costellazione di filiere di imprese connesse just in time, entro cui la forza lavoro è frammentata e

assoggettata a condizioni disciplinari e normative diverse e specifiche da impresa a impresa. Con la

fabbrica modulare questa frammentazione sta penetrando all’interno dello stesso processo

produttivo (Sivini, 1999).

È stato definito “cellularizzazione estensiva” il risultato del processo di separazione dei

lavoratori che vengono posti sotto il comando di entità giuridicamente autonome ma integrate in

filiere (Fiocco). Questo processo non opera tuttavia solo per disarticolare la forza lavoro, ma anche

per disciplinarla su nuove basi, conformi alle necessità produttive dell’insieme delle aziende

connesse just in time nella filiera di produzione.

L’analisi della filiera di fornitura della Fiat di Melfi fatta da Pulignano mette in evidenza che

la struttura del committente esercita una funzione panottica nei confronti della forza lavoro delle

imprese ad essa collegate just in time. “La natura apparentemente oggettiva e neutrale del ‘flusso

teso’ - osserva in proposito Pulignano - veicola il comando interno a ciascuna unità produttiva

lungo la filiera come se fosse originato dal cliente. In questo senso, le condizioni di lavoro (tempi e

ritmi, carichi di lavoro ecc.) dentro la fabbrica sembrano essere la mera risposta alla necessità

oggettiva, e per questo immediatamente visibile, di assicurare il flusso, piuttosto che la

realizzazione dell’interesse finanziario e strategico dell’impresa fornitrice. Dentro questo contesto,

la percezione dei lavoratori supera i confini dell’impresa”. Questa pressione strutturale è rafforzata

da quella relazionale. “Il management trasferisce discorsivamente la pressione del just in time sui

lavoratori facendoli ‘sentire parte’ dell’impresa” (Ibidem).

L’implementazione del just in time richiede non solo una forza lavoro che entra nel processo

produttivo con il corpo e con la mente, ma che è costretta a dissociare i propri tempi dai tempi

sociali. De Angelis spiega come la flessibilità della lean production dipenda da orari individuali

rigidi, basati - per gli operai - su cicli di tre settimane che si articolano in turni giornalieri diurni e

notturni variabili, e con riposi compensativi che ogni tre settimane cadono in giorni infrasettimanali

sempre diversi. Il sistema viene giustificato dall’impresa e dal sindacato con la necessità di ripartire

equamente i riposi compensativi e gli incentivi salariali per il lavoro notturno e il sabato tra tutti i

lavoratori. In realtà è stato adottato perché costituisce “un buffer di lavoro disponibile per sopperire

ad eventuali mancanze di personale o per sostenere momentanei picchi produttivi mediante il

ricorso agli straordinari”.

Questa situazione provoca per i lavoratori - come osserva Vitale, che analizza l’ambiente

circostante l’insediamento industriale - una “destrutturazione/ristrutturazione delle routine

quotidiane”. Essa impone interventi sul comprensorio dove lo stabilimento è insediato, per

contenere le conseguenze delle relazioni sociali contraddittorie tra chi è in fabbrica e chi è fuori.

A questo obiettivo l’impresa ha già prestato attenzione con assunzioni fatte non sulla base di

competenze ma sulla disponibilità alla flessibilità e sull’accertamento del consenso sociale a questa

disponibilità. Ha poi avviato, in collaborazione con le istituzioni locali, iniziative finalizzate a

diffondere nuovi codici normativi improntati all’ideologia dello ‘sviluppo locale’. Essa fa della

crescita economica un ‘affare territoriale’ e “un fine collettivo, attorno a cui viene riorganizzata la

socialità diffusa” (Vitale). A questo fine vengono subordinate le condizioni dei lavoratori, il cui

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stress tende ad essere confinato nel campo non generalizzabile dell’esperienza individuale. Le

resistenze perciò non hanno una forza d’urto capace di produrre un ‘senso comune’ diverso. D’altra

parte, investendo il campo dei bisogni relazionali dei lavoratori, esse non sono riassorbibili dalla

nuova socialità.

L’analisi di queste trasformazioni porta a concludere che il greenfield non esiste ma viene

prodotto in quanto spazio di operatività sociale della produzione snella. “Ogni cambiamento di fase

- conclude Vitale sottolineando le differenze della fase attuale rispetto a quella fordista - è segnato

dall’emergere di un nuovo modello produttivo, la cui implementazione dipende dalla messa in opera

di tutta una serie di dispositivi di disciplinamento e normalizzazione degli operai per adeguarli -

contro le resistenze - alla nuova organizzazione del lavoro. Ciò significa che la forza lavoro

immessa nei nuovi processi produttivi deve essere ogni volta prodotta come ‘verde’”.

I dispositivi disciplinari nella fabbrica snella

“Cellularizzazione intensiva” è stato definito il risultato del processo di riorganizzazione del

lavoro nella fabbrica nella forma di microcellule produttive, per distinguerla dalla “cellularizzazione

estensiva” alimentata dai processi di outsourcing che disarticolano la forza lavoro (Fiocco). I

dispositivi strutturali e relazionali analizzati - senza una pretesa esaustiva - riguardano la fabbrica

nel suo insieme, i rapporti tra le cellule, e la forza lavoro all’interno delle cellule.

Tre sono i dispositivi strutturali analizzati da Fiocco: il kanban, il panottico elettronico, e il

team. Analiticamente hanno funzioni disciplinari diverse. Il primo definisce l’ordine processuale

determinato dalla divisione in cellule; il secondo definisce la qualità del lavoro; il terzo il modo in

cui il lavoro deve venir svolto. Attraverso un continuo flusso di informazioni sullo stato del sistema,

rapportano le attività agli obiettivi produttivi.

Entro questo contesto strutturale sono stati studiati altri dispositivi che operano a livello

comunicativo-relazionale. Si tratta - per lo stabilimento automobilistico - delle relazioni sociali

interne al team; dello Human Resource Management, che nell’applicazione a Melfi si realizza con

un complesso di pratiche discorsivo-relazionali definito da Commisso “fluidificazione del

comando”; e delle relazioni sindacali studiate da Oliveri. Queste ultime rafforzano il quadro

disciplinare perché si pongono programmaticamente l’obiettivo di prevenire i conflitti in fabbrica.

L’insieme dei dispositivi strutturali e di quelli comunicativo-relazionali tende a realizzare un

disciplinamento partecipativo in cui, con Foucault, l’anima diventa la prigione del corpo. L’analisi

separata dei diversi dispositivi fatta nel corso della ricerca è conseguenza della divisione del lavoro

tra ricercatori. Riflette inoltre una sorta di processo cumulativo di singole acquisizioni conoscitive -

a partire dal dispositivo panottico-elettronico di Sewell e Wilkinson (1992) e dal dispositivo

partecipativo di Linhart (1995) - che ha indotto ad usare il termine dispositivo anche per gli altri

sistemi di disciplinamento di cui via via si è occupata la ricerca.

La separatezza analitica tra dispositivi strutturali e dispositivi comunicativo-relazionali ha

posto finora solo marginalmente il problema teorico del loro rapporto e della loro diversa efficacia.

Mentre i primi trasmettono la forza impersonale delle norme tecnico-produttive e non consentono

piani di riflessione diversi da quelli della razionalità strumentale presieduta dal management, i

secondi si sottraggono a questi limiti, e non solo perché intervengono quando si tratta di prevenire o

sanare disfunzioni che depotenzierebbero l’efficacia dei dispositivi strutturali. Rileva infatti

Commisso che “la comunicazione ha come propria caratteristica peculiare l’inscindibilità dalle

persone (…) e quando mette in rapporto soggetti tra loro diversi, proprio perché la diversità

concerne il vissuto individuale più profondo, non può essere esaustivamente ridotta al linguaggio

dell’integrazione produttiva”.

I dispositivi analizzati devono essere però considerati come elementi di un puzzle che serve

ad offrire una visione d’insieme delle relazioni strutturali e relazionali che governano la fabbrica

come campo di potere. Si è assunto che i singoli tasselli abbiano una efficacia cumulativa, anche se

questo potrebbe far sfuggire eventuali contraddizioni tra l’operatività disciplinare dell’uno e

dell’altro. Non si sono ancora analizzate le resistenze rispetto ad ogni dispositivo, anche se la

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concezione foucaultiana di disciplinamento avrebbe probabilmente imposto di farlo. Infine non tutti

i tasselli importanti sono necessariamente individuati. Per esempio l’analisi del sistema tempi e

metodi all’interno della fabbrica fatta da De Angelis sembra definire, in una prospettiva

foucaultiana, un altro dispositivo strutturale assolutamente rilevante. E Commisso rileva

esplicitamente che il sistema di autocertificazione – che sta però fuori dal suo campo di analisi –

opera da dispositivo panottico, “da meccanismo impersonale di controllo che colloca ciascun

lavoratore in un campo di costante visibilità ma produce anche effetti di verità; permette cioè di

punire (controllare, misurare e correggere i comportamenti non conformi) sulla base di una norma,

misura dell’adeguatezza, che è percepita come oggettiva e neutrale”.

Sembra d’altra parte riduttivo limitarsi a definire i dispositivi all’interno della fabbrica

automobilistica, sia perché questa è solo il punto di convergenza di una molteplicità di filiere

produttive, sia perché, nel rapporto con l’ambiente esterno, il sistema di produzione just in time è

profondamente diverso da quello fordista.

Sul primo versante, dell’integrazione delle attività produttive, Pulignano pur senza parlare di

dispositivi mette in evidenza la forza disciplinare che esercita il just in time sui lavoratori delle

imprese che alimentano la Sata, tanto da contestare – come già aveva anticipato in un lavoro

precedente (Pulignano, 1997) - la consistenza di una lettura incentrata sulla mera dipendenza

contrattuale tra committente e fornitore. Sul secondo versante il disciplinamento si realizza

attraverso la costruzione del greenfield. “La nostra ricerca mostra – afferma Vitale – come il

greenfield non esista come tale e come invece sia in atto il tentativo di produrlo come spazio sociale

locale di operatività del capitale, impegnato nell’implementazione di un nuovo paradigma

produttivo”.

Con questa premessa, che riprenderemo nelle conclusioni, esaminiamo di seguito brevemente

uno ad uno prima i dispositivi strutturali e poi quelli relazionali. Successivamente esamineremo la

problematica relativa agli effetti del disciplinamento e alle resistenze, che nelle ricerche è presente,

ma non sistematicamente sviluppata.

I dispositivi strutturali. Il kanban è considerato come dispositivo disciplinare specifico della

cellularizzazione intensiva, in quanto riguarda i rapporti tra le unità di lavoro finalizzati alla

realizzazione del flusso produttivo. Il kanban - che lo stesso Ohno ha definito “forza autonoma della

linea produttiva” - è costituito da segnali visivi, auditivi e cartacei. Questi segnali hanno funzioni

comunicative tra cellule produttive, in quanto indicano il fabbisogno di semilavorati di quelle

situate a valle. Se si passa dal piano dell’organizzazione a quello del disciplinamento essi veicolano

informazioni relative ai comportamenti che sono necessari per mantenere in processo la

connessione tra le cellule. La fonte di queste informazioni si situa nelle cellule a valle, così

occultando gli ordini della direzione. I lavoratori sanno che l’obiettivo produttivo è stabilito da essa,

ma nella prassi lo sentono come imperativo oggettivato nella struttura materiale e organizzativa del

flusso.

Il dispositivo panottico elettronico - già messo in evidenza da Sewell e Wilkinson (1992) - è

costituito da un sistema di monitoraggio molto pervasivo che ha obiettivi di controllo sull’efficienza

dell’organizzazione e realizza effetti disciplinari a livelli diversi. Una funzione generale è realizzata

dai display elettronici disseminati nella fabbrica, che consentono di vedere in tempo reale lo stato

della produzione. “Ognuno sa quindi, in ogni momento, l’eventuale scarto tra l’obiettivo da

realizzare e la realtà, ma sa anche che ciò significa che deve attivarsi per ‘risolvere il problema’. Se

l’autoattivazione non scatta autonomamente, cioè se i lavoratori resistono al comando veicolato dal

sistema informativo, l’apparente oggettività dei dati rilevati dal display diventa un’arma usata dai

capi UTE per indurre, via premi di produzione e discorsivamente, l’aumento del flusso della

produzione” (Fiocco, 1998: 78).

Se il kanban “veicola l’apparenza dell’inversione del processo direttivo, per cui ogni cellula

sembra dover produrre just in time perché c’è un fabbisogno operativo a valle - sostiene Fiocco - il

dispositivo panottico elettronico tende a produrre un’abitudine mentale a fare ciò che si deve fare

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rispondendo a dei segnali”. “Il risultato cumulativo - aggiunge Fiocco - è che il lavoratore tende ad

attribuire al segnale stesso il potere di imposizione delle regole del proprio agire, come accade a

un’operaia della verniciatura (a cui il ‘vuoto’ con la cellula successiva è segnalato da una sirena),

che durante un’intervista esclama arrabbiata: quella maledetta sirena, una volta o l’altra la

distruggo”.

Il disciplinamento realizzato da questi due dispositivi strutturali opera attraverso flussi di

informazioni. Anche le modalità disciplinari del team sono definibili a livello strutturale. Su di esse

si innestano – come poi vedremo - modalità relazionali del tipo di quelle che Linhart aveva

qualificato come ‘dispositivo partecipativo’ (1995: 98). Sono infatti le relazioni imposte dalla

struttura cellulare, che definiscono il campo di visibilità in cui il lavoratore opera e che lo

informano su come deve operare.

Nell’integrazione delle diverse attività produttive il team si basa su mansioni che prevedono,

oltre all’operazione primaria, altre incombenze: il controllo di qualità, la prevenzione dei guasti, la

manutenzione dei propri strumenti e la soluzione di problemi non proceduralizzabili.

L’assegnazione dei compiti nel team, pur rispettosa - in generale - delle mansioni, viene mantenuta

fluida per rispondere alle mutevoli esigenze del flusso. Questo impone una forma di cooperazione

indipendente dalla finalità dell’agire individuale, che ha dunque origine strutturale, anche se nella

letteratura “il potenziale sinergico del team tende ad essere assunto quale prodotto

dell’autoattivazione volontaria dei suoi membri” (Fiocco).

I dispositivi relazionali. Si è appena detto che il team implica l’autoattivazione come

normalità strutturale. Tuttavia la determinazione delle pratiche individuali quotidiane di

autoattivazione non può che realizzarsi nel team e rispetto ad esso, ed ogni scostamento individuale

da quello che - pur non essendo routinizzato - viene considerato comportamento disciplinato

provoca conseguenze su tutto il team. Perciò all’interno del team viene esercitata una stretta

sorveglianza informale. Questa “finisce per determinare la formulazione di criteri normativi di

comportamento individuale che, non essendo stabiliti in maniera autoritaria e gerarchica dal

management di fabbrica, appaiono come se fossero libera espressione del gruppo stesso” (Caputo).

Questa pressione sociale è una forma di disciplinamento di tipo relazionale, e può essere esercitata

dai pari perché la sua fonte disciplinare originaria - come si rilevava sopra con riferimento

all’analisi di Fiocco - è strutturale.

Il disciplinamento manageriale si basa invece su una esplicita asimmetria di potere finalizzata

alla riproduzione di un ordine definito strutturalmente, a cui gli stessi managers si adeguano. Nella

letteratura ci sono posizioni divergenti circa le funzioni che questo disciplinamento - nella forma

dell’Human Resource Management - deve avere nella produzione snella. Da un lato si assume che

può essere soft perché il lavoro in team coinvolge gli individui, dall’altro che deve invece essere

hard perché il processo produttivo è vulnerabile. Entrambe le posizioni trascurano il fatto che il

controllo sul lavoro viene in primo luogo esercitato strutturalmente, e che la funzione disciplinare

dell’Human Resource Management è di sostenere l’efficacia dei dispositivi strutturali di fronte

all'emergenza della soggettività (Fiocco).

Proprio in questa prospettiva sembra operare il dispositivo di ‘fluidificazione del comando’

attentamente studiato da Commisso, così definito trasponendo il termine di Ohno di ‘fluidificazione

del lavoro’. I rapporti tra capi e operai sono caratterizzati da pratiche discorsivo-relazionali, in

modo tale che il comando fluisca nella forma di relazioni interpersonali, apparentemente svincolate

dal ruolo. Un sistema di contrappesi nei ruoli di comando operativo tendono inoltre ad eliminare

arbitrarietà nell’esercizio del potere, e a far vedere che il conseguimento di soluzioni eque è

possibile se congruenti con gli obiettivi produttivi. L’efficacia normalizzante della fluidificazione

del comando è data dal fatto che ogni forma di resistenza individuale o collettiva è affrontata come

se si trattasse di una normale disfunzione operativa del lavorare insieme per un fine comune.

Anche l’attività del sindacato - di cui Oliveri analizza la collocazione istituzionale e la prassi

alla Fiat di Melfi - opera in questa direzione. Sul piano dell’organizzazione del lavoro la sua

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funzione, esercitata attraverso i rappresentanti di fabbrica, è di rilevare problemi che riguardano i

lavoratori, per risolverli entro un sistema negoziale che funziona come una sorta di appendice al

dispositivo di fluidificazione del potere. Sul piano disciplinare ha la funzione di rafforzare la logica

partecipativa, assumendo che nella produzione snella non ci possono essere spazi conflittuali perché

tutte le forze devono convergere nella tutela del flusso produttivo vulnerabile.

L’analisi di Oliveri conferma i rilievi ormai generali relativi alle nuove fabbriche

automobilistiche a produzione snella, secondo cui è il management a regolare l’attività sindacale in

fabbrica (cfr. ad esempio per la Gran Bretagna Danford, 2000; per il Sud Africa, Barchiesi, 2000;

per la Corea Chung, 2000), e che questo rapporto è stato concordato come condizione di

insediamento. D’altra parte l’accettazione dei sindacati di questi patti finalizzati si è generalizzata

nei diversi paesi, facendo venir meno le ragioni di competitività che il management aveva avanzato

per ottenere migliori condizioni di sfruttamento del lavoro (per una analisi a livello europeo cfr.

Hancké, 1999).

Le resistenze al disciplinamento

In sintesi, i vari tasselli analizzati dalla ricerca consentono di mettere in evidenza che il potere

è iscritto nella struttura e nelle relazioni comunicative orizzontali e verticali, che hanno come

obiettivo in fabbrica il coinvolgimento dei lavoratori, al fine di risolvere con la flessibilità delle

prestazioni lavorative la rigidità dell’organizzazione produttiva. Se tuttavia l’attività disciplinare

deve essere intesa, con Foucault, come rapporto sociale, resta ancora molto lavoro da fare per

esplorare il campo dei suoi effetti e quello delle resistenze.

Nella letteratura il campo degli effetti va dalla ‘subordinazione strategica’ dei lavoratori

(Burawoy, 1985: 10) all’identificazione con il lavoro e l’impresa. Nel primo caso i comportamenti

sono strumentali rispetto a salario, incentivi, sicurezza del posto o carriera, e cambiano se cambiano

le condizioni che li determinano. Nel secondo caso sono fini a se stessi, capaci persino di

capovolgere il segno delle contraddizioni tra lavoro e non lavoro: “I dipendenti non sono

preoccupati perché gli imprenditori vogliono più lavoro; le loro principali preoccupazioni

riguardano il fatto che i loro corpi, i loro bisogni sociali, le loro incapacità, o le loro famiglie non

consentono loro di lavorare meglio. Il nemico non è più costituito dalle aspettative dei managers”

(Deetz, 1998: 166).

La problematica degli effetti del disciplinamento non è stata però oggetto di specifica

attenzione nel lavoro su Melfi. Rischia infatti di dare troppa importanza a elementi superficiali e

contingenti, anziché cogliere le contraddizioni che si sviluppano a partire dai rapporti sociali di

produzione e che producono resistenze.

Le forme di resistenza al disciplinamento all’interno della fabbrica erano già state analizzate

da Fiocco, con riferimento ai dispositivi strutturali operanti a Melfi. Erano stati definiti tre fronti di

emergenza dell’antagonismo, intendendo come tale il processo in cui il lavoratore si fa soggetto di

una propria prassi contro i vincoli imposti. Un primo fronte di resistenza è quello della micro

conflittualità che crea tensioni sociali interne alla cellula produttiva. Il dispositivo di fluidificazione

del potere fa sì che le resistenze tendano ad essere trasposte in disfunzioni operative, tuttavia dalla

negoziazione individuale i lavoratori imparano a negoziare direttamente, senza delega. Il secondo

fronte è quello delle resistenze tacite. “Il non prestare attenzione a quello che si fa, il non essere lì

con la testa, il fare il meno possibile, lo sperare che la linea si fermi rappresentano una prima

dislocazione della soggettività antagonistica contro le regole del gioco” (Fiocco, 1998: 84); si tratta

di forme di resistenza immediata o di resistenza riflessiva, ma nel complesso non c’è

consapevolezza di un antagonismo. Il terzo fronte, infine, è quello che denota l’emergenza di un

soggetto collettivo, attraverso forme di rifiuto cosciente dell’identità imposta, che produce

comportamenti di rottura del flusso produttivo.

Questo tentativo di analizzare le resistenze ha incontrato alcuni limiti. In primo luogo le

resistenze, da un punto di vista foucaultiano, dovrebbero poter essere riferite ai diversi dispositivi;

l’identificazione analiticamente autonoma di un dispositivo rispetto ad altri è infatti possibile

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quando c’è un dispiegamento di attività disciplinari specifiche che agiscono su resistenze

specifiche. In secondo luogo, di fronte ad una moltiplicazione ad libitum dei dispositivi interni ed

esterni alla fabbrica si pone il problema di una ridefinizione dell’approccio analitico basato non più

su dispositivi ma sull’individuazione dei punti nodali del diagramma di disciplinamento postfordista

segnato dai processi di cellularizzazione intensiva ed estensiva. In terzo luogo occorre considerare

che non è più solo la fabbrica il luogo delle resistenze, e che è necessario ricercarle anche al di fuori

di essa.

Questi limiti hanno stimolato riflessioni e analisi. Si sono particolarmente arricchite nel

confronto con ricercatori, esterni al gruppo di lavoro su Melfi, che si sono occupati di altre realtà

industriali automobilistiche, come Sewell e Stewart, i cui contributi sono contenuti in questo

volume. Le loro posizioni riflettono la contrapposizione esistente entro la cultura anglosassone tra

coloro che si rifanno a Foucault e coloro che si inseriscono nel filone della Labour Process Theory

di derivazione marxiana. Una contrapposizione vissuta con disagio da coloro che si occupano di

Melfi, che hanno presente la necessità di affrontare le problematiche della produzione snella con

strumenti e concetti diversi anche se non contrapposti da quelli della Labour Process Theory

sviluppatasi con riferimento all’operaio massa della fase fordista.

Stewart sostiene che il problema fondamentale pratico e teorico per far fronte alla lean

production è di confermare la centralità del concetto di operaio collettivo contro l’emergenza di un

approccio individualista. Le implicazioni pratiche derivano dalla necessità di opporsi al nuovo

sindacalismo orientato ai bisogni e alle aspettative individuali in netta alternativa all’azione di

classe. Egli sostiene con energia la tesi che nella produzione snella i lavoratori mantengono un forte

radicamento nell’esperienza di classe indipendentemente dalle modalità della loro frammentazione,

e si fa forte del fatto che le azioni e le intenzioni del management veicolano sempre e comunque

contraddizioni e conflitti.

“L’esperienza di un duro lavoro in un duro panorama industriale – scrive Stewart – è qualcosa

che ogni lavoratore sperimenta in comune con altri lavoratori. Azioni collettive possono quindi,

essere messe in atto se i sindacati si fanno carico, ad esempio, dei bisogni delle lavoratrici quando

fanno turni di lavoro anti-sociali, o dei problemi dei lavoratori infortunati, che sempre più le logiche

lean tendono ad escludere dal lavoro”. Si tratta di adeguare l’azione collettiva, il collectivism

fordista, alle mutate condizioni produttive, riorientandola verso un new collectivism, e quindi di non

abbandonare il campo alla retorica dell’individualism prodotto di una egemonia culturale fondata

sulla produzione snella, che occulta le contraddizioni e le resistenze.

Questa tensione pratica alimenta la polemica verso i foucaultiani perché, nel tentativo di

cogliere la specificità delle relazioni di potere in fabbrica, rimarrebbero invischiati nell’analisi delle

microconflittualità, anziché operare sul fronte delle resistenze, organizzate e no, in fabbrica e fuori.

La critica non riguarda il fatto che mancano di una prassi con cui colmare i vuoti teorici, ma che

hanno un approccio che rende relativamente agevole individuare i meccanismi del potere ma non le

forme di resistenza. In questo modo il ricercatore si concentra sul disciplinamento, e vede il potere

come dominio realizzato, invece che come processo che tende ad assoggettare le resistenze;

indirettamente legittima quindi l’egemonia della produzione snella.

Si può dire, guardando all’esperienza del gruppo di lavoro su Melfi, che questa critica non è

infondata. Infatti solo avendo presente la centralità storica dell’operaio collettivo è stato possibile

superare l’unilateralità dell’approccio iniziale incentrato sul disciplinamento, e porsi in maniera

organica - in una ricerca che è lungi dall’essere conclusa - il problema delle resistenze.

L’importanza è spiegata da Fiocco: “Le resistenze costituiscono il fondamento cognitivo su

cui è possibile ancorare quello che Althusser, rifacendosi esplicitamente a Foucault, ha chiamato la

lettura sintomale del modo in cui gli attori percepiscono la realtà in cui vivono. Senza questo

fondamento che permette di cogliere i vincoli soggettivi alla produzione materiale e le

contraddizioni nella produzione di senso quali ‘sintomi’ di relazioni di potere da disoccultare, è

impossibile comprendere il contesto normato della prassi produttiva e sociale quotidiana”.

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Il riferimento ai vincoli soggettivi rimandano all’antagonismo, come processo con cui il

lavoratore diventa soggetto delle proprie pratiche, superando i limiti che gli sono imposti nel luogo

di lavoro. Questo concetto di soggettività fonda la problematica delle resistenze e si contrappone a

quello che, spesso con lo stesso termine, definisce l’adesione all’ordine imposto - il commitment -

come autoespressione del lavoratore. La contrapposizione tra soggettività e commitment aiuta da un

lato a far luce sulle innumerevoli mistificazioni relative ad una supposta liberazione del lavoratore,

che con la produzione snella sarebbe passato dalla condizione di operaio massa a quella di operaio

artigiano, maturo per conquistarsi un nuovo orizzonte partecipativo all’interno di gruppi di lavoro

polivalenti; dall’altro anche a far chiarezza rispetto a quelle teorizzazioni che assumono che la

produzione snella coinvolgano intellettualmente i lavoratori. A Melfi i loro movimenti sono

racchiusi in tempi ciclo che arrivano al massimo a due minuti. Le prestazioni sono perciò

caratterizzate normalmente da ritmi intensi e ripetitività, che possono essere intensificate per

recuperare volumi produttivi, e che sono soggetti a revisioni secondo la logica del miglioramento

continuo.

Sewell, concordando che occorre elaborare una teoria delle resistenze, mette l’accento sul

fatto che l’ideologia della lean production riesce a far passare come irrazionali molte manifestazioni

tradizionali di resistenza. Suggerisce perciò di leggere le nuove espressioni della soggettività, in

particolare sul terreno comunicativo/relazionale: per esempio l’uso dell’ironia per demistificare la

retorica della produzione snella, o delle informazioni per rivendicare miglioramenti, e così via.

Vitale mettendo in evidenza lo sconquasso che l’organizzazione produttiva snella provoca sui

rapporti sociali fuori dalla fabbrica solleva implicitamente il problema delle resistenze alla

colonizzazione dei tempi sociali da parte delle nuove logiche di valorizzazione, e queste pongono

problemi nuovi rispetto al tentativo di definire e gerarchizzare i fronti delle resistenze abbozzato da

Fiocco.

Resta comunque del tutto aperto, anche con questa concentrazione della ricerca sulle

resistenze, il problema che riguarda il posto storicamente occupato dall’operaio collettivo.

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Laura Fiocco

I dispositivi strutturali di potere in fabbrica e i loro effetti normalizzanti

Introduzione

La Sata rappresenta un momento significativo della trasformazione della Fiat verso il post-

fordismo. La sua progettazione ha funzionalmente recepito i principi organizzativi della lean

production (Womack et al., 1993) adattandoli alle potenzialità e ai vincoli peculiari del proprio

processo di ristrutturazione. Il risultato, definito dal management Fiat quale Fabbrica Integrata, è un

complesso assetto produttivo e un sofisticato sistema organizzativo capace, afferma Magnabosco,

uno dei suoi “padri fondatori”, di produrre i propri anticorpi. Per questo l’analisi della sua struttura

organizzativa ha una portata che trascende il caso particolare, in quanto rende possibile capire le

specificità e le dinamiche del comando sul lavoro post-fordista.

L’ipotesi metodologica che ha guidato l’analisi è che la comprensione della forma

organizzativa e gestionale della produzione snella deve essere affrontata con nuovi strumenti

concettuali, e che quelli elaborati da Foucault rappresentano un contributo estremamente efficace.

Su questa base vedremo in particolare come il concetto di dispositivo di potere (o dispositivo di

normalizzazione) possa essere applicato ai principi operativi dell’ohnismo. Ai fini di questo lavoro i

dispositivi di potere possono essere concepiti come disegni architettonici, meccanismi operativi,

tecnologie di distribuzione spaziale, temporale e sociale degli individui (e il sapere che

presuppongono e veicolano) che, nel mentre strutturano funzionalmente un dato contesto (fabbrica,

scuola, ospedale, prigione, ecc.), lo costituiscono quale spazio disciplinare. Questo spazio ha

l’efficacia di “una macchina per creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che

lo esercita” per cui gli attori sociali, anche coloro su cui il potere si esercita, “sono presi in una

situazione di potere di cui sono essi stessi i portatori” (Foucault, 1976: 219). La sua efficacia

disciplinare, o come direbbe Foucault il suo “effetto di potere”, è dovuta al fatto che induce

determinati comportamenti quotidiani che tendono ad essere assunti dagli attori (produzione di

senso) quale normale ordine delle cose (effetto normalizzante).

Useremo dunque la strumentazione concettuale di Foucault per analizzare la forma del potere

in Sata. L’iter espositivo è articolato in tre parti. Nella prima, che comprende i due paragrafi iniziali,

vengono sinteticamente affrontate le tappe del processo che dalla destrutturazione della fabbrica

fordista ha portato alla progettazione della Sata e si forniscono alcune indicazioni del contesto

organizzativo dello stabilimento. La tesi che guida l’analisi è che la ristrutturazione post-fordista

della Fiat, così come quella delle altre imprese, trae origine dalla crisi di governabilità degli anni

Sessanta e Settanta. Il risultato complessivo è stato la destrutturazione dell’operaio-massa e la

ricostituzione del comando sul lavoro tramite la realizzazione di un processo di cellularizzazione

della forza lavoro. Il concetto di cellularizzazione connota la forma specifica del dominio post-

fordista sul lavoro, individuabile sia nella dispersione spaziale e separazione giuridica della forza

lavoro occupata in unità produttive più o meno piccole integrate tra loro (costellazioni di impianti,

filiere di fornitura, attività connettive di trasporto e comunicazione, servizi alle imprese e così via);

sia nella separazione organizzativa all’interno dei singoli stabilimenti in microcellule (team di

lavoro). Chiameremo la prima cellularizzazione estensiva, e la seconda cellularizzazione intensiva.

Nella seconda parte, che comprende il terzo e il quarto paragrafo, si spiega come i principi

organizzativi della produzione snella operino quali dispositivi di potere. L’analisi è focalizzata su

tre dispositivi che operano congiuntamente rafforzandosi reciprocamente: il dispositivo di

cellularizzazione iscritto nell’organizzazione del lavoro in cellule produttive relativamente

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autonome organicamente integrate (team di lavoro); il dispositivo panottico elettronico (Sewell e

Wilkinson, 1992) iscritto nella strumentazione elettronica su cui si basa la gestione operativa del

processo di fabbricazione; il dispositivo kanban (Fiocco, 1997) iscritto nell’organizzazione della

produzione just in time. Il primo è stato pensato a partire dalla tesi di Linhart (Linhart, 1995)

secondo cui il team di lavoro opera immediatamente quale dispositivo partecipativo; nella

rielaborazione qui proposta il lavoro in team è invece uno dei meccanismi che veicolano la

partecipazione (commitment).

Nella terza parte viene affrontato quello che sembra essere il principale limite della

teorizzazione dello Human Resource Management (HRM): coloro che adottano questo approccio

tendono a dare per presupposto che il coinvolgimento dei lavoratori, il commitment nella sua

accezione generale, sia il prodotto immediato del HRM; in questo modo si precludono la possibilità

di cogliere i dispositivi “strutturali” che producono commitment. D’altra parte, coloro che

sostengono la tesi del work control tendono a sottovalutare l’efficacia della nuova forma gestionale

del HRM. L’ipotesi che guida l’analisi è che il commitment è il risultato in divenire dell’effetto

d’insieme dei diversi dispositivi di potere inscritti nella struttura materiale e organizzativa del

processo produttivo (cellularizzazione, panottico, kanban), e che in questo contesto normato la

gestione delle risorse umane rappresenta la modalità operativa adeguata a affrontare l’emergenza

dei bisogni e delle resistenze, individuali e collettive, dei lavoratori. In altri termini, l’HRM, nella

sua applicazione pratica da parte dei line managers, opera quale meccanismo di riproduzione

dell’efficacia dei dispositivi strutturali a fronte dell’emergenza quotidiana delle resistenze e delle

tensioni sociali che tendono a disoccultarli e disarticolarli.

Infine, per concludere il discorso vengono esplicitati alcuni problemi teorici connessi

all’ipotesi metodologica secondo cui la strumentazione concettuale elaborata da Foucault può essere

efficacemente utilizzata per capire la fabbrica post-fordista.

Dalla fabbrica fordista alla fabbrica integrata: destrutturazione e cellularizzazione della forza

lavoro

Lo stabilimento Sata, progettato all’inizio degli anni Novanta, rappresenta il risultato di un

lungo processo di destrutturazione e riorganizzazione che Fiat Auto ha sperimentato a partire dalla

fine degli anni Sessanta per far fronte alla crisi di governabilità della fabbrica fordista. Le tappe di

questo processo possono essere sintetizzate cogliendo tre diverse direttrici: il decentramento

produttivo, l’automazione e la riorganizzazione del lavoro in “isole di montaggio”. Inizialmente la

sperimentazione di queste tre diverse strategie si è articolata l’una in concomitanza all’altra, solo

verso la seconda metà degli anni Ottanta si è andata configurando la possibilità di integrarle in un

quadro d’insieme, la cui logica, letta a posteriori, è la stessa che ha guidato le altre imprese

automobilistiche del mondo verso la produzione snella (Womack et al., 1993; Boyer et al., 1998;

Durand et al., 1999). La progettazione dello stabilimento di Melfi è avvenuto nel momento in cui

questo quadro d’insieme si andava ormai consolidando, per cui nella struttura fisica e organizzativa

è iscritto tutto il sapere innovativo di un percorso di resistenze e aggiustamenti ventennali.

Il decentramento produttivo può essere concepito sia come localizzazione decentrata di nuovi

investimenti sia come scorporo e esternalizzazione di parti del processo lavorativo a imprese terze.

Il primo connota la rete delle imprese Fiat disperse sullo spazio globale (de-localizzazione); il

secondo rimanda all’articolazione della fornitura (deverticalizzazione). Cumulativamente, si traduce

in de-concentrazione e disarticolazione della produzione, ossia in un processo di destrutturazione

della fabbrica fordista. Realizzato inizialmente quale risposta immediata all’esigenza di far fronte

alla concentrazione della massa operaia diventata ingovernabile, diventerà presupposto materiale e

cognitivo della strategia di strutturazione dell’assetto produttivo post-fordista.

Alla fine degli anni Sessanta i dipendenti Fiat in Italia erano circa 170000, in gran parte

localizzati nell’area torinese; e gli stabilimenti di Mirafiori e Rivalta contavano rispettivamente oltre

55000 e 19000 addetti (Guidi et al., 1974). Per avere l’idea delle differenze intervenute negli ultimi

decenni basti considerare che Mirafiori e Rivalta hanno oggi rispettivamente circa 16000 e 5000

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addetti, e che lo stabilimento di Melfi, progettato per impiegare a pieno regime 7000 addetti, è

attualmente considerato un insediamento di grandi dimensioni.

È opinione diffusa che queste trasformazioni siano state causate dall’inasprirsi della

concorrenza a seguito della crisi del petrolio del 1974 e dalle mutate esigenze dei consumatori.

Questa tesi, che nega la radice sociale del fenomeno, non considera che già alla fine degli anni

Sessanta la Fiat elaborò un massiccio programma di investimenti nel sud d’Italia e all’estero

(SVIMEZ, 1993).

All’inizio degli anni Ottanta il processo di deverticalizzazione aveva raggiunto dimensioni

considerevoli. Mentre la rete delle imprese Fiat si andava sempre più decentrando rispetto a Torino,

circa la metà del valore dell’auto veniva prodotto dalle imprese di fornitura (contro il trenta per

cento dell’inizio del decennio precedente e il sessantatre della Sata). Per tutti gli anni Ottanta la Fiat

ha portato avanti questo processo gestendo direttamente la miriade di imprese di fornitori, il cui

numero crescente comportava, evidentemente, grossi problemi gestionali, per cui diventava sempre

più pressante l’esigenza di dare un nuovo assetto organizzativo alla fornitura. La soluzione del

problema è stata la sostituzione della struttura orizzontale della fornitura con una nuova struttura a

filiere (Pulignano, 1997). Questa venne realizzata attingendo all’esperienza che dal Giappone si

stava estendendo alle imprese automobilistiche occidentali, ossia con la creazione di fornitori

capifiliera cui venne demandato l’onere di consegnare just in time componenti complessi pronti per

l’assemblaggio, e, quindi, di gestire le relazioni con le altre imprese a monte nelle diverse filiere di

produzione.

Il nuovo assetto che si andò delineando è una rete di stabilimenti Fiat distribuiti sullo spazio

globale, tra i quali quelli in cui avviene l’assemblaggio finale dell’auto si configurano quali centri

nodali di imprese di fornitori articolate in filiere. Ogni centro nodale con le proprie filiere

costituisce un processo produttivo integrato, di cui i singoli stabilimenti costituiscono le unità

sinergiche. Il legame operativo attraverso cui è realizzata l’integrazione è dato dall’esigenza di

assicurare il flusso della produzione dell’impresa assemblatrice. Il nuovo assetto muta anche la

natura dei fornitori. Questi, a differenza del passato, non sono più le piccole imprese dell’indotto. Si

tratta ora, almeno al primo e al secondo livello delle filiere, di imprese multinazionali che

localizzano funzionalmente piccoli stabilimenti sul territorio in rapporto alle esigenze della

produzione dei committenti. Chi sperava che l’insediamento di Melfi avrebbe prodotto la crescita di

un tessuto di piccole imprese industriali locali, come era successo con Mirafiori, non aveva tenuto

conto, evidentemente, di queste trasformazioni.

Se si considera che questo stesso processo non era isolato alla Fiat, ma stava investendo

l’intero tessuto produttivo industriale e non solo quello dell’automobile, possiamo cogliere i

mutamenti intervenuti nel giro di due decenni. La forza lavoro, che prima era concentrata in

megastabilimenti, è ora racchiusa in unità produttive di piccole dimensioni separate giuridicamente

e spazialmente, ma integrate tra loro dall’imperativo di assicurare il flusso della produzione. Ogni

stabilimento configura una cellula del processo produttivo complessivo, dislocata sul territorio sulla

base di scelte di localizzazione che investono e sussumono le comunità locali definendo i parametri

della possibilità di inclusione.

Contemporaneamente a questo processo, fin dagli inizi degli anni Settanta venne messa in atto

una strategia generale di automazione, ma vennero anche sperimentate, per far fronte alle resistenze

operaie e sotto la pressione sindacale per la realizzazione del job enrichment e della cosiddetta

umanizzazione del lavoro, alcune “isole di montaggio”. Quest’ultima strategia abortirà in Fiat sul

nascere (mentre diverrà la scelta chiave del modello “neoartigianale” della Volvo), ma alcuni dei

suoi meccanismi gestionali saranno rielaborati in forma completamente nuova con la creazione

delle UTE (Unità Tecnologiche Elementari).

Inizialmente l’innovazione tecnologica è stata realizzata a “macchia di leopardo”: una serie di

sistemi robotici sono stati progettati e applicati a parti puntuali del processo produttivo. Solo negli

anni Ottanta, con la realizzazione della linea di produzione del motore Fire (Termoli 3) si è arrivati

a linearizzare sistemi produttivi automatizzati. Ma a questo punto la strategia che puntava sull’alta

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automazione ha palesato i suoi limiti. Il problema - lo dimostra il quasi collasso di Termoli 3 nel

momento in cui si è cercato di utilizzare l’impianto alle sue potenzialità tecniche - era, alla lettera,

quello di far funzionare un impianto altamente automizzato che era materialmente capace di

processare un elevato mix di prodotti ma che non aveva il “produttore adeguato” per farlo.

Il processo produttivo linearizzato a alta automazione si presentava estremamente vulnerabile

a ogni più piccola disfunzione. Gli operai erano stati addestrati a operare quali conduttori di

impianti, ma l’organizzazione entro cui erano posti era ancora quella tradizionale basata sulla

separazione delle funzioni, per cui, per dirla con le parole dell’ingegner Pagana, responsabile di

Metodologie Organizzative del Lavoro di Fiat Auto, l’insieme di coloro che continuavano ad essere

posti come lavoratori diretti e indiretti gestiti con i vecchi criteri organizzativi, “nemmeno con tutta

la buona volontà, riuscivano a tirare fuori la produzione. (...) Se non gli cambiavamo la logica, era

solo gente affaticata che non riusciva a tirar fuori le cose” (in Bonazzi, 1993: 161). Per risolvere il

problema, “abbiamo dovuto abbandonare lo stabilimento tradizionale dove manutenzione,

fabbricazione, gestione materiali, qualità, tutti ottimizzavano se stessi e magari ci riuscivano, ma a

scapito del sistema” (ibidem). Il risultato è stato la sperimentazione delle UTE, con la conseguente

riorganizzazione, ancora embrionale, del lavoro di produzione e di quelli che erano gli enti di staff.

L’UTE (qui descritta nella forma compiuta realizzata in Sata) è una cellula produttiva, nel

senso che è organizzata e gestita in modo da operare come un’unità sinergica. Fisicamente, cioè

rispetto al layout dell’impianto, divide il processo di fabbricazione in segmenti relativamente

autonomi interconnessi just in time, mentre organizzativamente è costituita da un capo UTE che

coordina l’attività di un numero limitato di lavoratori, le cui capacità lavorative devono essere tali

da far fronte alle esigenze operative del segmento di processo cui essi afferiscono. Sotto

quest’ultimo profilo l’UTE è definibile come un team di lavoro eterodiretto da un capo UTE, il

quale è ufficialmente parte della gerarchia manageriale. Il team di lavoro configura un lavoratore

collettivo che comprende non solo le abilità manuali, ma anche i saperi taciti e le conoscenze

tecniche, quali le tecnologie di impianto e di processo, la manutenzione, il controllo qualità e la

movimentazione dei materiali.

Alcune di queste capacità lavorative sono appannaggio di figure specifiche come il tecnologo,

il manutentore e il rifornitore, organicamente integrati nelle UTE ma che interfacciano gli enti da

cui provengono ossia l’ingegneria-manutenzione e la logistica. Tuttavia, anche gli operai di linea ne

sono portatori; i loro ruoli ufficiali sono infatti definiti in modo da allargare i confini delle

mansioni. Oltre alle attività manuali delle diverse postazioni dell’UTE di appartenenza o di altre

UTE - per cui possono essere distribuiti quotidianamente sulle diverse postazioni in base a schemi

di rotazione o scelte gestionali contingenti, oppure “prestati” a altre UTE - a ciascun operaio è

prescritto il controllo della qualità, la piccola manutenzione ordinaria degli strumenti, l’attenzione ai

segnali deboli di malfunzionamento degli impianti, la pulizia della postazione, e da ultimo, ma non

meno importante, l’attivazione in caso di bisogno per risolvere eventi e problemi non

proceduralizzati.

La realizzazione delle UTE ha implicato un radicale mutamento dell’organizzazione del

lavoro, della composizione della forza lavoro e dei rapporti sociali interni alla fabbrica. E questo

processo innovativo si coniuga con quello prodotto dalla strategia di deverticalizzazione. Se con la

disgregazione dei mega-stabilimenti e la riorganizzazione della fornitura si era arrivati alla

cellularizzazione estensiva dei lavoratori distribuendoli nelle unità produttive delle filiere del

processo produttivo complessivo e quindi separandoli spazialmente e giuridicamente; con la

creazione delle UTE vengono cellularizzati anche all’interno dei singoli stabilimenti. Il diagramma

di localizzazione della forza lavoro si presenta perciò nella forma di microcellule (team di

lavoro/comunità di gruppo) inserite in macrocellule (stabilimenti/comunità d’impresa), che a loro

volta sono inserite in spazi locali (contesti sociali/comunità locali) dentro contesti nazionali e

regionali posti nello spazio globale (mercato mondiale/comunità globale). Questo nuovo diagramma

di localizzazione configura una nuova tecnologia di normalizzazione dei lavoratori e della

popolazione.

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In definitiva, la progettazione e realizzazione della Sata (Fabbrica Integrata) è il risultato di un

processo che per destrutturare l’operaio massa ha prodotto in un primo tempo il layout della

Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), un impianto snello (deverticalizzazione), strutturato nella

forma di un processo produttivo linearizzato e flessibile a tecnologia avanzata (automazione). Ma

questo, proprio perché era il risultato del processo di destrutturazione, non poteva funzionare senza

la costituzione di un nuovo lavoratore collettivo. Il vincolo era dato dal fatto che non si trattava più,

semplicemente, di organizzare “scientificamente” il modo di usare corpi umani quali ingranaggi

flessibili di un mostro meccanico, come nella fabbrica fordista, bensì di integrare cervelli umani ad

una struttura robotica vulnerabile a ogni più piccola disfunzione causata sia da usura o

malfunzionamento delle macchine sia dalle resistenze dei lavoratori. La continuità della produzione,

dentro la nuova struttura, presupponeva una nuova organizzazione del lavoro e nuove modalità di

gestione, nonché l’intervento sistematico e puntuale di tecnici dedicati, collocati là dove ce n’era

bisogno, cioè nei reparti e non nella palazzina degli uffici.

Naturalmente, il come lo si è realizzato non era predeterminato dalla configurazione materiale

della Fabbrica ad Alta Automazione: il sistema tecnologico pone dei vincoli, il modo in cui

vengono superati è una questione di scelte tra soluzioni possibili. E su questo hanno evidentemente

giocato le esperienze dell’Ohnismo e il modo in cui queste sono state rielaborate dalle imprese

occidentali. Non è affatto casuale che il termine UTE sia lo stesso in Fiat e alla Renault e che la loro

strutturazione interna sia molto simile (Freyssenet, 1999); e che, inoltre, il linguaggio corrente in

Sata usi gli stessi termini - in gran parte mediati dal toyotismo - che la letteratura specializzata

internazionale usa per descrivere l’organizzazione di stabilimenti di altre imprese. Anche se

esistono delle differenze nelle diverse situazioni, di fronte allo stesso problema di governabilità

della fabbrica ciascuna impresa ha messo in atto strategie analoghe che hanno portato alla

integrazione dei processi di deverticalizzazione, automazione e riorganizzazione del lavoro,

arrivando a un nuovo assetto materiale e sociale della produzione la cui configurazione è stata

denominata lean production (Womack et al, 1993).

Questo processo innovativo non è ancora terminato. Si va infatti estendendo, in Sata come

altrove, nella forma della terziarizzazione dei servizi (amministrazione contabile, logistica,

manutenzione, ecc.); del lavoro interinale; e della modularizzazione. La specificità della “fabbrica

modulare” (Sivini, 1999) sta nell’attribuire a imprese terze l’onere degli investimenti fissi e della

gestione di parti del processo produttivo (come la verniciatura, la lastratura o pezzi della linea di

montaggio) all’interno di un unico stabilimento. In tutti e tre i casi gli addetti di uno stesso

stabilimento sono posti sotto il controllo giurico-contrattuale di attori diversi. Questo ulteriore

sviluppo prefigura una tendenza in cui la casa madre si costituisce nella forma della fabbrica

virtuale pur mantenendo il controllo strategico e il governo del sistema (il modello Benetton). La

fabbrica modulare rappresenta una modalità di realizzazione della cellularizzazione estensiva in

contesti in cui lo scorporamento fisico dell’intero processo produttivo non è materialmente possibile

o economicamente non conveniente.

La struttura dell’impianto e la sua organizzazione

La Sata si colloca dentro la rete produttiva di Fiat Auto e a sua volta è baricentro di filiere di

fornitori. Rispetto a Fiat Auto lo stabilimento di Melfi rappresenta, dal punto di vista finanziario,

una fonte di profitto, mentre sotto il profilo gestionale è uno dei nodi di smistamento del flusso

degli ordini dei clienti (consumatori) tra gli stabilimenti attrezzati a fabbricare i modelli della Punto

(Melfi, Mirafiori, Termini Imerese) e della Lancia Y (Melfi). In Sata gli ordini vengono processati

in una serie di programmi sempre più ravvicinati nel tempo fino ad arrivare alla programmazione

quotidiana che definisce il mix (modelli e optional) di auto da produrre per ciascun turno. La

ridefinizione dei programmi è man mano segnalata ai fornitori via computer. Per quelli localizzati

vicino allo stabilimento i termini di consegna, con la specifica della sequenza del mix richiesto,

diventano esecutivi nel momento in cui la scocca in Sata arriva all’assemblaggio. A partire da quel

momento (in gergo, il momento della diffusione) ciascun fornitore ha un lasso di tempo, chiamato

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“tempo finestra”, per adeguare il flusso della propria produzione e delle proprie consegne a quello

dell’assemblaggio in Sata.

Il processo produttivo della Sata parte dalle lastre di laminati con cui si faranno le scocche e si

snoda fino ad arrivare - dopo poco più di 21 ore (tempo di attraversamento), se tutto funziona senza

problemi – all’auto pronta per essere consegnata ai clienti. Dal momento in cui la scocca viene

formata in lastratura essa circola con l’indicazione del nome del destinatario e di quali sono gli

optional richiesti.

Adiacente allo stabilimento Sata ci sono, attualmente, 22 stabilimenti di fornitori

(prevalentemente capifiliera) che costituiscono il Consorzio dei fornitori, da cui affluiscono just in

time la maggior parte (in termini di valore) dei componenti pronti per essere assemblati. Il

complesso produttivo è collocato nella piana di San Nicola di Melfi, circondato per chilometri da

prati e campi, connesso con il territorio da raccordi stradali e ferroviari costruiti ad hoc.

Il flusso della produzione interno allo stabilimento si articola sequenzialmente in 4 Unità

Operative (UO): stampaggio, lastratura, verniciatura, montaggio, che a loro volta sono suddivise in

Unità Tecnologiche Elementari (UTE), così distribuite: 2 nell’Unità di stampaggio, 7 in lastratura, 5

in verniciatura e 17 al montaggio.

Le dimensioni delle UTE sono maggiori di quelle dei team di lavoro di altre imprese

automobilistiche (Durand et al., 1999). Esse comprendono, infatti, una decina o poco più di

lavoratori nei segmenti a alta automazione, da 20 a 90 al montaggio, e più di 100 alla UTE 6 della

lastratura. Per far fronte alle dimensioni allargate il capo UTE è coadiuvato - in un rapporto, rispetto

agli operai, che va da uno su dieci a uno su trenta - da CPI (Conduttori Processi Integrati),

formalmente inquadrati come operai, che hanno la funzione di risolvere i problemi operativi

quotidiani dell’UTE, inclusa la gestione del personale. Sotto quest’ultimo profilo funzionano, in

pratica, da vice capi e da cuscinetto delle tensioni tra gli operai e i Capi UTE.

A partire dalla lastratura (allo stampaggio si lavora per piccoli lotti), la logica iscritta nel

layout è quella di un sistema di produzione a flusso monopezzo, il che significa che il processo è

linearizzato e che tendenzialmente dovrebbe operare, se non sorgono problemi, a zero scorte e zero

difetti. Operare a zero scorte vuol dire connettere just in time la produzione di ogni UTE a quella

successiva.

Salvo al montaggio, in cui il livello di perfezionamento della strumentazione robotica non è

ancora sufficientemente sviluppato da sostituire esaustivamente gli operai o da permettere standard

di qualità/rendimento accettabili, il resto del processo è altamente automatizzato. Allo stampaggio

ci sono quattro presse a trasferta con set up esterno: gli stampi dei pezzi da produrre vengono

predisposti su basamenti posti a lato della cabina delle presse (lunga una decina di metri) mentre

questa è in funzione, e il cambio viene effettuato facendo uscire sull’altro lato il basamento

precedente quando viene immesso quello nuovo. Il tempo di cambio-pressa si aggira sui 360

secondi, mentre con le presse tradizionali era nell’ordine delle ore, e se qualcosa non funzionava si

potevano impiegare giorni. Dal che si può capire come oggi sia economicamente fattibile produrre a

piccoli lotti. In lastratura, 223 robot Comau svolgono pressoché tutte le operazioni di formazione

della scocca. Alla verniciatura, a parte alcune operazioni come la sigillatura (per evitare le

infiltrazioni) e la revisione (togliere i difetti), tutto il resto è automatizzato.

Dal momento in cui si è formata la scocca in lastratura, il layout è stato progettato in modo

che il flusso delle auto in produzione proceda su due linee uguali e parallele. Le UTE tagliano le

linee in segmenti e ciascuna UTE è responsabile di entrambe le linee (salvo le UTE 5 e 6 del

montaggio, ciascuna delle quali governa una linea dello stesso segmento). Attualmente (primavera

2000) una delle due linee produce i diversi modelli della Punto, mentre l’altra intervalla la Punto

con la Lancia Y, ma non ci sono vincoli tecnici nel distribuire diversamente il mix di prodotto. Al

montaggio, sulle due linee convergono i flussi dei componenti che arrivano dalle filiere di fornitura

pronti per l’assemblaggio. Solo alcuni sottogruppi come la plancia porta strumenti, la meccanica

completa di traversa anteriore e posteriore, le porte complete di interni, vengono preassemblati

all’interno. L’impianto è stato snellito di tutto ciò che era tecnicamente possibile scorporare.

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L’organigramma prevede cinque livelli gerarchici, contro i quattordici (sette responsabili più

sette vice) degli anni Settanta. Ogni Unità Operativa è posta sotto la responsabilità gestionale di un

capo Unità, il cui superiore gerarchico è il direttore dello stabilimento. Sotto il capo Unità sono

collocati il responsabile della gestione tecnica del processo con il suo staff di tecnici e ingegneri, e il

gestore operativo che è il superiore gerarchico dei capi UTE. A differenza dei loro superiori, i capi

UTE sono distribuiti per turno, perciò una stessa UTE ha tre diversi capi UTE, ciascuno con il

proprio team.

La capacità produttiva teorica è di 1600 auto al giorno con un totale di 7000 addetti.

Attualmente, la produzione giornaliera effettiva si aggira sulle 1460 con 6598 addetti, di cui circa

300 interinali. Il tempo di attività dell’impianto è di 6 giorni alla settimana, su 3 turni giornalieri di

7 ore e 15 minuti, intervallati da 45 minuti. Tra un turno e l’altro interviene la squadra dei

manutentori per fare la manutenzione preventiva o produttiva delle macchine; le pulizie dei circuiti,

delle cabine di verniciatura, e così via. Ma questo lasso di tempo può anche essere utilizzato - entro

i vincoli degli accordi contrattuali - per il lavoro straordinario.

L’orario di lavoro è di 7 ore e 45 minuti, comprensivo della pausa fisiologica individuale (da

contratto: 20+20 minuti) e di 30 minuti retribuiti per pausa mensa a fine turno. Le modalità di

gestione della pausa individuale sono demandate ai capi UTE i quali le regolano in base ai rapporti

di potere interni all’UTE. Infatti le pause - così come le rotazioni tra le postazioni, i permessi

individuali retribuiti (PIR) e gli straordinari - rappresentano elementi di tensione su cui si instaura

una negoziazione continua tra gli operai e i capi all’interno delle UTE. In genere le soluzioni di

ciascuna UTE tendono ad essere routinizzate, finché non sorgono tensioni tali da richiedere una

modifica della formula negoziata. Ma situazioni contingenti pressoché quotidiane - quali il numero

degli assenti, le fermate (cui contrattualmente segue un aumento del 10 per cento della velocità

della linea), una distribuzione non equilibrata degli operai sulle postazioni, problemi di qualità o di

movimentazione dei materiali, insomma tutto ciò che può impedire il “normale” fluire della

produzione - si traducono in problemi operativi che il capo UTE tende a trasferire sugli operai

mutando flessibilmente le regole, in nome della necessità di assicurare il flusso a valle. Per contro,

gli operai giocano sulle esigenze fisiologiche reali o presunte.

La formula organizzativa della Sata è stata concepita in modo da porre le UTE quali centri

focali del sistema, delegando le responsabilità gestionali della produzione ai capi UTE e, nel

contempo, assicurando alle UTE il sostegno collaterale dei tecnici specialistici delle Unità

Operative cui queste afferiscono. Il capo UTE, per dirlo nei termini della Fiat, “svolge un ruolo più

imprenditoriale e meno gerarchico: deve assicurare la costante coerenza della attività della UTE con

quelle dell’Unità Operativa in cui essa è collocata, e sapere delegare e motivare i collaboratori, che

sono i primi realizzatori della nuova logica di gestione basata sulla prevenzione, sulla qualità del

processo, sul buon funzionamento degli impianti” (Fiat Auto: 17).

Il controllo del sistema e la misura della capacità del capo UTE di governare il potenziale

sinergico della cellula produttiva di cui è responsabile è stato realizzato ponendo l’UTE come unità

di costo oltre che di produzione, per cui ciascun capo UTE ha un budget entro cui operare le sue

scelte, e degli obiettivi da raggiungere condensabili in quattro punti: livello del servizio, qualità del

prodotto, costi competitivi, controllo organizzativo delle risorse umane.

I costi vengono calcolati in base al costo complessivo dei fattori coinvolti nella gestione dei

singoli segmenti del processo. Questo modo di calcolare i costi non è privo di conseguenze.

Prendiamo ad esempio il modo in cui lo fanno i giapponesi. Come osserva Bonazzi (1993: 51) -

sintetizzando i risultati di una ricerca di Williams, Mitsui e Haslam in vari reparti di stampaggio di

diverse case automobilistiche – i giapponesi “non misurano il costo totale di produzione del lotto

ma si concentrano su sofisticate misure della performance fisica centrata sul numero di colpi/ora per

uomo. Tali misure consentono di evidenziare il costo del lavoro e spingono a continue riduzioni di

manodopera”. Se lo compariamo con la Sata abbiamo invece che nella rilevazione del costo

complessivo dei fattori per UTE la tensione verso la diminuzione del costo del lavoro è incorporata

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nel rapporto uomo/macchina in processo; per cui l’enfasi è posta più sulla governabilità delle

criticità che sul costo-tempo del lavoro.

Ciò significa che questo modo di calcolare i costi misura le capacità dei capi UTE di

assicurare il governo della forza lavoro, dentro i vincoli e le potenzialità dell’Unità Tecnologica

affidatagli. Ciò che ciascun capo UTE deve gestire è, infatti, la “potenzialità” della costituzione dei

fattori produttivi in un processo di valorizzazione. Dopo aver sperimentato l’ingovernabilità della

fabbrica fordista e i vincoli operativi del layout linearizzato a alta automazione, è diventato evidente

che quello che viene comunemente chiamato processo produttivo non è un dato: la sua realizzazione

come processo si dà solo in presenza di un’organizzazione capace di governare il sistema e

mantenere il flusso nonostante le resistenze dei lavoratori. Di più, l’intelligenza gestionale e

esecutiva di ciascuna UTE deve essere orientata a proiettare asintoticamente (per usare

un’espressione di Bonazzi) il potenziale produttivo verso il “miglioramento continuo” (leggi:

diminuzione dei costi e aumento del rendimento/qualità contro ogni forma di resistenza individuale

o collettiva alla soluzione dei “problemi” potenziali o in atto).

