Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Piccolo mondo anticoAUTORE: Fogazzaro, AntonioTRADUTTORE:CURATORE:NOTE:CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101932

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Gandria on Lake Luga-no" di Robert Schultze. - Private collection. -https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Robert_Schultze_-_Gandria_on_Lake_Lugano.jpg. - Pubblico domi-nio.

TRATTO DA: Piccolo mondo antico / AntonioFogazzaro ; introduzione di Giulio Cattaneo. -Roma : Biblioteca economica Newton, 1995. - 227 p. ;22 cm.

CODICE ISBN FONTE: 88-7983-794-X

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DIRITTI D'AUTORE: no

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COPERTINA: [elaborazione da] "Gandria on Lake Luga-no" di Robert Schultze. - Private collection. -https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Robert_Schultze_-_Gandria_on_Lake_Lugano.jpg. - Pubblico domi-nio.

TRATTO DA: Piccolo mondo antico / AntonioFogazzaro ; introduzione di Giulio Cattaneo. -Roma : Biblioteca economica Newton, 1995. - 227 p. ;22 cm.

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1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 agosto 19972a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 22 giugno 20023a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 novembre 2019

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:FIC004000 FICTION / CLASSICI

DIGITALIZZAZIONE:Massimo BiagettiStefano D'Urso, [email protected]

REVISIONE:Massimo BiagettiStefano D'Urso, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Marco Totolo (ODT/ePub)Carlo F. Traverso (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Marco Calvo

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1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 agosto 19972a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 22 giugno 20023a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 novembre 2019

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:FIC004000 FICTION / CLASSICI

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REVISIONE:Massimo BiagettiStefano D'Urso, [email protected]

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4PARTE PRIMA...............................................................9

1. Risotto e tartufi.....................................................102. Sulla soglia d'un'altra vita.....................................363. Il gran passo..........................................................534. La lettera del Carlin..............................................855. Il «bargnìf» all'opera...........................................1036. La vecchia signora di marmo..............................128

PARTE SECONDA....................................................1361. Pescatori..............................................................1372. La sonata del chiaro di luna e delle nuvole........1543. Con i guanti........................................................1954. Con gli artigli......................................................2065. Il segreto del vento e dei noci.............................2296. L'asso di danari spunta........................................2447. È giuocato...........................................................2668. Ore amare...........................................................2779. Per il pane, per l'Italia, per Dio...........................32810. Esüsmaria, sciora Lüisa!...................................35811. Ombra e aurora.................................................39112. Fantasmi............................................................41313. In fuga...............................................................428

PARTE TERZA..........................................................4551. Il savio parla.......................................................4562. Solenne rullo.......................................................478

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4PARTE PRIMA...............................................................9

1. Risotto e tartufi.....................................................102. Sulla soglia d'un'altra vita.....................................363. Il gran passo..........................................................534. La lettera del Carlin..............................................855. Il «bargnìf» all'opera...........................................1036. La vecchia signora di marmo..............................128

PARTE SECONDA....................................................1361. Pescatori..............................................................1372. La sonata del chiaro di luna e delle nuvole........1543. Con i guanti........................................................1954. Con gli artigli......................................................2065. Il segreto del vento e dei noci.............................2296. L'asso di danari spunta........................................2447. È giuocato...........................................................2668. Ore amare...........................................................2779. Per il pane, per l'Italia, per Dio...........................32810. Esüsmaria, sciora Lüisa!...................................35811. Ombra e aurora.................................................39112. Fantasmi............................................................41313. In fuga...............................................................428

PARTE TERZA..........................................................4551. Il savio parla.......................................................4562. Solenne rullo.......................................................478

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GLOSSARIO..............................................................504

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GLOSSARIO..............................................................504

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ANTONIO FOGAZZARO

PICCOLO MONDOANTICO

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ANTONIO FOGAZZARO

PICCOLO MONDOANTICO

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A Luisa Venini Campioni

A Lei carissima Luisa, che tante persone e cosedel piccolo mondo valsoldese ebbe familiari;

a Lei, devota e fedele amica di due care animeche ci aspettano nell'eternità, offro nel nome loro

e nel nome di un altro morto a Lei dilettoil libro che queste sacre memorie

e non queste sole, segretamente richiama.

Antonio Fogazzaro

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A Luisa Venini Campioni

A Lei carissima Luisa, che tante persone e cosedel piccolo mondo valsoldese ebbe familiari;

a Lei, devota e fedele amica di due care animeche ci aspettano nell'eternità, offro nel nome loro

e nel nome di un altro morto a Lei dilettoil libro che queste sacre memorie

e non queste sole, segretamente richiama.

Antonio Fogazzaro

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PARTE PRIMA

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PARTE PRIMA

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1.Risotto e tartufi

Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di volercacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri dellemontagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albo-gasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva an-cora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, scon-quassavan le barche incatenate, mostravano qua e là,sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiardi spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, sivedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezzadella breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva ilprimo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di ceri-monia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza dibambù in mano, camminava nervoso per la riva, guarda-va di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte lamazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo chenon compariva.

Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tendabianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a tra-verso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva,percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carboneche oscillavano appena.

«Pin!», gridava Pasotti sempre più arrabbiato. «Pin!»

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1.Risotto e tartufi

Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di volercacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri dellemontagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albo-gasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva an-cora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, scon-quassavan le barche incatenate, mostravano qua e là,sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiardi spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, sivedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezzadella breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva ilprimo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di ceri-monia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza dibambù in mano, camminava nervoso per la riva, guarda-va di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte lamazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo chenon compariva.

Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tendabianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a tra-verso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva,percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carboneche oscillavano appena.

«Pin!», gridava Pasotti sempre più arrabbiato. «Pin!»

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Non rispondeva che l'eguale, assiduo tuonar delle ondesulla riva, il cozzar delle barche fra loro. Non c'era, sisarebbe detto, un cane vivo in tutto Casarico. Solo unavecchia voce flebile, una voce velata da ventriloquo, ge-meva dalle tenebre del portico:

«Andiamo a piedi! Andiamo a piedi!»Finalmente il Pin comparve dalla parte di San Mamet-

te.«Oh là!», gli fece Pasotti alzando le braccia. Quegli si

mise a correre.«Animale!», urlò Pasotti. «T'han posto un nome di

cane per qualche cosa!»«Andiamo a piedi, Pasotti», gemeva la voce flebile.

«Andiamo a piedi!»Pasotti tempestò ancora col barcaiuolo che staccava in

fretta la catena del suo battello da un anello infisso nellariva. Poi si voltò con una faccia imperiosa verso il porti-co e accennò a qualcuno, piegando il mento, di venire.

«Andiamo a piedi, Pasotti!», gemette ancora la voce.Egli si strinse nelle spalle, fece con la mano un brusco

atto di comando, e discese verso il battello.Allora comparve ad un'arcata del portico una vecchia

signora, stretta la magra persona in uno scialle d'India,sotto al quale usciva la gonna di seta nera, chiusa la te-sta in un cappellino di città, sperticatamente alto, guer-

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Non rispondeva che l'eguale, assiduo tuonar delle ondesulla riva, il cozzar delle barche fra loro. Non c'era, sisarebbe detto, un cane vivo in tutto Casarico. Solo unavecchia voce flebile, una voce velata da ventriloquo, ge-meva dalle tenebre del portico:

«Andiamo a piedi! Andiamo a piedi!»Finalmente il Pin comparve dalla parte di San Mamet-

te.«Oh là!», gli fece Pasotti alzando le braccia. Quegli si

mise a correre.«Animale!», urlò Pasotti. «T'han posto un nome di

cane per qualche cosa!»«Andiamo a piedi, Pasotti», gemeva la voce flebile.

«Andiamo a piedi!»Pasotti tempestò ancora col barcaiuolo che staccava in

fretta la catena del suo battello da un anello infisso nellariva. Poi si voltò con una faccia imperiosa verso il porti-co e accennò a qualcuno, piegando il mento, di venire.

«Andiamo a piedi, Pasotti!», gemette ancora la voce.Egli si strinse nelle spalle, fece con la mano un brusco

atto di comando, e discese verso il battello.Allora comparve ad un'arcata del portico una vecchia

signora, stretta la magra persona in uno scialle d'India,sotto al quale usciva la gonna di seta nera, chiusa la te-sta in un cappellino di città, sperticatamente alto, guer-

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nito di rosette gialle e di pizzi neri. Due ricci neri le in-corniciavano il viso rugoso dove s'aprivano due grandiocchi dolci, annebbiati, una gran bocca ombreggiata dileggeri baffi.

«Oh, Pin», diss'ella giungendo i guanti canarini e fer-mandosi sulla riva a guardar pietosamente il barcaiuolo.«Dobbiamo proprio andare con un lago di questasorte?»

Suo marito le fece un altro gesto più imperioso,un'altra faccia più brusca della prima. La povera donnasdrucciolò giù in silenzio al battello e vi fu fatta salire,tutta tremante.

«Mi raccomando alla Madonna della Caravina, caro ilmio Pin», diss'ella. «Un lago così brutto!»

Il barcaiuolo negò del capo, sorridendo.«A proposito», esclamò Pasotti «hai la vela?»«Ce l'ho su in casa», rispose Pin. «Debbo andare a

prenderla? La signora qui avrà paura, forse. E poi, eccolà che vien l'acqua!»

«Va'!», fece Pasotti.La signora, sorda come un battaglio di campana, non

udì verbo di questo colloquio, si meravigliò molto di ve-der Pin correr via e chiese a suo marito dove andasse.

«La vela!», le gridò Pasotti sul viso.Colei stava lì tutta china, a bocca spalancata, per rac-

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nito di rosette gialle e di pizzi neri. Due ricci neri le in-corniciavano il viso rugoso dove s'aprivano due grandiocchi dolci, annebbiati, una gran bocca ombreggiata dileggeri baffi.

«Oh, Pin», diss'ella giungendo i guanti canarini e fer-mandosi sulla riva a guardar pietosamente il barcaiuolo.«Dobbiamo proprio andare con un lago di questasorte?»

Suo marito le fece un altro gesto più imperioso,un'altra faccia più brusca della prima. La povera donnasdrucciolò giù in silenzio al battello e vi fu fatta salire,tutta tremante.

«Mi raccomando alla Madonna della Caravina, caro ilmio Pin», diss'ella. «Un lago così brutto!»

Il barcaiuolo negò del capo, sorridendo.«A proposito», esclamò Pasotti «hai la vela?»«Ce l'ho su in casa», rispose Pin. «Debbo andare a

prenderla? La signora qui avrà paura, forse. E poi, eccolà che vien l'acqua!»

«Va'!», fece Pasotti.La signora, sorda come un battaglio di campana, non

udì verbo di questo colloquio, si meravigliò molto di ve-der Pin correr via e chiese a suo marito dove andasse.

«La vela!», le gridò Pasotti sul viso.Colei stava lì tutta china, a bocca spalancata, per rac-

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cogliere un po' di voce, ma inutilmente.«La vela!», ripeté l'altro, più forte, con le mani acco-

state al viso.Ella sospettò d'aver capito, trasalì di spavento, fece in

aria col dito un geroglifico interrogativo. Pasotti risposetracciando pure in aria un arco immaginario e soffiando-vi dentro; poi affermò del capo, in silenzio. Sua moglie,convulsa, si alzò per uscire.

«Vado fuori!», diss'ella angosciosamente. «Vado fuori!Vado a piedi!»

Suo marito l'afferrò per un braccio, la trasse a sedere,le piantò addosso due occhi di fuoco.

Intanto il barcaiuolo ritornò con la vela. La povera si-gnora si contorceva, sospirava, aveva le lagrime agli oc-chi, gittava alla riva delle occhiate pietose, ma taceva.L'albero fu rizzato, i due capi inferiori della vela furonolegati, e la barca stava per prender il largo, quando unvocione mugghiò dal portico:

«To', to', il signor Controllore!», e ne sbucò un pretonerubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello dipaglia nera, il sigaro in bocca e l'ombrello sotto il brac-cio.

«Oh, curatone!», esclamò Pasotti. «Bravo! È di pran-zo? Viene a Cressogno con noi?»

«Se mi toglie!», rispose il curato di Puria, scendendoverso il battello. «To' to' che c'è anche la signora Barbo-

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cogliere un po' di voce, ma inutilmente.«La vela!», ripeté l'altro, più forte, con le mani acco-

state al viso.Ella sospettò d'aver capito, trasalì di spavento, fece in

aria col dito un geroglifico interrogativo. Pasotti risposetracciando pure in aria un arco immaginario e soffiando-vi dentro; poi affermò del capo, in silenzio. Sua moglie,convulsa, si alzò per uscire.

«Vado fuori!», diss'ella angosciosamente. «Vado fuori!Vado a piedi!»

Suo marito l'afferrò per un braccio, la trasse a sedere,le piantò addosso due occhi di fuoco.

Intanto il barcaiuolo ritornò con la vela. La povera si-gnora si contorceva, sospirava, aveva le lagrime agli oc-chi, gittava alla riva delle occhiate pietose, ma taceva.L'albero fu rizzato, i due capi inferiori della vela furonolegati, e la barca stava per prender il largo, quando unvocione mugghiò dal portico:

«To', to', il signor Controllore!», e ne sbucò un pretonerubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello dipaglia nera, il sigaro in bocca e l'ombrello sotto il brac-cio.

«Oh, curatone!», esclamò Pasotti. «Bravo! È di pran-zo? Viene a Cressogno con noi?»

«Se mi toglie!», rispose il curato di Puria, scendendoverso il battello. «To' to' che c'è anche la signora Barbo-

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rin!»Il faccione diventò amabile amabile, il vocione dolce

dolce.«Ha in corpo una paura d'inferno, povera diavola»,

ghignò Pasotti, mentre il curato faceva degli inchinetti edei sorrisetti alla signora, cui quel minacciato soprappiùdi peso metteva un nuovo terrore. Ella si mise a gestico-lare in silenzio come se gli altri fossero stati sordi peg-gio di lei. Additava il lago, la vela, la mole del curatoenorme, alzava gli occhi al cielo, si metteva le mani sulcuore, se ne copriva il viso.

«Peso mica tanto», disse il curato, ridendo. «Tâs giò,ti», soggiunse rivolto a Pin, che aveva sussurrato irrive-rentemente: «Ona bella tenca».

«Sapete», esclamò Pasotti, «cosa faremo perché le pas-si la paura? Pin, hai un tavolino e un mazzo di taroc-chi?»

«Magari un po' unti», rispose Pin, «ma li ho.»Ci volle del buono per far capire alla signora Barbara,

detta comunemente Barborin, di che si trattasse adesso.Non lo voleva intendere, neanche quando suo marito lecacciò in mano, per forza, un mazzo di carte schifose.

Ma per ora non era possibile, giuocare. La barca avan-zava faticosamente, a forza di remi, verso la foce delfiume di S. Mamette, dove si sarebbe potuto alzar lavela, e i cavalloni sbattuti indietro dalle rive si arruffa-

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rin!»Il faccione diventò amabile amabile, il vocione dolce

dolce.«Ha in corpo una paura d'inferno, povera diavola»,

ghignò Pasotti, mentre il curato faceva degli inchinetti edei sorrisetti alla signora, cui quel minacciato soprappiùdi peso metteva un nuovo terrore. Ella si mise a gestico-lare in silenzio come se gli altri fossero stati sordi peg-gio di lei. Additava il lago, la vela, la mole del curatoenorme, alzava gli occhi al cielo, si metteva le mani sulcuore, se ne copriva il viso.

«Peso mica tanto», disse il curato, ridendo. «Tâs giò,ti», soggiunse rivolto a Pin, che aveva sussurrato irrive-rentemente: «Ona bella tenca».

«Sapete», esclamò Pasotti, «cosa faremo perché le pas-si la paura? Pin, hai un tavolino e un mazzo di taroc-chi?»

«Magari un po' unti», rispose Pin, «ma li ho.»Ci volle del buono per far capire alla signora Barbara,

detta comunemente Barborin, di che si trattasse adesso.Non lo voleva intendere, neanche quando suo marito lecacciò in mano, per forza, un mazzo di carte schifose.

Ma per ora non era possibile, giuocare. La barca avan-zava faticosamente, a forza di remi, verso la foce delfiume di S. Mamette, dove si sarebbe potuto alzar lavela, e i cavalloni sbattuti indietro dalle rive si arruffa-

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vano con i sopravvegnenti, facevano ballare il battellofra un bollimento di creste spumose. La signora piange-va. Pasotti imprecava a Pin che non s'era tenuto bastan-temente al largo. Allora il curatone, afferrati due remi,ben piantata la gran persona in mezzo al battello, si misea lavorar di schiena, tanto che in quattro colpi si uscì dalcattivo passo. La vela fu alzata, e il battello scivolò vialiscio, a seconda, con un sommesso gorgoglio sotto lachiglia, con ondular lento e blando. Il prete sedette allo-ra sorridente accanto alla signora Barborin che chiudevagli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti battevaimpaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognògiuocare.

Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio adagio,velando le montagne, soffocando la breva. La signoraandava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il ven-to, giuocava rassegnata, pigliandosi in pace gli sproposi-ti propri e le sfuriate di suo marito. Quando la pioggiaincominciò a mormorar sulla tenda del battello esull'onda morta che andava tutt'ora, quasi senz'aria, agliscogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene dicalar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborinrespirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, conun brio, con una beatitudine in viso, che non si turbava-no né di spropositi né di strapazzate.

Molti giorni di breva e di pioggia, di sole e di tempestesorsero e tramontarono sul lago di Lugano, sui monti

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vano con i sopravvegnenti, facevano ballare il battellofra un bollimento di creste spumose. La signora piange-va. Pasotti imprecava a Pin che non s'era tenuto bastan-temente al largo. Allora il curatone, afferrati due remi,ben piantata la gran persona in mezzo al battello, si misea lavorar di schiena, tanto che in quattro colpi si uscì dalcattivo passo. La vela fu alzata, e il battello scivolò vialiscio, a seconda, con un sommesso gorgoglio sotto lachiglia, con ondular lento e blando. Il prete sedette allo-ra sorridente accanto alla signora Barborin che chiudevagli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti battevaimpaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognògiuocare.

Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio adagio,velando le montagne, soffocando la breva. La signoraandava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il ven-to, giuocava rassegnata, pigliandosi in pace gli sproposi-ti propri e le sfuriate di suo marito. Quando la pioggiaincominciò a mormorar sulla tenda del battello esull'onda morta che andava tutt'ora, quasi senz'aria, agliscogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene dicalar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborinrespirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, conun brio, con una beatitudine in viso, che non si turbava-no né di spropositi né di strapazzate.

Molti giorni di breva e di pioggia, di sole e di tempestesorsero e tramontarono sul lago di Lugano, sui monti

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della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocatadalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delledogane a riposo, e dal curatone di Puria, nel battello checosteggiava lento, in mezzo ad una nebbiolina di piog-gia, le scogliere di S. Mamette e Cressogno. Quando ri-vedo nella memoria qualche casupola nera che ora spec-chia nel lago le sue gale di zotica arricchita, qualchegaia palazzina elegante che ora decade in un silenziosodisordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio del-la Madonnina, caduti con le generazioni che li venera-vano; tante figure umane piene di rancori che si crede-vano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeliad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un catacli-sma universale potesse interromperle, figure non menofamiliari di quegli alberi alle generazioni passate, escomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noimolto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltavaa guardar il ponente, parevano lontani più del vero, die-tro la pioggia, il San Salvatore e i monti di Carona.

Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come l'aspet-to del cielo e del lago, caduta la breva che aveva fattotanta paura alla signora Pasotti. La gran breva del 1848,dopo aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo conle nuvole pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere epiovere i giorni quieti, foschi, silenziosi dove camminaquesta mia umile storia.

I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e il Ba-gatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi

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della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocatadalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delledogane a riposo, e dal curatone di Puria, nel battello checosteggiava lento, in mezzo ad una nebbiolina di piog-gia, le scogliere di S. Mamette e Cressogno. Quando ri-vedo nella memoria qualche casupola nera che ora spec-chia nel lago le sue gale di zotica arricchita, qualchegaia palazzina elegante che ora decade in un silenziosodisordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio del-la Madonnina, caduti con le generazioni che li venera-vano; tante figure umane piene di rancori che si crede-vano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeliad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un catacli-sma universale potesse interromperle, figure non menofamiliari di quegli alberi alle generazioni passate, escomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noimolto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltavaa guardar il ponente, parevano lontani più del vero, die-tro la pioggia, il San Salvatore e i monti di Carona.

Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come l'aspet-to del cielo e del lago, caduta la breva che aveva fattotanta paura alla signora Pasotti. La gran breva del 1848,dopo aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo conle nuvole pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere epiovere i giorni quieti, foschi, silenziosi dove camminaquesta mia umile storia.

I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e il Ba-gatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi

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d'importanza, minute potenze tollerate benevolmente nelseno del grande tacito impero d'Austria, dove le loro ini-micizie, le loro alleanze, le loro guerre erano il solo ar-gomento politico di cui si potesse liberamente discutere.Anche Pin, remando, ficcava avidamente sopra le cartedella signora Barborin il suo adunco naso curioso, e loritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per te-nervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbecavata da un passo difficile, cosa avrebbe fatto di unacerta carta pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere.Suo marito picchiava impaziente sul tavolino, il curato-ne palpava con un sorriso beato le proprie carte, e lei sistringeva le sue al petto, ridendo e gemendo, sbirciandoora l'uno ora l'altro de' suoi compagni.

«Ha il Matto in mano», sussurrò il curato.«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse Pasotti

e gridò picchiando:«Giù questo Matto!».«Io lo butto nel lago», diss'ella. Gittò un'occhiata a

prora e trovò lo scampo di osservare che si toccavaCressogno, ch'era tempo di smettere.

Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a infi-lare i guanti.

«Trota, oggi, curato», diss'egli mentre l'umile sposaglieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin diGhemme.»

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d'importanza, minute potenze tollerate benevolmente nelseno del grande tacito impero d'Austria, dove le loro ini-micizie, le loro alleanze, le loro guerre erano il solo ar-gomento politico di cui si potesse liberamente discutere.Anche Pin, remando, ficcava avidamente sopra le cartedella signora Barborin il suo adunco naso curioso, e loritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per te-nervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbecavata da un passo difficile, cosa avrebbe fatto di unacerta carta pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere.Suo marito picchiava impaziente sul tavolino, il curato-ne palpava con un sorriso beato le proprie carte, e lei sistringeva le sue al petto, ridendo e gemendo, sbirciandoora l'uno ora l'altro de' suoi compagni.

«Ha il Matto in mano», sussurrò il curato.«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse Pasotti

e gridò picchiando:«Giù questo Matto!».«Io lo butto nel lago», diss'ella. Gittò un'occhiata a

prora e trovò lo scampo di osservare che si toccavaCressogno, ch'era tempo di smettere.

Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a infi-lare i guanti.

«Trota, oggi, curato», diss'egli mentre l'umile sposaglieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin diGhemme.»

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«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo soanch'io. Me l'ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che mira-coli, eh, la signora marchesa!»

«Ma, miracoli? Pranzo di Sant'Orsola, intanto; e poiinvito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Ca-rabelli di Loveno, sa?»

«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche proget-to...? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, ilgiovinotto! Non gliel'ho mai vista.»

Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco di-scosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si culla-va in un comune moto di saliscendi, in una comunestanchezza con l'onda. A poppa, sotto la bandiera, v'eraseduto don Franco Maironi, l'abiatico della vecchia mar-chesa Orsola che dava il pranzo.

Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e allonta-narsi remando adagio, verso l'alto lago, verso il golfoselvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spie-gava tutta, sventolava sulla scia.

«Dove va, quell'originale?», diss'egli. E brontolò fra identi, con una forzata raucedine da barabba milanese:

«Antipatico!»«Dicono ch'è così di talento!», osservò il prete.«Testa pessima», sentenziò l'altro. «Molta boria, poco

sapere, nessuna civiltà.»

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«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo soanch'io. Me l'ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che mira-coli, eh, la signora marchesa!»

«Ma, miracoli? Pranzo di Sant'Orsola, intanto; e poiinvito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Ca-rabelli di Loveno, sa?»

«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche proget-to...? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, ilgiovinotto! Non gliel'ho mai vista.»

Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco di-scosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si culla-va in un comune moto di saliscendi, in una comunestanchezza con l'onda. A poppa, sotto la bandiera, v'eraseduto don Franco Maironi, l'abiatico della vecchia mar-chesa Orsola che dava il pranzo.

Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e allonta-narsi remando adagio, verso l'alto lago, verso il golfoselvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spie-gava tutta, sventolava sulla scia.

«Dove va, quell'originale?», diss'egli. E brontolò fra identi, con una forzata raucedine da barabba milanese:

«Antipatico!»«Dicono ch'è così di talento!», osservò il prete.«Testa pessima», sentenziò l'altro. «Molta boria, poco

sapere, nessuna civiltà.»

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«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella si-gnorina...»

«Quale?», chiese il curato.«La Carabelli.»«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini e i

tartufi bianchi sono per la popòla Carabelli, son buttativia.»

«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con unavampa di curiosità negli occhi.

Il prete non rispose perché in quel punto la prora stri-sciò sulla rena, toccò all'approdo. Egli uscì il primo;quindi Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimi-ca imperiosa, non so quali istruzioni, e uscì anche lui.La povera donna venne fuori per l'ultima, tutta rinfagot-tata nel suo scialle d'India, tutta curva sotto il cappellonenero dalle rosette gialle, barcollando, mettendo avanti legrosse mani dai guanti canarini. I due ricci pendenti alato della sua mansueta bruttezza avevano un particolareaccento di rassegnazione sotto l'ombrello del marito,proprietario, ispettore e geloso custode di tante elegan-ze.

I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi ca-valca, da ponente, la via dell'approdo alla chiesa parroc-chiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra unsospiro di dolcezza e l'altro, certo indistinto odore caldoche vaporava dal vestibolo aperto della villa.

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«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella si-gnorina...»

«Quale?», chiese il curato.«La Carabelli.»«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini e i

tartufi bianchi sono per la popòla Carabelli, son buttativia.»

«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con unavampa di curiosità negli occhi.

Il prete non rispose perché in quel punto la prora stri-sciò sulla rena, toccò all'approdo. Egli uscì il primo;quindi Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimi-ca imperiosa, non so quali istruzioni, e uscì anche lui.La povera donna venne fuori per l'ultima, tutta rinfagot-tata nel suo scialle d'India, tutta curva sotto il cappellonenero dalle rosette gialle, barcollando, mettendo avanti legrosse mani dai guanti canarini. I due ricci pendenti alato della sua mansueta bruttezza avevano un particolareaccento di rassegnazione sotto l'ombrello del marito,proprietario, ispettore e geloso custode di tante elegan-ze.

I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi ca-valca, da ponente, la via dell'approdo alla chiesa parroc-chiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra unsospiro di dolcezza e l'altro, certo indistinto odore caldoche vaporava dal vestibolo aperto della villa.

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«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un lume dicupidigia in faccia.

Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia,con manifesto disprezzo di quell'altro naso.

«Risotto no», diss'egli.«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato. «Risot-

to sì. Risotto ai tartufi; non sente?»Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando

l'aria come bracchi, rumorosamente.«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di parlare

di posciandra», disse Pasotti dopo una lunga pausa, al-ludendo a certa rozza pietanza paesana di cavoli e sal-sicce. «Tartufi si, risotto no.»

«Posciandra, posciandra», borbottò l'altro, un poco of-feso. «Quanto a quello...»

La povera mansueta signora capì che litigavano, si spa-ventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll'indicedestro, per significare che lassù potevano udire. Suo ma-rito le afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poile soffiò nella bocca spalancata: «Risotto!»

Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si strinsenelle spalle. «Non capisce un accidente», diss'egli: «iltempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Ilgrosso curato volle dare un'altra occhiata alla barca didon Franco. «Altro che Carabelli!», pensò; e fu richia-mato subito dalla signora Barborin che gli raccomandò

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«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un lume dicupidigia in faccia.

Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia,con manifesto disprezzo di quell'altro naso.

«Risotto no», diss'egli.«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato. «Risot-

to sì. Risotto ai tartufi; non sente?»Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando

l'aria come bracchi, rumorosamente.«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di parlare

di posciandra», disse Pasotti dopo una lunga pausa, al-ludendo a certa rozza pietanza paesana di cavoli e sal-sicce. «Tartufi si, risotto no.»

«Posciandra, posciandra», borbottò l'altro, un poco of-feso. «Quanto a quello...»

La povera mansueta signora capì che litigavano, si spa-ventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll'indicedestro, per significare che lassù potevano udire. Suo ma-rito le afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poile soffiò nella bocca spalancata: «Risotto!»

Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si strinsenelle spalle. «Non capisce un accidente», diss'egli: «iltempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Ilgrosso curato volle dare un'altra occhiata alla barca didon Franco. «Altro che Carabelli!», pensò; e fu richia-mato subito dalla signora Barborin che gli raccomandò

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di metterlesi vicino a tavola. Aveva tanta soggezione,povera creatura!

I fumi delle casseruole empivano anche la scala di te-pide fragranze. «Risotto no», disse piano l'avanguardia.«Risotto sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. Ecosì continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risot-to no» fino a che Pasotti spinse l'uscio della sala rossa,abituale soggiorno della padrona di casa.

Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontroalla signora Barborin che cercava di sorridere mentrePasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato,entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandavain cuor suo all'inferno la maledetta bestia.

«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la vecchiamarchesa. «Cara signora, caro Controllore, curato.»

La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma,con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per lasignora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, estava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti etardi sotto la fronte marmorea e la parrucca nera che lesi arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Ilviso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nelsuo pallore giallastro di marmo antico, certa maestàfredda che non mutava mai, come lo sguardo come lavoce, per qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fecedue o tre inchini a scatto, stando alla larga, ma Pasotti lebaciò la mano, e la signora Barborin, sentendosi gelare

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di metterlesi vicino a tavola. Aveva tanta soggezione,povera creatura!

I fumi delle casseruole empivano anche la scala di te-pide fragranze. «Risotto no», disse piano l'avanguardia.«Risotto sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. Ecosì continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risot-to no» fino a che Pasotti spinse l'uscio della sala rossa,abituale soggiorno della padrona di casa.

Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontroalla signora Barborin che cercava di sorridere mentrePasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato,entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandavain cuor suo all'inferno la maledetta bestia.

«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la vecchiamarchesa. «Cara signora, caro Controllore, curato.»

La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma,con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per lasignora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, estava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti etardi sotto la fronte marmorea e la parrucca nera che lesi arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Ilviso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nelsuo pallore giallastro di marmo antico, certa maestàfredda che non mutava mai, come lo sguardo come lavoce, per qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fecedue o tre inchini a scatto, stando alla larga, ma Pasotti lebaciò la mano, e la signora Barborin, sentendosi gelare

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sotto quello sguardo morto, non sapeva come muoversiné che dire. Un'altra signora si era alzata dal canapèall'alzarsi della marchesa e stava guardando con sussie-go la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchiarinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suomarito», disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»

Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia, donnaCarolina, stava in piedi presso la finestra discorrendocon una favorita della marchesa, nipote del suo fattore.

La marchesa non stimò necessario d'incomodarla perpresentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese unapacata conversazione con donna Eugenia sulle loro co-muni conoscenze milanesi, mentre Friend faceva, fiu-tando e starnutendo, il giro dello scialle canforato dellaPasotti, si strofinava sui polpacci del curato e guardavaPasotti con i suoi occhietti umidi e afflitti, senza toccar-lo, come se intendesse che il padrone dello scialle india-no, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto ilcollo volentieri.

La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossavoce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo,di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma nonsfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pa-sotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironipiù e la Carabelli meno, un comune malcontento. Cia-scuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spentidell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una

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sotto quello sguardo morto, non sapeva come muoversiné che dire. Un'altra signora si era alzata dal canapèall'alzarsi della marchesa e stava guardando con sussie-go la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchiarinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suomarito», disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»

Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia, donnaCarolina, stava in piedi presso la finestra discorrendocon una favorita della marchesa, nipote del suo fattore.

La marchesa non stimò necessario d'incomodarla perpresentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese unapacata conversazione con donna Eugenia sulle loro co-muni conoscenze milanesi, mentre Friend faceva, fiu-tando e starnutendo, il giro dello scialle canforato dellaPasotti, si strofinava sui polpacci del curato e guardavaPasotti con i suoi occhietti umidi e afflitti, senza toccar-lo, come se intendesse che il padrone dello scialle india-no, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto ilcollo volentieri.

La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossavoce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo,di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma nonsfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pa-sotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironipiù e la Carabelli meno, un comune malcontento. Cia-scuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spentidell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una

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volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina colpiccolo signor Paolo Sala detto «el Paolin» e col grossosignor Paolo Pozzi detto «el Paolon», compagni indivi-sibili. Un'altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria,antico ufficiale del regno d'Italia, con la sua figliuola,una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accan-to a una seducente figura di fanciulla briosa.

Sì la prima che la seconda volta un'ombra di corrucciopassò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costeigirava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, mapoi chiacchierava e rideva più di prima.

«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?»,disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendoalla marchesa la tabacchiera aperta.

«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi unpoco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? adirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina nonsi sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei...»

«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca.L'abbiamo visto un momento fa che remava come unbarcaiuolo.»

Donna Eugenia spiegò il ventaglio.«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in furia.

«È un bellissimo divertimento.»Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a mordicchiar-

lo con le labbra.

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volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina colpiccolo signor Paolo Sala detto «el Paolin» e col grossosignor Paolo Pozzi detto «el Paolon», compagni indivi-sibili. Un'altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria,antico ufficiale del regno d'Italia, con la sua figliuola,una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accan-to a una seducente figura di fanciulla briosa.

Sì la prima che la seconda volta un'ombra di corrucciopassò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costeigirava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, mapoi chiacchierava e rideva più di prima.

«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?»,disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendoalla marchesa la tabacchiera aperta.

«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi unpoco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? adirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina nonsi sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei...»

«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca.L'abbiamo visto un momento fa che remava come unbarcaiuolo.»

Donna Eugenia spiegò il ventaglio.«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in furia.

«È un bellissimo divertimento.»Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a mordicchiar-

lo con le labbra.

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«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la mar-chesa nel suo naso imperturbabile.

«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò ilprefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di mali-zia. «Piove!»

«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse lanipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al lago.

«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero chestia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzosanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signorGiacomo? Perché non si vede?»

«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando ilsignor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario venetoche dimorava da trent'anni in Albogasio Superiore, pres-so la villa Pasotti. «El sior Zacomo...»

«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto diburlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto sidica Zacomo.»

Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia daquasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora in-fetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti prote-stava, con cerimonioso orrore, di aver solamente intesoimitar la voce dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio siaperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo benechi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhispenti della marchesa si posarono con tutta flemma su

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«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la mar-chesa nel suo naso imperturbabile.

«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò ilprefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di mali-zia. «Piove!»

«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse lanipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al lago.

«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero chestia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzosanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signorGiacomo? Perché non si vede?»

«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando ilsignor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario venetoche dimorava da trent'anni in Albogasio Superiore, pres-so la villa Pasotti. «El sior Zacomo...»

«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto diburlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto sidica Zacomo.»

Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia daquasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora in-fetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti prote-stava, con cerimonioso orrore, di aver solamente intesoimitar la voce dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio siaperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo benechi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhispenti della marchesa si posarono con tutta flemma su

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don Franco.Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio

di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Avevaperduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nellapotestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava unazazzera di capelli fulvi, irti, che l'aveva fatto sopranno-minare el scovin d'i nivol, lo scopanuvoli. Aveva occhiparlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna facciasimpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi.Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente:«Son qui, ma mi seccate assai».

«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e soggiunsetosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Caroli-na desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»

«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al giovinecon aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace,Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine.»

Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta eandò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'unbuon quadro antico che dovevano vedere insieme nellachiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva.

Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo un'arca-na azione diplomatica cui avevano preso parte altre po-tenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decorodella famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quel-la probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva,erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia;

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don Franco.Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio

di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Avevaperduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nellapotestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava unazazzera di capelli fulvi, irti, che l'aveva fatto sopranno-minare el scovin d'i nivol, lo scopanuvoli. Aveva occhiparlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna facciasimpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi.Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente:«Son qui, ma mi seccate assai».

«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e soggiunsetosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Caroli-na desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»

«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al giovinecon aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace,Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine.»

Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta eandò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'unbuon quadro antico che dovevano vedere insieme nellachiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva.

Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo un'arca-na azione diplomatica cui avevano preso parte altre po-tenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decorodella famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quel-la probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva,erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia;

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perché malgrado la vecchia relazione della mamma Ca-rabelli e della nonna Maironi i giovani non s'erano ve-duti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro in-volucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amici-zie, che si attraevano come si attraggono una gocciad'acqua marina e una goccia d'acqua dolce, benché lecreature minuscole che vivono nell'una e nell'altra sienocondannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. Lamarchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente ingrazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei denari, erastato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno, per-ché se Franco non aveva di proprio che la magra dotedella madre, diciotto o ventimila lire austriache, la non-na sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualchemilione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno delgiovine, fremeva contro la marchesa, contro chi avevaesposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Seavesse potuto soffiar via d'un colpo la vecchia, suo nipo-te, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fattocon gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente,inghiottir lo smacco e il pranzo.

La marchesa serbava la sua esterna placidità marmoreabenché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalentocontro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anniprima, il permesso di sposare una signorina della Valsol-da, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto dellanonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasala madre della ragazza a non più ricevere in casa don

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perché malgrado la vecchia relazione della mamma Ca-rabelli e della nonna Maironi i giovani non s'erano ve-duti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro in-volucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amici-zie, che si attraevano come si attraggono una gocciad'acqua marina e una goccia d'acqua dolce, benché lecreature minuscole che vivono nell'una e nell'altra sienocondannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. Lamarchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente ingrazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei denari, erastato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno, per-ché se Franco non aveva di proprio che la magra dotedella madre, diciotto o ventimila lire austriache, la non-na sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualchemilione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno delgiovine, fremeva contro la marchesa, contro chi avevaesposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Seavesse potuto soffiar via d'un colpo la vecchia, suo nipo-te, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fattocon gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente,inghiottir lo smacco e il pranzo.

La marchesa serbava la sua esterna placidità marmoreabenché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalentocontro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anniprima, il permesso di sposare una signorina della Valsol-da, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto dellanonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasala madre della ragazza a non più ricevere in casa don

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Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gen-te non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era quindivenuta nel proposito di dar moglie a Franco assai prestoper toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazzaricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligentema non troppo. Trovatane una di questo stampo, la pro-pose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di nonvoler prender moglie. La risposta era ben sospetta edella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e diquella «madama Trappola», poiché chiamava graziosa-mente così la signorina Luisa Rigey.

La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisae sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era dif-ficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir acapo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con moltaipocrisia d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il pre-fetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia diS. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini,col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discor-so: «Don Franco fa il morto da burla fino a che la vec-chia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la mar-chesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» ecambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey,sempre infermiccia, si trovava a mal partito per unaipertrofia di cuore e le parve che l'umore di Franco se nerisentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. LaCarabelli non era forse interamente di suo gusto, ma difronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a

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Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gen-te non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era quindivenuta nel proposito di dar moglie a Franco assai prestoper toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazzaricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligentema non troppo. Trovatane una di questo stampo, la pro-pose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di nonvoler prender moglie. La risposta era ben sospetta edella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e diquella «madama Trappola», poiché chiamava graziosa-mente così la signorina Luisa Rigey.

La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisae sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era dif-ficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir acapo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con moltaipocrisia d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il pre-fetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia diS. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini,col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discor-so: «Don Franco fa il morto da burla fino a che la vec-chia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la mar-chesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» ecambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey,sempre infermiccia, si trovava a mal partito per unaipertrofia di cuore e le parve che l'umore di Franco se nerisentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. LaCarabelli non era forse interamente di suo gusto, ma difronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a

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Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distrattoe disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, for-se, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente unacarta grossa, fece venire la Carabelli.

Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franconon s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fat-to una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, du-rante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la suafaccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito,talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, comesubito fece, una indisposizione, non poté ingannar nes-suno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver giuo-cato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella siera messa al punto di non riconoscersi mai un solo difet-to né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente,nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque si supporreche dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fos-se pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vi-schio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualchelieve conforto era nel contegno della signorina Carabelliche mal celava la vivacità del proprio risentimento. Ciònon piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravinanon aveva torto se non forse un poco nella forma quan-do diceva sottovoce di lei: «L'è on' Aüstria p...». Comela vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesanon amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua vo-lontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le eragià di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il si-

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Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distrattoe disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, for-se, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente unacarta grossa, fece venire la Carabelli.

Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franconon s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fat-to una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, du-rante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la suafaccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito,talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, comesubito fece, una indisposizione, non poté ingannar nes-suno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver giuo-cato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella siera messa al punto di non riconoscersi mai un solo difet-to né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente,nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque si supporreche dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fos-se pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vi-schio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualchelieve conforto era nel contegno della signorina Carabelliche mal celava la vivacità del proprio risentimento. Ciònon piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravinanon aveva torto se non forse un poco nella forma quan-do diceva sottovoce di lei: «L'è on' Aüstria p...». Comela vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesanon amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua vo-lontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le eragià di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il si-

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gnor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l'aria disentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmen-te riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, unatorbida Ungheria.

Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell'abito gri-gio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le ideearistocratiche della marchesa, temperate di abitudinieconome.

«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella,senza muoversi.

«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontratostamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, civediamo a pranzo?". È parso che gli mettessi una bisciain corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì,credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente,Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!". Nonne ho cavato altro.»

La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qual-che cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Ilcurato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzando-si le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesapareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anchelui. Gli altri si guardavano, muti.

La povera signora Barborin, avendo visto il domestico,meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sba-lordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhiora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che

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gnor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l'aria disentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmen-te riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, unatorbida Ungheria.

Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell'abito gri-gio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le ideearistocratiche della marchesa, temperate di abitudinieconome.

«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella,senza muoversi.

«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontratostamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, civediamo a pranzo?". È parso che gli mettessi una bisciain corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì,credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente,Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!". Nonne ho cavato altro.»

La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qual-che cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Ilcurato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzando-si le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesapareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anchelui. Gli altri si guardavano, muti.

La povera signora Barborin, avendo visto il domestico,meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sba-lordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhiora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che

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una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Sefosse bruciato il pranzo!", pensava componendosi unviso indifferente. "Se ci mandassero a casa! Che fortu-na!". Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un in-chino.

«Andiamo», disse la marchesa, alzandosi.La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio

nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhiettibuoni e un lungo naso spiovente sul mento.

«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto timi-do e umile, «io avrei già pranzato.»

«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la marchesache sapeva praticare l'arte insolente della sordità cometutti coloro che assolutamente vogliono un mondo se-condo il proprio comodo e il proprio gusto.

L'ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere.«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin che

gli era vicino. «Cosa fa?»«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto. Infat-

ti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti,venuto la mattina da Lugano per accordare il piano deisignori Zelbi di Cima e quello di don Franco, avevapranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casaMaironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giaco-mo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredi-ci.

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una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Sefosse bruciato il pranzo!", pensava componendosi unviso indifferente. "Se ci mandassero a casa! Che fortu-na!". Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un in-chino.

«Andiamo», disse la marchesa, alzandosi.La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio

nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhiettibuoni e un lungo naso spiovente sul mento.

«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto timi-do e umile, «io avrei già pranzato.»

«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la marchesache sapeva praticare l'arte insolente della sordità cometutti coloro che assolutamente vogliono un mondo se-condo il proprio comodo e il proprio gusto.

L'ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere.«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin che

gli era vicino. «Cosa fa?»«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto. Infat-

ti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti,venuto la mattina da Lugano per accordare il piano deisignori Zelbi di Cima e quello di don Franco, avevapranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casaMaironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giaco-mo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredi-ci.

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Un liquido bruno fumava nella zuppiera d'argento.«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli die-

tro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito.I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo

accennava ad esserlo anche più del solito. Per compensoera pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavanospesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasiper congratularsi a vicenda del godimento squisito, e semai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la si-gnora Barborin, vicina di quest'ultimo, lo avvertiva conun timido tocco del gomito.

Le voci che più si udivano erano quelle del marchese edi donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bian-chi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevanospesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta,della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, sisentivano uniti in una certa superiorità non solamente ri-spetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresìai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese eral'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente an-che col commensale più modesto; ma donna Eugenia,nell'amarezza dell'animo suo, nel suo disgusto del luogoe delle persone, s'attaccò a lui come al solo degno, mar-catamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imba-razzò dicendogli forte che non capiva com'egli potesseessersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il marchese, chevi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva ve-

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Un liquido bruno fumava nella zuppiera d'argento.«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli die-

tro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito.I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo

accennava ad esserlo anche più del solito. Per compensoera pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavanospesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasiper congratularsi a vicenda del godimento squisito, e semai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la si-gnora Barborin, vicina di quest'ultimo, lo avvertiva conun timido tocco del gomito.

Le voci che più si udivano erano quelle del marchese edi donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bian-chi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevanospesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta,della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, sisentivano uniti in una certa superiorità non solamente ri-spetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresìai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese eral'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente an-che col commensale più modesto; ma donna Eugenia,nell'amarezza dell'animo suo, nel suo disgusto del luogoe delle persone, s'attaccò a lui come al solo degno, mar-catamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imba-razzò dicendogli forte che non capiva com'egli potesseessersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il marchese, chevi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva ve-

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duto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimasesulle prime un poco sconcertato da quel discorso inso-lente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una brio-sa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; ilPaolin, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano contanto di muso.

Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del«Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi,leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lo-darsi del Pasotti, non parve gradir l'elogio. Egli invitò laCarabelli al Niscioree. «A piedi no, tu, Eugenia», dissela marchesa, sapendo che l'amica sua era tribolata dallospavento d'ingrassare. «Bisogna vedere com'è stretta lastrada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi disicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è min-ga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'èpoeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!»

«Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò ilViscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieridi Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin glidisse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», risposel'ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico cheona bolgira compagna non la mi è mai più toccata invita mia.» E qui raccontò che la mattina, venendo daLugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era di-sceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; chetra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino,aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo aveva-

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duto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimasesulle prime un poco sconcertato da quel discorso inso-lente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una brio-sa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; ilPaolin, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano contanto di muso.

Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del«Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi,leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lo-darsi del Pasotti, non parve gradir l'elogio. Egli invitò laCarabelli al Niscioree. «A piedi no, tu, Eugenia», dissela marchesa, sapendo che l'amica sua era tribolata dallospavento d'ingrassare. «Bisogna vedere com'è stretta lastrada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi disicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è min-ga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'èpoeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!»

«Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò ilViscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieridi Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin glidisse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», risposel'ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico cheona bolgira compagna non la mi è mai più toccata invita mia.» E qui raccontò che la mattina, venendo daLugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era di-sceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; chetra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino,aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo aveva-

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no insultato perché non era disceso allo sbarco della Ri-cevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevi-toria; che portava in mano un rotolo di musica mano-scritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le cromee le biscrome per corrispondenze politiche segrete,gliel'aveva trattenuto.

Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marche-sa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio.Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito.Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispet-tabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa.«Ottimo funzionario», diss'egli. «Ottima canaglia»,mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle primepareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasottiun'occhiata sprezzante.

«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che colpretesto della musica manoscritta si potrebbe benissi-mo...»

«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, men-tre la padrona di casa lo era per convinzione.

Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada pernon servire gli Austriaci, sorrise e disse solo:

«Là! C'est un peu fort!».«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!»,

esclamò Franco.«Scusi, don Franco...», fece Pasotti.

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no insultato perché non era disceso allo sbarco della Ri-cevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevi-toria; che portava in mano un rotolo di musica mano-scritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le cromee le biscrome per corrispondenze politiche segrete,gliel'aveva trattenuto.

Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marche-sa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio.Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito.Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispet-tabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa.«Ottimo funzionario», diss'egli. «Ottima canaglia»,mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle primepareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasottiun'occhiata sprezzante.

«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che colpretesto della musica manoscritta si potrebbe benissi-mo...»

«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, men-tre la padrona di casa lo era per convinzione.

Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada pernon servire gli Austriaci, sorrise e disse solo:

«Là! C'est un peu fort!».«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!»,

esclamò Franco.«Scusi, don Franco...», fece Pasotti.

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«Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un bestione!»«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un im-

piegato che fa il proprio dovere.»«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Fran-

co.«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi di-

scorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamomica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzatad'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente ilproprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla ta-vola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon,interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatoresdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con lafaccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dalsalotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò ac-compagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, leandaron dietro da una parte mentre il domestico entravadall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardòPasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di nonavvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo ap-parente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capis-si nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato,gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese,molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto,presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé:«Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buonatesta, e un temperamento così! Proprio peccato!».

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«Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un bestione!»«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un im-

piegato che fa il proprio dovere.»«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Fran-

co.«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi di-

scorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamomica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzatad'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente ilproprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla ta-vola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon,interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatoresdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con lafaccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dalsalotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò ac-compagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, leandaron dietro da una parte mentre il domestico entravadall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardòPasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di nonavvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo ap-parente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capis-si nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato,gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese,molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto,presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé:«Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buonatesta, e un temperamento così! Proprio peccato!».

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«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sonogran dispiaceri!».

Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Alloraqualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si ac-costarono lentamente, con le mani dietro la schiena, allacredenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puriachiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse.«Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suotrionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «checi sono i tartufi bianchi.»

