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Scavi a Veleia L’archeologia a Parma tra Settecento e Ottocento Anna Maria Riccomini ER MUSEI E TERRITORIO Materiali e Ricerche ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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Scavi a Veleia

L’archeologia a Parmatra Settecento e Ottocento

Anna Maria Riccomini

ER MUSEI E TERRITORIO

Materialie RicercheISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALIDELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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6 ER MUSEI E TERRITORIO

Materialie RicercheISTITUTO PER I BENI ARTISTICI

CULTURALI E NATURALI

DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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© 2005 Materiali e RicercheIstituto per i beni artistici culturali e naturalidella Regione Emilia-RomagnaVia Galliera 21 - 40121 Bolognawww.ibc.regione.emilia-romagna.it

© 2005 by CLUEBCooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna40126 Bologna - Via Marsala 31Tel. 051 220736 - Fax 051 237758www.clueb.com

ISBN 88-491-2599-2

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Scavi a Veleia

L’archeologia a Parmatra Settecento e Ottocento

Anna Maria Riccomini

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2005da LIPE - S. Giovanni in Persiceto (BO)

Riccomini, Anna Maria

Scavi a Veleia. L’archeologia a Parma tra Settecento e Ottocento / Anna Maria Riccomini. – Bologna :CLUEB, 2005

223 p. ; ill. ; 24 cm

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INDICE

PresentazioniEzio Raimondi ..................................................................................................... 6Maria Bernabò Brea ............................................................................................ 7

Premessa .............................................................................................................. 9

Capitolo I. Costa, Caylus, Paciaudi e gli scavi di Veleia ....................................... 131. Le campagne del 1760-1763 e la direzione del canonico Costa ............... 132. Gli scavi di Veleia nella corrispondenza Costa-Caylus ............................. 203. Gli scavi di Veleia nella corrispondenza Paciaudi-Caylus ........................ 294. Le campagne del 1776-1781: gli ultimi scavi settecenteschi a Veleia ....... 58

Capitolo II. L’edizione degli scavi I: i tentativi del Costa e del Paciaudi ............. 63

Capitolo III. L’edizione degli scavi II: “Vogheristi e Antolinisti” e l’opera delDe Lama ......................................................................................... 87

1. Il nuovo antiquario ducale: Pietro De Lama ............................................. 872. Le antichità di Veleia all’epoca della dominazione francese .................... 923. 1816: la riapertura degli scavi .................................................................... 984. Gli studi architettonici su Veleia: Luigi Voghera e Giovanni Antonio

Antolini ...................................................................................................... 1114.1 Il Taccuino di viaggio dell’Antolini (1818) ......................................... 136

5. Pietro De Lama e le antichità veleiati ........................................................ 1406. Il nuovo Museo di Antichità ...................................................................... 1457. La fortuna veleiate di un mosaico parmense ............................................. 160

Capitolo IV. Le antichità di Veleia nei diari dei viaggiatori del Settecento e delprimo Ottocento .............................................................................. 173

Appendice documentaria ............................................................................... 189

Indice dei nomi .................................................................................................... 209

Abbreviazioni bibliografiche ............................................................................... 213

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Chi visita oggi un museo raramente è in grado di capire come le ordinate col-lezioni di oggetti e materiali siano frutto di una serie complessa di scelte e de-cisioni individuali, di relazioni tra persone, di casualità, di vittorie e sconfitte.In fondo è una storia a più voci, un intrecciarsi vitale di molte storie, che han-no fatto sì che la ricchezza di un passato più o meno recente depositasse nelteatro o nel magazzino della nostra memoria quegli oggetti, quelle forme di vi-ta, come testimoni e garanti di una tramando culturale che ci ammaestra e cimette a confronto. Un museo è sempre una creatura nata nel tempo, un luogodell’esperienza e del dialogo.

Un esempio di questo processo ci viene dal volume che proponiamo nellacollana dell’Istituto Beni Culturali: una indagine minuziosa e sensibile chescandaglia con sottile eleganza erudita la storia di una istituzione prestigiosacome il Museo Archeologico di Parma nel suo farsi in rapporto ai materiali eai reperti del municipium romano di Veleia, rinvenuti in ripetute e pazienticampagne di scavo, cominciando dalla tabula alimentaria di Traiano, fortuno-samente scoperta nel 1747.

Le alterne fortune di quella che la pubblicistica settecentesca definivacon convinto fervore la “Pompei del Nord” si intrecciano con le opzioniconservative dei reperti, con le idee guida sull’archeologia e l’antiquaria,con le personalità e le idiosincrasie dei protagonisti di questa pacifica av-ventura, dal padre teatino Paolo Maria Paciaudi antiquario ducale al suo al-lievo Pietro De Lama, sullo sfondo della attenta politica culturale del Duca-to, da Filippo di Borbone alla duchessa Maria Luigia “donna e sovrana”.

E intanto è la stessa nozione di museo che muta e si evolve nei suoi conte-nuti e nella sua funzione artistica e civile, tra gusto neoclassico e illuminismo.Anni gloriosi di un’onesta, attiva Italia preunitaria.

Si compone così un affresco per molti versi sorprendente e affascinanteche ci restituisce, nel gioco composito di uomini, cose e idee, una visionepiù esatta e problematica del passato e delle sue interne tensioni. E il letto-re di oggi, pensiamo, saprà trarne una lezione anche per il proprio presente.Il nostro sguardo ha bisogno di una memoria critica, che sappia interpreta-re il mondo delle cose e ritrovarvi il loro mobile e molteplice volto umano.

EZIO RAIMONDIPresidente dell’Istituto per i Beni Artistici,

Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna

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Alle origini del Museo di Parma – uno dei più antichi d’Italia – c’è l’indagi-ne archeologica sulla città romana di Veleia, la piccola “Pompei” di Filippodi Borbone. È un’indagine che ha sempre suscitato grande interesse tra glistudiosi e tra il pubblico, non solo per la sua obiettiva importanza storica,ma anche per altre ragioni che, nel tempo, hanno contribuito a tener desta lacuriosità, non ultimo un certo alone di “mistero” su quella ricca e antica cit-tà nascosta in fondo ad una valle dell’Appennino.

Il libro di Anna Maria Riccomini racconta appunto le vicende di quellaesplorazione, e di conseguenza racconta le vicende della nascita del Museo diParma, fondato nel 1760 per accogliere gli oggetti rinvenuti negli scavi.

Guardandolo dal mio particolare punto di vista, dunque, il libro è ancheuna buona occasione per dare visibilità al Museo, del quale vale la pena dirender note non solo le collezioni, ma anche la storia, così lunga e così intrec-ciata con le vicende della storia e della cultura del nostro Paese.

E poiché la fonte principale dell’Autrice è naturalmente l’archivio delMuseo di Parma, esplorato con cura meticolosa, il volume viene a dar voceall’archivio stesso, non meno importante delle collezioni esposte, ma inevi-tabilmente inaccessibile al grande pubblico.

La narrazione, si è detto, è la storia fedele di come si sono svolte le pri-me indagini a Veleia, e su un altro piano è una storia emblematica del mo-do in cui si svolgeva tra ’700 e ’800 la ricerca archeologica. Dalla descrizio-ne degli atti e dalla citazione puntuale delle parole dei protagonisti esce,tra l’altro, un ritratto oggettivo, senza antistorici giudizi a posteriori, delmodo di lavorare e di sentire degli archeologi del tempo, non solo sul pia-no professionale – che guardiamo ormai in prospettiva storica – ma anchesul piano umano. E quest’ultimo, nel bene e nel male, non è poi così lonta-no da noi! Mutatis mutandis, possiamo capire perfettamente sia il visceralesenso d’appartenenza del De Lama al suo Museo, che amava “qual figlio”,sia – ahimè – le rivalità tra studiosi, che finirono per ostacolare qualsiasiprogetto di pubblicazione, nonostante le sollecitazioni che provenivanodal governo ducale.

Altra materia di riflessione – ancora una volta nel bene e nel male, ma co-munque attualissima e per certi versi un po’ amara – il libro ce la fornisce ap-punto a proposito dell’attenzione in cui il governo considerava e seguiva quel-l’importante ricerca archeologica, vedendola (e usandola) come mezzo di pro-mozione culturale del Ducato. E nonostante la delusione della mancata pub-

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blicazione, l’operazione “di immagine” sembra in effetti riuscita, se tra le pagi-ne dei diari di viaggio delle persone di cultura che da ogni paese d’Europa at-traversavano Parma gli oggetti del Museo e le “ruine” di Veleia sono ricordaticome monumenti degni di memoria, capaci di far percepire il senso o almenodi evocare l’emozione dell’antichità.

MARIA BERNABÒ BREADirettore del Museo

Archeologico Nazionale di Parma

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Premessa

Intorno alla metà del Settecento la fortunata scoperta della Tabula alimenta-ria di Traiano aveva improvvisamente fatto conoscere all’intero mondo anti-quario l’esistenza del piccolo municipium romano di Veleia, sulle montagnedel piacentino, e di lì a qualche anno avrebbe portato alla fondazione, nellacapitale del ducato, di uno dei primi musei archeologici aperti al pubblico,destinato ad ospitare i reperti provenienti dagli scavi veleiati. Le vicendelegate alla scoperta della Tabula e alla nascita del Museo di Antichità diParma, ufficialmente inaugurato nel 1760, sono state da tempo indagate;ancora in gran parte da scrivere rimanevano invece la storia delle prime cam-pagne di scavo, comprese tra la seconda metà del XVIII secolo e i primidecenni di quello successivo e, più in generale, le tappe del lento maturarsidi una nuova sensibilità verso l’oggetto antico e del formarsi, in seno al duca-to, di un importante centro di studi antiquari, presto riconosciuto come unodei più vitali dell’Italia settentrionale.

Scopo del presente lavoro è di colmare, almeno in parte, questa lacuna. Ilperiodo cronologico preso in esame (1760-1825) intende coprire l’interoperiodo di scavi settecenteschi, con le due campagne del 1760-1765 e del1776-1781 e si spinge fino ai primi anni del regno di Maria Luigia d’Austria,che, dopo un lungo periodo di silenzio e persino di abbandono delle indagi-ni archeologiche, segnano una vera e propria ripresa di iniziative culturali equasi una nuova “riscoperta” delle antichità veleiati.

Sono questi gli anni dominati dalle figure scientifiche dei due primi diret-tori del Museo di Antichità, il padre teatino Paolo Maria Paciaudi, illustrestudioso giunto a Parma ormai alla fine di una gloriosa carriera che lo avevavisto al fianco dei principali antiquari del tempo e il giovane allievo PietroDe Lama, personaggio oggi assai meno noto, ma molto apprezzato dai suoicontemporanei per la cura e la competenza scientifica con cui per almenoquarant’anni promosse e tutelò le attività archeologiche del ducato.

Preliminare a questo lavoro di ricostruzione storica di oltre sei decenni diintense ricerche archeologiche in quella che all’epoca veniva chiamata la

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“Pompei del Nord” è stato, naturalmente, un meticoloso spoglio della vastis-sima documentazione d’archivio relativa alle varie campagne di scavo con-dotte a Veleia e in altre aree del ducato, alle misure di tutela e ai progetti dimusealizzazione avviati fin dalla metà del XVIII secolo, agli articolati scam-bi di opinione con i maggiori antiquari del tempo, documentati dai ricchicarteggi del Paciaudi e del De Lama, materiale conservato finora in granparte inedito presso diversi fondi archivistici emiliani (in particolare aParma, nell’Archivio del Museo Archeologico, alla Biblioteca Palatina,all’Archivio di Stato e a Piacenza, nella Biblioteca Comunale) e al quale que-sto studio ha inteso ridare voce.

Nel primo capitolo, interamente dedicato agli scavi condotti nelSettecento a Veleia, è stato approfondito il ruolo, davvero fondamentale, for-nito alle ricerche dal conte di Caylus: il carteggio (in gran parte inedito) conil primo direttore degli scavi, il canonico piacentino Antonio Costa e quindiquello con il Paciaudi, pubblicato nel corso del XIX secolo, hanno permes-so di evidenziare la posizione di rilievo avuta da Veleia nell’ambito dellericerche condotte dal conte sulle tecniche artistiche e sulle produzioni arti-gianali degli Antichi. Per diversi anni Veleia divenne un vero e proprio labo-ratorio d’indagine archeologica e l’invio a Parigi di materiale veleiate (coccidi ceramica, vetri, frammenti di bronzo, ossa e altro materiale “minore”) for-nirà al celebre antiquario la principale materia prima su cui condurre i suoicuriosi esperimenti. Le metodologie di ricerca professate dal Caylus portaro-no aria nuova nel panorama antiquario del ducato, tanto che già alla finedella prima campagna di scavi si registra una nuova attenzione per il mate-riale “comune” e, in generale, per gli aspetti produttivi e artigianali docu-mentati dai reperti, ma sarà soprattutto negli allestimenti del Museo diAntichità di Parma, voluti dal De Lama (ed esaminati nel terzo capitolo), chegli insegnamenti del Caylus sembreranno dare i loro frutti migliori.

La corrispondenza tra il Caylus e il Paciaudi rivela tutta la difficoltàincontrata dal teatino ad accettare i metodi e le finalità di indagine seguitidall’amico e bene si inquadrano nel dibattito scientifico che proprio in que-sti anni, ad opera dello stesso Caylus e, soprattutto del Winckelmann, portòalla nascita della moderna scienza archeologica.

Le divergenze di opinione sui modi di interpretare lo studio dell’antico esulle finalità dell’indagine sul campo si inasprirono a proposito della pubbli-cazione dello scavo veleiate, operazione già tentata, senza successo, dalCosta, e che impegnerà a lungo il Paciaudi. Fin dall’epoca della scopertadella Tabula alimentaria il mondo scientifico era rimasto in attesa di conosce-re i risultati delle indagini promosse nel ducato, ma anche gli sforzi delPaciaudi non dettero il risultato sperato: i numerosi appunti preparatori peruna imponente (e mai pubblicata) opera di edizione degli scavi, conservati

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ancora manoscritti in diversi fondi archivistici parmigiani e discussi nelsecondo capitolo, sono dunque una testimonianza preziosa per risalire aimodelli di pubblicazione scientifica (che un appassionato bibliofilo quale erail Paciaudi non poteva di certo trascurare) e seguire le fasi di avanzamento diquella che, almeno nelle intenzioni dell’autore, doveva presentarsi come unadelle principali imprese editoriali e delle più moderne documentazioniarcheologiche del suo tempo.

La complessa opera di catalogazione e di riallestimento del materialearcheologico parmense nella nuova sede che ancora ospita il Museo è argo-mento del terzo capitolo di quest’opera. In questo stesso capitolo vieneanche esaminata, alla luce della documentazione d’archivio e delle pubblica-zioni archeologiche dell’epoca, il ruolo di primo piano che Veleia torna a gio-care nell’ambito degli studi archeologici del primo Ottocento, grazie soprat-tutto all’illuminata politica culturale promossa a Parma dalla nuova Sovrana.Gli scavi di Veleia diventano ora un vero e proprio punto di riferimento perla nascente archeologia della Cisalpina, e non è un caso che gli scopritori diimportanti centri romani come Brescia, Forum Iulii o Villa del Foro, pressoAlessandria, si siano fatti le ossa proprio sulle rovine veleiati. Ma Veleia fuper molti studiosi anche un valido modello architettonico e urbanistico “pro-vinciale”, il più rappresentativo e meglio esplorato centro antico dellaCisalpina e dunque una fonte ideale da cui attingere le formule del linguag-gio classico da riproporre nelle architetture “all’antica” dei cantieri nord-ita-liani: il capitolo analizza anche gli importanti contributi forniti alla conoscen-za di Veleia da alcuni dei più celebri nomi dell’architettura di primoOttocento, come Luigi Voghera (che al Museo Archeologico di Parma halasciato alcune tavole acquerellate e altro materiale, destinati ad un’opera,mai pubblicata, su Veleia) o Giovanni Antolini, primo editore degli scaviveleiati.

Il quarto e ultimo capitolo presenta una rassegna delle impressioni lascia-te dalle rovine veleiati e dalle raccolte archeologiche del ducato nei tantiviaggiatori, soprattutto stranieri, in visita a Parma tra la fine del Settecento ei primi decenni del secolo successivo. Oltre a fornire un’interessante panora-mica sulle curiosità, le conoscenze, i gusti artistici di alcuni dei principaliprotagonisti del Grand Tour, questa raccolta di fonti permette di meglio valu-tare “dall’esterno” e da un punto di vista non tecnico il contributo fornitodalle indagini veleiati e, più in generale, dalle iniziative archeologiche par-mensi allo studio dell’antico nell’Italia di età neoclassica.

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Questo studio è frutto di una revisione della mia tesi di dottorato in Archeologia Classicadiscussa presso l’Università di Pisa nel maggio del 2004.

Desidero innanzitutto esprimere tutta la mia riconoscenza a Lucia Faedo, che mi hacostantemente seguito, con preziosi consigli, in ogni fase di questo lavoro. Utili suggerimen-ti per la revisione della tesi mi sono venuti anche da Maria Grazia Marzi, cui desidero espri-mere il mio ringraziamento.

Un sentito ringraziamento va anche a Maria Bernabò Brea, direttrice del MuseoArcheologico Nazionale di Parma, per la completa disponibilità con cui ha sempre agevola-to le mie ricerche, a Manuela Catarsi Dall’Aglio, Roberta Conversi, Anna Rita Marchi per lasollecita assistenza fornitami durante lo studio del materiale del Museo e in occasione dellacampagna fotografica.

Ancora una volta sono grata a Giovanna Larini per avermi in ogni modo aiutata nella con-sultazione dei documenti d’archivio.

Questo lavoro è stato anche facilitato dalla cortese e valida collaborazione di MariaGiovanna Arrigoni Bertini (Università di Parma), Maria Luisa Corsi (Università di Pavia),Laura De Luca (Galleria d’Arte Moderna, Torino), Fulvia Donati (Università di Pisa),Isabella Fabbri (IBC Emilia-Romagna), Leonardo Farinelli (Biblioteca Palatina di Parma),Davide Gasparotto (Soprintendenza PSAD di Parma e Piacenza), Antonella Imolesi(Biblioteca Comunale, Forlì), Guglielma Manfredi (Accademia di Belle Arti di Parma),Marina Micozzi (Università della Tuscia), Maria Penagini Voghera (Archivio famigliaVoghera, Verona), Luciano Roncai (Politecnico di Milano), Giustina Scarola (BibliotecaPalatina di Parma).

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Capitolo I

Costa, Caylus, Paciaudi e gli scavi di Veleia

1. Le campagne del 1760-1763 e la direzione del canonico Costa

«Personne ici n’a la moindre connoissance des découvertes de Velleja. Met-tez-nous au fait, et dites-nous en en gros l’histoire, sans vous donner la pei-ne d’un menu détail» scriveva da Roma nel luglio del 1760 il padre teatinoPaolo Maria Paciaudi al conte di Caylus1. Aperti ufficialmente il 14 apriledi quello stesso anno per volere del duca Filippo di Borbone2, gli scavi del-l’antica Veleia rimasero dunque, per i primi mesi di indagini, del tutto sco-nosciuti agli ambienti antiquari romani, mentre da Parigi il Caylus avevagià da tempo potuto informare l’amico sulle novità veleiati e stuzzicare cosìla sua curiosità di studioso, tanto che il Paciaudi non mancò di suggerirgliun’aggiunta nel quarto volume del Recueil, all’epoca ancora in preparazio-ne3. Il teatino era ben lontano dall’immaginare che di lì a un anno avrebbeottenuto la nomina di antiquario e bibliotecario reale di don Filippo e chepresto si sarebbe trovato a dirigere proprio quegli scavi di cui allora igno-rava persino l’esistenza; sembrava invece convinto che fosse intenzione del-l’Infante affidare all’illustre antiquario francese il compito e l’onore di ren-dere pubblici i risultati delle indagini veleiati: «on vous priera d’en donnerl’explication et vous ferez l’honneur à l’Infant, qui ne saurait avoir un In-terprète plus savant, et plus recomandable», scriverà infatti al conte nelsettembre del 1760, dopo aver conosciuto le opinioni in proposito del balì

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1 Sérieys 1802, p. 164, lettera del 22 luglio 1760.2 Montevecchi 1934, p. 557. A Veleia i lavori dovettero però iniziare fin dal mese prece-

dente, e infatti già a partire dall’11 marzo 1760 si cominciano a registrare le spese relativeagli scavi (Masnovo 1913, p. 101).

3 Il 18 giugno del 1760 il Paciaudi scriveva infatti al Caylus, in risposta alle sue preceden-ti informazioni sugli scavi veleiati: «Je me réjoui de la fouille de Velleia, et je me réserve devoir un jour dans votre quatrième volume ces découvertes nouvelles» (Sérieys 1802, p. 151).Il quarto volume del Recueil venne pubblicato nel 1761.

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di Breteuil, ambasciatore dei Cavalieri di Malta a Roma, amico del Caylus eben inserito nella corte parmense4. Non conosciamo le vere intenzioni delduca, ma è certo che non si lasciò sfuggire l’opportunità di avere una con-sulenza scientifica tanto apprezzata e che avrebbe dato lustro e garantitosuccesso all’impresa. La campagna di scavo venne in un primo momentocondotta sotto la guida del cavaliere Ambrogio Martelli, tesoriere generaledi Piacenza, e solo alcuni mesi più tardi la responsabilità scientifica delloscavo passerà nelle mani del conte canonico Antonio Costa, un erudito pia-centino che nell’autunno del 1760 otterrà la tanto sospirata nomina di R.Prefetto e Direttore dei Musei del Ducato: un riconoscimento obbligatoper l’appassionato cultore di antichità che era riuscito a salvare da distru-zione sicura il monumento più celebre di tutta Veleia, la Tavola Alimenta-ria di Traiano, rinvenuta in pezzi nell’area del foro veleiate fin dal 1747. Levicende che videro impegnati il Costa e il conte piacentino Giovanni Ron-covieri nel recupero dei vari frammenti della lamina, venduti dal parrocodi Macinesso, loro scopritore, e dispersi tra le fonderie di Piacenza, ReggioEmilia, Cremona e Fidenza5 sono fin troppo note per ripercorrerle qui indettaglio. L’interesse storico e archeologico di questo ritrovamento era taleda polarizzare sul piccolo ducato le attenzioni dei grandi nomi dell’anti-quaria settecentesca, così che alla prima segnalazione del Contucci, del1748, seguirono subito le pubblicazioni del Muratori e del Maffei (nonsenza qualche polemica sulla priorità cronologica delle rispettive edizioni)e del giurista Antoine Terrasson6. L’Infante don Filippo poteva ben ralle-

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4 Sérieys 1802, p. 192, lettera del 27 settembre 1760.5 La storia della fortunata scoperta, da parte di Donnino Rapaccioli, parroco di Macines-

so, della Tavola Traiana e delle complesse fasi del suo recupero ad opera del Costa e delRoncovieri è stata, più o meno estesamente, ripercorsa da tutti gli editori della Tavola e spes-so ricordata negli studi su Veleia, a partire dall’opera, rimasta manoscritta, del Costa(AMANP, ms. 55, Intiera spiegazione della lamina traiana). Uno dei primi, e ben documenta-ti, resoconti dell’intera vicenda si trova in Mariotti 1877, p. 158; vedi anche Tononi 1881,pp. 122-24; Masnovo 1913, pp. 97-98, nota 1; Criniti 1991, pp. 13-24 e ora soprattutto Alba-si e Magnani 2003, che ricostruiscono con particolare cura documentaria le vicende dellascoperta e della fortuna della Tavola fino ad oggi.

6 Il Maffei, in una lettera ad Apostolo Zeno del 1748 (ma artificiosamente datata al no-vembre del 1747) aveva infatti pubblicato l’intestazione della Tavola, ma il primo a darepubblica notizia del rinvenimento dell’iscrizione fu il gesuita Contuccio Contucci, con un ar-ticolo apparso nel Giornale dei Letterati di Roma del 1748 (XIV, pp. 102-04), cui fecero su-bito seguito gli studi di Ludovico Antonio Muratori (Muratori 1749), di Scipione Maffei(Maffei 1749, pp. 381-404) e, distanziato di un solo anno, quello del giurista A. Terrasson(Histoire de la Jurisprudence Romaine, Paris 1750, app. n. 38, pp. 27-43), che pubblicò la Ta-vola come inedita (vedi Mandich 1990, p. 403 e Criniti 1991, pp. 24-30). Sulla pubblicazionedel Maffei e sulla contesa con il Muratori, vedi anche Criniti 2000-2001 e Idem 2001.

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grarsi di questa fortunata scoperta, che veniva a ricompensarlo (almeno inparte) della perdita del celeberrimo Museo Farnese, portato con sé da Car-lo di Borbone, quando nel 1734 venne eletto re di Napoli, e così, quando siaccese la contesa tra Benedetto XIV e il re di Sardegna, Carlo EmanueleIII di Savoia, per il possesso della Tavola7, decise con energia di far valere isuoi diritti e assicurare alle raccolte ducali il pezzo che da allora in poi (epossiamo dire fino ad oggi) ha rappresentato il vanto della collezione ar-cheologica parmense. Il ducato aveva avanzato le proprie richieste di prela-zione fin dal 1748, ma il merito dell’acquisizione della Tavola Traiana va in-teramente ascritto alla sagacia e all’abilità diplomatica di Guillaume DuTillot, che subito dopo la sua nomina a Ministro Segretario di Stato, nel1759, si incaricò di trattare con i proprietari la cessione del monumento alMuseo di Antichità di Parma, che proprio da esso, come è noto, deve lasua origine8. Il Du Tillot fu il vero e proprio promotore degli scavi di Vele-

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7 La documentazione relativa alle trattative intercorse tra i vari aspiranti possessori dellaTavola è stata pubblicata in Masnovo 1913 e Nasalli Rocca 1924. Fin dal gennaio del 1748papa Benedetto XIV aveva infatti avanzato la sua richiesta di acquisto della Tavola, di pro-prietà del Costa e del Roncovieri, ma le pretese (poi presto ritirate in ossequio al pontefice)del re di Sardegna e soprattutto le esose richieste dei proprietari, e del Costa in particolare,che cercò sempre di fare della Tavola un buon affare, finirono presto per disgustare l’animodel papa, che nell’aprile dello stesso anno chiuse definitivamente ogni trattativa con i duenobili piacentini: «siamo stati 73 anni senza questa Lamina, staremo ancora con tutta indiffe-renza senza la medesima tutto il tempo che piacerà a Dio di tenerci in questo mondo: tantopiù che se il conte Teologo [il Costa] venisse a Roma, gli faressimo vedere di quali statue, diquali busti, di quali bassorilievi, di quali iscrizioni, di quali lamine abbiamo arricchito ilCampidoglio, ed esso stesso come uomo d’onore e d’intelligenza confesserebbe, che la defi-cienza della sua Lamina nulla scema il pregio del Campidoglio, in cui, se l’avessimo avutal’avressimo collocata» (Masnovo 1913, p. 104). L’evidente stizza e le parole di ripicca con cuiil papa liquida la faccenda fanno capire quanto in realtà avesse desiderato entrare in posses-so della Tavola, per la quale aveva probabilmente già immaginato un posto d’onore nelleraccolte capitoline. Le richieste di re di Sardegna, oltre che con gli interessi antiquari e colle-zionistici del sovrano (esaminati in S. Pinto, a cura di, Arte di Corte a Torino da Carlo Ema-nuele III a Carlo Felice, Torino 1987, in part. pp. 12-64), si sposavano anche con le sue mirepolitiche di quegli anni: fino al 1762 il re continuò infatti ad aspirare ai territori di Parma ePiacenza e ancora nel 1749, quando Filippo di Borbone aveva già preso possesso del ducatoassegnatoli con il Trattato di Aquisgrana, continuò a mantenere le proprie truppe di stanza aPiacenza; del tutto naturale, quindi, che tentasse l’acquisto della Tavola, rinvenuta proprioin territorio piacentino (per l’intera vicenda, vedi anche Criniti 1991, pp. 17-19; Idem 2001,pp. 391-93 e ora Albasi e Magnani 2003, p. 13).

8 Da una lettera di Benedetto XIV al vescovo di Piacenza, del febbraio 1748, si ricavainfatti che anche il ducato di Parma si era fatto avanti per il possesso della Tavola Traiana:«non ci eravamo certamente figurato, che o la corte di Torino o cotesto governo potessero

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ia, una delle iniziative su cui maggiormente puntò per il rilancio culturaledel piccolo ducato, prostrato da decenni di incuria e di mal governo, non-ché depredato di gran parte dei suoi tesori artistici per mano degli ultimiFarnese. Il successo e la corretta gestione degli scavi dovevano, nelle inten-zioni del ministro e nelle aspirazioni del duca, confermare la validità delcomplesso programma di riforme, di matrice apertamente illuminista, av-viato dal Du Tillot e che fu reso possibile grazie anche al concorso di uneccezionale team di studiosi stabilitisi a Parma proprio in quegli anni, cosìche la prima preoccupazione del ministro, una volta decisa l’esplorazionedell’antica Veleia, fu la scelta dei nomi più adatti a guidare degnamentel’impresa.

La decisione iniziale di affidare la responsabilità dello scavo ad un diret-tore che, per sua stessa ammissione, si trovava poco a suo agio con le que-stioni della storia antica e gli innegabili tentennamenti (e i relativi ritardi)con cui la corte parmense giunse alla promozione del canonico Costa lascia-no immaginare che il duca, dietro consiglio del ministro, sperasse di coin-volgere nei lavori qualche studioso ben più illustre e rappresentativo delmediocre e pressoché sconosciuto conte Costa. Le cortesi ma pressanti insi-stenze del conte e la scarsa disponibilità del Caylus ad occuparsi in primapersona delle faccende di Veleia finirono, tuttavia, per orientare diversa-mente le scelte della corte. La scoperta, già nell’aprile del 1760, del fram-mento della cosiddetta Lex de Gallia Cisalpina, costituì per il Costa il bancodi prova per la sua ammissione alla nomina di Prefetto dei Musei9: il Du Til-lot, infatti, gli aveva affidato il compito di redigere uno studio della tavolabronzea e lo zelo e la discreta erudizione con cui il canonico piacentino

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avere sopra essa veruna attenzione ...» (Masnovo 1913, p. 103). Il Du Tillot riuscì a con-vincere il Costa e il Roncovieri a cedere la Tavola al duca in cambio di un lauto vitalizio edella promessa, per il Costa, di un diretto coinvolgimento nelle attività antiquarie del du-cato, promessa presto mantenuta con la nomina del conte canonico a Prefetto e Direttoredei Musei Ducali. Per la nascita e lo sviluppo del Museo di Antichità di Parma, vedi Mari-ni Calvani 1979; Eadem, Il ruolo del Museo d’Antichità di Parma dagli scavi borbonici a Ve-leia alle ricerche della nascente paletnologia italiana, in C. Morigi Govi e G. Sassatelli (a cu-ra di), Dalla Stanza delle Antichità al Museo Civico. Storia della formazione del Museo Civi-co Archeologico di Bologna, Bologna 1984, pp. 483-92; M. Catarsi Dall’Aglio, Il Museo Ar-cheologico di Parma: origine e progressi, in M. Bernabò Brea e A. Mutti (a cura di), «... Leterremare si scavano per concimare i prati ...». La nascita dell’archeologia preistorica a Parmanel dibattito culturale della seconda metà dell’Ottocento, Parma 1994, pp. 185-88, e infra,cap. III, § 6.

9 Il Costa venne nominato Prefetto e Direttore dei Musei l’8 ottobre del 1760 (Monte-vecchi 1934, pp. 558-59).

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compilò le sue Osservazioni, conservate ancora manoscritte presso la Biblio-teca Palatina di Parma10, e che ebbero la fortuna di incontrare il favore delsovrano, gli garantirono per alcuni anni il controllo scientifico sugli scavi ve-leiati.

«J’ai été assommé, entre nous, des demandes, questions et doutes del Si-gnor Conte Canonico. J’ai répondu ce que j’ai pu, car je suis bien éloignéd’être savant. Mais je lui ai conseillé de s’adresser en droiture à notre Aca-démie» scriveva nel marzo del 1761 il conte di Caylus all’amico Paciaudi,ancora residente a Roma11. A pochi mesi dall’inizio del suo incarico, il Costasi era evidentemente trovato in difficoltà a gestire da solo lo scavo di un’in-tera città antica, pressoché ignorata dalle fonti e che stava restituendo mate-riale di considerevole importanza storica e artistica12 e così, contravvenendoalle rigide disposizioni dall’alto, che gli imponevano il più assoluto riserbosulle scoperte di Veleia, cercò di procurarsi la consulenza di antiquari piùesperti.

Grazie all’intermediazione di un fratello benedettino, poté in un primomomento entrare in contatto con Pier Luigi Galletti, illustre studioso resi-dente all’epoca nell’abbazia di S. Paolo a Roma e autore di importanti rac-colte di iscrizioni di diverse città e territori italiani13: le riconosciute dotidi epigrafista e la nomina a scrittore latino della Biblioteca Vaticana delGalletti, concessagli nel 1758 da Clemente XIII, ne facevano il corrispon-dente ideale per chi, come il Costa, temeva di trovarsi in difficoltà nelladecifrazione o nell’integrazione delle numerose iscrizioni che continuava-

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10 Si tratta delle Osservazioni del Conte Antonio Costa Canonico Teologo della Chiesa Pia-centina sopra la lamina dissotterrata in Macinesso il 24 aprile 1760, BPP, Ms. Parm. 1300. Lostudio del Costa, terminato fin dal luglio del 1760, comprendeva anche la trascrizione e latraduzione del testo della Lex, di cui si sarebbe in seguito servito l’antichista Gian RinaldoCarli per la sua edizione del testo apparsa nelle Antichità italiche, del 1788 (vedi Nasalli Roc-ca 1962, p. 66 e p. 72, nota 8 e Brunazzi 1991, in part. pp. 297-304).

11 Nisard 1877, I, p. 255.12 Fin dal 1760, nell’area del foro, si erano infatti rimessi in luce, oltre alla già ricordata

tavola della Lex de Gallia Cisalpina, la testa bronzea di fanciulla (Baebia Basilla ?), la testa, lamano e parte del panneggio in bronzo dorato della statua del cosiddetto Adriano, la statuet-ta dell’Eracle bibax con il suo piedistallo iscritto (CIL XI, 1159), oltre a numerose iscrizionidedicatorie a diversi imperatori.

13 Per un rapido inquadramento biografico del Galletti, vedi Ceresa 1998. Il carteggio trail Costa e il Galletti, compreso tra il 1760 e il 1761, è in parte ricostruibile grazie al Copialet-tere dello stesso Costa conservato, ancora in gran parte inedito, alla Biblioteca Comunale diPiacenza (Costa ms. Pallastrelli: su questo manoscritto, vedi Montevecchi 1934, p. 555, n. 26e pp. 556-68 e Nasalli Rocca 1936, pp. 106-07). Per la collaborazione tra il Costa e il Gallet-ti, vedi anche Criniti 1997, in part. p. 137 e Albasi e Magnani 2003, pp. 16 e 23.

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no ad affiorare sempre più numerose dal terreno dell’antica Veleia. Nonappena vennero riportati alla luce i primi frammenti della tavola della Lexde Gallia Cisalpina, il Costa si precipitò a chiedere lumi al Galletti, spe-rando di barattare qualche preziosa informazione di carattere storico o an-tiquario con il privilegio (che in questo modo veniva segretamente conces-so all’erudito romano) di conoscere in anteprima le novità veleiati. A po-chi giorni dall’apertura degli scavi14, il canonico già informava il Gallettidella «magnificenza d’ornati in marmo orientale», della presenza di un ac-quedotto «veramente del gusto antico romano», del ritrovamento di nu-merosi «idoletti», di numerose iscrizioni in marmo e delle tante «medagliedi tempi diversi, che cominciano dai tempi di Pompejo e vanno sino allametà del quinto secolo» oltre, naturalmente, di quello della Lex, descrittacome una «lamina grande per verso onzie diecinove nostre e quatordiciper l’altro, tutta scritta» e si spingeva persino a trascrivergli il testo diun’iscrizione funeraria romana, per la verità già nota da tempo, ma che ilCosta credette di recentissima scoperta15; il mese successivo gli comunica-va il fortunato ritrovamento dei frammenti della statua in bronzo doratodel cosiddetto Adriano, che il Costa, evidentemente incapace di ricono-scere gli elementi ritrattistici della testa e ipotizzando un abbinamento conil frammento di iscrizione onoraria a un imperatore defunto rinvenuta, asuo dire, poco lontana, interpretò come statua di Giove, e lo informava

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14 La prima lettera inviata dal Costa al Galletti è in data 28 aprile 1760. Il 24 dello stessomese era stata riportata alla luce la tavola bronzea con il frammento della Lex de Gallia Ci-salpina. Per alcune osservazioni sulla corrispondenza Costa-Galletti, vedi anche Montevec-chi 1934, pp. 557-59.

15 Si tratta di CIL XI, 1210, trovata a Valese, sui monti piacentini, e già descritta dall’aba-te Chiappini al Muratori nel 1739; era questa una delle iscrizioni raccolte nell’ex conventodei Canonici Lateranensi di S. Agostino a Piacenza, trasferite nel Museo di Antichità di Par-ma al principio del XIX secolo (vedi infra cap. III, § 6). Il Costa, quando inviò il testo del-l’iscrizione al Galletti, era appena stato informato della “scoperta” e non aveva ancora vistol’originale.

16 Costa ms. Pallastrelli, lettere al Galletti del 26 e del 29 maggio 1760. Nell’iscrizionecui fa riferimento il Costa si sarebbero riconosciute le lettere «Divoi» («alli lineamenti ella»-la testa dell’Adriano – «sembra la testa di un Giove, a confermar la quale mia opinionegiovasi mirabilmente un pezzo di marmo ivi trovato colle lettere DIVOI»). La testa inbronzo dorato del cosiddetto Adriano (ma in cui si tende oggi a riconoscere i tratti di Anto-nino Pio: vedi da ultimo Cavalieri 2003, p. 108) fu rinvenuta in prossimità dell’angolonord-orientale del porticato del foro: in base alle relazioni di scavo del 1760, in questa stes-sa area si trovava la base con iscrizione in onore di Aureliano, che tuttavia non contiene al-cun riferimento alla divinizzazione dell’imperatore e che comunque fu rimessa in luce soloalla fine di settembre di quell’anno. Non mancano a Veleia iscrizioni e titoli onorari conte-

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della scoperta, ancora in situ, di alcuni pavimenti musivi16. Ma siccome«Pregio degli Eruditi [è] l’instruire e guidare li ciechi», in cambio di tuttequeste informazioni il Costa chiedeva al Galletti di guidarlo nella ricercadelle fonti antiche che avevano trattato di Veleia, di aiutarlo a interpretarele sigle, spesso per lui oscure, delle antiche iscrizioni, e in particolare diquelle della tavola bronzea che aveva appena avuto il compito di studiare,di fornirgli le «migliori notizie, che avere si possono dell’antichità, dellaricchezza e dell’estensione della Città di Velleja e se trovasi memoriaquando e da chi sia stata piantata, quando e come sia stata tolta dai raggidel sole»17. Non sembra che il Galletti fosse entusiasta di mettere le pro-prie conoscenze al servizio del canonico piacentino (e di certo la clande-stinità in cui veniva tenuta questa corrispondenza non devono averne in-coraggiato la continuazione), ma non c’è dubbio che dovette sentirsi sti-molato ad indagare su monumenti così interessanti e del tutto inediti. Fudunque grazie ai suoi suggerimenti che il Costa poté integrare corretta-mente l’iscrizione dedicatoria del chalcidicum di Veleia18 e sciogliere moltedelle sigle della tavola bronzea, nella quale il Galletti, secondo un’inter-pretazione molto discussa negli studi successivi, ma di recente rivalutata,soprattutto nei contributi di carattere storiografico, riconobbe un fram-mento della Lex Rubria (citata, in effetti, nel testo della legge)19; segnala-zioni importanti, per lo studio delle epigrafi veleiati, furono poi quelle re-lative ai principali corpora di iscrizioni cinque e seicenteschi, segnalazioniche il Costa avrebbe preferito più mirate e commentate («non basta chelei si prenda l’incomodo di citarmi i libri, ma è necessario che lei mi dicasui lumi tolti da questi il di lei sentimento»)20, cui il Galletti dovette far se-

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nenti la scritta «divo» o «divi» (vedi CIL XI, 1164, 1173, 1192), ma tutti furono rinvenutiin un momento successivo a questa prima menzione del Costa: è possibile che il canonicoabbia effettivamente visto un frammento di iscrizione in onore di qualche imperatore divi-nizzato, scavato fin dal maggio del 1760 ma in seguito disperso o reinterrato.

17 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Galletti del 28 aprile 1760.18 CIL XI, 1189 (oggi nell’Antiquarium di Veleia). Nel luglio del 1760 il Galletti aveva

infatti suggerito di integrare le lettere “Ba” al nome della dedicataria del monumento eleggere così “Baebia [Ba]silla” (Costa ms. Pallastrelli, lettera al Galletti del 2 luglio1761).

19 Vedi Laffi 1986, a favore dell’identificazione del frammento veleiate con la Lex Rubria.La ricchissima bibliografia sulla Lex Rubria, in gran parte giuridica, è discussa in F.J. Bruna,Lex Rubria, Caesars Regelung für die richterlichen Kompetenzen der Munizipalmagistrate inGallia Cisalpina. Text,Übersetzung und Kommentar mit Einleitungen, historischen Anhängenund Indizes, Leiden 1972, ma vedi ora anche l’aggiornata e completa bibliografia in Criniti2003.

20 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Galletti del 29 maggio 1760.

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guire la collazione dei manoscritti vaticani di Plinio il Vecchio e di Tito Li-vio21, utilissima per meglio interpretare i brani relativi all’antico territorioveleiate. Il Galletti dovette probabilmente seguire anche la stesura del-l’opera del Costa sulle monete antiche rinvenute a Veleia, compilata a par-tire dal 1760 e rimasta manoscritta22; ritengo infatti che si riferiscano aquesta impresa i suoi consigli sulla consultazione dei celebri trattati numi-smatici del Vaillant e alcuni appunti, non troppo lusinghieri, sullo stileprolisso e verboso adottato dal Costa23, che servirono solo a provocare larisposta risentita e non priva di orgoglio del canonico: «capisco anch’ioche talvolta si potrebbe tagliar più corto, ma il Principe, per di cui com-missione io scrivo, ama di vedere le cose sufficientemente sminuzzate, epoi si sa che di uomini capaci in questo atto ne ha poco il mondo, di dovemi pare che sia pur bene di dar gusto a tutti». Piccato per queste critiche econvinto ormai della scarsa disponibilità del Galletti a fornirgli quell’aiutocostante e continuo di cui aveva bisogno, il Costa finirà per diradare i suoicontatti con lo studioso romano, fino ad interrompere ogni rapporto nel-l’estate del 1761.

2. Gli scavi di Veleia nella corrispondenza Costa-Caylus

Era però ormai chiaro che gli scavi di Veleia necessitavano di una guida piùcompetente e lo stesso Costa, che non faceva mistero della propria inespe-rienza, aveva da tempo cominciato a chiedere al ministro un aiuto dall’ester-no. L’abile ministro non perse, questa volta, l’occasione di coinvolgere nellafaccenda il conte di Caylus, certo di soddisfare un desiderio di don Filippoe ben felice di garantire alle imprese archeologiche della corte il supportodel più noto antiquario di Francia. Ecco dunque che il Caylus, fin dall’otto-

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21 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Galletti del 2 luglio 1761, in cui il Costa gli confessavala sua «premura ... di ricevere il favore della desiderata colazione dei testi di Plinio e Tito Li-vio con codesti codici vaticani».

22 A. Costa, Serie delle medaglie ritrovate fra le rovine dell’antica città dei Veliati,AMANP, ms. 57.

23 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Galletti del 15 dicembre 1760. La Montevecchi attri-buiva i giudizi del Galletti alle Osservazioni del Costa sulla tavola della Lex de Gallia Cisalpi-na (Montevecchi 1934, p. 558), ma i riferimenti, presenti in questa lettera, all’opera del Vail-lant, ad alcune monete antiche oggetto di studio da parte del Costa, nonché la stessa datadella lettera, scritta molti mesi dopo la consegna ufficiale delle Osservazioni al Du Tillot e alduca don Filippo, fanno pensare che il Galletti si riferisse proprio allo studio del Costa sullemonete veleiati.

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bre del 176024, si trovò nella favorevole condizione di poter seguire, da lon-tano e senza incomodi, gli sviluppi di uno scavo di una città fino ad allorainesplorata e che stava restituendo monumenti di notevole interesse, con laprospettiva di poter ricavare abbondante materiale per i suoi esperimentisulle tecniche artistiche degli Antichi e, perché no, anche qualche buon pez-zo per la sua collezione.

Il cantiere veleiate, soprattutto negli anni della direzione Costa, fu per ilCaylus una sorta di enorme laboratorio per la sperimentazione e la verificadelle ricerche che l’archeologo francese stava all’epoca conducendo su di-versi procedimenti tecnici, tesi a scoprire e a recuperare i segreti e i metodidelle diverse produzioni artistiche dell’antichità. La certezza di godere delpieno favore della corte parmense e le ripetute dimostrazioni di ossequio in-dirizzategli dal Costa che, a dispetto del tono fiero e un tantino enfatico concui si presentò al conte («sono ... divenuto capo di una illustre città, la qualeda me la sua nuova vita attende»), dimostrò sempre grande fiducia e pienadisponibilità nei confronti del suo illustre corrispondente, gli garantironoquella libertà d’azione che sino ad allora, in occasione di altri scavi, non gliera riuscito di ottenere.

«Siccome dite che il vostro particolare studio si è nella Scienza delle arti,così ho eccitato questi Regi commissari perché mi facciano tenere dei pezzi diogni sorta di metallo già dissotterrati ad oggetto di trasmetterveli» gli scriveràil Costa nel gennaio del 176125: tra i problemi che in quei mesi maggiormenteangustiavano gli antiquari del ducato c’era quello, assai complesso e costoso,del restauro della Tavola Traiana, conservata ancora in frammenti nella dimo-ra piacentina del conte canonico, cui presto si aggiungeranno i propositi rela-tivi al restauro della tavola legislativa e alla pulitura della testa e degli altriframmenti della statua colossale in bronzo dorato, rinvenuti nel corso dei pri-mi mesi di scavo. Fin dall’autunno del 1761 il Costa si era attivato per presen-tare al ministro i progetti di intervento per le due tavole bronzee, incaricandodel lavoro il restauratore Giuseppe Filiberti, che almeno fino alla primaveradel 1762 tenterà di conciliare le difficoltà e le spese richieste da questa impre-sa con i modesti compensi offerti dalla corte. Per il restauro della Tavola Tra-

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24 Con una lettera del 27 ottobre 1760 il Costa ringraziava infatti il Du Tillot per avergliprocurato la corrispondenza del conte di Caylus (Costa ms. Pallastrelli; vedi anche Monte-vecchi 1934, p. 559). Dell’importanza, nello studio del metodo scientifico del Caylus, dellacorrispondenza tra l’antiquario e il Costa, sinora piuttosto trascurata, fa cenno anche RaspiSerra 1993, p. 96, nota 35. Su Anne-Claude-Philippe de Tubières, conte di Caylus, ancorafondamentale rimane Rocheblave 1889, ma vedi ora anche Aghion 2002; singoli studi sulmetodo di ricerca inaugurato dal Caylus si trovano in Guillerme 1983, Ridley 1992 eSchnapp 1998.

25 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Caylus del 15 gennaio 1761.

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iana il Filiberti riteneva indispensabile «formare una lamina della stessa gran-dezza alquanto più grossa, fatta la quale con spesse e replicate viti commette-re li frammenti dell’antica colla nuova», progetto sostenuto anche dal Costa,fiducioso di potere ottenere così una tavola «perfettamente ricompaginata»,senza incorrere nel pericolo di rovinare la patina antica del bronzo. Il preven-tivo di spesa di cento gigliati non piacque affatto al duca e così il restauratorecercò di ripiegare su un progetto meno ambizioso, consistente in una «intelle-ratura» da applicare sul retro della Tavola e appositamente disegnata per sal-dare i punti di frattura più critici, quelli cioè dove il testo doveva nuovamentecombaciare26. È noto che nessuno di questi progetti andò all’epoca in porto eche per molto tempo le due tavole bronzee rimasero prive di un vero restauroconservativo: un colpo decisivo alle aspirazioni del Filiberti venne propriodal Caylus, acceso sostenitore della necessità di lasciare il bronzo così co-m’era, senza avventurarsi in alcun intervento di restauro. «Sull’articolo del-l’insaldatura della Tavola Traiana – scriveva infatti da Parigi il padre Paciaudial Du Tillot nel maggio del 1762 –27 ho voluto consultare il Maestro delle Arti,il conte di Caylus. Ecco la sua risposta originale: je croirois à tout hasard quele morceau subsistant, et pouvant subsister il ne faut point y toucher. Io egual-mente stimo – continuava il Paciaudi – che non bisogna arrischiare di perde-re un così prezioso monumento, mettendolo nelle mani di un artefice chepromette molto e che non ha data alcuna prova della sua abilità in questo ge-nere di lavori. Il metter la tavola al fuoco per raddrizzare la curvatura, il bat-terla sull’incudine sono due operazioni egualmente pericolose». Un paio dianni più tardi, quando aveva ormai sostituito il Costa nella direzione degliscavi veleiati, il Paciaudi volle tentare un nuovo esperimento, avvalendosi del-la competenza di un restauratore di sua fiducia, residente a Napoli, ma anchein questo caso l’opinione del Caylus rimase immutata:

On ne peut consulter de loin sur la manière de restaurer un bronze. Aprèsl’avoir bien vu et bien examiné, on est quelquefois étonné du parti que l’onprend. Vous êtes trop heureux d’avoir à Naples un homme intelligent en cet-te matière, et assez connu pour qu’on n’ait rien à vous reprocher, si par ha-sard il ne réussissait pas; mais je regarde cela comme impossible. [...] Desmorceaux de cette nature font trembler. L’inégalité première, l’inégalité desrouilles et par leur nature rendent ces ouvrages d’une délicatesse extrême28.

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26 Il Costa parlò del Filiberti al Du Tillot fin dall’ottobre del 1760; i progetti di restau-ro della Tavola sono discussi in alcune lettere al ministro dell’aprile del 1762 (Costa ms.Pallastrelli).

27 Paciaudi ms. 1586, lettera al Du Tillot del 10 maggio 1762, ff. 100-100v: il giudizio delCaylus è scritto, di suo pugno, su un biglietto unito a questa stessa lettera.

28 Nisard 1877, II, pp. 6-7, lettera del Caylus al Paciaudi del 20 maggio 1764.

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Gli esperimenti e lo studio attento delle opere del de Réaumur sulle le-ghe e le tecniche di fusione dei metalli (nel 1722 era apparso a Parigi L’artde convertir le fer forgé en acier et l’art d’adoucir le fer fondu) facevano delconte un consulente ben informato, che dall’esperienza veleiate, come ve-dremo, avrebbe tratto nuove e utili competenze tecniche.

Tra i pezzi di metallo inviati dal Costa al Caylus, accanto a qualche cam-pione delle due iscrizioni bronzee, si trovavano anche alcuni frammenti attia dimostrare un curioso fenomeno naturale osservato negli scavi di Veleia eper il quale il Costa chiedeva lumi al conte: a detta del canonico il bronzo,appena estratto dalla terra, si presentava decisamente «pastoso e duttile»,mentre a contatto con l’aria sembrava riacquistare la sua naturale durezza29.Il fenomeno, provocato secondo il Caylus dallo spesso strato di verderameche ricopriva, ancora umido e dunque pastoso, i frammenti di bronzo almomento dello scavo30, non dovette stuzzicare più di tanto la curiosità del-l’antiquario francese, ma l’episodio servì probabilmente a convincerlo dellasuperficialità con cui il Costa seguiva i lavori, ora che appariva con tuttachiarezza l’assenza di un esame autoptico del fenomeno e, più in generale,l’indifferenza del canonico verso un controllo diretto e personale del cantie-re (il Costa non mise piede a Veleia prima del settembre del 1761, in occa-sione della visita ufficiale alle rovine fatta da Filippo di Borbone e dal suoseguito): «circa la duttilità divisata del metallo allorché è tratto di terra, eche poi prende esposto all’aria la naturale sua consistenza e durezza, l’aveteindovinata col supporre che io non ne sia testimonio di vista» scriverà, unpo’ mortificato, il nostro canonico al Caylus, assicurandogli che avrebbe se-guito il suo consiglio di trasferirsi al più presto «sulla faccia del luogo [per]fare le più minute osservazioni»31, ma non c’è dubbio che dopo questo epi-sodio la fiducia sulle metodologie d’indagine adottate dal Costa ne uscissedecisamente compromessa.

Un invio più azzeccato si rivelò quello (suggerito dal Du Tillot) di alcuniframmenti della statua in bronzo dorato proveniente dall’area del foro, unodei ritrovamenti più pregevoli ma tra i più bisognosi di un immediato inter-

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29 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Caylus del 22 giugno 1761: «il bronzo nell’atto d’esserdisotterrato trovasi per lo più pastoso e duttile a modo che si piega con tutta facilità, e chepoi esposto per qualche poco all’aria ripiglia la sua durezza naturale». Anche il ministro DuTillot volle chiedere spiegazioni di questo curioso fenomeno al Costa, che finì per confessarela sua sostanziale ignoranza dei fatti (Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 3 agosto1761). Su questo episodio, vedi anche D’Andria 1970, pp. 5-6.

30 L’opinione del Caylus si ricava dalla lettera di risposta del Costa (Costa ms. Pallastrelli,lettera del 6 agosto 1761).

31 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Caylus del 6 agosto 1761.

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vento conservativo. Il solito Filiberti si era di nuovo fatto avanti e il Costa,allo scopo di verificare le capacità tecniche del restauratore, aveva richiestoda Veleia alcuni pezzi di metallo dorato «e del più coperto di verderame»32,ma questa volta le difficoltà del restauro dovettero stuzzicare l’ingegnositàdel Caylus, che pensò di approfittare del bronzo veleiate per compiere qual-che nuovo esperimento di pulitura33.

Le lettere del Costa costituiscono un’importante fonte di informazionesugli interessi e sui progetti di ricerca che impegnavano all’epoca il conte diCaylus: per alcuni anni, infatti, gli scavi di Veleia gli procurarono la materiaprima utile a verificare l’efficacia di alcuni esperimenti sulle antiche tecni-che di produzione di alcuni rivestimenti ceramici, sulla fabbricazione dei ve-tri e molto altro ancora. In modo un po’ confuso e senza un ordine appa-rente, ma nel chiaro intento di soddisfare le continue richieste dell’antiqua-rio, il Costa continuò per mesi ad inviare a Parigi cassette colme di fram-menti di ogni genere di antichità, vetri, marmi, terracotte, ceramiche, metal-li, frammenti di intonaco, campioni di ossa e persino alcune curiosità natu-rali, come la volta in cui spedì un becco d’uccello, «essendo meglio manda-re più cose che meno»34. Sappiamo così che la curiosità del conte si indiriz-zava verso «quelle ossa che hanno preso il turchino» e su alcuni vetri rinve-nuti a Veleia, probabilmente su quelli policromi, dal momento che il Costasi premurò di fargli avere alcuni frammenti trovati durante la prima campa-gna di scavo. Il canonico ben sapeva che i campioni di vetro e di terracottache il conte gli richiedeva con insistenza servivano «per diluciare certi puntifisici» ai quali avrebbero «dato moto» proprio i primi esemplari veleiati in-viati a Parigi35.

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32 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Martelli del 29 ottobre 1761.33 Scriveva infatti il Costa al Caylus nel gennaio del 1761: «Poiché però il prelodato sig.

Ministro mi disse che se aveste avuto un altro frammento di metallo dorato di cui eravi unastatua colossea, ed abbiamo la testa, una mano e parte del paneggimento, aveste fatta unaesperienza per ridurlo netto e pulito, e per scoprire tutta l’indoratura, perciò sotto il n. 13 velo spedisco, sperando che in seguito abbiate la bontà di comunicarmi la maniera con cui ri-durre a si desiderabil stato le riferite parti di detta statua».

34 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Nicelli del 19 settembre 1761. Il Costa inviò, tra le altrecose, al Caylus alcuni frammenti di vetro «con sopra una patina che non gli toglie il diafano»,«ossa di morti altri impietriti, altri tostati, uno spezzo di dente, diversi frammenti di vetro apiù colori, uno spezzo d’intonacatura di calce colorita, come erano per lo più quei muri oveper intonacarli non si sia fatt’uso di marmi, del marmo bianco con sopra una grossa vernice osia colla, e diversi minuzzami di vasi unguentari» e infine un frammento di madreperla e mol-ti cocci di ceramica invetriata (lettere al Caylus del 22 giugno, 2 luglio e 3 dicembre 1761).

35 Vedi le lettere al Du Tillot del 22 giugno 1761 e al Nicelli del 19 settembre 1761.

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Nel corso del 1761 le energie del Caylus furono in gran parte assorbitedallo studio dei numerosi frammenti di ceramica provenienti dagli scavi ve-leiati: si trattava per lo più di ceramica ingobbiata o con vernici o invetriatu-ra di colore rossiccio, bianco, verde e turchino, pertinenti con ogni probabi-lità agli strati superficiali dello scavo e che tuttavia, in virtù della presenzadei diversi tipi di rivestimento, divennero agli occhi del conte un interessan-tissimo materiale d’indagine. Ciò che più gli stava a cuore – secondo le pa-role del Costa – era infatti di avere «di quella terra che ha una lucidissimaincrestatura pure turchina, e di qualunque altra terra o vetro con sopra ver-nice, o smalto o vetriatura»36, anche se la sua preferenza andava verso la«terra di color bleu», di cui fece fare ricerche accuratissime ai commissaridegli scavi, affinché non ne trascurassero neppure il più piccolo frammento.Solo un paio di anni prima il Caylus, stimolato da alcune copie modernepossedute dal cardinale Albani, aveva condotto degli esperimenti per sco-prire la tecnica antica di fabbricazione dei vetri di color blu e ne aveva datonotizia nel terzo volume del suo Recueil37: è comprensibile, dunque, checercasse ora di approfittare dello scavo veleiate per esaminare nel dettaglioil maggior numero di frammenti di invetriatura di quel colore e perfezionarecosì le sue ricerche. Incalzato dal ministro, che ci teneva a coltivare i rap-porti con la Francia e non voleva perdere la preziosa consulenza del Caylus,il Costa finì per mandare a Parigi molti, e forse troppi, reperti veleiati, e an-che se le cassette si riempivano per lo più di «spezzi» di terracotta, di qual-che irriconoscibile «minuzzame», di modesti frammenti di metallo, al cano-nico non sfuggì il pericolo di disperdere tutte quelle antichità e qualche vol-ta, con pregevole risolutezza, tentò di impedire la suddivisione dei reperti:temendo di avere spedito oltralpe qualche elemento utile alla ricomposizio-ne di un recipiente ceramico («pur troppo io dubito di aver mandato qual-che pezzo a Parigi che appartenesse ad un tal recipiente»), si oppose alla di-spersione degli altri frammenti pertinenti allo stesso vaso, incurante delleproteste del Du Tillot, che lo spingeva invece a trasmettere il tutto alCaylus38. Gli esperimenti del conte si estesero presto ad ogni classe ceramica

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36 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Nicelli del 19 settembre 1761.37 Caylus Recueil, III, pp. 303-03; già nel I volume del Recueil (pp. 293-310) il Caylus

aveva presentato i risultati di alcune indagini chimiche condotte su alcuni frammenti di vetripolicromi. Vedi anche la corrispondenza con il Paciaudi, in cui lo informa sul risultato deisuoi esperimenti (Nisard 1877, I, pp. 70-71). Sull’interesse del Caylus per le tecniche di lavo-razione del vetro nel mondo romano, con particolare attenzione per il vetro “millefiori” e ilvetro-cammeo, vedi Aghion 2002, in part. pp. 83-84 e 91.

38 Vedi le lettere al Martelli del 5 agosto e al Du Tillot del 6 agosto 1761.

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proveniente da Veleia, tanto che il Costa gli fece arrivare ogni «spezzo diterra cotta sottile figurata», e un «pezzo di maiolica verdastra con masca-ronzino improntato», avendo saputo dal conte che «quantunque quella ma-iolica, o vogliam dire terra con vitriatura di color turchino sia forse la piùpreziosa e la più nobile, nulla di meno per iscoprire quel vero di cui va incerca colle sue esperienze, ogni sorta di maiolica serve al caso»39. È facileimmaginare con quale impazienza il Caylus, fedele al principio della necessi-tà di rendere pubblici, in tempi rapidi e con strumenti di facile accessibilità,i risultati delle proprie indagini scientifiche, desiderasse ormai, dopo tantosperimentare, tirare le somme del suo lavoro e dare alle stampe le novità suireperti veleiati, ma il Costa, che stava all’epoca completando la sua Raccoltadei Monumenti di Antichità, vide l’opportunità di unire il suo nome a quel-lo, ben più prestigioso, dell’antiquario francese, proponendo al ministro unprogetto editoriale che avrebbe anche scongiurato il pericolo di cedere al-l’opera del Caylus la priorità dell’imprimatur: «sarebbe desiderabile chequesto erudito Cavaliere – scriverà infatti al Du Tillot – unisse quanto ha giàscritto, ed è per scrivere, a proposito delle terraglie ritrovate fra le rovine diVelleja, per poterne in seguito farne la pubblicazione allorché si stamperà ilprimo tomo, nel qual caso mi farei il preciso impegno di parlarne a partenella mia prefazione»40. Era dunque intenzione del Caylus, dopo oltre unanno di corrispondenza con la corte parmense, pubblicare uno studio sullaceramica di Veleia, ma a parte alcune note edite, con una tavola illustrativa,nel VI tomo del Recueil, non mi risulta che questo progetto sia mai andatoin porto41.

L’intervento del Caylus negli scavi veleiati non fu, tuttavia, privo di con-seguenze immediate: in seguito al suo insegnamento ci si sforzò di condurreindagini più accurate e minuziose, si comprese l’importanza di non trascu-rare il benché minimo reperto, si attribuì più valore ai rapporti topografici ealle provenienze dei singoli oggetti; il Costa si preoccupò di dare indicazioniperché nella delineazione della pianta degli scavi venissero «segnati minuta-mente gli siti de capi che si anderanno trovando di mano in mano» e il Mar-telli poté assicurare al Caylus che «alle esattissime diligenze usate sin qui intenendo conto di ogni qualunque minuzzame, vi aggiungerà sempre piùnuove maggiori premure tendenti a mettere in mano del prelodato sig. Con-

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39 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Martelli del 29 ottobre 1761.40 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 7 dicembre 1761.41 È possibile che la mancata pubblicazione dell’opera del Costa, rimasta fino ad oggi

manoscritta (vedi infra cap. II), abbia fatto naufragare anche il progetto di edizione del sag-gio sulle ceramiche veleiati che il Caylus stava all’epoca preparando. La tavola con i fram-menti di ceramica veleiate è pubblicata in Caylus Recueil, VI, pp. 319-22, tav. CII.

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te quanto può servire per illustrare la storia di queste nostre scoperte e permettere in veduta alcuni punti della naturale storia non per anco esaminati ediscussi»42. Principale eredità lasciata infatti dal Caylus agli scavi di Veleiarimase il suo infaticabile impegno per il recupero e la valorizzazione di ognitestimonianza di cultura materiale (un concetto del tutto nuovo, e non soloalla corte di Parma), unita alla fondamentale opera di trasmissione di meto-dologie nuove, basate sulla visione diretta e sul confronto dei reperti, che ilconte insegnò a misurare, descrivere e disegnare correttamente. Poco im-porta che ben pochi (o forse nessuno) dei responsabili dello scavo fossero ingrado di capire tutte le implicazioni ideologiche, e non solo pratiche, diquesto nuovo metodo di indagine; certo è che riuscirono a percepirne laportata innovativa e a vederne, sul campo, i vantaggi, tanto da farne uno deipunti di forza del cantiere veleiate: «tutto il mondo letterario – scriveva ilCosta al Du Tillot – avrà all’E.V. anche questa obbligazione per avere sì av-vedutamente impegnata l’erudizione del sig. Conte de Caylus a sommini-strarci dei lumi senza dei quali certi capi o non si sarebbero curati o non sene sarebbe saputo la loro rilevanza, come è accaduto sin qui per riguardo al-le scoperte fatte sia in Roma sia in Ercolano»43. Veleia dunque, se non riu-sciva a superare Roma ed Ercolano per quantità di ritrovamenti e per ric-chezza di tesori artistici, era però (almeno nella propaganda ducale) il can-tiere di scavo più all’avanguardia e meglio attrezzato nelle metodologie di ri-cerca.

Mentre a Veleia si susseguivano le scoperte, il Costa rimaneva a Piacenzaintento a completare lo studio sulla tavola della Lex e a rendere presentabi-le, e scientificamente accettabile, il resoconto sugli scavi, che Filippo di Bor-bone e il suo primo ministro intendevano pubblicare al più presto. Ciò chepiù angustiava il Costa (e che confuse anche altri antiquari del tempo) era ladifficoltà a dare un nome alla città che si andava scoprendo, tanto che neldare un titolo al suo studio sulla “lamina legale”, preferì fare riferimento alnome moderno del sito: pur non digiuno di conoscenze di storia antica e diquestioni filologiche, il canonico si era evidentemente trovato in difficoltàad orientarsi tra le diverse fonti, greche e latine, che avevano fatto menzionedell’antica Veleia, così che non sapeva risolversi se bisognava chiamarla Ve-lia, Veleia o addirittura Elea. La corrispondenza con il Galletti, come abbia-mo visto, non gli aveva procurato l’aiuto sperato e neppure le collazioni deicodici vaticani di Livio e di Plinio il Vecchio procurategli dal monaco roma-

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42 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 21 settembre 1761.43 Costa ms. Pallastrelli, lettere al Martelli del 18 maggio 1761 e al Du Tillot del 21 set-

tembre 1761.

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no lo avevano facilitato a sciogliere i suoi dubbi. Il Costa confidava ora che,in considerazione delle tante premure e di tutto il materiale inviato a Parigiper favorirlo nei suoi esperimenti, il Caylus lo aiutasse a interpretare la Lexe a districarsi nella complicata matassa delle testimonianze letterarie. Findall’ottobre del 1760 aveva inviato a Parigi una copia dell’iscrizione bron-zea, così da conoscere l’opinione del conte sulle sue Osservazioni, e in parti-colare sulla lettura da lui avanzata di certe sigle presenti nel testo. A partealcune probabili obiezioni di tipo storico, come quella relativa alla posizionegiuridica e amministrativa di Modena nei confronti di Veleia, che costrinse-ro il Costa a chiarire le sue posizioni («non è mai stata mia opinione di cre-dere Modena dipendente oninamente da Veleia, ma bensì di non sapermineppure persuadere che quella su di questa avesse giurisdizione, sebbenenella Lamina Modena vi sia nominata per ben quattro volte»44), il Caylus,come già il Galletti, non dovette spendere troppo tempo dietro a questionidi tal genere, che lo interessavano assai meno dei suoi esperimenti e che dicerto lo trovavano più impreparato. «Li due autori indicatimi dal sig. Conte[Plinio il Vecchio e Flegonte di Tralles] non bastano al certo per assicurareche la città di cui andiam scoprendo le rovine sia quella della quale essi par-larono» protesterà, a propria difesa, il Costa in risposta alle incalzanti ri-chieste del Du Tillot di completare il primo volume sugli scavi veleiati, giun-gendo persino a scrivere personalmente al conte per spingerlo a dirgli «ilsuo sentimento ... sul punto del nome che abbiasi a dare a queste nuove sco-perte»45.

Fu a questo punto che, pressato dai continui questiti provenienti da Pia-cenza, il Caylus finì per indirizzare il canonico alle cure dei savants dell’Aca-démie e incominciò seriamente a pensare di abbandonare l’incarico di con-sulente degli scavi veleiati, che il duca aveva voluto concedere a lui solo.Dalla corrispondenza del Costa veniamo a sapere che fin dall’autunno del1760 il Du Tillot meditava di allargare la consulenza sugli scavi veleiati alBarthélemy e al teatino Paolo Maria Paciaudi46, due tra i più illustri nomi

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44 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 5 gennaio 1761. La Lex indica Modenacome sede del praefectus della Gallia Cisalpina (la discussione sarà ripresa in De Lama 1818,p. 19).

45 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 15 gennaio 1761.46 Alla fine di ottobre del 1760 il Costa ricordava infatti al Du Tillot la promessa di pro-

curargli «la già divisatemi corrispondenza dell’abate Bartolomeo e del padre Pacciani [sic]Teatino» (Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 27 ottobre 1760). Sugli interessi anti-quari del Paciaudi, futuro antiquario ducale, vedi Nisard 1877, I (con lunga introduzione sulPaciaudi); Nasalli Rocca 1967, pp. 79-82; Burgio 1981; Farinelli 1985; Mutti 1993; Pelagatti1995.

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dell’antiquaria settecentesca, legati da uno stretto rapporto di stima e diamicizia con il Caylus, che di certo ebbe una parte considerevole in questascelta.

L’abate Barthélemy, il celebre direttore del gabinetto numismatico delre di Francia, aveva appena consegnato alle stampe la sua dissertazionesul mosaico nilotico di Palestrina, un’opera che lo aveva impegnato perquasi due anni e che aveva notevolmente accresciuto la sua fama di stu-dioso nell’ambiente antiquario romano: purtroppo per il ministro par-mense, l’abate non dovette mostrare altrettanto interesse per le antichitàdel ducato e anche se l’amicizia che da alcuni anni lo legava al Paciaudifinirà col tempo per risvegliare in lui qualche nota di curiosità per le sco-perte veleiati, il suo rifiuto a servire i desideri di don Filippo dovette es-sere deciso e categorico. Ben più fortunato, come è noto, si rivelò il ten-tativo presso il Paciaudi, destinato a diventare uno dei principali scopri-tori di Veleia.

3. Gli scavi di Veleia nella corrispondenza Paciaudi-Caylus

Per tramite del balì di Breteuil, comune amico del Caylus e del Du Tillot,l’antiquario francese era riuscito a tessere presso il ministro del ducato le lo-di del teatino e a presentarlo come il miglior candidato nella direzione dellacampagna veleiate. Il Paciaudi era ben consapevole di questo favore, manon altrettanto contento di lasciare Roma per finire i propri giorni a Par-ma47, come confiderà, in un momento di sconforto, all’amico a Parigi: dicia-mo, piuttosto, che si decise ad accettare l’incarico lusingato dalle attenzionidel sovrano e spinto dalle affettuose e (come vedremo) non del tutto disin-teressate premure del conte48.

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47 Sérieys 1802, p. 252. In una lettera al Caylus dell’8 ottobre 1760 il Paciaudi, riferendo-gli della visita del balì di Breteuil al Du Tillot, ringraziava l’amico per aver contribuito ad ac-crescere la sua buona opinione presso il ministro della corte parmense (Sérieys 1802, pp.198-99).

48 Alla fine di agosto del 1761, valutando i benefici (non solo economici) del suo futuroimpiego presso il duca di Parma, il Paciaudi scrisse da Napoli all’amico Caylus: «je serai li-bre et maître de ma volonté; je pourrai vivre en philosophe tranquille; c’est la meilleure cho-se du monde. Velleja, par son antiquité, me procurera une étude agréable; je pourrai fairequelque ouvrage pour l’infant, s’il le veut. Si on laisse cette commission au chanoine Costa,j’ai plusieurs livres entalés que je pourrai achever quand j’en aurai l’envie» (Sérieys 1802, p.257, lettera del 29 agosto 1761).

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Ritratto di Paolo Maria Paciaudi.

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La corrispondenza tra il Caylus e il padre Paciaudi, destinata a trasfor-marsi in un vero e proprio sodalizio scientifico e in una sincera amicizia,aveva avuto inizio nella primavera del 1757 e non si interromperà (se nonper i mesi che il Paciaudi trascorse a Parigi) che alla morte del conte, so-praggiunta nel settembre del 1765. I due epistolari, editi già nel corso delXIX secolo, non solo ci forniscono, come è noto, preziosissime informazionisui rapporti personali e di lavoro tra i due antiquari, ma in generale docu-mentano uno spaccato quanto mai vivace e articolato delle principali impre-se archeologiche, editoriali, collezionistiche della seconda metà del secolo,facendoci conoscere da vicino mercanti, falsari, antiquari, appassionati e cu-riosi che si affaccendavano, in un modo o nell’altro, intorno al commercio eallo studio delle antichità.

Il Paciaudi era stato incaricato dal Caylus di procurargli il materiale ar-cheologico adatto ad incrementare i volumi del suo Recueil ed effettivamen-te a partire dal terzo volume buona parte degli oggetti pubblicati saranno ilrisultato delle attente ricerche del teatino, facilitato nel suo compito dallaprecedente attività di predicatore, che per dieci anni lo aveva messo in con-tatto con diverse realtà (anche di carattere archeologico e antiquario) in tut-ta Italia, ma soprattutto dalla ramificata rete di rapporti con religiosi del suostesso ordine che, soprattutto in Sicilia e a Taranto, riuscirono a procurarglialcuni reperti greci o magnogreci, ricercatissimi dal Caylus sempre alle pre-se con la difficoltà di riempire questa classe di materiali49. «Vous avez l’intel-ligence fine et les bras longs...» gli scrisse nel febbraio del 1763 il Caylus50,ed effettivamente il Paciaudi si rivelò un vero e proprio segugio di antichitàrare e preziose, ben attento a non lasciarsi sfuggire la benché minima op-portunità di ampliare le conoscenze o, quanto meno, le raccolte archeologi-che dell’amico. Nel febbraio del 1760 un soggiorno nella città di Corneto glioffrì l’opportunità di fare eseguire degli scavi nel sito dell’antica Tarquinia edi indagare più a fondo le tante tombe dipinte sparse nella campagna, di cuifornirà al Caylus una dettagliata descrizione, oltre ad inviargli almeno quat-tro vasi provenienti dalle necropoli: la relazione sulle tombe tarquiniesi, edi-ta nel quarto volume del Recueil con una prefazione di elogio per il metododi indagine adottato dal teatino, contribuirà a rafforzare la stima e i rapportidi complicità tra i due antiquari51. L’anno precedente il Paciaudi si era reca-

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49 Vedi ad esempio Nisard 1877, I, pp. 92 e 121.50 Nisard 1877, I, p. 292. Sul ruolo fondamentale avuto dal Paciaudi nella formazione

della collezione di antichità del Caylus, vedi Ridley 1992, pp. 363-65.51 Vedi Sérieys 1802, pp. 126-31 e p. 136; Nisard 1877, I, p. 165; Le scoperte tarquiniesi

furono pubblicate, insieme ad una trascrizione della lettera inviata dal Paciaudi, in CaylusRecueil, IV, pp. 110-18, e p. 129, tav. XXXVIII.

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to a Palestrina per verificare l’esattezza di alcuni dati relativi al mosaico ni-lotico che l’abate Barthélemy stava all’epoca studiando e l’argomento gli of-frì lo spunto per discutere con il Caylus sulle antiche tecniche di realizzazio-ne dei mosaici, con particolare riferimento ad un esemplare a rilievo acqui-stato proprio allora dal cardinale Albani e che il Paciaudi giudicava moder-no52. La ricerca costante delle novità e dell’oggetto inedito aveva spinto ilCaylus in un’impresa tesa a “rubare” immagini di pezzi antichi conservati aRoma e nel territorio: l’intera vicenda è ben illustrata dalle lettere del Pa-ciaudi, che ci raccontano come il conte avesse affidato ad un allievo dell’Ac-cademia di Francia a Roma, Victor Louis, il compito di copiare i monumen-ti antichi della città ancora inediti o poco noti, e di come l’intervento delPaciaudi avesse permesso di scoprire l’inganno del Louis, il quale si erasemplicemente limitato a ricopiare dei disegni, alcuni addirittura di fantasia,eseguiti dall’artista e compagno di studi Hubert Robert, all’epoca pensio-nante presso la stessa Accademia. Fu allora che il Paciaudi propose al Cay-lus di fare eseguire il lavoro direttamente al Robert il quale, opportunamen-te istruito sui criteri di riproduzione scientifica e dietro stretto controllo,avrebbe potuto copiare fedelmente molti oggetti interessanti e forse anchele antichità Albani, che il cardinale annunciava da tempo di voler dare allestampe, ma che il teatino sperava di far giungere (almeno in parte) inediteall’amico in Francia53. Sarà però al Winckelmann che, di lì a poco, verrà af-fidato il compito di pubblicare i marmi Albani e non c’è dubbio che questascelta non fece altro che incrementare l’antipatia che il Caylus, a dispettodei pareri favorevoli del Paciaudi, non smise mai di provare per l’archeolo-go tedesco.