La raffigurazione simbolica dell’UTE come impresa, di cui il capo UTE sarebbe

l’imprenditore, rende esplicita la sua natura di cellula gestionale. Il processo di innovazione

organizzativa - che inizialmente aveva costituito le UTE quale strumento per superare

pragmaticamente i limiti di governabilità delle varianze tecniche dell’alta automazione - aveva

lasciato non definito il confine tra le UTE e il resto della struttura. Mentre, da un lato, era evidente

che per far funzionare impianti tecnologicamente avanzati come quello di Termoli 3 era necessario

sia decentrare nel cuore della produzione l’ambito delle decisioni operative sia dotare le unità

decentrate delle capacità tecniche prima afferenti a servizi separati, non era invece ancora chiara la

distribuzione dei ruoli gestionali. Questa confusione era rafforzata dal fatto che l’UTE si stava

evolvendo a partire dalla squadra, per cui il capo UTE continuava ad essere percepito come un

caposquadra con un po’ più di potere (Bonazzi, 1993).

Con la formula adottata a Melfi, della UTE come impresa e del capo UTE come imprenditore,

si è resa esplicita la leadership, ma contemporaneamente si è innescato un dispositivo di potere che

tende ad occultare la fonte del governo del sistema. Nel porre le UTE come “unità imprenditoriali”

è possibile sostenere la loro autonomia, tanto da rendere fattibile (e credibile) il fatto che ogni UTE

tenga una propria contabilità calcolando i propri costi di produzione (incluso quello del “prodotto”

che “acquista” dalla UTE a monte), nonché i ricavi ottenuti dalla “vendita” del proprio “prodotto”

alla UTE successiva. In questo modo ogni UTE è posta come se fosse contemporaneamente cliente

e fornitore delle altre UTE, per cui i nessi che legano le cellule produttive tra loro sono dati nella

forma di rapporti mercantili. La retorica della mano invisibile del mercato si insinua così dal

mercato globale alle microcellule interne ai singoli stabilimenti.

La cellularizzazione in team di lavoro come dispositivo di potere

Linhart (1995) ha teorizzato l’effetto normalizzante del lavorare in team definendolo

“dispositivo partecipativo”. La sua analisi parte dal fatto che i gruppi di lavoro, i circoli di qualità, i

gruppi di ricerca e i gruppi ad hoc di vario tipo rappresentano una delle caratteristiche chiave

dell’organizzazione attuale delle imprese, e sostiene che essi veicolano una filosofia di rapporti

sociali consensuali, in quanto contribuiscono a far emergere l’idea che la fabbrica sia caratterizzata

dai suoi valori collettivi che configurerebbero una vera e propria comunità. Il risultato è “un

processo di pacificazione sociale, ottenuto attraverso la produzione dell’identità dei progetti e dei

fini dell’impresa con quelli dei salariati” (Linhart, 1995: 98).

Nel sostenere questa tesi Linhart si pone il problema di capire che cosa siano quelli che

vengono comunemente chiamati, indifferentemente, gruppi di lavoro o team di lavoro. Per coglierne

la natura eterodeterminata egli li distingue dai gruppi omogenei. Il gruppo omogeneo è un

neologismo coniato negli anni Sessanta per definire l’autocostituzione degli operai, di un reparto o

di una linea, in gruppo antagonistico (poi istituzionalizzato quale base della rappresentanza

sindacale). I membri di un gruppo omogeneo lavorano in uno stesso contesto e perciò sono messi in

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cooperazione tra loro dall’organizzazione del lavoro, ma il fine del loro costituirsi in gruppo non è il

lavorare bensì il resistere alle condizioni di lavoro imposte. Il gruppo omogeneo configura quello

che la sociologia definisce gruppo primario: una comunità di persone autodeterminata nella propria

costituzione e nei propri fini, e autodiretta nelle proprie scelte. Posta questa differenza concettuale,

Linhart sostiene che i “gruppi di lavoro” operano da dispositivi partecipativi in quanto appaiono,

senza esserlo, come “gruppi omogenei” il cui fine sarebbe identificabile con quello dell’impresa.

A questo punto, però, dobbiamo dare risposta ad una domanda che Linhart non si pone: come

fa un team eterodeterminato ad assumere la forma di un gruppo che condivide i fini dell’impresa? E

in particolare, come fa ad apparire in questa forma anche quando, come alla Fiat, è eterodiretto da

un capo UTE che appartiene ufficialmente alla gerarchia di fabbrica? La risposta più semplice a

questa domanda sarebbe di pensare che si tratta dell’effetto indotto da una sorta di indottrinamento

ideologico portato avanti da qualcuno che per propri scopi mistifica la realtà. Foucault insegna,

invece, che dobbiamo porci diversamente di fronte al potere. Se non diamo per presupposto che ci

sia qualcuno che opera coscientemente per non farci vedere le cose come stanno, la domanda

corretta da porci è quali siano i meccanismi che fanno sì che la realtà si presenti nella forma in cui

la vediamo. Sulla base dei risultati della ricerca a Melfi possiamo tentare una prima risposta a

questa domanda approssimandoci, almeno nei tratti essenziali, alla complessità diagrammatica della

fabbrica snella.

Abbiamo visto che una delle sue caratteristiche è l’organizzazione della produzione in cellule.

La cellularizzazione intensiva suddivide la fabbrica in piccole unità produttive in cui i lavoratori

sono messi in cooperazione in modo da costituire un’unita integrata. Ma il semplice fatto di lavorare

in cooperazione non li costituisce in un gruppo, ossia non conferisce al team di lavoro la forma-

gruppo.

Nella sua accezione generica, astorica, un’unità di cooperazione è un insieme di persone la cui

forza produttiva è maggiore della somma delle forze dei singoli componenti. In questo senso, gli

schiavi che hanno costruito le piramidi erano messi in cooperazione: senza la forza sinergica del

loro lavoro collettivo non avrebbero potuto sollevare blocchi di tali dimensioni. Un team di lavoro

produce, in ogni caso, delle sinergie; ma ciò che lo qualifica, che ci dice chi sono i soggetti

dell’azione e come si rapportano l’un l’altro, non sta nel semplice fatto di operare come un’unità

sinergica, bensì nel modo in cui si dà la loro unificazione. Pertanto, è la forma della cooperazione

che dobbiamo indagare per capire la specificità di quel team che Ohno ha metaforicamente

comparato a una squadra di baseball.

La forma della cooperazione è iscritta nella divisione del lavoro. I principi cardine su cui si

basa la divisione del lavoro in Sata sono: a) l’integrazione organica delle diverse funzioni (attività

manuale, presidio degli impianti, controllo di qualità, manutenzione, logistica), b) la

flessibilizzazione del lavoro nelle postazioni, e c) la rotazione degli operai tra le postazioni.

Per quanto concerne il primo principio, nel caso della Fiat di Melfi - dove queste funzioni

sono distribuite all’interno di ciascuna UTE tra lavoratori con ruoli diversi (addetti linea, conduttori

di impianti, tecnologi, revisionisti, manutentori, rifornitori) - l’integrazione è realizzata attribuendo

a ciascun ruolo dei compiti che prevedono l’intervento attivo dei lavoratori sui confini delle

mansioni e nella soluzione di problemi. Così ad esempio, i compiti dei conduttori, dei manutentori e

dei tecnologi ricoprono reciprocamente i confini l’uno dell’altro; ma anche gli addetti linea sono

inseriti in un complesso ambito multi-tasks. Quella che nell’organizzazione fordista era la mansione

operaia, ossia un compito ben definito e proceduralizzato - tanto che le piccole astuzie degli operai

nel svolgere la propria mansione dovevano essere tenute nascoste (Edwards, 1988; Bonazzi, 1993) -

è ora un insieme di compiti più o meno proceduralizzati che prevedono, oltre alle operazioni

manuali, anche il controllo di qualità; l’attenzione ai segnali deboli per la prevenzione di guasti

tecnici; l’intervento manutentivo ordinario sui propri strumenti; la “soluzione di problemi”.

Quest’ultima modalità di estensione dei compiti è quella meno proceduralizzabile. Essa comprende

anche l’intervento innovativo (l’inventarsi procedure diverse o trovare il modo di aggiustare un

guasto), ma essenzialmente si tratta di darsi da fare nel momento del bisogno, come ad esempio

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sostituire un compagno che va al gabinetto se il cambista non è disponibile, oppure aiutare qualcuno

che si “imbarca”, non riuscendo a sostenere il ritmo. In questo contesto anche le piccole astuzie e

l’aiuto reciproco sono state sussunte quali parti integranti i compiti di ciascuno e di tutti.

Il dato importante da considerare è che questo allargamento dei confini di ciascun ruolo è

imposto. Ciò significa che l’autoattivarsi è fare ciò che si deve fare: non si tratta di scelte autonome

come potrebbe far credere la definizione di Ohno secondo cui il team di lavoro “opera

armoniosamente per il bene comune”. L’operare armoniosamente, cioè produrre le sinergie

conformi alla produttività richiesta, è iscritto nell’integrazione organica dei ruoli, e quindi nella

forma imposta della cooperazione, a prescindere se la finalità dell’agire di ciascuno e di tutti sia

realmente o meno “il bene comune”. Se ciascuno fa ciò che è previsto che faccia, invece di

procedere “con la testa china e la mente altrove” (Womack et al., 1990), la cellula può esprimere

“armoniosamente” il proprio potenziale sinergico. Qui sta l’efficacia del “modello”: il potenziale

sinergico del team, una volta poste le condizioni dell’integrazione armoniosa dei compiti, è il

risultato dei comportamenti normali (dell’agire pratico-inerte, direbbe Sartre) dei suoi componenti.

Il secondo principio organizzativo che costituisce l’UTE quale cellula integrata è realizzato

attraverso la flessibilizzazione del lavoro sulle postazioni. Il segmento di processo di ciascuna UTE

è suddiviso in postazioni. Ciascuna postazione prevede delle operazioni da attuare entro il tempo-

ciclo, che è di 1.6 minuti su una linea e 2 sull’altra. Il tempo-ciclo è il lasso di tempo che intercorre

tra il passaggio di una scocca e quella successiva. La quantità di operazioni da attuare rappresenta il

carico di lavoro su quella postazione che viene definito dal servizio Analisi Fattori (direzione)

usando il cronometro come in passato, ma invece di essere rigido è flessibile. La flessibilità è data,

da un lato, dal fatto che, mentre alcune operazioni sono rigidamente sincronizzate perché devono

necessariamente essere fatte in successione, altre possono essere anticipate o posticipate. D’altro

canto, il carico effettivo aumenta se ci sono degli optional da inserire. Dentro questo quadro

flessibile si inserisce la gestione quotidiana: ad un operaio può essere assegnata una postazione con

un maggior carico di lavoro oppure più di una postazione, e se si “imbarca” perché gli arrivano una

serie di optional in successione, viene aiutato da chiunque sia disponibile, al limite rincorrendo la

scocca nelle UTE a valle. Questo gioco dei carichi di lavoro e dell’aiuto reciproco, che attiva le

sinergie del team tende a creare integrazione sociale: chi non ci sta può essere emarginato.

Il terzo principio - la rotazione degli operai tra le diverse postazioni - è un altro dei

meccanismi strutturali di integrazione della cellula produttiva. Tutte le UTE attuano la rotazione,

ciascuna con una propria formula. All’inizio tutti gli operai ruotavano su tutte le postazioni

dell’UTE in base ad un complesso schema a scorrimento fissato dall’alto, ma questa rigidità creava

tensioni, per cui è stato delegato ai capi UTE l’onere di gestirsela in base ai rapporti interni alla

propria UTE. Ma anche così è fonte di tensioni. Dal punto di vista degli operai la rotazione

dovrebbe compensare gli squilibri di stress e fatica esistenti tra le diverse postazioni, e, inoltre,

addestrare ciascuno ai diversi profili dando a tutti le stesse possibilità di promozione (cambista,

deliberista, CPI, capo UTE e così via), ossia dovrebbe essere uno strumento di eguagliamento delle

condizioni di lavoro e della mobilità verticale. In realtà il meccanismo è più sottile; il suo effetto è

la fissazione delle capacità e comportamenti normali a fronte dei non normali, rappresentati dagli

scansafatica, dalle donne e dai “limitati”. I “limitati”, questa terribile espressione gergale, sono

coloro che sono formalmente riconosciuti (certificazione medica) come incapaci di operare su tutte

le postazioni perché hanno qualche malattia (ernie, tendiniti, allergie, ecc.). Le donne sono

“limitate” rispetto alle postazioni più pesanti. Nel definire le esclusioni viene fissata la norma: “tu

perché ti lamenti, mica sei limitato”.

In definitiva, questo tipo di divisione del lavoro costituisce il team in una unità produttiva

collettiva, responsabilizzato a fare ciò che si deve fare, e se lo fa opera come un meccanismo

sinergico. Per questo configura di per sé uno specifico dispositivo di potere, a prescindere dalla

percezione soggettiva dei suoi componenti del perché le cose che si devono fare devono essere fatte.

La cellularizzazione intensiva rappresenta, per usare un’espressione di Giddens, il principio di

strutturazione del contesto operativo e sociale entro cui sono posti i lavoratori. Lo spazio

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disciplinare ha qui una connotazione diversa da quello fordista, che era strutturato secondo il

principio della localizzazione elementare: ad ogni individuo il suo posto, e in ogni posto il suo

individuo (Foucault, 1976: 155). Il diagramma disciplinare non è più caratterizzato da una

distribuzione parcellare dei corpi unificata dal sistema meccanico della catena di montaggio, bensì

dall’integrazione cellulare delle potenzialità corpo-cervello dell’insieme dei componenti l’unità

sinergica. La composizione della forza lavoro collettiva non è più seriale, anche se la distribuzione

dei ruoli per profili professionali continua a serializzarli in termini di capacità, qualifiche e salario.

La cellula produttiva può essere rappresentata come una Gestalt in processo.

È a partire da questo contesto che diventa possibile far sì che il team assuma la forma-gruppo

trasponendo la finalità imposta in scopo autoderminato. Ma questa forma di apparizione dei rapporti

sociali del team non è il prodotto immediato della cellularizzazione; è sostenuta strutturalmente da

altri dispositivi. Come vedremo fra poco, l’effetto combinato del kanban e del panopticon è il

tendenziale occultamento del “dover fare” (e, quindi, del “dover essere”) nella forma di un ordine

normale delle cose, che si impone ai componenti di ciascun team quale necessità di produrre just in

time un prodotto di qualità per assicurare il flusso a valle rispondendo a dei segnali. A partire da ciò,

l’assolvere ai propri compiti (inclusi quelli non proceduralizzati) si presenta come se fosse la

risposta pratica di ognuno all’imperativo del flusso, una necessità operativa che sembra coinvolgere

indifferentemente i lavoratori e i capi UTE.

In questo contesto, ogni resistenza a fare ciò che si deve fare - sia che si tratti di compiti

routinizzati o di interventi particolari, di operazioni manuali o di attività di prevenzione di guasti

tecnici, di movimentazioni di materiali o di monitoraggio dei flussi di componenti - disarticola

l’integrazione sinergica del team, per cui tende ad essere letta come un’anomalia che rompe il fluire

armonico della produzione. È per questo che l’adempimento dei compiti imposti sembra essere

espressione di scelte individuali invece che di un ordine eterodeterminato; e, di conseguenza, il

potenziale sinergico del team tende a essere assunto quale prodotto dell’autoattivazione volontaria

dei suoi membri e non del loro fare ciò che devono fare. In questo modo i componenti della cellula

sono posti in uno spazio disciplinare in cui tendono a percepirsi come membri di un gruppo la cui

finalità è assicurare la realizzazione del flusso, e in cui ciascun membro dovrebbe operare

“armoniosamente per il bene comune”.

I dispositivi kanban e panottico elettronico nel loro effetto cumulativo

I dispositivi kanban e panottico integrano e rafforzano gli effetti di potere della

cellularizzazione. Ciascuno, e cumulativamente, pone le cellule in un contesto normato più ampio,

quello della fabbrica nel suo complesso con le sue connessioni esterne. Il primo opera

soggettivando le finalità dell’agire produttivo in imperativo del flusso e dominio del mercato, il

secondo oggettivando la sorveglianza sugli attori nella forma di un ordine strumentale naturale:

normale condizione di funzionalità della fabbrica. Entrambi sono iscritti nel sistema informativo.

Data la sua struttura materiale e organizzativa, la produzione è resa possibile dai supporti

operativi elettronici e, in generale, dai flussi delle informazioni. Sotto questo profilo l’intera

fabbrica si configura come una macchina informativa che supporta i processi automatizzati di

fabbricazione, le interconnessioni tra le cellule produttive (macro e micro), la programmazione del

mix di prodotto, il calcolo dei costi, il controllo di qualità del prodotto, la gestione del personale.

Ciò fa si che il processo produttivo sia capillarmente monitorizzato e che attraverso il monitoraggio

sia possibile realizzare il controllo dei comportamenti delle persone.

L’intero stabilimento è disseminato di computer, attraverso cui la direzione e i capi, ai vari

livelli, possono vedere cosa accade in ciascun punto della linea. Ma oltre a questo c’è anche la

“gestione a vista”, i cui strumenti possono essere cartacei, visivi, auditivi.

In ogni UTE c’è uno spazio che funziona da ufficio per il capo UTE, attrezzato con qualche

tavolo su cui stanno dei computer collegati in rete, ma oltre a questo ci sono dei pannelli su cui sono

attaccati dei fogli di carta con i dati operativi e le verifiche statistiche per ogni turno, nonché le

indicazioni dei presenti e degli assenti, i “prestiti” di personale alle altre UTE, la prenotazione di

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coloro che vogliono usufruire dei permessi retribuiti, le indicazioni di chi farà lo straordinario e altri

dati simili, attraverso cui sono “visibili a tutti” i rendimenti e le disfunzioni dei turni, la

localizzazione dei singoli lavoratori, i loro profili e la loro “disponibilità”.

Tra gli strumenti cartacei c’è anche la check list, il buono di consegna tra un’UTE e l’altra (il

proprio cliente), che accompagna ogni scocca comunicando alle UTE a valle lo stato di

avanzamento della vettura in rapporto al controllo di qualità, oltre che le istruzioni specifiche degli

optional che dovranno essere applicati. Il controllo di qualità, interno all’UTE, è realizzato

attraverso l’autocertificazione e la delibera. La prima viene fatta dagli operai che dopo aver svolto

le operazioni di cui sono responsabili mettono il timbro di conformità oppure segnalano l’anomalia:

OK se tutto funziona (o se vogliono che funzioni: “mi dispiace, mi sono sbagliato, credevo che tutto

andasse bene”); KO se c’è qualche problema tecnico che non sono riusciti (o non hanno voluto)

risolvere. La seconda spetta al deliberista che alla fine del processo lavorativo di ciascuna UTE

controlla la qualità e delibera il passaggio della vettura all’UTE successiva.

Attraverso la check list è possibile risalire all’UTE e all’interno dell’UTE a chi è responsabile

del pezzo difettoso, ma contemporaneamente attorno all’autocertificazione si dipanano una

molteplicità di giochi di potere, inclusi i piccoli sabotaggi (che sono una prassi diffusa) finalizzati a

fermare la linea. Un esempio, tra i tanti, tratto da un’intervista:

Ogni tanto gli operai saltano qualcosa. Nessuno degli addetti alle postazioni più a valle si

accorge del difetto perché ognuno è attento a fare le sue operazioni. Soltanto nel momento in

cui la vettura arriva alla delibera, l’addetto si accorge del difetto. A questo punto si tratta di

decidere se mandare ugualmente avanti la scocca oppure se farla tornare indietro per il

recupero. Nella maggior parte dei casi il capo UTE decide per il recupero immediato e allora

bisogna bloccare la linea. Gli operai lo sanno e per questo lo fanno.

Tra gli strumenti visivi della gestione a vista ci sono quelli che i giapponesi chiamano andon,

una sorta di semafori disseminati lungo la linea, che permettono di conoscere che cosa succede a

monte e a valle di ciascuna UTE (tutte luci gialle significa il massimo della performance: ogni UTE

lavora al limite delle sue potenzialità). Inoltre ci sono dei display elettronici che per ogni UTE e per

ogni sistema automatizzato segnalano la produzione teorica (l’impostato) e quella effettivamente

raggiunta.

Alle presse e in lastratura ogni sistema automatizzato è monitorato oltre che dagli andon e dai

display dell’impostato anche da allarmi sonori, e in alcuni punti strategici della verniciatura e del

montaggio il vuoto a valle è segnalato da una sirena.

Questa complessa macchina informativa opera contemporaneamente da supporto operativo

della produzione e da strumento di potere. Ai fini della nostra analisi possiamo distinguere due

ambiti di azione del sistema di informazione: il primo connesso alla funzione generale di

sorveglianza (dispositivo panottico), l’altro alla modalità di realizzazione dell’interconnessione just

in time tra le cellule produttive (dispositivo kanban).

Il primo è stato teorizzato da Sewell e Wilkinson (1992) quale “dispositivo panottico

elettronico”. La loro lettura è esplicitamente mediata dalla produzione teorica di Foucault, il quale,

in Sorvegliare e punire (1976), definisce il “dispositivo panottico” come una tecnologia di

normalizzazione che gioca sul vedere senza essere visto e, contemporaneamente, sul sapere che c’è

un guardiano invisibile. La non visibilità del guardiano rende possibile il controllo anche senza una

sorveglianza continua, ma soprattutto produce l’effetto di far sparire il guardiano dalla coscienza

dell’individuo sottoposto a sorveglianza. Per cui le persone su cui si esercita il controllo tendono a

interiorizzare le norme di comportamento imposte come se fossero normali regole di esistenza.

L’ordine imposto tende a presentarsi nella forma di un ordine delle cose, una necessità funzionale; e

la normalità dei comportamenti come un valore da salvaguardare.

Sewell e Wilkinson sostengono che il concetto foucaultiano di dispositivo panottico è

applicabile al contesto della fabbrica snella. La produzione snella rende non solo possibile ma anche

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necessario mutare l’organizzazione gerarchica della fabbrica e il modo di esercitare il comando.

L’organigramma si snellisce accentrando il potere strategico nella direzione e appiattendo su un

numero esiguo di livelli gerarchici la gestione operativa della produzione. D’altra parte, il processo

produttivo è pervasivamente monitorizzato, per cui è possibile controllare ciò che accade in ogni

momento in ciascun punto della fabbrica attraverso i display elettronici o i computer disseminati

nello stabilimento. La tesi di Sewell e Wilkinson è che, data questa struttura, il monitoraggio

elettronico ha un effetto panottico. Rilevarlo significa prendere atto del fatto che la delega del

potere gestionale verso il basso non implica rinuncia al controllo del management; anzi, il controllo

è ancora più pervasivo di quello operato da guardiani in carne e ossa come accadeva nella fabbrica

fordista. Su questa base essi confutano l’idea che la fabbrica snella sia una comunità entro cui gli

uomini lavorano armoniosamente come un corpo cooperativo che si autoattiva per il bene comune;

e sostengono che l’ordine è realizzato, invece, attraverso l’interiorizzazione di norme imposte di

comportamento. Il risultato è una forma di comando che definiscono “management by blame”.

Per quanto riguarda il secondo ambito di azione del sistema di informazione, quello in cui è

iscritto il dispositivo kanban, dobbiamo tener presente che la linearizzazione della struttura

materiale della fabbrica fa si che il suo funzionamento possa essere realizzato solo se viene

assicurato il fluire dei prodotti in lavorazione, e che si tratta di un sistema altamente vulnerabile. La

sua segmentazione organizzativa in UTE (o più in generale in team di lavoro) flessibilizza le

condizioni di realizzazione della produzione, delegando alla gestione delle singole cellule l’onere di

assicurare la “normalità” del flusso e di far fronte a ogni possibile “anomalia” (incluse le resistenze

individuali e le tensioni collettive).

Il meccanismo che unifica operativamente i segmenti - costituendo realmente, praticamente, il

flusso - è dato da quello che Ohno ha chiamato “sistema kanban”. Esso funziona in modo tale che le

singole cellule produttive, poste materialmente in successione dal layout ma separate

organizzativamente, vengano operativamente legate tra loro just in time.

Per capire questa logica organizzativa deve essere chiaro che il movimento della linea è

preprogrammato, ma è tecnicamente possibile incrementarne la velocità oppure fermarla in un

punto qualsiasi del processo. Inoltre, la cellularizzazione, attribuendo autonomia operativa ai singoli

segmenti, fa sì che ciascuna cellula possa produrre quantità minori o maggiori di quelle necessarie a

valle. Ciò comporta che la linea può procedere non satura, perché si creano dei vuoti; oppure che,

dove sono stati previsti piccoli polmoni di salvataggio tra un’UTE e l’altra, si accumulano scorte

(immediatamente visibili: segnale di disfunzione). Per cui la linea, nella sua funzione di

convogliatore meccanico del prodotto in lavorazione, può essere rappresentata come una serie di

mini linee in successione (scandite dalle UTE) che trasportano la quantità di scocche che man mano

vi viene immessa. Il problema operativo chiave sta quindi nel regolare la portata e la continuità del

flusso.

La regolazione del flusso, e con essa la possibile saturazione relativa (in rapporto

all’organico) della linea, è data da due meccanismi: l’impostato e il kanban.

L’impostato è il termine gergale con cui in Fiat si designa l’obiettivo da raggiungere (quantità

di auto da produrre), programmato dalla direzione sulla base del potenziale produttivo dell’impianto

in rapporto agli addetti, ridefinito periodicamente (miglioramento continuo) dal servizio Analisi

Fattori via controllo dei carichi di lavoro sulle postazioni. Esso è segnalato da display elettronici,

visibili a tutti, che indicano la produzione teorica (l’impostato) e quella effettivamente raggiunta in

un dato momento e in un dato punto della linea. Per cui segnano lo scarto, minuto dopo minuto, tra

ciò che si sta facendo e ciò che si dovrebbe fare. Nella retorica aziendale l’impostato rappresenta gli

ordini dei clienti (consumatori) cui sono destinate le auto in produzione.

Il sistema kanban, in quanto sistema di informazione e principio organizzativo inventato da

Ohno, crea fattualmente la connessione just in time tra una cellula e l’altra attraverso l’uso di

segnali (andon, sirene, check lists) che indicano il fabbisogno a valle. Ma come ho dimostrato

altrove (Fiocco, 1997), esso si traduce in un raffinato dispositivo di potere, il cui effetto è

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l’occultamento sia del comando sul lavoro sia della natura dell’azienda quale meccanismo di

valorizzazione del capitale.

Il primo è occultato dall’apparente inversione della fonte del comando, per cui il tutto appare

come se ciascuna cellula a monte lavorasse per rispondere, just in time, alle esigenze operative di

quella a valle (definita come “cliente”), invece che essere spinta dal management. Il comando sul

lavoro si presenta così sotto forma di imperativo del flusso (realizzazione del just in time) in

risposta agli “ordini” dei clienti interni (le UTE). Inventato inizialmente come mezzo di

comunicazione che permetteva la sincronizzazione dei flussi dei pezzi da assemblare, il kanban si è

tramutato, per stessa ammissione di Ohno, in “forza autonoma della linea produttiva” (Ohno, 1993:

45).

Il secondo effetto occultante è un’estensione del primo, mediata da pratiche e relazioni

discorsive che comprendono, cumulativamente, la formazione al momento dell’assunzione, il

linguaggio interattivo quotidiano, nonché le modalità di gestione del personale e di risoluzione dei

microconflitti. Con esso l’ordine interno, quello finalizzato alla produzione di profitto, è dato nella

forma di un ordine funzionale alla produzione di cose (automobili) per soddisfare gli “ordini” dei

clienti-consumatori. La fabbrica nel suo complesso si presenta così come una struttura, funzionale e

neutrale, posta al servizio dei consumatori e governata dalla legge cieca del mercato, per cui i

lavoratori avrebbero gli stessi interessi dell’azienda nel far fronte ai mutevoli desideri dei

consumatori e alle condizioni di competitività.

Vediamo analiticamente come si arriva a questo risultato.

Nel libro Lo spirito toyota, Ohno introduce il concetto di kanban in un paragrafo il cui titolo è

“Pensare all’inverso”, e lo spiega nei termini seguenti. “Riflettendo a lungo su come realizzare il

just in time, e sapendo che la soluzione classica era inefficace, finii per provare a invertire il punto

di partenza del ragionamento. Solitamente la produzione è concepita come un flusso che va da

‘monte’ a ‘valle’, dalle stazioni iniziali fino ai montaggi finali, formando il corpo dell’automobile.

Ma se rovesciamo il punto di osservazione, possiamo concepire il processo produttivo come

un’operazione di prelievo che, partendo da ‘valle’, va a ‘monte’ per prendere solo i pezzi necessari

e solo nel momento in cui ce n’è bisogno. (...) Per rendere operativo un tale sistema all’interno di un

sistema produttivo composto di diverse fasi in relazione tra loro, è necessario far pervenire a

ciascuna stazione le necessità di quella posta a ‘valle’, in modo che sia chiaro cosa e quanto

produrre. Chiameremo l’insieme di queste informazioni, questo metodo di comunicazione, kanban,

cioè, semplicemente, ‘cartellino’ e lo applicheremo a tutte le relazioni che intercorrono tra i diversi

processi produttivi per indicare il quantitativo di produzione necessario” (Ohno, 1993: 9).

Fin qui non sorgono problemi. Per applicare il nuovo metodo organizzativo, ci dice Ohno,

basta pensare all’inverso, cioè concepire il processo produttivo quale risultato di una sequenza di

operazioni di prelievo da valle a monte. Fino a questo punto il sistema kanban è posto come sistema

di informazione e l’inversione del processo produttivo è data esplicitamente come una simulazione.

Ma le conclusioni che Ohno ci prospetta immediatamente dopo sono altre. “In questo modo si

riduce drasticamente anche la quantità necessaria di quadri dirigenti e intermedi, perché è il kanban

stesso a trasmettere le informazioni e a dirigere la produzione verso gli standard necessari” (Ohno,

1993: 10).

Non ci sono dubbi che il kanban, in quanto “cartellino”, trasmetta informazioni, ma come può

essere che un “cartellino” diriga la produzione? Evidentemente può farlo solo perché veicola una

modalità di comando (della direzione sui lavoratori). Il non vedere il comando - cioè scambiare la

simulazione per realtà - implica una serie di passaggi logici: fingere che il piano della produzione

sia veramente fornito dall’ultima stazione di assemblaggio; assumere che gli ordini-informazioni

delle stazioni a valle funzionino per loro natura come comandi che impongono a quelle a monte di

fare ciò che devono fare; e quindi pensare che la fonte del comando vada realmente a ritroso

(sistema pull invece che push). È esattamente quello che Ohno vorrebbe farci credere attraverso

quella che appare come una mera descrizione di come le cose funzionano operativamente.

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“Si parte dalla linea di assemblaggio finale che fornisce il piano produttivo, individua i

modelli di auto desiderati, le loro caratteristiche, i loro dati. Da questo punto di partenza il flusso dei

materiali è capovolto. Per fornire il materiale per l’assemblaggio, l’ordine parte dal processo finale

in direzione di quello iniziale, per andare a prelevare solo le componenti strettamente necessarie. In

questo flusso, inverso rispetto al metodo tradizionale, il processo produttivo va a ritroso, di stazione

in stazione: ogni stazione si rivolge alla precedente per chiederle i pezzi di cui ha strettamente

bisogno, nella quantità e nel momento necessari, e la stazione precedente dovrà produrre

esattamente quanto richiesto. Ogni legame nella catena del just in time è collegato e sincronizzato”

(Ohno, 1993: 9-10).

L’operatività del dispositivo si basa, innanzitutto, sull’assunto che l’ultima stazione

dell’assemblaggio finale “fornisca” il piano produttivo. Eppure tutti sappiamo che chi stabilisce

quante automobili dovrebbero uscire dall’ultima stazione per ogni turno, tutti i giorni, è fissato dalla

direzione. E non è nemmeno un segreto: non solo all’interno della fabbrica i display dell’impostato

sono visibili a tutti, ma anche solo entrando nella reception dello stabilimento la prima cosa che

appare agli occhi del visitatore è un tabellone, installato sul muro di fronte alla porta, su cui si legge

la produzione giornaliera prevista. Credo che nessuno potrà mettere in discussione il fatto che

esistano dei meccanismi di comando attraverso cui la direzione cercherà di raggiungere il potenziale

produttivo programmato, ma nel farsi coinvolgere in quel sofisticato meccanismo occultante che è

la fabbrica integrata, “l’osservatore” perde il filo che gli permette di ricondurre il pull dell’ultima

stazione al push della direzione.

Quest’ultimo, nel passo di Ohno sopracitato, è riconducibile all’evidenza operativa che “la

stazione precedente dovrà produrre esattamente quanto richiesto”. In quel “dovrà” c’è tutta la

potenza di un rapporto di dominio occultato nella forma della razionalità strumentale. Ogni

resistenza soggettiva è negata e assunta come disfunzione tecnica, ovvero è posta come se fosse un

problema oggettivo da risolvere (e per di più dagli stessi lavoratori). Se la spogliamo di tutto il suo

potere occultante questa organizzazione del processo produttivo si riduce ad una constatazione

molto semplice: dato che l’ultima stazione dovrebbe (dentro i rapporti di forza) produrre

esattamente quanto richiesto dalla direzione, ogni stazione a monte dovrebbe (superando le

resistenze) produrre esattamente quanto è strettamente necessario (zero scorte/zero difetti) nel

tempo stabilito (livellamento/saturazione).

In definitiva, l’indicazione di Ohno di “pensare all’inverso” non è un semplice espediente

operativo; il suo prodotto, ossia l’organizzazione del lavoro in cui si concretizza, induce a “vedere

all’inverso” la fonte del comando sul lavoro: la catena dei pull dei clienti/fornitori nasconde, sotto

forma di un ordine strumentale (e quindi oggettivo e neutrale), il push della direzione. Per cui il

sistema kanban, introdotto sperimentalmente quale mezzo per realizzare pragmaticamente la

sincronizzazione del just in time, si è tramutato in “forza autonoma della linea produttiva” e in un

efficace dispositivo di normalizzazione.

Il suo effetto normalizzante sui lavoratori è dovuto al fatto che tutto ciò che essi sperimentano

è che ciascuna UTE a monte deve rispondere alle necessità operative dell’UTE a valle, e che le

“richieste di prelievo” (luminose, sonore, cartacee) funzionano realmente, per loro, come dei veri e

propri ordini. Nell’esperienza pratica quotidiana dei lavoratori questa metamorfosi del sistema

informativo in dispositivo di comando, questo gioco tra ordini-informazione e ordini-comando, si

presenta nella forma della necessità di produrre just in time. Per cui l’imposizione dei ritmi di

lavoro, la prevenzione delle disfunzioni (incluse le resistenze e le tensioni soggettive) e il controllo

di qualità appaiano agli stessi lavoratori come se fossero il risultato della necessità (oggettiva e

neutrale) di assicurare l’arrivo, just in time, dei prodotti da lavorare alle UTE a valle. Il comando sui

lavoratori è, così, oggettivato nella struttura materiale e organizzativa (la linea divisa in cellule

integrate tra loro) e soggettivato in imperativo del flusso (produrre just in time).

Ma questo non è il solo effetto di potere del sistema kanban. Nella sperimentazione pratica

dell’ohnismo è diventato chiaro che il suo potenziale occultante poteva essere esteso

dall’imperativo del flusso all’imperativo del mercato, attraverso la trasmutazione di quello che era

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stato pensato come un sistema di comunicazione interno alla fabbrica, in un “sistema di rapporti

mercantili”. Bastava collegare (discorsivamente) l’ultimo anello della catena dei clienti/fornitori

interni - una volta posti organizzativamente come tali - con il cliente per antonomasia: il

consumatore. Se si assume che il primo anello della catena che “tira” la produzione è il

consumatore, diventa possibile sostenere che i lavoratori delle stazioni a valle tirano gli altri

lavoratori perché “devono” soddisfare le esigenze dei consumatori. In questo modo è risolto il

problema della neutralità dell’ordine interno, e la fabbrica nel suo complesso può essere

rappresentata come una comunità di persone che operano per il bene comune.

L’organizzazione del processo produttivo in Sata è particolarmente adeguata ad operare

questa estensione. La sua divisione in UTE, poste come unità imprenditoriali che acquistano e

vendono merci dalle e alle altre UTE, rende possibile sostenere il trasferimento della funzione di

comando dall’azienda al mercato, nella forma di “ordini” che dai clienti-consumatori risalirebbero

lungo la linea, senza soluzione di continuità, ai clienti-produttori (le UTE).

È evidente che la presunta dislocazione all’esterno del primo anello della catena che “tira” la

produzione fa del sistema kanban un dispositivo di governo della forza lavoro potenziato

ideologicamente. Il rafforzamento ideologico è dato dal fatto che “gli ordini del consumatore”

veicolano “la legge cieca della concorrenza”. Non solo, quindi, i lavoratori lavorerebbero “tirati” da

un consumatore dispotico invece che “spinti” dalla direzione, ma avrebbero anche gli stessi interessi

dell’azienda a soddisfare i clienti. In questo modo il “tubo di cristallo” si pone come uno specchio

che riflette l’immagine di una struttura posta al servizio del consumatore. Il dominio del capitale è

trasposto in dominio del consumatore, per cui la produzione appare come un mero mezzo per

produrre cose (automobili) invece che essere condizione di esistenza e di riproduzione del capitale.

Il risultato, in termini marxiani, è l’occultamento del processo produttivo come unità di processo

lavorativo e di valorizzazione, e di conseguenza si dà la negazione dello sfruttamento e della natura

antagonistica della fabbrica.

Marco Revelli ci fornisce un esempio - scelto tra i tanti, perché l’inversione del presunto

soggetto del dominio è posta in forma del tutto esplicita - di questa trasposizione ideologica. Nella

sua introduzione all’edizione italiana di Lo spirito toyota di Ohno si legge: “Il modello toyota

presuppone una sorta di rivoluzione copernicana al rapporto tra produzione e mercato: non è più,

ora, la fabbrica a fare il mercato, ma è questo - sono le sue volubili preferenze, gli oscillanti stati

d’animo del ‘cliente’ - a determinare struttura della produzione e scelte produttive. (...) Se nel

modello della produzione di massa il potere di decisione stava saldamente al vertice della catena

produttiva, nelle mani del gruppo di comando nel cuore dell’apparato produttivo, che programmava

le proprie scelte in base alla possibilità di un uso ottimale delle risorse tecniche e umane, qui la

facoltà di decidere o quantomeno di influenzare le scelte produttive anche nel breve periodo passa a

quell’entità astratta, invisibile che è il cliente, posta esattamente al capo opposto del processo

lavorativo, sul confine esterno della fabbrica, e di lì capace di dettare i propri tempi e le proprie

condizioni” (Revelli, 1993: XXIX).

Dato il duplice effetto occultante del sistema kanban, non c’è da meravigliarsi che Ohno

affermi: “i lavoratori possono iniziare autonomamente il loro lavoro e decidere la regolazione della

linea, l’orario ed - eventualmente - le ore di straordinario da effettuare”; e concluda: “Non è

esagerato dire che alla Toyota il kanban controlla il flusso delle merci, controlla cioè la produzione

di un’industria che realizza più di 4,8 miliardi di dollari di fatturato annuo” (Ohno,1993: 45). E che

Coriat, in Penser à l’envers (1991), sostenga che il sistema kanban rappresenta la più importante

invenzione organizzativa del post-fordismo.

In definitiva, sia il dispositivo kanban sia il dispositivo panottico sono iscritti nel sistema di

informazione, ma mentre il primo opera ponendo i lavoratori in un campo pervasivo di visibilità, il

secondo produce un effetto di occultamento inducendo gli operai (e i ricercatori) a “vedere

all’inverso” la fonte degli “ordini”.

I due dispositivi si rafforzano vicendevolmente. Se il kanban veicola l’apparenza della

necessità funzionale del proprio agire, il panottico tende a produrre un’abitudine mentale a fare ciò

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che si deve fare rispondendo a dei segnali. Il risultato cumulativo è che il lavoratore tende ad

attribuire al segnale stesso il potere di imposizione delle regole di comportamento, come accade a

un’operaia della verniciatura (a cui il “vuoto” con la cellula successiva è segnalato da una sirena),

che durante un’intervista esclama arrabbiata: “quella maledetta sirena, una volta o l’altra la

distruggo”.

In questo contesto disciplinare, persino l’impostato (la produzione programmata segnalata dai

display), che rappresenta il meccanismo in cui il comando è più evidente, tende ad essere percepito

in maniera contraddittoria. I lavoratori della Sata sanno, razionalmente, che l’impostato segnala il

numero programmato di automobili che sono tenuti a fare (la misura della loro fatica) e che questo

dipende dalla direzione e non dai clienti (consumatori); ma nella loro prassi quotidiana esso tende a

presentarsi come un dato: un segnale che comunica il comportamento normale da tenere (effetto

panottico) per assicurare la continuità del flusso (effetto kanban). La contraddizione immanente a

questa duplice attribuzione soggettiva di senso viene generalmente rimossa e razionalizzata

(pressoché da tutti gli operai intervistati) nella forma di una scelta irrazionale della direzione che

persegue l’obiettivo della quantità invece che della qualità. Nei termini di un operaio: “loro si

preoccupano solo della produzione. La produzione, sempre la produzione; così non possiamo fare

bene il nostro lavoro”.

È in questo contesto complessivo che sono collocate le cellule produttive e che il team di

lavoro può assumere la forma di un gruppo la cui finalità, presentandosi nella forma della necessità

di assicurare il flusso della produzione, può essere identificata (produzione di senso) con quella

dell’azienda (fare il proprio lavoro, e farlo bene per soddisfare i clienti-consumatori).

L’effetto cumulativo dei dispositivi analizzati (cellularizzazione, panottico, kanban) produce

uno spazio normato in cui tutti gli attori, inclusi i capi, vengono imbrigliati in un meccanismo

capace di “creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita” (Foucault,

1976: 219). Un operaio della Sata se lo rappresenta in questo modo: “Io sono convinto che pure loro

(i capi) sono vittime di un ciclo. Praticamente sono nella famosa lavatrice, stanno là e girano, per

cui sono condizionati dal posto dove stanno, sono stressatissimi devono raggiungere i numeri (...) è

come un vortice che ti prende e tu non sei più te stesso cioè modifichi il tuo modo di essere, a tutti i

livelli questo” (Basile e Polacco, 1998: 56).

Ma dal punto di vista del management, il problema operativo sta nel fatto che la loro efficacia

pratica, nel loro effetto cumulativo, non è un dato: nella prassi quotidiana si scontra con i bisogni

dei lavoratori e con le resistenze soggettive alle “regole del gioco”, comunque queste vengano

pensate dagli attori. Se per esempio consideriamo i ritmi di lavoro, il fatto che questi siano tesi si

traduce in stress, anche se i lavoratori pensano che l’impostato debba essere raggiunto per il bene

comune piuttosto che per il bene dell’azienda. La soglia di sopportazione può, nel primo caso,

essere più elevata, ma una soglia esiste. E lo stesso vale per l’emergenza di altri bisogni, desideri,

aspettative.

L’effetto di questo scontro tra l’ordine imposto e le emergenze soggettive - che Rieser (1996)

e con lui una parte del sindacato Fiom paradossalmente leggono come discostamento della realtà dal

modello, lamentando un presunto tradimento della Fiat - determina la produttività, gli indici di

qualità e i costi, non solo nella quotidianità ma anche nella tendenza: i bisogni, le resistenze, le

tensioni, i microconflitti innescano, infatti, un processo di produzione della soggettività

antagonistica (individuale e collettiva).

La gestione delle risorse umane quale dispositivo di riproduzione dell’ordine produttivo e

sociale

Nella quotidianità della fabbrica, le resistenze e le tensioni interne alle UTE creano

disfunzioni operative, ed è su queste emergenze che intervengono i managers nella veste esplicita di

capi. Da ciò possiamo trarre due considerazioni tra loro interconnesse: l’importanza strategico-

operativa della gestione delle risorse umane (HRM) e il fatto che essa non si dà in uno spazio vuoto

da plasmare, bensì in uno spazio normato.

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Per definire lo spazio concettuale del HRM Storey (1992: 27) ha prodotto un quadro sinottico,

cui fa riferimento gran parte della letteratura specializzata, ricavato dall’intersezione di due assi:

hard-soft, strong-weak. Il primo asse (orizzontale) rappresenta un vettore il cui polo hard enfatizza

la gestione dei lavoratori come “risorsa” da usare razionalmente, alla stregua di ogni altra risorsa;

l’altro polo, quello soft, pone l’accento sul termine “umano” e quindi rimanda alle Human

Relations. L’asse strong-weak gli serve, invece, per porre in evidenza lo spazio di operatività della

nuova strategia. La versione weak concepisce la gestione delle risorse umane come se fosse un altro

termine per connotare la tradizionale “gestione del personale”, quella strong, invece, configura

l’approccio distintivo del HRM. Ciò significa, spiega Storey, che la gestione dei lavoratori non è più

risolvibile nella forma organizzativa tradizionale in cui la direzione del personale operava in uno

spazio funzionale parallelo alla produzione, è, invece, integrato nel business core sia a livello dei

top managers nelle loro scelte strategiche sia a livello dei line managers nelle loro scelte operative

quotidiane.

Se applichiamo questo schema cognitivo al caso della Sata, emerge chiaramente che la

strategia attuata è conforme alle prescrizioni del HRM: la gestione del personale è integrata nel core

della produzione, oltre che nelle scelte strategiche dell’azienda. In questa integrazione i lavoratori

sono posti come risorsa, ma a fronte dei loro bisogni e delle loro resistenze sono gestiti come esseri

umani, cioè sono sussunti in un contesto relazionale di negoziazioni face to face. È quello che

Commisso (1999) ha teorizzato come fluidificazione del potere.

Si tratta ora di comprendere il nesso tra questa modalità di gestione dei lavoratori e il

comando incorporato nella struttura materiale e organizzativa della fabbrica snella. Il risultato cui

siamo fin qui pervenuti è che, dati i dispositivi “strutturali” di potere (cellularizzazione, kanban,

panottico), l’intervento personale dei capi diventa necessario solo se i lavoratori non “risolvono il

problema” di assicurare la continuità del flusso. Nella normale prassi quotidiana possono limitarsi -

dopo averli distribuiti sulle diverse postazioni - a incitare i lavoratori a fare ciò che devono fare e a

tenere alto il grado di attentività (“forza ragazzi, facciamo ciò che dobbiamo fare”) invece che nel

dare, esplicitamente, ordini. Gli “ordini” passano normalmente attraverso l’imperativo del flusso

veicolato dai segnali (effetto cumulativo kanban-panottico); e i capi, per effetto della

cellularizzazione, sembrano esserne investiti tanto quanto gli operai. In questo modo la cellula

produttiva, eterodeterminata e eterodiretta, può assumere la forma di un gruppo cooperante, purché

non sorgano tensioni. Infatti, l’emergenza soggettiva dei bisogni individuali o collettivi (a fronte

dello stress, dei carichi di lavoro, delle pause, degli straordinari, dei permessi retribuiti, e così via)

rompe la prassi pratico-inerte dei comportamenti normali e tende a far emergere la contrapposizione

tra capi e subordinati, e quindi a svelare la reale natura del team.

D’altra parte, l’intervento dei capi diventa essenziale in presenza di microconflitti, qualunque

sia la loro natura. Anche in questo caso la modalità di intervento dovrebbe essere conforme alla

logica d’insieme. La forma della relazione tra capi e subordinati non può essere incompatibile con

quello che Foucault chiama ordine diagrammatico o dispositivo d’insieme, pena il disoccultamento,

e quindi la perdita di efficacia dei dispositivi normalizzanti. Quello che viene definito il nuovo stile

manageriale, o, in generale, la componente “umana” del HRM, tende a riprodurre, a fronte delle

resistenze e delle tensioni sociali, l’apparenza della necessità oggettiva di assicurare la continuità

del flusso della produzione, agendo in modo adeguato a mantenere l’armonia sociale interna al team

e quindi a sostenere la forma-gruppo dei rapporti sociali interni alla cellula produttiva.

Nella nuova logica, la microconflittualità è trasposta in problema operativo e sussunta nella

gestione quotidiana dell’UTE. Un capo UTE o un CPI (una sorta di capo squadra) che svolge

correttamente il suo ruolo è colui che sa gestire il personale in modo da attivare le sinergie del

gruppo prevenendo ogni tipo di disfunzione. Per prevenire le disfunzioni si assumono come

problemi operativi i bisogni e le tensioni dei lavoratori - così come si presidiano gli impianti, si

presidiano gli uomini - e li si affronta in processo attraverso il “dialogo” e la “negoziazione”.

Se la soluzione “armoniosa” del problema non riesce, si ricorre anche ai meccanismi di

punizione, per cui sembra non esserci differenza con il passato e si tende a leggere il “sistema di

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premi e punizioni” come se fosse un residuo del fordismo (Rieser, 1996). In realtà il contesto è

completamente mutato: il “presidio delle risorse umane” non è un fatto straordinario, è parte

integrante della routine quotidiana. La parola d’ordine (come per le macchine) è prevenzione. La

prevenzione di ogni forma di tensione individuale e collettiva è condizione di operatività dell’UTE

(e quindi del funzionamento dell’intero processo), per cui il mantenimento della motivazione

individuale e dell’armonia della squadra fa parte dei compiti del capo UTE e è esplicitamente posto

quale suo obiettivo operativo, su cui si misura la sua performance (e lo stipendio).

In questo contesto è particolarmente significativo il modo in cui vengono affrontate in

“riunioni di chiarimento” le più piccole e apparentemente futili tensioni sociali all’interno del team.

Alcune persone facevano di tutto per farsi notare dal capo UTE. A noialtre dava fastidio che

queste persone si comportassero così solo per ottenere la benevolenza del capo. Erano disposte

a fare di tutto. Per esempio quando eravamo fermi in pausa perché non c’erano scocche su cui

lavorare, loro, le solite persone, si mettevano in movimento per far vedere che facevano cose,

anche le più inutili. Allora abbiamo parlato con il capo UTE in una riunione di chiarimento,

facendogli notare che non ci piacciono i favoritismi. Adesso, queste ragazze sono state mandate

in cabina per spruzzare i particolari.

Insomma, la soluzione dei problemi individuali e delle tensioni collettive è prevista e

affrontata direttamente nelle UTE attraverso il dialogo e la negoziazione immediata, gestita

preferibilmente senza l’intervento dei delegati sindacali, nel momento e là dove si presenta.

L’effetto di questo meccanismo sui lavoratori è che imparano a negoziare direttamente, senza

delega, i propri bisogni individuali e collettivi. Per contro, esso tende a riprodurre la forma-gruppo,

e quindi a porre continuamente i lavoratori in un contesto in cui le loro resistenze sono trasposte in

disfunzioni operative che dovrebbero essere risolte armoniosamente per il bene comune. Qui sta la

differenza sostanziale con gli anni Settanta. Anche allora la fabbrica (basta pensare a Mirafiori) era

in uno stato di negozialità permanente, ma la negoziazione era imposta dai lavoratori in lotta. Nella

situazione attuale, la negozialità permanente è lo strumento di gestione delle microconflittualità e di

prevenzione della possibilità che le tensioni individuali o collettive si tramutino in conflitto aperto.

Ma non basta, la trasposizione della microconflittualità in problema operativo nega legittimità

a pratiche, atteggiamenti e discorsi manifestamente antagonistici; e non solo quelli che non

rientrano dentro i giochi di potere accettati dalla direzione, ma anche quelli non condivisi dal

collettivo dei pari. Chi pretende o fa “cose strane” rischia di venire socialmente emarginato e può

essere espulso.

Tra queste “cose strane” c’è anche la rappresentanza sindacale di base. La Fiat ha accettato le

RSU, ma tutta la logica operativa del team tende a escludere dalla negoziazione delle tensioni

contingenti non solo il sindacato come apparato - cui è demandata la funzione di controparte

contrattuale nella definizione dei parametri generali (salario, premi, tempi, pause, ecc.) che

entreranno nella programmazione quotidiana della produzione - ma anche i rappresentanti sindacali

di base, il cui spazio di azione istituzionalizzato tende ad essere racchiuso dentro il meccanismo

delle Commissioni Paritetiche (Oliveri, 2000). Chi tra loro si attiva “troppo” (ammesso che venga a

conoscenza del fatto che in una data UTE c’è un conflitto) rischia il licenziamento, e per di più con

il beneplacito del sindacato che a sua volta tende a emarginare i “piantagrane”. D’altra parte, gli

stessi lavoratori operano da attori del controllo sociale su tutta una serie di comportamenti

individuali che apparentemente entrano in conflitto con quelli collettivi.

In definitiva, se consideriamo la logica complessiva di questo modo di gestire le

microconflittualità diventa visibile come la sinergia produttiva del team debba essere continuamente

riprodotta a fronte dell’emergenza della soggettività, ricostituendo l’armonia sociale interna, e come

le microconflittualità vengano sussunte nella gestione operativa delle UTE, trasponendole in

problemi tecnici. Questa modalità di gestione del personale, conforme alle prescrizioni del HRM,

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risponde alla duplice esigenza di far fronte alla vulnerabilità della struttura materiale e

organizzativa, nonché di riprodurre gli effetti normalizzanti dei dispositivi strutturali.

In questo contesto diventa evidente che il commitment - definito da Guest quale “caratteristica

centrale che distingue lo HRM dai tradizionali sistemi di gestione del personale/relazioni

industriali” (Guest, 1995: 112) - non può essere considerato quale risultato di mere politiche di

gestione delle “risorse umane”, come tende a sostenere, implicitamente o esplicitamente, la scuola

del HRM. Scrive Guest: “Porre l’organizational commitment al centro della definizione del HRM

implica il tentativo deliberato di vincere il cuore e la mente della forza lavoro” (Guest, 1995: 113).

Non ci sono dubbi sul fatto che esista una volontà di vincere il cuore e la mente della forza lavoro,

ma ciò era vero anche in passato. Lo dimostra la strategia delle Relazioni Umane, la quale, però, nel

contesto della fabbrica fordista è riuscita a produrre solo una sorta di paternalismo. L’efficacia del

HRM si fonda sulla sua integrazione - e, prima ancora, sulla sua compatibilità - con gli effetti

disciplinari dei principi di strutturazione della fabbrica snella. Nel caso della Sata, questa

integrazione è particolarmente evidente perché è stata progettata come tale, ovvero come un sistema

complesso la cui dinamica, spiega Magnabosco, si basa sulle reciproche interrelazioni di quattro

macro-variabili: il governo manageriale del sistema, l’organizzazione del lavoro, le relazioni

industriali, le relazioni interne.

Non è ancora chiaro quanto i risultati della ricerca alla Fiat siano generalizzabili, ma se

consideriamo che i dispositivi di potere analizzati sono iscritti nei principi operativi dell’ohnismo, è

possibile ipotizzare che nelle fabbriche snelle la logica di fondo della gestione front line delle

risorse umane debba essere la stessa, pena la perdita di operatività dei dispositivi normalizzanti, e

quindi della produttività del sistema.

Quello che sicuramente varia, dati i diversi contesti istituzionali, è l’impatto sulle relazioni

industriali. Ma anche a questo livello si coglie un fatto generalizzabile da cui partire: la tendenziale

emarginazione dei delegati di base nella gestione quotidiana dei microconflitti. Ciò può avere effetti

dirompenti su un sistema sindacale di tipo inglese, in cui la struttura del sindacato si regge sugli

shop stewarts; mentre in quello italiano tende a rafforzare ulteriormente la natura “politico-

istituzionale” delle Confederazioni Sindacali assunte quale strumento di concertazione dei parametri

contrattuali, quelli entro cui l’azienda legittima la propria programmazione quotidiana della

produzione. Inoltre, in questo contesto, la logica di codeterminazione del modello tedesco sembra

essere particolarmente efficace a livello locale.

D’altra parte, c’è un problema metodico che gli studiosi di relazioni industriali continuano a

eludere: le implicazioni della cellularizzazione estensiva dei lavoratori, ossia la dispersione della

forza lavoro globale in cellule produttive giuridicamente e/o spazialmente separate. La possibile

forza dirompente del sindacato sta nella potenzialità di unificare, politicamente, ciò che è stato

separato. Ma, come ha scritto Arrighi (1996), l’unica possibilità del sindacato di farsi strumento dei

lavoratori, in questa nuova realtà, sta nell’assumere una forma istituzionale diversa da quella tipica

della fase fordista, che gli permetta di operare quale elemento di unificazione dei frammenti

dispersi. La sussunzione dei microconflitti nella gestione operativa dei team tende anche, al di là

delle differenze istituzionali, a minimizzare le tensioni della base su cui potrebbe innescarsi questo

processo di mutamento del sindacato. È a questo livello che è possibile cogliere una strategia

complessiva antisindacale, al di là delle scelte locali di patti non-union o non-strike, lamentate da

più parti. Ma per farlo, dobbiamo uscire dall’analisi delle situazioni locali, e cogliere la totalità del

processo di ristrutturazione in atto.

Considerazioni sul metodo

Possiamo ora vedere come è stata applicata l’ipotesi metodologica secondo cui l’utilizzo degli

strumenti concettuali foucaultiani è utile alla comprensione dei rapporti di potere nella fabbrica

snella.

L’analisi è stata articolata in tre momenti. Nel primo, il discorso è stato focalizzato sul

processo di transizione dalla fabbrica fordista alla fabbrica integrata; nel secondo, sono stati

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indagati i principi di strutturazione della lean production cogliendoli nei loro effetti di potere; nel

terzo si è messo in evidenza il nesso tra questi e la modalità di gestione dei rapporti sociali

quotidiani.

Dal punto di vista teorico questi diversi momenti analitici rappresentano tre piani spazio-

temporali tra loro interconnessi: il processo di ricomposizione (destrutturazione e riorganizzazione)

del dominio del capitale sul lavoro a fronte della crisi di governabilità; il contesto della fabbrica

snella, colto quale spazio normato prodotto da questo processo, che in termini marxiani definisce la

potenzialità di realizzazione dello sfruttamento; le dinamiche della gestione quotidiana dei rapporti

sociali interni quale risposta all’emergenza delle resistenze. Quest’ultimo connota, nella

quotidianità, la necessità della continua ricostituzione delle condizioni sociali che rendono possibile

la realizzazione del flusso della produzione (sfruttamento) e la riproduzione del dominio; mentre,

nella tendenza, rappresenta la potenzialità della crisi di governabilità.

La confusione analitico-teorica di questi tre diversi piani è causa di gran parte dei problemi

interpretativi nonché dei fraintendimenti tra i ricercatori, anche tra coloro che adottano un approccio

foucaultiano. Se si privilegia una lettura delle relazioni interpersonali di potere, specifiche del

momento gestionale, senza considerare i dispositivi di strutturazione del contesto, come si tende a

fare da più parti, è possibile cogliere e descrivere le modalità di esercizio del potere, ma non ci si

può spiegare perché si danno in quella forma. Come abbiamo visto nell’analisi della fabbrica

integrata, esiste una connessione di adeguatezza e efficacia tra l’HRM e i principi organizzativi

della lean production. D’altra parte, la teorizzazione dei dispositivi di potere presuppone

l’individuazione delle resistenze quotidiane. Anche se non sono rese esplicite a livello espositivo, le

resistenze costituiscono il fondamento cognitivo su cui è possibile ancorare quella che Althusser -

rifacendosi esplicitamente a Foucault (Atlhusser e Balibar, 1971: 27-29) - ha chiamato “lettura

sintomale” del modo in cui gli attori percepiscono la realtà in cui vivono. Senza questo fondamento,

che permette di cogliere i vincoli soggettivi alla produzione materiale e le contraddizioni nella

produzione di senso quali “sintomi” di relazioni di potere da disoccultare (Commisso, 1999), è

impossibile comprendere il contesto normato della prassi produttiva e sociale quotidiana.