«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», os-servò il marchese pigiando un poco sulle due ultime pa-role.

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«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sonogran dispiaceri!».

Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Alloraqualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si ac-costarono lentamente, con le mani dietro la schiena, allacredenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puriachiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse.«Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suotrionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «checi sono i tartufi bianchi.»

«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», os-servò il marchese pigiando un poco sulle due ultime pa-role.

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2. Sulla soglia d'un'altra vita

«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala checonduceva alla sua camera. «Pezzo d'asino d'un austria-co!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar lanonna e le stesse consonanti della parola austriaco gliservivano tanto bene per stritolarsi fra i denti la propriacollera e spremerne, gustarne il sapore. Quando fu in ca-mera la collera gli svampò.

Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalanca-ta, guardando il lago triste nel pomeriggio nebbioso, e,al di là del lago, i monti deserti. Mise un gran respiro.Ah come stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria di-versa da quella del salotto, che aria cara, piena de' suoipensieri e de' suoi amori! Aveva un gran bisogno di ab-bandonarsi ad essi ed essi lo ripresero subito, gli caccia-ron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestionedel Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pen-siero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, ditanti dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, per-ché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbegiunto nelle ombre della notte. Franco guardò l'orologio.Erano le quattro meno un quarto. Ancora sette ore. Sialzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale della fine-stra.

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2. Sulla soglia d'un'altra vita

«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala checonduceva alla sua camera. «Pezzo d'asino d'un austria-co!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar lanonna e le stesse consonanti della parola austriaco gliservivano tanto bene per stritolarsi fra i denti la propriacollera e spremerne, gustarne il sapore. Quando fu in ca-mera la collera gli svampò.

Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalanca-ta, guardando il lago triste nel pomeriggio nebbioso, e,al di là del lago, i monti deserti. Mise un gran respiro.Ah come stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria di-versa da quella del salotto, che aria cara, piena de' suoipensieri e de' suoi amori! Aveva un gran bisogno di ab-bandonarsi ad essi ed essi lo ripresero subito, gli caccia-ron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestionedel Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pen-siero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, ditanti dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, per-ché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbegiunto nelle ombre della notte. Franco guardò l'orologio.Erano le quattro meno un quarto. Ancora sette ore. Sialzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale della fine-stra.

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Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra vita.Fuori delle pochissime persone che dovevano prenderparte all'avvenimento, nemmanco l'aria sapeva che quel-la sera stessa, verso le undici, don Franco Maironiavrebbe sposato la signorina Luisa Rigey.

La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva untempo lealmente pregato Franco di piegare al volere del-la nonna, di astenersi dal visitar la sua casa, di non pen-sare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata con-tenta che per la dignità della famiglia, per il decoro disua madre, si troncassero le relazioni ufficiali, ma nondubitava della fede di Franco né d'essergli già legata persempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all'insa-puta della nonna, per dedicarsi a una professione e avermodo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse datante agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, infine d'agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrissechiedendole almeno il permesso di vederla poiché nonpoteva compiere «il suo dovere d'assisterla». La signoranon credette di consentire e il giovine se ne disperò, lefece intendere che considerava Luisa come sua fidanzatadavanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonar-la. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vitaogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola inuno stato così incerto e considerando la ferma volontàdel giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze,poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tuttofu combinato frettolosamente con l'aiuto del curato di

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Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra vita.Fuori delle pochissime persone che dovevano prenderparte all'avvenimento, nemmanco l'aria sapeva che quel-la sera stessa, verso le undici, don Franco Maironiavrebbe sposato la signorina Luisa Rigey.

La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva untempo lealmente pregato Franco di piegare al volere del-la nonna, di astenersi dal visitar la sua casa, di non pen-sare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata con-tenta che per la dignità della famiglia, per il decoro disua madre, si troncassero le relazioni ufficiali, ma nondubitava della fede di Franco né d'essergli già legata persempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all'insa-puta della nonna, per dedicarsi a una professione e avermodo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse datante agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, infine d'agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrissechiedendole almeno il permesso di vederla poiché nonpoteva compiere «il suo dovere d'assisterla». La signoranon credette di consentire e il giovine se ne disperò, lefece intendere che considerava Luisa come sua fidanzatadavanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonar-la. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vitaogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola inuno stato così incerto e considerando la ferma volontàdel giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze,poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tuttofu combinato frettolosamente con l'aiuto del curato di

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Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnereRibera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio dellePubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furonoqueste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco re-sterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino ache venisse il momento opportuno di confessar tutto allamarchesa. Franco sperava nell'appoggio di monsignorBenaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della fami-glia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore dellamarchesa si indurisse, com'era probabile, gli sposi e lasignora Teresa prenderebbero stanza nella casa chel'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe,manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; ter-rebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo.

Fra sette ore, dunque.La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteg-

giava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Neiprimi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il ve-nire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una per-soncina snella, leggera come l'aria, che mai mai nonguardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era di-sceso ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momentoad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della suamano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per laprima volta un fiore, un profumato fiore di mandeviliasuaveolens. Lì sotto si era un'altra volta ferito con un

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Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnereRibera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio dellePubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furonoqueste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco re-sterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino ache venisse il momento opportuno di confessar tutto allamarchesa. Franco sperava nell'appoggio di monsignorBenaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della fami-glia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore dellamarchesa si indurisse, com'era probabile, gli sposi e lasignora Teresa prenderebbero stanza nella casa chel'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe,manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; ter-rebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo.

Fra sette ore, dunque.La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteg-

giava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Neiprimi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il ve-nire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una per-soncina snella, leggera come l'aria, che mai mai nonguardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era di-sceso ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momentoad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della suamano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per laprima volta un fiore, un profumato fiore di mandeviliasuaveolens. Lì sotto si era un'altra volta ferito con un

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temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei unramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo tur-bamento un delizioso segno del suo amore. Quante gitecon lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, allerive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante co-lazioni e merende a quella cantina del Doi! Con quantadolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tor-nava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarse-li, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozionidell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad unaad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristidove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nel-le ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vici-no alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via,le vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione cosìdiverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, altempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago esui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arri-vare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angu-stie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fat-to pubblicamente, pacificamente, col solito proemio dicerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di vi-site, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnan-te all'amore che questi contrasti.

Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dalgiardino per annunciargli la partenza delle Carabelli.Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare dellescuse e preferì non lasciarsi vedere. «Doveva romper-

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temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei unramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo tur-bamento un delizioso segno del suo amore. Quante gitecon lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, allerive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante co-lazioni e merende a quella cantina del Doi! Con quantadolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tor-nava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarse-li, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozionidell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad unaad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristidove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nel-le ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vici-no alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via,le vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione cosìdiverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, altempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago esui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arri-vare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angu-stie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fat-to pubblicamente, pacificamente, col solito proemio dicerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di vi-site, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnan-te all'amore che questi contrasti.

Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dalgiardino per annunciargli la partenza delle Carabelli.Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare dellescuse e preferì non lasciarsi vedere. «Doveva romper-

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glielo sulla faccia il piatto!», gli stridette su il prefettotra le mani accostate alle guance. «Doveva romperglielosulla faccia!»

Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabel-li scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la fi-nestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassetto-ne, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato dicamicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini dibrillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie.Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di festa,ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere fa-cilmente visibile.

Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto conla particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito in-telligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Inve-ce le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinata-mente ingombri che pareva esser passato per le due fi-nestre della camera un uragano di libri e di carte. Certivolumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito dipolvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso,sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un ato-mo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, delbizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e allecarte ne avrebbe fornite le prove.

Franco aveva la passione della poesia ed era poeta veronelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore diversi non poteva dirsi che un buon dilettante senza ori-

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glielo sulla faccia il piatto!», gli stridette su il prefettotra le mani accostate alle guance. «Doveva romperglielosulla faccia!»

Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabel-li scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la fi-nestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassetto-ne, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato dicamicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini dibrillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie.Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di festa,ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere fa-cilmente visibile.

Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto conla particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito in-telligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Inve-ce le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinata-mente ingombri che pareva esser passato per le due fi-nestre della camera un uragano di libri e di carte. Certivolumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito dipolvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso,sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un ato-mo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, delbizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e allecarte ne avrebbe fornite le prove.

Franco aveva la passione della poesia ed era poeta veronelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore diversi non poteva dirsi che un buon dilettante senza ori-

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ginalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e ilGiusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi,perché l'ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo,non era capace di crearsi una forma propria, aveva biso-gno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che aquel tempo i giovani possedevano comunemente unacultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi clas-sici venivano educati a onorare l'imitazione come unapratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte percercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguentiversi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra cono-scenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per sag-gio del suo stile satirico:

Falso occhio mobile,Mento pelato,Lingua di vipera,Cor di castrato,Brache policrome,Bisunto saio,MaiuscolissimoCappello a staio.Ecco l'immagineDel vil TartufoChe l'uman genereE il cielo ha stufo.

Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in col-pa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel

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ginalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e ilGiusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi,perché l'ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo,non era capace di crearsi una forma propria, aveva biso-gno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che aquel tempo i giovani possedevano comunemente unacultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi clas-sici venivano educati a onorare l'imitazione come unapratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte percercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguentiversi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra cono-scenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per sag-gio del suo stile satirico:

Falso occhio mobile,Mento pelato,Lingua di vipera,Cor di castrato,Brache policrome,Bisunto saio,MaiuscolissimoCappello a staio.Ecco l'immagineDel vil TartufoChe l'uman genereE il cielo ha stufo.

Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in col-pa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel

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fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impe-tuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi alungo contro alcuno. Un saggio dell'altra sua manierapoetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tuttosgorbi e cancellature:

A LuisaOve l'aëreo tuo pensile nidoUna balza ventosa incoronandoRide alla luna ed ai cadenti cliviCh'educan uve a la tua mensa e roseAl capo tuo, purpurëi ciclamiA me, sogni e fragranze, o mia Luisa,Da l'orror di quest'ombre ti figuraL'amoroso mio cor. Tacita siediE da l'alto balcon già non rimiriLe bianche plaghe d'occidente, i chiariMonti ed il lago vitrëo, sereno,Riscintillante a l'astro; ma quest'unaTenebra esplori, l'aura interrogandoVocal che va tra i mobili oleandriDe la terrazza e freme il nome mio.

Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con

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fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impe-tuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi alungo contro alcuno. Un saggio dell'altra sua manierapoetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tuttosgorbi e cancellature:

A LuisaOve l'aëreo tuo pensile nidoUna balza ventosa incoronandoRide alla luna ed ai cadenti cliviCh'educan uve a la tua mensa e roseAl capo tuo, purpurëi ciclamiA me, sogni e fragranze, o mia Luisa,Da l'orror di quest'ombre ti figuraL'amoroso mio cor. Tacita siediE da l'alto balcon già non rimiriLe bianche plaghe d'occidente, i chiariMonti ed il lago vitrëo, sereno,Riscintillante a l'astro; ma quest'unaTenebra esplori, l'aura interrogandoVocal che va tra i mobili oleandriDe la terrazza e freme il nome mio.

Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con

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questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per lamusica più ancora che per la poesia, se l'era comperatolui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'orga-nista di Loggio, perché il mediocre piano viennese dellanonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di fami-glia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista,corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sullamarra, non mandava più che una comica vocina nasalesopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini mi-nuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egliaveva appena posato le mani sullo strumento che la suaimmaginazione si accendeva, l'estro del compositorepassava in lui e nel calore della passione creatrice glibastava un fil di suono per veder l'idea musicale e ineb-briarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gliavrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbestato men caro, insomma, della sua spinetta.

Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni,troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppopoca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso me-todico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti.Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suona-re; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente ilgusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, iltocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemereclassicamente l'organo di Cressogno, il buon popolo, in-tontito dalla musica e dall'onore, lo guardava comeavrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la

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questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per lamusica più ancora che per la poesia, se l'era comperatolui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'orga-nista di Loggio, perché il mediocre piano viennese dellanonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di fami-glia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista,corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sullamarra, non mandava più che una comica vocina nasalesopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini mi-nuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egliaveva appena posato le mani sullo strumento che la suaimmaginazione si accendeva, l'estro del compositorepassava in lui e nel calore della passione creatrice glibastava un fil di suono per veder l'idea musicale e ineb-briarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gliavrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbestato men caro, insomma, della sua spinetta.

Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni,troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppopoca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso me-todico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti.Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suona-re; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente ilgusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, iltocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemereclassicamente l'organo di Cressogno, il buon popolo, in-tontito dalla musica e dall'onore, lo guardava comeavrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la

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bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo,Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadi-ni, con tanti piccoli dilettanti incapaci d'intendere e diamare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto diagilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori ap-plausi, quand'anche non fosse riescito ad alcuno di farcantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tuttonegli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando conl'anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, neinervi delle mani che facevan tutt'uno con le corde delpiano.

Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Lepareti della sua camera ne avevano parecchi, la più partecroste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato,pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accor-dar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facil-mente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n'eraspesso infocato, accecato e precipitato su certi cencisporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Nonpossedeva di passabile che una testa d'uomo della ma-niera del Morone e una Madonna col Bambino dellamaniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due qua-dretti per Morone e Dolci, senz'altro.

Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tar-tufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e necavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignorBenaglia, la sola persona che gli potesse giovare in av-venire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a par-

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bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo,Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadi-ni, con tanti piccoli dilettanti incapaci d'intendere e diamare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto diagilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori ap-plausi, quand'anche non fosse riescito ad alcuno di farcantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tuttonegli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando conl'anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, neinervi delle mani che facevan tutt'uno con le corde delpiano.

Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Lepareti della sua camera ne avevano parecchi, la più partecroste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato,pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accor-dar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facil-mente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n'eraspesso infocato, accecato e precipitato su certi cencisporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Nonpossedeva di passabile che una testa d'uomo della ma-niera del Morone e una Madonna col Bambino dellamaniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due qua-dretti per Morone e Dolci, senz'altro.

Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tar-tufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e necavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignorBenaglia, la sola persona che gli potesse giovare in av-venire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a par-

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te dell'atto che stava per compiere, delle ragioni cheavevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirviin questo modo penoso, della speranza che avevanod'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprirtutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna inmano, davanti alla carta bianca, quando la barca delleCarabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì par-tire la gondola del marchese e la barca del Pin. Supposeche la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma nonne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazio-ne, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto,rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tantoadagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era anco-ra finita quando gli convenne accendere il lume.

La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava lasua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e viesprimeva una fiducia in Dio così candida e piena cheavrebbe toccato il cuore più incredulo.

Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia lasemplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglio-so, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la setedi libertà intellettuale che tormenta i giovani quando laloro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disa-gio nel duro freno di una credenza positiva. Non avevadubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scru-polosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosseragionevole di credere e di operare così. Non tenevaperò affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e

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te dell'atto che stava per compiere, delle ragioni cheavevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirviin questo modo penoso, della speranza che avevanod'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprirtutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna inmano, davanti alla carta bianca, quando la barca delleCarabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì par-tire la gondola del marchese e la barca del Pin. Supposeche la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma nonne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazio-ne, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto,rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tantoadagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era anco-ra finita quando gli convenne accendere il lume.

La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava lasua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e viesprimeva una fiducia in Dio così candida e piena cheavrebbe toccato il cuore più incredulo.

Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia lasemplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglio-so, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la setedi libertà intellettuale che tormenta i giovani quando laloro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disa-gio nel duro freno di una credenza positiva. Non avevadubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scru-polosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosseragionevole di credere e di operare così. Non tenevaperò affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e

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poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appas-sionato per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspettipiacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal mistici-smo. Non s'era conquistata la fede e non aveva mai vôltilungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potutoesserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religioneera per lui come la scienza per uno scolaro diligente cheha la scuola in cima de' suoi pensieri e vi è assiduo, nontrova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è pre-parato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto ilproprio dovere, non pensa più al professore né ai libri,non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo finiscientifici o programmi scolastici. Perciò egli parevaspesso non seguire altro nella vita che il suo generosocuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le im-pressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, feritada ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni con-traddizione e incapace di infingersi.

Aveva appena suggellata la lettera quando si bussòall'uscio. La signora marchesa faceva dire a don Francodi scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava ilrosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevanl'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, tro-neggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulleschiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto eper traverso, quale nella luce più opportuna ad un devo-to atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad unsonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce

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poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appas-sionato per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspettipiacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal mistici-smo. Non s'era conquistata la fede e non aveva mai vôltilungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potutoesserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religioneera per lui come la scienza per uno scolaro diligente cheha la scuola in cima de' suoi pensieri e vi è assiduo, nontrova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è pre-parato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto ilproprio dovere, non pensa più al professore né ai libri,non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo finiscientifici o programmi scolastici. Perciò egli parevaspesso non seguire altro nella vita che il suo generosocuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le im-pressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, feritada ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni con-traddizione e incapace di infingersi.

Aveva appena suggellata la lettera quando si bussòall'uscio. La signora marchesa faceva dire a don Francodi scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava ilrosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevanl'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, tro-neggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulleschiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto eper traverso, quale nella luce più opportuna ad un devo-to atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad unsonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce

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nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia plena»con quella flemma, con quella untuosità, che sempre glimettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsiturco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro enon aperse mai bocca. Gli era impossibile di risponderecon divozione a quella voce irritante. Non fece che im-maginare un probabile interrogatorio imminente, e ma-sticare risposte sdegnose.

Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in si-lenzio e poi disse le sacramentali parole:

«Carlotta, Friend!»Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pi-

gliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo adormire.

«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chi-

natasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera,il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non la-sciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandolesempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavo-lino a guardar con un ironico scodinzolamento la poveradonna che gli diceva «ven, cara, ven, cara», con la boc-ca e «brütt moster» con il cuore.

«Friend!», fece la marchesa. «Andiamo! Friend! Dabravo!»

Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mo-

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nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia plena»con quella flemma, con quella untuosità, che sempre glimettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsiturco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro enon aperse mai bocca. Gli era impossibile di risponderecon divozione a quella voce irritante. Non fece che im-maginare un probabile interrogatorio imminente, e ma-sticare risposte sdegnose.

Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in si-lenzio e poi disse le sacramentali parole:

«Carlotta, Friend!»Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pi-

gliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo adormire.

«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chi-

natasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera,il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non la-sciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandolesempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavo-lino a guardar con un ironico scodinzolamento la poveradonna che gli diceva «ven, cara, ven, cara», con la boc-ca e «brütt moster» con il cuore.

«Friend!», fece la marchesa. «Andiamo! Friend! Dabravo!»

Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mo-

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stricino infetto dell'egoismo e della superbia della suapadrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghiedi Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosastretta e se lo portò via rispondendo perfidamente aisuoi guaiti: «Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'hanfaa, di' sü!»

La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreotradì il suo cuore. Diede al cameriere l'ordine di dire alprefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasialtro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosseper uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subitoonde non aver l'aria di fuggire. Prese sulla caminiera unnumero della I. R. Gazzetta di Milano, sedette pressosua nonna e si mise a leggere, aspettando.

«Mi congratulo tanto», cominciò subito la voce son-nacchiosa, «della bella educazione e dei bei sentimentiche ci avete fatto vedere oggi.»

«Accetto», rispose Franco senza levar gli occhi dalgiornale.

«Bene, caro», replicò la nonna imperturbata. E sog-giunse:

«Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto;così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben con-tenta che non se ne parli più».

«Contenti tutt'e due», disse Franco.«Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Spe-

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stricino infetto dell'egoismo e della superbia della suapadrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghiedi Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosastretta e se lo portò via rispondendo perfidamente aisuoi guaiti: «Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'hanfaa, di' sü!»

La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreotradì il suo cuore. Diede al cameriere l'ordine di dire alprefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasialtro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosseper uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subitoonde non aver l'aria di fuggire. Prese sulla caminiera unnumero della I. R. Gazzetta di Milano, sedette pressosua nonna e si mise a leggere, aspettando.

«Mi congratulo tanto», cominciò subito la voce son-nacchiosa, «della bella educazione e dei bei sentimentiche ci avete fatto vedere oggi.»

«Accetto», rispose Franco senza levar gli occhi dalgiornale.

«Bene, caro», replicò la nonna imperturbata. E sog-giunse:

«Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto;così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben con-tenta che non se ne parli più».

«Contenti tutt'e due», disse Franco.«Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Spe-

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cialmente se avete ancora le idee d'una volta.»Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la non-

na in faccia.«Cosa succederebbe», diss'egli, «se avessi ancora le

idee d'una volta?»Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tran-

quilla.«Ecco, bravo», rispose la marchesa. «Spieghiamoci

chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succe-derà mai, ma, se succedesse, non state a credere che allamia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho giàpensato in modo che non ci sarà niente.»

«Figùrati!», fece il giovine, indifferente.«Questi sono i conti che dovrete fare con me», prose-

guì la marchesa. «Poi ci sarebbero quelli da fare conDio.»

«Come?», esclamò Franco. «I conti con Dio li farò pri-ma che con te e non dopo!»

Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre di-ritto nel suo discorso come se niente fosse.

«E grossi», diss'ella.«Ma prima!», insistette Franco.«Perché», continuò la vecchia formidabile, «se si è cri-

stiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua ma-

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cialmente se avete ancora le idee d'una volta.»Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la non-

na in faccia.«Cosa succederebbe», diss'egli, «se avessi ancora le

idee d'una volta?»Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tran-

quilla.«Ecco, bravo», rispose la marchesa. «Spieghiamoci

chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succe-derà mai, ma, se succedesse, non state a credere che allamia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho giàpensato in modo che non ci sarà niente.»

«Figùrati!», fece il giovine, indifferente.«Questi sono i conti che dovrete fare con me», prose-

guì la marchesa. «Poi ci sarebbero quelli da fare conDio.»

«Come?», esclamò Franco. «I conti con Dio li farò pri-ma che con te e non dopo!»

Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre di-ritto nel suo discorso come se niente fosse.

«E grossi», diss'ella.«Ma prima!», insistette Franco.«Perché», continuò la vecchia formidabile, «se si è cri-

stiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua ma-

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dre e io rappresento vostro padre e vostra madre.»Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno.«Ma Dio vien prima!», diss'egli.La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussio-

ne così:«Adesso siamo intesi».Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placi-

damente:«Buona notte».Franco rispose «buona notte» e riprese la Gazzetta di

Milano.Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pu-

gni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, esaltò in piedi, dicendo forte:

«Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così», fremevain sé «meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questamaledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo im-pero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglioviver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunquelavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: me-glio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far ilcarbonaio!»

Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti iriguardi. «I conti con Dio?», esclamò sbattendosi l'usciodietro. «I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto,

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dre e io rappresento vostro padre e vostra madre.»Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno.«Ma Dio vien prima!», diss'egli.La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussio-

ne così:«Adesso siamo intesi».Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placi-

damente:«Buona notte».Franco rispose «buona notte» e riprese la Gazzetta di

Milano.Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pu-

gni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, esaltò in piedi, dicendo forte:

«Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così», fremevain sé «meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questamaledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo im-pero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglioviver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunquelavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: me-glio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far ilcarbonaio!»

Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti iriguardi. «I conti con Dio?», esclamò sbattendosi l'usciodietro. «I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto,

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cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi faccianola spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino chemi fanno un piacerone!»

Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole,aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abitonero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamòil vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuoritutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita esgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciòin istrada, si perdette nelle tenebre.

Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa,già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venutogiù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato donFranco e dovette subito ripartire con una seconda mis-sione. «Cosa voleva don Franco?». Stavolta la rispostafu che don Franco era uscito per un momento. Questomomento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servito-re. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lascian-do il lume acceso. «Ritornate quando suonerò»,diss'ella.

Dopo mezz'ora ecco il campanello.La cameriera corre dalla padrona.«È ancora fuori don Franco?»«Sì, signora marchesa.»«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anti-

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cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi faccianola spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino chemi fanno un piacerone!»

Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole,aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abitonero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamòil vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuoritutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita esgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciòin istrada, si perdette nelle tenebre.

Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa,già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venutogiù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato donFranco e dovette subito ripartire con una seconda mis-sione. «Cosa voleva don Franco?». Stavolta la rispostafu che don Franco era uscito per un momento. Questomomento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servito-re. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lascian-do il lume acceso. «Ritornate quando suonerò»,diss'ella.

Dopo mezz'ora ecco il campanello.La cameriera corre dalla padrona.«È ancora fuori don Franco?»«Sì, signora marchesa.»«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anti-

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camera e quando sarà rientrato venite a dirmelo.»Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete,

voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigmabianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

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camera e quando sarà rientrato venite a dirmelo.»Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete,

voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigmabianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

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3. Il gran passo

Quella stessa sera, alle dieci in punto, l'ingegnere Ribe-ra batteva due colpi discreti alla porta del signor Giaco-mo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si aprivauna finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro diluna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo».

«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli.«Vien subito la servente a verzeghe.»

«Non occorre», rispose l'altro. «Non salgo. È ora dipartire. Venga giù Lei addirittura.»

Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le pal-pebre.

«La mi perdoni», diss'egli nel suo linguaggio misto ditutti gl'ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatis-simo. Gavarìa propramente necessità...»

«Di cosa?», fece l'ingegnere seccato. La porta si apersee comparve la gialla faccia grifagna della serva.

«Oh scior parent!», diss'ella rispettosamente. Vantavanon so quale affinità con la famiglia dell'ingegnere, e lochiamava sempre così. «A sti òr chì? L'è staa forsi a tro-và la sciora parenta?»

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3. Il gran passo

Quella stessa sera, alle dieci in punto, l'ingegnere Ribe-ra batteva due colpi discreti alla porta del signor Giaco-mo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si aprivauna finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro diluna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo».

«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli.«Vien subito la servente a verzeghe.»

«Non occorre», rispose l'altro. «Non salgo. È ora dipartire. Venga giù Lei addirittura.»

Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le pal-pebre.

«La mi perdoni», diss'egli nel suo linguaggio misto ditutti gl'ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatis-simo. Gavarìa propramente necessità...»

«Di cosa?», fece l'ingegnere seccato. La porta si apersee comparve la gialla faccia grifagna della serva.

«Oh scior parent!», diss'ella rispettosamente. Vantavanon so quale affinità con la famiglia dell'ingegnere, e lochiamava sempre così. «A sti òr chì? L'è staa forsi a tro-và la sciora parenta?»

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La «sciora parenta» era la sorella dell'ingegnere, la si-gnora Rigey.

L'ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna,vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna collume.

«Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venen-dogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconoscola inconvenienza grande, ma propramente...»

Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato so-pra un cravattone bianco e una piccola smilza personci-na chiusa in un soprabitone nero, esprimeva nei moticonvulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhidolenti, la più comica inquietudine.

«Cosa c'è di nuovo?», chiese l'ingegnere alquanto bru-sco. Egli, l'uomo più retto e schietto che fosse al mondo,compativa poco le esitazioni del povero timido signorGiacomo.

«La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla ser-va, le disse aspramente:

«Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che veciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi!Son paron mi!»

Era la curiosità della serva, la sua noncuranza imperti-nente delle istruzioni superiori che accendevano nel«sior Zacomo» questo furore dispotico.

«Euh, che diavol d'on omm!», rispose colei, alzando

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La «sciora parenta» era la sorella dell'ingegnere, la si-gnora Rigey.

L'ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna,vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna collume.

«Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venen-dogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconoscola inconvenienza grande, ma propramente...»

Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato so-pra un cravattone bianco e una piccola smilza personci-na chiusa in un soprabitone nero, esprimeva nei moticonvulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhidolenti, la più comica inquietudine.

«Cosa c'è di nuovo?», chiese l'ingegnere alquanto bru-sco. Egli, l'uomo più retto e schietto che fosse al mondo,compativa poco le esitazioni del povero timido signorGiacomo.

«La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla ser-va, le disse aspramente:

«Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che veciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi!Son paron mi!»

Era la curiosità della serva, la sua noncuranza imperti-nente delle istruzioni superiori che accendevano nel«sior Zacomo» questo furore dispotico.

«Euh, che diavol d'on omm!», rispose colei, alzando

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rabbiosamente il lume in aria. «L'ha de vosà a quela ma-nera lì? Coss'el dis, scior parent?»

«Sentite», fece l'ingegnere. «Invece di menar la lingua,non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?»

Marianna se n'andò brontolando e il signor Giacomo sifece a informare l'ingegnere pregiatissimo con moltima, se, digo, e propramente, degl'intimi suoi pensieri.Egli aveva promesso di assistere come testimonio allenozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Ca-stello, gli era venuta una gran paura di compromettersi.

Era primo deputato politico, come si chiamava allorala suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R.Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pa-sticcio, come la intenderebbe? E quella signora marche-sa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; unadonna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi.«Ghe xe anca quel maledeto toro!» Questo toro, sogget-to d'una questione fra il comune d'Albogasio e l'alpadoro appaltatore dell'Alpe, dei pascoli alti, era da due anniun incubo mortale per il povero signor Giacomo che,quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sem-pre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xeanca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suovisetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa,scoteva le mani su verso il ciglione della montagna im-minente alla sua casa, verso il domicilio del bestionediabolico. Ma l'ingegnere che mostrava in quella sua

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rabbiosamente il lume in aria. «L'ha de vosà a quela ma-nera lì? Coss'el dis, scior parent?»

«Sentite», fece l'ingegnere. «Invece di menar la lingua,non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?»

Marianna se n'andò brontolando e il signor Giacomo sifece a informare l'ingegnere pregiatissimo con moltima, se, digo, e propramente, degl'intimi suoi pensieri.Egli aveva promesso di assistere come testimonio allenozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Ca-stello, gli era venuta una gran paura di compromettersi.

Era primo deputato politico, come si chiamava allorala suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R.Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pa-sticcio, come la intenderebbe? E quella signora marche-sa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; unadonna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi.«Ghe xe anca quel maledeto toro!» Questo toro, sogget-to d'una questione fra il comune d'Albogasio e l'alpadoro appaltatore dell'Alpe, dei pascoli alti, era da due anniun incubo mortale per il povero signor Giacomo che,quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sem-pre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xeanca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suovisetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa,scoteva le mani su verso il ciglione della montagna im-minente alla sua casa, verso il domicilio del bestionediabolico. Ma l'ingegnere che mostrava in quella sua

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bella faccia d'impavido galantuomo una disapprovazio-ne continua, un disgusto crescente dell'ometto pusillani-me che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh po-vero me!» che avevano per sottinteso "in che compagniasono!" perdette ogni pazienza, e inarcando le bracciacon i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le re-dini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, macosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fa-tuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che unuomo, dirò così...».

Qui l'ingegnere, non sapendo veramente come dire,come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiarle gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di ran-tolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso enon potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rossorosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa,son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimerun dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mon-do, mi lo go conossuto ma no lo conosso più».

Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tubamostruosa, a larghe tese, che aveva visto l'ingresso diFerdinando a Verona nel così detto «anno dell'imperato-re», nel 1838.

«Credo conveniente», diss'egli, «un tal segno di rispet-to e di compiacenza.»

L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora:«Cosa mai, cosa mai?». Ma l'ometto, cerimonioso

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bella faccia d'impavido galantuomo una disapprovazio-ne continua, un disgusto crescente dell'ometto pusillani-me che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh po-vero me!» che avevano per sottinteso "in che compagniasono!" perdette ogni pazienza, e inarcando le bracciacon i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le re-dini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, macosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fa-tuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che unuomo, dirò così...».

Qui l'ingegnere, non sapendo veramente come dire,come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiarle gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di ran-tolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso enon potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rossorosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa,son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimerun dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mon-do, mi lo go conossuto ma no lo conosso più».

Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tubamostruosa, a larghe tese, che aveva visto l'ingresso diFerdinando a Verona nel così detto «anno dell'imperato-re», nel 1838.

«Credo conveniente», diss'egli, «un tal segno di rispet-to e di compiacenza.»

L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora:«Cosa mai, cosa mai?». Ma l'ometto, cerimonioso

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nell'anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», echiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quandovide il padrone con quello spettacoloso segno di com-piacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «Latasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!», eappena fuori dell'uscio si sfogò. «No ghe xe ponto dedubio; quela maledetissima servente sarà la me morte.»

«E perché non la manda via?», chiese l'ingegnere.Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo sca-

lino della viottola che sale a fianco della casa Puttini,quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli comeun pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.

«Eh!», rispose sospirando.«Ah!», fece l'ingegnere.«Cossa vorla?», riprese l'altro dopo una breve pausa.

«Questo xe quelo.»Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso

veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indica-tivi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò convivacità e si decise a rimettersi in via.

Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegneredietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da unchiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano chei passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i sof-fi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi dellalunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il

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nell'anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», echiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quandovide il padrone con quello spettacoloso segno di com-piacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «Latasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!», eappena fuori dell'uscio si sfogò. «No ghe xe ponto dedubio; quela maledetissima servente sarà la me morte.»

«E perché non la manda via?», chiese l'ingegnere.Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo sca-

lino della viottola che sale a fianco della casa Puttini,quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli comeun pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.

«Eh!», rispose sospirando.«Ah!», fece l'ingegnere.«Cossa vorla?», riprese l'altro dopo una breve pausa.

«Questo xe quelo.»Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso

veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indica-tivi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò convivacità e si decise a rimettersi in via.

Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegneredietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da unchiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano chei passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i sof-fi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi dellalunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il

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cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone biancoe guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bi-sognava salire, mise un soffio straordinario.

«Corpo de sbrio baco!», diss'egli.L'ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo!

Per amore della Luisina!»Il signor Giacomo s'incamminò senz'altro e, guadagna-

te le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana,parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfidaservente e l'I. R. Commissario, la marchesa vendicativae il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmodella signorina Rigey.

«No ghe xe ponto de dubio, quando go l'onor de tro-varme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, mepar giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi dela Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi daS. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per sograzia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo dala signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele deldì d'ancò. No... no... no; no gavemo propramente quelcontegno che m'intendo mi; o che semo durete o chesemo spuzzete. La varda invece la signorina Luisinacome che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, colrico e col poareto, co la serva e col piovan. No capissopropramente, come la marchesa...»

L'ingegnere l'interruppe.

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cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone biancoe guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bi-sognava salire, mise un soffio straordinario.

«Corpo de sbrio baco!», diss'egli.L'ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo!

Per amore della Luisina!»Il signor Giacomo s'incamminò senz'altro e, guadagna-

te le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana,parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfidaservente e l'I. R. Commissario, la marchesa vendicativae il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmodella signorina Rigey.

«No ghe xe ponto de dubio, quando go l'onor de tro-varme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, mepar giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi dela Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi daS. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per sograzia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo dala signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele deldì d'ancò. No... no... no; no gavemo propramente quelcontegno che m'intendo mi; o che semo durete o chesemo spuzzete. La varda invece la signorina Luisinacome che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, colrico e col poareto, co la serva e col piovan. No capissopropramente, come la marchesa...»

L'ingegnere l'interruppe.

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«La marchesa ha ragione», diss'egli. «Mia nipote non ènobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a preten-dere che la marchesa sia contenta?»

Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, eguardò l'ingegnere battendo i suoi occhi dolenti.

«Ma», diss'egli. «Ela no ghe darà miga rason sul se-rio?»

«Io?», rispose l'ingegnere. «Io non approvo mai che sivada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loroveci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo anti-quato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come sidice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna la-sciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette epoi ho detto: adesso, fate vobis; del resto poi quandoavrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che oc-corre fare e son qua.»

«E cossa dise la signora Teresina?»«Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a

posto non mi dispiace più di morire.»Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando

udiva quest'ultima sgradevole parola.«Ma no semo miga a sti passi?», diss'egli.«Eh!», fece l'ingegnere, molto serio. «Speriamo in Do-

meneddio.»Toccavano allora quel gomito della viottola che svol-

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«La marchesa ha ragione», diss'egli. «Mia nipote non ènobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a preten-dere che la marchesa sia contenta?»

Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, eguardò l'ingegnere battendo i suoi occhi dolenti.

«Ma», diss'egli. «Ela no ghe darà miga rason sul se-rio?»

«Io?», rispose l'ingegnere. «Io non approvo mai che sivada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loroveci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo anti-quato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come sidice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna la-sciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette epoi ho detto: adesso, fate vobis; del resto poi quandoavrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che oc-corre fare e son qua.»

«E cossa dise la signora Teresina?»«Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a

posto non mi dispiace più di morire.»Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando

udiva quest'ultima sgradevole parola.«Ma no semo miga a sti passi?», diss'egli.«Eh!», fece l'ingegnere, molto serio. «Speriamo in Do-

meneddio.»Toccavano allora quel gomito della viottola che svol-

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tando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio aiprimi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ci-glio sporgente, nell'improvviso cospetto di un gremboprecipitoso del monte, del lago in profondo, dei paesellidi Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla rivacome a bere, di Castello seduto poco più su, a breve di-stanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno,tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un belposto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signorGiacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senzasoffiare, non fu già perché la scena gli paresse degnadell'attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo de-putato politico, ma perché avendo una considerazionegrave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiama-re tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altromoto, anche quello delle gambe.

«Bela massima», diss'egli. «Speremo in Domenedio.Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostritempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute,de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. Elmondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia sto-megà. El mondo d'adesso el xe come la nostra ciesa deAlbogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegne-va una volta al mese e adesso el ghe vien una volta al'ano.»

«Senta, caro signor Giacomo», osservò l'ingegnere,impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la par-rocchia da una chiesa all'altra, Domeneddio non c'entra;

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tando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio aiprimi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ci-glio sporgente, nell'improvviso cospetto di un gremboprecipitoso del monte, del lago in profondo, dei paesellidi Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla rivacome a bere, di Castello seduto poco più su, a breve di-stanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno,tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un belposto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signorGiacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senzasoffiare, non fu già perché la scena gli paresse degnadell'attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo de-putato politico, ma perché avendo una considerazionegrave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiama-re tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altromoto, anche quello delle gambe.

«Bela massima», diss'egli. «Speremo in Domenedio.Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostritempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute,de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. Elmondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia sto-megà. El mondo d'adesso el xe come la nostra ciesa deAlbogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegne-va una volta al mese e adesso el ghe vien una volta al'ano.»

«Senta, caro signor Giacomo», osservò l'ingegnere,impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la par-rocchia da una chiesa all'altra, Domeneddio non c'entra;

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del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.»Ciò detto prese un'andatura così lesta che il signor Gia-

como, fatti pochi passi, si fermò soffiando come unmantice.

«La perdona», diss'egli, «se obedisso tanto quanto a lanatural curiosità de l'omo. Se podaria saver la Sua rive-rita età?»

L'ingegnere capì l'antifona e fermatosi un momento sivoltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansue-tudine trionfante:

«Più vecchio di Lei».E riprese spietatamente la via.«Sono dell'ottantotto, sa!», gemette il Puttini.«Ed io dell'ottantacinque!», ribatté l'altro senza fermar-

si. «Avanti!»Per fortuna del Puttini non c'erano più che pochi passi

a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato dellachiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all'entratadel villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoporticodella canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dovel'immaginazione del signor Giacomo gli rappresentavatanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalinitraditori, ch'egli si piantò sui due piedi e, incrociate lemani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini:

«Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo.

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del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.»Ciò detto prese un'andatura così lesta che il signor Gia-

como, fatti pochi passi, si fermò soffiando come unmantice.

«La perdona», diss'egli, «se obedisso tanto quanto a lanatural curiosità de l'omo. Se podaria saver la Sua rive-rita età?»

L'ingegnere capì l'antifona e fermatosi un momento sivoltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansue-tudine trionfante:

«Più vecchio di Lei».E riprese spietatamente la via.«Sono dell'ottantotto, sa!», gemette il Puttini.«Ed io dell'ottantacinque!», ribatté l'altro senza fermar-

si. «Avanti!»Per fortuna del Puttini non c'erano più che pochi passi

a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato dellachiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all'entratadel villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoporticodella canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dovel'immaginazione del signor Giacomo gli rappresentavatanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalinitraditori, ch'egli si piantò sui due piedi e, incrociate lemani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini:

«Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo.

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No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Levegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua.Corpo de sbrio baco!»

Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo ma-sticò privatamente in bocca come la chiusa d'un mono-logo interno sugli accessori dell'impiccio principale incui s'era messo.

«Aspetti», fece l'ingegnere.Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L'inge-

gnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stavapreparando gl'inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò insoccorso del Puttini la lunga pertica col cerino accesosulla punta, che serve per accender le candele degli alta-ri. Poté così, fermo sull'entrata del sottoportico, porgervia via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino da-vanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo con-tento di questa illuminazione religiosa, procedeva bron-tolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro echi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e ab-brancato dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo mutoresistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casaRigey.

A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tor-tuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago inprofondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scu-re verso quell'altra disgraziata fila di case che si attrista

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No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Levegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua.Corpo de sbrio baco!»

Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo ma-sticò privatamente in bocca come la chiusa d'un mono-logo interno sugli accessori dell'impiccio principale incui s'era messo.

«Aspetti», fece l'ingegnere.Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L'inge-

gnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stavapreparando gl'inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò insoccorso del Puttini la lunga pertica col cerino accesosulla punta, che serve per accender le candele degli alta-ri. Poté così, fermo sull'entrata del sottoportico, porgervia via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino da-vanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo con-tento di questa illuminazione religiosa, procedeva bron-tolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro echi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e ab-brancato dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo mutoresistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casaRigey.

A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tor-tuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago inprofondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scu-re verso quell'altra disgraziata fila di case che si attrista

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dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo chedi fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussie-go ostile, si stringono l'uno all'altro, si aiutano a tenerlaindietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle piùscure di fronte alla poveraglia delle case villane, unadelle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada unandito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cuisi cala per pochi scalini sulla piccola terrazza biancache, fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senzafinestre, si affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroniond'esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Bi-rosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprinoe da Gandria.

Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e pro-fessore di lingua francese nel collegio di madame Berra,perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni privateper la fama cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, ave-va comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milanoa vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la so-rella dell'ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 la-sciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e po-che migliaia di svanziche oltre la casa.

Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non tantopiano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto euna voce non sottile, non argentina, ma inesprimibil-mente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!». «Ohbella!», fece patriarcalmente l'ingegnere, «ho da pic-chiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una

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dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo chedi fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussie-go ostile, si stringono l'uno all'altro, si aiutano a tenerlaindietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle piùscure di fronte alla poveraglia delle case villane, unadelle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada unandito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cuisi cala per pochi scalini sulla piccola terrazza biancache, fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senzafinestre, si affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroniond'esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Bi-rosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprinoe da Gandria.

Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e pro-fessore di lingua francese nel collegio di madame Berra,perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni privateper la fama cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, ave-va comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milanoa vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la so-rella dell'ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 la-sciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e po-che migliaia di svanziche oltre la casa.

Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non tantopiano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto euna voce non sottile, non argentina, ma inesprimibil-mente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!». «Ohbella!», fece patriarcalmente l'ingegnere, «ho da pic-chiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una

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mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto graziosoal signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un atti-mo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando:«Padrona mia riveritissima... me consolopropramente...». «Grazie, grazie», fece Luisa, «passi, Laprego, devo dire una parola allo zio.»

L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la gio-vane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò,gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo.

«Ciao, neh», fece l'ingegnere quasi resistendo a quellecarezze perché vi sentiva una gratitudine di cui nonavrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va lamamma?». Luisa non rispose che con una nuova strettadelle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, erala Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontàsemplice neppur sognasse di aver il menomo merito ver-so sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto sen-za di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quin-dici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli gode-va, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di unbuon stipendio. Viveva parcamente a Como con unavecchia governante e i suoi risparmi passavano a casaRigey. Aveva sulle prime apertamente e solennementedisapprovata la inclinazione di Luisa per Franco paren-dogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poichéi giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consenti-to, egli tenendosi la sua opinione per sé, s'era messo adaiutare in tutto che poteva.

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mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto graziosoal signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un atti-mo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando:«Padrona mia riveritissima... me consolopropramente...». «Grazie, grazie», fece Luisa, «passi, Laprego, devo dire una parola allo zio.»

L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la gio-vane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò,gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo.

«Ciao, neh», fece l'ingegnere quasi resistendo a quellecarezze perché vi sentiva una gratitudine di cui nonavrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va lamamma?». Luisa non rispose che con una nuova strettadelle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, erala Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontàsemplice neppur sognasse di aver il menomo merito ver-so sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto sen-za di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quin-dici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli gode-va, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di unbuon stipendio. Viveva parcamente a Como con unavecchia governante e i suoi risparmi passavano a casaRigey. Aveva sulle prime apertamente e solennementedisapprovata la inclinazione di Luisa per Franco paren-dogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poichéi giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consenti-to, egli tenendosi la sua opinione per sé, s'era messo adaiutare in tutto che poteva.

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«La mamma?», ripeté.«Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agi-

tata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontatoche c'è stata una mezza scena con la nonna.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere, che quando udivadi qualche sproposito altrui soleva commiserarne, conquesta esclamazione, se stesso.

«No, zio; Franco ha ragione.»Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea.

«Ma si!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo«hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunsepiano, «dice di essere partito di casa in modo che lanonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.»

«Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la ter-razza.

La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò:«Mamma è qui».

La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro,si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona,per avere un po' d'aria, un po' di sollievo.

«Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel tim-bro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce diun cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e checede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non ser-viranno a niente?»

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«La mamma?», ripeté.«Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agi-

tata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontatoche c'è stata una mezza scena con la nonna.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere, che quando udivadi qualche sproposito altrui soleva commiserarne, conquesta esclamazione, se stesso.

«No, zio; Franco ha ragione.»Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea.

«Ma si!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo«hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunsepiano, «dice di essere partito di casa in modo che lanonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.»

«Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la ter-razza.

La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò:«Mamma è qui».

La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro,si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona,per avere un po' d'aria, un po' di sollievo.

«Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel tim-bro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce diun cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e checede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non ser-viranno a niente?»

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«Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo nonsi può dire!»

Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salottocol curato ne uscì per abbracciar lo zio.

«Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perchégli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è suc-cesso?»

Franco raccontò l'accaduto velando un poco le espres-sioni della nonna che potevano riuscire troppo offensiveai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli unsoldo, accusando quasi più la suscettibilità propria chel'insolenza della vecchia, confessando finalmente diaver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione distar fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di con-durre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbeinterrogato su quest'assenza, ed egli non voleva mentire,e tacere era come confessare.

«Senti!», esclamò lo zio con l'accento vibrato e con lafaccia spanta del galantomone che, soffocando in un vi-luppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro duegran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che haiavuto torto d'irritar la nonna perché, cosa mai! Bisognarispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che leconseguenze saranno pessime; ma son più contento cosìe sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tuanonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo in-fingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un

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«Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo nonsi può dire!»

Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salottocol curato ne uscì per abbracciar lo zio.

«Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perchégli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è suc-cesso?»

Franco raccontò l'accaduto velando un poco le espres-sioni della nonna che potevano riuscire troppo offensiveai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli unsoldo, accusando quasi più la suscettibilità propria chel'insolenza della vecchia, confessando finalmente diaver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione distar fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di con-durre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbeinterrogato su quest'assenza, ed egli non voleva mentire,e tacere era come confessare.

«Senti!», esclamò lo zio con l'accento vibrato e con lafaccia spanta del galantomone che, soffocando in un vi-luppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro duegran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che haiavuto torto d'irritar la nonna perché, cosa mai! Bisognarispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che leconseguenze saranno pessime; ma son più contento cosìe sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tuanonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo in-fingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un

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corno. Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice,alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà dellanonna. Bene, almeno non ingannarla!»

«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insiemead uno squisito sentimento della vita come do-vrebb'essere, possedeva un senso acuto della vita com'èrealmente, e data molto più di suo fratello agli esercizidi pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facil-mente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor diun bene sostanziale, qualche concessione di forma.

«Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa,molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre colvoi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a cono-scere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente,non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fannoquesti ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto equand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. Incasa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si volevatener la cosa segreta per un mese o due, non era micaper ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e,se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio distanze a Oria.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere. «Ci voglion duemesi per questo? Non par vero.»

Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel puntola presenza del signor Giacomo che stava in un angolo,appoggiato al muro, non osando scostarsene per l'oscuri-

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corno. Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice,alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà dellanonna. Bene, almeno non ingannarla!»

«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insiemead uno squisito sentimento della vita come do-vrebb'essere, possedeva un senso acuto della vita com'èrealmente, e data molto più di suo fratello agli esercizidi pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facil-mente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor diun bene sostanziale, qualche concessione di forma.

«Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa,molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre colvoi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a cono-scere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente,non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fannoquesti ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto equand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. Incasa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si volevatener la cosa segreta per un mese o due, non era micaper ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e,se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio distanze a Oria.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere. «Ci voglion duemesi per questo? Non par vero.»

Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel puntola presenza del signor Giacomo che stava in un angolo,appoggiato al muro, non osando scostarsene per l'oscuri-

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tà.La signora Teresa non l'aveva ancora salutato.«Oh, signor Giacomo!», diss'ella con grande premura.

«Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentitoquel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?»

«La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo an-golo. «Propramente non me movo, perché, con la miapovera vista...»

«Luisa!», fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume.Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.»

Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattropiccoli soffi frettolosi che significavano: «ahi, questo èun imbarazzo»

«No so», cominciò titubante, «no so, digo adesso, setrovandome a scuro...»

«Luisa!», chiamò da capo la signora Teresa.«Eh nossignora, nossignora. M'intendo a scuro de tante

cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza nome posso pronunciar. Però, digo, me par che forse sepodaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo ede la rispettabilissima famegia, sì ben che no me fariamaravegia che l'Imperial Regio Commissario, ottimapersona ma sustosèta... ben, basta, no discoremo, mi sonqua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avantiun pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signordon Franco podaria forse co le bone, cole molesine...