Con l’infittirsi delle lettere era aumentata tra i due corrispondenti anchela confidenza e quella particolare intesa che li spingeva a interrogarsi e aesprimere in tutta franchezza le rispettive opinioni sulle recenti pubblicazio-ni di argomento archeologico. Solo dietro le insistenti richieste del Paciaudi,il Caylus si era convinto a sottoscrivere il primo volume dei Monumenti an-tichi inediti del Winckelmann, anche se a suo giudizio rimaneva «très-malfait» il catalogo dello stesso autore delle gemme del barone von Stosch54; ma

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52 Sérieys 1802, pp. 63, 66-67, 81-82.53 Vedi Sérieys 1802, pp. 158-60, 191 e Nisard 1877, I, pp. 195-97. L’intera vicenda, data-

ta all’estate del 1760, è ripercorsa in Pariset 1959. Sull’attività di Hubert Robert come dise-gnatore di antichità in collaborazione del Paciaudi e del Caylus, vedi anche Raspi Serra1993, pp. 97-98 e Eadem 1998, in part. p. 124.

54 Vedi Nisard 1877, I, p. 50: si tratta naturalmente della Description des pierres gravéesdu feu Baron von Stosch, edita a Firenze dal Winckelmann nel 1760. Sulla sottoscrizione del-l’opera del Winckelmann da parte del Caylus, vedi Nisard 1877, I, p. 374: è noto che l’anti-

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il Winckelmann non è l’unico studioso preso di mira in questa fitta corri-spondenza: nell’annunciare l’imminente uscita dei due volumi sul CampoMarzio, il Paciaudi si domandava dubbioso se il Piranesi, che pure era unbravo disegnatore, sarebbe riuscito a soddisfare le aspettative delle personecolte e il Caylus, cui la teoria dell’origine dell’architettura romana sostenutadall’autore proprio non andava giù, liquidava con una battuta il suo giudi-zio sull’opera (««qu’auraient été les Romains du côté des artes sans lesGrecs? Jamais ils n’ont eu d’aptitude que pour la guerre»)55. Commenti deltutto positivi suscitò invece, da entrambe le parti, il Traité historique despierres gravées du Cabinet du Roi, edito dal Mariette a Parigi nel 1750, il cuiformato sarà alcuni anni più tardi preso a modello dal Paciaudi per la pro-gettata opera sugli scavi di Veleia56. Ma fu soprattutto l’enorme e ambiziosaimpresa editoriale delle Antichità di Ercolano, i cui primi volumi apparveroproprio negli anni della corrispondenza tra il Caylus e il Paciaudi, ad impe-gnare gran parte dei loro commenti e a stimolare la loro più accesa curiosi-tà. «Fa pietà» fu il giudizio del Paciaudi sul secondo volume dell’opera, illu-strata, a suo vedere, con incisioni mal delineate, poco fedeli ed eseguite sen-za grazia e intelligenza, confermando così il giudizio decisamente negativo,anche sul testo (troppo ripetitivo e pieno di cose inutili), già espresso dalCaylus a proposito del primo volume57.

Il Caylus aveva il dente avvelenato su Ercolano anche un altro motivo:moriva dalla voglia di possedere qualche reperto proveniente dalle città ve-suviane per pubblicarlo in anteprima nel suo Recueil, ma i rigidi divieti diesportazione e persino di riproduzione delle antichità imposti da Carlo diBorbone e soprattutto l’agguerrita sorveglianza del marchese Tanucci, mini-stro del re, fecero cadere ogni speranza del conte. Il Caylus, per la verità, ac-carezzava l’idea di ottenere qualche oggetto grazie ai favori e alle vaste co-noscenze dell’amico teatino, che in effetti fino ad allora non aveva mai delu-so le sue aspettative: il conte mirava soprattutto a qualche frammento di pa-piro ercolanese, interessato com’era ad indagare le tecniche di srotolamen-

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patia dell’antiquario parigino per il collega tedesco nasceva dal giudizio, non troppo favore-vole, espresso dal Winckelmann sull’opera del Mariette, studioso che godeva della incondi-zionata stima e dell’amicizia del Caylus. Sulle divergenze metodologiche e i difficili rapportiscientifici tra il Caylus e il Winckelmann, vedi Rocheblave 1889, pp. 334 ss. e Babelon 1928,pp. 18-22.

55 Nisard 1877, I, p. 44. Per il giudizio del Paciaudi, vedi Sérieys 1802, p. 29. Sulle criti-che del Caylus alla teorie architettoniche espresse dal Piranesi, vedi Ridley 1992, pp. 370-71.

56 Vedi infra cap. II, nota 23.57 Per i giudizi sulle Antichità di Ercolano, vedi Nisard 1877, I, pp. 42-43 e p. 243 e Sé-

rieys 1802, pp. 26 e 218.

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to, che sperava di migliorare con i suoi esperimenti, e non faceva mistero al-l’amico di essere persino pronto a commissionare un furto, pur di raggiun-gere il suo scopo. Ma il Paciaudi si dimostrò irremovibile e ben deciso a noninimicarsi il Tanucci, così che, a parte alcuni bronzetti di poco conto sottrat-ti furtivamente dagli scavi di Ercolano58, non fece altre spedizioni di mate-riale “proibito” a Parigi e non smise di consigliare al Caylus di abbandonareogni progetto clandestino e di agire per le normali vie diplomatiche e legali.«Je vois par votre réponse sur Herculanum que vous ne voulez pas êtrecomplice, ni vous mêler du vol que je projette et qui réussira, ou le diablem’emportera»59 scriverà stizzito il Caylus al termine di un lungo braccio diferro che aveva rischiato di incrinare la stima e di compromettere l’amiciziatra i due corrispondenti: l’abbandono dei suoi sogni sulle antichità vesuvia-ne gli doveva pesava molto e ormai gli era chiaro che le lunghe braccia delPaciaudi arrivavano sì dappertutto, ma non a Ercolano.

Ecco, dunque, che nell’avvio della campagna di scavi a Veleia, il Caylusvide subito una valida alternativa agli inaccessibili cantieri vesuviani, mal’esperienza gli aveva insegnato l’importanza di avere un proprio referente,fidato ed esperto, direttamente sul posto, meglio ancora se ufficialmente li-bero di agire in completa autonomia: non del tutto disinteressate, dobbiamoimmaginare, dovettero essere le sue manovre per favorire la chiamata a Par-ma dell’amico Paciaudi e la sua nomina a direttore degli scavi veleiati.

Nei mesi che precedettero il trasferimento del Paciaudi nella città duca-le, il Caylus aveva cercato in ogni modo di rinvigorire l’interesse dell’amicoper la ricerca archeologica sul campo, mettendolo a parte delle scoperte ve-leiati e spingendosi persino ad incoraggiare il progetto, da tempo accarezza-to dallo stesso teatino, di ripubblicare la dissertazione Delle Antichità di Ri-patransone, opera giovanile del Paciaudi, frutto delle sue indagini antiquarie

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58 «Vous m’avez parlé plusieurs fois de l’Herculanum, et vous souhaitez d’en avoir quel-que chose. Un coquin d’ouvrier y a volé trois petites statues de bronze qui représentent Her-cule, dont une est médiocre, et a une jambe cassé; les deux autres ne valent pas le diable.Comme elles me coûtent peu d’argent, je vous les envoie [...] Ayez la bonté cependant de nepas dire d’où cela vient» scrisse infatti il Paciaudi all’amico nel dicembre del 1759 (cfr. Sé-rieys 1802, p. 100 e Nisard 1877, I, p. 127). «Je vous garderai d’autant plus le secret sur lesmorceaux d’Herculanum – gli rispose per rassicurarlo il Caylus –, non seulement parce queje le sais garder, mais qu’il est un moyen de faire des vols plus considérables, et pour lesquel-les j’ai, je vous l’avoue, la plus grande vocation» (cfr. Nisard 1877, I p. 114). Il Paciaudi ave-va consigliato all’amico di far scrivere al Tanucci dal duca di Choiseul, mossa tanto più ne-cessaria se si trattava di ottenere uno dei papiri di Ercolano, di cui la corte andava semprepiù gelosa, ma il Caylus respinse sempre questa possibilità (Nisard 1877, I, pp. 86, 101, 120nota 4 e 128; Sérieys 1802, p. 108).

59 Nisard 1877, I, p. 120.

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e di scavo nella città marchigiana, che produssero numerose “anticaglie”, al-cune delle quali vennero negli anni inviate in dono allo stesso Caylus60.

Ciò che al Caylus non era riuscito di fare con Ercolano, tentava ora di ot-tenerlo con gli scavi di Veleia e da subito cercò di chiarire al Paciaudi qualifossero le sue aspettative e, soprattutto, che tipo di materiale sperasse di ri-cevere. Fin dai primissimi anni della loro lunga corrispondenza, il Caylus siera infatti sforzato di convincere l’amico del suo sincero disinteresse per ilbel pezzo da collezione, altrove tanto ambito e ricercato ma che a lui sem-brava spesso così poco istruttivo sulle tecniche e sui metodi di lavorazionedegli Antichi, e non aveva mancato di ricordargli che per farlo contento po-tevano bastare pochi frammenti di vetro, di bronzo, qualche pietra lavorata,alcuni cocci, materiale certo di poco pregio ma tanto più interessante per leindagini che andava allora conducendo. «N’oubliez pas, je vous prie, queles fragments et les morceaux cassés ne me déplaisent pas» scriveva infattigià nel febbraio del 1757 ad un Paciaudi che faceva invece di tutto per pro-curarsi reperti di particolare pregio artistico, apprezzati per il buono statodi conservazione o per il valore intrinseco del materiale, e dunque degni delcabinet di uno dei più grandi antiquari di Francia61.

Alle richieste del Caylus di avere alcuni frammenti dei vasi “etruschi” re-cuperati dal Paciaudi nelle tombe di Tarquinia, il teatino si farà vanto di po-tergli inviare dei vasi interi («vous me demandez depuis long-temps des

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60 Vedi ad es. Sérieys 1802, p. 10, n. 11 e p. 11, n. 19. Gli scavi nei territori di Cupra Ma-rittima e Ripatransone continuarono anche dopo la partenza del Paciaudi ed è probabile chegli oggetti inviati al Caylus siano il frutto di campagne più recenti, di cui il teatino veniva te-nuto informato dai numerosi corrispondenti in zona. Sull’attività del Paciaudi in relazionealla stesura di quest’opera, terminata a Ferrara nel 1741 (la nuova edizione non verrà maicompletata), vedi Pelagatti 1995, in part. pp. 314-16. Nel luglio del 1760 il Paciaudi chiede-va consiglio al Caylus su come pubblicare i pezzi antichi provenienti da Ripatransone: «vousme direz dans le temps, si je dois publier tous ces monumens, ou en faire dix planches» (Sé-rieys 1802, p. 161).

61 Vedi Nisard 1877, I, p. 3; «je vous prie toujours de vous souvenir que je ne fais pas uncabinet, que la vanité n’etant pas mon objet, je ne me soucie point de morceaux d’apparat,mais que des guenilles d’agate, de pierre, de bronze, de terre, de vitre, qui peuvent servir enquoi que ce soit à retrouver un usage ou le passage d’un auteur, sont l’objet de mes désirs»scriverà il Caylus al Paciaudi nel febbraio del 1758 e l’anno successivo lo pregherà di procu-rargli «des instruments de tous les genres ..., des opérations de l’art, comme incrustations,damasquinures, des verres singulièrement travaillés avec des ornements en relief, des petitesplaques de bronze avec des inscriptions en creux ou en relief ... des terres cuites destinées àdifferents usages» (Nisard 1877, I, pp. 29-30). Sulle divergenze di metodo scientifico e dimodo di intendere lo studio dell’antico che contrapponevano il Caylus al Paciaudi, vedi an-che Guillerme 1983.

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pots cassés, je veux vous en envoyer d’entiers»)62, e la buona conservazionenon smetterà mai di essere, per il Paciaudi, uno dei requisiti essenziali daperseguire nella ricerca del materiale da inviare a Parigi, a dispetto delleproteste del conte: ««je vous ai témoigné du dégoût pour les morceaux debelle conservation, ces froids Apollons, ces belles prétendues Vénus, etc.[...] je compare les belles antiquités aux belles dames et aux beaux mes-sieurs dont la toilette est complète, qui arrivent dans une compagnie, semontrent et n’apprennent rien; au lieu que je retire quelquefois d’un morce-au fruste, que je comparerai en ce cas à un homme crotté et qui marche àpied, le sujet d’une dissertation et l’objet d’une découverte»63. Certo, inqualche occasione, il Paciaudi mostrò di comprendere le priorità di indagi-ne del Caylus, ricercandogli la “materia nera”, utile per una dissertazione al-l’Académie sulle antiche tecniche di lavorazione dell’ossidiana o procuran-dogli, soprattutto in Italia meridionale, i tanto ricercati frammenti di cera-mica «qui fasent sentir la manoeuvre»64, ma una vera e propria intesa, suquesto punto, non ci fu mai. Vedremo che l’occasione dello scavo di Veleianon farà che inasprire le divergenze metodologiche tra i due studiosi.

Nell’autunno del 1760 il Paciaudi si risolse a scrivere al Du Tillot per darei suoi «deboli lumi» sulle scoperte veleiati: ««J’ecris aujourd’hui à Du Tillotau sujet de Velleia, et de ses fouilles» comunicava infatti al Caylus nel novem-bre del 1760, e subito aggiungeva «ils n’ont pas de bons ouvriers, et des per-sonnes qui sachent comment on fouille les lieux antiques; ils gâteront tout ettrouveront peu»65. Il Paciaudi, che ben poco sapeva di Veleia e che non avevaancora messo piede sul posto66, riferisce evidentemente qui il giudizio di chiera all’epoca più informato di lui, il Caylus in primo luogo, che ormai da tem-

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62 Sérieys 1802, p. 131.63 Nisard 1877, I, pp. 7-8.64 Nisard 1877, I, p. 121. Nella primavera del 1760 il Caylus era infatti occupato a redi-

gere una Mémoire sulla pietra ossidiana, letta poi all’Académie di Parigi (cfr. Nisard 1877, I,pp. 144-45 e 189). Per gli studi condotti all’epoca dal Caylus sull’ossidiana e sulla produzio-ne di diversi tipi di vetri neri, vedi Boch 2002.

65 Sérieys 1802, p. 205. Già al principio di ottobre il Paciaudi aveva promesso al Caylusdi scrivere al Du Tillot a proposito degli scavi di Veleia (Sérieys 1802, p. 199).

66 Sembra difficile pensare che questo giudizio sia il frutto di una visita agli scavi effet-tuata dal Paciaudi nell’estate del 1760, come ipotizzato dal Nisard (Nisard 1877, I, p. 240,nota 3): ancora nel dicembre dello stesso anno, infatti, lo stesso teatino comunicava al Cay-lus di avere richiesto da Parma una dettagliata descrizione di Veleia, ignorando ancora lostato di conservazione della città, la data e le modalità della sua scoperta, le cause della suadistruzione e il risultato degli scavi, in previsione di un suo viaggio sul luogo in calendarioper la primavera seguente «pour voir la situation des choses» (Sérieys 1802, p. 211).

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po si scontrava con l’inesperienza del canonico Costa, ma è anche possibileche questa critica traduca gli umori e i dissapori che si andavano formando,tra gli studiosi, gli appassionati e i semplici curiosi di antichità, sulla segretaimpresa archeologica promossa dal ducato; e che le voci contrarie (rese forseancora più ostili dai rigidi divieti e dal fastidioso atteggiamento di misteroostentato dalla corte parmense) non mancassero, lo dimostrano anche le pole-miche parole del Costa, all’indomani della scoperta delle celebri statue del ci-clo imperiale provenienti dalla basilica: «le grandiose interessanti nuove ...meritano giustamente la comune nostra esultazione perché sono prove di nonaver noi impegnata la regia Corte in cose di poco riguardo, come hanno spac-ciato alcuni invidiosi continuando sin’ora a parlarne fuori di proposito»67.

Con l’anno nuovo, fin dai primi giorni di gennaio, il Costa potrà final-mente ringraziare il ministro per avergli procurato la preziosa consulenzadel padre Paciaudi68. Nella corrispondenza tra i due il nostro canonico, me-more dei consigli del Galletti sulla necessità di essere brevi e di andare dirit-ti al nocciolo della questione, si sforzerà di trasmettere le informazioni es-senziali per la comprensione dell’area indagata:

parlerò in seguito delle scoperte, ed intanto mi restringo a dirle, che abbiamodi già un bel cortile, che credo il Pretoriale scoperto, il quale aveva a dritta,ed a sinistra un bel loggiato, ma talmente dirocato, che li muri, e le colonne,che sono di cotto non si alzano in ora da terra in parte tre o quattro palmi, edin parte cinque in sei, e qui è ove fu trovata la rarissima Lamina Trajana ali-mentaria già pubblicata colle stampe, e dal Sig. Muratori, e dal MarcheseMaffei, e da Mr Terrasson, e dove ancora si è dissotterrata un altra lamina le-gale di ben 108 linee, vari frammenti di altre lamine, non poche iscrizioni dipietra, alcune statuette, frantumi di statue colossali, e diverse altre anticaglie,cose tutte, che domandano per essere illustrate altra penna, che la mia, e chehanno già messo in grande aspettazione il Mondo Letterario69

gli scriveva già nella prima lettera, per poi tornare subito al problema per luipiù scottante e di più difficile interpretazione, quello cioè delle fonti anticheche avevano parlato di Veleia, sperando questa volta di avere dal Paciaudi queilumi che né il Galletti né tantomeno il Caylus avevano saputo o voluto dargli70.

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67 Costa ms. Pallastrelli, lettera del Costa al Martelli dell’8 giugno 1761.68 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 5 gennaio 1761. 69 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Paciaudi dell’8 gennaio 1761 (trascritta anche dal De

Lama in AMANP, ms. 56).70 In particolare, il Costa non riusciva a spiegarsi il quasi totale silenzio delle fonti stori-

che e letterarie per una città che, come stavano dimostrando gli scavi, doveva essere stata ric-ca e importante; a proposito della breve menzione fatta da Plinio il Vecchio, ad esempio, an-notava: «ma e perché mai dir si poco quando di altre finitime città ha parlato con vantaggio?

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L’impressione che il canonico fece sul Paciaudi fu positiva e ben condottigli parvero ora persino gli scavi (che, però, non aveva ancora visitato): «Cequ’il y a de certain c’est qu’on fouille avec le meilleur ordre du monde, et jecrois que notre bon Tillot en aura tout le mérite. A la vérité le comte Costan’est connu a Rome que par quelques remarques sur la célèbre table des en-fans alimentaires de Trajan; mais c’est certainement l’homme le plus savantde ce pays», confidava al Caylus già nel febbraio di quello stesso anno, la-sciando intendere che avrebbe accettato con piacere, con buona pace delministro di Parma e con soddisfazione dell’amico francese, l’incarico ufficia-le di antiquario di don Filippo, nomina decretata il 10 agosto del 1761, in-sieme a quella di bibliotecario regio71.

Nell’autorevole intervento del Paciaudi il ministro vedeva finalmenteprofilarsi la speranza di portare a compimento uno dei progetti che più glistavano a cuore, quello della pubblicazione delle scoperte veleiati, ormai datroppo tempo sottoposte al rigoroso vincolo del silenzio. Era giunto il mo-mento, soprattutto dopo il fortunato ritrovamento del ciclo statuario prove-niente dalla basilica, di rendere noti all’intero mondo scientifico e letterarioi promettenti risultati prodotti dagli scavi, così da rivendicare per Parma ilruolo di primo piano avuto nell’indagine archeologica tardo-settecentesca.

Il compito di provvedere all’edizione del materiale di scavo era, per laverità, già stato affidato al Costa, ma segreto desiderio del Du Tillot era ditrasferire tale incarico al Paciaudi, un nome che avrebbe garantito all’opera

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Forse perché ai tempi di Plinio fosse ella una cittaducola dispreggievole? Ma come conciliarciò colla largizione di Trajano, e di Gallicano; come molto più persuaderselo in ora, che colliscavi fatti l’anno scorso abbiamo scoperto un cortile fiancheggiato da tre parti di un bel log-giato con colonne altre di cotto altre di tuffo, selciato di pietre piccate, con attorno un beninteso condotto per lo scolo delle acque ai lati delle due camere una perfettamente dipinta agrottesco, altra salicata (?) di marmo greco, altra a mosaico; in ora che abbiamo già in poternostro una prodigiosa quantità di diverse sorti di marmi orientali, a modo da potersi dire,che del granito non se ne abbia quasi a far conto, una buona parte dei quali marmi, ci mo-strano dalla loro grossezza, che servivano, o per lastricato di Camere o per incrostatura dimuri; in ora che oltre non poche medaglie, oltre due colonne di marmo fino in diametro po-co meno di due palmi in altezza circa quindici palmi romani, oltre alcune teste, statuine, efragmenti di statue gigantesche altre di alabastro altre di bronzo, altre di metallo dorato ab-biamo già alle mani diverse iscrizioni relative a diversi Imperatori, e Signori di rimarco e fraqueste una Lamina legale di ben centotto linee ...» (Costa ms. Pallastrelli, lettera del Costa alPaciaudi del 22 gennaio 1761, copiata dal De Lama in AMANP, ms. 56).

71 Per una dettagliata sequenza delle tappe che portarono alla duplice nomina del Pa-ciaudi e al suo insediamento nella città ducale, vedi Pelagatti 1995, in part. pp. 316-20. Per ilgiudizio sul Costa (che incontrerà il favore del Caylus: Nisard 1877, I, pp. 239-40), vedi Sé-rieys 1802, pp. 216-17.

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una ben più accreditata notorietà72. Vedremo nel capitolo successivo cheproprio sulla questione dello studio e della pubblicazione del materiale ve-leiate finì per incrinarsi l’iniziale sodalizio tra il Costa e il Paciaudi, ben pre-sto oscurato dai toni di accesa polemica che portarono alle forzate dimissio-ni del Costa e alla nomina del Paciaudi a direttore degli scavi, nel marzo del1763. «On ne peut lui ôter ce travail», ripeteva il Paciaudi all’amico Caylusa proposito dell’eventualità che al povero Costa, uomo onesto e ormai an-ziano, venisse revocata la carica che lo aveva reso tanto orgoglioso, ma allostesso tempo non mancava di comunicare al Du Tillot le mancanze, gli erro-ri, le ingenuità degli scritti del canonico.

Il Paciaudi giunse a Parma pieno di voglia di fare, desideroso di riporta-re la biblioteca regia ai fasti di un tempo, un compito del tutto congeniale aisuoi interessi e che probabilmente fu decisivo ai fini del suo trasferimentonel ducato, ma anche stuzzicato all’idea di rispolverare le sue abilità di ar-cheologo “sul campo” e di far risorgere una intera città antica. Il fondamen-tale contributo del teatino alla valorizzazione e all’ampliamento del patri-monio librario della Palatina, a partire dal progetto di acquisto (poi non an-dato in porto) dell’intera biblioteca del cardinale Passionei, che il Paciauditentò con ogni sforzo di assicurare al ducato emiliano ma che infine venneceduta a papa Clemente XIII per la somma di ventisei scudi, è stato ogget-to, anche di recente, di numerosi studi scientifici73 e non è qui il caso di ri-percorrere le tappe della suo proficua attività di bibliotecario regio o del ra-pido accrescimento della sua biblioteca, che per ricchezza di materiale e permetodo di catalogazione diventerà presto, nelle voci dei tanti viaggiatori edegli studiosi italiani e stranieri in visita a Parma, uno dei fiori all’occhiellodella politica culturale del ducato e, in generale, un modello da seguire.

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72 Scrivendo al Caylus nel luglio del 1761 il Paciaudi gli confidava infatti i progetti delDu Tillot a proposito della pubblicazione degli scavi veleiati: a giudizio del Paciaudi, il mate-riale rinvenuto fino a quel momento poteva essere sufficiente per una galleria di antichità,ma non lo era altrettanto per un libro. Il teatino chiese dunque al Du Tillot di aspettare fin-ché gli scavi non fossero più avanzati, ma soprattutto cominciò a porsi (e a porre ai suoi in-terlocutori) il problema di come fare a scalzare dal suo incarico il canonico Costa (vedi Sé-rieys 1802, p. 251, lettera del 18 luglio 1761).

73 Vedi, ad esempio, Ciavarella 1962, p. 15 e Bertini 1982, pp. 249-50. Le trattative per iltentato acquisto della biblioteca del cardinale Passionei, morto nel 1761, da parte del ducatodi Parma sono ben documentate nelle lettere inviate dal Paciaudi al Du Tillot tra il febbraioe il giugno del 1762 (Paciaudi ms. 1586: lettere parzialmente ricopiate dal De Lama inAMANP, ms. 58). Nel luglio del 1761 il Paciaudi già comunicava al Caylus il desiderio delministro Du Tillot (poi fatto proprio dallo stesso Paciaudi) di comperare la biblioteca, stima-ta 50.000 scudi romani, per conto del ducato di Filippo di Borbone (Sérieys 1802, p. 251).

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Certo non indifferente ai progressi della biblioteca Palatina (aveva pro-curato al Paciaudi la consulenza con il Tilliard, abile bibliotecario ed editoredelle sue stesse opere)74, il Caylus era, naturalmente, assai più interessatoagli sviluppi degli scavi di Veleia e non perdeva occasione per ricordare al-l’amico i suoi doveri di archeologo, fiducioso di poter ancora ricavare dallacampagna veleiate materiale utile ai suoi esperimenti: «Je suis charmé de vo-tre projet de la bibliothèque pour Parme; mais je crains que dans cette petitpays on n’entreprenne trop de choses à la fois. Croyez-moi, achevez vos fo-uilles, faites graver votre cabinet, donnez-en l’histoire et l’explication, celasuffira pour la gloire du prince et du siècle»75, gli scrisse infatti nel novem-bre del 1761, incalzandolo a mettere finalmente mano all’opera che avrebbefatto conoscere all’intero mondo antiquario le recenti scoperte sull’appenni-no emiliano. Tra le carte parigine del Caylus edite dal Sérieys nel 180276 sitrovava anche una copia del giornale di scavo di Veleia relativo al periodomaggio-giugno 1761, con la cronaca del ritrovamento di alcuni frammentidelle dodici statue della basilica, documento quasi certamente richiesto dalconte al Costa, a conferma della scrupolosa attenzione con cui il pariginoseguì tutte le fasi dello scavo.

Una delle prime mosse del nuovo antiquario ducale fu quella di promuo-vere lo studio e garantire la buona conservazione dei reperti di maggior pre-gio artistico recuperati nelle passate campagne di scavo e ancora in granparte ammassati nei magazzino ligneo costruito a Veleia al principio delleindagini archeologiche:

pare necessario – scriverà infatti al ministro Du Tillot – far venire a Parmatutto ciò che si è trovato, per poter formare una più sicura idea dei Monu-menti. Facendoli venire conviene prima determinare due cose. La primacome e dove si abbiano a collocare. Perché il lasciarle nelle casse non puòche deteriorarli, oltre a che ci si imputerà una specie di barbarie. La secon-da, se le statue mutilate e gli altri pezzi imperfetti si debbano restaurare,come si è praticato a Roma, a Napoli, a Firenze. Questo dipende dal giudi-zio degli uomini dotti, che bisogna consultare, e non da quello dei sempliciartisti77.

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74 Nell’aprile del 1762 il Paciaudi scrisse infatti al Du Tillot: «il conte di Caylus, che le famille complimenti, mi ha proprosto un libraro corrispondente della nostra Biblioteca: Mr.Tillard» (Paciaudi ms. 1586, f. 94v). Vedi anche Nisard 1877, I, p. 325, nota 1.

75 Nisard 1877, I, pp. 272-73.76 Sérieys 1802, Appendice 4, pp. 343-47.77 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20 (Riflessioni intorno ad alcuni provvedi-

menti per gli scavi di Velleia, 16 luglio 1763).

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La decisa presa di posizione sulle competenze coinvolte nei restauri dellestatue veleiati e, ancor più, i dubbi circa l’opportunità della loro esecuzionesono un chiaro segno di una profonda riflessione teorica sulla destinazionedei monumenti antichi e sulla necessità di preservarne il valore di documen-to archeologico, prima ancora che artistico, una riflessione che giunge tantopiù nuova e inattesa se si considera che i marmi veleiati, per volere ducale,furono da subito scorporati dal restante materiale di scavo e destinati allesale dell’Accademia di Belle Arti, per servire (secondo una pratica diffusa intutte le accademie d’Europa) da modelli per lo studio delle figure e dei pan-neggi “all’antica”. Il Paciaudi, rivendicando il ruolo degli antiquari, inten-deva ora ribadire il valore documentario dei marmi e, implicitamente, allu-dere alla necessità di tenere unite le raccolte veleiati.

Diversi anni più tardi, al termine di una seconda campagna di scavi av-viata nel 1776, il Paciaudi formulerà finalmente un progetto di musealizza-zione delle antichità di Veleia, quasi un’eredità che il teatino voleva lasciareal ducato dopo tanti anni di servizio e che, nelle sue intenzioni, doveva con-tribuire a ridestare l’interesse, un po’ sopito, di viaggiatori e studiosi per gliscavi dell’antico municipium romano:

Intanto se V.E. vorrà impetrare da S.A.R. che la camera destinata al Museovenga convenientemente ornata, io prenderò il carico di suggerire agli artefi-ci cosa abbiano a fare per eseguir bene, e con economia. Gli armadi che ab-biamo per racchiudere le medaglie sono disuguali, e di costruzione irregola-re. Ci vorrebbero quattro scrigni di uniforme struttura con entro i suoi tira-toi, e qualche mensola. Allora si potrebbon collocare e tutte le medaglie e lestatuette dello scavo Velleiatese, e tutte le altre anticaglie che sono dispersetra la libreria e l’Accademia, e per tal modo formare un Museo capace disorprendere e trattenere con ammirazione e piacere i Forestieri78.

Così scriverà il Paciaudi al Du Tillot al termine della sua lunga carriera diantiquario, ma è chiaro che l’idea di un museo archeologico autonomo dal-l’Accademia di Belle Arti gli era nata molti anni prima, all’epoca della primacampagna di scavi, complice lo stretto sodalizio che aveva formato con il con-te di Caylus. E fu proprio al Caylus che il Paciaudi volle sottoporre la spinosaquestione del restauro delle statue veleiati, in vista dell’edizione dell’opera suVeleia che il teatino andava all’epoca preparando. La risposta del conte, co-m’era prevedibile, fu di limitare il più possibile ogni intervento moderno:

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78 ASP, Istruzione Pubblica. Accademia di Belle Arti, b. 30, lettera del Paciaudi al DuTillot del 3 gennaio 1781. Sull’interesse suscitato nei viaggiatori italiani e stranieri dagli scavidi Veleia tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni del secolo successivo, vedi in-fra cap. IV, con relativa bibliografia.

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quant aux restaurations de marbre, vous sentez bien qu’un pauvre Gauloisne peut rien dire à des artistes aussi fins et aussi adroits que les Italiens. Jevous recommanderais tout grossièrement de les empêcher de trop ajouter, etde se tenir dans le simple de l’antique79.

Pensando alle ripercussioni positive del progettato museo, il Paciaudi siimpegnò anche a recuperare la preziosa Tavola Traiana («sarà un oggetto in-teressantissimo per tutti i Forestieri, i quali lo vedranno con ammirazio-ne»)80, ancora depositata a Piacenza, dove il Costa la custodiva con la scusadi volerla restaurare, e, come abbiamo visto, tentò di risolvere (con scarsosuccesso) il problema del suo definitivo restauro81. Cominciò poi a pensareal restauro e alla sistemazione museale dei numerosi bronzetti provenientidallo scavo e a questo scopo si fece inviare alcuni frammenti di marmo anti-co, per «formare loro le basi con materia trovata a Velleia», sicuro che cosìavrebbero fatto un «più stimabil ornato»82.

Ma quale, esattamente, fu il contributo del Paciaudi agli scavi di Veleia equali novità portò alla gestione del patrimonio archeologico del ducato ilsuo trasferimento a Parma?

Prima ancora di dare l’avvio alla campagna del 1763, la prima condottasenza l’ingombrante presenza del Costa, il teatino fece venire da Roma unesperto scavatore83, tale Lorenzo Blasi, cui affidò non solo il compito di so-vrintendere materialmente agli scavi, ma anche quello, non meno impor-tante, di istruire nel mestiere gli operai impiegati sul cantiere: il Paciaudiintendeva fare di Veleia un campo di formazione sulle più moderne tecni-che dello scavo archeologico, in grado di garantire una salda credibilità an-che alle future campagne promosse dal ducato. Nell’opinione comune deltempo i migliori esperti del settore venivano da Roma, e vedremo che

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79 Nisard 1877, II, p. 24 (lettera del 16 luglio 1764).80 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 2081 La Tavola Traiana sarà trasferita da Piacenza a Parma il 30 aprile del 1764 (Montevec-

chi 1934, p. 568). Nel luglio dello stesso anno il Caylus, informato dei propositi di restaurodi entrambe le tavole legislative, così scriveva al Paciaudi: «je suis charmé que vous ayez unhomme capable de restaurer vos table de bronze» (Nisard 1877, II, p. 24). Sulle vicende set-tecentesche della lamina, vedi il saggio introduttivo in Criniti 1991. Per il primo restauro in-tegrale della Tavola, commissionato da Pietro De Lama nel 1817, vedi infra cap. III, § 6.

82 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20, “Riflessioni intorno ad alcuni provve-dimenti per gli scavi di Velleja”, testo inviato dal Paciaudi al Du Tillot il 16 luglio 1763.

83 Pigorini 1869, p. 13. La nomina di Lorenzo Blasi, accompagnato a Veleia dal figlio, aprimo scavatore di Veleia e le condizioni del suo incarico, sono documentate in ASP, Istru-zione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20. I pagamenti per i due scavatori romani sono inveceregistrati in ASP, Computisteria borbonica di Parma, b. 714.

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quando, alla fine del secolo, l’allora direttore del Museo di Antichità diParma, il giovane Pietro De Lama, deciderà di aggiornare le proprie com-petenze tecniche, sarà proprio sui cantieri di Roma che cercherà di appren-dere i segreti del mestiere.

«Je suis très-curieux, je l’avoue, de l’impression que vos fouilles aurontfaites au premier coup d’oeil sur le fouilleur que vous avez fait venir de Ro-me. Sur votre récit, il me parâit le premier de son art, et je crois qu’il n’y arien qu’il ne fouillât» scrisse subito il Caylus all’amico, pieno di entusiasmoper il nuovo corso preso dagli scavi84. In considerazione del gran numero diiscrizioni, spesso molto frammentarie, che lo scavo continuava a restituire, ilPaciaudi ottenne anche che sul cantiere ci fosse qualcuno in grado di legge-re correttamente le epigrafi antiche, e così il sacerdote piacentino AntonioColombi (valido collaboratore, come vedremo, del Blasi) entrò a far partedell’équipe impegnata a Veleia85.

Gli accurati sopralluoghi e i consulti con lo scavatore romano avevano fi-nalmente convinto il Paciaudi degli errori commessi dalla direzione Costa edella necessità di indagare il terreno da altre parti. Nel luglio del 1763 scris-se dunque al Du Tillot:

siccome pare costante che la rovina degli edifizi sia nata dal diroccamentodella superiore montagna, è necessario di tentare gli scavi nella parte solleva-ta al di là della Parrocchia, il che ho ordinato che si intraprenda dopo la mie-titura. Dopo questo saggio e dopo qualche altro vicino al rivo, si potrà conpiù di fondamento presagire cosa sia da ripromettersi dagli scavi86.

I diari di scavo dell’anno 1763 confermano infatti uno spostamento del-le indagini dall’area del foro alle terrazze sovrastanti, nei settori sud e sud-est dell’abitato: si contava, in questo modo, di agevolare le operazioni discavo, che in corrispondenza del foro erano state ostacolate dall’alto stratodi terra mista a pietrame franata dai monti vicini, e non ci si nascondeva lasperanza di imbattersi in reperti in migliore stato di conservazione. Infattiil terreno dello scavo, anche quello verso la montagna, dove ora si eranoconcentrate le ricerche, era sì pieno di antichità, come faceva sapere il Pa-

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84 Nisard 1877, I, p. 311, lettera del 16 maggio 1763.85 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20, “Riflessioni intorno ad alcuni provve-

dimenti per gli scavi di Velleja”, 16 luglio 1763.86 Ibidem. Una lettera del Martelli del 30 maggio 1763 conferma l’opinione del Blasi sulla

necessità di scavare più a monte, nell’area meridionale dell’abitato: «l’operaio stesso a vistade’ Monumenti che si sono scoperti, e che li ho fatto vedere, giudica che avanzandosi leescavazioni nel sito più elevato, che resta verso mezzogiorno, possasi in esso fare dei ritrova-menti felici» (AMANP, Scavi di Velleia, 2).

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ciaudi all’amico Caylus, ma si trattava di oggetti di poco conto, di bronzet-ti, di frantumi di utensili domestici, di qualche moneta, e anche le poche«belles antiquités» erano tutte spezzate in più parti; il ritrovamento di dueerme in marmo, in perfetto stato di conservazione, e di alcuni frammenti distatue bronzee e marmoree, provenienti dagli ambienti a occidente dellachiesa di Macinesso, fecero sperare all’antiquario ducale in «quelque chosede mieux», così come la scoperta di due camere dotate di un sistema di ri-scaldamento e il gran numero di pavimenti musivi, che a suo dire si incon-travano ad ogni passo, lo convinse di stare scavando una città importante,la capitale stessa dei Veleiati87.

Tra l’estate e l’autunno di quello stesso anno venne dunque esplorato ilquartiere abitativo meridionale, circostante gli edifici della chiesa e della ca-nonica, con la casa ad atrio detta del “cinghiale”, dall’emblema musivo chedecorava il tablino (in seguito scomparso: forse lo stesso che in un primomomento si pensò di strappare, approfittando della abilità del Blasi88) e fu-

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87 Vedi Sérieys 1802, pp. 288-90, lettera del 15 luglio 1763: «a chaque pas on rencontredes pavés de mosaïque, mais tout brisés: ce qui me fait croire de plus en plus que c’étoit làqu’étoit située la capitale de Velleja, comme le portent deux inscriptions. Si ce n’eût été unlieu considérable et fréquenté, comment y trouveroit-on tant de morceaux de table de bron-ze, sur lesquelles étoient tracées les lois romaines?». Le due erme marmoree sono riprodottein Ms. Parm. 1245, tavv. V e VII (relative al 1764, anche se dai diari di scavo si ricava che en-trambe le sculture furono rinvenute «nello scavo superiore, dirimpetto alla chiesa» tra il giu-gno e il luglio 1763); nel 1764 furono trovati anche un torso di fanciullo avvolto dalle spiredi un serpente e una piccola testa virile in marmo bianco, riprodotti in Ms. Parm. 1245, tavv.IV e VI: per il diario di queste scoperte, vedi AMANP, ms. 46.

88 «Se il mosaico è interessante bisogna cavarlo tutto intero e incassarlo .... questo il Blasilo sa fare a meraviglia» scriveva infatti il Paciaudi a Giacomo Nicelli in data 5 luglio 1763(AMANP, Scavi di Velleia, 2); la scoperta del mosaico «rovinato nel mezzo, scoperto vicinoalla Chiesa verso settentrione», è registrata in Ms. Parm. 1245, p. 17, in data 2 luglio 1763.L’emblema musivo raffigurante un cinghiale o una scrofa è riprodotto in Bertioli Antichitàvelleiati (disegni a china con l’indicazione delle misure e dei colori «nero, bianco, bleu e fer-rugineo»; nel volume è conservata anche una sagoma del “cinghiale” ritagliata sulla carta: lepiante di scavo sette e ottocentesche, il disegno e la sagoma su carta del cinghiale sono pub-blicati in Miranda 2002, figg. 3 e 6). Alla riapertura degli scavi, nel 1776, si esplorò nuova-mente l’area della casa, registrando la scoperta di «parte di una medaglia di un mosaico largabraccia 2 once 6 nella quale resta impresso un cignale, o animale suino» (AMANP, ms. 47, eScavi di Velleia, 3 [1776-1780], in data 5 settembre 1776). È stata di recente avanzata l’ipote-si che il proprietario della casa del cinghiale, una delle dimore più lussuose della città, vadaidentificato con il L. Sulpicius Nepos, patrono di Veleia e illustre magistrato locale, menzio-nato nella stele onoraria con venator proveniente dal foro (per questa stele, vedi infra, cap.II, nota 30): l’emblema con il cinghiale, chiaramente allusivo a spettacoli con cacce, avrebbeinteso ricordare un munus offerto da Sulpicio alla cittadinanza (Miranda 2002, pp. 123-25).

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rono rimessi in luce «superiormente agli scavi, verso mezzogiorno» parte diun acquedotto89 e alcuni ambienti riscaldati (detti “bagni”), che conservava-no ancora ben leggibili parte delle suspensurae (le «colonnette di cotto parterotonde, e parte quadre su pavimento di calcestruzzo scoperte in un saggiosopra la Chiesa»), registrate nel diario di ottobre90. Ma non sempre i consi-gli del Blasi incontravano il favore dell’antiquario di corte, e così quandopropose di abbattere qualche muro per scavare più in profondità (secondoun metodo, di certo, largamente impiegato nei vasti cantieri romani), giunseimmediato il divieto della corte di demolire anche una sola strutturaantica91. I dubbi e le incertezze sull’efficacia delle nuove procedure di scavoe persino sulla scelta delle aree esplorate non abbandonarono mai del tuttoil Paciaudi, che finì spesso per chiedere consiglio all’amico in Francia. Cer-to, lo incalzava allora il conte, sarebbe stato utile sapere con esattezza lospessore dello strato di terra e pietre che aveva sepolto le rovine, «mais celaest impossible», concludeva, non senza però avergli prima dato qualche uti-le suggerimento sul modo di sondare il terreno e avergli riconfermato la fi-ducia nello scavatore di Roma:

ce qu’il y a de certain, c’est que cette épaisseur est inégale, et c’est pourquoije vous avais conseillé l’autre jour de tâter le terrain avec des sondes qui vousinstruiraient du plus ou moins du fouilles et de mines nécessaires; et puisquevous trouvez des médailles, vous êtes dans cette partie à la superficie; dumoins n’est pas là le plus fort éboulement. Mais votre affaire est en de bon-nes mains92.

Rispetto alle sensazionali scoperte degli anni precedenti, i ritrovamentisembravano avvenire ora in modo sporadico e con risultati non tropposoddisfacenti. Nella speranza di mettere in luce edifici di rilievo (si cercava,in particolare, di individuare almeno un tempio, che ancora mancava al-l’appello degli edifici pubblici veleiati), si tornò a scavare anche nell’areadel Foro, dove fu scoperta la statua frammentaria in seguito identificata co-

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89 Il diario degli scavi del 1763 è registrato in Ms. Parm. 1245 e in AMANP, ms. 46 e Sca-vi di Velleia, 2 (1763).

90 Di questi ambienti parla anche il Paciaudi nella lettera al Caylus del 15 luglio 1763:«nous avons découvert ... deux chambres avec des étuves, et un double pavé dont le premierest soutenu par de petites colonnes de terre cuite; mais les murs sont tombés» (Sérieys 1802,p. 289).

91 «Si rinova l’ordine per parte di S.A.R. che né per ragione, né per pretesto alcuno si ar-disca mai di diroccare alcun muro, né guastare cosa alcuna scoperta», recitava, infatti, unalettera al Nicelli del 15 luglio 1763 (AMANP, Scavi di Velleia, 2).

92 Nisard 1877, I, p. 348, lettera del 19 settembre 1763.

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me Marsia93, e si aprirono nuovi saggi «qua e là per la campagna». Le pla-nimetrie delle aree indagate venivano regolarmente inviate al Caylus, chepoteva in questo modo partecipare quasi di persona allo scavo e suggerire(con cognizione di causa) le direzioni di indagine più promettenti e menodifficoltose94. Amareggiato dalla modestia dei ritrovamenti, il Paciaudi in-crementò il ritmo delle esplorazioni, che tra il 22 e il 27 ottobre 1763 con-tarono ben otto nuovi saggi, con grave rischio per la comprensione stessadell’intero abitato. Quasi nel tentativo di correre ai ripari, il piacentino An-tonio Colombi, istruito forse dallo scavatore giunto da Roma, propose alPaciaudi un nuovo piano per lo scavo della città, un piano di respiro piùampio, che non mirasse solo al recupero dei reperti antichi più preziosi, mache tenesse in giusta considerazione gli elementi utili alla ricostruzione to-pografica del sito, uno dei punti che più stavano a cuore anche al Caylus:

In proposito delli scavi mi fo lecito di umilmente esporle il mio debole, ed èche in facendo saggi qua e là ed omettendo lo scavo regolare come si è fat-to, non avremo neppure le poche cose che si trovavano, perché in una setti-mana si faranno due o tre saggi e si abbasseranno 14 o 16 piedi secondo lesituazioni, in alcuno si scoprirà qualche pezzo di muro e per accidente qual-che bagatella, in alcun’altro si colpisce sul mezzo di una stanza, e non si tro-

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93 Marini Calvani 1975, p. 33 e Eadem 2000, p. 544: il busto, in pietra locale, identificatotradizionalmente come “Giove ligure”, sarebbe per la studiosa una replica del Marsia delForo Romano, riprodotto in vari centri romani come simbolo della libertà municipale. Lascoperta del busto è registrata in Ms. Parm. 1245, p. 38 (12 settembre 1763), tav. XV ed ècosì segnalato in AMANP, ms. 46, alla stessa data: «Nello scavo verso settentrione del corti-le. Un busto di statua intagliata in certa pietra arenosa, e ordinaria, che rappresenta un uo-mo di grossa corporatura, a cui manca la fronte, e punta del naso (appoggiato al braccio de-stro si è trovata anche parte di un’altra statua di marmo bianco, consistente nella testa, e rot-to collo d’una Femina)».

94 Nell’ottobre del 1763, dopo aver ricevuto dal Paciaudi uno di questi disegni, il Caylusad esempio scriveva: «j’ai vu avec plaisir l’élévation de votre terrain. Ce dessin me met enétat de causer avec vous sur vos différentes opérations. Les puits que je vous ai proposésn’avaient pour objet que de vous indiquer les endroits qui pourraient vous donner le plusd’espérances au moins de difficultés». Poi, passando ad esaminare i problemi specifici delloscavo in questione, continuava: «d’ailleurs, quoiqu’il y ait vingt-deux pieds entre le point Det le plan E, il faut nécessairement aller par là, et les pierres, en tombant, laissent quelquefoisdes vides dont vous pourrez profiter. Et si le côté de la montagne devient trop chargé de rui-nes, comme je n’en doute pas, vous pourrez avoir des ressources aux endroits C, G, H et I»(Nisard 1877, I, p. 370, lettera del 24 ottobre 1763): il disegno sottoposto al Caylus non èoggi più conservato e non è facile dire, con queste indicazioni, quale ambiente o edificio ri-producesse; potrebbe forse trattarsi dell’area occupata dal “bagno” scoperto nelle vicinanzedel Castellum aquae (vedi paragrafo seguente) ed effettivamente indagato a partire dall’iniziodi ottobre del 1763.

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va niente, ed ecco fatto il lavoro senza alcun profitto; a’ contrario seguitan-do lo scavo regolare si ritrova tutto quello che vi puole essere, si leva la to-pografia e si mette in pristino li culti terreni, e se ne risparmia il fitto giac-ché intenderei che di mano in mano si smantellasse affatto, e tenendosisempre avanti una bastante piazza, si facesse ripassare la terra e rotolare lisassi senza romperli95.

In un ambiente nei pressi del foro fu scavato, nel giugno del 1764, untorso marmoreo di fanciullo avvolto dalle spire di un serpente, un ritrova-mento che fece sperare nella scoperta di un nuovo Laocoonte, mentre nel-l’agosto del 1765, a pochi giorni dalla chiusura definitiva degli scavi, fu ri-messa in luce, nella terrazza a valle del foro, l’iscrizione dedicatoria Nym-phis et Viribus Augustis96; furono poi recuperati alcuni cammei, un certo nu-mero di bronzetti ben conservati e qualche altra scultura di sicuro interesse,ma nulla che potesse competere con le dodici sculture marmoree prove-nienti dalla basilica, con la lamina della Lex de Gallia Cisalpina e neppurecon le teste bronzee rinvenute nei primi due anni di indagini.

Il canonico Costa, estromesso contro la sua volontà dallo scavo di Veleia,poteva ora godersi la sua rivincita, e non tardò molto a far sentire la sua vo-ce di rammarico per gli infelici risultati delle indagini, e a ribadire la validitàdel suo operato e dei progetti di scavo bruscamente interrotti: «a dirlaschiettamente – scrisse infatti al Paciaudi dopo essere stato informato degliultimi ritrovamenti (ed in particolare di quello dell’edificio circolare) – lescoperte fattesi in quest’anno nelle Colline Velejatesi non corrispondono aimagnifici dissotterramenti fattisi nel 1760 e 1761, ma che però, attesa la noninterrotta continuazione di que’ fabbricati, ed in vista del nuovamente ma-nifestatosi circolare muro, danno motivo di sperare che poi abbiasi a trovarequalche che d’interessante, massimamente dalla parte di Mezzodì, verso cuiè sempre stata la opinion mia che si estendesse più magnifico che altrovequell’abitato»97.

La scoperta più interessante degli anni 1763-1765 fu in effetti l’edificio a

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95 AMANP, ms. 46, lettera di A. Colombi del 20 settembre 1764.96 Per questi ritrovamenti, vedi AMANP, ms. 46 e Ms Parm. 1245 (23 giugno 1764, tav.

IV e 28 agosto 1765). Informato della scoperta del torso di fanciullo, il Paciaudi aveva pro-babilmente avanzato l’ipotesi che si trattasse di un frammento di un gruppo del Laocoonte,dal momento che il Colombi così lo assicurava a pochi giorni dal ritrovamento: «se il torsofosse dei figli di Laocoonte avrei la speranza anche per il p[ad]re e fratello ...» (AMANP, ms.46, lettera del 28 giugno 1764). Sull’iscrizione dedicatoria alle Nymphae e alle Vires (CIL XI,1162), vedi Marini Calvani 1975, p. 39, tav. XVI; Cenerini 1989 e Marini Calvani 2000, pp.540 e 546 nota 12.

97 BPP, Carteggio Paciaudi, cass. 74 (lettera del Costa del 3 novembre 1763).

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pianta circolare rinvenuto nella terrazza più alta dell’intero abitato, rimessointeramente in luce tra la fine del 1763 e la primavera dell’anno seguente eche presentò agli archeologi settecenteschi non pochi problemi di interpre-tazione: fin dal ritrovamento dei primi muri ci si interrogò infatti sulla for-ma effettiva della pianta (se fosse circolare o ovale) e, soprattutto, sulla de-stinazione dell’edificio.

La cronaca dell’esplorazione del monumento è stata ricostruita da Mirel-la Marini Calvani98 che, in base alla meticolosa documentazione settecente-sca, ed in particolare al confronto tra le planimetrie delineate nella primacampagna del 1763-1764 e quelle relative alla successiva esplorazione del-l’edificio, nel 1779-1780, ha dimostrato come in questo pur breve lasso ditempo la forma del monumento abbia subìto una sostanziale trasformazione(da una pianta pressoché circolare si passò a una decisamente ovale), e co-me questa alterazione abbia favorito una diversa definizione del monumen-to, che da castellum aquae cominciò ad essere interpretato come un anfitea-tro (una definizione che, come vedremo, godrà di una lunga fortuna). I diaridi scavo del 1763-1764, le planimetrie e le assonometrie di quegli stessi anninon sembrano infatti lasciare dubbi sulla pianta originaria del monumento,una circonferenza quasi perfetta di circa 28 metri di diametro, interrotta datre aperture che dovettero suggerire al Paciaudi il confronto con il castellumdell’Acqua Giulia sull’Esquilino (interpretata, secondo le conoscenze deltempo, come Aqua Marcia), in cui, in modo forse analogo all’esemplare ve-leiate, l’acqua doveva riversarsi da tre aperture in un secondo bacino99. Se-condo la Marini Calvani, l’azione franosa del terreno, che fin dai primi mesidi scavo ostacolò le indagini del cosiddetto “circo”, danneggiando la strut-tura e la consistenza dei muri, unita a qualche arbitrario restauro a scopo diconsolidamento e quindi al totale abbandono del monumento al terminedelle prime esplorazioni veleiati, dovette stravolgere i rapporti tra le mura-ture e compromettere irrimediabilmente la corretta leggibilità della pianta

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98 Marini Calvani 1973. Documenti relativi agli scavi settecenteschi del monumento sitrovano in AMANP, mss. 46 e 47; Scavi di Velleia, 2-3 e ASP, Istruzione Pubblica. Scavi diVelleia, b. 20; il diario dello scavo degli anni 1763-1765 è conservato anche nell’anonimomanoscritto Ms. Parm. 1245, che contiene (alle tavv. XXI e XXII) anche la pianta e l’assono-metria dell’edificio, eseguite nel 1763 (vedi Marini Calvani 1973, tavv. III-IV e anche MariniCalvani 2000, p. 543). Le piante relative alla campagna del 1776-1780, che da circolare fini-rono per raffigurare il monumento in maniera inequivocabilmente ellittica, si conservano inASP, Mappe e Disegni, vol. 25, nn. 39 e 43 (vedi Marini Calvani 1973, tavv. V e VI e Eadem1975, tav. V). Sulle prime esplorazioni dell’edificio, vedi anche Albasi e Magnani 2003, pp.22-23 e Lanza 2003, p. 82.

99 Marini Calvani 1973, pp. 218-19 e 227-29.

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originaria, tanto che nel 1779, quando il monumento venne nuovamente in-dagato e fu completato lo sterro completo dell’interno, le misure della pian-ta fornite dal Martelli saranno di circa 34 metri per quasi 25 (misure corri-spondenti ai nuovi rilevamenti del 1780): da questo momento in poi la pian-ta dell’edificio, sottoposto più volte a restauri che avrebbero finito per eli-minare qualsiasi traccia delle murature originali, assumerà la caratteristicaforma ellittica, ancora oggi riconoscibile negli scarsi resti conservati in situ.La validità dell’interpretazione avanzata per primo dal Paciaudi, quella cioèdi castellum aquae, troverebbe secondo la studiosa un’ulteriore confermanella presenza, in prossimità del monumento, di un impianto termale regi-strato nei diari di scavo settecenteschi, ma in seguito interrato e dimentica-to, che sarebbe stato servito da un acquedotto proveniente proprio dal-l’adiacente castellum100.

Al Paciaudi fu subito chiaro che la nuova scoperta, la prima davvero si-gnificativa, per mole e per tipologia edilizia, dall’epoca delle dimissioni delcanonico Costa, rischiava di compromettere, se trascurata o male illustrata,la sua stessa credibilità di archeologo e, in generale, la buona considerazionedell’intera campagna veleiate. Più che mai giudicò ora necessario ricorrerealla consulenza del conte di Caylus, che già in passato gli aveva dato utiliconsigli sulle procedure di scavo e lo aveva aiutato nell’interpretazione dipiante ed elevati101.

«Je ne puis deviner quel genre de bâtiment vous avez decouvert. Cetteforme circulaire et ce diamètre de plus de cent pieds présentent des difficul-tés que je ne crois pas pouvoir résoudre» gli scrisse cauto il Caylus, in attesadi ricevere la pianta dell’edificio102. Il Paciaudi, che ancora non sapeva risol-versi se «fosse Circo, Stadio o Tempio» la struttura dal muro circolare che siandava allora scoprendo, aveva in un primo tempo sperato di essersi imbat-

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100 Il Paciaudi nella sua Memoria su Veleia (edita in francese sulla Gazette Littéraire del’Europe: vedi infra cap. II) elencava, tra i monumenti pubblici dell’antica città, «un como-dissimo bagno... vicino a questo Castello, che forse era per uso pubblico» (vedi Marini Cal-vani 1973, p. 219). Anche il Blasi era dell’opinione di avere scoperto «un sito ove si facevanoi bagni»; nell’ottobre del 1763 vennero scavati in quest’area un ambiente con suspensurae,che restituì diverse lastre di portasanta e altri marmi pregiati e resti di un acquedotto(AMANP, Scavi di Velleia, 2, lettera del Martelli del 24 ottobre 1763). L’interpretazione delmonumento data dalla Marini Calvani non è tuttavia condivisa da tutti gli studiosi e di re-cente si è riacceso il dibattito sulla sua funzione: vedi Miranda 2002 p. 122, nota 43; Arrigo-ni Bertini 2003, p. 449 e soprattutto Lanza 2003, p. 82, con bibliografia.

101 Nell’ottobre del 1763, ad esempio, il Caylus si rallegrò con il Paciaudi per il buon ri-sultato ottenuto con alcuni saggi di scavo eseguiti dietro suo consiglio (Nisard 1877, I, pp.363 e 367).

102 Nisard 1877, I, p. 382 (lettera del 4 dicembre 1763).

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tuto proprio in un edificio per spettacoli, ingannato forse dai dati ancora in-certi e provvisori sulle reali dimensioni della struttura: ««votre dernière fo-uille me fait grand plaisir; mais cette portion circulaire s’est donc trouvéeavoir plus de cent pieds de diamètre, puisque vous la déclarez aujourd’huigrand cirque?»103 gli scrisse infatti il Caylus, incuriosito e forse un po’ scetti-co sull’interpretazione avanzata dall’amico. Ma il Caylus, questa volta, nonfu il solo ad essere messo al corrente della nuova scoperta: in via del tuttoeccezionale venne coinvolto nella discussione anche il Mariette104 e il Pa-ciaudi si spinse persino ad interpellare il nuovo astro nascente della scienzaarcheologica, quel Winckelmann che lo aveva conquistato con la vasta eru-dizione e, ancor più, con l’assoluta novità dei suoi giudizi e del metodo diindagine. Dobbiamo pensare che, nel tentativo di salvaguardare la segretez-za dello scavo, il Paciaudi abbia fornito al collega tedesco poche e vaghe in-formazioni sull’edificio appena scoperto, e persino sulla sua esatta localizza-zione all’interno dell’abitato, tanto che il Winckelmann propose di interpre-tare l’edificio addirittura come un ustrinum:

io dubito di potere disimpegnarmi con onore nell’enimma propostomi, do-vendosi in materia di fabbriche antiche fare l’esame sulla faccia del luogomedo; ma per uscirne con qualche soluzione, sottometto il seguente parereal Vostro savio discernimento.Se il sito lo permette, cioè, se la fabbrica può essere supposta situata fuoridella Città, non dovrebbe essere lontano dal vero, che fosse Ustrina s. Ustri-num de’ Vellejati, dove abbruciarono i cadaveri de’ loro morti, e la formameda vi corrisponde. [...] Essendo però la supposta Ustrina de’ Vellejati nonmolto spaziosa, e come dimostra lo stradello, unita con altr’edifizio, mi senti-rei inclinato a credere, che fosse l’Ustrina privata d’una famiglia cospicuagiunta al suo sepolcro105.

Interpretazione degna d’attenzione per il Paciaudi, ma che non convinseaffatto il Caylus, per il quale la strada o canale di comunicazione e le dueaperture dell’edificio dovevano escludere questa possibilità («je ne doutepas que vous ne trouviez des preuves encore plus claires de votre condito-rium, et j’espère que vous me les donnerez. Cependant votre puits me paraît

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103 Nisard 1877, I, p. 390.104 Con una lettera del 12 dicembre 1763, il Caylus informava il Paciaudi che avrebbe

messo a conoscenza del nuovo edificio velleiate il solo Mariette (Nisard 1877, I, p. 391). Giànel dicembre del 1761 il Caylus aveva proposto al ministro Du Tillot di ammettere il Mariet-te nel «petit conseil» parigino, incaricato di valutare i progressi degli scavi di Veleia (vedi Ni-sard 1877, I, p. 276 e Bédarida 1928, pp. 263-65).

105 Winckelmann Lettere, pp. 234-35 (lettera al Paciaudi del 7 gennaio 1764).

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difficile à arranger ainsi que les deux entrées et votre rue, puisque rue il ya»)106. Il Caylus aveva delle buone ragioni per rifiutare l’interpretazione delWinckelmann, ma in questa vicenda dovette entrare in gioco anche l’ostilitàche il conte nutriva nei confronti dell’antiquario tedesco, del quale (proprioall’epoca del ritrovamento del presunto ustrino) cominciò a mettere persinoin dubbio le competenze storico-artistiche107. Ma il conte, forte dell’opinio-ne del Mariette, non riusciva nemmeno ad accettare l’interpretazione delmonumento come “circo” e per primo avanzò l’ipotesi di un monumentodestinato alla raccolta dell’acqua, un castellum aquae, appunto, aprendo lastrada a quella linea interpretativa che, come abbiamo visto, è ancora oggi lapiù seguita:

Je vous renvoie les dessins de votre dernière fouille. Je ne puis me résoudre àleur donner le nom de cirque; Mariette y connaît encore moins que moi,quoiqu’il pense qu’il n’est pas possible de donner ce grand nom à un pareilmonument. Je persiste toujours à le regarder ou comme une citerne ou com-me un réservoir. Il faut d’abord en trouver le fond, ensuite examiner les pen-tes, et suivre ou la décharge ou la conduite qui amenait les eaux. Cette re-cherche pourra peut-être rendre raison des ouvertures presque parallèles, etqui cependant ne sont pas vis-à-vis l’une de l’autre. Enfin je ne désespère pasque l’examen du local et les recherches ne nous donnent un éclaircissementque la vue du dessin ne peut absolument pas nous fournir108.

Le insistenze con cui il Caylus raccomandava di indagare a fondo il terre-no di scavo, fino a raggiungere l’antico piano di calpestio, spinsero il Pa-ciaudi ad ordinare l’apertura di nuovi saggi che collegassero le due aperturedell’edificio circolare, incrociandosi nel mezzo: il teatino non riusciva a ri-solversi tra le due diverse interpretazioni suggerite dal Caylus e dal Win-ckelmann, pur non nascondendo una certa preferenza per quest’ultima109, e

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106 Nisard 1877, I, p. 423; sulla questione del supposto ustrinum o conditorium di Veleia,vedi anche Nisard 1877, I, pp. 414 e 417.

107 «Je suis content de lui par rapport à Herculanum, mais je continue à ne pas l’être dela façon dont il traite des arts, et je soutiens, entre nous deux au moins, qu’il s’en échauffe,mais ne les entend pas véritablement», confiderà infatti al Paciaudi alla fine di gennaio del1764 (Nisard 1877, I, p. 410).

108 Nisard 1877, I, p. 401, lettera al Paciaudi del 15 gennaio 1764.109 È evidente, dal tono della corrispondenza tra i due amici, che il Paciaudi cercava di

convincere il Caylus della validità dell’ipotesi avanzata dal Winckelmann, pur non essendoneppure lui del tutto soddisfatto di questa interpretazione: «j’etais bien sûr que vous aviezdes raisons convaincantes pour l’un ou l’autre sentiment, d’un réservoir ou d’un ustorium.Les preuves que vous avez du dernier sont si claires qu’elles vous fourniront des choses fortagréables à dire, d’autant qu’on n’a pas fréquemment rencontré ces monuments» gli scriverà

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sperava di risolvere i suoi dubbi con uno scavo più accurato. Il taglio in pro-fondità permise infatti di individuare la presenza diffusa di «certa creta co-me depositata dall’acqua» e di constatare che tutti gli acquedotti, ad ecce-zione di uno, avevano origine da quello stesso edificio, confermandone cosìla funzione di castellum aquae suggerita dal Caylus110.

Era giunto, dunque, il momento di aggiornare il Winckelmann sullo sta-to delle scoperte e nella risposta dello studioso si respira tutta la tensioneche questa vicenda aveva fatto nascere, indizio evidente, e probabilmentenon isolato, dei profondi contrasti metodologici che opponevano i due cele-bri antiquari stranieri:

io vi rendo infinite grazie dell’avviso datomi sopra l’equivoco preso nell’ac-cennar quel che mi communicaste. La cosa pareami innocente e non tale chepotesse offendere, e o sia Ustrinum o Castello d’acqua era ugualmente dipubblico interesse rimanerne informato. Mi spiacerebbe se avessi commessoerrore in un punto di erudizione e molto più nel modo di argomentare, male mura vecchie alle volte sono di si fatta forma, che se ne può fare quel chesi crede. Se mai venisse a mia notizia, che quel straccio fosse per tradursi, nefarei togliere quel che tocca Velleja111.

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il Caylus nel luglio del 1764, quasi ad incoraggiare le speranze dell’amico di trovare un mo-numento così scarsamente attestato nel mondo romano, quale era appunto un ustrinum (ve-di Nisard 1877, II, p. 25, lettera del 16 luglio 1764).

110 AMANP, ms. 46, lettera di Antonio Colombi al Paciaudi del 28 giugno 1764: «Si è digià terminato nel Circo il taglio fatto in croce, come fu ordinato dal S. Commi.o ed in esso siè ritratta ben la metà della terra che esiste e sotto da certo piano nel medesimo da per tuttovi si trova certa creta come depositata dall’acqua e più sotto grossi macigni confusamente, dipiù tutti l’acquedotti scoperti toltone uno, tendono a questa parte onde io anch’io lo stime-rei ad uso d’acque». Una pianta dell’edificio circolare con il “taglio fatto in croce” ordinatodal Paciaudi si conserva in AMANP, Scavi di Velleia, 3, allegata ad una lettera del Colombidel 5 luglio 1764, in cui si descrive lo scavo di «una camera, o bagno» vicino all’edificio cir-colare (lettera “e” dell’annesso disegno).

111 Winckelmann Lettere, p. 263, lettera al Paciaudi del 21 maggio 1766. Nel 1764 ilWinckelmann aveva parlato di questa scoperta nella lettera ad Enrico Füessly di Zurigo, inti-tolata “Notizie sulle scoperte di Ercolano”: «in occasione di questi sepolcri, non parrà inop-portuno il far menzione di uno spazio rotondo e cinto di muro, che venne scoperto verso lafine del 1763 nella antica distrutta città di Velleja nel ducato di Piacenza. Il diametro di que-sto luogo chiuso è di circa cento piedi parigini, ed il muro che è formato da grosse pietrequadrate, è alto circa quattro piedi. Vi sono due ingressi uno dirimpetto all’altro, ma senzaalcuna traccia di porte: un terzo ingresso però il quale, come una stretta strada chiusa fradue muri conduce a quel luogo, ha una soglia di porta. Presso ad un altro ingresso v’è unaspecie di pozzo quadrato di muro. Questo luogo serviva probabilmente ad abbruciare i ca-daveri, e mediante il detto accesso fra due muri sarà stato unito ad un sepolcro» (Winckel-mann Opere, VII, p. 261).

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Anche se coinvolto nell’interpretazione degli edifici veleiati e impegnatoa discutere con il Paciaudi i modi per documentare l’esatta topografia del si-to, il Caylus non si era certo dimenticato dei motivi che lo avevano spintoad occuparsi di questo scavo e che ora lo invogliavano a seguire (e a guida-re) ogni mossa del teatino: mi riferisco alla ricerca di nuovo materiale utile aindagare i processi di fabbricazione e le tecniche di lavorazione degli Anti-chi, ricerca che, nel caso di Veleia, si faceva ancor più interessante ed effica-ce proprio in virtù della provenienza da scavo del materiale, elemento a fa-vore della sua autenticità e persino, in molti casi, della sicura attribuzionead un preciso contesto monumentale112.

Il conte cercò, dunque, di ripristinare la pratica degli invii di frammentiantichi avviata all’epoca della direzione Costa («souvenez-vous, quand vos fo-uilles seront en train, de m’envoyer les guenilles, comme a fait M. de Co-sta»)113, convinto che l’esperienza del Paciaudi e la meticolosità delle ricerchegli avrebbero garantito un notevole avanzamento nelle sue ricerche. Ma perl’antiquario della corte di Parma, tutto impegnato a ricostituire la raccolta du-cale di antichità, Veleia fu sempre e solo una fonte di rifornimento dei repertidestinati ad arricchire la collezione parmense, e anche se rappresentò un inte-ressante caso di recupero archeologico di un antica città romana, utile per leconoscenze storiche e antiquarie del territorio, non fu mai un cantiere per lostudio del materiale comune. Gli oggetti che il Paciaudi si ostinava ad inviarea Parigi, alcuni bronzetti di buona fattura e di ottima conservazione, sarebbe-ro andati bene per un cabinet di tipo tradizionale, ma poco servivano alle esi-genze del conte: «vous sentez bien que ces objets ne peuvent être d’une gran-de ressource» gli faceva allora notare il Caylus, ringraziandolo per gli omaggiche il più delle volte era costretto a rimandare indietro e che non poteva nep-pure pubblicare nel suo Recueil, perché non corrispondevano alla tipologiache aveva scelto per quest’opera114. Il Paciaudi ci teneva a ricambiare degna-mente i favori del conte, ma era anche interessato a pubblicizzare la ricchezzae l’eccezionalità dei ritrovamenti veleiati e per nulla al mondo avrebbe accon-sentito a presentare i risultati degli scavi sotto forma di un insieme di vetri rot-ti, di bronzi informi o di frammenti ceramici, proprio il tipo di materiale che ilCaylus intendeva pubblicare. Del resto, non era stato lo stesso Filippo di Bor-bone a nominare il conte “maître” e “feudataire” di Veleia, mettendogli addi-

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112 A proposito dei campioni antichi che sperava di ottenere dallo scavo veleiate, il Cay-lus scriveva infatti al Paciaudi: «je les désire d’autant plus d’une fouille comme la vôtrequ’elle est authentique et que les morceaux de ce genre peuvent aisément se confondre avecdes morceaux modernes» (Nisard 1877, I, p. 367, lettera del 14 ottobre 1763).

113 Nisard 1877, I, p. 329 (lettera del 27 giugno 1763).114 Nisard 1877, I, p. 336.

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rittura a disposizione le statue, le colonne e tutte le antichità provenienti dalloscavo?115 Il Paciaudi non poteva di certo essere da meno del suo signore:guardandosi bene dall’alienare i marmi e gli oggetti più preziosi, pensò di spe-dirgli la celebre statuetta bronzea di Vittoria, trovata fin dal 1760 nell’area delforo e subito diventata uno dei simboli dell’antica città.

Que pourrais-je dire sur une Victoire? d’autant que j’en ai rapporté deux quifaisaient partie d’une petite emplette que M. du Tillot a eu la bonté de fairepour moi, il y a quelques années. Je ne pourrais me sauver que par une plai-santerie qui ne serait même pas trop bonne, en disant que Véleia était la villela plus victorieuse du monde116

gli risponderà allora il Caylus, rifiutando il pezzo (che infatti rimase a Par-ma), come in seguito cercherà di rifiutare alcuni bronzetti di bella patina ebuona conservazione, ma a suo avviso inutili, che il Paciaudi gli continuavaa mandare perché ne traesse delle nuove tavole per il suo Recueil117. L’in-comprensione tra i due era, su questo punto, totale: «le Père Paciaudi nepeut il pas tout simplement faire ce qu’a fait le signor Conte di Costa?»118 glichiese provocatoriamente il Caylus nell’ottobre del 1763, ben sapendo che ilPaciaudi non era il tipo da eseguire alla lettera e in modo acritico (come, in

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3,45

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115 Sérieys 1802, p. 296: «écrivez de ma part à M. de Caylus que je l’aime de tout mon co-eur, et que je suis touché des amitiés qu’il a pour moi; que je voudrais bien faire quelque cho-se pour le convaincre de ma reconnoissance; et qu’il est le maître, le feudataire de Velleja;qu’il en dispose comme il veut. Mes statues, mes colonnes, mes antiquités sont à lui»: questocelebre brano, assai illuminante sulla posizione del Caylus nella vicenda veleiate, è stato piùvolte citato negli studi sugli scavi di Veleia (cfr. ad es. D’Andria 1970, p. 8, nota 17).

116 Nisard 1877, I, p. 348 (lettera del 19 settembre 1763). Vedi anche Babelon 1928, p. 26.117 Vedi ad es. Sérieys 1802, p. 292. Una scelta dei materiali inviati dal teatino a Parigi

(soprattutto bronzetti figurati, tra cui le Vittorie di cui parla il Caylus nella sua lettera al Pa-ciaudi) fu in effetti pubblicata dal Caylus nel Recueil (vol. IV, pp. 182-86, tav. LIX, edita an-che in Raspi Serra 1992-1993, p. 145, fig. 13, ma con l’errata attribuzione dei pezzi ad Erco-lano; vol. VI, pp. 306-07, tav. XCVIII; vol. VII, pp. 205-09, tavv. LIV e LV); si tratta, in alcu-ni casi, di bronzetti di dubbia autenticità, come una Vittoria alata probabilmente realizzatanel Settecento a imitazione di un bronzetto pompeiano (D’Andria 1970, n. 12), ma anche dipezzi di pregio, come il bronzetto di Satiro inginocchiato di derivazione ellenistica ancoraoggi conservato, insieme agli altri bronzetti veleiati donati al Caylus, nel Cabinet des Médail-les della Bibliothèque Nationale di Parigi (D’Andria 1970, n. 17): per l’elenco dei bronzettiveleiati migrati a Parigi, vedi Babelon 1900, pp. 221-23, n. 422 (Satiro) e 677-685 (Vittorie);Babelon 1928, pp. 26-28 e cat. nn. 1, 5, 18 e D’Andria 1970.

118 Nisard 1877, I, p. 362 (lettera del 10 ottobre 1763). Nel novembre dello stesso anno ilCaylus dichiarava, sconsolato, al Paciaudi: «je vois donc jusqu’ici que vous avez mal fait macommission, puisque, dans la verité, je ne vous demandais que des matières rompues, inutiles,qui pouvaient me conduire à l’examen de leur procédé chimique» (Nisard 1877, I, p. 376).

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A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, IV, tav. LIX, particolare. Bronzetto di Vittoria.

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un certo senso, aveva fatto il Costa) le sue richieste, ma ciò che finì per ama-reggiare l’ormai vecchio antiquario francese era la consapevolezza di non es-sere riuscito a convincere l’amico dell’utilità e della piena dignità scientificadelle sue ricerche.

Al Caylus premeva soprattutto di avere qualche campione di ceramicaveleiate, da confrontare con alcuni esemplari trovati proprio in quegli anninella Francia meridionale: aveva infatti notato una somiglianza tra la produ-zione di una manifattura dell’antica Nîmes e alcuni frammenti inviatigli dalCosta, che il Caylus contava ora di pubblicare nel suo Recueil, «car c’esttoujours parler de Véleia, à laquelle je m’interesse pour toutes les raisonsmodernes qui peuvent déterminer un homme reconnoissant et quipense»119. Il conte aveva infatti in progetto di comporre un’opera sulle anti-chità romane della Francia meridionale, servendosi dei disegni fatti anni pri-ma dal Mignard e che il Caylus aveva da poco acquistati dalla vedova del-l’artista per trarne delle incisioni. L’opera doveva, nelle sue intenzioni, esse-re una continuazione del voluminoso studio del Desgodetz sugli edifici anti-chi di Roma, edito a Parigi nel 1682120. Il progetto, che avrebbe permesso alCaylus di partecipare più attivamente a con miglior agio all’esame dei mo-numenti, aveva anche lo scopo di rivalutare le antichità nazionali, secondoun principio che tanto seguito avrebbe trovato nel secolo successivo. Lo stu-dio delle testimonianze archeologiche delle antiche popolazioni galliche lospinse a guardare anche al di fuori dei confini francesi, allo scopo di indivi-duare direttrici di espansione e contatti culturali con il nord Italia: si era in-

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2 119 Nisard 1877, I, p. 350, lettera del 19 settembre 1763. Il Caylus, come abbiamo visto,illustrò i frammenti ceramici di Veleia nel VI volume del Recueil (pp. 319-22, tav. CII), po-nendoli a confronto con alcuni esemplari di una officina romana di Nîmes, di cui fin dal1756 aveva studiato e pubblicato diversi campioni (vedi Caylus Recueil, II, pp. 350-63, tavv.CII-CVI e VI, pp. 336-38, tav. CVI).