Al di là di queste questioni di metodo, il problema teorico chiave è dato dal fatto che la

condizione per poter pensare la prassi quotidiana quale fondamento della tendenza alla crisi è porre

il primato delle resistenze nelle relazioni di potere, altrimenti si resta imprigionati in una visione

ricompositiva senza via d’uscita. Questo problema sta alla base di una delle critiche più comuni

all’approccio foucaultiano, ossia la sua presunta incapacità di fondare le resistenze e, quindi, di

confrontarsi con il problema della soggettività (tra altri, Thompson e Ackroyd, 1995). Questa stessa

critica è stata sollevata da più parti anche a Foucault. Nei termini di Baudrillard: “Questo ‘potere’

resta un mistero: partito dalla centralità dispotica, diventa a metà strada ‘molteplicità di rapporti di

forze’ (...) per giungere, al termine estremo, su delle resistenze (divina sorpresa a p. 126!) talmente

infinitesimali, talmente tenui che, letteralmente, su questa scala microscopica gli atomi del potere e

gli atomi di resistenza si confondono” (Baudrillard, 1977: 87). Ciò che Baudrillard non coglie è che

nei lavori di Foucault la lettura delle relazioni di potere quotidiane, necessariamente focalizzata

dentro un dato contesto, non è mai disgiunta né dal processo che ha prodotto quello specifico

contesto né dalle dinamiche che determinano il mutamento diagrammatico. In altri termini, in

Foucault è sempre presente la potenzialità, veicolata dalle resistenze, di quella che abbiamo

chiamato crisi di governabilità.

Tuttavia è vero che anche nei lavori di Foucault non sempre è chiaro il primato delle

resistenze nelle relazioni di potere. Spesso troviamo, infatti, frasi del tipo: “là dove c’è potere, ci

sono resistenze”, oppure “le resistenze costituiscono la presa su cui si articolano le risposte tattiche

del potere”. Mentre nella seconda è chiaramente posto un primato delle resistenze; nella prima

sembra che le resistenze non siano altro che micro-risposte a un potere inamovibile. Il problema sta

nel fatto che comunemente, nell’esperienza quotidiana di ognuno, è questa sorta di impotenza che

esperiamo di fronte “all’ordine delle cose”: la potenza costituente delle resistenze sembra

manifestarsi solo nei movimenti collettivi, ovvero in particolari momenti contingenti della storia.

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Proviamo a districare questo nodo teorico chiedendoci quali sono le azioni quotidiane che ci

appaiono come mere risposte “impotenti” al potere, e perché si presentano in questa forma.

Abbiamo visto, ad esempio, che nel contesto della fabbrica i bisogni fisiologici più elementari,

come riposare, andare al gabinetto o fumare una sigaretta, sono considerati resistenze, e diventano

fonte di microconflitti se si vogliono attuare fuori del tempo stabilito per la pausa fisiologica. Fuori

dal contesto queste pratiche esprimono semplicemente dei bisogni delle persone in quanto esseri

biologici; diventano resistenze solo all’interno di uno spazio normato in cui si presentano quale

ostacolo alla sua funzionalità e finalità. Se estendiamo questo esempio ai bisogni, desideri, idee,

aspettative delle persone in quanto esseri sociali oltre che biologici, possiamo affermare che quelle

che appaiono come resistenze al potere non sono altro che pratiche esistenziali che i dispositivi di

potere pongono come azioni devianti, comportamenti non conformi alla norma. Il nome

“resistenze” attraverso cui definiamo queste pratiche connota un contesto normato.

In definitiva, è vero che dove c’è potere, c’è resistenza; ma c’è resistenza perché il potere

risponde a pratiche di esistenza ponendole come comportamenti devianti. Per cui, anche in questo

enunciato che sembra assumere un primato del potere sulle resistenze, in realtà possiamo cogliere il

primato della prassi soggettiva sul potere. Un primato che fonda ontologicamente la tendenza alla

crisi nei microconflitti quotidiani. Il loro sviluppo - con i suoi effetti di disarticolazione della

produzione, disoccultamento dell’apparente naturalità dell’ordine imposto, produzione

antagonistica di senso - coniugato con i conflitti esterni alla fabbrica, configura la potenzialità della

crisi di governabilità.

In definitiva, l’analisi e l’iter espositivo di questo lavoro si colloca dentro questo quadro

teorico e metodologico. Il passaggio dalla fabbrica fordista alla fabbrica integrata ha dimostrato

come l’ingovernabilità dello spazio disciplinare fordista abbia comportato la necessità di

destrutturare l’operaio massa creando, attraverso la sperimentazione, un nuovo assetto produttivo il

cui fondamento è dato dalla cellularizzazione intensiva e estensiva della forza lavoro. D’altra parte,

la lettura dei dispositivi di potere interni alla fabbrica ha reso possibile comprendere non solo le

dinamiche della prassi gestionale e lavorativa quotidiana, ma anche il modo di percepirle. Nella

logica che ha guidato l’analisi, sia il processo lavorativo sia la produzione soggettiva di senso sono

il risultato in divenire dello scontro tra le emergenze soggettive e l’effetto normalizzante dello

spazio disciplinare. Lo sviluppo di questo scontro prefigura il futuro.

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Giuliana Commisso

La fluidificazione del comando nella Fabbrica Integrata

Introduzione

Nelle modalità di gestione della forza lavoro nella Fabbrica Integrata è possibile individuare

l’operare di un dispositivo di potere, definito altrove “fluidificazione del comando” (Commisso,

1999), che si oggettiva in un complesso di pratiche discorsivo-relazionali operanti a più livelli di

responsabilità. Nella meccanica di funzionamento del dispositivo, il comando fluisce

discorsivamente nella forma di relazioni face to face, apparentemente svincolate dal ruolo, che

hanno origine e si sviluppano nel contesto operativo delle cellule produttive di base (UTE) in cui è

strutturata la fabbrica.

L’efficacia normalizzante del dispositivo di fluidificazione è data dal fatto che ogni forma di

micro-conflittualità e di tensione sociale, ogni forma di resistenza individuale o collettiva

all’autoattivazione viene sussunta nel paradigma relazionale prescritto e affrontata come se si

trattasse di una normale disfunzione operativa del lavorare insieme per un fine comune. Le pratiche

di ricomposizione delle tensioni sociali interne ad opera del management si sviluppano, infatti, nella

forma discorsiva della negoziazione privata, in un gioco continuo e fluido di riposizionamenti

individuali, tramite cui il conflitto è singolarizzato e ricollocato sul piano delle relazioni

interpersonali.

Questa dinamica operativa può spiegare alcuni dei meccanismi tramite cui le pratiche di

Human Resource Management (HRM) a livello dei line managers (Storey, 1992) tendono a

produrre, da una parte, l’individualizzazione delle relazioni di lavoro e la frantumazione dei legami

di solidarietà interna alla forza lavoro (Bacon e Storey, 1993a; 1996); e, dall’altra, la restrizione

degli spazi di autonomia della rappresentanza sindacale di base (Marchington, 1990; Bacon e

Storey, 1993b). Ciò non implica, tuttavia, né che il sindacato perda la propria funzione nella

gestione dei conflitti collettivi (Martinez Lucio e Stewart, 1997) né, d’altra parte, che i

rappresentanti sindacali di base non possano essere utilizzati dal management come strumento di

regolazione e fattore di inibizione del conflitto, il cui effetto è, come sostiene Oliveri in questo

stesso volume, il tendenziale “estravertimento” del ruolo del sindacato in fabbrica.

Il lavoro si divide in quattro paragrafi. Rimandando alla descrizione generale del layout di

stabilimento e dell’organizzazione del processo produttivo fatta da Fiocco, nel primo paragrafo si

esaminano i vincoli operativi specifici che richiedono una nuova prassi di gestione dei micro-

conflitti e delle resistenze, nel secondo e nel terzo, viene analizzata, attraverso la lettura delle

interviste, la dinamica concreta in cui si sviluppa il processo di fluidificazione del comando; nel

paragrafo conclusivo si evidenziano i limiti di efficacia degli effetti di potere del dispositivo

rappresentati dall’emergere di nuove resistenze.

La fluidificazione del lavoro e la fluidificazione del comando sulla forza lavoro

Possiamo individuare due elementi di complessità nell’analisi della configurazione

organizzativa dell’UTE.

Un primo elemento attiene al trasferimento sulla linea di funzioni tecnico-logistiche della

produzione che nella fabbrica fordista erano spazialmente e formalmente separate. La

razionalizzazione del processo produttivo attraverso la riduzione progressiva degli sprechi e delle

ridondanze, determinando un’estrema vulnerabilità del processo (Durand, 1999; Cerruti, 1994b),

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implica la necessità di una flessibilizzazione dinamica del “flusso teso”, che si realizza, da una

parte, con la cellularizzazione della forza lavoro (Fiocco,1998) dall’altra con la riallocazione degli

slacks organizzativi dal piano delle risorse materiali (scorte, magazzini) al piano delle risorse

immateriali (autoattivazione, problem solving).

Il secondo elemento, che consegue direttamente dal primo, è riferibile alla natura della

prestazione lavorativa. Le mansioni affidate a ciascun operaio non sono rigidamente racchiudibili in

una procedura predefinita. I confini della mansione sono fluidi, sia nella direzione delle mansioni

immediatamente adiacenti alla postazione assegnata, sia nel senso del contenuto stesso della

prestazione. La necessità della prevenzione continua delle criticità del processo necessita, infatti, di

attività di micro-regolazione che implicano, da una parte, un’attenzione costante alla qualità del

prodotto/processo da parte degli addetti (autoattivazione), dall’altra la ripartizione flessibile dei

compiti tra ruoli differenti. “I procedimenti lavorativi - dice Ohno - non si svolgono

necessariamente bene solo perché sono state assegnate a ciascuno precise aree di responsabilità, alle

quali attenersi scrupolosamente. Il lavoro di squadra è la combinazione armonica delle singole

capacità e caratteristiche” (Ohno, 1993: 38).

Nella Fabbrica Integrata la combinazione armonica delle singole capacità e caratteristiche si

sostanzia nell’attivazione delle “risorse umane” cellularizzate nell’UTE, ed è il risultato di una

prassi organizzativo-gestionale che realizza quella che Ohno (1993) ha chiamato “fluidificazione

del lavoro”.

La fabbrica fordista si costituiva come spazio di disciplinamento seriale dei corpi non soltanto

perché estraeva da questi la forza produttiva, ma anche perché stabiliva un legame coercitivo del

corpo-segmento con l’apparato di produzione. Per dirla con Foucault, il corpo si “costituiva come

elemento di una macchina multisegmentaria” (Foucault, 1976: 180). L’operaio cellularizzato post-

fordista non è una semplice appendice sensibile della macchina; ha, invece, uno spazio di agibilità e

di movimento che non è rigorosamente delimitato ma deve essere combinato “armonicamente” con

quello degli altri. Ciò non significa, evidentemente, che il potere non prenda più a carico

l’individuo, i suoi gesti, i suoi comportamenti, ma che l’investimento sul corpo-mente è mediato da

una forma determinata di produzione di senso, che induce nell’individuo una data percezione non

solo del proprio agire ma anche del contesto sociale in cui è posto come membro.

“Una della idee forza del nostro sistema di produzione - dice ancora Ohno - è riassumibile

nello slogan: ‘non creare isole isolate’. Quando i lavoratori sono dispersi nell’officina, divisi tra loro

da macchine e macchine, hanno l’impressione di essere dei semplici numeri. Se un lavoratore è

solo, non ci può essere lavoro di squadra; per questo, anche se una mansione può essere svolta da

una persona sola, è opportuno che intorno a essa ruotino cinque o sei operai, in modo da permettere

il lavoro di squadra” (Ohno, 1993: 97).

Sotto un altro angolo visuale, si potrebbe affermare, come sostengono Sewell e Cooney, che

la specificità della lean production, “in cui il vantaggio competitivo è realizzato attraverso

miglioramenti nella qualità del prodotto e nell’innovazione continua del prodotto/processo”, risiede

nel fatto che “l’appropriazione del lavoro mentale discrezionale dei lavoratori diviene tanto

importante quanto l’appropriazione del loro lavoro fisico e, di conseguenza, fare affidamento su

l’uno senza considerare l’altro può diventare controproducente per l’organizzazione” (Sewell e

Cooney, 2000: 3).

Questa necessità fa emergere una antinomia che Sewell, partendo dall’idea bravermaniana di

“indeterminatezza del lavoro”, concettualizza come double bind of discretion, il doppio vincolo

della discrezionalità, ossia l’insorgenza di un “trade-off tra i benefici che potrebbero derivare

dall’atto di cedere sufficiente potere discrezionale ai lavoratori, in modo che essi possano applicare

la loro conoscenza nel problem solving e nella gestione dei processi di produzione, e i potenziali

rischi che quella discrezionalità possa essere usata dagli stessi lavoratori per fini non conformi a

quelli dell’organizzazione (o che presentano, al limite, soltanto una parvenza di conformità)”

(Sewell e Cooney, 2000: 3). Data la criticità intrinseca alla sussunzione di saperi e abilità cognitivo-

relazionali degli individui, e affinché la discrezionalità sia esercitata dai lavoratori a vantaggio

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dell’organizzazione, si rende dunque necessaria una mutazione nella qualità della rappresentazione

del contesto sociale interno, tale per cui la realizzazione dell’“armonia produttiva”, la

partecipazione e il commitment appaiano agli occhi degli stessi lavoratori come effetto di una

propria libera scelta.

Pur trascurando la questione, non essenziale ai fini di questo articolo, se le nuove pratiche di

gestione delle risorse umane (HRM) debbano essere classificate come “forme normative di

controllo” (Barley e Kunda, 1992; Sewell e Cooney, 2000) o piuttosto “come dispositivi di potere

relazionali” (Sivini, in questo volume), è importante comunque sottolineare che la forma

comunicativa di queste pratiche, la trama dialogica che le sostiene, è potere discorsivo nella misura

in cui retroagisce sugli individui fissando i criteri normativi dei comportamenti e sanzionando quelli

non adeguati ai codici della razionalità strumentale. Poiché i bisogni dei soggetti e il senso che essi

conferiscono alle proprie azioni non sempre risultano adattabili alle necessità produttive (anche

quando queste ultime sono percepite dai lavoratori come valore comune e condiviso con l’azienda),

sorge la necessità di intervenire preventivamente e tempestivamente sulle resistenze e i conflitti che

possono disarticolare l’armonico fluire della produzione e disoccultare i dispositivi di potere

inscritti nella struttura organizzativa del processo (Fiocco, 1998).

È in questo quadro che, conformemente alla fluidificazione del lavoro inscritta

nell’organizzazione onhista del lavoro di squadra (le UTE), possiamo cogliere nella gestione front

line delle risorse umane (Storey, 1992) l’articolarsi di un processo di intervento attivo e continuo

sulle criticità soggettive (resistenze e conflitti), definibile come dispositivo di fluidificazione del

comando.

La logica processuale del dispositivo può essere disarticolata in due momenti analitici distinti.

Un primo momento, in cui l’agire del dispositivo si sviluppa nel tessuto delle relazioni interne

all’UTE nella forma di nuove dinamiche comunicative di tipo informale e interpersonale tra capi e

operai. La logica operativa di questo primo sviluppo si potrebbe raffigurare come una sorta di

monitoraggio costante dell’umore del team, che ha la funzione di prevenire i micro-conflitti e di

intervenire tempestivamente sulle resistenze. L’intervento quotidiano dei managers di linea (capi

UTE e CPI) sulle tensioni sociali interne è finalizzato a ridurre ogni problema soggettivo al rango di

disfunzione tecnica, risolvibile con la prassi operativa del problem solving.

Un secondo momento interviene a ricomporre le tensioni sociali interne al team, laddove

queste esplodono, e si sviluppa nel gioco allargato del management. A questo livello, infatti, entra

in campo – come vedremo – una figura gerarchica esterna all’UTE, ovvero il responsabile del

personale operativo (REPO), che, presentandosi nella veste di mediatore super partes delle tensioni,

ricolloca il conflitto sul piano delle relazioni interpersonali. Questa prassi produce l’effetto di

personalizzare il contenuto del conflitto e, quindi, di occultarne la determinazione strutturale.

La prevenzione del conflitto nelle relazioni sociali interne all’UTE

La gestione del flusso produttivo costituisce evidentemente il centro nodale in cui si intreccia

il tessuto relazionale della Fabbrica Integrata. Il terreno in cui si sviluppano le interfunzionalità che

servono a realizzare la normalità produttiva è, come abbiamo già visto, l’UTE. Al suo interno sono

predisposti gli strumenti e le risorse necessarie per la risoluzione di disfunzioni o criticità che

possono alterare il fluire armonico della produzione.

Vi è una prima tipologia di criticità che riguarda esclusivamente la gestione tecnico-

impiantistica del layout. Attrezzature e impianti presentano anomalie o rotture che devono essere

riparate e ricondotte dentro i margini di tolleranza previsti. La presenza costante nell’UTE di figure

tecnico-specialistiche (tecnologi e conduttori di impianti) e di squadre di pronto intervento

distribuite su tutto il layout (i manutentori), nonché la prassi di prevenzione delle criticità che

coinvolge in misura diversa tutte le figure produttive costituiscono il complesso degli strumenti

operativi necessari alla risoluzione delle disfunzioni tecnico-impiantistiche.

Esiste, tuttavia, un altro tipo di criticità che presenta un grado maggiore di complessità, ed è

quella che qui interessa particolarmente. Il processo di produzione deve compiersi a partire da un

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elemento fondamentale: l’asservimento di ciascun lavoratore alle necessità operative del segmento

produttivo in cui è collocato (l’UTE) e, più in generale, di tutto il flusso produttivo. Il grado

maggiore di complessità deriva da una considerazione elementare: gli uomini al contrario delle

macchine, pensano, ridono, si affaticano e possono anche opporsi. In una parola, determinano un

tipo di criticità difficilmente riconducibile a parametri di prevedibilità meccanica.

Ci definiscono risorse umane. Ogni volta che lo sento dire mi arrabbio perché mi viene in

mente la miniera; mi sento come una miniera da cui loro possono estrarre tutto quello che gli

serve finché dentro di noi c’è qualcosa che possono sfruttare, quando avranno preso tutto

cercheranno altre ‘risorse’ più fresche in qualche altro posto.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 31)

Ci hanno insegnato la metodologia, ma sul lavoro è tutta un’altra cosa. Io non sono una

persona “metodologica”, non mi chiedo mille volte perché se non riesco a trovare una

soluzione; se c’è da ragionare, ragiono su uno specifico problema, ma se non ho soluzione, non

mi vado a mangiare il cervello; i giapponesi fanno così.

(manutentore al Montaggio, intervista n°1)

Ci stanno pressando molto, non possiamo sbagliare, non possiamo mai stare fermi, nemmeno

quando la linea è ferma (in questi casi dobbiamo pulire), ma non possiamo diventare nemmeno

robot, perché a loro i robot non piacciono, soprattutto quelli di Cassino: dicono che gli uomini

sono migliori delle macchine, perché sono più intelligenti quando si tratta di trovare la

soluzione ai loro problemi, ma quando si tratta dei nostri problemi ci trattano peggio delle

macchine!

(addetto linea Montaggio, intervista n° 18)

Ultimamente si è posto anche il problema che siamo rimasti pochi nell’UTE, per gli incidenti, le

malattie, le maternità e così via, e il capo ci chiede puntualmente di fare straordinario durante

le giornate di riposo compensativo. Io mi sono sempre rifiutato, perché credo che il riposo sia

sacro. Credo che questo, lo straordinario, ci danneggi ulteriormente, perché se nessuno

accettasse di farlo, l’azienda sarebbe costretta ad assumere altri operai.

(cambista Montaggio, intervista n°18)

Io ho deciso di non fare più lo straordinario. Prima lo facevo; poi, una volta, chiesi un PIR

[permesso individuale retribuito], che mi serviva per risolvere delle questioni urgenti, e il capo

UTE non volle darmelo, cercando mille scuse. Da quel momento in poi, giurai davanti a loro

che non avrei mai più fatto nemmeno un minuto di straordinario. Io non ho la voglia di

lavorare più di quanto sono costretta a fare ogni giorno. Prima mi chiamavano spesso, ora non

lo fanno più: loro stessi hanno rinunciato.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 14)

Per far fronte alle criticità soggettive entra in gioco il dispositivo di fluidificazione. Due figure

dell’UTE svolgono una funzione fondamentale nella dinamica del dispositivo: il capo UTE e il CPI.

Il capo UTE è l’unica figura gerarchica formalmente riconosciuta dentro l’UTE. Secondo la

definizione ufficiale data dal management Fiat: “Il responsabile UTE svolge un ruolo per così dire

più imprenditoriale e meno gerarchico: deve assicurare la costante coerenza delle attività dell’UTE

con quelle dell’Unità Operativa in cui essa è collocata e sapere delegare e motivare i collaboratori,

che sono i primi realizzatori della nuova logica di gestione basata sulla prevenzione sulla qualità del

processo, sul buon funzionamento delle macchine”. (Fiat Auto: 17). Il peso gerarchico del capo

UTE appare dunque mitigato dal criterio della corresponsabilizzazione e della collaborazione

necessarie al lavoro in team e il suo ruolo “imprenditoriale” si oggettiva nella gestione di un budget

entro cui deve operare le scelte gestionali e realizzare gli obiettivi produttivi posti dalla direzione.

Il conduttore di processi integrati (CPI), inquadrato contrattualmente come operaio, è un

supervisore degli operai sulla linea. La sua funzione è quella di coadiuvare l’attività del capo UTE

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nella gestione quotidiana delle risorse umane. Insieme con il capo UTE, il CPI redige la mappatura

delle skills, realizza i piani di rotazione sulle diverse postazioni in linea e interviene nel processo di

valutazione e selezione degli addetti linea per le promozioni. Nel ruolo di problem solver, ha il

compito di prevenire ed, eventualmente, risolvere le difficoltà che gli operai possono incontrare

sulla postazione nell’esecuzione delle loro mansioni. “Si potrebbe interpretare questa nuova figura

operaia”, afferma Maurizio Magnabosco, “come un generatore di informazione aggiunta per il

sistema e, allo stesso tempo, punto di riferimento e di formazione per i colleghi di linea”.

(Magnabosco, 1995: 39). “Il più importante criterio di selezione per il CPI è la sua abilità

relazionale (dialogo, comunicazione, collaborazione e così via) con gli altri lavoratori” (Camuffo e

Volpato, 1998: 329).

Ciò non significa tuttavia, come sostengono Camuffo e Micelli che le funzioni di CPI e capo

UTE (i primi supervisori sulla linea) non siano più “di comando e controllo ma di comunicazione,

negoziazione, empowerment e incentivazione” (1999: 219); piuttosto implica che la forma

comunicativa e negoziale delle relazioni tra managers di linea e lavoratori rappresenta uno dei

meccanismi attraverso cui le pratiche di HRM nel contesto della lean production esercitano il

controllo e la prevenzione processuale del conflitto. La modalità informale della comunicazione e la

forma interpersonale delle relazioni tra capi e operai costituiscono la trama dialogica necessaria a

produrre la dislocazione delle criticità soggettive dal piano dei bisogni, dei desideri, delle

aspettative personali al piano delle disfunzioni tecnico-operative. In questa trama, ciascun operaio è

posto come se fosse protagonista, al pari delle figure direttive dell’UTE, della gestione del processo

lavorativo e, dunque, come se fosse soggetto di una relazione interpersonale. Ma,

contemporaneamente, la necessità di governo coerente dell’intero processo produttivo lo pone come

destinatario ultimo del comando. L’identità soggettiva del lavoratore risulta organicamente

subordinata alle necessità operative del flusso; per cui il lavoratore è riconosciuto come persona

solo nella misura in cui i suoi bisogni soggettivi risultano compatibili con il ruolo che deve

svolgere.

La meccanica del dispositivo di fluidificazione si sviluppa attraverso un complesso gioco

delle parti, in cui capo UTE e CPI, di volta in volta, stabiliscono le compatibilità possibili:

La riduzione dei costi, la gestione delle persone sono tutti obiettivi che devo realizzare, se

voglio ottenere una buona valutazione da parte del mio capo, l’ingegnere di produzione. Ma

questi rappresentano anche problemi che noi capi UTE abbiamo. Noi abbiamo mille problemi

da risolvere: i costi, i volumi produttivi, la gestione degli operai. L’operaio che sta sulla linea

per sette ore e un quarto si crea mille problemi e li crea anche a noi: c’è quello che fa di testa

sua, quello che vuole andare sempre in infermeria, quello che dice le bugie. È difficile

mantenere sempre la calma. La delega di responsabilità è la carta vincente che il capo UTE

deve giocare se vuole ottenere la collaborazione da parte dei suoi addetti; certo, poi, bisogna

dare qualcosa in cambio a queste persone: un permesso, una facilitazione; bisogna andare

incontro ai più volenterosi.

(capo UTE, intervista n° 12)

La delega di responsabilità è la prassi di gestione quotidiana dell’UTE. Ma, evidentemente, la

prassi partecipativo-cooperativa non si attiva in maniera immediatamente volontaria. È necessario,

quindi, innescarla processualmente, e le modalità per farlo sono così descritte da uno dei CPI

intervistati:

Il capo UTE deve saper parlare con gli operai per caricarli psicologicamente e mantenerli

tranquilli. Una cosa è ordinare ad un operaio: ‘Devi fare questa operazione in più!’; un’altra

cosa è dirgli: ‘Dovremmo fare quest’altra operazione, siamo costretti a farla, non è colpa

nostra’; ecco, quelli bravi riescono a farlo in questo secondo modo, e allora possono anche

diventare gestori operativi. Nei casi di UTE molto numerose i capi UTE non possono stabilire

questo tipo di relazioni con tutti gli operai, allora si servono dei CPI; i CPI fanno da supporto

al capo UTE; dovrebbero, in un certo senso, controllare le persone o anche gestirle.

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(CPI, intervista n° 4)

Il capo UTE deve dunque saper motivare e “mantenere tranquilli” gli operai. Perché ciò

avvenga, è necessario che la fonte degli ordini sia assunta come esterna e neutrale (Fiocco, in questo

testo) e che la loro esecuzione sia percepita come frutto della discrezionalità piuttosto che

dell’imposizione visibile dei capi. È evidente che l’operare di questi meccanismi rafforza il senso

dell’armonia e dell’integrazione sociale tra i componenti del team, fungendo da anticorpo per

l’emergenza di conflitti. In questa pratica, il capo UTE ha bisogno dell’ausilio del CPI.

I CPI devono essenzialmente fare questo: coadiuvare il lavoro del capo UTE. Loro, a inizio

turno, sanno le postazioni che bisogna coprire, ti informano delle persone che mancano sulle

postazioni; i CPI vanno avanti e indietro sulla linea per controllare le postazioni e il materiale

di consumo. A inizio turno, facciamo insieme un conto di cinque minuti, sulla base delle assenze

per riposo o malattia, dei prestiti fissi, delle ferie, dei PIR, al fine di stabilire se siamo in grado

di realizzare la produzione programmata (…). C’è un tabellone, visibile da tutti gli operai, in

cui è segnata la mappa delle postazioni. Della compilazione della mappa si occupa il CPI.

Questo è un altro compito molto difficile perché sorgono molti problemi. Ci sono persone che

non sanno fare tutte le postazioni e di conseguenza sono collocati sempre nella stessa

postazione. Quegli operai che fanno sempre la stessa postazione si arrabbiano, protestano e

bisogna tenerli tranquilli.

(capo UTE, intervista n° 22)

Al corso di formazione il CPI impara il problem solving. La figura del CPI e le competenze

connesse ad essa sono state messe a punto con la fabbrica integrata; nella fabbrica tradizionale

tra capo UTE, tecnologo e addetto-linea non c’era possibilità di comunicazione. Nel nuovo

modello organizzativo, per ovviare a questo limite, il CPI è stato inserito in mezzo a queste tre

figure: se l’addetto linea ha un problema, per esempio non riesce a montare un particolare, il

CPI deve intervenire e, con l’ausilio del problem solving, capire perché l’addetto-linea non

riesce a montare il particolare; deve quindi interpretare la natura del problema e stabilire se

non è la giornata ideale per l’addetto, che non riesce a fare ciò che deve fare e spostarlo in una

postazione meno problematica, oppure se il problema deriva dagli impianti, oppure ancora dal

pezzo da montare, che presenta qualche difetto (…). Quando l’addetto ha un problema, ne

parla con il CPI. Il CPI è il primo gradino nella lista delle persone con cui l’addetto può

confrontarsi. C’è da dire comunque che tutto dipende da come il CPI ha impostato i rapporti

all’interno dell’UTE.

(CPI, intervista n° 4)

Il CPI diventa il vice del capo, colui che “deve attivare le risorse umane, coadiuvarlo nella

gestione delle persone e delle risorse”. In questo contesto, il CPI diviene l’attore strategico nella

logica processuale di prevenzione del conflitto. La sua attività di presidio continuo delle attività

degli addetti sulla linea realizza un doppio risultato. Da una parte, fluidifica il comando, fungendo

da filtro nella comunicazione degli ordini verso il basso; dall’altra, media le tensioni, assumendo su

di sé la responsabilità di prevenire le criticità soggettive originate dagli addetti sulla linea. Ad

ulteriore conferma di ciò, la collocazione dei CPI sull’intero layout è determinata da due elementi

fondamentali: la dimensione quantitativa dell’UTE e il livello di automazione della linea.

Mediamente una UTE con 80 addetti al montaggio avrà a disposizione almeno tre CPI mentre

un’UTE di pari dimensioni in lastratura, unità altamente automatizzata, avrà un CPI soltanto.

Questa distribuzione, che appare determinata da un’esigenza tecnica di gestione del flusso, è

significativa perché svela l’esistenza di un problema di gestione di uomini: il problema specifico

dell’addetto linea (i suoi problemi personali, la sua giornata ‘no’) va ricondotto al rango di

disfunzione tecnica, tanto quanto lo è naturalmente l’anomalia dell’attrezzatura.

Il ruolo di CPI è molto scomodo; noi siamo fra l’incudine e il martello, siamo al centro delle

tensioni fra capi e operai; così dobbiamo cercare di mettere tutti d’accordo e sdrammatizzare.

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Se un CPI ha un carattere un po’ particolare, è un tipo nervoso sono guai. Per essere buoni

CPI bisogna essere molto calmi e pazienti, bisogna ascoltare tutti ed essere disponibili al

dialogo (…). Noi CPI sappiamo tutto degli addetti linea: sappiamo chi lavora senza provocare

problemi, chi sa fare le operazioni a ciclo, chi è particolarmente bravo in certe postazioni;

quindi decidiamo di candidare i più bravi come cambisti (…) Io credo che quello di CPI sia un

ruolo indispensabile; ci deve essere necessariamente una figura che controlli gli addetti sulla

linea. Ci sono operai, per esempio, che bloccano volontariamente la linea quando questa corre

troppo in fretta; io li capisco perché so cosa significa lavorare sulla linea. Io vado in fabbrica

per lavorare e cerco di farlo nel modo migliore. Se a me un giorno non dovesse più piacere

lavorare in un certo modo, mi licenzierei su due piedi, non farei queste bambinate. A me piace

fare le cose per bene.

(CPI, intervista n°15)

Il ruolo di CPI si è sviluppato, nella prassi quotidiana di gestione dell’UTE, nei termini di

primo realizzatore del controllo e del comando sulla linea nonché di ammortizzatore delle tensioni

fra operai e capi. Le modalità attraverso cui si deve strutturare questa funzione sono ancora una

volta quelle informali del rapporto interpersonale: “disponibilità al dialogo” ma anche “calma e

pazienza”.

Quando sono diventato CPI, ho pensato seriamente di licenziarmi: è troppo stressante come

mansione, ci sono responsabilità collettive che è difficile gestire. Tu fai il tuo lavoro, qualche

collega magari no, ma le responsabilità sono di tutti e se una parte del lavoro non è stata svolta

o è stata svolta male tocca anche a te sorbirti le arrabbiature del capo. I rapporti con gli

addetti linea sono buoni, in generale; però capita che se la prendono con noi anche per le più

piccole cose; perché noi CPI, ad esempio, non riusciamo a dare loro gli attrezzi giusti per le

operazioni oppure il materiale idoneo per determinate postazioni. Purtroppo i CPI sono

vincolati e non hanno alcun potere decisionale; per esempio, se manca del materiale o un

determinato attrezzo su una postazione, il CPI deve comunicarlo al capo UTE, che è quello che

decide se procurarlo o meno; se lui decide di non intervenire, il CPI si trova in una situazione

difficile con gli addetti, perché non può dirgli di non lavorare. In questi casi gli addetti si

arrabbiano con noi ma, purtroppo, noialtri non possiamo farci niente. A volte, quando le

condizioni di lavoro sulla linea diventano insostenibili per carenza d’attrezzatura, io vado dal

capo a dirgli che bisogna intervenire o, al limite, bloccare la linea. Ma loro, i capi, non

vogliono che si blocchi la linea per nessuna ragione perché perdono produzione; pensano solo

a fare produzione.

(CPI, intervista n° 15)

D’altra parte, ogni qualvolta si produce una rottura nella comunicazione, che può segnalare

l’insorgenza di eventuali conflitti e tensioni sociali, questa si ribalta sul CPI come sua

inadeguatezza personale, come sua incapacità relazionale. Se questo è dispotico e autoritario, se

dimostra di non aver capito le regole del gioco, svelando il contenuto di comando connesso al suo

ruolo, diviene disfunzionale e deve essere retrocesso:

Un operaio che prima era tranquillo come noi, una volta promosso CPI era diventato

insopportabile, allora chiamammo il responsabile del personale e venne retrocesso. I capi del

personale non vogliono cose del genere, essi tendono a creare un clima di collaborazione,

vorrebbero la collaborazione dell’operaio.

(addetto linea Lastratura, intervista n° 5)

La natura interpersonale della relazione, riferendosi espressamente alle qualità soggettive di

ciascun attore, occulta in ultima istanza la dinamica antagonistica tra capi e operai. In tal modo, la

forma dell’interpersonalità si pone come valore collettivo da salvaguardare e come strumento

universale di autoregolamentazione del conflitto:

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All’inizio il rapporto con il capo UTE è stato difficile; lui è di Torino e quindi avevamo un po’

di soggezione nei suoi riguardi, stavamo in imbarazzo. Ci è voluto un po’ di tempo prima che

iniziassimo a costruire un rapporto. Poi ci sono stati anche dei problemi particolari, poiché

alcune persone (sempre le solite) facevano di tutto per farsi notare da lui. A noialtre dava

fastidio che queste persone si comportassero così, solo per ottenere la benevolenza del capo.

Erano disposte a fare di tutto. Allora abbiamo parlato con il capo UTE, in una riunione di

chiarimento, facendogli notare che non ci piacciono i favoritismi. Adesso, c’è solamente una

ragazza che si comporta male, l’altra ha notato che l’abbiamo isolata dal gruppo e si è

riavvicinata a noi ridimensionando i suoi atteggiamenti. Quella che invece continua a

comportarsi male, è stata mandata in cabina dal capo UTE, il quale ha capito che noi con lei

non volevamo averci più niente a che fare. Comunque lei continua a farsi compatire dal capo:

ha 33 anni e si fa vedere piangere da lui, e lui la favorisce sempre.

(addetta linea Verniciatura, intervista n° 3)

La fabbrica si costituisce nella forma di un corpo sociale omogeneo (la grande famiglia),

all’interno del quale lo spazio della differenziazione sociale è tradotto nei termini di una continua

gerarchizzazione individuale, e le uniche differenze possibili scaturiscono dalla necessità di

misurazione dell’adeguatezza dell’individuo alla funzione cui è preposto:

La cosa fondamentale è la comunicazione fra persone, qualunque sia la loro collocazione

gerarchica. Quando c’è un problema, è importante avere la prontezza di comunicare a tutti

quelli che ti stanno intorno, in maniera tale che l’ente o la figura competente si possa attivare a

risolverlo tempestivamente. Quando un operaio è nel giusto, nel senso che lavora tranquillo ed

è una persona a posto, l’azienda è disposta a dargli una mano; anzi lo agevola. Se tu hai un

problema, ci dicono, non c’è bisogno che venga a farmi la guerra, se me lo vieni a dire io te lo

posso risolvere. Abbiamo a che fare con responsabili collocati molto al di sopra di noi che ci

danno tutta la disponibilità possibile ed immaginabile; anzi, sono loro stessi a guidarci in certi

sistemi; ci prefiggono degli obiettivi da raggiungere e ci aiutano a realizzarli. Uno dei nostri

obiettivi è, per esempio, quello di fare la gestione del materiale con un certo sistema; loro ci

danno le coordinate e ci mettono in condizione di lavorare con quei sistemi.

(addetto al Magazzino, intervista n°13)

Nel caso in cui sbagliamo siamo facilmente individuabili con l’autocertificazione. Però, il

sistema dell’autocertificazione non è finalizzato a punire le persone ma ad educarle. Le

sanzioni ci sono solo quando si accerta la volontarietà dell’azione. Se io metto una firma su un

qualcosa che è sbagliato, e lo faccio di proposito, è evidente che sto cercando di truffare

l’azienda. È come fare un assegno a vuoto. Se, invece, io ho messo la firma perché non sapevo,

allora vengo semplicemente ripreso dai capi, dai quali mi viene spiegato meglio cosa devo fare,

e così io posso imparare(…)I responsabili [i managers di linea] riescono a farsi un quadro

chiaro di quali sono i soggetti che possono dare fastidio; loro, in ogni caso, non li emarginano,

ma cercano di reintegrarli nella realtà produttiva. Premiando le persone che si impegnano, i

responsabili dimostrano a tutti gli altri che è possibile crescere se ci si comporta bene. (…) Se

caratterialmente una persona è disponibile e predisposta a funzionare in una collettività,

realizza un prodotto di qualità. Non è vero quello che si dice in giro, cioè che l’azienda assume

tutti; fa una selezione accuratissima del personale. La persona che deve lavorare per realizzare

un prodotto, se non è adeguata fa una cattiva qualità e diventa un costo aggiuntivo per

l’azienda.

(addetto al controllo di qualità, intervista n° 6)

Le precedenti testimonianze mettono bene in luce il precipitato di senso che la nuova logica

organizzativo/gestionale produce sui singoli individui. Nella percezione dell’ultimo intervistato,

l’autocertificazione sembra esercitare automaticamente effetti di potere. Operando da dispositivo

panottico, l’autocertificazione non solo agisce come meccanismo impersonale di controllo che

colloca ciascun lavoratore in un campo di costante visibilità ma produce anche effetti di verità;

permette, cioè, di punire (controllare, misurare e correggere i comportamenti non conformi) sulla

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base di una norma, misura dell’adeguatezza, che è percepita come oggettiva e neutrale. È sulla base

di questa oggettività e “naturalità” che il comando manageriale può assumere la forma

comunicativo-relazionale, e la sanzione normalizzatrice dei capi (“l’arte di punire normalizzando”,

direbbe Foucault) può essere percepita come “terapia”, come supporto pedagogico-formativo alle

persone. Volendo usare gli stessi termini dell’operaio intervistato, “i responsabili non emarginano i

soggetti che danno fastidio, ma cercano di reintegrarli e, premiando le persone che si impegnano,

dimostrano a tutti gli altri che è possibile crescere se ci si comporta bene”. La dimensione

terapeutica della disciplina si evince dal fatto che il “comportarsi bene” implica non soltanto

l’astenersi dal porre in essere comportamenti visibilmente antagonistici, ma, addirittura, il

dimostrare di “essere caratterialmente disponibili e predisposti a funzionare in una collettività”.

Ma, se da un lato la forma comunicativa e interpersonale della relazione tende a unificare

managers e lavoratori nelle vesti di individui interagenti in un rapporto posto come cooperativo,

occultando il contenuto di potere in esso inscritto, dall’altro pone i lavoratori come se fossero

soggetti nella relazione. Ed è qui che si ha la contraddizione: una volta riconosciuti come soggetti, i

codici comportamentali scaturenti saranno quelli necessari alla relazione face to face e, in quanto

tali, potenzialmente divergenti dai codici della razionalità strumentale comunque necessaria alla

produzione. La comunicazione, infatti, ha come propria caratteristica peculiare l’inscindibilità dalle

persone; è una qualità immanente alla quale si può accedere per ridefinire continuamente la propria

identità e differenza rispetto all’altro. È il luogo in cui meglio si può coniugare l’Io e il Noi, il

singolare e il collettivo. La comunicazione fra soggetti tra loro diversi, proprio perché la diversità

concerne il vissuto individuale più profondo, non può essere esaustivamente ridotta al linguaggio

dell’integrazione produttiva, alla condivisione sociale delle “cose da fare”.

La tensione che si sviluppa nella trama dialogica del rapporto interpersonale, fa sì che la

forma relazionale del team, da dispositivo meramente partecipativo di cooperazione eterodiretta,

possa continuamente ribaltarsi nella costituzione di coalizioni solidaristiche che, elaborando

linguaggi e codici comportamentali propri, definiscono l’ambito d’azione di un ‘Noi’ contrapposto

a un ‘Loro’:

La mia UTE è spaccata: si sono costituiti due schieramenti, uno composto da quelli vicini al

capo UTE, dai suoi lecchini, e uno dai dissidenti; credo comunque che in ogni UTE ci sia una

situazione simile a questa. Pesano molto le amicizie, le raccomandazioni. Noi invece facciamo

il nostro lavoro e basta. Con i lecchini del capo abbiamo un rapporto assolutamente formale.

Ci salutiamo soltanto, in altre parole. Con il capo UTE e il CPI c’è una specie di finta amicizia.

Sono falsamente gentili. Con la loro falsa gentilezza, con i loro modi eccessivamente formali mi

ostentano la loro più totale indifferenza. Ma d’altra parte devo dire che io faccio lo stesso, li

onoro con lo stesso atteggiamento. Fra me e loro funziona così e non può funzionare altrimenti,

purtroppo! È stato proprio il capo UTE a causare il dissidio, non certo noi. Abbiamo anche

cercato di parlarne, ma non c’è stato alcun effetto positivo. C’è gente che ha molta paura, o che

perlomeno allora ha avuto molta paura.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 19)

Fra addetti linea siamo molto integrati, ma solo fra addetti: con tutti gli altri, quelli che

portano il cartellino giallo o rosso (CPI e capi UTE) non c’è alcun rapporto, non solo perché

noi non lo vogliamo ma anche perché loro si sono montati la testa nel vedersi addosso il

cartellino di un altro colore.

(addetto linea Lastratura, intervista n° 5)

Il ciclo delle operazioni è stabilito da una cartellina dove sono descritte le operazioni e i tempi

relativi; La maggior parte delle volte i lavoratori si aggiustano la postazione, per accorciare i

tempi e recuperare in questo modo un po’ di tempo per fumarsi una sigaretta. Nel caso in cui il

lavoratore fa le operazioni a ciclo, secondo le regole, dopo un tot di macchine comincia a

‘imbarcarsi’, alla fine i responsabili stessi sono costretti a fermare la linea, perché vedono che

quell’operaio è arrivato, seguendo la macchina, a un’altra postazione dove c’è un altro operaio

che deve fare altre operazioni; quindi si sfasa il processo; può capitare che arrivi a tre

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postazioni successive. Il responsabile capisce che lo ha fatto apposta! È fatto apposta, quando

nascono dei conflitti. Il capo la prende come una sfida, il lavoratore la prende come se gli

avesse fatto il dispetto, senza capire che se noi tutti i giorni facessimo così alla fine loro

sarebbero costretti a modificare i tempi. Quando noi andiamo a fare casino sulle postazioni e

sui tempi, si verifica pure questo perché loro si fanno forti del fatto che quelle postazioni sono

tutte dissàture, dicono, e questo finché ci sarà qualcuno che si ammazza a rincorrere la linea.

(delegato sindacale, intervista n° 33)

L’armonia relazionale che è l’elemento costitutivo delle sinergie necessarie alla cooperazione

produttiva si sorregge dunque su un delicato equilibrio che, laddove i membri del team non riescono

autonomamente a ricomporre i conflitti e le tensioni personali, deve essere riattivato nel gioco

allargato del management, tramite l’intervento correttivo dei responsabili della gestione del

personale, i quali, ponendosi nelle vesti di mediatori imparziali delle tensioni sociali, sanzionano i

comportamenti dei capi non adeguati allo scopo e ricostituiscono il senso della cooperazione e

dell’integrazione fra i membri del team.

La personalizzazione del conflitto nel gioco “fluido” del management

L’UTE si presenta come il luogo in cui si produce la partecipazione e l’integrazione sociale

attraverso le modalità e le prassi finora descritte, ma anche come epicentro di micro-conflitti e

tensioni personali non sempre ricomponibili con gli strumenti e le risorse gestionali predisposti per

il governo quotidiano del team. A partire da questa condizione, la direzione del personale avoca a sé

un potere diretto di intervento, regolamentazione e sanzione delle pratiche gestionali dell’UTE. Qui

entra in gioco un’altra figura, collocata al di fuori e al di sopra dell’UTE: il REPO, ovvero il

responsabile esecutivo del personale. Al REPO è attribuita, infatti, la competenza specifica di

gestione del personale, di intervento selettivo sui criteri promozionali e di coordinamento

dell’attività gestionale dei capi UTE all’interno di ciascuna Unità Operativa. In altri termini, egli

rappresenta la componente integrata nel processo lavorativo della direzione del personale. Le

pratiche con cui si sviluppa l’intervento di questa figura dentro il processo produttivo rivelano

un’attività continua e dinamica di micro-aggiustamenti dei ruoli e delle funzioni manageriali dentro

l’UTE, tramite cui, da un lato si riafferma la modalità adeguata di imposizione del comando e,

dall’altro si ricompongono organicamente i conflitti, potenziali o in atto, che il comando stesso, sia

pur fluidificato e de-formalizzato, inevitabilmente produce.

Le seguenti testimonianze dei componenti dell’UTE ci forniscono in maniera semplice ed

efficace gli elementi utili alla definizione delle funzioni del REPO così come si sviluppano nella

prassi quotidiana. C’è un primo momento di attività di controllo e di supporto formativo dell’azione

dei managers di linea, e un secondo momento, invece, che si riferisce al potere sanzionatorio che il

REPO esercita nei loro confronti.

Il REPO è una specie di addestratore per i capi UTE; nel caso di promozione dei capi UTE

come gestori operativi il suo parere è molto importante: se il parere del REPO è negativo può

bastare a far saltare la promozione.

(CPI, intervista n° 15)

I REPO girano molto tra le UTE, fondamentalmente per controllare come i capi UTE

gestiscono le persone. Quando gli giungono delle lamentele da qualche UTE, il REPO ‘scende’

a controllare che tipo di problemi ha il capo di quella UTE, cercando di risolverli prima che la

cosa si allarghi e provochi dei malumori fra le persone. Se è il capo a non saper gestire i

rapporti con gli addetti, provocando contrasti, il REPO si mette in mezzo tra gli addetti linea e

il capo, dialogando con gli uni e insegnando all’altro come si gestiscono i rapporti senza

provocare tensioni. Io stesso ho sentito dire ad un REPO: ‘Se il capo UTE vuole gestire bene la

propria UTE, deve sempre parlare con le persone, deve cercare di prevenire il malumore, non

deve far vedere che è un superiore.

(CPI, intervista n° 4)

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A questo livello, la figura del REPO esercita una funzione di prevenzione di potenziali

conflitti, attraverso il controllo dell’adeguatezza dei comportamenti personali dei capi sulla linea

alle prescrizioni dell’HRM. D’altra parte, se ormai è troppo tardi per prevenirli, interviene per

ammortizzare le tensioni e sanzionare le modalità di gestione non adeguate allo scopo. Il suo

intervento realizza un doppio risultato: da una parte addestra il capo UTE, insegnandogli come si fa

a “costruire un’organizzazione del lavoro nella quale il lavoratore si senta contemporaneamente non

estraniato anche se asservito” (Fiat Auto, 1989: 73); dall’altra, tranquillizza gli operai e ricompone i

conflitti, agendo nelle vesti di arbitro super partes, ovvero ponendosi come mediatore esterno e

superiore della controversia, che può giudicare i bisogni, le aspettative e le richieste degli attori e

soddisfare quelli considerati legittimi. L’iter dialogico attraverso cui si tenta di ricomporre il

conflitto è descritto da un CPI come segue:

Se, per esempio, il capo UTE, malgrado l’intervento del CPI, obbliga l’addetto a fare, la

postazione per cui si è lamentato, l’addetto si rivolge al REPO, passando dai gradi più bassi ai

gradi più alti della gerarchia. Il REPO è visto come una figura di salvataggio, anche se

ultimamente si parla male anche di loro. Se il CPI non riesce a risolvere il problema che

l’addetto gli sottopone, da un certo momento in poi non si rivolgeranno più a lui, ma al

sindacato o al REPO; generalmente comunque, il CPI non può risolvere il problema, può al

limite cercare di parlarne, di mediare, ma non può andare oltre. In fin dei conti, con o senza il

suo intervento, le condizioni non possono cambiare. (…) Il suo intervento può, a volte,

modificare la situazione a vantaggio degli addetti linea.

(CPI, intervista n° 4)

Vi è un primo elemento che conferma come si sviluppa la comunicazione verso l’alto e quali

filtri incontra. Di nuovo, il primo passo è verso il CPI, quindi il capo UTE, infine il REPO. La

possibilità di redimere il conflitto è data al REPO, il quale, a differenza del CPI, può modificare

sostanzialmente le condizioni individuali degli addetti che ricorrono al suo giudizio, esprimendo il

potere del proprio ruolo:

I REPO generalmente sono considerati dagli operai come persone da rispettare, con cui si può

parlare se ci sono problemi con il capo UTE.

(addetto linea Verniciatura, intervista n° 3)

L’attribuzione di responsabilità da parte degli operai per le difficoltà che quotidianamente

incontrano si riflette in un capovolgimento paradossale di senso: quanto più in alto è collocato un

ruolo gerarchico tanto più il contenuto di comando che esso veicola appare mitigato e confuso fino

a diventare invisibile:

Gli operai attribuiscono la responsabilità per ogni problema che si presenta prima al CPI e poi

al capo UTE; il REPO invece rimane fuori, essendo comunque l’unica figura che riesce a

tranquillizzare la situazione. Forse questo dipende dal fatto che essendo lui un superiore, non

esita ‘a dare un punto in meno’ al capo se constata che le responsabilità per un qualsiasi

problema sono sue. Può fargli pesare queste responsabilità, non nel senso di punirlo, ma nel

senso di stargli vicino, di affiancarlo nella funzione di gestione; in una parola, addestrandolo.

(CPI, intervista n° 4)

La modalità d’intervento del REPO nelle tensioni tra i componenti dell’UTE produce una

doppia dinamica dagli effetti tutt’altro che trascurabili. Da un lato, pone i soggetti su un piano

astratto di presunta parità: capo UTE e operai come attori di una controversia il cui esito è e non

può non essere che un riequilibrio dell’armonia produttiva. Le condizioni originarie della tensione,

il diverso peso in termini di potere espresso dalle figure coinvolte nel conflitto, non devono essere

messi in discussione. Dall’altro lato, singolarizza il conflitto, personalizzando l’oggetto del

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contendere e riducendolo al rango di singolarità disfunzionale a cui i meccanismi di flessibilità del

sistema possono rispondere. In questa doppia dinamica, il REPO, proprio espletando la funzione di

arbitro, diminuendo formalmente il potere di una parte della gerarchia (il capo UTE), riafferma la

potenza sostanziale che essa stessa esprime. Il potere, in altri termini, rinuncia parzialmente all’uso

legittimo della forza, e adice a sé la capacità di autocostituirsi e autorigenerarsi ogni volta in termini

nuovi e apparentemente risolutivi. Così il REPO può divenire la persona di fiducia dell’operaio, una

figura degna di rispetto, che può aiutarlo a modificare le proprie condizioni materiali di esistenza

dentro la fabbrica. Questa doppia dinamica conclude la strategia di neutralizzazione del conflitto

interno, in una logica in cui la percezione del senso dell’agire viene capovolta.

All’inizio i REPO passavano per le UTE a chiedere se c’erano problemi di relazione con i capi,

adesso sono gli altri che li cercano per lamentarsi; loro si vedono poco sulla linea, se succede

qualcosa comunque loro lo sanno, perché qualcuno va a dirglielo; se si tratta di una cosa di

una certa gravità il REPO interviene, chiama il capo e lo redarguisce, altrimenti aspetta che la

cosa si verifichi di nuovo prima di intervenire.

(CPI, intervista n° 15)

Quando il capo UTE non vuole dare i PIR è perché ha difficoltà a recuperare prestiti, non che

vuole fare i dispetti. Ci sono dei ragazzi che chiedono il PIR per un giorno in cui il capo UTE si

trova scoperto; allora iniziano le questioni, le discussioni. Tutto questo dipende dalle persone,

da come sono i capi UTE e gli operai.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 10)

Molte persone, quando hanno problemi, preferiscono i REPO anche ai sindacalisti, nel senso

che con loro riescono a confidarsi.

(delegato sindacale, intervista n° 27)

Io non sono tesserato presso nessun sindacato perché credo personalmente che l’azienda ci dia

la disponibilità di andare a discutere ogni tipo di problema. Noi abbiamo i REPO, i

responsabili del personale; abbiamo a disposizione tutto ciò che vogliamo. Sono gli stessi

REPO che si preoccupano di venire a controllare se ci sono problemi o malcontenti fra gli

operai. Ripeto, quando un operaio è nel giusto, nel senso che lavora tranquillo ed è una

persona normale, una persona a posto, l’azienda è disposta a dargli una mano; anzi lo agevola.

(addetto al Magazzino, intervista n° 13)

In questo quadro di singolarità individuali, l’intervento del REPO sana il malessere specifico

che viene posto alla sua attenzione stabilendo un ius singulare. L’immediatezza della soluzione e la

sua specificità approfondiscono il processo di normalizzazione dei soggetti al tessuto relazionale

prescritto, marginalizzando qualunque altra forma di tutela che astrattamente si riferisca a soggetti

universali e non particolari.

I lavoratori vivono spesso i loro problemi come una cosa immediata. Fanno discorsi del tipo: io

oggi mi devo fumare una sigaretta e devo chiedere il favore, lo faccio e non mi frega niente

dell’ipotesi che, facendo un certo percorso, mi posso fumare tre sigarette senza chiedere il

permesso a nessuno. Alle spalle non c’è una cultura di lavoro industriale, per cui è proprio

difficile a volte discutere di queste cose di…solidarietà, c’è molto individualismo. Io oggi posso

ottenere questo, non è importante come.

(delegato sindacale, intervista n° 33)

Con il sindacato io non ho nessun tipo di rapporto. I delegati sono giovani e non hanno alcuna

esperienza. Credo che ogni delegato curi il suo interesse particolare, nel senso che cerca di

sfruttare la sua posizione per prendere più permessi, per essere tolto dalla linea e altro. Poi i

delegati hanno rapporti continui con i capi per cui spesso riescono a ottenere delle facilitazioni,

una postazione meno complicata o faticosa: il loro è un ruolo privilegiato.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 10)

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Io non sono iscritto al sindacato; alcuni colleghi miei mi hanno proposto di entrare nel

sindacato ma io non ho ritenuto opportuno farlo perché non ho ancora capito la sua funzione

dentro questa azienda; i sindacati non hanno alcun potere, loro ritengono di poter risolvere i

problemi ma io ho avuto modo di verificare che questo non è vero.

(conduttore di impianti, intervista n° 8)

Se nel suo primo momento di sviluppo, la dinamica del dispositivo di fluidificazione agisce

sussumendo la forma interpersonale delle relazioni sociali nello spazio operativo dell’UTE e, così

facendo, disloca le criticità soggettive dal piano dei bisogni personali al piano delle disfunzioni

operative; nel suo secondo momento, nella fase ricompositiva delle tensioni e dei conflitti tra i

componenti del team, il dispositivo disloca il conflitto dal piano dei soggetti collettivi a quello degli

individui privati. È proprio a quest’ultima dislocazione che può essere fatto risalire il sorgere

dell’individualismo (Bacon e Storey, 1992) nelle relazioni di lavoro e il progressivo svuotamento

degli spazi tradizionali d’espressione collettiva degli interessi dei lavoratori.

Sulla base dell’analisi sin qui svolta, è possibile ipotizzare che le pratiche dell’HRM di

governo della conflittualità operaia, che nel contesto della Fabbrica Integrata si concretizzano nella

forma relazionale della negoziazione e dell’arbitrato, tendono a destrutturare l’identità politica

dell’operaio collettivo, rafforzando la dimensione individuale (Bacon e Storey, 1993b). E ciò, non

solo perché “sviluppano tecniche di coinvolgimento e comunicazione diretta con la forza lavoro atte

a marginalizzare il ruolo dei rappresentanti sindacali in fabbrica” (Marchington, 1990: 217) ma

soprattutto perché, riproducendo lo spazio eteronomo della fabbrica nella forma della democrazia

discorsiva e consensuale, come spazio “neutro” di circolazione e mediazione di interessi privati e

personali, producono degli effetti di potere che tendono a ridurre l’identità sociale dei lavoratori a

identità singolare.

I limiti dell’efficacia degli effetti di potere del dispositivo di fluidificazione

Il quadro delle funzioni e delle dinamiche relazionali che si svolgono tra le diverse figure che

compongono l’UTE ci permette di abbozzare alcune conclusioni in merito alla gestione della forza

lavoro all’interno della Fabbrica Integrata e ai suoi limiti rappresentati dalle resistenze.

I dispositivi di potere che operano concretamente nella Fabbrica Integrata hanno come

oggetto specifico la costituzione, e la riproduzione, di uno spazio in cui il potenziale cognitivo-

relazionale delle persone costituisca il motore fondamentale della valorizzazione (Marazzi, 1994).

In questo spazio, che è spazio del potere del capitale, la logica generale dell’autoattivazione e della

partecipazione costituisce il momento “politico” della dinamica generale del potere, attraverso cui

ogni singolo dispositivo e ogni singolo momento sono organicamente connessi in una trama

coerente e produttiva di senso. La fluidificazione del comando risulta essere la forma adeguata di

gestione della forza lavoro, poiché produce effetti di integrazione e “armonia” produttiva attraverso

un processo di tendenziale pacificazione sociale. In altri termini, l’idea “della nuova cultura

d’impresa, le cui norme e i cui valori disegnano i contorni della comunità reale” (Linhart, 1995: 99),

che Linhart definisce come dispositivo partecipativo, si sorregge su un processo di delegittimazione

sociale dell’antagonismo. Dissenso, resistenze e comportamenti non conformi ai fini

dell’organizzazione devono essere percepiti come patologie sociali da isolare per il bene della

“comunità”. L’intervento quotidiano del management nell’UTE serve a impedire che l’idea di

“comunità” si trasformi in effetto collettivo, innalzando, a fronte delle possibili fusioni individuali e

delle congiunzioni orizzontali, i muri dell’invisibilità laterale e dell’isolamento.

Ciò evidentemente non implica l’eliminazione definitiva dell’antagonismo come elemento

intrinseco del processo di valorizzazione capitalistico. Come in ogni fase di sviluppo delle forze

produttive, il processo di ristrutturazione può indurre, con il superamento dei vincoli soggettivi

posti nella fase precedente, la costruzione di nuovi spazi d’alterità antagonistica, all’interno dei

quali il processo di soggettivazione sviluppa forze, resistenze e pratiche capaci di modificare lo

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spazio normativo prodotto. Ed è possibile che, come sostiene Marazzi, le “forme dell’antagonismo

nella fase attuale si sviluppino proprio sul terreno della comunicazione linguistico-relazionale”

(1994: 77).