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tà.La signora Teresa non l'aveva ancora salutato.«Oh, signor Giacomo!», diss'ella con grande premura.

«Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentitoquel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?»

«La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo an-golo. «Propramente non me movo, perché, con la miapovera vista...»

«Luisa!», fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume.Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.»

Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattropiccoli soffi frettolosi che significavano: «ahi, questo èun imbarazzo»

«No so», cominciò titubante, «no so, digo adesso, setrovandome a scuro...»

«Luisa!», chiamò da capo la signora Teresa.«Eh nossignora, nossignora. M'intendo a scuro de tante

cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza nome posso pronunciar. Però, digo, me par che forse sepodaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo ede la rispettabilissima famegia, sì ben che no me fariamaravegia che l'Imperial Regio Commissario, ottimapersona ma sustosèta... ben, basta, no discoremo, mi sonqua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avantiun pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signordon Franco podaria forse co le bone, cole molesine...

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Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»Furono le proteste violente di Franco che fecero volta-

re così precipitosamente strada al signor Giacomo. Lui-sa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adessoavrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contrad-dire.

«Luisa, Franco», diss'ella. «Riconducetemi in salotto.»I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal

signor Giacomo, la poltrona nel salotto.Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma

sui capelli e le sussurrò: «vedrai che tutto andrà bene».Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato sel'era svignata per la cucina.

Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma altavolo dov'era il lume, capitò il sagrestano ad avvertireche tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò diannunciare al curato che gli sposi sarebbero andati inchiesa fra mezz'ora.

«Luisa», diss'ella, fissando sua figlia con uno sguardosignificante.

«Sì, mamma», rispose questa; e riprese a voce più altavolgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma deside-ra parlarti.»

Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L'ingegne-re non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bi-sognava lasciar la mamma sola con Franco. L'uomo

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Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»Furono le proteste violente di Franco che fecero volta-

re così precipitosamente strada al signor Giacomo. Lui-sa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adessoavrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contrad-dire.

«Luisa, Franco», diss'ella. «Riconducetemi in salotto.»I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal

signor Giacomo, la poltrona nel salotto.Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma

sui capelli e le sussurrò: «vedrai che tutto andrà bene».Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato sel'era svignata per la cucina.

Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma altavolo dov'era il lume, capitò il sagrestano ad avvertireche tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò diannunciare al curato che gli sposi sarebbero andati inchiesa fra mezz'ora.

«Luisa», diss'ella, fissando sua figlia con uno sguardosignificante.

«Sì, mamma», rispose questa; e riprese a voce più altavolgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma deside-ra parlarti.»

Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L'ingegne-re non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bi-sognava lasciar la mamma sola con Franco. L'uomo

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semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gliprese sorridendo un braccio e lo condusse fuori.

La signora Teresa stese in silenzio la sua bella manoancora giovane, a Franco, che s'inginocchiò per baciarla.

«Povero Franco!», diss'ella dolcemente.Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli,

disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbemolto, anche da poche parole: «Minga vera?»

Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita.«Sai», cominciò, «questo non avevo pensato a dirtelo,

ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piattoche hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla si-tuazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, comete. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sentetranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi distrade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tede-schi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a undato punto bisogna che li abbiate anche voi per amorsuo.»

«I tedeschi andranno via presto, mamma», risposeFranco, «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.»

«Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che avedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quan-do i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo aLooch.»

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semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gliprese sorridendo un braccio e lo condusse fuori.

La signora Teresa stese in silenzio la sua bella manoancora giovane, a Franco, che s'inginocchiò per baciarla.

«Povero Franco!», diss'ella dolcemente.Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli,

disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbemolto, anche da poche parole: «Minga vera?»

Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita.«Sai», cominciò, «questo non avevo pensato a dirtelo,

ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piattoche hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla si-tuazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, comete. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sentetranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi distrade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tede-schi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a undato punto bisogna che li abbiate anche voi per amorsuo.»

«I tedeschi andranno via presto, mamma», risposeFranco, «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.»

«Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che avedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quan-do i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo aLooch.»

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Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandinoci dove sta il piccolo camposanto di Castello.

«Ma ti devo parlare di un'altra cosa», proseguì la si-gnora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far pro-teste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo afatica il pianto.

«Bisogna che ti parli di Luisa», diss'ella. «Bisogna chetu la conosca bene tua moglie.»

«La conosco, mamma! La conosco quanto la conoscitu e più ancora!»

Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appas-sionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'animadell'anima sua.

«Povero Franco!», fece la signora Teresa teneramente,sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che nonsai e che devi sapere. Aspetta un poco.»

Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva ilrespiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gestonegativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi,aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo elo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltro-na.

Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male», disse, «delpovero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'eraun uomo senza principii e che ho avuto un gran torto asposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ra-

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Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandinoci dove sta il piccolo camposanto di Castello.

«Ma ti devo parlare di un'altra cosa», proseguì la si-gnora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far pro-teste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo afatica il pianto.

«Bisogna che ti parli di Luisa», diss'ella. «Bisogna chetu la conosca bene tua moglie.»

«La conosco, mamma! La conosco quanto la conoscitu e più ancora!»

Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appas-sionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'animadell'anima sua.

«Povero Franco!», fece la signora Teresa teneramente,sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che nonsai e che devi sapere. Aspetta un poco.»

Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva ilrespiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gestonegativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi,aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo elo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltro-na.

Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male», disse, «delpovero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'eraun uomo senza principii e che ho avuto un gran torto asposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ra-

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gione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stataconsigliata di cedere perché potevo forse influire benesopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cri-stiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signoremi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ulti-ma ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che lamia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Mele nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando,studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore,se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei unbuon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio dicuore; promettimelo, Franco.»

Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i ti-mori di lei e facesse, per compiacenza, una promessasuperflua.

L'ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai», soggiun-se, «non sono fantasie. Non posso morire in pace se nonla prendi come una cosa seria.» E poi che il giovaneebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiun-se:

«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casari-co dal professor Gilardoni, non è vero?»

«Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire allanonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poiuna gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sonovenuto via.»

«Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti

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gione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stataconsigliata di cedere perché potevo forse influire benesopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cri-stiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signoremi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ulti-ma ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che lamia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Mele nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando,studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore,se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei unbuon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio dicuore; promettimelo, Franco.»

Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i ti-mori di lei e facesse, per compiacenza, una promessasuperflua.

L'ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai», soggiun-se, «non sono fantasie. Non posso morire in pace se nonla prendi come una cosa seria.» E poi che il giovaneebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiun-se:

«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casari-co dal professor Gilardoni, non è vero?»

«Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire allanonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poiuna gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sonovenuto via.»

«Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti

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aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gi-lardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due annior sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?»

«Sì, mamma.»Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da

eremita, si era molto romanticamente innamorato, qual-che anno prima, della signora Teresa e le si era timida-mente, reverentemente proposto per marito, ottenendoun tale successo di stupore da togliergli poi il coraggiodi ricomparirle davanti.

«Povero uomo!», riprese la signora Rigey. «Quella èstata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buonamico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venissequell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Nonte la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene senon te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, incerti casi, aver molta importanza per voi altri, special-mente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaciprima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosanon come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zioPiero e poi parla o non parla, secondo la strada che vor-rai prendere.»

«Sì, mamma.»Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa

disse:«È finito?»

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aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gi-lardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due annior sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?»

«Sì, mamma.»Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da

eremita, si era molto romanticamente innamorato, qual-che anno prima, della signora Teresa e le si era timida-mente, reverentemente proposto per marito, ottenendoun tale successo di stupore da togliergli poi il coraggiodi ricomparirle davanti.

«Povero uomo!», riprese la signora Rigey. «Quella èstata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buonamico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venissequell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Nonte la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene senon te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, incerti casi, aver molta importanza per voi altri, special-mente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaciprima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosanon come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zioPiero e poi parla o non parla, secondo la strada che vor-rai prendere.»

«Sì, mamma.»Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa

disse:«È finito?»

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Franco guardò l'ammalata. «Avanti», diss'ella. «È oradi andare?»

Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo diFranco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma,le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzoper trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evi-tare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma lespalle la tradivano.

«No, Luisa», disse la mamma, «no, cara, no», e le ac-carezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata unabuona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così con-tenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemiun bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato.Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.»

Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, feceaprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar me-glio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerlecompagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutarsua sorella prima di andare in chiesa.

«Ciao, neh, Teresa.»«Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, pove-

ro Piero.»«Amen», rispose pacificamente l'ingegnere.Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il ru-

mor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suofratello e del signor Giacomo, la coda della colonna,

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Franco guardò l'ammalata. «Avanti», diss'ella. «È oradi andare?»

Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo diFranco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma,le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzoper trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evi-tare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma lespalle la tradivano.

«No, Luisa», disse la mamma, «no, cara, no», e le ac-carezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata unabuona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così con-tenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemiun bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato.Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.»

Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, feceaprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar me-glio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerlecompagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutarsua sorella prima di andare in chiesa.

«Ciao, neh, Teresa.»«Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, pove-

ro Piero.»«Amen», rispose pacificamente l'ingegnere.Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il ru-

mor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suofratello e del signor Giacomo, la coda della colonna,

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non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe volutoaccompagnar con l'orecchio quanto era possibile.

Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'ideache Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avveni-re dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi oforse per pochi giorni; e che non poteva indovinar nien-te, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi»,pensò. «Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fradieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio eraprofondo; non entrava per le finestre aperte che il fragorlontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago.Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese ilsuo libro di preghiere e lesse con fervore.

Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa,le si confusero alla vista anche i caratteri del libro.

La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Pre-sentiva una visione di cose non vere e sapeva di nondormire, comprendeva che non era sogno, ch'era unostato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che met-teva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio,detto «el Carlin de Dàas», padre del professore, agentedi casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da ven-ticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale:«Oh sciora Teresa, la sta ben?». Ella credette di rispon-dere: «Oh Carlin! Bene e voi?», ma in fatto non apersebocca. «Ghe l'hoo chì la lettra», riprese la figura agitan-do trionfalmente una lettera. «L'hoo portada chì per

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non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe volutoaccompagnar con l'orecchio quanto era possibile.

Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'ideache Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avveni-re dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi oforse per pochi giorni; e che non poteva indovinar nien-te, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi»,pensò. «Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fradieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio eraprofondo; non entrava per le finestre aperte che il fragorlontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago.Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese ilsuo libro di preghiere e lesse con fervore.

Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa,le si confusero alla vista anche i caratteri del libro.

La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Pre-sentiva una visione di cose non vere e sapeva di nondormire, comprendeva che non era sogno, ch'era unostato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che met-teva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio,detto «el Carlin de Dàas», padre del professore, agentedi casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da ven-ticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale:«Oh sciora Teresa, la sta ben?». Ella credette di rispon-dere: «Oh Carlin! Bene e voi?», ma in fatto non apersebocca. «Ghe l'hoo chì la lettra», riprese la figura agitan-do trionfalmente una lettera. «L'hoo portada chì per

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Lee.» E posò la lettera sul tavolo.La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di

vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo,senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa.Le parve dire: «Grazie, Carlin. E adesso andate a Da-sio?». «Sciora no», rispose il Carlin. «Voo a Casarechdal me fioeu.»

L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora lalettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non eracerta che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'ideavaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattiasua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo,la respirazione penosa e frequente.

Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasidel tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitaronoin camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il para-lume della lucerna, che la fisionomia della mamma fos-se stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono dibaci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. Aun tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera dellapoltrona, tese le mani avanti, guardando e indicandoqualche cosa.

«La lettera», diss'ella.I due giovani si voltarono e non videro niente.«Che lettera, mamma?», disse Luisa. Nello stesso pun-

to notò l'espressione del viso di sua madre, diede

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Lee.» E posò la lettera sul tavolo.La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di

vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo,senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa.Le parve dire: «Grazie, Carlin. E adesso andate a Da-sio?». «Sciora no», rispose il Carlin. «Voo a Casarechdal me fioeu.»

L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora lalettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non eracerta che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'ideavaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattiasua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo,la respirazione penosa e frequente.

Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasidel tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitaronoin camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il para-lume della lucerna, che la fisionomia della mamma fos-se stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono dibaci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. Aun tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera dellapoltrona, tese le mani avanti, guardando e indicandoqualche cosa.

«La lettera», diss'ella.I due giovani si voltarono e non videro niente.«Che lettera, mamma?», disse Luisa. Nello stesso pun-

to notò l'espressione del viso di sua madre, diede

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un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la primavolta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva diallucinazioni. All'udirsi domandare «che lettera?» ellacapì, fece «oh!», ritirò le mani, se ne coperse il viso epianse silenziosamente.

Confortata dalle carezze de' suoi figli, si ricompose, libaciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo,che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e ac-cennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattavadi una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Ni-scioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dalmarchese Bianchi che aveva per la signora Rigey unasingolare venerazione.

Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela,incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'inge-gnere.

«Signora Luisina», diss'egli vedendo uscire la novellasposa. «La scusa, son propramente per domandar licen-za...»

«No, no», lo interruppe con un fil di voce la signoraTeresa, «aspetti un poco.»

Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dallastanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presada uno scrupolo, accennò a richiamarlo.

«Ma cosa mai!», fece l'ingegnere.«Ma, Piero!»

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un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la primavolta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva diallucinazioni. All'udirsi domandare «che lettera?» ellacapì, fece «oh!», ritirò le mani, se ne coperse il viso epianse silenziosamente.

Confortata dalle carezze de' suoi figli, si ricompose, libaciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo,che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e ac-cennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattavadi una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Ni-scioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dalmarchese Bianchi che aveva per la signora Rigey unasingolare venerazione.

Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela,incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'inge-gnere.

«Signora Luisina», diss'egli vedendo uscire la novellasposa. «La scusa, son propramente per domandar licen-za...»

«No, no», lo interruppe con un fil di voce la signoraTeresa, «aspetti un poco.»

Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dallastanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presada uno scrupolo, accennò a richiamarlo.

«Ma cosa mai!», fece l'ingegnere.«Ma, Piero!»

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«Ma cosa?»Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sot-

tile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religiosoperché gli sposi non avevano ancora assistito alla messadella benedizione nuziale, impedivano alla signora Tere-sa di approvare che i giovani si appartassero e insiemedi spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcaledello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiamisenza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette.

«Per sempre!», mormorò dopo un momento come par-lando fra sé. «Uniti per sempre!»

«Nualtri», disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto ve-neto al suo collega nel celibato, «nualtri, sior Giacomo,de ste buzare no ghe ne femo.»

«Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo»,rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva cheaveva fatto delle «buzare» peggiori.

Gli sposi non ritornavano.«Signor Giacomo», riprese l'ingegnere, «per questa

notte, niente letto.»L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza

rispondere.E gli sposi non ritornavano.«Piero», disse la signora, «suonate il campanello.»«Signor Giacomo», fece l'ingegnere senza scomporsi,

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«Ma cosa?»Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sot-

tile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religiosoperché gli sposi non avevano ancora assistito alla messadella benedizione nuziale, impedivano alla signora Tere-sa di approvare che i giovani si appartassero e insiemedi spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcaledello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiamisenza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette.

«Per sempre!», mormorò dopo un momento come par-lando fra sé. «Uniti per sempre!»

«Nualtri», disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto ve-neto al suo collega nel celibato, «nualtri, sior Giacomo,de ste buzare no ghe ne femo.»

«Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo»,rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva cheaveva fatto delle «buzare» peggiori.

Gli sposi non ritornavano.«Signor Giacomo», riprese l'ingegnere, «per questa

notte, niente letto.»L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza

rispondere.E gli sposi non ritornavano.«Piero», disse la signora, «suonate il campanello.»«Signor Giacomo», fece l'ingegnere senza scomporsi,

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«dobbiamo suonare il campanello?»«L'idea de la signora Teresa pare propramente questa»,

rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e lasorella. «Però mi no digo gnente.»

«Piero!», insistette la signora.«Ma insomma», riprese suo fratello senza muoversi.

«Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello,o non lo suonerebbe?»

«Oh Dio!», gemette il Puttini. «La me dispensa.»«Non La dispenso un corno.»Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più in-

quieta, ricominciava:«Ma suonate, dunque, Piero!»Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarse-

ne e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, inco-raggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, di-ventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «Mi so-naria.»

«Caro signor Giacomo», disse l'ingegnere, «mi stupi-sco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perché,quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno diquei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però», conchiuse,«suoniamo.»

E suonò molto discretamente.

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«dobbiamo suonare il campanello?»«L'idea de la signora Teresa pare propramente questa»,

rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e lasorella. «Però mi no digo gnente.»

«Piero!», insistette la signora.«Ma insomma», riprese suo fratello senza muoversi.

«Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello,o non lo suonerebbe?»

«Oh Dio!», gemette il Puttini. «La me dispensa.»«Non La dispenso un corno.»Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più in-

quieta, ricominciava:«Ma suonate, dunque, Piero!»Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarse-

ne e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, inco-raggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, di-ventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «Mi so-naria.»

«Caro signor Giacomo», disse l'ingegnere, «mi stupi-sco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perché,quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno diquei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però», conchiuse,«suoniamo.»

E suonò molto discretamente.

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«Sentite, Piero», disse la signora Teresa. «Ricordatevibene che adesso, quando partite voi, deve partire ancheFranco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.»

«Oh povero me!», fece lo zio Piero. «Quante miserie!Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene benebene», soggiunse, perché sua sorella si inquietava. «Fatetutto quello che volete, ecco.»

Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta ela bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisinalo pregava di uscire un momento sulla terrazza.

«Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandatefuori», disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solitaserenità di spirito, forse non comprendendo bene lo sta-to grave di sua sorella, forse per certa sua naturale di-sposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile.

Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco.«Senti, zio», diss'ella, «mio marito dice che certo lanonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare aCressogno, che se la mamma fosse in buone condizionisi potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo,non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettereall'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo stu-dio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?»

«Hm!», fece lo zio, che non accettava facilmente le no-vità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fateuna spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che nonpuò durare.»

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«Sentite, Piero», disse la signora Teresa. «Ricordatevibene che adesso, quando partite voi, deve partire ancheFranco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.»

«Oh povero me!», fece lo zio Piero. «Quante miserie!Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene benebene», soggiunse, perché sua sorella si inquietava. «Fatetutto quello che volete, ecco.»

Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta ela bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisinalo pregava di uscire un momento sulla terrazza.

«Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandatefuori», disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solitaserenità di spirito, forse non comprendendo bene lo sta-to grave di sua sorella, forse per certa sua naturale di-sposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile.

Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco.«Senti, zio», diss'ella, «mio marito dice che certo lanonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare aCressogno, che se la mamma fosse in buone condizionisi potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo,non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettereall'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo stu-dio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?»

«Hm!», fece lo zio, che non accettava facilmente le no-vità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fateuna spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che nonpuò durare.»

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La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia aOria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra.Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello fi-nissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo chenon si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'inco-modo sarebbero stati grandi, che suo marito, quandoavesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ri-tornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lozio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi aOria e starvi fino a quando vi potessero scendere lamamma e lei. «Oh, zio!», fece Luisa. S'ella avesse sapu-to del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata diuna proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualchevolta di queste idee ingenue che facevano sorridere suasorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti control'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta»,fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le brac-cia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più carita-tevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere crea-ture umane. «Fiat. Oh, e se occorre», soggiunse volgen-dosi a Franco, «come stai a quattrini?»

Franco trasalì, s'imbarazzò.«È il nostro papà, sai», gli disse sua moglie.«Papà niente affatto», osservò lo zio, sempre placida-

mente. «Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro,ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondole mie forze.»

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La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia aOria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra.Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello fi-nissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo chenon si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'inco-modo sarebbero stati grandi, che suo marito, quandoavesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ri-tornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lozio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi aOria e starvi fino a quando vi potessero scendere lamamma e lei. «Oh, zio!», fece Luisa. S'ella avesse sapu-to del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata diuna proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualchevolta di queste idee ingenue che facevano sorridere suasorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti control'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta»,fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le brac-cia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più carita-tevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere crea-ture umane. «Fiat. Oh, e se occorre», soggiunse volgen-dosi a Franco, «come stai a quattrini?»

Franco trasalì, s'imbarazzò.«È il nostro papà, sai», gli disse sua moglie.«Papà niente affatto», osservò lo zio, sempre placida-

mente. «Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro,ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondole mie forze.»

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E ricevette l'abbraccio commosso de' suoi nipoti senzacorrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione su-perflua, seccato che non accogliessero più semplice-mente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì»,diss'egli, «andiamo a bere ch'è meglio.»

Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, de-licato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impa-ziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium bendi rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupa-mente vin Grimelli di acquosa memoria.

«Est, est, non è vero, signor Giacomo?», disse lo zioPiero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bic-chiere che teneva in mano. «Qui almeno non c'è perico-lo di crepare come quel tale: et propter nimium est do-minus meus mortuus est.»

«A mi me par de resussitar», rispose il signor Giaco-mo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando semprenel bicchiere.

«Allora, un brindisi agli sposi!», riprese l'altro, alzan-dosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:

Viva lü e viva leeE nün andèm foeura d'i pee.

Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto ebatté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti chetumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e

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E ricevette l'abbraccio commosso de' suoi nipoti senzacorrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione su-perflua, seccato che non accogliessero più semplice-mente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì»,diss'egli, «andiamo a bere ch'è meglio.»

Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, de-licato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impa-ziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium bendi rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupa-mente vin Grimelli di acquosa memoria.

«Est, est, non è vero, signor Giacomo?», disse lo zioPiero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bic-chiere che teneva in mano. «Qui almeno non c'è perico-lo di crepare come quel tale: et propter nimium est do-minus meus mortuus est.»

«A mi me par de resussitar», rispose il signor Giaco-mo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando semprenel bicchiere.

«Allora, un brindisi agli sposi!», riprese l'altro, alzan-dosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:

Viva lü e viva leeE nün andèm foeura d'i pee.

Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto ebatté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti chetumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e

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l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offersela sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua de-vozione alla sposina amabilissima, la sua osservanzaallo sposo compitissimo; si schermì, menando le bracciae la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso,e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmen-te, soffiando con un misto di compiacenza e di rammari-co, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo.

«E tu, Franco?», chiese subito la signora Teresa.«Vado», rispose Franco.«Vien qua», diss'ella. «Vi ho accolto così male, poveri

figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'eravenuto uno de' miei accessi; lo avete ben capito. Adessomi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringra-zio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'averespento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andara dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai,caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti la-scio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordatianche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce dinon vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro unbacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', fi-glio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, ad-dio, va'.»

Gli parlava carezzevole, come a un bambino che noncapisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosa-mente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Lui-

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l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offersela sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua de-vozione alla sposina amabilissima, la sua osservanzaallo sposo compitissimo; si schermì, menando le bracciae la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso,e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmen-te, soffiando con un misto di compiacenza e di rammari-co, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo.

«E tu, Franco?», chiese subito la signora Teresa.«Vado», rispose Franco.«Vien qua», diss'ella. «Vi ho accolto così male, poveri

figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'eravenuto uno de' miei accessi; lo avete ben capito. Adessomi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringra-zio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'averespento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andara dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai,caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti la-scio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordatianche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce dinon vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro unbacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', fi-glio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, ad-dio, va'.»

Gli parlava carezzevole, come a un bambino che noncapisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosa-mente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Lui-

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sa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensatenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di esse-re divenuto un solo con la figlia e come un'avidità diamar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza.

«Va'», ripeteva mamma Teresa, temendo anche la com-mozione propria: «va', va'.»

Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche sta-volta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più san-te hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantescanon facesse che andare e venire dalla cucina al salotto,la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto chele aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare ilcampanello.

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sa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensatenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di esse-re divenuto un solo con la figlia e come un'avidità diamar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza.

«Va'», ripeteva mamma Teresa, temendo anche la com-mozione propria: «va', va'.»

Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche sta-volta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più san-te hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantescanon facesse che andare e venire dalla cucina al salotto,la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto chele aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare ilcampanello.

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4. La lettera del Carlin

Franco discese il monte adagio adagio, tutto chiuso nelsuo mondo interiore così pieno di cose, di pensieri, disentimenti nuovi, fermandosi ogni tratto a guardar lastrada biancastra e i campicelli scuri, a toccar le foglied'una vite o i sassi d'un muricciuolo per sentire la realtàdel mondo esterno, persuadersi che non sognava. Sola-mente a Casarico, nella contrada dei Mal'ari, davantialla porticina della villetta Gilardoni, si ricordò delle pa-role oscure di mamma Teresa circa la confidenza fattaledal Gilardoni e si domandò quale potesse mai esserel'arcano che non conveniva rivelare a Luisa. A dir ilvero questo consiglio della mamma non gli era piaciutointeramente. «Come mai», pensò bussando all'uscio,«nasconderei qualche cosa a mia moglie?»

Il professore Beniamino Gilardoni, figlio del «Carlinde Dàas», era stato fatto studiare dal vecchio don FrancoMaironi, dal marito della marchesa Orsola, uomo biz-zarro, lunatico, violento, ma generoso. Quando il Carlinmorì, si vide che la generosità del Maironi non sarebbestata necessaria. Beniamino ereditò un discreto gruzzo-letto e ciò fece andare in bestia don Franco che lo tenneresponsabile dell'ipocrisia paterna, gli voltò le spalle névolle più saperne di lui nel poco tempo che visse ancora

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4. La lettera del Carlin

Franco discese il monte adagio adagio, tutto chiuso nelsuo mondo interiore così pieno di cose, di pensieri, disentimenti nuovi, fermandosi ogni tratto a guardar lastrada biancastra e i campicelli scuri, a toccar le foglied'una vite o i sassi d'un muricciuolo per sentire la realtàdel mondo esterno, persuadersi che non sognava. Sola-mente a Casarico, nella contrada dei Mal'ari, davantialla porticina della villetta Gilardoni, si ricordò delle pa-role oscure di mamma Teresa circa la confidenza fattaledal Gilardoni e si domandò quale potesse mai esserel'arcano che non conveniva rivelare a Luisa. A dir ilvero questo consiglio della mamma non gli era piaciutointeramente. «Come mai», pensò bussando all'uscio,«nasconderei qualche cosa a mia moglie?»

Il professore Beniamino Gilardoni, figlio del «Carlinde Dàas», era stato fatto studiare dal vecchio don FrancoMaironi, dal marito della marchesa Orsola, uomo biz-zarro, lunatico, violento, ma generoso. Quando il Carlinmorì, si vide che la generosità del Maironi non sarebbestata necessaria. Beniamino ereditò un discreto gruzzo-letto e ciò fece andare in bestia don Franco che lo tenneresponsabile dell'ipocrisia paterna, gli voltò le spalle névolle più saperne di lui nel poco tempo che visse ancora

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dopo la morte del suo agente. Il giovane entrò nell'inse-gnamento, fu professore di latino nel ginnasio di Cre-mona e di filosofia nel liceo di Udine. Cagionevole disalute e timoroso assai del male fisico, alquanto misan-tropo, piantò nel 1842 la cattedra e venne a godersi lamodesta eredità paterna in Valsolda. Il natio paesello diDasio, seduto sotto le rocce dolomitiche dell'Arabione,era troppo alto e troppo incomodo per lui. Vendette isuoi beni di lassù, si comperò l'uliveto del Sedorgg so-pra Casarico e una villetta in Casarico stesso, sulla rivadel lago; un gingillo di villetta che egli chiamava per lasua forma «pi greco» a immagine del diagramma di UgoFoscolo. Dalla contrada dei Mal'ari un andito breve met-teva nel cortiletto addossato a un portico minuscolo eaperto verso il lago, fra grandi oleandri, di fronte a seimiglia d'acqua verde o grigia o azzurra, secondo i mo-menti, fino al monte S. Salvatore inclinato là in fondo,sotto il peso della sua gobba malinconica, ai sottoposticolli umidi di Carona. A levante della casina si stendevaun orto favolosamente spazioso per quei paesi le cuipianure l'ingegnere Ribera soleva definire con questa ci-tazione censuaria: campo grande, detto il campone, ta-vol sett. Sette tavole son venti o ventidue metri quadrati.Il professore lo coltivava con l'aiuto del suo servitorelloGiuseppe, detto il Pinella, e d'una bibliotechina di tratta-ti francesi. Si faceva venire di Francia i semi delle quali-tà d'ortaggi più celebrate, che talvolta gli spuntavanoignobilmente diversi dalla loro fede di battesimo e ma-gari da qualunque onesta famiglia battezzata. Accadeva

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dopo la morte del suo agente. Il giovane entrò nell'inse-gnamento, fu professore di latino nel ginnasio di Cre-mona e di filosofia nel liceo di Udine. Cagionevole disalute e timoroso assai del male fisico, alquanto misan-tropo, piantò nel 1842 la cattedra e venne a godersi lamodesta eredità paterna in Valsolda. Il natio paesello diDasio, seduto sotto le rocce dolomitiche dell'Arabione,era troppo alto e troppo incomodo per lui. Vendette isuoi beni di lassù, si comperò l'uliveto del Sedorgg so-pra Casarico e una villetta in Casarico stesso, sulla rivadel lago; un gingillo di villetta che egli chiamava per lasua forma «pi greco» a immagine del diagramma di UgoFoscolo. Dalla contrada dei Mal'ari un andito breve met-teva nel cortiletto addossato a un portico minuscolo eaperto verso il lago, fra grandi oleandri, di fronte a seimiglia d'acqua verde o grigia o azzurra, secondo i mo-menti, fino al monte S. Salvatore inclinato là in fondo,sotto il peso della sua gobba malinconica, ai sottoposticolli umidi di Carona. A levante della casina si stendevaun orto favolosamente spazioso per quei paesi le cuipianure l'ingegnere Ribera soleva definire con questa ci-tazione censuaria: campo grande, detto il campone, ta-vol sett. Sette tavole son venti o ventidue metri quadrati.Il professore lo coltivava con l'aiuto del suo servitorelloGiuseppe, detto il Pinella, e d'una bibliotechina di tratta-ti francesi. Si faceva venire di Francia i semi delle quali-tà d'ortaggi più celebrate, che talvolta gli spuntavanoignobilmente diversi dalla loro fede di battesimo e ma-gari da qualunque onesta famiglia battezzata. Accadeva

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allora che filosofo e famiglio, curvi sull'aiuola con lemani alle ginocchia, levassero gli occhi dai germoglibeffardi per guardarsi in faccia, il primo sinceramente, ilsecondo ipocritamente compunto. In un canto dell'ortoviveva, nella sua stalletta costrutta con tutte le regoledell'arte, una vaccherella svizzera comperata dopo tremesi di assidui studi e riuscita magra e cagionevolequanto il padrone; al quale, malgrado la mucca svizzerae quattro galline padovane, capitava spesso di non po-tersi preparare in casa un latte all'ovo. Nel muro di so-stegno verso il lago, battuto al piede dall'onda piena del-la breva, egli aveva praticati dei fori e piantato, per con-siglio di Franco Maironi, alquante agavi americane, al-quanti rosai e capperi, fasciando così, come soleva dire,con una elegante forma poetica il sostanzioso contenutodell'orto. E per amore di poesia aveva lasciato incolto unbreve angolo dell'orto stesso. Vi era cresciuto un canne-to altissimo e a questo canneto il professore aveva ad-dossato una specie di belvedere, un alto palco di legno,molto rustico e primitivo, dove nella buona stagionepassava qualche gradevole ora leggendo, al fresco dellabreva, al mormorio del canneto e delle onde, i libri mi-stici che amava. Da lontano il colore del palco si con-fondeva con quello del canneto ed il professore parevaseduto in aria col suo libro in mano, come un mago. Te-neva nel salotto la bibliotechina d'orticoltura; i libri mi-stici, i trattati di negromanzia, di gnosticismo, gli scrittisulle allucinazioni e sui sogni li teneva in uno studiolovicino alla camera da letto, in una specie di cabina di

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allora che filosofo e famiglio, curvi sull'aiuola con lemani alle ginocchia, levassero gli occhi dai germoglibeffardi per guardarsi in faccia, il primo sinceramente, ilsecondo ipocritamente compunto. In un canto dell'ortoviveva, nella sua stalletta costrutta con tutte le regoledell'arte, una vaccherella svizzera comperata dopo tremesi di assidui studi e riuscita magra e cagionevolequanto il padrone; al quale, malgrado la mucca svizzerae quattro galline padovane, capitava spesso di non po-tersi preparare in casa un latte all'ovo. Nel muro di so-stegno verso il lago, battuto al piede dall'onda piena del-la breva, egli aveva praticati dei fori e piantato, per con-siglio di Franco Maironi, alquante agavi americane, al-quanti rosai e capperi, fasciando così, come soleva dire,con una elegante forma poetica il sostanzioso contenutodell'orto. E per amore di poesia aveva lasciato incolto unbreve angolo dell'orto stesso. Vi era cresciuto un canne-to altissimo e a questo canneto il professore aveva ad-dossato una specie di belvedere, un alto palco di legno,molto rustico e primitivo, dove nella buona stagionepassava qualche gradevole ora leggendo, al fresco dellabreva, al mormorio del canneto e delle onde, i libri mi-stici che amava. Da lontano il colore del palco si con-fondeva con quello del canneto ed il professore parevaseduto in aria col suo libro in mano, come un mago. Te-neva nel salotto la bibliotechina d'orticoltura; i libri mi-stici, i trattati di negromanzia, di gnosticismo, gli scrittisulle allucinazioni e sui sogni li teneva in uno studiolovicino alla camera da letto, in una specie di cabina di

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nave dove il lago o il cielo parevano entrare dalla fine-stra.

Dopo la morte del vecchio Maironi il professore avevaripigliato a visitare la famiglia, ma la marchesa Orsolagli piaceva poco e don Alessandro suo figlio, padre diFranco, meno ancora. Finì con andarci una volta l'anno.Quando il giovinetto entrò in liceo, il Gilardoni fu pre-gato dalla nonna, ché il padre era morto da un pezzo, didargli qualche lezione durante l'autunno. Maestro e sco-laro si somigliavano nei facili entusiasmi, nelle collereveementi e fugaci, ed erano caldi patrioti ambedue. Ces-sato il bisogno delle lezioni si rividero come amici ben-ché il professore avesse oltre a vent'anni più di Franco.Questi ammirava l'ingegno del suo allievo; Franco inve-ce stimava assai poco la filosofia mezzo cristiana mezzorazionalista del maestro, le sue tendenze mistiche; ride-va della sua passione per i libri e per le teorie d'orticol-tura e giardinaggio, scompagnata da qualsiasi senso pra-tico. Lo aveva tuttavia molto caro per la sua bontà, per ilsuo candore, per il suo calor d'animo. N'era stato il con-fidente al tempo dell'infelice amore concepito dal Gilar-doni per la signora Teresa Rigey e lo aveva poi ricam-biato con le confidenze proprie. Il Gilardoni ne fu moltocommosso; disse a Franco che avendo nel cuore queltale culto gli sarebbe parso di diventar un poco suo pa-dre anche se la signora Teresa non volesse saperne dilui. Franco non mostrò di apprezzare questa paternitàmetafisica; l'amore per la signora Rigey gli pareva

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nave dove il lago o il cielo parevano entrare dalla fine-stra.

Dopo la morte del vecchio Maironi il professore avevaripigliato a visitare la famiglia, ma la marchesa Orsolagli piaceva poco e don Alessandro suo figlio, padre diFranco, meno ancora. Finì con andarci una volta l'anno.Quando il giovinetto entrò in liceo, il Gilardoni fu pre-gato dalla nonna, ché il padre era morto da un pezzo, didargli qualche lezione durante l'autunno. Maestro e sco-laro si somigliavano nei facili entusiasmi, nelle collereveementi e fugaci, ed erano caldi patrioti ambedue. Ces-sato il bisogno delle lezioni si rividero come amici ben-ché il professore avesse oltre a vent'anni più di Franco.Questi ammirava l'ingegno del suo allievo; Franco inve-ce stimava assai poco la filosofia mezzo cristiana mezzorazionalista del maestro, le sue tendenze mistiche; ride-va della sua passione per i libri e per le teorie d'orticol-tura e giardinaggio, scompagnata da qualsiasi senso pra-tico. Lo aveva tuttavia molto caro per la sua bontà, per ilsuo candore, per il suo calor d'animo. N'era stato il con-fidente al tempo dell'infelice amore concepito dal Gilar-doni per la signora Teresa Rigey e lo aveva poi ricam-biato con le confidenze proprie. Il Gilardoni ne fu moltocommosso; disse a Franco che avendo nel cuore queltale culto gli sarebbe parso di diventar un poco suo pa-dre anche se la signora Teresa non volesse saperne dilui. Franco non mostrò di apprezzare questa paternitàmetafisica; l'amore per la signora Rigey gli pareva

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un'aberrazione; ma insomma si confermò nell'idea chela testa del professore non valeva gran cosa e che il cuo-re era d'oro.

Bussò, dunque, all'uscio e venne ad aprirgli il professo-re in persona portando un lumicino a olio. «Bravo»,diss'egli. «Credevo che non venissi più.»

Il Gilardoni era in veste da camera e pantofole, avevain testa una specie di turbante ed esalava un forte odoredi canfora. Pareva un turco, un Gilardoni bey; ma la fac-cia magra e giallognola che sorrideva sotto il turbantenulla aveva di turchesco. Contornata d'una barbetta ros-sastra, fiorita pomposamente, nel mezzo, d'un bel naso-ne bitorzoluto e vermiglio, luceva per due begli occhiazzurri, molto giovanili, pieni d'ingenua bontà e poesia.

Appena Franco ebbe chiuso l'uscio dietro di sé, l'amicogli sussurrò: «È fatto?». «È fatto», rispose Franco.L'altro lo abbracciò e lo baciò silenziosamente. Poi lofece salire nello studiolo. Gli spiegò strada facendo ches'era applicato sulla testa delle compresse d'acqua seda-tiva, secundum Raspail, per una minaccia di emicrania.Egli era un apostolo di Raspail e aveva convertito ancheFranco, molto soggetto alle infiammazioni di gola, dallesanguisughe alla sigaretta di canfora.

Nello studiolo, nuovo amplesso, molto stretto e moltolungo. «Tanto, tanto, tanto!», esclamò Gilardoni sottin-tendendo un mondo di cose.

Povero Gilardoni, gli occhi gli luccicavano. Aveva spe-

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un'aberrazione; ma insomma si confermò nell'idea chela testa del professore non valeva gran cosa e che il cuo-re era d'oro.

Bussò, dunque, all'uscio e venne ad aprirgli il professo-re in persona portando un lumicino a olio. «Bravo»,diss'egli. «Credevo che non venissi più.»

Il Gilardoni era in veste da camera e pantofole, avevain testa una specie di turbante ed esalava un forte odoredi canfora. Pareva un turco, un Gilardoni bey; ma la fac-cia magra e giallognola che sorrideva sotto il turbantenulla aveva di turchesco. Contornata d'una barbetta ros-sastra, fiorita pomposamente, nel mezzo, d'un bel naso-ne bitorzoluto e vermiglio, luceva per due begli occhiazzurri, molto giovanili, pieni d'ingenua bontà e poesia.

Appena Franco ebbe chiuso l'uscio dietro di sé, l'amicogli sussurrò: «È fatto?». «È fatto», rispose Franco.L'altro lo abbracciò e lo baciò silenziosamente. Poi lofece salire nello studiolo. Gli spiegò strada facendo ches'era applicato sulla testa delle compresse d'acqua seda-tiva, secundum Raspail, per una minaccia di emicrania.Egli era un apostolo di Raspail e aveva convertito ancheFranco, molto soggetto alle infiammazioni di gola, dallesanguisughe alla sigaretta di canfora.

Nello studiolo, nuovo amplesso, molto stretto e moltolungo. «Tanto, tanto, tanto!», esclamò Gilardoni sottin-tendendo un mondo di cose.

Povero Gilardoni, gli occhi gli luccicavano. Aveva spe-

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rato invano una felicità simile a quella dell'amico suo!Franco intese, s'imbarazzò, non seppe dirgli nulla, e neseguì un silenzio così significativo che il Gilardoni nonpoté sopportarlo e si mise ad accendere un po' di fuocoper riscaldare il caffè che aveva preparato. Franco si of-ferse per questa bisogna e il professore accettò allegan-do il suo mal di capo, si mise a disfare il turbante davan-ti a una scodella d'acqua sedativa. «Dunque», diss'egli,dominando la propria emozione con uno sforzo di vo-lontà, «mi racconti.» Franco gli raccontò ogni cosa dalpranzo della nonna fino alla cerimonia nuziale nellachiesa di Castello, eccetto, naturalmente, il colloquio se-greto con mamma Teresa. Il professore Beniamino, cheintanto si era rimesso il turbante, si fece coraggio a mez-zo. «E...», diss'egli sostituendo al nome amato una spe-cie di gemito sordo, «come sta?» Udito dell'allucinazio-ne, esclamò: «Una lettera? Le pareva di vedere una let-tera? Ma che lettera?». Questo, Franco non lo sapeva.Uno stridore sulla brace interruppe la conversazione; ilcaffè bolliva a scroscio e si versava.

Il Gilardoni somigliava al suo giovane amico pure inquesto che gli si leggeva il cuore in faccia. Il giovaneamico, ch'era del resto un lettore di facce infinitamentepiù sagace e pronto di lui, capì subito ch'egli aveva pen-sato ad una data lettera e gli chiese, mentre il caffè stavaposando, se fosse in grado di spiegar quell'allucinazio-ne. Il professore si affrettò a rispondere di no, ma tostopronunciato il no lo attenuò con parecchi altri no misti a

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rato invano una felicità simile a quella dell'amico suo!Franco intese, s'imbarazzò, non seppe dirgli nulla, e neseguì un silenzio così significativo che il Gilardoni nonpoté sopportarlo e si mise ad accendere un po' di fuocoper riscaldare il caffè che aveva preparato. Franco si of-ferse per questa bisogna e il professore accettò allegan-do il suo mal di capo, si mise a disfare il turbante davan-ti a una scodella d'acqua sedativa. «Dunque», diss'egli,dominando la propria emozione con uno sforzo di vo-lontà, «mi racconti.» Franco gli raccontò ogni cosa dalpranzo della nonna fino alla cerimonia nuziale nellachiesa di Castello, eccetto, naturalmente, il colloquio se-greto con mamma Teresa. Il professore Beniamino, cheintanto si era rimesso il turbante, si fece coraggio a mez-zo. «E...», diss'egli sostituendo al nome amato una spe-cie di gemito sordo, «come sta?» Udito dell'allucinazio-ne, esclamò: «Una lettera? Le pareva di vedere una let-tera? Ma che lettera?». Questo, Franco non lo sapeva.Uno stridore sulla brace interruppe la conversazione; ilcaffè bolliva a scroscio e si versava.

Il Gilardoni somigliava al suo giovane amico pure inquesto che gli si leggeva il cuore in faccia. Il giovaneamico, ch'era del resto un lettore di facce infinitamentepiù sagace e pronto di lui, capì subito ch'egli aveva pen-sato ad una data lettera e gli chiese, mentre il caffè stavaposando, se fosse in grado di spiegar quell'allucinazio-ne. Il professore si affrettò a rispondere di no, ma tostopronunciato il no lo attenuò con parecchi altri no misti a

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inarticolati brontolii: «eh no - no già - non saprei - in-somma no». Franco non insistette e ne seguì un altro si-lenzio alquanto significativo. Preso il caffè con molti in-volontari segni d'inquietudine, il professore proposebruscamente d'andare a letto. Franco, dovendo ripartireprima di giorno, preferì non coricarsi ma volle che si co-ricasse l'amico, e l'amico, dopo infinite proteste e ceri-monie, dopo aver esitato fin sulla soglia della porta conla sua scodella d'acqua sedativa in mano, fece di colpoun volta faccia, si gittò alle spalle un «addio» e scom-parve.

Rimasto solo, Franco spense il lume e si distese sullapoltrona con la buona intenzione di dormire, cercando ilsonno in qualche pensiero indifferente, se gli fosse pos-sibile di fermarvisi. Non erano passati cinque minutiquando fu picchiato all'uscio e subito entrò precipitosa-mente, senza lume, il professore dicendo: «Insommasono qui!». «Cosa c'è?», esclamò Franco. «Mi rincresceche ho spento.» Si sentì in pari tempo le braccia delbuon Beniamino intorno al collo, la sua barba, la canfo-ra e la voce sul viso.

«Caro caro caro caro don Franco, io ho un peso enor-me sul cuore, non volevo parlare adesso, volevo lasciar-la quieto ma non posso, non posso, poss no, poss no,poss no!»

«Ma parli, si quieti, si quieti!», disse Franco scioglien-dosi dolcemente da quell'abbraccio.

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inarticolati brontolii: «eh no - no già - non saprei - in-somma no». Franco non insistette e ne seguì un altro si-lenzio alquanto significativo. Preso il caffè con molti in-volontari segni d'inquietudine, il professore proposebruscamente d'andare a letto. Franco, dovendo ripartireprima di giorno, preferì non coricarsi ma volle che si co-ricasse l'amico, e l'amico, dopo infinite proteste e ceri-monie, dopo aver esitato fin sulla soglia della porta conla sua scodella d'acqua sedativa in mano, fece di colpoun volta faccia, si gittò alle spalle un «addio» e scom-parve.

Rimasto solo, Franco spense il lume e si distese sullapoltrona con la buona intenzione di dormire, cercando ilsonno in qualche pensiero indifferente, se gli fosse pos-sibile di fermarvisi. Non erano passati cinque minutiquando fu picchiato all'uscio e subito entrò precipitosa-mente, senza lume, il professore dicendo: «Insommasono qui!». «Cosa c'è?», esclamò Franco. «Mi rincresceche ho spento.» Si sentì in pari tempo le braccia delbuon Beniamino intorno al collo, la sua barba, la canfo-ra e la voce sul viso.

«Caro caro caro caro don Franco, io ho un peso enor-me sul cuore, non volevo parlare adesso, volevo lasciar-la quieto ma non posso, non posso, poss no, poss no,poss no!»

«Ma parli, si quieti, si quieti!», disse Franco scioglien-dosi dolcemente da quell'abbraccio.

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Il professore lo lasciò e si portò le mani alle tempie ge-mendo: «Oh che animale, che animale, che animale! Po-tevo ben lasciarla tranquillo, potevo ben aspettare doma-ni! o posdomani! Ma ormai è fatta, è fatta».

Afferrò le mani di Franco. «Creda, avevo cominciato aspogliarmi quando mi ha preso come una vertigine e lì,andiamo, metti su da capo le vesta, e via, corri qua comeun matto, senza lume! Nella furia ho persin rovesciato lascodella dell'acqua sedativa!»

«Accendiamo il lume?», chiese Franco.«No no no! Meglio parlare al buio, meglio parlare al

buio! Guardi, mi metto persino qui, io!» Andò a sedereal suo scrittoio fuori del chiaror debole ch'entrava dallafinestra, e parlò. Parlava sempre nervoso e disordinato;figurarsi adesso con l'agitazione che aveva in corpo.

«Comincio, neh? Chi sa cosa dirà, caro don Franco!Tutte chiacchiere inutili, queste; ma cosa vuole, là, pa-zienza. Comincio dunque; di dove comincio? Ah Signo-re, vede che bestia sono che non so nemmeno più dovecominciare? Ah, quell'allucinazione! Sì, Le ho detto unabugia poco fa, posso benissimo sospettare l'origine diquell'allucinazione. Si tratta d'una lettera, proprio d'unalettera che io ho fatto vedere due anni sono alla signoraTeresa. Una lettera del povero don Franco Suo nonno.Bene, adesso cominciamo dal principio.

Il mio povero papà, negli ultimi giorni della sua vitami parlò di una lettera di don Franco che avrei trovato

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Il professore lo lasciò e si portò le mani alle tempie ge-mendo: «Oh che animale, che animale, che animale! Po-tevo ben lasciarla tranquillo, potevo ben aspettare doma-ni! o posdomani! Ma ormai è fatta, è fatta».

Afferrò le mani di Franco. «Creda, avevo cominciato aspogliarmi quando mi ha preso come una vertigine e lì,andiamo, metti su da capo le vesta, e via, corri qua comeun matto, senza lume! Nella furia ho persin rovesciato lascodella dell'acqua sedativa!»

«Accendiamo il lume?», chiese Franco.«No no no! Meglio parlare al buio, meglio parlare al

buio! Guardi, mi metto persino qui, io!» Andò a sedereal suo scrittoio fuori del chiaror debole ch'entrava dallafinestra, e parlò. Parlava sempre nervoso e disordinato;figurarsi adesso con l'agitazione che aveva in corpo.

«Comincio, neh? Chi sa cosa dirà, caro don Franco!Tutte chiacchiere inutili, queste; ma cosa vuole, là, pa-zienza. Comincio dunque; di dove comincio? Ah Signo-re, vede che bestia sono che non so nemmeno più dovecominciare? Ah, quell'allucinazione! Sì, Le ho detto unabugia poco fa, posso benissimo sospettare l'origine diquell'allucinazione. Si tratta d'una lettera, proprio d'unalettera che io ho fatto vedere due anni sono alla signoraTeresa. Una lettera del povero don Franco Suo nonno.Bene, adesso cominciamo dal principio.

Il mio povero papà, negli ultimi giorni della sua vitami parlò di una lettera di don Franco che avrei trovato

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nel cassettone dov'erano tutte le carte da conservarsi. Midisse di leggerla, di custodirla e di regolarmi, a suo tem-po, secondo la mia coscienza. "Però", disse, "è quasicerto che non vi sarà niente da fare." Il povero papà vie-ne a mancare, io cerco la lettera nel cassettone, non latrovo. Frugo tutta la casa, non la trovo. Cosa vuole? Mido pace con l'idea che non ci sarà niente da fare e non cipenso più. Bestia, vero? Animale? Me lo dica pure, melo merito, me lo son detto tante volte io. Schiavo, andia-mo avanti. Lei sa com'è stata regolata la successione diSuo nonno? Sa come sono andati gli affari di casa Sua?Mi perdona, neh, se Le parlo di queste cose?»