120 A. Desgodetz, Les Edifices antiques de Rome dessinés et mesurés très exactement, Pa-ris 1682. Il Caylus aveva discusso di questo progetto anche con il Paciaudi fin dal maggio1763 (vedi Nisard 1877, I, p. 310), e poi nuovamente, con molti più dettagli, nel febbraiodel 1765 (Nisard 1877, II, p. 85): l’opera era il frutto della collaborazione tra il Caylus, chesi riservava di scrivere l’introduzione, e il Mariette, vero e proprio curatore del volume; ilCaylus intendeva dedicare il lavoro finito alla memoria del ministro Colbert, ideatore di unprimo progetto di pubblicazione delle antichità della Francia meridionale (poi interrotto al-la sua morte) e committente dei disegni eseguiti dal Mignard. Solo dopo la morte del Cay-lus, il Paciaudi verrà informato dal Mariette del fallimento anche del secondo progetto,quello intrapreso su iniziativa del conte, a causa della dimostrata inesattezza dei disegni delMignard che, se pubblicati, avrebbero inficiato il valore scientifico dell’intera opera (Ni-sard 1877, II, pp. 337 e 340). Su questa fallita iniziativa del Caylus, vedi Ridley 1992, p. 363e Castor 2002, in part. p. 42.

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fatti interessato alle recenti scoperte presso l’antica Tannetum121, procuran-dosi (grazie al Du Tillot) le Notizie storico-apologetiche dell’antico Taneto,con una succinta e vera descrizione della prima venuta de’ Galli in Italia, delconte Giannantonio Liberati122, e qualche informazione in più su Veleia glisarebbe stata, anche per questo motivo, assai preziosa.

Nonostante le prevedibili incomprensioni e qualche divergenza di opi-nione, il Caylus rimase sempre per il Paciaudi il principale referente degliscavi. Alla fine del 1763, dopo una campagna dispendiosa e ben poco soddi-sfacente, almeno in termini di reperti rinvenuti, il Paciaudi decise di pianifi-care, secondo nuove strategie di intervento, le campagne successive123. Ilnuovo piano verrà sottoposto al giudizio del Caylus e sembra decisamenterisentire dei consigli del conte: pur non trascurando la prospettiva di aprirenuovi saggi, nella speranza di incontrare un «terreno meno ingrato», il Pa-ciaudi si proponeva di continuare le esplorazioni condotte fino a quel mo-mento per completare la carta topografica dell’antica città, operazione che(come gli ricordava continuamente il Caylus) costituiva uno degli obiettiviprincipali dell’intera impresa veleiate. A questo scopo, il Paciaudi decise diincaricare dei rilievi un nuovo disegnatore, il parmigiano Pietro Martini,giovane allievo del pittore di corte Giuseppe Baldrighi, che ebbe anche ilcompito di redigere, secondo criteri più scientifici dettati dallo stesso teati-no, anche le tavole dei materiali che venivano via via riportati alla luce. Perragioni di economia venne licenziato Giacomo Nicelli, così che la sorve-glianza dello scavo rimase affidata al solo Martelli («più prattico e attivo»),mentre la permanenza degli scavatori romani rimase vincolata all’esito dellacampagna124.

È noto che, nonostante questi accorgimenti e a dispetto di ogni ricerca, irisultati delle due ultime campagne di scavo sembrarono agli occhi del Pa-ciaudi, e soprattutto a quelli della corte, ben poca cosa a confronto delleenormi spese necessarie per il loro mantenimento, e così alla fine di agosto

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121 Su questo abitato, vedi ora Lippolis 2000, con bibliografia precedente.122 Vedi Nisard 1877, I, p. 362, nota 3.123 Nella Memoria dello scavo del 1763, inviata al Du Tillot, il Paciaudi così riassumeva il

risultato dell’intera campagna: «sembra evidente che le cose di Velleja esigano un nuovo pia-no. Come sarebbe poco plausibile l’abbandonare interamente quella impresa, così è ridicolocontinuarla con tanto dispendio, quando tutto ne dimostra l’inutilità. Il risultato di tutto il1763 non ascende al valore di otto zecchini. [...] Le speranze di trovare in avvenire cose lequali pel loro merito e pregio compensino le spese sono assai incerte» (ASP, Istruzione Pub-blica. Scavi di Velleia, b. 20).

124 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20, Memoria del Paciaudi scritta sull’usci-re dell’anno 1763.

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del 1765 il primo ciclo di esplorazioni veleiati venne definitivamente sospe-so, ma già da alcuni mesi il Paciaudi doveva avere smesso di occuparsi atti-vamente dei lavori, tanto che fin dall’aprile del 1765 il Caylus (quasi condi-videndo il sollievo dell’amico) gli arrivò a scrivere: «vous voilà donc dégagédes embarras de Véleia»125. Di lì a poco si sarebbe bruscamente interrotta,per la morte del Caylus, anche la lunga corrispondenza tra i due amici: a ri-cordo della partecipazione dell’ormai vecchio e malato antiquario all’impre-sa veleiate rimase, nelle raccolte ducali, un dipinto su marmo, realizzato con«sangue di drago» e riproducente Veleia che risorge dalle sue rovine, unomaggio fatto al duca a celebrazione delle prime fortunate scoperte e, insie-me, un saggio dimostrativo (sul modello dei celebri monochromata ercolane-si) delle sue ultime ricerche sulle tecniche artistiche degli Antichi126.

4. Le campagne del 1776-1781: gli ultimi scavi settecenteschi a Veleia

Il Paciaudi, per la verità, non si era affatto liberato degli impegni veleiati.Dopo un decennio per lui difficilissimo, che aveva visto la caduta del mini-stro Du Tillot, favorita dalla nuova duchessa Maria Amalia, interessata acondurre il ducato sotto l’influenza austriaca, il suo forzato allontanamentodalla direzione del museo e della biblioteca Palatina (a vantaggio del rivaledi sempre, il padre Andrea Mazza) e infine l’esilio volontario a Torino, sua

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125 Nisard 1877, II, p. 120, lettera del 30 aprile 1765.126 Si tratta quasi certamente del «morceau de marbre» donato all’Infante don Filippo

da parte del Caylus nel 1763 (vedi Nisard 1877, I, p. 298 e Sérieys 1802, p. 291) e visto, al-l’Accademia di Belle Arti di Parma, dallo spagnolo Juan Andrés nel 1791 (vedi infra, cap.IV, Append. 18). Il dipinto, con l’indicazione del soggetto, è ricordato nella Guida del Fore-stiere edita dal De Lama nel 1824 (De Lama 1824a, p. 161). Il quadretto, dipinto su una la-stra di marmo bianco di cm 32,5 x 21, è ancora segnalato nel Registro del materiale archeo-logico,1 (inv. P 5), del Museo Archeologico di Parma, redatto in occasione della nuova si-stemazione del materiale del 1965: a questa data la pittura era però già poco leggibile; nonsono riuscita a determinare la collocazione attuale del pezzo. Poco prima di morire il Cay-lus aveva concentrato le sue energie nello studio della pittura a monocromo su marmo, neltentativo di riproporre la tecnica attestata nei celebri monochromata marmorei rinvenuti adErcolano. Il risultato delle sue ricerche venne reso noto nelle «Mémoires de l’Académie desBelles Lettres» (vol. XXV) e nel VII volume (apparso postumo nel 1767) del Recueil (p.185, tav. XLII). Per queste ricerche, vedi anche Sérieys 1802, appendice 2, pp. 327-42. Inoccasione della commemorazione funebre del Caylus, tenuta all’Accademia di Belle Arti diParma nel 1768, non si mancò di ricordare l’omaggio fatto all’Infante del quadretto mar-moreo, prova evidente delle conquiste tecniche raggiunte in questo campo dal celebre anti-quario (Pellegri 1980, p. 120).

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città natale, fino al febbraio del 1778, quando venne richiamato a Parma dalgiovane duca don Ferdinando e ufficialmente reintegrato in tutti i suoi pre-cedenti incarichi127, l’ormai anziano teatino si trovò nuovamente a fronteg-giare l’impegno di uno scavo in un terreno accidentato e ingrato, quale erastato negli ultimi anni quello di Veleia.

Nell’agosto del 1776, quando ancora il Paciaudi si trovava a Torino, erastato inaugurato, con gli auspici del nuovo duca e sotto la direzione delMazza, il secondo ciclo di esplorazioni veleiati. La prima campagna ebbe uninizio fortunato, con la scoperta, avvenuta a settembre dello stesso anno, diun importante gruppo di bronzetti figurati, di cui facevano parte il Dioniso,un Togato e altri tre statuette probabilmente riconoscibili nel piede di mobi-le con Guerriero in combattimento (descritto come Marte propugnator), nelcelebre bronzetto dell’Alessandro con la lancia (ritenuto all’epoca un Apol-lo) e nel piccolo busto di Loricato sorgente da un calice di foglie128, pezziche riscossero subito l’ammirazione degli studiosi e che non mancarono diattirare gli elogi dei viaggiatori (molti dei quali, incuriositi dalla riapertura

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127 Sulle travagliate vicende che seguirono la morte del duca Filippo di Borbone (luglio1765), ed in particolare sulla accesa rivalità personale e scientifica tra il Paciaudi e il Mazza,vedi Nisard 1877, I, p. lxxxi-xci e Pelagatti 1995, pp. 325-27.

128 I diari di scavo per gli anni 1776-1780 si conservano in AMANP, ms. 47; Scavi di Vel-leia, 3 e ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20. La scoperta dei bronzetti è registra-ta in data 6 settembre 1776 «nell’area laterale alla Chiesa, verso Sud»: il bronzetto di togatoè indicato in ASP, cit. come “togato giovine” e confrontato con un analogo bronzetto, al-l’epoca conservato nel museo del re di Prussia («trovasene uno molto somigliante nel Museodel Re di Prussia [Begero, Thesauri Brandeburgici, III, p. 356 = sacrificatore]. Può ben esse-re in tale abito il figlio di alcun Imperatore»), mentre in AMANP, ms. 47 è erratamente de-scritto come “Vestale”: potrebbe trattarsi del bronzetto di Togato oggi esposto nel MuseoArcheologico di Parma, di cui già nel 1760 era stata rinvenuta la basetta circolare (pubblica-ta in Costa ms. 1246, tav. XLV, 3). Il bustino virile (descritto come “uomo giovane” o “Impe-ratore” nei diari di scavo) potrebbe identificarsi nel busto di loricato nascente da calice difoglie, ancora conservato a Parma. L’Alessandro è descritto come “Febo con testa coronata aghirlanda, con il braccio destro alzato in atto di avere qualche attributo”, mentre per l’iden-tificazione, più problematica, della statuetta di Marte (descritto anche come “guerriero ro-mano” o “soldato nudo”) ci viene in aiuto un elenco completo del gruppo di cinque bron-zetti, inserito (di certo per errore) nella documentazione di scavo relativa al 1760 (AMANP,ms. 44), in cui il pezzo in questione è descritto come “statuetta che sembra un Marte conuno scudo nella mano sinistra, cimiero in testa, appoggiato a un pilastro”. Per questi bron-zetti, vedi D’Andria 1970, nn. 10 (Dioniso), 20 (Alessandro), 21 (Togato), 22 (Busto virilesorgente da un calice di foglie) e 23 (Marte); Marini Calvani 2000, p. 201, n. 33 (Marte: conla data di ritrovamento del 1762) e Eadem 2001, pp. 25-26, nn. 39, 41, 43, 44. Con l’eccezio-ne della statuetta del Dioniso, nel Registro del materiale archeologico, 1, conservato nel Mu-seo Archeologico di Parma, non è registrata per gli altri bronzetti del gruppo la data di in-gresso nel museo (e dunque di rinvenimento).

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degli scavi, tornarono a visitare il Museo di Parma), e che ancora oggi occu-pano un posto d’onore tra i bronzetti provenienti da Veleia. Gli scavi si con-centrarono nell’area circostante la chiesa e la canonica di Macinesso e per-misero di conoscere meglio la pianta della “Casa del cinghiale” (e soprattut-to di rimettere in luce il mosaico che ha dato il nome alla casa), e di esplora-re il quartiere d’abitazione meridionale, oggi in gran parte reinterrato, indi-viduando altri emblemata musivi policromi e in bianco e nero, per lo più adisegni geometrici, che furono subito documentati dai disegnatori del tem-po e qualche elemento scultoreo di rilievo129. Ricominciarono anche gli scavinel castellum aquae, dalla pianta irrimediabilmente trasformata in soli diecianni di abbandono e di incuria, tanto che agli stessi scavatori degli anni Ses-santa parve opportuno correggere le precedenti interpretazioni e fornirenuove planimetrie, in cui l’edificio, ormai decisamente ovale, comincia edessere indicato come “anfiteatro”130. Le speranze degli scavatori finirononuovamente per scontrarsi con le difficoltà di un terreno difficile da aspor-

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129 «Al di sopra della strada della Chiesa verso mattina andando a mezzogiorno si è sco-perto un ingresso di due gradini fabricati a tufi di largh. braccia 7 once 4 pei quali si ascendead una Camera, o Attrio che sia, di lungh. braccia 16 di larghezza braccia 10 once 6 col pavi-mento selciato a tarso nel quale vi sono frameschiati tasselleti di marmo da mosaico, ed altripezzi di marmo per quanto si è potuto vedere [...]. Il giorno 4 agosto in detto selciato si èscoperto in poca parte una medaglia di mosaico ben connessa con il cordone quadrata comele altre, ma non essendo ancora scoperto del tutto, non si sa se sia simboleggiata con qualchefigura (AMANP, ms. 47, 31 luglio 1778)»: il mosaico in questione, proveniente da una came-ra scavata non lontano dal “circolo” e strappato nel 1779, non era figurato ma semplicemen-te decorato con quadretti di tessere bianche e celesti entro una cornice a doppia treccia emisurava braccia 4 e palmi 5 di lunghezza e braccia 3 e palmi 2 1/2 di larghezza (vedi il dise-gno conservato in ASP, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 47); nella stessa area è poi documentatoil ritrovamento di un’altra “medaglia” pavimentale, «non tanto bella, composta di marmibianchi e tasselletti in parte neri fatti a mosaico» (AMANP, ms. 47, luglio 1778, settembre1779), ed una statua marmorea acefala (vedi ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b.20, lettera del Martelli al marchese Lorenzo Canossa del 16 sett. 1776: «il 12 settembre si èritrovata una statua di marmo assai ben fatta dell’altezza come in esso giornale marcata,mancante il braccio destro, ed il capo, non già rotta né spicata, ma era imbusolata nel bustocome sono le grandi che si ritrovarono in passato»).

130 Nella relazione del 4 luglio 1780, relativa allo scavo nel cd. “circolo”, si dice infatti:«quale credevasi di figura rotonda come rilevasi dalla mappa esistente costì. Ma in oggi collevarsi la terra superficialmente alla sola scoperta, quasi della metà del muro che lo circon-da, si riconosce ad evidenza non essere tale, ma bensì di forma ovale» (AMANP, ms. 47; apartire dal settembre dello stesso anno il “circolo” è ormai detto “anfiteatro”). La nuovaimmagine del monumento è quella delineata, su commissione di Ambrogio Martelli ed ese-guita dall’ingegnere Giannantonio Della Torre, nel settembre 1780 (ASP, Mappe e Disegni,vol. 25, n. 43: “Vestigi de Fabbricati dell’Antica Città di Velleja recentemente scoperti neiRegi scavi di Macinesso”; vedi Marini Calvani 1975, tav. V).

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tare e ricominciarono presto i lamenti per la lentezza e per l’enorme spesanecessarie a proseguire i lavori: per ovviare, almeno in parte, a questi pro-blemi si pensò di progettare nuovi macchinari che facilitassero il trasportodella terra, così da lasciare in breve tempo il campo libero per nuovi saggiesplorativi. Nel dicembre del 1777, dopo un paio di tentativi rivelatisi pocoefficaci, venne infatti presentato il progetto di un macchinario capace di ri-muovere rapidamente la terra dall’area sottoposta a scavo: il disegno delprogetto, che permetteva di confrontare la versione definitiva con le dueprecedentemente scartate, venne corredato di una nota esplicativa che di-mostrava quanto la nuova macchina fosse «più semplice, più facile al tra-sporto e meno dispendiosa, perché men carica di ferramento e di legnami,che le altre due prime fabbricate in Piacenza»131.

A dispetto di tutti questi accorgimenti, i risultati di queste campagne discavo furono ancora più deludenti di quelle degli anni Sessanta, e così nel1781 le esplorazioni vennero nuovamente sospese, con sollievo dell’ormaivecchio Paciaudi, che nell’agosto del 1781 si risolse a scrivere al marcheseProspero Manara, nuovo Ministro di Stato:

se una volta posi ogni mia cura perché gli scavi delle Antichità Vellejati, chefacevansi a Macinesso, si proseguissero con vigore, in oggi conosco appieno,e altamente protesto, che il continuarli diviene una spesa la più mal colloca-ta, e atta soltanto ad eccitar le risa e le beffe de’ Dotti132.

Anche se reintegrato con ogni onore nel suo incarico di direttore del mu-seo, il Paciaudi non poteva che rimpiangere i momenti gloriosi del ducato,quelli dominati dalla personalità efficente e illuminata del ministro Du Til-lot, e di certo aveva ben poca voglia di occuparsi di scavi, ora che non c’erapiù il suo amico Caylus a guidargli la mano. A Veleia si tornerà a scavare so-lo al principio del XIX secolo, all’epoca della dominazione francese, manon sarà più un direttore del museo a sovrintendere ai lavori.

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131 ASP, Mappe e Disegni, vol. 65, n. 54a-b, Spiegazione del Disegno delle macchine e carriper il trasporto della terra de’ Regi Scavi di Veleia: «questa collocata al luogo dello scarico -silegge nella descrizione della terza macchina – si conduceva da due soli uomini C e D, mentrespingendo di mano in mano una stanga infissa nell’asse della ruota dentata F fanno girarequesta medesima ruota, che a un tempo stesso per mezzo de’ suoi denti, come si vede, agita idue torni H, L e questo lo fa in modo tale, che in un minuto e mezzo di tempo fa percorrereil carro carico C per lo spazio di trabucchi n. 32 ritirandosi intanto il carro vacuo M col tor-no N situato al luogo dello scavamento, e agitato da un uomo solo».

132 AMANP, ms. 59, “Lettera al Marchese Prospero Manara, Ministro di Stato intorno aVelleja”, 23 agosto 1781, p. 286.

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Parma, Archivio di Stato, Mappe e Disegni, vol. 65, n. 54a, Macchine e carri per il tra-sporto della terra de’ Regi Scavi di Veleia, 1777.

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Capitolo II

L’edizione degli scavi I:i tentativi del Costa e del Paciaudi

Ancor più fastidiosa del disagevole tragitto da Parma a Veleia era, per moltiviaggiatori, l’ostentata aria di mistero con cui la corte teneva nascoste le novitàarcheologiche del ducato, ostacolando i sopralluoghi e impedendo ogni formadi riproduzione, proprio come avveniva da tempo per gli scavi delle città ve-suviane. Non mancarono gli strappi alla regola, soprattutto per i molti aristo-cratici inglesi e francesi in viaggio verso il Sud, incuriositi dalle antichità mapoco competenti in materia, mentre i divieti si facevano più rigidi ogni voltache uno studioso mostrava interesse per le nuove scoperte e ancor meno gra-dite erano le interferenze della corte napoletana, comprensibilmente incurio-sita (e forse, almeno all’inizio, preoccupata di quanto si andava segretamentescoprendo nel piacentino): nel febbraio del 1761 al marchese Fogliani, già pri-mo ministro del re di Napoli e viceré di Sicilia, che (forte anche della sua ori-gine piacentina) chiedeva di sapere «dove ed in quale luogo sia cotesta città diVelleia, e quali antichità si siino scoperte», il Du Tillot fece comunicare solo illuogo in cui si era individuata l’antica città («giacché questo è a tutti noto»),ma impedì categoricamente di dar conto delle antichità rimesse in luce1.

Tanta segretezza era giustificata dal fatto che, come ricordava anche ilGibbon, il duca contava di rendere presto pubbliche le scoperte, e «volevaessere il primo a farlo»2.

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1 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20, lettera del Martelli al Du Tillot del 26febbraio 1761 e risposta del Du Tillot del 27 febbraio 1761. Nel giugno del 1761 il Du Tillotfece addirittura emanare dei regolamenti tesi a garantire la segretezza dello scavo e limitareal massimo la fuga di notizie sulle scoperte. Per placare la curiosità dei molti dotti dette poiincarico a Matteo Luigi Canonici di redigere una relazione, apparsa anonima e antedatata algiugno 1761 col titolo Lettera scritta ad un lettore pubblico dell’Università di Bologna da uncittadino parmigiano (conservata in Bertioli Antichità veleiati): si tratta di una descrizione diVeleia volutamente sommaria, ma ricca di meravigliato stupore per la presunta eccezionalitàdelle scoperte (vedi Miranda 2002, in part. pp. 100-08, documenti 1 e 2).

2 Gibbon 1965, p. 126: vedi infra cap. IV, p. 194.

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L’incarico di pubblicare il materiale dello scavo era stato, naturalmente,affidato al canonico Costa, anche se il Du Tillot gli aveva presto affiancatole conoscenze del Caylus e del Paciaudi: il ministro, come abbiamo visto,era rimasto piuttosto soddisfatto del saggio del Costa sulla tavola della Lexde Gallia Cisalpina, ma non voleva rischiare di coinvolgere la corte in un’im-presa editoriale di durata decennale e dall’esito ben poco soddisfacente,quale era stata, per la corte di Napoli, l’opera del parmigiano Bayardi sulleantichità di Ercolano3. Geloso e fiero del proprio incarico, il canonico si af-frettò per prima cosa ad allontanare potenziali e temibili concorrenti, capacidi giudicare il suo operato e, di certo, in cerca di “inediti” da pubblicare aproprio nome.

La notizia dell’apertura degli scavi veleiati e delle nuove, significative,scoperte, era ormai cominciata a circolare e più di uno studioso aveva tenta-to per tempo di ritagliarsi uno spazio nell’imponente impresa dell’edizionedei materiali.

Nel gennaio del 1761 il conte Antonio Giuseppe Della Torre di Rezzoni-co, erudito di origine comasca stabilitosi dal 1751 a Parma, si presentò alCosta per proporsi come collaboratore nel lavoro di pubblicazione: il conte,che (a quanto ci informa il Costa)4 «parlava di maniera da far credere cheavesse commessione di scrivere sulle scoperte Antichità», aveva appena ulti-mato un piccolo Prodromo e alcune dissertazioni di argomento veleiate,«una circa l’intelligenza di alcuni termini usati sulla Lamina Trajana, l’altratendente a dimostrare, chi fosse quel Lucio Calpurnio Pisone, il di cui nomesta scolpito sulla lapide che ebbi l’onore di presentare a sua A.R. colla dettalamina; la terza circa il nome che abbiasi a dare alla Città scopertasi, qualel’estensione del suo territorio e quali li Popoli che l’abitavano», ed evidente-mente sperava ora di essere ammesso, in virtù di queste fatiche, nella ristret-ta cerchia di antiquari incaricati ufficialmente delle indagini e destinati a le-gare il proprio nome alle scoperte veleiati. Le riserve del canonico, che giu-dicò il Prodromo «pieno di più cose supposte ed insussistenti», e nelle dis-

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3 Ben poco erano infatti servite alla conoscenza e allo studio delle scoperte archeologichedi Ercolano le ben 2677 pagine del Prodromo delle antichità di Ercolano, edite da AntonioOttavio Bayardi nel 1752 e quasi interamente dedicate alle gesta di Ercole, leggendario fon-datore della città vesuviana, mentre il tema principale, la storia degli scavi e la descrizionedelle scoperte, era rimasto del tutto nell’ombra: la verbosa e pletorica erudizione del parmi-giano, incaricato di questa prestigiosa e ambita impresa solo grazie ai favori del cugino Giu-seppe Fogliani, ministro di Carlo III di Borbone, non tardò ad incontrare le dure reazionidegli studiosi e finì presto per disgustare persino la corte, tanto che l’opera, prevista inizial-mente in sette volumi, venne interrotta dopo la pubblicazione del quinto tomo.

4 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 19 gennaio 1761.

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sertazioni non seppe trovare alcuna novità di rilievo e comunque nulla chenon avesse lui stesso già segnalato al ministro e al conte di Caylus, dovetteroscoraggiare ogni ambizione editoriale del Rezzonico, che non pensò più didare alle stampe questi scritti e finì presto per abbandonare ogni coinvolgi-mento con le antichità di Veleia5.

Nel giugno dello stesso anno fu la volta dello storico e letterato piacenti-no Cristoforo Poggiali, cui il Costa negò il permesso di esaminare le iscrizio-ni rinvenute a Veleia, temendo che volesse servirsene per una pubblicazionenon autorizzata6. L’ostilità verso l’illustre conterraneo nasceva, in realtà, dalsospetto che il Poggiali mirasse a prendere il suo posto, deluso per esserestato escluso da ogni incarico riguardo a Veleia. Facendosi scudo della fer-rea regola del silenzio, il Costa giustificava così, ad un Du Tillot un po’ per-plesso per lo sgarbo verso uno degli studiosi più stimati del ducato, il rifiutodi mostrare le iscrizioni scavate a Veleia:

sebbene a prima vista sembri cosa da accordarsi la semplice lettura delleiscrizioni esistenti in Macinesso ad un letterato quale non si può negare chesia il riferito Sig. Prevosto Poggiali, nulladimeno io avrei quasi minor diffi-

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5 Gli studi sottoposti al Costa, rimasti inediti, sono raccolti in un manoscritto intitolatoDelle Antichità Veleiati, conservato nella Biblioteca Comunale di Como (vedi Montevecchi1934, p. 555, n. 34 e p. 560, che lo segnalava come disperso, e Luraschi 1969, che fornisceuna ricca biografia del Conte di Rezzonico e ripercorre la vicenda del suo incontro con ilCosta). Nel Prodromo il conte affermava di essere riuscito, grazie alla lettura di un passo diTacito, ad «assicurare a quale dei tanti illustri Pisoni appartenesse la breve, ma intensa e no-bilissima iscrizione, intorno a cui molte cose insussistenti hanno esposto il Muratori, ed ilMarchese Maffei» (Luraschi 1969, p. 371): delle tre dissertazioni mostrate al Costa, fu pro-prio quella intorno L. Calpurnio Pisone a riscuotere un qualche favore del canonico, ed èpossibile che l’autore antico cui il Rezzonico fece, in quella circostanza, misteriosamente al-lusione senza nominarlo (come ricorda lo stesso Costa), fosse proprio Tacito. L’iscrizione inesame (CIL XI, 1182) corrisponde all’epigrafe dedicatoria rinvenuta a Veleia fin dal 1747,insieme alla Tavola Traiana, e pertinente a una delle statue marmoree della basilica, in cuiper primo il De Lama propose di riconoscere un ritratto di L. Calpurnio Pisone: l’archeolo-go parmigiano era però convinto che si trattasse del L. Calpurnio Pisone console sotto Nero-ne (De Lama 1818, pp. 60-62), mentre oggi gli studiosi sono concordi nel riconoscere nellastatua-ritratto (e nella relativa epigrafe) il L. Calpurnio Pisone console nel 15 a.C., uomo digrande prestigio politico sia sotto Augusto che sotto Tiberio e appartenente ad una famiglialegata da interessi al territorio piacentino: vedi Saletti 1968, pp. 63-64 (epigrafe) e pp. 37-40(statua) e Idem 1996, in cui si ipotizza l’esistenza, a Veleia, di una residenza privata di Cal-purnio Pisone, cui forse faceva parte anche il piccolo ritratto del cognato Giulio Cesare, oggiconservato nel Museo Archeologico di Parma. Sull’interesse del Rezzonico per Veleia, vedianche Miranda 2002, p. 98 e Albasi e Magnani 2003, pp. 14-16.

6 Episodio narrato in Benassi 1919, pp. 7-8. Sulla gelosia con cui il Costa teneva segretaogni scoperta, vedi anche Mandich 1990, pp. 405-06.

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coltà di lasciarle leggere a chi ne sa poco, che a chi è adorno di qualche eru-dizione, ed ama simili cose, appunto perché quelli se le scordano bell’e pre-sto, e non v’è pericolo che ne faccino alcun uso7.

L’interesse del Poggiali per i materiali (non solo epigrafici) rinvenuti nelsito dell’antica Veleia risaliva a ben prima dell’apertura ufficiale degli scavi,tanto che già nel febbraio del 1760 aveva tentato di procurarsi quattro bron-zetti e alcune monete provenienti dal territorio di Macinesso, oltre ad un«busto d’ottone, pure trovato in un fosso vicino alla chiesa», che cercò divendere alla corte di Parma8.

Appena completate le Osservazioni sulla lamina bronzea della Lex deGallia Cisalpina, il Costa si concentrò, dunque, sull’edizione dello scavo,un’impegno assai più gravoso e non privo di rischi, soprattutto per un mo-desto appassionato di antiquaria più a suo agio tra le epigrafi e le moneteantiche che tra le sconvolte rovine di un’intera area archeologica. Dopo cheil Caylus, nel quarto volume del suo Recueil, aveva pubblicamente annun-ciato la scoperta della città di Veleia, «une des curiosités de ce siècle», illu-strando alcuni bronzetti provenienti dagli scavi9, tutto il mondo letterarioera rimasto in attesa della pubblicazione dei monumenti veleiati.

Il risultato delle fatiche del canonico furono, come è noto, i due volumiin folio riguardanti rispettivamente le scoperte del 1760 e del 1761-1762 e ilvolumetto in ottavo dedicato alle monete antiche trovate a Veleia, conservatiancora manoscritti presso la Biblioteca Palatina e il Museo Archeologico diParma10. Il progetto editoriale prevedeva, nelle intenzioni del Costa, la pub-blicazione congiunta del Ms. Parm. 1246 (Raccolta dei Monumenti di Anti-chità che col mezzo dei Regi scavi si sono tratti dalle viscere della città dei Ve-liati, Tomo I riguardante le scoperte del 1760) e del volume dedicato alle mo-nete (Serie delle medaglie ritrovate fra le rovine dell’antica città dei Veliati),cui avrebbe fatto seguito l’edizione del Ms. Parm. 1247 (Raccolta di vari pez-zi di antichità stati disotterrati col mezzo dei R. Scavi), che avrebbe costituitoil secondo tomo dell’opera.

La parte più impegnativa del lavoro consisteva nell’introduzione storicae nelle riflessioni sui reperti archeologici, concentrate nelle trentasei paginedella prefazione al primo tomo, mentre tutto il resto si riduceva alla sempli-

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7 Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot dell’8 giugno 1761, citata anche in Miranda2002, pp. 98-99.

8 AMANP, ms. 44, lettere di Ambrogio Martelli al Du Tillot dell’11, 14 e 18 febbraio1760.

9 Caylus Recueil, IV, pp. 182-87, tav. LIX.10 Costa ms. 1246 e ms. 1247 e AMANP, ms. 57.

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ce registrazione delle scoperte, annotata giornalmente in forma di diario. Diun certo interesse sono le notizie relative alle esplorazioni clandestine con-dotte a Veleia nel corso del XVII secolo e ancora nei decenni immediata-mente precedenti l’apertura ufficiale degli scavi, che avrebbero restituito ungran numero di oggetti preziosi, tra cui «un’Ara d’oro, una grata parimentid’oro, numerose medaglie delle più rare d’ogni sorta di metallo, molte lami-ne ricche di caratteri, numerose statue di metallo, altre di marmo, e talunad’oro eziandio»11, curioso elenco riferito con enfasi dal Costa nell’evidentetentativo di esaltare le ricchezze artistiche della città che si andava scopren-do e di assicurarsi così la piena attenzione dei lettori. Pur nella sua dimen-sione un po’ fantastica, questa informazione, unita al più tardo raccontodello scienziato Antonio Boccia, che si dilungherà sugli improvvisi episodidi arricchimento di alcune famiglie del luogo, segno evidente di proficuicommerci di oggetti preziosi12, rappresenta una delle scarsissime notizie suiprimi, e purtroppo non documentati, rinvenimenti di antichità nel territoriodell’antica Veleia.

I tentativi di inquadrare storicamente la fondazione e le fasi di fioritura edi decadenza della città, con il supporto delle scarse notizie fornite daglistorici antichi (e interpretate grazie all’aiuto del Caylus13), rivelano tutta ladebolezza di conoscenze del canonico, che ancora non riusciva a dare un

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11 Costa ms. 1246, p. 10.12 Boccia ms. 497, pp. 124-37. Il manoscritto è stato edito in A. Boccia, Viaggio ai monti

di Piacenza (1805), Piacenza 1977 (la descrizione di Veleia si trova alle pp. 58-63). AntonioBoccia, nato in Spagna ma di origine parmigiana, intraprese la carriera militare al serviziodel ducato e fu studioso di scienze naturali (Clerici 1999, p. 315): nel 1804-1805, su richie-sta del ministro Moreau de St. Méry, fece un viaggio nei monti parmensi e piacentini alloscopo di tracciare una descrizione geografica e storica di quei luoghi (vedi Cossutta 1986,p. 302, nota 1 e pp. 362-63 e infra cap. III, p. 95). A proposito degli scavi clandestini con-dotti a Veleia, racconta che i primi ritrovamenti di antichità avvennero alla metà del XVIIsecolo, ad opera di un certo arciprete Bardetti, che nello scavare dei fossi per le viti trovòuna statua di pietra: iniziò così un’attività di commercio di antichità veleiati, che gli avreb-be presto consentito di abbandonare la parrocchia e di ottenere, anche per i suoi discen-denti, il titolo nobiliare di conti. Più tardi, l’abate Lateranense Chiappini, uno dei pochi aconoscere il segreto di questi scavi, avrebbe formato, con il materiale proveniente da Veleiae che gli donava il nuovo arciprete Rapaccioli, il medagliere e il museo del convento di S.Agostino di Piacenza; i frammenti di metallo prezioso venivano invece spediti dal Rapac-cioli a Piacenza per essere fusi presso l’orefice Fontana (che pure avrebbe arricchito, inquesto modo, l’intera sua famiglia).

13 Frutto delle discussioni con il Caylus è di certo la preferenza accordata alla lezione «ci-tra Placentiam», rispetto a quella di «circa Placentiam», nel noto e controverso brano di Pli-nio sulla localizzazione dell’antica città, (vedi Costa ms. 1246, p. 27).

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nome preciso alla città («in vista ... di tanta incertezza, e di tante tenebre alpartito mi sono appigliato di non dare per anco alcuno specifico nome allascoperta città, e di chiamarla indeterminatamente la città dei Veliati»)14;scarsamente significativi e poco puntuali sono poi i riferimenti alle altre im-portanti scoperte archeologiche settecentesche, come Gabii, Industria, Cu-pra, note al Costa grazie anche alla familiarità con antiquari (il Galletti, ilPaciaudi) che, almeno in parte, contribuirono al loro recupero, e natural-mente come Ercolano, la grande rivelazione del XVIII secolo, con la qualeil Costa propone un confronto (divenuto poi un topos per tutto il Settecen-to) che, nel suo evidente desiderio di adulare il duca e glorificare se stesso,finisce addirittura per privilegiare, per importanza storica e documentaria,gli scavi veleiati su quelli vesuviani: «la prima [Ercolano] deve alle scopertemaggior lustro e di farsi conoscere più grande, più nobile, più facoltosa diquello che si sapesse da prima, mentre Veleia deve al suo scopritore la vita eil nome»15.

Anche nella selezione del materiale per le tavole illustrative si intravedelo zampino del Caylus: pur attento a scegliere i reperti che maggiormentepotessero confermare la ricchezza artistica e documentare il rilievo storicodella città, il Costa non disdegnò infatti di inserire, qua e là nelle tavole, al-cuni reperti “minori” (qualche frammento ceramico, elementi di instrumen-tum in bronzo, qualche lucerna), «per soddisfare in qualche modo alla sag-gia curiosità di chi ama simili cose», e sembrò anche progettare la pubblica-zione, in un unico volume completo di tavole, di tutti i reperti di questo ge-nere, «gli stiletti, gli aghi, le fiale, li vasi unguentari, le tazze, le fibbie,gl’anelli, e tant’altre antiche cosucce»16, sperando forse di affiancare questostudio a quello sulle ceramiche veleiati, che il Caylus andava all’epoca pre-parando.

Il conte, del resto, era stato il primo revisore dell’opera (almeno del volu-me relativo alle scoperte del 1760 e di quello dedicato alle monete) e fu unvalido consulente per le questioni più strettamente inerenti la progettatapubblicazione: approvò e fece propria l’idea di scrivere il testo in italiano esuggerì, per la stampa, il formato delle Antichità di Ercolano; e infine, pergarantire una più scrupolosa verifica sull’analisi delle antichità, fece ammet-tere il Mariette nelle piccola cerchia di studiosi impegnati a rivedere l’opera.

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14 Costa ms. 1246, p. 29.15 Costa ms. 1246, pp. 32-33. Il Muratori, elencando le due più grandi scoperte del

XVIII secolo, citava quella dell’elettricità e la scoperta di Ercolano, ma subito dopo, pur adebita distanza, ricordava come «singolare, e meritevole di gran stima» il ritrovamento dellaTavola Traiana e, più in generale, la riscoperta di Veleia (Muratori 1749, pp. 8-9).

16 Costa ms. 1246, pp 33-34.

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Se il giudizio del Caylus fosse stato positivo, i manoscritti del Costaavrebbero avuto qualche speranza di approdare in tipografia e far conoscereagli antiquari un bel numero di antichità veleiati, ma il conte non poté checriticare la verbosa e superflua erudizione del canonico piacentino («jecrains qu’il n’ait non pas l’antique mais l’ancienne érudition») e fu categori-co nel bocciare il testo, pieno a suo vedere di banalità, di ripetizioni, di unagran quantità di cose inutili e male illustrate:

je suis persuadé que ces deux manuscrits, qui forment un singulier et magni-fique inventaire, seront un grand trésor pour la bibliothèque qui les posséde-ra dans le temps à venir. Cependant sur l’exposé que vous m’en faites, c’est-à-dire de tous ces rapports, jour par jour, article par article, je prevois diable-ment de retranchements à faire. Par example, combien y aura-t-il de statuesqui n’exigeront que leurs noms, leurs matière et leurs proportions? Combieny aura-t-il dans les inscriptions de marbres qui ne veulent rien dire, qui neprésentent aucune nouveauté, et qu’il est inutile de copier? Cependant le si-gnor Conte a écrit sour toutes. Je puis me tromper, mais je doute que toutesles inscriptions d’une ville méritent d’être relevées17

scriverà infatti nel dicembre del 1761 al ministro Du Tillot, che era ansiosodi conoscere il parere dell’illustre antiquario, per dare finalmente alle stam-pe l’opera tanto attesa sulle antichità di Veleia. Certo i volumi del Costa,nella pignola registrazione di ogni più piccolo ritrovamento, tradisconol’imbarazzo di chi teme di trascurare qualche cosa di importante e preferi-sce annotare tutto, pur in modo acritico e senza alcun ordine preciso: nonbisogna dimenticare che fino al settembre del 1761 (e cioè dopo aver ulti-mato il primo tomo) il Costa non si era mai recato a Veleia e non stupiscedunque che non fosse in grado di far interagire con i monumenti e con levarie aree dello scavo la notevole mole di reperti che veniva periodicamentesottoposta (spesso solo attraverso disegni) alla sua attenzione, e ancor menoci sorprende che la città di Veleia, il suo impianto urbanistico, i suoi spazipubblici, le sue attività artigianali non riescano, nei suoi scritti, ad emergeree a comporsi in un organico quadro storico-archeologico.

Il principale merito dei volumi del Costa sta invece, a mio avviso, nelricco apparato illustrativo, forse non sempre fedele e spesso carente di uti-li informazioni (come le misure precise o le indicazioni dei materiali), mache con le quarantacinque tavole del primo tomo e le ottantaquattro delsecondo, eseguite dal disegnatore Giovanni Permòli, e le molte e detta-gliate piante dei monumenti in corso di scavo costituisce una documenta-zione grafica senza dubbio non comune per l’epoca: alcuni disegni forni-

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17 Nisard 1877, I, p. 276.

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scono importanti informazioni sullo stato di conservazione, all’indomanidella scoperta, dei pezzi più rilevanti, come le dodici statue della basilica ole statue bronzee provenienti dal foro, sottoposte nel tempo a diverse ope-razioni di restauro, mentre l’inserzione, qua e là nelle tavole, di una buonaselezione di materiali pertinenti all’instrumentum e di numerosi frammentidi iscrizioni bronzee e marmoree (scelta tanto biasimata dal Caylus) rap-presenta ancora oggi l’unica fonte per individuare la provenienza veleiatedi numerosi bronzetti e altri piccoli oggetti andati nel tempo dispersi enon più rintracciabili.

Il progetto di rendere presto noti i risultati degli scavi era dunque sfuma-to ma il Du Tillot, che evidentemente non si accontentava dei giudizi delconte e sperava di salvare, pur con opportuni aggiustamenti, l’opera del Co-sta, decise di rimettere la questione al giudizio del Paciaudi: il carteggio, ingran parte inedito, tra il padre teatino e il ministro, compreso tra il gennaioe il giugno 1762 (periodo in cui il Paciaudi si trovava a Parigi), documentagli ormai blandi tentativi del Du Tillot di dare, comunque, alle stampe l’edi-zione tanto attesa e la graduale e sempre più decisa convinzione, da partedel Paciaudi, dell’impossibilità di trarre un qualche profitto dagli scritti delCosta. A Parigi si era formato una sorta di comitato scientifico, compostodal Caylus, dal Paciaudi e dal Mariette, incaricato di giudicare il risultatodel povero canonico piacentino, che a questa data si limitava al solo primotomo, relativo alle scoperte del 1760, mentre ancora in preparazione era ilvolume sui rinvenimenti dei due anni successivi. Questa circostanza fornìun’ulteriore occasione di confronto (e di scontro) tra le diverse metodologiedi ricerca che opponevano da tempo il conte e il Paciaudi. Il Caylus, secon-do il Paciaudi, poteva ben interessarsi di curiose e, a suo vedere, bizzarre ri-cerche tecniche che finivano per valorizzare persino i più modesti frammen-ti di antichità, ma quando si trattava di una pubblicazione scientifica di am-pio respiro, patrocinata per di più da un sovrano, non aveva dubbi sul fattoche bisognasse «dare cosa eccellente»18.

Indispensabile per la buona edizione di un’opera di carattere antiquarioera, per il religioso, la scelta qualità delle tavole illustrative, che dovevanoessere affidate ad un disegnatore formatosi all’Accademia di Belle Arti edesperto di riproduzioni dall’antico. Appena nominato direttore degli scaviveleiati, il Paciaudi si impegnò infatti ad istruire personalmente il disegnato-re che aveva sostituito il defunto Permòli, il pittore Antonio Ravelli, artistache «ha qualche talento, ma non ha principî e non ha mai veduta una buonastampa» e che di lì a poco avrebbe convinto a prendere lezioni all’Accade-

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18 Paciaudi ms. 1586, lettera al Du Tillot dell’8 febbraio 1762.

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mia di Parma19. Il nuovo direttore poté poi garantire al cantiere un disegna-tore assai più affidabile e competente, il giovane Pietro Martini, che daqualche tempo si stava esercitando in lavori di architettura sotto la guida delPetitot20.

Al Paciaudi non erano affatto piaciute le tavole del Costa, compresi i di-segni del Permòli, «niuno essendo con quella esattezza e verità richiesta pertal oggetto», e non aveva dubbi che, in caso di pubblicazione, bisognasse farridisegnare tutti i pezzi21.

Il problema dell’edizione degli scavi di Veleia stuzzicò la passione biblio-fila del Paciaudi non meno delle sue curiosità antiquarie, tanto che i suoisuggerimenti al Du Tillot furono quasi esclusivamente di carattere editoria-le, tesi a fare dell’opera in esame una pubblicazione-modello, in grado dicompetere, per accuratezza scientifica, chiarezza grafica e facilità di consul-tazione, con i principali repertori di antichità del tempo: contrariamente aquello che aveva suggerito il Caylus, propose ad esempio di dare all’opera ilformato di un «in foglio discreto, come il Montfaucon, non il foglio atlanti-co come il Museo Fiorentino, o la forma irregolare delle Pitture di Ercola-no», suggerì l’uso della carta d’Olanda, la migliore in commercio, e si dilun-gò in particolareggiate istruzioni sullo stile dei disegni e delle relative inci-sioni. Il Paciaudi voleva evitare che la pubblicazione su Veleia assumesse laforma del Recueil del Caylus, deturpato a suo vedere da brutte incisioni affi-date a intagliatori inesperti: all’epoca del suo soggiorno romano non avevanascosto all’amico di essere rimasto molto deluso dal frontespizio del terzovolume e gli aveva suggerito di commissionare quello successivo al bravoHubert Robert22, ma ora gli era chiaro che al conte premeva soprattutto digarantire tempi rapidi alle sue pubblicazioni, nel completo disinteresse perla forma artistica e per l’eleganza dell’edizione.

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19 Vedi ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20 (Riflessioni intorno ad alcuniprovvedimenti per gli scavi di Velleia, 16 luglio 1763); AMANP, ms. 46, lettera di AmbrogioMartelli del 29 dicembre 1763 e AMANP, Scavi di Velleia, 2, lettera del Paciaudi a GiacomoNicelli del 5 luglio 1763.

20 Vedi ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20 (Memoria del Paciaudi scritta sul-l’uscire dell’anno 1763).

21 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20 (Riflessioni intorno ad alcuni provvedi-menti per gli scavi di Velleia: «sarà però sempre vero che volendosi far incidere qualche cosa,sarà necessario di rifare quasi tutti i disegni, anche quelli del fu Permoli».

22 Scriveva infatti il Paciaudi nell’aprile del 1761: «après le départ de M. de Saint-Non,Robert aura quelques momens libre; ainsi je lui ferai faire un dessin pour le frontispice duquatrième volume de vos antiquités; car, à vous parler avec naïveté, j’ai été très-mécontentdu frontispice du troisième» (Sérieys 1802, p. 229).

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Per l’incisione de’ rami disconvengo dal sentimento del mio conte di Caylus.Egli ama assai la rapidità, ed io credo che bisogna andar lento per andar be-ne. Egli progetta di far incidere in Inghilterra, in Allemagna, in Francia, inItalia, per dare presto il libro. Ma convien riflettere, che niun’intagliatore in-glese, né alemanno ha mai lavorato bene le antichità. I libri, che abbiamo diquei paesi sono detestabili. In Francia uno, o due al più hanno il gusto anti-co, e in tal caso al solo M. Mariette si può fidare la commissione [...]. Nel-l’Italia, siccome abbondano gli originali delle antichità, gli incisori sono i mi-gliori. Buoni quelli di Roma, eccellenti quelli di Firenze, sufficienti quelli diVenezia

confidava il Paciaudi al Du Tillot nel marzo del 176223: quando, un annopiù tardi, si sforzerà di insegnare il mestiere al giovane Ravelli, scegliendoper lui dei «buoni esemplari per disegnare nello stile antico», gli ripeterà lestesse raccomandazioni, e cioè che «i libri di Antichità stampati in Francianon sono quelli da imitarsi» (compresi evidentemente anche quelli del Cay-lus) e che «le antichità incise in Venezia sono tutte cattive», con la sola ecce-zione dell’opera di Antonio Maria Zanetti, «uomo intendente» e cugino diuno dei principali consulenti del teatino in materia antiquaria24.

Forte dell’opinione del Mariette, che avrebbe volentieri ridotto al nume-ro di dodici non meno di trenta tavole dell’opera del Costa, trovandole pie-ne di «inutilità», e che suggeriva di unire il catalogo delle scoperte del 1760a quello del 1761, in modo da avere sufficiente materiale per la stampa25, ilPaciaudi giudicò perfettamente superfluo e persino ridicolo pubblicare tut-te le incisioni volute dal Costa. Bersaglio delle sue critiche erano, natural-mente, le tavole riproducenti piccoli bronzetti di scarso interesse artistico oinstrumentum domesticum, che invece di dimostrare la ricchezza della cittàdi Veleia servivano solo a confermare le critiche di chi ironizzava sull’anda-mento degli scavi («se si daranno delle tavole con delle dita rotte, con lucer-

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23 Paciaudi ms. 1586, lettera al Du Tillot del 15 marzo 1762. Per le tavole il Paciaudiavrebbe preferito il formato del Traité del Mariette (ibidem, lettera del 25 gennaio 1762).

24 AMANP, Scavi di Velleia, 2, lettera del Paciaudi a Giacomo Nicelli del 5 luglio 1763. Illungo sodalizio scientifico con l’archeologo veneziano Girolamo Francesco Zanetti è ben do-cumentato dalle quarantasei lettere del carteggio del Paciaudi, conservato presso la BibliotecaPalatina di Parma (BPP, Carteggio Paciaudi, cass. 95). L’opera tanto apprezzata dal Paciaudiè il catalogo dei marmi antichi dello Statuario Pubblico veneziano (Delle antiche statue grechee romane, che nell’antisala della Libreria di S. Marco, e in altri luoghi pubblici di Venezia si tro-vano), edito a Venezia da Antonio Maria Zanetti di Girolamo e Antonio Maria Zanetti diAlessandro nel 1740-1743: per la realizzazione dell’apparato figurativo furono impiegati i mi-gliori incisori dell’epoca, tanto che l’opera divenne presto un modello imprescindibile per icataloghi illustrati pubblicati nella seconda metà del XVIII secolo (Sacconi 1996).

25 Paciaudi ms. 1586, lettera al Du Tillot dell’8 febbraio 1762.

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ne spezzate, con gangheri logori, come si è fatto in questo volume, si accre-scerà il motivo della derisione, che diverrà ragionevole»)26. Ma anche questapolemica, tutta apparentemente ostile all’opera dell’ormai vecchio canoni-co, mirava in realtà a prendere le distanze da certe posizioni scientifiche so-stenute dal Caylus, e che il Paciaudi non aveva mai approvato: «il nostroconte di Caylus più facilmente si contenta, e ogni pezzo di antichità per lui èbuono: ella lo avrà veduto dai suoi libri» si affrettò, infatti, a scrivere al DuTillot, subito dopo avere letto il manoscritto del Costa27.

Ancor meno favore, nel severo giudizio del religioso, incontrarono il te-sto della Prefazione e l’esposizione del diario delle scoperte, in cui il Costaaveva accozzato gli oggetti senza alcun ordine logico, compromettendo per-sino la comprensione e l’ipotetica ricostruzione delle strutture architettoni-che rimesse in luce: «il povero Canonico non sa cosa si dica: tutto è confu-sione, superfluità ed imbecillità. Non si può assolutamente pensare a stam-pare niente di ciò che ho veduto» si decise infine a scrivere al Du Tillot e,facendo leva sulle ambizioni che la corte di Parma aveva da sempre ripostoin questo progetto, concludeva affermando che «dopocché tutto il mondoaspetta qualche cosa di grande di Veleia, e in un secolo tanto illuminato nonconviene produrre un libro pieno di inezie e di miserie a tutti i riguardi, èmeglio tacere che parlare mal a proposito», sicuro di essersi liberato, unavolta per tutte, delle «ciaole inutili del Conte Canonico»28.

Allo scopo di argomentare meglio le critiche all’opera del Costa, e perfugare i sospetti di invidia o di malignità, il Paciaudi decise di inviare al mi-nistro delle Osservazioni sul manoscritto in questione, un testo già sottopo-sto all’esame di esperti ed imparziali membri dell’Accademia di Parigi29:

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26 AMANP, ms. 59, p. 207.27 Ibidem.28 Paciaudi ms. 1586, lettere al Du Tillot del 22 febbraio, 15 marzo e 3 maggio 1762; vedi

anche Mandich 1990, pp. 407-08.29 Come scrisse lo stesso Paciaudi al Du Tillot, le sue Osservazioni, unite al manoscritto

del Costa, sarebbero state esaminate dal Le Beau, segretario dell’Accademia e «uomo del piùdritto giudizio»: è probabile che proprio in seguito a questa valutazione, nascesse l’idea (su-bito comunicata al Du Tillot) di costituire un’Accademia antiquaria per le antichità veleiati,presieduta dal Costa e con il Paciaudi nel ruolo di segretario, con il compito di raccogliere leosservazioni dei vari accademici sui monumenti di Veleia e di pubblicare periodicamente leMemorie. Il progetto, che intendeva ovviamente emulare l’iniziativa ercolanese e doveva da-re lustro alla corte di Parma, fallì sul nascere a causa delle dimissioni del Costa e, soprattut-to, del graduale impoverimento dei ritrovamenti veleiati (vedi Paciaudi ms. 1586, lettere alDu Tillot del 15 marzo e 5 aprile 1762). Le Osservazioni sul Manoscritto del Conte CanonicoCosta sugli scavi Velleiati, indirizzate dal Paciaudi al ministro Du Tillot, si conservano (in co-pia redatta dal De Lama) in AMANP, ms. 59.

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conservato ancora manoscritto presso la Biblioteca Palatina di Parma que-sto documento costituisce la prima e forse la più puntuale analisi critica del-l’opera del Costa, condotta letteralmente riga per riga e tavola per tavola, acominciare dal titolo, per il quale avrebbe preferito una formula più breve esenza inutili giri di parole («i titoli de’ libri quanto più semplici, tanto piùsono conformi agli esempi lasciatici da migliori scrittori») e dal frontespizio,in cui trovava intollerabile (e linguisticamente scorretta) l’aggiunta dell’ap-pellativo di “Rep.Velejatium Regeneratori” indirizzato al duca don Filippo,dal momento la repubblica di Veleia «malgrado tutto le scoperte, non torne-rà mai a rinascere». A parte alcune critiche di minor rilievo, come quelleagli ornati per i finali di pagina «di un infelice gusto cinese, e grottesco, cheregna in Lombardia», che il Paciaudi avrebbe voluto “all’antica”, propo-nendo addirittura di utilizzare a questo scopo alcune delle «tante minuzze»veleiati inserite nel catalogo, e tralasciando le frequenti censure alle innume-revoli «miserie», indegne di comparire in un’opera tesa a dimostrare l’opu-lenza dell’antica città, le osservazioni del teatino colgono spesso nel segno.Non ha problemi ad ammettere che la carta topografica degli scavi è ottimae che addirittura «è la cosa più ben pensata che si potesse fare, ed è il me-glio del libro», ma fa giustamente notare la mancanza di una carta geografi-ca dell’antico territorio veleiate, «acciò se ne veda l’estensione, si conoscanoi popoli confinanti, e si possa comprendere la posizione dei Veleiati, deiquali si deve trattare», lamenta l’assenza di una benché minima trattazionestorica, che l’autore avrebbe potuto ricavare combinando le poche notizietrasmesseci dalle fonti antiche, dalla interpretazione della Tavola Traiana edalle numerose altre iscrizioni rinvenute negli scavi, come la stele iscrittacon venator dedicata a L. Sulpicius Nepos, patrono di Veleia o come le dueiscrizioni che menzionano il nome stesso dell’antica città, confinate verso ilfondo dell’opera e che potevano invece, per il loro contributo alla storiadella città, essere illustrate nella Prefazione30. Del tutto irrisolto rimane poi,a suo vedere, il problema delle cause che hanno condotto alla distruzionedell’antica città, e non dimostrata l’esistenza di aree vulcaniche nella zona,indicate come possibili responsabili della fine dell’abitato (un’ipotesi chedeve molto al confronto con Ercolano), mentre è fondamentale, per il Pa-ciaudi, che su questo punto «si distingua il certo dal probabile, e l’istoricodal conghietturale». Giustificati sono i richiami ad una più organica classifi-cazione dei materiali, con particolare riguardo ai reperti architettonici, pre-sentati in ordine di ritrovamento e spesso, dunque, difficilmente collegabili

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30 CIL XI, 1192, 1183 e 1205. Per la stele con il venator, vedi Marini Calvani 1975, p. 40e Eadem 2000, p. 170, n. 20.

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gli uni agli altri, così da rendere assai difficoltosa una ricostruzione idealedei rispettivi edifici di appartenenza («tutto ciò che spetta all’Architetturabisogna darlo unitamente: allora si potrà formare una chiara idea del fabbri-cato di Veleia, e vi sarà il lucido ordine, che sempre manca in questo libro»),e utile il suggerimento di aggiungere qualche tavola illustrativa degli acque-dotti, «un genere di antichità che si vede volentieri in tutte le raccolte» e perdi più giudicati «stupendi» dallo stesso Costa. Le modeste conoscenze ar-cheologiche del Costa si erano inevitabilmente tradite nei frequenti errori diidentificazione delle statue rinvenute a Veleia, errori che il Paciaudi tentaora di individuare e di correggere: contesta, ad esempio, la denominazionedi “sacerdotessa di Iside”31 data al ritratto bronzeo di fanciulla provenientedal foro e giudica un errore «grossolano» l’identificazione con Mida delbronzetto di Satiro inginocchiato, uno dei pezzi più apprezzati dell’interaraccolta per la perfetta conservazione e la bella patina e presto donato alCaylus32, e maliziosamente si chiede come mai l’autore non abbia neppuretentato di dare un nome alla testa in bronzo dorato di un «qualche diviniz-zato Imperatore», pur essendo note da tempo tutte le fisionomie dei Cesari.Non mancano le critiche all’ineguatezza e allo scarso aggiornamento dei ri-ferimenti bibliografici, come quando, parlando dei mosaici pavimentali, ilCosta omette di citare l’opera del Furietti33 oppure, a proposito della pre-senza di numerose dediche imperiali, non trova di meglio che appellarsi al-l’autorità del Malvasia34, suscitando le reazioni sdegnate del Paciaudi («se lo

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31 Costa ms. 1246, tav. IV,1. Per questa testa, vedi D’Andria 1970, n. 18 e Marini Calvani2000, pp. 24-25.

32 Costa ms. 1246, tav. XLV,1. Il bronzetto sarà donato al Caylus nel novembre del 1763,insieme ad altri pezzi veleiati, come dimostra il carteggio con il Paciaudi, in cui il conte di-chiara il proposito di ricavarne alcune tavole per il suo Recueil (Nisard 1877, I, p. 375-376,381 e Caylus Recueil, VII, p. 205, tavv. LIV, I-III). Su questo bronzetto, conservato oggi allaBibliothèque Nationale di Parigi, vedi Babelon 1900, n. 422; Idem 1928, n. 18 e D’Andria1970, n. 17.

33 Si tratta del De musivis ad ss. patrem Benedictum XIV pontificem maximum, edito a Ro-ma dal Furietti nel 1752: in seguito ad alcune fortunate campagne archeologiche condottenegli anni Trenta del secolo nell’area di Villa Adriana, che restituirono i celebri centauri diAristeas e Papias e il mosaico con le colombe oggi ai Musei Capitolini, il Furietti decise didedicarsi allo studio dei mosaici antichi, diventando presto uno specialista del settore (vediFagioli Vercellone 1998).

34 Vedi anche Costa ms. Pallastrelli, lettera al Du Tillot del 2 ottobre 1760, in cui il canoni-co, per dimostrare l’importanza della città che si andava scoprendo e che continuava a resti-tuire numerose iscrizioni dedicatorie in onore di diversi imperatori, citava l’opera del Malva-sia: «sempre più mi fo forte nel credere, che tal città fosse delle illustri ... giacché era costumedi sifatte città l’erigere delle memorie a tutti gl’imperatori, come insegna il Malvasia nei suoiMarmi di Bologna». I Marmora Felsinea del Malvasia vennero pubblicati a Bologna nel 1690.

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A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, VII, tav. LIV, particolare. Bronzetto di satiroinginocchiato.

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scrittore non ha miglior autore da citare del Malvasia, ogni uno se ne riderà.Abbiamo l’equivalente nei classici, perché ricorrere a così cattiva fonte?»).

Il Du Tillot aveva ormai perso le speranze di far conoscere all’interomondo letterario i felici risultati degli scavi e il Paciaudi (come se ce ne fos-se stato bisogno) ammoniva che il libro del Costa non poteva assolutamenteessere dato alle stampe «senza disonorare il nome di S.A.R. e discreditare leantichità di Veleia».

Bisognava dunque ricominciare da capo, e bisognava fare in fretta, ancheper scoraggiare la produzione non autorizzata di saggi o descrizioni su Vele-ia (spesso poco accurata ma sempre molto lusinghiera quando si trattava dielencare i tanti «marmi preziosi d’inestimabil valore», le pretese statue inalabastro o quelle in metallo dorato)35, che avrebbero finito per indirizzaresu Veleia la curiosità e la cupidigia di troppi e minacciato la riservatezza deilavori.

Ma il teatino, per fortuna, stava da tempo lavorando ad un progetto dipubblicazione che avrebbe dovuto sostituire, con grandi vantaggi per la cor-te di Parma, l’opera del vecchio canonico: unito alle sue Osservazioni sul-l’opera del Costa, il Paciaudi aveva infatti rimesso nelle mani del Du Tillot,fin dal marzo 1762, un progetto di «come si potrebbe fare forse un buon li-bro», convinto che per pubblicare degnamente e in modo scientifico le anti-chità di Veleia ci volesse ancora molto studio («bisogna filosofare sulle anti-chità, e bisogna mettervi del ragionamento»).

Si preoccupò, per prima cosa, di chiarire alcuni problemi di identifica-zione degli oggetti recuperati, almeno dei più significativi, riuscendo inmolti casi a correggere gli errori del canonico o a dare adeguato risalto areperti altrimenti trascurati. Quando, nel luglio del 1760, venne scavato ilbronzetto dell’Eracle bibax, il Paciaudi volle subito interrogare il Caylussulla particolare iconografia del pezzo:

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35 Una descrizione anonima di Veleia, conservata manoscritta presso la Biblioteca Uni-versitaria di Pavia (misc. Belcredi, t. 46, fasc. 37), e databile probabilmente alla fine del 1761(è menzionata la gita di Filippo di Borbone a Veleia del settembre di quell’anno), è pubbli-cata in Miranda 2002, doc. 3 (Nuova, vera distinta relazione della città di Villea. Nello StatoPiacentino, vicinanza di Lugagnano, quattro miglia fra li monti). Oltre a ricordare, con toni dimeraviglia, il ritrovamento di tanti marmi di eccezionale pregio, l’anonimo relatore elenca ledue teste bronzee effettivamente rinvenute nel foro, almeno sette figure in alabastro e sei sta-tue in marmo tra cui «una vestita all’eroica con spada e capelli in forma di Perucca, e pizzinella camiscia», stimata dagli antiquari di Roma e di Francia per un valore di un milione(difficilmente identificabile con una delle statue della basilica), oltre ad una «figura di metal-lo dorato, che dicesi dagli Antiquari possi essere la Madre di Nerone Imperatore», di cuinon abbiamo alcun riscontro nei dati di scavo.

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Je ne doute pas du tout que les anciens ne nous aient laissé des monumentsde l’Ercole bibace; je le crois faciles à distinguer. Mais quand je verrai une fi-gure nue ou médiocrement vêtue, et sans aucun caractère, tenant au contrai-re un vase d’une main, je ne balancerai pas à la déclarer la représentationd’un pocillator, et je n’irai pas courir après une divinité. Je n’en ai qu’un ro-main copié d’après une figure grecque, et je n’ai jamais eu d’Hercule danscette disposition

fu la risposta del conte agli interrogativi dell’amico36. Dobbiamo credereche il Caylus non avesse ancora visto il bronzo, altrimenti difficilmenteavrebbe interpretato come pocillator una indubbia statuetta di Eracle, qua-si certamente un ex-voto al sodalicium dei devoti di Eracle, uno dei repertipiù noti, e anche più discussi, dell’intera raccolta veleiate37. Più utili e per-tinenti furono, invece, i suggerimenti che l’antiquario francese dedicò alletavole illustrative destinate ad accompagnare l’opera, questione che stavaparticolarmente a cuore al teatino e che si faceva piuttosto delicata per ipezzi di maggior rilievo artistico, come le celebri statue marmoree dellabasilica:

a l’égard de vos gravures, je vous conseillerais de donner les figures commevous les avez trouvées, et sans les faire restaurer par des sculpteurs, qui leplus ordinairement les appesantiront. Je ferais poctuer les parties qui man-quent selon le dessin de quelque peintre sage. Ce serait le moyen d’ôter lesdifformités, s’il s’en rencontre, et de satisfaire l’oeil du spectateur, sans rienprendre sur vous et sans faire de grandes dépenses, après lesquelles il n’y aplus moyen de recourir38.

Il Caylus non aveva dubbi sulla necessità di riprodurre le statue nel lorostato frammentario, senza aggiunte permanenti che avrebbero rischiato diappesantire la fattura antica: non conosciamo l’opinione del Paciaudi suquesto punto e anche i numerosi abbozzi lasciatici sulle antichità veleiati

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36 Nisard 1877, I, p. 261.37 La statuetta, come è noto, sarebbe stata rinvenuta nel luglio del 1760 in prossimità del-

la camera pavimentata con lastre di bardiglio, lungo il lato occidentale del foro: nello stessopunto venne anche ritrovata la basetta con iscrizione relativa alla dedica di L. Domitius Se-cundio (CIL XI, 1159) ai sodales del culto di Eracle. Per le discussioni sulla possibile falsifi-cazione del pezzo, vedi D’Andria 1970, n. 11 ma anche Marini Calvani 1979, p. 238, n. 453 eEadem 2001, p. 25. Nel V volume del Recueil (pp. 224-25, tav. LXXXII), uscito nel 1762, ilCaylus inserirà un bronzetto interpretato come pocillator e, memore del pezzo rinvenuto aVeleia, metterà il lettore in guardia sul fatto che in molti gabinetti di antichità questo tipo difigura venisse spesso erroneamente interpretata come immagine di Eracle bibax.

38 Nisard 1877, I, p. 370, lettera del 24 ottobre 1763.

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non permettono di sciogliere questo dubbio39. Di certo, i problemi legati al-la riproduzione grafica rimasero sempre tra le priorità del teatino e doveva-no essere, almeno nelle intenzioni, uno dei punti di forza dell’intera opera.Abbiamo visto con quanta cura si applicò ad istruire i disegnatori sullo sca-vo e non perse occasione per dare disposizioni che correggessero le normestabilite dal canonico: impose, ad esempio, di abolire la ridicola e fuorviantedicitura «in giusta misura» che compariva in molte delle tavole del Costa,sostituendola con le opportune misure in scala metrica, volle che sotto ognioggetto fosse indicato il materiale e impartì regole precise per la riproduzio-ne dei reperti, riservando alle teste e a tutti i monumenti artisticamente piùpregevoli almeno una veduta frontale e una di profilo, «mentre il non esser-si ciò fatto sin qui fa che non si riconoschino le fisionomie, e cosa rappre-sentino li monumenti»40.

Nel libro che andava progettando, e per il quale aveva scelto il semplicetitolo “Le antichità di Velleia”, il Paciaudi aveva in mente di inserire un nu-mero limitato di tavole, seguendo forse il parere del Caylus, che aveva consi-gliato di fare incidere solo i reperti che presentassero qualche singolarità41.Da un elenco, incompleto e ancora in stato di abbozzo, dei pezzi da inserirenelle tavole42, sembra che lo studioso intendesse dedicare ai culti veleiati al-meno una tavola con bronzetti di divinità ed ex-voto in terracotta, almenotre tavole erano quasi interamente riservate alla documentazione di vari og-getti di instrumentum domesticum e ampio spazio era dedicato a vari generidi epigrafi, tra cui figurava anche la laminetta bronzea con iscritto il nomedi Annua Cannua, scoperta nel 176343, una delle epigrafi “minori” veleiatiche più stuzzicò la curiosità degli antiquari, a partire dallo stesso Paciaudiche, contrario all’ipotesi di una destinazione funeraria (ancora sostenuta al-

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39 Di certo qualche tentativo di restauro dovette all’epoca essere preso in considerazione,dal momento che nello studio dello scultore di corte Jean-Baptiste Boudard furono rinvenu-te, dopo la sua morte (1768), «cinque statue di marmo antiche e mutilate ritrovate in Velle-ja» (ASP, Fondo Moreau de St. Méry, b. 27), ma non è chiaro che tipo di intervento si inten-desse fare (vedi anche Saletti 1969, p. 19). Sul problema, ancora aperto, dei restauri sette eottocenteschi delle statue veleiati, vedi anche Miranda 2001, p. 284, nota 16.

40 AMANP, Scavi di Velleia, 2, lettera a Giacomo Nicelli del 15 luglio 1763.41 Nisard 1877, II, p. 21, lettera al Paciaudi del 13 luglio 1764.42 Paciaudi ms. 1591: l’opera (o forse il primo tomo di questa, relativo agli scavi del

1763) prevedeva la pubblicazione di 22 tavole, ma è qui illustrato solo il contenuto delletavv. I-IV, VI e VIII.

43 CIL XI, 1195. Vedi Ms. Parm. 1245, tav. IV, n. 4 (anno 1763); Paciaudi ms. 1591,tav. IV.

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cuni decenni più tardi da Gaetano Marini)44, pensava ad una funzione dellalaminetta nell’ambito della sfera muliebre, forse come “etichetta” da attac-care ad un cista per i doni nuziali.

Alla fine del 1763 la notizia della prossima pubblicazione de Le antichitàdi Velleia era ormai cominciata a circolare, tanto che da Parigi il Barthélemysi mostrava curioso di quanto il Paciaudi stava preparando e da BolognaGiacomo Biancani Tazzi, custode della «Stanza delle Antichità» del localeIstituto delle Scienze, si rallegrava con il teatino per la bella novità45, ma an-cora nel 1765 il Lalande informava che l’opera non era ancora pronta e cheil Paciaudi stava lavorando alle tavole, e nel 1767 il viaggiatore polacco M.Giorgio Mniszech annotava nel suo diario che alcune «plagues de cuivreavec des inscriptions gravées» trovate negli scavi di Velleia (probabilmente iframmenti della tavola con la Lex de Gallia Cisalpina e forse qualche altralamina bronzea iscritta, come quella di Annua Cannua) non erano ancorastate pubblicate né spiegate46. Che cosa impediva al Paciaudi di completaree di dare finalmente alle stampe il suo lavoro?

Gli scavi, come abbiamo visto, non stavano dando grandi risultati e insie-me alle speranze di fare qualche importante scoperta si affievoliva anchel’interesse del religioso per le antichità veleiati, tanto che il Caylus dovettespronarlo a non abbandonare l’impresa, convinto che quanto finora era sta-to trovato fosse già sufficiente a soddisfare la curiosità degli studiosi: «l’es-sentiel de l’ouvrage que vous donnerez sera constamment établi sur les loissingulières que vous avez trovées à Véleia. En donnant vos statues et vos au-

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44 A sollecitare l’opinione del Marini su questa laminetta fu il giovane aiutante del Pa-ciaudi, Pietro De Lama, al quale l’epigrafista romano così scrisse, nell’agosto del 1784: «ca-rissime mi sono state le due laminette di bronzo, delle quali è ben curiosa quella di AnnuaCannua, che forse fu appiccata all’urna di Costei» (AMANP, Carteggio De Lama, Lettere diPrivati, cart. 3, lettera del 14 agosto 1784).

45 Vedi Nisard 1877, II, p. 271 e BPP, Carteggio Paciaudi, cass. 67, lettera di G. BiancaniTazzi dell’8 dicembre 1763.

46 Lalande Voyage, I, p. 425 e Mniszech Journal: vedi infra cap. IV, p. 198. Mniszech nonsarà l’unico polacco ad interessarsi delle antichità veleiati: già negli anni 1790-1792 una co-pia dei tre volumi in folio della Raccolta dei Monumenti di Antichità che col mezzo dei regiscavi si sono tratte dalle viscere della città dei Veleiati, relativi alle scoperte degli anni 1760-1765, faceva la sua bella mostra, come opera di gran pregio, nella ricca biblioteca di Stani-slao Augusto Poniatowski, ultimo re di Polonia. Attraverso quali strade e quali emissari lecopie dei manoscritti tenuti gelosamente sotto chiave a Parma e assai di rado mostrati, e perpochi minuti, a ospiti di particolare riguardo siano giunte sino a Varsavia rimane ancora unproblema aperto, ma non c’è dubbio che questo caso, recentemente reso noto da J. Kolendo(Kolendo 2004), è indicativo del fermento di iniziative, curiosità e, forse, velleità editoriali,che ancora alla fine del Settecento ruotava intorno alla scoperta di Veleia.

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Fig. 1 – A. Costa, Raccolta dei Monumenti di Antichità ..., Parma, Biblioteca Palatina,Ms. Parm. 1246. Pianta delle scoperte fatte a Veleia nel 1760.

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Fig. 2 – A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, VI, tav. CII. Frammenti ceramici da Veleia.

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Fig. 3 – A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, IV, tav. LIX. Bronzetti da Veleia.

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Fig. 4 – A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, VII, tav. LIV. Bronzetti da Veleia.

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Fig. 5 – A.C.P. Conte di Caylus, Recueil, VII, tav. LV. Bronzetti da Veleia.

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Fig. 6 – Parma, Archivio di Stato, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 37. Pianta delle sco-perte fatte a Veleia negli anni 1761-1763.

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Fig. 7 – P.M. Paciaudi (?), Monumenti antichi discoperti tra le rovine di Veleia, Parma,Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1245, tav, V (1764). Erma marmorea da Veleia.

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Fig. 9 – P. M. Paciaudi (?), Monumen-ti antichi discoperti tra le rovine di Ve-leia, Parma, Biblioteca Palatina, Ms.Parm. 1245, tav. VI. Testa virile mar-morea.

Fig. 8 – P. M. Paciaudi (?), Monumentiantichi discoperti tra le rovine di Veleia,Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm.1245, tav. IV. Torso marmoreo di fan-ciullo.

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Fig. 10 – P. M. Paciaudi (?), Monu-menti antichi discoperti tra le rovinedi Veleia, Parma, Biblioteca Palatina,Ms. Parm. 1245, tavv. XXI e XXII.Pianta e elevato dell’edificio circolaredi Veleia.

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Fig. 12 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, n. 152. Pianta diVeleia (particolare dell’area sud-orientale dell’abitato), 1779.

Fig. 11 – Parma, Archivio del Museo Archeologico Nazionale, Scavi di Veleia, 3. Pian-ta dello scavo dell’edificio circolare di Veleia (5 luglio 1764).

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Fig. 13 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, statuetta bronzea di Eracle bibax ebasetta marmorea con dedica al sodalicium cultorum Herculis (CIL XI, 1159).

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Fig. 15 – Parma, Archivio di Stato, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 43. Pianta dell’edificiocircolare di Veleia, 1780.

Fig. 14 – P. A. Martini, Vestigjdell’antica città di Veleia, Mu-seo Archeologico Nazionale,Disegni e Stampe, n. 538-539.Pianta relativa agli scavi del1765 e incisa nel 1767.

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Fig. 16 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, bronzetti trovati a Veleia nel 1776:piede di mobile con figura di guerriero, togato, Alessandro, Dioniso.

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Fig. 18 Parma, Archivio di Stato, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 38. Pianta degli scavieseguiti a Veleia nel 1804.

Fig. 17 – Parma, Archivio di Stato,Mappe e Disegni, vol. 25, n. 47. Dise-gno di mosaico geometrico a tesserebianche e celesti da Veleia, 1779.

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Fig. 19 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, I B, n. 197. Pian-ta degli scavi eseguiti a Veleia nel 1804 (area a sud della chiesa e del cd. “anfiteatro”).Insieme e particolare.

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Fig. 21 – G. Antolini, Le rovine di Veleia, I, (1819), tav. I. Veduta del Foro di Veleia,acquatinta su disegno di L. Basiletti.

Fig. 20 – G.B. De Gubernatis, Veduta del Foro di Veleia, 1808 c., Torino, Galleria Ci-vica di Arte Moderna.