Se i dispositivi di normalizzazione tendono a fabbricare “le singolarità necessarie e

sufficienti”, ovvero “le piccole cellule separate” dell’identità individuale, producendo come effetto

di “verità” l’irrazionalità del conflitto e perciò la sua delegittimazione sociale, anche la resistenza

deve dislocarsi su un altro piano. “Se è nell’esperienza che la resistenza emerge - dice Foucault -

non si può individuarla solo a livello delle sue manifestazioni aperte: le resistenze vengono infatti

pensate come degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge,

solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o

sacrificali” (Foucault 1978: 85):

Con il passare del tempo si diventa solidali, cioè diventa indifferente chi fa le cose… se io ho

fatto una certa cosa non vado dal capo a dire che l’ho fatta io, per farmi sentire dire bravo. Può

succedere anche l’opposto, cioè che vado dal capo a dire che quella certa cosa, che il capo

apprezza, l’ha fatta un altro, che in quel momento si trova magari in attrito con il capo e

quindi… non c’è… come si dice… la presunzione di dover dimostrare di sapere fare le cose. E i

capi ci fanno pagare questo fatto pure in termini di premi che la Fiat dà all’interno dei team.

Per esempio, la mia squadra non prende i premi, nonostante faccia le attività anche meglio

delle altre. Se tu hai magari anche risolto dei problemi e hai fatto guadagnare anche milioni

alla Fiat, hai fatto in modo che si recuperasse produzione, sistemando un impianto che si stava

rompendo, ma non hai voluto venderti questa cosa, perché hai rapporti che sono l’opposto,

perché tu hai fatto una cosa e punto e basta. (…) Poi ti fanno pesare questo: il fatto che tu non

interagisci con il tuo responsabile. Magari il tuo responsabile non sa nemmeno quello che hai

fatto, e quindi lui non può vendersi con i suoi superiori il fatto che il suo team funziona. Tu fai

le cose per te, perché là funziona in questo modo: puoi fare cento cose buone ma se con il tuo

responsabile hai un rapporto conflittuale, nel senso che rivendichi i tuoi diritti (se faccio

questo, tu mi devi dare quest’altro) è come se non avessi fatto niente di buono. Per loro è

importante l’immagine.

(manutentore al Montaggio, intervista n°35)

Nella squadra dove lavoro io si è generato un fatto del genere, cioè cinque o sei persone hanno

maturato una certa complicità nel fare le cose, nel fare i lavori. Cerchiamo di ostacolare il

nostro responsabile, che ha un atteggiamento discriminatorio; nello stesso tempo abbiamo

isolato anche le due persone che lui utilizza come lecchini. A volte, siccome sappiamo qual è il

meccanismo, raccontiamo loro delle balle. Nel senso che noi utilizziamo, a volte, i suoi lecchini

per fargli arrivare delle informazioni distorte. Se noi abbiamo fatto una certa cosa in un certo

modo, o abbiamo fatto degli errori, facciamo sempre finta di non sapere. Cerchiamo di tenerlo

coinvolto, il lecchino, fino al punto in cui possiamo farlo per fare arrivare al nostro

responsabile informazioni falsate. Capita a volte che non ce la fai a fare certi lavori, perché

sono troppo scomodi o più pesanti o non ce la fai a tenere i ritmi; il fatto che noi abbiamo

creato anche un’amicizia esterna, ognuno si assume la solidarietà dell’altro, quindi ci

copriamo a vicenda, cioè si crea complicità.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 32)

La linea non rallenta mai, è standard la velocità e c’è un’apparecchiatura per regolarla…ma a

volte noi rallentiamo. Questo avviene di più nelle aree dove la linea è stop and go, tipo alla

verniciatura; dove ci si mette d’accordo e una volta la firmo io, una volta tu, un’altra volta

l’altro e uno si ferma un attimo, magari per rallentare, per recuperare un po’ di energie. Se il

capo è vicino, è ovvio che ci facciamo dei segnali, c’è un codice tra noi, ma se il capo non c’è

ce lo diciamo a voce, si dice:’ferma un attimo tu, perché mi sono scordato di mettere quel pezzo

oppure perché… non la reggo più.

(addetto linea Montaggio, intervista n° 10)

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Il più delle volte, dato che c’è una certa coscienza, si fa capire al responsabile che quella cosa

non si fa in quel modo perché pensiamo che, per esempio, non ci sono i sistemi di sicurezza

adeguati. Nasce proprio l’attività sindacale diretta con il responsabile. È normale che, da parte

sua, il responsabile tenda a scaricare tutti i lavori scomodi al gruppo che è più unito. Lui sa che

non riesce a interagire, sa che fuori dalla fabbrica il gruppo si vede, che va a mangiare la pizza

e lui, loro sono esclusi. La sua risposta è quella di peggiorare la condizione di lavoro, ti fa fare

i lavori scomodi, se chiedi il permesso non te lo da e preferisce darlo al lecchino e te lo fa

notare. Si sa, questa è la loro strategia!

(addetto linea Lastratura, intervista n° 34)

Quando lavori insieme con un’altra persona, ti accorgi se si tratta di uno che vuole farti le

scarpe, se ti da una mano perché vuole qualcos’altro in cambio oppure se vuole vantarsene con

il capo, ti accorgi proprio da questo. È come quando conosci delle persone, è ovvio che alla

base ci deve essere … ti devi trovare sulla stessa frequenza, capisci se è una persona che ha

l’attitudine a fare… insomma, alla base ci deve essere solidarietà, cioè devi poter capire se su

quella persona puoi contare a prescindere dal lavoro, e di questo ti accorgi proprio sul lavoro.

Loro tacitamente utilizzano questo sistema: fanno delle modifiche su alcune operazioni e ti

fanno pesare questo fatto e la reazione può essere che spostano le persone; se io e un altro

operaio stavamo sempre in quell’area, in uno spazio di dieci metri, loro mettono uno da una

parte uno dell’altra. Quando si rendono conto che tra due persone c’è una sorta di… tendono a

separare. E ogni volta si deve cominciare daccapo.(…) Nel momento in cui loro non riescono

più a controllare il team, questo diventa pericoloso. Il team, se si crea, non è per la Fiat, ma è

per migliorare le proprie condizioni, ridurre i carichi di lavoro.

(addetto linea Stampaggio, intervista n° 30)

Queste ultime interviste possono, a nostro avviso, aprire uno spazio di riflessione sul

problema delle forme di espressione della soggettività nel contesto normativo della lean production.

Dai racconti dei lavoratori di Melfi non emerge soltanto il rinnovarsi di atteggiamenti immediati e

comportamenti visibili di resistenza che testimoniano l’irriducibilità essenziale della soggettività

all’identità imposta e che possono tradursi, di volta in volta, in coalizioni, strategie, azioni di lotta

concertate, ma anche l’innescarsi di un percorso di riflessività sull’esperienza del potere, che può

costituire il primo rovesciamento possibile di quell’esperienza, la prima forma di

disassoggettamento. Ci sembra che la tensione riflessiva abbia origine proprio nello scarto tra il

desiderio e l’aspirazione degli individui di appartenere a una comunità come luogo di incontro tra

singolarità molteplici e spazio di espressione della solidarietà, e il fatto che l’esperienza della sua

inconsistenza concreta nello spazio/tempo della fabbrica si sviluppi come contraddizione

immanente tra il tempo della produzione e lo spazio dei rapporti sociali.

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Paolo Caputo

La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro

Teamwork e ruolo del lavoro operaio

La letteratura esistente, in maniera pressoché uniforme, concorda nel ritenere che

l’organizzazione del lavoro in team costituisce una delle caratteristiche salienti della lean

production. La forma di teamwork che tende a generalizzarsi all’interno delle fabbriche

automobilistiche, e non solo tali, ha come punto di riferimento di partenza, dal quale poi si

sviluppano gli esperimenti concreti di ibridazione e adattamento, l’esperienza giapponese (Cerruti et

al., 1996; Durand et al., 1999). Ciò che è controverso è se il lavoro in team costituisca l’espressione

di una rinnovata democrazia industriale o, piuttosto, soltanto una nuova e più accentuata forma di

controllo e sfruttamento dei lavoratori.

In effetti, come sottolineato da Yates (1997), tra gli studiosi della lean production non esiste

concetto più controverso di quello di teamwork. Schematizzando, da un lato, alcuni autori (Kern e

Schumann, 1984; Womack et al., 1990; Wilson, 1995)) parlano di team in quanto gruppo di lavoro

autodiretto, all’interno del quale avviene una qualche ricomposizione delle mansioni, in quanto i

lavoratori sono multi-skilled e ruotano tra le diverse postazioni di lavoro. All’estremo opposto, una

tale visione viene decisamente contrastata dalle analisi di autori quali Rinheart (1997) e Parker e

Slaughter (1998), i quali sostengono che i teams non costituiscono affatto entità autonome ma,

piuttosto, unità produttive eterodirette ed eterodeterminate volte a favorire un aumento del controllo

manageriale sul lavoro e sui lavoratori.

A nostro parere l’origine dell’organizzazione del lavoro in team non può essere ricercata né in

una generica istanza imitativa nei confronti dell’esperienza giapponese, né tanto meno in una

presunta democrazia industriale, quanto nelle stesse peculiarità strutturali del nuovo sistema

produttivo e nei vincoli e nelle possibilità operative poste dalle nuove tecnologie applicate alla

produzione. La fragilità intrinseca del sistema produttivo lean, derivante dalla linearizzazione del

ciclo di fabbricazione e dalla presenza di una tecnologia di processo caratterizzata da un elevato

grado di interdipendenza e di complessità, mal sopporta un’organizzazione del lavoro basata (come

in passato) sulla rigida suddivisione dei compiti per mansioni e funzioni ma richiede, al contrario,

una forte collaborazione tra gli addetti, un coordinamento rapido e flessibile degli sforzi dei

lavoratori, nonché l’integrazione di competenze relative alle diverse funzioni legate alla gestione

del macchinario.

Naturalmente tra le nuove esigenze poste dalla tecnologia - e dalla linearizzazione del layout

di fabbrica - e il lavoro in team non esiste una relazione meccanica di stretta necessità, quanto

piuttosto un rapporto mediato dalle strategie manageriali che individuano nel lavoro in team una

serie di elementi favorevoli nella gestione del flusso produttivo lean. Il teamwork costituisce uno

dei più adeguati strumenti di organizzazione del lavoro in grado di soddisfare le esigenze socio-

tecniche del just in time e, quindi, del principio ordinatore del processo produttivo complessivo

(Durand et al., 1999).

Risulta perciò alquanto difficile parlare di lavoro in team in quanto espressione di forme di

autonomia operaia e democrazia industriale. È la fragilità del nuovo sistema produttivo a richiedere

ed esigere una diversa organizzazione e gestione del lavoro, un utilizzo della forza lavoro che non

può prescindere da forme di coinvolgimento dei lavoratori rispetto agli obiettivi aziendali. Parliamo

di coinvolgimento e non di partecipazione, in quanto quest’ultima, dal punto di vista semantico,

“(…) rimanda a un’azione positiva, responsabile, nella quale si esercita pienamente la volontà e la

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capacità di un individuo; il coinvolgimento nasce da una volontà esterna all’individuo, una volontà

che sceglie e dispone, alla quale si può acconsentire, ma che difficilmente si può guidare, in un

quadro certamente più rigido e ricco di limiti del precedente” (Benedetti, 1998: 128). È infatti

chiaro come la delega di responsabilità ai managers di linea, la sostituzione del tradizionale

controllo gerarchico con forme di coordinamento orizzontale ecc., non comporti autonomia

d’azione per gruppi di lavoro, ma soltanto alcuni circoscritti spazi di discrezionalità operativa.

Come sottolinea Ambrosini (1998b), i gruppi di lavoro non costituiscono affatto entità

autonome, quanto piuttosto entità eterodeterminate ed eterodirette all’interno delle quali il team

leader (tanto che sia eletto dai membri stessi del team, tanto che sia designato dall’azienda, come

avviene in Fiat), svolge sostanzialmente funzioni di tipo amministrativo e di supervisione e

controllo del lavoro, applicando una serie di procedure standardizzate, anche se, nell’ottica del

miglioramento continuo, si tratta di procedure soggette a frequente verifica e ridefinizione,

ridefinizione che viene attuata anche attraverso l’apporto dei lavoratori stessi.

Del resto, il processo di delega di responsabilità ai capi intermedi e, tramite questi, ai teams di

lavoro, è favorito e reso possibile proprio grazie alle nuove tecniche capillari di controllo e

sorveglianza dell’attività produttiva connesse all’utilizzo della tecnologia informatica. Alla luce di

questa interpretazione, la delega di responsabilità agli stessi operai di linea nell’assunzione di

alcune micro-decisioni (che, seppur tendenzialmente standardizzate e, naturalmente, circoscritte

all’interno dei confini definiti dagli obiettivi aziendali, consentono pur sempre un limitato margine

di discrezionalità) è resa possibile dalle aumentate possibilità di controllo sul lavoro consentite dallo

sviluppo e dall’utilizzo, all’interno della fabbrica, della tecnologia elettronica (Delbridge, 1995;

Sewell e Wilkinson, 1992). L’organizzazione fa affidamento su questi limitati spazi di

discrezionalità in quanto consentono l’adattamento a situazioni problematiche: è il tentativo di

catturare e guidare anche gli spazi di informalità che il taylorismo considerava soltanto come

elementi di disturbo, in modo tale da utilizzarli per i fini aziendali (Thompson, 1998).

Questo cambiamento qualitativo del contesto di controllo manageriale, reso possibile dal

mutamento delle strutture attraverso le quali esso viene perseguito, si traduce in una nuova forma di

autocontrollo dei lavoratori sulla propria attività, autodisciplina interiorizzata che non comporta

alcuna forma di generale, oppure specifica, motivazione al lavoro, in quanto il coinvolgimento

richiesto non implica l’interiorizzazione dei valori aziendali, ma soltanto il dispendio di uno sforzo,

un’azione verso fini imposti (Thompson e McHugh, 1995).

Il team costituisce lo strumento fondamentale attraverso il quale il controllo manageriale si

trasforma in controllo sociale che si esprime soprattutto attraverso la pressione del gruppo dei pari,

finendo per generare comportamenti conformi agli obiettivi aziendali che prescindono da forme di

comando visibile e gerarchico. Le prestazioni del team dipendono dall’integrazione - posta e

imposta dalla struttura organizzativa - degli sforzi e dell’attività dei lavoratori che operano al suo

interno: “L’assegnazione di una responsabilità globale e condivisa, rispetto ad obiettivi spesso

contraddittori tra loro (come accade nel momento in cui si voglia mantenere un buon livello di

flessibilità rispetto al mix di prodotti, attraverso frequenti riattrezzaggi delle macchine, senza avere

ripercussioni negative sulla produttività e sul costo di produzione), è volta a suscitare una pressione

organizzativa sui membri del team affinché coordino i loro contributi lavorativi finalizzandoli agli

scopi dell’organizzazione” (Cerruti et al., 1996: 46). Naturalmente ciò non implica la scomparsa di

forme di responsabilizzazione individuale, testimoniate per esempio dall’onnipresente certificazione

di qualità, ma queste sono accompagnate e si combinano con quelle collettive, in modo tale da

sopperire e affrontare immediatamente le possibili disfunzioni operative, gli imprevisti ed assicurare

la necessaria flessibilità dell’organizzazione. “In ogni caso, il collettivo viene esclusivamente

considerato, da parte aziendale, come gruppo di lavoratori cooperanti (…) senza individuare un

ruolo specifico per organizzazioni e istituti rappresentativi degli interessi dei lavoratori e autonomi

rispetto alle gerarchie aziendali” (Ambrosini, 1998: 91).

La lean production implica mutamenti non solo della struttura materiale di fabbrica, ma anche

trasformazioni sociali e culturali. Sviluppatasi all’interno di un contesto sociale caratterizzato da

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elevati livelli di disoccupazione, di crescente mobilità dei capitali e di esasperata competizione tra

le case automobilistiche, la lean production ha incoraggiato lo sviluppo di una cultura competitiva,

interiorizzata tanto dai managers quanto dai lavoratori, competitività che diviene la base attraverso

la quale questi ultimi valutano le proprie decisioni e azioni. La nuova struttura organizzativa di

fabbrica, fondamentalmente attraverso la scomposizione cellulare del processo produttivo e il

kanban, internalizza la relazione cliente-fornitore (ossia i meccanismi esterni di mercato), relazione

che viene sorretta dal nuovo ethos competitivo portato avanti dal management all’interno della

fabbrica e dalle tecniche di gestione delle risorse umane. Questo non significa che gli operai siano

inconsapevoli del fatto che tutto ciò viene creato ad hoc dalla direzione aziendale in modo tale da

favorire un aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro all’interno dei teams, nonostante ciò

l’apparente neutralità e naturalità del flusso produttivo favorisce meccanismi di interiorizzazione

della responsabilità produttiva da parte dei lavoratori stessi (Yates, 1997).

Lo scorrere regolare e ininterrotto del flusso di produzione richiede coesione all’interno del

team. È inoltre fondamentale che i lavoratori posseggano comparabili livelli di efficienza, altrimenti

l’operaio più efficiente dovrà svolgere anche il lavoro di quello meno efficiente (Durand et al.,

1999). In tal modo, all’interno del team di lavoro, si viene informalmente a determinare una sorta di

standard lavorativo medio, il quale si basa sia sulle necessità imposte dalla velocità del flusso

produttivo, sia sul numero di lavoratori assegnati dal management ad una determinata sezione della

linea. La pressione del flusso si impone sul team di lavoro dando vita a meccanismi di peer

pressure, determinando quindi atteggiamenti e norme di autodisciplina all’interno del gruppo le

quali prevengono atteggiamenti di devianza in maniera molto più efficace di quanto possa essere

ottenuto attraverso supervisori gerarchici.

In sintesi, tra produzione snella e lavoro in team esiste una stretta relazione di coerenza e

reciprocità in quanto il teamwork costituisce una delle più efficaci modalità organizzative attraverso

le quali affrontare le esigenze tecniche e la vulnerabilità proprie della produzione just in time. Tale

conformità funzionale viene realizzata attraverso strumenti quali quelli della responsabilità

collettiva, della socializzazione della conoscenza e delle cognizioni tecniche, della pressione del

gruppo dei pari, ecc. (Durand, 1999). Comunque, anche se il team di lavoro costituisce lo strumento

attraverso il quale, e lo spazio all’interno del quale, le nuove tecniche manageriali tentano di

generare un’identità aziendale, esso rappresenta anche il contesto sociale in cui vengono favorite

pratiche relazionali e comunicative informali tra i lavoratori che, attraverso dinamiche di solidarietà,

possono rovesciare il senso dell’agire imposto in senso autogenerato e antagonistico.

Nuovi principi organizzativi e lavoro in team: l’Unità Tecnologica Elementare.

La logica operativa della Fabbrica Integrata segna il passaggio dalla centralità delle funzioni a

quella dei processi (Costanzo, 1995), caratterizzata dall’integrazione e dall’ottimizzazione

interfunzionale. In pratica, vengono ricondotte all’interno della produzione diretta tutta una serie di

funzioni di servizio/supporto all’attività di fabbricazione che prima erano separate. Infatti, le

funzioni di fabbricazione, qualità, manutenzione e gestione materiali vengono riaggregate e

coordinate all’interno delle Unità Operative, ma bisogna evidenziare che una tale integrazione

funzionale si verifica anche all’interno delle UTE. In effetti le UTE costituiscono lo strumento

operativo alla base della nuova organizzazione, in quanto sono formalmente deputate a gestire

autonomamente segmenti sequenziali del processo produttivo e, per questa ragione, devono attivare

direttamente le risorse e le competenze necessarie per il loro funzionamento (Benassi, 1994).

Il flusso produttivo è stato cellularmente scomposto in fasi caratterizzate da processi

omogenei (per es. il montaggio delle portiere), oppure da un prodotto definito (per es. gli ingranaggi

del cambio, o la plancia). Sulla base del principio guida dell’integrazione, ogni Unità Tecnologica

Elementare, pur possedendo un relativo grado di autonomia organizzativa interna ed essendo

responsabile della “parte” di processo assegnatole, deve operare in stretta interdipendenza con le

altre UTE poste a “valle” e a “monte”, secondo la logica del cliente interno.

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L’elemento fondamentale è rappresentato dal fatto che ad ogni UTE viene assegnata la piena

responsabilità della porzione di prodotto/processo su cui deve operare. Per questa ragione essa può

effettuare in maniera relativamente discrezionale una serie di attività volte a migliorare la qualità e

la produttività del processo produttivo e, inoltre, risolvere i problemi che via via si possono

presentare. L’integrazione immediata tra le diverse competenze è garantita dal fatto che all’interno

dell’UTE sono presenti i diversi “specialisti” necessari per una corretta esecuzione delle operazioni

assegnate.

Le diverse figure presenti all’interno dell’UTE sono costituite, oltre che dal responsabile

(capo UTE) ed ai diversi operatori di linea, dal tecnologo di UTE, dal manutentore e dal CPI, cioè il

conduttore dei processi integrati (figura specialistica che dovrebbe svolgere funzioni di

addestramento della forza lavoro, garantendo la corretta esecuzione delle operazioni). In pratica agli

operai di linea si affiancano alcune figure tecniche specialistiche necessarie per far fronte alle

variabili esigenze operative delle diverse cellule produttive.

Il capo UTE non viene eletto dagli operai presenti all’interno del team, ma viene nominato

dall’azienda ed inserito nella gerarchia di stabilimento. È di sua competenza la responsabilità della

gestione delle risorse materiali e dei lavoratori presenti all’interno del proprio team. Deve operare in

maniera da ottimizzare congiuntamente i parametri di efficienza, qualità, volumi e mix produttivo e,

inoltre, da garantire una risposta rapida ed appropriata alle eventuali varianze produttive. Al capo

UTE compete l’integrazione sistemica della cellula produttiva di base. Deve svolgere un ruolo più

imprenditoriale e meno gerarchico rispetto alla precedente figura del capo squadra (Fiat Auto). In

sintesi, l’UTE si presenta come una sorta di “micro-impresa” alla quale spetta, attraverso la gestione

imprenditoriale del capo UTE (che governa sia variabili tecnologiche e sia organizzative), la piena

responsabilità del segmento di processo produttivo di sua competenza.

Poiché all’interno della struttura produttiva lean una parte dei compiti dei lavoratori non è

direttamente riconducibile a mansioni proceduralizzate, in quanto spesso legati alla gestione di

eventi parzialmente imprevedibili, anche i contenuti dell’attività degli operai generici hanno subito

un processo di cambiamento (Cerruti, 1993). Gli operai di linea, infatti, oltre a continuare

generalmente a svolgere operazioni parcellizzate e proceduralizzate, devono essere coinvolti

attivamente nello svolgimento della propria mansione, ossia è prevista una loro autoattivazione a

prestare attenzione a quel che devono fare. Inoltre sono tenuti ad essere professionalmente

polivalenti; infatti viene praticato un frequente interscambio tra le diverse postazioni. Sono anche

responsabili di parte delle mansioni precedentemente assegnate ai lavoratori indiretti (manutenzione

ordinaria, responsabilità del controllo di qualità, pulizia del posto di lavoro e degli attrezzi). Infine,

dato di estrema importanza, vengono investiti della responsabilità di assorbire, quanto più possibile,

le micro-varianze, i problemi che si verificano a livello del posto di lavoro.

In sostanza, all’interno della nuova struttura produttiva anche gli operai sono tenuti a

svolgere, oltre alle tradizionali attività di fabbricazione, un’attività di elaborazione e applicazione di

micro-decisioni (correlate alle informazioni e alle capacità professionali possedute e, soprattutto,

alle responsabilità e agli obiettivi assegnati). Ciò è dovuto al fatto che la nuova organizzazione del

lavoro è diretta ad assorbire capillarmente, e in tempo reale, eventi produttivi difficilmente

prevedibili (e quindi formalizzabili), sia sul piano temporale che su quello delle modalità di

intervento.

Se all’interno del sistema produttivo lean le “risorse umane” giungono a svolgere un ruolo di

primo piano, l’organizzazione del lavoro in team si presenta come la struttura idonea a favorire

mobilitazione e impegno da parte dei lavoratori nella risoluzione dei problemi. All’interno di essa

esiste una forte pressione all’autoattivazione. Tale pressione non è soltanto inscritta all’interno del

layout materiale e organizzativo di fabbrica (linearizzazione e cellularizzazione del processo

produttivo), cioè non è solo di natura strutturale (Fiocco, 1997). Essa si viene ulteriormente a

combinare e potenziare con una pressione culturale-relazionale (che si esprime attraverso la forma

dell’agire comunicativo di natura consensuale, diretto cioè al reciproco intendersi) volta ad indurre

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il massimo grado di disponibilità dei dipendenti alla cooperazione attiva e a riprodurre l’apparente

neutralità della pressione strutturale.

Relazioni sociali-produttive all’interno del team e pratiche quotidiane di autoattivazione.

Nella produzione “senza scorte”, come sottolineano Dohse, Jürgens e Malsch (1988), i costi

delle irregolarità vengono a ricadere direttamente sui lavoratori (attraverso non-encomi, rimproveri,

sanzioni, intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro), i quali vengono pertanto pressati ad

attivarsi nella risoluzione dei problemi. All’interno di questo quadro, la pressione sociale dei

compagni, del “gruppo” di lavoro costituisce una parte funzionale del controllo di produzione in

quanto fattore di stimolo per la prestazione individuale:

C’è la persona che ha voglia di lavorare e c’è la persona che non ha voglia di lavorare, con la

persona che è svogliata basta poco per…da fastidio pure alla UTE ... Se tu acchiappi una

persona del genere per una giornata intera, per sette ore e un quarto tu stai sempre sudato, nel

senso che stai sempre ‘sotto’, mi crea problemi pure a me, per il mio lavoro certo.

Le tradizionali pratiche informali di aiuto reciproco vengono sostenute e incentivate dal

management aziendale in quanto elementi di flessibilizzazione del sistema. Di solito, nel momento

in cui un compagno di lavoro si “imbarca”, viene aiutato dai colleghi:

In generale si cerca di darsi una mano. I CPI ti danno una mano, quando capita, quando li

trovi davanti, se no ti devi aiutare tra colleghi, se ci riesci, se ci sta l’altro vicino.

Sottolineiamo il “ti devi aiutare”. Poiché molto spesso le operazioni sono di tipo incrementale,

accanto all’attivazione dettata dall’aiuto tra colleghi, si accompagna la pressione reciproca a

svolgere operazioni in maniera “corretta”, in maniera tale da non creare problemi ai compagni di

lavoro collocati nelle postazioni successive alla propria (cosa che, comunque, viene ulteriormente

sanzionata ufficialmente attraverso la responsabilità individuale, la certificazione di qualità):

Io ho sempre reagito in questo modo, gli dico ‘cerca di fare le operazioni come si deve perché

se no le devo fare io’. Può capitare che il collega quel giorno non sta bene e allora ci si aiuta,

basta che non è una routine, anche perché poi chi non lavora bene viene beccato perché mette il

timbro.

In tal modo, la produzione snella, non solo sfrutta le pratiche informali di aiuto reciproco che,

del resto, sono sempre esistite, ma le rende necessarie, strutturali.

Sostanzialmente, attraverso la trasposizione dell’UTE in “gruppo”, o meglio attraverso

l’utilizzo di pratiche gestionali face to face tipiche dei gruppi primari, il management aziendale mira

sia ad accedere alle relazioni informali tra lavoratori (quali amicizia e solidarietà da un lato, e

pressione del gruppo dei pari dall’altro), sia a sfruttarle come risorse produttive.

Apparentemente, la composizione numerica delle UTE, che al montaggio varia tra i 20 e gli

80 operai circa, sembrerebbe impedire la costituzione di gruppi di lavoro caratterizzati da relazioni

di tipo interpersonale. Bisogna però ricordare che all’interno delle stesse UTE opera, ogni 15-20

operai, un’ulteriore figura professionale formalmente operaia (il CPI) ma che, di fatto, si configura

come una sorta di vice-capo. Di norma, i CPI sono “persone” aperte al dialogo e disponibili nel

“dare una mano”:

Prendono gli ordini dal capo UTE e si mettono a disposizione degli operai, seguono il processo,

se necessario lavorano e, comunque sia, sono sempre a disposizione degli opera; se hai un

problema con un avvitatore ti arrivano.

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La percezione operaia del “gruppo” viene inoltre alimentata dal meccanismo gestionale della

rotazione tra le diverse postazioni di lavoro presenti all’interno dell’UTE. A Melfi esiste infatti la

rotazione programmata, che attualmente dovrebbe essere effettuata ogni tre giorni (anche se, in

realtà, è relativamente limitata e di solito avviene tra postazioni contigue). La rotazione, oltre a

favorire la polivalenza professionale, favorisce la conoscenza personale e relazioni sociali

interpersonali tra tutti i membri dell’UTE:

Con uno puoi avere un’amicizia più accentuata e con un altro meno, non significa comunque

che non si parla, siamo comunque colleghi e poi domani posso lavorare con lui, dopodomani

con un altro, perché comunque noi giriamo.

Le diverse postazioni di lavoro si presentano interrelate tra loro, linearmente e operativamente

integrate all’interno di un processo di fabbricazione incrementale e consequenziale che le rende

“dipendenti le une dalle altre”. Tale principio organizzativo diffonde capillarmente, lungo tutta la

linea di produzione, il controllo sui risultati dell’attività di ogni operaio (e di ogni cellula). Inoltre,

attiva meccanismi di feedback tra le diverse postazioni e le diverse cellule di lavoro sugli eventuali

scostamenti qualitativi (e quantitativi) tra le caratteristiche attese del prodotto in lavorazione e

quelle reali. Cioè permette, anzi prevede forme di comunicazione diretta tra le postazioni di lavoro

al fine di segnalare le anomalie eventualmente riscontrate, inducendo di conseguenza azioni di

miglioramento dirette a fare corrispondere l’input “offerto” a quello “domandato” (nella logica del

rapporto cliente/fornitore):

Se io noto degli errori fatti dal collega che mi precede, poiché lavoriamo sulla catena, gli dico

‘guarda che qui c’è qualcosa che non va bene’. Se lui vuole può venire a vedere. C’è gente che

dice ‘a me non me ne frega, manda avanti’. Allora, giunta la macchina in delibera, la vettura

perché non va bene viene segnata sul foglio delle vetture non deliberate, non OK. Poi il CPI va

a richiamare il suo ragazzo e gli dice ‘guarda che hai sbagliato questo’…

Come si può notare da questo brano di intervista, normalmente il lavoratore si attiva, o

dovrebbe attivarsi, nella segnalazione dei problemi, delle anomalie. Soltanto nel momento in cui ciò

non si verifica interviene il CPI. La pratica gestionale attraverso la quale egli manifesta, e deve

manifestare il proprio ruolo è di tipo relazionale-consensuale:

I rapporti con i CPI e i capi UTE sono buoni, dipende dalle persone.

E ancora:

Con i CPI prima avevamo più problemi, mo’ c’è uno nuovo, da un paio d’anni, che è una

bravissima persona. Abbiamo un paio di CPI che se li chiami sono comunque a disposizione.

Lo stesso discorso, legato alle pratiche gestionali basate su relazioni di tipo interpersonale

fatto per i CPI, vale anche, naturalmente, anche per i capi UTE:

Non è che il capo UTE ti impone che devi fare questa cosa per forza. Non lo so, se escono fuori

linea oggi, allora mi dà un compito da fare: ‘mi devi fare alcuni recuperi a inizio turno’. Se tu

lo puoi fare lo fai, se no non è che…

E ancora:

Questo capo UTE che abbiamo adesso è molto disponibile al colloquio, cioè se hai un problema

non è che ti dice ‘tu devi fare così e basta’, ma parla. Che comunque il compito del capo UTE è

quello, non ti può obbligare e dire ‘tu lo devi fare per forza’, lui ti dice ‘per me lo devi fare

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così’, e io lo vedo molto disponibile, infatti sta recuperando parecchi di noi a metterci sulla

strada, diciamo, buona.

Per il capo UTE, anzi, l’esercizio del potere “personale” viene spesso interpretato e

giustificato dai lavoratori in quanto dettato dalla necessità oggettiva e dalla responsabilità di

governo dell’UTE:

Loro comunque hanno la pressione dall’alto e devono avere la pressione verso qualcuno, e

quelli lì siamo noi, gli operai.

In ogni caso, le pratiche relazionali interpersonali di imposizione del comando tendono a

produrre una percezione di appartenenza al “gruppo” e un senso per le attività che devono essere

svolte:

Io ho un amico intimo che è capo UTE e lui non ha mai detto ad un operaio “vai più in là”, non

ha mai rimproverato una persona, mai. Pensa che tutti quelli della sua UTE un giorno, per i

suoi modi di fare, per la sua gentilezza, si sono permessi di organizzare una cena e di fargli

anche un regalo.

Prima avevamo un capo UTE bravissimo, come posso spiegarti ... metteva i guanti pure lui e

scaricava i pezzi, quando c’era da lavorare aiutava pure lui in linea. Era tutta un’altra persona

e da noi operai non veniva valutato come un capo, ma come uno di noi.

... il lavoro non è più come prima, come alla catena, adesso ti fanno diventare responsabile,

cioè ti inculcano fin dall’inizio che la macchina la fai tu e la devi considerare come se fosse una

cosa tua.

Come dichiara un CPI:

... noi dobbiamo andare avanti e indietro a vedere cosa succede, però ogni tanto ci fermiamo da

qualcuno, ci raccontiamo qualche cosa, una barzelletta, se no le otto ore non passano mai.

Oppure un operaio va a fare una pausa ci prendiamo il caffè insieme, cioè ... che poi alla fine si

diventa amici con tutti, si scherza, si parla e quindi, prima che succeda qualche problema a

questo operaio, tu gli dici: “comportati bene, mi raccomando”. Il mio modo di lavorare con le

persone è questo, cioè di essere amici, perché quando si è amici... anche tu stai tranquillo

perché sai che quel lavoratore ti fa bene il lavoro, non ti crea problemi e quindi anche tu fai

bene il tuo lavoro.

Le pratiche reali attraverso le quali gli operai si attivano nella soluzione dei problemi non

comportano necessariamente un apporto ideativo, anzi, nella maggior parte dei casi si tratta soltanto

di prestazioni straordinarie di mansioni da svolgere, di orario di lavoro e competenze: sostituire un

compagno che va in bagno, svolgere due postazioni contemporaneamente, evitare di mettersi in

malattia o di richiedere permessi se non in casi di estrema necessità (perché comunque il peso del

lavoro da dover fare ricadrebbe sui compagni di UTE), sostituire un collega di lavoro in permesso

facendo lo straordinario, aiutare chi si “imbarca”, recarsi in anticipo sul posto di lavoro per

prepararsi la postazione, evitare l’insorgenza di problemi che possano bloccare la linea, ecc.

Se uno deve andare in bagno al di fuori del suo turno di pausa chiede al compagno vicino di

tenergli il posto, la postazione finché non torna. Cerca di andare più veloce in modo tale da

anticipare un po’ la postazione e si fa aiutare, sostituire dal compagno di lavoro vicino.

C’è pure chi si arrabbia però, in generale, se uno si imbarca ci si aiuta. Il lavoratore

successivo va nella postazione di quello precedente e lo aiuta a terminare l’operazione.

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La percezione indotta di essere parte di un “gruppo” produce una serie di ulteriori

conseguenze, tra le quali assume grande rilevanza, come già accennato in precedenza, la pressione e

la coercizione del “gruppo dei pari” (nella forma della sorveglianza e della disciplina in caso di non

conformità). Quest’ultima finisce per determinare la formulazione di criteri normativi di

comportamento individuale che, non essendo stabiliti formalmente in maniera autoritaria e

gerarchica dal management, appaiono come se fossero libera espressione del gruppo stesso, del

collettivo dei pari e si traducono, infine, in meccanismi che favoriscono atteggiamenti di controllo

sociale:

Non è che mi metto malato cà tengo o’ raffreddore, oppure oggi sto con la ragazza e domani

non vado a lavorare (…), che poi la mancanza che facciamo noi la deve coprire un’altra

persona.

Il team finisce per esercitare una funzione di controllo orizzontale che si combina con i

meccanismi di supervisione tradizionale (Rinehart et al., 1997). In questo senso, affinché operino

meccanismi sociali di pressione reciproca al lavoro, non è tanto necessaria l’identificazione con gli

obiettivi aziendali, quanto l’interesse e il desiderio dei lavoratori di lavorare meno duramente del

previsto: strutturalmente, poiché la fabbrica snella implica anche “meno persone”, l’assenza di un

membro del team, per qualsivoglia motivo, deve essere compensata dai compagni di lavoro (come

testimoniato dai lavoratori, a Melfi il meccanismo organizzativo dei “prestiti” di operai da altre

UTE funziona poco e male).

Per com’è adesso la situazione passa pure un’ora prima che arrivi un prestito. Però la linea

cammina lo stesso, si mette pure il capo UTE in linea, oppure un operaio ricopre due

postazioni.

Quando manca un operaio, il capo UTE dovrebbe chiedere un prestito a un’altra UTE, ma

facendo così, praticamente lui compra la persona, è un costo. Quindi il mio capo non lo fa

volentieri, perciò di solito divide le operazioni della persona assente tra il gruppo di lavoratori

che sta facendo il lavoro in quella zona.

Evidentemente, per il management non si tratta tanto di creare un gruppo coeso, quanto di

indurre e sfruttare le sinergie produttive umane che si vengono a creare all’interno del lavoro di tipo

cooperativo svolto in team. Come argomentato da Parker e Slaughter (1988), il concetto e

l’istituzione dei team di lavoro mira ad incrinare la solidarietà informale che inevitabilmente si

sviluppa all’interno delle fabbriche, tentando di incanalare e racchiudere questo sentimento entro le

formali, altamente controllate strutture di team disegnate dall’azienda. Tutto ciò è volto a

proceduralizzare il lavoro di gruppo informale, non tanto per favorire e concedere spazi di

autonomia e autogestione lavorativa, quanto per porlo sotto il governo del controllo manageriale

(Dassbach, 1997).

I capi vogliono sapere tutto di tutti e comunque devono tenere sempre qualcuno sulle spine.

Penso che sia proprio l’impostazione aziendale che chiede di considerare un tot numero di

persone come “non buone”: ci sono i bravi, i meno bravi, quelli che lavorano, quelli che sanno

lavorare ma non vogliono farlo, ecc. Cioè fanno le loro squadre, dividono i lavoratori in

categorie.

La contraddizione insita in questa nuova forma di comando sul lavoro si esprime nel fatto che

la cellula produttiva, oltre a costituire lo spazio il prerequisito strutturale sulla cui base vengono

(ri)prodotti atteggiamenti di autoattivazione, rappresenta contemporaneamente lo spazio concreto

all’interno del quale possono generarsi ed emergere pratiche collettive che oltrepassano i limiti del

particolarismo imposto e riprodotto dal management. Al suo interno, infatti, vengono favorite

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pratiche relazionali e comunicative informali che, attraverso lo sviluppo di dinamiche di tipo

solidaristico, potrebbero rovesciare il senso imposto, in senso autogenerato.

Un sistema che avevamo noi era quello di mettere l’avvitatore vicino al gancio, il gancio se lo

portava via fino a fine corsa e così si bloccava la linea. Gli altri operai facevano finta di non

avere visto niente, erano tutti distratti.

Nella UTE di ... se la macchina scorre un po’ più veloce del dovuto i ragazzi, tutti insieme, non

la montano. In quella UTE il capo ha timore ... non si fanno recuperi, straordinari, non si fa

proprio niente.

Conclusioni

La riflessione sul sistema organizzativo e produttivo di matrice post-fordista, e i mutamenti

che quest’ultimo ha comportato nell’utilizzo della forza lavoro, ci hanno condotto ad analizzare la

problematica legata ai teams di lavoro.

La nuova fase di razionalizzazione del processo produttivo – e il nuovo ruolo svolto

dall’attività lavorativa al suo interno – segna il passaggio dalla logica della razionalità assoluta,

incarnata dall’organizzazione del lavoro taylorista (cioè di quella razionalità che crede di poter

ricondurre tutta l’incertezza a certezza), a quella di una razionalità orientata alla gestione

dell’incertezza e della variabilità. Il principio fondamentale attraverso il quale la Fabbrica Integrata

punta alla gestione dell’incertezza è quello dell’integrazione, il quale comporta mutamenti

fondamentali nell’utilizzo del “valore d’uso” della forza lavoro, che non può più essere soltanto

ricettrice passiva dei dettami e degli obiettivi imposti dalla direzione, ma deve partecipare

attivamente alle attività di produzione.

Naturalmente, l’autoattivazione non può essere un qualcosa che viene demandato alla libera

iniziativa dei lavoratori, ma viene indotta attraverso una serie di meccanismi strutturali

(integrazione organizzativa, interfunzionalità, ricomposizione delle mansioni, monitoraggio e

controllo capillarmente diffuso delle attività, lavoro in team, maggiore “non proceduralizzazione”

del compito lavorativo in una prospettiva di kaizen) che finiscono per determinante una forte e

costante pressione organizzativa all’autoattivazione: “La linearizzazione del flusso produttivo e la

concatenazione sequenziale e integrata delle tecnologie di processo esercitano una forte pressione

organizzativa affinché i lavoratori conseguano, in modo tendenzialmente continuo e costante, quei

risultati che mantengono il sistema produttivo in equilibrio, ma poiché tutto ciò è ottenuto attraverso

l’esercizio di uno spazio di autonomia decisionale, allora i lavoratori sono ‘costretti’ a svolgere

quelle attività discrezionali che minimizzano le oscillazioni dell’output produttivo” (Cerruti, 1993:

306).

Questi meccanismi strutturali, che definiscono e incorporano una particolare “visione del

mondo” (e, pertanto, attribuiscono senso e significato alle attività che devono essere svolte,

inducendo di atteggiamenti di autodisciplina e autoregolazione), si vengono poi a intrecciare –

potenziandosi – insieme alle nuove pratiche gestionali della forza lavoro che, regolando e

plasmando i rapporti sociali interni, agiscono in direzione dell’attivazione di “sinergie umane”, le

sole realmente in grado di garantire il successo del nuovo apparato logistico-produttivo ispirato ai

principi della lean production.

La contraddizione connaturata all’attuale forma attraverso la quale si manifesta il comando

sul lavoro è data dal fatto che, comunque, la nuova strategia manageriale, pur operando

tendenzialmente in direzione della sussunzione della soggettività dei lavoratori, in maniera tale da

renderla funzionale alle esigenze della razionalità d’impresa, si scontra inevitabilmente con dei

bisogni e con una razionalità operaia che trascendono i ristretti limiti imposti dalle necessità di

valorizzazione del capitale (Barchiesi, 1997; Fiocco, 1997).

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6

Francesco De Angelis

I tempi di lavoro

Introduzione

Numerose ricerche sottolineano l’importanza che assume la gestione del tempo nel sistema

lean production (Womack, 1993; Blackburn, 1993; Mariotti, 1994; Costanzo, 1995; Cerruti, 1997).

La continua innovazione tecnologica, l’inasprirsi della concorrenza internazionale, la tendenza alla

saturazione dei mercati, la variabilità della domanda e l’accorciamento di vita dei prodotti, non sono

che alcuni degli elementi che costituiscono il contesto ambientale entro cui si è sviluppata

l’organizzazione ‘snella’ della produzione e del lavoro. D’altronde, la necessità di offrire un

prodotto di qualità, in una fabbrica priva delle reti di salvataggio costituite dalle scorte, ed in tempi

notevolmente ridotti rispetto al passato, obbliga le imprese automobilistiche a dotarsi di un apparato

produttivo che si fonda sulla flessibilità nell’utilizzo sia degli impianti sia della forza lavoro. Un

elemento centrale della flessibilità della fabbrica lean è rappresentato dalla gestione del tempo.

Questo, con l’adozione di approcci ispirati alla Time Based Competition (Blackburn, 1993; Stalk e

Hout, 1991), diventa fattore strategico che, opportunamente impiegato e controllato, contribuisce ad

assicurare differenziali di competitività rispetto ai concorrenti.

La riduzione del time to market passa necessariamente non solo attraverso la velocizzazione

delle singole fasi del processo produttivo interno ed esterno alla fabbrica, ma soprattutto dalla

ridefinizione dell’intero processo come “fascio di processi temporalmente paralleli ed

organizzativamente integrati” (Cerruti, 1995: 5). I tempi della produzione, così come quelli della

progettazione e della vendita, sono sottoposti ad una continua revisione finalizzata alla loro

riduzione ma, a differenza di quanto avveniva nella fabbrica fordista, essi non vengono considerati

come la somma dei tempi specifici di ogni singola fase produttiva, stabiliti centralmente e fissati

una volta per tutte, secondo il principio della one best way; nel sistema lean i tempi della

produzione vengono considerati come momenti di un processo complessivo, in cui ogni singola fase

è reciprocamente interconnessa. La riduzione dei tempi, quindi, non riguarda singole fasi, ma

l’intero processo produttivo, nella logica del miglioramento continuo (kaizen). Tuttavia, il concetto

di ‘tempo-processivo’ della fabbrica lean contiene il concetto di ‘tempo-costo’ delle operazioni, che

caratterizzava la fabbrica fordista, in quanto il miglioramento della prestazione complessiva deve

fondarsi su un controllo accurato e su una compressione dei tempi delle singole fasi. Potremmo

dire, quindi, che il kaizen funziona nella misura in cui l’azienda riesce ad abbattere tutti i tempi

morti della produzione, mantenendo il flusso teso della produzione.

Questo discorso vale particolarmente per i tempi delle operazioni, i quali, soprattutto nelle fasi

più tradizionali, come quelle del montaggio, ma anche in quelle più automatizzate, come lo

stampaggio e la verniciatura, sono sottoposti ad una estrema intensificazione, attraverso

l’applicazione di sistemi metrici di derivazione taylorista.

In ogni caso, nella fabbrica lean la determinazione dei tempi del lavoro presenta nuovi

elementi di complessità. In primo luogo, dal punto di vista organizzativo, la cellular manufacturing

(Bonazzi, 1993), il decentramento decisionale, ed il sistema di rotazione dei lavoratori

multifunzionali, attribuiscono il potere ad ogni cell leader di contribuire a determinare i carichi di

lavoro sulle singole postazioni (e non per addetto, come avveniva prima), naturalmente nel rispetto

dei volumi produttivi imposti dall’azienda. In secondo luogo, l’elevato livello di automazione

presente in alcune fasi del processo produttivo rende difficile la definizione stessa dei carichi di

lavoro, secondo il concetto di saturazione che era proprio della fabbrica fordista.

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Complessivamente, le nuove caratteristiche del lavoro nella fabbrica lean, che si fondano anche e

soprattutto sull’impiego delle capacità intellettuali dei lavoratori, secondo il principio

dell’autonomazione ohnista (Ohno, 1993), rendono confusa la stessa idea di ‘carichi di lavoro’, in

quanto essi non comprendono più solo l’attività manuale o tecnica da svolgere in un determinato

tempo, ma coinvolgono tutta una serie di compiti che vanno dal riuscire ad anticipare ed intervenire

su problemi tecnici, alla segnalazione dei difetti di qualità, all’individuazione e suggerimento di

soluzioni migliorative del processo lavorativo.

Strettamente connesso alla flessibilità dell’intero sistema lean, è anche il tempo di

funzionamento dell’impianto. L’alto costo degli investimenti produttivi e, quindi, la necessità di

sfruttare al massimo il vantaggio competitivo dato dall’introduzione delle innovazioni tecniche,

impone che la fabbrica lean funzioni a ciclo continuo. La tradizionale settimana lavorativa di cinque

giorni, su due turni giornalieri, tipica della fabbrica fordista, viene sostituita dalla settimana

lavorativa di sei, ed in alcuni casi di sette giorni, con un sistema di turnazione che, con varie

modalità, copre anche il turno notturno, ed in cui, spesso, il riposo settimanale cade variabilmente

nel corso della settimana.

Cercheremo di individuare in che termini la realizzazione dello stabilimento Sata, organizzato

secondo i principi della lean production ha trasformato il tempo del lavoro, all’interno della

fabbrica, sia dal punto di vista degli orari di lavoro e sia dal punto di vista dei tempi della

prestazione lavorativa.

La tesi che guiderà l’analisi è che la nuova logica organizzativa coniuga una elevata rigidità

nel controllo della prestazione lavorativa, concretizzata da un complesso sistema di turnazione e da

un estremo approfondimento dell’applicazione delle metriche tayloristiche di definizione dei tempi

delle operazioni, con una elevata flessibilità nell’impiego della forza lavoro, resa possibile da una

configurazione del layout e, in generale, delle condizioni ambientali di lavoro, capaci di far

esprimere la multifunzionalità dei lavoratori, nonché dalla possibilità di gestione flessibile dei

carichi di lavoro attribuita ai cell leaders. In questa nuova forma di organizzazione del lavoro,

quindi, ciò che importa non è tanto la compressione dei tempi necessari per le singole fasi della

produzione concepite come slegate le une dalle altre, quanto la compressione dei tempi di

produzione, nella logica del miglioramento continuo, e la realizzazione del ‘flusso teso’ del

processo complessivo, ottenuta attraverso una gestione flessibile del lavoro.

La base normativa del nuovo sistema di orari

Gli accordi del 18 dicembre ‘90 e del 11 giugno ‘93 rappresentano la base giuridica della

realizzazione del progetto della Fabbrica Integrata di Melfi. Il primo si pone come pre-condizione

alla costruzione degli stabilimenti di Melfi e di Pratola Serra, stabilendo le regole sul livello di

utilizzazione degli impianti che deve, nelle intenzioni aziendali, garantire all’impresa alti livelli di

redditività senza alcuna premessa ‘vincolante’ sul grado del loro utilizzo. Secondo questo accordo,

gli impianti dovranno funzionare a tempo pieno per sei giorni la settimana su tre turni strutturali a

rotazione, includendo così anche il sabato come giornata lavorativa normale; inoltre viene decisa

l’assunzione del personale tramite Contratti di Formazione Lavoro, nonché si concorda con il

sindacato la deroga sul divieto al lavoro notturno per le donne, stabilito dall’art. 5 della L 903/77

Con l’accordo dell’11 giugno ‘93 si regolamenta la materia dell’orario di lavoro e della

prestazione lavorativa, modificando profondamente i termini fissati dal vecchio accordo del 5

agosto ‘71, ancora sostanzialmente vigente negli stabilimenti Fiat. La nuova regolamentazione

affronta in modo completo tutti gli aspetti della prestazione di lavoro e della questione del tempo di

lavoro nelle sue diverse dimensioni, stabilendo in particolare una nuova regolamentazione

dell’attività lavorativa e la scomposizione della retribuzione in parte fissa e variabile, legando

quest’ultima a parametri di produttività e redditività, che però, di fatto, incide relativamente poco

nella variazione del salario mensile.

Riguardo all’orario di lavoro, viene concordato il terzo turno strutturale, secondo una logica di

riorganizzazione dei tempi della produzione in funzione dell’accrescimento dell’utilizzo degli

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impianti che permette di sfruttare al massimo la loro capacità produttiva ed il vantaggio competitivo

della innovazione che essi possono rappresentare. Esso era già stato introdotto negli stabilimenti di

Termoli e Cassino, e da questo punto di vista, quindi, Melfi non rappresenta una novità. Innovativo

è invece il sistema di turnazione che con l’accordo del 11 giugno ‘93 si introduce per i nuovi

stabilimenti. Questo prevede 7 differenti sistemi di turnazione, coinvolgenti altrettante categorie di

lavoratori, secondo l’ordine di seguito brevemente descritto:

Operai addetti o collegati al ciclo produttivo, con una struttura di orario di lavoro su tre turni a

rotazione per sei giorni la settimana, con un riposo di tre giorni a scorrimento ogni 3 settimane ed

un orario giornaliero di lavoro di 7 ore e 45 minuti.

Impiegati, Quadri, Addetti o collegati al ciclo produttivo, anch’essi con una articolazione su

tre turni per sei giorni la settimana, con una settimana lavorativa di 5 giorni più un giorno di riposo

a scorrimento e con lo stesso orario della prima categoria.

Personale addetto o collegato al ciclo produttivo su due turni, che opera su sei giorni la

settimana con il riposo di un giorno a scorrimento. Gli orari di lavoro per questi lavoratori

coincidono con quelli della categoria precedente, eccezion fatta per l’assenza del turno notturno.

Personale addetto alla Centrale Termica e Sicurezza Industriale e Servizi Comuni. La

regolamentazione dell’orario di lavoro è diversa da quelle appena viste per almeno due motivi: per

essi è prevista la domenica lavorativa e, essendo necessaria la loro continua presenza nello

stabilimento, hanno orari più lunghi. Quindi la loro settimana lavorativa, suddivisa in gruppi di 8

settimane, prevede riposi a scorrimento di due giorni per quattro settimane e di un giorno per le

rimanenti quattro. Il loro orario giornaliero di lavoro è di 8 ore e 22 minuti, con 30 minuti di

refezione all’interno del turno, e di 44 ore settimanali medie.

Personale addetto ad attività di manutenzione. Anch’essi prestano la loro opera per tutta la

settimana, con la sola eccezione del turno mattutino di domenica. Il riposo è di due giorni la

settimana a scorrimento e l’orario di lavoro giornaliero è di 8 ore, con un orario settimanale medio

di 40 ore.

Personale operaio che presta attività lavorativa sul turno centrale. La settimana lavorativa è

articolata su sei giorni, con un giorno di riposo a scorrimento. L’orario giornaliero è di 8 ore con un

intervallo di 45 minuti non retribuito per la refezione.

Impiegati e quadri che prestano attività lavorativa sul turno centrale. Esattamente come per la

categoria appena vista, tranne che per la flessibilità di 1 ora nell’ingresso, che si riflette sull’orario

di uscita.

Pur non disponendo di dati numerici sul numero di lavoratori coinvolti nei diversi tipi di

orario e turnazioni, riteniamo presumibile che il primo, quello degli operai addetti al ciclo

produttivo, raccolga la gran parte di essi. Questo non si differenzia di molto rispetto al secondo o

rispetto a quello degli addetti alla manutenzione, ed è, a detta della stessa dirigenza aziendale,

“l’unico regime-orario veramente innovativo” (Costanzo, 1995: 163). Quindi, nel prossimo

paragrafo, concentreremo la nostra attenzione su di essa e sullo studio di alcune delle sue

implicazioni.

Il regime di orario degli operai addetti o collegati al ciclo produttivo

Come abbiamo già detto, la loro attività di lavoro è articolata su tre turni a rotazione per 6

giorni alla settimana con riposo a scorrimento. La settimana lavorativa ha inizio alle ore 22,00 della

domenica e termina alle ore 21,45 del sabato. L’orario giornaliero è articolato nella successione di

tre turni, la cui durata è di 7 ore e 15 minuti, oltre a 30 minuti retribuiti per mensa a fine turno che

non vengono computati nel tempo di presenza in officina, con un intervallo di 45 minuti tra ogni

turno, normalmente destinato alla manutenzione ordinaria degli impianti.

L’orario di lavoro settimanale medio è di 36 ore e 15 minuti, pagati come 40 ore. Tale soglia

si ottiene cumulando all’orario appena visto, riferito al tempo di presenza in officina, i 30 minuti per

la refezione pagati e ulteriori 15 minuti, ottenuti distribuendo su base annua le 57 ore e 30 minuti di

permessi individuali retribuiti previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro.

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Il riposo a scorrimento in questo regime di orario matura ogni 3 settimane lavorative, per cui a

due settimane di 6 giorni lavorativi, segue una settimana di lavoro di 3 giorni e 3 di riposo, detto

‘compensativo’, cumulati alternativamente a fine o inizio settimana, diventando quindi quattro,

unendosi alla domenica.

Per consentire una omogenea distribuzione dei riposi tra i lavoratori impegnati sui tre diversi

turni, che vengono denominati A, B, C, l’alternanza settimanale ha la sequenza: A - C - B - B - A -

C - C - B - A. Questa successione di turni, che si rigenera ogni 18 settimane, implica che nel corso

di un anno si verifichino 6 ‘ribattute’, cioè ripetizioni dello stesso turno in misura di due ‘ribattute’

per turno, senza che in esse ricada il riposo compensativo, per cui, per almeno due volte in un anno,

ogni lavoratore che presta la sua attività in questo quadro di turnazione, deve svolgere il turno

notturno per 12 giorni di seguito, inframezzati da un solo giorno di riposo. Inoltre, in conseguenza

del riequilibrio del sistema dei turni, che avviene ogni anno, la ripetizione del turno avviene per tre

settimane consecutive, e quindi, ogni tre anni, i lavoratori sono chiamati a coprire per tre settimane

consecutive il turno notturno.

Abbiamo sottolineato questa situazione in quanto è una delle conseguenze sopportate con

maggiore disagio dai lavoratori, tra quelle che tale complicato sistema di orari di lavoro comporta, e

che ci introduce alla questione dei motivi della sua applicazione da parte dell’azienda ed agli effetti

che questo produce sui lavoratori.

Il sistema di turnazione come risorsa di flessibilità

La spiegazione della necessità di sfruttamento intenso e flessibile degli impianti, per la

massimizzazione del livello di attività industriale e, quindi, mantenere bassa l’incidenza degli

ammortamenti (Silveri e Pessa, 1990), se spiega il lavoro a ciclo continuo su tre turni, non è

sufficiente a spiegare la complessità del sistema di orario. D’altronde, le spiegazioni fornite dalla

dirigenza aziendale, ed anche sindacale, che si riferiscono alla necessità di ripartire equamente i

riposi compensativi e le incentivazioni salariali per il lavoro notturno e del sabato tra tutti i

lavoratori, benché fondate e comprensibili, riteniamo non aiutino a cogliere appieno il senso

innovativo di questa struttura di orari nel sistema di produzione della Fabbrica Integrata rispetto alla

struttura di orario della fabbrica fordista.

Nella Fiat, durante tutti gli anni ’50 e ’60 l’orario di lavoro è stato caratterizzato dal normale

sistema di due turni di lavoro, per 6 giorni la settimana, poi ridotti a 5 dall’accordo del 1964 che ha

introdotto il sabato non lavorativo. L’orario giornaliero è passato dalle 7 ore e 30 minuti del 1948

alle 8 ore e 48 dell’accordo del 1 maggio ’68, col quale, però, si inserisce strutturalmente la

settimana lavorativa di 5 giorni, con il sabato festivo, per un tempo di lavoro settimanale di 44 ore.

In questi anni, però, soprattutto fino alla metà degli anni ’60, l’uso discrezionale dello straordinario

e del prolungamento stagionale dell’orario secondo le esigenze aziendali costituiscono la norma, e

solo a seguito delle lotte di fine anni ’60 l’azienda subisce una limitazione nell’uso dello

straordinario, e viene costretta dal sindacato a ricorrere a nuove assunzioni per far fronte alla

crescita di domanda di quegli anni. Infine, con il contratto dell’8 gennaio ’70, la settimana

lavorativa viene ridotta a 40 ore, con un orario giornaliero effettivo di 7 ore e 50, pagato 8 ore.

Sono questi alcuni degli effetti dello scontro, via via sempre più acceso, che si consuma tra

lavoratori e azienda per il miglioramento delle rispettive condizioni, che però non trovava nella lotta

per l’orario di lavoro il suo terreno principale, quanto sulle modalità ed i tempi di lavoro, che

analizzeremo in seguito. Di fatto, il tempo del sistema produzione fordista è un tempo

standardizzato, ‘di massa’, che scandisce il lavoro e il riposo collettivamente, secondo modalità

coerenti alla sua logica di ordine complessivo sociale.

Con l’accordo 3 luglio ‘78 la Fiat comincia ad introdurre il terzo turno, ma in una struttura di

orario pressoché immutata e con una settimana lavorativa di 5 giorni. Negli stabilimenti di Cassino

e Termini Imerese, di fatto, il cambiamento avviene ancora all’interno di una logica produttiva non

legata a mutamenti del modello organizzativo, come invece accade per Melfi dove il terzo turno

diventa strutturale e viene esteso a tutti gli operai. Se da un lato il complesso sistema di orario

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elaborato risponde, come abbiamo detto, all’esigenza di garantire un elevato grado di flessibilità

nell’utilizzo della forza lavoro per garantire il funzionamento continuo dello stabilimento, dall’altro

la sua efficacia si fonda sulla rigidità degli schemi di turnazione prefissati, che sono rigidi e

differenziati per profili-orario e per diverse figure professionali. Proprio dalla combinazione di

flessibilità del sistema di orari a livello di stabilimento e rigidità degli stessi a livello individuale,

dipende la flessibilità dell’intero sistema.