«So che mio nonno morì senza testamento e che nonho niente», rispose Franco. «Passiamo, andiamo avan-ti.»

Era un argomento penoso davvero, per Franco. Allamorte del vecchio Maironi non s'era trovato testamento.La vedova e il figlio don Alessandro si erano divisi lasostanza per metà, d'amore e d'accordo. Per riuscire aquesto il figlio aveva fatto alla madre una donazione as-sai grossa dichiarando d'interpretare la volontà paternacui era mancato il modo d'esprimersi. Il giovane, vizio-so, giuocatore, prodigo, era già impigliato, alla morte disuo padre, nei lacci degli usurai. Nei sette anni che visseancora si governò per modo da non lasciare un soldo alsuo unico figlio Franco, il quale rimase con una ventinadi mila svanziche, la sostanza di sua madre, morta nelmetterlo alla luce.

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nel cassettone dov'erano tutte le carte da conservarsi. Midisse di leggerla, di custodirla e di regolarmi, a suo tem-po, secondo la mia coscienza. "Però", disse, "è quasicerto che non vi sarà niente da fare." Il povero papà vie-ne a mancare, io cerco la lettera nel cassettone, non latrovo. Frugo tutta la casa, non la trovo. Cosa vuole? Mido pace con l'idea che non ci sarà niente da fare e non cipenso più. Bestia, vero? Animale? Me lo dica pure, melo merito, me lo son detto tante volte io. Schiavo, andia-mo avanti. Lei sa com'è stata regolata la successione diSuo nonno? Sa come sono andati gli affari di casa Sua?Mi perdona, neh, se Le parlo di queste cose?»

«So che mio nonno morì senza testamento e che nonho niente», rispose Franco. «Passiamo, andiamo avan-ti.»

Era un argomento penoso davvero, per Franco. Allamorte del vecchio Maironi non s'era trovato testamento.La vedova e il figlio don Alessandro si erano divisi lasostanza per metà, d'amore e d'accordo. Per riuscire aquesto il figlio aveva fatto alla madre una donazione as-sai grossa dichiarando d'interpretare la volontà paternacui era mancato il modo d'esprimersi. Il giovane, vizio-so, giuocatore, prodigo, era già impigliato, alla morte disuo padre, nei lacci degli usurai. Nei sette anni che visseancora si governò per modo da non lasciare un soldo alsuo unico figlio Franco, il quale rimase con una ventinadi mila svanziche, la sostanza di sua madre, morta nelmetterlo alla luce.

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«Sì, sì, andiamo avanti», riprese il Gilardoni. «Tre annifa, dico tre anni fa, ricevo una Sua lettera. Ricordoch'era il due novembre, il giorno dei morti. Cose strane,cose misteriose. Senta bene. La sera vado a letto e fac-cio un sogno. Sogno la lettera di Suo nonno. Noti chenon ci avevo mai più pensato. Sogno di cercarla e di tro-varla in una vecchia cassa che tengo in granaio. La leg-go, sempre in sogno. Cosa dice? Dice che nella cantinadi casa Maironi a Cressogno c'è un tesoro e che questotesoro è destinato a Lei. Mi sveglio con una emozionestraordinaria, con la convinzione che si tratta di un so-gno veridico. Mi alzo e vado a guardare nella cassa.Non trovo niente. Ma due giorni dopo, volendo venderecerti fondi che avevo ancora a Dasio, piglio in mano unvecchio atto di compera che papà teneva nel suo casset-tone, lo sfoglio e me ne casca fuori una lettera. Guardola sottoscrizione, vedo, "nobile Franco Maironi". La leg-go; è quella! Ecco, dico, il sogno che...»

«Ebbene?», interruppe Franco. «Questa lettera, cosadiceva?»

Il professore si alzò, prese uno zolfino lungo mezzobraccio, lo cacciò nella brace del caminetto e accese illume.

«L'ho qui», diss'egli con un gran sospiro sconsolato.«Legga.»

Si cavò di tasca e porse a Franco una lettera giallogno-la, di piccolo formato, senza busta, con le tracce

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«Sì, sì, andiamo avanti», riprese il Gilardoni. «Tre annifa, dico tre anni fa, ricevo una Sua lettera. Ricordoch'era il due novembre, il giorno dei morti. Cose strane,cose misteriose. Senta bene. La sera vado a letto e fac-cio un sogno. Sogno la lettera di Suo nonno. Noti chenon ci avevo mai più pensato. Sogno di cercarla e di tro-varla in una vecchia cassa che tengo in granaio. La leg-go, sempre in sogno. Cosa dice? Dice che nella cantinadi casa Maironi a Cressogno c'è un tesoro e che questotesoro è destinato a Lei. Mi sveglio con una emozionestraordinaria, con la convinzione che si tratta di un so-gno veridico. Mi alzo e vado a guardare nella cassa.Non trovo niente. Ma due giorni dopo, volendo venderecerti fondi che avevo ancora a Dasio, piglio in mano unvecchio atto di compera che papà teneva nel suo casset-tone, lo sfoglio e me ne casca fuori una lettera. Guardola sottoscrizione, vedo, "nobile Franco Maironi". La leg-go; è quella! Ecco, dico, il sogno che...»

«Ebbene?», interruppe Franco. «Questa lettera, cosadiceva?»

Il professore si alzò, prese uno zolfino lungo mezzobraccio, lo cacciò nella brace del caminetto e accese illume.

«L'ho qui», diss'egli con un gran sospiro sconsolato.«Legga.»

Si cavò di tasca e porse a Franco una lettera giallogno-la, di piccolo formato, senza busta, con le tracce

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d'un'ostia rossa. Le linee nero-giallastre dello scritto in-terno trasparivano qua e là quasi in rilievo.

Franco la prese, l'accostò al lume e lesse ad alta voce:

Caro Carlin,

Troverai dentro la presente il mio testamento.Ne ho fatto due copie. Una è presso di me. L'altra è

questa che io t'incarico di pubblicare se la prima nonviene fuori. Hai capito? Basta, e quando mi vedrai ti èassolutamente proibito di rompermi... col darmi consi-gli secondo il tuo maledetto vizio. Tu sei la sola personadi cui mi fido, ma del resto io non ho che a comandare etu non hai che a obbedire; dunque tutti i rompimentisono inutili e intollerabili. Ciao.

Il tuo aff. padroneNob. Franco Maironi

Cressogno, 22 settembre 1828

«Ecco il testamento, adesso», disse il Gilardoni, lugu-bre, porgendo a Franco un altro foglietto giallognolo.«Ma questo non lo legga ad alta voce.»

Il foglietto diceva:

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d'un'ostia rossa. Le linee nero-giallastre dello scritto in-terno trasparivano qua e là quasi in rilievo.

Franco la prese, l'accostò al lume e lesse ad alta voce:

Caro Carlin,

Troverai dentro la presente il mio testamento.Ne ho fatto due copie. Una è presso di me. L'altra è

questa che io t'incarico di pubblicare se la prima nonviene fuori. Hai capito? Basta, e quando mi vedrai ti èassolutamente proibito di rompermi... col darmi consi-gli secondo il tuo maledetto vizio. Tu sei la sola personadi cui mi fido, ma del resto io non ho che a comandare etu non hai che a obbedire; dunque tutti i rompimentisono inutili e intollerabili. Ciao.

Il tuo aff. padroneNob. Franco Maironi

Cressogno, 22 settembre 1828

«Ecco il testamento, adesso», disse il Gilardoni, lugu-bre, porgendo a Franco un altro foglietto giallognolo.«Ma questo non lo legga ad alta voce.»

Il foglietto diceva:

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Io sottoscritto, nobile Franco Maironi, intendo disporredelle mie sostanze, con questo atto d'ultima volontà.

Essendoché donna Orsola Maironi nata marchesa Scre-min si è degnata di accettare insieme a molti altri omag-gi anche i miei, le lascio in segno di gratitudine lire diMilano diecimila per una volta tanto e il gioiello per leipiù prezioso della casa ossia don Alessandro Maironi,debitamente inscritto nei registri della parrocchia dellaCattedrale in Brescia come mio figlio.

Lascio al detto mio figlio la porzione legittima che glispetta della mia facoltà e tre parpagliole al giorno in più,in segno della particolare mia stima.

Lascio al mio agente di Brescia signor Grisi, se si tro-verà al mio servizio al momento della mia morte, tuttoquello che mi ha preso.

Lascio al mio agente di Valsolda, Carlino Gilardoni,colla condizione come sopra, lire di Milano quattro algiorno, sua vita natural durante.

Intendo che sia celebrata nella Cattedrale di Bresciauna messa quotidiana finché sarà in vita donna OrsolaMaironi Scremin, per la salute dell'anima sua. - Di tuttala restante mia sostanza istituisco e nomino erede il mionipotino don Franco Maironi di don Alessandro.

Fatto, scritto e sottoscritto il 15 aprile 1828.

Nob. Franco Maironi

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Io sottoscritto, nobile Franco Maironi, intendo disporredelle mie sostanze, con questo atto d'ultima volontà.

Essendoché donna Orsola Maironi nata marchesa Scre-min si è degnata di accettare insieme a molti altri omag-gi anche i miei, le lascio in segno di gratitudine lire diMilano diecimila per una volta tanto e il gioiello per leipiù prezioso della casa ossia don Alessandro Maironi,debitamente inscritto nei registri della parrocchia dellaCattedrale in Brescia come mio figlio.

Lascio al detto mio figlio la porzione legittima che glispetta della mia facoltà e tre parpagliole al giorno in più,in segno della particolare mia stima.

Lascio al mio agente di Brescia signor Grisi, se si tro-verà al mio servizio al momento della mia morte, tuttoquello che mi ha preso.

Lascio al mio agente di Valsolda, Carlino Gilardoni,colla condizione come sopra, lire di Milano quattro algiorno, sua vita natural durante.

Intendo che sia celebrata nella Cattedrale di Bresciauna messa quotidiana finché sarà in vita donna OrsolaMaironi Scremin, per la salute dell'anima sua. - Di tuttala restante mia sostanza istituisco e nomino erede il mionipotino don Franco Maironi di don Alessandro.

Fatto, scritto e sottoscritto il 15 aprile 1828.

Nob. Franco Maironi

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Franco lesse e restituì la carta come trasognato, senzadir nulla. Era commosso e sentiva confusamente di do-versi dominare, di dover reprimere la propria commo-zione e raccogliersi, veder chiaro nella cosa e in se stes-so.

«Ha visto?», fece il professore.A questo punto la sovraeccitazione del Gilardoni sali al

colmo.«Perché non parlare prima, eh?», riprese. «È ben qui la

storia che un perché positivo, là, chiaro, preciso, non c'ècaso, io non lo posso dire! Queste carte mi hanno fattoorrore. Se si fosse trattato di me, di mio padre, di miamadre, avrei lasciato andare un milione piuttosto di do-mandarlo con queste carte alla mano. Adesso sono an-cora una bestia di dir questo, metta ch'io non abbia det-to, perché al posto Suo, tutt'altro! Dicevo al posto mio,Signore! Si sa! Dunque mi pareva, guardi che asino, chela nonna Le volesse un gran bene, che la roba del nonnofinirebbe a ogni modo nelle Sue mani; e conquest'idea!... Passa un po' di tempo, mi consiglio con lasignora Teresa, le mostro lettera e testamento. Mi diceche avrei dovuto informar Lei subito, appena fatta lascoperta, ma che oramai, essendovi di mezzo, in qual-che maniera, sua figlia, non mi vuol dare alcun consi-glio. Del resto, dice... Bene, questo non importa. Capi-sco insomma che il testamento le fa orrore anche a lei.Cosa vuole, io mi metto in testa che già la nonna finirà

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Franco lesse e restituì la carta come trasognato, senzadir nulla. Era commosso e sentiva confusamente di do-versi dominare, di dover reprimere la propria commo-zione e raccogliersi, veder chiaro nella cosa e in se stes-so.

«Ha visto?», fece il professore.A questo punto la sovraeccitazione del Gilardoni sali al

colmo.«Perché non parlare prima, eh?», riprese. «È ben qui la

storia che un perché positivo, là, chiaro, preciso, non c'ècaso, io non lo posso dire! Queste carte mi hanno fattoorrore. Se si fosse trattato di me, di mio padre, di miamadre, avrei lasciato andare un milione piuttosto di do-mandarlo con queste carte alla mano. Adesso sono an-cora una bestia di dir questo, metta ch'io non abbia det-to, perché al posto Suo, tutt'altro! Dicevo al posto mio,Signore! Si sa! Dunque mi pareva, guardi che asino, chela nonna Le volesse un gran bene, che la roba del nonnofinirebbe a ogni modo nelle Sue mani; e conquest'idea!... Passa un po' di tempo, mi consiglio con lasignora Teresa, le mostro lettera e testamento. Mi diceche avrei dovuto informar Lei subito, appena fatta lascoperta, ma che oramai, essendovi di mezzo, in qual-che maniera, sua figlia, non mi vuol dare alcun consi-glio. Del resto, dice... Bene, questo non importa. Capi-sco insomma che il testamento le fa orrore anche a lei.Cosa vuole, io mi metto in testa che già la nonna finirà

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con accettare il matrimonio e non parlo. Stasera Lei midice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisceche non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere unmomento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!»

Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che questeultime parole. «No», diss'egli, «non le prendo. Mi cono-sco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualchecosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora.» Il Gilardo-ni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de'suoi scatti di impazienza. Niente gl'irritava i nervi, delresto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buoncuore e di cattiva testa. Si riscaldò perché il Gilardoniresisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare aogni costo delle carte era egoismo bell'e buono e chequando si fanno degli spropositi bisogna subirne le con-seguenze. Le parole furono presso a poco queste; la fac-cia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, ros-so rosso, fremeva tutto per quell'accusa di egoismo, masi contenne; e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo«bene bene bene bene», intascò frettolosamente le cartee uscì senz'altro. Subito Franco, per soddisfazione dellapropria coscienza, si mise a persuader se stesso che il si-gnor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di nonavergli consegnato le carte molto prima, torto di essersifatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersioffeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filo-sofo, non pensò più a lui, spense il lume e, ritornato allasua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima.

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con accettare il matrimonio e non parlo. Stasera Lei midice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisceche non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere unmomento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!»

Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che questeultime parole. «No», diss'egli, «non le prendo. Mi cono-sco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualchecosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora.» Il Gilardo-ni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de'suoi scatti di impazienza. Niente gl'irritava i nervi, delresto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buoncuore e di cattiva testa. Si riscaldò perché il Gilardoniresisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare aogni costo delle carte era egoismo bell'e buono e chequando si fanno degli spropositi bisogna subirne le con-seguenze. Le parole furono presso a poco queste; la fac-cia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, ros-so rosso, fremeva tutto per quell'accusa di egoismo, masi contenne; e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo«bene bene bene bene», intascò frettolosamente le cartee uscì senz'altro. Subito Franco, per soddisfazione dellapropria coscienza, si mise a persuader se stesso che il si-gnor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di nonavergli consegnato le carte molto prima, torto di essersifatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersioffeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filo-sofo, non pensò più a lui, spense il lume e, ritornato allasua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima.

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Adesso cominciava a vederci chiaro. Non poteva ser-virsi con dignità di quel testamento disonorante per lanonna nella forma e nella sostanza, nel sospetto che ge-nerava, considerata la lettera, di una soppressione delit-tuosa; poco onorevole anche per suo padre. No, mai.Conveniva dire al professore di bruciar tutto. Così, si-gnora nonna, trionferò di te, facendoti grazia della robae dell'onore senza curarmi di dirtelo! Assaporandosiquesto proposito, Franco si sentì quasi alzar da terra, re-spirò a pieni polmoni, contento di sé come un principe,illuminato e pacificato nell'anima da un sentimento mi-sto di generosità e d'orgoglio. Malgrado tutta la sua fedee le sue pratiche cristiane, egli era lontanissimo dal so-spettare che un tale sentimento non fosse interamentebuono e che una magnanimità meno conscia di se stessasarebbe stata più nobile.

Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, disposto,meglio che prima nol fosse, al riposo, pensando tran-quillamente alle cose lette, alle cose udite, come unoche per poco non si è lasciato prendere in una specula-zione rischiosa e ne considera le angustie, i guai evitatiper sempre. Avveniva pure in fondo all'anima sua unsommovimento di vecchie memorie. Gli tornò a mentela storia di un certo discorso fatto da una vecchia came-riera sulla ricchezza di casa Maironi che sarebbe statarubata ai poveri. Egli era bambino, allora, e la donnanon s'era fatto riguardo di parlare in presenza sua. Ma ilbambino ne aveva riportato una impressione profonda,

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Adesso cominciava a vederci chiaro. Non poteva ser-virsi con dignità di quel testamento disonorante per lanonna nella forma e nella sostanza, nel sospetto che ge-nerava, considerata la lettera, di una soppressione delit-tuosa; poco onorevole anche per suo padre. No, mai.Conveniva dire al professore di bruciar tutto. Così, si-gnora nonna, trionferò di te, facendoti grazia della robae dell'onore senza curarmi di dirtelo! Assaporandosiquesto proposito, Franco si sentì quasi alzar da terra, re-spirò a pieni polmoni, contento di sé come un principe,illuminato e pacificato nell'anima da un sentimento mi-sto di generosità e d'orgoglio. Malgrado tutta la sua fedee le sue pratiche cristiane, egli era lontanissimo dal so-spettare che un tale sentimento non fosse interamentebuono e che una magnanimità meno conscia di se stessasarebbe stata più nobile.

Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, disposto,meglio che prima nol fosse, al riposo, pensando tran-quillamente alle cose lette, alle cose udite, come unoche per poco non si è lasciato prendere in una specula-zione rischiosa e ne considera le angustie, i guai evitatiper sempre. Avveniva pure in fondo all'anima sua unsommovimento di vecchie memorie. Gli tornò a mentela storia di un certo discorso fatto da una vecchia came-riera sulla ricchezza di casa Maironi che sarebbe statarubata ai poveri. Egli era bambino, allora, e la donnanon s'era fatto riguardo di parlare in presenza sua. Ma ilbambino ne aveva riportato una impressione profonda,

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risvegliatagli più tardi, a mezza l'adolescenza, da un cer-to prete che gli avea raccontato in aria di segreto, consolennità e forse non senza intenzione, come la robaMaironi provenisse da una lite vinta, contro giustizia,all'Ospitale Maggiore di Milano.

«Così per me», pensò Franco, «tutto è ritornato al dia-volo.»

Gli venne in mente che potesse esser tardi, riaccese illume e guardò l'orologio. Erano le tre e mezzo. Oramaigli sarebbe stato impossibile di riposare. Era troppo vi-cino il momento di ritrovarsi con Luisa, la sua immagi-nazione era troppo accesa. Ancora un'ora e mezzo! Egliguardava l'orologio tutti i momenti; questo benedettotempo non passava mai. Prese un libro e non poté legge-re. Aperse la finestra; l'aria era mite, il silenzio profon-do, il lago chiaro verso il San Salvatore, il cielo stellato.A Oria si vedeva un lume. Il suo destino era forse di vi-vere colà, in casa dello zio. Si mise, guardando distratta-mente il punto luminoso, a immaginar l'avvenire, fanta-smi che sempre mutavano. Verso le quattro e mezzo udìun tocco di campanello al piano inferiore, e poco dopo,il Pinella venne ad avvertirlo a nome del padrone, che,se voleva far la salita del Boglia, era tempo di mettersiin cammino. Il padrone aveva un gran dolor di capo enon poteva muoversi, né riceverlo. Franco cercò sullascrivania un pezzo di carta e vi scrisse:

«Parce mihi, domine, quia brixiensis sum».

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risvegliatagli più tardi, a mezza l'adolescenza, da un cer-to prete che gli avea raccontato in aria di segreto, consolennità e forse non senza intenzione, come la robaMaironi provenisse da una lite vinta, contro giustizia,all'Ospitale Maggiore di Milano.

«Così per me», pensò Franco, «tutto è ritornato al dia-volo.»

Gli venne in mente che potesse esser tardi, riaccese illume e guardò l'orologio. Erano le tre e mezzo. Oramaigli sarebbe stato impossibile di riposare. Era troppo vi-cino il momento di ritrovarsi con Luisa, la sua immagi-nazione era troppo accesa. Ancora un'ora e mezzo! Egliguardava l'orologio tutti i momenti; questo benedettotempo non passava mai. Prese un libro e non poté legge-re. Aperse la finestra; l'aria era mite, il silenzio profon-do, il lago chiaro verso il San Salvatore, il cielo stellato.A Oria si vedeva un lume. Il suo destino era forse di vi-vere colà, in casa dello zio. Si mise, guardando distratta-mente il punto luminoso, a immaginar l'avvenire, fanta-smi che sempre mutavano. Verso le quattro e mezzo udìun tocco di campanello al piano inferiore, e poco dopo,il Pinella venne ad avvertirlo a nome del padrone, che,se voleva far la salita del Boglia, era tempo di mettersiin cammino. Il padrone aveva un gran dolor di capo enon poteva muoversi, né riceverlo. Franco cercò sullascrivania un pezzo di carta e vi scrisse:

«Parce mihi, domine, quia brixiensis sum».

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Poi uscì, fu accompagnato dal Pinella col lume fino alsottoportico tenebroso dove mette capo la strada di Ca-stello e scomparve.

La marchesa Orsola suonò il campanello alle sei emezzo e ordinò alla cameriera di portare il solito ciocco-latte. Ne inghiottì una buona metà e poi domandò contutta flemma a che ora don Franco fosse ritornato.

«Non è ritornato, signora marchesa.»Le viscere della vecchia dovettero turbarsi un poco, ma

neppure un muscolo del suo viso si mosse. Ella posò lelabbra sull'orlo della tazza di cioccolatte, guardò la ca-meriera e disse pacatamente:

«Portatemi uno di quei biscottini di ieri.»Verso le otto la cameriera ritornò per annunciarle che

don Franco era venuto e non aveva fatto che salire in ca-mera, pigliarvi il suo passaporto, ridiscendere e incari-care il cameriere di trovargli un barcaiuolo che lo con-ducesse a Lugano. La marchesa non fiatò, ma più tardimandò ad avvertire il suo confidente Pasotti che loaspettava. Pasotti capitò subito e si trattenne con lei unabuona mezz'ora. La dama voleva assolutamente saperedove e come suo nipote avesse passata la notte. Pasottiaveva già raccolte e poté offrire certe voci vaghe intornoa una visita notturna di don Franco in casa Rigey; ma sidesideravano notizie esatte e sicure. Il sagace Tartufo,

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Poi uscì, fu accompagnato dal Pinella col lume fino alsottoportico tenebroso dove mette capo la strada di Ca-stello e scomparve.

La marchesa Orsola suonò il campanello alle sei emezzo e ordinò alla cameriera di portare il solito ciocco-latte. Ne inghiottì una buona metà e poi domandò contutta flemma a che ora don Franco fosse ritornato.

«Non è ritornato, signora marchesa.»Le viscere della vecchia dovettero turbarsi un poco, ma

neppure un muscolo del suo viso si mosse. Ella posò lelabbra sull'orlo della tazza di cioccolatte, guardò la ca-meriera e disse pacatamente:

«Portatemi uno di quei biscottini di ieri.»Verso le otto la cameriera ritornò per annunciarle che

don Franco era venuto e non aveva fatto che salire in ca-mera, pigliarvi il suo passaporto, ridiscendere e incari-care il cameriere di trovargli un barcaiuolo che lo con-ducesse a Lugano. La marchesa non fiatò, ma più tardimandò ad avvertire il suo confidente Pasotti che loaspettava. Pasotti capitò subito e si trattenne con lei unabuona mezz'ora. La dama voleva assolutamente saperedove e come suo nipote avesse passata la notte. Pasottiaveva già raccolte e poté offrire certe voci vaghe intornoa una visita notturna di don Franco in casa Rigey; ma sidesideravano notizie esatte e sicure. Il sagace Tartufo,

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curioso per natura come un bracco che va fiutando tuttele puzze, ficcando il muso in tutti i buchi e strofinandoloa tutti i calzoni, promise di fornirle alla signora marche-sa dentro un paio di giorni, e se ne andò con gli occhiscintillanti, fregandosi le mani nell'aspettazione di unapiacevole caccia.

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curioso per natura come un bracco che va fiutando tuttele puzze, ficcando il muso in tutti i buchi e strofinandoloa tutti i calzoni, promise di fornirle alla signora marche-sa dentro un paio di giorni, e se ne andò con gli occhiscintillanti, fregandosi le mani nell'aspettazione di unapiacevole caccia.

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5.Il «bargnìf» all'opera

La mattina seguente, Pasotti, preso il caffè e latte e me-ditato il piano di caccia fino alle dieci e mezzo, fece ve-nire la signora Barborin, che dormiva in un'altra cameraperché al Controllore, ella lo chiamava umilmente così,dava noia il suo russare. «El ga reson», diceva la poverasorda, «l'è on gran malarbetto vizi che goo.» Ella era piùvecchia di suo marito, lo aveva sposato in seconde noz-ze, per tenerezza di cuore, portandogli alcuni quattrinicui egli aveva mirato da un pezzo e che ora si godeva. IlControllore le voleva bene a modo suo, la costringeva avisite, a gite in barca, a passeggiate sui monti, ch'eranoun supplizio per lei, si burlava della sua sordità, la man-dava fuori coperta di seta e di piume e in casa la facevalavorare come una fantesca. Malgrado tutto ella riverivae serviva «el Controlòr» come una schiava, con gran ti-more eppure non senza affetto. Quando non lo chiamava«el Controlòr» lo chiamava «Pasott». Mai non si permi-se appellativi più familiari.

Pasotti le ordinò a gesti, con una faccia dura da satra-po, di levar dal cassettone una camicia di bucato,dall'armadio un abito di mezza gala, da un canterano unpaio di stivali; e quando sua moglie, frugando di qua edi là, trepidando, voltandosi ogni momento per seguir

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5.Il «bargnìf» all'opera

La mattina seguente, Pasotti, preso il caffè e latte e me-ditato il piano di caccia fino alle dieci e mezzo, fece ve-nire la signora Barborin, che dormiva in un'altra cameraperché al Controllore, ella lo chiamava umilmente così,dava noia il suo russare. «El ga reson», diceva la poverasorda, «l'è on gran malarbetto vizi che goo.» Ella era piùvecchia di suo marito, lo aveva sposato in seconde noz-ze, per tenerezza di cuore, portandogli alcuni quattrinicui egli aveva mirato da un pezzo e che ora si godeva. IlControllore le voleva bene a modo suo, la costringeva avisite, a gite in barca, a passeggiate sui monti, ch'eranoun supplizio per lei, si burlava della sua sordità, la man-dava fuori coperta di seta e di piume e in casa la facevalavorare come una fantesca. Malgrado tutto ella riverivae serviva «el Controlòr» come una schiava, con gran ti-more eppure non senza affetto. Quando non lo chiamava«el Controlòr» lo chiamava «Pasott». Mai non si permi-se appellativi più familiari.

Pasotti le ordinò a gesti, con una faccia dura da satra-po, di levar dal cassettone una camicia di bucato,dall'armadio un abito di mezza gala, da un canterano unpaio di stivali; e quando sua moglie, frugando di qua edi là, trepidando, voltandosi ogni momento per seguir

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gli occhi e i gesti del padrone, pigliandosi spesso dellabestia e spalancando allora la bocca per cercar di udirela parola veduta, ebbe approntato ogni cosa, Pasotti cac-ciò le gambe dal letto e disse:

«Togli».La signora Barborin gli s'inginocchiò davanti e comin-

ciò a tirargli su le calze, mentre il Controllore, allungatala mano al tavolino da notte, si pigliò la tabacchiera e,apertala, continuò, con due dita affondate nel tabacco, lemeditazioni di prima. Intendeva di fare alcune visite diesplorazione, ma in quale ordine? A quanto gliene avevadetto il suo mezzadro, pareva che la Marianna del signorGiacomo Puttini e forse il signor Giacomo stesso doves-sero saper qualche cosa di don Franco; e qualche cosacerto se ne doveva sapere a Castello. Mentre la signoraBarborin gli allacciava il secondo legaccio, Pasotti si ri-cordò ch'era martedì. Il signor Giacomo andava ognimartedì con altri amici al mercato di Lugano e più pro-priamente alla trattoria del Lordo, con lo scopo di inter-polare un bicchiere settimanale di vin pretto al vin Gri-melli quotidiano; e ritornava spesso a casa in una dispo-sizione affettuosa e sincera. Conveniva dunque andareda lui sul tardi, fra le quattro e le cinque. Pasotti si figu-rava già di tenerselo fra le unghie, di maneggiarlo a suaposta. Alzò le dita dalla tabacchiera con un sorriso mali-gno, e scosso giù, a colpettini misurati, il soverchio del-la presa, se la fiutò a suo grande agio, si fece dar il faz-zoletto dalla moglie e la ricompensò borbottando con

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gli occhi e i gesti del padrone, pigliandosi spesso dellabestia e spalancando allora la bocca per cercar di udirela parola veduta, ebbe approntato ogni cosa, Pasotti cac-ciò le gambe dal letto e disse:

«Togli».La signora Barborin gli s'inginocchiò davanti e comin-

ciò a tirargli su le calze, mentre il Controllore, allungatala mano al tavolino da notte, si pigliò la tabacchiera e,apertala, continuò, con due dita affondate nel tabacco, lemeditazioni di prima. Intendeva di fare alcune visite diesplorazione, ma in quale ordine? A quanto gliene avevadetto il suo mezzadro, pareva che la Marianna del signorGiacomo Puttini e forse il signor Giacomo stesso doves-sero saper qualche cosa di don Franco; e qualche cosacerto se ne doveva sapere a Castello. Mentre la signoraBarborin gli allacciava il secondo legaccio, Pasotti si ri-cordò ch'era martedì. Il signor Giacomo andava ognimartedì con altri amici al mercato di Lugano e più pro-priamente alla trattoria del Lordo, con lo scopo di inter-polare un bicchiere settimanale di vin pretto al vin Gri-melli quotidiano; e ritornava spesso a casa in una dispo-sizione affettuosa e sincera. Conveniva dunque andareda lui sul tardi, fra le quattro e le cinque. Pasotti si figu-rava già di tenerselo fra le unghie, di maneggiarlo a suaposta. Alzò le dita dalla tabacchiera con un sorriso mali-gno, e scosso giù, a colpettini misurati, il soverchio del-la presa, se la fiutò a suo grande agio, si fece dar il faz-zoletto dalla moglie e la ricompensò borbottando con

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una faccia benigna, nel raggomitolar il fazzoletto: «Po-vera donna! Povera diavola!»

Infilato e abbottonato l'abito dopo mezz'ora di lavoro,esclamò sul serio: «Corpo, che fatica!», e andò allospecchio. Sua moglie osò di allora svignarsela alla sor-da, sì, ma non alla muta, e disse timidamente:

«Vado, neh?»Pasotti si voltò accigliato, imperioso, le accennò col

dito di venir da lui e le disegnò sopra e intorno alla per-sona, con quattro colpi di mimica, un cappello e unoscialle. Ella lo guardava a bocca aperta, non capiva; glipuntò l'indice al petto, interrogandolo con gli occhi, conle sopracciglia inarcate, come se dubitasse che questaroba occorresse a lui; al che Pasotti rispose allo stessomodo con tre puntate d'indice: «tu, tu, tu». Poi, menan-do in taglio la mano distesa, le significò che dovevauscir di casa con lui. Ella ebbe due o tre sussulti di sor-presa e di protesta, allargò gli occhi smisuratamente edomandò con quella voce che pareva venire dalla canti-na:

«Dove?»Il Controllore non rispose che con un'occhiata fulmi-

nea e un gesto: marche! Non voleva dare altre spiega-zioni.

La signora Barborin si dibatté ancora un poco.«Non ho ancora fatto colazione», diss'ella. Suo marito

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una faccia benigna, nel raggomitolar il fazzoletto: «Po-vera donna! Povera diavola!»

Infilato e abbottonato l'abito dopo mezz'ora di lavoro,esclamò sul serio: «Corpo, che fatica!», e andò allospecchio. Sua moglie osò di allora svignarsela alla sor-da, sì, ma non alla muta, e disse timidamente:

«Vado, neh?»Pasotti si voltò accigliato, imperioso, le accennò col

dito di venir da lui e le disegnò sopra e intorno alla per-sona, con quattro colpi di mimica, un cappello e unoscialle. Ella lo guardava a bocca aperta, non capiva; glipuntò l'indice al petto, interrogandolo con gli occhi, conle sopracciglia inarcate, come se dubitasse che questaroba occorresse a lui; al che Pasotti rispose allo stessomodo con tre puntate d'indice: «tu, tu, tu». Poi, menan-do in taglio la mano distesa, le significò che dovevauscir di casa con lui. Ella ebbe due o tre sussulti di sor-presa e di protesta, allargò gli occhi smisuratamente edomandò con quella voce che pareva venire dalla canti-na:

«Dove?»Il Controllore non rispose che con un'occhiata fulmi-

nea e un gesto: marche! Non voleva dare altre spiega-zioni.

La signora Barborin si dibatté ancora un poco.«Non ho ancora fatto colazione», diss'ella. Suo marito

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la prese per le spalle e, tiratala a sé, le gridò in bocca:«La farai dopo».Solo ad Albogasio Inferiore, sul sagrato dell'Annunzia-

ta, le fece sapere, indicando il luogo con la mazza, cheandavano a Cadate, alla deserta vecchia casa signorilepiantata nel lago fra Casarico ed Albogasio e detta po-polarmente «el Palazz» dove vivevano solitari, nellestanzette dell'ultimo piano, il prete don Giuseppe Costa-barbieri e la sua serva Maria, detta la Maria del Palazz.Pasotti che li conosceva pronti ambedue a tender gliorecchi ma cauti assai nel parlare, desiderava tastarliuno per volta, senza parere, e, se trovasse molle, dareuna strizzatina. Aveva preso seco la moglie perché gligiovasse in questa delicata bisogna dell'uno per volta; elei, povera innocentona, gli trotterellava dietro a passet-tini corti giù pei centoventinove scalini che chiamano laCalcinera, senza sospetto della perfida parte che avrebbefatto.

Il lago era quieto come un olio e don Giuseppe, un belpretazzuolo, piccolo, grosso, dai capelli bianchi e dallafaccia vermiglia, dagli occhietti lucenti, se ne stavapresso al fico del suo giardino con un cappello di paglianero in capo e un fazzoletto bianco al collo, a pescare icavedini, certi cavedinacci di libbra, vecchioni e furbac-chioni, che si vedevano aggirarsi lì sotto per amor de' fi-chi, lenti lenti, curiosi e cauti come il prete e la serva.Costei, chi sa dove fosse. Pasotti, trovata aperta la porta

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la prese per le spalle e, tiratala a sé, le gridò in bocca:«La farai dopo».Solo ad Albogasio Inferiore, sul sagrato dell'Annunzia-

ta, le fece sapere, indicando il luogo con la mazza, cheandavano a Cadate, alla deserta vecchia casa signorilepiantata nel lago fra Casarico ed Albogasio e detta po-polarmente «el Palazz» dove vivevano solitari, nellestanzette dell'ultimo piano, il prete don Giuseppe Costa-barbieri e la sua serva Maria, detta la Maria del Palazz.Pasotti che li conosceva pronti ambedue a tender gliorecchi ma cauti assai nel parlare, desiderava tastarliuno per volta, senza parere, e, se trovasse molle, dareuna strizzatina. Aveva preso seco la moglie perché gligiovasse in questa delicata bisogna dell'uno per volta; elei, povera innocentona, gli trotterellava dietro a passet-tini corti giù pei centoventinove scalini che chiamano laCalcinera, senza sospetto della perfida parte che avrebbefatto.

Il lago era quieto come un olio e don Giuseppe, un belpretazzuolo, piccolo, grosso, dai capelli bianchi e dallafaccia vermiglia, dagli occhietti lucenti, se ne stavapresso al fico del suo giardino con un cappello di paglianero in capo e un fazzoletto bianco al collo, a pescare icavedini, certi cavedinacci di libbra, vecchioni e furbac-chioni, che si vedevano aggirarsi lì sotto per amor de' fi-chi, lenti lenti, curiosi e cauti come il prete e la serva.Costei, chi sa dove fosse. Pasotti, trovata aperta la porta

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di strada, entrò, chiamò don Giuseppe, chiamò Maria.Poiché nessuno rispondeva, piantò sua moglie sopra unaseggiola e discese in giardino, andò diritto al fico dovedon Giuseppe, al vederlo, fu preso da un accesso di con-vulsioni cerimoniose. Buttò via la canna da pescare e gliandò incontro vociferando: «Oh Signor, oh Signor! Ohpoer a mi! In sto stat chì! Car el me scior Controlòr!Andem sü! Andem sü! Car el me scior Controlòr! In stostat chì! Ch'el scüsa tant, neh? Ch'el scüsa tant!». MaPasotti non voleva saperne di «andar su»; voleva a forzarestar lì. Don Giuseppe si mise a vociare: «Maria! Ma-ria!». Ecco il faccione della Maria ad un finestrinodell'ultimo piano.

Don Giuseppe le gridò di portar giù una seggiola. Allo-ra il signor Controllore rivelò la presenza di sua moglie,onde il faccione scomparve e don Giuseppe ebbe un al-tro accesso.

«Comè? Comè? La sciora Barborin? L'è chì? Ah Si-gnor! Andem sü!» E si mosse con un impeto di osse-quio, ma Pasotti lo ridusse all'obbedienza, prima tratte-nendolo addirittura per le braccia e poi protestando divolergli veder prendere due o tre di quei mostri di cave-dini; e don Giuseppe, per quanto protestasse alla suavolta: «Oh dess! Se ciapa nient! Hin baloss! Hin cave-den! ga veden!», dovette gittar l'amo. Pasotti finse sulleprime di star attento e poi gittò egli pure il suo.

Cominciò con domandare a don Giuseppe da quanto

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di strada, entrò, chiamò don Giuseppe, chiamò Maria.Poiché nessuno rispondeva, piantò sua moglie sopra unaseggiola e discese in giardino, andò diritto al fico dovedon Giuseppe, al vederlo, fu preso da un accesso di con-vulsioni cerimoniose. Buttò via la canna da pescare e gliandò incontro vociferando: «Oh Signor, oh Signor! Ohpoer a mi! In sto stat chì! Car el me scior Controlòr!Andem sü! Andem sü! Car el me scior Controlòr! In stostat chì! Ch'el scüsa tant, neh? Ch'el scüsa tant!». MaPasotti non voleva saperne di «andar su»; voleva a forzarestar lì. Don Giuseppe si mise a vociare: «Maria! Ma-ria!». Ecco il faccione della Maria ad un finestrinodell'ultimo piano.

Don Giuseppe le gridò di portar giù una seggiola. Allo-ra il signor Controllore rivelò la presenza di sua moglie,onde il faccione scomparve e don Giuseppe ebbe un al-tro accesso.

«Comè? Comè? La sciora Barborin? L'è chì? Ah Si-gnor! Andem sü!» E si mosse con un impeto di osse-quio, ma Pasotti lo ridusse all'obbedienza, prima tratte-nendolo addirittura per le braccia e poi protestando divolergli veder prendere due o tre di quei mostri di cave-dini; e don Giuseppe, per quanto protestasse alla suavolta: «Oh dess! Se ciapa nient! Hin baloss! Hin cave-den! ga veden!», dovette gittar l'amo. Pasotti finse sulleprime di star attento e poi gittò egli pure il suo.

Cominciò con domandare a don Giuseppe da quanto

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tempo non fosse andato a Castello. Udito che vi era sta-to il giorno prima a salutar l'amico curato Introini, ilbuon Tartufo, che non poteva soffrire l'Introini, si mise afarne il panegirico. Che perla quel curato di Castello!Che cuor d'oro! E a casa Rigey c'era andato, don Giu-seppe? No, la signora Teresa stava troppo male. Altripanegirici, della signora Teresa e di Luisa. Che rarecreature! Che saggezza, che nobiltà, che sentimento! El'affare Maironi? Andava avanti, non è vero? Moltoavanti?

«So nient so nient so nient!», fece bruscamente donGiuseppe.

A quel precipitoso negare, gli occhi di Pasotti brillaro-no. Egli fece un passo avanti. Era impossibile che donGiuseppe non sapesse niente, diavolo! Era impossibileche non avesse parlato di ciò con l'Introini! Non lo sape-va l'Introini, che don Franco aveva passato la notte incasa Rigey?

«So nient», ripeté don Giuseppe.Pasotti sentenziò allora che il voler nascondere certe

cose note era un far pensar male. Diamine! Don Francoera certamente andato in casa Rigey con fini onestissimie...

«Pécia, pécia, pécia!», fece sottovoce, frettolosamente,don Giuseppe curvandosi tutto sul parapetto, stringendola canna della lenza e ficcando gli occhi nell'acqua comese un pesce fosse per abboccare. «Pécia!»

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tempo non fosse andato a Castello. Udito che vi era sta-to il giorno prima a salutar l'amico curato Introini, ilbuon Tartufo, che non poteva soffrire l'Introini, si mise afarne il panegirico. Che perla quel curato di Castello!Che cuor d'oro! E a casa Rigey c'era andato, don Giu-seppe? No, la signora Teresa stava troppo male. Altripanegirici, della signora Teresa e di Luisa. Che rarecreature! Che saggezza, che nobiltà, che sentimento! El'affare Maironi? Andava avanti, non è vero? Moltoavanti?

«So nient so nient so nient!», fece bruscamente donGiuseppe.

A quel precipitoso negare, gli occhi di Pasotti brillaro-no. Egli fece un passo avanti. Era impossibile che donGiuseppe non sapesse niente, diavolo! Era impossibileche non avesse parlato di ciò con l'Introini! Non lo sape-va l'Introini, che don Franco aveva passato la notte incasa Rigey?

«So nient», ripeté don Giuseppe.Pasotti sentenziò allora che il voler nascondere certe

cose note era un far pensar male. Diamine! Don Francoera certamente andato in casa Rigey con fini onestissimie...

«Pécia, pécia, pécia!», fece sottovoce, frettolosamente,don Giuseppe curvandosi tutto sul parapetto, stringendola canna della lenza e ficcando gli occhi nell'acqua comese un pesce fosse per abboccare. «Pécia!»

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Pasotti guardò anche lui nell'acqua, seccato, e disse chenon vedeva niente.

«El se l'è cavada, el pütasca, ma el gaveva propri su elmüson; l'avarà sentì a spongg», fece sospirando e rad-drizzandosi don Giuseppe che intanto, avendo sentitoegli pure il punger dell'amo, cercava di cavarsela comeil pesce.

L'altro ritornò all'assalto, ma invano. Don Giuseppenon aveva veduto niente, non aveva udito niente, nonaveva parlato di niente, non sapeva niente. Pasotti tac-que e il prete non tardò molto a metter fuori anche luiuna punta di timida malizia:

«Bochen propi minga, incoeu, non boccano; gh'è comevent in aria».

Intanto, in casa, il dialogo fra la Maria e la signoraBarborin, dopo il primo affettuoso scambio di saluti riu-scito benissimo, procedeva malissimo. La Maria propo-se, a gesti, di scendere in giardino, ma la Pasotti imploròa mani giunte d'esser lasciata sulla sua seggiola. Allorala grossa Maria prese un'altra seggiola, le si pose accan-to, cercò rivolgerle qualche parola, e non arrivando, perquanto vociasse, a farsi intendere, vi rinunciò, si prese ilsuo gattone in grembo e parlò a quello.

La povera signora Barborin, rassegnata, guardava ilgatto con i suoi grandi occhioni neri, velati di vecchiaiae tristezza. Ecco finalmente Pasotti, ecco don Giuseppeche ricomincia a sbuffare:

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Pasotti guardò anche lui nell'acqua, seccato, e disse chenon vedeva niente.

«El se l'è cavada, el pütasca, ma el gaveva propri su elmüson; l'avarà sentì a spongg», fece sospirando e rad-drizzandosi don Giuseppe che intanto, avendo sentitoegli pure il punger dell'amo, cercava di cavarsela comeil pesce.

L'altro ritornò all'assalto, ma invano. Don Giuseppenon aveva veduto niente, non aveva udito niente, nonaveva parlato di niente, non sapeva niente. Pasotti tac-que e il prete non tardò molto a metter fuori anche luiuna punta di timida malizia:

«Bochen propi minga, incoeu, non boccano; gh'è comevent in aria».

Intanto, in casa, il dialogo fra la Maria e la signoraBarborin, dopo il primo affettuoso scambio di saluti riu-scito benissimo, procedeva malissimo. La Maria propo-se, a gesti, di scendere in giardino, ma la Pasotti imploròa mani giunte d'esser lasciata sulla sua seggiola. Allorala grossa Maria prese un'altra seggiola, le si pose accan-to, cercò rivolgerle qualche parola, e non arrivando, perquanto vociasse, a farsi intendere, vi rinunciò, si prese ilsuo gattone in grembo e parlò a quello.

La povera signora Barborin, rassegnata, guardava ilgatto con i suoi grandi occhioni neri, velati di vecchiaiae tristezza. Ecco finalmente Pasotti, ecco don Giuseppeche ricomincia a sbuffare:

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«Ah Signor! Cara la mia sciora Barborin! Che la scüsatant!» Avendo la Maria confessato al «scior Controlòr»che sua moglie e lei non erano riuscite a capirsi, il pa-drone le diede, per ossequio alla Pasotti, del «salamm» epoiché ella voleva pur difendersi, la fece prudentementechetare con un imperioso agitar di mano e un «ta ta tata!». Poi le accennò misteriosamente del capo ed ellauscì. Pasotti le tenne dietro e le disse che sua moglie,dovendo recarsi a visitare i Rigey e non sapendo, per levoci che correvano, come regolarsi, desiderava qualcheinformazione dalla Maria, perché «la Maria sa sempretutto».

«Quante chiacchiere!», fece la Maria, lusingata. «Ionon so mai niente. Sa da chi deve andare la Sua "scio-ra"? Dal signor Giacomo Puttini. È il signor Giacomoche le sa tutte.»

«Bene!», pensò Pasotti collegando questo discorso conquello del mezzadro e fiutando una buona traccia. Fecein pari tempo una spallata d'incredulità. Il signor Giaco-mo sapeva forse le cose che succedevano nel mondodella luna, ma basta; altro non sapeva mai! La Maria in-sistette, il volpone cominciò a lavorar di domande, allalontana, con cautela, ma trovò duro, capì ch'era faticagittata e che doveva accontentarsi di quell'accenno. Al-lora tacque, ritornò, tra soddisfatto e preoccupato, nellastanza dove don Giuseppe stava spiegando alla signoraBarborin, con gesti appropriati, che la Maria le avrebbeportato qualche cosa da mangiare. La donna comparve

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«Ah Signor! Cara la mia sciora Barborin! Che la scüsatant!» Avendo la Maria confessato al «scior Controlòr»che sua moglie e lei non erano riuscite a capirsi, il pa-drone le diede, per ossequio alla Pasotti, del «salamm» epoiché ella voleva pur difendersi, la fece prudentementechetare con un imperioso agitar di mano e un «ta ta tata!». Poi le accennò misteriosamente del capo ed ellauscì. Pasotti le tenne dietro e le disse che sua moglie,dovendo recarsi a visitare i Rigey e non sapendo, per levoci che correvano, come regolarsi, desiderava qualcheinformazione dalla Maria, perché «la Maria sa sempretutto».

«Quante chiacchiere!», fece la Maria, lusingata. «Ionon so mai niente. Sa da chi deve andare la Sua "scio-ra"? Dal signor Giacomo Puttini. È il signor Giacomoche le sa tutte.»

«Bene!», pensò Pasotti collegando questo discorso conquello del mezzadro e fiutando una buona traccia. Fecein pari tempo una spallata d'incredulità. Il signor Giaco-mo sapeva forse le cose che succedevano nel mondodella luna, ma basta; altro non sapeva mai! La Maria in-sistette, il volpone cominciò a lavorar di domande, allalontana, con cautela, ma trovò duro, capì ch'era faticagittata e che doveva accontentarsi di quell'accenno. Al-lora tacque, ritornò, tra soddisfatto e preoccupato, nellastanza dove don Giuseppe stava spiegando alla signoraBarborin, con gesti appropriati, che la Maria le avrebbeportato qualche cosa da mangiare. La donna comparve

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infatti con un certo vaso quadrato di vetro, pieno di ci-liege allo spirito, speciale e celebrata cura di don Giu-seppe che soleva presentarlo agli ospiti con solennità,parlando il suo particolare italiano: «Posso fare un pocodi sporgimento? Quattro delle mie ciliege? Magara conun tocchello di pane? Maria, tajee giò on poo de pan».

La signora Barborin pigliò solamente il pane per consi-glio del mefistofelico marito che pigliò solamente le ci-liege. Poi se ne andarono insieme ed ella ebbe licenza diritornare ad Albogasio mentre il Controllore prese la viadi casa Gilardoni.

«L'è on bargnìf, el scior Pasotti», disse la Mariaquand'ebbe dato il chiavistello all'uscio di strada.

«L'è on bargnifòn, minga on bargnìf», esclamò donGiuseppe, pensando all'amo. E con quell'appellativo di«bargnìf» che designa il diavolo considerato nella suaastuzia, le due mansuete creature si sfogarono, si ripaga-rono di tanta roba data malvolentieri, cerimonie, sorrisie ciliege.