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tres ustensiles pour ce qu’ils valent, on n’aura rien à vous reprocher» gliscrisse infatti nel luglio del 1764, assicurandogli il pieno appoggio scientifi-co dei membri dell’Accademia di Francia47. Il vero punto di forza del libroera però, a giudizio del conte, la carta topografica dell’antica Veleia, in cuianche il Paciaudi vedeva ormai, con rassegnazione, l’unico vero motivo percontinuare le esplorazioni: «gli scavi fatti nel piano, ove si son fatti dei sagginel passato novembre daranno almeno il piacere di finire la Carta Topogra-fica in figura regolare, che mostri un piantato di città», annoterà nel pianodi lavoro per il 176448. Le rovine di Veleia continuavano però a restituire,terminata l’esplorazione del foro, piccoli ambienti pertinenti ad abitazioniprivate e non si era ancora riusciti ad individuare nessuna struttura di parti-colare rilievo e nemmeno un edificio di culto, ma alle evidenti perplessitàdel Paciaudi, il Caylus obiettava che la carta topografica, per la ricchezza ela varietà tipologica di questo genere di edifici, ancora poco noti agli anti-quari, sarebbe risultata assai più istruttiva:

Je suis fâché que vous ne découvriez pas mieux dans vos fouilles que ces pe-tites maisons. Il ne faut pas désespérer de la bonne fortune. Mais ces petitesmaisons étaient appuyées sur des grandes, et j’espère qu’au moins vous avezfait lever le plan de ces habitations communes. Vous savez qu’ils nous sontplus inconnus que ceux des temples et des palais. De plus, la carte qui setrouvera à la tête de votre ouvrage sera plus riche et plus curieuse49.

Il conte propose persino di far controllare l’esattezza dei nomi italiani elatini al Mariette, l’unico in tutta Parigi in grado di fare un buon lavoro («Ila les connaissances, la patience et l’intelligence pour une pareille opéra-tion»)50 e si adopererà per far inserire il toponimo di Veleia nella nuova car-ta dell’Italia in preparazione in quei mesi a Parigi51: sarà questo l’ultimocontributo del vecchio antiquario alla riscoperta di Veleia.

La carta topografica di Veleia, con l’indicazione delle scoperte degli anni1760-1763, ed una successiva, delineata nel 1767 da Pietro Martini e relativaalla situazione degli scavi alla fine del primo ciclo di esplorazioni (1765) so-no giunte fino a noi e rappresentano uno dei principali contributi dellecampagne dirette dal Paciaudi, soprattutto se si considera che l’intera area

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47 Nisard 1877, II, p. 21 (lettera del 13 luglio 1764) e p. 43 (lettera dell’8 ottobre 1764).48 ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20.49 Nisard 1877, II, p. 20 (lettera del 13 luglio 1764).50 Nisard 1877, II, p. 124 (lettera s.d., ma databile tra il 10 e il 21 maggio 1765).51 Nisard 1877, II, p. 150 (lettera del 22 luglio 1765). Il Caylus morirà il 5 settembre del-

lo stesso anno.

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sud-orientale all’epoca indagata ha subito nel tempo gravi danni ed è oggi ingran parte interrata. Ben diversa, invece, la sorte della tanto attesa operasulle antichità veleiati, che il Paciaudi abbandonò, ancora in stato di abboz-zo, all’indomani della chiusura degli scavi, e di cui ci rimane il seguente in-dice del primo tomo, inviato al Du Tillot fin dal 176252:

Tomo Primo. Indice dei Capitoli:I Sito, origine, e condizione di VeleiaII Conghietture sulle cagioni della sua ruinaIII Occasione del suo discoprimento, e idea generale degli scaviIV Delle Fabbriche di Veleia. Scoperte, e loro architetturaV Delle opere pubbliche della città di VeleiaVI Pitture trovate fra le rovine di VeleiaVII Forma della Repubblica de’ Veleiati tratta dai suoi monumentiVIII Collegi sacri, che furono in VeleiaIX Leggi in Veleia descritte, e ivi conservateX Beneficenze dagli Imperatori ai Veleiati compartiteXI Memorie dai Veleiati erette alle persone benemerite della loro Repubbli-ca, e cittàXII Monumenti di vario genere trovati nelle ruine di Veleia

Da un fascicolo, rimasto anch’esso manoscritto53, apprendiamo poi che ilPaciaudi si proponeva di affrontare il dibattuto problema della distruzionedell’antica città, proponendo tra le cause più probabili (e mai menzionataprima) quella delle invasioni barbariche provenienti dal Nord, e tentava,inoltre, di risolvere i dubbi sulla possibile presenza, nei Fasti Capitolini, delnome degli abitanti di Veleia: un passo lacunoso dei Fasti era infatti stato in-tegrato dal Sigonio (seguito dal Panvinio) con le parole “De Liguribus, etVeleatibus”, una lezione che intendeva correggere quella precedente del Pi-ghius, che vi aveva letto “De Liguribus Eleatibus”. Sarà questo un argomen-to che continuerà ad occupare le ricerche del religioso ancora per alcuni an-ni, tanto che nel 1770, sempre più convinto della validità della lettura pro-posta dal Sigonio, riuscirà a coinvolgere nella discussione anche il celebrearcheologo Giuseppe Garampi e l’abate Giovanni Cristofano Amaduzzi, au-

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52 AMANP, ms. 59, pp. 226-28. Per l’invio del progetto di pubblicazione al Du Tillot, ve-di Paciaudi ms. 1586, lettera del 15 marzo 1762.

53 Paciaudi ms. 1591, Ricerche sull’antica Città di Velleia (ne esiste copia eseguita dal DeLama in AMANP, ms. 59: il De Lama data il manoscritto tra il 1765 e il 1770, in quanto si fagià menzione della morte del duca don Filippo (1765) e alcune note sono riportate in unalettera (probabilmente quella del Garampi: vedi nota successiva) del 1770.

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tore quest’ultimo di una relazione che dovette frenare gli entusiasmi del tea-tino, in quanto sosteneva che «difficilmente può aver luogo la congettura,che invece di Eleati debbansi ivi leggere i popoli Velleati»54.

Altro materiale preparatorio o che doveva, almeno in parte, confluire nelgrande opera del Paciaudi è poi quello raccolto nel Ms. Parm. 1245 della Bi-blioteca Palatina di Parma, intitolato Monumenti antichi discoperti tra le ro-vine di Veleia, recante un frontespizio eseguito da Pietro Martini e conte-nente i diari di scavo degli anni 1763-1765, oltre ad un totale di quaranta-cinque tavole illustrative, di cui le prime ventidue, dedicate alle scoperte del1763, sono sicuramente da riconoscere in quelle previste (e solo parzialmen-te spiegate) nella bozza di pubblicazione compilata dallo stesso Paciaudi55 ediverse altre corrispondono ai disegni preparatori eseguiti direttamente sul-lo scavo e sottoposti di volta in volta all’esame dell’antiquario ducale56. A di-spetto di questi continui controlli, non si può certo dire che tutte le tavoledel Ms. Parm. 1245 seguano fedelmente i dettami del Paciaudi in fatto di ri-produzioni grafiche, anzi, sono ben pochi i disegni corredati di un’adeguata

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54 BPP, Carteggio Paciaudi, cart. 77, lettera del Garampi del 13 giugno 1770. In effettil’integrazione proposta anche negli studi moderni è proprio quella con la forma “Eleatibus”,che ricorre per intero nei Fasti trionfali capitolini relativi al trionfo di M. Fulvio Nobilioredel 158 a.C. («[de Liguri]bus Eleatibus») e che invece si deve supplire nella registrazione deltrionfo di M. Claudius Marcellus del 166 a.C. («Liguribus [Elea]tibusque»): si tratta proba-bilmente di una forma derivata da “Veleates” o “Veliates” (attestata nei Fasti trionfali di Ur-bisaglia per il trionfo di M. Claudio Marcello sui “Ligures Veliates” del 166 a.C.) e nata perla possibile confusione con Elea, la città della Campania chiamata dai romani anche Velia(Degrassi 1947, pp. 82-83 e 556-57 e Idem 1955, p. 71).

55 Paciaudi ms. 1591.56 Nel giornale degli scavi conservato in AMANP, ms. 46, è, ad esempio, registrato (per

l’anno 1763) l’invio al Paciaudi della tav. I, 1, raffigurante un «bronzetto di Bacco coronatodi pampini, con grappolo d’uva nella destra, con manto su parte braccia», trovato a occi-dente della facciata della Chiesa, della tav. V, riproducente un’erma femminile di marmo edelle tav. VI, 1 e VII, raffiguranti rispettivamente «la testa di una picciola statua di marmobianco, che per le ruine un po’ spontata nel naso avendo l’acconciatura de’ capelli ariccia-ta» e una «picciol testa di statua di marmo bianco d’una femina con capelli annodati conornati di fiori, e altro pendendogli dalli orecchi due fiochi, che li discendono sul petto», en-trambe provenienti dall’area della canonica di Macinesso; per l’anno 1764 è registrato l’in-vio della tavola III, 6, riproducente una «piccola pietra di latteo colore venata di verdastroscuro ... di figura ovale» decorata con «Giove sedente col fulmine nella destra e aquila aipiedi», scavata nel cd. “Circo”, della tav. IV, raffigurante un torso di fanciullo avvolto da unserpente, scavato in «un fabbricato contiguo al Foro», della tav. VI, con una testa virile pro-veniente dall’area del “Circo” e della tav. XVII, 1, riproducente «due uniformi testine dipiombo»: si tratta delle stesse tavole riprodotte in Ms. Parm. 1245, relativamente agli scavidel 1763 e 1764.

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scala metrica o i pezzi riprodotti da diverse visuali, segno che anche questadocumentazione dovette risentire del graduale disinteresse del religioso perle esplorazioni veleiati, e finì per essere precocemente abbandonata.

«Je vois par une lettre que, je crois, vous avez écrite de Véleia, qui est in-sérée dans la Gazette littéraire, et que je soupçonne être de vous, qu’il ne fautplus compter sur les fouille» scriverà il conte di Caylus al Paciaudi nell’apriledel 176557: nella Gazette littéraire de l’Europe del 3 e del 31 marzo 1765 erainfatti apparsa, in due puntate e in forma anonima, una Mémoire sur l’ancien-ne Capitale des Velleiates, che intendeva offrire al pubblico dei curiosi e aglispecialisti una breve illustrazione delle scoperte veleiati, in attesa della pub-blicazione completa e definitiva degli scavi, ancora in corso di preparazione.La Mémoire si suddivide in sette paragrafi in cui l’autore, dopo avere localiz-zato, con l’aiuto della Tabula Peutingeriana e delle poche notizie riportatedalle fonti letterarie (Plinio il Vecchio, Flegonte di Tralles), la posizione geo-grafica della città di Veleia, passa ad illustrarne la condizione politica di mu-nicipium governato da duumviri, l’importanza economica e la floridezza arti-stica, a descrivere l’architettura e il lusso ornamentale degli edifici pubblici(il foro, il chalcidicum, la basilica, il castellum aquae) e di quelli privati, a di-mostrare, sulla base delle numerose iscrizioni e statue onorarie provenientidagli scavi, il particolare favore dimostrato da numerosi imperatori nei con-fronti dell’antica città, fino ad affrontare la discussa questione delle causedella sua distruzione e a spiegare le enormi difficoltà incontrare nello scavo eche avevano giustificato la chiusura delle esplorazioni veleiati. Viene qui uffi-cialmente attribuita la funzione di castellum aquae all’edificio a pianta circo-lare scavato nella terrazza sud-orientale dell’abitato e determinata la presen-za, nelle sue immediate vicinanze, di un “bagno” (forse ad uso pubblico) e dinumerosi altri impianti termali, mentre non si fa mistero dell’assenza di unedificio templare, a dispetto della «quantité considérable d’Idoles», recupe-rati in diversi luoghi e dell’esistenza di un Sodalitium cultorum Herculis, do-cumentata dalla nota base dell’Eracle bibax. Debitrice delle ricerche condot-te in quegli anni dal Caylus sembra l’importanza attribuita alla «manufacturede terre cuite» e alle diverse attività artigianali, documentate dagli abbon-danti ritrovamenti di strumenti da lavoro e da un’iscrizione relativa al «Col-lege des Artisans»58. Si accenna poi alla curiosa tavola marmorea contenente

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57 Nisard 1877, II, p. 118, lettera del 14 aprile 1765.58 Vedi Paciaudi Mémoire, II, p. 81. Non è chiaro a quale iscrizione si riferisca il Paciau-

di, a meno di non pensare a quella, trovata in frammenti, relativa al duumviro C[...]o Sabi-nus, dedicatario della basilica di Veleia e praefetus fabrum (CIL XI, 1185, 1186: lo stessopersonaggio è menzionato anche in CIL XI 1188, iscrizione trovata nel giugno del 1763): ve-di Marini Calvani 1975, pp. 34-35.

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probabilmente un calendario lunare, ma troppo mutila per stabilire le realiconoscenze astronomiche dei veleiati59, e si tenta una prima, del tutto parzia-le, identificazione delle numerose statue provenienti dall’area del foro, comela testa in bronzo dorato, ritenuta un ritratto di Adriano, la statua di fanciul-lo con bulla o quella di loricato, pertinenti alla basilica e giudicate immaginionorarie di Nerone e di Galba. La distruzione di Veleia sarebbe, infine, stataprovocata dalle frane cadute dai monti Moria e Rovinasso, responsabili del-l’estrema frammentazione dei reperti e del completo abbattimento degli edi-fici, mentre poco plausibile è considerata l’ipotesi di un’eruzione vulcanica enon si fa neppure un accenno alle invasioni barbariche provenienti da Nord.

Scopo principale della Mémoire era quello di correggere le tante impreci-sioni o addirittura le falsità riguardanti la conduzione degli scavi e i ritrova-menti veleiati apparsi in alcuni resoconti di viaggio e persino in qualche gaz-zetta letteraria (un chiaro riferimento alla pubblicazione del Lami sulle No-velle letterarie, in cui si confutava l’appartenenza a Veleia della Tavola Traia-na)60, nel tentativo di dimostrare l’eccezionalità della scoperta, non inferio-re, per importanza storica e valore documentario, a quella stessa di Ercola-no. La misteriosa paternità dell’opera fece presto nascere, tra gli studiosi,voci contrastanti: per qualcuno si trattava di una pubblicazione non autoriz-zata, frutto del lavoro di qualche giornalista che aveva mal interpretato alcu-ne note del Paciaudi, tanto che lo stesso teatino avrebbe faticato a ricono-scere in queste pagine il risultato delle sue ricerche, ma non mancarono levoci autorevoli che gli attribuivano l’opera per intero; certo di questa illu-stre paternità era, ad esempio, il Lalande, che dichiarò di avere attinto dallaMémoire tutte le informazioni su Veleia, e dello stesso parere sarà, diversianni più tardi, Pietro De Lama, allievo prediletto del teatino e nuovo diret-tore del Museo di Antichità di Parma61. Una versione preparatoria, redatta

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59 Dieci frammenti del preteso calendario lunare (CIL XI, 1194), oggi conservato nelMuseo Archeologico di Parma, vennero trovati a Veleia nel 1762 (Costa ms. 1247, p. 251,tav. LXXXI) e cinque anni più tardi se ne sarebbe aggiunto un altro, con due accette ma pri-vo di numeri: per l’interesse suscitato da questo reperto tra la fine del Settecento e i primianni dell’Ottocento e per le diverse interpretazioni sulla sua funzione, vedi Arrigoni Bertini1986, pp. 316-18.

60 Nel 1764 il Lami aveva infatti tentato di dimostrare, sulla base di uno studio di caratte-re toponomastico, che la Tavola Traiana non era da riferire all’agro veleiate, bensì a quellolucchese (vedi De Lama 1819, p. 17; Montevecchi 1934, p. 625).

61 AMANP, ms. 59, p. 258: «si può credere scritta per annunciare l’Opera che quell’uo-mo dotto preparava intorno a questa sconosciuta Città, e per screditare quanto ne diceva ilcelebre Lami nelle sue novelle Letterarie, e ciò che se ne leggeva in alcuni viaggiatori. Fu poitradotta in francese nella Gazzetta Letteraria d’Europa nel 1765 ed è opera del p. Paciaudi».Per l’intera vicenda, vedi anche Bédarida 1928, pp. 356-59.

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in italiano, della Mémoire si conserva, in varie copie ancora manoscritte, inalcuni fondi archivistici parmigiani62, ma una ulteriore conferma all’attribu-zione dell’opera alla mano del Paciaudi si ottiene dal confronto tra il testoedito nella Gazette littéraire e gli studi autografi sull’antica città di Veleia la-sciatici dall’antiquario ducale: la Mémoire sembra la naturale evoluzione delprogetto per un libro su Veleia presentato fin dal 1762 al ministro Du Tillot,che prevedeva un eccessivo numero di capitoli, ordinati secondo una logicadi causa-effetto meno stringente, ma manca ancora delle fasi più avanzatedella ricerca, come la questione relativa ai Fasti Capitolini o le nuove ipotesisulla distruzione della città (le invasioni barbariche), che cominceranno adaffacciarsi nelle Ricerche sull’antica città di Velleia63, datate dal De Lama trail 1765 e il 1770 e suddivise in otto capitoli che nei titoli ricordano molto,con qualche aggiunta, i paragrafi della Mémoire.

Nel timore che qualcun altro prima di lui arrivasse a svelare le novità ar-cheologiche, rimaste fino a quel momento segrete ma che da qualche tempocominciavano a circolare, un po’ troppo numerose e invadenti, nei diari deiviaggiatori stranieri, il Paciaudi si dovette risolvere a dare precipitosamentealle stampe una versione ancora imperfetta e schematica dell’opera a cui sta-va da tempo lavorando: pur nella loro brevità e nella assoluta mancanza diillustrazioni, le poche pagine apparse sulla Gazette littéraire contribuirono atenere vivo, ora che si erano chiusi gli scavi, l’interesse per Veleia e furonosubito molti gli studiosi che, stimolati da questa lettura, cercarono di appro-fondire le loro conoscenze. Abbiamo già detto del Lalande che, istruito dal-la Mémoire, dedicò a Veleia numerose pagine del suo Journal, contribuendocosì a diffondere in mezza Europa la notorietà dell’antica città del piacenti-no; nel 1767 sarà la volta dell’antiquario ed epigrafista francese Jean-Fran-çois Séguier, corrispondente di vecchia data del Paciaudi, che ora si rivolge-rà al teatino per avere qualche informazione in più sull’iscrizione relativa al“College des Artisans” dell’antica Veleia, di cui aveva appunto letto nellaGazette littéraire64.

Sarà questo, per tutto il Settecento, il principale e forse l’unico testo diriferimento sull’antica Veleia e, per oltre cinquant’anni, la sola pubblicazio-ne degli scavi.

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62 Vedi AMANP, mss. 56 e 59.63 Vedi supra nota 53.64 BPP, Carteggio Paciaudi, cass. 91, lettera del Séguier del 18 luglio 1767. Per l’iscrizio-

ne, vedi supra nota 58. Sul Séguier, vedi Mosele 1981.

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Capitolo III

L’edizione degli scavi II:“Vogheristi e Antolinisti” e l’opera di Pietro De Lama

1. Il nuovo antiquario ducale: Pietro De Lama

Tra gli spagnoli giunti a Parma nella prima metà del Settecento al seguitodell’Infante don Filippo di Borbone c’era anche la famiglia dell’archeologoPietro De Lama, nato a Colorno nel luglio del 1760 da José De Lama, far-macista di corte, e dalla francese Pétronille Depuig, dama di compagnia del-la duchessa Maria Amalia. Il futuro direttore del Museo di Antichità di Par-ma ricevette la sua prima formazione nel monastero degli Agostiniani di S.Martino, dove prese l’abito talare, ma dopo un breve periodo di noviziato aMilano cambiò idea e tornò a Parma, deciso più che mai a coltivare la suavera passione, lo studio delle monete antiche, di cui stava all’epoca forman-do una raccolta personale.

Le sue valide competenze di storia antica e le doti di numismatico nonsfuggirono al buon fiuto del Paciaudi, che fin dal 1778 lo scelse come col-laboratore nella direzione delle raccolte di antichità del Museo di Antichi-tà, frutto in buona parte degli scavi condotti a Veleia1. Inizia così, con lacompilazione dei cataloghi delle raccolte numismatiche del museo, redattitra il 1782 e il 1789 e rimasti purtroppo manoscritti, l’apprendistato ar-cheologico del De Lama, che già nel 1785, alla morte del Paciaudi, otterràla nomina a direttore del Museo, alle dipendenze del Prefetto AngeloSchenoni.

Nei primi anni di attività il De Lama ebbe soprattutto a cura la sistema-zione e l’accrescimento del medagliere, impoverito dei pezzi più belli delMuseo Farnese, migrato a Napoli al seguito del duca Carlo di Borbone, in-

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1 Sulla figura del De Lama, vedi Monaco 1952, Idem 1953a, Arrigoni Bertini 1986 e Ric-comini 2003, in part. pp. 10-15.

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coronato re di Napoli nel 17342, e che ora il duca Ferdinando aveva inten-zione di ricostituire: la fitta corrispondenza con alcuni tra i principali numi-smatici e collezionisti del tempo, come il bolognese Guido Antonio Zanetti,Giovanni Fogliazzi, il conte Giacomo Verità, Gaetano Cattaneo e AntonioSteinbüchel, successore dell’Eckhel nella direzione del Gabinetto numisma-tico di Vienna, ci conserva alcune vivaci immagini del direttore, che si rivelaun infaticabile segugio di monete antiche, sempre pronto a contrattare ac-quisti o a proporre scambi di duplicati3.

A questo scopo il De Lama aveva ottenuto dal duca Ferdinando il per-messo di intraprendere un viaggio nell’Italia centro-meridionale4, cui faràseguito, dal 1795 al 1797, un viaggio in Germania e Austria, denso di avve-nimenti interessanti come i lunghi soggiorni a Vienna, dove ebbe occasionedi apprendere la dottrina del celebre Eckhel, che il De Lama consideròsempre suo maestro di numismatica, o come l’incontro, a Lipsia, con Goe-the, che con il suo «paio d’occhi neri in fronte nerissimi», la fisionomia ita-liana e l’ottima compagnia conquistò subito la simpatia del giovane parmi-giano. Insieme visiteranno una collezione di stampe di scuola francese e allasera il De Lama annoterà nel suo diario: «il sig. Goethe era meco spettatore.Si vede che ha gusto, ma alle volte eccede ne’ suoi giudizi»5.

La conoscenza delle più importanti città italiane (Firenze, Siena, Roma,Napoli), il lungo soggiorno all’estero, la frequentazione di archeologi e lette-rati di fama internazionale (Ennio Quirino Visconti, Georg Zoëga, StefanoBorgia, Gaetano Marini, Carlo Fea, Séroux d’Agincourt e molti altri anco-ra), il contatto quasi giornaliero con i capolavori dell’arte antica e modernao con i reperti archeologici di recente scoperta contribuirono a fare di ungiovane appassionato di numismatica un apprezzato archeologo, del tutto

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2 Il “Museo Farnese” trasportato a Napoli da Carlo di Borbone, che in quanto figlio diElisabetta Farnese si ritenne legittimo erede di tutti i beni della casata, consisteva essenzial-mente nel ricco medagliere, illustrato nella poderosa opera del gesuita Paolo Pedrusi (P. Pe-drusi e P. Piovene, Museo Farnese, Parma 1694-1727). I marmi antichi scavati al principiodel Settecento negli Horti Farnesiani sul Palatino, tra cui i due colossi in basalto del Bacco edell’Ercole, o gli altri marmi giunti a Parma attraverso non ancora chiarite vicende collezio-nistiche, rimasero a far parte delle raccolte ducali (Marini Calvani 1979, p. 232).

3 La corrispondenza privata del De Lama si conserva in AMANP, Carteggio De Lama,Lettere di Privati (cart. 2-4) e in De Lama ms. 20. Sull’attività del De Lama finalizzata all’in-cremento del medagliere del museo, vedi il § 6 di questo capitolo.

4 Il Diario redatto dal De Lama durante i mesi del suo viaggio in Italia (nov. 1790-mag.1791) è ora edito in Riccomini 2003.

5 Il Diario del mio viaggio in Germania è conservato ancora manoscritto in AMANP, ms.78. Per uno studio generale sugli scritti odeporici del De Lama, vedi Guagnini 1986, pp.279-300, che cita a p. 298 il passo relativo all’incontro con Goethe, e Guagnini 1988.

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degno di prendere le redini di un museo ricco di tesori ma la cui fama sten-tava ancora a decollare.

Nel 1802, in seguito alla morte dello Schenoni, il De Lama divenne Pre-fetto del Museo6 e poté finalmente decidere in prima persona della gestionedel patrimonio archeologico. Le numerose visite ai musei italiani e stranieri,alcuni di recentissima formazione, lo avevano convinto della necessità diriunire in un’unica sede espositiva le raccolte veleiati: anche se ufficialmentefondato nel 1760, il Museo di Antichità di Parma, uno dei primi musei ar-cheologici aperti al pubblico in Italia, non venne al principio dotato di unospazio espositivo adeguato e per molti anni i reperti rimasero divisi tra l’Ac-cademia di Belle Arti, dove le statue del ciclo imperiale della Basilica di Ve-leia fungevano da modello negli studi di disegno e di scultura, e la Bibliote-ca Palatina, nei cui armadi erano ospitati soprattutto i bronzetti e altri og-getti minori.

Sarà, come vedremo, grazie alle insistenze del De Lama che il museo po-trà finalmente ottenere una sede appropriata, al primo piano del Palazzodella Pilotta, dove saranno progressivamente trasferite le antichità veleiati,ad eccezione del ciclo statuario che, nonostante gli sforzi diplomatici del-l’archeologo, rimase a lungo in Accademia ed entrò a far parte delle colle-zioni del museo solo dopo l’Unità d’Italia.

Le sue abili doti di diplomatico, unite all’importante lavoro di cataloga-zione del materiale archeologico avviata dal De Lama fin dai primi anni del-l’Ottocento7, contribuirono a salvaguardare l’integrità delle raccolte duranteil difficile periodo della dominazione francese. Le spoliazioni ordinate dalgoverno napoleonico offrirono al De Lama l’occasione per dimostrare la suanatura combattiva e tutta la cura che aveva sempre avuto per il suo museo:non riuscì ad impedire che venissero trasportati a Parigi i preziosi bronzi ve-leiati, comprese le due tavole legislative, ma si prodigò con ogni mezzo perassicurare il loro rapido ritorno a Parma.

Nel maggio del 1811 il De Lama fu eletto Segretario dell’Accademia diBelle Arti, e tra il 1812 e il 1816 ne divenne Direttore, nomina che doveva inqualche modo ricompensarlo degli sforzi spesi nel tentativo di riunire le col-lezioni di antichità dei due Istituti, e che rendeva merito alle sue indiscussecompetenze artistiche, frutto di una naturale disposizione per l’arte e di un

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6 Lo Schenoni morì nel 1799. Il De Lama venne ufficialmente nominato Prefetto del Mu-seo di Antichità nell’agosto del 1802 (De Lama ms. 29, p. 10).

7 Nel 1807 venne completato l’Inventario generale di tutto ciò che conservasi nell’Imperia-le Museo d’Antichità Parmense, redatto dallo stesso De Lama e conservato manoscritto inAMANP, ms. 30.

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accurato studio, coltivato fin dagli anni del suo viaggio in Italia. La sua posi-zione all’interno dell’Accademia gli permise di sovrintendere al delicatocompito di raccolta e schedatura delle innumerevoli opere d’arte confiscatedai francesi e, anche in questa occasione, cercò ogni espediente per evitare ilsaccheggio delle opere migliori8.

Nel clima di rinnovamento culturale introdotto nel ducato di Parma dal-la nuova sovrana, Maria Luigia d’Austria, desiderosa di conquistarsi il favo-re degli intellettuali illuminati attraverso una politica di protezione e di svi-luppo delle arti, che mirava a competere con i fasti del passato governo bor-bonico, il De Lama vedrà profilarsi la possibilità di accrescere la fama delsuo museo: sul modello della Galleria degli Uffizi e del museo di Vienna,decise infatti di dotarlo di un lapidario, costituito di iscrizioni di provenien-za veleiate e parmense, in gran parte da lui stesso recuperate. Le iscrizionivennero murate nelle pareti dello scalone Farnese, accesso obbligato verso iprincipali istituti culturali cittadini (il Museo di Antichità, la Biblioteca Pa-latina, l’Accademia di Belle Arti, il Teatro Farnese), con l’evidente scopo diaccrescere il prestigio storico della città, sottolineandone le sue tradizioniromane9.

L’edizione delle epigrafi marmoree di Velleia, data alle stampe nel181810, inaugurò poi una serie di studi condotti dal De Lama sulle testimo-nianze epigrafiche veleiati, comprendenti le nuove edizioni della celebreTabula Alimentaria di Traiano e di quella della Lex de Gallia Cisalpina, an-ticipando l’opera archeologica sull’antica città di Veleia, che il De Lama

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8 Sull’operato del De Lama a favore dell’Accademia di Belle Arti di Parma e sulle que-stioni relative alla confisca e alla restituzione delle opere d’arte pertinenti a questo Istitu-to, vedi Musiari 1986, in particolare pp. 72-77 e 109-32 e Ratti 1992-1993, in part. pp.218-28. L’attività didattica e l’organizzazione dei concorsi e dei premi dell’Accademia, cheil De Lama tentò in ogni modo di favorire, sono registrate negli Atti dell’Accademia, redat-ti dallo stesso De Lama e conservati manoscritti in AMANP (mss. 80 e 81). A testimonian-za delle competenze storico artistiche dell’archeologo rimane, tra le altre cose, la Descrizio-ne dei quadri della Galleria Parmense, del 1816, primo importante catalogo dei dipinti an-cora conservati in Galleria (Parma, Biblioteca della Soprintendenza PSAD di Parma e Pia-cenza, ms. 146).

9 Il progetto per un museo lapidario era stato avviato dal De Lama fin dal 1804, quandosi dovettero colmare i vuoti dei saccheggi operati dall’amministrazione francese recuperandodai magazzini le iscrizioni veleiati, cui se ne aggiunsero in seguito altre provenienti dal terri-torio parmense. Secondo quanto affermato dallo stesso De Lama, l’idea di creare un museolapidario risaliva ad un progetto di ampliamento del museo già avanzato all’epoca di Filippodi Borbone dal ministro Du Tillot (De Lama ms. 29, p. 86).

10 P. De Lama, Descrizione delle iscrizioni antiche collocate ne’ muri della scala Farnese,Parma 1818.

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andava preparando già da alcuni anni, ma che, come vedremo, non saràmai pubblicata11.

L’ultimo periodo di attività scientifica dell’ormai anziano archeologo, gra-tificato negli anni dalla nomina a socio dell’Accademia di Belle Arti di Vien-na, dell’Accademia Romana di Archeologia e dell’Istituto di Francia, si con-centrò sugli importanti ritrovamenti effettuati nel 1821 durante i lavori per lacostruzione del Teatro Regio, che permisero di rimettere in luce un riposti-glio di monete e oreficerie del tardo III secolo d.C. e fornirono un importan-te contributo per la ricostruzione dell’urbanistica di Parma romana: i risultatidi quest’ultimo scavo12 vennero letti e pubblicati dall’Accademia Romana diArcheologia, per diretto interessamento di Giuseppe Antonio Guattani.

Appena conclusa la Guida del Forestiere al Ducale Museo di Antichità diParma, edita a Parma nel 1824 e prima di riuscire a pubblicare i bronzi vele-iati, progetto che andava accarezzando fin dal 181913, nel febbraio del 1825il De Lama morì, lasciando al suo successore, Michele Lopez, un museo benorganizzato, un ricco medagliere allestito secondo criteri moderni, che an-cora oggi costituisce uno dei vanti delle collezioni parmensi, e l’incoraggia-mento a proseguire nella indagine archeologica urbana, che già aveva datorisultati tanto promettenti.

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11 P. De Lama, Tavola alimentaria Velejate, detta Traiana, restituita alla sua vera lezione ...con alcune osservazioni, Parma 1819 e Idem, Tavola legislativa della Gallia Cisalpina ritrovatain Veleja nell’anno 1760 e restituita alla sua vera lezione, colle Osservazioni ed annotazioni[1769] di due celebri Giureconsulti Parmigiani, Parma 1820. Studi preparatori per un’operasulle rovine veleiati sono conservati, ancora manoscritti e in gran parte inediti, in diversi fon-di archivistici di Parma: vedi ad es. AMANP, ms. 61 (Lettere odeporiche. Viaggetto a Velleja,1811), ms. 62 (Memorie degli scavi veleiati, 1811); BPP, ms. Parm. 810 (epistola a Giambatti-sta Bolognini su Veleia, 1816); ASP, ms. 20 (Lettere autografe, tra cui molte dedicate a Vele-ia): vedi anche il § 5 di questo capitolo. Della preannunciata opera su Veleia del De Lama sifa cenno anche in Albasi e Magnani 2003, p. 32.

12 P. De Lama, Memoria intorno ad alcuni preziosi ornamenti antichi d’oro scoperti in Par-ma nell’anno 1821, Roma 1824. Interessanti notizie sulle questioni relative a queste scopertee al quasi immediato trafugamento del tesoro, recuperato grazie all’efficace intervento delDe Lama, e sull’accoglienza della Memoria da parte degli archeologi dell’Accademia Roma-na, si ricavano dal carteggio con l’amico Ferdinando Boudard (Monaco 1953a, in particolarele lettere nn. 22-24), da alcune lettere del De Lama al Guattani, all’amico Tambroni, alSteinbüchel e ad altri fidati corrispondenti (De Lama ms. 20), e infine dalle lettere inviate alDe Lama dal giovane collaboratore Michele Lopez, in viaggio di studio a Roma nel 1824(AMANP, Carteggio Lopez, lettere del 17, 24 aprile e 17 luglio 1824). Il materiale prove-niente da questo scavo è oggi conservato nel Museo Archeologico di Parma (Marini Calvani2001, p. 66, figg. 124-25).

13 È quanto si ricava dal carteggio con l’amico Massimiliano Angelelli (AMANP, Carteg-gio De Lama, Lettere di privati, cart. 2).

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2. Le antichità di Veleia all’epoca della dominazione francese

Il lungo oblio in cui ricadde nuovamente Veleia dopo la chiusura degli scavidel 1781, che comportò anche la cessazione di ogni forma di tutela delle an-tiche strutture, non fece che aggravare il problema della conservazione edella buona leggibilità delle rovine, e di certo il fallimento di ogni progettoeditoriale relativo agli scavi non aiutò a mantenere vivo negli studiosi il ri-cordo delle prime fortunate scoperte.

E così, quando nel 1803 l’amministrazione francese, che alla morte delduca Ferdinando aveva preso in mano il governo del ducato, decise corag-giosamente di riprendere l’indagine archeologica veleiate, si trovò ad affron-tare non pochi problemi di recupero e di identificazione delle strutture finoad allora scoperte.

Tra le più infelici conseguenze della dominazione francese ci fu, come èben noto, la massiccia spoliazione delle principali opere d’arte antica e mo-derna, destinate ad arricchire il nuovo, grandioso, museo che DominiqueVivant Denon stava all’epoca allestendo nelle sale del Louvre, un museo in-teso come raccoglitore degli oggetti più significativi dell’intera arte occiden-tale e organizzato secondo criteri che alla forma artistica non sottomettesse-ro il valore di documentazione storica e antropologica delle nuove acquisi-zioni. Accanto ai capolavori del Correggio (compresi – almeno nelle inten-zioni dei francesi – gli affreschi della Camera di S. Paolo) e a un variegatocampionario delle opere di artisti emiliani “minori”14, assenti nelle raccolteparigine e dunque per questo più interessanti agli occhi del Denon, vennerorequisiti i più famosi bronzi veleiati, comprese le due tavole legislative, e lestatue marmoree del ciclo imperiale all’epoca esposte all’Accademia di BelleArti, ma mentre i bronzi raggiunsero effettivamente Parigi, le statue non ab-bandonarono mai la città e rimasero imballate per alcuni anni in un magaz-zino all’interno del Palazzo della Pilotta. Le motivazioni di questa rinunciasono da ricercare nelle evidenti difficoltà di trasporto e forse anche nelleproteste del De Lama, agguerrito difensore delle raccolte archeologiche delducato, ma non bisogna dimenticare che per il Denon, direttore di un mu-seo già tanto ricco di statue marmoree, le antichità di Veleia, con il loro ric-co repertorio di instrumentum domesticum, di bronzi figurati e di iscrizionidi carattere pubblico e privato, rappresentavano il materiale in assoluto piùadatto a colmare i vuoti della sezione antica, ancora quasi del tutta priva

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14 Sull’opera di spoliazione delle opere d’arte durante il periodo della dominazione fran-cese e sul progetto (fortunatamente non realizzato) di trasportare a Parigi gli affreschi delCorreggio nella Camera di S. Paolo, vedi ora Musiari 1986, pp. 29-72.

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«des bronzes, des bas-reliefs et inscriptions et de tout ces monuments quiservent à expliquer les moeurs, et les usages de l’Antiquité, et nourrissentl’érudition»15.

Il provvidenziale intervento del De Lama, aiutato in questo da una con-discendente e saggia mediazione dell’amministratore generale Moreau deSaint Méry, aveva anche impedito che venissero trasportati a Parigi i due co-lossi in basalto dell’Ercole e del Dioniso, provenienti dagli scavi Farnese sulPalatino e all’epoca collocati nel giardino del Palazzo Ducale di Colorno, leiscrizioni marmoree veleiati, il frammento di affresco dal foro di Veleia e so-prattutto aveva contribuito a ridurre al minimo il gruppo dei bronzetti ri-chiesti dal governo francese, che alla fine si dovette accontentare delle quat-tro statuette dell’Eracle bibax, del Bacco, del cosiddetto Togato (noto anchecome Sacerdote sacrificante) e della celebre Vittoria16.

Ma il museo aveva comunque subito un brutto colpo e le antichità rima-ste non bastavano certo ad invogliare le visite dei viaggiatori: è pur vero,d’altra parte, che l’importanza, soprattutto documentaria, riconosciuta ai re-perti veleiati dall’ideatore del Musée Napoleon servì a risvegliare la curiosi-tà, da troppo tempo sopita, verso le rovine dell’antico municipium romano.

Già nel 1803 si tornò infatti a scavare, sperando forse in questo modo dicolmare i vuoti lasciati nelle sale del Museo di Antichità di Parma, se non ad-dirittura di trovare qualche inedito capolavoro da inviare direttamente a Pa-rigi. I lavori furono affidati a Moreau de Saint Méry, amministratore illumi-nato e amante delle arti, ma non abbastanza qualificato da convincere il DeLama sul buon esito dell’impresa. Il prefetto si rifiutò infatti di prendere par-te all’operazione17 e così, in mano a gente inesperta di indagini archeologichee quasi del tutto ignara della precedente storia degli scavi, la campagna av-viata nel 1803 e protrattasi sino al 1805 non poté dare risultati di rilievo. Le

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15 ASP, Fondo Moreau de Saint Méry, b. 28: vedi Allegri Tassoni 1942, p. 31 e Musiari1986, pp. 31 e 192.

16 Gli elenchi degli oggetti antichi richiesti nel 1803 a Parma per il Museo del Louvre equelli degli oggetti trasportati effettivamente a Parigi e restituiti dopo la Restaurazione sonopubblicati in Musiari 1986, pp. 194-95, 223-24 e 227. Nell’Inventaire général du Musée Na-poléon, redatto nel 1810 (Museo del Louvre, ms. 1 DD 21), gli unici bronzi veleiati presentisono infatti, oltre alle due tavole legislative, alla testa femminile (di Baebia Basilla ?) e a quel-la del cosiddetto Adriano, i quattro bronzetti sopra descritti. I tentativi del De Lama di op-porsi agli ordini francesi di «prendere tutti gli oggetti da Velleia per mandarli a Parigi» sononarrati dallo stesso direttore nella sua storia del Museo di Antichità (De Lama ms. 29, pp.22-25): grazie al suo intervento fu abbandonato, ad esempio, il progetto di prelevare le undi-ci iscrizioni della basilica, evitando così un rischioso trasporto che avrebbe quasi certamentecompromesso l’integrità e la consistenza dei tanti frammenti che componevano le epigrafi.

17 De Lama m. 29, p. 163. Il De Lama si limitò a suggerire al Moreau, che cercava unispettore per gli scavi, il nome del capitano Bonzi, originario di Lugagnano.

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esplorazioni, stando soprattutto alle piante redatte all’epoca, si concentraro-no nella terrazza soprastante il foro, in corrispondenza del suo angolo sud-orientale, in gran parte già indagato nelle precedenti campagne18. Gli scaviportarono (o piuttosto riportarono) completamente alla luce alcuni ambientiancora parzialmente affrescati e con pavimentazioni musive su suspensurae,oltre a probabili resti di un forno, che verranno più tardi interpretati, nellaricostruzione dell’antica Veleia proposta da Giovanni Antolini, come un pic-colo impianto termale ad uso del (preteso) grandioso edificio che doveva do-minare da oriente la piazza del foro19. Nel 1804 furono invece aperti nuovisaggi a monte della chiesa e della canonica, nell’intento di esplorare meglio ilquartiere residenziale solo parzialmente indagato nel corso delle prime cam-pagne di scavo, anche se il progetto di traslocare la residenza del parroco perampliare gli scavi nel sottosuolo della canonica e all’interno della stessa chie-sa, già accarezzato dal ministro Du Tillot20, non venne in realtà realizzato.Non è escluso che con queste ultime esplorazioni il Moreau tentasse di verifi-care l’opinione che il De Lama stava all’epoca maturando sulla possibile col-locazione, proprio in quest’area, del principale tempio cittadino21, ancoramancante all’appello degli edifici pubblici che circondavano il foro.

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18 Degli scavi condotti dal Saint Méry si conservano alcune interessanti piante di scavo inASP, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 38 e in AMANP, Disegni e Stampe, I B, nn. 196-197 (vedianche Miranda 2001, pp. 282-84, figg. 1 e 2). Nel resoconto della sua visita a Veleia nel 1816, ilDe Lama commentava così lo scavo di questi ambienti: «quello che è da ridere, si è che fecesicredere all’amministratore Moreau essere questo edificio scoperto allora, e si erano quarant’an-ni che vedevasi anche disegnato sulla mappa» (De Lama ms. 810, p. 15). Sulle indagini archeo-logiche condotte all’epoca della dominazione francese e, più in generale, per una panoramicasulla fortuna degli scavi veleiati nella prima metà del XIX secolo, vedi Miranda 2001.

19 Antolini Veleia, II, cap. VI, pp. 15-16. Le relazioni di scavo dell’autunno 1803 registra-no la scoperta di due ambienti contigui con tracce di intonaco rosso alle pareti e pavimenta-zione su suspensurae cilindriche, cui si affiancavano un vano con abbondante presenza di ce-neri e carboni, subito interpretato come probabile stufa, e una camera pavimentata con unmosaico di tessere bianche e nere (ASP, Fondo Moreau de Saint Méry, b. 27).

20 Come ricorda anche il De Lama nella “Seconda memoria sugli scavi velleiati”, del 3 ot-tobre 1811, p. 28 (De Lama ms. 62).

21 Il De Lama espresse ufficialmente questa opinione solo nel 1818, in occasione dellapubblicazione delle iscrizioni murate sullo Scalone Farnese, ma già da alcuni anni la possibi-le localizzazione del tempio di Veleia era stato oggetto di alcune sue riflessioni (vedi ad es. iltrattatello in forma di epistola sugli scavi veleiati, indirizzato all’amico Bolognini nel 1816:De Lama ms. 810, lettera al Bolognini del 2 maggio 1816, p. 14). La speranza di individuareil tempio dei Veleiati aveva guidato, fin dai primi anni di scavo, le ricerche degli antiquari,incoraggiate anche dalle aspettative del duca, desideroso di recuperare un monumento cosìsignificativo: «quello che assai preme a S.A.R. è di poter arrivare al Tempio, che abitava unFiglio d’un Imperatore Romano», ricorda infatti una relazione anonima su Veleia compilataall’epoca delle prime scoperte veleiati (vedi Miranda 2002, p. 110 e supra, cap. II, nota 35).

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La ripresa, anche se di breve durata e poco fruttuosa, delle campagne discavo ebbe come immediata conseguenza la ricomparsa di Veleia tra le metedella letteratura odeporica. Risalgono al 1804-1805 i due viaggi intrapresisulle alture dell’Appennino parmense e piacentino da Antonio Boccia, alloscopo di tracciare una dettagliata descrizione “geografica, fisica, storica estatistica” dei monti e delle valli dell’intero ducato. Il Boccia, che era stato aVeleia all’epoca degli ultimi scavi settecenteschi diretti dal Paciaudi, dedicauna lunga sezione del suo resoconto di viaggio alla precedente storia degliscavi veleiati, soffermandosi soprattutto su quelli clandestini, di cui sembrafornire voci tramandate nel tempo dagli abitanti del luogo, come la notiziadegli scavi effettuati alla metà del Seicento dall’arciprete Bardetti o della di-struzione (per recuperarne il metallo) di una statua di bronzo ad opera del-l’arciprete Rapaccioli, il fortunato scopritore della Tavola Traiana, e narra lefasi di formazione del medagliere e del museo di antichità del convento di S.Agostino di Piacenza, formato dall’abate Chiappini con il materiale veleiatefornitogli dallo stesso Rapaccioli. L’autore, che per la sua aperta francofiliaera stato costretto ad abbandonare il ducato e riparare in Francia dopo loscoppio della Rivoluzione, ci testimonia anche dell’interesse verso le antichi-tà veleiati dimostrato dall’abate De Chaupy, l’illustre antiquario di LuigiXV, ritornato addirittura «invaghito delle bellezze dei monumenti di Veleia,che esistevano in Parma»22. Convinto della necessità di proseguire gli scaviera anche il Boccia, cui dovevano essere noti i tentativi fatti nel passato (esempre falliti) di individuare l’area templare della città e di certo informatodal Moreau della volontà di indagare nella stessa direzione, nella speranzadi riportare alla luce un altro importante monumento dell’antica Veleia.

Ma la politica perseguita dal Moreau in favore delle ricerche archeologi-che e delle istituzioni d’arte del ducato non piacque a Napoleone, che in oc-casione della sua visita a Parma non aveva nascosto il suo disinteresse perquesto genere di cose e si era persino rifiutato di visitare l’Accademia diBelle Arti, e così al principio del 1806 l’amministratore venne sostituito daHugues Eugène Nardon, un uomo -a detta del De Lama- «che non amavache il moderno»23: i consistenti tagli alle finanze che presto colpirono tutti

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22 Boccia ms. 497, p. 125. Sul Boccia, vedi anche supra cap. II, nota 12. Bertrand Cap-martin de Chaupy, celebre antiquario francese trasferitosi a Roma nel 1756, lavorò per circadieci anni alla raccolta di materiale archeologico finalizzato ad uno studio sull’Italia antica;nel 1769 pubblicò, come saggio preliminare dell’intera opera, la Découverte de la maison decampagne d’Horace, una pubblicazione subito accolta con favore ma che non sarà seguita daaltri studi sull’argomento, a causa del rientro in Francia dell’abate, nel 1776.

23 De Lama ms. 62, “Memoria sugli scavi velleiati, 16 aprile 1811”, p. 17. «Tutto cangiòd’aspetto. Sospesi li mandati, sospese le somministrazioni, infine sospesa l’idea di poter

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gli istituti culturali cittadini rese ancora più critica la situazione degli scaviveleiati, riducendo anche le speranze di avviare un serio e quanto mai ur-gente piano di tutela e di restauro di tutte le antichità.

Il problema della salvaguardia e della conservazione del patrimonio ar-cheologico rimase sempre al primo posto nell’opera di direzione del De La-ma e proprio a questo scopo l’archeologo si decise ad organizzare, nel 1811,una visita esplorativa alle rovine veleiati, in compagnia del Prefetto del Di-partimento del Taro, il barone Du Pont Del Porte. Il resoconto del “viagget-to” e le due Memorie sugli scavi veleiati composte su richiesta dello stessoDel Porte, documenti conservati ancora manoscritti presso l’Archivio delMuseo Archeologico24, costituiscono una preziosa testimonianza dello statodelle rovine negli anni compresi tra gli scavi Moreau e quelli avviati all’indo-mani dell’insediamento al potere di Maria Luigia d’Austria, nel 1816.

Ancora perfettamente leggibili erano naturalmente gli ambienti scavatiall’epoca del Moreau, a oriente del foro, in cui il De Lama riconobbe lestrutture di un tepidario e che attirarono la sua attenzione soprattutto per lasomiglianza con un analogo impianto rinvenuto alcuni decenni prima aPompei e che lui stesso aveva potuto ammirare all’epoca del suo viaggio inItalia:

dal lato d’Oriente [ci sono] le Vestigia di un Tepidario, e da quello d’Occi-dente un Bagno. Credo, e chiamo Tepidario il primo, perché simile nella co-struzione a quello veduto a Pompei: con mattoncini rotondi a guisa di colon-nette sostenevasi il piano, sotto cui girava il vapor caldo, che lungo le paretiaddoppiate s’innalzava. Qui è pure da osservarsi la forma delle volte de’ for-nelli, e degli archi di sostruzione, edificati con mattoni formati conici, ap-punto come quelli maggiori delle arcate del Colosseo25.

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sussistere» annotava il De Lama all’indomani della nomina del Nardon (De Lama ms. 29,p. 32). Anche il Musiari ricorda come per l’Accademia di Belle Arti il periodo compresotra il 1806 e la fine del 1810 sia stato il peggiore dell’intero governo francese (Musiari1986, p. 64).

24 De Lama ms. 61, “Lettere odeporiche. Viaggetto a Velleia, 1811” e De Lama ms. 62,“Memoria sugli scavi velleiati, 16 aprile 1811” e “Seconda memoria sugli scavi velleiati, 3 ot-tobre 1811”.

25 De Lama ms. 61, “Viaggetto a Velleja”, 1811, p. 11. È probabile che il “tepidarium”pompeiano al quale il De Lama avvicinerà l’impianto veleiate sia da identificare in uno degliambienti termali della Villa di Diomede, anche se il De Lama non fornirà mai elementi pre-cisi per una sicura identificazione: l’impianto termale della Villa di Diomede è d’altra partel’unico di questo tipo notato con ammirazione dall’archeologo parmigiano nel corso dellasua intera visita pompeiana (vedi Riccomini 2003, p. 196), e uno dei pochissimi esempi sco-perti a questa data.

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Numerosi e ancora visibili in loco dovevano essere «li capitelli ionici,compositi e corintii, ... le basi e zoccoli di colonne, tutti di marmo carrare-se» provenienti dagli scavi, destinati di lì a pochi anni a ridursi, per l’incuriae le continue spoliazione dell’area archeologica, a pochi e sporadici esem-plari, con comprensibili conseguenze sui tentativi di studio e di ricostruzio-ne delle architetture fino ad allora rimesse in luce. L’accurata esplorazionedelle rovine gli permise poi di individuare, all’interno degli ambienti affac-ciantisi sul foro e nelle case private, un ricco campionario di materiale ar-cheologico, non recuperato nel corso dei precedenti scavi, presumibilmenteperché troppo frammentario o di scarso interesse antiquario:

In varie di queste case, ricoperte poi di paglia per ordine dell’antico Gover-no conservanosi riparate dalle ingiurie de’ tempi moltissime figuline, fram-menti d’iscrizioni marmoree completanti le nostre, di marmi vari, di macinedi una pietra, che pare vulcanica, di vasi, di ferramenti vari, di catene ecc., euna quantità di teschi umani e di bestiami, che possonsi credere vittime del-l’eccidio di questa città26.

Una macina da grano in pietra vulcanica, con la sigla VR incisa al rove-scio, era stata rinvenuta a Veleia sin dagli scavi del 176027 ed era ancora visi-bile all’epoca della visita del medico fidentino Plateretti, che ipotizzò trat-tarsi di un coperchio di cinerario adibito ad uso di macina e che poté vederealtri frammenti dello stesso tipo nel magazzino degli scavi28: sarà questo unodei pezzi destinati dal De Lama alle nuove sale veleiati che da tempo stavaprogettando per il Museo di Antichità29. Il sopralluogo del 1811 aveva infat-ti, nelle intenzioni del prefetto, anche lo scopo di registrare tutti i reperti bi-sognosi di restauri e di scegliere quelli più adatti ad illustrare la storia e learti dell’antica città. Un importante recupero fu, ad esempio, quello dei tan-ti frammenti di iscrizioni marmoree che, meticolosamente esaminate dal DeLama, permetteranno di lì a pochi anni di completare alcune delle epigrafiveleiati murate sullo scalone di accesso al museo30.

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26 De Lama ms. 61, pp. 12-13.27 Costa ms. 1246, tav. XXVIII e Montevecchi 1934, p. 581.28 Plateretti 1786: vedi infra cap. IV, p. 203.29 La macina fu trasportata a Parma nel 1816 e presto esposta nella sala IV del nuovo

museo, a documentazione delle attività produttive dell’antica città (vedi AMANP, Spese dimanutenzione e per fare acquisti, registro compilato dal De Lama a partire dal 1807, e De La-ma 1824a, pp. 146-48).

30 Nel giugno del 1814 i frammenti di iscrizioni vennero trasportati a Parma e inseriti aparziale completamento delle epigrafi già murate nei fianchi dello scalone; nel 1817 se nedovettero aggiungere altri, probabilmente recuperati dal De Lama in occasione del suo so-pralluogo veleiate del 1816 (AMANP, Spese di manutenzione e per fare acquisti).

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Il “viaggetto” fu anche l’occasione per riconsiderare alcuni spinosi inter-rogativi sulla funzione e la localizzazione di alcuni edifici, come il chalcidi-cum donato ai concittadini da Baebia Basilla e ricordato nell’iscrizione dedi-catoria recuperata in frammenti in corrispondenza del porticato occidentaledel foro, ma che il De Lama preferiva immaginare sul lato settentrionale,proprio di fronte alla basilica, ipotesi a suo avviso suffragata dalla presenzadelle «molte basi di colonne allineate» ancora visibili su quel lato e dallaconsiderazione che l’edificio avrebbe così avuto una favorevole esposizioneverso sud, in rispetto alle norme prescritte da Vitruvio per questa categoriadi monumenti.

Dovette maturare nel De Lama, proprio a seguito di questa escursione,l’idea di impegnarsi nella pubblicazione delle rovine veleiati, opera che nonsolo avrebbe ridestato l’interesse dell’intero mondo antiquario, ma avrebbeconsentito di lasciare memoria e documentazione delle vecchie e nuove sco-perte, in considerazione anche del rapido degrado delle rovine e delle conti-nue sparizioni de reperti, in gran parte abbandonati all’aperto o nei magaz-zini di Veleia e non ancora catalogati. L’edizione dello scavo doveva proba-bilmente sembrargli il miglior metodo per salvaguardare le antichità fino adallora rinvenute, e a questo scopo il De Lama era pronto a sacrificare (conuna sensibilità verso i problemi di tutela non comune ai suoi tempi) le pro-spettive di nuove conoscenze offerte da ulteriori indagini archeologiche,consapevole che ogni scavo finisce inesorabilmente per distruggere le testi-monianze di quelli passati: «sonomene ritornato solo alle ruine. Questem’inducono in nuovi pensieri sull’antico stato loro. Converrebbe proseguir-ne gli scavi, che ne risveglierebbero probabilmente de’ nuovi distruggentiforse li primi. Non posso dunque formare che congetture» annoterà infatti,un po’ sconsolato, al termine del suo viaggio31.

3. 1816: la riapertura degli scavi

Le vicende politiche del ducato, assegnato dal Congresso di Vienna a MariaLuigia d’Austria, segneranno una svolta positiva nella storia delle indaginiarcheologiche veleiati. La giovane duchessa, come si sa, vantava una parti-colare predisposizione per le arti e, a differenza del suo primo marito, eraben lusingata all’idea di trasformare il suo piccolo regno in una delle corticulturalmente più all’avanguardia del tempo e capace di far rifiorire i fastigloriosi del passato governo borbonico. Tra le prime delibere della sovrana,

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31 De Lama ms. 61, “Viaggetto a Velleja”, p. 14.

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a pochi giorni dal suo ingresso ufficiale in città, nella primavera del 1816, cifu infatti l’assegnazione di 10.000 franchi per la riapertura degli scavi di Ve-leia32, che saranno infatti ripresi in quello stesso anno e continuati sino al1825. Il De Lama aveva opportunamente provveduto a redigere per MariaLuigia una Mémoire sulle antichità veleiati, un’utile guida per la visita che laduchessa volle dedicare alle antiche rovine fin dal maggio del 181633, e insie-me un memoriale che avrebbe dovuto convincere la sovrana della importan-za di promuovere nuove ricerche e di garantire, finalmente, una sede esposi-tiva adeguata ai tanti reperti archeologici ancora dispersi nei magazzini. Al-l’amico Giambattista Bolognini il De Lama non aveva nascosto la speranzadi essere chiamato a dirigere personalmente i lavori, «per non esporre im-prudentemente il Governo alle risa e alle beffe de’ dotti, intraprendendo gliscavi senza cognizione»34, ma le inevitabili rivalità tra i funzionari di unapiccola corte e l’aperta ostilità del nuovo ministro Filippo Magawly Ceratiindirizzarono la scelta sul capitano Pietro Casapini, un militare del tutto di-giuno di antiquaria e ben poco esperto di indagini archeologiche35. L’incau-ta decisione di separare la direzione degli scavi da quella del museo non fe-ce altro che complicare lo svolgimento delle ricerche e mettere ancora più arischio la conservazione dei reperti.

La notizia della imminente riapertura delle campagne archeologiche do-veva avere accelerato l’opera degli scavatori clandestini, tanto che ben pre-sto cominciarono a giungere al Casapini voci di furti e di vendite illegali diimportanti materiali veleiati, come quella «testa di bambino di pietra fosfo-rica ... realmente della grossezza della testa di un bambino di nascita» trova-ta a Veleia insieme ad «alcuni mosaici rilucentissimi, e statuette di alabastro

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32 Questa somma venne stanziata il 23 luglio 1816 in applicazione della legge che preve-deva l’ingresso nel Museo di Parma di tutte le antichità rinvenute o che si sarebbero rinve-nute in seguito a Veleia e in tutto il ducato. Sulla ripresa delle attività e degli interessi ar-cheologici durante il regno di Maria Luigia, e in particolare sugli echi di tale ripresa nellastampa dell’epoca, vedi Tarasconi 1989.

33 Maria Luigia d’Austria si recò per la prima volta a Veleia alla fine di maggio del 1816 euna seconda volta nel 1824 (su quest’ultima visita, vedi Drei 1935). Una copia manoscrittadella Mémoire sur Velleja et sur ses fouilles, compilato dal De Lama, si conserva in De Lamams. 82.

34 De Lama ms. 810, lettera del 2 maggio 1816.35 A giudizio del De Lama il Casapini non possedeva «neppure li rudimenti necessari a

tale incombenza», ma sarebbe stato ugualmente scelto per fare uno sgarbo al prefetto delmuseo, deciso a spendere per le antichità e gli scavi di Veleia i soldi stanziati da Maria Luigiae che invece il Ministro sperava di destinare ad altri scopi (vedi De Lama ms. 29, pp. 93-100). L’inadeguatezza del Casapini a condurre le indagini veleiati è sottolineata anche in Mi-randa 2001, p. 288.

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bellissime», che un informatore del Casapini affermava essere stati venduticlandestinamente e subito trasportati a Londra36.

Nel tentativo di correre ai ripari, il De Lama si decise a tornare a Veleiaper esaminare di persona lo stato delle rovine e soprattutto per fare l’inven-tario dei reperti ancora conservati in loco, timoroso che il Casapini facesse«credere risultato degli scavi presentanei ciò che lo è de’ passati». Per que-sta nuova escursione veleiate il De Lama scelse la compagnia di GiovanniBonaventura Porta e del pittore e archeologo bresciano Luigi Basiletti, dueantichi compagni di viaggio nel sud dell’Italia, più di lui «assuefatti a vederequali siano li mezzi per assaggiare il terreno, onde tentare con fondata pro-babilità lo scoprimento di antichi edifici cogli scavi»: si ricompose così quel«triumvirato di archeologi che videro, e rividero le ruine di Pompei, d’Erco-lano, di Baia, di Pesto, di Palestrina, di Tivoli»37 e che proprio in virtù diqueste conoscenze avrebbero ora potuto esaminare con profitto e cognizio-ne di causa le rovine dell’antica Veleia. L’esperienza del viaggio nei principa-li siti archeologici dell’Italia centrale e meridionale, Ercolano e Pompei inprimis, era evidentemente ancora sentita come l’unica patente in grado digarantire le competenze necessarie ad un archeologo e noi sappiamo, infatti,che solo al ritorno dal suo viaggio di formazione il De Lama poté aspirarealla direzione del Museo di Antichità.

La descrizione di questa visita a Veleia ci documenta il pietoso stato diconservazione delle rovine, che il De Lama, a soli cinque anni dalla sua pre-cedente escursione, stentò quasi a riconoscere: «un capitello d’ordine corin-zio fra gli altri mi ha disgustato. È di marmo carrarese, ed era tanto belloche io m’era proposto di farlo qui [a Parma] trasportare qual modello pergli alunni della Scuola: ora non è quasi più riconoscibile, tanto è smembra-

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36 L’informazione fu trasmessa al Casapini da un certo consigliere Barbugli nel 1817, ma iritrovamenti vennero probabilmente effettuati nel corso dell’anno precedente (AMANP, ms.56). All’apertura degli scavi venne poi consegnata al nuovo direttore una «bella testa di mar-mo statuario rappresentante la figura d’un uomo assai ben conservata salvo il naso che è al-quanto roso», di due oncie di lunghezza, che si disse rinvenuta durante alcuni lavori agricolinell’area di Veleia, ma che forse era anch’essa frutto di scavi clandestini (ASP, Atti del Go-verno Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Ducati, I divisione. Ammini-strazione pubblica, b. 4, lettera del Casapini del 15 giugno 1816).

37 Vedi De Lama ms. 29, p. 102 e De Lama ms. 810, lettera a Giambattista Bolognini del2 maggio 1816: né il Porta né il Basiletti vengono, per la verità, mai menzionati nel diario re-datto dal De Lama nel corso del suo viaggio in Italia (vedi ora Riccomini 2003), e non risultaneppure che il nostro archeologo sia mai stato a visitare le rovine di Paestum; da quantoscritto dal De Lama al Bolognini, sembra comunque che i tre si siano almeno incontrati inoccasione delle visite alle antichità campane.

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to», annoterà nel suo resoconto di viaggio, convinto più che mai dell’impor-tanza di elencare «tutto ciò che v’ha di dissotterrato» e di selezionare (com-pito che svolse con l’aiuto dei suoi due compagni) «ciò che merita di esserecollocato nel Museo». Estromesso dalla direzione degli scavi, al De Lamaera rimasto solo l’incarico di provvedere all’accrescimento e alla tutela delpatrimonio museale ma, come vedremo meglio nel paragrafo 6 di questo ca-pitolo, pur con gli scarsi mezzi messi a sua disposizione riuscì a fare ben dipiù, dando vita ad un museo archeologico di nuova concezione e finalmentedegno del suo nome. Del tutto comprensibile, dunque, che esaminando imolti frammenti architettonici abbandonati a Veleia e diversi altri repertiantichi, il De Lama pensasse già alla loro possibile collocazione in museo:nel luglio di quello stesso anno fece ufficiale richiesta al Ministro di poteravere a Parma tutti «que’ marmi, bronzi e figuline, che registrati ne’ giornalidel Museo rimangono colà depositati» e il mese seguente si offrì di tornare aVeleia per scegliere di persona i reperti utili a completare frammenti già tra-sportati in città o interessanti da esporre perché pezzi ancora mancanti alleraccolte del museo38. Le sue insistenti richieste sollecitarono l’opera di cata-logazione di tutte le antichità ancora conservate nell’arsenale di Veleia, av-viata dallo stesso Casapini fin dall’autunno del 1816:

in questo lavoro – scriveva il Casapini nel novembre del 1816 al ministro Ma-gawly – ho ritrovato un altro pezzo del delfino da me già spedito a codestoMuseo; de’ bei frammenti d’are, di sacre pietre, di bellissime cornici e di beivasi e di utensili domestici. Ho anche svolto l’ossario velleiate. Entro v’ho pu-re scoperte alcune belle figuline, un picciol cuneo di basalte egizio, un pezzodi lavagna con qualche lavoro non ispregievole, e de’ bei vetri; e di questi par-lando non lascierò d’annunciarle che ne trovai quattro assai belli in un muc-chio di corna di cervo, come pur rinvenni alcuni pezzi di fistule fatte conumana tibia, delle quali i tibicini si servivano specialmente per suonare neltempo de’ sacrifici39.

Con una serie di sopralluoghi all’arsenale veleiate, il Casapini riuscì an-che a ricomporre il «famoso capitello corinzio», di certo quello che avevaaveva tanto disgustato il De Lama per il pessimo stato di conservazione e arecuperare alcuni frammenti di capitelli ionici e di un rilievo con delfini,pertinente probabilmente a uno dei capitelli di lesena che il direttore delmuseo farà restaurare con gesso e scagliola nel 1817, materiale destinato ad

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38 ASP, Atti del Governo Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Ducati, Idivisione. Amministrazione pubblica, b. 4, lettere del De Lama del 25 luglio e dell’11 agosto1816.

39 Ibidem, lettera del Casapini al Magawly del 3 novembre 1816.

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essere trasferito a Parma insieme a due capitelli ionici completi, ad una basedi colonna e a un «gran vase di pietra vulcanica», riconoscibile nella macinacon la sigla VR nota fin dal 176040.

Oltre ad assicurare al museo importanti pezzi di antichità e ad evitareche il capitano trattenesse presso di sé reperti veleiati (cosa che in effetti ac-cadde)41, il viaggio del De Lama aveva anche lo scopo di riesaminare le rovi-ne emergenti e valutare la natura del terreno, così da formulare un adeguatopiano di azione ad uso del Casapini, che da buon militare aveva pensato diaffidare l’inizio degli scavi all’opera dei minatori e che per il resto avevaconfidato nell’aiuto del De Lama42. In compagnia del Porta e del Basilettivennero dunque esaminati gli avanzi dello scavo Moreau, in cui il De Lamariconobbe ora un apodyterium e un sudatorium e che anche ai suoi due com-pagni dovette ricordare l’impianto del tepidarium di Pompei; si riconsideròla figura del «rozzo» mosaico pavimentale all’epoca ancora visibile nel tabli-no della casa detta appunto “del cinghiale”, di cui il De Lama (non convin-to dell’identificazione tradizionale) ci ha lasciato questa dettagliata e prezio-sa descrizione: «è di figura quadrilunga diviso da quattro linee in nove com-parti. Nel medio, che è il maggiore vedesi un quadrupede, che dicesi unascrofa, ma che a parer mio non dissomiglia da un ippopotamo; ne’ lateralirappresentasi un delfino, e in quelli degli angoli è rappresentata una fogliadi vite». Di fronte alle pietose condizioni del mosaico, che avrebbero richie-sto uno strappo immediato, l’archeologo non riuscì a trattenere una freccia-tina contro il suo rivale («senza una somma perizia e diligenza non è spera-bile il levarlo intatto; e queste mancano pienamente a chi è stato nominatodirettore degli scavi») e infatti il Casapini, che si spingerà con gli scavi finoagli ambienti contigui alla Casa del cinghiale, messi in luce una decina d’an-

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40 Ibidem, lettere del Casapini del 26 ottobre 1816; il restauro di due capitelli con delfi-ni è registrato in AMANP, Spese di manutenzione e per fare acquisti: uno di questi capitelliera stato mal riprodotto dall’Antolini nel 1819 (di due frammenti pertinenti a diversi capi-telli l’architetto aveva ricomposto graficamente un unico capitello): vedi Antolini Veleia, I,tav. VII, 5).

41 In occasione della sua visita a Veleia del 1816 il De Lama avrebbe infatti scoperto dalcustode degli scavi che il Casapini aveva portato a casa sua molti bronzi veleiati (De Lamams. 29, pp. 114-15). Vedi anche Mariotti 1877, p. 159 e Bernabò Brea et al. 1992, p. 88.

42 In una lettera al ministro Magawly del 26 luglio 1816 il Casapini aveva infatti fatto ri-chiesta di esperti minatori, per eliminare i massi che impedivano il proseguimento degliscavi (ASP, Atti del Governo Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Ducati,I divisione. Amministrazione pubblica, b. 4). Fin dal suo insediamento il capitano avevasperato nella collaborazione archeologica del De Lama e questi aveva promesso di redigereuna memoria che fornisse delle norme teoriche da seguire sullo scavo (vedi De Lama ms.29, p. 103).

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G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, I (1819), tav. VII, particolare. Capi-tello di lesena con delfini.

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ni prima dai francesi, si limiterà a recuperare ampi frammenti di affresco dicolore rosso che decoravano le pareti di un vano soprastante una canalizza-zione antica, ma non si azzarderà a togliere quel che restava dell’emblemamusivo43.

Si tentò poi di chiarire la localizzazione di alcuni importanti monumenti,a cominciare dal chalcidicum, già ipotizzato dal De Lama all’interno del por-tico settentrionale del foro, ma che le discussioni con gli archeologi brescia-ni rese di nuovo di incerta ubicazione, e ci si spinse ad identificare i restidell’edificio posto al centro del portico settentrionale con un ingresso mo-numentale al foro, che il De Lama, convinto «dalle basi marmoree che ri-mangono quasi intatte nella parte estrema verso il Settentrione, e dai molticapitelli ionici scavativi non lungi» ipotizzava avere avuto una facciata a co-lonne di ordine ionico, cui forse ne corrispondevano altre nel colonnatolungo il margine nord della terrazza. In un primo momento, per la verità, ilDe Lama tentò di conciliare l’evidenza archeologica di un passaggio monu-mentale al foro con l’esistenza, su questo lato della piazza, del chalcidicum,che continuava ad immaginare compreso tra la facciata monumentale e ilportico esistente lungo il margine nord della terrazza: il supposto accessomonumentale al foro sarebbe dunque stato un grandioso ingresso al chalci-dicum, con un orientamento non verso l’esterno ma verso la piazza, a sun-tuosa ornamentazione di questo lato, cui si contrapponeva, sul lato opposto,l’imponente edificio della basilica. Oggi si tende a riconoscere nel chalcidi-cum di Veleia l’intero portico che circonda il foro della città, ma questo nondeve sminuire le ipotesi del De Lama, che si staccano dal coro di coloro cheper tutto l’Ottocento individuarono in quest’area della piazza il principaletempio veleiate e anticipano di ben oltre un secolo la ricostruzione avanzata(e generalmente accettata anche negli studi più recenti) da Cagiano de Aze-vedo, secondo cui nell’edifico posto al centro del lato settentrionale dellapiazza andava proprio riconosciuto un propileo d’ingresso al foro, monu-mentalizzato su entrambi i lati da una facciata di quattro colonne corinzie,di modulo superiore a quelle del resto del portico44.

Il tempio si sarebbe invece trovato, secondo il De Lama, sulla terrazzadove sorgevano la chiesa e la canonica di Macinesso, ed è proprio in que-

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43 Cospicui resti dell’emblema erano ancora visibili in situ all’epoca del viaggio a Veleiadell’Antolini, che infatti li descrisse come «avanzi di un mosaico bianco e nero assai benecompartito che viene chiamato di Troia» (Antolini Veleia, I, p. 19). Sulle prime esplorazionidella Casa del Cinghiale, vedi supra, cap. I, pp. 44 e 60.

44 Cagiano de Azevedo 1955. Già nel 1818 il De Lama si era convinto ad interpretarel’edificio posto al centro del lato settentrionale come un propileo monumentale (De Lama1818, p. 27).

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st’area che anche il Casapini decise fin dal novembre del 1816 di approfon-dire le indagini: il ritrovamento, ancora in situ, di un pezzo di colonna in tu-fo e soprattutto di un «antico muro che si interna nell’orto del parroco e vaverso la sagrestia» avevano dato al direttore degli scavi la speranza di sco-perte significative, ma l’impossibilità di trasferire (o addirittura di demolire)la chiesa e i locali annessi portò ad una rapida interruzione dei lavori45.

Infine, l’escursione a Veleia permise all’archeologo parmigiano di interro-garsi nuovamente sulla discussa funzione dell’edificio a monte della città, chesi ostinava a chiamare cautamente «il creduto anfiteatro» e che descrisse co-me «edifico di figura circolare un pochino allungata da levante a ponente, ildi cui diametro su questa direzione è di 90 piedi e di 87 su quella da Mezzo-dì a Settentrione», e dunque dalla pianta assai meno ovale di quanto delinea-to nelle mappe del 1780 o in quelle eseguite dall’ingegnere Giuseppe Roccaall’epoca degli scavi Moreau46. Le diverse ipotesi interpretative sino ad alloraavanzate gli sembravano tutte degne di considerazione e per questo auspica-va un nuovo scavo del monumento, condotto attraverso «pozzi esploratori»eseguiti proprio al centro del supposto anfiteatro «su due linee diagonali pellungo, e pel largo», nella speranza che tale impresa potesse indicare con chia-rezza la sua reale destinazione o semplicemente fornire la prova decisiva achi, come lui, continuava a preferire l’ipotesi del castellum aquae:

io non ardirò dirvi se sia un anfiteatro anziché un castello d’acque: vi diròbene che sino a che per gli scavi non si trovi qualche vestigio decisivo io pre-ferisco l’idea di un castello d’acque a quella di un anfiteatro

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45 I ritrovamenti di strutture architettoniche antiche nell’area della chiesa sono annun-ciati dal Casapini al Ministro Magawly in una lettera del 3 novembre 1816 (ASP, Atti delGoverno Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Ducati, I divisione. Ammi-nistrazione pubblica, b. 4). Nella sua relazione del viaggio a Veleia del 1816, il De Lama an-notava con sicurezza a proposito della chiesa di Macinesso: «è il luogo ove è da presumereche fosse il tempio della Divinità tutelare de’ Velleiati» (De Lama ms. 810, lettera a Giam-battista Bolognini del 2 maggio 1816, p. 14), opinione pubblicata un paio d’anni più tardinello studio sulle iscrizioni veleiati (De Lama 1818, p. 27). Il progetto di demolizione dellacanonica e forse anche della chiesa di Macinesso era già stato avanzato all’epoca del Du Til-lot: solo a partire dal 1842, sotto la direzione di Michele Lopez, si procederà alla demolizio-ne della canonica, operazione che permise di completare la pianta di alcuni edifici già par-zialmente indagati nelle precedenti campagne, ma che non diede i risultati sperati, dal mo-mento che i ruderi rimessi in luce erano in gran parte sconvolti dalle fondazioni della cano-nica e dalla presenza di numerose sepolture post-antiche (Mariotti 1877, p. 160 e MariniCalvani 1975, p. 22).

46 Conservate in ASP, Mappe e Disegni, vol. 25, n. 38 (edita in Miranda 2001, fig. 1) eAMANP, Disegni e Stampe, n. 196.

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scrisse infatti all’amico Bolognini nel maggio del 1816, di ritorno da Veleia, eancora una volta appare chiaro come i suoi giudizi servissero quasi a guidaper il Casapini, che nel marzo dell’anno seguente decise di comunicare alPresidente dell’Interno l’intenzione di fare nuovi scavi «all’intorno ... del cosìdetto anfiteatro ... per vedere di poter scoprire se tale veramente fosse, oppu-re castello ossia serbatoio d’acque per uso delle sottoposte abitazioni»47.