Tale riorganizzazione dell’orario di lavoro contribuisce alla capacità di assorbire le variabilità

esterne, legate alla domanda di mercato, e quelle interne al ciclo produttivo. Il sistema di turnazione

fondato su un ciclo di tre settimane permette, infatti, l’accumulo dei tre giorni di riposo

compensativo in giorni infrasettimanali sempre diversi, costituendo, per l’azienda, un buffer di

lavoro disponibile per sopperire ad eventuali mancanze di personale o per sostenere momentanei

picchi produttivi, mediante il ricorso agli straordinari.

Questo è possibile in quanto gli orari di lavoro della Fabbrica Integrata non sono i tempi

standardizzati della fabbrica fordista, al contrario, sono tempi ‘irregolari’ che, come viene

evidenziato nel lavoro di Vitale in questo volume, destrutturano i tempi di una comunità locale

essenzialmente agricola, segnata da ritmi blandi ed elastici delle relazioni familiari e di vicinato, e

strutturano un ordine temporale che utilizza le reti sociali preesistenti ma rendendole funzionali al

processo di valorizzazione. Se ciò è vero, si produce, a livello individuale e sociale, un effetto

‘alone’ proprio del nuovo tempo di lavoro, che “sembra fuoriuscire dai suoi confini cronometrici,

invadere e asservire gli altri tempi, i quali devono ricollocarsi variabilmente seguendo l’andamento

dell’orario di lavoro” (Cerruti, 1994a: 20), e diventa abbastanza chiaro che il prolungamento di uno

o due giorni della settimana lavorativa spezzata dal riposo compensativo, potrebbe essere meno

gravoso del maggiore guadagno ottenibile dal lavoro straordinario.

Da una serie di interviste da noi realizzate, nonché dalle altre ricerche già prodotte (Rieser,

1996; Costanzo 1995; Polacco, 1998), gli effetti dell’orario di lavoro della Fabbrica Integrata sui

lavoratori sono abbastanza univoci: un generale disagio nel doversi adattare al continuo

cambiamento dei turni, che comporta la necessità di una continua ridefinizione dei propri tempi

personali e delle relazioni familiari e amicali; difficoltà, queste, aggravate dalla distanza che i

lavoratori devono percorrere per raggiungere lo stabilimento. La lontananza dallo stabilimento, in

particolare, è un elemento di forte differenziazione nell’atteggiamento degli operai nei confronti

dell’azienda, soprattutto riguardo alla disponibilità a svolgere straordinari.

Le organizzazioni sindacali si sono fatte portatrici di questo disagio, proponendo, alla fine del

1997, un tavolo di lavoro per affrontare alcune problematiche connesse all’orario di lavoro, in

particolare riguardo la doppia battuta, il quale si è chiuso sei mesi dopo con un nulla di fatto.

Il tempo della produzione nella Fabbrica Integrata

Le novità sui tempi delle prestazioni possono essere colte sotto due aspetti: 1) la logica

complessiva che sostiene il sistema e 2) gli effetti concreti sul lavoro.

La fabbrica fordista trovava nella one best way la sua logica fondante. La semplificazione e

parcellizzazione di ogni operazione rendeva riducibile il lavoro in singoli micro-movimenti, la cui

misurazione e ottimizzazione era affidata all’Ufficio Tempi e Metodi. Gli studi tayloristici del

lavoro trovarono una formalizzazione nell’elaborazione dei sistemi tabellari del Method Time

Measurement (MTM), e delle sue derivazioni, che definivano, appunto, il modo ritenuto ottimale di

svolgere l’operazione. La logica era quella della ricerca di azzeramento dei tempi morti, tramite

l’eliminazione dei gesti superflui, costruendo un corpo macchina (Foucault, 1976) adeguato a quel

tipo di produzione. Prescindendo dalle implicazioni relative alla dequalificazione di questo tipo di

lavoro, il principio era quello di ottenere il massimo prodotto possibile in una certa unità di tempo.

Nel sistema di produzione lean ritroviamo lo stesso metodo di rilevazione, che, anzi, proprio

riguardo ai tempi della prestazione introduce ulteriori elementi di intensificazione e ripetitività, ma

la logica organizzativa sottostante l’utilizzo dei risultati delle rilevazioni dei tempi è profondamente

diversa. Rispetto alla linea fordista, possiamo cogliere i nuovi caratteri, che sono: un più elevato

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tempo ciclo, ossia la scansione di tempo del passaggio di una scocca da una postazione, che

consente di assegnare per ogni postazione un numero tanto maggiore di operazioni da compiere

quanto più efficace il sistema di rilevazione e razionalizzazione dei tempi per ogni operazione; i

fermi linea per problemi di qualità del prodotto e le conseguenti accelerazioni della linea per il

recupero della produzione persa; una serie di attività non proceduralizzate che coinvolgono i

lavoratori, quali l’attenzione da prestare alla qualità del prodotto, la segnalazione di difetti, o la

pulizia della postazione; la possibilità di aumentare i compiti assegnati ad ogni postazione in

funzione del mix, cioè degli optional da montare sulle diverse auto; la possibilità di assegnare un

operaio a più postazioni, secondo le esigenze contingenti della UTE; e, infine, la rotazione

programmata dei lavoratori su tutte le postazioni. Questa logica organizzativa, sia pur basandosi su

una rigida rilevazione dei tempi per ogni singola operazione, dispiega un elevato potenziale di

flessibilità, capace di mantenere teso un flusso di produzione che non viene pensato come somma di

tempi delle singole fasi di produzione.

Nella fabbrica fordista l’obiettivo di comprimere i tempi di produzione veniva esercitata su

ogni singola operazione, concepita come slegata dalle altre, secondo la logica per cui meno tempo

era necessario per produrre le singole parti, meno tempo sarebbe stato necessario per la

realizzazione del prodotto finito. Quindi la visione dell’intero processo produttivo avveniva in

conseguenza, e le connessioni ‘flessibili’ tra le diverse fasi della produzione erano rappresentate

dalle scorte.

Nella Fabbrica Integrata, invece, la produzione è concepita come un ‘flusso teso’, e questo

comporta che i tempi di produzione vengano considerati secondo una logica ‘processiva’, che

riguarda l’intera produzione, dall’ordine del cliente alla consegna. Nel sistema organizzativo basato

sulla cellular manufacturing, le fasi della produzione, attribuite alle Unità Tecnologiche Elementari

(UTE), sono collegate alle altre dalla logica cliente-fornitore, tramite il sistema kanban (Fiocco,

1997); il miglioramento dei tempi, quindi, non può più riguardare la singola fase produttiva in se

stessa, ma l’ambito dell’intero processo produttivo.

L’esigenza, ovviamente presente nel nuovo sistema di produzione, di comprimere i tempi

morti della produzione, è espressa dalla logica del kaizen: i tempi di produzione devono ridursi in

modo ‘armonico’ in tutte le fasi della produzione, facendo sì che le cellule produttive mantengano

costantemente teso il flusso di produzione.

L’effetto che questa ‘armonizzazione’ produce sul lavoro, però, può rischiare di sortire effetti

contraddittori rispetto ai principi fondanti la nuova forma organizzativa (Sewell e Wilkinson, 1992;

Parker e Slaughter, 1998). Ci si può chiedere, infatti, quale possa essere il grado di coinvolgimento

e di partecipazione che un lavoratore può riservare durante la sua attività, visti i ritmi a cui esso è

sottoposto, già nello svolgimento delle operazioni proceduralizzate, laddove deve affrontare

accelerazioni della velocità della linea o vetture ricche di optional, dovendo contemporaneamente

svolgere un numero operazioni non proceduralizzate che richiedono un elevato grado di attenzione.

Questo problema, inoltre, non coinvolge i soli addetti al montaggio, in quanto anche gli addetti agli

impianti automatizzati, a diverso livello, come vedremo, sono sottoposti alla pressione della

responsabilità del corretto e continuo funzionamento delle macchine a cui essi lavorano, compito a

cui si somma la necessità di intervenire in tempi brevissimi in caso di anomalie.

Per comprendere come si traduce concretamente sulle modalità di prestazione lavorativa la

differenza tra le logiche dell’one best way e del kaizen, non possiamo evitare di entrare in

specificità tecniche, che però risulteranno esplicative sia del vantaggio offerto dalla nuova

organizzazione del lavoro in se stessa, sia degli effetti dell’applicazione dei suoi principi “in corso

d’opera”.

Alcuni elementi per la comprensione del livello di saturazione del lavoro a Melfi

Descrivere gli aspetti tecnici connessi alla definizione e rilevazione dei tempi di lavoro che

riguardano sia le singole operazioni che la prestazione nell’intera giornata lavorativa presenta

notevoli elementi di complessità, aggravati dalla natura profondamente diversa del tipo di attività e

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dai vincoli che essa pone ai lavoratori nonché dalla loro interconnessione, rendendo difficile il loro

trattamento come parti distinte di un unico contesto. Occorrerà, pertanto, fare uno sforzo

semplificativo per non appesantire l’argomentazione senza perdere gli elementi fondamentali che

connotano le differenze e le continuità dei tempi di lavoro della Fabbrica Integrata con i tempi di

lavoro dell’organizzazione taylorista.

Nella letteratura spesso si fa riferimento all’aumento dell’intensità del lavoro che si registra

nella Fabbrica Integrata, ma altrettanto spesso, per ovvi motivi di economia di discorso, non si

procede ad una descrizione dei meccanismi che determinerebbero questa maggiore intensità.

Cominceremo questa descrizione con l’aspetto della maggiore ‘saturazione’ dei lavoratori

Sata rispetto agli altri lavoratori Fiat. In generale, per saturazione si definisce il rapporto percentuale

tra il tempo di lavoro ed il tempo di presenza in officina. In questo rapporto quello che può essere

definito con certezza è il denominatore, che corrisponde alla durata della giornata di lavoro, che, per

i lavoratori collegati al ciclo produttivo di Melfi, è di 7 ore e 15 minuti, cioè 435 minuti.

Al contrario, la misura del tempo di lavoro può cambiare secondo il peso delle sue

componenti che nei manuali sindacali (Cosi, 1993b) vengono così definite:

- Tempo Attivo, con cui si definisce il tempo di attività manuale, o di diretta assistenza al ciclo,

necessaria alla trasformazione di un prodotto. Questi tempi, definiti anche Tempi Effettivi, sono

determinati dalle metriche esistenti, a Melfi dal metodo TMC-2;

- Fattore Fisiologico, che rappresenta la quantità di tempo computata per le necessità fisiologiche

del lavoratore. Questo può essere calcolato come percentuale di maggiorazione del tempo di

presenza in officina o in forma di pausa. La maggiorazione può essere assegnata sui Tempi

Attivi, alla fine del conteggio del carico di lavoro, o aumentando la percentuale dei Fattori di

Riposo;

- Fattori di Riposo, sono la percentuale di maggiorazione da assegnare ai Tempi Attivi in

relazione a: atteggiamenti del corpo; difficoltà nell’uso dei mezzi o peso; condizioni ambientali,

turnazioni; grado di attenzione, sforzo mentale, monotonia, uso di strumenti protettivi, ecc.;

differenze donna - uomo. I valori percentuali sono ottenuti dall’utilizzo di apposite tabelle

elaborate in conformità ai risultati di studi di medicina del lavoro e di fisiologia umana.

- Pause, ossia le riduzioni del tempo di attività che vengono contrattate in presenza di nocività

ambientali e vincoli impiantistici. Le Pause possono essere fruite individualmente o

collettivamente, ma le esigenze impiantistiche dei grandi stabilimenti hanno portato ad una

scelta indirizzata prevalentemente verso pause individuali a scorrimento.

Per conoscere il grado di saturazione dei lavoratori di uno stabilimento, quindi, occorre

conoscere preventivamente il sistema di attribuzione dei Fattori Fisiologici, dei Fattori di Riposo, il

‘vincolo’ della postazione di lavoro, ovvero la possibilità per l’operaio in quella postazione di

variare la velocità di esecuzione delle mansioni assegnate, e le Pause fissate dai contratti, nonché,

aggiungiamo, il sistema di rilevazione dei tempi attivi che viene applicato, in virtù del fatto che un

sistema tabellare che considera un elevato grado di incentivazione comporterà una maggiore

‘densità’ lavorativa per i tempi attivi rilevati.

Ora, data la difficoltà nell’utilizzo del concetto di saturazione per definire l’intensità della

prestazione lavorativa complessiva all’interno della fabbrica lean, opereremo una distinzione delle

figure operaie tra quelle addette alle linee a trazione meccanizzata, dove il tempo per l’esecuzione

del lavoro è determinato e non direttamente influenzabile dal lavoratore, e le figure operaie i cui

tempi di esecuzione non sono predeterminati o proceduralizzati.

La saturazione dei lavoratori con tempi predeterminati

Per le prime figure, che coincidono con quelle dei lavoratori che svolgono la loro attività sulle

linee di montaggio e nelle postazioni fuori linea, possiamo dare un esempio concreto della

differenza tra la prestazione lavorativa ‘tradizionale’ e quella che caratterizza l’organizzazione del

lavoro della Fabbrica Integrata, operando il confronto tra la saturazione media dei lavoratori nello

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stabilimento di Mirafiori, per i quali vige l’accordo del 5 agosto ‘71, con quello dei lavoratori dello

stabilimento di Melfi, sottolineando, di volta in volta, quali sono le differenze tra le due realtà.

In primo luogo, focalizzeremo l’attenzione sul diverso regime di pause e sulla diversa

modalità di assegnazione dei Fattori di Riposo, facendo momentaneamente astrazione tra la diversa

determinazione dei tempi attivi, che sarà ripresa in seguito a proposito della nuova metrica del

lavoro adottata a Melfi, per cui li considereremo come elementi omogenei e confrontabili.

Le Pause in Fiat vengono fissate, in base all’accordo del 5 agosto ‘71, in una prima Pausa per

Disagio Vincolo di 22 minuti, relativa ai disagi derivanti dal lavoro vincolato e parcellizzato della

linea (che non esclude il calcolo dei Fattori di Riposo nei Tempi Attivi i quali, quindi, sono

aumentati secondo i valori delle tabelle e del sistema metrico TMC-1), ed una seconda di 18 minuti

per Fattore Fisiologico, che rappresenta il 4 per cento dei 450 minuti di presenza in officina dei

lavoratori di Mirafiori, per cui i lavoratori Fiat godono, dal 1971, di una Pausa complessiva di 40

minuti per turno.

Per Melfi, l’accordo del giugno 1993 prevede la conservazione di questa Pausa di 40 minuti,

ma come cumulo sia del Fattore Fisiologico, nella misura di 16,7 minuti (tempo che corrisponde al

3,83 per cento del tempo di presenza in officina, e non più al 4 per cento), dei Fattori di Riposo

Assegnati pari a 18,82 e da 4,48 minuti pagati dall’azienda. Quindi, più della metà della Pausa è

costituita da fattori di riposo precedentemente dovuti al lavoratore, che lo stesso non potrà godere

durante lo svolgimento delle mansioni assegnategli se non durante la sostituzione.

Tenendo quanto appena detto, dal confronto tra le due Saturazioni Massime sui soli Tempi

Attivi, come indicato dall’accordo 5 agosto ‘71, e dall’accordo di Melfi, si ottengono i risultati

esposti in tabella:

Mirafiori

% Tempo

presenza

in officina

Melfi % Tempo

presenza

in officina

Differenze

rispetto

Mirafiori

Tempo Presenza Officina 450’ 435’

Tempi Attivi 387’ 86,00 410,40’ 94,35 + 8,30%

Fattore Fisiologico 18’ 4,00 16,70’ 3,84 - 0,16%

Fattore Riposo 23’ 5,11 3,41’ 0,78 - 4,33%

Pausa disagio vincolo 22’ 4,88 4,48’ 1,03 - 3,85%

Se pure il regime delle Pause in due di 20 minuti appare invariato, esso in realtà è il risultato

della eliminazione, nello stabilimento di Melfi, della Pausa per Disagio Vincolo vigente nello

stabilimento di Mirafiori. Questo trova la sua giustificazione formale nelle migliori condizioni

ergonomiche ed ambientali del posto di lavoro, e dal corrispondente aumento del carico di lavoro

degli addetti di circa il 4,5 per cento (Cosi, 1993a).

Un ulteriore elemento di intensificazione della prestazione lavorativa dello stabilimento di

Melfi è rappresentato dalla ridefinizione delle ‘saturazioni individuali istantanee’. Con questo

termine si indicano le punte massime che può raggiungere il carico di lavoro di uno o più addetti, in

ragione delle esigenze di mix produttivo.

Questo incremento di saturazione deve essere bilanciato, nell’arco del turno, da carichi di

lavoro proporzionalmente minori (vetture meno ‘difficili’), per consentire sia di reggere la fatica di

tutto il turno, sia per non superare il tempo di presenza in officina e la Saturazione globale

concordata, nell’ipotesi che la cadenza della linea rimanga costante per tutto il turno di lavoro.

Nello specifico di Melfi la cadenza, ossia il numero, espresso in minuti primi, dato dal rapporto tra

il numero di unità da produrre per turno ed i minuti di lavoro per turno, ridotti dei minuti per

eventuali fermate tecniche già predeterminati, varia sulle due linee Melfi1 e Melfi2, ed è di circa

1,61 minuti sulla prima e di circa 2 minuti sulla seconda.

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L’accordo di Melfi però prevede forme di recupero delle disfunzioni, derivanti da fermate

della linea, scadimento degli standard qualitativi, ritardi nelle alimentazioni, anomalie al sistema

informatizzato, rotture robot, ecc., tramite i quali la saturazione di tutti gli addetti può essere

incrementata, aumentando la velocità della linea, con l’obiettivo di recuperare i volumi produttivi

persi.

Nei vari stabilimenti Fiat, le modalità di gestione degli effetti del mix e delle disfunzioni è

differenziata: Mirafiori, Termini Imerese e gli stabilimenti Alfa-Lancia sono regolamentati dagli

accordi del ’71 e dell’’87, con una possibilità di incremento della saturazione, o splafonamento in

gergo Fiat, del 5 per cento, unicamente per problemi di mix produttivo; mentre Cassino prevede un

massimo di superamento del 18 per cento, che comprende un massimo di accelerazione della linea

del 10 per cento per i recuperi di disfunzioni tecnico/organizzative, più i problemi legati al mix.

Quest’ultima situazione è simile a quella di Melfi, in cui è previsto un incremento massimo delle

saturazioni individuali istantanee pari al 16 per cento, che è un valore medio risultante dalla

gestione di un 10 per cento massimo di aumento rispetto al tempo corrispondente alla cadenza

media della linea, relativo al carico di lavoro per mix produttivo (Fiat Auto, 1993), e da un ulteriore

10 per cento di aumento della velocità della linea per il recupero del volume perso a causa delle

disfunzioni tecnico/organizzative. Questa accelerazione della linea viene comunicata ai

rappresentanti sindacali e può iniziare dalla seconda ora del turno, mantenendosi fino al recupero

delle perdite produttive, fino al limite massimo degli ultimi 30 minuti del turno.

La saturazione dei lavoratori con tempi non predeterminati

La prestazione lavorativa della seconda area di lavoro, la quale comprende sia le figure

operaie addette alla produzione su impianti automatici, come i conduttori d’impianto automatizzato

(CIA), sia quelle degli operai indiretti, come i manutentori, e sia anche le figure che svolgono

attività prevalentemente di tipo manuale, come il carico e lo scarico di pezzi dalla macchina. Per

questi tipi di lavoratori, effettivamente, non esiste un metodo per la rilevazione dei tempi di lavoro,

in quanto essi svolgono attività sia di tipo intellettuale, di sorveglianza e di prevenzione dei guasti,

sia di tipo manuale, intervenendo nella riparazione. Mentre per i primi il compito prevalente, dopo

aver impostato la macchina ad inizio turno, è quello di sorvegliarne il corretto funzionamento ed,

eventualmente, intervenire in caso di anomalie risolvibili, i secondi svolgono principalmente una

funzione di intervento sulle anomalie più gravi.

I tempi e i fabbisogni di manodopera presso le macchine vengono determinati in base a stime

riferite ai tempi di lavoro determinati per impianti simili in altri stabilimenti ma, in ogni caso, i

tempi sono largamente dominati dalla macchina. Ciò comporta notevoli difficoltà per la corretta

determinazione delle saturazioni e l’attribuzione delle Pause; rispetto ai lavoratori con tempi

predeterminati, infatti, accanto ai Tempi Attivi, ai Fattori di Riposo ed a quelli Fisiologici, si

inserisce l’ulteriore elemento del Tempo Macchina, durante il quale il lavoratore non svolge attività

lavorative manuali misurabili, nonché i tempi delle fermate tecniche per decadimento degli

standard qualitativi, o anomalie e guasti vari. Per cui, il regime di Pause per questi lavoratori non

prevede i 40 minuti visti in precedenza, ma una unica Pausa di 17 minuti, corrispondente alla

fruizione del Fattore fisiologico, mentre il Fattore di riposo viene fruito durante le fermate tecniche

di cui sopra o, nel caso di assenza di fermate, durante l’ultima mezz’ora del turno.

Ciò che si può sottolineare di questa situazione è che se da un lato il tempo per questi

lavoratori è meno costrittivo rispetto a quanto avviene nella linea di montaggio, l’attività di

sorveglianza è anch’essa faticosa, e la pressione psicologica che esercita su di essi è notevole, sia

dal punto di vista dell’imprevedibilità del momento dell’intervento, sia dal punto di vista della

responsabilità di cui sono gravati, e cioè di garantire la continuità e la regolarità della produzione.

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La nuova metrica del lavoro

L’accordo del giugno ’93 poneva come condizioni incontrattabili, l’introduzione di una tra le

modifiche più importanti del regime dei tempi di lavoro introdotte a Melfi: quella della

determinazione dei Tempi Attivi, e della conseguente velocità di esecuzione delle mansioni,

attraverso l’applicazione della nuova metrica del lavoro denominata Tempi dei Movimenti

Collegati-2 (TMC-2). Lo scopo delle metriche è quello di quantificare e controllare il lavoro umano

per ottenerne il massimo risultato, e gli studi tayloristi di scomposizione e misurazione di ogni

singolo movimento dell’operaio tendevano a soddisfare in modo ottimale questa esigenza.

L’applicazione del metodo scientifico di misurazione della prestazione lavorativa parcellizzata a

sistemi di macchine collegate in una catena che connette singole fasi della produzione costituisce

uno degli elementi fondamentali del sistema di produzione standardizzata e di massa di tipo

fordista. Gli uffici aziendali preposti allo scopo della quantificazione e controllo del lavoro operaio

erano, nella fabbrica fordista, gli uffici Tempi e Metodi, dove tecnici come analisti o cronometristi,

definiscono il modo ed il tempo di ogni singola attività lavorativa. Il lavoro di questi tecnici poteva

avvenire, fondamentalmente, secondo due modalità: quella della rilevazione cronometrica,

influenzata dal giudizio soggettivo espresso dall’analista, e quella dell’utilizzo di sistemi tabellari

incentrati sulla microgestualità, giudicati più ‘oggettivi’ in quanto fondati su un gran volume di

rilevazioni ‘scientifiche’ sull’attività lavorativa.

Con l’applicazione di questa ultima modalità, quindi, si poteva scomporre l’attività necessaria

al compimento di un lavoro ripetitivo, assegnando ad ogni gesto un valore in termini di tempo. La

somma di tutti i gesti e dei relativi tempi determinava sia il metodo che il costo unitario, in termini

di tempo, per trasformare il prodotto.

Ma, proprio per lo scopo per cui questi sistemi di misurazione della prestazione lavorativa

sono stati elaborati, cioè per la loro applicazione ad un sistema di produzione che deve ottenere il

massimo risultato dalla capacità lavorativa operaia, i tempi attribuiti non sono i tempi misurati sulla

capacità comune di una persona qualsiasi di svolgere una determinata attività, ma sono tempi

‘incentivati’. Questi ultimi, cioè, presumono un’abilità del lavoratore medio nello svolgere

un’attività in modo ‘normalmente veloce’ e con attenzione, che può essere mantenuta per tutta la

durata della giornata lavorativa senza procurare danno alle condizioni psicofisiche del lavoratore

stesso. Il maggiore impegno e abilità possono essere quantificate in modo da definire un plus

rispetto alla misurazione di una attività più ‘rilassata’, ossia quella di un operaio medio che lavora

senza lo stimolo di un sistema di retribuzione ad incentivo, producendosi in uno sforzo che può

essere conservato senza eccessiva fatica fisica o mentale (Cosi, 1993a; 1993b). Questo plus è

definito ‘indice di rendimento’ e varia secondo il sistema tabellare di riferimento.

La Fiat, già dal primo dopoguerra, adotta i modelli tecnico scientifici internazionali di calcolo,

ed in particolare il più importante e conosciuto tra questi, il Method Time Measurement (MTM), le

cui caratteristiche fondamentali sono: il numero di movimenti base considerati, che sono 12; la

misurazione del tempo, che viene fatta in centomillesimi di ora; e l’indice di rendimento, pari a

144,9. Nell’adottarlo, la Fiat ne modifica parzialmente la struttura allo scopo di semplificare e

velocizzarne l’uso, elaborando un proprio sistema tabellare il TMC-1, il quale comunque mantiene

una coerenza con l’MTM. Il TMC-1 riduce il numero di operazioni base a cinque (spostare,

posizionare, disaccoppiare, ruotare, movimenti corpo); modifica l’unità di misura in millesimi di

minuto; e modifica l’indice di rendimento a 133,3 per cento. In realtà, come sappiamo, in Fiat negli

anni ’50 e ’60 l’applicazione di questi sistemi di metrica del lavoro fu largamente disattesa, a favore

del comando esercitato dai ‘capi’ che acquisivano potere dal diretto contatto con l’attività

lavorativa, ed eliminando così quegli elementi di oggettività e scientificità su cui l’organizzazione

taylorista teoricamente dovrebbe poggiare (Basso, 1997).

L’indice di rendimento al 133,3 per cento era stato oggetto di un accordo tra la FLM e la Fiat

agli inizi degli anni ’70, in base al quale il sindacato riconosceva l’obbligatorietà per tutti i

lavoratori diretti del rispetto dei tempi di esecuzione a 133.3 per cento, mentre la Fiat garantiva agli

stessi lavoratori un incentivo salariale sulla maggiore fatica (detto anche lavoro a cottimo) fino al

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valore 127, fissando così un minimo al disotto del quale non era possibile scendere. Questa

situazione, relativa alla misurazione dei tempi di lavoro, è rimasta stabile fino alla metà degli anni

’80, quando, con la realizzazione degli stabilimenti di Cassino e Termoli, l’azienda ha cominciato a

porre le condizioni delle innovazioni che caratterizzeranno la realizzazione dell’impianto di Melfi

(Cosi, 1993a).

Il sistema tabellare di misurazione della prestazione lavorativa qui applicato è il TMC-2, che

rappresenta una evoluzione del precedente sistema 1, elaborato, secondo le dichiarazioni aziendali,

in piena coerenza con il TMC-1 e, quindi, con l’MTM da cui esso deriva. La sua adozione è

motivata, secondo l’azienda, oltre che da una maggiore semplicità e snellezza nell’elaborazione dei

dati risultanti dalle rilevazioni, dalla necessità di tenere conto degli effetti sul lavoro delle

caratteristiche del layout produttivo, delle soluzioni ergonomiche e, più in generale, delle migliori

condizioni ambientali di lavoro, che si sono potute realizzare nel nuovo impianto, in coerenza con il

nuovo principio organizzativo lean.

Con il TMC-2 l’indice di rendimento viene portato a 100, corrispondente al 133 del TMC-1,

fissando un minimo di incentivazione a 95 per cento, ma occorre tenere conto, per comprendere a

cosa fa riferimento questo valore, che, per quanto riguarda le attività svolte nelle linee a trazione

meccanizzata, i tempi effettivi assegnati per l’esecuzione delle operazioni non sono, come nel

sistema TMC-1, comprensivi dell’intera quota di Fattore di Riposo, se non per quelli eccedenti la

Pausa di 40 minuti, mentre per le attività svolte presso linee automatizzate, viene conteggiato il solo

Fattore Fisiologico. Inoltre, al contrario di quanto avveniva nella fabbrica fordista, i tempi definiti

per lo svolgimento della prestazione lavorativa, detti anche ‘tempi assestati’, non sono fissati una

volta per tutte, ma sono soggetti ad un continuo processo di revisione, secondo una logica coerente

al principio del miglioramento continuo. In particolare, la modalità con cui avviene questa continuo

aggiornamento dei tempi rilevati si realizza attraverso la scomposizione di questi in due momenti: il

‘Tempo di Trasformazione’, relativo all’effettiva operazione creatrice di valore aggiunto, il quale è

sottoposto ad una revisione triennale; ed il ‘Tempo Complementare’, con cui si definiscono tutte le

attività necessarie all’accrescimento del valore aggiunto ma che non coincidono con esso (attività

relative all’afferrare gli strumenti, lo spostare i pezzi, ecc.), il quale è continuamente soggetto a

razionalizzazioni.

La rilevazione di questi tempi è compito dell’ente Analisi Fattori, che è un ente di staff,

dipendente gerarchicamente dall’ente Utilizzo Fattori. Le differenze fondamentali che

caratterizzano l’ente Analisi Fattori rispetto al vecchio ente Analisi Lavoro della fabbrica fordista,

sono in primo luogo relative al campo di azione, che va dalla definizione del dato sul capitale

circolante all’elaborazione dei fattori indiretti di produzione, e che ha nello sviluppo delle politiche

di utilizzo della manodopera solo parte delle sue funzioni, al contrario di quanto avveniva per l’ente

Analisi Lavoro che era dedicato esclusivamente alla gestione della manodopera; in secondo luogo,

mentre l’Analisi Lavoro esercitava un peso decisionale rilevante, a Melfi l’Analisi Fattori svolge

una funzione che definisce le politiche e fornisce il supporto tecnico per applicarle nell’ambito di

una responsabilità di impiego che è attribuita alla singola UTE. In sostanza, pur continuando a

svolgere un lavoro tecnico diretto al corretto dimensionamento dei tempi e dei bilanciamenti tra le

postazioni di lavoro, l’ente non ‘decide’, ma fornisce un servizio di supporto alla decisione che

spetta alle singole UTE, finalizzato al continuo miglioramento del processo.

I tempi di lavoro nella logica complessiva della Fabbrica Integrata

La realizzazione della Fabbrica Integrata a Melfi ha avuto, come sua condizione necessaria, la

ridefinizione degli accordi sui tempi e sugli orari di lavoro stipulati tra azienda e sindacati negli anni

passati. Questi sono stati oggetto di un processo di razionalizzazione in funzione di una maggiore

flessibilità nell’uso della forza lavoro, coerentemente con le esigenze di flessibilità e di governo di

processo della fabbrica snella. A questa flessibilità per l’azienda, d’altro canto, corrisponde una

rigidità nei tempi per i lavoratori che si esprime sia dal punto di vista delle turnazioni, sia dal punto

di vista dell’intensità del lavoro. Alla maggiore pressione temporale contribuiscono direttamente ed

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indirettamente i principi della partecipazione e dell’autoattivazione i quali, nella logica del

miglioramento continuo, permettono all’azienda di assorbire tutte le soluzioni e le astuzie che i

lavoratori escogitavano per ritagliare frammenti di tempo di riposo, trasformandole in maggiore

intensità del lavoro.

A dominare i tempi di lavoro è il volume di produzione impostata, che definisce il volume

produttivo che la fabbrica deve realizzare nella durata del turno, e che viene stabilito dalla direzione

aziendale in base al livello della capacità produttiva dello stabilimento, tenuto conto dei possibili

problemi tecnici e di fornitura; tale valore è sempre visibile per gli operai tramite la sua

segnalazione su un tabellone luminoso che indica il volume produttivo da raggiungere accanto al

volume produttivo effettivamente raggiunto, esercitando in questo modo una forma di pressione che

appare oggettiva.

Ma a determinare il carico di lavoro non è solo il volume produttivo; a questo si aggiunge il

mix di prodotto stabilito dall’ente Programmazione della Produzione settimanalmente e

giornalmente. Ne deriva che la distribuzione dei tempi di lavoro sulle varie postazioni, o

bilanciamento, di ogni UTE può essere continuamente sconvolta, ed è compito del capo UTE, in

collaborazione con la Gestione Operativa e tramite la consulenza dell’ente Analisi Fattori, cercare

di distribuire i carichi di lavoro per postazione in modo da prevenire eventuali micro-strozzature nel

processo di produzione, le quali produrrebbero danni a cascata sull’attività delle UTE a monte e a

valle, impedendo il mantenimento del flusso teso di produzione.

L’Analisi Fattori monitorizza continuamente il dato sulla manodopera e, tramite le rilevazioni

sui tempi delle prestazioni, che vengono effettuate secondo i criteri del miglioramento continuo, e

quindi della loro continua razionalizzazione, fornisce il dato sul fabbisogno di manodopera per ogni

singola UTE, tenendo conto delle assenze programmate per la turnazione. In questo modo ogni capo

UTE, in caso di assenze o di maggiori carichi di lavoro per il mix, ha la possibilità di attingere al

bacino di lavoratori in riposo compensativo, tramite il lavoro straordinario, con la conseguente

tendenza al sottodimensionamento della forza lavoro occupata.

Conclusioni

Alla ridefinizione e razionalizzazione dei tempi nella fabbrica di Melfi hanno contribuito,

come abbiamo visto, le soluzioni ergonomiche e le migliori condizioni di lavoro adottate nella

costruzione di un nuovo stabilimento improntato ai principi della lean production. Soluzioni

tecniche innovative, che riducono gli effetti nocivi di fumi e rumori, e spazi fisici più ampi hanno

configurato un layout produttivo che allevia la fatica fisica, rendendo possibile una intensificazione

della prestazione sostenibile per una forza lavoro molto giovane e prevalentemente priva di

esperienze lavorative nell’industria.

Ma, nei pochi anni di funzionamento di questo impianto, si sono già manifestate alcune forme

di resistenza. In una fabbrica dove l’abbassamento e la ridefinizione dei livelli gerarchici propri

della organizzazione del lavoro della produzione snella, in cui il potere sul lavoro appare essere

spersonalizzato e iscritto nello sforzo di mantenere teso il flusso produttivo, le forme di resistenza si

manifestano nei confronti della pressione temporale esercitata dai turni e dall’intensità del lavoro.

A Melfi esiste un problema di assenteismo, generalmente attribuito soprattutto alla

manodopera femminile in maternità, ma che presumibilmente va al di là di questa dimensione,

mentre dal punto di vista della resistenza all’intensità del lavoro, questa si manifesta, da quanto è

risultato da una serie di interviste realizzate, nello scadimento del livello di attenzione dei lavoratori

alla qualità, con la conseguenza che un numero sempre maggiore di vetture finisce per confluire nei

piazzali dello stabilimento dove, ricorrendo usualmente al lavoro straordinario, vengono effettuati

gli interventi di recupero.

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Gianni Oliveri

Soggetti, sindacato e conflitto: la dinamica operativa del modello partecipativo

Introduzione

La riflessione che segue ha per oggetto la collocazione e la funzione del sindacato nel

panorama della produzione snella nel contesto concreto dello stabilimento Fiat-Sata di Melfi. Il

punto di partenza dell’analisi è costituito dall’accordo integrativo aziendale stipulato nel giugno del

1993 tra le organizzazioni sindacali di categoria (Fiom, Fim, Uilm e Fismic) e la Sata.

Quell’accordo rappresenta un punto di svolta fondamentale nel panorama della contrattazione

collettiva italiana, sia dal punto di vista dei contenuti regolamentativi che introduce, sia dal punto di

vista delle metodologie e delle procedure con cui è stato stipulato.

Da quest’ultimo punto di vista, il primo elemento significativo è costituito dal fatto che, su un

piano giuridico-formale, la proprietà dello stabilimento di Melfi è stata affidata ad una società

distinta dalla Fiat, la Sata, costituita ad hoc. Ciò ha consentito che i termini della contrattazione

aziendale integrativa in Sata fossero svincolati dalle condizioni generali della contrattazione vigenti

negli altri stabilimenti del gruppo Fiat. Ancora, forse per la prima volta nella storia della

contrattazione collettiva in Italia, i vertici nazionali delle organizzazioni sindacali hanno stipulato

un contratto senza che i lavoratori interessati potessero in qualche modo intervenire nella

costituzione delle regole che li avrebbero interessati.

Questa peculiarità ha come antefatto una trattativa preliminare condotta, dagli stessi firmatari

dell’accordo integrativo aziendale, nel dicembre del 1990, che fissava, molto prima che lo

stabilimento venisse realizzato e dunque in assenza di lavoratori assunti, condizioni normative

generali dell’organizzazione del lavoro che si discostavano significativamente dai contenuti della

contrattazione vigente per l’intero settore metalmeccanico italiano. Ad esempio, in quella trattativa

fu rimosso il divieto per il lavoro notturno delle donne e fu introdotto il sabato lavorativo.

Dal punto di vista dei contenuti, l’accordo di Melfi non si limita alla semplice introduzione di

elementi innovativi nel campo della regolazione delle relazioni di lavoro, ma segna la nascita di una

nuova modalità di gestione delle relazioni sindacali, genericamente orientata al modello della

cogestione e della partecipazione. È a partire da questo dato che è possibile pensare all’accordo di

Melfi nei termini di una svolta significativa nel processo di definizione delle regole che disciplinano

la complessa materia delle relazioni industriali in Italia. Il presente lavoro si pone l’obiettivo di

analizzare, sul terreno dei soggetti coinvolti nelle pratiche quotidiane della contrattazione nella

Fabbrica Integrata di Melfi, la dinamica con cui si sviluppa il metodo partecipativo. Solo su questo

terreno è possibile comprendere se esso sia il segno di un processo generale di democratizzazione

della fabbrica (Coriat, 1993) oppure costituisca una specifica strategia di marginalizzazione delle

strutture della rappresentanza sindacale (Marchington, 1990), o quanto piuttosto segni il passaggio

verso un processo generale di cooptazione delle strutture della rappresentanza sindacale nella

gestione delle resistenze e dei conflitti operai in fabbrica.

La tesi che intendiamo sostenere è che il complesso sistema che regola le relazioni industriali

in Sata altro non è se non la meccanica tecnico-politica di uno specifico dispositivo di potere, che

potremmo definire partecipativo-sindacale, che costituisce l’estensione del diagramma normativo-

disciplinare allo spazio dei conflitti collettivi.

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La regolamentazione dei rapporti tra i soggetti istituzionali: i sindacati in Sata

L’accordo integrativo aziendale di Melfi presenta caratteri assolutamente innovativi sia

rispetto alla regolamentazione dei rapporti di lavoro sia rispetto alla modalità di gestione delle

relazioni sindacali. Dal punto di vista della regolamentazione dei rapporti di lavoro, i punti

fondamentali contenuti nell’accordo possono essere sommariamente descritti in relazione ad alcune

variabili fondamentali quali l’orario, la metrica del lavoro e il sistema di retribuzione.

Dal punto di vista dell’orario, il monte ore medio settimanale, calcolato su base annua,

corrisponde alla misura teorica prevista dal vigente contratto collettivo di lavoro in forza negli altri

stabilimenti della compagnia. La media oraria settimanale prevede quaranta ore lavorative, con una

ripartizione giornaliera di sette ore e quarantacinque minuti per duecentotrenta giorni lavorativi

annuali. Sul piano della articolazione dei turni invece l’accordo si discosta significativamente dagli

altri stabilimenti del gruppo. Il plant di Melfi opera sei giorni la settimana (esclusa la domenica),

con un sistema di orario basato su tre turni giornalieri della durata di sette ore e 45 minuti. Il sistema

dei tre turni coinvolge la totalità dei lavoratori diretti collocati sulla linea e, tra le figure

manageriali, soltanto i capi UTE. L’articolazione del sistema dei turni nell’arco della giornata si

sviluppa nel modo seguente: turno A: dalle ore 22,00 alle ore 5,45; turno B: dalle ore 6,00 alle ore

13,45; turno C: dalle ore 14,00 alle ore 21,45. I turnisti seguono un ciclo plurisettimanale di

scorrimento con la sequenza seguente: sei giorni di lavoro, riposo domenicale, altri sei giorni di

lavoro, riposo domenicale, tre giorni di lavoro, quattro di riposo compensativo compresa la

domenica.

Dal punto di vista della metrica di lavoro, in Sata vige il cosiddetto TMC/2 (tempi movimenti

collegati), un sistema di misurazione dei tempi delle singole operazioni basato su criteri ergonomici

di misurazione consolidati a livello internazionale. Il nuovo sistema, introdotto in Sata in luogo del

TMC/1, consente, secondo il management aziendale, una riduzione media dei tempi di esecuzione

nell’ordine del 5 per cento, senza ulteriori sforzi per i lavoratori. In più, l’azienda può incrementare

la velocità di scorrimento della linea a trazione meccanizzata nell’ordine di un 10 per cento della

velocità standard per un tempo massimo di 60 minuti, al fine di recuperare perdite di produzione

dovute a disfunzioni degli impianti o a difetti di qualità del prodotto. Anche se gli obiettivi a cui i

due provvedimenti mirano sono sostanzialmente diversi (la nuova metrica spinge nella direzione

degli incrementi di produttività, mentre l’incremento di velocità è uno strumento di

flessibilizzazione senza perdita di produzione), entrambi si traducono sui lavoratori in termini di

notevoli aggravi dell’intensità di lavoro.

Il sistema di retribuzione prevede una quota salariale fissa, stabilita sulla base del salario

minimo nazionale, e una quota variabile, detta premio di competitività. Una parte di quest’ultima

costituisce una componente stabile della retribuzione in aggiunta al salario minimo. Un’altra parte è

variabile ed è legata al complesso sistema di incentivazione vigente in Sata, ed è calcolata sulla base

di alcuni indici di produttività ed efficienza dell’impianto, fissati dal management. Gli indici

investono diversi livelli organizzativi dello stabilimento, dal livello dell’UTE a quello di Unità

Operativa ed in ultimo dell’intero stabilimento e si riferiscono a variabili specifiche, quali

l’efficienza della manodopera, l’efficienza degli impianti, il livello di assenteismo, la qualità del

prodotto. Il lavoro notturno è retribuito in misura superiore rispetto a quanto previsto dal contratto

collettivo (40 per cento invece che 15 per cento), ma in ogni caso, mantenendo gli indici di

produttività ad un livello standard, la quota variabile del salario rimane più bassa del 40 per cento

circa rispetto agli altri stabilimenti Fiat.

Ma l’elemento di innovazione più importante, ciò che ha fatto intravedere a più di un

osservatore i prodromi di un presunto processo di democratizzazione della fabbrica, è costituito dal

complesso sistema di regolazione dei rapporti tra la Sata e le organizzazioni sindacali, che va sotto

il nome di metodo partecipativo.

Nell’accordo dell’11 giugno del 1993, ma ancora di più negli accordi successivi, in cui più

evidente risulta la stabilizzazione e la maturazione del sistema, il nuovo corso in Fiat è espresso in

poche illuminanti pagine, dalle quali emerge con chiarezza quanto il sindacato costituisca un

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elemento strutturale nella gestione delle disfunzioni sociali e dei conflitti collettivi che possono

svilupparsi nel contesto organizzativo della Fabbrica Integrata.

L’accordo integrativo del 25 maggio 1998 siglato tra le organizzazioni sindacali di categoria

(FIM, FIOM, UILM, FISMIC) e l’ACM (Consorzio Autocomponentistica del Mezzogiorno che

riunisce le 20 aziende del parco fornitori Sata), riprendendo sostanzialmente i contenuti

dell’accordo integrativo Sata-OO.SS. dell’11 Giugno 1993 e dell’accordo ACM-OO.SS. del 28

Luglio 1994, così recita: “Le parti (...) si riconoscono interlocutori stabili in un corretto sistema di

relazioni industriali teso a valorizzare le risorse umane, ampliare i momenti e le sedi di dialogo e a

ridurre le occasioni conflittuali, al fine di affrontare i problemi di comune interesse in modo

costruttivo. Confermano la scelta di adottare il metodo partecipativo quale strumento efficace per

trovare soluzioni coerenti con gli obiettivi condivisi di coinvolgimento a tutela delle condizioni dei

lavoratori e di competitività delle aziende. Di conseguenza, assumono la prevenzione del conflitto

come un reciproco impegno su cui si fonda il sistema partecipativo”.

A supporto dei principi posti in questa premessa, il contratto aziendale istituisce otto

commissioni paritetiche bilaterali più un comitato consultivo paritetico. Quest’ultimo ha il compito

di analizzare lo scenario di competitività industriale e il posizionamento della società al suo interno,

le prospettive produttive e i programmi di investimento e, dal punto di vista delle procedure, ha

carattere esclusivamente consultivo e non negoziale. Le commissioni paritetiche che hanno potere

di negoziazione e di decisione, sono distribuite su tre livelli: una a livello di società (Commissione

Pari opportunità), cinque a livello di stabilimento (Prevenzione e conciliazione, Verifica del premio,

Formazione professionale, Servizi aziendali, Servizio sanitario aziendale), due a livello di Unità

Operativa (Ambiente sicurezza e prevenzione infortuni, Fabbrica integrata) con due commissioni

per ciascuna delle quattro Unità. Inoltre, il contratto ne fissa la composizione e le competenze.

Dal punto di vista della composizione, in tutte le commissioni su tutti e tre i livelli è sempre

presente una figura manageriale responsabile delle relazioni sindacali. Le altre figure manageriali

sono collocate in relazione al livello in cui ciascuna commissione opera e all’ente nel cui ambito ne

ricade la competenza. Così, dal livello di società al livello di Unità Operativa, nell’organigramma

delle commissioni figurano il responsabile del personale e i responsabili degli enti di competenza, i

responsabili delle quattro Unità Operative, i responsabili del personale operativo (REPO). I

sessantotto Rappresentanti Sindacali Unitari (RSU, organismi elettivi di base) dello stabilimento

sono presenti in tutte le commissioni in rappresentanza delle organizzazioni firmatarie dell’accordo.

Dal punto di vista delle competenze, le tematiche affidate alle commissioni paritetiche

occupano una vasta gamma di problematiche, dai servizi aziendali alla verifica del premio di

competitività, dalla formazione professionale alla prevenzione degli infortuni. Tuttavia, temi

fondamentali della gestione della produzione sono esclusi a priori dai meccanismi della

negoziazione. Il sistema dei turni, l’introduzione di nuovi sistemi di misurazione cronotecnica della

prestazione lavorativa (TMC2), l’organizzazione generale del lavoro, la fissazione degli indici di

rilevazione relativi al premio di competitività costituiscono l’ambito di dominio assoluto del

management nella gestione del processo. L’intervento del sindacato in questi ambiti deve limitarsi

alla verifica della corretta attuazione degli accordi.

Da un punto di vista procedurale, le commissioni hanno carattere informativo, consultivo e

propositivo. Un minimo di potere decisionale è attribuito alle commissioni solo in caso di accordo

unanime tra tutti i membri: hanno evidentemente carattere negoziale e non arbitrale, e in caso di

mancato accordo, le parti riacquistano libertà d’azione e autonomia. Ogni decisione assunta in sede

di commissione è tempestivamente comunicata ai lavoratori tramite un comunicato congiunto

sindacato-azienda affisso in ogni UTE.

Le ragioni della rivoluzione partecipativa: la necessità del consenso

La nuova struttura di regolamentazione delle relazioni sindacali è evidentemente una necessità

oggettiva della nuova fase, un prerequisito inderogabile per il funzionamento del flusso nella

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produzione snella. Lo stesso Ohno, a proposito dell’introduzione del metodo kanban, afferma che

essa non sarebbe stata possibile se non dopo una profonda ridefinizione dell’organizzazione

sindacale e l’istituzione di un complesso sistema di contropartite che regola le relazioni industriali

(Ohno, 1993). Se da un certo punto di vista la ridefinizione dell’organizzazione sindacale a Melfi

non ha seguito le vie del sindacalismo giapponese (il sindacato d’azienda), se non in minima parte,

è evidente che il quadro generale di funzionamento delle relazioni industriali ha subito un processo

di adeguamento alle logiche della produzione snella.

Il carattere specifico di quest’ultima può essere colto, dal nostro punto di vista, nella logica,

processuale e continua, di eliminazione delle ridondanze materiali e degli sprechi. D’altro canto,

questa logica corrisponde ai postulati fondamentali dell’ohnismo (zero scorte, zero tempi morti) che

stanno alla base del processo di linearizzazione della produzione. Tuttavia, se è vero che la lean

production introduce vantaggi notevoli, in termini di efficienza degli impianti, altrettanto vero è che

i margini di flessibilità del flusso produttivo sono notevolmente ridotti. Le scorte e i polmoni della

fabbrica tradizionale, oltre che costituire una ridondanza o uno spreco, costituivano infatti una

riserva di risorse attivabile nei momenti di crisi del sistema. L’immagine del tubo di cristallo

(Bonazzi, 1993), connota efficacemente gli effetti del processo di razionalizzazione sulla stabilità

dell’organizzazione della produzione lean. La necessità di individuare gli strumenti e le pratiche che

consentono alla struttura produttiva linearizzata di reagire efficacemente agli shock imprevisti,

siano essi sociali, economici o tecnologici, costituisce un vincolo organizzativo fondamentale. Nel

contesto della Fabbrica Integrata, il tentativo di superamento di questo vincolo risiede nella capacità

che il management ha di ottenere flessibilità dalla forza lavoro. La riserva di risorse è cioè riallocata

dal piano della struttura materiale (magazzino, scorte, polmoni interoperazionali) al piano della

risorsa immateriale (competenze informali non standardizzabili e flessibilità della forza lavoro).

Così autoattivazione, coinvolgimento, problem solving (dal punto di vista della operatività concreta

del sistema), costituiscono gli strumenti pratici attraverso cui vengono allentate le rigide maglie del

flusso teso.

Il consenso operaio gioca su questo piano un ruolo determinante. Il quadro normativo-

disciplinare della Sata, delimita e prescrive i criteri comportamentali degli individui adeguati al

raggiungimento di questo obiettivo. La cellularizzazione del processo produttivo (Bonazzi, 1993), la

decontestualizzazione e l’oggettivazione del controllo nella forma di panopticon elettronico (Sewell

e Wilkinson, 1992), il dispositivo kanban che fa apparire all’inverso l’ordine del flusso (Fiocco,

1997) sono gli strumenti pratici attraverso cui si realizza la strategia generale di disciplinamento. In

questo contesto, l’emergere di conflitti collettivi è il lato aperto dello spazio disciplinare, il campo

in cui i margini di prevedibilità/prevenzione dei comportamenti dei soggetti concreti sono molto più

ristretti. Il concetto di partecipazione è la traccia su cui si dipana la regolamentazione di questo

campo, il perimetro che racchiude, nella forma e nei contenuti, la prassi del sindacato.

Il campo di azione delle organizzazioni sindacali e delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, è

strettamente definito, nella sua estensione e nei suoi contenuti, negli enunciati dell’accordo

aziendale. Valorizzare le risorse umane, ridurre le occasioni conflittuali, affrontare i problemi di

comune interesse in modo costruttivo sono i contenuti specifici del metodo partecipativo. La

prevenzione del conflitto è l’obiettivo strategico del progetto.

La strutturazione delle commissioni, con le competenze a ciascuna di esse affidate, costituisce

la griglia attraverso cui le possibili emergenze conflittuali vengono scalate e ricomposte, in una

gradualità di giudizio che trasferisce, volta per volta, la controversia alle diverse sedi di

competenza. In questa griglia, la Commissione Prevenzione e Conciliazione costituisce l’ultimo

grado di possibile composizione negoziale della controversia, oltre la quale la libertà di azione delle

parti si esprime attraverso la forma conflitto/contratto tipica della contrattazione tradizionale. Il

ricorso a questa ultima commissione, tuttavia, ha dato luogo ad episodi sporadici nella storia della

Sata, a testimonianza di quanto il dispositivo partecipativo-sindacale sia efficace nella strategia

generale della prevenzione del conflitto.

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Nella prassi quotidiana, l’attività delle RSU e più in generale del sindacato, è circoscritta nel

campo di azione di questo dispositivo di potere. Quotidianamente, l’attività dei rappresentanti

sindacali si sviluppa nella direzione della risoluzione delle anormalità relative alla struttura

quotidiana delle relazioni dentro l’UTE. Possiamo cogliere, nel quadro generale dell’attività del

sindacato in Sata, due diverse fasi di sviluppo: la prima, che si sviluppa nell’attività gestionale delle

microconflittualità e che si articola generalmente nel contesto dell’UTE. La seconda fase, che si

sviluppa nel contesto operativo delle commissioni paritetiche.

Le due fasi sono separabili solo analiticamente: il loro operare congiunto costituisce il quadro

di funzionamento tecnico-politico del dispositivo partecipativo-sindacale. È a questo livello che

possiamo cogliere la strategia generale attraverso cui il dispositivo produce, nello spazio dei

conflitti collettivi, i propri effetti normalizzanti.

Sindacato e conflitto: strategia del dispositivo partecipativo-sindacale nello spazio dell’UTE

Al livello dell’UTE, la prassi quotidiana dei rappresentanti sindacali può essere disarticolata

in due momenti, che differiscono tra di loro per gli effetti che l’azione produce a livello della

struttura tecnico-gestionale dell’azienda e rispetto al senso della stessa prassi.

Il primo momento concerne il coinvolgimento del rappresentante sindacale nei problemi che il

singolo operaio incontra durante lo svolgimento normale della propria attività lavorativa. Il secondo

momento è costituito dallo sviluppo della dinamica di ricomposizione del conflitto.

In relazione al primo momento, il coinvolgimento del rappresentante sindacale ad opera

dell’operaio che incontra una difficoltà, costituisce l’innesco di un’azione continua che può

condurre a effetti assolutamente diversi tra di loro. La pratica di rilevazione del problema ha un

carattere continuo e ha un’importanza fondamentale per il rappresentante sindacale. Si tratta

evidentemente di una funzione strettamente connessa ai contenuti del mandato che lo stesso assume

al momento della propria elezione e che molto ha a che fare con le strategie di organizzazione del

consenso sviluppate dalle organizzazioni sindacali e dai singoli rappresentanti nel luogo della

produzione che costituisce il loro bacino elettorale di riferimento. Riuscire a risolvere, non importa

come, il problema del singolo, sia esso meramente tecnico (il moltiplicatore di forza che non

funziona), sia esso più squisitamente gestionale (il capo UTE è dispotico) costituisce un punto di

forza evidente per il rappresentante sindacale che ci riesce.

Tuttavia, questo tipo di attività, sia pur indirettamente ha come effetto il potenziamento della

funzione manageriale di rilevazione della efficienza del sistema. L’attività di rilevazione del

problema, condotta in prima istanza nell’interesse del singolo operaio, si traduce in strumento di

comunicazione delle anormalità al management, che, nella logica del complesso sistema negoziale

di risoluzione di ogni singolo problema (Commisso, 1999), potrà così essere affrontato. Si verifica

in tal modo un’estensione del campo di visibilità di ogni singola anormalità, in atto o potenziale,

che disarmonizza il flusso, che include i rappresentanti sindacali in termini di occhio discreto dei

managers sugli operai. La distribuzione dei rappresentanti sulla linea e la loro costante presenza

rende capillare questa dinamica. Il risultato finale di questo primo effetto, è la sussunzione del

sindacato nella struttura organizzativa generale della lean production nei termini di un potente

agente di feedback (Rieser, 1992), con sessantotto agenti collocati lungo tutta la linea. Questo primo

sviluppo della prassi dei rappresentanti sindacali nello spazio dell’UTE è il primo effetto pratico del

dispositivo partecipativo-sindacale: il senso della pratica di rilevazione del problema, condotta in

prima istanza nell’interesse del singolo operaio, è capovolto a vantaggio dell’azienda.

Il secondo momento di questa prima fase, è costituito dallo sviluppo della dinamica di

risoluzione dei problemi del singolo operaio che possono costituire una potenziale emergenza di

conflittualità. A questo livello, la dinamica di ricomposizione si esaurisce tutta dentro l’UTE, senza

ricorrere ad altre strutture collegiali di negoziazione. Il capo UTE ha tra i propri obiettivi la

funzione di prevenire e risolvere ogni emergenza che possa costituire una rottura del continuum

comunicativo tra le diverse figure che compongono il team: più che essere un capo, egli deve essere

un leader. A partire da questa condizione, Commisso (1999) ha individuato nell’UTE lo spazio

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primario di funzionamento di una specifica modalità di imposizione del comando gerarchico,

definita “dispositivo di fluidificazione”. Il carattere specifico di questo dispositivo è che la dinamica

di imposizione del comando gerarchico sugli operai si sviluppa in una forma comunicativa sulla

base della quale si costituisce una fitta rete relazionale che appare nella forma della relazione

interpersonale. In altre parole, la forma della relazione tra operai e capi appare come se fosse una

relazione del tipo face to face.

Nella meccanica del dispositivo, la struttura dei ruoli, il peso della gerarchia e le pratiche di

imposizione del comando sono diluite, fluidificate, in una struttura di senso che ricolloca tutti e

ciascun componente dell’UTE come persone, prima ancora che come capi o operai. Ma il

continuum comunicativo dell’UTE, la rappresentazione del team come comunità di persone che

cooperano per un fine comune, è spesso turbata da inevitabili “anormalità” soggettive che

conducono a tensioni sociali e conflitti che svelano il piano reale delle forze contrapposte che

agiscono nell’UTE, giustapponendo e riposizionando soggetti e ruoli: i capi come capi, gli operai

come operai. L’evidenza della contrapposizione degli interessi, l’insorgenza di soggetti collettivi

costituiti sulla base di affinità elettive piuttosto che funzionali, impone una strategia di

ricomposizione del conflitto che coinvolge gli attori ad un livello di complessità più elevato. In

questi casi, il dispositivo di fluidificazione mette in opera un gioco delle parti che coinvolge, nel

processo di ricomposizione, accanto alle figure gerarchiche dell’UTE, il responsabile del personale

operativo (REPO) che costituisce l’interfaccia, in sede di Unità Operativa, del responsabile di

stabilimento delle relazioni sindacali. Le diverse figure coinvolte nel processo formalmente si

confrontano su una base paritaria che scaturisce dal comune interesse (sindacato-operai-azienda) di

risolvere il problema che si è presentato.

Esiste una continuità evidente, metodologica e sostanziale, tra questo primo possibile

sviluppo della dinamica di ricomposizione del conflitto e il dispositivo di fluidificazione. La

modalità con cui il rappresentante sindacale partecipa al processo di ricomposizione corrisponde, da

un lato, ai criteri di comunicazione che il dispositivo di fluidificazione impone: interpersonalità

della relazione, comune interesse di risolvere il problema specifico. Dall’altro, la prassi del

rappresentante è informata ai principi e ai precetti del modello partecipativo, che impongono, ex

ante, agli attori istituzionali (sindacato-management) di “(…) ridurre le occasioni conflittuali, con

l’obiettivo di affrontare le questioni di comune interesse in modo costruttivo”. L’operare pratico

congiunto di questa doppia pressione, che è in realtà l’effetto congiunto e simultaneo del dispositivo

di fluidificazione con il dispositivo partecipativo-sindacale, sul rappresentante sindacale, inibisce la

spirale antagonistico-conflittuale tra le parti, riproducendo l’immagine dell’UTE come comunità di

persone in cooperazione. L’effetto specifico del dispositivo partecipativo-sindacale in questo

ambito, consiste specificamente nella collocazione del rappresentante sindacale nel processo di

ricomposizione del conflitto, che è, nello stesso tempo, processo di estraniamento del

rappresentante dai lavoratori come propria comunità elettiva.