Il professor Gilardoni stava leggendo sul suo belvederedell'orto, quando vide Pasotti che veniva dietro il Pinel-la, fra le rape e le barbabietole. Non sentiva simpatia peril Controllore col quale aveva scambiato un paio di visi-te in tutto e che aveva fama di «tedescone». Però, essen-do inclinato a pensar bene di tutti coloro che conoscevapoco, non gli pesava usare anche con lui la cortesia cor-

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infatti con un certo vaso quadrato di vetro, pieno di ci-liege allo spirito, speciale e celebrata cura di don Giu-seppe che soleva presentarlo agli ospiti con solennità,parlando il suo particolare italiano: «Posso fare un pocodi sporgimento? Quattro delle mie ciliege? Magara conun tocchello di pane? Maria, tajee giò on poo de pan».

La signora Barborin pigliò solamente il pane per consi-glio del mefistofelico marito che pigliò solamente le ci-liege. Poi se ne andarono insieme ed ella ebbe licenza diritornare ad Albogasio mentre il Controllore prese la viadi casa Gilardoni.

«L'è on bargnìf, el scior Pasotti», disse la Mariaquand'ebbe dato il chiavistello all'uscio di strada.

«L'è on bargnifòn, minga on bargnìf», esclamò donGiuseppe, pensando all'amo. E con quell'appellativo di«bargnìf» che designa il diavolo considerato nella suaastuzia, le due mansuete creature si sfogarono, si ripaga-rono di tanta roba data malvolentieri, cerimonie, sorrisie ciliege.

Il professor Gilardoni stava leggendo sul suo belvederedell'orto, quando vide Pasotti che veniva dietro il Pinel-la, fra le rape e le barbabietole. Non sentiva simpatia peril Controllore col quale aveva scambiato un paio di visi-te in tutto e che aveva fama di «tedescone». Però, essen-do inclinato a pensar bene di tutti coloro che conoscevapoco, non gli pesava usare anche con lui la cortesia cor-

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diale ch'era solito usar con tutti. Gli andò incontro colsuo berretto di velluto in mano, e dopo una scaramucciadi complimenti in cui Pasotti ebbe facilmente la meglio,ritornò insieme a costui sul belvedere.

Pasotti, dal canto suo, sentiva per il professore Gilar-doni un'antipatia profonda, non tanto perché lo sapesseliberale, quanto perché il Gilardoni, quantunque non an-dasse a messa come lui, viveva da puritano, non amavala tavola né la bottiglia né il tabacco né certi discorsi li-beri, e non giuocava a tarocchi. Discorrendo una seranell'orto con don Franco delle solenni scorpacciate etrincate che Pasotti e gli amici suoi facevano spesso allecantine di Bisgnago, il professore aveva detta una parolasevera ed era stato udito dal curatone, uno dei mangiato-ri, che passava in barca rasente i muri, piano piano, pe-scando. «Villanaccio!», aveva esclamato, all'udirselo ri-ferire, il Controllore gentilissimo con una faccia da«bargnìf» bilioso; aveva poi fatto tener dietro alla parolaun ringhio spregiativo e uno sputo. Ciò non gl'impedìperò adesso di stemperarsi in iscuse per aver indebita-mente ritardata la sua visita, come non gl'impedì di sbir-ciar subito il volume posato sul tavolino rustico del bel-vedere. Il Gilardoni notò quell'occhiata e siccome sitrattava di un libro proibito dal Governo, appena avviatala conversazione, lo prese quasi per istinto e se lo tennesulle ginocchia in modo che colui non potesse leggerneil titolo. Questa precauzione turbò Pasotti che stava ma-gnificando la villetta e l'orto in tutte le loro parti col

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diale ch'era solito usar con tutti. Gli andò incontro colsuo berretto di velluto in mano, e dopo una scaramucciadi complimenti in cui Pasotti ebbe facilmente la meglio,ritornò insieme a costui sul belvedere.

Pasotti, dal canto suo, sentiva per il professore Gilar-doni un'antipatia profonda, non tanto perché lo sapesseliberale, quanto perché il Gilardoni, quantunque non an-dasse a messa come lui, viveva da puritano, non amavala tavola né la bottiglia né il tabacco né certi discorsi li-beri, e non giuocava a tarocchi. Discorrendo una seranell'orto con don Franco delle solenni scorpacciate etrincate che Pasotti e gli amici suoi facevano spesso allecantine di Bisgnago, il professore aveva detta una parolasevera ed era stato udito dal curatone, uno dei mangiato-ri, che passava in barca rasente i muri, piano piano, pe-scando. «Villanaccio!», aveva esclamato, all'udirselo ri-ferire, il Controllore gentilissimo con una faccia da«bargnìf» bilioso; aveva poi fatto tener dietro alla parolaun ringhio spregiativo e uno sputo. Ciò non gl'impedìperò adesso di stemperarsi in iscuse per aver indebita-mente ritardata la sua visita, come non gl'impedì di sbir-ciar subito il volume posato sul tavolino rustico del bel-vedere. Il Gilardoni notò quell'occhiata e siccome sitrattava di un libro proibito dal Governo, appena avviatala conversazione, lo prese quasi per istinto e se lo tennesulle ginocchia in modo che colui non potesse leggerneil titolo. Questa precauzione turbò Pasotti che stava ma-gnificando la villetta e l'orto in tutte le loro parti col

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tono appropriato a ciascuna, le barbabietole con amabilefamiliarità, le agavi con ammirazione grave e accigliata.Un lampo di sdegno gli brillò negli occhi e si spense su-bito.

«Fortunato Lei!», diss'egli sospirando. «Se i miei affarilo permettessero, vorrei vivere anch'io in Valsolda.»

«È un paese di pace», fece il professore.«Sì, è un paese di pace; e poi adesso, nelle città, chi ha

servito il Governo, è inutile, non si trova bene. La gentenon sa distinguere fra un buon impiegato che si occupisolamente del proprio ufficio come ho fatto io, e un po-liziotto. Siamo esposti a certi sospetti, a certe umiliazio-ni...»

Il professore diventò rosso e si pentì d'aver levato il li-bro dal tavolino. Davvero Pasotti, malgrado le suesmancerie di umiltà, era troppo orgoglioso per far mai laspia, e sia per questo, sia per qualche buona fibra delsuo cuore, mai non la fece. Vi fu dunque nelle sue paro-le un grammo di sincerità, un grammo d'oro che bastò adar loro il suono del buon metallo. Il Gilardoni ne futocco, offerse al suo visitatore un bicchier di birra e siaffrettò a scendere in cerca di Pinella onde aver un pre-testo di lasciar il volume sul tavolino.

Appena partito il professore, Pasotti ghermì il libro, glidiede una curiosa occhiata, lo rimise a posto e si piantòin capo alla scala con la tabacchiera aperta in mano, fru-gando nel tabacco e sorridendo, tra l'ammirazione e la

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tono appropriato a ciascuna, le barbabietole con amabilefamiliarità, le agavi con ammirazione grave e accigliata.Un lampo di sdegno gli brillò negli occhi e si spense su-bito.

«Fortunato Lei!», diss'egli sospirando. «Se i miei affarilo permettessero, vorrei vivere anch'io in Valsolda.»

«È un paese di pace», fece il professore.«Sì, è un paese di pace; e poi adesso, nelle città, chi ha

servito il Governo, è inutile, non si trova bene. La gentenon sa distinguere fra un buon impiegato che si occupisolamente del proprio ufficio come ho fatto io, e un po-liziotto. Siamo esposti a certi sospetti, a certe umiliazio-ni...»

Il professore diventò rosso e si pentì d'aver levato il li-bro dal tavolino. Davvero Pasotti, malgrado le suesmancerie di umiltà, era troppo orgoglioso per far mai laspia, e sia per questo, sia per qualche buona fibra delsuo cuore, mai non la fece. Vi fu dunque nelle sue paro-le un grammo di sincerità, un grammo d'oro che bastò adar loro il suono del buon metallo. Il Gilardoni ne futocco, offerse al suo visitatore un bicchier di birra e siaffrettò a scendere in cerca di Pinella onde aver un pre-testo di lasciar il volume sul tavolino.

Appena partito il professore, Pasotti ghermì il libro, glidiede una curiosa occhiata, lo rimise a posto e si piantòin capo alla scala con la tabacchiera aperta in mano, fru-gando nel tabacco e sorridendo, tra l'ammirazione e la

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beatitudine, ai monti, al lago, al cielo. Il libro era unGiusti, stampato colla falsa data di Bruxelles, anzi diBrusselle e con il titolo Poesie italiane tratte da unastampa a penna. In un angolo del frontespizio si leggevascritto per isghembo: «Mariano Fornic». Non occorreval'acume di Pasotti per indovinar subito in quel nome ete-roclito l'anagramma di Franco Maironi.

«Che bellezza! Che paradiso!», diss'egli a mezza vocementre il professore saliva la scala seguito dal Pinellacon la birra.

Confessò poi, tra un sorso e l'altro, che la sua visita eraun pochino interessata. Si disse innamorato della mura-glia fiorita che sosteneva l'orto Gilardoni a fronte dellago, e desideroso di imitarla ad Albogasio Superioredove, se il lago mancava, i muri nudi eran troppi. Comes'era procurato il professore quelle agavi, quei capperi,quelle rose?

«Ma!», rispose candidamente il professore. «Me li hadonati Maironi.»

«Don Franco?», esclamò Pasotti. «Benissimo. Allora,siccome don Franco ha molta bontà per me, mi rivolge-rò a lui.»

E trasse la tabacchiera. «Povero don Franco!»,diss'egli, guardando il tabacco e palpandolo con la tene-rezza di un bargnìf commosso. «Povero figliuolo! Qual-che volta si riscalda ma è un gran buon figliuolo! Granbel cuore! Povero figliuolo! Lei lo vede spesso?»

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beatitudine, ai monti, al lago, al cielo. Il libro era unGiusti, stampato colla falsa data di Bruxelles, anzi diBrusselle e con il titolo Poesie italiane tratte da unastampa a penna. In un angolo del frontespizio si leggevascritto per isghembo: «Mariano Fornic». Non occorreval'acume di Pasotti per indovinar subito in quel nome ete-roclito l'anagramma di Franco Maironi.

«Che bellezza! Che paradiso!», diss'egli a mezza vocementre il professore saliva la scala seguito dal Pinellacon la birra.

Confessò poi, tra un sorso e l'altro, che la sua visita eraun pochino interessata. Si disse innamorato della mura-glia fiorita che sosteneva l'orto Gilardoni a fronte dellago, e desideroso di imitarla ad Albogasio Superioredove, se il lago mancava, i muri nudi eran troppi. Comes'era procurato il professore quelle agavi, quei capperi,quelle rose?

«Ma!», rispose candidamente il professore. «Me li hadonati Maironi.»

«Don Franco?», esclamò Pasotti. «Benissimo. Allora,siccome don Franco ha molta bontà per me, mi rivolge-rò a lui.»

E trasse la tabacchiera. «Povero don Franco!»,diss'egli, guardando il tabacco e palpandolo con la tene-rezza di un bargnìf commosso. «Povero figliuolo! Qual-che volta si riscalda ma è un gran buon figliuolo! Granbel cuore! Povero figliuolo! Lei lo vede spesso?»

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«Sì, abbastanza.»«Almeno potesse riuscire nei suoi desideri, povero fi-

gliuolo! Lo dico per lui e anche per lei! Non sarà micauna cosa sfumata?»

Pasotti disse questa interrogazione da grande artista,con interesse affettuoso ma discreto, senza esprimerepiù curiosità che non convenisse, volendo ungere e am-mollire un poco il cuore chiuso del Gilardoni onde siaprisse, poco a poco, da sé. Ma il cuore del Gilardoni,invece di aprirsi a quel tocco delicato, si contrasse, sirinchiuse.

«Non lo so», rispose il professore sentendosi, con di-spetto, diventar rosso; e diventò scarlatto. Pasotti notòsubito nel suo taccuino mentale la risposta imbarazzatae il colore. «Farebbe male», diss'egli, «ad abbandonarela partita. La marchesa si capisce che abbia delle diffi-coltà, ma poi è buona, gli vuole un gran bene. Ha presouna paura, l'altra notte, povera donna!»

Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, epensò: non parli? allora sai. «Capisce!», riprese. «Nondire dove si va! Non Le pare?»

«Ma io non so niente, io non capisco niente!», esclamòil Gilardoni, sempre più accigliato, sempre più inquieto.

Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato dalungo tempo di visitare le Rigey e ignorandone la cagio-ne, arrischiò un passo avanti, da bargnìf novizio.

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«Sì, abbastanza.»«Almeno potesse riuscire nei suoi desideri, povero fi-

gliuolo! Lo dico per lui e anche per lei! Non sarà micauna cosa sfumata?»

Pasotti disse questa interrogazione da grande artista,con interesse affettuoso ma discreto, senza esprimerepiù curiosità che non convenisse, volendo ungere e am-mollire un poco il cuore chiuso del Gilardoni onde siaprisse, poco a poco, da sé. Ma il cuore del Gilardoni,invece di aprirsi a quel tocco delicato, si contrasse, sirinchiuse.

«Non lo so», rispose il professore sentendosi, con di-spetto, diventar rosso; e diventò scarlatto. Pasotti notòsubito nel suo taccuino mentale la risposta imbarazzatae il colore. «Farebbe male», diss'egli, «ad abbandonarela partita. La marchesa si capisce che abbia delle diffi-coltà, ma poi è buona, gli vuole un gran bene. Ha presouna paura, l'altra notte, povera donna!»

Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, epensò: non parli? allora sai. «Capisce!», riprese. «Nondire dove si va! Non Le pare?»

«Ma io non so niente, io non capisco niente!», esclamòil Gilardoni, sempre più accigliato, sempre più inquieto.

Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato dalungo tempo di visitare le Rigey e ignorandone la cagio-ne, arrischiò un passo avanti, da bargnìf novizio.

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«Bisognerebbe domandarne a Castello», diss'egli conun sorriso malignetto.

A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò.«Mi faccia il piacere», diss'egli impetuosamente, «la-

sciamo stare questo discorso, lasciamo stare questo di-scorso!»

Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato,non era però mai disposto, nell'orgoglio suo, a prendersipacificamente in faccia una parola spiacevole, e s'imper-maliva d'ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio diminuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritiròmasticando rabbia attraverso le barbabietole e le rape.Quando si trovò da capo nella contrada dei Mal'ari, ilbargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano,poi si avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, mol-to curvo, ma con gli occhi brillanti del barbone che hafiutato in aria l'indirizzo recondito di un tartufo. Le spa-ventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate dellaMaria, l'imbarazzo e lo scatto del professore gli diceva-no che il tartufo c'era e grosso. Gli era venuta l'idea diandare a Loggio dove abitavano il Paolin e il Paolon,gente bene informata; poi aveva pensato ch'era martedìe che probabilmente non li avrebbe trovati. No, era me-glio salir direttamente da Casarico a Castello, fiutare efrugare nell'abitazione di certa signora Cecca, ottimadonna, tutta cuore, famosa per l'assidua vigilanza cheesercitava dalle sue finestre, per mezzo di un formidabi-

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«Bisognerebbe domandarne a Castello», diss'egli conun sorriso malignetto.

A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò.«Mi faccia il piacere», diss'egli impetuosamente, «la-

sciamo stare questo discorso, lasciamo stare questo di-scorso!»

Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato,non era però mai disposto, nell'orgoglio suo, a prendersipacificamente in faccia una parola spiacevole, e s'imper-maliva d'ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio diminuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritiròmasticando rabbia attraverso le barbabietole e le rape.Quando si trovò da capo nella contrada dei Mal'ari, ilbargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano,poi si avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, mol-to curvo, ma con gli occhi brillanti del barbone che hafiutato in aria l'indirizzo recondito di un tartufo. Le spa-ventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate dellaMaria, l'imbarazzo e lo scatto del professore gli diceva-no che il tartufo c'era e grosso. Gli era venuta l'idea diandare a Loggio dove abitavano il Paolin e il Paolon,gente bene informata; poi aveva pensato ch'era martedìe che probabilmente non li avrebbe trovati. No, era me-glio salir direttamente da Casarico a Castello, fiutare efrugare nell'abitazione di certa signora Cecca, ottimadonna, tutta cuore, famosa per l'assidua vigilanza cheesercitava dalle sue finestre, per mezzo di un formidabi-

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le cannocchiale, sulla Valsolda intiera. Ella poteva direogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuoloPin o col barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del po-vero Pinella con una certa Mochèt sul sagrato di Albo-gasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni ilsignor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto divino che la sua barca riportava vuoto dalla casa d'Oriaalla cantina di S. Margherita. Se Franco era stato in casaRigey, la signora Cecca doveva saperlo.

Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradic-ciuola di Castello, Pasotti si sentì venir dietro a precipi-zio qualcuno che gli passò accanto nel buio, e credettedi conoscere un tale detto «légora fügada (lepre caccia-ta)» per la sua andatura sempre furiosa. Era costui unegregio galantuomo ancora più curioso di Pasotti,un'ottima persona che amava di saper le cose semplice-mente per saperle, senz'altri fini, e andava sempre solo,si trovava dappertutto, compariva e scompariva in unbaleno, quando in un luogo quando nell'altro, come certiinsettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo epoi, zitti, non si odono, non si vedono più sino a un altroguizzo, a un altro frullo, a un altro colpo. Egli avevascorti i Pasotti entrare al «Palazz» e si era insospettito diqualche cosa per l'ora insolita. Appiattato in un campi-cello aveva visto la signora Barborin ritornare e il Con-trollore avviarsi a Casarico, quindi, seguito costui allalontana, s'era appostato, durante la sua visita al Gilardo-ni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli

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le cannocchiale, sulla Valsolda intiera. Ella poteva direogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuoloPin o col barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del po-vero Pinella con una certa Mochèt sul sagrato di Albo-gasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni ilsignor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto divino che la sua barca riportava vuoto dalla casa d'Oriaalla cantina di S. Margherita. Se Franco era stato in casaRigey, la signora Cecca doveva saperlo.

Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradic-ciuola di Castello, Pasotti si sentì venir dietro a precipi-zio qualcuno che gli passò accanto nel buio, e credettedi conoscere un tale detto «légora fügada (lepre caccia-ta)» per la sua andatura sempre furiosa. Era costui unegregio galantuomo ancora più curioso di Pasotti,un'ottima persona che amava di saper le cose semplice-mente per saperle, senz'altri fini, e andava sempre solo,si trovava dappertutto, compariva e scompariva in unbaleno, quando in un luogo quando nell'altro, come certiinsettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo epoi, zitti, non si odono, non si vedono più sino a un altroguizzo, a un altro frullo, a un altro colpo. Egli avevascorti i Pasotti entrare al «Palazz» e si era insospettito diqualche cosa per l'ora insolita. Appiattato in un campi-cello aveva visto la signora Barborin ritornare e il Con-trollore avviarsi a Casarico, quindi, seguito costui allalontana, s'era appostato, durante la sua visita al Gilardo-ni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli

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era scivolato accanto approfittando dell'oscurità per cor-rere a Castello e aspettarlo, sorvegliarlo da qualchebuon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare dallasignora Cecca.

La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto te-nendosi in collo un marmocchio col braccio sinistro ereggendo con la mano libera uno sperticato tubo di car-tone infilato per isghembo nella finestra, come una spin-garda, con la mira giù al lago scintillante, a una velabianca, gonfia di breva. All'entrar di Pasotti che venivaavanti con la persona inclinata, con il cappello in mano,con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitaledonna posò in fretta quel lungo naso mostruoso di carto-ne che le piaceva metter nelle faccende più lontane deglialtri, dove il suo proprio naso di cartapecora, benchésmisurato, non arrivava. Ell'accolse il Controllore, comeavrebbe accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto aportarle via il gozzo.

«Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Con-trolòr! Oh che piasè! Oh che piasè!»

E lo fece sedere, lo soffocò di offerte.«On poo de torta! On poo de crocant! Car el me scior

Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! - Ch'el mescüsa neh», soggiunse perché il marmocchio s'era messoa miagolare. «L'è el me nevodin. L'è el me biadeghin.»

Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stoma-co, oltre alle ciliege di don Giuseppe, anche la birra del

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era scivolato accanto approfittando dell'oscurità per cor-rere a Castello e aspettarlo, sorvegliarlo da qualchebuon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare dallasignora Cecca.

La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto te-nendosi in collo un marmocchio col braccio sinistro ereggendo con la mano libera uno sperticato tubo di car-tone infilato per isghembo nella finestra, come una spin-garda, con la mira giù al lago scintillante, a una velabianca, gonfia di breva. All'entrar di Pasotti che venivaavanti con la persona inclinata, con il cappello in mano,con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitaledonna posò in fretta quel lungo naso mostruoso di carto-ne che le piaceva metter nelle faccende più lontane deglialtri, dove il suo proprio naso di cartapecora, benchésmisurato, non arrivava. Ell'accolse il Controllore, comeavrebbe accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto aportarle via il gozzo.

«Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Con-trolòr! Oh che piasè! Oh che piasè!»

E lo fece sedere, lo soffocò di offerte.«On poo de torta! On poo de crocant! Car el me scior

Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! - Ch'el mescüsa neh», soggiunse perché il marmocchio s'era messoa miagolare. «L'è el me nevodin. L'è el me biadeghin.»

Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stoma-co, oltre alle ciliege di don Giuseppe, anche la birra del

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Gilardoni; ma dovette finire col rassegnarsi a rosicchia-re una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si at-taccava al gozzo della nonna.

«Povera signora Cecca! Due volte madre!», disse pate-ticamente, a quella vista, il sarcastico bargnìf, ridendonello stomaco. Dopo averle chiesto notizie del marito edei discendenti fino alla terza generazione, mise in cam-po la signora Teresa Rigey. Come stava quella poveradonna? Male! Proprio tanto male? Ma da quando? Ec'era stata qualche cagione? Qualche commozione?Qualche dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma cen'erano stati dei nuovi? Forse per la Luisina? Per quelmatrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello?Di giorno, no, va bene; ma...?

Come quando il chirurgo va interrogando e tastando unpaziente in cerca dell'occulto posto doloroso, che il pa-ziente risponde tanto più breve e trepido quanto più lamano indagatrice si appressa al punto e, appena essa viarriva, trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andòrispondendo al Pasotti sempre più breve e cauta, e aquel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò:

«On poo de torta ancamò! Scior Controlòr! L'è roba d'itosann!»

Pasotti sacramentò in cuor suo contro i «tosann» e laloro torta di miele, creta e olio di mandorle, ma credetteutile d'ingoiarne un altro boccone e tornò poi a toccare,anzi a premere, il tasto di prima.

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Gilardoni; ma dovette finire col rassegnarsi a rosicchia-re una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si at-taccava al gozzo della nonna.

«Povera signora Cecca! Due volte madre!», disse pate-ticamente, a quella vista, il sarcastico bargnìf, ridendonello stomaco. Dopo averle chiesto notizie del marito edei discendenti fino alla terza generazione, mise in cam-po la signora Teresa Rigey. Come stava quella poveradonna? Male! Proprio tanto male? Ma da quando? Ec'era stata qualche cagione? Qualche commozione?Qualche dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma cen'erano stati dei nuovi? Forse per la Luisina? Per quelmatrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello?Di giorno, no, va bene; ma...?

Come quando il chirurgo va interrogando e tastando unpaziente in cerca dell'occulto posto doloroso, che il pa-ziente risponde tanto più breve e trepido quanto più lamano indagatrice si appressa al punto e, appena essa viarriva, trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andòrispondendo al Pasotti sempre più breve e cauta, e aquel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò:

«On poo de torta ancamò! Scior Controlòr! L'è roba d'itosann!»

Pasotti sacramentò in cuor suo contro i «tosann» e laloro torta di miele, creta e olio di mandorle, ma credetteutile d'ingoiarne un altro boccone e tornò poi a toccare,anzi a premere, il tasto di prima.

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«So de nagott, so de nagott, so de nagott!», esclamò lasignora Cecca. «Ch'el proeuva a ciamagh al Pütin! Alscior Giacom! E a mi ch'el me ciama pü nient!» Ancora!Pasotti brillò in viso all'idea di avere il malcapitato siorZacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di unfalco allegro all'idea di ghermir un ranocchio e di tener-selo fra gli artigli per giuoco e spasso. Egli se ne andòpoco dopo, contento di tutto fuorché della torta di cretache aveva sullo stomaco.

Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile alpiccolo vecchio padrone che la governava in abito neroe cravattone bianco, stava poco più giù della orgogliosamole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Ilfalco vi andò dopo pranzo, verso le cinque, con una fac-cia maligna. Bussò all'uscio e stette in ascolto. C'era,c'era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il solito,con la perfida servente. Pasotti bussò più forte.«Verzì!», disse il signor Giacomo, ma la Marianna nonvoleva saperne di scendere ad aprire. «Verzì! Verzì! Sonparon mi!» Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiòcome una catapulta. «Chi xelo sto maledeto?», vociferòil Puttini; e venne giù soffiando «apff! apff!» ad aprire.«Oh, Controllore gentilissimo!», diss'egli, battendo lepalpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. «Laperdona! Quela fatal servente! No go più testa! No ghedigo gnente cossa che nasse in sta casa.»

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«So de nagott, so de nagott, so de nagott!», esclamò lasignora Cecca. «Ch'el proeuva a ciamagh al Pütin! Alscior Giacom! E a mi ch'el me ciama pü nient!» Ancora!Pasotti brillò in viso all'idea di avere il malcapitato siorZacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di unfalco allegro all'idea di ghermir un ranocchio e di tener-selo fra gli artigli per giuoco e spasso. Egli se ne andòpoco dopo, contento di tutto fuorché della torta di cretache aveva sullo stomaco.

Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile alpiccolo vecchio padrone che la governava in abito neroe cravattone bianco, stava poco più giù della orgogliosamole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Ilfalco vi andò dopo pranzo, verso le cinque, con una fac-cia maligna. Bussò all'uscio e stette in ascolto. C'era,c'era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il solito,con la perfida servente. Pasotti bussò più forte.«Verzì!», disse il signor Giacomo, ma la Marianna nonvoleva saperne di scendere ad aprire. «Verzì! Verzì! Sonparon mi!» Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiòcome una catapulta. «Chi xelo sto maledeto?», vociferòil Puttini; e venne giù soffiando «apff! apff!» ad aprire.«Oh, Controllore gentilissimo!», diss'egli, battendo lepalpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. «Laperdona! Quela fatal servente! No go più testa! No ghedigo gnente cossa che nasse in sta casa.»

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«L'è minga vera!», gridò Marianna dall'alto.«Tasì!» E qui il signor Giacomo incominciò a raccon-

tare i suoi guai, rimbeccando a ogni tratto le protestedella serva invisibile.

«Stamatina, La s'imagina, vado a Lugan. Vegno a casazirconzirca a le tre. Su la porta, La varda qua, che xe dele giozze. Tasì! - No ghe bado, tiro drito. Son sul pato dela scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito! -Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo intera; tasto; xe onto; snaso, el xe ogio. Alora ghe vadodrio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso. Tutto ogio,Controllore gentilissimo. O 'l xe vegnudo, digo, o 'l xeandà via. Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alo-ra le giozze co semo fora dela porta le gà d'andar insuso, se el xe andà via vol dir che quela maledetissima...La tasa!... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora legiozze le gà d'andar in zoso. E mi torna in drio e vaghedrio a ste giozze e drio e drio, e rivo a la porta; Control-lore mio gentilissimo, le giozze le va in zoso. Quelab...»

A questo punto la voce della serva scattò come la sve-glia d'un orologio e non ci fu più «tasì!» che valesse afermare quello stridente getto continuo di parole rabbio-se. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai ganghe-ri anche lui con un «O fiolonona!» e proseguì a tirarleimproperi, a ciascuno dei quali il signor Giacomo face-va un sommesso accompagnamento di gratitudine. «Sì,

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«L'è minga vera!», gridò Marianna dall'alto.«Tasì!» E qui il signor Giacomo incominciò a raccon-

tare i suoi guai, rimbeccando a ogni tratto le protestedella serva invisibile.

«Stamatina, La s'imagina, vado a Lugan. Vegno a casazirconzirca a le tre. Su la porta, La varda qua, che xe dele giozze. Tasì! - No ghe bado, tiro drito. Son sul pato dela scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito! -Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo intera; tasto; xe onto; snaso, el xe ogio. Alora ghe vadodrio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso. Tutto ogio,Controllore gentilissimo. O 'l xe vegnudo, digo, o 'l xeandà via. Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alo-ra le giozze co semo fora dela porta le gà d'andar insuso, se el xe andà via vol dir che quela maledetissima...La tasa!... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora legiozze le gà d'andar in zoso. E mi torna in drio e vaghedrio a ste giozze e drio e drio, e rivo a la porta; Control-lore mio gentilissimo, le giozze le va in zoso. Quelab...»

A questo punto la voce della serva scattò come la sve-glia d'un orologio e non ci fu più «tasì!» che valesse afermare quello stridente getto continuo di parole rabbio-se. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai ganghe-ri anche lui con un «O fiolonona!» e proseguì a tirarleimproperi, a ciascuno dei quali il signor Giacomo face-va un sommesso accompagnamento di gratitudine. «Sì,

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linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria, bravo. Impia-stro, sì signor. Ghe son obligà, Controllore gentilissimo,ghe son propramente obligà.»

Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasot-ti disse al signor Giacomo che aveva bisogno di parlar-gli. «No go testa», rispose l'ometto. «La me perdona, mesento mal.»

«Eh no go tescta, no go tescta!», vociò la Marianna re-diviva. «Ch'el ghe disa inscì ch'el coo el l'avarà perduu aandà de nott a trovà i tosann a Castell!»

«Tasì!», urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabo-lico: «Come come come?». Visto ch'egli entrava in furo-re, lo afferrò per un braccio, con parole di pace e d'affet-to, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie;e per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo como-damente fra gli artigli, intavolò un tarocchino in tre.

Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giaco-mo, meditando, ponderando e soffiando, giuocava peg-gio. Era un giuocatore timidissimo, non si metteva maisolo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appe-na seduto, carte così straordinarie che fu preso da un ac-cesso di coraggio e, come dice il linguaggio del giuoco,entrò. «Chi sa che giuocone ha!», brontolò Pasotti.

«No digo... no digo... ghe xe dei frati che spasseza inpantofole.»

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linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria, bravo. Impia-stro, sì signor. Ghe son obligà, Controllore gentilissimo,ghe son propramente obligà.»

Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasot-ti disse al signor Giacomo che aveva bisogno di parlar-gli. «No go testa», rispose l'ometto. «La me perdona, mesento mal.»

«Eh no go tescta, no go tescta!», vociò la Marianna re-diviva. «Ch'el ghe disa inscì ch'el coo el l'avarà perduu aandà de nott a trovà i tosann a Castell!»

«Tasì!», urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabo-lico: «Come come come?». Visto ch'egli entrava in furo-re, lo afferrò per un braccio, con parole di pace e d'affet-to, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie;e per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo como-damente fra gli artigli, intavolò un tarocchino in tre.

Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giaco-mo, meditando, ponderando e soffiando, giuocava peg-gio. Era un giuocatore timidissimo, non si metteva maisolo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appe-na seduto, carte così straordinarie che fu preso da un ac-cesso di coraggio e, come dice il linguaggio del giuoco,entrò. «Chi sa che giuocone ha!», brontolò Pasotti.

«No digo... no digo... ghe xe dei frati che spasseza inpantofole.»

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Il «no digo» del signor Giacomo significava ch'egli te-neva in mano carte miracolose; e i frati in pantofole era-no, nel suo gergo, i quattro re del giuoco. Mentre si ac-cingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzan-dovi gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, speran-do, per giunta, fargli perdere il giuoco. «Dunque»,diss'egli, «mi racconti un poco. Quando è andato a Ca-stello di notte?»

«Oh Dio, oh Dio, lassemo star», rispose il signor Gia-como, rosso rosso, palpando le carte più che mai.

«Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io sotutto.»

Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spinoin gola! Palpò, soffiò, uscì dove non avrebbe dovuto,sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di frati conle relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò al-cune marchette negli artigli di Pasotti che ghignava enel piattino della signora Barborin che ripeteva a manigiunte: «Cos'ha mai fatto, signor Giacomo, cos'ha maifatto?».

Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardan-do con una faccia sardonica il signor Giacomo che nonsapeva dove guardare.

«Sicuro», diss'egli. «So tutto. La signora Cecca mi haraccontato tutto. Del resto, caro deputato politico, Lei nerenderà conto all'I. R. Commissario di Porlezza.»

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Il «no digo» del signor Giacomo significava ch'egli te-neva in mano carte miracolose; e i frati in pantofole era-no, nel suo gergo, i quattro re del giuoco. Mentre si ac-cingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzan-dovi gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, speran-do, per giunta, fargli perdere il giuoco. «Dunque»,diss'egli, «mi racconti un poco. Quando è andato a Ca-stello di notte?»

«Oh Dio, oh Dio, lassemo star», rispose il signor Gia-como, rosso rosso, palpando le carte più che mai.

«Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io sotutto.»

Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spinoin gola! Palpò, soffiò, uscì dove non avrebbe dovuto,sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di frati conle relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò al-cune marchette negli artigli di Pasotti che ghignava enel piattino della signora Barborin che ripeteva a manigiunte: «Cos'ha mai fatto, signor Giacomo, cos'ha maifatto?».

Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardan-do con una faccia sardonica il signor Giacomo che nonsapeva dove guardare.

«Sicuro», diss'egli. «So tutto. La signora Cecca mi haraccontato tutto. Del resto, caro deputato politico, Lei nerenderà conto all'I. R. Commissario di Porlezza.»

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Page 124: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perchéalzasse. Ma il Puttini, udito quel nome minaccioso, simise a gemere:

«Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente... oh Dio...l'Imperial Regio Commissario?... Digo... no savaria percossa... apff!»

«Sicuro!», ripeté Pasotti. Aspettava una parola che glifacesse un po' di lume; e significò a sua moglie, additan-do col pollice prima l'uscio e poi la propria sua bocca,che andasse a pigliar da bere.

«Anca quel benedeto ingegner!», esclamò, quasi par-lando tra sé, il signor Giacomo.

Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lun-ga lenza pesante, scossa, egli crede, dal grosso pescelungamente insidiato, e tira e tira e finalmente scorgevenir su dal fondo due grandi ombre di pesci inveced'una sola, palpita, raddoppia di cautela e d'arte; così Pa-sotti, all'udir nominare l'ingegnere, si meravigliò, palpi-tò e si dispose a estrarre con la più squisita delicatezzadi mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera.

«Sicuro», diss'egli. «Ha fatto male.»Silenzio del signor Giacomo.Pasotti insistette:«Ha fatto malissimo.»Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vas-

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Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perchéalzasse. Ma il Puttini, udito quel nome minaccioso, simise a gemere:

«Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente... oh Dio...l'Imperial Regio Commissario?... Digo... no savaria percossa... apff!»

«Sicuro!», ripeté Pasotti. Aspettava una parola che glifacesse un po' di lume; e significò a sua moglie, additan-do col pollice prima l'uscio e poi la propria sua bocca,che andasse a pigliar da bere.

«Anca quel benedeto ingegner!», esclamò, quasi par-lando tra sé, il signor Giacomo.

Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lun-ga lenza pesante, scossa, egli crede, dal grosso pescelungamente insidiato, e tira e tira e finalmente scorgevenir su dal fondo due grandi ombre di pesci inveced'una sola, palpita, raddoppia di cautela e d'arte; così Pa-sotti, all'udir nominare l'ingegnere, si meravigliò, palpi-tò e si dispose a estrarre con la più squisita delicatezzadi mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera.

«Sicuro», diss'egli. «Ha fatto male.»Silenzio del signor Giacomo.Pasotti insistette:«Ha fatto malissimo.»Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vas-

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soio, bottiglia e bicchieri. Il vino è rosso cupo, con tra-sparenze di rubino in corpo e il signor Giacomo gli faun viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha unaroma di austera virtù ed il signor Giacomo lo fiutaamorosamente, lo guarda commosso, lo torna a fiutare.Il vino ha una pastosa pienezza ch'empie palato e animadi sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amaro-ne che l'aroma annuncia e il signor Giacomo lo sorseg-gia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole, lo ma-stica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando ditanto in tanto posa il bicchiere sul tavolino, non lo lasciaperò né con la mano né con gli occhi imbambolati.

«Povero ingegnere!», esclamò Pasotti. «Povero Ribe-ra! È un buon galantuomo, ma...»

E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò avenir su, dietro all'amo e al filo.

«Mi propramente», diss'egli, «no volea. El me gà fatozo. "Vegnì", el dise, "percossa mo no volìo vegner? Malno se fa, la cossa xe onesta." Sì, digo, me par anca a mi;ma sto secreto! "Ma! La nona!" el dise. Capisso, digo,ma no me comoda. "Gnanca a mi", el dise. Ma alora,digo, che figura fémoi, Ela e mi? "Quela del m...", eldise con quel so far de bon omo a la vecia, "che cossavorla?, el xe propramente per el mio temperamento."Alora vegno, digo.»

Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con pru-denza, tirò il filo. «Il male si è», diss'egli, «che a Castel-

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soio, bottiglia e bicchieri. Il vino è rosso cupo, con tra-sparenze di rubino in corpo e il signor Giacomo gli faun viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha unaroma di austera virtù ed il signor Giacomo lo fiutaamorosamente, lo guarda commosso, lo torna a fiutare.Il vino ha una pastosa pienezza ch'empie palato e animadi sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amaro-ne che l'aroma annuncia e il signor Giacomo lo sorseg-gia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole, lo ma-stica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando ditanto in tanto posa il bicchiere sul tavolino, non lo lasciaperò né con la mano né con gli occhi imbambolati.

«Povero ingegnere!», esclamò Pasotti. «Povero Ribe-ra! È un buon galantuomo, ma...»

E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò avenir su, dietro all'amo e al filo.

«Mi propramente», diss'egli, «no volea. El me gà fatozo. "Vegnì", el dise, "percossa mo no volìo vegner? Malno se fa, la cossa xe onesta." Sì, digo, me par anca a mi;ma sto secreto! "Ma! La nona!" el dise. Capisso, digo,ma no me comoda. "Gnanca a mi", el dise. Ma alora,digo, che figura fémoi, Ela e mi? "Quela del m...", eldise con quel so far de bon omo a la vecia, "che cossavorla?, el xe propramente per el mio temperamento."Alora vegno, digo.»

Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con pru-denza, tirò il filo. «Il male si è», diss'egli, «che a Castel-

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lo se ne sia parlato.»«Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase

l'ingegner, taso mi che s'intende, ma no taserà el piovan,no taserà el nonzolo.»

Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Traseco-lò; non si aspettava un affare così grosso. Versò da bereal malcapitato signor Giacomo, gli cavò facilmente tuttii particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure iprogetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si misea scozzar le carte per continuar il giuoco e il signor Gia-como guardò l'orologio, trovò che mancavano nove mi-nuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo pendo-lo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non avevapiù che quattro minuti per congedarsi. «Controllore gen-tilissimo, La ghe fazza el conto, la xe cussì, no ghe xeponto de dubio.»

La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne doman-dò a suo marito. Pasotti si accostò le mani alla bocca ele gridò sul viso: «El voeur andà a trovà la morosa!».«Cossa mai! Cossa mai!», fece il povero signor Giaco-mo diventando di tutti i colori; e la Pasotti che per unmiracolo aveva udito, aperse una bocca smisurata, nonsapeva se dovesse credere o no. «La morosa? Oh! Quan-ti ciàcer! Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? Elpodarìss ben avèghela per quell, disi minga, l'è mingavècc, ma insomma!» Capito che voleva proprio andarse-ne, cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che

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lo se ne sia parlato.»«Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase

l'ingegner, taso mi che s'intende, ma no taserà el piovan,no taserà el nonzolo.»

Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Traseco-lò; non si aspettava un affare così grosso. Versò da bereal malcapitato signor Giacomo, gli cavò facilmente tuttii particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure iprogetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si misea scozzar le carte per continuar il giuoco e il signor Gia-como guardò l'orologio, trovò che mancavano nove mi-nuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo pendo-lo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non avevapiù che quattro minuti per congedarsi. «Controllore gen-tilissimo, La ghe fazza el conto, la xe cussì, no ghe xeponto de dubio.»

La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne doman-dò a suo marito. Pasotti si accostò le mani alla bocca ele gridò sul viso: «El voeur andà a trovà la morosa!».«Cossa mai! Cossa mai!», fece il povero signor Giaco-mo diventando di tutti i colori; e la Pasotti che per unmiracolo aveva udito, aperse una bocca smisurata, nonsapeva se dovesse credere o no. «La morosa? Oh! Quan-ti ciàcer! Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? Elpodarìss ben avèghela per quell, disi minga, l'è mingavècc, ma insomma!» Capito che voleva proprio andarse-ne, cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che

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stavan cuocendo, li offerse. Ma né i marroni négl'improperi di Pasotti valsero a vincere il signor Giaco-mo che partì con lo spettro dell'I. R. Commissario nelcuore e insieme con una sensazione molesta nella co-scienza, con un vago malcontento di sé ch'egli non sape-va spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiu-rie della perfida servente fossero preferibili, in fin de'conti, alle moine di Pasotti.

Invece costui aveva gli occhi ancora più brillantidell'usato. Pensava di andar a Cressogno subito. Cam-minatore instancabile, contava di potervi arrivare alleotto. L'idea di andare dalla marchesa con la sua grossascoperta in pectore, di fare il misterioso, di metter fuoriun po' alla volta le paroline più suggestive e di farsistrappare il resto, lo divertiva moltissimo. E preparavagià per il proprio piacere un discorsetto blando, ammol-liente, da posare poi sulla ferita della impassibile damaper modo ch'ella non potesse dissimularla e che nessunoavesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in cucina,si fece accendere la lanterna perché la notte era moltoscura, e partì.

Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch'entrava. Il mez-zadro lo salutò, portò in cucina un gran canestro di frut-ta, aiutò la serva a metterle a posto, sedette al fuoco edisse placidamente:

«È mort adess la sciora Teresa de Castell».

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stavan cuocendo, li offerse. Ma né i marroni négl'improperi di Pasotti valsero a vincere il signor Giaco-mo che partì con lo spettro dell'I. R. Commissario nelcuore e insieme con una sensazione molesta nella co-scienza, con un vago malcontento di sé ch'egli non sape-va spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiu-rie della perfida servente fossero preferibili, in fin de'conti, alle moine di Pasotti.

Invece costui aveva gli occhi ancora più brillantidell'usato. Pensava di andar a Cressogno subito. Cam-minatore instancabile, contava di potervi arrivare alleotto. L'idea di andare dalla marchesa con la sua grossascoperta in pectore, di fare il misterioso, di metter fuoriun po' alla volta le paroline più suggestive e di farsistrappare il resto, lo divertiva moltissimo. E preparavagià per il proprio piacere un discorsetto blando, ammol-liente, da posare poi sulla ferita della impassibile damaper modo ch'ella non potesse dissimularla e che nessunoavesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in cucina,si fece accendere la lanterna perché la notte era moltoscura, e partì.

Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch'entrava. Il mez-zadro lo salutò, portò in cucina un gran canestro di frut-ta, aiutò la serva a metterle a posto, sedette al fuoco edisse placidamente:

«È mort adess la sciora Teresa de Castell».

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6. La vecchia signora di marmo

L'uscio si aperse un poco, pian piano, la fantesca porseil capo nella camera e chiamò Franco che pregava ingi-nocchiato a una seggiola, presso il letto della morta.Franco non udì e fu Luisa che si alzò. Andò ad ascoltarla sommessa richiesta della donna, le rispose qualchecosa e, ritrattasi colei, stette lì ad aspettare. Non compa-rendo nessuno, spinse l'uscio e disse forte: «Venga, ven-ga dentro». Un singhiozzo violento le rispose. Luisa ste-se ambedue le mani e il professor Gilardoni gliele affer-rò. Stettero così alquanto tempo, immobili, lottando, alabbra serrate, con l'emozione, lui più di lei. Luisa simosse la prima, ritirò dolcemente una mano e trasse conl'altra il professore nella camera della morta.

La signora Teresa era spirata in salotto, sulla poltronache non aveva più potuto lasciare dopo la notte del ma-trimonio. L'avevano poi adagiata sul divano disposto aletto funebre. Il dolce viso era là nella luce di quattrocandele, cereo, sul guanciale, con un sorriso trasparentedalle palpebre chiuse, con la bocca semiaperta. Il letto el'abito erano sparsi di fiori d'autunno, ciclamini, dalie,crisantemi. «Guardi com'è bella», disse Luisa con vocetenera e serena da spezzar il cuore. Il professores'appoggiò singhiozzando a una sedia lontana dal letto.

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6. La vecchia signora di marmo

L'uscio si aperse un poco, pian piano, la fantesca porseil capo nella camera e chiamò Franco che pregava ingi-nocchiato a una seggiola, presso il letto della morta.Franco non udì e fu Luisa che si alzò. Andò ad ascoltarla sommessa richiesta della donna, le rispose qualchecosa e, ritrattasi colei, stette lì ad aspettare. Non compa-rendo nessuno, spinse l'uscio e disse forte: «Venga, ven-ga dentro». Un singhiozzo violento le rispose. Luisa ste-se ambedue le mani e il professor Gilardoni gliele affer-rò. Stettero così alquanto tempo, immobili, lottando, alabbra serrate, con l'emozione, lui più di lei. Luisa simosse la prima, ritirò dolcemente una mano e trasse conl'altra il professore nella camera della morta.

La signora Teresa era spirata in salotto, sulla poltronache non aveva più potuto lasciare dopo la notte del ma-trimonio. L'avevano poi adagiata sul divano disposto aletto funebre. Il dolce viso era là nella luce di quattrocandele, cereo, sul guanciale, con un sorriso trasparentedalle palpebre chiuse, con la bocca semiaperta. Il letto el'abito erano sparsi di fiori d'autunno, ciclamini, dalie,crisantemi. «Guardi com'è bella», disse Luisa con vocetenera e serena da spezzar il cuore. Il professores'appoggiò singhiozzando a una sedia lontana dal letto.

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«Lo senti, mamma», disse Luisa sottovoce, «come tivogliono bene?»

S'inginocchiò, e presa la mano della morta, si mise abaciarla, ad accarezzarla, a dirle dolcezze, piano; poitacque, posò la mano, si alzò, baciò la fronte, contemplòa mani giunte il viso. Pensò ai rimproveri che la mammale aveva fatti negli anni andati, dall'infanzia in poi, dicui ella si era risentita amaramente. S'inginocchiò dacapo, impresse da capo le labbra sulla mano di ghiacciocon un più ardente spasimo d'amore che se avesse ricor-date le carezze. Poi tolse un ciclamino dalla spalla dellamorta, si alzò, lo porse al professore. Questi lo presepiangendo, s'accostò a Franco che rivedeva per la primavolta dopo quella notte, l'abbracciò e ne fu abbracciatocon una commozione silenziosa, e uscì, in punta di pie-di, dalla camera.

Suonarono le otto. La signora Teresa era morta alle seidella sera precedente; in ventisei ore Luisa non avevamai riposato un momento, non era uscita che quattro ocinque volte, per pochi minuti. Chi usciva spesso e stavafuori anche a lungo, era Franco.

Avvertito segretamente, era giunto a Castello, appenain tempo di trovar viva la povera mamma, e tutti i tristiuffici che la morte impone eran toccati a lui, perché lozio Piero, malgrado i suoi molti anni, non aveva la me-noma esperienza di queste cose e vi si trovava impaccia-tissimo.

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«Lo senti, mamma», disse Luisa sottovoce, «come tivogliono bene?»

S'inginocchiò, e presa la mano della morta, si mise abaciarla, ad accarezzarla, a dirle dolcezze, piano; poitacque, posò la mano, si alzò, baciò la fronte, contemplòa mani giunte il viso. Pensò ai rimproveri che la mammale aveva fatti negli anni andati, dall'infanzia in poi, dicui ella si era risentita amaramente. S'inginocchiò dacapo, impresse da capo le labbra sulla mano di ghiacciocon un più ardente spasimo d'amore che se avesse ricor-date le carezze. Poi tolse un ciclamino dalla spalla dellamorta, si alzò, lo porse al professore. Questi lo presepiangendo, s'accostò a Franco che rivedeva per la primavolta dopo quella notte, l'abbracciò e ne fu abbracciatocon una commozione silenziosa, e uscì, in punta di pie-di, dalla camera.

Suonarono le otto. La signora Teresa era morta alle seidella sera precedente; in ventisei ore Luisa non avevamai riposato un momento, non era uscita che quattro ocinque volte, per pochi minuti. Chi usciva spesso e stavafuori anche a lungo, era Franco.

Avvertito segretamente, era giunto a Castello, appenain tempo di trovar viva la povera mamma, e tutti i tristiuffici che la morte impone eran toccati a lui, perché lozio Piero, malgrado i suoi molti anni, non aveva la me-noma esperienza di queste cose e vi si trovava impaccia-tissimo.