Ma se la scelta del Casapini come restauratore delle passate glorie veleiatinon fu certo delle più felici, tanto è evidente la sua insicurezza nell’interpre-tare, da archeologo e da storico, i miseri resti dell’antica città, è pur vero chesi deve alla sua mentalità pratica e operativa, tipica del militare, la progetta-zione di alcuni importanti interventi che avrebbero facilitato anche in futu-ro la prosecuzione delle campagne di scavo e reso più agevole l’accesso stes-so a Veleia, sino ad allora meta finale di un avventuroso e disagevole viaggioin mezzo ai monti. Fin dai primi mesi di scavo il Casapini si impegnò nel-l’opera di rilevamento dei muri antichi, in gran parte ricoperti e resi invisi-bili dalle continue frane, allo scopo di delineare, con l’aiuto del geometraGiuseppe Benassi, una nuova e aggiornata carta topografica dell’intera areafino ad allora esplorata: lo scoprimento delle creste dei muri scavati in pas-sato lo convinse della libertà con cui qualcuno dei suoi predecessori avevadeciso di «edificare e distruggere a suo talento»48, dato purtroppo confer-mato anche dagli scavi recenti. Una mappa completa degli scavi veleiati nonera più stata rilevata dall’epoca delle campagne settecentesche e rappresen-tava dunque una priorità assoluta, soprattutto in previsione di nuove e piùestese esplorazioni; l’esame ravvicinato e completo delle murature antiche,almeno di quelle degli edifici affacciantisi sul foro, servì anche a verificare lostato di degrado delle rovine, problema che il Casapini cercò di affrontarefacendo immediata richiesta di fondi straordinari da destinare ad opere direstauro e delineando persino una pianta del foro su cui erano evidenziati ipunti bisognosi di interventi conservativi49.

Assai più ambizioso fu poi il progetto di costruire una strada carrozzabi-le che collegasse Parma a Veleia e scendesse quindi agevolmente sino a Pia-

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47 ASP, Presidenza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 207, letteradel Casapini a Ferdinando Cornacchia del 18 marzo 1817.

48 ASP, Atti del Governo Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Ducati, Idivisione. Amministrazione pubblica, b. 4, lettera del Casapini del 28 ottobre 1816.

49 In ASP, Atti del Governo Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministero dei Duca-ti, I divisione. Amministrazione pubblica, b. 4, si conservano numerose richieste di fondistraordinari «per riparazioni urgentissime alle rovine velleiati» fatte dal Casapini per tutto il1816. Una pianta del foro di Veleia, datata al 1822 e recante l’indicazione delle antiche archi-tetture bisognose di restauro, è conservata in AMANP, Disegni e Stampe, I B, n. 201.

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Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, I B, n. 201. Pianta del forodi Veleia con l’indicazione dei punti bisognosi di urgenti restauri, 1822.

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cenza, così da facilitare l’opera degli archeologi impegnati sugli scavi e, allostesso tempo, da incoraggiare le visite di eruditi e curiosi di antichità, dive-nute ormai troppo episodiche e del tutto sproporzionate all’importanza del-le scoperte, un tempo famose in tutta Europa.

«Dopo il Regno unito delle due Sicilie e le dominazioni del sommo Pon-tefice, non trovasi nella rimanente Italia un resto così copioso e pregievoledi Romano Municipio, come abbiamo noi la sorte di possedere nelle ruinedell’antica Velleia» ricordava, senza troppa esagerazione, il Casapini al Pre-sidente dell’Interno, nella speranza di convincerlo a stanziare i 2242 franchidi spesa prevista per la realizzazione della strada50, un’impresa che aveva in-contrato il pieno favore dell’Antolini e che proprio grazie alla sua edizionedegli scavi veleiati aveva goduto di una certa pubblicità51, ma che gli esiti in-felici delle campagne in corso e le ristrettezze economiche del ducato co-strinsero presto ad abbandonare.

È pur vero che la ripresa di così tante iniziative intorno a Veleia, avviatesotto gli auspici di una sovrana illuminata e sensibile alla nuova moda archeo-logizzante così in voga nelle principali corti italiane, e felicemente coronatedal ritorno a Parma dei bronzi veleiati sottratti all’epoca della dominazionefrancese, servì a ridestare l’interesse per queste malridotte rovine, tante voltefrugate da mani più o meno esperte e mai degnamente illustrate. Erano ormaimaturi i tempi per pensare ad una seria opera di pubblicazione degli scavi e,come vedremo, furono in tanti (e forse in troppi) ad avere questa stessa idea.

Quando si recò a Veleia, nel 1816, il De Lama stava di certo già proget-tando uno studio sull’antica città e le discussioni con i colleghi bresciani lodovettero incoraggiare in questa impresa: non è escluso che abbia pensatoin un primo momento di servirsi dell’opera grafica del Basiletti, un artistanotoriamente affascinato dal vedutismo con rovine ma, allo stesso tempo,dotato di un tratto rigoroso e accurato nella riproduzione dei dettagli archi-tettonici e che a Veleia eseguì uno schizzo degli scavi, apprezzato anche dalnostro archeologo52. I viaggi nel sud dell’Italia e il lungo soggiorno a Roma,

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50 Il fascicolo contenente la pianta topografica dell’intera area interessata dalla costruzio-ne della carrozzabile, l’elenco delle tappe previste e delle spese preventivate, accompagnatoda una lettera del Casapini al Presidente Ferdinando Cornacchia, del 23 febbraio 1817, èconservato in AMANP, fascicoli sparsi su Veleia raccolti da G. Monaco.

51 L’Antolini, nel primo volume sugli scavi di Veleia, pubblicò il percorso completo e det-tagliato della strada, così come era stato previsto e delineato dal geometra piacentino JacopoBenelli, presentandolo come il piano «migliore che si possa, per comodità pubblica» e auspi-cando la sua rapida messa in opera (Antolini Veleia, I, p. 12).

52 Vedi De Lama ms. 810, lettera al Bolognini del 2 maggio 1816, p. 20: «il signor Basi-letti ha fatto uno schizzetto di questi scavi, prendendone la veduta all’opposto di quellopreso dal bravissimo signor Gubernatis. Così il disegno di lui resta meno geometrico, e

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tra il 1803 e il 1809, dovevano avere incoraggiato la passione archeologicadell’artista bresciano, ponendo le premesse per quella imponente attività diricerca che a partire dagli anni Venti dell’Ottocento lo vide promotore, incollaborazione con Giovanni Labus, degli scavi di Brescia romana, condotticon notevole perizia e che permisero di riportare alla luce i resti del foro,del teatro e del capitolium della città antica53. Mi piace pensare che alla ma-turazione della sua figura di archeologo abbiano contribuito anche la cono-scenza diretta delle antichità veleiati e forse anche la frequentazione del DeLama che, da parte sua, ci tenne a coltivare l’amicizia con il Labus e consi-derò sempre le iniziative archeologiche bresciane un modello da imitare. Si-gnificativo, a questo proposito, è il tentativo operato dal De Lama di recu-perare i resti pertinenti ad una domus romana, scoperti nel 1821 durante lacostruzione del Teatro Regio di Parma e che arricchirono le raccolte ducalidi un prezioso tesoretto di monili tardo antichi e monete imperiali romane edi alcuni mosaici pavimentali a tessere bianche e nere. Il De Lama, complicile novità archeologiche che si andavano all’epoca scoprendo a Brescia, intuìtutta l’importanza di questi rinvenimenti occasionali che, se ben valorizzati,avrebbero potuto inaugurare a Parma la nuova stagione dell’indagine ar-cheologica urbana, un settore fino ad allora inesplorato e che poteva costi-tuire una valida alternativa alle campagne veleiati, troppo costose e dai risul-tati sempre meno incoraggianti. La sua opera dedicata a queste scoperte,Memoria intorno ad alcuni preziosi ornamenti antichi d’oro scoperti in Parmanell’anno 1821 (Roma 1824), ultima impresa editoriale del nostro parmigia-no, è il primo tentativo di indagine archeologica su Parma romana e il puntodi partenza delle più mature e coscienti campagne di scavo promosse da Mi-chele Lopez, futuro direttore del Museo di Antichità e protagonista della ri-cerca archeologica parmigiana di metà Ottocento. Andati parzialmente di-strutti in assenza del Casapini, responsabile degli scavi54, i mosaici romani

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più prospettico; e il monte occupando il fondo del quadro dà maggior risalto alle ruine».La veduta del De Gubernatis è di certo quella, celeberrima, del Foro di Veleia, eseguita in-torno al 1808 e oggi conservata nella Galleria Civica di Arte Moderna di Torino (Passoni1969, fig. 32).

53 Sulla formazione e l’attività artistica di Luigi Basiletti (1780-1859), vedi Ottino DellaChiesa 1965 e Barilli 1992, p. 254. La sua attività di archeologo, che dal 1822 lo vide impe-gnato nello scavo e nel “restauro” (anche se sarebbe meglio parlare di ricostruzione, nel gu-sto della rovina d’invenzione) del Capitolium di Brescia e che, come è noto, lo vide protago-nista della riscoperta di Brescia romana e promotore della nascita del locale Museo Romano,è stata di recente ripercorsa in Treccani 1997.

54 Nella corrispondenza di Governo del De Lama si conserva un intero fascicolo relativoagli scavi effettuati nel convento di S. Alessandro a Parma, in occasione della costruzione delnuovo teatro: in particolare, in una lettera al Neipperg del 24 agosto 1821, il Casapini con-

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superstiti vennero sommariamente recuperati in gran fretta per garantire ilcompletamento dei lavori del teatro entro i tempi previsti, senza essersi pri-ma documentati sulle strutture antiche di appartenenza o avere, almeno,tentato di delineare la pianta dell’intera domus. Scrivendo al Labus per an-nunciargli l’imminente uscita della sua Memoria55, il De Lama ripercorreràl’intera vicenda di questo scavo, comprese le critiche mosse dal principe Ra-nieri, viceré del Lombardo-Veneto (in visita al museo di Parma nel novem-bre del 1823) per la mancata interruzione della fabbrica del teatro e l’am-pliamento dello scavo archeologico, accorgimenti che avrebbero permessodi «conoscere la pianta di quella casa e levare i mosaici che sono di buon la-voro e di vario disegno», ma che la cattiva gestione degli scavi del ducato fe-ce solo rimpiangere: «non così si è fatto a Brescia -sarà allora l’amaro com-mento dell’ormai vecchio De Lama- ed ho già avuta dal dott. Labus l’operascritta ad illustrazione di quanto vi si è trovato», chiara allusione ai lavori discavo e di restauro del tempio capitolino, inaugurato proprio nel 1823 e de-stinato ad ospitare il museo di antichità patrie, prova evidente di quello «ze-lo archeologico» che animava da qualche anno le ricerche congiunte deglieruditi e degli artisti bresciani e che il De Lama avrebbe desiderato ancheper la sua città. Fin dall’epoca del suo breve viaggio nel nord Italia, nel1794, il De Lama aveva descritto Brescia come una città ricca di «monu-menti singolari per la storia di questa città, e interessanti l’antiquaria», sof-fermandosi soprattutto a considerare l’interesse documentario delle molteiscrizioni antiche, ancora in gran parte murate sulle facciate e all’interno dimolte case private e che già il nostro viaggiatore auspicava raccolte a forma-re un prezioso museo lapidario56, operazione che di lì a qualche anno vedràimpegnato proprio il Labus, responsabile della raccolta e dell’allestimentodelle epigrafi romane e di molte altre antichità del Capitolium-museo.

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ferma la distruzione di due mosaici, ma rivendica i suoi tentativi di salvare parte di un altropavimento a mosaico bianco e nero «lavorato a volute bacchiche» (di cui riesce a recuperareun frammento lungo due braccia e largo circa la metà) e gli comunica di avere dato ordine discavare diversi altri campioni di mosaico, depositati in seguito nel Museo di Antichità(AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Governo, cart. 1).

55 De Lama ms. 20, lettera a Giovanni Labus del 4 dicembre 1823. 56 Nel suo viaggio nel nord Italia (compreso tra il 3 agosto e il 24 ottobre del 1794) il De

Lama visitò Guastalla, Mantova, Verona, Brescia, lasciandoci una dettagliata descrizione del-le principali opere d’arte e soprattutto delle tante antichità esaminate, dimostrando un atten-to interesse anche per i centri archeologici “minori” (se confrontati con Roma o con le cittàdella Campania), convinto che «anche fuori di Roma vi sono cose degne di Roma» (vedi DeLama ms. 61, lettera a Ignazio Nasalli del 3 settembre 1794 e, per l’itinerario dettagliato delviaggio, Guagnini 1986, pp. 286-90).

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L’attenzione riservata alle antichità di Veleia da parte del Basiletti, che lamancata pubblicazione progettata dal De Lama spingerà a collaborare, inqualità di disegnatore, all’opera su Veleia edita dall’Antolini57, o del Labus,che si presterà volentieri a commentare epigraficamente un paio delle iscri-zioni di provenienza veleiate che il De Lama stava faticosamente recuperan-do per il nuovo lapidario del museo e a cui nel 1818 dedicò un approfondi-to studio storico-epigrafico58, sono la spia di un cambiamento nella storiadella “fortuna” degli scavi veleiati.

4. Gli studi architettonici su Veleia: Luigi Voghera e Giovanni AntonioAntolini

Nel corso del XVIII secolo le rovine di Veleia erano state un indiscusso po-lo di attrazione per i molti viaggiatori stranieri giunti in Italia, valorizzate,com’erano state nei primi anni di scavo, dall’opera scientifica di illustri stu-diosi anch’essi stranieri (penso naturalmente al Caylus e al Mariette), o co-munque formatisi nell’ambito delle scuola antiquaria romana o direttamentesui cantieri di scavo delle città vesuviane (l’abate Marini, il Galletti e, so-prattutto, il Paciaudi); i primi anni dell’Ottocento registrano, invece, unospostamento dell’interesse per Veleia verso il nord della penisola, ed è infat-ti all’opera di studiosi provenienti dall’area lombardo-veneta o emiliani, an-tiquari, storici, artisti e soprattutto architetti, che si deve la seconda “risco-perta” dell’antica Veleia. In piena sintonia con il primo germogliare di studisulle antichità patrie e alla valorizzazione, con chiari intenti di esaltazionemunicipalista, dei resti antichi pertinenti ad un determinato territorio e utilial recupero della storia locale, la “Pompei del Nord”, come Veleia continua-va ad essere tradizionalmente chiamata, sembra progressivamente perdere il

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57 È suo, ad esempio, il disegno (inciso da Giuseppe Castellini) della tav. I del primo vo-lume de Le rovine di Veleia dell’Antolini (1819): consiste in una veduta prospettica degli sca-vi, presa dal lato settentrionale del foro, così che i monti dominano il fondo del quadro, conun effetto così somigliante alla descrizione dello «schizzetto» fatto dal Basiletti in compagniadel De Lama da pensare che si tratti proprio dello stesso disegno.

58 Descrizione delle iscrizioni antiche collocate ne’ muri della scala Farnese, Parma 1818: ilLabus aveva scritto alcune «dotte e urbanissime» osservazioni sulla VI e soprattutto sullaVII iscrizione, che il De Lama decise di pubblicare in appendice alla sua opera sulla TavolaAlimentaria (De Lama 1819), certo che avrebbero aumentato il prestigio delle epigrafi vele-iati. Sull’intervento del Labus, vedi Cento lettere inedite, lettera del De Lama a GiovanniBattista Vermiglioli del 17 gennaio 1820 e De Lama ms. 20, lettera al Porta del 18 gennaiodello stesso anno.

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suo ruolo di alternativa archeologica al celebre centro vesuviano, un’alterna-tiva che decenni di scavi avevano molto ridimensionato, se non addiritturasmentito. Il confronto con Pompei sarà per la verità riproposto ancora alungo, tanto che nel 1820 l’architetto inglese John Peter Gandy, all’epocaimpegnato nella elaborazione dei suoi Pompeiana, un saggio topografico earchitettonico realizzato in collaborazione con William Gell e basato sui ri-sultati degli scavi condotti a Pompei dal 1819, ritenne opportuno spingersifino a Parma, per documentarsi sul materiale archeologico proveniente daVeleia59, ma in generale, negli studi dell’epoca, si preferisce guardare a Vele-ia semplicemente come ad un centro romano della Cisalpina, uno dei po-chissimi e ben documentati esempi di tipico abitato “italico”, rappresentati-vo di una società e di una cultura figurativa ancora ben poco influenzate daimodelli ellenici: «c’est là [a Veleia] qu’on retrouvera l’industrie, la civilisa-tion purement romaine, de même qu’à Pompéïa on voit celle mélangée d’-hellenisme» annoterà infatti, verso la metà del secolo, il letterato franceseJean-Claude Fulchiron60. Tra le antiche città della Cisalpina, Veleia era poiuna tra le più esplorate e che meglio di altre si prestavano ad essere indagatecon moderne campagne di scavo, misurate e accuratamente rilevate nellesue semidistrutte strutture architettoniche.

Qualche esperimento in tal senso era già stato tentato alcuni anni primadal Lesne, lo studioso che contribuì alla riscoperta della romana Villa delForo, presso Alessandria, anche se la sua opera su Veleia, iniziata intorno al1811 e che si proponeva come saggio complementare alle ricerche che anda-va all’epoca conducendo il De Lama, se non addirittura come stimolo allapubblicazione delle congetture del collega parmigiano («je ne fais que pro-

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59 La visita alle antichità veleiati del Museo di Parma di J.P. Gandy-Deering, autore insie-me a W. Gell dei Pompeiana: the topography, edifices and ornaments of Pompeii, the result ofexcavations since 1819, editi a Londra nel 1832, è documentata in ASP, Presidenza dell’In-terno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203 (sui contatti tra il Gandy e il De Lamasi fa cenno anche in Albasi e Magnani 2003, p. 32). Oltre ai reperti già di proprietà del mu-seo, il Gandy avrà modo di conoscere anche le antichità raccolte dal Bertioli e acquistate dalMuseo di Antichità nel 1821: per una di queste, una «tessera antica in avorio per avere ac-cesso al teatro», il Gandy troverà un confronto molto pertinente con una tessera trovata nel1820 a Pompei (ASP, Presidenza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b.203; vedi anche sotto nota 133). Anche le riflessioni del Gandy su Pompei dovevano, d’altraparte, tornare utili per lo studio di Veleia; nel giustificare il ritardo nella stesura dell’opera suVeleia del fratello Luigi, Giovanni Voghera scriverà infatti nel 1820 all’amico Michele Lo-pez: «così ritardando ha potuto maturare le cose, e render l’opera sua più voluminosa e benponderata la sua ipotesi coll’appoggio anche dell’opera del sig. Gandy» (AMANP, CarteggioLopez, Lettere di privati, lettera di Giovanni Voghera del 28 ottobre 1820).

60 Fulchiron 1847, V, p. 443.

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voquer cet estimable savant a mettre au jour le fruit de ses recherches et deses travaux), non dovette superare la fase progettuale61. Ma è sufficiente da-re una scorsa alla relazione composta dal Lesne sui ritrovamenti della Villadel Foro per comprendere il fondamentale ruolo di modello assunto in que-sti anni dagli scavi veleiati: l’esperienza personale della visita alle rovine diVeleia e l’esame accurato dell’intera collezione archeologica parmense, con-dotto sotto la guida esperta del De Lama, «un savant qu’il est bien douxpour un amateur de rencontrer, que l’on connaît toujours trop tard, et quel’on quitte trop tôt»62, sembrano aver fornito al Lesne tutti gli strumenti ne-cessari per valutare, con cognizione di causa, i risultati delle esplorazionialessandrine. La possibilità di istituire un confronto convincente con i re-perti di Veleia equivaleva, per l’autore, ad una garanzia di autenticità e di si-curo interesse per il materiale recuperato alla Villa del Foro:

le produit de ma course n’est sans doute pas très brillant; mais il n’en est pasmoins intéressant, parce qu’il est pris sur des lieux qui font partie del la mai-rie d’Alexandrie [...] et ce qui leur donne un intérêt particulier encore, et uncaractère de verité incontestable, c’est le rapprochement et la comparaisonqu’on peut en faire avec ce qui a été trouvé à Veleïa, et ce que l’on y voit en-core à présent63

una garanzia di autenticità tanto più necessaria per quelle classi di oggetti,come ad esempio i vetri, per i quali risultava più difficile valutare l’effettivaantichità:

on aime à prendre dans les fouilles mêmes les vases de cette composition;ceux que l’on rencontre dans les cabinets n’inspirant pas toujours une pleine

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61 In AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera di Jean-Charles Lesne del 3settembre 1811, in cui annuncia l’invio a Parma delle sue ricerche sulla Villa del Foro e anti-cipa al De Lama la sua intenzione di scrivere una Memoria su Veleia, e lettera del franceseDeschamps del 3 marzo 1813, che si fa portavoce del Lesne a proposito delle indagini veleia-ti: il Lesne chiedeva al De Lama una copia della pianta di Veleia, ma al tempo stesso lo rassi-curava sul fatto che il suo studio non avrebbe arrecato alcun danno all’opera su Veleia che ildirettore del Museo stava allora progettando («j’ai pris une marche qui ne peut pas nuire àcelle de M. Lama»). Al termine delle sue indagini nell’alessandrino, il Lesne aveva dato allestampe la Excursion à la Villa del Foro, ancien Forum appelé par quelques géographes ForumStatiellorum, edito ad Alessandria nel 1811 (sulla Villa del Foro, corrispondente all’anticaForum Fulvi, vedi ora E. Zanda, Forum Fulvi-Valentia: dati storici ed archeologici, in Optimavia. Postumia, storia e archeologia di una grande strada romana alle radici dell’Europa, Atti delConvegno Internazionale di Studi, Cremona 1998, pp. 91-98).

62 Lesne 1811, p. 74, nota 18.63 Lesne 1811, p. 63.

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confiance, en ce qu’il est difficile de distinguer un verre vraiment antique,d’un verre de quelques siècles64.

Ecco dunque che, anche in questo caso, la ricca collezione dei vetri vele-iati, presto rivalutata dal nuovo allestimento museale ideato dal De Lama65,veniva in aiuto, con i suoi numerosi frammenti provenienti tutti da un con-testo di scavo e dunque di sicura antichità, agli archeologi e agli studiosi in-teressati alle tecniche artistiche degli Antichi. Alcune soluzioni architettoni-che esaminate a Veleia facilitarono, poi, l’interpretazione di analoghe strut-ture riscontrate alla Villa del Foro: se per riconoscere gli elementi architet-tonici di un “bagno” scavato a Veleia era stato utile al De Lama l’avere vistoun analogo impianto in un tepidarium di Pompei, ora sarà proprio il con-fronto con il bagno veleiate a fornire al Lesne la giusta interpretazione peralcuni piccoli rocchi in terracotta, utilizzati nelle suspensurae di diversi am-bienti, appena rimessi in luce nell’alessandrino e che fino a quel momentogli scavatori avevano del tutto trascurato66.

Incoraggiati dal mecenatismo culturale promosso dalla nuova sovrana enuovamente incuriositi dalla riapertura ufficiale degli scavi, furono in molti acimentarsi nell’elaborazione di saggi di carattere storico, archeologico, archi-tettonico e persino geografico sull’antica Veleia. Ci fu chi a Cremona tentò di«farsi bello» dando alle stampe, nel 1818, una lezione della Tavola Traianacon le correzioni apportate dal De Lama, ricavandola dalla copia fatta espor-re dal direttore nel museo «per comodo di chi non può leggere facilmentel’originale»67. Nello stesso anno era in fase di preparazione un’opera, «pura-mente geografica» sull’antica città, scritta a quattro mani dal conte GirolamoAsquini e dal canonico emiliano Francesco Nicolli e che, a giudizio del DeLama, avrebbe dato «luogo a non poche belle osservazioni critiche su quantone scrissero Lami, del Pozzo, Cara de Canonico e Pittarelli»68. Il progetto

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64 Lesne 1811, p. 45.65 Vedi infra pp. 152-55.66 Lesne 1811, pp. 53-55, tav. 2, fig. 6.67 Di questo tentativo di pubblicazione, ad opera di un non meglio precisato «prete ca-

nonico» e reso vano dall’intervento del De Lama, ci informa lo stesso archeologo in una let-tera all’amico Angelelli (De Lama ms. 20, lettera del 18 luglio 1818). Il De Lama si riferisceprobabilmente al progetto di studio delle antichità veleiati (con particolare riguardo alle epi-grafi) avviato in quegli anni dal canonico cremonese Antonio Dragoni, in collaborazione conGiovanni Voghera (vedi Bormann, introduzione alla sezione epigrafica veleiate in CIL XI, 1,Berolini 1888). Questo episodio convincerà il De Lama ad accelerare la sua edizione dellaTavola, apparsa infatti a Parma nel 1819.

68 De Lama ms. 20, lettera a Massimiliano Angelelli del 6 marzo 1818; l’opera chel’Asquini stava allora preparando è ricordata dal De Lama anche nelle pagine introduttive

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originario dell’opera non venne, in realtà, mai completato, ma le indaginipreliminari, arricchite dalle molte informazioni fornite dallo stesso De Lama,in rapporto di amicizia con entrambi gli autori, confluirono negli studi sullatopografia antica dei territori del ducato, e in particolare, nei Riscontri e notedi alcune carte topografico-moderne degli Stati Ducali di Parma, Piacenza eGuastalla; per servire d’illustrazione agli oggetti di topografia antica de’ Statimedesimi e nella Archeologia universale parmense, piacentina e guastallese,editi dal Nicolli negli anni Trenta del secolo69; sono sicuramente da attribuirea queste stesse ricerche anche i numerosi appunti di Girolamo Asquini sullaTavola Traiana, conservati ancora inediti presso la Biblioteca Arcivescovile diUdine e che impegnarono l’autore negli ultimi anni della sua permanenza aParma70. Il coinvolgimento in questa impresa dell’Asquini, di illustre famiglia

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del suo studio sulla Tavola (De Lama 1819, p. 15, nota 1). Come si ricorderà (supra, cap. II,nota 60), il Lami, nelle Novelle Letterarie, aveva tentato di dimostrare che la Tavola Alimen-taria si riferiva a fondi agricoli del territorio di Lucca, opinione seguita anche dal padre Fe-derico Vincenzo da Poggio (Lettere ragionate di un Accademico oscuro, Lucca 1775); nel1788 erano apparsi il lavoro, di carattere topografico, di Anton Giacinto Cara de Canonico(Discorso dei paghi dell’agro vellejate nominati nella Tavola Trajana Alimentare) e quello diGiuseppe Pittarelli, Idea della spiegazione della tavola alimentaria di Traiano, seguito dal-l’opera, dello stesso autore, Della celebratissima tavola alimentaria di Traiano scoperta nel ter-ritorio piacentino l’anno 1747, edita a Torino nel 1790 (De Lama 1819, pp. 14-21; Montevec-chi 1934, pp. 625-26; Criniti 1991, pp. 20-27).

69 I Riscontri vennero pubblicati nel 1830, mentre l’Archeologia Universale, già prean-nunciata in un manifesto del 1828, verrà data alle stampe, in forma assai ridotta, nel1834: lo schema originale dell’opera prevedeva una suddivisione in tre parti, dedicate aireperti veleiati, all’“archeologia patria” ad esclusione di Veleia e ad un confronto tra i ri-spettivi materiali; ogni parte era poi ulteriormente divisa in due sezioni, l’“archeologiascientifica” (comprendente la topografia, la filologia e l’etica, intesa come studio dei co-stumi degli antichi) e l’“archeologia artistica” (di cui facevano parte l’architettura, lascultura, la pittura, l’opera musiva, l’epigrafia, il vasellame e lo studio degli strumenti de-gli antichi), per un numero complessivo di almeno 14-16 volumi. Di quest’opera colossa-le verrà invece pubblicato poco più che l’indice, accompagnato da una breve introduzio-ne dell’autore e dall’elenco, questo sì dettagliato, dei siti antichi menzionati nella TavolaTraiana, principale punto di partenza per lo studio dell’antica topografia del territorio.Alla Tavola il Nicolli dedicherà un approfondito studio epigrafico, rimasto inedito, teso acorreggere alcune lezioni proposte dal De Lama nell’edizione del 1819 (su questo mano-scritto, vedi Monaco 1953b; sugli scritti veleiati del Nicolli, vedi anche Albasi e Magnani2003, pp. 34-35).

70 Da Udine, sua città natale, il conte Girolamo Asquini si era infatti trasferito a Par-ma per raggiungere il fratello Enrico, nominato ufficiale delle guardie del corpo del DucaFerdinando: qui poté frequentare l’Università e coltivare i suoi numerosi interessi, chespaziavano dall’archeologia, alla numismatica, alla topografia, all’agraria fino all’epigra-fia, scienza quest’ultima che gli garantì un posto di rilievo tra gli studiosi del suo tempo

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udinese ma trapiantato da tempo nel ducato, si deve certo alla stimolante fre-quentazione degli ambienti archeologici parmigiani, ma forse non fu da me-no anche l’incoraggiamento di Giacomo Verità, il celebre antiquario che aVerona aveva formato un vero e proprio museo privato di reperti archeologi-ci e oggetti d’arte, impreziosito da una cospicua raccolta numismatica e diglittica antica, tra le più apprezzate del secondo Settecento. Il Verità era datempo in contatto con il Museo di Antichità di Parma e dal carteggio con ilDe Lama si possono ricostruire diversi scambi di monete romane imperiali edi medaglie pontificie, operazione che dovette fruttare al museo veronese an-che alcuni duplicati di monete «patinate vellejane»71: in occasione della ven-dita dell’intero Museo Verità, l’Asquini (che nel 1821 si era trasferito a Vero-na) agì da mediatore tra gli eredi e la corte di Parma, inizialmente interessataall’acquisto, cercando di mantenere una posizione favorevole al ducato, con-vinto com’era che il locale museo archeologico fosse la sede più idonea nonsolo ad ospitare, ma anche a valorizzare questa preziosa raccolta. La vendita,come è noto, non andò in porto a causa dei soliti problemi finanziari del du-cato72, ma è possibile che i legami di stima e di amicizia con gli archeologi

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(la sua attività di falsario sarà resa nota solo alla fine dell’Ottocento, ad opera del Mom-msen). Sulla attività di epigrafista dell’Asquini, vedi Panciera 1970, pp. 15-18 e A. Dona-ti, Alcuni inediti dell’Asquini di epigrafia delle Venezie, in Epigrafia. Actes du Colloque enmémoire de Attilio Degrassi (Collection de l’École française de Rome, 143), Roma 1991,pp. 705-10.

71 Gli scambi di monete tra il Verità e il Museo di Parma erano già ben avviati al princi-pio del 1786: in quello stesso anno il De Lama aveva spedito a Verona una lista dei duplicatidel medagliere parmigiano, così da facilitare la scelta del conte (le lettere del Verità al De La-ma si conservano in AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, cart. 4).

72 Sulle trattative tra l’Asquini e il governo di Maria Luigia d’Austria per l’acquisto delMuseo Verità, vedi Marchini 1972, pp. 79-80; l’intera vicenda, dalla proposta di vendita, allastima dei singoli pezzi fino al rifiuto di acquisto a causa dell’eccessiva richiesta (Maria Luigiagiudicò «esorbitatamente grande» il prezzo richiesto di 30-40.000 talleri) si ricostruisce dalcarteggio Asquini-Lopez conservato in AMANP, Carteggio Lopez (vedi anche ASP, Presi-denza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203): per spingere il ducato diParma all’acquisto del museo, l’Asquini fece il nome di altri aspiranti acquirenti, e tra questifiguravano il Labus, in nome della città di Brescia, e il Sanquirico, uno dei più celebri mer-canti di oggetti antichi dell’epoca e noto -secondo l’Asquini – «per farne mercimonio alleCorti estere» (AMANP, Carteggio Lopez, lettera del 3 giugno 1828). Nell’Archivio del Mu-seo Archeologico di Parma si conserva una copia dell’elenco degli oggetti del Museo Verità,dedicato soprattutto al ricco monetiere, redatto nel 1828 dall’abate Giuseppe Venturi(AMANP, ms. 11). L’intero museo rimase invece a Verona e fa oggi parte delle collezioni delMuseo di Castelvecchio. Da Verona giungerà tuttavia a Parma un’aretta votiva dedicata alculto di Tutela (CIL V, 3304), donata dall’Asquini al Museo di Antichità nel 1832 (Panciera1970, p. 127, fig. 8).

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parmigiani, il De Lama prima, tanto apprezzato come epigrafista73, e quindiil Lopez, oltre alla conoscenza dei reperti veleiati, abbiano consolidato gli in-teressi antiquari dell’Asquini, che di lì a qualche anno si dedicherà allo stu-dio delle antichità patrie, di cui l’opera Del Forogiulio dei Carni e di quellod’altri popoli Traspadani, edita a Verona nel 1827 è forse il contributo più si-gnificativo74.

Ma al principio dell’Ottocento, prima che nuovi scavi portassero alla lu-ce le rovine di altri importanti centri romani del nord Italia, come Brescia,Verona, le città carniche, Veleia rappresentò per molti studiosi soprattuttoun valido modello architettonico e urbanistico di municipium della Cisalpi-na, il sito ideale da cui imparare e attingere le formule del linguaggio classi-co, meglio ancora se “provinciale”, da riproporre nelle architetture “all’anti-ca” dei tanti cantieri nord-italiani. Veleia era un interessante campo d’inda-gine sperimentale per le possibilità di ricostruzione cui si prestavano i suoiruderi, sottoposti per anni alle misurazioni, ai confronti stilistici e all’esamedei materiali da parte di docenti e allievi delle accademie di belle arti, tantoche sarà proprio un architetto, l’Antolini, a dare per primo alle stampe unostudio sulle rovine veleiati, ma prima di lui altri architetti si cimenterannonella difficile impresa di far rivivere, almeno sulla carta, i principali monu-menti dell’antica città.

Intorno a Velleia non solamente Antolini prepara una grand’opera, ma an-che il prof. Voghera, il quale è qui, e come Antolini guarda, disegna ecc. tut-to ciò che può giovargli a riconoscere l’architettura di quella città. Come housato con Antolini, uso con lui, e userò con chiunque. Fra tanti che s’accin-gono a questa impresa parmi impossibile che non ci sia chi faccia qualchecosa di buono. Se non altro Velleia nelle tavole incise avrà la sorte de’ gran-diosi avanzi di Pesto che piacciono generalmente più sulle tavole del p. Paoliche sul luogo

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73 Nell’agosto del 1819 l’Asquini, da esperto conoscitore di epigrafi antiche, si compli-mentò infatti con il De Lama per l’opera sulle iscrizioni marmoree veleiati, «che fa tantoonore a Parma», prevedendo addirittura che sarebbe presto diventata «rarissima, e conse-guentemente ricercatissima dai dotti, come lo è di presente quella del Lanzi Saggio di LinguaEtrusca» (AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera dell’Asquini del 15 agosto1819).

74 La ricerca sulle antichità della Carnia continuerà con la pubblicazione de La giardinie-ra suonatrice, o sia illustrazione di un antico sepolcro scoperto in Osopo, Verona 1830 e delsaggio Sopra un’antica lapide inedita scoperta in Giulio Carnico capitale della colonia Forogiu-lio, Milano 1834, opere che documentano la discreta preparazione antiquaria dell’Asquinima che evidenziano anche i limiti di una cultura strettamente municipalista (Panciera 1970,pp. 19-20).

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scriverà il De Lama all’amico e grecista Massimiliano Angelelli nell’autunnodel 181875. Nel settembre del 1815 l’architetto cremonese Luigi Voghera, incompagnia del fratello Giovanni e del pittore conterraneo Giulio Motta76, siera infatti recato a Veleia e qui, come racconterà il custode degli scavi al DeLama, aveva «fatto varie escavazioni sopra questi Regi scavi e ... levato tuttala pianta della piazza col levare i disegni di tutti i capitelli, e basi non chedella maggior parte de cornisami, e questo tutto per mettere in grandiositàl’antica città di Velleia»77. Se il primo progetto del Voghera era probabil-mente quello di presentare un semplice studio di ricostruzione che valoriz-zasse le antiche architetture della città, nel corso dei successivi sopralluoghidovette convincersi delle possibilità di un lavoro assai più esteso e ambizio-so, tanto che i rilievi e i saggi di scavo eseguiti a Veleia divennero il modelloper uno studio generale sull’antico foro italico, di cui proprio l’esempio ve-leiate sembrava costituire il confronto più vicino alle norme vitruviane:

venendo da Roma dopo il mio alunnato sono già cinque anni, non avrei cre-duto di rinvenire in queste parti alcuna cosa che fermare potesse l’attenzionedi un uomo il quale avesse in quella troppo celebre Metropoli ammirato imonumenti più magnifici dell’arte. Ma agli scavamenti portatomi di Veleja,ho trovato con sorpresa, e insieme con piacere di che occupare l’anima miagià a quelle antichità assuefatta, e di novelle cognizioni desiderosa. E potei adirittura, quelle rovine contemplando, le une distinguere dalle altre sí per laloro disposizione, e sí per la diversa località dei piani, in maniera che venni ariconoscere l’aggregato di un Foro Italico, di cui mancavano ancora gliesempli. Perché riconobbi la piazza primamente sulle teorie disposta delgrande Vitruvio (libro V cap. I) coi portici che l’attorniavano a spaziosissimiintercolumni78.

L’opera che il Voghera aveva in mente doveva raccogliere le esperienzepiù significative delle sue frequenti incursioni nel campo dell’architettura

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75 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 9 nov. 1818 (citata anche in Arrigoni Bertini2003, p. 444).

76 Nato a Cremona nel 1787 ma trasferitosi a Brescia intorno al 1822, fu pittore di figurema anche esperto nel disegno ornamentale, ed è sicuramente in questa veste che il Vogheralo scelse come compagno di escursione a Veleia (vedi Thieme-Becker, s.v.).

77 ASP, Presidenza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 207, lettera diAdeodato Buroli del 5 settembre 1815. In una lettera inviata al Casapini nel 1819 il Vogherafa riferimento ad una sua visita a Veleia avvenuta sette anni prima, il che permette di far risa-lire almeno al 1812 l’interesse dell’architetto per i resti dell’antica città (AMANP, Scavi diVelleia, 3, lettera del 12 agosto 1819).

78 Così si legge nelle pagine iniziali del Manifesto d’associazione del Foro Italico, edito dalVoghera nel 1819.

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antica, avviate nel triennio passato a Roma, tra il 1809 e il 1811 come stipen-diato dell’Accademia di Brera, che lo videro impegnato in un progetto per ilrestauro del Colosseo, impresa che lo spinse persino a finanziare una cam-pagna di scavo all’interno dell’arena e nelle sue immediate vicinanze79. Era-no questi, come è noto, anni di accesi dibattiti sulle teorie del restauro ar-cheologico e che a Roma videro scontrarsi alcuni tra i più celebri antiquari,architetti e storici dell’arte del tempo: le rovine del Colosseo, bisognose diun rapido e radicale intervento conservativo, divennero quasi il banco diprova dell’intera questione, conclusasi nel 1807 con l’opera di consolida-mento del muro orientale, realizzata nel pieno rispetto delle strutture origi-nali da Raffaele Stern e applaudita da esperti del calibro di Angelo Uggeri eAntonio Nibby, ma che i rapidi mutamenti di gusto e di sensibilità per il ru-dere antico porteranno ben presto a guardare con sospetto, se non addirit-tura con fastidio. L’intervento di restauro progettato dal Voghera, che anti-cipava di molti anni quello realizzato nel 1827 da Giuseppe Valadier, cui sideve il consolidamento definitivo del muro occidentale, con la ricomposi-zione, in forma di sperone, degli ordini architettonici crollati, si inserisce inuna fase cruciale della storia moderna del monumento, così profondamentesegnata dalle critiche suscitate dall’invadente contrafforte dello Stern e qua-si alla ricerca di una valida soluzione alternativa capace di restituire l’origi-nario splendore al monumento-simbolo della romanità. Deciso a dare allestampe le proprie fatiche, il Voghera tornerà di nuovo a Roma nel 1815, perun ultimo esame alle strutture del Colosseo, e in quella occasione pensò dispingersi fino in Campania, incuriosito dalla recenti scoperte archeologichedi Pompei e forse interessato egli stesso alla stesura di un nuovo saggio sullearchitetture e la topografia dell’antica città vesuviana80.

Quando giunse a Veleia, nel 1815, il Voghera aveva dunque alle spalleuna lunga familiarità con i monumenti antichi e una fresca conoscenza del-le tecniche di scavo adottatte nei cantieri romani e pompeiani, tanto cheanche il De Lama, non poco infastidito dall’ingerenza nel proprio territoriodi studiosi provenienti da fuori, dovette riconoscergli la fama di «espertis-simo osservatore de’ ruderi romani e napoletani»81. I progetti per il restau-

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79 Sull’attività romana di Luigi Voghera, vedi Trabucco 1980; Roncai 1990, pp. 245 e247, Idem 1997, pp. 24-25 e Idem 2002, figg. 1-5, 8-10; Arrigoni Bertini 2003, pp. 437-39.

80 Il Voghera si recherà di nuovo a Roma, e in seguito a Napoli e a Pompei nel 1822,«fermandosi in quest’ultima a rilevare con indicibile attenzione gli scavi di quell’infelice anti-ca città» (Gallotti 1842); vedi anche Roncai 1997, p. 25 e Idem 2002, p. 148 (secondo cui ilVoghera sarebbe riuscito a visitare Napoli e Pompei solo nel 1822) e figg. 6-7.

81 ASP, Presidenza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203, letteradel De Lama del 9 maggio 1822. Scrivendo al Podestà di Parma, nel settembre del 1815, il

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ro del Colosseo dovevano essere inseriti, secondo le intenzioni dell’autore,nella grande opera dedicata al foro italico, di cui nel 1819 apparve il Mani-festo ma che purtroppo non verrà mai pubblicata per insufficienza di sotto-scrizioni82. Dalla corrispondenza con il De Lama e con Michele Lopez pos-siamo comunque ricostruire alcune tappe di questo lavoro, ripercorrendo ipunti più salienti del dibattito che verteva all’epoca intorno alle diverseipotesi ricostruttive di Veleia e che guiderà il Voghera nella preparazionedelle piante dei principali monumenti dell’antica città, il foro, le terme, ilcosiddetto anfiteatro, destinate alla pubblicazione definitiva dell’opera eancora oggi conservate nell’archivio del Museo Archeologico di Parma83.

La stesura vera e propria dell’opera dovette cominciare al principio del1819, sollecitata dall’imminente pubblicazione del primo volume dell’Anto-lini sulle rovine di Veleia e da quella sulle iscrizioni marmoree, in gran partedi provenienza veleiate, edite nel 1818 dal De Lama, con l’aggiunta di alcu-ne interessanti ed inedite informazioni sui reperti utili ad illustrare la storia,la religione, le attività artigianali e produttive dell’antica città. Di grandeaiuto, nelle fasi preliminari del lavoro, fu la disponibilità con cui il De Lamasi prestò a fornire i dati necessari al Voghera nella sua opera di verifica deirilievi eseguiti in occasione dei numerosi sopralluoghi a Veleia, che il con-fronto con quanto scritto dal De Lama o documentato nelle passate relazio-ni di scavo rendevano talvolta di incerta interpretazione; di difficile ricostru-zione erano soprattutto gli ordini architettonici e i partiti decorativi degliedifici affacciati sul foro, tanto che il Voghera si troverà più volte costretto a

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De Lama non risparmiò le critiche, anche aspre, per chi concedeva le licenze di misurare erilevare i monumenti di Veleia: «V.S. Ill.ma vedrà che con vergogna nostra saranno gli estra-nei che si faranno onore delle ruine velleiati, che sono nostra proprietà [...] Se si fosseroesaudite le mie preci, ed è facilissimo farlo in tempo delle nevi, li sig.ri cremonesi non me laficcherebbero, perché tutti que’ belli avanzi marmorei sarebbero venuti a prendere la lorosede come le statue ecc. nel nostro Museo» (ASP, Archivio Comune. Raccolta autografi, b.4396, lettera dell’8 settembre 1815).

82 Si tratta del Manifesto d’associazione all’opera del Foro Italico dell’architetto professoreLuigi Voghera, pubblicato a Cremona nel 1819: la notizia della pubblicazione è data al DeLama dal fratello del Voghera, Giovanni, il 1 febbraio 1819 (AMANP, Carteggio De Lama,Lettere di Privati): dal Manifesto, apparso poco dopo quello dell’Antolini, si ricava chel’opera progettata dal Voghera non si limitava alla trattazione alle sole architetture ma preve-deva anche l’esame dei mosaici, delle pitture, delle sculture, dei bronzetti, del vasellame edei diversi utensili rinvenuti negli scavi (sul progetto compositivo dell’opera e sulle causeche costrinsero il Voghera ad abbandonare ogni speranza di pubblicazione, vedi Gallotti1842 e ora anche Arrigoni Bertini 2003, che ripercorre anche le tappe della contesa tra l’An-tolini e il Voghera per l’edizione dello scavo veleiate).

83 AMANP, Disegni e Stampe, nn. 206-207.

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chiedere ragione di alcune affermazioni del De Lama, evidentemente di-scordanti con le sue teorie ricostruttive. Tentò, ad esempio, di fare chiarezzasul numero preciso dei «molti capitelli ionici» scavati nel foro, che spinseroil De Lama a immaginare di quest’ordine l’edificio posto al centro del latosettentrionale84, e inoltre cercò di sapere «se di essi ve n’erano di più dimen-sioni mentre non ve ne sono rimasti che due, uno in luogo ed uno costì [aParma], e se dalla quantità ritrovata si è potuto riconoscere che fossero tuttisimili di stile», poco convinto dell’ipotesi avanzata dal De Lama, che a suogiudizio non teneva sufficientemente conto dei rapporti proporzionali tra idiversi elementi strutturali del monumento:

mentre se pochi più di quelli che vi sono fossero stati e di ugual dimensionenon avrebbero potuto appartenere ne alla fronte del tempio rispetto allaproporzione, dato il diametro delle basi ed alla rastremazione rispetto all’al-tezza conseguentemente alla specie dell’intercolumnio, per conseguenzatroppo piccoli là dove vi convengono assai meglio li corinti85.

Nell’interpretazione dei ruderi proposta dal Voghera, l’edifico centralealle spalle del portico Nord era dunque un tempio, anzi il Tempio della divi-nità forense, con fronte tetrastila di colonne in tufo stuccato su basi attichee di ordine probabilmente corinzio, dato quest’ultimo confermato anchedalle ricostruzioni moderne86; l’intercolumnio mediano doveva ospitare unbasamento per il simulacro della divinità, mentre per la ricostruzione delpavimento, a riquadri in marmo venato e pavonazzetto incorniciati da listelliin giallo antico, il Voghera si appoggiava ai risultati di una indagine archeo-logica da lui stesso condotta a Veleia alcuni anni prima87. Sarà questa, comevedremo, anche l’ipotesi interpretativa dell’Antolini, destinata a diventareben presto quella tradizionale per oltre un secolo, ma diverse erano a questadata le teorie avanzate dagli archeologi parmigiani, e se il De Lama parlavaapertamente di propileo monumentale al foro o, in alternativa, di ingresso al

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84 Il Voghera, cui il De Lama aveva concesso di esaminare i suoi appunti manoscritti suVeleia, si riferisce qui alla descrizione dell’edificio fatta dal De Lama all’indomani della suavisita a Veleia nel 1816 (De Lama ms. 810, p. 13).

85 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera del Voghera del 14 aprile1819.

86 Vedi Frova 1969, p. 59 e Marini Calvani 1975, p. 62.87 Nel corso della campagna di restauro condotta nel 1952 è stato rilevato e restaurato il

tratto di pavimento superstite, già documentato nella pianta relativa agli scavi del 1760-1763: si doveva trattare, per la precisione, di un pavimento a mattonelle rettangolari di bar-diglio incorniciate da listelli in marmo bianco (vedi Arias 1955, p. 117 e Frova 1969, p. 50,nota 5).

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chalcidicum, anche il Casapini non poté che accogliere con scetticismo leconclusioni del Voghera:

m’accorgo anche – gli rispondeva infatti l’architetto nell’ottobre del 1819 –che V.S. nel suggerirmi che non venga per ora a parlare del Tempio dei Vele-iati vorrà forse indicarmi altra località ove poteva essere fuori del Foro, ed èappunto fuori del Foro, giacché si viene a parlare di tale oggetto che io possoassicurarla che per quanto io abbia osservato in tutti quei ruderi non vidi ap-parenza alcuna che mi indicasse l’icnografia di un Tempio, se per riconosceretal sorta di edifizi conviene che io debba meditarli con Vitruvio, conoscendo-ne le varie specie che ci fa conoscere, come tanti ne riconobbi effettivamentein più luoghi, né pretendo che fuori dal Foro non vi fossero più templi88.

Del tutto insufficienti per un’attendibile ricomposizione dei partiti deco-rativi sembrarono, poi, al Voghera i pochi frammenti architettonici ancoravisibili a Veleia, una situazione che contrastava con i presunti ritrovamentidi un «grandissimo numero di cornici, di pezzi d’architrave» ricordati dalDe Lama e che rendevano quanto mai necessario uno spoglio dei repertimarmorei trasportati nel tempo a Parma:

queste porzioni di trabeazioni sarebbero calcolabili in vero se si potessero ve-der in qualche framento, ma credo sebbene già da cinque o sei anni che veg-go, e riveggo le rovine veleiati sia stato per me ancora tardi, poiché non vi esi-stono che basi e cornici de’ piedistalli, alle quali unicamente ho potuto ritro-vare la loro località col confronto delle misure; nondimeno mi sarebbe di unsingolare regalo che V.S. mi potesse in qualche modo indicare se tali framentiesistono a Parma o se sono stati smariti: nell’ultimo caso poi se la si ne risovie-ne almeno di dirmi a quale degli ordini architettonici potevano appartenere89.

Questa richiesta toccava un punto nevralgico dell’intera questione veleia-te, e cioè il problema della continua dispersione del materiale e delle diffi-coltà di una adeguata opera di tutela:

Se ancora rimangono colà di queste cornici, o dove siano andate nol so, co-me non saprò mai dove siano finite le colonne, i bronzi e altri marmi inven-tariati, disegnati e divenuti invisibili

si trovava costretto a rispondere il De Lama, pur confermando al Vogheradi avere un tempo visto almeno nove capitelli ionici, di cui cinque intatti, ol-tre a numerose cornici di marmo, in seguito «senza criterio affastellate l’unasull’altra» ma che il confronto con alcuni frammenti scavati nella tomba de-

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88 AMANP, Scavi di Velleia, 3, lettera del 10 ottobre 1819.89 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera del Voghera del 14 aprile

1819.

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gli Scipioni a Roma suggeriva come pertinenti a delle trabeazioni («e questesono io sempre stato indotto a credere che servito avessero di trabeazioniperché avevano nelle estremità le note da me copiate B. D. III. XI. VI. lequali come ella avrà osservato ne’ Sepolcri degli Scipioni hanno giovato ariunirli in pristino. Non ho a dir vero posto mai attenzione a qual’ordinepotessero servire, molto più che l’architettura non è mia messe»)90.

Lo studio preliminare sulle antichità veleiati impegnò il Voghera perdiversi anni e richiese frequenti sopralluoghi, documentati fino almeno al1822, nei quali l’architetto, talvolta affiancato dal fratello Giovanni, si ci-mentò anche in brevi saggi di scavo, tesi a chiarire alcuni punti oscuri del-le sue ricostruzioni, senza trascurare un’accurata indagine ricognitiva ditutti i frammenti antichi sparsi nell’area della città antica, operazione chegli permise di recuperare anche alcuni importanti reperti marmorei. Nel-l’autunno del 1819 comunicò, ad esempio, al Casapini di avere riconosciu-to nella “bardella” della chiesa di Macinesso il piano di una delle tavole inmarmo rosso di Verona (quella occidentale), ancora oggi visibili al centrodel foro, interpretate all’epoca come tavole giudiziarie o tavole destinatealla riscossione di denaro91; recuperò un tronco di colonna dello stessomarmo a suo avviso pertinente al loggiato superiore della piazza e inoltreriuscì ad individuare un nuovo frammento di capitello di lesena composi-to, del tipo dei «quattro grandi compositi» già noti in precedenza e a cuiaffiancò altri piccoli frammenti un tempo conservati nel magazzino degliscavi, tutti elementi che lo convinsero della loro originaria appartenenzaalla decorazione frontale della basilica, in posizione alternata ai capitelli fi-gurati con aquile92. La scarsa familiarità con la storia delle esplorazioni

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90 De Lama ms. 20, lettera a Luigi Voghera del 18 aprile 1819.91 “Tavole giudiciarie” le chiama ad esempio il De Lama nella Seconda memoria sugli sca-

vi vellejati (De Lama ms. 62) e lo stesso nome è usato dal Voghera in una lettera al Casapinidel 1 ottobre 1819 (AMANP, Scavi di Velleia, 3); nella Spiegazione delle tavola illustrante ilForo di Velleia, completata nel 1822, il Voghera parlerà invece di “tavole feneratorie”(AMANP, ms. 56). La paternità di questi ritrovamenti è per la verità un po’ incerta: fin dal1818 il Voghera, chiedendo al Lopez di fornirgli le misure e i dati sulla qualità del marmodella mensa d’altare nella chiesa di Veleia, già l’identificava con una delle due tavole giudi-ziarie del foro (AMANP, Carteggio Lopez, Lettere di Privati, lettera di Giovanni Vogheradel 13 settembre 1818), ma nel 1823 sarà Pietro Casapini a vantarsi di avere recuperato « frai rottami dell’oratorio di Macinesso» sia la tavola pertinente al foro che il tronco di colonnain marmo rosso di Verona, reimpiegato come acquasantiera, scoperte che il direttore degliscavi avrebbe comunicato tanto all’Antolini che al Voghera (AMANP, Scavi di Velleia, 3, no-ta del Casapini del giugno 1823).

92 AMANP, Scavi di Velleia, 3, Lettera al Casapini del 1 ottobre 1819: «Ella potrà verifi-care se la mia scoperta di una della Tavole Giudiziarie sia o non sia riconosciuta nella pietra

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settecentesche, favorita dalla gelosia con cui venivano custodite le mappedi Veleia, lo trasse talvolta in inganno, facendogli credere frutto di nuovescoperte l’individuazione di ambienti o strutture architettoniche in realtàgià rilevate fin dai primi scavatori: nel maggio del 1822 il Voghera tornerànuovamente a Veleia per fare gli ultimi accertamenti prima della stampadefinitiva dell’opera e per fare «qualche piccolo scavo, ma superficiale,per la necessità di conoscere la superficie dei muri che non sono stati elle-vati dal suolo», e in quell’occasione si convinse di avere scoperto, in unodegli ambienti sul lato occidentale del foro, i resti di una scalinata di ac-cesso al piano superiore, che tuttavia troviamo già disegnata nella mappadegli scavi del 176093, così come già noto era il piccolo vano nell’angolonord-occidentale della piazza, che il Voghera presentò come un «luogoscoperto per la prima volta nell’ultimo sgombro del mese di maggio 1822,nel quale venne osservato un piano più basso, ed un canale che veniva co-perto da lastre di marmo forse servibile a qualche sterquilineo», ma che inrealtà figura, compreso il canale sottostante, nella mappa del 1760-176294.Sempre nel 1822 il Voghera eseguì un saggio di scavo nell’area del cosid-detto anfiteatro, a suo giudizio una delle aree più promettenti per futurescoperte, e dichiarò di avere individuato le soglie degli ingressi laterali sul-l’asse principale del monumento (mai più vedute in seguito), oltre ad unaporzione del meniano esterno, descritto come «di grosse pietre irregolarilegate in malta di terra e pietre riquadrate, nei fili esterni legate incalce»95, che già l’Antolini credeva di avere scoperto nel 1818, ma chequasi certamente era un rifacimento moderno di un antico muro ad anda-

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che formava la bardella alla chiesa vecchia di Macinesso sì per essere corrispondente allaprecisa dimensione, che per la qualità del cui marmo sono anche i suppedanei alla Tavolaverso la Sala di bardilio nel Foro med.mo come pure un pezzo di tronco di colonna di rossodi Verona simile al segmento che si trova vicino alla casa del custode facente parte delle co-lonne nella loggia superiore del Foro: oltre a ciò l’aver riconosciuto un frammento di capitel-lo da pilastro dell’ordine dei quattro grandi compositi che ai quali riscontrati i piccoli fram-menti che esistevano nell’Arsenale ligneo, ho potuto accertarmi che essi formavano la deco-razione avanti la Basilica, e fra loro variati alternativamente con quelli delle aquile». La perti-nenza dei capitelli fogliati in travertino alla basilica, in alternanza con quelli figurati conaquile e festoni, pure in travertino e del tutto simili nelle proporzioni, è un’ipotesi sostenutaanche in studi più recenti (vedi Frova 1955 e Marini Calvani 2000, p. 547, n. 198).

93 Costa ms. 1246, tav. II.94 Costa ms. 1247, tav. II.95 Voghera, Spiegazione, tav. III: a proposito della scoperta delle soglie degli ingressi late-

rali, già il De Lama aggiunse di proprio pugno sul manoscritto la nota «mai più vedute»(AMANP, ms. 56).

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mento curvilineo, visto per la prima volta nell’ottobre del 1779 e forsepertinente ad una struttura di protezione del vicino edificio96.

Della progettata opera su Veleia del Voghera, scavalcata dalla pubblica-zione, tra il 1819 e il 1822, dei due volumi dell’Antolini, rimangono, oltre alManifesto, le tavole riproducenti le piante del foro, degli ambienti termalinel settore nord-occidentale dell’abitato e dell’ “anfiteatro”, delineate e co-lorate all’acquerello dallo stesso Voghera nel 1822 e corredate di una Spiega-zione, conservata ancora manoscritta nel Museo Archeologico di Parma97.Nell’Archivio Voghera di Verona si conservano, oltre a numerosi appunti,anche diversi disegni di antichità veleiati, quasi sicuramente preparatori perle tavole dell’opera e di recente attribuiti dalla Arrigoni Bertini (che ne pub-blica alcuni)98 allo stesso Voghera e in parte al parmigiano Stanislao Campa-na: non mancano le statue marmoree della basilica, tra cui il giovane Nero-ne, la testa bronzea ritenuta di Baebia Basilla, quella del cosiddetto Adria-no, il mosaico con supposta scena dell’Elettra di Sofocle (all’epoca, comevedremo, creduta di provenienza veleiate), quello con maschera teatrale,numerosi bronzetti (il Voghera teneva in particolar modo a «quel che pareAlessandro» e a pochi altri pezzi figurati)99 e vari oggetti di instrumentum

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96 Lo stesso Antolini, nel 1819, lo dichiarò «parte di prima fabbricazione e parte di nuo-va» e nel 1822 il Casapini, considerati le deplorevoli condizioni del monumento, gravementedanneggiato dagli agenti atmosferici e soprattutto dai continui movimenti franosi del terre-no, decise di «farli ricostruire i muri» (vedi Antolini Veleia, I, p. 20 e II p. 22; AMANP, Di-segni e Stampe, n. 204 e Marini Calvani 1973, pp. 223-25 e 229). Tra il giugno e il luglio del1818 l’Antolini aveva eseguito alcuni saggi di scavo nell’area del supposto anfiteatro, alloscopo di individuare le soglie dei due accessi affrontati: oltre alle soglie «di arenaria selciosagiallognola di grana fina e compatta», trovò anche i resti di un condotto idrico, «diretto alcentro dell’Anf[iteat]ro dove pare che dolcemente si pieghi all’est verso la nicchia quadrata»(per questi appunti di scavo vedi il § 4.1 di questo capitolo). Per una discussione dello statodelle rovine del supposto anfiteatro all’epoca dell’Antolini, vedi ora Lanza 2003, pp. 83-85.

97 AMANP, Disegni e Stampe, nn. 206-207 e ms. 56, Spiegazione della mappa eseguita dalProf. Voghera; vedi anche Maria Luigia Donna e Sovrana, p. 120, n. 587 (scheda di C. Tara-sconi).

98 Arrigoni Bertini 2003, in part. pp. 448-52 e figg. 2-4.99 Nell’aprile del 1819 Giovanni Voghera scriveva infatti a Michele Lopez: «supplico, per

parte di Luigi, che ti prega di dire al Campana di disegnare tutti quei bustini di bronzo nellescansie, cioè i più belli, la Diana, quel che pare Alessandro, quell’altro vecchio barbato mol-to coroso, quella Pallade» (AMANP, Carteggio Lopez, Lettere di Privati, lettera di GiovanniVoghera del15 aprile 1819). Doveva essere inserito nella pubblicazione anche il celebrebronzetto dell’Eracle bibax, come si ricava da un’altra lettera di Giovanni Voghera al Lopez(ibidem, lettera del 6 gennaio 1821). Terminati e pronti per la pubblicazione erano ad esem-pio i disegni, attribuibili al Campana, della testa femminile di sacerdotessa isiaca, di una ap-plique con sileno, del piede di mobile con figura di guerriero, oltre ai disegni di alcuni pezzi

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domesticum100. Dal Manifesto sappiamo che erano infatti previste almenoventotto tavole illustrative, compresa una veduta generale di Veleia, che ilVoghera affidò proprio al Campana, uno degli accademici più versati nel ri-lievo antico e in grado di garantire, a giudizio del De Lama, una corretta ri-produzione dei monumenti veleiati («i disegni di lui non saranno infedelicome quelli che si sono fatti per il povero Antolini» scriverà infatti il nostroarcheologo al collega cremonese nel maggio del 1819)101.

L’attendibilità dell’apparato iconografico doveva essere uno dei punti diforza dell’intera opera, pensata dal Voghera come uno studio ricostruttivo in-teramente basato sulla rilevazione dei ruderi superstiti e corredato dall’inte-ressante confronto con «altri fori e fabbriche attinenti che sono finora state ri-conosciute». La necessità di un continuo aggiornamento sulle scoperte ar-cheologiche, soprattutto di quelle relative a monumenti di carattere pubblico,utili alla comprensione dei corrispettivi veleiati, spinse il Voghera a documen-tarsi di persona delle ultime novità in questo campo: al principio del 1819,probabilmente in coincidenza con le indagini intorno al supposto anfiteatroveleiate, pensò, ad esempio, di recarsi a Verona «per rilevare gli scavi che han-no fatto nell’Arena»102 e nel 1822 giunse persino a trasferirsi per alcuni mesi aRoma, di certo per completare lo studio sui restauri del Colosseo, che inten-deva inserire nell’opera sul Foro Italico103. L’ultimo soggiorno a Veleia, nel1822, gli servì poi per «rettificare sul luogo i disegni già presi negli anni addie-tro, e le sue meditazioni architettoniche sulle Ruine Velejati, per darle al pub-blico meno poeticamente di quello abbia fatto il bravo prof. Antolini»104.

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marmorei, tra cui una delle erme dionisiache rinvenute nelle prime campagne di scavo, unastatuetta femminile con chitone, e un avambraccio mutilo, forse pertinente ad una delle sta-tue della Basilica: tutti questi disegni (su fogli di cm 22,5 x 30) si conservano nell’Archivioprivato Voghera.

100 Per una descrizione dettagliata dei disegni relativi a Veleia conservati nell’Archivioprivato Voghera, vedi Arrigoni Bertini 2003, pp. 448-52.

101 De Lama ms. 20, lettera del 4 maggio 1819. Alla fine di aprile del 1822 Giovanni Vo-ghera scriveva a Michele Lopez: «dirai [...] al Campana che pel disegno della statua imperia-le la disegni pure sulla dimensione non più di sei pollici, pregandolo di dettagliarla bene, ilche non ne dubito»; nella stessa lettera lo informava che la veduta di Veleia e le altre tavoledell’opera erano ormai in fase di stampa (AMANP, Scavi di Velleia, 3, lettera del 30 aprile1822). Sul Campana, amico e collaboratore del giovane Michele Lopez, vedi Arrigoni Bertini2003, p. 451, nota 80.

102 Vedi AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera di Giovanni Voghera del1 febbraio 1819.

103 Del lungo soggiorno romano del Voghera, nel 1822, siamo informati anche da una let-tera di Ferdinando Boudard al De Lama, del 12 gennaio 1823 (Monaco 1953a, p. 238).

104 ASP, Presidenza dell’Interno, b. 203, lettera del De Lama del 9 maggio 1822.

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S. Campana (?), testa bronzea di fanciulla da Veleia, disegnoa matita (cm 22,5 x 30), 1820 c., Verona, Archivio privatoVoghera.

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S. Campana (?), piede di mobile con figura di guerriero, di-segno a matita (cm 22,5 x 30), 1820 c., Verona, Archivio pri-vato Voghera.

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Tra il 1819 e il 1822, battendo sul tempo le previste pubblicazioni del Vo-ghera e del De Lama, erano infatti usciti i due volumi de Le rovine di Veleiadi Giovanni Antonio Antolini, di fatto la prima edizione a stampa degli scavi(ad eccezione della Mémoire del Paciaudi) e l’ultima grande impresa edito-riale dell’ormai anziano architetto. Fin dal 1819 l’Antolini aveva tentato, in-vano, di unirsi al Voghera nella pubblicazione delle antichità veleiati e lostesso aveva fatto con il De Lama, sperando di affiancare le proprie ricerchearchitettoniche allo studio più strettamente archeologico ed epigrafico che ilcollega parmigiano stava da tempo preparando. La pubblicazione del Mani-festo sul Foro Italico aveva spinto ad accelerare il completamento dei tanti la-vori allora in corso su Veleia e reso la competizione tra gli studiosi ancora piùaspra e serrata: «ora qui gli Antolinisti e i Vogheristi sono già in discordia:solamente convengono nel lagnarsi della mia facilità nel comunicare a tutti idocumenti, e nel lasciar osservare e disegnare i monumenti estratti da quegliscavi» confiderà infatti il De Lama all’amico Angelelli nel febbraio del 1819,e se giudicò «troppo vasto» il progetto del Voghera, quello dell’Antolini gliparve «poco calcolato» e, come tale, del tutto inattendibile105.

Il nome dell’Antolini era allora, come oggi, inscindibilmente legato allasfortunata progettazione del Foro Bonaparte di Milano, un’impresa che ap-passionò il suo ideatore per le implicite valenze di carattere ideologico e po-litico dell’intero piano urbanistico, pensato come uno dei poli emblematicidel nuovo governo repubblicano e che proprio nelle geometrie essenziali eaustere, nei grandi e nitidi volumi, nel gusto sobrio dell’ornato, eredità dellungo studio delle architetture antiche, trovava i suoi principali punti di for-za. Tra le esperienze professionali dell’Antolini non erano infatti mancati inecessari approfondimenti nel campo dell’architettura classica, iniziati al-l’epoca dell’alunnato romano e che negli anni Ottanta del Settecento lo vi-dero impegnato in uno studio sull’ordine dorico, basato sull’esame dei ru-deri del cosiddetto Tempio di Ercole a Cori, mentre nel 1803 la curiosità diindagare le possibili varianti dell’ordine corinzio lo spinsero ad affrontareun saggio di ricostruzione del celebre Tempio di Minerva ad Assisi106.

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105 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 13 febbraio 1819 (citata anche in ArrigoniBertini 2003, nota 40).

106 Nel 1785 l’Antolini aveva infatti dato alle stampe, a Roma, L’ordine dorico ossia il tem-pio d’Ercole nella città di Cori, uno studio che, riprendendo l’esame del tempio condotto so-lo l’anno prima dal Winckelmann, si proponeva di formulare un nuovo linguaggio architet-tonico ad uso dei moderni edifici di ispirazione classica; con l’opera Il Tempio di Minerva inAssisi, pubblicata a Milano nel 1803, l’Antolini propose una ricostruzione del tempio anticopiù attenta ai partiti decorativi dell’ordine corinzio che agli elementi strutturali dell’edificioantico. Sull’opera dell’Antolini vedi ora Marziliano 2000 e Miranda 2001, pp. 289-91.

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Ma a dispetto della sua lunga frequentazione con i monumenti antichi,non sembra che l’architetto avesse acquisito particolare credito come esper-to in materia, tanto che il grecista Massimiliano Angelelli, di fronte alla pub-blicazione del Manifesto dell’Antolini sulle antichità veleiati, si precipitò ascrivere all’amico De Lama: «ho veduto un Manifesto di Antolini per la de-scrizione di Veleia. Ha Ella parte in quest’opera, o no? Se non l’ha comemai Antolini è diventato antiquario?»107.

Fin dall’uscita del primo volume l’opera dell’Antolini venne accolta conuna certa diffidenza e non tardarono a farsi sentire le critiche, forse un po’pignole ma sempre puntuali e motivate, da parte di chi stava da tempo in-terrogando le rovine dell’antica città. Scrivendo all’autore per complimen-tarsi della «bell’opera ... la quale non lascia da desiderare agli studiosi ar-cheologi che l’arrivo della seconda parte», il De Lama non tentò neppure dinascondere il proprio disappunto per le numerose inesattezze dell’apparatoillustrativo: «è da dolere solamente che Ella sia stata così male servita ne’ di-segni, singolarmente delle statue, le quali sebbene non possono servire néall’illustrazione della storia, né all’istruzione de’ disegnatori, pure dovevanoessere rappresentate come sono, per attestare almeno l’epoca in cui sono dacredersi sculte, né dovevano trascurarsi alcuni segni, come la bulla nel pettodel giovane Cajo, che lo caratterizza di famiglia patrizia, come era di fatti.Ma così va quando gli scrittori sono lontani dall’oggetto di cui trattano, e sifidano a non esperti amici ed artisti»108, e non da meno furono le critichedel Voghera, che in una lettera al De Lama elencò un numero interminabiledi piccoli e grandi errori rilevati nelle tavole dell’opera. L’architetto cremo-nese accusava il collega di avere rappresentato in modo inesatto la piantadegli edifici nella carta generale degli scavi (corrispondente alla tav. IV delprimo volume), con particolare riferimento alle architetture del foro, daimuri disegnati «fuori misura» e dove una delle tavole marmoree si sarebbetrovata «a cavallo di una colonna, così che le colonne consecutive sono fuoridi luogo»; molte inesattezze avrebbero persino riguardato gli elementi ar-chitettonici, come il capitello corinzio, rappresentato «ingigantito», o i capi-telli ionici, disegnati con volute a tre spirali invece delle due e mezzo reali.Un appunto più sostanziale riguardava, poi, la presunta datazione delle sta-tue marmoree della basilica, che l’Antolini, in base al celebre brano di Pli-nio sull’inizio dello sfruttamento delle cave lunensi (N.H. XXXVI, 5), giudi-cava almeno di età traianea, una datazione troppo avanzata, che non convin-

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107 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera dell’Angelelli del 6 settembre1818.

108 De Lama ms. 20, lettera all’Antolini del 30 aprile 1819.

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G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, I (1819), tav. IX, parti-colare. Statua del cd. Nerone fanciullo.

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se il collega cremonese, sempre più deciso a rendere pubblici i risultati delleproprie indagini e «far risorgere Velleja più antica di quello che ha fatto ilprelodato sig. Antolini»109.

La prima parte dell’opera, come è noto, è dedicata alla descrizione dellerovine architettoniche veleiati, nello stato in cui allora si trovavano, mentreper la seconda parte l’Antolini volle dare sfoggio della sua lunga esperienzadi archeologo dilettante e, forte di alcuni approfonditi sopralluoghi e qual-che breve saggio di scavo sui ruderi veleiati, mise a punto una serie di diecitavole con le ricostruzioni ipotetiche dei principali edifici dell’antica città,compresa una sezione generale dei monumenti fino ad allora rinvenuti110.Ben lontane dall’essere il risultato di un attento esame delle rovine e di unafedele ricomposizione degli elementi superstiti, le ricostruzioni propostedall’Antolini tradiscono l’operato di chi ha più dimestichezza con le bellearchitetture di gusto neoclassico, libere e artistiche interpretazioni dei mo-delli antichi, e assai poco interesse per una pignola e metodica ricomposi-zione dei dati archeologici, soprattutto se questi diventavano un ostacolo aduna ipotesi ricostruttiva di sicuro effetto architettonico.

«Si vide anche la seconda parte dell’opera del sig. Antolini, e si conobbe-ro tali omissioni, che bilanciate coll’aggiunte formano un certo qual conflit-to da non potersi esprimere per que’ monumenti, che con qualche rincresci-mento» commentava Giovanni Voghera nell’aprile del 1822: per chi, comelui, aveva esperienza delle rovine veleiati, il volume dell’Antolini peccava ditroppa fantasia («hanno pur ragione que’ tali che in detta opera vi scorgonodei sogni!»), molti oggetti erano finiti «fuori di luogo» e non erano neppurerispettate le giuste misurazioni degli elementi architettonici, così che la rico-struzione delle colonne dei porticati del foro e soprattutto di quelle dell’edi-ficio al centro del lato Nord, ritenuto anche dall’Antolini un tempio, era deltutto sproporzionata alle reali dimensioni delle basi ancora esistenti; moltocriticata era anche l’ipotesi ricostruttiva della basilica, con i due ordini dicolonne «uno che nasce sul suolo della basilica, ed uno sul basamento late-rali, binati, sotto di una stessa trabeazione, la quale come una berretta dimaglia la ha fatta buona per ambedue»111. Il restauro della basilica pubbli-

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109 Vedi AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera del Voghera del 27 mag-gio 1819; per la datazione delle statue all’età traianea, vedi Antolini Veleia, I, p. 17, nota 1.Per i giudizi negativi espressi dal De Lama e dal Voghera sull’opera dell’Antolini, vedi ancheArrigoni Bertini 2003, pp. 446-47.

110 Vedi Marziliano 2000, pp. 170-72. Stralci dei capitoli IV e VI del primo volume del-l’opera sono riportati in Passeggiate piacentine, pp. 151-63.

111 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera di Giovanni Voghera a Mi-chele Lopez del 30 aprile 1822.

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cato dall’Antolini, e soprattutto l’idea dei due basamenti affrontati lungo ilati nord e sud dell’edificio e destinati ad ospitare, tra gli intercolumni, lecelebri statue marmoree, non convinse neppure il De Lama, che di certo ri-cordava quanto annotato nelle piante di scavo settecentesche a propositodel rinvenimento, sul solo lato meridionale, di tutte e dodici le statue; al-l’epoca impegnato a completare la Guida del Forestiere al nuovo Museo diAntichità, il direttore volle mettere in guardia i visitatori aggiungendo, nellatrattazione del ciclo statuario, questa nota: «la Basilica era nella parte piùelevata del Foro: in questa lungo il muro che guarda il monte rinvennersitutte le statue sopra una linea, confuse colle loro dediche. È dunque credi-bile che fossero collocate ben diversamente da quello che immagina il Pro-fessore Antolini nella sua opera». La disinvoltura con cui l’Antolini avevafatto uso, nelle sue ipotetiche ricostruzioni, dei pochi elementi architettonicisuperstiti, lo spinse un po’ troppo oltre nell’analisi del cosiddetto tempio.La posizione centrale dell’edificio tetrastilo sul lato settentrionale del forogli era sembrata quella più adatta per il principale edificio di culto della cit-tà e l’esistenza, a Veleia, di alcuni capitelli figurati, tra cui uno ben conserva-to con aquile e festoni, era stata sufficiente per fargli immaginare un tempiodedicato a Giove, ma ancora una volta il De Lama intervenne a porre unfreno alle sue fantasie, facendo appello ai reali dati di scavo dei capitelli, chene indicavano la provenienza dalla terrazza superiore al foro: «ignorando illuogo preciso ove essi si rinvennero, [l’Antolini] è d’avviso che avessero ser-vito ad ornamento del tempio di Giove che suppone essere stato nella parteinferiore del Foro. Perché ciò fosse credibile converrebbe che nella cadutadi Veleia cagionata dalla frana, questi non lievi capitelli fossero saliti in alto,anzi che precipitati al basso, secondo la legge de’ gravi»112, e lo stesso avreb-bero fatto anche i capitelli di lesena decorati con delfini affrontati, rinvenutinon lontano dalla basilica e che l’Antolini immaginò a decorazione dell’in-gresso della grande sala a oriente del “tempio”, da lui arbitrariamente inter-pretata come “curia”.

Pur consapevole delle difficoltà oggettive affrontate dall’architetto neltentativo di ridare forma e ornamento alle rovine veleiati («se avesse potutovisitare quelle ruine cinquanta anni fa, non si sarebbe sicuramente trovatonel caso di abbandonarsi a delle congetture, come deve fare pel guasto som-mo, e lo scompiglio di quanto colà è rimasto»)113, il De Lama non riusciva aperdonare le troppe inesattezze, le omissioni, le tante libertà artistiche, che

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112 De Lama 1824a, p. 118, nota 2. Per la ricostruzione del cosiddetto Tempio di Giove edella vicina Curia, vedi Antolini Veleia, II, pp. 8-9.

113 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 6 marzo 1818.