La seconda fase di sviluppo del metodo partecipativo ha come epicentro le commissioni

paritetiche, le quali nella logica complessa della partecipazione, costituiscono gli istituti e le sedi

formali della negoziazione. L’innesco del meccanismo delle commissioni introduce elementi nuovi

nell’analisi, sia dal punto di vista delle procedure con cui operano, sia per gli obiettivi strategici che,

attraverso lo strumento della commissione, il dispositivo partecipativo-sindacale persegue.

Il funzionamento pratico del dispositivo partecipativo-sindacale nel contesto delle

commissioni paritetiche

Possiamo distinguere le commissioni in due gruppi fondamentali, che differiscono tra di loro

per le competenze e per le modalità con cui intervengono sul terreno della prevenzione del conflitto.

Un primo gruppo è composto dalle commissioni le cui competenze si riferiscono a temi

generali e che non intervengono specificamente nelle dinamiche dei conflitti, al quale possiamo

ascrivere: la Commissione Pari opportunità; la Commissione sui Servizi Aziendali, la Commissione

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Formazione Professionale, la Commissione Servizio Sanitario Aziendale e la Commissione

Prevenzione degli Infortuni.

Un secondo gruppo, al quale è possibile ricondurre le commissioni con competenze e funzioni

strategiche nella direzione della prevenzione/ricomposizione del conflitto: la Commissione

Prevenzione e Conciliazione, che costituisce la sede naturale di risoluzione negoziale delle

controversie e di raffreddamento delle occasioni conflittuali; la Commissione Fabbrica Integrata,

che ha il compito di valutare gli effetti che la configurazione tecnologica e organizzativa produce

sui lavoratori; la Commissione Verifica del Premio, in cui viene esaminato l’andamento dei

parametri di riferimento relativi al premio di competitività.

Nelle previsioni del contratto, l’attività delle commissioni avrebbe dovuto avere carattere

stabile e periodico. In realtà le commissioni si riuniscono raramente e per due ordini di ragioni: la

necessità di sanare un conflitto già esploso e la necessità di valutare gli effetti di una decisione del

management sull’ambiente sociale interno.

In relazione al primo ordine di ragioni, le commissioni che con più frequenza si riuniscono

sono quelle che hanno come contenuto specifico la prevenzione e la composizione dei conflitti. Ad

esempio, in occasione dell’avviamento produttivo dell’ultimo modello (Nuova Punto), l’aggravio

dei carichi di lavoro derivanti dalla nuova produzione ha provocato forti tensioni sociali in alcune

UTE del montaggio. L’iter innescato in questo caso ha avuto un andamento che possiamo

considerare tipico: rilevazione del problema ad opera del rappresentante sindacale, convocazione

della commissione competente, comunicazione dei risultati della negoziazione. La commissione

competente (Fabbrica Integrata), riunita su richiesta dei rappresentanti sindacali per valutare

l’aggravio dei carichi di lavoro in quelle UTE, non ha sanato le ragioni del conflitto, che di fatti è

esploso con la proclamazione di uno sciopero al quale hanno aderito tutte le organizzazioni

sindacali e il 90 per cento circa dei lavoratori delle UTE interessate al problema. Il passaggio

conseguente è stato la convocazione della Commissione Prevenzione e Conciliazione, in seno alla

quale, l’azienda ha riconosciuto la legittimità delle ragioni dei lavoratori, procedendo a una parziale

integrazione dell’organico nelle UTE in questione. Questo evento risale al settembre 1999; da allora

fino a marzo del 2000 quelle commissioni non sono state riunite.

Il passaggio del processo di risoluzione del conflitto dal livello di UTE al livello delle

commissioni è significativo poiché in sede di commissione, l’attività delle rappresentanze sindacali

e del management si articola come attività unitaria di ricomposizione del conflitto o, allo stesso

modo, di impossibilità di ricomposizione. In questo senso, il contenuto reale della negoziazione in

commissione altro non è se non una pratica continua di legittimazione/illegittimazione dei bisogni

dei lavoratori attraverso la loro dislocazione dal piano del bisogno soggettivo al piano del problema

tecnico e della sua possibile soluzione. In questo senso, la risoluzione di una disfunzione tecnico-

organizzativa costituisce una necessità, un vincolo che coinvolge, in pari misura, l’azienda e il

sindacato come attori istituzionali unificati.

L’unificazione degli attori istituzionali (azienda-sindacato) nelle pratiche negoziali di

rilevazione, legittimazione e risoluzione del problema è dunque l’obiettivo principale del metodo

partecipativo, che ha un effetto immediato sugli operai nei termini della loro percezione dello

spazio della produzione. Nello schema fordista, l’origine e la possibile composizione della

controversia si svolgeva secondo la prassi consolidata del binomio conflitto/contratto. Il

riconoscimento della contrapposizione tra le parti sociali era una componente essenziale del

processo di ricomposizione, e la stessa ricomposizione era il frutto dei rapporti di forza contrattuali

che le parti agivano sul terreno dello scontro. Il passaggio dal binomio conflitto/contratto al

binomio negoziazione/partecipazione non costituisce semplicemente il passaggio verso uno schema

più o meno efficace di “raffreddamento” delle occasioni conflittuali che si dispiega lungo tutto il

processo produttivo. Piuttosto, ciò che è in gioco è il fatto che la negoziabilità processuale

dell’oggetto specifico del conflitto dentro uno schema procedurale precostituito, che coinvolge sullo

stesso piano il sindacato e l’azienda, è un processo di produzione di senso, che implica la

rappresentazione dello spazio della produzione capitalistica nei termini di un luogo neutrale di

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produzione di cose sulla base di un comune interesse. In questo quadro, il conflitto appare non

originato dalla struttura antagonistica dei rapporti di produzione, ma è continuamente ricollocato sul

piano della disfunzione momentanea di una parte del processo. Questa dislocazione è rafforzata dal

flusso di informazioni che scaturisce dalle commissioni una volta esaurito il processo: il comunicato

congiunto sindacato-azienda che viene redatto alla fine di ogni riunione, è affisso in tutti i punti di

informazione collocati in ogni UTE, costituendo il precipitato decisionale dell’intero processo di

produzione di senso.

In relazione al secondo ordine di ragioni, ossia la valutazione degli effetti che le decisioni

manageriali producono sui lavoratori, il luogo delle commissioni paritetiche altro non è se non la

sede in cui è generato un flusso di informazioni verso il basso che può avere un duplice senso:

a) la semplice ratifica di una decisione del management presa altrove. La Commissione

Verifica del Premio, ad esempio, costituisce la sede in cui il management aziendale

semplicemente comunica l’andamento dei parametri di rilevazione per il conseguimento

del premio di produttività senza che i rappresentanti sindacali possano intervenire nel

merito

b) la valutazione, ad opera del management, del grado di flessibilizzazione della forza

lavoro. La Commissione Fabbrica Integrata è istituita con l’obiettivo specifico di

“analizzare gli effetti prodotti dagli assetti tecnologici e organizzativi sui lavoratori”

(accordo integrativo aziendale Sata-Fma 11 giugno 1993: 148).

In entrambi i casi, l’azione che il dispositivo partecipativo-sindacale produce in questo gruppo

di commissioni ha un’efficacia pratica che risiede nel fatto che la direzione aziendale ha un

riscontro immediato del limite oltre il quale le decisioni manageriali possono produrre come

reazione tensioni sociali e conflitti. Il meccanismo è strumento di prevenzione processuale del

conflitto poiché il rappresentante sindacale è agito dal management come mero strumento di

rilevazione del grado di flessibilità della forza lavoro e di trasmissione delle decisioni.

Dal punto di vista delle procedure di formazione delle decisioni in sede di commissioni, è

necessario partire da un dato fondamentale: le commissioni hanno potere decisionale solo in caso di

unanimità di consenso tra tutti i membri (managers e rappresentanti sindacali o, allo stesso modo a

questo livello, azienda e sindacato). A partire da questa condizione, è possibile sostenere che il

processo di negoziazione in sede di commissione è una pratica di compromessi in cui gli attori

coinvolti esprimono lo stesso grado di potere. Ma nel processo reale di formazione delle decisioni in

sede di commissione è possibile individuare alcune asimmetrie strutturali riscontrabili in relazione

al potere che detengono gli attori istituzionali, che pongono i rappresentanti sindacali in una

posizione di evidente subalternità ai managers.

La prima asimmetria è relativa al diverso grado di conoscenza, dunque di potere, che gli attori

hanno dell’intero processo produttivo. Il fatto che la direzione strategica del processo è una

prerogativa esclusiva del management, colloca i rappresentanti sindacali in una condizione di

passività autoevidente.

La seconda asimmetria riguarda il fatto che il management può essere considerato come

soggetto unitario nelle pratiche di negoziazione, mentre la divaricazione e la differenziazione

costituiscono un elemento strutturale nella composizione delle rappresentanze sindacali. L’arco

delle posizioni delle organizzazioni sindacali in Sata oscilla infatti tra le posizioni del Fismic (il

sindacato d’azienda) che esprime il massimo della adesione ai principi della partecipazione, e le

posizioni della Fiom e dell’Ugl che, sia pur con notevoli differenze tra di loro, sembrano esprimere i

contenuti più tradizionali del conflitto operaio.

Conclusioni

Esiste un’ambiguità di fondo nell’analisi delle pratiche sindacali nella letteratura dominante

che fa coincidere il sindacato con il conflitto operaio. Nel contesto concreto della Fabbrica

Integrata, sindacato e conflitto appaiono in relazione soltanto nella misura in cui il sindacato riesce

a porsi come strumento di microregolazione del conflitto nel complesso sistema di negoziazione

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previsto dal modello partecipativo. Quest’ultimo è processo di proceduralizzazione dei metodi di

risoluzione del conflitto, per cui costituisce un elemento fondamentale del quadro disciplinare

complessivo della Fabbrica Integrata ed è parte integrante dell’intero processo di riconfigurazione

organizzativo-gestionale del processo produttivo.

L’azione del dispositivo partecipativo-sindacale si sviluppa in tre momenti fondamentali: nel

primo momento, il senso della prassi dei rappresentanti sindacali è ridotto al rango di strumento

aggiuntivo nella pratica di rilevazione delle anomalie; nel secondo momento, ordina i percorsi di

ciascuna appendice individuale del sindacato (i rappresentanti) e ne proceduralizza la prassi

quotidiana nel contesto operativo dell’UTE; nel terzo momento, capovolge il ruolo e la funzione del

sindacato collocandolo come soggetto attivo nel processo unitario (sindacato-azienda) di

ricomposizione dei conflitti che si svolge in sede di commissione.

Il risultato ultimo del dispositivo è l’estravertimento del ruolo del sindacato, da un lato agito

come strumento di regolazione del conflitto; dall’altro posto come titolare di un potere di

negoziazione che ha senso solo se produce soluzioni conformi alla logica generale di gestione del

flusso.

In quest’ottica, l’imperativo ohnista di “pensare all’inverso” travalica la stretta logica di

organizzazione materiale del flusso produttivo, imponendosi come modalità specifica e coerente di

gestione delle relazioni industriali. È il sindacato stesso che, nel contesto della Fabbrica Integrata, è

stato “ri-pensato all’inverso”, nella propria natura e nel proprio ruolo.

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8

Valeria Pulignano

Sotto il just in time. Controllo sociale e relazioni di lavoro nella filiera dell’auto

Introduzione

Il nuovo assetto produttivo che implementa i principi organizzativi della lean production si

struttura come una costellazione il cui centro è rappresentato dal produttore di auto e i nodi dalle

imprese di fornitura capofiliera o di primo livello, dalle quali discendono le imprese dei livelli

successivi che concorrono alla formazione delle filiere di prodotto. Le modalità di consegna in just

in time e/o a magazzino creano le interconnessioni strutturali tra i diversi livelli della filiera. Dalla

diversa modalità di approvvigionamento (just in time o via magazzino) dipende il differente grado

di integrazione logistica di ciascuna impresa nella filiera. La fornitura just in time si caratterizza per

l’applicazione del just in time sincrono e del just in time via kanban. Entrambi si basano sulla

consegna del componente direttamente in linea nel momento in cui è richiesto. Il primo, comporta

la sincronizzazione delle produzioni con eliminazione di aree di stoccaggio finali da ambo le parti

nella relazione contrattuale. Il secondo implica, invece, la possibilità del mantenimento di un

minimo stoccaggio presso il fornitore secondo la logica del ‘pieno contro vuoto’. La fornitura via

magazzino prevede il ricorso a modalità d’approvvigionamento caratterizzate dal mantenimento di

uno stock di prodotti finiti sia per il fornitore sia per il committente.

Secondo questa nuova organizzazione della fornitura ogni impresa fornitrice si comporta

come una macrocellula di produzione entro la quale si iscrivono gli effetti prodotti dalla totalità del

processo. Ciascuna macrocellula è caratterizzata da modalità di organizzazione del lavoro che

integrano compiti precedentemente distinti e separati, per la creazione di quella che Accornero

(1997: 130) definisce ‘cooperazione intelligente’. In questo contesto, il cambiamento investe anche

i meccanismi e il modo di esercitare il controllo sociale che è connesso alle diverse modalità di

integrazione logistica dell’impresa nella filiera.

La tesi che sosteniamo è che la modalità di esercizio del controllo all’interno di ciascuna

impresa di fornitura nella filiera è diversa a seconda se la consegna è in just in time o a magazzino.

In entrambe i casi, il controllo sociale si presenta nella forma di meccanismo strutturale inscritto

nell’imperativo della consegna al committente. Quello che cambia è la forma che esso assume.

Infatti, nel caso dell’approvvigionamento in just in time il comando passa attraverso l’imperativo

del ‘flusso teso’, per cui l’esercizio del potere può darsi nella forma discorsiva delle Human

Resource Management piuttosto che dell’autorità rigida, burocratica e direttamente coercitiva tipica

della divisione del lavoro fordista. In tal modo, il corpo produttivo e sociale frammentato in cells è

disciplinato alle nuove regole della produzione snella. Nel caso di approvvigionamenti a magazzino

invece il controllo sulla forza lavoro si presenta nella forma della salvaguardia del rapporto di

lavoro.

L’analisi si basa sullo studio della filiera di fornitura del sedile per diversi modelli di vettura

(Punto, Lancia Y e Nuova Punto) presso lo stabilimento della Fiat a Melfi. La filiera del sedile è

composta da un centinaio di imprese, collocabili a tre livelli secondo un ordine sequenziale che va

dai particolari di lastratura (per la fabbricazione della struttura metallica del sedile) a quelli di

selleria (per il rivestimento della struttura metallica con le componenti che concorrono a definire il

sedile finito). La filiera è caratterizzata dall’applicazione di diverse modalità di approvvigionamento

(just in time o via magazzino) e tale diversità è stata assunta come criterio basilare per la ricerca.

Per l’indagine di caso sono state selezionate quattro unità produttive di fornitura di diverso

livello e con differenti modalità di consegna: Lear Corporation Italia Sud (primo livello e

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capofiliera), Commer TGS (secondo livello), Bruzia Monti (secondo livello), F.G.L. (terzo livello).

Le prime due hanno una forza lavoro di 772 e 100 addetti rispettivamente e sono localizzate nel

comprensorio adiacente allo stabilimento Fiat, dove sono ubicati i fornitori. Da qui la Lear

rifornisce il sedile alla Fiat in just in time sincrono; la Commer rifornisce le imbottiture alla Lear, in

just in time via kanban. Le altre due, situate fuori del comprensorio, riforniscono a magazzino, con

frequenze di consegna rispettivamente giornaliere e settimanali, le fodere e alcuni particolari in

tessuto e in metallo per la produzione delle imbottiture. L’organico di Bruzia Monti e di F.G.L è

rispettivamente di duecentonovantacinque e di otto addetti (la capacità di crescita è stimata fino a

un totale complessivo di circa venti addetti).

Al fine di proporre la nostra interpretazione esamineremo, dapprima, la letteratura che ha

studiato le relazioni di lavoro nel mondo della fornitura e procederemo all’esame dei processi che

concorrono a definire la globalità del sistema organizzativo. In particolare, basandoci sul differente

grado di integrazione (just in time o via magazzino) dell’impresa nella filiera analizzeremo in

chiave comparata i meccanismi più o meno istituzionalizzati attraverso cui è prodotto il senso che

gli attori sociali (management e lavoratori) danno alle proprie azioni, quale effetto della natura e

delle nuove modalità di esercizio del controllo. Passeremo poi ad esaminare la differente risposta

operaia alla richiesta del management di collaborare per garantire la regolarità del processo

produttivo. Noi assumiamo che tale risposta presenta aspetti di consenso che non negano l’esistenza

di pratiche più o meno tacite di resistenza sui luoghi di lavoro. Concluderemo con alcune

considerazioni sugli aspetti contraddittori che emergono dal processo di integrazione organizzativa.

Le labour relations nella fornitura: i termini del dibattito

La maggior parte della letteratura che ha analizzato l’impatto dell’organizzazione della

produzione in just in time sulle relazioni sociali e di lavoro nel settore automobilistico ha

focalizzato l’attenzione sul produttore di auto, lasciando poco spazio all’analisi degli effetti sulle

imprese di fornitura (Oliver e Wilkinson, 1992; Garrahan e Stewart, 1992; Elger e Smith, 1994;

Rieser, 1997; Commisso, 1999). Questa letteratura ha sottolineato da un lato, le opportunità di

ottimizzazione dei risultati economici derivanti dall’eliminazione delle eccedenze materiali e umane

che i sistemi di ‘qualità totale’ e di just in time comportano (Beale, 1994; Wickens, 1987); dall’altro

lato, l’estrema vulnerabilità del processo produttivo interno ai singoli stabilimenti, nonché la forte

dipendenza dei fornitori dai vincoli del flusso produttivo linearizzato della casa auto (Ohno, 1988;

Womack et al., 1991; Coriat, 1991). Inserito nella strategia di realizzazione del flusso globale, il just

in time è “estremamente difficile da applicare in maniera rigorosa” in quanto a causa di “un errore

di previsione, uno sbaglio di registrazione, un prodotto difettoso, un qualsiasi problema

nell’impiantistica, una variazione nella presenza del personale (...) gli inciampi possono essere

innumerevoli” (Ohno, 1988: 4).

Per quanto riguarda i rapporti di lavoro nelle imprese di fornitura, alcuni autori, riferendosi a

ricerche sul campo giapponesi e tedesche, hanno sviluppato la tesi della periferizzazione della forza

lavoro (Atkinson, 1985). In quest’ottica la natura dei processi sociali e di lavoro nelle imprese

collocate nei livelli più in basso della filiera dell’auto viene considerata come il risultato dei nuovi

rapporti di subordinazione che regolano le interconnessioni in seno alla filiera (Chalmers, 1989;

Sauer, 1992; Semlinger, 1991). Ne emerge una interpretazione dualistica del mercato del lavoro, la

quale attribuisce alle grandi imprese l’obiettivo della rottura della solidarietà di classe attraverso la

creazione ed il mantenimento di ineguaglianze di trattamento tra i lavoratori.

Questa teorizzazione riprende la dicotomia che sottende agli aspetti dimensionali

dell’impresa, dove l’uso dei subfornitori è teorizzato come trasferimento dei rischi (risk shifting) al

settore delle piccole imprese, al fine di consentire alle grandi di fronteggiare l’incertezza e il

cambiamento (Tracogna, 1999). Il just in time non viene considerato come principio operativo per

l’esercizio del controllo sul quale si fonda la nuova struttura organizzativa lean. Al contrario,

rifacendosi alla natura contrattuale delle relazioni tra fornitore e casa auto - nettamente a sfavore dei

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primi – questi autori imputano alle relazioni di mercato la spiegazione del carattere periferico della

forza lavoro (Rainnie, 1991).

Altri autori, richiamandosi agli studi sulle relazioni di potere nei processi di accumulazione

capitalistica, individuano nell’integrazione in just in time tra la casa madre e le imprese di fornitura

il meccanismo strutturale di controllo sul lavoro che si riflette principalmente nell’incremento

dell’attività lavorativa nelle unità produttive dei fornitori (Delbridge et al., 1992; Lowe et al., 1996;

Oliver et al., 1998). Tuttavia, si tende ad attribuire al controllo che sottende al principio operativo

del just in time i caratteri imposti dalle regole burocratiche delle relazioni di potere tradizionali, non

distinguendone la natura rispetto al fordismo. Basandosi sui risultati di uno studio sulle relazioni tra

committente e fornitore nel settore automobilistico, Turnbull (1989) in particolare individua nel just

in time il fattore chiave per spiegare le modalità attraverso cui si esercita il controllo sul lavoro nei

nuovi sistemi integrati di ‘produzione snella’. Egli rileva che la riduzione di ogni inefficienza

produttiva per la realizzazione del flusso comporta per i fornitori l’adozione di ritmi di lavoro

elevati e di pratiche di lavoro pressanti (management by stress) per il miglioramento continuo

(kaizen). Tuttavia, sostiene “una più chiara analisi indica che il just in time non dovrebbe essere

considerato come un’alternativa al taylorismo” (Turnbull, 1989: 144-145) L’intensificazione della

prestazione lavorativa e la riduzione del livello di autonomia dei lavoratori nelle imprese di

fornitura sono perciò considerati come gli effetti di un modo manageriale di esercizio del comando

di derivazione tayloristica (Delbridge, 1998; Danford, 1998a), e la chiave di lettura del

cambiamento delle relazioni tra imprese è, pertanto, ancora quella negoziale, che teorizza la

dipendenza economica del fornitore e lo scaricamento di responsabilità dalla casa auto all’impresa

di fornitura (Turnbull, 1986; Turnbull et al., 1993; Roper et al., 1997; Kerrin, 1998; Danford,

1998b; 1999).

Ciò che questi approcci sottovalutano sono i meccanismi organizzativo-gestionali attraverso

cui il management cerca di ottenere il consenso a una formula produttiva altamente vulnerabile e,

quindi, particolarmente demanding. In un contesto produttivo dove i tradizionali contenuti materiali

del lavoro (di pura produzione, trasformazione e costruzione) sono arricchiti da quelli immateriali

(di progettazione, di assistenza e di creazione) e dove, di conseguenza, il coinvolgimento operaio è

inserito nel nuovo sistema produttivo quale elemento di efficacia organizzativa, l’analisi della

specificità della modalità di esercizio del controllo diventa un elemento chiave. Il controllo

garantisce la conformità con le regole imposte dall’organizzazione in un contesto che supera il

‘zero-sum game’ tipico del taylorismo (Bonazzi, 1994: 279).

Per fare questo occorre dapprima delineare la natura dei confini entro cui si inscrivono le

nuove relazioni di potere all’interno dello studio dei rapporti di fornitura. Ciò comporta considerare

che il processo produttivo linearizzato lungo la filiera dell’auto si presenta come risultato

dell’operatività del just in time, che connette le cellule di produzione entro un sistema organizzativo

complessivo caratterizzato dalla concatenazione sequenziale di macrocellule (le imprese). Se questo

sistema non è più pensato come regolato solo da relazioni contrattuali tra soggetti giuridici separati,

“è possibile analizzare le modalità di interazione tra le imprese (...) attraverso l’esame degli aspetti

organizzativi che le caratterizzano” (Bresnen, 1996: 141). In questo modo lo studio delle relazioni

sociali e di lavoro nelle imprese di fornitura avviene tenendo conto della interconnessione

organizzativa tra cellule, invece della mera dipendenza contrattuale tra committente e fornitore

(Bresnen e Fowler, 1998: 134). Il nostro lavoro utilizza questo approccio.

Pertanto, procederemo in primo luogo ad esaminare le modalità mediante le quali è prodotto il

consenso operaio attraverso l’analisi dei processi che concorrono a generare la totalità del nuovo

sistema organizzativo cellularizzato. Tali processi riguardano, da un lato, le norme che

regolamentano le condizioni di lavoro delle imprese quale effetto della loro integrazione in just in

time e, dall’altro lato la rappresentazione simbolica, che passa attraverso il senso che i lavoratori

danno alle proprie azioni, a seguito delle trasformazioni intervenute nel processo produttivo.

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L’istituzionalizzazione della totalità

Il nuovo sistema organizzativo guidato dalla logica dell’integrazione in just in time sia tra la

casa auto e le imprese di fornitura, che tra fornitori di diverso livello localizzati intorno allo

stabilimento della Fiat a Melfi, richiede di essere governato. Questa esigenza risponde alla necessità

di fronteggiare il vincolo della vulnerabilità del ‘flusso teso’, che regola le relazioni contrattuali a

monte della filiera. In particolare, l’obiettivo è la gestione omogenea degli aspetti che caratterizzano

il cambiamento organizzativo e del lavoro intervenuto nelle imprese di fornitura quale effetto

dell’integrazione in just in time.

La risposta data da Fiat all’esigenza di omogeneità si può riassumere nello sviluppo di un

sistema di regolamentazione unificata delle procedure e dei contenuti della contrattazione, nonché

delle relazioni sindacali (EIRR, 1998). Per realizzare tale omogeneità è stato costituito il Consorzio

Auto-Componentistica del Mezzogiorno (ACM), che raggruppa, tra l’altro, le ventidue realtà

imprenditoriali di fornitura inserite nell’area di comprensorio adiacente allo stabilimento lucano,

venti di primo e due di secondo livello. A tutte le imprese esterne a questa area, solitamente

collocate a valle della filiera e non integrate in just in time, non sono estesi gli effetti della

contrattazione unica. Pertanto, per esse continuano ad applicarsi gli accordi di settore.

Il consorzio ACM, costituito inizialmente per rendere le imprese consorziate partecipi, come

era stato per Fiat, delle agevolazioni connesse ai finanziamenti pubblici e ai programmi di

formazione del personale da assumere, si è poi tramutato in un organismo cui è stata delegata la

contrattazione delle condizioni di lavoro con il sindacato.

La regolamentazione delle relazioni sindacali e di lavoro nelle imprese di fornitura è sancita

da due accordi (Accordo ACM del 28 luglio 1994 e accordo integrativo ACM del 25 maggio 1998)

stipulati tra i rappresentanti del consorzio e le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali di

categoria. Entrambi ricalcano per molti aspetti i contenuti dell’accordo Sata del 1993. L’obiettivo

esplicito è di far corrispondere “ad una stretta ed integrata organizzazione logistico-produttiva tra la

Fiat e le imprese fornitrici (...) una altrettanto integrata ed omogenea organizzazione del lavoro”

(Accordo ACM del 1994: 4). In particolare, gli aspetti contrattuali rispetto ai quali è sancita

l’omogeneità sono: orario e tempo di lavoro, struttura e dinamica retributiva, diritti sindacali.

Tuttavia, su alcuni di questi istituti è lasciata alle parti sociali la possibilità di accordarsi su specifici

adattamenti, seppure nel rispetto degli schemi prestabiliti dalla normativa collettiva. Ad esempio,

nonostante la libertà di definizione dell’orario di lavoro, le imprese hanno adottato la turnazione ma

ciascuna ha adeguato uno dei quattro schemi di orario previsti dalla normativa contrattuale

collettiva.

Diventa dunque chiaro che la razionalità che sottende agli accordi consiste nell’ assicurarsi,

mediante l’uniformità delle condizioni contrattuali, la realizzazione delle condizioni di operatività

del just in time. In questo senso, la totalità di processo è resa immediatamente visibile dal

riconoscimento istituzionalizzato nella contrattazione.

La portata innovativa del fenomeno consiste non solo nello sviluppo di una base omogenea

per la regolamentazione delle condizioni di lavoro, ma soprattutto nel fatto stesso che il consorzio si

pone come controparte collettiva del sindacato. Il negoziare ‘una volta per tutte’ le condizioni di

lavoro semplifica, unificandolo, il momento della negoziazione istituzionale, in quanto riporta lo

sviluppo del fenomeno contrattuale ad un evento unificato temporalmente. In questo contesto, ben

poco è lasciato alla pratica degli accordi tra la singola azienda e il sindacato, dal momento che tutte

le trattative sono svolte sui tavoli negoziali dell’ACM. Le scelte contrattuali delle singole aziende

sono prese nel rispetto di un programma, che è quello del consorzio, e tenendo conto delle ricadute

che esse determinano sul funzionamento della totalità del processo produttivo e delle relazioni

sociali interne a ciascun stabilimento e complessivamente nello spazio del comprensorio. In

definitiva, l’effetto principale del processo sopra esaminato è l’unificazione, via negoziazione

indiretta, delle norme contrattuali entro cui si dà il sistema organizzativo complessivo.

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La rappresentazione simbolica della totalità

A seguito dell’adozione dei nuovi modelli produttivi lean il sistema della componentistica è

stato riorganizzato secondo una struttura integrata a filiera (Pulignano, 1997). Essa identifica una

costellazione al centro della quale si colloca il produttore di auto e i cui nodi sono rappresentati dai

fornitori capofiliera. Da essi dipendono unità produttive che costituiscono le filiere, ciascuna delle

quali è dedita alla produzione di componenti per il produttore automobilistico. Il just in time è il

principio organizzativo di interconnessione di questi nodi per la realizzazione del ‘flusso teso’.

Come è noto Ohno (1993) ne descrive i meccanismi dicendo che: “il just in time significa che nel

corso dell’assemblaggio dell’automobile ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel

preciso momento in cui ce n’è bisogno e solo nella quantità necessaria” (Ibidem: 7). Parafrasando

Fiocco (1997) potremmo dire che la concatenazione sequenziale creata dal nuovo modello

organizzativo non connette solo le microcellule interne alle singole unità produttive, bensì anche

fasi intere del processo produttivo che complessivamente costituiscono i nuovi nodi di un sistema

integrato.

Ma, il sistema così creato è altamente vulnerabile, in quanto ogni disfunzione tecnica (guasto

dell’impianto; mancanza di materiali, ecc.) o umana (disattenzione, resistenze) rischia di mettere in

crisi la sua operatività immediata. Per cui possiamo estendere a tutto il processo la metafora del

‘tubo di cristallo’ usata da Bonazzi (1993) per rappresentare la vulnerabilità della fabbrica integrata:

“Alla sua imboccatura il tubo è aperto alla domanda del mercato. L’ordine in cui si dispone il mix

produttivo può essere il più vario possibile (...) ma poi le pareti del tubo sono rigide. Una volta

deciso il mix, la sua sequenzialità deve essere rispettata lungo tutta la corsa fino all’uscita dal tubo.

Tempi morti, ricircoli di materiale e inversioni d’ordine sono inconvenienti sistemici da eliminare il

più possibile” (Ibidem: 138).

La natura apparentemente oggettiva e neutrale del ‘flusso teso’ veicola il comando interno a

ciascuna unità produttiva lungo la filiera come se fosse originato dal cliente. In questo senso, le

condizioni di lavoro (tempi e ritmi, carichi di lavoro e così via) dentro la fabbrica sembrano essere

la mera risposta alla necessità organizzativa di assicurare il flusso dei componenti da assemblare,

piuttosto che la realizzazione dell’interesse economico e strategico dell’impresa fornitrice. Dentro

questo contesto, la percezione dei lavoratori supera i confini giuridici dell’impresa di fornitura ma

lo fa in modo particolare. Coloro i quali lavorano negli stabilimenti in just in time sincrono tendono

ad assumere come proprio fine l’obiettivo dell’azienda di realizzare il just in time, e a trasferire sul

committente principale il senso del proprio agire e le tensioni sociali interne a ciascuna unità

produttiva.

Le implicazioni metodiche di questo discorso sono che la pressione del committente sul

fornitore (Stephenson, 1996) e il modo in cui essa retroagisce sui lavoratori, generando consenso,

deve essere letta nel contesto regolato dall’esercizio delle nuove pratiche organizzative. La

percezione si traduce nella tendenziale legittimazione all’esercizio del controllo sul lavoro da parte

dei managers delle imprese di fornitura, in quanto il loro agire si presenta come una mera necessità

di far fronte ai vincoli di consegna imposti dai committenti. Pertanto, le norme di comportamento

che managers e forza lavoro sono tenuti ad osservare assumono la forma di un ordine funzionale

che sembra investirli indifferentemente. In un tale contesto, il potere non si presenta come forza

burocratica repressiva, bensì come potere sottile, in apparenza scelto ma di fatto subito, che investe

e forma, ovvero - come direbbe Foucault (1978: 95) – quale dispositivo, la cui ragion d’essere

consiste “nel fatto di proliferare, d’innovare, di annettere, d’inventare, di penetrare i corpi in modo

sempre più minuzioso e di controllare le popolazioni in modo sempre più globale”. In tal senso,

esso induce determinati comportamenti individuali come effetto del normale operare delle cose e

così “paragona, differenzia, gerarchizza, omogeinizza, esclude: in una parola normalizza”

(Foucault, 1976: 200).

Il risultato generale di questo processo è l’emergere della natura di macrocellula del sistema

organizzativo complessivo che caratterizza l’impresa integrata in just in time in un contesto di

fabbrica che reclama consenso operaio sulla base di un denunciato ‘comune interesse’ tra le parti.

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Esso media la dimensione ideologica e normativa delle nuove relazioni di potere. Tuttavia, la sua

intensità è direttamente proporzionale al grado di integrazione logistica dell’impresa nella filiera, al

quale d’altra parte corrisponde il rischio del pagamento della penale per il non rispetto dei tempi di

consegna e degli standard di qualità indicati dal cliente. L’effetto è più forte per le imprese di

fornitura a monte, legate al committente principale da modalità di approvvigionamento e di

produzione in just in time, mentre si indebolisce come vedremo nei livelli più a valle. Questo è

quanto emerge dalle voci dei protagonisti che lavorano in stabilimenti caratterizzati da consegne in

just in time:

Essendo la linea sulla quale opero semi-meccanizzata sei tu che la mandi avanti (…); noi

[operai] non la fermiamo mai (…) non possiamo fermarla perché dobbiamo produrre e

consegnare il sedile finito al nostro cliente Sata (…) tutto quello che fai sulla linea è legato al

‘just in time’ e a Sata.

Se non lavori bene il rischio è che rischi tu di bucare [espressione comune che indica il non

avvenuto accoppiamento sulla linea di montaggio del sedile con la vettura], cioè di non

mandare in Sata i sedili che occorrono per completare le vetture, (…) in questo caso la linea si

ferma; noi [operai] dobbiamo sempre fare in modo da non fermare Sata; non possiamo fermare

Sata! (…) la produzione la dobbiamo fare altrimenti rischiamo di bucare!

Se le macchine prodotte non vengono completate perché mancano i sedili che noi [operai]

mandiamo per il montaggio in Sata, per cui le macchine arrivano sui piazzali incompleti, allora

in quel caso è un vero guaio (…) significa che noi abbiamo bucato (…) questo non deve

accadere mai (…) la linea in Sata non deve mai fermarsi per causa nostra (…) bisogna essere

sempre in grado di consegnare i sedili al cliente quando chiede.

Un operaio che ha il compito di guidare la tradotta per la consegna del prodotto finito (il

sedile) alla casa auto rende ancora più evidente la dimensione organizzativa attraverso cui sono

definiti i rapporti con il management. Essi sono guidati dall’ordine apparentemente oggettivo della

struttura organizzativa del flusso in just in time la quale, pertanto, rende chiara la nuova natura

implicita del controllo:

Quando si lavora in just in time sincrono devi stare sempre con l’orologio perché non puoi far

mancare i sedili in Sata (…) l’obiettivo principale per un tradottista è quello di non far fermare

la linea in Sata, per cui quando l’orologio ti dice che devi partire, devi partire e basta! Lasci

perdere tutto quello che stai facendo e parti.

Un addetto linea presso l’impresa fornitrice che consegna gli schiumati per il sedile alla Lear,

secondo modalità di approvvigionamento in just in time via kanban, aggiunge:

Quando lavori in just in time non hai neppure il tempo di alzarti gli occhiali, di soffiarti il naso

perché comunque arrivano i pezzi e tu li devi fare (…) tu devi fare quella produzione perché il

cliente [la Lear] aspetta. Se ti fermi per andare in bagno, oppure sbagli un pezzo allora rischi di

trovarti con tanti pezzi da fare sul tuo bancone (…), poi sei tu che devi recuperare perché non

puoi fermare il cliente.

Il sentirsi direttamente responsabile della consegna al committente principale non coinvolge

soltanto la sfera delle relazioni sociali nella macrocellula di produzione, ma interessa anche i

rapporti con la forza lavoro operante nella microcellula di lavoro (UTE) del committente.

Considerando i rapporti tra cellule di produzione, un addetto linea operante nella UTE 15 della Sata

– dove sono montati i sedili prodotti dalla Lear – chiarisce la razionalità di tale processo, chiamando

le cose con il proprio nome:

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Nella UTE nella quale lavoro in Sata montiamo i sedili che sono prodotti dalla UTE della

selleria; data la relazione cliente-fornitore che regola i rapporti di produzione tra le due UTE,

è normale conoscere i colleghi che producono i sedili per noi [operai Sata], anzi alcune volte

capita, quando ci si incontra, e loro magari hanno ‘bucato’ otto ore prima, di discuterci anche

sopra.

Dunque, attraverso la percezione che gli operai hanno del ritmo imposto dalla vulnerabilità

del flusso in just in time è dimostrata la specificità della nuova modalità di esercizio del controllo

secondo la razionalità post-fordista. Essa non risponde ai caratteri rigidi e burocratici imposti

dall’alto, ovvero dall’autorità manageriale dell’imprenditore la quale sanciva secondo Edwards

(1979) l’entrata in fabbrica di uno stato di diritto, bensì a quelli che sono originati all’interno della

nuova struttura organizzativa e, pertanto, veicolati come esigenze autonome ed oggettive del flusso

produttivo a ‘zero scorte’. Ciò è il risultato visibile del cambiamento originato dall’adozione del

regime produttivo post-fordista. Infatti, in un contesto non più caratterizzato dalla tradizionale

divisione tra l’esecuzione rigorosa dei compiti e la progettazione di stampo taylorista la

discrezionalità operaia si arricchisce degli aspetti cognitivi relativi alla conoscenza tacita del

processo di lavoro. È in un simile contesto che si spiega - come suggerisce Kunda (1992) - il

passaggio dalla dimensione esplicita e diretta a quella implicita e ‘normativa’ del controllo che

agisce attraverso la struttura organizzativa tipica della ‘produzione snella’, diventando - come

sostengono Sewell e Cooney (2000) - pratica disciplinare sui luoghi di lavoro.

Nelle imprese fornitrici meno soggette alla vulnerabilità del ‘flusso teso’, in quanto

producono a magazzino, collocate nei livelli più in basso della filiera del sedile, invece, il controllo

sociale, seppure sorretto dalle esigenze produttive del cliente principale, non prescinde dal

riconoscere l’imprenditore quale controparte immediata. Piuttosto, il comando è introiettato grazie

all’atteggiamento ‘paternalistico’ del datore di lavoro, tipico soprattutto delle realtà imprenditoriali

di piccole e medie dimensioni, in cui le condizioni di riproduzione dell’azienda si presentano come

interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro. Ciò è riscontrabile, soprattutto, nelle

imprese di fornitura monoclienti, legate al committente da rapporti contrattuali a breve ed inserite in

contesti scarsamente industrializzati. Un addetto linea della F.G.L. commenta:

Se il prodotto che produciamo non è buono allora il cliente – così ci è stato detto dal datore di

lavoro – non accetta il carico, per cui quest’ultimo torna indietro. Questo è molto rischioso, in

quanto significa attribuire un punto di demerito all’azienda per la quale lavoriamo. Il rischio è

che le vengano tolte le commesse (…). Fino ad ora il carico non è mai tornato indietro e le

consegne sono state sempre realizzate nei tempi indicati dal cliente e dettati dall’azienda; se il

carico tornasse indietro sarebbero guai (…); il datore ce lo ha fatto capire chiaramente, ha

puntualizzato che qualora gli ordini produttivi dovessero ridursi, il rischio è di stare tutti a casa

(…) pertanto, personalmente faccio sempre in modo che questo non accada.

Dunque, in questi casi la legittimazione all’esercizio del comando non è posta come necessità

organizzativa del flusso produttivo in just in time mediata dal management, bensì rappresenta il

risultato di un atteggiamento opportunistico per la continuità del rapporto di lavoro. In questo senso,

il controllo manifesta apertamente la dimensione diretta del comando imposto dalla direzione

dell’impresa sui lavoratori. In alcuni casi il riflesso di questo processo è l’esistenza di una struttura

organizzativa aziendale fortemente gerarchizzata, caratterizzata dalla presenza di ruoli specifici per

il controllo visivo sul lavoro come, ad esempio, quello del responsabile di linea. Un’operaia della

Bruzia Monti sottolinea questa specificità:

Il mio affannarmi sulla linea è dovuto al fatto che in qualità di operaia devo obbedire al

comando che in termini di quantità da produrre e di rispetto degli standard qualitativi del

prodotto l’azienda mi impone (…) ciò significa, in poche parole, che se voglio fumarmi una

sigaretta e fermare la produzione non lo posso fare perché altrimenti viene il capo e mi

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richiama (…); c’è dunque un comando al quale ognuna di noi è soggetta (…) c’è sempre

qualcuno pronto a dirti ‘fai questo e fai quello’

In definitiva, la totalità organizzativa attraverso la quale sono mediate le relazioni tra le

imprese enfatizza la non omogeneità che caratterizza la percezione soggettiva del controllo lungo la

filiera, e ne fornisce la spiegazione sulla base del diverso grado di integrazione logistica

dell’impresa. A questo punto, il problema è di capire quali altri fattori di gestione interna al

fornitore concorrono nel processo di creazione della suddetta diversità.

Oltre l’integrazione logistica di filiera

L’analisi dei comportamenti attraverso cui è prodotta la legittimazione all’esercizio del

controllo manageriale lungo la filiera del sedile ci induce ad esaminare a fondo i meccanismi

gestionali che concorrono a generarli. Essi si riflettono concretamente nell’adozione sui luoghi di

lavoro di pratiche di responsabilizzazione individuale e/o di gruppo, connesse alla consegna del

componente finito e alla produzione in itinere per il committente. Queste pratiche comportano lo

sviluppo di momenti di autoattivazione e di autocontrollo per il miglioramento continuo.

Alla domanda se prestano attenzione allo svolgimento delle proprie mansioni e in caso

affermativo, perché lo fanno, due addetti linea appartenenti a due imprese di fornitura caratterizzate

da un differente grado di integrazione logistica nella filiera, commentano:

Certo che presto attenzione a quello che faccio (…) innanzitutto perché sono io che auto-

certifico il sedile al cliente (…), se Sata giudica il sedile che ho mandato non buono sono io il

diretto responsabile (…) spesse volte mentre sto sellando penso di non farcela talmente il ritmo

è alto! (…) però, anche in quei momenti tengo duro (…) lo mantengo il ritmo (…) delle volte mi

vengono i dolori ai polsi, però, tengo lo stesso perché so che devo fare quella produzione (…)

perché Sata aspetta quei sedili.

Sto molto attenta al mio lavoro perché dato che devo lavorare è meglio lavorare bene e non

avere problemi, anziché lavorare male e avere molti problemi con il capo (…) stare con la

tensione addosso che possa venire qualcuno a rimproverarti; per cui se quel pezzo lo devo fare

è meglio farlo bene (…) per questo preferisco prestare attenzione a quello che faccio.

La diversa risposta dei lavoratori è riconducibile, come abbiamo visto, all’applicazione di

modalità differenti di consegna. Infatti, da un lato la sincronicità della produzione just in time media

direttamente l’azione di controllo del management sulla forza lavoro; dall’altro lato, il venir meno

della linearizzazione del flusso rende immediatamente visibile agli occhi dei protagonisti la

dimensione soggettiva del controllo manageriale interno, seppure filtrato dalla pressione esercitata

direttamente sul fornitore dal cliente. In questo senso, mentre nel primo caso il controllo passa

implicitamente attraverso la struttura organizzativa interna del processo produttivo a ‘zero scorte’,

nel secondo caso, è la natura esplicita dei meccanismi manageriali di controllo sul lavoro che

emerge. Su questa differenza è possibile capire perché l’integrazione logistica ci fornisce la

variabile strutturale attraverso la quale i lavoratori percepiscono se stessi come ‘tassello’ all’interno

del flusso produttivo del cliente. La produzione di senso è, infatti, mediata dall’agire discorsivo del

management e dal modo in cui esso si rappresenta il rapporto con il committente, nonché, per i

lavoratori del comprensorio dall’immagine visiva che la vicinanza geografica all’unità produttiva

del cliente comporta.

Nel primo caso, il management trasferisce discorsivamente la pressione del just in time sui

lavoratori, in modo da farli ‘sentire parte dell’impresa’ e, quindi, coinvolgendoli agli obiettivi

aziendali. Per effetto di questo processo essi tendono a interiorizzare le condizioni di realizzazione

del just in time e, quindi, il controllo sul lavoro come ordine sociale generale del sistema produttivo

complessivo e, pertanto, diventano ‘voce’ seppure eterodiretta nel processo di lavoro. Dunque, in

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questo contesto centrato sulla legittimità del just in time come requisito di dipendenza e di mutuo

interesse tra le parti, la pratica discorsiva può essere vista come l’apice della strategia manageriale

verso la produzione di quella che la sociologia dell’organizzazione ha definito cultura d’impresa.

Essa è finalizzata a ottenere il consenso dei lavoratori attraverso modalità di comando che produce

valori positivi di comportamento piuttosto che adottare come abbiamo visto forme tradizionali di

controllo tecnico e burocratico.

In altri termini, l’obiettivo è di trasferire mediante la forza discorsiva del linguaggio l’idea

della produzione in just in time come esigenza posta dalla struttura organizzativa complessiva e,

quindi, come necessità immanente del cliente che coinvolge anche il fornitore. In questo senso,

l’organizzazione snella diventa portatrice di un discorso che è quello della regola ‘naturale’, ovvero

di quello che Foucault chiama ‘la norma’. È per questa ragione, che nel fluire discorsivo e informale

delle relazioni sociali dentro la filiera, il principio operativo delle ‘zero scorte’ acquista il carattere

di imperativo autonomo, condiviso a tutti i livelli della struttura organizzativa aziendale, dal

direttore di stabilimento all’operaio, nonché proceduralizzato, in quanto iscritto nelle competenze di

ciascun ruolo dentro la fabbrica. I responsabili di due imprese di fornitura operanti in just in time

osservano:

Io lo dico sempre agli operai che il just in time è una brutta carogna (…) lavorare in just in

time significa che il nostro cliente non deve mai per nessuna ragione affrontare problemi che

gli sono stati causati da noi. In questo senso il mio rapporto con gli operai è un rapporto diretto

e continuo di scambio di idee e di consigli utili, per far si che tutto proceda bene (…) gli operai

devono sentire il peso e l’importanza di certe situazioni e assumerle come proprie! D’altra

parte, questo comunicare con loro [operai], renderli quotidianamente consapevoli di quello che

significa lavorare in just in time rientra nei miei compiti, seppure anche i capi UTE sanno cosa

devono fare e come devono comportarsi (…) essi [capi UTE], però, sanno anche che possono

sempre contare sul mio aiuto.

Il colloquio diretto con gli operai, il fargli capire che produrre in just in time significa dover

fare determinate cose piuttosto che altre, sottostare a determinate regole imposte dalla

produzione, ovvero dal cliente che è localizzato a pochi metri di distanza da noi, e, pertanto, ci

vede, è molto importante, perché è così che essi [operai] capiscono le problematiche e, quindi,

acquistano coscienza.

Tuttavia, come si deduce dalle parole del responsabile di produzione della Commer TGS,

l’essere geograficamente prossimi al cliente contribuisce a creare le condizioni oggettive affinché la

forza lavoro percepisca con maggiore intensità la pressione esercitata dal just in time, vivendola

come tale. Le continue operazioni di carico e di scarico delle bilancelle e/o dei cassoni dove sono

state poste separatamente le componenti per il sincrono e il kanban, il transitare veloce delle

tradotte in su e in giù per l’autostrada che connette il cliente con il fornitore, tutto ciò concorre a

dare immediata visibilità allo scorrere incessante del flusso. Un carrellista, addetto alle operazioni

di caricamento delle tradotte per la consegna dei sedili a Sata, descrive tutto questo, evidenziando

come poi la funzionalità operativa del just in time si connetta allo sviluppo di pratiche informali di

gestione delle relazioni sociali interne:

Noi carrellisti dobbiamo correre sempre in stabilimento (…) alcune volte ci capita di andare a

prendere i sedili che ci servono per completare il carico direttamente dall’operaio che sta

sellando (…) tanto lavoriamo sotto lo stesso capannone e, quindi, possiamo vederci a vicenda

(…) lui stesso [l’addetto linea] quando vede che siamo in difficoltà si attiva (…) oppure capita

che noi [carrellisti] andiamo da lui e gli diciamo di muoversi, altrimenti la tradotta non parte!

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Nei nodi della filiera non integrati in just in time e collocati in uno spazio geografico distante

dal cliente, la pressione sul lavoro è filtrata, invece, attraverso la dipendenza – come condizione per

la riproduzione della forza lavoro - dell’imprenditore alla casa auto. Si spiega, così, la ragione della

percezione diretta da parte degli operai nelle imprese non integrate in just in time del comando

diretto imposto dai capi:

L’azienda affronta giorno dopo giorno molte difficoltà, perché se non produce come vuole la

Lear questa le toglie le commesse e andiamo tutti a casa.

I fattori che comportano la diffusione del comando nelle relazioni integrate di filiera non solo

sottolinea la complessità innovativa delle pratiche di controllo sul lavoro rispetto al taylorismo, ma

induce anche a riflettere sulla complessità della soggettività operaia come motore di funzionamento

e di riproduzione del comando nelle nuove relazioni di potere all’interno dei sistemi in just in time.

La complessità della voice nelle relazioni di filiera

È possibile cogliere momenti più o meno generalizzati di resistenza operaia alla nuova pratica

aziendale di dispiegamento ed esercizio del controllo lungo la filiera. Tali momenti possono essere

visti come la componente di un rapporto lavorativo ambivalente e complesso, dove lo stesso

lavoratore, a seconda delle circostanze, nel lavoro quotidiano può passare da una condotta

collaborativa ad una di resistenza più o meno intenzionale ed esplicita.

Riconoscere la compresenza dei due atteggiamenti rappresenta un risultato rilevante della

nostra analisi, in quanto si contrappone a quella letteratura che partendo dalla tradizionale antitesi

tra consensualismo e conflittualismo, risultato dei tentativi di dequalificare il lavoro e di

intensificare lo sfruttamento tipici del fordismo (Braverman, 1974), interpreta il coinvolgimento dei

lavoratori nei nuovi modelli produttivi post-fordisti come superamento di ogni forma potenziale di

resistenza operaia (Wickens, 1987; Morris et al., 1993). La nostra analisi consente invece di

superare quella contrapposizione suggerendo che resistenza e consenso possono variamente

intrecciarsi anche al di là di una esplicita consapevolezza dei lavoratori. A questo fine, nell’indagine

empirica si è tentato di cogliere ambedue gli aspetti in un intreccio complesso che si dispiega

attraverso i discorsi e le pratiche quotidiane degli attori (Collinson, 1994). D’altra parte, ciò

comporta la necessità di definire la soggettività in funzione della molteplicità del sé (multiple-self),

ovvero, come sostiene Kondo (1990), contraddistinta da continue contraddizioni e tensioni creative.

In questo senso, essa si contrappone alla visione ortodossa tradizionale la quale reclama l’esistenza

di “pristine space of authentic resistance” a fronte di “fixed, statical and singular identity such as

true resister or class warriot” (Ibidem: 224). L’evidenza empirica suggerisce che a porsi come

soggetti di resistenza sono gli stessi operai che l’esperienza quotidiana aveva già riconosciuto come

attori sociali di consenso. Ad esempio, una operaia addetta alle operazioni di rifilatura alla Commer

TGS dopo aver manifestato il suo atteggiamento consensuale all’organizzazione in just in time,

continua il suo racconto dicendo:

Alcune volte il capo turno mi chiede come mai abbiamo tanti pezzi di scarto a terra; per non

fargli capire che il mio compagno ha sbagliato e, quindi, per evitare che gli faccia la solita

‘lavata di cervello’ gli rispondo che è l’impianto che non va bene e che, quindi, gli scarti non

sono da attribuirsi al non corretto svolgimento delle operazioni da parte degli operai sulla

giostra (…) in questo modo noi facciamo si che il capo insieme al manutentore e agli altri

tecnici vadano a vedere cosa sta succedendo all’impianto, provocandone la fermata e, quindi,

facendo una pausa.

Nelle imprese della filiera integrate in just in time i momenti di resistenza operaia sono

intenzionali e hanno come obiettivo esplicito il rivendicare qualcosa per sé. Questi momenti sono il

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risultato dell’abilità dei lavoratori di manipolare direttamente i principi normativi che sottendono al

corretto funzionamento del processo organizzativo e di lavoro pur conservando una persuasiva

immagine di consenso che gli consenta di mantenere una propria posizione all’interno

dell’organizzazione.

La principale novità sta nel fatto che in alcuni casi queste pratiche di resistenza non operano

in una logica di conflitto aperto con gli interessi dell’impresa e perciò, possono diventare pratica

utilizzata dagli stessi managers di linea. In altri termini, l’organizzazione tenta di arricchirsi

dell’esperienza e della conoscenza esplicita e tacita sul processo produttivo dei lavoratori per il

problem-solving mentre allo stesso tempo neutralizza le potenziali situazioni di micro-conflittualità

sui luoghi di lavoro. Una conferma di quest’ultima possibilità ci proviene dalla Commer TGS.

Dall’osservazione diretta sul campo e dalle interviste in stabilimento è emersa infatti la tendenza dei

responsabili di turno a rompere con le formali procedure di controllo burocratico interno al fine di

assicurare la riduzione dei pezzi difettosi. Così facendo si prevengono dissapori dai quali potrebbero

generarsi situazioni immediate di micro-conflittualità. A proposito un responsabile di turno di

un’impresa fornitrice commenta:

Se mi rendo conto che chi è alla giostra [impianto di stampaggio] non sta stampando bene, e,

quindi sta sbagliando, allora io stesso non procedo annotandomi il suo nome per riferirlo al

mio superiore. Viceversa, faccio si che i pezzi difettosi non arrivino alla rifilatura per poi essere

scartati ma mi adopero affinché vengano rimessi nel ciclo e riparati subito. Questo lo faccio

magari parlandone prima con gli operai e discutendo con loro quale potrebbe essere la

soluzione migliore per risolvere subito il problema. Così facendo mi guadagno anche l’amicizia

dell’operaio che ha commesso l’errore, il quale la prossima volta starà più attento.

Se nelle imprese dove prevale l’idea del mutuo interesse quale veicolatrice dell’efficacia

dell’organizzazione in just in time i momenti di resistenza si intrecciano a quelli di commitment, in

quelle non integrate in just in time i momenti di resistenza immediata esprimono sostanzialmente il

disagio dei singoli lavoratori di fronte a situazioni specifiche, diventando così l’espressione della

loro soggettività (bisogni, desideri, aspirazioni ecc.). Tuttavia, in questo contesto ogni potenziale

forma di agitazione collettiva è affievolita dalla particolare natura del rapporto di fornitura

(solitamente di monoclientela) che regola le relazioni contrattuali tra committente e fornitore. Un

addetto linea presso l’impresa di fornitura di terzo livello, legata in prevalenza da rapporti di

committenza alla Commer TGS commenta:

Alcune giornate arrivi in fabbrica che sei proprio giù per qualcosa che ti è successo a casa o

altro e la monotonia del lavoro non ti aiuta certo a migliorare il tuo stato d’animo (…) così

tanta è la monotonia che occhielli e non te ne accorgi nemmeno (…) continui a pensare a quello

che ti è successo (…) e, intanto, occhielli e continui a pensare ai fatti tuoi (…), dimenticandoti

del resto.

Il modo in cui vengono affrontate le diverse pratiche di resistenza e la complessità

dell’emergenza della soggettività nei contesti produttivi snelli è il risultato dell’adozione dei nuovi

principi che caratterizzano il recente passaggio alla Human Resource Management. L’obiettivo

generalizzato è di riportare a livello del singolo individuo la negoziazione diretta di tutte le

problematicità di fabbrica per la realizzazione del just in time. Ciò avviene, come abbiamo visto,

attraverso un controllo sociale più ‘leggero’ che tenta di indurre comportamenti adeguati attraverso

la forza dell’organizzazione. A livello delle relazioni sociali ciò comporta l’erosione degli spazi

della negoziazione formale, indiretta sui luoghi di lavoro; a fronte dello sviluppo della pratica

informale delle relazioni dirette interpersonali. L’esempio del ‘telefono senza fili’, espressione

coniata dagli operai di Melfi per descrivere i comportamenti sociali nelle macrocellule di

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produzione, delinea chiaramente la finalità che sottende a tale razionalità. Un’addetta in un’impresa

di fornitura integrata in just in time commenta:

Quello che ricordo meglio del corso di formazione fatto presso l’ISVOR è il ‘telefono senza fili’

(…). In pratica ci hanno insegnato che in fabbrica bisogna diffidare di tutto e di tutti; bisogna

evitare di riferire cose ad un’altra persona che poi a sua volta andrà a riferirle ad una terza

(…) è il discorso che bisogna evitare di raccontare i tuoi problemi ad una terza persona, ovvero

di delegarne ad altri la soluzione (…) invece, bisogna raccontare il problema al diretto

interessato, ossia a colui che può risolverlo (…) in una parola al capo (…); rivolgendomi ad

una terza persona rischio di far arrivare le mie parole in modo distorto perché la terza persona,

da me delegato, potrebbe dimenticarsi di riferire qualcosa di importante (…). Insomma, come

al telefono si parla in due – uno per parte – così si deve comunicare anche in fabbrica.

Dunque, l’effetto delle pratiche di coinvolgimento e di partecipazione diretta (o consultiva) ed

indiretta (o delegativa) che - come dice Sako (1998) – caratterizzano gli scenari internazionali

attuali della componentistica auto, riguarda le esperienze in cui i lavoratori, come individui, sono

incoraggiati ad entrare in un rapporto di comunicazione diretta con il management. Da ciò emerge a

livello micro produttivo lo sviluppo di un più fluido ed efficace dispiegamento delle forze aziendali

alla cooperazione (Black e McCabe, 1998), che rischia di indebolire la collettività operaia e,

pertanto, di generare i presupposti di quello che Bacon e Storey (1996) chiamano new collectivism.

Come tenta di spiegare un Rsu, rilevanti sono le implicazioni di questo processo sulle

rappresentanze sindacali di base:

Il rappresentante sindacale – lo dice la parola stessa – è un mediatore dei bisogni dei

lavoratori. Oggi noi siamo privati di questo in fabbrica (…), perché vediamo restringere lo

spazio per poter agire, per poter fare. C’è il problema di Vito, il problema di Giovanni, di

Michele; non c’è il problema di Vito che è di tutti. Sembra che ognuno ha un problema suo,

personale; non c’è un problema che accomuna tutti. Questo significa che ognuno pensa di poter

risolvere il problema da sé. Fin dall’inizio il management ha voluto fare credere ad ognuno di

noi questa logica, dicendo agli operai: “ma sì (…) sentiamo, tu che problema hai?” (…) ma

poi, in effetti, a loro non gliene importa niente del problema di quell’operaio (…) è tutta una

sporca invenzione (…) una strategia che hanno messo in atto i padroni per comandare.

A questo punto, il problema è se gli ulteriori tentativi di frammentazione della forza lavoro

alla base delle recenti tendenze organizzative di outsourcing e/o modularizzazione possano avere

come conseguenza l’emergere di una voice in grado di riproporre non più la fabbrica, come luogo

giuridicamente e spazialmente definito, bensì la complessità del sistema ristrutturato in

macrocellule come luogo privilegiato e unificato di conflitto aperto.

Uno spazio di riflessione: tendenze e contraddizioni della nuova fabbrica

La ricerca sulle relazioni sociali e di lavoro nella filiera del sedile presso lo stabilimento della

Fiat a Melfi ci ha consentito di affinare concettualmente gli strumenti per l’analisi dei processi di

mutamento in atto.