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Adesso, udite suonar le otto, si avvicinò a sua moglie,la pregò dolcemente di andar a riposare un poco, maLuisa gli rispose subito in modo da levargli il coraggiod'insistere. Il funerale doveva seguire l'indomani mattinaalle nove. Ell'aveva desiderato che si differisse il piùpossibile e voleva star con la mamma fino all'ultimo. Viera nella sua sottile persona una indomita vigoria, egua-le a ben altre prove. Per lei la mamma era tutta lì su quellettuccio, tra i fiori. Non pensava che una parte di leifosse altrove, non la cercava per la finestra di ponentenelle stelline che tremolavano sopra i monti di Carona.Pensava soltanto che la mamma cara, vissuta da tantianni per lei sola, non d'altro sollecita in terra che dellafelicità sua, dormirebbe fra poche ore e per sempre sottoi grandi noci di Looch, nella solitudine ombrosa dovetace il piccolo cimitero di Castello, mentre ella si go-drebbe la vita, il sole, l'amore. Aveva risposto a Francoquasi aspramente come se l'affetto del vivo offendessein qualche modo l'affetto della morta. Poi le parve aver-lo mortificato, si pentì, gli diede un bacio e sapendo difar cosa a lui grata, di far cosa che la mamma si era cer-to attesa da lei, volle pregare. Si mise a recitar macchi-nalmente dei Pater, degli Ave e dei Requiem, senza pro-varne soddisfazione alcuna, sentendo anzi una segretacontrarietà, uno sgradito disseccarsi del dolore. Ell'ave-va praticato sempre ma, spenti i fervori della prima co-munione, non aveva più partecipato con l'anima al culto.Sua madre era vissuta piuttosto per il mondo futuro cheper questo, si era governata in ogni azione, in ogni paro-

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Adesso, udite suonar le otto, si avvicinò a sua moglie,la pregò dolcemente di andar a riposare un poco, maLuisa gli rispose subito in modo da levargli il coraggiod'insistere. Il funerale doveva seguire l'indomani mattinaalle nove. Ell'aveva desiderato che si differisse il piùpossibile e voleva star con la mamma fino all'ultimo. Viera nella sua sottile persona una indomita vigoria, egua-le a ben altre prove. Per lei la mamma era tutta lì su quellettuccio, tra i fiori. Non pensava che una parte di leifosse altrove, non la cercava per la finestra di ponentenelle stelline che tremolavano sopra i monti di Carona.Pensava soltanto che la mamma cara, vissuta da tantianni per lei sola, non d'altro sollecita in terra che dellafelicità sua, dormirebbe fra poche ore e per sempre sottoi grandi noci di Looch, nella solitudine ombrosa dovetace il piccolo cimitero di Castello, mentre ella si go-drebbe la vita, il sole, l'amore. Aveva risposto a Francoquasi aspramente come se l'affetto del vivo offendessein qualche modo l'affetto della morta. Poi le parve aver-lo mortificato, si pentì, gli diede un bacio e sapendo difar cosa a lui grata, di far cosa che la mamma si era cer-to attesa da lei, volle pregare. Si mise a recitar macchi-nalmente dei Pater, degli Ave e dei Requiem, senza pro-varne soddisfazione alcuna, sentendo anzi una segretacontrarietà, uno sgradito disseccarsi del dolore. Ell'ave-va praticato sempre ma, spenti i fervori della prima co-munione, non aveva più partecipato con l'anima al culto.Sua madre era vissuta piuttosto per il mondo futuro cheper questo, si era governata in ogni azione, in ogni paro-

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la, in ogni pensiero secondo quel fine. Le idee e i senti-menti di Luisa, nel suo precoce sviluppo intellettuale,avevano preso un altro corso con la risolutezza vigorosach'era del carattere di lei; ella li copriva però di certadissimulazione, parte conscia, parte inconscia, sia peramore della mamma, sia per la resistenza di germi reli-giosi seminati dalla parola materna, coltivati dall'esem-pio, rinvigoriti dall'abitudine. Dai quattordici anni in pois'era venuta inclinando a non guardare oltre la vita pre-sente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli al-tri, per il bene terreno degli altri, però secondo un fortee fiero senso di giustizia. Andava in chiesa, compiva gliatti esterni del culto, senza incredulità e senza persua-dersi che facessero piacere a Dio. Aveva confusamenteil concetto di un Dio talmente alto e grande che non vipotesse essere contatto immediato fra gli uomini e Lui.Se dubitava qualche volta d'ingannarsi, il suo errore lepareva tale da non poterlo un Dio infinitamente buonopunire. Come fosse venuta a pensare così, non lo sapevaella stessa.

L'uscio si aperse ancora, pian piano, una voce sommes-sa chiamò «il signor don Franco». Luisa, rimasta sola,cessò di pregare, piegò il capo sul guanciale della mam-ma, le posò le labbra sulla spalla, chiuse gli occhi racco-gliendo in sé la corrente di memorie che veniva da queltocco, da un odor noto di lavanda. L'abito della mammaera di seta, il suo migliore, un dono dello zio Piero. Ellalo aveva portato una volta sola, qualche anno addietro,

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la, in ogni pensiero secondo quel fine. Le idee e i senti-menti di Luisa, nel suo precoce sviluppo intellettuale,avevano preso un altro corso con la risolutezza vigorosach'era del carattere di lei; ella li copriva però di certadissimulazione, parte conscia, parte inconscia, sia peramore della mamma, sia per la resistenza di germi reli-giosi seminati dalla parola materna, coltivati dall'esem-pio, rinvigoriti dall'abitudine. Dai quattordici anni in pois'era venuta inclinando a non guardare oltre la vita pre-sente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli al-tri, per il bene terreno degli altri, però secondo un fortee fiero senso di giustizia. Andava in chiesa, compiva gliatti esterni del culto, senza incredulità e senza persua-dersi che facessero piacere a Dio. Aveva confusamenteil concetto di un Dio talmente alto e grande che non vipotesse essere contatto immediato fra gli uomini e Lui.Se dubitava qualche volta d'ingannarsi, il suo errore lepareva tale da non poterlo un Dio infinitamente buonopunire. Come fosse venuta a pensare così, non lo sapevaella stessa.

L'uscio si aperse ancora, pian piano, una voce sommes-sa chiamò «il signor don Franco». Luisa, rimasta sola,cessò di pregare, piegò il capo sul guanciale della mam-ma, le posò le labbra sulla spalla, chiuse gli occhi racco-gliendo in sé la corrente di memorie che veniva da queltocco, da un odor noto di lavanda. L'abito della mammaera di seta, il suo migliore, un dono dello zio Piero. Ellalo aveva portato una volta sola, qualche anno addietro,

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andando a visitare la marchesa Maironi. Anche questopensiero venne coll'odor di lavanda, vennero lagrimebrucianti, acri di tenerezza e di un sentimento che nonera propriamente odio, che non era propriamente colle-ra, ma che aveva un amaro dell'uno e dell'altra.

Franco, quando s'intese chiamare, trasalì, ne indovinòsubito la cagione. Lo zio Piero aveva scritto, la mattinaper tempo, alla marchesa, annunciandole, in terminisemplici ma pieni di ossequio, la morte di sua sorella; eFranco stesso aveva aggiunto alla lettera dello zio un bi-glietto con queste parole:

Cara nonna, mi manca il tempo di scriverti perché sonqui; te lo dirò a voce domani sera e confido che tu miascolterai come mi avrebbero ascoltato mio padre e miamadre.

Nessuna risposta era ancora venuta da Cressogno.Adesso un uomo di Cressogno aveva portato una lettera.Dov'è quest'uomo? «Partito; non s'è voluto fermare unmomento.» Franco prese la lettera, ne lesse l'indirizzo:"Al preg. signor ingegnere Pietro Ribera", e conobbe lamano della figlia del fattore. Salì subito dallo zio Pieroche, stanco, era andato a letto.

Lo zio Piero, quando Franco gli recò la lettera, nonfece atto di sorpresa né di curiosità; disse placidamente:

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andando a visitare la marchesa Maironi. Anche questopensiero venne coll'odor di lavanda, vennero lagrimebrucianti, acri di tenerezza e di un sentimento che nonera propriamente odio, che non era propriamente colle-ra, ma che aveva un amaro dell'uno e dell'altra.

Franco, quando s'intese chiamare, trasalì, ne indovinòsubito la cagione. Lo zio Piero aveva scritto, la mattinaper tempo, alla marchesa, annunciandole, in terminisemplici ma pieni di ossequio, la morte di sua sorella; eFranco stesso aveva aggiunto alla lettera dello zio un bi-glietto con queste parole:

Cara nonna, mi manca il tempo di scriverti perché sonqui; te lo dirò a voce domani sera e confido che tu miascolterai come mi avrebbero ascoltato mio padre e miamadre.

Nessuna risposta era ancora venuta da Cressogno.Adesso un uomo di Cressogno aveva portato una lettera.Dov'è quest'uomo? «Partito; non s'è voluto fermare unmomento.» Franco prese la lettera, ne lesse l'indirizzo:"Al preg. signor ingegnere Pietro Ribera", e conobbe lamano della figlia del fattore. Salì subito dallo zio Pieroche, stanco, era andato a letto.

Lo zio Piero, quando Franco gli recò la lettera, nonfece atto di sorpresa né di curiosità; disse placidamente:

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«Apri».Franco posò il lume sul cassettone e aperse la lettera

voltando le spalle al letto. Parve pietrificato; non fiatò,non si mosse.

«Dunque?», chiese lo zio.Silenzio.«Ho capito», fece il vecchio. Allora Franco lasciò ca-

der la lettera, alzò le mani in aria, mise un «ah!» lungo,profondo e fioco, pieno di stupore e d'orrore.

«Insomma», riprese lo zio, «si può sapere?»Franco si scosse, si precipitò ad abbracciarlo, repri-

mendo a stento i singhiozzi.L'uomo pacifico sopportò sulle prime in silenzio, senza

commuoversi, questa tempesta. Poi cominciò a difen-dersene chiedendo la lettera: «Da qua, da qua, da qua».E pensava: «Cosa diavolo avrà scritto questa benedettadonna?». Franco prese il lume e la lettera, gliela porse.La nonna non aveva scritto niente, neppure una sillaba;aveva semplicemente rimandata la lettera dell'ingegneree il biglietto di Franco. Lo zio ci mise un pezzo a capir-la: non capiva mai le cose prontamente e questa era perlui tanto inconcepibile! Quando l'ebbe capita non potéfare a meno di dire: «Già, l'è un po' grossa». Ma poi, ve-duto Franco tanto fuori di sé, esclamò col vocione so-lenne che usava per giudicar toto corde le cose umane:«Senti. L'è, dirò così», (e cercava la parola in un suo

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«Apri».Franco posò il lume sul cassettone e aperse la lettera

voltando le spalle al letto. Parve pietrificato; non fiatò,non si mosse.

«Dunque?», chiese lo zio.Silenzio.«Ho capito», fece il vecchio. Allora Franco lasciò ca-

der la lettera, alzò le mani in aria, mise un «ah!» lungo,profondo e fioco, pieno di stupore e d'orrore.

«Insomma», riprese lo zio, «si può sapere?»Franco si scosse, si precipitò ad abbracciarlo, repri-

mendo a stento i singhiozzi.L'uomo pacifico sopportò sulle prime in silenzio, senza

commuoversi, questa tempesta. Poi cominciò a difen-dersene chiedendo la lettera: «Da qua, da qua, da qua».E pensava: «Cosa diavolo avrà scritto questa benedettadonna?». Franco prese il lume e la lettera, gliela porse.La nonna non aveva scritto niente, neppure una sillaba;aveva semplicemente rimandata la lettera dell'ingegneree il biglietto di Franco. Lo zio ci mise un pezzo a capir-la: non capiva mai le cose prontamente e questa era perlui tanto inconcepibile! Quando l'ebbe capita non potéfare a meno di dire: «Già, l'è un po' grossa». Ma poi, ve-duto Franco tanto fuori di sé, esclamò col vocione so-lenne che usava per giudicar toto corde le cose umane:«Senti. L'è, dirò così», (e cercava la parola in un suo

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particolar modo, gonfiando le gote e mettendo una spe-cie di rantolo), «... una iniquità; ma tutte queste meravi-glie che fai tu, io non le faccio per niente affatto. Tutti itorti, caro, non sono dalla parte sua; e allora? Del resto,me ne rincresce per voialtri che mangerete di magro edovrete vivere in questo miserabile paese; ma per me?Per me ci guadagno e son pronto dirò così a ringraziaretua nonna. Vedi bene, io non ho fatto famiglia, ho sem-pre contato su questa. Adesso la mia povera sorella èmorta; se la nonna vi apriva le braccia io restavo comeun torso di cavolo. Dunque!».

Franco si guardò dal raccontar la cosa a sua moglie, edella, benché sapesse delle lettere spedite a Cressogno,non domandò che dopo il funerale, parecchie ore dopo,se la nonna avesse risposto. Il piccolo salotto, la piccolaterrazza, la piccola cucina erano stati pieni di gente tuttoil giorno, dalle nove della mattina alle nove della sera.Alle dieci Luisa e Franco uscirono di casa senza lanter-na, presero a destra, attraversarono pian piano, silenzio-samente, le tenebre del villaggio, toccarono la svoltachiara e ventosa cui sale il fragor profondo del fiume diS. Mamette, entrarono nelle ombre, nel forte odore deinoci di Looch. Poco prima di giungere al cimitero, Lui-sa domandò sottovoce a suo marito: «Sai niente di Cres-sogno?». Egli avrebbe pur voluto nasconderle almeno inparte il vero e non lo poté. Disse che il suo biglietto gliera stato rimandato e Luisa volle sapere se almeno la

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particolar modo, gonfiando le gote e mettendo una spe-cie di rantolo), «... una iniquità; ma tutte queste meravi-glie che fai tu, io non le faccio per niente affatto. Tutti itorti, caro, non sono dalla parte sua; e allora? Del resto,me ne rincresce per voialtri che mangerete di magro edovrete vivere in questo miserabile paese; ma per me?Per me ci guadagno e son pronto dirò così a ringraziaretua nonna. Vedi bene, io non ho fatto famiglia, ho sem-pre contato su questa. Adesso la mia povera sorella èmorta; se la nonna vi apriva le braccia io restavo comeun torso di cavolo. Dunque!».

Franco si guardò dal raccontar la cosa a sua moglie, edella, benché sapesse delle lettere spedite a Cressogno,non domandò che dopo il funerale, parecchie ore dopo,se la nonna avesse risposto. Il piccolo salotto, la piccolaterrazza, la piccola cucina erano stati pieni di gente tuttoil giorno, dalle nove della mattina alle nove della sera.Alle dieci Luisa e Franco uscirono di casa senza lanter-na, presero a destra, attraversarono pian piano, silenzio-samente, le tenebre del villaggio, toccarono la svoltachiara e ventosa cui sale il fragor profondo del fiume diS. Mamette, entrarono nelle ombre, nel forte odore deinoci di Looch. Poco prima di giungere al cimitero, Lui-sa domandò sottovoce a suo marito: «Sai niente di Cres-sogno?». Egli avrebbe pur voluto nasconderle almeno inparte il vero e non lo poté. Disse che il suo biglietto gliera stato rimandato e Luisa volle sapere se almeno la

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nonna avesse scritto allo zio una parola di condoglianza.Il «no» di Franco fu così incerto, quasi trepidante, che,non subito, ma pochi passi dopo, Luisa ebbe un lampodi sospetto e si fermò di colpo, afferrò il braccio di suomarito. Franco, prima ch'ella aprisse bocca, intese,l'abbracciò come aveva abbracciato lo zio, con impetoancor maggiore, le disse di prender il suo cuore, l'animasua, la sua vita, di non cercar altro al mondo, se la sentìtremar tutta fra le braccia. Né allora né poi una sola pa-rola ne fu più detta fra loro. Al cancello del cimiteros'inginocchiarono insieme. Franco pregò con impeto difede. Luisa trapassò con gli occhi avidi la terra smossapresso all'entrata, trapassò la bara, si affissò mentalmen-te nel volto mansueto e grave della mamma; mental-mente ancora ma con tanto gagliardo impulso da scuote-re le sbarre del cancello, si chinò, si chinò, fisse le lab-bra sulle labbra della morta, v'impresse una violenzad'amore più forte che tutti gli insulti, che tutte le bassez-ze odiose del mondo.

Si staccò a stento di là verso le undici. Discendendoadagio a fianco di suo marito lo sdrucciolevole ciottola-to del sentiero, le sorse improvvisa in mente la visionedi un incontro futuro con la marchesa. Si fermò, si eres-se, stringendo i pugni; e il suo bel viso intelligente spiròuna fierezza tale che se la vecchia signora di marmol'avesse realmente veduta, realmente incontrata in quelpunto, si sarebbe senz'altro, piegata no, impaurita no,ma posta in difesa.

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nonna avesse scritto allo zio una parola di condoglianza.Il «no» di Franco fu così incerto, quasi trepidante, che,non subito, ma pochi passi dopo, Luisa ebbe un lampodi sospetto e si fermò di colpo, afferrò il braccio di suomarito. Franco, prima ch'ella aprisse bocca, intese,l'abbracciò come aveva abbracciato lo zio, con impetoancor maggiore, le disse di prender il suo cuore, l'animasua, la sua vita, di non cercar altro al mondo, se la sentìtremar tutta fra le braccia. Né allora né poi una sola pa-rola ne fu più detta fra loro. Al cancello del cimiteros'inginocchiarono insieme. Franco pregò con impeto difede. Luisa trapassò con gli occhi avidi la terra smossapresso all'entrata, trapassò la bara, si affissò mentalmen-te nel volto mansueto e grave della mamma; mental-mente ancora ma con tanto gagliardo impulso da scuote-re le sbarre del cancello, si chinò, si chinò, fisse le lab-bra sulle labbra della morta, v'impresse una violenzad'amore più forte che tutti gli insulti, che tutte le bassez-ze odiose del mondo.

Si staccò a stento di là verso le undici. Discendendoadagio a fianco di suo marito lo sdrucciolevole ciottola-to del sentiero, le sorse improvvisa in mente la visionedi un incontro futuro con la marchesa. Si fermò, si eres-se, stringendo i pugni; e il suo bel viso intelligente spiròuna fierezza tale che se la vecchia signora di marmol'avesse realmente veduta, realmente incontrata in quelpunto, si sarebbe senz'altro, piegata no, impaurita no,ma posta in difesa.

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PARTE SECONDA

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PARTE SECONDA

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1. Pescatori

Il dottor Francesco Zérboli, I. R. Commissario di Por-lezza, approdò alla I. R. Ricevitoria di Oria il 10 settem-bre 1854, proprio quando un sole veramente imperiale eregio sormontava il bastione poderoso della Galbiga,sfolgorava la rosea casetta della Ricevitoria, gli oleandrie i fagiuoli della signora Peppina Bianconi, chiamando,secondo i regolamenti, all'ufficio il signor Carlo Bianco-ni suo marito, quel tale Ricevitore cui la musica mano-scritta puzzava di cospirazione. Il Bianconi, detto dallasposa «el mè Carlascia» e dal popolo «el Biancòn», unomone alto, grosso e duro, col mento pelato, con duebaffoni grigi, con due occhi grossi e spenti di mastinofedele, discese a ricevere l'altro I. R. mento pelato di ca-tegoria superiore. I due non si rassomigliavano proprioche nella nudità austriaca del mento. Lo Zérboli, vestitodi nero e inguantato, era piccolo e tozzo, portava duebaffetti biondi appiccicati alla faccia giallognola, bucatada due scintille d'occhietti sarcastici e sprezzanti. Avevai capelli piantati così basso sulla fronte ch'era solito ra-derne una lista, restandogliene spesso un'ombra, quasi dibestialità. Prontissimo di persona, d'occhi e di lingua,parlava un italiano nasale, modulato alla trentina, confacile cortesia. Disse al Ricevitore che doveva tenere un

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1. Pescatori

Il dottor Francesco Zérboli, I. R. Commissario di Por-lezza, approdò alla I. R. Ricevitoria di Oria il 10 settem-bre 1854, proprio quando un sole veramente imperiale eregio sormontava il bastione poderoso della Galbiga,sfolgorava la rosea casetta della Ricevitoria, gli oleandrie i fagiuoli della signora Peppina Bianconi, chiamando,secondo i regolamenti, all'ufficio il signor Carlo Bianco-ni suo marito, quel tale Ricevitore cui la musica mano-scritta puzzava di cospirazione. Il Bianconi, detto dallasposa «el mè Carlascia» e dal popolo «el Biancòn», unomone alto, grosso e duro, col mento pelato, con duebaffoni grigi, con due occhi grossi e spenti di mastinofedele, discese a ricevere l'altro I. R. mento pelato di ca-tegoria superiore. I due non si rassomigliavano proprioche nella nudità austriaca del mento. Lo Zérboli, vestitodi nero e inguantato, era piccolo e tozzo, portava duebaffetti biondi appiccicati alla faccia giallognola, bucatada due scintille d'occhietti sarcastici e sprezzanti. Avevai capelli piantati così basso sulla fronte ch'era solito ra-derne una lista, restandogliene spesso un'ombra, quasi dibestialità. Prontissimo di persona, d'occhi e di lingua,parlava un italiano nasale, modulato alla trentina, confacile cortesia. Disse al Ricevitore che doveva tenere un

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convocato, il consiglio comunale d'allora, a Castello eche aveva preferito venir per tempo, fare la salita, colfresco, da Oria invece che da Casarico o da Albogasio,onde procurarsi il piacere di salutare il signor Ricevito-re.

Il bestione fedele non capì subito che c'era un secondofine, ringraziò con un miscuglio di frasi ossequiose e dirisatine stupide, fregandosi le mani, offerse caffè, latte,uova, l'aria aperta del giardinetto. Colui accettò il caffè erifiutò l'aria aperta con un cenno del capo e una strizza-tina d'occhi così eloquente che il Carlascia, vociato super le scale «Peppina! Caffè!» fece passare il Commis-sario in ufficio, dove, sentendosi trasmutare, secondo lasua doppia natura, da Ricevitore di dogana in agente dipolizia, si fece devoto il cuore e austero il viso come peruna unione sacramentale col monarca. Questo ufficioera un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le infer-riate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva cheaveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commis-sario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l'usciochiuso che dall'approdo metteva nell'anticamera; quelloche dall'anticamera metteva nell'ufficio era rimastoaperto, per ordine suo.

«Mi parli del signor Maironi», diss'egli.«Sorvegliato sempre», rispose il Biancòn. «Anssi»,

soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa, «aspetti: ci hoqui un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a pal-

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convocato, il consiglio comunale d'allora, a Castello eche aveva preferito venir per tempo, fare la salita, colfresco, da Oria invece che da Casarico o da Albogasio,onde procurarsi il piacere di salutare il signor Ricevito-re.

Il bestione fedele non capì subito che c'era un secondofine, ringraziò con un miscuglio di frasi ossequiose e dirisatine stupide, fregandosi le mani, offerse caffè, latte,uova, l'aria aperta del giardinetto. Colui accettò il caffè erifiutò l'aria aperta con un cenno del capo e una strizza-tina d'occhi così eloquente che il Carlascia, vociato super le scale «Peppina! Caffè!» fece passare il Commis-sario in ufficio, dove, sentendosi trasmutare, secondo lasua doppia natura, da Ricevitore di dogana in agente dipolizia, si fece devoto il cuore e austero il viso come peruna unione sacramentale col monarca. Questo ufficioera un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le infer-riate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva cheaveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commis-sario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l'usciochiuso che dall'approdo metteva nell'anticamera; quelloche dall'anticamera metteva nell'ufficio era rimastoaperto, per ordine suo.

«Mi parli del signor Maironi», diss'egli.«Sorvegliato sempre», rispose il Biancòn. «Anssi»,

soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa, «aspetti: ci hoqui un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a pal-

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par fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.«Manderà, manderà», fece il Commissario che non si

aspettava molto dalla prosa del bestione. «Intanto parli,dica!»

«Malintensionato sempre, questo si sapeva», ricomin-ciò l'eloquente Ricevitore, «e adesso anche si vede. Si èmesso a portare quella barba, sa, quella mosca, quellamoschetta, quel pisso, quella porcheria...»

«Scusi», fece il Commissario. «Vede, io sono ancoranuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un'idea esattadell'uomo e della famiglia non l'ho ancora. Bisogna cheLei me li descriva proprio a fondo così come può. E in-cominciamo pure da lui.»

«Lui è un superbo, un furioso, un prepotentone. Avràattaccato lite cinquanta volte, qui, per affari di dassio.Vuol aver sempre ragione, vuol darci lessione a me e alsedentario. Caccia fuori due occhiacci come se volessemangiare la Ricevitoria. L'è che con me non c'è da fareil prepotente, se del resto!... Perché sa di tutto, poi, que-sto sì. Sa di legge, sa di finansa, sa di musica, sa di fiori,sa di pesci, el diavol a quatter.»

«E lei?»«Lei? Lei lei lei lei... lei l'è una gattamorgna ma se la

cascia foeura i ong l'è pesg de lü; peggio! Lui quando vain collera diventa rosso e fa un baccano di mille lire; leidiventa pallida e dice insolense d'inferno. Adesso si

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par fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.«Manderà, manderà», fece il Commissario che non si

aspettava molto dalla prosa del bestione. «Intanto parli,dica!»

«Malintensionato sempre, questo si sapeva», ricomin-ciò l'eloquente Ricevitore, «e adesso anche si vede. Si èmesso a portare quella barba, sa, quella mosca, quellamoschetta, quel pisso, quella porcheria...»

«Scusi», fece il Commissario. «Vede, io sono ancoranuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un'idea esattadell'uomo e della famiglia non l'ho ancora. Bisogna cheLei me li descriva proprio a fondo così come può. E in-cominciamo pure da lui.»

«Lui è un superbo, un furioso, un prepotentone. Avràattaccato lite cinquanta volte, qui, per affari di dassio.Vuol aver sempre ragione, vuol darci lessione a me e alsedentario. Caccia fuori due occhiacci come se volessemangiare la Ricevitoria. L'è che con me non c'è da fareil prepotente, se del resto!... Perché sa di tutto, poi, que-sto sì. Sa di legge, sa di finansa, sa di musica, sa di fiori,sa di pesci, el diavol a quatter.»

«E lei?»«Lei? Lei lei lei lei... lei l'è una gattamorgna ma se la

cascia foeura i ong l'è pesg de lü; peggio! Lui quando vain collera diventa rosso e fa un baccano di mille lire; leidiventa pallida e dice insolense d'inferno. Adesso si

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dice, insolense io non ne tollero... ma insomma... mi ca-pisce. Donna di talento, sa. La mia Peppina ci è innamo-rata. Donna che si insinua dappertutto, poi. Tante voltequi a Oria invece di chiamare il dottore chiamano lei. Sein una famiglia questionano vanno da lei. Se ci vien ilmal di pancia a una bestia domandano lei. I bagàj s'i atira dree tücc. È magari buona, in carnevale, di fare imagatelli per loro. Sa, i burattini. E in pari tempo è unaccidente che suona il cembalo, che sa il francese e il te-desco. Io per mia disgrassia non lo so, il tedesco, e sonoandato da lei così delle volte per farmi spiegare carte te-desche che capitano in ufficio.»

«Ah, Lei ci va, in casa Maironi?»«Sì, qualche volta, per questo.»Veramente il bestione ci andava pure per farsi spiegare

da Franco certi enigmi della tariffa doganale; ma questonon lo disse.

L'interrogatorio del Commissario continuò.«E la casa, come è messa?»«Messa bene. Bei pavimenti alla venessiana, soffitti

pitturati, canapè con tappeti, cembol, camera da pranzocolle pareti tappessate di ritratti ch'è una bellèssa.»

«E l'ingegnere in capo?»«L'ingegnere in capo è un buon omaccio, allegro,

all'antica; mi somiglia a me. Più vecchio però, sa. Delresto qui ci sta pochissimo. Un quindici giorni a questa

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dice, insolense io non ne tollero... ma insomma... mi ca-pisce. Donna di talento, sa. La mia Peppina ci è innamo-rata. Donna che si insinua dappertutto, poi. Tante voltequi a Oria invece di chiamare il dottore chiamano lei. Sein una famiglia questionano vanno da lei. Se ci vien ilmal di pancia a una bestia domandano lei. I bagàj s'i atira dree tücc. È magari buona, in carnevale, di fare imagatelli per loro. Sa, i burattini. E in pari tempo è unaccidente che suona il cembalo, che sa il francese e il te-desco. Io per mia disgrassia non lo so, il tedesco, e sonoandato da lei così delle volte per farmi spiegare carte te-desche che capitano in ufficio.»

«Ah, Lei ci va, in casa Maironi?»«Sì, qualche volta, per questo.»Veramente il bestione ci andava pure per farsi spiegare

da Franco certi enigmi della tariffa doganale; ma questonon lo disse.

L'interrogatorio del Commissario continuò.«E la casa, come è messa?»«Messa bene. Bei pavimenti alla venessiana, soffitti

pitturati, canapè con tappeti, cembol, camera da pranzocolle pareti tappessate di ritratti ch'è una bellèssa.»

«E l'ingegnere in capo?»«L'ingegnere in capo è un buon omaccio, allegro,

all'antica; mi somiglia a me. Più vecchio però, sa. Delresto qui ci sta pochissimo. Un quindici giorni a questa

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stagione, altri quindici la primavera e qualche visitinadurante l'anno. Quando ha la sua pace, la sua quiete, ilsuo latte alla mattina, il suo latte alla sera, il suo boccaledi Modena a pranso, il suo tarocco, la sua gasètta di Mi-lano, l'ingegnere Ribera è contento. Del resto, tornandoalla barba del signor Maironi, c'è anche di peggio. Hosaputo ieri che il signore ha messo un gelsomino in unvaso di legno inverniciato di rosso.»

Il Commissario, uomo d'ingegno e forse indifferente,nel più intimo del cuor suo, a tutti i colori tranne a quel-lo della propria cera e della propria lingua, non poté ameno di alzar un po' le spalle. Ma poi domandò subito:

«La pianta è fiorita?»«Non lo so, domanderò alla donna»«A chi? A sua moglie? Ci va, Sua moglie, in casa Mai-

roni?»«Si, qualche volta ci va.»Lo Zérboli piantò i suoi occhietti sprezzanti in faccia al

Bianconi, e gli articolò ben chiara questa domanda:«Ci va con profitto o no?»«Ma! con profitto! Segond! Lei si figura di andare

come amica della signora Luisina, per i fiori, per i lavo-ri, per i pettegolessi, e cicip e ciciap, sa bene, donne. Iopoi ci cavo...»

«Tè chì, tè chì!», esclamò nel suo italiano di Porta Ti-

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stagione, altri quindici la primavera e qualche visitinadurante l'anno. Quando ha la sua pace, la sua quiete, ilsuo latte alla mattina, il suo latte alla sera, il suo boccaledi Modena a pranso, il suo tarocco, la sua gasètta di Mi-lano, l'ingegnere Ribera è contento. Del resto, tornandoalla barba del signor Maironi, c'è anche di peggio. Hosaputo ieri che il signore ha messo un gelsomino in unvaso di legno inverniciato di rosso.»

Il Commissario, uomo d'ingegno e forse indifferente,nel più intimo del cuor suo, a tutti i colori tranne a quel-lo della propria cera e della propria lingua, non poté ameno di alzar un po' le spalle. Ma poi domandò subito:

«La pianta è fiorita?»«Non lo so, domanderò alla donna»«A chi? A sua moglie? Ci va, Sua moglie, in casa Mai-

roni?»«Si, qualche volta ci va.»Lo Zérboli piantò i suoi occhietti sprezzanti in faccia al

Bianconi, e gli articolò ben chiara questa domanda:«Ci va con profitto o no?»«Ma! con profitto! Segond! Lei si figura di andare

come amica della signora Luisina, per i fiori, per i lavo-ri, per i pettegolessi, e cicip e ciciap, sa bene, donne. Iopoi ci cavo...»

«Tè chì, tè chì!», esclamò nel suo italiano di Porta Ti-

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cinese la signora Peppina Bianconi, venendo avanti colcaffè, tutta sorridente. «El sür Commissari! Come goomai piasè de vedèll! El sarà magàra minga tant bon elcaffè, però l'è el prim! La bolgira l'è de minga podètoeul a Lügan!»

«Tetetetetè!», fece il marito, burbero.«Euh diavol! Disi inscì per rid. El capiss ben, neh, Lü,

sür Commissari! L'è quel benedett omasc lì ch'el capissno! En toeui nanca per mi de caffè, ch'el se figüra!Toeui giusta l'acqua de malva per i girament de testa!»

«Ciciàra minga tant, ciciàra minga tant!», interruppe ilmarito. Il Commissario, posando la tazza vuota, dissealla buona signora che sarebbe poi andato a vedere isuoi fiori, e questa galanteria parve l'atto di chi, al caffè,butta e fa suonar la moneta sul vassoio perché il tavo-leggiante lo pigli e se ne vada.

La signora Peppina intese e, sgomentata per giunta daigrossi occhi feroci del suo Carlascia, si ritirò frettolosa-mente.

«Senta senta senta», fece il Commissario coprendosi lafronte e stringendosi le tempie colla mano sinistra.«Oh!», esclamò a un tratto, nel raccapezzarsi. «Ecco,volevo sapere se, adesso, l'ingegnere Ribera è a Oria.»

«Non c'è, ma verrà fra pochissimi giorni, credo.»«Spende molto, l'ingegnere Ribera, per questi Mairo-

ni?»

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cinese la signora Peppina Bianconi, venendo avanti colcaffè, tutta sorridente. «El sür Commissari! Come goomai piasè de vedèll! El sarà magàra minga tant bon elcaffè, però l'è el prim! La bolgira l'è de minga podètoeul a Lügan!»

«Tetetetetè!», fece il marito, burbero.«Euh diavol! Disi inscì per rid. El capiss ben, neh, Lü,

sür Commissari! L'è quel benedett omasc lì ch'el capissno! En toeui nanca per mi de caffè, ch'el se figüra!Toeui giusta l'acqua de malva per i girament de testa!»

«Ciciàra minga tant, ciciàra minga tant!», interruppe ilmarito. Il Commissario, posando la tazza vuota, dissealla buona signora che sarebbe poi andato a vedere isuoi fiori, e questa galanteria parve l'atto di chi, al caffè,butta e fa suonar la moneta sul vassoio perché il tavo-leggiante lo pigli e se ne vada.

La signora Peppina intese e, sgomentata per giunta daigrossi occhi feroci del suo Carlascia, si ritirò frettolosa-mente.

«Senta senta senta», fece il Commissario coprendosi lafronte e stringendosi le tempie colla mano sinistra.«Oh!», esclamò a un tratto, nel raccapezzarsi. «Ecco,volevo sapere se, adesso, l'ingegnere Ribera è a Oria.»

«Non c'è, ma verrà fra pochissimi giorni, credo.»«Spende molto, l'ingegnere Ribera, per questi Mairo-

ni?»

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«Spende molto, sicuro. Non credo che di casa sua donFranco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi...» IlRicevitore si soffiò sul palmo della mano. «Dunque ca-pisce. Hanno la donna di servissio. C'è una bambina didue anni o ché; ci vuole la ragassa, per curare la bambi-na. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quat-ter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c'è la sua bottèglia. Cene vogliono così delle svansiche, mi capisce!»

Il Commissario rifletté un poco e poi, con una faccianebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole scon-nesse che parevano frammenti d'oracolo, fece intendereche l'ingegnere Ribera, un I. R. impiegato, favorito re-centemente dall'I. R. Governo di una promozione inloco, avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenzamigliore. Quindi con altre domande e con altre osserva-zioni che concernevano specialmente le presenti debo-lezze dell'ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue at-tenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare se-gretezza e delicatezza all'I. R. collega, onde illuminare,occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebberoscandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse chel'avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivanoabbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore losapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a farmusica. «Non credo!», esclamò il Commissario con su-bita e insolita asprezza. «Sua moglie non capisce niente!Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questomodo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a

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«Spende molto, sicuro. Non credo che di casa sua donFranco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi...» IlRicevitore si soffiò sul palmo della mano. «Dunque ca-pisce. Hanno la donna di servissio. C'è una bambina didue anni o ché; ci vuole la ragassa, per curare la bambi-na. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quat-ter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c'è la sua bottèglia. Cene vogliono così delle svansiche, mi capisce!»

Il Commissario rifletté un poco e poi, con una faccianebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole scon-nesse che parevano frammenti d'oracolo, fece intendereche l'ingegnere Ribera, un I. R. impiegato, favorito re-centemente dall'I. R. Governo di una promozione inloco, avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenzamigliore. Quindi con altre domande e con altre osserva-zioni che concernevano specialmente le presenti debo-lezze dell'ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue at-tenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare se-gretezza e delicatezza all'I. R. collega, onde illuminare,occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebberoscandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse chel'avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivanoabbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore losapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a farmusica. «Non credo!», esclamò il Commissario con su-bita e insolita asprezza. «Sua moglie non capisce niente!Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questomodo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a

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Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e in-formarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito!Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesaMaironi...»

Lo Zérboli compié le frase con un gesto di graziosalarghezza e s'incamminò seguito dal mastino, alquantomogio.

La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fioricon l'aiuto di un ragazzotto. Il Commissario guardò, am-mirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poli-ziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramentela Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franconon si fermò affatto come se non gliene importasse nul-la. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non potevaaverne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell'umi-le signora Peppina che perfino si vergognava d'un para-gone simile. E il Commissario insistette. Ma come? An-che le fuchsie di casa Maironi erano più belle? Anche levainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?

«I gesümin?», fece la signora Peppina. «Ma el sürMairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, caraLü!»

Così il Commissario venne poi a sapere molto natural-mente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito.«Vorrei vedere le dalie di don Franco», diss'egli. La in-genua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribe-ra quel giorno stesso: «Gavarissen inscì mai piasè». Ma

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Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e in-formarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito!Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesaMaironi...»

Lo Zérboli compié le frase con un gesto di graziosalarghezza e s'incamminò seguito dal mastino, alquantomogio.

La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fioricon l'aiuto di un ragazzotto. Il Commissario guardò, am-mirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poli-ziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramentela Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franconon si fermò affatto come se non gliene importasse nul-la. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non potevaaverne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell'umi-le signora Peppina che perfino si vergognava d'un para-gone simile. E il Commissario insistette. Ma come? An-che le fuchsie di casa Maironi erano più belle? Anche levainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?

«I gesümin?», fece la signora Peppina. «Ma el sürMairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, caraLü!»

Così il Commissario venne poi a sapere molto natural-mente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito.«Vorrei vedere le dalie di don Franco», diss'egli. La in-genua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribe-ra quel giorno stesso: «Gavarissen inscì mai piasè». Ma

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il Commissario espresse il desiderio di attendere la ve-nuta dell'I. R. ingegnere in capo della provincia per ave-re occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «ec-cola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il masti-no, umiliato da quell'arte superiore, desiderando mostrarin qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anchelui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall'annaffiatoioe lo presentò.

«Mio nipote. Figlio d'una mia sorella maritata a Berga-mo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l'onoredi chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; macapisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può es-sere il nome solito.»

«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratùch'el se figura!», interloquì la zia.

«Citto, Lei!», fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Fran-cesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto beneeducato. Di' un po' su, Francesco, quando sarai grande,cosa farai?»

Ratì rispose a precipizio come se recitasse la DottrinaCristiana:

«Io quando sarò grande mi comporterò sempre da sud-dito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatorenonché da buon cristiano; e spero coll'aiuto del Signorediventare un giorno I. R. Ricevitore di Dogana comemio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle miebuone opere in paradiso».

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il Commissario espresse il desiderio di attendere la ve-nuta dell'I. R. ingegnere in capo della provincia per ave-re occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «ec-cola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il masti-no, umiliato da quell'arte superiore, desiderando mostrarin qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anchelui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall'annaffiatoioe lo presentò.

«Mio nipote. Figlio d'una mia sorella maritata a Berga-mo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l'onoredi chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; macapisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può es-sere il nome solito.»

«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratùch'el se figura!», interloquì la zia.

«Citto, Lei!», fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Fran-cesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto beneeducato. Di' un po' su, Francesco, quando sarai grande,cosa farai?»

Ratì rispose a precipizio come se recitasse la DottrinaCristiana:

«Io quando sarò grande mi comporterò sempre da sud-dito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatorenonché da buon cristiano; e spero coll'aiuto del Signorediventare un giorno I. R. Ricevitore di Dogana comemio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle miebuone opere in paradiso».

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«Bravo bravo bravo», fece lo Zérboli, accarezzandoRatì. «Seguitiamo a farci onore.»

«Ch'el tasa, sür Commissari», saltò fuori da capo laPeppina, «che stamattina el baloss el m'ha mangiaafoeura mèss el süccher de la süccherera!»

«Comè comè comè?», fece il Carlascia uscendo ditono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: «Col-pa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?»

«Pròpe», rispose Ratì, e il Commissario, seccato daquel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua fra-se paterna, prese bruscamente congedo.

Appena partito lui, il Carlascia menò un «toeu sü elsüccher, ti», e un formidabile scapaccione a FrancescoGiuseppe che si aspettava tutt'altro e corse a salvarsi trai fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con unbuon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe te-nuto lui lo zucchero, e poiché ella si permise di ribattere«cossa te voeut mai intrigàt ti?» la interruppe, «intriga-tissim in tütt! intrigatissim in tütt!» e voltatele le spalle,s'avviò a gran passi, sbuffando e fremendo, verso il po-sto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza ela polenta, e inescò i due poderosi ami da tinche. Poichéin antico quel piccolo mondo era ancora più segregatodal mondo grande che al presente, era più che al presen-te un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari del-lo Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esem-pio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie

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«Bravo bravo bravo», fece lo Zérboli, accarezzandoRatì. «Seguitiamo a farci onore.»

«Ch'el tasa, sür Commissari», saltò fuori da capo laPeppina, «che stamattina el baloss el m'ha mangiaafoeura mèss el süccher de la süccherera!»

«Comè comè comè?», fece il Carlascia uscendo ditono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: «Col-pa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?»

«Pròpe», rispose Ratì, e il Commissario, seccato daquel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua fra-se paterna, prese bruscamente congedo.

Appena partito lui, il Carlascia menò un «toeu sü elsüccher, ti», e un formidabile scapaccione a FrancescoGiuseppe che si aspettava tutt'altro e corse a salvarsi trai fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con unbuon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe te-nuto lui lo zucchero, e poiché ella si permise di ribattere«cossa te voeut mai intrigàt ti?» la interruppe, «intriga-tissim in tütt! intrigatissim in tütt!» e voltatele le spalle,s'avviò a gran passi, sbuffando e fremendo, verso il po-sto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza ela polenta, e inescò i due poderosi ami da tinche. Poichéin antico quel piccolo mondo era ancora più segregatodal mondo grande che al presente, era più che al presen-te un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari del-lo Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esem-pio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie

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ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente,il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo auna lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontanodalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si eraben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi an-corato in placida attesa, l'I. R. uomo posava delicata-mente la bacchetta della lenza sul muricciuolo, sedeva econtemplava. A levante di lui, la guardia di finanza cheallora chiamavano «il sedentario», accoccolata sull'umi-le molo dell'approdo davanti ad un altro sughero, pipavae contemplava. Pochi passi più in là, il vecchio allampa-nato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbri-ciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppadella sua barca con una sperticata tuba preistorica in te-sta, con la magica bacchetta in mano, con le gambe pen-zoloni sull'acqua, raccolta l'anima nel sughero suo pro-prio, contemplava. Seduto sull'orlo d'un campicello,all'ombra d'un gelso e d'un cappellone di paglia nera, ilpiccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Al-bogasio, rispecchiato dall'acqua limpida, contemplava.In un orto di Albogasio Inferiore, fra le rive del Ceròn ela riva di Mandroeugn, un altro patrizio in giacchetta escarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duroe solenne sopra una sedia del settecento con la famosabacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il ficodi Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costa-barbieri. A S. Mamette pendevano sull'acqua e contem-plavano con grande attività il medico, lo speziale, il cal-zolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della

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ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente,il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo auna lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontanodalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si eraben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi an-corato in placida attesa, l'I. R. uomo posava delicata-mente la bacchetta della lenza sul muricciuolo, sedeva econtemplava. A levante di lui, la guardia di finanza cheallora chiamavano «il sedentario», accoccolata sull'umi-le molo dell'approdo davanti ad un altro sughero, pipavae contemplava. Pochi passi più in là, il vecchio allampa-nato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbri-ciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppadella sua barca con una sperticata tuba preistorica in te-sta, con la magica bacchetta in mano, con le gambe pen-zoloni sull'acqua, raccolta l'anima nel sughero suo pro-prio, contemplava. Seduto sull'orlo d'un campicello,all'ombra d'un gelso e d'un cappellone di paglia nera, ilpiccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Al-bogasio, rispecchiato dall'acqua limpida, contemplava.In un orto di Albogasio Inferiore, fra le rive del Ceròn ela riva di Mandroeugn, un altro patrizio in giacchetta escarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duroe solenne sopra una sedia del settecento con la famosabacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il ficodi Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costa-barbieri. A S. Mamette pendevano sull'acqua e contem-plavano con grande attività il medico, lo speziale, il cal-zolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della

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marchesa. In faccia a Oria, sull'ombrosa spiaggia deser-ta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lom-bardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vitacontemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente,con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri,due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l'altolago avesse potuto discernere tutte queste figure medita-bonde, inclinate all'acqua, senza veder le bacchette né ifili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d'unromito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasseil cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore co-modità.

In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche enessun mistero dell'avvenire umano aveva per essi mag-gior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva ilpiccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito,dava segni d'inquietudine sempre più viva e in fine dialienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti oraavanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusionedelle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofit-to nell'abisso. Questi fenomeni avvenivano però di radoe parecchi contemplatori solevano passare delle mezzegiornate senza notar la menoma inquietudine nel sughe-ro. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccologalleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d'idee pa-rallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buonarciprete di pescar mentalmente una sede episcopale; alSignoron di pescare un bosco ch'era stato dei suoi avi, al

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marchesa. In faccia a Oria, sull'ombrosa spiaggia deser-ta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lom-bardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vitacontemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente,con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri,due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l'altolago avesse potuto discernere tutte queste figure medita-bonde, inclinate all'acqua, senza veder le bacchette né ifili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d'unromito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasseil cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore co-modità.

In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche enessun mistero dell'avvenire umano aveva per essi mag-gior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva ilpiccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito,dava segni d'inquietudine sempre più viva e in fine dialienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti oraavanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusionedelle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofit-to nell'abisso. Questi fenomeni avvenivano però di radoe parecchi contemplatori solevano passare delle mezzegiornate senza notar la menoma inquietudine nel sughe-ro. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccologalleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d'idee pa-rallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buonarciprete di pescar mentalmente una sede episcopale; alSignoron di pescare un bosco ch'era stato dei suoi avi, al

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cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda dellamontagna, al Cüstant di pescare una commissione delGoverno per dare il bianco al picco di Cressogno. Quan-to al Carlascia, il suo secondo filo aveva generalmenteun carattere politico. E questo si comprenderà meglioquando si sappia che anche il filo principale, quello del-la lenza, suscitava spesso nel suo torbido testone certeconsiderazioni politiche suggeritegli dal CommissarioZérboli. «Vede, caro Ricevitore», gli aveva detto unavolta lo Zérboli ragionando a sproposito sul moto mila-nese del 6 febbraio, «Lei ch'è un pescatore di tinche puòbenissimo capire la cosa. La nostra grande monarchiapesca alla lenza. I due bocconi uniti sono la Lombardiae il Veneto, due bei bocconi tondi e solleticanti, con delbuon ferro dentro. La nostra monarchia li ha buttati làdavanti a sé, in faccia alla tana di quel pesciatello scioc-co ch'è il Piemonte. Egli ha abboccato nel quarantotto ilboccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavar-sela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano simuove vuol dire che c'è sotto il pesciatello. L'anno scor-so il sughero s'è mosso un pochino; il caro pesciatellonon aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verràun movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà unpoco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, ilnostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più,quel porcellino bianco, rosso e verde!»

Il Biancòn ci aveva fatto una gran risata e spesso, met-tendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente

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cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda dellamontagna, al Cüstant di pescare una commissione delGoverno per dare il bianco al picco di Cressogno. Quan-to al Carlascia, il suo secondo filo aveva generalmenteun carattere politico. E questo si comprenderà meglioquando si sappia che anche il filo principale, quello del-la lenza, suscitava spesso nel suo torbido testone certeconsiderazioni politiche suggeritegli dal CommissarioZérboli. «Vede, caro Ricevitore», gli aveva detto unavolta lo Zérboli ragionando a sproposito sul moto mila-nese del 6 febbraio, «Lei ch'è un pescatore di tinche puòbenissimo capire la cosa. La nostra grande monarchiapesca alla lenza. I due bocconi uniti sono la Lombardiae il Veneto, due bei bocconi tondi e solleticanti, con delbuon ferro dentro. La nostra monarchia li ha buttati làdavanti a sé, in faccia alla tana di quel pesciatello scioc-co ch'è il Piemonte. Egli ha abboccato nel quarantotto ilboccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavar-sela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano simuove vuol dire che c'è sotto il pesciatello. L'anno scor-so il sughero s'è mosso un pochino; il caro pesciatellonon aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verràun movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà unpoco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, ilnostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più,quel porcellino bianco, rosso e verde!»

Il Biancòn ci aveva fatto una gran risata e spesso, met-tendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente

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piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevanoper solito altri sottili e profondi pensamenti politici.Quella mattina il lago era quieto, propizio per le con-templazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si ve-devan diritte, segno che non c'eran correnti. I bocconi,slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, ilfilo si distese via via sotto il sughero che gli navigò die-tro un poco indicando con spessi anellini i titillamentidei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che ibocconi s'erano adagiati sul fondo e che i cavedini non litoccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muric-ciuolo e si mise a pensare all'ingegnere Ribera.

Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose dimansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli avevafatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto sene poté accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello simangiò il boccone di Lombardia con l'amo e il filo e labacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn,rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costitu-zionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudi-ne, posando la bacchetta e pensando che si trattava dipescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli pro-vò una singolare compiacenza non nel cuore, non nelcervello né in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo parti-colare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non avevacoscienza di sé come di un organismo distinto dall'orga-nismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccoladogana di frontiera, si considerava una punta d'unghia in

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piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevanoper solito altri sottili e profondi pensamenti politici.Quella mattina il lago era quieto, propizio per le con-templazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si ve-devan diritte, segno che non c'eran correnti. I bocconi,slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, ilfilo si distese via via sotto il sughero che gli navigò die-tro un poco indicando con spessi anellini i titillamentidei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che ibocconi s'erano adagiati sul fondo e che i cavedini non litoccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muric-ciuolo e si mise a pensare all'ingegnere Ribera.

Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose dimansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli avevafatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto sene poté accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello simangiò il boccone di Lombardia con l'amo e il filo e labacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn,rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costitu-zionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudi-ne, posando la bacchetta e pensando che si trattava dipescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli pro-vò una singolare compiacenza non nel cuore, non nelcervello né in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo parti-colare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non avevacoscienza di sé come di un organismo distinto dall'orga-nismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccoladogana di frontiera, si considerava una punta d'unghia in

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capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi, siconsiderava un occhiolino microscopico sotto l'unghia.La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le fa-cevano il solletico sulla pelle della Galizia, egli ne senti-va il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloriadell'Austria gli ispiravano un orgoglio smisurato. Nonammetteva che il Brasile fosse più esteso dell'ImperoAustriaco, né che la Cina fosse più popolata, né chel'Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, né cheDomeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddioera l'Imperatore; rispettava quello del cielo come un al-leato di quello di Vienna.

Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l'inge-gnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole delCommissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addi-rittura; e l'idea di trovarsi a portata questo malfido servi-tore accendeva il suo zelo d'occhio regio e d'unghia im-periale. Si diede dell'asino per non averlo conosciutoprima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene:bene bene bene bene! «Lasci fare a me! Lasci fare a me,signor...»

Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero avevaimpresso nell'acqua un anello, dolcemente, muovendosiappena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bac-chetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altroanello più grosso; il sughero va pian piano sull'acqua, siferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sugherocammina ancora per un piccol tratto, a fior d'acqua e

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capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi, siconsiderava un occhiolino microscopico sotto l'unghia.La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le fa-cevano il solletico sulla pelle della Galizia, egli ne senti-va il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloriadell'Austria gli ispiravano un orgoglio smisurato. Nonammetteva che il Brasile fosse più esteso dell'ImperoAustriaco, né che la Cina fosse più popolata, né chel'Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, né cheDomeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddioera l'Imperatore; rispettava quello del cielo come un al-leato di quello di Vienna.

Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l'inge-gnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole delCommissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addi-rittura; e l'idea di trovarsi a portata questo malfido servi-tore accendeva il suo zelo d'occhio regio e d'unghia im-periale. Si diede dell'asino per non averlo conosciutoprima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene:bene bene bene bene! «Lasci fare a me! Lasci fare a me,signor...»

Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero avevaimpresso nell'acqua un anello, dolcemente, muovendosiappena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bac-chetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altroanello più grosso; il sughero va pian piano sull'acqua, siferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sugherocammina ancora per un piccol tratto, a fior d'acqua e

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sprofonda; zac! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta sitorce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto.«Peppina, el gh'è!», grida il Carlascia perdendo la testa,confondendo il sesso della tinca con quello dell'ingegne-re in capo: «El guadèll, el guadèll». Il sedentario si voltainvidioso: «Ghe l'ha, scior Recitòr?». Il Cüstant si cuocedentro e non fa motto né volge la sua tuba. Ratì accorree accorre anche la signora Peppina portando il «gua-dèll», una pertica lunga con una gran borsa di rete incapo, per imborsarvi la tinca nell'acqua, ché il tirarla sudi peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancònpiglia il filo, lo raccoglie pian piano a sé. La tinca non sivede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su perun paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quin-di torna a venire, viene, viene, e in fondo all'acqua, sottoil naso dei tre personaggi, balena un giallore, un'ombramostruosa. «Oh la bella!», fa la signora Peppina sotto-voce. Ratì esclama: «Madòne, madòne!», e il Biancònnon dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescio-ne, corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro cheviene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, conmala volontà.

Le tre facce non gli piacciono perché volta loro di col-po la coda e sbattendola fa un'altra punta furiosa verso ilfondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto ilmuro con la pancia dorata all'aria. La Peppina, rovescio-ni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica perimborsar il malcapitato e non le riesce. «Per el müson!»,

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sprofonda; zac! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta sitorce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto.«Peppina, el gh'è!», grida il Carlascia perdendo la testa,confondendo il sesso della tinca con quello dell'ingegne-re in capo: «El guadèll, el guadèll». Il sedentario si voltainvidioso: «Ghe l'ha, scior Recitòr?». Il Cüstant si cuocedentro e non fa motto né volge la sua tuba. Ratì accorree accorre anche la signora Peppina portando il «gua-dèll», una pertica lunga con una gran borsa di rete incapo, per imborsarvi la tinca nell'acqua, ché il tirarla sudi peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancònpiglia il filo, lo raccoglie pian piano a sé. La tinca non sivede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su perun paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quin-di torna a venire, viene, viene, e in fondo all'acqua, sottoil naso dei tre personaggi, balena un giallore, un'ombramostruosa. «Oh la bella!», fa la signora Peppina sotto-voce. Ratì esclama: «Madòne, madòne!», e il Biancònnon dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescio-ne, corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro cheviene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, conmala volontà.

Le tre facce non gli piacciono perché volta loro di col-po la coda e sbattendola fa un'altra punta furiosa verso ilfondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto ilmuro con la pancia dorata all'aria. La Peppina, rovescio-ni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica perimborsar il malcapitato e non le riesce. «Per el müson!»,

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grida suo marito. «Per la cua!», strilla Ratì. A quellostrepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si di-batte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trovail «müson», non trova la «cua»; il Biancòn tira, la tincatrascinata a galla si aggomitola e con una potente spac-cata rompe il filo, strepita via tra la spuma. «Madòne!»,esclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l'acqua con lasua pertica; «dova l'è sto pèss? dova l'è sto pèss?», e ilBiancòn che era rimasto petrificato col filo in mano, sivolta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglieper le spalle, la scuote come un sacco di noci, la caricad'improperi. «L'è andada, scior Recitòr?», fa il sedenta-rio, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda illuogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suopacifico sughero e brontola in tono di compatimento:«Minga pràtich!».

Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, mal-concia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopoNovara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toc-cherà la stessa fortuna.

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grida suo marito. «Per la cua!», strilla Ratì. A quellostrepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si di-batte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trovail «müson», non trova la «cua»; il Biancòn tira, la tincatrascinata a galla si aggomitola e con una potente spac-cata rompe il filo, strepita via tra la spuma. «Madòne!»,esclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l'acqua con lasua pertica; «dova l'è sto pèss? dova l'è sto pèss?», e ilBiancòn che era rimasto petrificato col filo in mano, sivolta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglieper le spalle, la scuote come un sacco di noci, la caricad'improperi. «L'è andada, scior Recitòr?», fa il sedenta-rio, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda illuogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suopacifico sughero e brontola in tono di compatimento:«Minga pràtich!».

Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, mal-concia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopoNovara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toc-cherà la stessa fortuna.

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2.La sonata del chiaro di luna e delle nuvole

Il sole calava dietro al ciglio del monte Brè e l'ombraoscurava rapidamente la costa precipitosa e le case diOria, imprimeva, violacea e cupa, il profilo del montesul verde luminoso delle onde che correvano oblique aponente, grandi ancora ma senza spuma, nella brevastanca. Casa Ribera si era oscurata l'ultima. Addossataai ripidi vigneti della montagna, sparsi d'ulivi, essa ca-valca la viottola che costeggia il lago, e pianta nell'ondaviva una fronte modesta, fiancheggiata a ponente, versoil villaggio, da un giardinetto pensile a due ripiani, a le-vante, verso la chiesa, da una piccola terrazza gittata supilastri che inquadrano un pezzo di sagrato. Entra inquella fronte una piccola darsena dove allora si dondola-va, fra lo schiamazzar delle onde, il battello di Franco eLuisa. Sopra l'arco della darsena una galleria sottile legail giardinetto pensile di ponente alla terrazza di levante eguarda il lago per tre finestre. La chiamavan loggia, for-se perché lo era stata in antico. La vecchia casa portavaincrostati qua e là parecchi di questi venerandi nomifossili che vivevano per la tradizione e figuravano, nellaloro apparente assurdità, i misteri nella religione dellemura domestiche. Dietro alla loggia vi ha una sala spa-ziosa e dietro alla sala due stanze: a ponente il salottino

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2.La sonata del chiaro di luna e delle nuvole

Il sole calava dietro al ciglio del monte Brè e l'ombraoscurava rapidamente la costa precipitosa e le case diOria, imprimeva, violacea e cupa, il profilo del montesul verde luminoso delle onde che correvano oblique aponente, grandi ancora ma senza spuma, nella brevastanca. Casa Ribera si era oscurata l'ultima. Addossataai ripidi vigneti della montagna, sparsi d'ulivi, essa ca-valca la viottola che costeggia il lago, e pianta nell'ondaviva una fronte modesta, fiancheggiata a ponente, versoil villaggio, da un giardinetto pensile a due ripiani, a le-vante, verso la chiesa, da una piccola terrazza gittata supilastri che inquadrano un pezzo di sagrato. Entra inquella fronte una piccola darsena dove allora si dondola-va, fra lo schiamazzar delle onde, il battello di Franco eLuisa. Sopra l'arco della darsena una galleria sottile legail giardinetto pensile di ponente alla terrazza di levante eguarda il lago per tre finestre. La chiamavan loggia, for-se perché lo era stata in antico. La vecchia casa portavaincrostati qua e là parecchi di questi venerandi nomifossili che vivevano per la tradizione e figuravano, nellaloro apparente assurdità, i misteri nella religione dellemura domestiche. Dietro alla loggia vi ha una sala spa-ziosa e dietro alla sala due stanze: a ponente il salottino

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da pranzo tappezzato di piccoli uomini illustri di carta,ciascuno sotto il proprio vetro e dentro la propria corni-ce, ciascuno atteggiato dignitosamente a modo degl'illu-stri di carne e d'ossa, come se i colleghi nemmanco esi-stessero e il mondo non guardasse che a lui; a levante lacamera dell'alcova dove accanto agli sposi dormiva nelproprio letticciuolo la signorina Maria Maironi natanell'agosto del 1852.

Dai cassettoni rococò delle camere da letto alla madiadella cucina, dal nero pendolo del salottino da pranzo alcanapè della loggia con la sua stoffa color marrone co-sparsa di cavalieri turchi gialli e rossi, dalle seggiole im-pagliate a certi seggioloni dai bracciuoli spropositata-mente alti, i mobili della casa appartenevano all'epocadegli uomini illustri, la maggior parte dei quali portavaparrucca e codino. Se parevano discesi dal granaio, pa-revan pure aver ripreso nell'aria e nella luce della nuovadimora certe perdute abitudini di pulizia, un notevole in-teresse alla vita, una dignità di onesta vecchiaia. Cosìun'accozzaglia di vocaboli disusati potrebbe oggi com-porsi, nel soffio d'un attempato poeta conservatore, e ri-fletterne la serena ed elegante senilità. Sotto il regimematematico e burocratico dello zio Piero, seggiole eseggioloni, tavole e tavolini avevano vissuto in perfettasimmetria e il privilegio della inamovibilità era stato ac-cordato persino agli stoini. Il nome di «mobile» non loaveva meritato che un cuscino grigio e celeste, un abor-to di materasso, che l'ingegnere durante i suoi brevi sog-

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da pranzo tappezzato di piccoli uomini illustri di carta,ciascuno sotto il proprio vetro e dentro la propria corni-ce, ciascuno atteggiato dignitosamente a modo degl'illu-stri di carne e d'ossa, come se i colleghi nemmanco esi-stessero e il mondo non guardasse che a lui; a levante lacamera dell'alcova dove accanto agli sposi dormiva nelproprio letticciuolo la signorina Maria Maironi natanell'agosto del 1852.

Dai cassettoni rococò delle camere da letto alla madiadella cucina, dal nero pendolo del salottino da pranzo alcanapè della loggia con la sua stoffa color marrone co-sparsa di cavalieri turchi gialli e rossi, dalle seggiole im-pagliate a certi seggioloni dai bracciuoli spropositata-mente alti, i mobili della casa appartenevano all'epocadegli uomini illustri, la maggior parte dei quali portavaparrucca e codino. Se parevano discesi dal granaio, pa-revan pure aver ripreso nell'aria e nella luce della nuovadimora certe perdute abitudini di pulizia, un notevole in-teresse alla vita, una dignità di onesta vecchiaia. Cosìun'accozzaglia di vocaboli disusati potrebbe oggi com-porsi, nel soffio d'un attempato poeta conservatore, e ri-fletterne la serena ed elegante senilità. Sotto il regimematematico e burocratico dello zio Piero, seggiole eseggioloni, tavole e tavolini avevano vissuto in perfettasimmetria e il privilegio della inamovibilità era stato ac-cordato persino agli stoini. Il nome di «mobile» non loaveva meritato che un cuscino grigio e celeste, un abor-to di materasso, che l'ingegnere durante i suoi brevi sog-

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giorni a Oria si portava con sé quando mutava seggiolo-ne. Assente lui, il custode rispettava tanto le suppellettilida non osar di toccarne confidenzialmente, di spolverar-ne le parti meno visibili. Ciò faceva andar sulle furie lagovernante, regolarmente, ad ogni ritorno in Valsolda. Ilpadrone, irritato che per un po' di polvere si gridassetanto contro un povero diavolo di contadino, se la pi-gliava con lei e le suggeriva di spolverare ella stessa; equando la donna scattò a domandargli, in via di sdegno-sa replica, se dovesse ammazzarsi a spolverare tutta lacasa ogni volta che veniva, le rispose bonariamente:«Mazzèv ona volta sola ch'el sarà assée».

Egli abbandonava poi del tutto al capriccio del custodela coltivazione del giardinetto come quella di un ortoche possedeva a levante del sagrato, in riva al lago. Solouna volta, due anni prima del matrimonio di Luisa, arri-vando a Oria in principio di settembre e trovando nel se-condo ripiano del giardinetto sei piante di granturco, sipermise di dire al custode: «Sent on poo: quii ses gambde carlon, podarisset propi minga fann a men?».

I poeti non conservatori Franco e Luisa avevano tra-sformata, col loro soffio, la faccia delle cose. La poesiadi Franco era più ardita, fervida e appassionata, la poe-sia di Luisa era più prudente; così i sentimenti di Francogli fiammeggiavano sempre dagli occhi, dal viso, dallaparola e quelli di Luisa non davano quasi mai fiammema solo coloravano il fondo del suo sguardo penetrantee della sua voce morbida. Franco non era conservatore

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giorni a Oria si portava con sé quando mutava seggiolo-ne. Assente lui, il custode rispettava tanto le suppellettilida non osar di toccarne confidenzialmente, di spolverar-ne le parti meno visibili. Ciò faceva andar sulle furie lagovernante, regolarmente, ad ogni ritorno in Valsolda. Ilpadrone, irritato che per un po' di polvere si gridassetanto contro un povero diavolo di contadino, se la pi-gliava con lei e le suggeriva di spolverare ella stessa; equando la donna scattò a domandargli, in via di sdegno-sa replica, se dovesse ammazzarsi a spolverare tutta lacasa ogni volta che veniva, le rispose bonariamente:«Mazzèv ona volta sola ch'el sarà assée».

Egli abbandonava poi del tutto al capriccio del custodela coltivazione del giardinetto come quella di un ortoche possedeva a levante del sagrato, in riva al lago. Solouna volta, due anni prima del matrimonio di Luisa, arri-vando a Oria in principio di settembre e trovando nel se-condo ripiano del giardinetto sei piante di granturco, sipermise di dire al custode: «Sent on poo: quii ses gambde carlon, podarisset propi minga fann a men?».

I poeti non conservatori Franco e Luisa avevano tra-sformata, col loro soffio, la faccia delle cose. La poesiadi Franco era più ardita, fervida e appassionata, la poe-sia di Luisa era più prudente; così i sentimenti di Francogli fiammeggiavano sempre dagli occhi, dal viso, dallaparola e quelli di Luisa non davano quasi mai fiammema solo coloravano il fondo del suo sguardo penetrantee della sua voce morbida. Franco non era conservatore

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che in religione e in arte; per le mura domestiche era unradicale ardente, immaginava sempre trasformazioni dipareti, di soffitti, di pavimenti, di arredi. Luisa incomin-ciava con ammirar il suo genio, ma poiché i denari veni-van quasi tutti dallo zio e non ci era larghezza per im-prese fantastiche, piano piano, un po' per volta, lo per-suadeva di lasciar a posto le pareti, i soffitti e anche ipavimenti, di studiar come si sarebbero potuti disporremeglio gli arredi senza trasformarli. E gli suggeriva del-le idee senza averne l'aria, facendogli credere che veni-van da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci te-neva molto e Luisa era invece del tutto indifferente aquesta maternità. Così tra l'uno e l'altra disposero la salaper la conversazione, la lettura e la musica, la loggia peril giuoco, la terrazza per il caffè e per le contemplazionipoetiche. Di quella terrazzina Franco fece la poesia liri-ca della casa. Era piccina assai e parve a Luisa che vi sipotesse concedere un po' di sfogo all'estro di suo marito.Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi valsoldesi, ilfamoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglievaalla terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò dalui mediante pecunia, disegnò e alzò sopra la terrazza unaereo contesto di sottili aste e bastoncini di ferro che fi-guravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandòsu due passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i lorograndi occhi celesti e ricadevano da ogni parte in festonie vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune sedie di ferroservivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto algiardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare an-

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che in religione e in arte; per le mura domestiche era unradicale ardente, immaginava sempre trasformazioni dipareti, di soffitti, di pavimenti, di arredi. Luisa incomin-ciava con ammirar il suo genio, ma poiché i denari veni-van quasi tutti dallo zio e non ci era larghezza per im-prese fantastiche, piano piano, un po' per volta, lo per-suadeva di lasciar a posto le pareti, i soffitti e anche ipavimenti, di studiar come si sarebbero potuti disporremeglio gli arredi senza trasformarli. E gli suggeriva del-le idee senza averne l'aria, facendogli credere che veni-van da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci te-neva molto e Luisa era invece del tutto indifferente aquesta maternità. Così tra l'uno e l'altra disposero la salaper la conversazione, la lettura e la musica, la loggia peril giuoco, la terrazza per il caffè e per le contemplazionipoetiche. Di quella terrazzina Franco fece la poesia liri-ca della casa. Era piccina assai e parve a Luisa che vi sipotesse concedere un po' di sfogo all'estro di suo marito.Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi valsoldesi, ilfamoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglievaalla terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò dalui mediante pecunia, disegnò e alzò sopra la terrazza unaereo contesto di sottili aste e bastoncini di ferro che fi-guravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandòsu due passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i lorograndi occhi celesti e ricadevano da ogni parte in festonie vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune sedie di ferroservivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto algiardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare an-

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che il granturco per una tolleranza di spirito superioreche ama lasciar in pace gl'inferiori nelle loro idee, nelleloro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa ri-spettosa pietà per gl'ideali orticoli del povero custode,per quell'insalata di rozzezze e di gentilezze ch'egli ave-va nel cuore, un gran cuore capace di accogliere insiemereseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco,generoso e religioso com'era, non avrebbe tollerato nelsuo giardino una zucca né una carota per amore di qual-siasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava. Quan-do l'infelice ortolano si sentì predicare dal signor donFranco che il giardinetto era una porcheria, che bisogna-va cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvili-to da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per ri-formare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantarearbusti e fiori, vedendo come il padrone stesso sapesselavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qualportentoso talento avesse in testa per immaginare dispo-sizioni nuove e belle, concepì poco a poco per luiun'ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgradoi molti rabbuffi, una affezione devota.

Il giardinetto pensile fu trasformato a immagine e simi-litudine di Franco. Un'olea fragrans vi diceva in un an-golo la potenza delle cose gentili sul caldo impetuosospirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vidiceva in un altro angolo la sua religiosità; un piccoloparapetto di mattoni a traforo, fra il cipresso e l'olea, condue righe di tufi in testa che contenevano un ridente po-

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che il granturco per una tolleranza di spirito superioreche ama lasciar in pace gl'inferiori nelle loro idee, nelleloro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa ri-spettosa pietà per gl'ideali orticoli del povero custode,per quell'insalata di rozzezze e di gentilezze ch'egli ave-va nel cuore, un gran cuore capace di accogliere insiemereseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco,generoso e religioso com'era, non avrebbe tollerato nelsuo giardino una zucca né una carota per amore di qual-siasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava. Quan-do l'infelice ortolano si sentì predicare dal signor donFranco che il giardinetto era una porcheria, che bisogna-va cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvili-to da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per ri-formare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantarearbusti e fiori, vedendo come il padrone stesso sapesselavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qualportentoso talento avesse in testa per immaginare dispo-sizioni nuove e belle, concepì poco a poco per luiun'ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgradoi molti rabbuffi, una affezione devota.

Il giardinetto pensile fu trasformato a immagine e simi-litudine di Franco. Un'olea fragrans vi diceva in un an-golo la potenza delle cose gentili sul caldo impetuosospirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vidiceva in un altro angolo la sua religiosità; un piccoloparapetto di mattoni a traforo, fra il cipresso e l'olea, condue righe di tufi in testa che contenevano un ridente po-

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polo di verbene, petunie e portulache, accennava alla in-gegnosità singolare dell'autore; le molte rose sparse dap-pertutto parlavano del suo affetto alla bellezza classica;il ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, idue aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, luci-do carrubo rivelavano un temperamento freddoloso, unafantasia volta sempre al mezzogiorno, insensibile al fa-scino del nord.

Luisa aveva lavorato e lavorava assai più del marito;ma se questi si compiaceva delle proprie fatiche e neparlava volentieri, Luisa invece non ne parlava mai enon ne traeva veramente alcuna vanità. Lavorava d'ago,d'uncinetto, di ferri, di forbici, con una tranquilla rapidi-tà prodigiosa, per suo marito, per la sua bambina, perornar la sua casa, per i poveri e per sé. Tutte le stanzeavevan lavori suoi, cortine, tappeti, cuscini, paralumi.Era pure affar suo di collocare i fiori in sala e in loggia;non piante in vaso perché Franco ne aveva poche e nongli garbava di chiuderle nelle stanze; non fiori del giar-dinetto perché coglierne uno era come strapparglielo dalcuore. Erano invece a disposizione di Luisa le dalie, lerose, i gladioli, gli astri dell'orto. Ma poiché non le ba-stavano e poiché il villaggio, dopo Dio, Santa Margheri-ta e S. Sebastiano, adorava la «sciora Lüisa», così ad uncenno suo i ragazzi le portavano fiori selvaggi e felci, leportavano edera per rilegar con festoni i grandi mazzifissati alle pareti dentro anelli di metallo. Anche allebraccia dell'arpa che pendeva dal soffitto della sala era-

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polo di verbene, petunie e portulache, accennava alla in-gegnosità singolare dell'autore; le molte rose sparse dap-pertutto parlavano del suo affetto alla bellezza classica;il ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, idue aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, luci-do carrubo rivelavano un temperamento freddoloso, unafantasia volta sempre al mezzogiorno, insensibile al fa-scino del nord.

Luisa aveva lavorato e lavorava assai più del marito;ma se questi si compiaceva delle proprie fatiche e neparlava volentieri, Luisa invece non ne parlava mai enon ne traeva veramente alcuna vanità. Lavorava d'ago,d'uncinetto, di ferri, di forbici, con una tranquilla rapidi-tà prodigiosa, per suo marito, per la sua bambina, perornar la sua casa, per i poveri e per sé. Tutte le stanzeavevan lavori suoi, cortine, tappeti, cuscini, paralumi.Era pure affar suo di collocare i fiori in sala e in loggia;non piante in vaso perché Franco ne aveva poche e nongli garbava di chiuderle nelle stanze; non fiori del giar-dinetto perché coglierne uno era come strapparglielo dalcuore. Erano invece a disposizione di Luisa le dalie, lerose, i gladioli, gli astri dell'orto. Ma poiché non le ba-stavano e poiché il villaggio, dopo Dio, Santa Margheri-ta e S. Sebastiano, adorava la «sciora Lüisa», così ad uncenno suo i ragazzi le portavano fiori selvaggi e felci, leportavano edera per rilegar con festoni i grandi mazzifissati alle pareti dentro anelli di metallo. Anche allebraccia dell'arpa che pendeva dal soffitto della sala era-

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no sempre attorcigliati lunghi serpenti d'edera e di passi-flora.

Lo zio Piero, quando gli scrivevano di queste novità,rispondeva poco o nulla. Tutt'al più raccomandava dinon tener troppo occupato l'ortolano il quale doveva purattendere alle faccende proprie. La prima volta che capi-tò a Oria dopo la trasformazione del giardinetto, si fer-mò a guardarlo come aveva fatto per le sei piante digranturco e borbottò sottovoce: «Oh poer a mi!». Uscìsulla terrazza, guardò il cupolino, toccò le aste di ferro epronunciò un «basta!» rassegnato ma pieno di disappro-vazione per tante eleganze superiori allo stato suo e de'suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tuttii mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e dellaloggia, disse con un bonario sorriso: «Sent on poo, Lüi-sa; con tütt st'erba chì farisset minga mèj a tegnì on parade pégor?».

Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammaz-zare per la polvere e le ragnatele, ma l'ortolano vantòsenza fine le opere miracolose del signor don Franco edegli stesso cominciò presto ad abituarsi ai nuovi aspettidella sua casa, a guardar senza malevolenza il cupolinodella terrazza che gli faceva comodo per l'ombra. Dopotre o quattro giorni domandò chi lo avesse eseguito e gliaccadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori delgiardinetto, di chiedere il nome dell'uno e dell'altro.Dopo otto o dieci giorni, stando con la piccola Mariasulla porta della sala che mette al giardinetto, le doman-

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no sempre attorcigliati lunghi serpenti d'edera e di passi-flora.

Lo zio Piero, quando gli scrivevano di queste novità,rispondeva poco o nulla. Tutt'al più raccomandava dinon tener troppo occupato l'ortolano il quale doveva purattendere alle faccende proprie. La prima volta che capi-tò a Oria dopo la trasformazione del giardinetto, si fer-mò a guardarlo come aveva fatto per le sei piante digranturco e borbottò sottovoce: «Oh poer a mi!». Uscìsulla terrazza, guardò il cupolino, toccò le aste di ferro epronunciò un «basta!» rassegnato ma pieno di disappro-vazione per tante eleganze superiori allo stato suo e de'suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tuttii mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e dellaloggia, disse con un bonario sorriso: «Sent on poo, Lüi-sa; con tütt st'erba chì farisset minga mèj a tegnì on parade pégor?».

Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammaz-zare per la polvere e le ragnatele, ma l'ortolano vantòsenza fine le opere miracolose del signor don Franco edegli stesso cominciò presto ad abituarsi ai nuovi aspettidella sua casa, a guardar senza malevolenza il cupolinodella terrazza che gli faceva comodo per l'ombra. Dopotre o quattro giorni domandò chi lo avesse eseguito e gliaccadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori delgiardinetto, di chiedere il nome dell'uno e dell'altro.Dopo otto o dieci giorni, stando con la piccola Mariasulla porta della sala che mette al giardinetto, le doman-

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dò: «Chi ha piantato tutti questi bei fiori?», e le insegnòa rispondere: «Papà». Ad un suo impiegato venuto a far-gli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse gli elo-gi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione:«Sì sì, per questo sì». Insomma finì con diventare unammiratore di Franco e persino con dare ascolto, in viadi conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco cre-scevano l'ammirazione e la gratitudine per quella grandee generosa bontà, che aveva vinto la natura conservatri-ce, l'avversione antica alle eleganze di ogni maniera; perla solita bontà che ad ogni simile contrasto saliva salivasilenziosamente dietro le renitenze dello zio fino a sor-montare, a coprir tutto con una larga onda di acquie-scenza o almeno con la frase sacramentale «del resto,fate vobis». A una sola novità lo zio non aveva volutoadattarsi: alla scomparsa del suo vecchio cuscino. «Lui-sa», diss'egli sollevando con due dita dal seggiolone ilnuovo cuscino ricamato: «porta via». E non ci fu versodi persuaderlo. «Et capì de portall via?» Quando Luisasorridendo gli diede il vecchio materassino abortito, eglici si sedette su con un sonoro «inscì!» come se ripren-desse solennemente il possesso di un trono.

Adesso, mentre l'ombra violacea invadeva il verde del-le onde e correva lungo la costa, di paesello in paesello,spegnendo, una dopo l'altra, le bianche case lucenti, egliera appunto seduto sul suo trono e si teneva sulle ginoc-chia la piccola Maria, mentre Franco, sulla terrazza, an-naffiava i vasi di pelargoni, pieno il cuore e il viso di

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dò: «Chi ha piantato tutti questi bei fiori?», e le insegnòa rispondere: «Papà». Ad un suo impiegato venuto a far-gli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse gli elo-gi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione:«Sì sì, per questo sì». Insomma finì con diventare unammiratore di Franco e persino con dare ascolto, in viadi conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco cre-scevano l'ammirazione e la gratitudine per quella grandee generosa bontà, che aveva vinto la natura conservatri-ce, l'avversione antica alle eleganze di ogni maniera; perla solita bontà che ad ogni simile contrasto saliva salivasilenziosamente dietro le renitenze dello zio fino a sor-montare, a coprir tutto con una larga onda di acquie-scenza o almeno con la frase sacramentale «del resto,fate vobis». A una sola novità lo zio non aveva volutoadattarsi: alla scomparsa del suo vecchio cuscino. «Lui-sa», diss'egli sollevando con due dita dal seggiolone ilnuovo cuscino ricamato: «porta via». E non ci fu versodi persuaderlo. «Et capì de portall via?» Quando Luisasorridendo gli diede il vecchio materassino abortito, eglici si sedette su con un sonoro «inscì!» come se ripren-desse solennemente il possesso di un trono.

Adesso, mentre l'ombra violacea invadeva il verde del-le onde e correva lungo la costa, di paesello in paesello,spegnendo, una dopo l'altra, le bianche case lucenti, egliera appunto seduto sul suo trono e si teneva sulle ginoc-chia la piccola Maria, mentre Franco, sulla terrazza, an-naffiava i vasi di pelargoni, pieno il cuore e il viso di

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contentezza affettuosa come se versasse da bere aIsmaele nel deserto, e Luisa stava sgrovigliando pazien-temente una pesca di suo marito, un garbuglio paurosodi spago, di piombi, di seta e di ami. Ella discorreva inpari tempo col professore Gilardoni che aveva semprequalche garbuglio filosofico da sgrovigliare e ci si met-teva molto più volentieri con lei che con Franco, il qualelo contraddiceva sempre, a torto e a ragione, avendoloin concetto d'un ottimo cuore e d'una testa confusa. Lozio, tenendo il ginocchio destro sul sinistro e la bambinasul mucchio, le ripeteva per la centesima volta, con af-fettata lentezza, e storpiando un poco il nome esotico, lacanzonetta:

Ombretta sdegnosaDel Missipipì.

Fino alla quarta parola la bambina lo ascoltava immo-bile, seria, con gli occhi fissi; ma quando veniva fuori il«Missipipì» scoppiava in un riso, sbatteva forte le gam-bucce e piantava le manine sulla bocca dello zio, il qua-le rideva anche lui di cuore e dopo un breve riposo rico-minciava adagio adagio, nel tono solito:

Ombretta sdegnosa...La bambina non somigliava né al padre né alla madre,

aveva gli occhi, i lineamenti fini della nonna Teresa. Alvecchio zio, che pure vedeva di rado, mostrava una te-nerezza strana, impetuosa. Lo zio non le diceva parolinedolci, le faceva, occorrendo, qualche piccola riprensio-

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contentezza affettuosa come se versasse da bere aIsmaele nel deserto, e Luisa stava sgrovigliando pazien-temente una pesca di suo marito, un garbuglio paurosodi spago, di piombi, di seta e di ami. Ella discorreva inpari tempo col professore Gilardoni che aveva semprequalche garbuglio filosofico da sgrovigliare e ci si met-teva molto più volentieri con lei che con Franco, il qualelo contraddiceva sempre, a torto e a ragione, avendoloin concetto d'un ottimo cuore e d'una testa confusa. Lozio, tenendo il ginocchio destro sul sinistro e la bambinasul mucchio, le ripeteva per la centesima volta, con af-fettata lentezza, e storpiando un poco il nome esotico, lacanzonetta:

Ombretta sdegnosaDel Missipipì.

Fino alla quarta parola la bambina lo ascoltava immo-bile, seria, con gli occhi fissi; ma quando veniva fuori il«Missipipì» scoppiava in un riso, sbatteva forte le gam-bucce e piantava le manine sulla bocca dello zio, il qua-le rideva anche lui di cuore e dopo un breve riposo rico-minciava adagio adagio, nel tono solito:

Ombretta sdegnosa...La bambina non somigliava né al padre né alla madre,

aveva gli occhi, i lineamenti fini della nonna Teresa. Alvecchio zio, che pure vedeva di rado, mostrava una te-nerezza strana, impetuosa. Lo zio non le diceva parolinedolci, le faceva, occorrendo, qualche piccola riprensio-

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ne, ma le portava sempre giuocattoli, la conduceva spes-so a passeggio, se la faceva saltar sulle ginocchia, ridevacon lei, le diceva canzonette comiche, quella che comin-ciava col «Missipipì» e un'altra che finiva:

Rispose tosto Barucabà.Chi era mai Barucabà? E cosa gli avevano domandato?«Toa Bà, toa Bà!», diceva Maria; «ancora Barucabà,

ancora Barucabà!» Lo zio le ripeteva allora la poeticastoria ma nessuno la sa più ripetere a me.

Ecco di che parlava a Luisa, con la sua voce timida egentile, il professore Gilardoni, diventato un tantin piùvecchio, un tantin più calvo, un tantin più giallo. «Chisa», aveva detto Luisa, «se Maria somiglierà alla nonnacome nel viso anche nell'anima?» Il professore risposeche sarebbe stato un miracolo avere in una famiglia, acosì poca distanza, due anime simili. E volendo spiegarea quale rarissima specie fosse appartenuta, nel suo con-cetto, l'anima della nonna, mise fuori il seguente garbu-glio. «Vi sono», diss'egli, «anime che negano aperta-mente la vita futura e vivono proprio secondo la loroopinione, per la sola vita presente. Queste non sonomolte. Poi vi sono anime che mostrano di credere nellavita futura e vivono del tutto per la presente. Questesono alquante più. Poi vi sono anime che alla vita futuranon pensano e vivono però in modo da non mettersitroppo a repentaglio di perderla se c'è. Queste sono piùancora. Poi vi sono anime che credono veramente nella

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ne, ma le portava sempre giuocattoli, la conduceva spes-so a passeggio, se la faceva saltar sulle ginocchia, ridevacon lei, le diceva canzonette comiche, quella che comin-ciava col «Missipipì» e un'altra che finiva:

Rispose tosto Barucabà.Chi era mai Barucabà? E cosa gli avevano domandato?«Toa Bà, toa Bà!», diceva Maria; «ancora Barucabà,

ancora Barucabà!» Lo zio le ripeteva allora la poeticastoria ma nessuno la sa più ripetere a me.

Ecco di che parlava a Luisa, con la sua voce timida egentile, il professore Gilardoni, diventato un tantin piùvecchio, un tantin più calvo, un tantin più giallo. «Chisa», aveva detto Luisa, «se Maria somiglierà alla nonnacome nel viso anche nell'anima?» Il professore risposeche sarebbe stato un miracolo avere in una famiglia, acosì poca distanza, due anime simili. E volendo spiegarea quale rarissima specie fosse appartenuta, nel suo con-cetto, l'anima della nonna, mise fuori il seguente garbu-glio. «Vi sono», diss'egli, «anime che negano aperta-mente la vita futura e vivono proprio secondo la loroopinione, per la sola vita presente. Queste non sonomolte. Poi vi sono anime che mostrano di credere nellavita futura e vivono del tutto per la presente. Questesono alquante più. Poi vi sono anime che alla vita futuranon pensano e vivono però in modo da non mettersitroppo a repentaglio di perderla se c'è. Queste sono piùancora. Poi vi sono anime che credono veramente nella

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vita futura e dividono pensieri e opere in due categorieche fanno quasi sempre ai pugni fra loro: una è per ilcielo, l'altra è per la terra. Queste sono moltissime. Poivi sono anime che vivono per la sola vita futura nellaquale credono. Queste sono pochissime e la signora Te-resa era di queste.»

Franco, che non poteva soffrire le disquisizioni psico-logiche, passò accigliato col suo annaffiatoio vuoto perandare nel giardinetto e pensò: «Poi vi sono anime cherompono l'anima». Lo zio, del resto un po' sordo, ridevacon la Maria. Luisa, passato che fu suo marito, dissepiano: «Poi vi sono anime che vivono come se vi fossela sola vita futura nella quale non credono: e di questeve n'è una». Il professore trasalì e la guardò senza dirnulla. Ella stava cercando nella matassa della pesca unfilo doppio, a occhiello, per farlo passare. Non videquello sguardo ma lo sentì e si affrettò a indicare colcapo lo zio. Aveva ella pensato proprio a lui nel dirquello che aveva detto? O vi era stata nel suo pensierouna occulta complicazione? Aveva pensato allo zio sen-za un vero convincimento, solo perché non osava nomi-nare, neanche nel pensiero, un'altra persona cui le sueparole potevano riferirsi più giustamente? Il silenzio delprofessore, lo sguardo scrutatore di lui, non incontratoma sentito, le rivelarono ch'egli sospettava di lei stessa:per questo accennò frettolosamente allo zio.

«Non crede nella vita futura?», mormorò il professore.

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vita futura e dividono pensieri e opere in due categorieche fanno quasi sempre ai pugni fra loro: una è per ilcielo, l'altra è per la terra. Queste sono moltissime. Poivi sono anime che vivono per la sola vita futura nellaquale credono. Queste sono pochissime e la signora Te-resa era di queste.»

Franco, che non poteva soffrire le disquisizioni psico-logiche, passò accigliato col suo annaffiatoio vuoto perandare nel giardinetto e pensò: «Poi vi sono anime cherompono l'anima». Lo zio, del resto un po' sordo, ridevacon la Maria. Luisa, passato che fu suo marito, dissepiano: «Poi vi sono anime che vivono come se vi fossela sola vita futura nella quale non credono: e di questeve n'è una». Il professore trasalì e la guardò senza dirnulla. Ella stava cercando nella matassa della pesca unfilo doppio, a occhiello, per farlo passare. Non videquello sguardo ma lo sentì e si affrettò a indicare colcapo lo zio. Aveva ella pensato proprio a lui nel dirquello che aveva detto? O vi era stata nel suo pensierouna occulta complicazione? Aveva pensato allo zio sen-za un vero convincimento, solo perché non osava nomi-nare, neanche nel pensiero, un'altra persona cui le sueparole potevano riferirsi più giustamente? Il silenzio delprofessore, lo sguardo scrutatore di lui, non incontratoma sentito, le rivelarono ch'egli sospettava di lei stessa:per questo accennò frettolosamente allo zio.

«Non crede nella vita futura?», mormorò il professore.

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«Direi di no», rispose Luisa e subito si sentì nel cuoreun rimorso, sentì che non aveva sufficienti ragioni, chenon aveva il diritto di rispondere così. In fatto lo zioPiero non s'era curato mai di meditare sulla religione:egli compenetrava nel suo concetto della onestà la conti-nuazione delle vecchie pratiche di famiglia, la professio-ne della fede avita, presa come stava, alla carlona. Il suoera un Dio bonario come lui, che non ci teneva tanto allegiaculatorie né ai rosari, come lui; un Dio contento diaver per ministri, com'era contento lui di aver per amici,dei galantuomini di cuore, fossero pure allegri mangia-tori e bevitori, tarocchisti per la vita, franchi raccontato-ri di porcherie non disoneste a lecito sfogo della sudiciailarità che ciascuno ha in corpo. Certi suoi discorsischerzosi, certi aforismi buttati là senza riflettere sullaimportanza relativa delle pratiche religiose e sulla im-portanza assoluta del vivere onesto l'avevano colpita finda bambina, anche perché la mamma se ne inquietavamoltissimo e supplicava suo fratello di non dire spropo-siti. Le era entrato il sospetto che lo zio andasse in chie-sa solamente per convenienza. Non era vero; non biso-gnava tener conto degli aforismi di uno che, invecchiatonel sacrificio e nell'abnegazione, soleva dire «charitasincipit ab ego»; e poi, quand'anche lo zio avesse stimatopoco le pratiche religiose, a negar la vita futura ci corre-va ancora un bel tratto. Infatti, appena messo fuori il suogiudizio e uditolo suonare, Luisa lo sentì falso, vide piùchiaro in se stessa, intese di avere inconsciamente cerca-to nell'esempio dello zio un appoggio e un conforto per

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«Direi di no», rispose Luisa e subito si sentì nel cuoreun rimorso, sentì che non aveva sufficienti ragioni, chenon aveva il diritto di rispondere così. In fatto lo zioPiero non s'era curato mai di meditare sulla religione:egli compenetrava nel suo concetto della onestà la conti-nuazione delle vecchie pratiche di famiglia, la professio-ne della fede avita, presa come stava, alla carlona. Il suoera un Dio bonario come lui, che non ci teneva tanto allegiaculatorie né ai rosari, come lui; un Dio contento diaver per ministri, com'era contento lui di aver per amici,dei galantuomini di cuore, fossero pure allegri mangia-tori e bevitori, tarocchisti per la vita, franchi raccontato-ri di porcherie non disoneste a lecito sfogo della sudiciailarità che ciascuno ha in corpo. Certi suoi discorsischerzosi, certi aforismi buttati là senza riflettere sullaimportanza relativa delle pratiche religiose e sulla im-portanza assoluta del vivere onesto l'avevano colpita finda bambina, anche perché la mamma se ne inquietavamoltissimo e supplicava suo fratello di non dire spropo-siti. Le era entrato il sospetto che lo zio andasse in chie-sa solamente per convenienza. Non era vero; non biso-gnava tener conto degli aforismi di uno che, invecchiatonel sacrificio e nell'abnegazione, soleva dire «charitasincipit ab ego»; e poi, quand'anche lo zio avesse stimatopoco le pratiche religiose, a negar la vita futura ci corre-va ancora un bel tratto. Infatti, appena messo fuori il suogiudizio e uditolo suonare, Luisa lo sentì falso, vide piùchiaro in se stessa, intese di avere inconsciamente cerca-to nell'esempio dello zio un appoggio e un conforto per

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sé.Il professore era tutto commosso di una rivelazione

tanto inattesa.«Quest'anima unica», diss'egli, «che vive come se non

pensasse che alla vita futura nella quale non crede, è inerrore, ma bisogna pur ammirarla come la più nobile, lapiù grande. È una cosa sublime!»

«Lei è certo, però, che quest'anima è in errore?»«Oh sì sì!»«Ma Lei, a quale delle Sue categorie appartiene?»Il professore si credeva dei pochissimi che si regolano

interamente secondo un'aspirazione alla vita futura; ben-ché forse sarebbe stato imbarazzato a dimostrare che isuoi profondi studi su Raspail, il suo zelo nel preparareacqua sedativa e sigarette di canfora, il suo orroredell'umidità e delle correnti d'aria significassero poca te-nerezza per la vita presente. Però non volle rispondere,disse che non appartenendo a nessuna Chiesa, credevatuttavia fermamente in Dio e nella vita futura e che nonpoteva giudicare il proprio modo di vivere.

Intanto Franco, annaffiando il giardinetto, aveva trova-to fiorita una verbena nuova, e, posato l'annaffiatoio, eravenuto sulla soglia della loggia e chiamava la Maria perfargliela vedere. La Maria si lasciava chiamare e volevaancora «Missipipì», onde lo zio la posò a terra e la con-dusse lui al papà.

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sé.Il professore era tutto commosso di una rivelazione

tanto inattesa.«Quest'anima unica», diss'egli, «che vive come se non

pensasse che alla vita futura nella quale non crede, è inerrore, ma bisogna pur ammirarla come la più nobile, lapiù grande. È una cosa sublime!»

«Lei è certo, però, che quest'anima è in errore?»«Oh sì sì!»«Ma Lei, a quale delle Sue categorie appartiene?»Il professore si credeva dei pochissimi che si regolano

interamente secondo un'aspirazione alla vita futura; ben-ché forse sarebbe stato imbarazzato a dimostrare che isuoi profondi studi su Raspail, il suo zelo nel preparareacqua sedativa e sigarette di canfora, il suo orroredell'umidità e delle correnti d'aria significassero poca te-nerezza per la vita presente. Però non volle rispondere,disse che non appartenendo a nessuna Chiesa, credevatuttavia fermamente in Dio e nella vita futura e che nonpoteva giudicare il proprio modo di vivere.

Intanto Franco, annaffiando il giardinetto, aveva trova-to fiorita una verbena nuova, e, posato l'annaffiatoio, eravenuto sulla soglia della loggia e chiamava la Maria perfargliela vedere. La Maria si lasciava chiamare e volevaancora «Missipipì», onde lo zio la posò a terra e la con-dusse lui al papà.

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«Però, professore», disse Luisa uscendo con la parolaviva da un corso occulto d'idee, «si può, non è vero, cre-dere in Dio e dubitare della nostra vita futura?»

Ell'aveva posato, così dicendo, l'aggrovigliata matassadella pesca e guardava il Gilardoni in viso con un inte-resse vivo, con un desiderio manifesto che rispondessedi sì; e, perché il Gilardoni taceva, soggiunse:

«Mi pare che qualcuno potrebbe dire: che obbligo haIddio di regalarci l'immortalità? L'immortalità dell'ani-ma è una invenzione dell'egoismo umano che in fin deiconti vuol far servire Iddio al comodo proprio. Noi vo-gliamo un premio per il bene che facciamo agli altri euna pena per il male che gli altri fanno a noi. Rassegna-moci invece a morire anche noi del tutto come ogni es-sere vivente e facciamo sin che siamo vivi la giustiziaper noi e per gli altri, senza speranza di premi futuri,solo perché Iddio vuole da noi questo come vuole cheogni stella faccia lume e che ogni pianta faccia ombra.Cosa Le pare, a Lei?»

«Cosa vuol che Le dica?», rispose il Gilardoni. «A mepare una gran bellezza! Non posso dire: una gran verità.Non lo so, non ci ho mai pensato; ma una gran bellezza!Io dico che il Cristianesimo non ha potuto avere né im-maginare dei Santi sublimi come questo qualcuno! Èuna gran bellezza, è una gran bellezza!»

«Perché poi», riprese Luisa dopo un breve silenzio, «sipotrebbe forse anche sostenere che questa vita futura

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«Però, professore», disse Luisa uscendo con la parolaviva da un corso occulto d'idee, «si può, non è vero, cre-dere in Dio e dubitare della nostra vita futura?»

Ell'aveva posato, così dicendo, l'aggrovigliata matassadella pesca e guardava il Gilardoni in viso con un inte-resse vivo, con un desiderio manifesto che rispondessedi sì; e, perché il Gilardoni taceva, soggiunse:

«Mi pare che qualcuno potrebbe dire: che obbligo haIddio di regalarci l'immortalità? L'immortalità dell'ani-ma è una invenzione dell'egoismo umano che in fin deiconti vuol far servire Iddio al comodo proprio. Noi vo-gliamo un premio per il bene che facciamo agli altri euna pena per il male che gli altri fanno a noi. Rassegna-moci invece a morire anche noi del tutto come ogni es-sere vivente e facciamo sin che siamo vivi la giustiziaper noi e per gli altri, senza speranza di premi futuri,solo perché Iddio vuole da noi questo come vuole cheogni stella faccia lume e che ogni pianta faccia ombra.Cosa Le pare, a Lei?»

«Cosa vuol che Le dica?», rispose il Gilardoni. «A mepare una gran bellezza! Non posso dire: una gran verità.Non lo so, non ci ho mai pensato; ma una gran bellezza!Io dico che il Cristianesimo non ha potuto avere né im-maginare dei Santi sublimi come questo qualcuno! Èuna gran bellezza, è una gran bellezza!»

«Perché poi», riprese Luisa dopo un breve silenzio, «sipotrebbe forse anche sostenere che questa vita futura

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non sarebbe proprio felice. Vi è felicità quando non siconosce la ragione di tutte le cose, quando non si arrivaa spiegare tutti i misteri? E il desiderio di saper tuttosarà esso appagato nella vita futura? Non resterà ancoraun mistero impenetrabile? Non dicono che Dio non siconoscerà interamente mai? E allora, nel nostro deside-rio di sapere, non finiremo a soffrire come adesso, anziforse più, perché in una vita superiore quel desideriodev'essere ancora più forte? Io vedrei un solo modo diarrivare a saper tutto e sarebbe di diventar Dio...»

«Ah, Lei è panteista!», esclamò il professore, interrom-pendo.

«Ssss!», fece Luisa. «No no no! Io sono cristiana catto-lica. Dico quel che altri potrebbero sostenere.»