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agli occhi di un archeologo si traducevano in irriverente trascuratezza delletracce supersiti di un antico passato. E poi c’erano altri motivi, assai menonobili, per prendere di mira l’operato dell’Antolini: abbiamo visto che giàdalle sue prime ricerche l’architetto aveva tentato di affiancare alle propriele competenze archeologiche del De Lama e dare alle stampe «un’operacompleta ed unica come si conviene, trattando per diverse vie un solo edistesso soggetto»114, operazione che mal si accordava con i progetti editorialidel De Lama, da lungo tempo alle prese con uno studio di carattere storicoe archeologico dell’antica Veleia e che proprio allora stava per consegnareall’editore. Fin dal settembre del 1817 l’Antolini si era recato a Parma perconsultare la pianta di Veleia e la documentazione di scavo, e in quell’occa-sione il De Lama si era offerto di procuragli come disegnatore il giovane ar-chitetto Giuseppe Tebaldi, uno dei migliori alunni dell’accademia parmen-se, che infatti eseguì per l’Antolini alcuni rilievi delle rovine e la pianta ge-nerale degli scavi; l’anno seguente l’Antolini progettò un’escursione a Veleiain compagnia del Tebaldi e dell’amico Mainoni, direttore della fabbrica ditabacchi di Milano e «celebre raccoglitore di cose antiche»115, con l’evidentescopo di coinvolgere l’archeologo parmigiano nelle proprie indagini e avva-lersi della sua presenza a garanzia dell’attendibilità dei rilievi architettonici ealle osservazioni fatte sul campo.

Traccia delle esplorazioni condotte nel corso della primavera e dell’estatedel 1818 rimane nel Taccuino di viaggio relativo alla pubblicazione sulle rovi-ne di Veleia (vedi il § 4.1 di questo capitolo), compilato dall’Antolini comepro-memoria delle «osservazioni da farsi in Veleja», vero e proprio elencodei dubbi e dei quesiti sorti dalle prime osservazioni delle rovine, e solo inparte risolti grazie alle informazioni che era riuscito nel frattempo ad otte-nere o ai dati dei brevi saggi di scavo, come quello condotto nell’area delsupposto anfiteatro116.

L’improvvisa incursione dell’anziano architetto nel terreno di studi vele-iati rischiava di compromettere il successo e la novità delle indagini condot-te dal De Lama, cui non rimase che lagnarsi con gli amici più fidati:

è qui Antolini professore d’architettura, a cui nello scorso anno diedi quantilumi mi richiese, e i disegni di tutto ciò che poteva facilitargli l’opera a cui siaccingeva; di scoprire cioè quali fossero gli ordini impiegati negli edifici vel-

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114 De Lama ms. 383, lettera dell’Antolini al De Lama del 15 ottobre 1817.115 Vedi De Lama ms. 383, lettera dell’Antolini al De Lama del 21 marzo 1818.116 Gli appunti del Taccuino dell’Antolini, conservato manoscritto presso la Biblioteca

Comunale di Forlì, sono in parte ritrascritti nel paragrafo 4.1 di questo capitolo. Del Taccui-no parla anche Marziliano 2000, pp. 170-71 e p. 174, fig. 41.

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lejati. Ora però non limitandosi entro que’ confini stabiliti cerca di mettermano nella mia messe [...] perciò mi preme di poter metter mano alla pub-blicazione di quelle mie Notizie preliminari intorno a Velleja e delle spiega-zione de’ marmi

scrisse infatti all’Angelelli, l’illustre grecista che proprio allora stava rivedendole bozze dell’opera sulle iscrizioni marmoree del Museo di Parma, uno deicontributi che il De Lama aveva in cantiere su Veleia117. La pubblicazione del-le Iscrizioni antiche collocate ne’ muri della Scala Farnese, prevista fin dall’esta-te del 1818, «per un giro viziosetto» dello stampatore venne posticipata diquasi un anno e, tra le cause di questo ritardo, non è da escludere un’inter-vento dell’Antolini, che solo nel 1819 ebbe pronto il materiale per il primovolume della sua opera118. Sulle modalità e le precedenze di pubblicazione delvasto e ancora inedito materiale veleiate, si accese ben presto tra i due studiosiuna vera e propria polemica, condotta a suon di querele e lettere di protesta,che finì per inasprire i rapporti tra il De Lama e i rappresentanti dell’Accade-mia di Belle Arti di Parma, già gravemente compromessi (come vedremo) dal-l’annosa questione del possesso delle statue veleiati e svelò le manovre del-l’Antolini, che proprio negli accademici parmigiani aveva trovato sostenitoriper la sua impresa, riuscendo così ad aggirare l’autorità del De Lama119.

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117 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 19 giugno 1818.118 Le Iscrizioni antiche del De Lama portano la data di pubblicazione del 1818, ma da al-

cune lettere dell’autore scritte tra il 1818 e il 1819, si ricava che l’opera, effettivamente con-segnata allo stampatore (il parmigiano Carmignani) fin dall’agosto del 1818, verrà in realtàpubblicata nella primavera del 1819: vedi De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 10 mag-gio 1819 («ho potuto dare una volta allo stampatore di rami i fogli su’ quali devono vedersile Iscrizioni. Per un giro viziosetto si è ritardata la pubblicazione di questo mio lavoro, chedoveva uscire nello scorso anno, e non si vedrà che entro il corrente mese. La Tavola Traiananon sarà così lenta, e porto lusinga che non spiacerà al pubblico») e AMANP, Carteggio DeLama, Lettere di Privati, lettera di Giovanni Voghera del 1 febbraio 1819 («io non vedo l’oradi vedere sortita la bella sua opera onde esserle in qualche modo utile») e lettere dell’Ange-lelli del 10 aprile e 13 luglio 1819.

119 Il De Lama negava di avere mai acconsentito a unire il suo lavoro a quello dell’Antoli-ni, essendo le proprie ricerche a uno stadio ormai troppo avanzato, e accusava il collega diavergli proposto una collaborazione all’unico scopo di sottrargli informazioni preziose sugliscavi veleiati. Nella polemica che contrappose il De Lama e l’Antolini venne coinvolto ancheil conte Filippo Linati, illustre erudito locale e benefattore del Museo di Antichità, cui il DeLama, a sua discolpa, inviò un memoriale completo di tutte le lettere inviategli dall’architet-to e delle relative risposte: vedi De Lama ms. 383, “Lettera all’ottimo sig. conte Filippo Li-nati nella quale si mette in chiaro un passo non troppo ben espresso dal sig. prof. Antolini”(vedi anche Arrigoni Bertini 2003, nota 33). Altre notizie si ricavano dal carteggio del DeLama con l’amico Angelelli (De Lama ms. 20 e AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Pri-vati). Nelle lettere il De Lama lamenta spesso la disponibilità con cui il direttore dell’Acca-

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4.1 Il Taccuino di viaggio dell’Antolini (1818)

Sono qui ritrascritte le note più interessanti del Taccuino di viaggio relativoalla pubblicazione sulle rovine di Veleia, compilato dall’Antolini nel 1818 econservato manoscritto nella Biblioteca Comunale di Forlì, Raccolte Pianca-stelli, Sezione Carte Romagna, 25/332.

(Le prime pagine presentano solo una numerazione moderna a matita.La numerazione originale ricomincia dal numero 10)

c. 12 (num mod.) Osservazioni da farsi a Veleja1) La posizione dell’ultimo fabbricato al di sotto della piazza verso Le-

vante2) Dove principia da ambo le parti il muraglione al di sopra e parallelo

alla piazza(c. 13: nella pianta è segnato giusto)3) Osservare la posizione reale del Casino, e casa del custode relativa-

mente agli altri oggetti che le circondano4) Misurare la così detta fabbrica della fontana fatta a croce, e suoi con-

dotti5) Misurare lo spaccato dei condotti, e considerar la loro rispettiva fab-

bricazione6) Osservare con attenzione i contorni dell’Anfiteatro[…]10) Esaminare e misurare il sito ov’erano poste le statue marmoree, ora

nel Museo Parmense11) Disegnare i capitelli corintii(c. 13: i capitelli sono troppo deformati, servirà quello dell’Accademia)[…]c. 14 (num. mod.)17) Misurare e disegnare i Monumenti che sono sulla piazza, e se gli

avanzi di quello di mezzo diano indizio di una qualche ara

c.10 (num. orig.)33) Cercare di sapere il luogo ove furono trovati i due Musaici dell’elet-

tra, e della figura a mezzo busto, di donna

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demia, il marchese Paolucci di Calboli, si offrì di far copiare all’Antolini la pianta settecente-sca degli scavi incisa da Pietro Martini, operazione a lui, invece, sempre negata: i rapportispesso conflittuali tra il De Lama, ex direttore dell’Accademia, e il Paolucci sono ricordatianche in Musiari 1986, in part. pp. 171-72.

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(c. 11 num. orig.: il musaico che trovasi in Parma nell’Accademia nellaSala delle Statue veleiati, rapp[resenta] una testa di donna velata fu tro-vato nella sala che noi oggi 30 giugno chiamiamo l’errario, più alta di pa-vimento all’Ovest della piazza, parallela al portico con basamento scorni-ciato, alla quale si salisce per alcuni gradini).[…]c. 47parte di un capitello corintio nell’Arsenale, del quale, a parte, vi sonoquasi tutti i pezzi per compirlo; è di tufo arenario-calcare bianco. (il fo-glio contiene il disegno del capitello e un elenco di numerosi frammentidi marmi, tegole, tessere musive in bianco e nero, intonaci colorati, con-servati nell’Arsenale di Veleia, tra cui anche «un busto mostruoso di de-bolissima arenaria», il probabile Marsia proveniente dal foro).[…]c. 54 Veleia 27 giugno 1818Per cercare la soglia della portina dell’anfiteatro verso il monte, prima ditutto si è fatto sperimento di quattro fori con un palo di ferro, per i qualisi ebbe segno di cosa stabile2° cominciato ad escavare ad un palmo di profondità circa si trovò verso

l’interno dell’anfiteatro, il ciglio della soglia per tutta la larghezza dellaporta

3° continuando ad escavare e disterrare si è trovato prima un pezzo di cop-po, poi alcuni tufi calcari, indi un bel mattone intiero grosso onc. rom. 3che stava spianato sulla soglia come nella sotto fig.a M (fig. a p. 138)

4° Solevando questo e continuando a disterrare si è del tutto scoperta lasoglia in quattro pezzi, come alle figure

La soglia è grossa un palmo romano, ed è di arenaria selciosa giallognoladi grana fina e compatta.[…]c. 59 1 luglio 1818Col processo simile a quello del 27 giugno pp. si è scoperta la soglia dellaportina dell’Anfiteatro che rimane incontro a quella verso il monte; e sot-to di essa un condotto; e fatta livellazione si è trovato, che questa d’oggirispetto a quella del dì 27 è più bassa palmi rom. 6.10.Il condotto sudetto per la lunghezza di p.mi 11 circa è diretto al centrodell’Anf[iteat]ro dove pare che dolcemente si pieghi all’est verso la nic-chia quadrata.Vicino alla porta dalla parte di est vi sbocca il condotto che gira nell’in-terno lungo il quarto dell’Elissi fra l’ingresso grande e questo piccolo. Ilmuramento del condotto è fatto di sassi nelle sponde, e coperto con tuficalcari. Vedi la seguente figura (fig. a p. 139)

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G.A. Antolini, disegno della soglia del cd. “anfiteatro” di Veleia, 1818. Forlì, BibliotecaComunale, Raccolte Piancastelli, Sezione Carte Romagna, 25/332, c. 54.

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G.A. Antolini, rilievo di un saggio di scavo fatto nel cd. “anfiteatro” di Veleia, 1818. Forlì,Biblioteca Comunale, Raccolte Piancastelli, Sezione Carte Romagna, 25/332, c. 59.

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Seguono alcuni appunti presi a Parma il 17 giugno 1818 dal manoscrittodel Bertioli, Antichità Veleiati, e altri appunti presi dai manoscritti veleiatidel Costa.

5. Pietro De Lama e le antichità veleiati

Nelle Notizie preliminari alle sue Iscrizioni antiche il De Lama riuscì ad inse-rire molte inedite considerazioni sugli scavi e sugli edifici di Veleia, recupe-rando in gran parte il resoconto redatto all’indomani del sopralluogo fattonel 1816 in compagnia del Basiletti, e arricchì notevolmente le brevi consi-derazioni del Paciaudi sui culti dell’antica città, dando per la prima volta al-le stampe alcune iscrizioni bronzee e marmoree di presunta o accertata pro-venienza veleiate con dediche a Minerva Medica, a Minerva Memore, forsea Cibele, a Bacco o che documentavano l’introduzione di alcuni culti orien-tali, come quello di Iside, divinità ricordata anche nella piccola lamina dibronzo dedicata da Ostil[...] Vibia Calidia, sottoposta nel 1790 all’interpre-tazione epigrafica dell’Asquini120.

La lezione del Caylus o, più probabilmente, la nuova sensibilità verso ilmateriale archeologico “comune”, che si andava timidamente affermando tragli studiosi del mondo antico, convinse il De Lama della necessità di appro-fondire l’esame dei tanti vetri recuperati negli scavi veleiati, inclusi ben presto,come vedremo, tra le curiosità del museo parmense e uguale attenzione saràdedicata, nell’Appendice della sua Tavola legislativa della Gallia Cisalpina, ainumerosi frammenti ceramici o laterizi di uguale provenienza, già in parte se-lezionati all’epoca del Paciaudi, a documentazione dell’esistenza, a Veleia, diuna importante «officina figulare»: nel pubblicare i frammenti di lucerne, an-fore, tegole, mattoni del Museo di Parma il De Lama intendeva seguire le or-me di Gaetano Marini, che negli ultimi anni della sua vita, aveva preso ad esa-minare, con l’interesse di un epigrafista, proprio le «figuline sigillate», uncampo di indagine ancora piuttosto inesplorato e sul quale aveva in menteuno studio specifico, che purtoppo non fece in tempo a pubblicare121.

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120 Vedi De Lama 1818, pp. 34-38: per l’iscrizione esaminata dall’Asquini, vedi CIL XI,1160.

121 Delle inedite Osservazioni che il Marini stava preparando sulle «figuline sigillate» parlalo stesso De Lama, rammaricandosi che il suo autore non abbia fatto in tempo a completarle(De Lama 1820, Appendice). L’attività produttiva di ceramiche e laterizi a Veleia era stata se-gnalata dal Paciaudi nella sua Mémoire del 1765 (AMANP, ms. 56 e Paciaudi Mémoire, I, p.359). Un rinnovato interesse per i numerosi frammenti di vetro veleiati è documentato dallepubblicazioni stesse del De Lama (De Lama 1818, pp. 28-29 e De Lama 1820, Appendice) e

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Ma le notizie sulle antichità veleiati edite dal De Lama tra il 1818 e il1820, a margine dei due poderosi studi sulle tavole bronzee e di quello sulleepigrafi marmoree murate sullo Scalone Farnese, non intendevano di certoesaurire le sue conoscenze sulla città antica e i suoi scavi, ma semplicementefornire un’anticipazione dell’opera che da tempo l’archeologo andava prepa-rando. Prima di ogni altra cosa il De Lama sentiva la necessità di una nuovacarta topografica dell’area fino ad allora scavata, in sostituzione di quelle or-mai troppo datate e parziali delineate nella seconda metà del Settecento:

sarà cosa utilissima se potrà una volta delinearsi una pianta di Velleja, e secon questo presidio, e con l’aiuto degli scavi potrà dirsi qualche cosa di piùdi questa città appena nota agli eruditi

lo aveva incoraggiato l’amico Angelelli122 e fin dalla primavera del 1816 ilDe Lama si mise all’opera per completare la nuova carta, che, aggiornatadelle ultime scoperte, avrebbe agevolato il lavoro di ricostruzione degli edi-fici e fornito maggiori suggerimenti per la continuazione degli scavi. Il DeLama intendeva poi valersi delle ultime novità in campo archeologico perdiscutere la forma e la funzione dei principali edifici veleiati e come già il te-pidarium di Pompei lo aveva aiutato a riconoscere l’impianto di una “ba-gno” trovato a Veleia, così la recentissima scoperta della Basilica di Pom-pei123, gli fornirà un importante punto di appoggio per stabilire la destina-zione dei due ambienti posti ai lati dell’aula centrale della basilica di Veleia,ed in particolare di quello orientale, in cui il De Lama riconoscerà i resti deltribunal:

la scoperta della Basilica di Pompej dileguerà li dubbi, che tuttora rimaneva-no sull’integrità della figura, e sulla distribuzione delle parti di questa sortedi edificj. Se tale scoprimento fosse avvenuto negli anni addietro avrei potu-

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dalla cura espositiva riservata a questa classe di reperti all’interno del museo parmense (vedi il§ 6 di questo capitolo). Anche Luigi Voghera aveva probabilmente intenzione di inserire nellasua pubblicazione su Veleia i dati relativi alle figuline sigillate conservate nel Museo di Parma:«si desidera sapere se sieno sortite alla luce le marche che sono nelle figuline del vostro mu-seo», scriveva infatti il fratello Giovanni a Michele Lopez nel gennaio del 1821 (AMANP,Carteggio Lopez, Lettere di Privati, lettera di Giovanni Voghera del 6 gennaio 1821).

122 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera dell’Angelelli del 27 ottobre1816. Scrivendo al Ministro dell’Interno nel giugno del 1816 il De Lama farà espresso riferi-mento ad almeno due tavole «che non ho ancora ridotte a termine della pianta di Veleia peraltra opera mia» (ASP, Atti del Governo Provvisorio e Reggenza di Maria Luigia. Ministerodei Ducati, I divisione. Amministrazione pubblica, b. 4, lettera del 13 giugno 1816). Vedi an-che Arrigoni Bertini 2003, nota 29.

123 Lo scavo della basilica di Pompei fu incominciato intorno al 1806 e quindi ripreso ecompletato tra il 1813 e il 1816 (Pompei. Pitture e Mosaici, vol. VIII, Roma 1998, pp. 1-2).

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to ritornare su quelle belle ruine, e farmene testimonio oculare: ma altri tem-pi sono ora per me, e bastar dovrammi il vederne la Descrizione, la quale èda desiderarsi che non abbia per estensore un Bajardi124.

Sappiamo poi che il De Lama intendeva far seguire all’esame dei marmiveleiati (di certo comprendenti, oltre alle numerose iscrizioni, anche le do-dici statue del ciclo imperiale) quello dei tanti bronzi, anche figurati, prove-nienti dagli scavi125, ma la stampa del primo volume dell’Antolini e la con-vinzione che di lì a poco sarebbe apparso anche il lavoro del Voghera dovet-tero frenare le sue ambizioni editoriali. Le considerazioni sulle dodici statuemarmoree trovarono per fortuna posto nella guida del Museo di Antichità,completata dal De Lama nel 1821, e andranno ad arricchire l’archeologiaveleiate di una articolata analisi interpretativa e stilistica delle sculture, maitentata fino ad allora e destinata a rimanere a lungo il punto di riferimentoper le successive (e talvolta anche molto discordanti) analisi del ciclo statua-rio126; non fu invece mai completato (o forse neppure avviato) lo studio suibronzi figurati e persino la tanto attesa mappa degli scavi venne probabil-mente abbandonata: nell’Archivio del Museo Archeologico di Parma si con-servano diverse mappe antiche di Veleia, ma nessuna è attribuibile con sicu-rezza all’opera rimasta incompiuta del De Lama. Realizzata probabilmenteall’epoca del De Lama è una pianta parziale del foro (limitata ai soli lati me-ridionale e orientale), eseguita a china da un ignoto disegnatore e quasi cer-tamente da affiancare (almeno a giudicare dal tratto disegnativo, dalla grafiadelle didascalie e dal tipo di supporto cartaceo) a due altre tavole dedicate

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124 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del settembre 1816. Il De Lama era stato infor-mato della scoperta della basilica pompeiana dal padre Tadini, che gli aveva anche annuncia-to l’imminente pubblicazione di una descrizione del monumento ad opera del Romanelli, giàautore di una celebre descrizione di Pompei, nota anche al De Lama, che pur giudicandola«molto erudita» l’aveva trovata piuttosto inesatta riguardo ad alcuni monumenti che l’ar-cheologo ricordava di avere visto durante il suo viaggio di formazione (De Lama ms. 20, let-tera all’Angelelli del 15 ottobre 1816). Sull’identificazione del tribunal veleiate, vedi De La-ma 1818, pp. 43-44.

125 Vedi De Lama 1818, nota introduttiva e AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Pri-vati, lettera all’Angelelli del 13 luglio 1819.

126 La Guida del Forestiere al Ducale Museo di Antichità di Parma, redatta dal De Lamanel 1821, venne data alle stampe solo nel 1824. Per l’analisi delle statue marmoree della basi-lica, in cui l’autore riconosceva i ritratti di Livia, Germanico, Agrippina Maggiore, Caligolagiovane, Drusilla e di una ipotetica Agrippina Minore, oltre a quelli di sei decurioni (tra cuiincludeva anche il console L. Calpurnio Pisone), vedi De Lama 1824a, pp. 129- 38. Le ipote-si interpretative avanzate dal De Lama, e in sostanza accettate fino all’epoca del Pigorini,vengono discusse in Saletti 1968.

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alla ricostruzione, in pianta e in alzato, della basilica e ad alcuni studi archi-tettonici delle principali tipologie di capitelli documentati a Veleia, a forma-re un complesso figurativo omogeneo e coerente, finalizzato con tutta pro-babilità ad una pubblicazione, a carattere architettonico, dei più significativiedifici veleiati. Gli studi dei tre capitelli sono più accurati e fedeli di quelliproposti dall’Antolini e ben diversa è l’ipotesi ricostruttiva proposta per labasilica: al centro della facciata, con una sensibile libertà rispetto ai dati discavo, l’Antolini aveva immaginato una fontana monumentale a due vasche,al di sopra delle quali sarebbero state appese le celebri tavole bronzee, men-tre alle estremità dell’intera struttura aveva collocato due piedistalli con leiscrizioni in onore di Furia Sabina Tranquillina e dell’imperatore Aurelia-no127, sormontati da statue marmoree; l’anonimo disegnatore della piantaparmense si limita invece ad ipotizzare una semplice facciata scandita, al disopra di un alto zoccolo, da due finestre e da una fila di quattro colonne edue semicolonne con capitelli corinzi (o compositi), che dovevano forsecontrapporsi al grande colonnato del tempio/propileo sul lato nord del fo-ro. Nella trabeazione delle colonne era inserita l’iscrizione di dedica dellabasilica, ripetuta probabilmente anche al di sopra delle finestre; almeno duestatue marmoree erano ospitate negli intercolumni della facciata, mentre ledodici statue del ciclo imperiale erano distribuite, in gruppi rispettivamentedi cinque e sette elementi, in due distinti basamenti lungo il lato meridiona-le della vasta aula basilicale. Una simile ricostruzione si direbbe più rispetto-sa di quanto tramandato nelle relazioni di scavo e meglio informata dell’ef-fettivo luogo di rinvenimento dei diversi elementi architettonici e scultorei.La pianta del foro, in particolare, denuncia la perfetta conoscenza di alcunemappe settecentesche, sulle quali era stata minuziosamente segnalata la po-sizione di ogni singolo reperto, attraverso l’uso di numeri e didascalie maanche con l’espediente dei disegni degli oggetti più significativi, riportati inpianta nella loro esatta posizione di rinvenimento, come nel caso caso diuna pianta del Museo di Parma128, purtroppo anch’essa anonima ma di fat-tura apparentemente settecentesca, che presenta le stesse colonne di bardi-glio atterrate lungo il porticato orientale e persino i basamenti quadrangola-ri posti al centro degli ambienti aperti sullo stesso lato, quasi sempre assentinelle piante successive e interpretati dai primi scavatori come altari o basi distatue di sacelli (e descritti anche dal disegnatore ottocentesco come “Tem-

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127 CIL XI, 1178 e 1180 (per queste basi onorarie, vedi Marini Calvani 1975, p. 57, tav.XLIV,1 e De Maria 1988, pp. 50-53, figg. 13-14.

128 AMANP, Archivio Disegni e Stampe, inv. nn. 149-150: si tratta di una pianta del forodi Veleia, oggi divisa in due metà, anonima e non datata.

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pii”): sembra innegabile un rapporto di dipendenza della pianta delineatanell’Ottocento da quella più antica, segno che l’autore di questo ipoteticostudio sulle architetture veleiati doveva trovarsi a proprio agio tra la docu-mentazione d’archivio relativa agli antichi scavi. Verrebbe, naturalmente, dapensare al De Lama e al suo incompiuto lavoro su Veleia, ma noi sappiamoche la sua opera, come non si stancò di ripetere lui stesso all’Antolini, tratta-va Veleia dal punto di vista dell’archeologo, e non dell’architetto129; le tre ta-vole parmensi, pronte per la stampa ma rimaste finora inedite sono forseun’ennesimo tentativo andato a vuoto, e destinato a rimanere per il momen-to anonimo, di ridare vita e notorietà alle malconcie rovine veleiati.

6. Il Museo d’Antichità all’epoca del De Lama

«Ho preso il mio partito, che è quello di pazientare, e di volgere tutte le miecure al Museo, che si trasporta nel luogo ove aveva io messe le Scuole d’Ar-chitettura, e d’ornato» scriveva il De Lama nel maggio del 1816130: il prefet-to aveva appena saputo di essere stato scavalcato dal Casapini nella direzio-ne degli scavi veleiati, ma la delusione per un così incauto provvedimento,cui presto si aggiungerà l’amarezza per l’infelice esito dei suoi progetti edi-toriali, non gli impedì di dedicare ogni energia alla nascita e allo sviluppodel nuovo Museo di Antichità, cui il De Lama guardò sempre come alla suaprincipale creatura e che, nelle sue mani, divenne un efficace strumento diriscatto delle antichità di Veleia e una evidente dimostrazione del rinnovatofervore di studi antiquari e di indagini archeologiche che aveva investito ilducato all’epoca dell’arrivo della nuova sovrana. Le laute elargizioni garan-tite da Maria Luigia alle attività culturali del ducato avevano finalmente per-messo di esaudire una delle richiese del prefetto e trasferire le raccolte diantichità nelle sale della Pilotta dove ancora oggi si trovano, in una sedeespositiva del tutto nuova e di certo più adeguata alle esigenze di un museoaperto al pubblico e in rapida espansione131.

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129 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati: risposta del De Lama ad una letteradell’Antolini del 5 agosto 1818 (ne esiste solo una copia fatta da G. Monaco).

130 De Lama ms. 810, lettera a Giambattista Bolognini del 2 maggio 1816.131 Fino a questo momento le collezioni del museo erano rimaste divise tra i locali desti-

nati all’Accademia di Belle Arti e quelli in uso alla Biblioteca. Una pianta dei locali del nuo-vo museo, così come si presentavano all’epoca del De Lama, fu delineata dallo stesso diret-tore nel 1821 e pubblicata nella sua Guida del Forestiere (vedi anche AMANP, ms. 82). Peruna rapida panoramica sulla nascita e gli sviluppi del Museo di Antichità di Parma, vedi Ma-rini Calvani 1979, 1984 e 1992; Bernabò-Brea et al. 1992; Catarsi Dall’Aglio 1994.

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Il pensiero del suo museo aveva accompagnato l’attività scientifica del DeLama fin dagli anni del viaggio di formazione, intrapreso anche allo scopo diarricchire le collezioni numismatiche del duca Ferdinando, e abbiamo vistoquanta pena si era dato il giovane archeologo per avere accesso alle più quo-tate raccolte di monete antiche o per stringere rapporti con i principali mer-canti di antichità, in vista di futuri commerci con il museo parmense. Consi-derate le passate glorie delle raccolte ducali, che proprio dal ricchissimo me-dagliere farnesiano avevano tratto vanto e celebrità, non stupisce che il DeLama abbia inizialmente confinato le proprie ricerche al solo settore dellanumismatica. Fin dal suo ingresso in museo, come aiutante del Paciaudi, cer-cò di promuovere scambi o acquisti con i migliori esperti del settore: a parti-re dal 1783 ebbero inizio le trattative con il Biancani Tazzi, fondatore del me-dagliere dell’Istituto di Bologna, una raccolta che il De Lama aveva tentatoinvano di accaparrarsi fin dai primi giorni del suo viaggio, e in quegli stessianni si intensificarono gli acquisti e gli scambi di duplicati con GuidantonioZanetti, con il piacentino Giovanni Fogliazzi e con il conte Giacomo Verità,divenuto ben presto uno dei corrispondenti più assidui del museo, tanto chealla sua morte l’intera collezione sarà dapprima offerta, come abbiamo visto,proprio agli antiquari ducali132. Prima ancora di assumersi la totale responsa-bilità del museo, il De Lama era riuscito ad accrescere il medagliere parmen-se di una serie di monete antiche provenienti d’Aquileia, cui in seguito si uni-ranno gli esemplari antichi e moderni collezionati da Giovanni Bertioli, pro-prietario di un tanto discusso “bidentale” e creatore di una delle pochissimeraccolte private di antichità dell’intero ducato133. L’abitudine a ricercare, tra i

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132 Vedi AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati. Sulle trattative intercorse tra glieredi di Giacomo Verità e il Museo di Parma, vedi la nota 72 di questo capitolo. Scambi eacquisti di monete, per gli anni 1785-1807, sono registrati anche in Atti e conti.

133 Sull’acquisto delle monete aquileiesi ci informa una lettera dello Zanetti al De Lama:«mi ralegro che abbia fatto acquisto di 60 monete aquileiesi pel Museo. Bisogna che fra lemedesime ve ne sieno delle dupplicate, perché a tanto numero non ascende la serie di esse,almeno per quanto è a me noto, come vedrà dalle Tavole purgate che ho pubblicato nel se-condo Tomo della mia Raccolta» (AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, letteradel 24 novembre 1785). Per le vicende collezionistiche legate al “bidentale” acquistato dalBertioli e fatto stimare da Ennio Quirino Visconti, vedi Riccomini 2003, pp. 29-31; la vendi-ta delle monete del Bertioli, completata nel 1821, è documentata in ASP, Presidenza dell’In-terno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203 e da una lettera di G. Ravazzoni al DeLama del 9 settembre 1821 (AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati); sulla collezio-ne di antichità messa insieme dal celebre giurista parmigiano mancano ancora studi specifici:alcune notizie sulla sua consistenza si ricavano dagli inventari redatti in occasione della suavendita al Museo di Antichità di Parma, vivamente incoraggiata dallo stesso De Lama; credoutile riportare qui, almeno in parte, l’elenco dei pezzi (antichi e moderni) venduti in quel-

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tanti che gli venivano offerti, i rari esemplari degni di figurare nel medagliereparmense non lo abbandonò mai e proprio le visite di illustri visitatori al suomuseo, fattesi più frequenti dopo il trasferimento nella nuova sede, si trasfor-marono spesso in ottime opportunità per arricchire di pezzi rari le serie par-mensi, ancora incomplete134; grata degli sforzi fatti dall’archeologo e deside-rosa di contribuire, essa stessa, all’arricchimento del medagliere, persino lasovrana finì per calarsi nei panni della cercatrice di antichità, riuscendo aprocurare al museo alcune monete, forse greche, recuperate negli scavi diPaestum135. A dispetto delle gravi spoliazioni volute da Carlo di Borbone, ilprestigio del medagliere parmense non fu mai del tutto offuscato dai ritrova-menti degli scavi veleiati, e ancora al principio dell’Ottocento alcuni visitato-ri eruditi, come il barone Creuzé de Lesser, si lasciarono affascinare da alcu-ne rarità, come la moneta in bronzo di Itaca con la testa pileata di Ulisse, unodei «cavalli di battaglia» della collezione, per le suggestioni storiche e lettera-rie che riusciva a suscitare («si cette médaille est vraie, rien de plus curieuxque de toucher une des pieces de monnoie avec lesquelles la sage Pénélopeaura peut-être payé le fidele Eumée»)136.

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l’occasione al Museo: oltre a «1468 medaglie e 44 bassorilievi bronzei a forma di medaglioni,presi da gemme antiche e del XVI secolo», l’inventario include una «tessera antica in avorioper avere accesso al teatro, la di cui porta è sculta da un lato; nell’altro è segnato il posto un-decimo nel semicirco: una sola quasi simile si è ritrovata nello scorso anno a Pompei, comu-nicataci dall’architetto Gandy», un «sacerdote greco d’Oriente in piedi de’ primi secoli conlungo rotolo scritto, e svolto nella sinistra, benedice colla destra facendo le corna: è scolpitoin avorio ed è alto un palmo», uno «scarabeo sacro in pietra nera egizia con caratteri Basili-diani che nominano Saffo, Gallieno e Macaro di Mitilene», un «idoletto votivo d’argento cherappresenta Giove coll’aquila a’ piedi», una «colomba d’argento amuletica con un ciuffolet-to: lavoro barbaro», e infine «due coltelli con manichi d’avorio scolpiti bellamente e rappre-sentanti due busti d’uomo e di donna: lavoro del XVI secolo», pezzi acquistati dagli erediBertioli nel 1821 per la somma di 2659 lire e 81 centesimi (ASP, Presidenza dell’Interno, Idivisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203).

134 Era ormai diventata un’abitudine del De Lama quella di chiedere ai sovrani in sosta aParma qualche piccola elargizione per il museo: quando l’Arciduca d’Austria visitò le colle-zioni nel 1823, il De Lama riuscì, ad esempio, a «cuccargli qualche medaglia» (De Lama ms.20, lettera al Labus del 4 dicembre 1823).

135 Come documenta una lettera di Adam Neipperg al De Lama dell’8 agosto 1824: «SuaMaestà avendo nella sua gita al tempio della Sibaritica Pesto raccolto Essa stessa alcune me-daglie, m’incarica di trasmetterle qui compiegato a V. S. Illustr.ma pel caso che alcune di es-se potesse interessare per la Collezione di questo Ducale Museo» (AMANP, Carteggio DeLama, Lettere di Privati).

136 Creuzé de Lesser 1806, p. 41 (il barone, di origine francese, fece il suo viaggio in Italianel 1801-1802). Sul Voyage del de Lesser, vedi Spaziani 1961, pp. 81-100. Lo stesso De La-ma, fin dall’epoca del suo viaggio in Italia, aveva definito questa moneta il «cavallo di batta-

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Di ritorno dal suo viaggio di istruzione, dopo aver visitato tanti medaglie-ri pubblici e privati, alcuni (come quello fiorentino) allestiti in moderni rac-coglitori che ne facilitavano la consultazione, e forse memore delle richiesteavanzate anni prima dal Paciaudi, che aveva invano progettato l’acquisto dialmeno «quattro scrigni di uniforme struttura con entro i suoi tiratoi, e qual-che mensola», per sistemare il monetiere e i bronzetti veleiati, il De Lama siimpegnò a migliorare l’allestimento delle raccolte numismatiche del suo mu-seo, finanziando (con i risparmi fatti nei suoi viaggi in Italia e in Germania)la costruzione degli eleganti stipi lignei che ancora ospitano il monetiere, ca-paci insieme di contenere le 15.000 monete della raccolta137. A questi fu pre-sto affiancata una «scansia di legno bianco con quattro porte, dipinta ester-namente color di noce, celeste all’interno con fiscie dorate», destinata a con-tenere, ordinati su sette ripiani, i piccoli bronzi rinvenuti negli scavi diVeleia138. Non si trattava di una semplice operazione di arredo o di decorodel Museo di Antichità, ma di una misura preliminare e necessaria per recu-perare, dalle loro diverse collocazioni, tutti i reperti antichi di pertinenza delmuseo e riunirli, finalmente, in un unico istituto. Quando, nel 1811, era statoeletto segretario dell’Accademia di Belle Arti, il De Lama aveva intravisto ivantaggi che la riunione dei due istituti, l’accademia e il museo, poteva ga-rantire alla formazione storica e artistica degli allievi e su questa linea cercòdi indirizzare anche l’insegnamento dell’archeologia, confortato dall’esempiodi quanti all’epoca cercavano di instradare i giovani verso questa disciplina:

ho avuto il discorso del sig. Schiassi sull’utilità dell’Archeologia ecc., e tro-vandolo veramente erudito, favorevole ai miei progetti, e giustificante la riu-nione da me fatta del Museo d’Antichità all’Accademia delle Belle Arti, pri-ma di ritornarlo al suo padrone, honne data lettura nella nostra Scuola, edho veduta con piacere eccitarsi negli animi degli alunni la brama di erudirsicoll’esame degli antichi monumenti, e per la prima volta ho sentito ringra-ziarmi per quella riunione, che prima si faceva loro credere di niuna utilità139

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glia» del monetiere parmense, così come quelle auree di Perseo e di Rodi lo erano di quellofiorentino (vedi Riccomini 2003, p. 95, nota 25).

137 «Con i risparmi poi fatti durante i miei viaggi in Italia e nella Germania potei ornare ilMuseo di tre nuovi stipi grandiosi contenenti 15.000 medaglie» ricordava infatti il De Lamanel 1807: nell’Inventario dei Mobili esistenti nel Museo d’Antichità di Parma, redatto il 6marzo del 1803, risultano già ultimati i tre nuovi stipi per medaglie, commissionati dal DeLama a Giovan Francesco Drugman, celebre falegname di corte, autore, in parte, degli scaf-fali della Galleria grande della Biblioteca Palatina (De Lama ms. 29, pp. 19-21 e p. 156; i pa-gamenti degli stipi sono registrati in Atti e conti). Vedi anche Marini Calvani 1984, pp. 486-87 e Eadem 1992, p. 76.

138 Atti e conti, 6 aprile 1800 e De Lama ms. 29, p. 20.139 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 20 febbraio 1816.

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scriverà nel 1816 all’amico Angelelli, che quanto lui apprezzava l’impegnodidattico di Filippo Schiassi, figura eminente dell’archeologia bolognese diinizio secolo. Ma con il riassetto dell’accademia, tornata indipendente dopola Restaurazione e con un nuovo direttore ostile al De Lama, il marchesePaolucci di Calboli, si riaccese il problema delle competenze sugli oggetti diantichità, in gran parte veleiati, ancora depositati nei locali dell’istituto. Undecreto emanato nel 1801 da Ferdinando di Borbone aveva assegnato alMuseo di Antichità «tutti li capi d’antichità estratti dagli scavi di Velleja, eche esistono nella R. Biblioteca e nella R. Accademia», ma l’improvvisamorte del duca e i difficili anni della dominazione francese lasciarono ingran parte disatteso tale provvedimento.

Con l’assegnazione al museo dei nuovi locali della Pilotta era rinata neldirettore la speranza di riuscire a completare le raccolte veleiati e riunire co-sì, in un unico contesto espositivo, statue, marmi, bronzi, pitture, mosaici,vetri, ceramiche e altri oggetti dell’instrumentum recuperati negli anni dagliscavi veleiati e che solo nel loro insieme potevano fornire ai visitatori e aglistudiosi gli strumenti necessari per la ricostruzione delle vicende storiche,giuridiche, artistiche, economiche dell’antica città e del suo territorio. Nonera estraneo a questo progetto il ricordo del Museo Ercolanese, destinato adospitare ogni genere di antichità proveniente dai cantieri vesuviani, e forseanche l’esempio del più recente Museo di Gabii, allestito nel Casino del-l’Orologio di Villa Borghese a Roma, esclusivamente per accogliere le statuedel ciclo imperiale e gli altri marmi scavati a partire dal 1791 nell’antica cittàlaziale, un’impresa museale di cui certo il De Lama avrà avuto notizia da unantico compagno di passeggiate romane, lo scultore Luigi Acquisti, coinvol-to nel restauro di almeno una delle statue gabine140.

Ma per il suo museo il De Lama immaginava qualcosa di ancora più in-novativo (oltre che di sicuro effetto sul visitatore): si era infatti accorto chela pianta di una delle sale concesse all’istituto ricordava moltissimo, con lie-vi modifiche, quella della basilica di Veleia e così gli nacque l’idea di ricom-porre in museo il contesto archeologico del più significativo edificio veleia-te, con le due tavole legislative, scavate entrambe nell’area della basilica, e le

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140 Le sculture del Museo Gabino vennero pubblicate per primo da Ennio Quirino Vi-sconti nel 1797 (E.Q. Visconti, Monumenti Gabini nella Villa Pinciana, Roma 1797); i pro-getti di allestimento del museo, che alla fine del Settecento videro impegnati gli architettiAntonio e Mario Asprucci e, forse, il giovane Giuseppe Valadier, sono stati indagati in A.Campitelli, Il Museo di Gabii a Villa Borghese, «Ricerche di Storia dell’arte», 66, 1998, pp.37-48 e Eadem (a cura di), Villa Borghese. I principi, le arti, la città dal Settecento all’Ottocen-to, cat. mostra (Roma dic. 2003-mar. 2004), Milano 2003, pp. 121-55. Sul restauro eseguitodall’Acquisti per un marmo del Museo di Gabii, vedi Riccomini 2004.

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dodici statue marmoree, disposte nella stessa posizione in cui furonotrovate141. Un progetto, questo, che incontrò il favore del principe di Met-ternich, in visita al museo nel settembre del 1817, tanto che il De Lama con-fidò nel suo aiuto per recuperare «quanto di vellejate pretende usurparel’Accademia» e rendere così il museo «degno del plauso universale»142.

La riunione di tutti i reperti veleiati nelle sale del Museo di Antichità im-poneva una diversa considerazione del reperto archeologico e andava ascardinare la prassi ormai in uso dalla metà del Settecento, e rigorosamenteseguita a Parma, di ridistribuire i reperti antichi, anche quelli provenienti daun medesimo contesto, tra i gabinetti di antichità, le accademie d’arte o lebiblioteche, a seconda delle finalità attribuite ai diversi oggetti. Le statuemarmoree di Veleia e i frammenti architettonici meglio conservati furonoinfatti destinati, fin dal loro rinvenimento, alle sale dell’accademia, dove ser-vivano da modello per gli studi dall’antico dei giovani allievi. Ancora nel1816, quando il De Lama ottenne il permesso di trasportare a Parma «imarmi, i bronzi, le figuline» registrati nei giornali di scavi e ancora deposita-ti a Veleia, il ministro Magawly gli impose di consegnare all’accademia tuttiquei monumenti «che possano servire di modelli preziosi all’architetto edall’ornatista»143 e l’anno seguente il Paolucci di Calboli scrisse una petizione«contro chi tenta di rapire le statue di Velleia», una sfida lanciata contro ilDe Lama, colpevole, a suo vedere, di voler sottrarre all’accademia «il mez-zo, l’esemplare stesso della scultura», senza curarsi dell’esempio delle altrecittà, come Roma, Napoli, Firenze, Milano o Vienna, dove agli antiquari eraattribuito il compito di raccogliere «tutto ciò che spetta al medagliere, agliidoli, alle armi, agli ornamenti, al domestico mobiliare», mentre «quanto ap-partiene a statue ed ornamenti architettonici» restava di pertinenza delle ac-cademie di belle arti144. Di tutt’altro parere era, naturalmente, l’archeologoparmigiano, sensibile al rapido mutare dei tempi e convinto che «in tutti ipaesi colti (e Parma è certamente tale)» i monumenti antichi si incomincias-sero ormai a esporre nei musei di antichità, «loro vera sede»; deciso a com-

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141 De Lama ms. 29, p. 160 e De Lama 1824a, p. 124: per ottenere una pianta realmentesomigliante, nelle proporzioni, a quella della basilica, il De Lama pensava di fare abbattereun muro divisorio. La sala in questione corrisponde alla n. III della pianta del museo editadal De Lama nella sua Guida del Forestiere (De Lama 1824a).

142 De Lama ms. 29, p. 125.143 De Lama ms. 29, pp. 111-12; la richiesta del De Lama di far giungere a Parma i reper-

ti ancora conservati a Veleia è registrata in ASP, Ministero dei Ducati, I divisione, 1816. Am-ministrazione Pubblica, 14-19, b. 4 (lettera del De Lama del 25 luglio 1816).

144 Vedi Musiari 1986, p. 171.

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pletare il contesto monumentale della basilica, e forte dell’esperienza artisti-ca fattasi negli anni di direzione dell’accademia, il De Lama cercò persino dicontestare l’utilità, per l’accademia, delle statue e degli altri pezzi architetto-nici, dimostrandone l’inadeguatezza come modelli per le riproduzioni grafi-che («non possono disegnarsi bene se non cavati in gesso, perché essendoallora di una tinta eguale producono fedelmente l’effetto delle ombre, e cosìservono di modello a giovani disegnatori»)145: alla fine qualche piccola con-cessione fu fatta, se è vero che nel 1819 l’Antolini vide quattro delle statuevirili sullo scalone di accesso al museo, ma le statue da sempre più ammiraterimasero, per decreto sovrano, nelle sale dell’accademia e solo dopo l’Unitàd’Italia potranno finalmente raggiungere gli altri reperti veleiati nel Museodi Antichità146.

Con la sola eccezione della sala riproducente la basilica, l’allestimentoprevisto dal De Lama per il nuovo museo non presentava novità di rilievo,con gli oggetti divisi per classi tipologiche e talvolta addirittura mescolatiper provenienza (al materiale veleiate si affiancò il risultato degli scavi con-dotti a Tannetum e a Luceria); nell’arredo dei locali, pur di riuscire ad evo-care il fascino degli ambienti antichi, il direttore finì addirittura per incorag-giare operazioni ben poco rispettose dei ruderi veleiati: quando si trattò sicostruire una stufa per il museo, ideata «sul gusto di un sepolcro antico ese-guito con materiali antichi», non ebbe esitazioni a servirsi dei campioni dimateriale recuperati dal tepidario scoperto a est del foro e per ottenere unsostegno adeguato alla macina in pietra lavica, giunta a Parma da Veleia nel1816, non si oppose alla distruzione di un intero pezzo di colonna in cotto,una scelta che suscitò qualche perplessità persino nel Casapini («ho dovutoscomporre un resto di colonnetta là nel Calcidico, ma trattandosi di farneun monumento nel Museo, era dovere di farlo»)147.

È d’altra parte vero che nel nuovo allestimento trovarono finalmente po-sto i tanti frammenti di vetro e di ceramica recuperati da decenni negli scaviveleiati, nascosti fino a quel momento al comune visitatore e noti solo a po-chi studiosi; le esperienze vesuviane e gli insegnamenti del Caylus avevano

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145 De Lama ms. 29, pp. 161 e 165.146 Vedi Antolini Veleia, I, p. 17, citato in Saletti 1968, p. 19, nota 13; sul trasferimento

delle statue al museo, vedi Monaco 1940, p. 3 e Saletti 1968, p. 20.147 Sulla costruzione della stufa, vedi De Lama ms. 29, p. 116 e De Lama ms. 20, lettera a

Luigi Voghera del 18 aprile 1819: «gli avanzi del Tepidario furono trovati fra Mezzodì e Le-vante nello spazio che divide l’Anfiteatro dal Foro: e di que’ materiali ritenendo i campioniin Museo mi sono io valso per costruire la Stuffa». La costruzione del supporto per la maci-na in pietra lavica è documentata in AMANP, Scavi di Velleia, 3, lettera del Casapini al DeLama del 20 novembre 1816.

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di certo guidato il De Lama in questa scelta, ma più forte ancora deve esserestata la consapevolezza di disporre di una delle poche (ma ricche) raccoltedi questo tipo, ancora rare a vedersi nei musei di antichità.

Nelle Notizie preliminari su Veleia, edite nel 1818, il De Lama aveva datoforte risalto alla cospicua selezione di vetri romani trovati, purtroppo, tuttiin frammenti, ma talmente variati nelle forme, nei colori, nelle tecniche de-corative da aprire nuovi orizzonti di ricerca sulle antiche tecniche di fabbri-cazione e «dissipare i dubbi intorno al sapere chimico degli Antichi»148:

resti di vasi unicolori in porporino, in verde, in giallo, e in turchino; vario-pinti in fusione a mille fiori di verde, giallo, e rosso, a porfido di verde e gial-lo, altri a strati a guisa di fettuccie, altri a strati superficiali, altri a macchie; equesti vasi, molti de’ quali avevano la figura delle nostre tazze da brodo, era-no lavorati a costoloni concentrici in basso rilievo, e smerigliati tutti esterna-mente sull’orlo, forse perché i coperchi chiudessero meglio. Alcuni imitanola porcellana bianca, grigia, verde, turchina, e altri neri il vetro obsidiano, ovulcanico. Altri ancora ve ne sono di vetro quasi cristallino, fra’ quali alcunialcuni bicchieri arrotati a faccette, e altri graffiti.

Incastrati in tavolette «per facilitarne l’osservazione e per riconoscerne ladiafanità», i vetri veleiati divennero una delle principali curiosità del museo,dato che oggi può forse stupire, dal momento che quasi nessuno di questiframmenti è attualmente esposto nell’Antiquarium di Veleia o nel MuseoArcheologico di Parma, ma non si deve dimenticare che al principio del-l’Ottocento, in mancanza delle ben più ricche raccolte aquileiesi, ancoralontane dal nascere, quella di Parma rappresentava il principale punto di ri-ferimento per lo studio di questa classe di materiali per tutto il nord Italia.

Non vi è museo d’antichità che io non abbia frugato; quello di Parma pre-senta oltre l’immensa tavola traiana, molti belli avanzi della sepolta Velleja,che invano si cercherebbero simili altrove, principalmente in ogni maniera divetri colorati antichi

scriveva nel 1819 l’archeologo piemontese Giulio Cordero di Sanquintino149

e pochi anni più tardi sarà la volta del perugino Giovan Battista Vermiglioli

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148 De Lama 1818, pp. 28-29. Per la descrizione dei vetri del museo, vedi anche De Lama1824a, pp. 153-54, in cui l’archeologo rimanda alla lettura delle osservazioni del Caylus (Re-cueil, I, p. 295) sulla maniera usata dagli Antichi per colorare il vetro. Fin da 1807 i diversiframmenti erano stati schedati dal De Lama nell’Inventario generale del museo (De Lamams. 30, pp. 113-14). Uno studio preliminare sui vetri del Museo Archeologico di Parma, an-cora sostanzialmente inediti, si trova in Ceselin 1992-1993.

149 Giorgi 1982, p. 65, lettera al Marchese Mazzarosa del 26 giugno 1819. Giulio Corderodei conti di Sanquintino, studioso di storia, archeologia e numismatica, era nato a Mondovìnel 1778, ma visse gran parte della sua vita a Lucca.

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a rimanere affascinato dalla serie di vetri colorati del museo parmense, tantoche il De Lama, in ringraziamento per i suoi elogi, gli inviò in anteprima ladocumentazione degli importanti ritrovamenti fatti nell’area del monasterodi S. Alessandro, nello scavare le fondazioni per il Teatro Regio, ma colseanche l’occasione per ricordare al collega perugino le altre rarità del suomuseo, ed in particolare un disco in avorio con figura bacchica, oggi scom-parso, e i numerosi frammenti di ceramica in vernice nera o sigillata, chetanto avevano incuriosito il Caylus e che il De Lama aveva per primo sche-dato (anche se un po’ sommariamente) e disposto in ordine tipologico:

Ella ha ricordato i vetri vellejati. Se quando onorò di sua visita il nostro Mu-seo avessi io potuto servirla non avrei trascurato di farle osservare i moltiframmenti di vasi cretacei sculti a bassorilievo con molta maestria, ed infinitavarietà di figure, e di rappresentazioni, come pure un bassorilievo rappresen-tante in un gran disco il busto di Bacco di prospetto, di buona maniera inavorio; che tutti sono vellejati e che dopo la lettura della sua dottrina misembrano infinitamente più pregevoli150.

Bisognerà attendere ancora molti anni prima che in Italia si giunga ad at-tribuire al “coccio” il valore di fossile-guida dello scavo archeologico e a co-struire delle griglie cronologiche entro cui classificare i diversi frammenticeramici: nulla di tutto questo è presente, neppure in forma embrionale,nell’iniziativa del De Lama, per il quale i tanti frammenti recuperati negliscavi veleiati potevano, al massimo, fornire informazioni sulle antiche tecni-che di modellazione, di cottura, di decorazione, sull’organizzazione delle of-ficine, sull’onomastica ricostruibile in base ai bolli laterizi e ceramici, maquasi del tutto assente era la percezione di una precisa linea evolutiva e, con

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150 Cento lettere inedite, p. 101, lettera del Vermiglioli al De Lama del 4 giugno 1822. Ildisco in avorio con busto di Bacco è registrato anche nell’inventario del museo redatto dalDe Lama nel 1807 come «baccante in basso rilievo a mezzo busto col tirso: buon lavoro inavorio ora fossile» (De Lama ms. 30, p. 114, n. 2) e ricordato (questa volta come Bacco gio-vane) anche nella Guida del Forestiere (De Lama 1824a, p. 165). Nello stesso inventario sonoregistrati, oltre a tre frammenti di vasi “osci” a figure rosse e ad una tazza invetriata di coloreverde (di certo una di quelle che avevano incuriosito il Caylus, «per la vernice vitrea che cre-devasi ignota agli Antichi»), almeno «sette frammenti di vasi di terra nera fina lavorata a bas-so rilievo» e «undici frammenti di vasi diversi verniciati di rosso con bassi rilievi figurati gra-ziosissimamente» (De Lama ms. 30, pp. 111-12): si tratta dei vasi «di finissima creta rossasuggellati nel fondo interno con vari nomi, e sculti a basso rilievo con rappresentazioni di sa-crifici, di baccanali, di fiere, di piante e di ornati graziosissimi, e tinti di un lucentissimo co-lor rosso» e dei frammenti di coppe «di finitissima creta nera più leggieri e sottili de’ primi, esculti a varie scanalature e fogliami» (editi questi ultimi nel VI volume del Recueil del Cay-lus, alla tav. CII), ricordati dal De Lama nella sua Guida del Forestiere (De Lama 1824a, p.152) e ancora oggi sostanzialmente inediti.

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l’eccezione di pochi esemplari (come i frammenti di ceramica invetriata dicolore verde, giustamente percepiti come «meno vetusti» di quelli a vernicenera o di sigillata), tutti i cocci del museo di Parma continuarono ad essereclassificati genericamente come antichi e ad essere analizzati per le loro di-verse tipologie. Se nel conservare i campioni dei tipi ceramici scavati a Vele-ia, in un’epoca in cui i cocci venivano di solito gettati via, si era dato provadi una nuova sensibilità verso l’oggetto archeologico, la scelta di catalogareed esporre al pubblico ogni singolo pezzo segnava almeno un passo avantiverso la rivalutazione del frammento ceramico e forse più di ogni altra cosaserviva a stimolare la ricerca scientifica su questa classe di materiali. Ancoraalla metà del secolo le inconsuete raccolte del museo parmense riuscivano astupire i viaggiatori più competenti, come il letterato francese Jean-ClaudeFulchiron, che così annotò nel suo diario:

la collection la plus curieuse de ce cabinet, sous le rapport de l’art et sous ce-lui des connaissances chimiques, est celle des vases en verre et en terre cuite.En admirant leurs formes élégantes, on voit aussi que les anciens connaissa-ient la plupart des oxides métalliques dont nous nous servons encore pourcolorer les pâtes vitreuses. Quant à la matière et aux couleurs, ces vases res-semblent aux produits des verreries vénitiennes qui, de tout temps, en ex-portèrent une grande quantité et avaient probablement hérité des secrets decette fabrication151.

Provvedere ad un adeguato spazio espositivo era anche il modo miglioreper garantire la tutela di ogni singolo reperto veleiate e scongiurare il peri-colo di furti o distruzioni, che negli anni avevano decimato l’intero patrimo-nio archeologico, tanto che nel 1801 il De Lama si era trovato costretto adenunciare la precaria sistemazione dei bronzetti di Veleia, in deposito pres-so l’accademia, dove «andavano scemando a vista»152. Per ovviare a questoimbarazzante problema l’archeologo promosse una campagna di cataloga-zione di tutto il materiale archeologico conservato nel museo, un’operazioneche andava a completare l’opera di schedatura delle monete antiche termi-nata nel 1789 e interamente rivista, con le aggiunte più recenti, nel 1807153.

Risale infatti a questa data la redazione dell’Inventario generale, com-prendente sei sezioni dedicate alle monete e ai piombi antichi, compilate in

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151 Fulchiron 1847, p. 445.152 De Lama ms. 29, p. 10. 153 Nel 1785-1789 il De Lama aveva compilato i tre volumi del Catalogus Musei Parmen-

sis Nummorum, preceduti dai cataloghi Imperatorum romanorum et Augustarum numismata(1782), Familiarum romanarum numismata (1783), Regum numismata (1783), conservati an-cora manoscritti nell’archivio del Museo Archeologico di Parma (AMANP, mss. 2, 3, 4, 5).

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latino, oltre al catalogo in italiano dei marmi e dei bronzi figurati e iscritti,delle figuline, dei vetri, degli avori; di ciascun pezzo, oltre ad una descrizio-ne piuttosto dettagliata, venivano fornite le misure e, più raramente, osser-vazioni sullo stato di conservazione. Temendo una chiusura definitiva delmuseo, ora che i pezzi più famosi avevano raggiunto la Francia, il prefetto siera affrettato a lasciare traccia della consistenza effettiva delle raccolte, forsepensando di potersene un giorno servire per recuperare gli oggetti trafugati,ma in questo improvviso scrupolo classificatorio non era probabilmenteestraneo l’esempio di quanto stava accadendo a Parigi, dove una colossaleimpresa di classificazione, schedatura e selezione delle testimonianze più si-gnificative dell’arte occidentale antica e moderna stava dando vita, sotto ledirettive di Dominique Vivant Denon, al nuovo Museo del Louvre. Fu pro-prio all’«antico suo amico» Denon che il De Lama volle sottoporre i catalo-ghi del suo museo, perché lo aiutasse a pubblicarli sotto gli auspici di Napo-leone: «les catalogues sont faits avec les illustrations nécéssaires. Dans cetouvrage j’ai tachè de combiner l’erudition à la sobriété, et d’éviter les repeti-tions» gli scrisse nel gennaio del 1807, presentandogli un progetto di catalo-gazione delle monete assai più articolato e completo di quello effettivamen-te realizzato (vi figuravano anche le medaglie moderne di uomini illustri equelle ecclesiastiche, oltre ad una storia delle zecche d’Italia), ma ancoramancante degli oggetti meno “nobili”, come le figuline, i frammenti di vetried altre antichità minori154. La stampa in francese dell’inventario delle anti-chità parmensi avrebbe diffuso in tutta Europa il prestigio del suo museo efatto della piccola istituzione un esempio di efficienza, al passo dei tempi,mentre il nome di Napoleone avrebbe suggestivamente evocato nel lettore,e poi nel visitatore, il modello del grande museo parigino.

L’impresa editoriale non andò in porto, ma la compilazione del catalogogenerale, conservato ancora manoscritto nell’archivio del museo155, fornì unvalido contributo alla tutela del patrimonio archeologico, presto coadiuvatodalla raccolta di tutte le antichità veleiati e non, opera avviata nei primissimianni dell’Ottocento con il trasporto delle «anticaglie» e delle iscrizioni mar-moree conservate nella Biblioteca Palatina, tenacemente trattenute in acca-demia o ammassate in un «magazzino statuario» sotto le gradinate del Tea-tro Farnese e che impegnerà il De Lama ancora per molti anni. Destinatainizialmente a colmare i vuoti lasciati dalle requisizioni francesi, questa ini-ziativa si estese, come abbiamo visto, fino al recupero dei tanti frammenti

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154 De Lama ms. 29, pp. 41-43 e p. 59.155 Si tratta dell’Inventario generale di tutto ciò che conservasi nell’Imperiale Museo d’An-

tichità Parmense, redatto dal De Lama nel 1807 (AMANP, ms. 30).

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(soprattutto architettonici) rimasti a Veleia, più di tutti esposti ai rischi difurti o distruzioni, e inoltre permise di arricchire il nascente museo di pre-gevoli esemplari di scultura antica, tra cui i marmi della collezione Gonzagadi Guastalla, trasferiti dopo l’annessione del piccolo ducato a quello di Par-ma e recuperati da un arsenale di palazzo156.

Rientrato in possesso di buona parte dei frammenti epigrafici ancora ab-bandonati a Veleia, l’archeologo si mise ben presto ad allestire sullo scalonee nel pianerottolo di accesso al museo un vero e proprio lapidario, pensatoper accogliere tutte le iscrizioni lapidee, parmensi o veleiati, dell’intero ter-ritoro del ducato: si realizzava così un progetto che il De Lama aveva acca-rezzato fin dai tempi del viaggio in Italia, quando si era scoperto ad invidia-re il nuovo lapidario della Galleria degli Uffizi, e insieme si esaudiva un de-siderio espresso tanti anni prima dal ministro Du Tillot, che per primo ave-va auspicato la formazione di un lapidario parmense157. Ora che si era trova-to lo spazio, il De Lama doveva solo dare prova di tutte le sue doti diploma-tiche per incrementare la collezione. Suo obiettivo erano, naturalmente, letante epigrafi romane ancora disseminate nel territorio del ducato, prime fratutte le trentotto iscrizioni (in parte veleiati) murate nei corridoi della sop-pressa canonica di S. Agostino a Piacenza, un prezioso patrimonio epigrafi-co che nel 1821 il De Lama, dopo lunghe trattative, riuscì ad assicurare alsuo museo, ma non mancarono le donazioni spontanee, come l’epigrafe fu-neraria di L. Sallustius Pusio, tonsor (CIL XI, 1071), regalata nel 1816 dallasignora Rammonet Provinciali o le due iscrizioni cedute al museo, subitodopo la loro scoperta, dal parmigiano Luigi Mori e dal conte Linati158. Co-me vestibolo al Museo di Antichità, oltre che alla Biblioteca Palatina, il lapi-dario doveva essere per il De Lama il biglietto da visita delle attività anti-

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156 Vedi Atti e conti, in data 14 luglio 1801, 23 aprile 1802, 8 marzo 1804; sulle vicendecollezionistiche dei marmi raccolti a Guastalla dai Gonzaga e sul loro trasferimento a Parma,vedi Marini Calvani 1995.

157 Sul generale riassetto della Galleria degli Uffizi, concluso nel 1792, e che quindi il DeLama poté vedere quasi ultimato, vedi Fileti Mazza e Tomasello 2003 (a p. 83, nota 278 è ri-cordata la visita del De Lama).

158 CIL XI, 1071, 1074 e 1089. Le vicende relative al recupero delle trentotto iscrizionidi S. Agostino a Piacenza si ricostruiscono dal carteggio del De Lama (vedi AMANP, Car-teggio De Lama, Lettere di Governo e Lettere di Privati, lettere di G. Ceriazza, di G. Ra-vazzoni, dello Scarampi, segretario di gabinetto di Maria Luigia e ASP, Presidenza dell’In-terno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203). Per le epigrafi donate al museo, vediDe Lama ms. 20, lettera a P. Rammonet Provinciali del 2 aprile 1816 e AMANP, CarteggioDe Lama, Lettere di Governo, fascicolo “doni” (citate anche in Arrigoni Bertini 1986, pp.312, 319-20).

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quarie e delle iniziative archeologiche patrocinate dal ducato, e con la suanutrita serie di epigrafi antiche, frutto di anni di ricognizioni, recuperi e re-stauri, era la migliore testimonianza del glorioso passato romano degli statiparmensi: «il Museo Ducale, che amo qual figlio, contarebbe così intornoad un centinaio d’antichi marmi scritti, che essendo quasi tutti del Paese, neautenticarebbero l’antico lustro»159 scriveva nel 1820, nel bel mezzo dei la-vori, incoraggiato dalle parole di encomio dei «dotti» e noncurante, questavolta, delle critiche degli «intriganti sciocchi e malevoli», che lo accusavanodi avere addirittura deturpato le pareti dello scalone, chiara allusione aicontrasti mai sopiti con i membri dell’accademia160.

Ad accrescere i dissapori con chi all’epoca dirigeva l’accademia era poiintervenuta la delicata e spinosissima questione del restauro delle tavolebronzee e dei marmi ancora depositati nell’istituto, compito affidato, a dettadel De Lama, ad un incompetente in materia artistica, desideroso solo di«entrare nelle messe altrui»: nel 1808 il conte Luigi Scutellari aveva infattideciso di commissionare allo scultore Giuseppe Carra i restauri delle statueimperiali, incarico di cui purtroppo si conserva ben poca documentazione,ma che sembrò incoraggiare gli interventi su altri marmi antichi, con solu-zioni non sempre opportune, come nel caso del busto colossale di Giove,integrato con un naso sbagliato, che il De Lama propose subito di sostituire,partendo questa volta da un modello filologicamente pertinente, meglio an-cora se da «qualche medaglione de’ Tolomei»161.

Rientrato in possesso della quasi totalità dei reperti veleiati, il De Lamapoté avviare una propria campagna di restauro, che interessò la testa inbronzo dorato del cosiddetto Adriano e la statuetta di Vittoria trovate nelforo, molti capitelli, integrati con scagliola, la macina in pietra lavica162, mache deve essere in primo luogo ricordata per la riuscita ricomposizione dellaTavola Traiana, che a partire dal 1818 poté finalmente essere esposta ai visi-tatori in tutta la sua interezza:

ora lavorasi in casa mia ad appianare, e fissare con viti sopra un robusto ta-volato la lamina Alimentare, detta Traiana, per appenderla al muro. L’operaè difficile perché non si può né riscaldare la lamina per conservarle la patina,che serve di fede battesimale, né valersi del martello per non guastare lo

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159 ASP, Presidenza dell’Interno, I divisione. Stato e Istruzione Pubblica, b. 203, letteradel De Lama del 9 novembre 1820.

160 De Lama ms. 29, p. 105.161 De Lama ms. 29, p. 72.162 Le spese per i restauri sono elencate in AMANP, Spese di manutenzione e per fare ac-

quisti dopo che il Museo è Comunale, 1807.

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scritto. Non otterrassi l’intento che a forza di pressione, ma la molta grossez-za della lamina, che è fusa, ne ritarda l’effetto163.

Le competenze necessarie per una simile impresa, le procedure e i costidi saldatura dei diversi frammenti che componevano la lamina erano stateattentamente vagliate dal De Lama, che si era andato persino a ristudiare ivecchi progetti di restauro avanzati all’epoca del Paciaudi: la scelta degli ar-tigiani (i fratelli Amoretti) si rivelò felice e, con una spesa di gran lunga infe-riore a quella preventivata dai restauratori settecenteschi, le antiche fratturee i nuovi danni causati dal trasporto a Parigi e dal successivo rientro in pa-tria poterono alla fine essere riparati e il museo riuscì a «far mostra del piùgrande de’ monumenti scritti in bronzo»164.

Quanto per la verità fossero ancora incerte e non poco discutibili, al-meno ad occhi moderni, le teorie sul restauro, specie di quello dei bron-zetti e di altre antichità minori, si intuisce da un curioso episodio, che hatutto il sapore dell’entusiasmo per la ripresa di studi e di indagini archeo-logiche coincisa con l’arrivo a Parma di Maria Luigia d’Austria. Nel 1816,in occasione del restauro del bronzetto di Vittoria rinvenuto a Veleia nel1760 e divenuto presto uno dei pezzi più ammirati dai visitatori, nacquel’idea di trasformare la statuetta in un monumento celebrativo della nuovasovrana, quasi una immagine-simbolo della politica di rinnovamento cul-turale promossa dalla duchessa fin dal suo ingresso in città. Il progetto,sottoposto dal De Lama all’amico Angelelli, prevedeva di collocare tra lemani della Vittoria un clipeo bronzeo con il ritratto in cristallo di MariaLuigia165, ma le sacrosante perplessità dell’illustre grecista, convinto «ne-mico dei miscugli nelle opere antiche», costrinsero a rimeditare sul signifi-cato da dare al monumento: «il ritratto della Sovrana in mano ad un’anti-ca Vittoria è lo stesso che un bel fucile spagnolo in mano ad Achille» ave-

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163 De Lama ms. 20, lettera del De Lama all’Angelelli del 28 settembre 1817.164 Ibidem. Sui tentativi di restauro della Tavola Traiana promossi dal Paciaudi, vedi su-

pra cap. I, p. 42. e De Lama ms. 29, p. 133; il De Lama aveva in un primo momento affidatoi lavori a Giovanni Zannoni, «valente meccanico», ma l’improvvisa morte di questi, nel1817, aveva lasciato il posto all’artigiano Pietro Amoretti, coadiuvato dal fratello (AMANP,Carteggio De Lama, Lettere di Governo, fascicolo “Leggi, decreti, regolamenti”, lettera delDe Lama del 17 settembre 1817 e lettere del De Lama citate in Arrigoni Bertini 1986, p.323). Sui restauri della tavola, vedi anche Criniti 1991, pp. 49-50.

165 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Governo, fascicolo “Personale”, lettera del 5settembre 1820. Per il clipeo con il ritratto della sovrana venne pagato, nel 1820, l’artigianoGiuseppe Barborini (AMANP, Spese di manutenzione e per fare acquisti dopo che il Museo èComunale, 1807).

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va provocatoriamente affermato l’Angelelli, suggerendo di interpretare laprogettata metamorfosi della Vittoria veleiate come un’immagine del Ge-nio della sovrana e a questa simbologia cercò di adattare anche l’epigrafecelebrativa che il De Lama gli aveva commissionato e che sembrò incon-trare il favore della commissione incaricata del restauro («l’epigrafe sua èpiaciuta e si mette sotto la Vittoria Velejate: una Vittoria ha cangiata lasorte nostra; una Vittoria mostra l’immagine di chi ci regge»)166. La Vitto-ria veleiate, così trasformata, ricomparirà di lì a qualche anno nel sigillodel Museo di Antichità, accanto ad altri monumenti simbolici delle sco-perte archeologiche del ducato, come la Tavola Traiana o la testa bronzeadel cd. Adriano, ma anche ad esemplari di recentissima acquisizione, co-me il cratere apulo a volute comperato dal Lopez nel 1830, significativatestimonianza di una classe ceramica ben poco rappresentata nel museodel De Lama e per questo indicativa dei nuovi orientamenti collezionisticie di ricerca favoriti dal nuovo direttore dell’Istituto all’epoca dell’appro-vazione del sigillo167.

7. La fortuna veleiate di un mosaico parmense

Nel clima di rinnovato fervore per le indagini archeologiche di Veleia, pro-mosso dalla nuova sovrana, capitò anche che sporadici reperti antichi rinve-nuti casualmente in altre aree del ducato, utili testimonianze della presenzaromana nel territorio, finissero talvolta per essere attribuiti, nel tempo, alleantichità di origine veleiate.

È questo il caso di un mosaico figurato, conservato nel medagliere delMuseo Archeologico di Parma168 e rimasto fino ad oggi quasi del tutto igno-

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166 De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 16 gennaio 1821.167 Il cratere apulo raffigurato sul sigillo del museo, datato alla metà del IV sec. a.C., fu

acquistato da Michele Lopez presso i Sanquirico, celebri antiquari attivi nei decenni centralidell’Ottocento (Rossignani 1970, C 96, p. 3, tav. 3). Il sigillo fu approvato dal Presidente del-l’Interno, Ferdinando Cornacchia, il 30 aprile 1830: vedi AMANP, Direzione Lopez, 1. Inuna versione precedente, non approvata, al posto del cratere apulo doveva figurare un capi-tello corinzio veleiate.

168 Inv. 1694. Nel generale riallestimento del museo promosso negli anni immediata-mente successivi alla direzione del Monaco (1933-1958) il mosaico scomparve dal percor-so di visita aperto al pubblico e venne depositato nel Medagliere: ogni riferimento a que-sto pezzo manca infatti nel nuovo catalogo del museo redatto nel 1965 (Frova e Scarani1965).

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Fig. 23 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, n. 206. L. Voghe-ra, pianta delle terme a sud-ovest del foro di Veleia, 1822.

Fig. 22 – Parma, Museo Ar-cheologico Nazionale, Disegnie Stampe, n. 206. L. Voghera,pianta del foro di Veleia, 1822.

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Fig. 24 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, n. 207. L. Voghera, pian-ta del cd. “anfiteatro” di Veleia, 1822.

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Fig. 26 – G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, I (1819), tav. VI. Capitelli da Veleia.

Fig. 25 – G.A. Antolini, Le rovinedi Veleia, I (1819), tav. III. Piantadel foro di Veleia.

n-

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Fig. 28 – G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, I (1819), tav. IX. Statue imperiali dallabasilica di Veleia.

Fig. 27 – G.A. Antolini, Le rovinedi Veleia, I (1819), tav. VII. Capi-telli e basi di colonne da Veleia.

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Fig. 29 – G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, II (1822), tav. I. Pianta ricostruttiva delforo di Veleia.

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Fig. 31 – G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, II (1822), tav. III. Prospetto e spaccato ri-costruttivo della basilica di Veleia.

Fig. 30 – G.A. Antolini, Le rovine di Veleia, II (1822), tav. II. Prospetto ricostruttivodel cd. tempio di Veleia e dell’edificio a est del foro.

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Fig. 33 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, n. 154. Anoni-mo, pianta e prospetto ricostruttivo della basilica di Veleia, XIX sec.

Fig. 32 – Parma, Museo Ar-cheologico Nazionale, Dise-gni e Stampe, inv. 151. Ano-nimo, Pianta del foro di Ve-leia, XIX sec.

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Fig. 34 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, Disegni e Stampe, n. 153. Anoni-mo, capitelli da Veleia, XIX sec.

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Fig. 35 – Parma, Archivio del Museo Archeologico Nazionale, Direzione Lopez, 1,approvazione del sigillo del Museo (30 aprile 1830).

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Fig. 36 – Parma, Museo Archeologico Nazionale, cratere apulo, metà del IV sec. a.C.

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Fig. 37 – Parma, Museo Archeologico Naziona-le, emblema musivo di supposto argomento so-focleo. Insieme e particolare.

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Fig. 38 – Riproduzione del «mosaico sofocleo», da un disegno di A. Isac, a illustrazione del-l’opera di M. Angelelli, Elettra. Tragedia di Sofocle recata in versi toscani, Bologna 1816.

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Fig. 40 – Parma, Area del Teatro Regio e adiacenze. Ubicazione dei rinvenimenti ef-fettuati durante gli scavi del 1766-1768 (H: emblema di soggetto “sofocleo”), 1821(A-G), 1941 (a) e 1977 (all’interno del golfo mistico del Teatro: b).

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Fig. 39 – P. De Lama, Memoria intornoad alcuni preziosi ornamenti antichi ...,disegni dei mosaici pavimentali scopertia Parma nel 1821 durante la costruzionedel Teatro Regio.

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Fig. 41 – Statua femminile panneggiata dalla basilica di Veleia (cd. “Agrippina”).

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Fig. 42 – Pianta del Foro di Veleia (da M. Marini Calvani, Lugagnano Val d’Arda. Ve-leia, Parma 19882).

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Fig. 43 – Veduta aerea di Veleia.

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Parma, Archivio del Museo Archeologico Nazionale, Direzione Lopez, 1, dise-gno del sigillo del Museo (30 aprile 1830).

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rato dalla letteratura archeologica169. Si tratta di un emblema di cm 39,5 x 40,compresa la cornice, raffigurante, al centro, una figura femminile inginoc-chiata che cinge con entrambe le braccia un grosso contenitore a forma aper-ta, mentre sulla destra si riconosce una figura virile in nudità eroica che reggeuna lancia; l’intero settore sinistro presenta un’ampia lacuna, integrata forsegià nel Settecento con stucco inciso e dipinto a imitazione delle tessere musi-ve (il colore è quasi del tutto scomparso): doveva quasi certamente ospitareuna terza figura che, sulla base degli scarsissimi lacerti antichi ancora conser-vati, possiamo supporre fosse un secondo personaggio in nudità eroica, e co-me tale fu infatti integrato nel restauro. Il mosaico è realizzato con microtes-sere170 lapidee di vari colori (diverse tonalità di marrone, ocra, beige, rosachiaro, verde chiaro, nero), ad eccezione dell’impiego del cotto per il piedesinistro della figura inginocchiata; attualmente è montato su un supporto dicemento e non è dunque possibile risalire al supporto originario.