L’attenzione alla organisational perspective nell’analisi delle relazioni di fornitura è risultata

particolarmente efficace per leggere la totalità del processo di ristrutturazione e, quindi, individuare

la nuova natura e il modo del controllo e analizzare le relazioni sociali e di lavoro lungo la filiera

dell’auto. Questo vede contrapporsi alla visione che enfatizza la natura contrattuale delle relazioni

tra committente e fornitore quella che, invece, sottolinea le trasformazioni organizzative nelle

relazioni contrattuali tra le imprese. La principale novità pratica e teorica sta nel fatto che le imprese

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di fornitura diventano parti integranti di un’entità complessa sotto un profilo sia tecnico che

organizzativo.

Sul versante dell’integrazione produttiva notevole è il salto organizzativo compiuto dai recenti

processi che i teorici definiscono di ‘modularizzazione’ (Salerno, 1997). In un recente saggio, Sivini

(1999) riprende l’analisi sugli aspetti del manufacturing che concorrono a definire uno dei più noti

esempi di Fabbrica Modulare, lo stabilimento della Volkswagen a Resende (Brasile). D’altra parte,

anche Melfi si sta aprendo verso l’implementazione di nuovi processi di terziarizzazione e di

modularizzazione che coinvolgono rispettivamente i servizi e la produzione. Infatti, con la

primavera del nuovo millennio si è partiti nella costituzione presso lo stabilimento al Sud dei

cosiddetti ‘rami d’azienda’ che hanno interessato le seguenti attività: la manutenzione ceduta a

Comau Service, la gestione del magazzino vernici terziarizzato a PPG e la logistica interna ceduta

ad Arcese. Altri servizi coinvolti nel processo di terziarizzazione sono la sorveglianza e tutta

l’attività di amministrazione contabile del personale. La costituzione dei ‘rami d’azienda’

rappresenta il momento formale che precede l’avvio delle procedure giuridiche di cessione (che si

consoliderà per l’autunno di questo stesso anno) delle suddette attività di servizio ad imprese terze.

La modularizzazione riguarda invece l’attività direttamente produttiva, come la preparazione finale

delle traverse e sospensioni e delle plance, che sarà affidata a Magneti Marelli, impresa facente

parte del gruppo Fiat.

Analizzando i processi di terziarizzazione e di modularizzazione presso lo stabilimento della

Volkswagen a Resende, Sivini coglie la portata dell’innovazione realizzata dal produttore di auto.

Infatti, questo nuovo modello prevede l’operare di ciascuna impresa terza – chiamata modulista - in

ambiti spazialmente delimitati dentro la casa auto. Ciò comporta la costituzione di uno spazio fisico

complessivo nel quale sono immediatamente visibili le interconnessioni operative tra le diverse

cellule di produzione (i modulisti), che concorrono a definire il nuovo sistema produttivo.

Inoltre, secondo il nuovo modello organizzativo della Fabbrica Modulare – come spiega

Maurizio Magnabosco (al tempo Direttore Personale e Organizzazione Fiat Auto) - ciascun

modulista “coordina l’arrivo delle parti di propria competenza con il flusso della linea di

montaggio, entro un sistema complessivamente regolato dal just in time” (Magnabosco in Sivini,

1999: 13). In questo senso, la connessione tra modulisti è regolata dalla logica della linearizzazione

del flusso e, pertanto, risponde alla necessità operativa del coordinamento a ‘zero scorte’. Secondo

questa logica, l’evidenza che qualsiasi disfunzione interna al modulista potrebbe comportare il

fermo della produzione rende ciascuna cellula di produzione consapevole dell’estrema vulnerabilità

del flusso.

D’altra parte, l’organizzazione modulare del lavoro sembra preconizzare alcuni aspetti critici

relativi, soprattutto, alla necessità del produttore di auto di mantenere il governo del sistema

produttivo così costituitosi. A riguardo Salerno (1999) fa notare, ad esempio, che a Resende le

relazioni tra la Volskwagen e ciascun modulista sono subordinate al rispetto delle condizioni sancite

nel contratto. Pertanto, nel caso in cui sorgano problemi, le cui cause sono attribuibili al singolo

modulista, la casa auto è legittimata a recedere dal contratto e instaurare rapporti di fornitura con

un’altra impresa. Inoltre, frequenti sono anche i conflitti che si generano tra la casa auto e il

modulista circa il governo in termini organizzativi dei propri spazi d’azione (Salerno e Bresciani,

2000).

Se ne deduce che la nuova “strategia di dominio dei capitali forti su quelli deboli” (Sivini,

1999: 15) caratterizza sia le relazioni di filiera sia l’organizzazione modulare. In generale, essa

scaturisce dai processi di integrazione che sottendono al riconoscimento della complessità del

sistema produttivo cellularizzato, seppure secondo contenuti e forme organizzative differenti. Ciò ci

conduce all’analisi degli aspetti contraddittori di questo processo. Infatti, è evidente come questo

contesto, governato dalle logiche del ‘flusso teso’, sia dato dall’equilibrio precario e contraddittorio

che si crea tra, da un lato, il tentativo manageriale di cellularizzare e, quindi, indebolire l’unità

collettiva e, dall’altro lato la ricostituzione della collettività come risultato dell’unificazione (reale)

tipica della riconosciuta complessità del sistema organizzativo integrato. Ciò potrebbe aprire spazi

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alla creazione di germi che agirebbero contro gli anticorpi creati dal management nella fase di

progettazione e di successiva adozione delle tecniche gestionali di lean production.

È evidente, dunque, la contraddizione di questa nuova forma di controllo sociale per il

governo del sistema integrato. In definitiva, essa si esprime nel fatto che la cellularizzazione se, da

un lato, concorre a isolare concretamente e disciplinare la forza lavoro, dall’altro lato impone il

rispetto di alcune regole per il governo della vulnerabilità del flusso, le quali agiscono affinché

quella stessa forza lavoro frammentata in cells possa riconoscersi quale nuova forza sociale agente.

Come abbiamo visto, il riconoscimento della uniformità delle condizioni contrattuali di lavoro nel

consorzio di imprese localizzate nel comprensorio a Melfi può essere letto come l’effetto palese di

questo processo, le cui potenzialità di azione dovranno essere profondamente meditate dal

sindacato.

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9

Annamaria Vitale

Governare la resistenza: la produzione sociale del greenfield.

La ristrutturazione capitalistica e le nuove esigenze localizzative: il greenfield nel processo di

cellularizzazione sociale della forza lavoro

Ripercorrendo le logiche che guidano i processi di localizzazione Fiat dagli anni settanta,

Magnabosco afferma che il decentramento produttivo nel Mezzogiorno italiano ha segnato l’inizio

di una diversa strategia dell’azienda torinese. L’apertura di stabilimenti relativamente piccoli,

impiantati in zone semirurali e in centri urbani di media consistenza, accompagnata ad un processo

di deverticalizzazione e di innovazione impiantistica, sfocia, negli anni novanta, in una nuova

discontinuità: lo stabilimento in greenfield, cioè in “prato verde”, Sata di Melfi (Magnabosco e

Costanzo, 1998).

È opportuno ricordare che, nella sua accezione più generale, il termine greenfield è diventato

sinonimo di ciò che di nuovo è venuto delineandosi in conseguenza del processo di ristrutturazione

mondiale che ha coinvolto l’industria automobilistica negli ultimi due decenni; soprattutto sull’onda

dell’interesse volto a comprendere quali elementi innovativi avevano determinato il “successo”

giapponese. L’espressione è stata utilizzata per riferirsi sia ad un investimento diretto alla

costruzione ex novo di una struttura produttiva, sia per designare uno stabilimento in cui viene

implementato il nuovo modello di “produzione snella” nella sua forma più avanzata, sia per

designare specificatamente le aree di nuovo insediamento.

Dal momento che gli impianti operano in un ambiente materiale e sociale specifico (mezzi di

trasporto, forza lavoro, capitale sociale, servizi), in quest’ultima accezione, comprensiva anche dei

precedenti significati, il termine viene utilizzato nella letteratura per investigare quelle condizioni

che, nei nuovi siti di localizzazione, hanno reso e rendono possibile il “successo” di nuove forme di

organizzazione del lavoro e pratiche manageriali. La peculiarità, come vedremo, viene ritrovata in

una fondamentale debolezza della forza lavoro nel produrre resistenza e conflitto

all’implementazione di quel nuovo paradigma produttivo che gli studiosi del MIT hanno definito

lean production.

La nostra ipotesi di lavoro è che quello che molte ricerche hanno chiamato greenfield

rappresenti il risultato di un più ampio processo di ristrutturazione capitalistica, orientato a regolare

in forme nuove il rapporto capitale-lavoro nel post-fordismo. È possibile cogliere, nella messa in

opera delle nuove strategie localizzative, una modificazione complessiva delle geografie di

produzione che configura tendenzialmente un diverso diagramma di potere, a cui corrispondono

differenti modalità di sussunzione estensiva ed intensiva del field, che sia brown, ossia contesto di

socialità prodotto nella fase fordista, o green, la cui costruzione sociale mostra in modo più evidente

le linee attuali di trasformazione.

Da questo punto di vista, la strategia Fiat sembra essere parte di una più generale tendenza

storica in atto. Il nuovo paradigma produttivo, esplorato ed elaborato come risposta all’antagonismo

dell’operaio massa, produce nuove esigenze localizzative, non più esclusivamente legate al costo

dei fattori produttivi, ma determinate dalle particolari innovazioni tecnologiche ed organizzative.

Da qui la ricerca di aree di insediamento con caratteristiche socio-economiche tali da poter

essere materialmente e socialmente attrezzate secondo le nuove necessità. Lo sviluppo di una rete di

connessioni just in time fa sì che ci si orienti verso quelle zone che, non essendo state definite come

siti industriali all’interno dello spazio produttivo fordista, erano state lasciate “vuote”, e che

vengono ora strutturate e trasformate in spazi industriali.

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Determinante, inoltre, nella nuova logica di valorizzazione, è il bisogno di forza lavoro che

potremmo chiamare cognitivo/relazionale, la cui esistenza e riproduzione è inscindibile dall’essere

parte di una rete di relazioni sociali. La specificità del contesto sociale delle nuove aree di

localizzazione assume, per questo, un’importanza strategica per la realizzazione senza vincoli del

nuovo paradigma produttivo. Ciò spiega molte nuove direzioni di analisi rispetto

all’incorporamento culturale, sociale e istituzionale della produzione, delle imprese e dell’azione

economica.

Questo incorporamento della forza lavoro, d’altra parte, comporta la necessità, per il capitale,

di intervenire sempre di più nelle dimensioni sociali che caratterizzano le nuove aree di

insediamento. All’uso della forza lavoro nella produzione immediata di valore deve infatti

corrispondere l’articolazione di un struttura di dominio posta sulle condizioni generali della

produzione, quale presupposto per la realizzazione del processo di accumulazione (Sivini, in questo

volume).

Ciò implica l’attivazione di un processo di sussunzione della socialità in cui gli individui sono

immessi. Il movimento del capitale tende a realizzarsi mediante la configurazione di spazi sociali

“cellularizzati” (Fiocco, in questo volume). Organizzati come spazi locali di operatività del

comando capitalistico sull’esistenza quotidiana degli individui, essi vengono socialmente prodotti

nella forma del “luogo” come spazio di esistenza della comunità locale. Da qui il tentativo di

imporre nuovi codici normativi che, sostenuti dalla retorica dello “sviluppo locale” e messi in opera

da tutta una serie di agenzie istituzionali (azienda, governo, sindacati, università), penetrano nel

contesto sociale.

Il greenfield è il risultato della strutturazione materiale e sociale, funzionale alle nuove

esigenze, di quegli spazi che il fordismo aveva lasciato “liberi” da attività industriali. Questo

processo, tuttavia, produce effetti di potere, perché si realizza come destrutturazione/ristrutturazione

della socialità esistente. Da qui l’emergenza di forme di resistenza.

Nella prima parte del lavoro verrà esaminata la logica che ha guidato il processo di

localizzazione della Fiat a Melfi. La seconda si focalizzerà sulla trasformazione sociale indotta

dall’insediamento e sulle resistenze che questa trasformazione tende a far emergere. Lo studio delle

forme di resistenza e delle ipotesi sulle nuove modalità di esercizio del dominio è stato condotto

ricorrendo allo schema metodologico foucaultiano: per Foucault, è nei suoi effetti che il potere può

essere localizzato ed indagato, alla luce cioè della resistenza come sua condizione ineliminabile,

principio del suo costituirsi, del suo movimento e della sua trasformazione. Questo suggerimento

metodologico ci ha permesso di svolgere – nell’ultima parte del lavoro - una riflessione sulle

implicazioni che i risultati della ricerca hanno rispetto alla concettualizzazione di quello che la

letteratura ha chiamato greenfield.

La nuova logica di valorizzazione: la dotazione infrastrutturale e logistica

Questa parte del lavoro è finalizzata a individuare la logica di localizzazione che ha indotto

l’azienda automobilistica torinese a selezionare il nuovo sito. L’intento, in particolare, è quello di

verificare in che misura il comprensorio di Melfi abbia offerto la possibilità di implementazione del

nuovo paradigma produttivo concettualizzato con il termine di lean production, rispetto alle

potenzialità offerte dal nuovo spazio di localizzazione.

Le esigenze localizzative (SVIMEZ, 1993: 24-31) imposte dalla particolare innovazione

tecnologica e organizzativa della lean production sono legate all’esistenza di due fattori essenziali.

Da una parte la presenza di una infrastrutturazione di base (materiale e sociale) in cui è

potenzialmente inscritta la possibilità di sviluppare e articolare le connessioni con l’indotto in just in

time. Dall’altra, l’esistenza di un bacino di manodopera quantitativamente e qualitativamente

adeguato alle nuove esigenze produttive, dove il termine qualitativo fa direttamente riferimento alla

ricerca di lavoro cognitivo, fattore centrale nella nuova logica di valorizzazione. In questo paragrafo

focalizzeremo l’attenzione sul primo elemento, sviluppando successivamente l’analisi del secondo.

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L’importanza di una infrastrutturazione primaria snella, che si apra alla possibilità di poter

essere ulteriormente sviluppata, risulta decisiva per l’operare della produzione in just in time. Sulla

riorganizzazione del processo produttivo in filiere, infatti, la proliferazione delle interconnessioni di

trasporto e comunicazione tende a costituire un tessuto produttivo “reticolare” di cooperazione

sociale. All'interno del ciclo manifatturiero di ogni merce, i semilavorati non si definiscono più

come prodotti finiti (come nel fordismo), ma circolano in forma di commesse. Il risultato è la

strutturazione di una ragnatela di segmenti lavorativi costituenti un unico processo produttivo,

quella che viene via via definita “impresa a rete” (Castells, 1996) o modello di “architetture

reticolari” (Benassi, 1994), “struttura a filiere” (Pulignano, 1997).

La moltiplicazione delle interconnessioni, d’altra parte, potrebbe rappresentare un vincolo alla

produzione di valore. In via di principio, la circolazione, nelle sue determinazioni concrete di tempo

e spazio, ritarda infatti la rotazione del capitale produttivo. Ne deriva la necessità di annullare lo

spazio per mezzo del tempo. Il just in time rappresenta il principio di fluidificazione del processo

lavorativo e di velocizzazione delle cadenze temporali, lo strumento mediante cui superare lo spazio

- annullando i momenti di non lavoro - attraverso la manipolazione del tempo.

Nel caso in esame, il disegno aziendale Fiat prevede che a ridosso del nuovo stabilimento sia

collocato il comprensorio dei fornitori di primo livello. Ciò permette di avere una forte possibilità di

controllo sull’approvvigionamento in just in time dei componenti finiti, il cui arrivo in fabbrica nel

tempo stabilito viene attribuito alla responsabilità dei fornitori, che a loro volta governano i loro

subfornitori. Questa logica, che tende a disperdere funzionalmente (al committente) nello spazio -

rispetto al luogo dove avviene l’assemblaggio finale - le filiere produttive, esige non solo una

infrastrutturabilità tale da permettere la mobilità senza intoppi e sincronizzata della

componentistica, ma anche un’area di insediamento non ancora urbanisticamente congestionata da

attività industriali.

In questo contesto, durante il processo selettivo – che si svolge per fasi successive - vengono

escluse le aree territoriali inadeguate per l’interazione just in time (le insulari o quelle caratterizzate

da addensamento industriale), anche se favorite da agevolazioni finanziarie pubbliche. La scelta

viene orientata verso potenziali “spazi industriali” – le ASI (Aree di Sviluppo Industriale) in questo

caso - che sono già dotati di una infrastruttura urbanistica primaria. Esse sono gestite dai Consorzi

ASI, organismi che hanno il ruolo di attrezzare questi spazi urbanisticamente per attrarre

investimenti e nel medesimo tempo facilitare il rapporto fra l’azienda che investe e i soggetti privati

e pubblici locali, che vengono così attivati in funzione dell’insediamento.

Dall’analisi dei criteri indicati dalla Fiat (idoneità logistiche, infrastrutturali, economiche) alla

società a cui sono state affidate le rilevazioni per l’individuazione dell’area di insediamento si

evince come, a parte le risorse essenziali per l’operare dell’impianto Sata (terreno di150 ettari,

risorse idriche, energia elettrica, metano, reti di telecomunicazioni attivabili), le idoneità logistiche

riguardano l’efficienza delle condizioni di mobilità, in just in time e nell’arco delle 24 ore, di merci

e di forza lavoro (ferrovie, collegamenti autostradali e stradali, viabilità di lungo raggio autostradale

e stradale, svincoli di prossimità, scali aeroportuali anche di secondo e terzo livello, linee aeree di

collegamento).

Queste variabili continuano ad operare anche nella seconda fase del processo localizzativo,

focalizzata soprattutto su criteri di priorità relativi alla disponibilità di terra, alle agevolazioni, a

fattori logistici e (minore) densità industriale. Vengono infine realizzati ulteriori accertamenti non

solo sulla potenziale agibilità del sito (forma e giacitura del lotto, risorse idriche), ma anche sulle

dimensioni del bacino di manodopera, definito secondo fasce isocrone a diverso raggio (60 minuti),

e sui problemi di reclutamento.

Nel giudizio comparativo finale la scelta cade sul comprensorio di Melfi, i cui punti di forza

vengono individuati nella disponibilità di un’area “vasta, integra e pianeggiante”, a cui corrisponde

un livello massimo di incentivazione; ben connessa agli altri stabilimenti Fiat nel Mezzogiorno,

consente costi contenuti di collegamento. Quest’ultimo elemento rappresenta, evidentemente, un

punto di forza anche rispetto alle infrastrutture di collegamento con i fornitori.

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Melfi è un’area “integra” grazie al fatto di non essere territorio congestionato. Si trova in

posizione baricentrica rispetto alle altre fabbriche Fiat dislocate nel Sud, essendo attraversata da tre

direttrici interregionali che ne fanno una cerniera fra l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno: Ofantina

(Barletta-Melfi-Lioni), Bradanica (Taranto-Matera-Melfi-Foggia) e direttrice trasversale interna

(Maratea-Potenza-Melfi-Foggia). Essa è inoltre posta a ridosso delle aree metropolitane campane

(Avellino e Napoli) e pugliesi (Bari, Foggia, Taranto). La possibilità di contenere i costi di

collegamento deriva dalla presenza di capitale fisso (pubblico e privato) materializzato nell’area

melfese a seguito del programma di ricostruzione e industrializzazione delle zone terremotate (legge

219/80), con cui negli anni Ottanta vengono create 16 ASI: quella di Melfi è pari ai 3/4 dell’intera

superficie urbanizzata per insediamenti industriali (Cuoco, 1994).

Ma c’è un quarto elemento che fa di Melfi un’area adatta all’insediamento: data la dominanza

dell’economia agricola, essa è, a giudizio della Fiat, caratterizzata da scarsa conflittualità. Questo è

l’altro fattore che guida il processo localizzativo.

Fra valorizzazione e accumulazione: le risorse umane e il greenfield come disegno aziendale

Data l’estrema vulnerabilità della produzione lean, nella nuova organizzazione risulta

decisivo il ruolo del “capitale umano”. Da qui il peso attribuito alla ricerca di “risorse umane”

quantitativamente e qualitativamente adeguate alle nuove esigenze produttive nella scelta

localizzativa. D’altra parte, la logica just in time e la necessità di saturare gli impianti sull’arco delle

24 ore impongono che l’esistenza di questo tipo di manodopera si coniughi alla possibilità di un suo

utilizzo flessibile, sia in termini di orario di lavoro, sia in termini di criticità emergenti nel processo

produttivo e quindi di mobilità sul territorio.

Sulla base di questi due elementi (qualità e flessibilità) il concetto di “bacino” d’utenza, ossia

lo spazio di residenza dei lavoratori, viene ad assumere caratteristiche tali da rendere inscindibile la

sua definizione da quella del contesto sociale più ampio. Dall’analisi del rapporto intercorrente fra il

progetto di fabbrica integrata elaborato per Melfi e i criteri localizzativi indicati dalla Fiat emerge

come la ricerca del capitale umano non possa essere scissa da quelle determinanti sociali che ne

fanno una risorsa umana quale fattore produttivo.

Si legge, nel 2° Piano Progettuale Fiat, che la nuova forza lavoro deve avere capacità

professionali tecniche “in ragione della complicanza tecnica dei nuovi mezzi di lavoro, il largo uso

dell’automazione e dell’informatica, nonché il coinvolgimento dei conduttori nella gestione della

produzione in termini di qualità e di costi” (Fiat Auto, 1991: 300). Questa abilità deve porsi alla

base di “un orientamento alla “prevenzione” più che alla rincorsa delle criticità emergenti” (Fiat

Auto, 1991: 315), quale fattore essenziale per l’operare della fabbrica integrata. A fronte

dell’adozione di una organizzazione aziendale innovativa (deverticalizzazione, modalità operative

di tipo partecipativo, applicazione dei meccanismi di delega decisionale), “i ruoli risulteranno

professionalmente più ampi e complessi” (Fiat Auto, 1991: 312).

Su questi presupposti, vengono individuate due figure professionali critiche, da collocare

nell’area dei quadri tecnici e direzionali: da una parte quelle di manutenzione, per cui risulta

essenziale il “saper fare”, dall’altra quelle “preposte al coordinamento delle risorse operaie” (Fiat

Auto, 1991: 313). Comunque per tutti i neoassunti, la formazione prevede da una parte il

“trasferimento della cultura industriale e delle sue logiche” e, dall’altra, l’acquisizione di “quelle

capacità relazionali (lavori in gruppo, comunicazione, rapporto con i collaboratori, ….), che oltre a

quelle strettamente professionali sono presupposto inderogabile per poter operare in una logica di

fabbrica integrata” (Fiat Auto, 1991: 314). Come si vede, il nuovo ruolo attribuito alle figure

tecniche e direzionali riguarda il controllo preventivo di “criticità” tecniche e soggettive (“risorse

operaie”). Ma anche per le figure operaie viene prevista un tipo di formazione che punta sulle

capacità relazionali.

Dato il problem, la realizzazione del processo sotteso al solving fa riferimento ad abilità

diagnostiche e cognitivo/relazionali da mettere continuamente in campo man mano che le criticità

emergono in processo. Ciò significa che tali abilità devono essere continuamente riprodotte lungo

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un apprendimento permanente sviluppato attraverso l’esperienza. Dal punto di vista delle capacità

tecniche, la scolarizzazione e la successiva formazione si pongono come base per l’apprendimento

delle nuove capacità tecniche, mentre la fabbrica diventa luogo privilegiato del loro ulteriore

sviluppo.

Le relazioni sociali dentro e fuori la fabbrica risultano invece essere presupposto

indispensabile per la produzione e riproduzione delle abilità relazionali. Queste esigenze

attribuiscono, già a questo livello, un nuovo ruolo – peraltro mai esplicitamente affermato - al

contesto sociale più ampio in cui il bacino di manodopera si colloca. Altri criteri selettivi adoperati

nel processo localizzativo rimandano tuttavia immediatamente a elementi sociali del bacino: la

presenza di un gruppo di potenziali lavoratori culturalmente omogeneo (per scolarizzazione,

elementi identitari, età) e quantitativamente consistente.

In primo luogo, il bacino deve contenere una quantità di forza lavoro superiore a 7000-8500

Unita: la Sata prevede infatti 700 impiegati e 6.300 operai, a cui va aggiunta la manodopera

richiesta dal comprensorio dei fornitori (circa 1000). In secondo luogo, la qualità della forza lavoro

è definita non solo in termini di contenuto professionale (scolarizzazione medio-alta di carattere

tecnico-scientifico), ma anche rispetto alle potenzialità di trasferimento della nuova logica che

muove la fabbrica integrata, in cui non è di secondaria importanza il nuovo orario di lavoro su tre

turni per la saturazione continua degli impianti. Sulla base di quest’ultimo elemento si ricercano

giovani (di età compresa nella fascia 18-29 anni, con preferenza per la fascia di 20-25 anni) con

assenza di precedenti esperienze lavorative.

Nella fase di progettazione della Punto, il management Fiat aveva esplorato la possibilità di

rinnovare impianti già esistenti. Si era però trovato di fronte alla difficoltà, alla fine degli anni

Ottanta, di reperire e reclutare forza lavoro giovane “disposta a lavorare nelle fasi di montaggio e

nei lavori più ripetitivi”: “i giovani torinesi, afferma Annibaldi, a parità di titolo di studio, hanno

delle attese sociali certamente superiori a quelle dei loro coetanei nel Mezzogiorno” (Annibaldi,

1994: 98-99).

La soluzione è quella di localizzare il nuovo stabilimento in un’area ad alta disoccupazione

giovanile. Le ricerche degli anni Novanta sul mercato del lavoro in Italia evidenziano che le

variabili di età (giovani) e di genere (donne), che caratterizzano il modello italiano di

disoccupazione, assumono un peso maggiore nell’area meridionale, che, dalla fine degli anni

Settanta ai primi anni Novanta, registra un aumento della disoccupazione delle classi d’età centrali,

e in più, maggiori difficoltà di inserimento per i giovani diplomati (Pugliese, 1993; Pugliese 1996;

Reyneri, 1996).

Ma ciò non è sufficiente a delineare il profilo dei nuovi addetti: si richiede la provenienza da

aree geografiche limitrofe agli stabilimenti. Già durante il processo localizzativo, infatti, si ricerca

un bacino di gravitazione della manodopera infrastrutturato in modo tale da permettere una

“pendolarità giornaliera massima di 60’ con l’obiettivo del contenimento dei tempi/costi e della

massima flessibilità potenziale di impiego” (SVIMEZ, 1993: 30). L’esistenza di una rete viaria

ragionevolmente efficiente è, evidentemente, direttamente legata alla possibilità di saturare gli

impianti nell’arco delle 24 ore, operando in just in time con i fornitori. Ma sembra esserci qualcosa

di più. La previsione, già in questa prima fase, di una pendolarità giornaliera implica la volontà di

sfuggire alla possibilità di una congestione “operaia” intorno alla fabbrica: l’omogeneizzazione

delle condizioni di vita nei quartieri operai di Torino ha giocato un ruolo non secondario nel

definire la soggettività dell’operaio-massa. Di questa, il management Fiat ha memoria.

L’atteggiamento dell’azienda torinese sembra dunque orientato ad una “prevenzione” di possibili

criticità emergenti.

Questo orientamento emerge anche alla luce di un’altra delle variabili indicate per la scelta

del sito, ossia la non esistenza di “eventuali processi insediativi in atto o in progetto di iniziative

concorrenti sullo stesso bacino di manodopera” (SVIMEZ, 1993: 31). Ora, considerando che il

livello di disoccupazione nelle regioni verso cui la selezione si dirige (Campania, Basilicata,

Calabria, Sicilia) raggiunge livelli molto alti fra i giovani scolarizzati, il problema cui si cerca di far

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fronte non può essere la disponibilità quantitativa/qualitativa reale di forza lavoro. È invece

possibile ipotizzare, in primo luogo, che l’eventuale concorrenza operata da altre aziende potesse

produrre congestione operaia nelle aree limitrofe allo stabilimento, in conseguenza

dell’insediamento di manodopera affluita da zone più lontane; in secondo luogo, che depotenziasse

un altro genere di flessibilità: quello di riselezionare in processo forza lavoro con profili

professionali adeguati, a fronte dell’emergenza di nuove criticità nel luogo di lavoro e fuori la

fabbrica.

A distanza di qualche anno, l’evidenza empirica mostra come il funzionamento della fabbrica

integrata produce un elevato livello di stress, che deriva dalla combinazione di una forte

intensificazione di lavoro manuale/cognitivo, un orario di lavoro strutturato su tre turni e di

stancanti distanze da coprire verso e dalla fabbrica. Il rischio è che, date queste condizioni di lavoro,

lo stress possa trasformarsi in disagio sociale e le criticità debordare dalla fabbrica al “bacino”,

diventando incontenibili.

La prevenzione Fiat cerca di operare su entrambi i versanti. Per quanto riguarda i possibili

conflitti nel luogo di lavoro, “l’azienda lavorerà a monte, per la realizzazione di relazioni industriali

che costituiscano la logica premessa e quindi facilitino la costruzione di un rapporto più

partecipativo tra le parti, e dunque orientato all’attenuazione dei vincoli che tradizionalmente si

frappongono ad una gestione flessibile della realtà produttiva” (Fiat Auto, 1991: 311).“A monte”

del processo insediativo, la costituzione di un sindacato partecipativo, da assimilare alle logiche

aziendali nella forma di un attore istituzionale, sfocerà nell’accordo firmato con il sindacato, a cui

non partecipano i lavoratori. Esso, riassume il management Fiat, rappresenta “l’inizio di una nuova

fase delle relazioni industriali basate sulla collaborazione, l’ampliamento del dialogo, il

contenimento del conflitto e che è, soprattutto, in grado di suggellare tra azienda e sindacato il

superamento comune di un rapporto che storicamente ha avuto l’obiettivo di vincolo e limite

reciproco” (cit. in Costanzo, 1995: 78). Questo si coniugherà, a “valle”, a politiche di gestione delle

risorse umane tese a erodere quei margini di manovra che il sindacato può far valere come vincolo

all’utilizzazione flessibile delle figure operaie.

Sul versante sociale, la compatibilità ambientale dell’area di insediamento viene verificata

mediante analisi della situazione demo-economica e sociale dell’area di gravitazione. Lo studio

riguarda i trend demografici e produttivi, ma anche indicatori di tensione economica e sociale

(criminalità, ricorso alla cassa integrazione, fallimenti, protesti) e di qualità della vita (reddito pro-

capite, disoccupazione, dotazione di capitale sociale). Questi criteri di scelta localizzativa,

direttamente legati alla sfera di riproduzione sociale della forza lavoro, rimandano, nelle parole

dello SVIMEZ, ad un archetipo insediativo finalizzato ad ottenere una “maggiore governabilità di

sistema”: “larga parte del successo/insuccesso è da collegare anche al clima della società civile

intorno alla fabbrica, alla struttura per età dei lavoratori, ai loro livelli di istruzione e modelli

culturali, al grado di ideologizzazione” (SVIMEZ, 1993: 71). Quello che vale per tutto il bacino di

reperimento della forza lavoro è che i modelli culturali sono caratterizzati da una condivisa identità

sociale, che assume il “paese” come spazio entro cui si svolge la vita sociale e la struttura familiare

come punto di riferimento essenziale. La maggior parte della forza lavoro assunta proviene però da

quei centri (Avigliano, Lavello, Melfi, Potenza, Rionero, Venosa) che, oltre a collocarsi lungo una

fascia viaria capace di garantire una più veloce mobilità (direttrice Melfi-Potenza), rispondono

anche ad una maggiore urbanizzazione e dotazione di infrastrutture sociali, segno di una qualità

della vita relativamente “modernizzata”.

La dispersione fisica dei lavoratori nei “paesi” intorno alla fabbrica verrà successivamente

assicurata da una serie di interventi delle istituzioni locali. In primo luogo, i miglioramenti

infrastrutturali e nell’organizzazione dei servizi di trasporto, che, garantendo una migliore

percorribilità delle strade, evitano inurbamenti nelle immediate vicinanze della fabbrica. In secondo

luogo, gli interventi regionali di nuova residenzialità connessa con l’insediamento Fiat vengono

progettati distribuendo territorialmente il carico abitativo e urbanistico sui comuni collocati lungo la

Potenza-Melfi, la Bradanica, e l’Ofantina. I comuni vengono suddivisi per fasce ed a ciascuna viene

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attribuita una quota parte di alloggi: 100 alla prima fascia (Melfi, Lavello, Rionero, Venosa); 500

alla seconda (Rampolla, Barile, Montemilone, Atella, Palazzo San Gervaso; 240 alla terza (San

Fele, Filiano, Genzano) e 360 alla quarta (Ruvo del Monte, Rapone, Ginestra, Ripacandida;

Maschito, Banzi). A questi vengono successivamente aggiunti i comuni di Pescopagano (50

alloggi), Pietragalla (70 alloggi) e Avigliano (150 alloggi). In terzo luogo, la proposta progettuale di

risistemazione urbanistica denominata Melfi2, che prevedeva uno spazio di edilizia residenziale

nelle immediate vicinanze della fabbrica (San Nicola), trova espliciti dissensi negli ambienti Fiat,

oltre che nella compagine politica del comune di Melfi, che boccia il progetto.

Evidentemente, i caratteri sociali del bacino, le specificità di contesto vengono direttamente

chiamati in causa. La forza lavoro relazionale e cognitiva che dovrà essere utilizzata nel luogo di

produzione è in qualche modo incorporata (riprodotta e non solo prodotta) nel contesto sociale, che

deve per questo anche funzionare come strumento di prevenzione delle eventuali criticità emergenti

in fabbrica. Vedremo come questo comporti l’attivazione di un processo di sussunzione della

socialità in cui i lavoratori sono immessi.

Il lavoro e la vita: verso la destrutturazione del field

L’impatto dell’insediamento Fiat sul piano delle relazioni sociali non è comprensibile se non a

partire dal tipo di socialità in cui i lavoratori Sata sono immessi e che brevemente descriveremo così

come si è presentata all’osservazione nel corso della ricerca sul campo. Vedremo che, a fronte della

trasformazione indotta nella vita quotidiana dei lavoratori, le relazioni sociali operanti al di fuori

della fabbrica vera e propria vengono tendenzialmente assimilate nella logica del processo di

valorizzazione.

L’area che definisce il bacino Sata si presenta come un territorio articolato su piccoli e medi

centri, le cui connessioni materiali non costituiscono visibilmente un continuum urbano. Dei 131

comuni di cui la Regione Basilicata si compone alla metà degli anni novanta, 17 hanno un numero

di residenti inferiore a 1.000 abitanti, 80 una popolazione compresa fra 1.000 e 5.000 abitanti, 32 si

collocano nella fascia fra i 5.000 e i 20.000 abitanti, mentre solo i due capoluoghi (Potenza e

Matera) superano i 50.000 abitanti.

L’organizzazione dei tempi sociali (ore di lavoro, di riposo e di tempo libero; ore fisse per i

pranzi; riposo festivo per i singoli membri), rispetto alla struttura del rapporto fra tempo di

lavoro/tempo di non lavoro, non è passata in quest’area attraverso processi di industrializzazione,

ma mediante lo sviluppo ipertrofico del terziario (pubblica amministrazione, edilizia, distribuzione

commerciale, attività professionali tecniche). Questa configurazione dei ritmi sociali, tuttavia, viene

coniugata al tipo locale di socialità: la modernizzazione non ha infatti completamente cancellato

alcune delle relazioni tradizionali, che sopravvivono anche se inserite in un contesto di modernità.

La costituzione della famiglia nucleare e il processo di individualizzazione indotto dal

mercato non ha ancora prodotto la separazione definitiva di questo nucleo sociale dai rapporti

parentali più allargati, attivabili ed attivati nei momenti di necessità. Nonostante la trasformazione

modernizzante sia intervenuta a destrutturare i ruoli tradizionali, la loro distribuzione interna vede la

donna ricoprire ancora funzioni di cura (allevamento dei bambini e loro socializzazione primaria,

sostegno alle persone inabili e aiuto reciproco), esplicate quotidianamente per i membri residenti

nella stessa abitazione, ma anche per coloro che abitano fuori (figli sposati, nipoti, nonni, zii e così

via).

Queste reti rappresentano il contesto entro cui si struttura la quotidianità dei lavoratori e delle

lavoratrici Sata e definiscono la specificità della cerchia di riconoscimento a partire dalla quale essi

producono socialmente la propria identità e, con questa, le rappresentazioni del lavoro. Come

abbiamo visto, la specificità locale della socialità rappresenta un elemento rilevante nella

definizione del bacino formulata dalla Fiat. Da essa dipende infatti la stessa possibilità di

esplicazione di lavoro cognitivo/relazione dentro il luogo di produzione, che implica la stessa

esistenza e riproduzione sociale degli operai come produttori e che, nella nuova fase, è inscindibile

dall’essere parte di una rete di relazioni sociali.

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In un contesto di precarietà, sperimentata e vissuta da lungo tempo, prima che essa fosse una

strategia del capitale da estendere all’intera società, il lavoro rappresenta una “sicurezza” ritenuta

permanente, che dà il “mensile” e con esso “i diritti”, come affermano gli intervistati. L’esperienza

lavorativa precedentemente svolta in loco, quando è stata vissuta, era caratterizzata da tempo di

lavoro molto lungo, dalla mancanza assoluta di ogni diritto sindacale, da un salario basso, pagato in

nero e molte volte non riscosso nei tempi giusti. Il ricatto sulla disoccupazione fa tutt’uno con il

ricatto sulla precarietà.

È noto che l’obiettivo Fiat di saturare il tempo richiesto dall’utilizzo degli impianti ha fatto sì

che gli operai Sata lavorino su un complesso sistema di turnazione chiamata doppia battuta (due

settimane sul turno 6-14; due sul turno 14-22; due sul turno 22-6), secondo un complicato calcolo di

variabilità settimanale del tempo di lavoro-riposo (riposo a scorrimento). Anche gli operai

dell’indotto lavorano su tre turni con riposo a scorrimento, anche se qui non esiste la doppia battuta.

Lavorare su turni ha rotto e ha sconvolto la continuità della vita individuale e sociale precedente,

nonostante la strategia Fiat fosse quella “di evitare monolitismi tra la vita ‘dentro’ e ‘fuori’ dalla

fabbrica impedendo - come più volte ripetuto dai managers Fiat - che la ‘razionalizzazione

aziendale’ oltrepassasse i cancelli aziendali creando ulteriori sconvolgimenti nella vita dei

lavoratori e delle lavoratrici” (Costanzo, 1995: 162).

Lo sconvolgimento non è tuttavia attribuibile solo alla turnazione, ma anche alle condizioni di

lavoro della fabbrica integrata, che aumenta lo stress psicofisico.

E al turno di notte non ci sono. Faccio il turno di notte e non ci sono... mai ... perché dormo

durante il pomeriggio e la notte vado a lavorare …

(...) E di domenica [sera] tutti escono e tu vai a lavorare di notte in fabbrica, ti piglia un po'

male. Vedi tutti che escono, vedi loro che vanno in giro e tu là che devi aspettare per andare a

lavorare. Ti piglia male.

Di notte poi… perché si fanno due settimane di notte ... come vampiri diventiamo. Quando

faccio la notte, d’inverno, il sole non lo vedo mai, perché “purtroppo” mi piace dormire: vai a

dormire alle sei e venti di mattina, il sole non c’è; mi alzo alle quattro e mezza di pomeriggio, e

il sole non c’è, e per due settimane il sole non lo vedo mai (…) quando faccio la notte il sole

non esiste, sempre buio.

Il turno di pomeriggio è quello che ti massacra di più, perché alle dodici e mezza esci da casa e

ritorni alle dieci e mezza-undici [di sera], vai a dormire, ti svegli alle dieci e mezza-undici, alle

dodici e mezza riparti. E la giornata è finita, non hai tempo. Poi ti può capitare anche che hai

due settimane di pomeriggio: non fai niente, veramente finisce là la tua vita.

(…) Poi quando fai la mattina… ah, dici, la mattina è bello che sei libero. Libero?! Torni alle

tre da lavorare, fino a che mangi fai le quattro, alle otto hai sonno perché ti sei svegliato alle

quattro e vai a dormire. Che libero sei, cioè proprio non fai niente. Sì, l’amicizia si perde,

l’amicizia.

La vita sociale ti cambia (…) mi dico “se mi chiudo, quattro mura là, quattro mura qua,

abbiamo finito la giornata”… sei un vegetale, lavori e dormi, lavori e dormi, tutto lì.

Come si vede, il tempo/spazio di lavoro oltrepassa il confine della fabbrica, penetrando

direttamente nel tempo/spazio dell’esistenza quotidiana, riorganizzando la vita in funzione della

logica di valorizzazione e destrutturando i ritmi precedenti. Un termine che ritorna continuamente

nelle parole degli intervistati è quello di “normale”, aggettivo usato per riferirsi al lavoro, alla vita,

alle routines quotidiane del contesto sociale, in contrapposizione, evidentemente, alle proprie

routines, rimodellate su un tempo di lavoro intensificato e velocizzato. Anche i giorni di riposo

diventano riposo tout court perché dedicati a riprendere, dormendo, le energie vitali spese nel luogo

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di produzione. Ruotare sul ciclo continuo della produzione si traduce in un’esistenza scandita sul

ritmo lavoro/riposo, il che viene percepito come un “accorciamento” della giornata.

Se i turni rendono anormali i percorsi di vita, l’intensificazione del tempo di lavoro svuota

della concretezza delle relazioni, e quindi di senso, la vita extralavorativa. Il tempo di vita viene

tendenzialmente desocializzato, reso semplicemente tempo astratto; mentre invece esso, se misurato

sulla base di relazioni sociali ed affettive, non può che definirsi come tempo concreto. Per i

lavoratori Sata, la cerchia di riconoscimento tende a strutturarsi come qualcosa di estraneo, che non

può più essere parte della vita quotidiana.

Il rischio, per il capitale, è quello di svuotare di senso anche l’attività lavorativa svolta in

fabbrica.

Fra valorizzazione e accumulazione: la trasformazione dei rapporti sociali in “contesto”

Il disagio creato dal “nuovo modo di lavorare” rappresenta, per l’azienda, una criticità da

prevenire. La diffusa rete di solidarietà e, in particolare, le strutture di appartenenza dei lavoratori si

pongono come possibilità di esternalizzare gli effetti negativi che scaturiscono dalla pressione della

vita di fabbrica; diventano, in questa logica, una risorsa organizzativa.

Non è raro sentire, fra massaie che fanno la spesa, espressioni del tipo “che turni hai?”, “i

miei sono tutti a letto, dormono”, riferendosi a figli giovani o mariti. Oppure, nei termini di

qualcuno dei nostri intervistati, “gli amici di turno”. Questo dà la misura di quanto anche il mondo

sociale più prossimo ai lavoratori venga rimodellato, nonostante i ritmi più generali della vita

sociale (riposo, tempo libero, tempo commerciale) non abbiano ancora subito mutamenti visibili.

Le strutture di appartenenza dei lavoratori, la famiglia in primo luogo, risultano estremamente

flessibili rispetto ai nuovi ritmi lavorativi. Le relazioni domestiche e amicali, chiamate a sostegno

delle difficoltà che derivano dalla turnazione, tendono a trasformarsi in attività lavorativa, appoggio

affettivo, àncora terapeutica sia per quanti - i più giovani - ancora convivono con i genitori, sia per

chi - le donne coniugate soprattutto - si trova a non poter affrontare i compiti consueti ed è per

questo costretto a rivolgersi alla famiglia d’origine. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si chiede a

chi è parte della propria rete amicale di spostare gli incontri quotidiani (a pranzo, a cena, al bar)

compatibilmente ai nuovi ritmi di lavoro. Così, i nonni diventano baby sitter a tempo pieno, fissati

in una nuova funzione; le donne (mamme, sorelle, mogli) assumono il compito di cucinare, lavare e

stirare; e gli amici quello di alimentare relazioni affettive secondo i tempi dati dalla turnazione.

Il risultato è che questi ruoli vengono tendenzialmente fissati e “funzionalizzati” a sostenere la

nuova esistenza scandita dai ritmi del lavoro. Formalmente, potrebbe sembrare che tali ruoli

continuino ad esplicare le funzioni tradizionali della famiglia fordista. In realtà, questa era

strutturata su momenti socialmente stabiliti di presenza/assenza dei suoi componenti, in tempi e

luoghi specifici (fabbrica, casa, scuola), rispetto a cui veniva determinata la loro socialità. Nella

nuova situazione, invece, la presenza o l’assenza di ciascuno è direttamente legata alla continuità e

velocizzazione temporale del flusso produttivo: le operaie e gli operai (al lavoro o a riposo,

qualunque sia il turno) vengono sottratti ai tempi ed agli spazi che costituiscono le routines sociali

e, per questo, la loro assenza deve essere compensata dalla presenza costante degli altri, i cui ruoli

vengono così riempiti di nuovi contenuti e fissati nella presenza.

Dice un intervistato non sposato che vive con la famiglia di origine:

Quando faccio il pomeriggio, mia madre cucina due volte, per me e per mio padre. Mio fratello

ora è sposato, ma prima cucinava per me e mio fratello insieme, e poi per mio padre. Ci sono

dei miei amici che la madre (...) è costretta a svegliarsi, far alzare il figlio e andare a dormire

(...) Qualcosa è cambiato anche su mia madre. Mia madre la vedo stirare alle due di notte la

tuta per me; qualcosa è cambiato, cioè mia madre è commerciante, torna dal suo lavoro e mi

stira la tuta perché alle quattro devo andare a lavorare.

Il gruppo di sostegno assume una funzionalità operativa precisa:

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Alcuni ragazzi [non sposati, che vivono in famiglia] si svegliano quando vogliono, alle tre, alle

quattro, cioè nessuno gli dà fastidio; però per chi ha dei figli incomincia a nascere pure un

problema: ho un figlio che gioca a calcio, bisogna andare a portarlo, bisogna andare a

prenderlo alle tre, allora ... diciamo, sono queste disfunzioni giornaliere che ti creano un po’ di

nervosismo.

Esso ha anche una funzione di pacificazione. In sua assenza, è facile che emergano tensioni e

litigi:

Molte volte mia moglie me lo rinfaccia pure, dice “devo pensare a tutto io; e io faccio: “che

vuoi da me? Se io sto lontano, non ho tempo, che vuoi da me?". Infatti, mò, quando andiamo a

fittare la casa, ci devo pensare ... devo cambiare residenza ... è un casino ... i bambini devono

andare a scuola, li devo trasferire in un’altra scuola, devo andare al comune, devo andare là, e

mia moglie ...

Alla flessibilizzazione della gestione della forza lavoro si accompagna il tentativo di rendere

flessibile l’intera sfera della riproduzione. Rieser (1997: 29) sottolinea come la selezione degli

operai Fiat non sia stata realizzata sulle competenze, ma sull’accertamento della disponibilità:

durante il colloquio per l’assunzione, tutta una serie di domande erano dirette a valutare il rapporto

dei lavoratori con la famiglia, con gli amici, la loro visione del mondo, la loro vita quotidiana.

Riteniamo che ci sia qualcosa di più: la disponibilità che la Fiat intendeva accertare non fa

esclusivamente riferimento al singolo lavoratore, ma anche a quella più generale delle strutture di

appartenenza prossima, verificando, nel contempo, le condizioni di possibile consenso che da

queste provengono.

Il tentativo è, in altre parole, di porre quella socialità che non partecipa direttamente alla

produzione immediata di valore come costitutiva del processo di valorizzazione, nella forma di

“attività relazionali” che in tanto possono essere esplicate in quanto “parte ed effetto di un contesto

socioculturale” (Marazzi, 1994: 75). Lungo questo movimento, la distinzione fra produzione-

riproduzione che fonda il modello sociale fordista della separazione fra luogo/tempo di lavoro e

luogo/tempo di non lavoro tende a saltare, anche laddove, come nel caso in esame, questa

separazione era stata coniugata secondo modalità specificamente locali. Il tempo/spazio del non

lavoro, strutturato come luogo degli affetti e delle emozioni, della cura e della socializzazione,

viene reso “economicamente” produttivo per quella che un recente dibattito (Derive e Approdi,

1999) concettualizza come “giornata lavorativa sociale”.

Emerge, insomma, come anche il mondo della vita sociale venga colonizzato - sussunto -

dalle nuove logiche di valorizzazione. Il tempo/spazio sociale dell’esistenza non viene visibilmente

riorganizzato, ma penetrato dal flusso della produzione socializzata, che tende a “contestualizzare”

un codice normativo eterodeterminato che, sovrapponendosi a quello già esistente, ne trasforma la

natura.

Ciò risulta in una sorta di tendenziale destrutturazione-ristrutturazione delle routines

quotidiane che costituiscono la socialità in cui sono immersi i lavoratori e le lavoratrici Sata. Tale

socialità, d’altra parte, fonda, non solo materialmente, ma anche affettivamente, culturalmente e, più

in generale, cognitivamente il loro essere individui sociali e, soprattutto, il loro “darsi” come forza

lavoro: il “non esserci” significa, potenzialmente, svuotare di senso anche i significati e le

rappresentazioni del lavoro.

Il contesto come strumento di normalizzazione: la resistenza

Abbiamo visto come la sussunzione della socialità rischia di tradursi in perdita di senso

attribuito al lavoro. Da questo punto di vista, il processo di destrutturazione, innescato dal nuovo

modo di lavorare, deve necessariamente darsi anche come processo di ristrutturazione, per evitare

che uno stravolgimento dell’assetto sociale possa provocare un aumento di quella che Annibaldi

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(1994: 19-20) definisce “temperatura sociale”. Per evitare che questa potenzialità si trasformi in

attualità, le reti sociali vengono chiamate a ricomporre la frattura, a risocializzare costantemente la

vita dei lavoratori.

Quella che sembra essere una più generale tendenza nella logica di regolazione del rapporto

capitale/lavoro nel post-fordismo è che, dati gli ovvi limiti di azione diretta a disposizione

dell’azienda, gli elementi di governabilità sulle condizioni dell’accumulazione devono essere filtrati

operando più estensivamente sul livello sociale più ampio, così da conseguire in modo mediato il

disciplinamento dei lavoratori alle esigenze spazio-temporali della produzione. Facendo giocare, per

usare un espressione di Foucault, i rapporti di dominio nello “stesso tessuto della società”. Le

pratiche sociali inscritte in questo processo si danno come pratiche di normalizzazione, ma esse

stesse innescano pratiche di resistenza.

Nel caso in esame, gli interventi aziendali vengono sostenuti combinando la retorica dello

“sviluppo locale” indotto dall’insediamento e la richiesta implicita che il contesto sociale generi

quella che il management Fiat chiama “cultura industriale”, attraverso cui viene veicolata l’idea che

le esigenze produttive siano necessità oggettive. I temi, che evidentemente si rimandano e si

rafforzano a vicenda, pervadono e sorreggono l’operare concreto degli attori sociali, tendente a

riqualificare relazionalmente la forza lavoro quale condizione di opportunità di occupazione per i

componenti del “luogo”.

Gli interventi immediatamente sociali della Fiat vanno dall’intrattenimento di rapporti con le

istituzioni locali (accordi con gli istituti professionali del melfese, con l’università; promozione di

corsi di formazione per formatori professionali, per direttori didattici e presidi) a iniziative più

indirette (promozioni di avvenimenti sportivi, finanziamenti per il recupero di monumenti storici,

apertura degli stabilimenti Sata alle visite di familiari e amici dei lavoratori). Il tentativo è quello di

produrre elementi di “governo” sulle condizioni sociali dell’accumulazione, attraverso relazioni

attive con gli attori sociali locali (governo, sindacati, scuola). Nelle parole di Busana (1994: 42) la

“collaborazione con il territorio” si configura come una “rete fittissima di relazioni e di attività

avviate a mano a mano dalla Fiat nei confronti dei diversi soggetti istituzionali – sia centrali che

periferici”.

Un ruolo importante assume la promozione del nuovo stabilimento da parte del management

Fiat, realizzata attraverso le innumerevoli interviste rilasciate alla stampa, il nutrito numero di

articoli direttamente scritti sui giornali nazionali e le fitte “testimonianze aziendali” in convegni e

dibattiti organizzati a livello locale. Tale promozione non ha tuttavia solo valenze ideologiche,

riferite alla portata innovativa della Fabbrica Integrata Fiat nel panorama della competizione

internazionale, ma anche una funzione, potremmo dire, “didattica”, orientata cioè ad illustrare le

caratteristiche dell’insediamento e le logiche di funzionamento della struttura, al fine di chiarire e

rendere comprensibili le esigenze interne ed esterne.

Questo tessuto narrativo fa sì che le scelte strategiche dell’azienda tendano ad oggettivarsi in

necessità operative inscritte nel “modello di Fabbrica Integrata”. Il successo dell’insediamento si

presenta così come inevitabilmente legato alla realizzazione del modello, il quale a sua volta

dipende dalla capacità del contesto sociale di porre le condizioni adeguate alla sua

implementazione.

Le istanze istituzionali e la comunità locale sono, in altre parole, chiamate a “partecipare”

attivamente al “governo” di quello che viene prefigurato come “effetto Fiat”: gestione delle

trasformazioni urbanistiche per gli eventuali trasferimenti residenziali e la programmazione di

nuovi servizi, di quelle territoriali per favorire il just in time di merci e forza lavoro; di quelle sociali

per evitare un effetto ingovernabile di modernizzazione; e, infine, le modificazioni qualitative del

mercato del lavoro. È necessario, nelle parole di un intervistato, attrezzarsi per “essere pronti ad

affrontare i nuovi compiti”, per superare “le resistenze di mentalità” che implicano il passaggio “da

un tipo di civiltà contadina ad un tipo di civiltà prettamente industriale”.

La narrazione dell’evento Fiat e la disseminazione della “cultura industriale” vengono

sostenuti dalla retorica - dominante a livello locale e internazionale - dello “sviluppo locale”, di cui

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si fanno portatori anche gli organi istituzionali, non solo quelli locali (istituzioni locali, associazioni

industriali e di categoria, formali e informali, imprese). Tutte le teorizzazioni di questo nuovo

modello sociale di sviluppo enfatizzano la necessità di cooperazione e concertazione fra gli

organismi che operano nel territorio (Mair, 1993; Amin e Malmberg, 1994; De Rita e Bonomi,

1998), facendo della crescita economica un “affare territoriale” e neutralizzando, per questa via, le

possibili opposizioni (Jonas, 1992).

La forza persuasiva di questa retorica sulle nuove zone di insediamento deriva dalla

specificità che, secondo Sivini (1998), caratterizza questi spazi socio-economici, definiti da una

società modernizzata, che si pone per questo come riserva di risorse umane; ma emarginati, per via

di una economia non organicamente sviluppata, dal contesto generale di crescita economica entro

cui si collocano. La modernizzazione sociale produce un bisogno di sviluppo che si scontra con le

condizioni materiali, e a cui l’impresa, presentandosi come agente di sviluppo, può fornire risposta.

Anche grazie all’elevato livello di disoccupazione e sotto-occupazione: “la prevalenza, dunque, di

lavori atipici nel proprio percorso, ha rappresentato un elemento essenziale nel quadro delle

valutazioni positive circa la possibilità di essere assunti, rafforzando in primo luogo un po’ l’idea

dell’azienda [torinese] come ‘istituzione’, come soggetto privato in grado di sopperire alle assenze e

ai ritardi dello ‘Stato’, nella soluzione dei problemi occupazionali” (Bubbico, 1996: 105).

Il risultato è che la responsabilità della riproduzione materiale e sociale degli individui sembra

ora essere attribuita alla capacità del “luogo” di divenire contenitore di risorse strategiche (sociali,

istituzionali e politiche), ma soprattutto all’abilità di offrire una forza lavoro “adeguata” alle

richieste del mercato del lavoro (scolarità, bassi salari, flessibilità temporale e spaziale) per la

competizione internazionale. Questo diventa così un fine collettivo, attorno a cui viene riorganizzata

la socialità diffusa, la quale, abbiamo visto, si pone come una risorsa organizzativa in quanto

possibilità di esternalizzare gli effetti negativi che scaturiscono dalla pressione della produzione

lean.

Gli attori sociali reinterpretano questa esigenza come bisogno relazionale dei lavoratori. La

disponibilità della forza lavoro in fabbrica viene così anche ottenuta operando sui nessi simbolici e

rappresentativi su cui si fonda il rapporto fra vita lavorativa e vita extralavorativa.

Ne è un esempio questo dialogo fra una intervistata e sua cognata:

Cognata [rivolta all’intervistatrice]: (...) siamo noi a sforzarla, a farla uscire, altrimenti lei si

esaurisce, cioè vede solamente Fiat e casa, insomma non è ... e le diciamo sempre “dai, dai,

usciamo” per non farla rientrare [a casa]. Altrimenti ... è normale: io sono sua cognata e posso

vederla di più, ma le altre persone, sai, non frequentandola, magari la mettono anche da parte,

cioè è normale, è giusto che la mettono anche da parte.

Intervistata: Va be’, i miei amici lo sanno che quando faccio i turni (...) hai voglia di dire

usciamo: io quando torno alle dieci non esco, cioè, è massacrante ...

Cognata [rivolta all’intervistata]: ma non ti devi nemmeno escludere, altrimenti cosa fai?, solo

lavoro e casa? (...) quello che prima facevi non era giusto, ma per te non è giusto, devi vivere

anche la tua vita.

La ri-normalizzazione operata dal contesto è percepita, dagli intervistati, come incapacità

degli altri di comprendere la loro condizione:

... loro [gli amici e i conoscenti] sentono la Fiat, si pensano che non si lavora, ma invece qua si

lavora, qua si lavora veramente.

Per esempio mia sorella grande [che lavora solo la mattina] non arriva a capire più di tanto.

(...) quasi quasi non ti crede manco che stai male .. io sono costretta quando faccio la notte a

staccare il telefono perché è sempre lei che mi chiama e “che fai dormi ancora?” (...) Pure mia

madre (...) ogni tanto, quando vado a casa che sono un po’ intontita, mi dice “ma sempre sonno

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hai?”. Mi urta, mi fa diventare una bestia quando dicono così. E io dico, ma questi non

arrivano a capire, non lo so.

Mah, [in caso di autolicenziamento] l’amico forse che sta fuori [dalla fabbrica] direbbe “questo

ha i soldi, è pazzo”, ma gli amici dentro mi invidierebbero un casino (...) L’estraneo perché, da

là fuori, quella è ... il paradiso proprio, [secondo chi sta] fuori tu stai bene. Cioè, c’è mio zio,

quando ci vede, a me e a lei, “ah, due stipendi, eh, che bello” ... però poi non mi vede mai

quando la domenica sera lui va in giro con la moglie e io vado nel pullman come un cretino con

la tuta là alle otto, non mi vede mai.

È difficile farlo capire, io posso parlare per esempio con mia cognata dei miei problemi, sì lei

mi sente, però non riesce a capire proprio il mio stato d’animo, come mi sento io in quel

momento, quando le dico che non va bene la linea, che in linea non si sta bene. Sì, capisce, ma

più di tanto non può capire; se io sono stanca, lei vede solo che vado a dormire (...) non può

capire come sto io (...) non sanno com’è la notte. Spiegare com’è la notte [di lavoro] a chi la

notte, arriva un certo orario e va a dormire, invece tu devi stare fino alle sei sveglio; è diverso.

Non è facile spiegarlo.

Le strategie relazionali messe in opera nel contesto funzionano, materialmente ma anche

culturalmente, come ammortizzatore dello stress - nel luogo di lavoro e nella risocializzazione - che

viene così confinato nel campo dell’esperienza individuale. È questo presumibilmente un effetto

della specifica forma di esercizio del dominio in atto: l’“effetto Fiat” sulla vita quotidiana dei

lavoratori tende ad essere reso invisibile. Ciò ne ostacola una sua possibile socializzazione o

assimilazione nella costruzione del senso comune. Finisce così per essere “nascosto” anche in

quella che Giddens chiama coscienza discorsiva degli attori sociali che costituiscono il contesto. È

per questo che “gli altri non capiscono”, che “non è facile spiegarlo”: non ci sono parole

comunemente condivise capaci di esprime il disagio.

Questa condizione, però, è difficilmente eliminabile dalla coscienza pratica e discorsiva dei

lavoratori, le cui forme di resistenza localizzano il potere svelandone gli effetti. Il tentativo di

destrutturare/ristrutturare le relazioni sociali, producendo un nuovo ordine normativo, trova per

questo una serie di resistenze. Ciò che emerge è l’esistenza della percezione, da parte dei lavoratori,

della colonizzazione del tempi di vita, che tende ad atomizzarli. Il tempo di lavoro non solo modula

l’esistenza, ma penetra dentro i tempi di vita per modificarne non solo la scansione, ma anche la

natura:

(...) mi dico domani lo faccio, domani lo faccio, non sono più e ... non sono più determinante

come una volta

(…) la mattina, soprattutto d’estate che c’è il sole e uno vuole stare in giro, che ne so, io invece

resto a dormire, anche perché poi se non si dorme, poi non si riesce ad affrontarla [la giornata

di lavoro], quindi bisogna dormire, riposarsi piuttosto rilassati, magari si rinuncia alle altre

cose, che ne so, stare in giro con l'amica, stare in giro così, fare qualsiasi altra cosa. Invece no,

siamo costretti a riposarci per poi affrontare le altre sette ore di lavoro.

Da quando sono lontano, gli amici ... io al mio paese avevo molti amici e quando vado ...

sembra che ... mi trovo spaesato ... somiglia che ... non c’ho più quel potere di prima non lo so

... mi sento talmente confuso la testa ...

Forme di resistenza simili sono rinvenibili anche da parte degli attori che costituiscono le reti

sociali dei lavoratori e delle lavoratrici in quanto individui. Il “non esserci” di questi ultimi viene,

infatti, percepito dagli altri come “perdita” di un nodo dentro la rete di affettività della vita

quotidiana:

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Cognata: ... ma non per cattiveria [le diciamo di uscire con noi], ma perché le vogliamo bene,

per farla uscire ...

Intervistata: Nel senso che (...) il distacco tra andare sempre in giro e non vedermi mai, anche

per lei ... Quando non venivo mai [rivolta alla cognata], ti mancavo?

Cognata: è certo, ci mancava, [prima] stavamo sempre insieme!

Eh, su questo lato, delle volte la vedo mia sorella ... delle volte ha dei momenti, diciamo,

proprio di rifiuto, anche al dialogo, anche alla quotidianità normale. (…) Ad aver i turni di

notte... è inavvicinabile.

Ma anche degli amici, che fanno i due turni di notte, non li vedi proprio, per quattordici giorni

non li vedi. Non li vedi. (…) Cioè loro sono molto vincolati dalla Fiat, cioè dipendono

esclusivamente dalla fabbrica (…) però avverto delle volte ... sì, un disagio, mi mancano delle

amicizie, cioè non mi va di vederli ogni quindici venti giorni.

La resistenza espressa in queste parole, pur essendo diffusa, risulta essere del tutto

individuale, non sembra quindi essere tale da creare una forza d’urto capace di produrre un nuovo

“senso comune”. È certo però che essa è la manifestazione di nuove contraddizioni che investono il

campo dei bisogni relazionali dei soggetti. Possiamo cogliere come il mondo della vita, quale sfera

di senso, comportamento ed azione che “precede” ed “eccede” il processo lavorativo, si pone come

irriducibile al dominio capitalistico e rappresenta il limite al “sogno” capitalistico di arrivare fino

all’“anima”: quanto più esteso è il tentativo del capitale di penetrare fino a questa dimensione, tanto

più profonda la resistenza, dove profondità fa riferimento alla totalità del soggetto

Ritornare ad essere “determinante”, ritrovare “il potere di prima” rappresentano reali bisogni

relazionali, prodotti dentro e attraverso i rapporti di vita. In quanto bisogni dei soggetti, essi non

possono che darsi come bisogni soggettivi e sono - per definizione - irriducibili al rapporto di

capitale, ne rappresentano anzi la critica in atto, pur non esprimendosi necessariamente in forma di

resistenza aperta. È questa attività che può trovare in se stessa il proprio compimento, perché a se

stessa si riferisce in quanto autovalorizzazione.

Il greenfield: realtà o narrativa?

Il termine greenfield, che individua i nuovi siti di localizzazione dell’industria

automobilistica, resta, dal punto di vista teorico, largamente indefinito. Anche a causa del fatto che i

lavori di riferimento, che intersecano terreni di analisi differenti anche se prossimi (relazioni

industriali, psicologia del lavoro, sociologia industriale, economia regionale, geografia economica,

organizzazione aziendale e del lavoro e così via), sono stati sviluppati quasi interamente intorno a

studi empirici su quelli che vengono chiamati greenfields.

Il termine viene inizialmente introdotto per studiare il processo di trasferimento delle attività

produttive industriali negli anni ’60 e ’70 dal Rustbelt al Sunbelt degli Stati Uniti: il tentativo, da

parte del capitale nordamericano, è di ricostituire i margini di profitto erosi dalla conflittualità

operaia non attraverso l’innovazione tecnologica, ma mediante la dispersione geografica della

produzione – ancora fordista - verso gli stati con una legislazione di tipo right-to-work, dove

vengono individuati i siti greenfield. L’assenza di una tradizione sindacale in queste regioni va

ritrovata nella specificità del sistema istituzionale USA, che, in quanto confederazione di stati,

rende possibile una differenziazione regionale nell’implementazione della legislazione del lavoro

(Bluestone e Harrison, 1982).

Metaforicamente usato per indicare un’area geografica in cui risulta assente ogni tradizione

industriale e quindi sindacale, il termine Sunbelt viene identificato con quello di greenfield, che la

letteratura successiva userà per leggere le pratiche di decentramento spaziale del capitale produttivo

giapponese verso gli Stati Uniti e verso l’Europa occidentale (Florida e Kenney, 1991; Jones e

North, 1991), che rappresentano, però, l’avvio di una nuova esperienza storica, ossia il processo di

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localizzazione di strutture produttive tecnologicamente e organizzativamente innovate secondo i

principi della lean production.

La mancata problematizzazione del termine nel passaggio di fase (dalla crisi del modello

fordista alla diffusione della lean production) pone pesanti ipoteche sulle implicazioni “politiche” di

lettura delle nuove possibili forme di conflittualità in contesti definiti greenfield. Il risultato è che

molta parte della letteratura sull’industria automobilistica tende ad insistere su un’immagine

stereotipata dei nuovi siti di insediamento come costituiti da un tessuto sociale rurale caratterizzato

da sindacati deboli e dall’assenza di conflittualità operaia. Essi rappresentano l’opportunità, viene

sostenuto, di trovare e selezionare una forza lavoro “docile” e quindi “flessibilizzabile” (Florida e

Kenney, 1991; Jones e North, 1991), potenzialmente cooperativa e arrendevole, pronta per questo

ad adeguarsi più facilmente alle nuove tecniche produttive e alla nuova organizzazione del lavoro

(Garrahan e Stewart, 1992). Da qui l’assunzione che nei nuovi siti sia possibile impiantare

stabilimenti produttivi di avanguardia (Pike, 1996; Pike e Vale, 1996).

Il greenfield viene spesso metaforicamente associato ad una “tabula rasa”, spazio sociale

libero da ogni forma di regolazione industriale (routines, abitudini, tradizioni) e fondamentalmente

definito da una forza lavoro “verde”, il che attribuisce a questi siti un’importanza strategica:

nell’impiantare degli stabilimenti che inscrivono il nuovo modello produttivo e organizzativo,

l’impresa non ha vincoli di routines lavorative precedenti e, di conseguenza, culture conflittuali

consolidate (Guest e Rosenthal, 1993). Il processo di “risocializzazione” alla nuova cultura

industriale (valori, codici e sapere finalizzati a produrre consenso e cooperazione) - ottenuto

attraverso meccanismi di formazione normativa e comportamentale - viene reso possibile, nei nuovi

siti, dall’esistenza di una forza lavoro “verde” e produce, come effetto, la neutralizzazione della

percezione dell’appartenenza di classe e dell’antagonismo proprio del fordismo (Stolertoff e

Casaca, 1994; 1996).

Questa immagine delle nuove aree di insediamento viene riprodotta sia nella letteratura

manageriale, sia nella letteratura critica. Per la prima, i vantaggi del “prato verde” consisterebbero

nell’offrire la possibilità di costruire nuove relazioni industriali, quale condizione per l’opportunità

di implementare in modo organico l’approccio HRM (Magnabosco, 1992; Beaumont, 1995). Alla

medesima conclusione arriva la seconda, per la quale la nuova organizzazione del lavoro in contesti

definiti greenfield è stata tanto efficace da riuscire a superare ogni resistenza operaia (Garrahan e

Stewart, 1992; Stolertoff e Casaca, 1996).

Questa prospettiva lascia alcuni problemi aperti. Ogni cambiamento di fase del capitalismo è

segnato dall’emergere di un nuovo modello produttivo, la cui implementazione dipende dalla messa

in opera di tutta una serie di dispositivi di disciplinamento e normalizzazione degli operai per

adeguarli - contro le resistenze - alla nuova organizzazione del lavoro. Ciò significa che la forza

lavoro immessa nei nuovi processi produttivi deve essere ogni volta prodotta come “verde”.

D’altra parte, l’evidenza storica mostra l’insostenibilità dell’idea per cui la forza lavoro

“verde”, non avendo memoria di conflitto industriale, possa essere disciplinata al punto da non

esprimere qualche forma di resistenza antagonistica. A specifiche modalità di ristrutturazione

dell’organizzazione del lavoro corrispondono specifiche forme di resistenza e conflitto: è sulla

dialettica processuale fra resistenza e riorganizzazione che occorre cogliere l’esplorazione, il

consolidarsi e il riprodursi di un nuovo paradigma produttivo.

La nostra ricerca mostra come il greenfield non esista come tale e come invece sia in atto il

tentativo di produrlo come spazio sociale locale di operatività del capitale, impegnato

nell’implementazione di un nuovo paradigma produttivo. In questo senso, la forza lavoro tende ad

essere storicamente prodotta come “verde”, non lo è di per sé, come alcuni degli studi sul

greenfield, invertendo la determinazione, hanno assunto: la destrutturazione/ristrutturazione del

field induce infatti resistenza.

Il problema è allora capire le modalità attraverso cui tale processo si realizza e, su questo,

individuare le nuove forme di emergenza della soggettività.

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10

Graham Sewell

Controllo, resistenze e soggettività

L’imperativo del controllo

In quella che è stata chiamata la fabbrica snella, la natura, la forma e la rappresentazione sia

del controllo sia delle resistenze hanno delle caratteristiche specifiche su cui ci sono diverse

interpretazioni. L’obiettivo che mi propongo è affrontare il modo di concepirli in una prospettiva

critica di ispirazione foucaultiana.

La questione preliminare è perché esiste il controllo. Nell’approccio marxista che si rifà alla

Labour Process Theory (LPT), il concetto di controllo è inestricabilmente legato a quello di

divisione del lavoro. Questo legame, a mio avviso, è stato pensato a partire dal fatto che, data la

separazione tra la concezione dei compiti lavorativi (assunta dai managers) e la loro esecuzione

(assunta dai non-managers), nella prassi lavorativa quotidiana rimane sempre un grado di

incertezza. Sebbene abbia luogo la “sussunzione reale del lavoro” (Marx), è difficile infatti sapere

se il lavoratore realizzerà sempre la piena potenzialità delle proprie capacità lavorative. In questa

situazione, il controllo interviene per far sì che il lavoro effettivo dei lavoratori si approssimi il più

possibile al loro potenziale.

Penso che sia questa indeterminatezza, o, meglio, questa incertezza nel rapporto tra la

capacità di lavoro di un individuo e cosa effettivamente egli fa, a veicolare ancora l’imperativo del

controllo. Ma, naturalmente, nel contesto della lean production - in cui comunemente si parla di

cose come il coinvolgimento, la partecipazione e, per usare una parola di cui si abusa,

l’empowerment - ha luogo una ricomposizione, sia pur minima, del nesso tra concezione e

esecuzione. Per cui la natura dell’imperativo del controllo è fondamentalmente cambiata.

Esiste ancora una indeterminatezza del lavoro, ma questa non è necessariamente basata sulla

necessità di ottenere la semplice esecuzione di compiti che sono concepiti da altri (i managers);

piuttosto, è l’indeterminatezza nell’uso della conoscenza da parte dei lavoratori che qui assume

importanza. Il problema è come garantire che i lavoratori, che prendono parte a un processo di

lavoro che implica una ricomposizione sia pur minima di concezione ed esecuzione (e, quindi, una

crescita degli aspetti cognitivi formali del lavoro), utilizzino la propria conoscenza, la propria

abilità, la propria esperienza e la propria capacità di imparare. Il nuovo elemento chiave

dell’imperativo del controllo è quindi, fondamentalmente, l’indeterminatezza del modo in cui è

esercitata la conoscenza – sia esplicita che tacita - nell’espletazione dei compiti lavorativi.

Personalmente ritengo che questo cambi fondamentalmente le condizioni entro cui è

esercitato il controllo e credo anche che l’approccio dell’ala marxista ortodossa della LPT (i post-

Bravermaniani) abbia reali difficoltà nell’affrontare il problema del controllo in un contesto in cui si

dà una ricomposizione, sia pur limitata, di concezione ed esecuzione.

Questa convinzione mi ha spinto a sviluppare un concetto che ho espresso nei termini di

“doppio vincolo della discrezionalità” (“double bind of discretion”) (Sewell, 1998). Da una parte, è

sicuramente vantaggioso, dal punto di vista dell’organizzazione, attribuire ai lavoratori più spazio di

azione, dando loro, al limite, la possibilità di esercitare un certo grado di autodeterminazione nella

configurazione della postazione di lavoro o di contribuire in un compito interdipendente; dall’altra,

sembra esserci, al tempo stesso, un rovesciamento, sia pur limitato, del processo di controllo

taylorista sul lavoro (nei termini in cui è stato teorizzato da Braverman).

Ciò conduce a un certo grado di rischio nella gestione del processo lavorativo che può essere

rappresentato dalla domanda: come ci si può assicurare che i lavoratori usino questa nuova base

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discrezionale a beneficio dell’organizzazione? Naturalmente, cosa significa “a beneficio

dell’organizzazione” è controverso, ma qui non entreremo nel merito di questa questione.

Questo approccio - che ci permette di problematizzare l’indeterminatezza del lavoro e

l’imperativo del controllo, centrandolo sulla questione della conoscenza - sta alla radice della mia

convinzione che l’analisi foucaultiana può assisterci nello spiegare non solo la persistenza del

controllo in fabbrica ma anche le nuove forme che esso assume. A mio avviso, l’aspetto liberatorio

del lavoro di Foucault è che ci permette di focalizzare l’analisi sui problemi della conoscenza

collegandoli con quelli del potere, del controllo e del dominio nel luogo di lavoro.

Il problema della concettualizzazione delle forme di controllo nella fabbrica snella

È in questa prospettiva che Cooney e io abbiamo elaborato un modello di analisi che si basa

sulla distinzione tra controllo razionale e controllo normativo (Sewell and Cooney, 2000). I termini

razionale e normativo sono, evidentemente, mediati da Max Weber. Questo riferimento a Weber (in

una prospettiva di analisi foucaultiana) sembra concordare con il punto di vista del mio collega

australiano Stewart Clegg, il quale ha sostenuto che Foucault può essere considerato come un

weberiano radicale. Ora, non è necessario che io sottoscriva totalmente questo punto di vista

particolare, ma certamente credo che i concetti di comportamento razionale (o orientato al fine) e

normativo (o orientato al valore) ci siano d’aiuto se vogliamo districare alcuni dei nodi problematici

che stiamo discutendo.

Come abbiamo scritto nel lavoro sopracitato, al fine di cercare di spiegarci il modo in cui

l’imperativo del controllo ha giocato nell’industria automobilistica australiana, Cooney e io

abbiamo utilizzato il lavoro di Barley e Kunda (1992) sulla retorica del controllo normativo e

razionale. La loro tesi è che invece di considerare l’ideologia manageriale (americana) nei termini

“naturali” di un processo che procede linearmente da forme razionalistiche di discorso (in

particolare, il Scientific Management) a discorsi normativi che enfatizzano l’integrazione ideologica

del lavoro (ad esempio, lo Human Resource Management e il Corporate Culture Movement) si

dovrebbe pensare a un ciclo che oscilla tra due poli a seconda delle condizioni economiche

predominanti. In tempi difficili, sostengono, prevalgono discorsi razionali come l’efficienza e la

diminuzione dei costi; mentre in periodi floridi l’enfasi è posta sui discorsi normativi come gli

interessi comuni e i mutui guadagni. Ma è nel pensare il passaggio dall’uno all’altro che Barley e

Kunda individuano un elemento chiave del nostro discorso: nella fase ascendente anche se cambia

la retorica è comunque altamente probabile che il controllo rimanga sostanzialmente razionale. In

questo modo essi vedono il ciclo del discorso come un tentativo di risolvere la perenne tensione

antinomica tra solidarietà meccanica e organica, e tra comunitarismo e individualismo, che

caratterizzano la società occidentale moderna. La nostra posizione è che queste opposizioni binarie

sono esse stesse elementi del discorso, piuttosto che processi organici della società. Riteniamo

inoltre che Barley e Kunda non chiariscano fino in fondo questa importante distinzione, per cui

pensiamo di dover essere cauti nel rappresentare la realtà in questi termini quasi-funzionalisti. Ciò

nonostante, proponiamo di usare la loro definizione dei controlli normativo e razionale come

strumenti tassonomici, invece che come concetti teorici. Entro questi limiti li riteniamo utili per

cogliere le pratiche di controllo in un contesto influenzato dalla lean production.

A partire da questa premessa è possibile porre il problema di capire se la dimensione

strutturale e comunicativa del controllo (o, se preferite, i problemi della soggettività e dell’inter-

soggettività) teorizzata nei lavori su Melfi pubblicati in questo volume sia omogenea alla

dimensione razionale e normativa del controllo contenuta nel modello a cui io e Cooney ci siamo

ispirati nell’elaborazione sopracitata. In altri termini, il modello strutturale/comunicativo del gruppo

calabrese che lavora su Melfi e il nostro modello razionale/normativo possono essere utilizzati per

esprimere la stessa cosa?

Una risposta affermativa rappresenterebbe, naturalmente, il risultato più facile e più

conveniente. Il mio personale punto di vista è che ciascuna dimensione del modello

strutturale/comunicativo – che, incidentalmente, ritengo molto consonante con la prospettiva

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foucaultiana – includa elementi razionali. Se consideriamo gli effetti della dimensione strutturale

del controllo come la standardizzazione, la comparazione e la sorveglianza, questi possono essere

associati alle caratteristiche strutturali della fabbrica lean, ma contemporaneamente impattano con

la dimensione inter-soggettiva delle pratiche comunicative che regolano le dinamiche di gruppo

all’interno del team. Un esempio di ciò può essere rappresentato dal modo, descritto da Commisso,

in cui i lavoratori delle UTE a Melfi stanno usando gli effetti dei meccanismi razionali del controllo

(indicatori di produttività, informazioni sulla qualità, ecc.) come base per la costruzione sia di

un’identità collettiva del gruppo sia di un’identità individuale dei loro membri. Così, la mia

impressione è che il modello strutturale/comunicativo sia molto utile e anche compatibile con le

dimensioni razionali e normative di cui ho parlato prima. Credo che le dimensioni del modello

calabrese ci diano la possibilità di esplorare sia le caratteristiche normative che quelle razionali.

Un problema ulteriore che possiamo porci è dato dal nesso esistente tra i due modelli discussi

in precedenza e la struttura analitica conflittuale/cooperativa e ritualistica/non-ritualistica teorizzata

da Cotesta (2000) e Pendenza (2000). Il loro modello non analizza il modo di esercitare il controllo

ma dà, piuttosto, una descrizione degli effetti del controllo. In altri termini, questa rappresentazione

è un modo di concettualizzare gli effetti sui lavoratori delle forme strutturali/comunicative o

razionali/normative del controllo. I risultati della loro ricerca ci danno un quadro significativo per

capire gli effetti di potere nonché le resistenze alla pratica e alla retorica aziendale esistenti in Sata.

Ciò che questi diversi approcci hanno in comune è che rispecchiano l’esigenza di affrontare

con nuovi strumenti analitici il mutamento della natura del controllo sul lavoro e i suoi effetti in un

contesto influenzato dalla lean production.

In molte fabbriche si sono adottate forme di controllo strutturale/comunicativo in risposta al

dissenso e alla resistenza. Dissenso e resistenza non sono tuttavia riconosciuti come qualcosa di

essenzialmente connesso all’iniquità del processo produttivo capitalistico. Piuttosto, il problema

viene posto in questa forma: “hai problemi a casa?”, “si tratta di tuo marito?”, “hai problemi con tua

moglie?”, “hai problemi con tuoi figli?”, “sei stressato?”, “hai problemi finanziari?”, “soffri di

anoressia?”. Io interpreto questo genere di reazioni come un tentativo strategico di trasformare la

nostra comprensione delle resistenze e del dissenso da forme razionali di comportamento a forme

irrazionali. Questo tipo di “emozionalismo” è comune nelle fabbriche che si stanno muovendo verso

l’adozione di un modello “unitario”, ovvero di una modalità di gestione delle risorse umane (HRM)

basata sul commitment. Problemi quali il dissenso e la resistenza nei luoghi di lavoro contemporanei

sono difficoltà che devono essere appianate con la terapia, e, possiamo dire, attraverso un processo

di normalizzazione in senso foucaultiano.

Un esempio molto affascinante di questa strategia è dato dall’“emozio-gramma”, utilizzato

nello stabilimento Fiat di Belo Horizonte, in Brasile. Inserito nella “gestione a vista” esso consiste

in un meccanismo attraverso cui dovrebbe essere possibile individuare le condizioni fisiche,

emotive e psicologiche quotidiane di ogni lavoratore. In ogni UTE ci sono le foto dei lavoratori che

ne fanno parte e sotto ogni foto si possono vedere tre colori: verde, giallo e rosso. Verde significa

“sto bene”, giallo “non sto bene”, rosso “ho bisogno di aiuto”. Lo scoprire l’uso di questo strumento

ha fatto vibrare una corda nella mia mente, perché per un foucaultiano l’“emozio-gramma”

dovrebbe rappresentare un esempio del tentativo di normalizzare qualcosa di profondamente

soggettivo e individuale come le emozioni. Naturalmente, Foucault suggerirebbe molta prudenza

nell’interpretare qualcosa che sa di terapia.

In questa stessa logica può essere collocato l’uso strumentale del linguaggio e di relazioni

interpersonali che si rifanno ai rapporti amicali e familiari. Ciò ha confermato molti dei miei

sospetti sull’uso di tecniche “terapeutiche” in fabbrica, poiché lo considero un rimando a forme

premoderne di controllo, in particolare quelle relative ai rapporti sociali basati sulla parentela e sulla

famiglia. Questi sono stati rimessi in gioco in modo strumentale e normativo con l’uso di frasi del

tipo: “siamo tutti amici, ora” oppure “siamo tutti membri di una grande e felice famiglia”. Non

finisce mai di sorprendermi che ciò possa accadere, soprattutto perché, è bene ricordarlo, si tratta di

una connotazione di famiglia fortemente idealizzata. In realtà, è noto quanto la famiglia possa

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essere sede di alcune delle più spiacevoli relazioni di potere. Quando sento dire da managers o

anche da lavoratori: “noi siamo una famiglia, proprio una grande e felice famiglia” penso ad abusi e

a non edificanti relazioni.

L’invocazione della famiglia in altri contesti è molto interessante perché risulta molto simile

alla nostra esperienza di ricerca in Australia. Quando studiavamo le differenze tra la Toyota (che

potremmo considerare un esempio di una forma fondamentalmente razionale di controllo) e la Ford

(che invece potremmo considerare un esempio di una forma fondamentalmente normativa), le

percezioni dei membri di quelle imprese sulla natura dei team di lavoro - nei termini in cui

descrivevano il loro semplicistico modo di vedere la questione - ci indirizzarono a riformulare il

vecchio ma ancora utile concetto di solidarietà organica e meccanica. La Ford parlava della

costituzione dei team nei termini di un processo che mette insieme le persone per creare una forma

di solidarietà organica. Al contrario, la Toyota descriveva i team nei termini di una dipendenza

funzionale (cioè di una interdipendenza tra persone basata sulla loro collocazione nel processo di

lavoro) che risultava ovviamente più meccanica.

Naturalmente, anche i team della Ford sono interconnessi l’un l’altro meccanicamente e

funzionalmente, ma sono rappresentati in un modo differente. Da un punto di vista teorico, ciò non

significa che io mi consideri un seguace di Durkheim. Ciò che vorrei invece sostenere è che questo

è il modo in cui le organizzazioni percepiscono i loro team. La Toyota in modo strumentale o

meccanicistico, la Ford in modo naturale o organico. Ora, io credo che tale differenza si rifletta

esattamente sulle dimensioni razionali e normative del controllo che io ho discusso nel lavoro

citato.

Un’altra nuova forma di controllo particolarmente significativa per l’approccio foucaultiano è

data da vari tipi di sanzioni messe in atto dal gruppo dei pari. A differenza con il passato, esse non

sono più associate al tradizionale effort bargain (patto sull’erogazione di forza lavoro) in cui un

gruppo di lavoratori cooperavano per omogeneizzare il loro output intorno a un livello concordato

che soddisfacesse il management e, nello stesso tempo, non li sottoponesse a un indebito stress.

Piuttosto, nella fabbrica snella il team tende ad agire di concerto per normalizzare il proprio output

al livello del membro più veloce. Il che si traduce in una pressione del gruppo dei pari sui lavoratori

più lenti.

Questa è un’interessante inversione delle sanzioni tradizionali rivolte a quelli che la Scuola

delle Relazioni Umane ha denominato rate-busters, ossia coloro che tradiscono la fiducia dei

compagni (ma anche che rompono la cadenza). Invece di focalizzare la forza sanzionatoria sui rate-

busters, vengono sanzionati gli “imbroglioni” (chisellers, per usare un altro termine della scuola

delle Relazioni Umane) o gli “oziosi” (free loaders, come vengono comunemente chiamati nella

letteratura psicologica). Questa inversione è legata, nel lavoro in team, alla necessità di

normalizzare la performance del team non più intorno al comune denominatore più basso, né

intorno alla media, ma a qualcosa che si approssima al livello più alto possibile di performance.

Ritengo questo punto un nodo potenziale di ricerca in cui è possibile osservare l’interazione

dei modelli strutturali/comunicativi e razionali/normativi del controllo in differenti configurazioni.

Per esempio, alla Toyota, quando abbiamo fatto la ricerca citata, agiva una pressione del tipo

“misura e compara, misura e compara, misura e compara”, mentre alla Ford il discorso era “è un tuo

compito, è un tuo obbligo, tu sei parte della famiglia”, “dovresti essere più collaborativo”, “dovresti

sforzarti”.

Il nodo teorico della resistenza

Passiamo ora ad analizzare il problema della resistenza. Per molti versi, tutta l’analisi sulla

problematica del controllo è stata proiettata su questo obiettivo. Molti studiosi del processo

lavorativo, tra i quali, in particolare, Paul Thompson, sostengono che il tipo di analisi che stiamo

conducendo ignora la possibilità che si diano resistenze. Questa è una delle maggiori obiezioni

all’analisi del processo lavorativo di ispirazione foucaultiana presentate nell’influente articolo di

Thompson e Ackroyd, All quiet on the workplace front (1995). Ora, nonostante io sia sempre

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esitante nel definirmi foucaultiano (e sono totalmente cosciente della natura problematica di

qualsiasi schema analitico che si autodefinisca foucaultiano), devo ammettere di essere ispirato dal

lavoro di Foucault. E intendo questo in due sensi. Primo, nel senso che considero la sua vita e il suo

pensiero una fonte fondamentale di ispirazione; secondo, nel senso che le sue idee ispirano alcune

delle mie ricerche.

Questa prospettiva mi permette di affrontare le tre principali obiezioni di Thompson e

Ackroyd agli studi sul lavoro che si richiamano a Foucault.

La prima obiezione è che la base analitica dei suoi studi (le teorizzazioni di Foucault sul ruolo

delle istituzioni moderne come le prigioni, le scuole, gli ospedali e, anche, le fabbriche) non è

sufficientemente focalizzata sulla fabbrica e, di conseguenza, ignora le caratteristiche specifiche del

processo lavorativo capitalistico. Ciò riflette il punto di vista marxista sul primato del rapporto

struttura/sovrastruttura (anche se, in verità, Thompson non si considera un marxista in senso

stretto).

La seconda obiezione è che la ricerca di ispirazione foucaultiana “iper-soggettivizza” le

questioni relative al processo lavorativo. Ciò che è interessante notare, e che mi ha sempre sorpreso,

è il fatto che qualcuno che considera Marx come sua principale fonte di ispirazione possa accusare

qualcun altro di iper-soggettivare qualcosa. Basta leggere Marx per vedere come egli sia

particolarmente interessato ai problemi relativi alla soggettività e al loro impatto sulle relazioni

sociali. Tutto questo per dire, con un’espressione troppo verbosa, che realmente non capisco il

punto che stanno cercando di affermare quando sollevano tale critica. Non è tanto per tentare di

negare il peccato di iper-soggettivizzazione, ma piuttosto perché ho difficoltà nel riconoscere la

legittimità dell’accusa. Posto che il luogo di lavoro costituisce l’interesse primario di ricerca per

molti di noi, se riconosciamo che i rapporti sociali di produzione influenzano il mondo oltre i muri

della fabbrica, dobbiamo anche riconoscere che questi stessi rapporti sono a loro volta influenzati

da elementi che provengono da fuori (quali il genere, l’età, la razza, ecc.) che non sono

necessariamente determinate dalla relazione struttura/sovrastruttura.

Ritengo che la terza obiezione di Thompson e Ackroyd debba essere considerata molto

seriamente. Ed è cruciale specialmente perché ritengo che questa critica sia basata su una pericolosa

falsa interpretazione del tipo di analisi che qui stiamo discutendo. Come ho già accennato in

precedenza, la loro terza obiezione è che l’analisi del processo lavorativo di ispirazione foucaultiana

non riconosce la possibilità della resistenza. Secondo loro è come se fosse stata attribuita al

management la capacità di creare un’istituzione totale dalla quale non ci sia via di scampo e in cui

non ci sia alcuna possibilità per dissentire. Le persone che fanno questo genere di critica sembrano

non voler riconoscere a Foucault quello che gli è dovuto; in particolare se si considerano le idee del

suo ultimo periodo. In verità, dalla sua ultima intervista ufficiale registrata, The Ethic of Care for

the Self as a Practice of Freedom, risulta chiaramente che Foucault credeva che l’esercizio del

potere fosse impossibile senza resistenza.

Io penso che il problema che porta alcune persone a trarre erronee conclusioni circa la

posizione di Foucault sulla resistenza (inclusi i marxisti tradizionali) sia dovuto al fatto che stanno

cercando la resistenza nei posti sbagliati. Loro si aspettano di individuarla negli stessi luoghi in cui

le avremmo potute trovare in passato, ossia quando la divisione del lavoro era caratterizzata dalla

netta separazione tra concezione e esecuzione del lavoro.

Consideriamo le forme tradizionali di resistenza come lo sciopero, l’assenteismo (quale rifiuto

di presentarsi al lavoro), l’effort bargain ovvero l’accordo sul quantum di energia fisica da erogare,

di cui “l’andare piano” costituisce una componente, il lavorare secondo regolamento (work to rule),

i giochi di produzione (work-games), il furto, il sabotaggio e così via. Ora, non è che queste forme

di resistenza siano assenti o non siano importanti anche attualmente. Il problema sta nel fatto che

sotto il regime ideologico associato alla lean production, molte di queste forme di resistenza

vengono considerate irrazionali e sono normalizzate attraverso la terapia.

Margaret Thatcher tempo fa fece un commento che allora mi suonò molto bizzarro, dal

momento che proveniva da un’esponente della Destra, disse: “siamo tutti marxisti, ora”. Ho

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proposto questa riflessione per dire che, in determinate condizioni, tutti potremmo riconoscere,

anche se non ci fa piacere, la razionalità di comportamenti di resistenza come gli scioperi,

l’assenteismo o “l’andare piano”. Si tratta di leggerli nel contesto dei rapporti antagonistici di

classe. In tal senso, anche un manager (considerato come rappresentante di una classe antagonista)

potrebbe cogliere, in termini di resistenza, la razionalità di ciò che i suoi oppositori stanno facendo.

Si può immaginare una situazione di questo tipo: “noi vogliamo andare velocemente e voi volete

andare lentamente noi lo sappiamo e ciò ha senso per noi, lo riconosciamo come parte dell’effort

bargain”. Questo livello di comprensione reciproca è esplicita in circostanze in cui i managers si

confrontano con certe forme di resistenza riconoscendole come tali, ovvero come costitutive delle

regole del gioco.

Sotto un regime ideologico di commitment e di declamati interessi comuni, invece, un tale

compromesso è meno sostenibile. “Sciopero! Perché volete fare sciopero? Siamo tutti nella stessa

barca. Siamo tutti amici, ora. Siamo parte di una famiglia”. “Assenteismo! Stai mettendo nei guai i

membri del tuo team, i tuoi compagni, la tua famiglia” e così via. Oppure, prendiamo il caso del

sabotaggio. Perché mai qualcuno vorrebbe sovvertire interessi comuni? In queste circostanze, la

natura dell’effort bargain cambia, culminando nella pressione del gruppo dei pari descritta

precedentemente. Non si tratta più di andare quanto più piano possibile ma, al contrario, quanto più

veloce possibile, e se tu non lo sapessi saranno i tuoi stessi compagni di lavoro a fartelo sapere.

In definitiva, in questo nuovo contesto, il dissenso e le resistenze non sono più giudicati come

atti razionali che devono essere compresi; vengono, invece, etichettati come forme irrazionali e

inaccettabili di comportamento che devono essere completamente sradicate. Possono ancora

verificarsi, ma è negata la loro legittimità. Date queste condizioni, io credo che un’analisi

d’ispirazione foucaultiana possa permetterci di estendere la nostra ricerca delle resistenze oltre i

luoghi tradizionali.

Sottolineo nuovamente che non sto sostenendo che le forme tradizionali di resistenza siano

scomparse; esse esistono e sono ancora importanti, ma ci sono altre opportunità di resistenza. Per

cui si tratta di comprendere in quali forme si esprimono queste nuove opportunità. Una di queste,

che ritengo particolarmente rilevante, è definibile come “sorveglianza rovesciata” o “monitoraggio

rovesciato”, ovvero la capacità di usare l’informazione razionalizzata per rovesciare le posizioni.

Ad esempio, i lavoratori di un team, che da parte loro hanno rispettato l’accordo di fare

miglioramenti continui di qualità o guadagni in produttività, potrebbe permettersi di dire: “Bene, se

ora noi siamo tutti amici, cosa avete fatto per noi alla fin fine?”. Un’altra potenziale forma di

resistenza è l’“assunzione inattiva” del kaizen. Un esempio di questo tipo potrebbe essere quello di

considerare la partecipazione ai circoli di qualità come un’opportunità per “scappare” dalla linea.

In una simile direzione sono stati fatti molti studi potenzialmente interessanti sul modo in cui

i lavoratori manipolano i principi normativi delle loro organizzazioni trasformandoli in atti di

resistenza; o, in altre parole, sul modo in cui essi si appropriano praticamente della retorica e delle

pratiche della lean production per sostenere il dissenso. Le osservazioni di Commisso sulle

dinamiche interne alle UTE di Melfi, e su come i lavoratori usano i ruoli e le funzioni

contrapponendosi ad alcuni degli obiettivi dell’organizzazione, potrebbero essere considerate un

esempio di questa forma di resistenza all’incorporazione ideologica della retorica della lean

production.

Su questo stesso fronte si colloca l’uso operaio dell’ironia. Se si considera cosa si aspettano

dai lavoratori i regimi di produzione lean in termini di collaborazione e partecipazione, diventa

evidente che l’adozione di una posizione cinica espressa in discorsi ironici agisce come forma di

resistenza. In questo contesto l’ironia assume l’efficacia di strumento di ricostituzione della

soggettività dentro il luogo di lavoro, in quanto agisce come antidoto alla passiva e credula

accettazione della retorica e della pratica della lean production. Essa implica, infatti, quel

distanziamento cinico che è ben descritto nel libro di G.F. Bailey, The Kingdom of Individuals

(1993). Bailey elabora il racconto umoristico del buon soldato Švejk per sviluppare una discussione

di vasta portata, e credo anche persuasiva, su come il cinismo e l’ironia possano essere usati nelle

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organizzazioni quale barriera all’incessante retorica e pratica della normalizzazione in nome

dell’interesse comune.

Tutto questo mi porta a concludere che abbiamo bisogno non solo di stare attenti a guardare i

nuovi luoghi in cui individuare le resistenze, ma anche di sviluppare una nuova teoria della

resistenza. Credo sia proprio su questo che il gruppo calabrese può utilmente dare un contributo in

futuro, specialmente se persegue nella ricerca di quella che Sivini definisce la contraddizione tra

soggettività e normalità. Le resistenze, egli sostiene, dipendono dalla difficoltà di ricondurre le

pratiche soggettive a pratiche sociali normali. È la soggettività che determina le resistenze, anche a

prescindere dall’individuazione di chi esercita il potere. Per me questa contraddizione, in cui le

“tecnologie del sé” (come Foucault le ha definite nell’ultimo periodo della sua vita) entrano in

conflitto con le forze normalizzanti, provoca una fessura nell’armatura della lean production,

determinando uno spazio di vulnerabilità. Naturalmente, la lean production ha altre vulnerabilità,

per esempio quelle operative legate alla produzione just in time. Ma insieme e combinate a queste ci

sono quelle più ideologiche, che operano nel reame delle pratiche normative.

Per cogliere la complessità delle relazioni di potere della fabbrica snella è necessario superare

il punto di vista tradizionale. Una concezione della resistenza di tipo newtoniano è incompatibile

con l’idea foucaultiana di potere capillare. Per concezione newtoniana intendo quella secondo cui

per interpretare la resistenza bastava identificare un gruppo di persone con un set di interessi

comuni e omogenei che si scontrava - contrapponendo una forza uguale e contraria - con un altro

gruppo con un differente set di interessi comuni e omogenei. Mi sembra evidente che una tale

concezione della resistenza sia incompatibile con la complessità del potere operante sotto il modello

lean. Si tratta pertanto di elaborare nuove basi teoriche che superino le limitazioni del punto di vista

ortodosso sul potere, sul controllo e sul dominio.

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Paul Stewart

L’operaio collettivo e la produzione snella

Introduzione

Considerando il carattere sociale del controllo sul lavoro e del dominio sui lavoratori, intendo

affrontare la questione degli effetti della produzione snella sulle pratiche e le organizzazioni

collettive (istituzionalizzate o non) dei lavoratori, ovvero su quello che, nella letteratura

anglosassone è comunemente chiamato collectivism, anche se, come vedremo, il suo significato non

è univoco. Sotto il profilo metodologico adotto un punto di vista non intuitivo: la lean production è

assunta nella sua forma di apparizione, ma viene “interrogata” (in senso althusseriano) per coglierne

i significati profondi. Un esempio dello spazio pratico e teorico da indagare è fornito in questo

volume da Vitale. Nel suo lavoro, è andata indietro fino alle domande cruciali - ovvero: quando la

produzione è diventata lean production e che cosa intendiamo per lean production - a cui risponde

in un modo articolato e, penso, innovativo. Questo livello dell’analisi ci permette di focalizzare

correttamente alcuni dei problemi che i lavoratori devono quotidianamente affrontare, ma che sono

comunemente sottovalutati o ignorati nelle discussioni sulla lean production, in modo particolare

nella letteratura sulle relazioni industriali. Se, invece di guardare alla lean production solo come

un’altra forma di produzione, solo come un’altra ricetta del management per il successo

dell’azienda, non usassimo affatto il termine lean production, il problema da risolvere si porrebbe

nei termini di come spiegare le strategie di politica economica, di localizzazioni greenfield, di

relazioni tra lavoratori e management.

Queste tre questioni, o più precisamente, questi tre livelli di esperienza dei lavoratori possono

essere affrontati separatamente, ma la loro comprensione presuppone uno spazio di analisi più

vasto, che è quello dei rapporti tra lavoro e capitale nonché delle relazioni tra lavoratori. È in questo

contesto allargato che acquistano un senso le domande che ci si pone sul nuovo assetto produttivo,

sulla localizzazione in greenfield, sulla forma del potere e delle resistenze, sulle relazioni

industriali, e così via.

Il concetto chiave che permette di allargare l’angolo visuale è quello di “operaio collettivo”.

Nel primo volume del Capitale, Marx teorizza le categorie di “sussunzione formale” e “sussunzione

reale” per spiegare il cambiamento intervenuto nella natura del controllo sul lavoro con

l’industrializzazione. Nell’organizzazione della fabbrica, afferma Marx, il capitale sussume

realmente il lavoro sotto il proprio comando. Ora, come Martinez Lucio e io abbiamo sostenuto in

un recente lavoro, il concetto di operaio collettivo connota “le condizioni e circostanze in cui i

lavoratori producono plusvalore nel contesto della sussunzione reale del lavoro sotto il capitale.

Sotto queste determinate condizioni del modo di produzione capitalistico il lavoro non è mai un

processo individuale, anche se i lavoratori lo sperimentano individualmente” (Martinez Lucio e

Stewart, 1997: 53).

La tesi che intendo dimostrare è che questo concetto è di fondamentale importanza per capire

e districare quello che nella letteratura e nella pratica sindacale anglosassone è definito come

dibattito tra “individualismo e collettivismo”.

Collettivismo e individualismo

Attualmente la grandezza degli stabilimenti automobilistici in Europa, negli Stati Uniti e in

Giappone si aggira mediamente intorno a tre-quattromila addetti. Pertanto, realtà quali lo

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stabilimento della Volkswagen in Germania, con più di ventimila lavoratori, o di quelli inglesi di

Longbridge e di Dagenham con un organico complessivo di altrettanti addetti, sono considerate

uniche nel loro genere. Parte della letteratura anglosassone ritiene che la conseguenza principale del

ridimensionamento della fabbrica sia la scomparsa del collettivismo. Ciò ha portato alla

contrapposizione espressa nel dibattito teorico e pratico (nell’accademia e nel sindacato) su

individualism and collectivism, in cui una parte sostiene la fine del collettivismo e la necessità del

sindacato di orientare la propria politica verso i bisogni e le aspettative individuali, mentre un’altra

sostiene la sua persistenza nella forma del new collectivism (per una ricostruzione della questione, si

veda Bacon e Storey, 1996).

La mia tesi - condivisa da Martinez Lucio (Martinez Lucio e Stewart, 1997) - è che l’assunto

della fine del collettivismo si basa sulla non comprensione del concetto di operaio collettivo. Ed è

per questo che il problema del destino dell’operaio collettivo è stato ridotto e confuso con la

questione dell’esperienza del lavorare collettivamente; e, per di più, l’esperienza propria del

lavorare collettivamente è stata a sua volta ridotta all’esperienza del lavorare tutti insieme nello

stesso luogo. La persistenza (o meglio, la necessità per il capitalismo) dell’operaio collettivo non

riguarda, nei fatti, in alcun modo la questione della presenza o assenza di collettivismo. L’operaio

collettivo costituisce la struttura indissolubile del rapporto capitale-lavoro nel capitalismo, mentre il

collettivismo si riferisce alle varie possibilità di sviluppo delle pratiche strategiche individuali e/o

collettive dei lavoratori, sia in luoghi di lavoro aggregati sia altrove. Pertanto, occorre evitare di

confondere due momenti concettualmente diversi: il lavorare in grandi aggregati (nello stesso

spazio) e lavorare contemporaneamente (nello stesso tempo) dal lavorare con una stessa identità

sociale, quella, appunto, di lavoratore salariato. Il collettivismo non richiede che il lavoro sia

spazialmente e temporalmente combinato.

Ci sono vari elementi da considerare per comprendere l’azione collettiva nell’approccio

teorico che pone al centro il concetto di operaio collettivo. Un dato chiave da ricordare è che il

lavoro salariato è definito in rapporto al processo di valorizzazione; ciò significa che la funzione di

un individuo nel processo lavorativo (produzione concreta di beni) può essere, per così dire,

completamente rimossa dal punto di assemblaggio in cui è collocata. Altrimenti è impossibile

comprendere il collettivismo, comunque lo si intenda: lavoratori che lavorano separatamente, che

persino dove lavorano insieme costituiscono gruppi sociali relativamente piccoli, non possono

essere considerati come costituenti alcuna forma di identità sociale che possa essere colta in termini

di collettivismo.

Il collettivismo assume varie forme che dipendono dai rapporti sociali dell’operaio collettivo.

Come sostiene Stephenson (2000), nel nuovo assetto produttivo indotto dalla lean production, il

fatto che i lavoratori possano venire situazionalmente frammentati al e nel lavoro non significa che

siano frammentati anche socialmente o siano meno impegnati in quanto lavoratori. Ciò è dimostrato

dalla prassi quotidiana di lavoratori che, pur lavorando in luoghi e tempi diversi, continuano a

mostrate un senso di forte radicamento nell’esperienza di classe, sia dentro che fuori il contesto di

lavoro. Ma è anche individuabile nelle stesse pratiche manageriali. Numerose indagini hanno

evidenziato come, al di là della dispersione prodotta dal processo di deverticalizzazione e di

localizzazione in greenfield, esistano tutta una gamma di microstrategie messe in atto dal

management allo scopo di frammentare e, quindi, limitare il formarsi di qualsiasi tipo di azione

collettiva nei luoghi di lavoro. Ad esempio, come rileva Pulignano, la direzione aziendale evita

l’aggregazione nei team di quei lavoratori che sono già coinvolti in processi di socializzazione

all’esterno. D’altra parte, le ricerche condotte da Stephenson (2000) e da Vitale mostrano i tentativi

delle nuove pratiche manageriali di agire sul ‘fuori’, rappresentato dalla cosiddetta ‘comunità

locale’, per prevenire il sorgere di simili azioni.

L’implementazione di politiche manageriali volte a indebolire la forza operaia nei luoghi di

lavoro ha condotto alla creazione inaspettata di nuove forme di antagonismo (Danford, 2000); per

questo le politiche manageriali sono tese a produrre coinvolgimento nel processo di valorizzazione

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non solo in fabbrica, ma anche nella comunità in quanto spazio di socializzazione e di potenziale ri-

costituzione dell’operaio collettivo.

Tuttavia, anche a questo livello - soprattutto nei contesti greenfield, dove il tentativo in atto è

di governare la vita sociale, personale e lavorativa degli operai - esistono dei limiti all’esercizio

manageriale del controllo sociale. Questa affermazione è di estrema importanza ai fini della nostra

analisi: le azioni e le intenzioni del management veicolano sempre e dovunque contraddizioni e

conflitti (non da ultimo, tra gli stessi managers). Il sistema è sempre investito da eventi imprevisti e

da calamità sociali e individuali. Ad esempio, come ha dimostrato Stephenson (2000), la recente

alleanza tra la Nissan e la Renault in Gran Bretagna ha generato molte preoccupazioni tra i

lavoratori per la sicurezza del posto di lavoro. Anche se in futuro queste paure dovessero rivelarsi

infondate, è da tener presente che attualmente esse concorrono a minare le basi sulle quali si fonda

la fiducia tra le parti sociali. D’altra parte, non si può negare che la reputazione della Nissan è stata

profondamente colpita dal sopraggiunto controllo azionario della Renault nel 1999. Ma oltre a

questi eventi straordinari, ci sono le contraddizioni quotidiane: basta pensare all’esperienza

derivante dallo stress fisico e mentale che i sistemi organizzativi snelli comportano, nonostante le -

o forse grazie alle - certezze degli evangelizzatori della lean production.

L’analisi fin qui svolta è servita ad evidenziare alcuni degli elementi che permettono di

definire l’operaio collettivo e di cogliere la possibilità della persistenza di azioni collettive

(spontanee o organizzate dai sindacati) al di là dell’isolamento pratico e situazionale dei lavoratori

nel contesto della lean production, dove la pressione del management - che uno dei miei intervistati

definisce come “terrore del lavoro” – spesso conduce all’estraneazione sociale e individuale, non

dissimile dall’esperienza alienante del cosiddetto lavoro tradizionale. In questo contesto, in cui

hanno luogo conflitti e opposizioni, l’esperienza di un duro lavoro in un duro panorama industriale

è qualcosa che ogni lavoratore vive in comune con altri lavoratori. Azioni collettive possono,

quindi, essere messe in atto se i sindacati si fanno carico, ad esempio, dei bisogni delle lavoratrici

quando fanno turni di lavoro anti-sociali, o dei problemi dei lavoratori infortunati che sempre più le

logiche lean tendono ad escludere dal lavoro, e così via.

Su questa base è possibile riflettere sul ruolo del sindacato, e su come nuovi luoghi e forme di

resistenza possono rappresentare il focus per la mobilitazione sociale. Nell’articolo già citato,

centrato sul new collectivism nel contesto della lean production, io e Martinez Lucio abbiamo

individuato le conseguenze della persistenza del collettivismo - cogliendole sia nelle pratiche

informali dell’operaio collettivo sia in quelle sindacali - e evidenziato come esse si fondino sulla

natura del cosiddetto processo lavorativo snello. Anche se abbiamo evitato una spiegazione

dell’architettura della fabbrica snella e dello scopo concreto dell’operaio collettivo, ciononostante

abbiamo illustrato teoreticamente, e con una quantità di esempi empirici significativi, le diverse

logiche strategiche immanenti alle forme di resistenza in fabbrica e nelle lotte sociali. Queste ultime

sono immediatamente identificabili nelle azioni dei lavoratori postali, i quali, pur essendo

socialmente isolati e in una situazione di assoluta frammentazione, hanno respinto il lavoro in team

e altri strumenti organizzativi chiave dell’arsenale della lean production. Lo stesso successo hanno

avuto le lotte di molti lavoratori nel settore pubblico, e persino nel settore automobilistico, come

dimostra il caso della GM-UK. Questi successi riguardano quella stessa lean production che sembra

aver fatto piazza pulita di ogni resistenza, quella che a molti sembra essere la formula trionfante. La

risposta che io e Martinez Lucio abbiamo dato a questa semplificazione è che i nuovi modelli

produttivi nell’industria automobilistica sono particolarmente complessi, per cui devono essere

concepiti come cose diverse in luoghi diversi per referenti culturali diversi; ma soprattutto, che

l’elemento distintivo chiave della lean production è il fatto di essere un preciso assunto ideologico

nell’arsenale dell’ avanguardia dei quadri manageriali.

L’egemonia della produzione snella e l’operaio collettivo

Il concetto di new collectivism è stato prodotto per definire la natura e il contenuto delle

pratiche collettive in questo momento storico, caratterizzato dalla crescita dell’ideologia della lean

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production. Ad esso sono stati attribuiti molteplici significati nella letteratura britannica, ma ha

raggiunto l’espressione più compiuta nel lavoro di Bacon e Storey (1993a; 1996). La loro tesi è che

- per varie ragioni, in parte connesse ai mutamenti nella riproduzione sociale, ma anche ai

cambiamenti nel carattere del lavoro e nel processo lavorativo - i lavoratori non sono più interessati

a porre i loro problemi nelle forme tradizionali della rappresentanza. I loro interessi sarebbero

focalizzati sui servizi che l’azienda può offrire e sulle priorità individuali; per cui quello che i

sindacati dovrebbero fare è adattarsi a questa nuova realtà.

Ora, come dimostrano le ricerche empiriche, l’esperienza dei lavoratori nel processo

lavorativo non è senza conseguenze sociali e politiche: anche i nuovi regimi generano quelle che

possono essere viste come richieste tradizionali da parte operaia. In altre parole, non è vero che un

nuovo regime non genera problemi comuni riconducibili alla distribuzione asimmetrica di potere e

risorse. I sindacati che credono nella retorica del rinnovamento nel nuovo mondo

dell’individualismo, dimenticano la coesistenza del vecchio mondo delle iniquità sociali che

richiedono riconoscimento su un piano più esteso di quello permesso dall’individualismo.

La questione chiave per capire il presente sta in come intendiamo il movimento operaio del

passato, poiché l’egemonia culturale della lean production sta producendo dei miti. Quando mai i

lavoratori hanno lavorato insieme nello stesso modo? Che mito è quello che i lavoratori fossero

sempre gli stessi? Riprendiamo l’esempio dei lavoratori postali che sembrano lavorare isolati, ma

che in realtà lavorano collettivamente. Poche occupazioni della classe operaia sono più solitarie,

eppure i lavoratori postali britannici hanno lottato con successo respingendo la privatizzazione, il

lavoro in team, la lean production. E ciò sebbene le loro esperienze lavorative non possano essere

omologate a quelle delle grandi fabbriche, tranne che in alcune aree del processo di produzione

come gli uffici di smistamento. Quello che esiste è una comune configurazione del lavoro e del

processo lavorativo che viene esperito individualmente; ma è proprio questa esperienza che porta

alla comprensione comune della natura del lavoro e della possibilità implicita di azione collettiva.

Questo esempio permette di chiarire come sia possibile la persistenza di pratiche collettive

anche in situazioni di frammentazione del lavoro. È vero che gli operai non lavorano più insieme

negli stessi grandi aggregati come facevano in passato, ma ciò non vuol dire che il lavoro non abbia

alcun senso di identità comune. Non ci sarebbe bisogno di asserire queste verità evidenti se tra gli

studiosi e nel sindacato non ci fosse questa tensione sul nesso tra l’individuo e il collettivo.

Quello che i sindacati britannici stanno facendo, e in modo crescente, è assumere l’ideologia

della lean production dando spazio al nuovo momento egemonico. In questo modo si perde la

possibilità di cogliere le contraddizioni emergenti. Per fare un esempio, una recente indagine di

Yates (1997) sull’industria automobilistica australiana evidenzia come la produzione snella abbia

rinforzato e rifocalizzato contraddizioni già esistenti nell’operaio collettivo. La tesi da lei sostenuta

è che la lean production ha radicalizzato, riconfigurandole, differenze di genere, differenze etniche,

differenze in termini di salute e benessere. A queste stesse conclusioni è pervenuta una ricerca

internazionale nel settore automobilistico da me condotta con alcuni ricercatori americani sullo

studio dei problemi di età, salute e sicurezza nel contesto più ampio della qualità della vita

lavorativa. I risultati della ricerca (Stewart, Lewchuk, Yates, 1998) dimostrano che la lean

production sta producendo una sorta di devastazione delle vite private e sociali di uomini e donne,

in un modo che sarebbe stato impensabile trenta o quaranta anni fa. Abbiamo domandato alle

persone quanto a lungo pensano di poter continuare nei loro lavori attuali e la maggioranza si dice

pessimistica sulla possibilità di farlo fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Mentre fino alla

metà degli anni 70 era piuttosto tipico che i lavoratori andassero in pensione dopo aver completato

la loro vita lavorativa nelle fabbriche automobilistiche, ora ciò sembra essere diventato un

problema. La stessa cosa può dirsi sui sistemi di turnazione con i loro effetti sulla vita personale,

familiare e relazionale nei luoghi di insediamento greenfield. L’indagine di Vitale su Melfi ne è una

dimostrazione.

In definitiva, la lean production esaspera tendenze già esistenti in passato e ne produce di

nuove. Queste contraddizioni possono aprire nuovi spazi di azione del sindacato. Se la lean

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production tende a determinare le condizioni di esistenza dell’operaio collettivo dentro e fuori la

fabbrica, l’operaio collettivo deve essere compreso nelle sue diverse dimensioni in modo da rendere

possibile ai sindacati di mobilitarsi, o rimobilitarsi, anche su una serie di questioni che magari, in

passato, non sono state oggetto di particolari attenzione. Problemi etnici e di età, genere, salute,

turnazione, previdenza, benessere e così via, insomma, problemi che concernono la vita dei

lavoratori - che vengono esperiti individualmente ma sono collettivi - possono diventare luoghi di

lotta, proprio perché la lean production li sta producendo come tali.

Conclusioni

Posti in evidenza i termini del dibattito concernenti le implicazioni della lean production sulle

pratiche e le organizzazioni collettive dei lavoratori, la conclusione è che la comprensione del

problema presuppone un tipo di analisi che si articola progressivamente dall’operaio collettivo alla

forma e al contenuto di quello che è stato definito il new collettivism. Come è stato sottolineato

nell’iter di questo lavoro, Bacon e Storey (1993a; 1993b; 1996) interpretano il new collectivism

riducendone lo spazio di azione per farlo coincidere con l’orientamento strategico di alcuni

sindacati verso l’individualismo; dimenticando che, come ha fatto notare Kelly (1996), l’esistenza e

l’efficacia dei sindacati è subordinata alla loro reale capacità di azione sociale. Questa tesi, che non

è solo di Bacon e Storey ma è sostenuta da più parti, è il risultato dell’influenza esercitata

dall’ideologia della lean production, che sta condizionando anche le scelte politiche di alcuni

sindacati influenti. Dal punto di vista degli effetti pratici del new collectivism, il problema sta nel

fatto la credenza che pone l’individualismo come l’aspetto sul quale soffermare l’attenzione teorico

e pratica, occulta l’esistenza degli elementi contraddittori che stanno alla base del successo del

management.

Al di là dell’ideologia restano, comunque, i problemi concreti di gestione del processo

lavorativo e alcuni fallimenti significativi del management messi in evidenza dalle crisi esperite dai

lavoratori nella loro vita lavorativa. Con la lean production è stato introdotto un sistema di

regolazione che presenta contraddizioni intrinseche proprio in quanto il management intende

guidare le persone e vuole evitare i conflitti collettivi, individualizzando i bisogni e le aspettative

dei lavoratori. Ma c’è una realtà che sfugge al controllo: le persone hanno una propria identità, i

propri gruppi di pari, il proprio posto di lavoro ed altre associazioni che rafforzano la loro

esperienza. Il management cerca di governare il nuovo regime che ha creato, ma esso ha una vita

indipendente che crea contraddizioni. Ed è su queste contraddizioni che si sviluppano le resistenze.

È vero, come sostiene Sewell in questo volume, che manca ancora una teoria delle resistenze.

Ma anche su questo fronte il dibattito sul new collectivism apre uno spazio concettuale che sembra

sfuggire al tipo di analisi proposta dai cosiddetti foucaultiani. Nel tentativo di cogliere la specificità

delle relazioni di potere in fabbrica, dimenticano che la resistenza non è riducibile ai microconflitti

quotidiani in fabbrica. Essa può essere non organizzata o organizzata, e può estendersi sullo spazio

sociale complessivo.

La resistenza operaia non organizzata non è stata teoricamente ed empiricamente esaminata

dalla letteratura al punto da poter dedurre conclusioni definitive. Può esprimersi sia in una forma

non articolata, sia in forma dimostrativa; e può manifestarsi come azione individuale, di cui

l’assenteismo è uno degli indicatori, o dar luogo ad azioni collettive, come nella forma più

tradizionale del sabotaggio. Insomma, la resistenza, nel senso di comportamento “inquieto”

derivante da problemi nel rapporto con il processo lavorativo, assume una varietà di forme

peculiari.

Per quanto riguarda la resistenza organizzata in modo formale (sindacati), la sua forma più

diffusa sembra ancora essere lo sciopero convenzionale; ma c’è da sottolineare che la nozione stessa

di resistenza è deformata dalla visione sindacale di cosa la resistenza potrebbe essere. Il punto è,

comunque, che la resistenza dell’operaio collettivo non si manifesta necessariamente attraverso lo

sciopero e, per di più, non si esprime sempre attraverso un’azione collettiva intesa in termini

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convenzionali e nelle forme organizzative istituzionalizzate. Ed è su questo che il dibattito sul new

collectivism può aprire nuove prospettive teorico-pratiche.

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