Entrato a far parte delle raccolte del museo fin dal 1768, il pezzo si trovòquasi subito al centro di un interessante dibattito scientifico che vide coin-volti alcuni dei principali esponenti dell’antiquaria italiana dell’epoca, incu-riositi soprattutto dal soggetto raffigurato. Così scriveva nel dicembre del1768 l’antiquario Giovambattista Passeri al padre Paciaudi:

Bellissimo è il Musaico, del quale vi rimando il disegno; ed il soggetto nonmi giunge punto nuovo. In una Patera Etrusca dell’Istituto di Bologna v’èqualche cosa di coerente, o per meglio dire l’Atto secondo di questa favola.Prendete in mano l’Elettra di Sofocle e leggetene l’introduzione. Oreste e Pi-lade tornati in Argo travestiti, e sotto altro nome di Pellegrini Focensi conanimo di ammazzare Clitemnestra Madre, coll’adultero Egisto prepararonola favola, che il povero Oreste era morto flagellato dai Carri nei GiuochiDelfici, e per conferma di questa impostura portò seco un orcio pien di ce-neri [...]. Oreste da principio si presentò sconosciuto alla sorella consegnan-dole l’urna colle ceneri (che è ciò che si rappresenta nel disegno presente) ed

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169 Del mosaico non si fa menzione in diversi contributi, anche recenti, sulla produzionemusiva nell’Italia Settentrionale (vedi ad esempio, A. Frova, Il mosaico e la pittura, in Arte eciviltà romana nell’Italia settentrionale dalla Repubblica alla tetrarchia, II, Bologna 1965, pp.508-15; G. L. Grassigli, Scelta e uso del mito nei mosaici della Cisalpina, in Atti del Colloquiodell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (AISCOM), IV,1997, pp. 705-20 e Idem, La scena domestica e il suo immaginario. I temi figurati nei mosaicidella Cisalpina, Napoli 1998; D. Scagliarini Corlàita, Edilizia privata: l’apparato decorativo, inMarini Calvani 2000, pp. 186-204. Il mosaico è invece pubblicato, come opera anteriore alprincipio del II sec. d.C., in Marini Calvani 1978, p. 42, fig. 59.

170 La cornice è costituita da una linea tripla di tessere nere di mm 4-4,5 ciascuna; il fon-do neutro dell’emblema presenta tessere che oscillano tra i 3 e i 4 mm, mentre le figure, e inparticolare i volti, sono composti di tessere che non superano i 3 mm.

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ella con dolore grandissimo, e pianto amaro lo ricevette (v. 1130). [...] L’abi-to dei due protagonisti è da viandante, ma de’ tempi eroici, ne’ quali si viag-giava colla lancia; ciocché voi vedrete espresso frequentemente nelle pittureetrusche [...]. Nella Patera di Bologna mi pare che si rappresenti l’arrivo diquesti Forastieri alla presenza de’ Regnanti coll’Orcio appresso171.

Fin dal 1768 il Passeri aveva dunque identificato nel mosaico l’episodiodell’incontro tra Oreste e Pilade con una dolentissima Elettra, forte anchedel confronto con uno specchio etrusco del Gabinetto di Antichità di Bolo-gna, che nell’interpretazione di Giacomo Biancani Tazzi, proprio in queglianni alle prese con l’edizione di un’opera sulle “patere” etrusche (come al-lora si chiamano gli specchi), doveva raffigurare «Oreste già turbato pelcommesso matricidio, che si presenta ad Egisto armato, e galeato, che alzan-dosi dal soglio se gli fa incontro, stende le mani a lui in atto di grata acco-glienza e sta con volto attento ad udire la lieta novella della morte del figlia-stro, che viengli narrata, e confermata coll’indicargli l’urna fatale»: la scenaincisa sullo specchio bolognese verrà in seguito riconosciuta dal Gerhardcome il medicamento della ferita di Telefo da parte di Achille172, ma l’inter-pretazione settecentesca fornì per lungo tempo un significativo riscontro al-l’iconografia attestata sul mosaico parmense, tanto che l’esegesi fornita dalPasseri sarà ancora riproposta nei cataloghi del Museo di Parma redatti dalMonaco173.

Una non troppo velata polemica nei confronti del metodo interpretativoadottato dal Passeri affiora, per la verità, nel carteggio tra Pietro De Lama eil celebre grecista bolognese Massimiliano Angelelli, che nel 1816, dietro in-vito dello stesso prefetto del Museo di Parma, scelse come frontespizio perla sua traduzione dell’Elettra di Sofocle proprio una riproduzione del no-stro mosaico174:

quell’asta così allacciata al braccio dei due ospiti, e che si regge in alto, senzache nessuna visibil forza la sorregga, merita che di lei si parli, non volendosi

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171 De Lama ms. 20, lettera al marchese Angelelli del 26 dicembre 1815 in cui è ricopiatala lettera del Passeri al Paciaudi (della lettera esite copia anche in AMANP, ms. 60, Lettere dimons. Passeri al padre Paolo Maria Paciaudi raccolte e trascritte da Pietro de Lama, 1815).

172 Sassatelli 1981, p. 21, n. 2.173 Monaco 1938, p. 41 e Idem 1940, p. 10.174 M. Angelelli, Elettra. tragedia di Sofocle recata in versi toscani, Bologna 1816: l’incisio-

ne del mosaico dipende da un disegno del parmigiano Antonio Isac fornito all’Angelelli dal-lo stesso De Lama (De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 24 agosto 1816; cfr. ArrigoniBertini 1986, p. 314, nota 38 e fig. 1, in cui riproduce l’incisione eseguita da Antonio Costaper l’edizione delle Tragedie di Sofocle edita dall’Angelelli nel 1823-1824).

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per certo incolpare lo scultore di questa pietra di sì goffa trascurataggine.Anche quell’urna, o canestro in cui fingonsi raccolte le ceneri di Oreste, par-mi di forma singolare [...]. Dopo la lettera del Passeri sono entrato in gran-dissimo desiderio di vedere la patera del nostro Istituto, benché io credo chenessun lume possa ella portare entro queste tenebre

scriverà l’Angelelli all’amico archeologo nel gennaio del 1816, convinto chelo specchio di Bologna, a differenza dell’emblema musivo, non illustrasse af-fatto un episodio dell’Orestea di Sofocle, ma dipendesse piuttosto da unaversione del mito narrata da Igino175. Criticando, un po’ ironicamente, le in-congruenze presenti nella descrizione fatta dal Passeri, l’Angelelli non fecealtro che sottolineare le particolarità iconografiche di difficile comprensione(e in parte spiegabili con le ingenuità presenti nel restauro settecentesco) oche addirittura, come vedremo in seguito, sembrerebbero comprometterel’identificazione tradizionale della scena176.

Nel 1788 Ennio Quirino Visconti aveva pubblicato una dissertazione sudue emblemata musivi rinvenuti, a suo dire, tra alcuni ruderi antichi del-l’agro romano e subito acquistati dall’ambasciatore spagnolo José Nicolásde Azara177: nell’interpretazione proposta dal Visconti entrambi i mosaiciintendevano illustrare episodi tratti dall’Elettra di Sofocle, ed in particolaredue momenti di divinatio del futuro e che vedono coinvolti, in un caso,Oreste e Pilade mentre traggono un auspicio favorevole nel santuario diApollo ad Argo, e nell’altro Clitemestra e una ancella, agitate per l’infaustopresagio. L’improvvisa comparsa di due mosaici di tema «sofocleo» nonpuò non aver incuriosito gli antiquari del ducato ed è anzi assai probabileche il Visconti sia stato interpellato a proposito del mosaico conservato a

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175 AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, lettera di Massimiliano Angelelli del21 gennaio 1816.

176 Incongruenze che già gli aveva fatto notare il De Lama nel dicembre del 1815: «Ciòche pare a me insolito si è che hanno l’asta pura allacciata al braccio, l’uno al destro e l’altro(per fare simetria nel quadro) al sinistro, e non stringendola colla mano, non so vedere per-ché reggasi alzata, molto meno poi essendo legata nella parte inferiore giacché parmi che ilproprio peso dovrebbe farla declinare al basso» (De Lama ms. 20).

177 Osservazioni di Ennio Quirino Visconti su due musaici antichi istoriati, Parma 1788. IlVisconti curiosamente non precisa l’esatto luogo di rinvenimento dei due mosaici, scopertisolo l’anno precedente, mentre secondo la testimonianza di Basilio Castellanos i due emble-mata sarebbero stati scavati a Villa Adriana: entrambi i pezzi furono in seguito donati dal-l’Azara alla Principessa di Santacroce (vedi Cacciotti 1993, pp. 33-34, figg. 75-76) e in segui-to dovettero passare al British Museum (alcune vecchie riproduzioni fotografiche dei mosai-ci si conservano nell’Archivio Fotografico dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma,foto n. 28.4189 e 28.4190).

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E.Q. Visconti, Osservazioni su due mosaici antichi istoriati, Parma 1788.

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Parma, come sembrerebbe indicare anche l’esistenza, nell’archivio del loca-le Museo Archeologico, di una bozza manoscritta del saggio del Visconti:non conosciamo l’opinione in proposito del celebre antiquario, ma non èescluso che vada riferito proprio a questo consulto il giudizio di «visiona-rio» espresso dal Visconti a proposito del Passeri178, in riferimento forse allasua lettura del mosaico parmense. Certo è che il De Lama sembrava convin-to della somiglianza, sia tematica che stilistica, tra il nostro emblema e quellidell’Azara, così che quando su questi ultimi cominciò a pesare il sospetto difalsità, l’archeologo parmigiano finì per sospettare anche del mosaico con-servato nel suo museo:

Il padre Paciaudi, a cui erano noti i talenti del Leoni e dell’Alfani nel con-traffare tali monumenti, lo tenne sempre per antico e genuino. Ma l’essereaffatto simile per l’arte e per le dimensioni a’ que’ due del cavalier de Azarariconosciuti per rappresentazioni di altre scene di quella medesima tragediadal grande Visconti che li illustrò, e della cui autenticità dubitasi ora da alcu-ni dotti Archeologi, scema la fede che si vorrebbe prestare al giudicio di queldotto Teatino.179

Ad alimentare i dubbi del De Lama sull’autenticità del mosaico si ag-giunsero le notizie discordanti relative al luogo del suo rinvenimento.

Alla fine di dicembre del 1768 il Paciaudi aveva informato il bologneseGiacomo Biancani Tazzi del recente rinvenimento del mosaico, «scoperto ...venti piedi sotterra nello scavare per le sostruzioni del nuovo Reale Palaz-

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178 Giudizio riportato dal De Lama in una lettera a Massimiliano Angelelli, unita allaquale l’archeologo inviava all’amico un disegno di Antonio Isac riproducente il mosaico:«Lo accompagna [il disegno] una lettera del Passeri. Del Passeri, che non già da visionariocome lo dice alcuna volta il gran Visconti, ma come erudito antiquario, fu il primo a ricono-scervi, con l’aiuto del veramente dotto, e sempre commendabile prof. Biancani questa scenadi Sofocle (vedi De Lama ms. 20, lettera all’ Angelelli del 26 dicembre 1815).

179 De Lama 1824a, pp. 122-23. Tanto il Leoni che l’Alfani erano due celebri falsari emercanti d’arte attivi nella prima metà del XVIII secolo: scrivendo al Conte di Caylus nelsettembre del 1759 il Paciaudi, a proposito di un mosaico acquistato dal cardinale Albani eche l’antiquario giudicava falso, così annotava: «au commencement de ce siècle un certainLeoni, vénitien, qui contrefasoit toutes sortes d’antiquités, même les vases étrusques, à mer-veille, fit aussi des ouvrages en mosaïque, qu’il vendoit comme antique» (vedi Sérieys 1802,p. 81). Della mediazione dell’Alfani, residente a Roma intorno alla metà del secolo, si servivail conte di Caylus per i suoi acquisti di antichità: il Paciaudi, che non doveva stimare troppola serietà e la competenza antiquaria del mercante, lo soprannominò «Polichinel» e «le co-médien atellane» (Sérieys 1802, p. 22 e Nisard 1877, I, p. 12). Sulla base delle riproduzionifotografiche conservate nell’Archivio dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, misembra di potere escludere che i mosaici editi dal Visconti siano effettivamente antichi, men-tre ritengo più probabile una datazione al XVIII secolo.

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zo»: la lettera del Paciaudi, da tempo dispersa ma documentata da una suc-cessiva comunicazione dello stesso Biancani all’abate Mazza nel dicembredel 1777180, non lascerebbe dunque dubbi sulla provenienza parmigiana delpezzo. Nell’imminenza delle nozze tra Ferdinando di Borbone e MariaAmalia d’Asburgo l’architetto di corte Ennemonde-Alexandre Petitot venneincaricato di progettare un nuovo, grandioso, Palazzo Ducale, da affiancareall’imponente complesso della Pilotta: i lavori, avviati nel 1766, prevedeva-no la parziale demolizione del vecchio palazzo farnesiano e l’edificazione(mai realizzata) di un nuovo complesso più a est, esteso ben oltre l’attualestrada Garibaldi181. Non erano ancora maturi i tempi per l’indagine archeo-logica della Parma romana e la casuale scoperta di un antico mosaico nonsembrò alterare affatto i progetti e i tempi di lavoro dell’immenso cantiere:il mosaico fu presto abbandonato in un magazzino sotterraneo della Pilottae persino la notizia del suo rinvenimento, ben circostanziata e che concordaperfettamente con la data d’ingresso del pezzo nelle raccolte del Museo diParma, sarà presto dimenticata. Solo il Paciaudi, in qualità di antiquario dicorte, sentì l’obbligo (e probabilmente intuì l’interesse) di esaminare più neldettaglio il mosaico e forse anche l’antico contesto di provenienza, ma an-che i suoi propositi di studio saranno quasi subito abbandonati182.

Quando, dopo alcuni decenni, si tornerà ad interessarsi del mosaico, ec-co che questo sarà nel frattempo divenuto “velleiate”183. La provenienza da

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180 BPP, carteggio Mazza, cass. 137: lettera di G. Biancani Tazzi del 22 dicembre 1777.181 Sulle vicende del palazzo ducale progettato dal Petitot, vedi E. Casa, Un progetto del

cavaliere architetto Ennemondo Petitot de Mont-Louis per edificare in Parma un Palazzo Duca-le (1766-69), «Archivio Storico per le Province Parmensi», 3, 1894, pp. 27-36; Mambriani1996, in part. pp. 36-37; Cusatelli 1997, pp. 323-26 e Cirillo 2002, pp. 142-57.

182 Di una dissertazione che il Paciaudi, già al principio del 1769, stava preparando sulmosaico parla il Biancani Tazzi che, probabilmente sollecitato da una domanda del teatino,così gli scriveva nel gennaio del 1769: «quanto ai mosaici etruschi non mi è sinora accadutod’incontrarmi in alcuno sicuramente tale. A Lei, dottissimo Paciaudi è riserbato il campo divindicare questo nuovo pregio alla Nazione Etrusca» (BPP, Carteggio Paciaudi, cass. 67, let-tera di Giacomo Biancani Tazzi del 5 gennaio 1769; su questo progetto di studio vedi ancheBPP, Carteggio Mazza, cass. 137, lettera del 22 dicembre 1777). Si direbbe che il Paciaudinon avesse ben chiaro il quadro cronologico e storico-artistico relativo al mosaico in questio-ne, e non è forse un male che abbia desistito nei suoi progetti di pubblicazione.

183 Sembra di poter riconoscere il mosaico in quello registrato, senza alcuna indicazionedi provenienza, nell’Inventario delle antichità del Museo di Parma, redatto dal De Lama nel1807: «un pezzo quadrilatero con due figure in mosaico: è un po’ malconcio; piedi 1, pol. 3,lin. 6 (De Lama ms. 30, n. 53). Il mosaico diventa per la prima volta “velleiate” nelle letteredel carteggio De Lama-Angelelli (AMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Privati, cart. 2 eDe Lama ms. 20). L’origine veleiate del pezzo è ribadita dal De Lama nelle Notizie prelimina-ri alle sue Iscrizioni antiche, dove l’archeologo sottolinea l’importanza della pubblicazione

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Veleia è più volte ribadita dal De Lama nel carteggio con l’amico Angelelli,e come reperto veleiate il mosaico fu infatti inciso nel frontespizio della tra-duzione dell’Elettra edita nel 1816 dal grecista bolognese. Non è forse uncaso che proprio in questi anni, coincidenti con la riapertura delle campa-gne veleiati, si riscopra l’interesse per questo malconcio mosaico: per la pro-secuzione degli scavi era di fondamentale importanza che si riuscisse a ride-stare l’interesse scientifico o almeno la curiosità che le rovine dell’antica cit-tà avevano suscitato negli anni Sessanta del Settecento negli uomini di cul-tura e persino nei semplici viaggiatori; del tutto comprensibile, quindi, chesi tenti ora di rivalutare un dimenticato reperto di presunta provenienza ve-leiate, stimolando il dibattito scientifico e incoraggiando la pubblicazione diincisioni che lo raffigurino. Difficile pensare che il De Lama abbia artata-mente inventato l’origine veleiate del mosaico: è più probabile, invece, chesia stato lui stesso ingannato dalla scarsità di notizie relative a questo pezzoe quindi spinto a crederlo, come la maggioranza delle antichità presenti al-l’epoca a Parma, pertinente alle rovine di Veleia. D’altronde solo alcuni annipiù tardi, secondo la sua stessa testimonianza, sarebbe venuto a conoscenzadella lettera del Paciaudi sugli scavi per il nuovo Palazzo Ducale:

Fra le carte del fu padre Abate Mazza si è trovata una lettera de’ 22 dicem-bre 1777 del prof. Biancani. In questa citane egli una scritta dal padre Pa-ciaudi in data dei 30 dic. 1768, cioè pochi giorni dopo che ebbe ricevutaquella del Passeri dall’E.V. pubblicata che spiega la scena rappresentata sulmosaico, che non più velejate, ma parmense dovrebbe dirsi se fosse vero ciòche scrisse il Paciaudi in quella lettera che contraddice ai registri degli scavivelejati. Ecco le parole del Biancani. Per riconoscere dunque la verità sareb-be necessario vedere la risposta del padre Mazza al prof. Biancani. Egli eradiligentissimo nel ricercare le bucce al padre Paciaudi, e se su questo puntovi sarà stato argomento di dubbio, non lo avrà taciuto. I giornali degli scavi,e la tradizione dicono il musaico velejate; lo nega in quella lettera al Biancaniil padre Paciaudi. A chi credere?

scriverà infatti all’Angelelli nel luglio del 1820, non mascherando un pizzicodi scetticismo su questa nuova prospettiva. Il preciso riferimento ai giornalidi scavo sembrerebbe conferire una certa veridicità all’ipotesi della prove-nienza veleiate, ma una scrupolosa ricerca tra gli inventari e le relazioni del-

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del mosaico fatta dall’Angelelli (De Lama 1818, p. 30, nota 1). Sia l’Antolini che il Vogheraavevano progettato di inserire il mosaico con l’Elettra nelle loro pubblicazioni veleiati: Il Vo-ghera lo fece infatti disegnare dal Campana (vedi supra, p. 125 e Arrigoni Bertini 2003, p.452), mentre l’Antolini, nel suo taccuino del 1818, si era interrogato sul preciso luogo di rin-venimento, a Veleia, del mosaico (vedi supra § 4.1).

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le campagne condotte fino alla prima chiusura degli scavi, nel 1765, non miha permesso di trovare conferma alle parole del De Lama184. Lo stesso pre-fetto, nella sua Guida del Forestiere, riferendosi alla tradizione che voleva ilmosaico «uno dei primi prodotti degli scavi velejati, prima che si aprisseroper ordine sovrano»185, finiva per contraddire le sue precedenti affermazio-ni, dal momento che gli scavi eseguiti a Veleia prima del 1760 vennero con-dotti nella più assoluta clandestinità, e di certo senza alcuno scrupolo di do-cumentazione.

Solo di recente è stato possibile venire a capo di questa intrigata questio-ne e ricondurre, con una certa sicurezza, il nostro emblema musivo al patri-monio archeologico di Parma romana. Gli ultimi studi sull’attività parmigia-na del Petitot, e in particolare sul grandioso cantiere per il nuovo Palazzodei Borbone, hanno reso disponibile una interessante documentazione rela-tiva proprio agli anni del rinvenimento del mosaico: un disegno ad acqua-tinta, oggi purtroppo disperso ma registrato tra le raccolte grafiche della Bi-blioteca Palatina di Parma, doveva quasi certamente riprodurre questo mo-saico, a giudicare almeno dalla didascalia che lo accompagnava («emblemao sia opera a mosaico ritrovato nel 1768 a 17 d’agosto in un pavimento a 9bracci al di sotto del piano della città di Parma in occasione che si escavava-no li fondamenti del nuovo Reg. Ducal Palazzo»)186, e che sembrerebbeconfermare in pieno le affermazioni del Paciaudi.

È pur vero che dai ruderi del vecchio Palazzo Ducale, in parte demolitoper far spazio a quello progettato dal Petitot, si rinvenne all’epoca almenoun altro reperto antico, che con Parma romana sembra avere ben poco ache fare: mi riferisco al recupero della stele funeraria di Coelia Gemella, alungo attribuita dalla tradizione antiquaria sette e ottocentesca al patrimo-nio epigrafico di origine parmense, ma di cui di recente è stata dimostratal’origine patavina; scoperta per la prima volta a Padova fin dal 1650, la stele

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184 Allo stesso risultato era giunta anche l’indagine di M.G. Arrigoni Bertini, che ha an-che ripercorso le tappe principali della vicenda antiquaria del nostro mosaico. È possibile,come già osservava l’Arrigoni Bertini, che il De Lama avesse male interpretato i numerosi ri-ferimenti a frammenti di mosaici, anche policromi, rinvenuti effettivamente a Veleia nei pri-mi anni di scavo (Arrigoni Bertini 1986, pp. 313-16).

185 De Lama 1824a, pp. 122-23: in quest’opera a stampa il De Lama incomincia ormai amettere in dubbio l’ipotesi della provenienza veleiate del mosaico, a favore di una sua origi-ne parmense, determinando così le attribuzioni posteriori.

186 Il disegno, un tempo conservato in BPP, Ms. Parm. 3715, fasc. 6, presentava infattiquesta didascalia, a giudicare da quanto trascritto nell’inventario del fondo dei disegni dellaPalatina. L’esistenza del disegno è segnalata in Cusatelli 1997, p. 325, n. 107 (con l’errata in-dicazione del fasc. 4, n. 11) e in Cirillo 2002, p. 152.

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sarebbe infatti finita a far parte delle raccolte archeologiche dei duchi Far-nese e per questo motivo trasferita nel Palazzo Farnesiano di Parma, tra lecui rovine sarebbe poi stata nuovamente “scoperta” intorno al 1767187. An-che per il nostro mosaico si potrebbe, dunque, ipotizzare un’analoga vicen-da collezionistica, ma il preciso riferimento, nei libri mastri dell’epoca, adun intervento di “estrazione” del pezzo, per il quale vennero impiegati di-versi operai188, farebbe piuttosto propendere per una effettiva pertinenzadel mosaico alla decorazione pavimentale di un qualche ignoto edificio diParma romana.

Il settore interessato dallo scavo, del resto, corrisponde ad un’area che harestituito nel tempo numerose testimonianze archeologiche, tra cui alcunilacerti di pavimenti musivi: nel 1821, nello scavare le fondamenta per ilnuovo teatro ducale (odierno Teatro Regio), furono infatti recuperati, comesi ricorderà, almeno sette frammenti di pavimenti musivi in tessere bianchee nere, a disegno prevalentemente geometrico o a ornati vegetali, oggi notisolo attraverso le riproduzioni grafiche fatte all’epoca dal De Lama, che perprimo dette notizia di questi ritrovamenti, ma che in base a confronti stilisti-ci e di composizione sono stati datati al periodo augusteo-giulio claudio189.Ulteriori scavi, condotti da M. Marini Calvani nel 1977 all’interno del golfomistico del Teatro Regio, hanno rimesso in luce i resti di una pavimentazio-ne musiva composta da un’ampia superficie bianca delimitata da una corni-ce a fasce di tessere bleu e soglia a ornato geometrico, databile agli inizi delII sec. d.C. e pertinente ad una fase di ristrutturazione di una domus già esi-stente in età augustea190. Mettendo insieme i dati relativi alle scoperte del1768 con quelle del 1821, il De Lama si era spinto ad ipotizzare l’esistenza

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187 Per l’intera vicenza collezionistica e antiquaria di questa stele, vedi Arrigoni Bertini1990.

188 Vedi ASP, Computisteria borbonica, Fili correnti, b. 16a, agosto 1768 (vedi anche Ci-rillo 2002, p. 152).

189 Vedi Marini Calvani 1978, p. 42, fig. 57. Per alcuni confronti con i motivi decoratividei mosaici trovati nel 1821, vedi Le décor géométrique de la mosaïque romaine. Répertoiregraphique et descriptif des compositions linéaires et isotropes, Paris 1985, tavv. 64, e, 107, a-c,108, 126, b, 163, c. La documentazione dello scavo condotto nel 1821 nell’area del soppres-so convento di S. Alessandro, in seguito occupata dal nuovo Teatro Regio, si conserva inAMANP, Carteggio De Lama, Lettere di Governo, fascicolo “Corrispondenza Casapini del1821 relativamente agli scavi fatti nel Convento di S. Alessandro in Parma”. Il risultato diquesti scavi, che permisero di recuperare anche un prezioso tesoro di monete imperiali egioielli tardo antichi, furono pubblicati dal De Lama nel 1824 (De Lama 1824b, § 2, pp. 6-9,tav. IV). Sugli scavi condotti nel 1977 all’interno del golfo mistico del Teatro Regio, vedi Ma-rini Calvani 1978, pp. 42-43, fig. 56, 58, 60.

190 Marini Calvani 1978, pp. 42-43, fig. 56, 58, 60.

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di una vasta domus privata, cui a suo avviso andavano riferiti tutti i branimusivi (compreso il nostro emblema policromo) trovati nell’area compresatra il Teatro Regio e il piazzale a oriente del Palazzo della Pilotta (attualepiazza della Pace)191: non esistono, in realtà, elementi che permettano di at-tribuire ad un unico contesto archeologico i ritrovamenti fatti all’interno delTeatro Regio con quelli effettuati nel 1821 o con quello, poco più a nord,del 1768, ma la sicura messa in luce di strutture residenziali di un certo pre-stigio può forse bastare a giustificare la presenza, in quest’area, di un emble-ma musivo pavimentale.

Assai più problematica è invece l’interpretazione del tema raffigurato.L’esegesi proposta dagli antiquari settecenteschi, a parte alcune piccole va-rianti (il De Lama proporrà di riconoscere nei due personaggi maschili Ore-ste e il Pedagogo)192, non è mai stata messa in discussione, ed in effetti loschema compositivo del nostro mosaico, con la figura femminile, in atteg-giamento dolente, seduta o inginocchiata in mezzo a due figure maschilistanti, solitamente in nudità eroica, sembra caratterizzare la rappresentazio-ne di questo episodio del mito, attestato in prevalenza nella produzione va-scolare greca e magnogreca, anche se non mancano esempi di affreschi o ri-lievi funerari di età romana193. Solitamente, tuttavia, è presente nella scena,come elemento topografico caratterizzante dell’episodio, il segnacolo dellatomba di Agamennone, del tutto assente nel nostro mosaico, e inoltre misembra difficile riconoscere nel grosso contenitore a forma aperta, sorrettodalla figura femminile, l’urna contenente le supposte ceneri di Oreste (già ilDe Lama aveva, infatti, cercato di ovviare a questa difficoltà, proponendo diriconoscere nel contenitore il «canestro che racchiude l’urna»)194. Se poi si

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191 De Lama 1824b, p. 8: «La distribuzione di questi pavimenti ... annuncia esser qui sta-ta una casa signorile, la di cui ampiezza può argomentarsi maggiore da altri pavimenti similiscoperti in questo luogo nel 1766 allorché scavossi il terreno per i fondamenti del non innal-zato Palazzo Reale».

192 De Lama 1818, p. 30, nota 1.193 Per gli esemplari ceramici, vedi LIMC, III, s.v. Elektra I, in part. pp. 710-17 (voce di

G. Berger-Doer); per un affresco funerario dalla necropoli di Hermoupolis Magna (TounaEl-Gebel), con la scena dell’incontro tra Elettra e Oreste davanti alla tomba di Agamennone,databile al I-II sec. d.C., vedi S. Gabra e E. Drioton, Peintures à fresques et scènes peintes àHermoupolis-Ouest (Touna El-Gebel), Caire 1954, tav. 17; l’episodio dell’incontro tra Elettra,Oreste e Pilade, secondo uno schema compositivo analogo a quello del nostro mosaico,compare anche sul fianco destro di un sarcofago romano, già nella collezione Peiresc, in cuiElettra è seduta davanti alla tomba del padre e rivolge la testa verso il personaggio maschiledi destra (vedi H. Stern, Un sarcophage de La Gayole découvert par Peiresc, «Gallia», XV,1957, pp. 73-85).

194 Vedi De Lama ms. 20, lettera all’Angelelli del 26 dicembre 1815.

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accetta l’ipotesi che il mosaico abbia fatto parte della decorazione pavimen-tale di una domus privata, bisognerebbe interrogarsi sul significato da darealla presenza, in un contesto di carattere residenziale, di un tema mitologicosolitamente connesso con il mondo funerario. Ogni tentativo da me condot-to di trovare una valida alternativa tematica, più consona al contesto di ori-gine e più rispondente, in ogni singolo dettaglio iconografico, alla scena raf-figurata nel mosaico, si è finora rivelato ben poco fruttuoso e ritengo che ul-teriori ricerche in questa direzione siano ancora necessarie.

Ciò che più interessava qui era, però, di ripercorrere le tappe della nuova“fortuna” del preteso mosaico veleiate, un episodio che ben testimonia dellarinascita di interessi per le tradizionali iniziative archeologiche del ducato eche non poteva che culminare, come di frequente in piena età neoclassica,nelle sale di studio dell’accademia. Risale infatti al 1818 un progetto dell’ac-cademia parmense per il concorso in disegno di composizione e plastica,apertamente ispirato alla scena riprodotta nel nostro mosaico: il tema pro-posto per quell’anno era infatti «Oreste e Pilade che annunciano a Elettra lamorte dell’amato fratello, apprestandole in testimonio di ciò una picciolaurna di rame. Sia la dolorosa in atto di quella stringere, e parlarle, chiaman-do colui, che presente e commosso già, già non si tiene dallo scoprirsi»195.Vincitore del premio per il disegno di composizione fu il parmigiano Evan-gelista Pinelli, che riuscì a conquistare la giuria grazie allo stile nobile e «ve-ramente greco» della figura di Elettra, e nell’elogio del suo lavoro sembra diriconoscere un altro, sincero, apprezzamento per il piccolo e malconcio mo-saico “veleiate”196.

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195 Scarabelli-Zunti, Documenti per la storia della R. Accademia di Belle Arti di Parma, II(1815-1882), c. 139, AMANP, ms. 115. Vedi anche Atti dell’Accademia di Belle Arti di Par-ma, vol. 2 (anno 1818).

196 Così è descritto il disegno del Pinelli: «compresa da acerba doglia, s’appoggia Elettraall’urna, che non creduta menzognera s’accosta al seno: nobile, e di uno stile veramente gre-co si è questa figura. Non regge a tanto pianto Oreste, e si rivolge ansioso a Pilade quasichiedendo se debba o no svelarsi alla presenza del Coro che accompagna la desolata sorella.Felice è la composizione di questo disegno, che fedele al programma ci fa concepire alte spe-ranze sull’avanzamento nell’arte del giovane concorrente, ed onora il maestro che in questasì bene lo dirigge. Sarebbesi però desiderata una maggiore degradazione di piani, e di tinte,e meno forzata la mossa della testa d’Oreste, sebbene in tal momento possa essere stata qua-si violenta» (De Lama , “Voto presentato all’Accademia pel concorso dell’anno 1818”). Ilvincitore del premio di plastica aveva invece scelto di raffigurare il momento immediatamen-te successivo del mito, quando cioè Elettra riconosce il fratello Oreste: questo premio fu vin-to, con il bassorilievo Oreste nell’atto di essere riconosciuto da Elettra, ancora oggi conservatonell’Accademia di Belle Arti di Parma, dallo scultore Marziale Piroli, giovane allievo delCarra (vedi Godi 1974, p. XXX). Per il concorso del 1818, vedi Musiari 1986, pp. 145-50.

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Capitolo IV

Le antichità di Veleia nei diari dei viaggiatoridel Settecento e del primo Ottocento

Nel 1802 il monaco irlandese John Chetwode Eustace annotava, con ram-marico, nel suo diario di viaggio: «il principale ornamento di Parma, il suovanto e la sua gloria, erano i numerosi capolavori del Correggio [...]. Nes-suna altra città italiana, eccetto Roma, offriva maggiori attrattive all’artistao procurava più godimenti al viaggiatore di gusto»1. Eustace era giunto aParma troppo tardi per ammirare le glorie pittoriche della città, confiscatedai Francesi all’indomani della morte del duca Ferdinando e trasportate,con gran pompa, a Parigi. La sua incondizionata ammirazione per le operedel Correggio è solo una delle tante voci di un vasto coro di consensi ver-so l’artista emiliano e la sua scelta di sostare, comunque, a Parma, dove lagrandezza del maestro si poteva ancora ammirare negli affreschi delle cu-pole di S. Giovanni e del Duomo e nella celebre stanza del Convento di S.Paolo, si inserisce in una lunga tradizione di viaggi, in cui la tappa parmi-giana era quasi sempre giustificata dal desiderio di ammirare i tanti capo-lavori del pittore conservati in città. «Ma il Correggio! Il Correggio è lavera gloria di Parma» esclamava la pittrice Elisabeth Vigée Le Brun2, purdopo avere ammirato, e degnamente apprezzato, le antichità veleiati [Ap-pend. 19], e nel 1806 il tedesco Karl Friedrich von Rumohr volle fermarsia Parma con l’unico scopo di rendere omaggio al «meraviglioso» Correg-gio3: la forzata assenza dalla città di alcuni dei capolavori del pittore, pri-mi tra tutti la Madonna del S. Girolamo, un dipinto che nel luglio del 1752

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1 J.C. Eustace, A Classical Tour in Italy, London 1815: il brano è riportato in «Gazzettadi Parma», 7 agosto 1978, p. 3. Sul viaggio in Italia di Eustace, vedi Corradi e Razzetti 1986,pp. 533-35.

2 La Vigée Le Brun visitò Parma nel 1792: vedi Biondi e Mandich 1986, p. 312.3 K.F. von Rumohr, Drey Reisen nach Italien, Leipzig 1832: il brano relativo alla sosta a

Parma è riportato, con la traduzione di S. Corradi, in «Gazzetta di Parma», 16 marzo 1987,p. 3. Vedi anche Consolini e Fliri 1986, p. 714.

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aveva fatto entusiasticamente affermare ad un giovane Joshua Reynolds«devi chiedere di vedere la Sacra Famiglia con San Girolamo, di Correggio.Mi procurò il diletto più vivo che abbia mai ricevuto da un quadro»4, nonsembrò scoraggiare le visite dei turisti e degli appassionati d’arte, che anziebbero modo di apprezzare e opportunamente rivalutare le qualità artisti-che degli affreschi del pittore emiliano, fino ad allora un po’ troppo tra-scurati a vantaggio delle tele. Solo verso la metà dell’Ottocento incomin-ciò ad avvertirsi un cambiamento di tendenza nei gusti e negli interessi deiviaggiatori e Parma finì, a poco a poco, per diventare una tappa occasio-nale, una meta per pochi e scelti intenditori. «Sfortunatamente Parma nonè nell’itinerario dei turisti. Il branco dei viaggiatori segue l’itinerario ob-bligato, Firenze, Roma, Napoli e i due sublimi affreschi del Correggioscompaiono lentamente nell’abbandono e nell’oblio»: le parole sdegnatedel poeta Theophile Gautier, in Italia nel 18525, sembrano ormai sancireuna situazione di fatto.

La fama di città d’arte che accompagnò Parma per tutto il Settecento siera notevolmente accresciuta in seguito alla fondazione dell’Accademia diBelle Arti, un’istituzione destinata ad imporsi tra le migliori scuole d’arteeuropee e capace di attirare, fino almeno ai primi decenni del secolo se-guente, un elevato concorso di artisti italiani e stranieri6. Il ruolo fondamen-tale svolto dalla neonata accademia nello studio delle arti e nell’aggiorna-mento del linguaggio figurativo promosso dal ducato ottenne il pieno rico-noscimento di uno dei principali critici d’arte del tempo, il fiorentino LuigiLanzi, che nella sua Storia pittorica così annotava:

basta per lo più a uno Stato come una università per le lettere, così un’acca-demia per le belle arti, specialmente ove sia fondata, mantenuta, animata al-l’uso di Parma. Don Filippo di Borbone nel 1757, ch’era il decimo del suoprincipato, le diede l’essere; e il real suo figlio, che felicemente regge ora loStato, le ha dati e tuttavia le dà nuovi accrescimenti. Niuna cosa è più con-ducente a risvegliar fra noi il bel genio della pittura che il modo che ivi si tie-ne in premiare. Proposto il tema del quadro s’invitano al concorso non i gio-vani del Dominio solamente, ma gli esteri ancora; onde in ogni luogo ferve

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4 Il brano è citato in P. Mc Intyre, Reynolds in Italia. Un confronto con l’eredità del Cor-reggio, «Aurea Parma», 71, 1987, pp. 230-31.

5 T. Gautier, Voyage en Italie, 1852: il brano, in traduzione, è riportato in «Aurea Par-ma», 73, 1989, p. 59.

6 L’Accademia di Belle Arti di Parma venne fondata il 1° maggio del 1752, giorno di S.Filippo, patrono del duca che aveva favorito la nascita di questa istituzione. L’inaugurazio-ne ufficiale dell’accademia avvenne però solo nel dicembre del 1757 (Bédarida 1928, pp. 379-82).

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l’industria de’ più maturi studenti e più abili che risguardano inverso Parma[...] Il quadro coronato rimane per sempre in una camera dell’Accademia in-sieme con gli altri già prescelti ne’ decorsi anni; ed è questa una serie che finda ora interessa molto gli amatori delle belle arti7.

E in effetti la sempre crescente raccolta, nelle sale dell’accademia, delleopere d’arte premiate nei severissimi concorsi dell’Istituto fornì per gli ap-passionati d’arte nuovi motivi di interesse e la sosta parmigiana, con le paro-le del Millin, fu per molti un vero e proprio «sejour ... pour un ami des art»[Append. 21].

Furono, insomma, le glorie artistiche, più o meno recenti, della cittàche spinsero generazioni di viaggiatori ad inserire Parma nell’itinerarioverso il Sud e in questa scelta, dobbiamo ammetterlo, scarsa influenza eb-bero le scoperte archeologiche dell’antica Veleia, almeno se si considera,nel suo insieme, l’intero periodo che dalle prime esplorazioni ufficialigiunge sino al regno di Maria Luigia. È pur vero che proprio negli anni aridosso dei primi, fortunati, rinvenimenti sembra registrarsi un considere-vole aumento di visitatori e non furono pochi quelli che dedicarono lun-ghe pagine di descrizioni ammirate alle recentissime novità archeologiche.Se Veleia non riuscì mai, con le sue modeste rovine, ad ottenere la notorie-tà di Ercolano e Pompei, come era forse nelle speranze di Filippo di Bor-bone, è certo che il ritrovamento del celebre ciclo statuario della basilica,unito al non trascurabile complesso di reperti bronzei provenienti dall’an-tico municipium romano (tra cui primeggiavano, come è naturale, le duetavole legislative), contribuì a diffondere, in Italia e in Europa, la voce diuna nuova eccezionale scoperta e l’aria di mistero e di segretezza con cuila corte parmense si piccava di tutelare i nuovi rinvenimenti ottenne benpresto l’effetto desiderato, quello cioè di catalizzare sul piccolo ducatol’attenzione degli antiquari e degli uomini di lettere. Negli anni degli scavie in quelli immediatamente seguenti il fascino esercitato dai tanti monu-menti riemersi da un lontano passato e la propettiva eccitante di nuove,importanti, scoperte riuscirono persino ad offuscare l’ammirazione per lesensuali grazie del Correggio.

Ma che cosa conoscevano di Veleia i viaggiatori stranieri ? Nonostante lestrette limitazioni di visita e i rigidi divieti di trarre qualsivoglia riproduzio-ne delle antichità rimesse in luce, sembra proprio che non poche notizie, an-che se spesso inesatte, fossero trapelate, se uno dei motivi che spinsero ilPaciaudi a pubblicare la sua Mémoire sur l’ancienne Capitale des Velleiates

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7 Lanzi Storia, II, p. 254.

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fu proprio la volontà di correggere ciò che su Veleia si leggeva in quegli anninei diari di alcuni viaggiatori8.

Di certo, la pubblicazione della Tavola Traiana, e ancor più la polemicasorta tra gli studiosi che si contesero il merito della prima edizione, avevanodestato un forte interesse per le vicende antiquarie del ducato e già nel1757, prima ancora che si aprissero ufficialmente gli scavi, il letterato fran-cese Joseph de La Porte raccomandava al viaggiatore colto, interessato allaconoscenza del mondo antico, la visita alle rovine della romana Veleia, cittàmolto ricca di resti importanti [Append. 1]9. Non è un caso che le prime,informate, descrizioni dell’antica Veleia si trovino nei diari e nelle guide deiviaggiatori provenienti dalla Francia: per la sua posizione geografica Parmacostituiva una tappa quasi obbligata nell’itinerario di chi, entrato in Italiadal valico del Moncenisio, scendeva alla volta di Firenze e di Roma, ma fu-rono soprattutto gli stretti rapporti di dipendenza culturale e i legami politi-ci che a questa data legavano Parma alla Francia, favoriti dagli stessi duchi enutriti con ogni mezzo dal potente ministro Du Tillot, a garantire al ducatoun posto di riguardo nell’interesse del mondo letterario d’oltralpe, e non bi-sogna dimenticare che era stato proprio un francese, il conte di Caylus, adare per primo notizia, nel suo Recueil, degli eccezionali ritrovamenti vele-iati10. Le scarne informazioni fornite dal Caylus rimasero, almeno per i pri-mi due anni di scavo, le uniche a disposizione degli eruditi, in evidente con-trasto con l’assoluto silenzio ostentato dalla corte parmense e, dobbiamoimmaginare, rispettato con rigore dal canonico Costa, a giudicare almenodalla testimonianza dell’abate Richard, giunto a Parma nel 1762, che deipretesi tesori antichi rinvenuti a Veleia non riuscì a vedere nulla e che do-vette accontentarsi di riferire l’ipotesi sulla causa della distruzione della città(un terremoto), avanzata per primo dal Caylus [Append. 3]11. Qualche ec-

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8 Nella sua Memoria intorno all’antica Capitale dei Velejati, edita in francese nella GazetteLittéraire de l’Europe, il Paciaudi, come abbiamo visto (vedi supra, cap. II), non faceva mi-stero della sua ostilità verso i «viaggiatori non abbastanza eruditi» e i «giornalisti tumultua-ri». Più tardi anche il De Lama confermerà che lo studio preliminare del suo maestro su Ve-leia aveva soprattutto lo scopo di fare chiarezza sulle tante voci che correvano allora su que-sta nuova scoperta archeologica.

9 Il de La Porte giunse a Parma nell’ottobre del 1757, ma è possibile che le sue informa-zioni sull’antica città siano il frutto di un successivo aggiornamento, in previsione dell’edizio-ne del Voyage: solo così si spiegherebbe il riferimento ai numerosi resti antichi provenienti daVeleia, dal momento che nel 1757 erano stati riportati alla luce solo la Tavola Traiana, l’iscri-zione che menziona L. Calpurnio Pisone (CIL XI, 1182) e poco altro (vedi supra, cap. II p.65). Sul soggiorno parmigiano di questo viaggiatore, vedi Biondi e Mandich 1986, p. 168

10 Vedi supra, cap. II, p. 66.

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cezione alla regola, naturalmente, era concessa, e così quando nell’agostodel 1761 sostarono a Parma l’abate di Saint-Non e il pittore Fragonard [Ap-pend. 2], il ministro Du Tillot (grande estimatore dell’artista) si prodigò perfare avere agli illustri ospiti tutti i permessi necessari per visitare il sito diVeleia e tutte le antichità rimesse in luce (comprese le statue della basilica,alcune giudicate dal Saint-Non «di una bellezza eccezionale per l’espressio-ne generale dei volti e soprattutto per l’eleganza e la squisita lavorazione deidrappeggi»), e li introdusse presso il canonico Costa, che ancora ospitavanella sua dimora piacentina i frammenti della Tavola Traiana, perché potes-sero esaminare con calma le piante degli scavi, le iscrizioni e le medaglie fi-no ad allora recuperate12.

La situazione sembra cambiare dopo l’arrivo a Parma del Paciaudi. An-che se la sua Mémoire apparve (non a caso su una rivista francese) solo nel1765, non c’è dubbio che la fitta ed estesa rete di corrispondenti con il qua-le il teatino scambiava dubbi e opinioni nel periodo di stesura di questo bre-ve opuscolo, e più ancora le sue accurate indagini finalizzate alla realizzazio-ne di una più vasta (e mai pubblicata) opera su Veleia avessero finito per fartrapelare un ben più ricco bagaglio di notizie sui rinvenimenti allora in cor-so e sulla topografia dell’antica città. E così l’abate Coyer, a Parma tra il

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11 Caylus Recueil, IV (1761), pp. 182-83. Così il Mariette commentava con il Paciaudi,nel dicembre del 1765, la sosta parmigiana del Richard e, più in generale, la recente edizionedella Description historique et critique de l’Italie: «vous avez dejà reçu, à ce que je m’imagine,une nouvelle description de l’Italie, que vient de publier en six volumes in -12 un abbé Ri-chard que vous avez vu en Italie en 1762, et je pense que vous n’en êtes pas mécontent. On yparle bien de votre cour, et je trouve que l’auteur a bien vu ce qu’il a vu. J’aurais seulementvoulu qu’il eût consulté quelqu’un de mieux instruit que lui par rapport à la partie des arts,qui me paraît être l’endroit le plus faible de son livre» (Nisard 1877, II, p. 338). Su questa vi-sita del Richard vedi anche Bédarida 1928, p. 555; Biondi e Mandich 1986, p. 188 e Man-dich 1990, p. 406.

12 Sul viaggio del Saint-Non a Veleia, vedi Bédarida 1928, p. 536; Rosenberg 1986, pp.233-34 e Schippisi 1988, che cita anche una lettera del Du Tillot al Costa, ricca di elogi perl’attività pittorica del Fragonard. Ricevuta la graditissima visita dei due illustri visitatori, ilCosta si affrettò a scrivere le sue impressioni al ministro: «rendo vivissime grazie all’E.V. del-l’onore che mi ha procurato di conoscere e di servire il degnissimo abate di Saint Non il qua-le ha mostrato un sommo piacere di vedere tutti li disegni ed altro che tengo presso di me, equanto ho già preparato da presentare all’A.S.R. e mi è parso sì soddisfatto da non pensareforse più alla premeditata sua gita sulla faccia del luogo, ove si fanno li regi scavi, dicendomi,che in vista di quanto gli aveva mostrato, e dei disegni delle statue costì vedute, gli pareva diessere sì bene al fatto da reputar superfluo per ora di portarvisi, ne so poi qual determinazio-ne avrà presa, poiché il sig. Fragonat giovane assai pulito lo sollecitava a risolversi ed ei ri-spondeva che li stava a cuore il portarsi subito a Genova» (Costa ms. Pallastrelli, lettera delCosta al Du Tillot del 20 agosto 1761).

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1763 e il 1764, dopo la tradizionale digressione sui passi di Plinio il Vecchioe di Flegonte di Tralles a proposito della eccezionale longevità degli abitantidell’agro veleiate, mette in campo tutta una serie di informazioni sulla cittàdi Veleia, desunte interamente dalle testimonianze archeologiche [Append.4]. L’abate riferisce, in ordine, dell’esistenza dei principali edifici pubbliciche caratterizzavano le grandi città, il foro colonnato e pavimentato in mar-mo, l’altare dedicato ad Augusto, il chalcidicum, del rinvenimento delle sta-tue di marmo della basilica e dei frammenti della statua in bronzo dorato ri-tenuta di Adriano, della ricchezza degli elementi ornamentali, dell’abbon-danza degli ex-voto che documentano l’esistenza di diversi culti pur nellaassenza di un tempio e del rinvenimento della celebre statuetta di Eracle bi-bax e del relativo piedistallo con iscrizione dedicatoria da parte del sodali-cium dei devoti dell’eroe, importante frutto degli scavi del 1760. È moltoprobabile che gli appunti presi dal Coyer a Parma siano stati in seguito cor-retti e ampliati sulla base della Mémoire del Paciaudi, in cui l’esposizionedegli argomenti segue all’incirca lo stesso ordine, e dove ampio spazio è de-dicato alla scoperta di due iscrizioni marmoree rinvenute a Veleia, ricordateanche dal Coyer, e si trova persino il medesimo riferimento alla improvvisa erecente distruzione, in seguito a una frana, del villaggio di Picinisco, neipressi di Monte Cassino. Alcune affermazioni del Coyer suggeriscono peròun diretto e scrupoloso esame del materiale e forse anche un incontro conlo stesso Paciaudi. Nell’edizione a stampa della Mémoire (a differenza deltesto manoscritto in italiano) non si precisava, ad esempio, che le due iscri-zioni marmoree all’epoca appena scoperte attestassero il nome stesso del-l’antica città13, né che il numero complessivo delle iscrizioni rinvenute, tracui molte in onore a diversi imperatori, ammontasse a una sessantina (cifra,per la verità, un po’ troppo gonfiata), ma soprattutto non si faceva cenno alproblema più scottante e a lungo dibattuto, quello cioè relativo alla funzio-ne dell’edificio a pianta circolare scoperto a partire dal 1763 nella terrazza asud-est del foro: la denominazione di “grand cirque” data dal Coyer e il suoaccenno alle perplessità degli studiosi davanti a questo curioso monumento,fanno pensare che l’abate fosse perfettamente a conoscenza delle differentiipotesi interpretative avanzate all’epoca dagli antiquari14.

Dichiaratamente desunta dalla Mémoire del Paciaudi è invece la descri-

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13 Tra l’aprile e il maggio del 1760 erano state trovate l’iscrizione di L. Coelius Festus, in-dicato come “Res Publica Velleiat. Patrono” (CIL XI, 1183) e quella di L. Granius (CIL XI,1205), in cui pure compare il nome dell’antica città (“Velleiatium”).

14 Vedi la lettera del Caylus al Paciaudi del 12 dicembre 1763, in cui l’edificio è ormaichiamato “grand cirque” (Nisard 1877, I, p. 390). Per lo scavo e le diverse ipotesi interpreta-tive sul monumento, vedi supra cap. I, § 3 e 4 e cap. III, § 3 e 4.

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zione di Veleia e delle sue antichità fornita dal Lalande, che sostò a Parmanel 1765, quando gli scavi erano già stati sospesi15 [Append. 6]. Considera-to il successo di cui godette quest’opera nell’ambito della letteratura diviaggio settecentesca e l’autorità spesso accordata al suo autore, tanto che,come è ben noto, il Journal del Lalande divenne presto un testo di riferi-mento per chi si apprestava a compiere il viaggio in Italia, non c’è dubbioche furono proprio le parole del Lalande, ben più del trattatello in francesedel Paciaudi, a far conoscere al grande pubblico del Grand Tour lo statodelle conoscenze sull’antica città del piacentino. All’epoca del soggiornoparmigiano del Lalande si stavano tirando le somme sui primi cinque annidi scavo, il Paciaudi aveva appena convinto il primo ministro dell’opportu-nità di interrompere dei lavori, ostacolati dall’eccessiva massa dei depositidi terra e pietrame, e si accingeva alla stesura di una corposa dissertazionesu Veleia: stimolato all’idea di quest’impresa, di cui forse il teatino gli avevamostrato qualche bozza, e forse istruito dalla pianta generale degli scavi,principale vanto della direzione del Paciaudi ed esposta, ad uso dei visita-tori, nelle sale dell’accademia, il Lalande affermerà, deciso: «on y verra leplan général de la ville, des édifices, des places, des rues; il y aura moins dechoses que dans les monumens d’Herculane, mais des morceaux peut-êtreplus instructifs pour ceux qui aiment l’antiquité». Ma a uno studioso di fe-nomeni naturali, quale era il Lalande, Veleia, e in particolare il suo territo-rio, offriva anche altri motivi di interesse: parlando degli episodi di naturavulcanica di Pietra Mala, nell’Appennino bolognese, non mancò infatti diricordare gli analoghi fenomeni esaminati nei pressi di Veleia, che si mani-festavano agli occhi dei viaggiatori sotto forma di masse gassose infiamma-bili fuoriuscenti dal terreno argilloso. I “fuochi” di Veleia rappresentaronodunque un motivo in più per affrontare il non agevole viaggio sull’Appen-nino piacentino, e sull’esempio di celebri scienziati, come Alessandro Voltache vi si recò nel 178116, molti studiosi o semplici appassionati di scienze

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15 La prima campagna di scavi venne sospesa, dietro suggerimento dello stesso Paciaudi,nell’agosto del 1765 (ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, busta 20). Il Lalande dovet-te invece pensare che fossero stati interrotti fin dall’anno precedente. Sulla sosta parmigianadel Lalande, vedi Bédarida 1928, pp. 558-59 e Biondi e Mandich 1986, pp. 206-08.

16 Dopo aver esaminato il fenomeno dei “terreni ardenti” di Pietra Mala, il Volta decisedi integrare le sue ricerche sul fenomeno dell’aria infiammabile con una visita a Veleia: il «si-to delle fiamme», localizzato presso l’alveo del torrente Chero, fu l’unica sua meta, mentredel tutto trascurati furono i resti dell’antica città. I risultati di questa indagine saranno pub-blicati in A. Volta, Scritti sull’aria infiammabile, sull’eudiometro e sopra i fuochi di Pietramalae Velleia, in Idem, Opere, VII, Milano 1929, pp. 107-21. Sul sopralluogo veleiate del Volta,vedi Credali 1927.

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naturali decisero di includere la tappa di Veleia nel loro itinerario di viag-gio. Ne risultò, in alcuni casi, una felice commistione di curiosità antiqua-rie e competenze scientifiche, che permise di esaminare e conoscere le rovi-ne stesse di Veleia sotto una nuova e inedita propettiva. «In Velleia tuttorasi trovano cose degne d’essere esaminate dai naturalisti non meno che dagliantiquari ed amatori delle belle arti» si leggerà, ad esempio, nel diario re-datto dal medico fidentino Vincenzo Plateretti, in visita a Veleia nel 1786[Append. 15]17. Dopo una fugace menzione alle vicende che condusseroalla scoperta dell’antica città e al ricco materiale archeologico suddiviso trala Biblioteca e l’Accademia di Belle Arti di Parma o ancora racchiuso in va-rie casse «che tuttora aspettano il bene d’essere rimesse all’aria aperta», ec-co che l’attenzione dello scienziato si sposta subito ad analizzare la qualitàdei marmi e delle pietre impiegate dagli antichi per edificare il colonnatodel foro e gli edifici circostanti, mentre la presenza di alcune macine ed al-tri oggetti in pietra vulcanica, mostratigli dal custode e conservate nei ma-gazzini veleiati, lo spinge ad esprimere un giudizio da “tecnico” sulle possi-bili cause di distruzione della città romana: certo dell’esistenza, in antico,di un vulcano (diversamente da chi, come l’abate Coyer, aveva dichiarato latotale assenza di tracce vulcaniche in loco), il Plateretti rifiuterà tuttavial’ipotesi della catastrofe provocata da una improvvisa eruzione, ancora so-stenuta da alcuni viaggiatori e riportata, come probabile, nel Dictionnairehistorique et géographique portatif de l’Italie di Jacques Lacombe18. L’entu-siasmo per le importanti scoperte archeologiche veleiati, arricchite solo dapochi anni dal prezioso gruppo di bronzetti figurati scavati nell’autunnodel 177619, dovette convincere il nostro medico della rara preziosità di ogniavanzo, ed ecco che, nel suo diario, qualche capitello in marmo lunense di-venta di finissimo marmo pario (del resto il Lalande credeva di cipollino lecolonne, in cotto stuccato, del foro), ma nel complesso sembra attendibilela sua descrizione dei frammenti di «sanguigne Seravezze, Bellezze di Fran-cia, Broccatello di Spagna» ed altri marmi preziosi, soprattutto se si tieneconto dei tanti pavimenti musivi, anche policromi, rinvenuti nei primi annidi scavo e oggi quasi completamente perduti.

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17 Sul Plateretti (notizie 1811-1823), medico e collaboratore dell’incisore fidentino PietroZani, vedi Lasagni 1999, III, p. 973.

18 Per la voce su Veleia del suo Dictionnaire, edito a Parigi nel 1775, il Lacombe avevatratto informazioni, come egli stesso scrive, dalla Mémoire del Paciaudi apparsa nella Gazet-te Littéraire de l’Europe: in quest’opera però il Paciaudi riportava, solo per confutarla, l’ipo-tesi di una distruzione causata da eventi di natura vulcanica, mentre sosteneva con forza lapossibilità che la città fosse morta in seguito ad una o più frane staccatesi dai monti vicini.Su questa descrizione del Lacombe, vedi Biondi e Mandich 1986, p. 268.

19 Per l’elenco e le notizie relative alla scoperta di questi bronzetti, vedi supra cap. I, § 4.

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Nel coro delle tante voci, prevalentemente francesi, che hanno descrittole rovine di Veleia all’epoca delle prime esplorazioni, va senz’altro segnalataquella dello storico Edward Gibbon [Append. 5], giunto a Parma nel giu-gno del 1764, in compagnia del compatriota William Guise20. La curiositàche spinse il giovane Gibbon ad esaminare con cura i reperti veleiati va for-se ricercata nella sua naturale propensione verso la storia antica, che di lì adalcuni anni lo avrebbe trasformato in uno dei più valenti studiosi dell’impe-ro romano, ma a favorire questo interessato esame concorse senza dubbioanche una fortunata circostanza. Nel maggio dello stesso anno aveva sostatoper alcuni giorni a Parma il Duca di York e per l’occasione era stata allesti-ta, nella galleria in seguito destinata alla biblioteca, una vera e propria mo-stra delle antichità rinvenute a Veleia21: si trattava quasi certamente dellaprima esposizione organica, anche se non completa, dei marmi e dei bronziche costituivano il vanto dell’impresa archeologica del ducato ma che a que-sta data venivano mostrati con estrema parsimonia e con altrettanto sospet-to. I due giovani visitatori inglesi, giunti a Parma pochi giorni dopo il duca,poterono quindi approfittare di questa favorevole condizione di visita e laattenta, scrupolosa, a tratti entusiastica e spesso documentata descrizionedei pezzi più significativi lasciataci dal Gibbon ci lascia intendere che questanon fu una semplice visita di piacere, ma quasi una palestra dove affinare leproprie armi di storico e di antiquario. Stuzzicato dalle conoscenze appresedurante la sosta parmigiana e molto incuriosito dalla recente edizione curatadal Muratori della Tavola Traiana, mostratagli come vera e propria rarità dal

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20 Il Gibbon e William Guise si limitarono ad esaminare le antichità conservate nel Mu-seo di Parma, senza includere nel loro viaggio italiano una visita alle rovine di Veleia (sullasosta parmigiana dei due inglesi, vedi Razzetti 1970; Corradi e Razzetti 1986, pp. 477-79;Criniti 1991, p. 39 e ora Albasi e Magnani 2003, p. 22). La fama della città antica, da pocorimessa in luce, aveva invece già incoraggiato a questa non agevole escursione altri viaggiato-ri inglesi, a giudicare almeno da alcune lettere inviate a Parma da Antonio Colombi e daGiacomo Nicelli nell’estate del 1763, nelle quali si parla dell’arrivo a Veleia, nel giugno diquell’anno, di Milord Dillon e della successiva visita di «due cavaglieri inglesi», oltre alla so-sta di un visitatore francese, monsieur Nidem. Nell’agosto del 1764, poco dopo la sosta par-migiana del Gibbon, un altro inglese, Henry Temple, secondo visconte Palmerston, incorag-giato dall’illustre storico che gli aveva pianificato il viaggio in Italia, deciderà di spingersi si-no a Veleia (AMANP, ms. 46, lettere di A. Colombi del 10 giugno 1763 e del 20 agosto 1764e di G. Nicelli del 25 luglio 1763), mentre nel settembre del 1765, all’indomani della chiusu-ra definitiva del primo ciclo di scavi, sarà la volta della visita del duca di Rochefoucault e didue cavalieri del suo seguito (ASP, Istruzione Pubblica. Scavi di Velleia, b. 20).

21 Sulla visita parmigiana di Edward Augustus, Duca di York, durata quindici giorni e ri-cordata, come evento di notevole rilievo, nella cronaca mondana della «Gazzetta di Parma»dell’11 e del 25 maggio 1764, vedi Razzetti 1970, p. 59.

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custode del Museo di Parma22, il Gibbon tenterà subito di colmare le sue la-cune, tanto che, appena giunto a Firenze, non mancò di procurarsi i due vo-lumi delle Simbolae Florentinae del Gori contenenti la dissertazione del Mu-ratori, che gli sembrò scritta «con erudizione, precisione e chiarezza» men-tre ritenne «discretamente esatta» la copia allegata della Tavola stessa; unastatua di puer bullatus vista alla Galleria degli Uffizi attirò poi la sua atten-zione soprattutto perché gli ricordava quella del cosiddetto Nerone giovaneproveniente da Veleia, una delle sculture antiche esaminate durante la suavisita parmigiana. A dispetto della stretta sorveglianza che impedì ai due in-glesi di ricopiare le iscrizioni veleiati (riuscirono solo a trascriverne qualcu-na a memoria), il Gibbon poté ammirare con calma alcuni dei pezzi più ce-lebri della raccolta veleiate, tra cui i bronzi della Vittoria in volo e dell’Era-cle bibax, e rimase addirittura incantato dinanzi ad una delle statue femmi-nili provenienti dalla basilica, che non esitò a paragonare, per bellezza, alcelebre quadro del Correggio: «non è che un tronco senza testa e senzagambe, ma il contorno perfetto della figura e il drappeggio leggero arrende-vole ovunque alla pressione del corpo di cui scopre tutte le parti lo rendonodegno di essere collocato di fronte al quadro del Correggio. Soltanto a colo-ro che hanno veduto simili capolavori oserei lodare la bellezza di una statuaquasi informe». L’ammirazione incondizionata per la statua nota all’epocacome Agrippina Maggiore e che il Gibbon, con un gusto forse un po’ trop-po marcato per il frammento archeologico, descrisse come un torso privoaddirittura delle gambe (ma che il Guise, più correttamente, disse mancantedella sola testa e delle braccia)23 sarà condivisa da molti altri viaggiatori,condizionati forse da un allestimento espositivo che sembrava favorire pro-

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22 Nel suo diario il Gibbon ricordava semplicemente come il custode del museo gli aves-se mostrato l’edizione del Muratori; William Guise ci tenne invece a precisare, nelle sue me-morie, che la difficoltà di lettura, a un primo esame, della tavola bronzea obbligò entrambi afidarsi delle spiegazioni fornite dall’antiquario parmigiano e che fu loro concesso di dare so-lo una rapida scorsa all’opera del Muratori: «The caracters are so old, to close together anddifficult to read at first sight, and without being a little used to these things that we are obli-ged to trust to the person that showed it us chiefly for this account. An account of this in-scription has been printed by Mr. Muratori but so few copies were taken that we are told itwill be impossible to get one. They keep one of them here but we could not examine itmuch» (Razzetti 1970, p. 73; vedi anche Criniti 1991, p. 39).

23 Il Guise condivise con l’amico l’ammirazione per la statua che gli antiquari parmigianichiamavano Agrippina, per il fatto di essere stata rinvenuta accanto alla statua del giovaneNerone: «Near this [la statua di Nerone] was found the statue of a woman which they bele-ve to be Agrippina. The head and arms of this are wanting but the rest of it is much the fi-nest piece of sculpture have ever seen. The drapery which appears to have been very finestuff and it is folded round the body and limbs perfectly well. Nothing can be more naturaland perfectly finished than this figure» (Razzetti 1970, pp. 73-74).

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prio questa scultura (insieme a quella, sicuramente affiancata, del Neronegiovane) e che molto probabilmente risentiva dei giudizi favorevoli espressi,su quest’opera, negli ambienti artistici della locale accademia. Già il pittoreinglese Robert Strange, giunto a Parma nel 1763 per studiare il Correggio,aveva giudicato questa statua «equal if not superior to anything he had seenin Italy»24, sentimento condiviso diversi anni più tardi dall’inglese Mary Ber-ry [Append. 13], che dell’intero ciclo statuario della basilica veleiate segnalòquesta sola scultura e dallo spagnolo Leandro Fernández de Moratín [Ap-pend. 20], incantato dalla esecuzione del panneggio, «cosa excelente en elestudio de los ropages». È cosa risaputa che il fortunato ritrovamento, findal 1761, delle dodici statue veleiati fornì agli artisti che facevano capo al-l’Accademia di Belle Arti nuovi e vitali spunti di ricerca nel panorama delgeneralizzato classicismo di gusto francese, imperante all’epoca nel piccoloducato, e che fu soprattutto Gaetano Callani, pittore e scultore predilettodal duca Ferdinando, a proporre, con molti anni di anticipo sul Mengs e sulCanova, una vero e proprio saggio di esecuzione “all’antica”, nelle statuedelle Beatitudini evangeliche eseguite nel 1764 per la chiesa di S. Antonio aParma. E fu proprio alla statua della cosiddetta Agrippina che si rivolse, inun primo momento, tutto lo studio e l’applicazione del Callani, stando aquanto ci narrano i suoi biografi:

era nel tempo che il genio dell’immortale Du Tillot aveva cogli scavi di Velle-ia dissotterrate e strappate per così dire all’oblio molte rispettabili reliquiedella romana magnificenza. Fra le varie cose rivide la luce una statua, mutila-ta il capo e le braccia, creduta un’Agrippina, ed una delle più belle figure, infatto massimamente di pieghe, dell’antico, quale tuttor conservasi nella no-stra parmense accademia di belle arti. I varii monumenti pregevoli, e moltopiù l’Agrippina accesero dell’amor del bello antico il nostro giovane plasticoin modo che ardeva di applicare all’uopo suo lo stile sublime che in que’ ve-nerandi ruderi scorgeva25.

Il Gibbon fu a Parma prima che in Francia uscisse la Mémoire del Pa-ciaudi su Veleia, ed è quindi assai probabile che le numerose informazionistoriche relative ai pezzi esaminati siano state fornite allo storico inglese

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24 Il giudizio di Strange, che a Parma venne nominato accademico e professore della lo-cale Accademia di Belle Arti, è riferito da William Guise (vedi Razzetti 1970, p. 74).

25 G. Bertoluzzi, BPP, Ms. Parm. 1106, ff. 306v-307. Il brano è citato in G. Cirillo e G.Godi, Le «Vite» di artisti settecenteschi del Bertoluzzi (II), «Parma nell’arte», 12, 1980, pp. 74-75. Più tardi anche Giuseppe Carra (1766-1841), titolare della cattedra di scultura nell’Acca-demia di Belle Arti di Parma, avrebbe rivolto la sua attenzione alla celebre statua antica trova-ta nelle rovine di Veleia, ancora conservata nei locali dell’accademia, studio che, secondo isuoi biografi, gli dette un «tal piacere, che non abbandonò la plastica» (Tanzi 1996, p. 236).

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proprio in occasione della visita parmigiana, forse dallo stesso Paciaudi, cheavrebbe anche illustrato le modalità di scavo adottate a Veleia (solo l’annoprecedente i lavori erano stati affidati agli esperti scavatori giunti da Roma)e richiamato il suo illustre ospite sulla carta topografica delle rovine veleiati,anch’essa completata nel 1764, ed esposta in accademia con il dichiarato in-tento di mostrare ai viaggiatori la considerevole estensione della città anticae rispondere così alle odiose insinuazioni di alcuni frettolosi visitatori circala natura ignobile, angusta ed oscura del sito26, opinione non estranea allostesso Gibbon che, noncurante degli insegnamenti ricevuti e della «speciedi carta di Velleia» appesa al muro, annotava nel suo diario: «non penso cheabbiano mai trovato una abitazione completa e nemmeno vestigia di qual-che edificio pubblico, sebbene Velleia dovesse averne, salvo non fossero sta-ti templi».

Non conosciamo che aspetto avesse l’esposizione dei marmi e dei bronziveleiati allestita in occasione della visita del Duca di York e neppure è possi-bile ricostruire, con precisione, l’allestimento “stabile” delle antichità nel-l’antiquarium ducale durante tutto il Settecento. Qualche aiuto ce lo danno,talvolta, le memorie dei viaggiatori, che ci lasciano immaginare le scelteespositive adottate dagli antiquari e ripercorre le vicende museali di alcunipezzi. Nell’estate del 1761 chi, come l’abate di Saint Non, voleva conoscerele recenti scoperte archeologiche doveva spingersi fino a Veleia o recarsi aPiacenza, a casa del canonico conte Costa, dove si conservavano i repertipiù preziosi o facilmente asportabili; se pensiamo che anche il Richard potévedere, nella Galleria dell’Accademia, solo alcuni calchi in gesso di celebrisculture antiche e un busto (moderno) di Vespasiano, dobbiamo concludereche una prima sistemazione “museografica” dei reperti veleiati fu proprioquella allestita nel 1764 in occasione della visita del Duca di York, di cui go-dettero il Gibbon e l’amico Guise, oltre sicuramente all’abate Coyer (giuntoa Parma negli stessi giorni) e quasi certamente ideata dal Paciaudi, da pocosubentrato al Costa nella direzione degli scavi. L’insistenza con cui ricorro-no, nei resoconti di viaggio, le descrizioni di alcuni pezzi non lasciano dubbisulla loro particolare visibilità, che doveva differenziarli dall’anonima e va-riegata moltitudine delle lucerne, dell’instrumentum domesticum, dei sigilli,delle statuette in terracotta. Da subito, la testa ed altri frammenti in bronzodorato della cosiddetta statua di Adriano, i bronzetti della Vittoria alata edell’Eracle bibax, le due tavole legislative ed alcune sculture provenientidalla basilica (soprattutto il Nerone giovane e l’Agrippina) si imposero perqualità artistiche, buona conservazione o interesse documentario, sugli altri

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26 Paciaudi Memoria, § II.

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reperti e furono presto percepiti come i “pezzi-forte” dell’intera raccolta.Sappiamo dal Guise che soltanto una piccola parte del materiale veleiatevenne messo in mostra e che le monete rinvenute negli scavi non erano visi-bili. Non sembra che i due capitelli e il rilievo marmoreo di gusto «egizio»di cui parla il Lalande, rifacendosi alla Mémoire del Paciaudi27, siano maistati esposti, o comunque abbiano avuto un posto di particolare rilievo neilocali dell’accademia, a giudicare dal completo silenzio degli altri viaggiato-ri, mentre era sicuramente visibile il frammento di affresco di terzo stile conrecinto di giardino (opus topiarium), staccato fin dal 1760 da un ambientenell’angolo nord-occidentale del foro veleiate, ammirato anche dal Volk-mann, dal Lessing28, dal francese La Roque (che, per il genere definito“grottesco”, lo paragonò addirittura alle pitture della Domus Aurea), e dalturista belga Moreau de Bioul [Append. 14 e 17].

All’epoca del soggiorno parmigiano di Gotthold Ephraim Lessing, chenel 1775 accompagnò nel viaggio verso il Sud il giovane duca MassimilianoGiulio Leopoldo di Brunswick, le statue marmoree, le tavole legislative, ilframmento di affresco erano raccolti nelle sale dell’accademia, mentre il re-sto dei bronzi veleiati venne confinato entro armadi nella contigua bibliote-ca, dove solo pochi, curiosi, visitatori si tolsero il gusto di vederli. Nei ricor-di del francese Guidi [Append. 12], a Parma nel 1783, il ciclo veleiate eraallestito nella seconda camera dell’accademia (nella prima erano esposte leopere premiate nei concorsi dell’istituzione) e qui, mescolati ai marmi anti-chi, si trovavano anche i numerosi calchi di celebri sculture ed alcune testein marmo “all’antica”, adibiti allo studio e alle esercitazioni dei giovani allie-vi. Già il Richard aveva visto, accanto ai calchi in gesso, un «buonissimo bu-

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27 Si tratta dei due capitelli figurati con putti, in marmo bianco, ma pertinenti a due co-lonne in breccia rossa, trovati nel 1761 e riprodotti in Costa ms. 1247, tav. XIV e del rilievocon paesaggio campestre incorniciati da due candelabrae, rotto in due pezzi e recuperato inun ambiente all’estremità occidentale dello scavo tra l’aprile del 1760 (vedi Costa ms. 1246,tav. VI) e il settembre dell’anno successivo, ed oggi conservato nel Museo Archeologico diParma (il rilievo venne per la prima volta integralmente riprodotto in Ms. Parm. 1245, tav.IV, relativa agli scavi del 1765).

28 J.J. Volkmann, Historisch-kritische Nachrichten von Italien …, Leipzig 1777-1778, I,pp. 347-86 e G. E. Lessing, Tagebuch der italienischen Reise, Leipzig 1902, pp. 267-68 (ilLessing fu a Parma nel 1775: vedi Consolini e Fliri 1986, p. 634). L’affresco esposto in acca-demia e tanto ammirato dai viaggiatori è naturalmente il frammento che decorava il secondoambiente da Ovest sul lato settentrionale del foro, unico esempio superstite di pittura parie-tale veleiate, rinvenuto nel maggio del 1760 e raffigurato, in una bella tavola a colori, nel vo-lume del Costa relativo alla prima campagna di scavo (Costa ms. 1246, tav. XXI). Per le vi-cende relative al rinvenimento e allo “stacco” dell’affresco, vedi Miranda 1997. L’affresco èoggi conservato nel Museo Archeologico di Parma (Marini Calvani 2001, p. 26, fig. 47).

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sto di Vespasiano», forse un errore per il bustino di Vitellio ricordato in se-guito dal Volkmann e giudicato di «un’espressività quasi pittorica» dall’in-glese Mary Berry [Append. 13]: si tratta quasi certamente del piccolo bustorinascimentale ancora presente nel Museo di Antichità di Parma all’epocadell’allestimento del Monaco e oggi conservato nei depositi della locale Gal-leria Nazionale29. L’idea di raccogliere in uno stesso ambiente sculture diprovenienza, datazione e storia diversa era certamente dettata dalle necessi-tà didattiche dell’accademia, ma questa mescolanza finì per confondere leidee a più di un viaggiatore, così che il Vitellio venne un po’ troppo frettolo-samente incluso tra i reperti veleiati, seguito persino dai colossi del Bacco edell’Ercole provenienti dagli scavi Farnese sul Palatino e da decenni collo-cati nel giardino del Palazzo Ducale di Colorno30.

Il nucleo principale delle raccolte veleiati, o comunque quello maggior-mente ammirato dai viaggiatori settecenteschi, era costituito, come abbiamovisto, dalle sculture e dai bronzi rinvenuti nei primi due anni di scavo, con-dotti ancora sotto la direzione del Costa, mentre i risultati delle campagneseguite dal Paciaudi e persino quelle intraprese nei primi anni dell’Ottocen-to, all’epoca dell’amministrazione francese, ottennero ben scarsa eco nei re-soconti di viaggio, con l’unica eccezione del gruppo dei cinque bronzetti fi-gurati rinvenuti nel settembre del 1776 «nell’area laterale alla Chiesa versomezzogiorno»31, giudicato da subito uno dei più significativi contributi dellaseconda fase di indagine archeologica veleiate, inaugurata su consiglio dellostesso Paciaudi nell’agosto di quello stesso anno. Già all’indomani della sco-perta le cinque statuette di bronzo vennero segnalate nel diario del tedescoJohann Jacob Volkmann, che sembrò apprezzare soprattutto i bronzetti delBacco e del cosiddetto Apollo (riconoscibile nella statuetta dell’Alessandro) ediversi anni più tardi la pittrice Elisabeth Vigée Le Brun noterà, accanto alcelebre bronzetto dell’Eracle bibax, un «piccolo Bacco incantevole»: vien dapensare che il rilievo dato dalla Le Brun a questi due pezzi, forse all’epocaesposti l’uno accanto all’altro, rifletta la particolare opera di valorizzazionedei due bronzetti voluta dagli stessi addetti del museo, ed in particolare dalgiovanissimo Pietro De Lama, che proprio nel 1789 aveva commissionatoall’incisore e stuccatore Benigno Bossi le copie di entrambi i pezzi e si era

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29 Monaco 1940, p. 13. Il busto è ancora oggi sostanzialmente inedito.30 I due colossi, rinvenuti nel 1722-1724 nell’Aula Regia della Domus Flavia sul Palatino,

furono trasportati a Colorno nel 1724; solo nel 1821 verranno trasferiti, per volere di MariaLuigia, nel Palazzo Ducale di Parma (Belli Pasqua 1995, p. 89, n. 37 e p. 98, n. 55).

31 Su questa campagna di scavi, vedi supra cap. I, § 4, con bibliografia.

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persino garantito la possibilità di poterne tratte, in futuro, altre copie «pelservigio del R. Museo»32.

Ma quale effetto produssero, ai fini della continuazione degli scavi, i giu-dizi o semplicemente le visite dei tanti viaggiatori che fin dai primi anni Ses-santa del Settecento sostarono a Parma incuriositi, oltre che dal Correggio,dalle importanti, e ancora un po’ misteriose, scoperte archeologiche avvenu-te nel ducato? È molto probabile che l’interessamento di tanti nomi illustridi studiosi e cultori di antiquaria non solo francesi, come l’abate di Saint-Non, il Coyer, l’abate Richard, lo storico Edward Gibbon abbia favorito ilprotrarsi degli scavi fino a tutta l’estate del 1765, a dispetto dei deludenti ri-sultati e degli enormi costi dell’impresa (ora che ci si era spinti ad indagareun’area coperta da un alto strato di terra e pietrame), lamentati fin dal 1763dal Paciaudi. Il lamento si trasformò ben presto in protesta e quindi in gri-do di allarme, tanto che le motivazioni con cui il teatino, responsabile in pri-ma persona davanti all’intero mondo scientifico della conduzione degli sca-vi, giustificava nella sua Mémoire la necessità di interrompere le esplorazio-ni, vennero accolte dal Lalande, che nel suo Voyage del 1765, riferendo del-le difficoltà incontrate dagli scavatori, annunciava la chiusura degli scavi.

La ripresa ufficiale delle esplorazioni, nell’agosto del 1776, stimolata dalfortunato ritrovamento dei cinque bronzetti figurati, fu soprattutto un’occa-sione per il Paciaudi di verificare lo stato delle conoscenze e tentare qualchesaggio in aree fino ad allora inesplorate, operazioni necessarie alla stesuradell’opera che da tempo stava elaborando sull’antica Veleia, e che il mondoscientifico attendeva ormai con una certa impazienza; ma le nuove indaginidovettero coinvolgere una cerchia limitata di studiosi e rimanere pressochéignorate dal più vasto pubblico del Grand Tour: «quel dommage qu’on né-glige ces fouilles, dont il pourroit résulter une collection très précieuse!» af-fermava infatti, negli stessi anni di riapertura degli scavi, il francese Rolandde la Platière [Append. 11] e nel 1783 il Guidi [Append. 12] annoterà addi-rittura, nel suo diario, che dal 1764 era stata sospesa a Veleia ogni attivitàarcheologica. Le informazioni (desunte dalla Mémoire del Paciaudi o dal

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32 A questo scopo il De Lama fece istruire un tale Alvieri, inserviente del museo. Per larealizzazione delle forme e di tre copie di ogni bronzetto vennero concesse al De Lama 180 li-re (Atti e conti, in data 24 novembre 1789). La commissione dei calchi dell’Eracle bibax e delBacco al Bossi è documentata da alcune lettere del carteggio del De Lama (AMANP, Carteg-gio De Lama, Lettere di Privati, cart. 3): nel luglio del 1789 il Bossi comunicava al De Lamadi avere terminato la forma dell’Eracle e di stare per ultimarla con l’aggiunta di olio cotto,mentre nell’agosto dello stesso anno, probabilmente in risposta alle richieste del De Lama, gliconfermava di non avere ancora messo mano alla forma del Bacco («al Bacco non è da pensar-vi per adesso, quella forma vitigliosissima dimanda almeno sette o otto gioni di lavoro»).

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Voyage del Lalande) sulle difficoltà incontrate a Veleia dagli scavatori a cau-sa della natura del terreno e dalle modalità di distruzione della città, conti-nuano a lungo ad alternarsi, nei diari di viaggio, al rimpianto per la forzatainterruzione degli scavi (nuovamente sospesi nel 1781), rimpianto che, nelleschiette parole del commediografo spagnolo Fernández de Moratín, diventaconvinzione di una sicura perdita, per il ducato, di prestigio culturale e diun buona fonte di guadagno: «pero ya no se trabaja, muchos años haze, porfalta de dinero; y es lastima, pues, dexando aparte quan interesante serieproseguir las excavaciones por lo que toca a la historia, a la literatura y a lasartes, mirandolo solo como una mera especulacion de comercio, produciriaconsiderables ganancias» [Append. 20].

Affiora qua e là, nelle relazioni dei viaggiatori stranieri, l’attenzione versola cospicua raccolta di suppellettile bronzea, le lucerne, i vasi (alcuni agemi-nati in argento), gli elementi decorativi di mobili, l’instrumentum domesti-cum, le terracotte figurate e persino i frammenti ceramici, i laterizi, i vetri ri-messi in luce negli scavi veleiati, oggetti che tanto avevano incuriosito ilCaylus e che furono registrati e disegnati con scrupolo meticoloso nelle rela-zioni di scavo del conte Costa. Ciò che sembrava colpire di più l’immagina-zione dei visitatori erano il gran numero e la varietà di questo genere di re-perti, tali da ricordare (in tono minore) l’eccezionale raccolta del Museo diPortici, ma vuoi per l’inadeguata scelta espositiva (i reperti erano in granparte raccolti, un po’ alla rinfusa, nei locali della biblioteca), vuoi per l’inte-resse solo superficiale e generico dei viaggiatori del Grand Tour per questacategoria di antichità, riesce difficile dire se in questa articolata e anonimamassa di oggetti ci fosse qualche pezzo cui fosse riservato uno spazio esposi-tivo privilegiato, e d’altra parte sembra evidente, dalle sommarie descrizionidi viaggio, l’assenza assoluta di una benché minima suddivisione in classi ditutto questo materiale.

Carattere ben diverso ha la descrizione di Veleia lasciataci dal naturalistafidentino Plateretti, che proprio in base all’esame di alcuni oggetti di usocomune ancora conservati in situ e grazie ad una buona conoscenza del ma-teriale già trasportato nel Museo di Parma si sforzò di ricostruire un quadrodelle attività artigianali e produttive dell’antica città romana: la gran quanti-tà di scarti ferrosi, i numerosi gangheri, chiodi, martelli gli dettero, ad esem-pio, la prova dell’esistenza di numerose fucine, così come i «vari lavori digrosso e ben tagliato vetro» e le «molte stoviglie di varie sorte d’argilla cottache vi si trovano» documentavano l’esistenza di officine vetrarie e cerami-che; il suo interesse per ogni classe di oggetti, compresa la plastica in argilla(fino a questo momento del tutto trascurata nelle relazioni dei viaggiatorisulle antichità di Veleia), spiega il rilievo dato, nel suo resoconto di viaggio,al «semibusto d’una statua colossale che stimasi un Laocoonte cui manca il

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superiore della cucuzza portato via da una aratro in tempo che trovavasi co-sì ritto sepolto», un’opera in terracotta oggi di difficile identificazione33. Lecontroverse opinioni sulle cause che condussero alla distruzione di Veleia, ein particolare le notizie relative all’esistenza di un vulcano in prossimità del-la città antica, lo stimolarono poi a ricercare (con la complicità del custodedegli scavi) tutti i reperti di pietra lavica ancora conservati in prossimità del-l’area indagata e quindi ad analizzare i numerosi frammenti di macine (tracui quella con incisa la sigla VR capovolta), ma che solo molti anni più tarditroveranno spazio in una pubblicazione scientifica34.

I primi decenni del XIX secolo non registrano novità di rilievo nei reso-conti dei viaggiatori in visita ai reperti veleiati, se si eccettua la sempre mag-giore attenzione verso le antichità “minori”, i vetri, le terrecotte, i frammen-ti ceramici, i laterizi, materiali che proprio il nuovo allestimento musealeproposto dal De Lama a partire dal 1816 aveva contribuito a rivalutare eche presto divenne una delle principali curiosità del museo parmense: lecompetenti segnalazioni di Giulio Cordero di San Quintino e del Vermiglio-li a proposito delle ricche collezioni di vetri policromi e di ceramiche varia-mente decorate provenienti da Veleia35, indizio evidente di una sempre mag-giore sensibilità scientifica verso queste classi di oggetti, testimonierannodell’importante contributo fornito dalle raccolte parmensi agli ancora timiditentativi di studio e catalogazione di un materiale fino ad allora quasi deltutto trascurato.

Appendice documentaria

1) Joseph de La Porte, Le voyageur françois ou la connoissance de l’ancien etdu nouveau monde, Paris 1765-1795, XXV (1779), pp. 221-23, lettera 327,Parma 31 ott. 1757:

On peut voir, à quelques lieues de Plaisance, les ruines de Velleia, qui fut,dit-on, écrasée par l’écroulement d’un rocher de l’Apennin. On conjecturedu grand nombre d’ossemens, de médailles et de monnoies qu’on y trouve,que les Habitants ont été surpris et engloutis avec toutes leurs richesses. Une

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33 Non sembra, infatti possibile, riconoscere il pezzo visto dal Plateretti, e definito “co-lossale”, in nessuna delle statuette in terracotta rinvenute a Veleia fin dagli anni Sessanta delSettecento e ancora oggi conservate nel Museo Archeologico di Parma.

34 Le mole “trusatili” ed “asinarie” in pietra lavica rinvenute a Veleia saranno per la primavolta pubblicate dal De Lama nella sua Guida, edita nel 1824 (De Lama 1824a, pp. 147-48).

35 Vedi supra, cap. III, pp. 152-56.

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matiere bitumineuse, qui s’alume à l’approche du feu, deux fontaines voisi-nes, dont l’eau bouillonne sans être chaude, et l’autre s’enflamme à sa surfa-ce, par l’approche d’un flambeau, des médailles fondues, et quelques matie-res noires ont fait croire que le renversement avoit été occasionné par un vol-can. On ignore le tems et la maniere de cette destruction; mais on y a décou-vert des monumens posterieurs à Costantin. Les morceaux de rochers quicouvrent les ruines à plus de vingt pieds, en rendent la fouille difficile, etpresque infructueuse, parce que tout est écrasé: on apperçoit seulementquelle en étoit l’étendue; que les maisons, séparées en forme d’isle, étoientpavées les unes en marbre, d’autres en mosaïque, qu’il y avoit une place pu-blique très-ornée, environnée de colonnes, avec un canal autour pour l’écou-lement des eaux. Au milieu étoit un autel consacré à Auguste, et autour, dessièges en marbre, soutenus par des lions. On y a trouvé aussi des peintures,et quelques vases de bronze assez bien conservés.

2) Saint-Non-Fragonard, Panopticon italiano. Un diario di viaggio ritrovato1759-1761, a cura di P. Rosenberg, Roma 1986, pp. 233-34 (agosto 1761):

Mentre partivo per Piacenza, M. de Tillot mi diede i permessi necessariper visitare i nuovi scavi di Macinesse, e tutte le statue antiche e i frammen-ti scoperti negli ultimi 8 mesi in quel luogo; inoltre mi consegnò lettere peril Conte Costa, che abita a Piacenza e che dirige i lavori di scavo. Dallepiante che mi aveva mostrato e dalla dozzina di iscrizioni e una trentina dimedaglie, era chiaro che la nuova scoperta si sarebbe rivelata un oggetto dicuriosità molto interessante; lo sarebbe stato maggiormente, però, se gliabitanti del luogo non avessero già perlustrato la zona negli ultimi due otrecento anni, rubando e asportando tutto quello che trovavano, cosa cherisulta chiara dalla ricchezza e le rendite che questi semplici vignaioli si so-no fatte scavando e vendendo. Questo si fa ancora più evidente se osservia-mo che sulle fondamenta del campanile e della chiesa del luogo, costruitimolto anticamente, si trovano e si possono vedere chiaramente frammentidi statue di marmo, di iscrizioni e altri pezzi, che non potevano venire daun’altra parte.

Il luogo dove hanno cominciato gli scavi si chiama Macinesso, piccolo vil-laggio di montagna a 22 miglia da Piacenza. Emerge chiaramente dalle iscri-zioni trovate che la città antica costuita in questo luogo apparteneva ai Velle-iani; non si trova quasi nessun accenno a questa città negli autori antichitranne che in Flegone, che la cita una sola volta, e in Plinio che parla soprat-tutto della sua aria salubre. Non sappiamo nulla nemmeno sull’epoca o le ra-gioni che hanno portato alla distruzione della città: si pensa che fosse un ter-remoto, ma quale che fosse la catastrofe che fece perire Velleia, deve essere

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stata terribile e immediata, a giudicare dalla quantità di ossa e scheletri che visi trovano, e dalla rottura quasi totale di tutti i marmi e tutte le statue.

Il luogo dove hanno scavato fino ad ora, e che è ormai completamentescoperto, assomiglia, secondo le congetture, a un tempio o a delle terme, opiù probabilmente a una specie di foro, dove si amministrava la giustizia,come sembrano testimoniare alcune iscrizioni. È in questo punto che si sontrovate 12 o 14 statue di marmo quasi intere, che potrebbero essere i ritrattidi un’unica famiglia: sono tutte figure drappeggiate, tra cui alcune di unabellezza eccezionale per l’espressione generale dei volti e soprattutto perl’eleganza e la squisita lavorazione dei drappeggi.

Per quanto riguarda il periodo in cui è esistita questa città, è assai diffici-le stabilirlo. Non essendoci nessun indizio sulla data di fondazione, né sul-l’epoca della sua distruzione, sappiamo soltanto, con l’aiuto di molte iscri-zioni e in particolare di medaglie, che esisteva al tempo di Cesare e di Augu-sto; e che durava ancora verso la fine dell’impero romano, dato che sonostate trovate testimonianze che vanno dal tempo di Costantino fino agli ulti-mi imperatori.

3) Jérôme Richard, Description historique et critique de l’Italie, Paris 1766(viaggio: 1761-1762), vol. II, p. 15:

on a découvert depuis quelques années les ruines d’une ancienne villenommée Velleïa, abymée par quelque bouleversement dont on ne soit pointle temps, ni la maniere. On prétend que l’on y trouve des monumens anti-ques très-précieux. L’Infant duc de Parme qui fait fouiller dans ces ruines,n’a pas encore jugé à propos d’en rien mettre au jour.

Ibidem, p. 33 (Galleria):

On y a placé depuis peu un tableau de Pompeïo Battoni, peintre vivant àRome, qui a pour sujet l’éducation d’Achille: il remporta le prix de peinturede l’académie de Parme il y a quelques années. Un des éleves de Battoni aremporté le prix de la même académie en 1762, par un tableau qui a poursujet l’assemblée des Dieux; il est fort imité d’un des tableaux de plafonddu petit palais Farnese à Rome, peint par Raphaël: j’en fait mention, parceque je l’ai vu travailler à Rome.

On voit dans cette même galerie, que l’Infant a donné à l’usage de l’aca-démie de peinture et de sculpture, quelques plâtres modelés après l’antique.

[Nella traduzione italiana, edita a Londra nel 1781, II, p. 37 è aggiunto:«si vede un buonissimo busto di Vespasiano, e un quadro, che si dice esseredel Poussin»].

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4) Gabriel François Coyer, Voyage d’Italie, Paris 1776 (viaggio: 1763-1764),vol. I, p. 82 (lettera XI, Parma 19 ott. 1763):

Les lettres et les beaux arts ne sont pas oubliés. Ce Savant Théatin quevous avez pu voir à Paris, appellé par le Souverain, forme une bibliothèquepublique, qui, avec le tems, fera naître le savoir et le goût. Une Académie depeinture, de sculpture et d’architecture, distribue des prix pour développerles talens. Ces trois Arts concourent aussi à embellir la Ville.

Ibidem, vol. II, pp. 136-41 (lettera XLVII, Parma 27 giugno 1764):

Ce Prince, qui se prête à tout ce qui peut éclairer l’histoire, fait fouillerdepuis cinq ans, dans les ruines d’une grande Ville qui disparut, on ignoreen quel siècle. Ce que je vais vous en dire, c’est pour le communiquer à no-tre ami commun de l’Académie des Inscriptions. Cette ville existait du temsde Pline, qui en parle en ces termes (VII, 49) «citra Placentiam in collibusoppidum est Velleïatium in quo CX annos, sex detulere». Ce passage unpeu obscur, comme on en trouve plusieurs dans Pline, pourrait vous emba-rasser: en voici la traduction […]. Plégon de Tralle, affranchi de l’EmpereurAdrien, dans le livre de Macrobiis, la nomme Polis Beleïa, et encore Ouleïa.Voilà les deux seuls Auteurs qui parlent de cette ville, qui les savans d’Italies’accordent à nommer Velleïa. Sa position est à huit milles de Plaisance,près de Massinissa.

On vient de trouver dans la fouille deux Inscriptions sur marbre, avec lemot Velleïatium: on lit dans l’une et l’autre Respublica Velleïatium. Les Vel-leïens, comme on le voit dans la Table Théodosienne, occupaient un grandpays. Velléïa en était la capitale. Ce second fait est attesté par deux tables debronze, trouvées dans la fouille, et conservées dans la Salle de l’Académiede Parme. L’une contient les bienfaits de Trajan, pour les orphelins. Tout lesbiens qu’il avait assignés, pour leur entretien, y sont gravés. Elle était affi-chée dans une rue peu éloignée de la place publique, avec une belle bordurede bronze, encadrée dans une autre de marbre […]. La seconde table con-tient des Loix pour toute la Gaule Cisalpine. Un corps de Loix qui doit ré-gler tout le pays, doit naturellement se placer dans la capitale. Velleïa étaitnon-seulement la capitale du pays: plusieurs raisons font juger qu’elle étaitencore une Ville considérable, une grande Ville.

1° Elle devait avoir la grandeur qui convient à la premiere Ville d’ungrand pays policé par les Romains.

2° Elle avait tous les édifices qu’on élevait dans les grandes Villes. Parexemple, le forum, qui était d’une grande magnificence, entouré decolonnes et de statues qu’on a trouvé renversées et mutilées, pavé

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d’un marbre avec une inscription en lettre de bronze qui traversait lepavé: au milieu était un Autel érigé à Auguste. Elle avait un autregrand monument, le Chalcidicum, Palais où l’on rendait la justice pourles monnoies, et on vient de découvrir un grand cirque dont on nepeut pas encore décider l’usage, vu la forme et les bâtimens attenans,qui sont tellement ruinés, qu’il n’est guères possible de conjecturer ju-ste».

3° On a trouvé dans ses ruines une quantité prodigieuse de médailles, entoutes sortes de métaux, parmi lesquelles il y en a de précieuses. Envi-ron soixante inscriptions à differens Empereurs, jusqu’à Aurélien;treize statues de marbre, mais assez maltraitées; des fragmens d’unestatue colossale de bronze doré de l’Empereur Adrien, la tête qui estfort belle, un pied, une main, et quelques lambeaux de la draperie.

4° Des appartemens pavés de mosaïque, découverts dans les fouilles, desbas-reliefs; quantité de bordures de bronze doré, et fort bien travaillé-es, toutes sortes d’utensiles et d’ornemens. Tout cela indique une Villeoù les Arts étoient en honneur, une Ville opulente.

Jusqu’à ce jour, quoiqu’on ait découvert des bâtimens de toute espèce, onn’a trouvé aucun Temple. Il y en avait, sans doute, puisque les fouilles don-nent sans cesse des ex voto, soit en bronze, soit en terre cuite: puisqu’on en atiré une belle statue d’Hercule en bronze, avec l’inscription qui designe uneconfrérie, Sodalitium, dévouée à ce Dieu. On ignore absolument le tems de ladestruction de Velleïa. On y trouve des médailles du bas Empire, frappéessous des Princes qui ont régné après Constantin. Le silence des Ecrivains, surl’époque de sa destruction, marque un siècle barbare où l’on maniait l’épéeplus que la plume; où l’on ne tenait compte de rien. Quant à la cause, il ne pa-raît pas qu’on doive l’attribuer à un volcan, dont on ne trouve aucun vestigeni dans le local, ni dans l’histoire. D’ailleurs, un volcan, en enterrant une Ville,laisse quantité de choses dans leur entier, comme on le voit à Herculanum et àPompéïa. Ici tout, ou presque tout, est brisé, écrâsé, abimé. Il faut donc re-couvrir à une autre cause; à l’éboulement d’une moitié de la montagne aupied de laquelle la Ville était assise. […] Un pareil accident a détruit en 1761le village Picinisco, non loin du Mont-Cassin dans le Royaume de Naples.

5) Edward Gibbon, Viaggio in Italia, Milano 1965, pp. 124-27 (14 giugno1764):

L’Accademia Reale. La costruzione abbastanza estesa si trova nel medesi-mo corpo di fabbrica del teatro. Qui i Farnese avevano posto quel Museoche non la cedeva se non a quello di Firenze; ma quando l’Infante Don Car-los passò sul trono di Napoli si prevalse del diritto d’erede della casa Farne-

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se per trasportare nel suo nuovo stato i tesori di quella raccolta. Se suo fra-tello possiede oggi qualcosa di interessante non la deve che all’ingiustizia eal caso. Quella gli procurò il famoso quadro del Correggio, questo ha sco-perto le antichità di Veleia. Verso l’anno 1747, alcuni operai che lavoravanoa Villora nelle montagne di Parma disseppellirono una grande tavola dibronzo. Le ricerche furono continuate e a poco a poco pervennero a scopri-re le rovine di una città che può essere soltanto l’antica Veleia situata inquelle zone e che deve essere stata sepolta dalla frana di un monte. Questemacerie si trovavano talvolta a fior di terra e talvolta a grande profondità.Non penso che abbiano mai trovato una abitazione completa e nemmenovestigia di qualche edificio pubblico, sebbene Veleia dovesse averne, salvonon fossero stati templi. Ma sulla situazione delle mura è stata tracciata unaspecie di Carta di Veleia, che pare sia stata grande. Vi sono state trovatemolte statue, lampade e altre antichità. Il Duca vi tiene sempre un Direttoredei lavori con una quarantina di operai e a misura che un luogo è statosfruttato, lo si colma di terra. Ecco tutto quanto ho potuto sapere, per viadell’antipatica aria di mistero che la Corte ostenta sull’argomento. Il Duca sipropone quando tutto sarà stato rintracciato, di rendere pubbliche le sco-perte e vuole essere il primo a farlo. È permesso appena di osservare, manon di copiare qualche cosa. Soltanto grazie al Duca di York noi abbiamopotuto vedere una piccola parte delle statue che avevano collocate per luinella Galleria. Di interessante ho visto:

1. Una grande tavola di bronzo lunga da sei a sette piedi, e larga da quat-tro a cinque, ma estremamente sottile, tanto che nel recuperarla i con-tadini l’hanno spezzata in cinque pezzi che sono stati posti l’uno ac-canto all’altro sopra un tavolo. Il bronzo è interamente coperto di ca-ratteri piccoli e eccessivamente serrati, che formano una quantità diiscrizioni troppo notevoli per la lettura di una mezz’ora. Il Custodedella collezione mi ha mostrato una dissertazione sulla Tavola del sa-piente Muratori. È un regolamento di Traiano per l’educazionee il nu-trimento di un certo numero di fanciulli poveri di Veleia.

2. Una piccola statua di bronzo; un Ercole che un certo Domitius Secun-dio offre in dono a una Confraternita consacrata al culto del dio. Hamolta forza ed espressività ma il colle è di una grossezza enorme.

3. Una piccola figura alata: la si crede una Vittoria, ma non porta nessunsimbolo che la possa designare. La testa e le ali sono liberissime e na-turali; ma per volerle dare snellezza il corpo è un po’ assottigliato.

4. Un giovane Nerone con indosso la pretesta e al collo la bolla che è unmedaglione con un sottile contorno di bosso. La statua non ha brac-cia, ma sono state trovate dopo e contano di riattaccarle, è di grandez-za naturale e non brutta.

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5. Una statua essa pure di grandezza naturale. È una donna e avendolatrovata accanto all’altra si crede che possa essere un’Agrippina. Nonè che un tronco senza testa e senza gambe, ma il contorno perfettodella figura e il drappeggio leggero arrendevole ovunque alla pressio-ne del corpo di cui scopre tutte le parti lo rendono degno di esserecollocato di fronte al quadro del Correggio. Soltanto a coloro chehanno veduto simili capolavori oserei lodare la bellezza di una statuaquasi informe.

Vi sono anche alcune iscrizioni dissepolte a Veleia, ma non hanno grandepregio. Ve n’è una che riguarda Agrippina e un’altra che ho tenuto a memo-ria: Ti. Claudio Cesari/Augusto Germanico.Pont. Max. Tr. Pot./II Imp. IIIConsul/Designato III/ P.P./D.D.

È strano che la maggior parte di questi monumenti si riferisca al secolodi Claudio e anche alla fine del suo regno. L’iscrizione Divo Augusto gli con-viene ancora. Fino alla consacrazione di Claudio stesso non v’era che un so-lo Divus Augustus che poteva essere designato in assoluto. La memoria diTiberio e di Caligola era stata condannata dal Senato.

Ibidem, p. 143 (Firenze, 25 giugno 1764):

Mi sono procurato due volumi dei Simbolae Florentinae del Gori per leg-gere la dissertazione del Muratori sulla tavola di bronzo trovata presso Vel-leia, che si accompagna a una copia discretamente esatta della tavola stessa.V. Symbolae. Tom. V, p. 1-56, e sette fogli per la tavola. La dissertazione èstata scritta con erudizione, precisione e chiarezza. Il Muratori non è unsemplice erudito. Prova benissimo che Traiano fu il primo a istituire deiPueri Alimentarii in Italia l’anno di Cristo 103; che questa istituzione fu inu-tilmente mantenuta dai suoi successori sino al regno di Pertinace il qualel’abolì, e che da questa iscrizione unica per la sua estensione si possono trar-re molti lumi sulla storia, la geografia, l’economia di quel secolo. La pensocome lui, ma dopo avervi riflettuto credo che egli non le abbia tratte intera-mente.

Ibidem, p. 180 (Firenze 9 luglio 1764, Galleria degli Uffizi):

[a proposito di un “puer bollatus” visto nella Stanza dell’Ermafrodito] vi siriscontra poi la piccola curiosità della Bolla. Questa è del tutto simile a quel-la di Parma.

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6) Joseph Jérôme de Lalande, Voyage d’un François en Italie fait dans les an-nées 1765 et 1766, Yverdon 1769-1770 (1765), I, p. 382:

(Palazzo Ducale) On voit dans ce Palais plusieurs antiques tirés de Velle-ia, ancienne Colonie Romaine, dont nous parlerons plus bas; il y a sur-toutdans un hangar qui est au bas du théâtre, plusieurs statues, grandes commenature, tirées des fouilles de cette ancienne ville.

Ibidem, pp. 418-25 (Veleia):

Velleia étoit une ville ancienne, dont les restes se voient à sept lieues dePlaisance, vers le midi, dans le Plaisantin [...] au pied de deux montagnestrès-hautes, nommées Moria et Rovinasso, qui sont partie de l’Apennin; cefut l’écroulement d’une partie de ces montagnes qui causa la ruine de Velle-ia. On voit encore que ces montagnes sont fendues, et l’on reconnoît aisé-ment qu’il s’en est détaché des masses de rochers que l’on retrouve sur lesdébris de cette ville; car on voit toutes les colonnes renversées du côté op-posé aux montagnes; les murs qui restent en place sont inclinés du mêmesens, c’est-à-dire, du côté où ils ont été poussés par les terres et les rochersvenus à la fois des deux montagnes [...]. A en juger par le grand nombred’ossemens qu’on a trouvé dans les ruines, et par la quantité de médailles etde monnoie qu’on en retire, les habitans n’eurent pas le temps de se sauver[...]. On ne sait pas dans quel temps Velleia fut ensevelie sous ces rochers; ladate de cet événement est probablement du quatrième siècle; car l’on n’apas trouvé à Velleia de monumens publics postérieurs au règne de Probus,qui mourut en l’an 282 et l’on y trouve cependant beaucoup de médaillesdes Empereurs qui ont succédé à Costantin, dans les années 337 et suivan-tes; c’est donc plusieurs années après la mort de Costantin que cette ville futabymée.

On a commencé en 1760, à faire des fouilles dans les ruines de Velleiapar ordre du Duc de Parme; on n’est pas fort avancé, parce que la difficultéy est extrême; les bâtimens y sont couverts de rochers, à plus de 20 pieds dehauteur, les statues et tout ce qui est dessous, est tellement mutilé et fracasséqu’on n’en peut retirer aucun avantages; et comme les difficultés augmen-tent encore en approchant de la montagne, on a presque renoncé à ces tra-vaux depuis 1764. [...] La plus grande partie de Velleia étoit bâtie sur lepenchant de la colline; les maisons étoient séparées en forme d’isles, et for-moient un amphitéâtre, dont les différens étages communiquoient par desdegrés; les appartemens inférieurs des maisons étoient placés sur un fauxplancher, soutenu par des piliers de terre cuite, où l’air pouvoit circuler etgarantir les maisons de l’humidité; ces maisons paroissent simples, il y en

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avoit seulement quelques-unes pavèes de marbre, d’autres de mosaïques.On y a trouvé des peintures, des bustes en marbre, de bains de même matiè-re et des ornemens d’assez bon genre; des vases de bronze incrustés en ar-gent; des meubles et ustensiles domestiques du bon goût; des ouvrages deterre cuite, fins et élégans. On y a trouvé un panneau de peinture qui étoitun peu dans le goût Chinois; c’est un genre grotesque assez usité chez lesRomains, et que Raphaël a imité en copiant les peintures des anciens édifi-ces. On en a tiré aussi un bas-relief en marbre dans le goût Egyptien, d’uneassez belle exécution, et deux chapitaux Egyptiens dans lesquels, au lieu devolutes et de feuillages, il y a de petites figures: on sait que le Romains seplurent quelquefois à imiter le genre des Egyptiens. Beaucoup de mouluresde bronze très-bien faites, prouvent qu’il y avoit des ornemens très-richesdans les édifices de Velleia.

Le plan de la partie où l’on a fouillé jusqu’ici, a été levé, et il se voit dansla galerie du Château de Parme. Vers le milieu on voit une place publiquetrès-ornée; une inscription en lettres de bronze qui traverse la place, ap-prend qu’elle fût pavée de grosses pierres aux frais d’un Velleiate, nomméLucius Lucilius; au milieu se voyoit un autel consacré à l’empereur Auguste.Elle étoit environné des colonnes de marbre (marmo cipollino), dont quel-ques-unes y sont encore, avec un canal tout autour, pour l’écoulement deseaux; il y avoit aussi de très-beaux sièges de marbre, soutenus par des lions;on y a trouvé aussi une statue de bronze, représentant une Victoire aîlée, lesbras élevés, dans l’attitude de soutenir une couronne, un bassin de fontaine,ou un cadran solaire, ou autre chose semblable. Parmi les édifices considé-rables de Velleia, l’on voit qu’il y avoit, comme dans les grandes villes, unChalcidicum [...]. Il avoit été bâti par Bebia, fille de Titus, en faveur de sesconcitoyens, pro municipibus suis. Une autre inscription nous apprend qu’ily avoit une basilique bâtie par C. Sabinus, pontife, duumvir et préfet des ar-tisans [parla poi a lungo delle due tavole legislative in bronzo]. On y a trou-vé beaucoup d’idôles, les unes de marbre, les autres de terre grasse; une sta-tue colossale de l’empereur Adrien, dont il ne reste que la tête, avec unpied, une main et une partie de la draperie; une statue de Néron encore jeu-ne, ayant au col la bulla; une de Galba, en habit militaire, avec son armure,et d’autres statues de plusieurs personages consulaires, dont quelques-unessont de bonne main; il y en a même une que l’on regarde comme un desbons ouvrages de la sculpture grecque. Parmi ces statues on en voit beau-coup en bronze doré. On a encore tiré de Velleia plusieurs inscriptions à l’-honneur de Germanicus, de Vespasien, d’Aurelien, de Probus, d’Agrippine,de Drusilla, de Julia Mammea, de Tranquillina etc. Il y en a une qui faitmention du college des Artisans de la ville, une autre parle de la Congréga-tion d’Hercule, Sodalitium Cultorum Herculis. On y a trouvé des balances,

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des poida, marqués pour la fidélité du commerce, des masques pour l’usagedes spectacles, et autres meubles qui pourroient dejà former un cabinetd’antiques. On n’y a poit reconnu de temple, ni de théâtre [...] mais on atrouvé les aqueducs qui distribuoient l’eau dans la ville; un château d’eauqui servoit de point de partage; des bains qui en étoient tout proche, etd’autres chambres qui paroissent avoir servi à des étuves [...]. Les Journauxont beaucoup parlé de Velleia depuis quelques années; mais la plupartd’une manière très-vague, et très-peu exacte. Le Père Paciaudi, célébre anti-quaire de Parme, qui a lui-même assisté à plusieurs fouilles, a fait à ce sujetun Mémoire fort détaillé, dont on a donné l’extrait dans le quatrième Tomede la Gazette Littéraire d’Europe (3 mars 1765, page 353); c’est delà que j’aitiré une partie des notions précédentes, qui manquoient à tout nos voyagesd’Italie. M. Costa, chanoine de Parme, présidoit aux fouilles que l’on a fai-tes à Velleia, il en avoit décrit les monumens et se proposoit de les publier.Depuis sa mort ce soin a été confié au P. Paciaudi, qui fait un grand ouvragesur cette matiere; l’on travaille aux planches qui doivent l’accompagner: ony verra le plan général de la ville, des édifices, des places, des rues; il y auramoins de choses que dans les monumens d’Herculane, mais des morceauxpeut-être plus instructifs pour ceux qui aiment l’antiquité.

Ibidem, vol. II, p. 125:

A Velleia, près de Plaisance, il y a une eau sur laquelle regne une vapeurinflammable qui a l’odeur de benjoin ... . Ce sont des indications que jefournis à la curiosité de quelque voyageur qui aura plus de loisir que moi.

7) Michele Giorgio Mniszech, Journal de voyage (ms. presso l’Istituto di Ar-cheologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Roma, parzialmente edito inRazzetti 1991, pp. 235-38), pp. 237-38:

Academie de Parme. Joignant au theatre sont les restes de la Galerie desFarneses et l’on a consacré quelques salles pur l’Academie de sculpture etde peinture que l’Infant protege. Il y a dans ces salles quelques platres mo-delés d’après les statues antiques qui sont à Florence et quelques morceauxde sculpture moderne. Les antiquité trouvées à Velleja ancienne ville quel’on a découvert à quelques milles de Parme et qui avoit eté abimée parquelqu’accident dont on ne conoit ni l’epoque ni la cause. On y a trouvé en-tre autres plusieurs plagues de cuivre avec des inscriptions gravées et quin’ont encore eté ni publiées ni expliquées. Les lettres sont majuscules et as-sez bien faites. Il y a dans la salle des assemblées de l’academie un admira-ble tableau de Correge.

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8) Louis-Henri Compte de Vienne, Journal d’un voyage en Italie fait en1774 (Dijon, Bibl. Publique Ms 557; fotocopia presso la Biblioteca Hertzia-na di Roma), pp. 152-54:

L’accademie est un beau et grand batiment, qui renferme plusieurs sallestrès vastes dans les quelles on a rassemblé un grand nombres de tableaux,de vazes et de statues antiques; ces dernieres ont été trouvées dans le fouil-les qu’on a faites a Velleia; cette ville dont en passant je vais dire deux mots;étoit dans des tems fort reculés une petite république faisant partie de laconfederation des liguriens, on n’est pas sur du tems ou elle fut assujette parles armes des romains mais on sait que sous l’empereur Trajan, elle étoit dé-jà elevée au rang de ville municipale et qu’elle étoit alors très considerable:sa situation au pied de deux montagnes très éscarpées de l’apennin a été lacause de sa ruine et de son entiere destruction; ces deux montagnes s’etantentreuvertes a la suite sans doute de quelque tremblement de terre conside-rable la ville de Velleia se trouva tout a coup engloutie sous leurs debris etcouverte a une grande hauteur de terres et de rochers: on croit que ce fune-ste évenément est du quatrieme siècle: ce qu’il y a de certain, c’est que de-puis cette époque, il n’en a plus été parlé, et que se n’est que depuis mil septcent soixante, que le hazard en ayant fait découvrir quelques vestiges on acommancé a y faire des fouilles par ordre de l’infant don Philippe d’Espa-gne: les ruines de cette malheureuse ville sont a sept lieues de Plaisance surle bords de la riviere de chero, mais revenons au Museum de Parme dontcette digression nous avoit eloigné.

Les differentes salles dont il est composé, renserrent un grand nombrede tableaux et d’antiques: on y trouve une bibliothèque de plus de trentemilles volumes, une autre piece est destinée aux manuscrits ...

9) Jean-Dominique Cassini, Manuel de l’étranger qui voyage en Italie, Paris1778 (1775), p. 248:

Mais il y a une excursion bien plus intéressante à faire, si vous êtes cu-rieux d’antiquités; c’est le voyage de Velleia, ancienne ville ensevelie sous unmonceau de rochers, et dont on s’occupe à dégager et à rétirer les débris.

10) Jean Bernoulli, Lettres sur différens sujets, écrites pendant le cours d’unvoyage par l’Allemagne, la Suisse, la France Méridionale et l’Italie en 1774 et1775, III, Berlin 1779, lettera XII, Parma 14 marzo 1775, p. 176:

(Accademia) J’y vis quantité d’antiquités tireés de Velleja, entr’autres unbeau buste, bien conservé, de Vitellius.

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11) Jean-Marie Roland de la Platière, Lettres écrites de Suisse, d’Italie, de Si-cile et de Malthe en 1776, 1777 et 1778, Amsterdam 1780, vol. II, p. 14:

L’Academie a encore réuni différents morceaux d’antiquité, tirés des fo-uilles de Velleia, ville Romaine, au midi de la route de Plaisance à Parme,ensouite dans un tremblement de terre dont on ignore l’époque; perdue,oubliée et découverte depuis quelques années. Elle a ajouté à ceux connuset publics, un Hercule colossal, en pièces, qu’on rapproche actuellement, etqui est très-beau; un Bacchus; une autre belle figure; plusieurs autres demoindre grandeur; beaucoup d’ustensiles divers. Quel dommage qu’on né-glige ces fouilles, dont il pourroit résulter une collection très-précieuse!

12) Jean Baptiste Marie Guidi, Lettres contenant le Journal d’un voyage faita Rome en 1783, Geneve 1783, vol. II, pp. 227-28 (lettera XXXV):

Les assemblées de l’Académie se tiennent dans de vastes salles, dont lapremière est remplie de tous les ouvrages couronnés: on voit dans la secon-de de belles statues, et des plâtres des meilleurs antiques d’après lesquels lesélèves peuvent travailler.

On a fait depuis peu dans un des premiers cabinets de l’Académie, unrecueil de plusieurs antiquités très-curieuses, tirées des ruines de Velleia, vil-le ancienne à sept lieues de Plaisance, qui fut ensevelie sous des rochers quise détachèrent des montagnes dans le troisième siècle. Le duc de Parme dé-funt y a fait travailler pendant plusieurs années et l’on en a retiré des mé-dailles des statues, grand nombre d’inscriptions et d’ordonnances des Em-pereurs: la plus singulière est de bronze, et contient un établissement en fa-veur des enfans trouvés sous l’empereur Trajan. Depuis 1764 on ne travailleplus aux fouilles de Velleia.

13) Mary Berry, diari di viaggio editi in B. Riccio (a cura di), Mary Berryun’inglese in Italia. Diari e corrispondenza dal 1783 al 1823. Arte, personaggie società, Roma 2000, pp. 33-34 (Parma, 7 novembre 1783):

Annessa al Palazzo si trova l’Accademia Reale di Pittura e Scultura, nellacui Galleria si trovano modelli di tutti i reperti antichi ad uso degli studentie qualche statua classica. Una figura femminile panneggiata, proveniente daVelleia, pur priva di testa e braccia, è molto bella, e un busto di Vitellio inmarmo bianco, di dimensioni assai ridotte rispetto al reale, è di un’espressi-vità quasi pittorica. [...] In un altro appartamento dell’Accademia si conser-va il privilegio o statuto che Traiano concesse ai Velleiani, rinvenuto a Velle-ia; è inciso su una tavoletta di rame lunga circa sei piedi, incorniciata da una

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lamina di rame; pur essendo spezzata in più pezzi, è perfettamente leggibile,anche se oggi la qualità dell’incisione dei caratteri verrebbe definita moltorozza. Vi sono inoltre una gran quantità di antichità romane, tra cui lampa-de, iscrizioni, ecc. ecc., tutte recuperate a Velleia.

14) de La Roque, Voyage d’un Amateur des Arts... fait dans les années 1775-78, 4 voll., Amsterdam 1783, IV, pp. 41-43:

La Galerie (si célèbre sous les règnes des Farneses) est assez vide aujour-d’hui: on y a placé ce que les fouilles faites dans les ruines de Velléia ontproduit jusqu’ici de plus intéressant; mais ces fouilles sont ingrates et sontdispendieuses.

Elles ont donné cependant quelques belles statues. Entre les mieux con-servées, sont celles en marbre, représentant Galba en habit militaire, avecson armure; une de Néron encore jeune ayant au col la Bulla, et plusieursautres également très-belles; quelques beaux bustes, des bas-reliefs d’un ex-cellent goût, une quantité de bronzes, nomménement une Victoire ailée, lesbras élevés dans l’attitude de soutenir une couronne, mais le travail de celle-ci en est sec et le dessein peu correct.

Une Table de bronze, sur la quelle sont indiquées les principaux endroitsdu pays des Velléiates. Cette table qui se rapporte à un établissement del’Empereur Trajan est le monument de bronze le plus entier et le plus consi-dérable qui existe. Une autre table également de bronze, contient des LoisRomaines, qui se trouvent dans le code, ecc. Nombre d’inscriptions à l’hon-neur de Germanicus, de Vespasien, d’Aurélien, de Probus, etc.

Divers vases, ustenciles, meubles, et Dieux Penates de bronze, de mar-bre, de terre cuite ecc. Quelques morceaux de peintures dans le genre gro-tesque, telles que celles trouvées à Rome dans les bains de Neron et ailleurs,que Raphaël a si supérieurement imitées...

[nota in fondo alla p. 41] Velléia: les restes de cette ancienne Ville se vo-yent à sept lieues au midi de Plaisance... Elle étoit située au pied de deuxhautes montagnes ... qui sont partie de l’Appenin; ce fut l’écroulementd’une partie de ces montagnes qui causa la ruine de Velléia ... à juger par legrand nombre d’ossemens qu’on à trouvé dans les ruines et par la quantitéde monnoie qu’on en retire, les habitans n’eurent pas le temps de se sauver;ils furent surpri, écrasés et engloutis avec toutes leurs richesses ... On ne saitpas dans quel temps Velléia fut ensevelie sous ces rochers; la date de cetévènement est probablement du quatrième siècle...

On a commencé en 1760, à faire des fouilles dans ces ruines ... On n’estpas fort avancé, parce que la difficulté y est extrème; les bâtimens y sont

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couverts de rochers; à plus de vingt pieds de hauteur ... le plan de la partieoù l’on a fouillé jusqu’ici, a été levé et il se voit entre les autres curiosité dela Galerie.

15) Vincenzo Plateretti, Diario di viaggio odeporico nelle Valli dell’Arda edella Nure fatto dal dott. Plateretti medico e filosofo Borghiggiano nell’anno1786, BPP, Ms. Parm. 1465/4, pp. 13-18:

Macinesso: la sua Chiesa, Casa Parrocchiale e altre vicine sono piantatesopra le ruine d’una antica Città, chiamata Velleja, della cui esistenza, e delsuo nome diede notizia una gran Lamina di bronzo che fu trovata in quellostesso luogo. Al vedere le vestigia solo di Velleja ben si comprende che eracittà di conto e per ricchezze e per industria. Molte cose che provano questamia asserzione si trovano distese parte nelle camere della R.Biblioteca, partenella R. Accademia delle Belle Arti, ad in massima parte ivi in Parma pursono racchiuse in varie casse, che tuttora aspettano il bene d’essere rimesseall’aria aperta per pubblica erudizione. Ivi però in Velleja tuttora si trovanocose degne d’essere esaminate dai Naturalisti non meno che dagli antiquarjed amatori delle belle arti oltra le vestigia della pianta scoperta di essa città,moltissime opere di lusso, e di magnificenza, tanto per la materia che per illavoro. E trattandosi delle qualità delle materie, vi si vedono impiegate per ilastricati della Piazza e dei Cortili le pietre arenarie dette volgarmente Maci-gne, ma per i piani di certe camere, non che per colonne, capitelli, impellic-ciature ed altri lavori i più fini marmi, come Bianchi di Carrara di varie sor-ti, sanguigne Seravezze, Bellezze di Francia, Broccatello di Spagna, nonmancandovi neppure il tanto dagli antichi vantato marmo pario per la suabianchezza e trasparenza dai non lavoratori di marmo confuso coll’alaba-stro. Che trattandosi poi dei lavori di lusso sorprendenti sono, oltre le bentirate basi di pietra conchigliacea fina quale dai non molto lontani monti, oforse allora dai prossimi, fu certamente cavata, altre ve ne sono di pietra are-naria, ed altra di bella pietra tintinnante di color cinerino gialletto che bat-tuta armoniosamente risuona. Sonovi poi capitelli di vari ordini, e della in-dicata pietra conchigliacea, e di bellissimo marmo pario, uno dei quali d’or-dine corintio finissimamente lavorato. Nulla dirò delle statue sì di vari mar-mi, come de’ metalli perché sul luogo più non ne esistono, e alla capitale so-no già stati da qualche tempo trasportati. Esistono però ancora li lastrichidelle Camere e di certi cortili e Piazze. La gran Piazza, cioè la maggiore chefin qui siasi scoperta è lastricata in macigno, e veggonsi le imposte, nellequali erano piantate le colonne, che tutto all’intorno l’ornavano. Dietro allecolonne trovasi incavato un sufficiente canaletto a ricevere le acque che pio-vono nella piazza, e tradurle in un altro e vasto condotto sotterraneo, che

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via le trasporta. Evvi pure dalla parte opposta alla Piazza altro corso di co-lonne, le quali formavano i bei portici d’una strada, o d’un cortile.

Esistono ancora le Vestigia d’un Palazzo che mostra essere quello delPubblico, ed altri con sale dipinte a fresco, parte delle mura dei quali tutto-ra sussistono. Sonovi i bagni. Mi sorprese inoltre la vastità del Teatro il qua-le di figura alquanto ellittica mostra ch’era capace di contenere non picciolonumero di persone. Due porte l’una in faccia all’altra ed in dirittura pressoa poco perpendicolare ai due fochi dell’Ellissi vi danno l’ingresso spazioso,ed alla destra dell’una, ed alla sinistra dell’altra un’altra piccola porta dallamaggiore divisa con un forte muro. Oltre al muro interiore trovasi il Teatrocircondato da un muro esteriore distante dal primo da dieci, a dodici passiandanti, cioè da dieci braccia parmigiane.

Luogo nel quale io stimo che s’inalzassero le scalinate, ove stavano i spet-tatori [calcola che potesse contenere circa 3375 persone] onde si può de-durre che la città n’era popolosa di ben 6000. Da una parte nel mezzo al disopra del foco dell’Ellissi si veggono due grosse pietre impiantate, l’una del-le quali esce fuori di terra un buon piede, e l’altra assai meno. Io pensereiche quelle fossero le fondamenta delle distinte sedie dei giudici, le quali nel-l’innalzarsi andassero ad appoggiarsi fin presso al muro interiore in manierache i sedili di poco avanzassero quelli della commune dei spettatori.

Lungo sarebbe il dire la bellezza di molti selciati di camere e sale. Fin lipiù rozzi sono osservabili perché afatti d’un semplice battuto sinora assaiforte, o da grandi e grossa quadrella, per lo più lunghe piuttosto che qua-dre. Se ne trovano molti fatti di mosaico di pezzetti di pietra bianchiccia, edi materia fatta d’un forte cemento o bianca, ed ora di vari colori.

Assai più nobili sono quelli o d’una sola pietra con entro lavori a bassorilievo, iscrizioni a mosaico, e di vari finissimi marmi disposti a quadri con-tornati d’altri marmi, ed una di queste mostra per ogni quadro marmi diver-si, e tutti bellissimi.

[... gran quantità di scarti di ferro, gangheri, chiodi, martelli ... mostranoquanto di quel metallo si travagliasse]. Bellissimi sono pure vari lavori digrosso e ben tagliato vetro, e le molte stoviglie di varie sorte d’argilla cottache vi si trovano, nella quale materia pure esiste un semibusto d’una statuacolossale che stimasi un Laocoonte cui manca il superiore della cucuzzaportato via da un aratro in tempo che trovavasi così ritto sepolto.

[cause della distruzione di Velleia: esclude la possibilità dell’eruzionevulcanica. Ritiene più probabile una frana dal monte Moria, a sud-ovest diVelleia. Esistenza però di vari oggetti in pietra vulcanica (vaso conico, pro-babile coperchio di cinerario con iscrizione VR usato come macina e altresimili pietre vulcaniche lavorate in rotondo e forate nel mezzo fatte proba-bilmente a uso di macina mostrategli dal custode) che testimonierebbero

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dell’esistenza nel luogo di un antico vulcano, anche se non ritiene questa lacausa della distruzione della città, «siccome non è residuo di esso vulcano ilfuoco che arde presso di essa (Velleja) la terra»].

16) Giuseppe Nave, La vera guida per chi viaggia in Italia con la descrizione ditutti i viaggi e sue poste, ... dedicata ... a Tommaso Jenkins, Roma 1787, p. 292:

Il palazzo dell’Infante non è che un ammasso di case, dove per altro con-servasi il capo d’opera di Correggio, cioè la Vergine di S. Girolamo conmolte antichità trovate nell’antica Veleja che aspettano un dotto illustratore.

17) Moreau de Bioul, (Ch. Terlinden, Voyage à Rome du chevalier de More-au de Bioul, 6 septembre-17 novembre 1791, «Bulletin de l’Institut histori-que belge de Rome», 25, 1949, pp. 243-336), pp. 263-65 (26 ottobre 1791):

Dans une Galerie qui est au de là de celle où sont les tableaux, on a réu-ni plusieurs statues antiques tirées des ruines de la Ville de Velleya. Les sta-tues sont l’ouvrage des Grecs. Ce sont les premières que je vois, elles repré-sentent des vestales et sont de marbre. Une draperie légère, négligemmentjetée par les Grâces, semble à peine couvrir ces statues; elle laisse apperce-voir toutes les formes du corps le mieux proportionné, on le croirait tran-sparentes. Les artistes grecs excellaient dans ce genre. Les ruines de Velle-ya dont ce statues ont été tirées se trouvent à sept lieues de Plaisance, aupied de l’Appenin, dont l’écroulement de quelques rochers détachés l’écra-sa à ce que l’on dit. On a conjecturé du grand nombre d’ossements, de mé-dailles et de monnaies qu’on y a trouvé que les habitants furent surpris etengloutis avec toutes leurs richesses. Une matière bitumineuse et qui s’en-flamme à sa surface quand on en approche un flambeau allumé, des me-dailles fondues et quelques matières noires ont fait croire que le reverse-ment de cette ville avait été occasionée par un volcan. On ignore le tempset la manière de la destruction de cette ville. On y trouve des monumentsantérieurs à Constantin. Les rochers qui couvrent les ruines ont plus devingt pieds et rendent les fouilles très difficiles et presque infructueuses,parce que tout est écrasé. On aperçoit seulement quelle était l’étendue dela ville, qu’elle était bâtie sur le penchant de la colline, que ses maisons éta-ient séparées en forme d’îles et formaient différentes étages qui se commu-niquaient par des degrés, que les appartements inférieurs des maisons éta-ient placés sur un faux plancher soutenu par des piliers de terre cuite oùl’eau pouvait circuler et garantir les maisons de l’humidité; quelques-unesétaient pavées en marbre, d’autres en mosaïque. On y a trouvé des peintu-res, une entre autres, que j’ai vue, représentant un jardin décoré d’arcades

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et de treillis, un petit bois, des bustes en marbre, des vases de bronze aju-stés (?) en argent, etc.

Vers le milieu de l’endroit qui a été fouillé est une place publique très or-née; une inscription en lettres de bronze qui traverse la place apprend qu’el-le fut pavée de grosses pierres. Elle était environnée de colonnes de mar-bres, dont quelques-unes y sont encore, avec un canal tout autour pourl’écoulement des eaux, il y avait de très beaux sièges de marbre, soutenuspar des lions. Au milieu était un autel consacré à l’Empereur Auguste. Lesautres statues qui se trouvent dans la salle où sont celles venues de Velleyasont la plupart des copies en marbre ou en plâtre des chefs d’oeuvre en Ita-lie, tels que l’Appolon du Belvédère, le Mercure, l’Hercule Farnese, etc.

18) Juan Andrés, Cartas familiares del abate D. Juan Andrés a su hermano D.Carlos Andrés, dandole noticia del viage que hizo a varias ciudades de Italiaen el año 1791, IV, Madrid 1793, p. 20:

(Accademia) Un quadro de marmol, pintado por el célebre conde de Cay-lus, segun el método que el mismo habia inventado de pintar en el marmol.Hay tambien varias estátuas antiguas, sacadas de las ruinas de Veleya, a masde un busto de Vitelio y una cabeza de Júpiter que se han traido de Roma.

Ibidem, pp. 24-25:

(Biblioteca) En este brazo de biblioteca hay á man derecha un buen quarto,que sirve de museo antiquario, donde, ademas de medallas y otras antigüeda-des, hay en particular algunas halladas en Veleya, antigua ciudad enterrada enaquellas inmediaciones, y descubierta en tiempo del señor Infante Don Felipe

Ibidem, p. 31:

(Museo) El Museo, que come te he dicho, está anexo á la biblioteca, aun-que no es aun, ni por el numero, ni por lo selecto, digno de particular cele-bridad, tiene con todo la famosa tabla alimentaria de Trajano, y algunas mo-nedas y antigüedades de Veleya y otras, que merecen consideracion.

19) Elisabeth Vigée Le Brun, Ricordi dall’Italia (a cura di M. Premoli), Pa-lermo 1990 (1792), p. 45:

Nella Biblioteca di Parma notai soprattutto un antico busto di Adriano,molto ben conservato, benché sia stato dorato. Poi, un piccolo Ercole inbronzo lavorato con grande finezza, un piccolo Bacco incantevole, molti

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antichi medaglioni ecc. Ma il Correggio ! Il Correggio è la vera gloria diParma.

20) Leandro Fernández de Moratín, Viage a Italia, (ed. critica di Belén Teje-rina), Madrid 1988 (1793, 1795, 1796), p. 177 (a Parma il 21 settembre1793):

(Biblioteca) Algunos de los monumentos hallados en la ruinas de Velleia

Ibidem, pp. 178-80:

(Accademia di Belle Arti) que ha producido ya excelentes discipulos, di-stribuye premios, y está considerada como una de las mejores de Italia [... ].La coleccion de hiesos sacados del antiguo es mui inferior a la nuestra, hay al-gunas estatuas encontradas en Velleia: dos de Mesalina, una de Agripina, y nosé qué mas, cosa excelente en el estudio de los ropages. [...] La ciudad de Vel-leia arruinada, a lo que parece, por el rompimiento y caida de unas montanasacia el quarto siglo; dista de Parma 10 u 11 leguas, se han hecho excavacionesen ella, y se han sacado varias estatuas, inscripciones, muebles, instrumentos yotra curiosidades; se ha levantado un plan de la parte descubierta hasta ahora,pero ya no se trabaja, muchos años haze, por falta de dinero; y es lastima,pues, dexando aparte quan interesante seria proseguir las excavaciones por loque toca a la historia, a la literatura y a las artes, mirandolo solo como una me-ra especulacion de comercio, produciria considerables ganancias.

21) Aubin-Louis Millin, Voyage dans le Milanais, a Plaisance, Parme, Modè-ne, Mantoue, Crémone et dans plusieurs autres villes de l’ancienneLombardie, II, Paris 1817, p. 85:

(Parma) Quel séjour en effet pour un ami des arts! En y entrant, il songeau plus gracieux des peintures au Corrège, dont il pourra bientôt admirerles chefs-d’oeuvres.

Ibidem, p. 122, nota 3:

(Biblioteca) On y conserve aussi les Memorie Vellejati que le Père Costa,directeur des fouilles, avoit rédigés, et qui sont accompagnés d’un grandnombre de dessins, ainsi que son Explication de la Table de Trajan, qui con-tient de lois romaines

Ibidem, p. 138:

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(Accademia) On y remarque quelques statues qui viennent de Velleja, etle buste du poëte Frugoni: il y a aussi dans cette salle un plan de la ville deVélleja.

Le cabinet des antiques est principalement formé des objets qui en onété apportés. La garde de ces objets est confiée à M. Lama qui en a déjà faitdessiner et graver plusieurs. Il faut expérer que la protection de son nouve-au souverain lui assurera le moyen de publier son ouvrage.

22) Mariana Starke, Travels in Europe for the use of travellers on the Conti-nent and likewise in the Island of Sicily, Paris 1833, pp. 46-48 [1817-19;1824-28]:

The Academy also contains several interesting Antiquities found at Velle-ia, a Roman municipal City, situated among the hills eighteen miles south ofPiacenza, and famous for the longevity of its inhabitants. It stood on theright bank of the river Nura, and was buried by the sudden fall of a moun-tain, supposed to have been undermined, by a subterraneous water-course.This melancholy event took place in the forth century: and judging by thenumber of human bones found at Velleia, when it was excavated in 1760,there seems reason to apprehend the inhabitants had not time to escape.Velleia was thirteen leagues distant from Parma; and some of the most inte-resting Antiquities with which it has furnished the Parma Academy are:a head of Hadrian, originally gilt, and finely executed. Two Latin inscrip-tions, written on bronze, and said to be the largest ever discovered: they re-cord a donatio, made by Trajan, of a considerable sum to be employed inthe purchase of lands for the support of a certain number of poor children.These inscriptions were found in 1747 at a short distance from the remainsof the town. Gold chains. Bracelets. Armlets. Rings etc. in the highest pre-servation. To on chain a Medal is attached. Amphorae. Lachrymatories.Lamps. A pair of snuffers, very like those usually attached to modern Ro-man lamps. Various ornaments of bronze. Stamps for stamping bread. Gre-cian vases, etc. ...

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Acquisti Luigi 149Albani Alessandro 25, 32, 166Amaduzzi Giovanni Cristofano 82Amoretti Pietro 159Andrés Juan 58, 205Angelelli Massimiliano 91, 114, 118,

129, 130, 133, 135, 141, 142, 148,149, 159, 160, 163, 164, 166, 168,171

Antolini Giovanni Antonio 11, 94, 104,108, 111, 117, 120, 121, 123-26,129-36, 138, 139, 142, 143, 145, 152,168

Asprucci Antonio 149Asprucci Mario 149Asquini Girolamo 114-16, 140Azara José Nicolás de 164, 166

Baldrighi Giuseppe 57Barborini Giuseppe 159Bardetti Stanislao 67, 95Barthélemy Jean-Jacques 28, 29, 32, 80Basiletti Luigi 100, 102, 108, 109, 111,

140Bayardi Ottavio Antonio 64, 142Benassi Giuseppe 106Benedetto XIV (Prospero Lambertini)

15Bernoulli Jean 199Berry Mary 183, 186, 200Bertioli Antonio 44, 63, 112, 140, 146,

147

Biancani Tazzi Giacomo 80, 146, 163,166-68

Blasi Lorenzo 42-45, 49Boccia Antonio 67, 95Bolognini Giambattista 91, 94, 99, 100,

105, 106, 145Borgia Stefano 88Bossi Benigno 186, 187Boudard Ferdinando 91, 126Boudard Jean-Baptiste 79Breteuil, balì di 14, 29Brunswick, Massimiliano Giulio Leo-

poldo, duca di 185

Callani Gaetano 183Campana Stanislao 125-28, 168Canonici Matteo Luigi 63Canova Antonio 183Capmartin De Chaupy Bertrand 95Cara de Canonico Anton Giacinto 114-

15Carli Gian Rinaldo 17Carlo III di Borbone, re di Spagna 15,

33, 64, 87, 147, 193Carlo Emanuele III di Savoia 15Carra Giuseppe 158, 172, 183Casapini Pietro 99-102, 105, 106, 108,

109, 118, 122, 123, 125, 145, 152, 170Cassini Jean-Dominique 199Cattaneo Gaetano 88Caylus Anne-Claude-Philippe de Tubierés

10, 13, 14, 16, 17, 20-29, 31-36, 38-46,

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Indice dei nomi

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49-58, 61, 64-73, 75-81, 84, 111, 140,152-54, 166, 176, 178, 188, 205

Chiappini Alessandro 18, 67, 95Clemente XIII (Carlo Rezzonico) 17, 39Colbert Jean-Baptiste 56Colombi Antonio 43, 46, 47, 52, 181Contucci Contuccio 14Cordero di Sanquintino Giulio 153, 189Cornacchia Ferdinando 106, 108, 160Costa Antonio 10, 13-28, 37-40, 42, 43,

47, 49, 53, 54, 56, 64-75, 77, 79, 140,176, 177, 184-86, 188, 190, 198, 206

Coyer Gabriel François 177, 178, 180,184, 187, 192

Creuzé de Lesser Auguste 147

De Gubernatis Giovanni Battista 108,109

De Lama José 87De Lama Pietro 9, 10, 39, 42, 43, 58,

65, 80, 85-102, 104, 105, 108-24,126, 129, 130, 132-36, 140-42, 145-60, 163, 164, 166-71, 176, 186, 187,189, 207

Della Torre di Rezzonico Antonio Giu-seppe 64, 65

Depuig Pétronille 87Desgodetz Antoine 56Dragoni Antonio 114Drugman Giovan Francesco 148Du Pont del Porte 96Du Tillot Guillaume 15, 16, 20, 22-29,

36, 38-43, 50, 53, 57, 58, 63-66, 69-73, 75, 77, 82, 86, 90, 94, 105, 157,176, 177, 183, 190

Eckhel P. Joseph 88Eustace John C. 173

Fea Carlo 88Ferdinando di Borbone 59, 88, 92, 94,

115, 146, 149, 167, 173, 174, 183Filiberti Giuseppe 21, 22, 24Filippo di Borbone 13-15, 20, 23, 27-

29, 38, 39, 41, 45, 53, 58, 59, 74, 77,82, 87, 90, 174, 175, 191, 192, 194,196, 199, 200, 205

Fogliani Giuseppe 63, 64Fogliazzi Giovanni 88, 146Fragonard Jean Honoré 177, 190Fulchiron Jean-Claude 112, 155Furietti Giuseppe Alessandro 75

Galletti Pier Luigi 17, 18, 19, 20, 27,28, 37, 68, 111

Gandy-Deering John Peter 112, 147Garampi Giuseppe 82, 83Gautier Theophile 174Gell William 112Gerhard Eduard 163Gibbon Edward 63, 181-84, 187, 193Goethe J. Wolfang 88Gori Antonio Francesco 182, 195Guattani Giuseppe Antonio 91Guidi Jean Baptiste Marie 185, 187,

200Guise William 181, 182, 184, 185

Isac Antonio 163, 166

Labus Giovanni 109-111, 116Lacombe Jacques 180Lalande Joseph Jérôme de 80, 85, 86,

179, 185, 187, 188, 196Lami Giovanni 85, 114Lanzi Luigi 117, 174La Porte Joseph de 176, 189La Roque de 185, 200Le Beau Charles 73Lesne Jean-Charles 112-114Lessing Gotthold Ephraim 185Liberati Giannantonio 57Linati Filippo 135, 157Lopez Michele 91, 105, 109, 112, 116,

117, 120, 123, 125, 126, 132, 141,160

Louis Victor 32Luigi XV, re di Francia 95

210

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Maffei Scipione 14, 37, 65Magawly Cerati de Carly Filippo 99,

102, 150Mainoni Stefano, de 134Malvasia Carlo Cesare 75, 77Manara Prospero 61Maria Amalia d’Austria, duchessa di

Parma 58, 87, 167Maria Luigia d’Austria, duchessa di

Parma 9, 11, 90, 96, 98, 99, 105,116, 145, 147, 159, 160, 175, 186

Mariette Pierre 33, 50, 51, 56, 68, 72,81, 111, 177

Marini Luigi Gaetano 80, 88, 111, 140Martelli Ambrogio 14, 26, 27, 37, 43,

49, 57, 60, 63, 66, 71Martini Pietro 57, 71, 81, 83, 136Mazza Andrea 58, 59, 167, 168Mengs Raphael 183Metternich-Winneburg Klemens, prin-

cipe di 150Mignard Pierre 56Millin Aubin-Louis 175, 206Mniszech Michele Giorgio 80, 198Moratín Leandro Fernández de 183,

188, 206Moreau de Bioul 185, 204Moreau de Saint Méry Médéric-Louis-

Elie 67, 93-96, 102, 105Mori Luigi 157Motta Giulio 118Muratori Ludovico Antonio 14, 37, 65,

68, 181, 182, 195

Napoleone Bonaparte 156Nardon Hugues Eugène 95Nasalli Ignazio 110Nave Giuseppe 204Neipperg Adam 109, 147Nibby Antonio 119Nicelli Giacomo 44, 45, 57, 71, 72, 181Nicolli Francesco 114-15

Paciaudi Paolo Maria 9-11, 13, 17, 22,

28-54, 56-59, 61, 64, 68, 70-75, 77-87,95, 111, 129, 140, 146, 148, 159, 162,163, 166-69, 175-80, 183-87, 192, 198

Palmerston, Temple Henry, visconte di181

Paolucci di Calboli Francesco 136, 149,150

Passeri Giambattista 162, 163, 164, 166,168

Passionei Domenico 39Pedrusi Paolo 88Permoli Giovanni 69, 70, 71Petitot Ennemond-Alexandre 71, 167,

169Pinelli Evangelista 172Piranesi Gianbattista 33Piroli Marziale 172Pittarelli Giuseppe 114-15Plateretti Vincenzo 97, 180, 188, 189, 202Poggiali Cristoforo 65, 66Poggio Federico Vincenzo de 114-15Poniatowski Stanislao Augusto 80Porta Giovanni Bonaventura 100, 102

Rammonet Provinciali Pierina 157Ranieri d’Asburgo, viceré del Lombar-

do-Veneto 110Rapaccioli Donnino 14, 67, 95Ravelli Antonio 70, 72Reynolds Joshua 174Richard Jérôme 176, 177, 184, 185, 187,

191Robert Hubert 32, 71Rocca Giuseppe 105Rochefoucault, duca di 181Roland de la Platière Jean-Marie 187, 200Romanelli Domenico 142Roncovieri Giovanni 14, 15, 16Rumohr Karl Friedrich von 173

Saint-Non Jean Claude, abate di 71,177, 184, 187, 190

Sanquirico Antonio 116, 160Schenoni Angelo 87, 89

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Schiassi Filippo 148, 149Scutellari Luigi 158Séguier Jean-François 86Séroux d’Agincourt Jean Baptiste 88Starke Mariana 207Steinbüchel Antonio 88, 91Stern Raffaele 119Strange Robert 183

Tambroni Giuseppe 91Tanucci Bernardo 33, 34Tebaldi Giuseppe 134Terrasson Antoine 14, 15, 37Tilliard Nicolas-Martin 40

Uggeri Angelo 119

Vaillant Jean Foi 20Valadier Giuseppe 119, 149Venturi Giuseppe 116Verità Giacomo 88, 116, 146Vermiglioli Giovan Battista 111, 153,

154, 189

Vienne, Louis-Henri, comte de 199Vigée Le Brun Elisabeth 173, 186Visconti Ennio Quirino 88, 146, 149,

164-66Vivant Denon Dominique 92, 156Voghera Giovanni 112, 114, 118, 120,

123, 125, 126, 132, 135, 141Voghera Luigi 11, 112, 117-26, 129,

130, 141, 142, 152, 168Volkmann Johann Jacob 185, 186Volta Alessandro 179

Winckelmann Johann Joachim 10, 32,33, 50-52, 129

York, Edward Augustus, duca di 181,184, 194

Zanetti Guido Antonio 72, 88, 146Zannoni Giovanni 159Zoëga Georg 88

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Abbreviazioni bibliografiche

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Albasi e Magnani 2003 = T. Albasi e L. Magnani, Una storia infinita: scoperta, tradi-zione, fortuna di Veleia, in Criniti 2003, pp. 11-41

Allegri Tassoni 1942 = G. Allegri Tassoni, Una lettera di Vivant Denon (il secondosaccheggio artistico del 1803), “Aurea Parma”, 26, 1942, pp. 27-31

AMANP = Archivio del Museo Archeologico Nazionale di ParmaAndrés 1793 = Juan Andres, Cartas familiares del abate D. Juan Andrés a su herma-

no D. Carlos Andres, dandole noticia del viage que hizo a varias ciudades de Italiaen el año 1791, IV, Madrid 1793

Antolini Veleia = G. A. Antolini, Le rovine di Veleia, 2 voll., Milano 1819-1822Arias 1955 = P.E. Arias, I recenti restauri della zona archeologica di Velleia e la istitu-

zione dell’«antiquarium», in Studi veleiati. Atti e Memorie del I Convegno di stu-di storici e archeologici, Piacenza 1955, pp. 115-19

Arrigoni Bertini 1986 = M.G. Arrigoni Bertini, Lettere inedite di Pietro De Lama al-l’Archivio di Stato di Parma, «Archivio Storico per le Province Parmensi», 38,1986, pp. 305-34

Arrigoni Bertini 1990 = M.G. Arrigoni Bertini, Contraddizioni e problemi nella tra-dizione erudita della stele di Coelia Gemella, in Tradizione dell’antico nelle lette-rature e nelle arti d’Occidente, Roma 1990, pp. 367-75

Arrigoni Bertini 1996 = M.G. Arrigoni Bertini, Luigi Voghera e Veleia: una rettificaal CIL, «Epigraphica», 58, 1996, pp. 61-73

Arrigoni Bertini 2003 = M.G. Arrigoni Bertini, La ricerca antiquaria nei primi de-cenni dell’Ottocento. Veleia: il caso Voghera-Antolini, «Archivio Storico delleProvince Parmensi», 55, 2003, pp. 437-54

Arrigoni Bertini 2004 = M.G. Arrigoni Bertini, Parma Romana. Contributo alla sto-ria della città, Parma 2004

ASP = Archivio di Stato di ParmaAtti e conti = Atti e conti del Museo dal 1785 al 1807, ms. conservato in AMANPBabelon 1900 = E. Babelon, Guide illustré au Cabinet des Médailles et antiques de

la Bibliothèque Nationale. Les antiques et les objets d’art, Paris 1900Babelon 1901 = E. Babelon, Traité des monnaies grecques et romaines, parte I, vol.

I, Paris 1901

213

08 Biblio 14-03-2006 12:34 Pagina 213

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Babelon 1928 = J. Babelon, Les Trésors du Cabinet des Antiques. Choix de bronze dela Collection Caylus donnée au Roi en 1762, Paris-Bruxelles 1928

Baistrocchi e Sanseverino ms. 130 = Baistrocchi e Sanseverino, Biografie di artistiparmigiani, Biblioteca della Soprintendenza PSAD di Parma e Piacenza, ms.130 (XVIII secolo)

Barilli 1992 = R. Barilli (a cura di), Il primo ’800 italiano. La pittura tra passato e fu-turo cat. mostra (Milano 20 feb.-3 mag. 1992), Milano 1992

Barocchi e Ragionieri 1983 = P. Barocchi e G. Ragionieri (a cura di), Gli Uffizi.Quattro secoli di una Galleria, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firen-ze 20-24 set. 1982), 2 voll., Firenze 1983

Barthélemy 1802 = J.J. Barthélemy, Voyage en Italie, Paris 18022 (rist. anast. Genève1972)

BAV = Biblioteca Apostolica VaticanaBédarida 1928 = H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Paris 1928Belli Pasqua 1995 = R. Belli Pasqua, Sculture di età romana in «basalto», (Xenia An-

tiqua, monografie, 2), Roma 1995Benassi 1919 = U. Benassi, Lo storico piacentino Cristoforo Poggiali e il ministro Gu-

glielmo du Tillot, «Bollettino Storico Piacentino», 14, 1919, pp. 3-16Bencivenni Pelli Efemeridi = G. Bencivenni Pelli, Efemeridi, XVIII, 1790 (ms. con-

servato presso la Biblioteca del Museo di Storia della Scienza, Firenze)Bernabò-Brea et al. 1992 = M. Bernabò-Brea, M. Catarsi Dall’Aglio, P. Saronio,

M.P. Cesaretti, C. Tarasconi, Il Museo, le collezioni, le ricerche e l’interesse perl’archeologia in epoca ludoviciana, in Maria Luigia Donna e Sovrana, pp. 80-90

Bertini 1982 = G. Bertini, Paolo Maria Paciaudi e la formazione della Biblioteca Pa-latina di Parma (ricerche sugli aspetti materiali della fondazione di una bibliotecanella seconda metà del XVIII secolo), «Aurea Parma», 66, 1982, pp. 242-64

Bertioli Antichità veleiati = A. Bertioli, Antichità veleiati, BPP, codice misc. (V* I.20212)

Betta 1990 = C. Betta, Iscrizioni veleiati in codici epigrafici del Settecento, «ArchivioStorico per le Province Parmensi», 42, 1990, pp. 463-80

Biondi e Mandich 1986 = C. Biondi e A.M. Mandich, Viaggiatori francesi, in Cusa-telli 1986, I, pp. 17-337

Boccia ms. 497 = A. Boccia, Continuazione dell’itinerario, descrizione geografica, fi-sica, storica e statistica dei Monti, e delle Valli dello Stato di Parma e di Piacenza,BPP, Ms. Parm. 497 (edito in A. Boccia, Viaggio ai monti di Piacenza, 1805, Pia-cenza 1977)

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l’Imperiale Museo d’Antichità Parmense, 1807, AMANP, ms. 30De Lama ms. 61 = P. De Lama, Lettere odeporiche, AMANP, ms. 61De Lama ms. 62 = P. De Lama, Memorie intorno Veleia, AMANP, ms. 62De Lama ms. 82 = P. De Lama, Lettere XIII di Pietro de Lama dal 26 novembre al

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De Lama ms. 383 = P. De Lama, Lettera all’Ottimo Sig. C.te Filippo Linati sullaquale si mette in chiaro un passo non troppo bene espresso dal Sig. Prof. Antolini,BPP, Ms. Parm. 383

De Lama ms. 810 = P. De Lama, Opuscoli, BPP, Ms. Parm. 810De Lama 1818 = P. De Lama, Iscrizioni antiche collocate ne’ muri della Scala Farne-

se, Parma 1818De Lama 1819 = P. De Lama, Tavola Alimentaria Velejate detta Trajana restituita al-

la sua vera lezione, Parma 1819De Lama 1820 = P. De Lama, Tavola legislativa della Gallia Cisalpina ritrovata in

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De Maria 1988 = S. De Maria, Iscrizioni e monumenti nei Fori della Cisalpina Ro-mana: Brixia, Aquileia, Veleia, iulium Carnicum, «Melanges de l’École Françaisede Rome. Antiquité», 100, 1, 1988, pp. 27-62

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Musiari 1986 = Musiari 1986 = A. Musiari, Neoclassicismo senza modelli. L’Accade-mia di Belle Arti di Parma tra il periodo napoleonico e la Restaurazione (1796-1820), Parma 1986

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Nasalli Rocca 1936 = E. Nasalli Rocca, I Manoscritti veleiati della Biblioteca Comu-nale di Piacenza, «Aevum», 10, 1936, pp. 105-14

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