«Ma scusi, vi è un panteismo...»«Ancora filosofia?», esclamò Franco entrando con la

piccina in braccio.«Oh, miseria!», borbottò lo zio alle sue spalle.Maria teneva in mano una bella rosa bianca. «Guarda

questa rosa, Luisa», disse Franco. «Maria, da' il fiorealla mamma. Guarda la forma di questa rosa, guarda ilportamento, guarda le sfumature, le venature di questipetali, guarda quella stria rossa; e senti che odore, ades-so! E lascia star la filosofia.»

«Lei è nemico della filosofia?», osservò il professore,sorridendo.

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non sarebbe proprio felice. Vi è felicità quando non siconosce la ragione di tutte le cose, quando non si arrivaa spiegare tutti i misteri? E il desiderio di saper tuttosarà esso appagato nella vita futura? Non resterà ancoraun mistero impenetrabile? Non dicono che Dio non siconoscerà interamente mai? E allora, nel nostro deside-rio di sapere, non finiremo a soffrire come adesso, anziforse più, perché in una vita superiore quel desideriodev'essere ancora più forte? Io vedrei un solo modo diarrivare a saper tutto e sarebbe di diventar Dio...»

«Ah, Lei è panteista!», esclamò il professore, interrom-pendo.

«Ssss!», fece Luisa. «No no no! Io sono cristiana catto-lica. Dico quel che altri potrebbero sostenere.»

«Ma scusi, vi è un panteismo...»«Ancora filosofia?», esclamò Franco entrando con la

piccina in braccio.«Oh, miseria!», borbottò lo zio alle sue spalle.Maria teneva in mano una bella rosa bianca. «Guarda

questa rosa, Luisa», disse Franco. «Maria, da' il fiorealla mamma. Guarda la forma di questa rosa, guarda ilportamento, guarda le sfumature, le venature di questipetali, guarda quella stria rossa; e senti che odore, ades-so! E lascia star la filosofia.»

«Lei è nemico della filosofia?», osservò il professore,sorridendo.

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«Io sono amico», rispose Franco, «della filosofia facilee sicura che m'insegnano anche le rose.»

«La filosofia, caro professore», interloquì lo zio, solen-nemente, «l'è tutta in Aristòtel: quell che te pòdet avè,tòtel.»

«Lei scherza», ribatté il professore, «ma Lei pure è unfilosofo.»

L'ingegnere gli posò una mano sulla spalla:«Sentite, caro amico, la mia filosofia in vott o des bic-

cièr la ci sta tutta».«Euh, vott o des biccièr!», borbottò la governante che

udì, entrando, questa spacconata d'intemperanza del suomisuratissimo padrone. «Vott o des corni!»

Veniva ad annunciare don Giuseppe Costabarbieri chefece in pari tempo udire dalla sala un cavernoso e pureilare Deo gratias. Ecco la rugosa faccia rossa, gli occhiallegri, i capelli bianchi del mansueto prete.

«Si discorre di filosofia, don Giuseppe», disse Luisadopo i primi saluti. «Venga qui e metta fuori le Sue belleidee anche Lei!»

Don Giuseppe si grattò la nuca e poi volgendo un po' ilcapo verso l'ingegnere con lo sguardo di chi desiderauna cosa e non osa domandarla, mise fuori il fiore dellesue idee filosofiche:

«Sarissel minga mej fa ona primerina?»

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«Io sono amico», rispose Franco, «della filosofia facilee sicura che m'insegnano anche le rose.»

«La filosofia, caro professore», interloquì lo zio, solen-nemente, «l'è tutta in Aristòtel: quell che te pòdet avè,tòtel.»

«Lei scherza», ribatté il professore, «ma Lei pure è unfilosofo.»

L'ingegnere gli posò una mano sulla spalla:«Sentite, caro amico, la mia filosofia in vott o des bic-

cièr la ci sta tutta».«Euh, vott o des biccièr!», borbottò la governante che

udì, entrando, questa spacconata d'intemperanza del suomisuratissimo padrone. «Vott o des corni!»

Veniva ad annunciare don Giuseppe Costabarbieri chefece in pari tempo udire dalla sala un cavernoso e pureilare Deo gratias. Ecco la rugosa faccia rossa, gli occhiallegri, i capelli bianchi del mansueto prete.

«Si discorre di filosofia, don Giuseppe», disse Luisadopo i primi saluti. «Venga qui e metta fuori le Sue belleidee anche Lei!»

Don Giuseppe si grattò la nuca e poi volgendo un po' ilcapo verso l'ingegnere con lo sguardo di chi desiderauna cosa e non osa domandarla, mise fuori il fiore dellesue idee filosofiche:

«Sarissel minga mej fa ona primerina?»

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Franco e lo zio Piero, felici di salvarsi dalla filosofiadel Gilardoni, si misero allegramente a tavolino col pre-te.

Appena rimasto solo con Luisa, il professore disse pia-no:

«Ieri è partita la signora marchesa».Luisa, che s'era presa Maria sulle ginocchia, le piantò

le labbra sul collo, appassionatamente.«Forse», riprese il professore che mai non aveva sapu-

to leggere nel cuore umano né toccarne le corde a pro-posito, «forse, il tempo... son tre anni soli... forse verràil giorno che si piegherà.»

Luisa alzò il viso dal collo di Maria. «Forse lei, sì»,diss'ella. Il professore non capì, cedette al mal genio checi suggerisce la peggior parola nel peggior momento e,invece di smettere, si ostinò. «Forse, se potesse vederMaria!» Luisa si strinse al petto la bambina e lo guardòcon una fierezza tale ch'egli si smarrì e disse: «Scusi».Maria, stretta così forte, alzò gli occhi al viso strano del-la mamma, diventò rossa rossa, strinse le labbra, piansedue grosse lagrime, scoppiò in singhiozzi.

«No no, cara», le mormorò Luisa teneramente, «stabuona, sta buona, tu non la vedrai mai, tu!»

Appena chetata la bambina, il professore, turbatodall'idea di aver fatto un passo falso, di aver offeso Lui-sa, un essere che gli pareva sovrumano, voleva spiegar-

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Franco e lo zio Piero, felici di salvarsi dalla filosofiadel Gilardoni, si misero allegramente a tavolino col pre-te.

Appena rimasto solo con Luisa, il professore disse pia-no:

«Ieri è partita la signora marchesa».Luisa, che s'era presa Maria sulle ginocchia, le piantò

le labbra sul collo, appassionatamente.«Forse», riprese il professore che mai non aveva sapu-

to leggere nel cuore umano né toccarne le corde a pro-posito, «forse, il tempo... son tre anni soli... forse verràil giorno che si piegherà.»

Luisa alzò il viso dal collo di Maria. «Forse lei, sì»,diss'ella. Il professore non capì, cedette al mal genio checi suggerisce la peggior parola nel peggior momento e,invece di smettere, si ostinò. «Forse, se potesse vederMaria!» Luisa si strinse al petto la bambina e lo guardòcon una fierezza tale ch'egli si smarrì e disse: «Scusi».Maria, stretta così forte, alzò gli occhi al viso strano del-la mamma, diventò rossa rossa, strinse le labbra, piansedue grosse lagrime, scoppiò in singhiozzi.

«No no, cara», le mormorò Luisa teneramente, «stabuona, sta buona, tu non la vedrai mai, tu!»

Appena chetata la bambina, il professore, turbatodall'idea di aver fatto un passo falso, di aver offeso Lui-sa, un essere che gli pareva sovrumano, voleva spiegar-

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si, giustificarsi, ma Luisa non lo lasciò parlare. «Basta,scusi», diss'ella alzandosi. «Andiamo a veder il giuoco.»

In fatto non s'accostò ai giuocatori, mandò Maria sulsagrato con la sua piccola bambinaia Veronica e andò aportar un avanzo di dolce a un vecchione del villaggio,che aveva un vorace stomaco e una piccola voce, con laquale prometteva ogni giorno alla sua benefattrice lastessa preziosa ricompensa: «Prima de morì ghe farooon basin». Intanto il professore, pieno di scrupoli e di ri-morsi per le sue mosse poco fortunate, non sapendo separtire o rimanere, se la signora tornerebbe o no, se an-darne in cerca fosse indiscrezione o no, dopo essersi af-facciato al lago come per chieder consiglio ai pesci,dopo essersi affacciato al monte per veder se da qualchefinestra della casa gli apparisse Luisa o qualcuno cui sipotesse domandar di lei, andò finalmente a vedere ilgiuoco. Ciascuno dei giuocatori teneva gli occhi sulleproprie quattro carte raccolte nella sinistra, l'una sopral'altra per modo che la seconda e la terza sormontavantanto da potersi riconoscere; e ciascuno, avendo presodelicatamente fra il pollice e l'indice l'angolo superioredelle due ultime, faceva uscire con un combinato motodel polso e delle dita la quarta ignota di sotto la terza,adagio adagio, come se portasse la vita o la morte, ripe-tendo con gran devozione appropriate giaculatorie: DonGiuseppe cui occorrevano picche «scappa ross e bütanégher», gli altri due che volevano quadri e cuori «scap-pa négher e büta ross». Il professore pensò ch'egli pure

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si, giustificarsi, ma Luisa non lo lasciò parlare. «Basta,scusi», diss'ella alzandosi. «Andiamo a veder il giuoco.»

In fatto non s'accostò ai giuocatori, mandò Maria sulsagrato con la sua piccola bambinaia Veronica e andò aportar un avanzo di dolce a un vecchione del villaggio,che aveva un vorace stomaco e una piccola voce, con laquale prometteva ogni giorno alla sua benefattrice lastessa preziosa ricompensa: «Prima de morì ghe farooon basin». Intanto il professore, pieno di scrupoli e di ri-morsi per le sue mosse poco fortunate, non sapendo separtire o rimanere, se la signora tornerebbe o no, se an-darne in cerca fosse indiscrezione o no, dopo essersi af-facciato al lago come per chieder consiglio ai pesci,dopo essersi affacciato al monte per veder se da qualchefinestra della casa gli apparisse Luisa o qualcuno cui sipotesse domandar di lei, andò finalmente a vedere ilgiuoco. Ciascuno dei giuocatori teneva gli occhi sulleproprie quattro carte raccolte nella sinistra, l'una sopral'altra per modo che la seconda e la terza sormontavantanto da potersi riconoscere; e ciascuno, avendo presodelicatamente fra il pollice e l'indice l'angolo superioredelle due ultime, faceva uscire con un combinato motodel polso e delle dita la quarta ignota di sotto la terza,adagio adagio, come se portasse la vita o la morte, ripe-tendo con gran devozione appropriate giaculatorie: DonGiuseppe cui occorrevano picche «scappa ross e bütanégher», gli altri due che volevano quadri e cuori «scap-pa négher e büta ross». Il professore pensò ch'egli pure

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aveva in mano una carta coperta, un asso di denari, eche non sapeva ancora se l'avrebbe giuocata o no. Avevail testamento del vecchio Maironi. Pochi giorni dopo lamorte della signora Teresa, Franco gli aveva detto di di-struggerlo e di non fiatarne mai con sua moglie. Eglinon aveva obbedito che quanto al silenzio. Il documen-to, all'insaputa di Franco, esisteva ancora perché il suopossessore s'era fitto in capo di aspettar gli eventi, di ve-dere se Cressogno e Oria facessero la pace, se, perdu-rando le ostilità, Franco e la sua famigliuola capitasseronel bisogno; nel quale ultimo caso avrebbe fatto qualchecosa lui. Che cosa avrebbe fatto non sapeva bene, si col-tivava in testa i germi di parecchie corbellerie e aspetta-va che l'una o l'altra maturasse a tempo e luogo. Ora,guardando Franco giuocare, ammirava come quell'uomotanto assorto nella cupidità di un re di quadri, avesse re-spinta l'altra carta preziosa, che neppure avesse volutofarne saper niente a sua moglie. Egli attribuiva questosilenzio a modestia, al desiderio di nascondere un azio-ne generosa; e quantunque avesse preso da Franco piùd'un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto ingran conto, lo guardava con un rispetto pieno d'umiledevozione. Franco fu il primo a scoprir la quarta carta ele buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppeesclamava: «Ovèj! L'è négher!», e si fermava a pigliarfiato prima di andar avanti a scoprire «se l'era güzz ominga güzz», cioè s'erano picche o fiori. Ma l'ingegnere,alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise abatter col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini

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aveva in mano una carta coperta, un asso di denari, eche non sapeva ancora se l'avrebbe giuocata o no. Avevail testamento del vecchio Maironi. Pochi giorni dopo lamorte della signora Teresa, Franco gli aveva detto di di-struggerlo e di non fiatarne mai con sua moglie. Eglinon aveva obbedito che quanto al silenzio. Il documen-to, all'insaputa di Franco, esisteva ancora perché il suopossessore s'era fitto in capo di aspettar gli eventi, di ve-dere se Cressogno e Oria facessero la pace, se, perdu-rando le ostilità, Franco e la sua famigliuola capitasseronel bisogno; nel quale ultimo caso avrebbe fatto qualchecosa lui. Che cosa avrebbe fatto non sapeva bene, si col-tivava in testa i germi di parecchie corbellerie e aspetta-va che l'una o l'altra maturasse a tempo e luogo. Ora,guardando Franco giuocare, ammirava come quell'uomotanto assorto nella cupidità di un re di quadri, avesse re-spinta l'altra carta preziosa, che neppure avesse volutofarne saper niente a sua moglie. Egli attribuiva questosilenzio a modestia, al desiderio di nascondere un azio-ne generosa; e quantunque avesse preso da Franco piùd'un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto ingran conto, lo guardava con un rispetto pieno d'umiledevozione. Franco fu il primo a scoprir la quarta carta ele buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppeesclamava: «Ovèj! L'è négher!», e si fermava a pigliarfiato prima di andar avanti a scoprire «se l'era güzz ominga güzz», cioè s'erano picche o fiori. Ma l'ingegnere,alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise abatter col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini

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misteriosi che volevan dire: c'è la carta buona; e alloradon Giuseppe, visto che il suo «négher» non era «güzz»,cacciò un «malarbetto!» e buttò via le carte anche lui.«Che reson de ciapà rabbia!», fece l'ingegnere. «Ancavü sii négher e sii minga güzz.» Il prete, avido della ri-vincita, si contentò d'invocarla sdegnosamente: «Scià icart, scià i cart, scià i cart!». E la partita, simbolodell'eterna lotta universale fra i neri e i rossi, ricominciò.

Il lago dormiva oramai coperto e cinto d'ombra. Solo alevante le grandi montagne lontane del Lario avevanouna gloria d'oro fulvo e di viola. Le prime tramontanevespertine movevano le frondi della passiflora, corruga-vano verso l'alto, a chiazze, le acque grigie, portando unodor fresco di boschi. Il professore era partito da unpezzo quando Luisa ritornò. Ell'aveva incontrato sullascalinata del Pomodoro una ragazza piangente che stril-lava, «el mè pà el voeur mazzà la mia mamm!». Avevaseguita la ragazza in casa sua presso la Madonna delRomìt e ammansato l'uomo che cercava sua moglie conun coltello in mano, per causa non tanto d'una cattivaminestra quanto d'una cattiva risposta. Luisa rappresen-tò a suo marito e a don Giuseppe l'ultimo atto del dram-ma, il suo dialogo con la moglie ch'era corsa a nascon-dersi nella stalla. «Oh Regina, dovè sii?» «Sont chì.»«Dovè, chì?» «Chì.» La voce tremante veniva di sotto lavacca. La donna era proprio lì, accoccolata. «Vegnìfoeura, donca!» «Sciora no.» «Perché?» «Goo pagüra.»

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misteriosi che volevan dire: c'è la carta buona; e alloradon Giuseppe, visto che il suo «négher» non era «güzz»,cacciò un «malarbetto!» e buttò via le carte anche lui.«Che reson de ciapà rabbia!», fece l'ingegnere. «Ancavü sii négher e sii minga güzz.» Il prete, avido della ri-vincita, si contentò d'invocarla sdegnosamente: «Scià icart, scià i cart, scià i cart!». E la partita, simbolodell'eterna lotta universale fra i neri e i rossi, ricominciò.

Il lago dormiva oramai coperto e cinto d'ombra. Solo alevante le grandi montagne lontane del Lario avevanouna gloria d'oro fulvo e di viola. Le prime tramontanevespertine movevano le frondi della passiflora, corruga-vano verso l'alto, a chiazze, le acque grigie, portando unodor fresco di boschi. Il professore era partito da unpezzo quando Luisa ritornò. Ell'aveva incontrato sullascalinata del Pomodoro una ragazza piangente che stril-lava, «el mè pà el voeur mazzà la mia mamm!». Avevaseguita la ragazza in casa sua presso la Madonna delRomìt e ammansato l'uomo che cercava sua moglie conun coltello in mano, per causa non tanto d'una cattivaminestra quanto d'una cattiva risposta. Luisa rappresen-tò a suo marito e a don Giuseppe l'ultimo atto del dram-ma, il suo dialogo con la moglie ch'era corsa a nascon-dersi nella stalla. «Oh Regina, dovè sii?» «Sont chì.»«Dovè, chì?» «Chì.» La voce tremante veniva di sotto lavacca. La donna era proprio lì, accoccolata. «Vegnìfoeura, donca!» «Sciora no.» «Perché?» «Goo pagüra.»

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«Vegnì foeura ch'el voss marì el vaeur fav on basin.»«Mi no.» Allora Luisa aveva chiamato dentro l'uomo.«E vü andee a fagh on basin sott a la vacca.» E l'uomoaveva dato il bacio mentre la donna, temendo un morso,gemeva: «Càgnem poeu minga, neh!».

«Che diàvol d'ona sciora Luisa», fece don Giuseppe. Esoddisfatto della scorpacciata di primiera, palpandosidolcemente sui fianchi e sul ventre le modeste rotondità,il piccolo personaggio del mondo antico pensò al secon-do scopo della sua visita. Voleva dire una parolina allasignora Luisa. L'ingegnere era uscito a far i suoi solitiquattro passi fino alla piccola salita del Tavorell ch'eglichiamava scherzosamente il San Bernardo; e Franco,data un'occhiata alla luna che sfavillava allora fuor dalciglio nero del Bisgnago e giù nell'ondular dell'acqua, sipose a improvvisar sul piano effusioni di dolore ideale,che andavan via per le finestre aperte sulla sonorità pro-fonda del lago. La improvvisazione musicale gli riusci-va meglio delle elaborate poesie perché il suo impetuososentire trovava nella musica una espressione più facile epiena, e gli scrupoli, le incertezze, le sfiducie che glirendevano faticosissimo e lento il lavoro della parola,non tormentavano, al piano, la sua fantasia. Allora si ab-bandonava all'estro anima e corpo, vibrava tutto fino aicapelli, i chiari occhi parlanti ridicevan ogni sfumaturadell'espressione musicale, gli si vedeva sotto le guanceun movimento continuo di parole inarticolate, e le mani,benché non tanto agili, non tanto sciolte, facean cantare

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«Vegnì foeura ch'el voss marì el vaeur fav on basin.»«Mi no.» Allora Luisa aveva chiamato dentro l'uomo.«E vü andee a fagh on basin sott a la vacca.» E l'uomoaveva dato il bacio mentre la donna, temendo un morso,gemeva: «Càgnem poeu minga, neh!».

«Che diàvol d'ona sciora Luisa», fece don Giuseppe. Esoddisfatto della scorpacciata di primiera, palpandosidolcemente sui fianchi e sul ventre le modeste rotondità,il piccolo personaggio del mondo antico pensò al secon-do scopo della sua visita. Voleva dire una parolina allasignora Luisa. L'ingegnere era uscito a far i suoi solitiquattro passi fino alla piccola salita del Tavorell ch'eglichiamava scherzosamente il San Bernardo; e Franco,data un'occhiata alla luna che sfavillava allora fuor dalciglio nero del Bisgnago e giù nell'ondular dell'acqua, sipose a improvvisar sul piano effusioni di dolore ideale,che andavan via per le finestre aperte sulla sonorità pro-fonda del lago. La improvvisazione musicale gli riusci-va meglio delle elaborate poesie perché il suo impetuososentire trovava nella musica una espressione più facile epiena, e gli scrupoli, le incertezze, le sfiducie che glirendevano faticosissimo e lento il lavoro della parola,non tormentavano, al piano, la sua fantasia. Allora si ab-bandonava all'estro anima e corpo, vibrava tutto fino aicapelli, i chiari occhi parlanti ridicevan ogni sfumaturadell'espressione musicale, gli si vedeva sotto le guanceun movimento continuo di parole inarticolate, e le mani,benché non tanto agili, non tanto sciolte, facean cantare

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il piano inesprimibilmente.Adesso egli passava da un tono all'altro, mettendo il

più intenso sforzo intellettuale in questi passaggi, ansan-do, sviscerando, per così dire, lo strumento con le diecidita e quasi anche cogli occhi ardenti. S'era messo asuonare sotto l'impressione del chiaro di luna, ma poi,suonando, tristi nuvole gli eran uscite dal fondo del cuo-re. Conscio di avere sognata, da giovinetto, la gloria e diaverne quindi umilmente deposta la speranza, diceva,quasi, a se stesso con la sua mesta appassionata musicache pure anche in lui v'era qualche lume d'ingegno,qualche calore di creazione veduto solamente da Dio,perché neppur Luisa mostrava far dell'intelligenza suaquella stima che a lui stesso mancava ma che avrebbedesiderata in lei; neppur Luisa, il cuor del suo cuore!Luisa lodava misuratamente la sua musica e i suoi versima non gli aveva detto mai: segui questa via, osa, scrivi,pubblica. Pensava così e suonava nella sala oscura, met-tendo in una tenera melodia il lamento del suo amore, iltimido segreto lamento che mai non avrebbe osato met-tere in parole.

Sulla terrazza, nel mobile chiaroscuro che facevano in-sieme i fiati di tramontana e la passiflora, la luna e il suoriverbero dal lago, don Giuseppe raccontò a Luisa che ilsignor Giacomo Puttini era in collera con lui per colpadella signora Pasotti la quale gli aveva falsamente riferi-to ch'esso don Giuseppe andava predicando la conve-nienza di un matrimonio fra il signor Giacomo e la Ma-

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il piano inesprimibilmente.Adesso egli passava da un tono all'altro, mettendo il

più intenso sforzo intellettuale in questi passaggi, ansan-do, sviscerando, per così dire, lo strumento con le diecidita e quasi anche cogli occhi ardenti. S'era messo asuonare sotto l'impressione del chiaro di luna, ma poi,suonando, tristi nuvole gli eran uscite dal fondo del cuo-re. Conscio di avere sognata, da giovinetto, la gloria e diaverne quindi umilmente deposta la speranza, diceva,quasi, a se stesso con la sua mesta appassionata musicache pure anche in lui v'era qualche lume d'ingegno,qualche calore di creazione veduto solamente da Dio,perché neppur Luisa mostrava far dell'intelligenza suaquella stima che a lui stesso mancava ma che avrebbedesiderata in lei; neppur Luisa, il cuor del suo cuore!Luisa lodava misuratamente la sua musica e i suoi versima non gli aveva detto mai: segui questa via, osa, scrivi,pubblica. Pensava così e suonava nella sala oscura, met-tendo in una tenera melodia il lamento del suo amore, iltimido segreto lamento che mai non avrebbe osato met-tere in parole.

Sulla terrazza, nel mobile chiaroscuro che facevano in-sieme i fiati di tramontana e la passiflora, la luna e il suoriverbero dal lago, don Giuseppe raccontò a Luisa che ilsignor Giacomo Puttini era in collera con lui per colpadella signora Pasotti la quale gli aveva falsamente riferi-to ch'esso don Giuseppe andava predicando la conve-nienza di un matrimonio fra il signor Giacomo e la Ma-

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rianna. «Voeui morì lì», protestò il povero prete, «se hodetto una parola sola! Niente! Tücc ball!» Luisa non vo-leva creder colpevole la povera Barborin, e don Giusep-pe le dichiarò che sapeva la cosa dallo stesso signorControllore. Ella capì subito, allora, che Pasotti s'era vo-luto perfidamente burlare di sua moglie, del sior Zaco-mo e del prete, si schermì dall'intervenire nella faccen-da, come quest'ultimo avrebbe voluto e gli consigliò diparlare alla Pasotti. «L'è inscì sorda!», fece don Giusep-pe grattandosi la nuca, e se n'andò malcontento, senzasalutar Franco, per non interromperlo. Luisa venne alpiano in punta di piedi, stette ad ascoltar suo marito, asentir la bellezza, la ricchezza, il fuoco di quell'animach'era sua e cui ell'apparteneva per sempre. Non avevamai detto a Franco «segui questa via, scrivi, pubblica»,forse anche perché giustamente pensava, nel suo affettoequilibrato, che non potesse produrre opere superiorialla mediocrità, ma soprattutto perché, sebbene avesseun fine sentimento della poesia e della musica, non face-va grande stima, in fondo, né dell'una né dell'altra, nonle piaceva che un uomo vi si dedicasse intero, ambivaper suo marito un'azione intellettuale e materiale più vi-rile. Ammirava tuttavia Franco nella sua musica più chese fosse stato un grande maestro; trovava in questaespressione quasi segreta dell'animo suo un che di vergi-nale, di sincero, la luce di uno spirito amante, il più de-gno d'essere amato.

Egli non s'accorse di lei se non quando si sentì sfiorar

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rianna. «Voeui morì lì», protestò il povero prete, «se hodetto una parola sola! Niente! Tücc ball!» Luisa non vo-leva creder colpevole la povera Barborin, e don Giusep-pe le dichiarò che sapeva la cosa dallo stesso signorControllore. Ella capì subito, allora, che Pasotti s'era vo-luto perfidamente burlare di sua moglie, del sior Zaco-mo e del prete, si schermì dall'intervenire nella faccen-da, come quest'ultimo avrebbe voluto e gli consigliò diparlare alla Pasotti. «L'è inscì sorda!», fece don Giusep-pe grattandosi la nuca, e se n'andò malcontento, senzasalutar Franco, per non interromperlo. Luisa venne alpiano in punta di piedi, stette ad ascoltar suo marito, asentir la bellezza, la ricchezza, il fuoco di quell'animach'era sua e cui ell'apparteneva per sempre. Non avevamai detto a Franco «segui questa via, scrivi, pubblica»,forse anche perché giustamente pensava, nel suo affettoequilibrato, che non potesse produrre opere superiorialla mediocrità, ma soprattutto perché, sebbene avesseun fine sentimento della poesia e della musica, non face-va grande stima, in fondo, né dell'una né dell'altra, nonle piaceva che un uomo vi si dedicasse intero, ambivaper suo marito un'azione intellettuale e materiale più vi-rile. Ammirava tuttavia Franco nella sua musica più chese fosse stato un grande maestro; trovava in questaespressione quasi segreta dell'animo suo un che di vergi-nale, di sincero, la luce di uno spirito amante, il più de-gno d'essere amato.

Egli non s'accorse di lei se non quando si sentì sfiorar

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le spalle da due braccia, si vide pender sul petto le duepiccole mani. «No, no, suona suona», mormorò Luisaperché Franco gliele aveva afferrate; ma cercando luicol viso supino, senza rispondere, gli occhi e le labbra dilei, gli diede un bacio e rialzò il viso ripetendo:«Suona!». Egli trasse giù più forte di prima i due polsiprigionieri, richiamò in silenzio la dolce, dolce bocca; eallora ella si arrese, gli fermò le labbra sulle labbra conun bacio lungo, pieno di consenso, tanto più squisito ericreante del primo. Poi gli sussurrò ancora: «Suona».

Ed egli suonò, felice, una tumultuosa musica trionfale,piena di gioia e di grida. Perché in quel momento gli pa-reva di posseder tutta intera l'anima della donna suamentre tante volte, pure sapendosi amato, credeva senti-re in lei, al di sopra dell'amore, una ragione altera, paca-ta e fredda, dove i suoi slanci non arrivassero. Luisa gliteneva spesso le mani sul capo e andava di tratto in trat-to baciandogli lievemente i capelli. Ella conosceva ildubbio di suo marito e protestava sempre di appartener-gli tutta intera ma in fondo sentiva che aveva ragionelui. Un tenace fiero sentimento d'indipendenza intellet-tuale resisteva in lei all'amore. Ella poteva tranquilla-mente giudicar suo marito, riconoscerne le imperfezionie sentiva ch'egli non poteva altrettanto, lo sentiva umilenel suo amore, devoto senza fine. Non credeva farglitorto, non provava rimorso, ma s'inteneriva, quando cipensava, di amorosa pietà. Indovinò adesso che signifi-casse quella effusione musicale di gioia e, commossa,

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le spalle da due braccia, si vide pender sul petto le duepiccole mani. «No, no, suona suona», mormorò Luisaperché Franco gliele aveva afferrate; ma cercando luicol viso supino, senza rispondere, gli occhi e le labbra dilei, gli diede un bacio e rialzò il viso ripetendo:«Suona!». Egli trasse giù più forte di prima i due polsiprigionieri, richiamò in silenzio la dolce, dolce bocca; eallora ella si arrese, gli fermò le labbra sulle labbra conun bacio lungo, pieno di consenso, tanto più squisito ericreante del primo. Poi gli sussurrò ancora: «Suona».

Ed egli suonò, felice, una tumultuosa musica trionfale,piena di gioia e di grida. Perché in quel momento gli pa-reva di posseder tutta intera l'anima della donna suamentre tante volte, pure sapendosi amato, credeva senti-re in lei, al di sopra dell'amore, una ragione altera, paca-ta e fredda, dove i suoi slanci non arrivassero. Luisa gliteneva spesso le mani sul capo e andava di tratto in trat-to baciandogli lievemente i capelli. Ella conosceva ildubbio di suo marito e protestava sempre di appartener-gli tutta intera ma in fondo sentiva che aveva ragionelui. Un tenace fiero sentimento d'indipendenza intellet-tuale resisteva in lei all'amore. Ella poteva tranquilla-mente giudicar suo marito, riconoscerne le imperfezionie sentiva ch'egli non poteva altrettanto, lo sentiva umilenel suo amore, devoto senza fine. Non credeva farglitorto, non provava rimorso, ma s'inteneriva, quando cipensava, di amorosa pietà. Indovinò adesso che signifi-casse quella effusione musicale di gioia e, commossa,

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abbracciò Franco, fece tacere il piano d'un colpo.

Ecco sulle scale il passo lento e pesante dello zio cheritorna dal suo San Bernardo.

Erano le otto e i soliti tarocchisti, il signor Giacomo ePasotti, non comparivano. Perché anche Pasotti, in set-tembre e in ottobre, era un frequentatore di casa Ribera,dove faceva l'innamorato dell'ingegnere, di Luisa e an-che di Franco. Franco e Luisa sospettavano di un doppiogiuoco ma Pasotti era un vecchio amico dello zio e biso-gnava fargli una buona accoglienza per riguardo allozio. Poiché i tarocchisti tardavano, Franco propose a suamoglie di uscir in barca a goder la luna. Prima andaronoa veder Maria, che dormiva nel lettino dell'alcova colviso inclinato alla spalla destra, con un braccio sotto ilcapo e un altro posato sul petto. La guardarono, la ba-ciarono sorridendo, si incontrarono silenziosamente nelpensiero della nonna Teresa che tanto l'avrebbe amata,la baciarono ancora col viso serio. «Povera la mia picci-na!», disse Franco. «Povera donna Maria Maironi senzaquattrini!»

Luisa gli pose una mano sulla bocca. «Zitto!»,diss'ella. «Felici noi che siamo le Maironi senza quattri-ni!»

Franco intese, e sull'atto non replicò; ma poi, nell'uscirdi camera per andare in barca, disse a sua moglie, di-menticando una minaccia della nonna: «Non sarà sem-

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abbracciò Franco, fece tacere il piano d'un colpo.

Ecco sulle scale il passo lento e pesante dello zio cheritorna dal suo San Bernardo.

Erano le otto e i soliti tarocchisti, il signor Giacomo ePasotti, non comparivano. Perché anche Pasotti, in set-tembre e in ottobre, era un frequentatore di casa Ribera,dove faceva l'innamorato dell'ingegnere, di Luisa e an-che di Franco. Franco e Luisa sospettavano di un doppiogiuoco ma Pasotti era un vecchio amico dello zio e biso-gnava fargli una buona accoglienza per riguardo allozio. Poiché i tarocchisti tardavano, Franco propose a suamoglie di uscir in barca a goder la luna. Prima andaronoa veder Maria, che dormiva nel lettino dell'alcova colviso inclinato alla spalla destra, con un braccio sotto ilcapo e un altro posato sul petto. La guardarono, la ba-ciarono sorridendo, si incontrarono silenziosamente nelpensiero della nonna Teresa che tanto l'avrebbe amata,la baciarono ancora col viso serio. «Povera la mia picci-na!», disse Franco. «Povera donna Maria Maironi senzaquattrini!»

Luisa gli pose una mano sulla bocca. «Zitto!»,diss'ella. «Felici noi che siamo le Maironi senza quattri-ni!»

Franco intese, e sull'atto non replicò; ma poi, nell'uscirdi camera per andare in barca, disse a sua moglie, di-menticando una minaccia della nonna: «Non sarà sem-

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pre così».Quell'allusione alle ricchezze della vecchia marchesa

dispiacque a Luisa. «Non parlarmene», diss'ella. «Quel-la roba non vorrei toccarla con un dito.»

«Dico per Maria», osservò Franco.«Maria ci ha noi che possiamo lavorare.»Franco tacque. Lavorare! Anche quella lì era una paro-

la che gli mordeva il cuore. Sapeva di condurre una vitaoziosa perché la musica, la lettura, i fiori, qualche versodi tempo in tempo, cos'erano se non vanità e perditem-pi? E questa vita la conduceva in gran parte a caricod'altri, perché, con le sue mille lire austriache l'anno,come avrebbe vissuto? Come avrebbe mantenuto la suafamiglia? Aveva preso la laurea ma senza cavarne pro-fitto alcuno. Diffidava delle proprie attitudini, si sentivatroppo artista, troppo alieno dalle arti curialesche, sape-va di non aver nelle vene sangue di forti lavoratori. Nonvedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nel-la libertà della patria. Ah quando l'Italia fosse libera,come la servirebbe, con che forza, con che gioia! Questepoesie nel cuore le aveva bene, ma il proposito e la co-stanza di prepararsi con gli studi a un tale avvenire, no.

Mentr'egli remava in silenzio scostandosi dalla riva,Luisa andava pensando come mai suo marito commise-rasse la bambina perché non aveva denari. Non vi eracontraddizione tra la fede, la pietà cristiana di Franco equesto sentimento? Le vennero in mente le categorie del

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pre così».Quell'allusione alle ricchezze della vecchia marchesa

dispiacque a Luisa. «Non parlarmene», diss'ella. «Quel-la roba non vorrei toccarla con un dito.»

«Dico per Maria», osservò Franco.«Maria ci ha noi che possiamo lavorare.»Franco tacque. Lavorare! Anche quella lì era una paro-

la che gli mordeva il cuore. Sapeva di condurre una vitaoziosa perché la musica, la lettura, i fiori, qualche versodi tempo in tempo, cos'erano se non vanità e perditem-pi? E questa vita la conduceva in gran parte a caricod'altri, perché, con le sue mille lire austriache l'anno,come avrebbe vissuto? Come avrebbe mantenuto la suafamiglia? Aveva preso la laurea ma senza cavarne pro-fitto alcuno. Diffidava delle proprie attitudini, si sentivatroppo artista, troppo alieno dalle arti curialesche, sape-va di non aver nelle vene sangue di forti lavoratori. Nonvedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nel-la libertà della patria. Ah quando l'Italia fosse libera,come la servirebbe, con che forza, con che gioia! Questepoesie nel cuore le aveva bene, ma il proposito e la co-stanza di prepararsi con gli studi a un tale avvenire, no.

Mentr'egli remava in silenzio scostandosi dalla riva,Luisa andava pensando come mai suo marito commise-rasse la bambina perché non aveva denari. Non vi eracontraddizione tra la fede, la pietà cristiana di Franco equesto sentimento? Le vennero in mente le categorie del

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Page 180: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

professor Gilardoni. Franco credeva fervidamente nellavita futura ma in fatto si attaccava con passione a tuttoche la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamentepiacevole, compreso il tarocco, la primiera e i buonipranzetti. Uno che osservava così scrupolosamente iprecetti della Chiesa, che ci teneva tanto a mangiar dimagro il venerdì e il sabato, a udire ogni domenica laspiegazione del Vangelo, avrebbe dovuto conformar lapropria vita molto più severamente all'ideale evangelico.Avrebbe dovuto temerlo e non desiderarlo, il denaro.

«Buona lagata!», gridò lo zio dalla terrazza vedendo ilbattello e Luisa seduta sulla prora, nel chiaro di luna. Infaccia al nero Bisgnago tutta la Valsolda si spiegava dalNiscioree alla Caravina nella pompa della luna, tutte lefinestre di Oria e di Albogasio come le arcate di VillaPasotti, come le casette bianche dei paeselli più lontani,Castello, Casarico, S. Mamette, Drano, parevano guar-dare, come ipnotizzate, il grande occhio fisso della Mor-ta del cielo.

Franco tirò i remi in barca. «Canta», diss'egli.Luisa non aveva mai studiato il canto ma possedeva

una dolce voce di mezzo soprano, un orecchio perfetto ecantava molte arie d'opera imparate da sua madre cheaveva udito la Grisi, la Pasta, la Malibran durante l'etàd'oro dell'opera italiana.

Cantò l'aria di Anna Bolena:Al dolce guidami

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professor Gilardoni. Franco credeva fervidamente nellavita futura ma in fatto si attaccava con passione a tuttoche la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamentepiacevole, compreso il tarocco, la primiera e i buonipranzetti. Uno che osservava così scrupolosamente iprecetti della Chiesa, che ci teneva tanto a mangiar dimagro il venerdì e il sabato, a udire ogni domenica laspiegazione del Vangelo, avrebbe dovuto conformar lapropria vita molto più severamente all'ideale evangelico.Avrebbe dovuto temerlo e non desiderarlo, il denaro.

«Buona lagata!», gridò lo zio dalla terrazza vedendo ilbattello e Luisa seduta sulla prora, nel chiaro di luna. Infaccia al nero Bisgnago tutta la Valsolda si spiegava dalNiscioree alla Caravina nella pompa della luna, tutte lefinestre di Oria e di Albogasio come le arcate di VillaPasotti, come le casette bianche dei paeselli più lontani,Castello, Casarico, S. Mamette, Drano, parevano guar-dare, come ipnotizzate, il grande occhio fisso della Mor-ta del cielo.

Franco tirò i remi in barca. «Canta», diss'egli.Luisa non aveva mai studiato il canto ma possedeva

una dolce voce di mezzo soprano, un orecchio perfetto ecantava molte arie d'opera imparate da sua madre cheaveva udito la Grisi, la Pasta, la Malibran durante l'etàd'oro dell'opera italiana.

Cantò l'aria di Anna Bolena:Al dolce guidami

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Castel natìoil canto dell'anima, che prima scende e si abbandona

poco a poco, per più dolcezza, all'amore, e poi, abbrac-ciata con esso, risale in uno slancio di desiderio versoqualche alto lume lontano che tuttavia manca alla suafelicità piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticavache aspirasse ad essergli unita pure in quella parte supe-riore dell'anima che finora gli aveva sottratta, che aspi-rasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unioneverso la meta dell'ideale suo. E gli venivano le lagrimealla gola; e il lago ondulante e le grandi montagne tragi-che e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessaluce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sen-timento, per cui quando di là dalla spezzata immaginedell'astro luccicori argentei sfavillarono un momento finsotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, sene commosse come di arcani segni alludenti a lui che sifacessero il lago e la luna, mentre Luisa compieva lafrase:

Ai verdi plataniAl cheto rioChe i nostri mormoraSospiri ancor.

La voce di Pasotti gridò dalla terrazza:«Brava!»E la voce dello zio:

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Castel natìoil canto dell'anima, che prima scende e si abbandona

poco a poco, per più dolcezza, all'amore, e poi, abbrac-ciata con esso, risale in uno slancio di desiderio versoqualche alto lume lontano che tuttavia manca alla suafelicità piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticavache aspirasse ad essergli unita pure in quella parte supe-riore dell'anima che finora gli aveva sottratta, che aspi-rasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unioneverso la meta dell'ideale suo. E gli venivano le lagrimealla gola; e il lago ondulante e le grandi montagne tragi-che e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessaluce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sen-timento, per cui quando di là dalla spezzata immaginedell'astro luccicori argentei sfavillarono un momento finsotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, sene commosse come di arcani segni alludenti a lui che sifacessero il lago e la luna, mentre Luisa compieva lafrase:

Ai verdi plataniAl cheto rioChe i nostri mormoraSospiri ancor.

La voce di Pasotti gridò dalla terrazza:«Brava!»E la voce dello zio:

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«Tarocco!»Nello stesso tempo si udirono i remi d'una barca che

veniva da Porlezza, si udì un fagotto scimmiottar l'ariadi Anna Bolena. Franco, che s'era seduto sulla poppa delsuo battello, salto in piedi, gridò lietamente:

«Ehi là!». Gli rispose un bel vocione di basso:Buona sera,Miei signori,Buona sera,Buona sera.

Erano i suoi amici del lago di Como, l'avvocato V. diVarenna e un tal Pedraglio di Loveno, che solevano ve-nire per far della musica in palese e della politica in se-greto; un segreto di cui Luisa sola era a parte.

Anche dalla terrazza si gridava:«Bene, don Basilio!». «Bravo il fagotto!». E negli in-

tervalli si udiva pure la voce di un signore che si scher-miva dal tarocco. «No, no, Controllore gentilissimo, xetardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più!Oh Dio, oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; in-gegnere pregiatissimo, me raccomando a Ela.»

Lo fecero poi giuocare, l'ometto, con la promessa dinon passar le due partite. Egli soffiò molto e sedette altavolino con l'ingegnere, Pasotti e Pedraglio. Franco se-dette al piano e l'avvocato gli si mise accanto col fagot-

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«Tarocco!»Nello stesso tempo si udirono i remi d'una barca che

veniva da Porlezza, si udì un fagotto scimmiottar l'ariadi Anna Bolena. Franco, che s'era seduto sulla poppa delsuo battello, salto in piedi, gridò lietamente:

«Ehi là!». Gli rispose un bel vocione di basso:Buona sera,Miei signori,Buona sera,Buona sera.

Erano i suoi amici del lago di Como, l'avvocato V. diVarenna e un tal Pedraglio di Loveno, che solevano ve-nire per far della musica in palese e della politica in se-greto; un segreto di cui Luisa sola era a parte.

Anche dalla terrazza si gridava:«Bene, don Basilio!». «Bravo il fagotto!». E negli in-

tervalli si udiva pure la voce di un signore che si scher-miva dal tarocco. «No, no, Controllore gentilissimo, xetardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più!Oh Dio, oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; in-gegnere pregiatissimo, me raccomando a Ela.»

Lo fecero poi giuocare, l'ometto, con la promessa dinon passar le due partite. Egli soffiò molto e sedette altavolino con l'ingegnere, Pasotti e Pedraglio. Franco se-dette al piano e l'avvocato gli si mise accanto col fagot-

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to.Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il

povero signor Giacomo ebbe una mezz'ora amara, pienadi tribolazioni. Non gli lasciavano un momento di pace.«Come va, sior Zacomo?» «Mal, mal.» «Sior Zacomo,non ci sono frati che passeggiano in pantofole?» «Gnan-ca uno.» «E il toro? Come sta il toro, sior Zacomo?»«La tasa, La tasa.» «Maledetto, eh, quel toro, sior Zaco-mo?» «Maledetissimo, sì signor.» «E la servente, siorZacomo?» «Zitto!», esclamò Pasotti a questa imperti-nente domanda di Pedraglio. «Abbiate prudenza. A que-sto riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da partedi certi indiscreti.» «Lassemo star, Controllore gentilis-simo, lassemo star», interruppe il signor Giacomo con-torcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i dueseccatori al diavolo. «Come, sior Zacomo», riprese Pa-sotti, imperterrito: «non è un indiscreto quel piccolo sa-cerdote?». «Mi ghe digo aseno», fremette il signor Gia-como. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché sitrattava proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglioche scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimisein corso il tarocco.

Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo perpiano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni mo-mento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per nonguastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi.Nessuno s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece se-dere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano.

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to.Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il

povero signor Giacomo ebbe una mezz'ora amara, pienadi tribolazioni. Non gli lasciavano un momento di pace.«Come va, sior Zacomo?» «Mal, mal.» «Sior Zacomo,non ci sono frati che passeggiano in pantofole?» «Gnan-ca uno.» «E il toro? Come sta il toro, sior Zacomo?»«La tasa, La tasa.» «Maledetto, eh, quel toro, sior Zaco-mo?» «Maledetissimo, sì signor.» «E la servente, siorZacomo?» «Zitto!», esclamò Pasotti a questa imperti-nente domanda di Pedraglio. «Abbiate prudenza. A que-sto riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da partedi certi indiscreti.» «Lassemo star, Controllore gentilis-simo, lassemo star», interruppe il signor Giacomo con-torcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i dueseccatori al diavolo. «Come, sior Zacomo», riprese Pa-sotti, imperterrito: «non è un indiscreto quel piccolo sa-cerdote?». «Mi ghe digo aseno», fremette il signor Gia-como. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché sitrattava proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglioche scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimisein corso il tarocco.

Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo perpiano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni mo-mento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per nonguastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi.Nessuno s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece se-dere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano.

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A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale,chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Lui-sa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia.La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzo-netta «inscì bella, neh», e poi il fagotto, i saluti; s'eraimmaginata che avrebbero fatto musica e lei era «inscìmatta, neh», per la musica! E poi c'è quel signor avvoca-to «ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!». E poi c'èil signor don Franco «parlèmen nanca, con quèi diavoide did!» Udir suonare il piano con quella precisione eraproprio come udire un organetto; e a lei gli organettipiacevano «inscì tant!». Soggiunse che temeva recar di-sturbo ma che suo marito l'aveva incoraggiata. E do-mandò se quell'altro signore di Loveno non suonava an-che lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevanoavere ambedue una gran passione per la musica.

«Aspetta me, birbone d'un Ricevitore», pensò Luisa erimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sullamelomania di Pedraglio e dell'avvocato, infilzandonetante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa dacui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signoraPeppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all'ulti-ma, accompagnandovi affettuose note di lieta meravi-glia: «Oh bell, oh bell!». «Figürèmes!». «Ma guardee!».Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del pianocol fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e dissech'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di donFranco.

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A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale,chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Lui-sa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia.La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzo-netta «inscì bella, neh», e poi il fagotto, i saluti; s'eraimmaginata che avrebbero fatto musica e lei era «inscìmatta, neh», per la musica! E poi c'è quel signor avvoca-to «ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!». E poi c'èil signor don Franco «parlèmen nanca, con quèi diavoide did!» Udir suonare il piano con quella precisione eraproprio come udire un organetto; e a lei gli organettipiacevano «inscì tant!». Soggiunse che temeva recar di-sturbo ma che suo marito l'aveva incoraggiata. E do-mandò se quell'altro signore di Loveno non suonava an-che lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevanoavere ambedue una gran passione per la musica.

«Aspetta me, birbone d'un Ricevitore», pensò Luisa erimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sullamelomania di Pedraglio e dell'avvocato, infilzandonetante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa dacui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signoraPeppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all'ulti-ma, accompagnandovi affettuose note di lieta meravi-glia: «Oh bell, oh bell!». «Figürèmes!». «Ma guardee!».Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del pianocol fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e dissech'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di donFranco.

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«Venga pure», fece Luisa, fredda.Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano

che Franco e l'amico suo facevano insieme, arrischiò undiscorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l'avesseudito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nelproprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi.

«Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!», diss'ella. Se-condo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzareun poco il signor Commissario. Era intimo della mar-chesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Eraun uomo terribile, il Commissario. «El mè Carlo el baiaun poo ma l'è on bon omasc; quell'alter là, el baia min-ga, mah, neh!...» Per esempio, ella non sapeva niente,non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato equell'altro signore fossero venuti per qualche altra cosainvece che per la musica e il Commissario venisse a sa-perlo, misericordia!

La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso leacque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo sidispose a far accendere il suo lanternino, malgrado leesclamazioni di Pasotti. «Il lume, sior Zacomo? È mat-to? Il lume con questa luna?». «Per servirla», rispose ilsignor Giacomo. «Prima ghe xe quel maledeto Pomodo-ro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La digache la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semode setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì si-gnor, le lune d'agosto le gera lunazze, tanto fate, come

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«Venga pure», fece Luisa, fredda.Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano

che Franco e l'amico suo facevano insieme, arrischiò undiscorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l'avesseudito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nelproprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi.

«Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!», diss'ella. Se-condo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzareun poco il signor Commissario. Era intimo della mar-chesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Eraun uomo terribile, il Commissario. «El mè Carlo el baiaun poo ma l'è on bon omasc; quell'alter là, el baia min-ga, mah, neh!...» Per esempio, ella non sapeva niente,non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato equell'altro signore fossero venuti per qualche altra cosainvece che per la musica e il Commissario venisse a sa-perlo, misericordia!

La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso leacque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo sidispose a far accendere il suo lanternino, malgrado leesclamazioni di Pasotti. «Il lume, sior Zacomo? È mat-to? Il lume con questa luna?». «Per servirla», rispose ilsignor Giacomo. «Prima ghe xe quel maledeto Pomodo-ro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La digache la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semode setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì si-gnor, le lune d'agosto le gera lunazze, tanto fate, come

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fondi de tina; adesso le xe lunete, buzarete... no, no,no.» E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, ac-compagnato fino al cancello del giardinetto dall'imperti-nente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la ser-vente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto dellegiaculatorie di Pasotti: «gente maleducata, sior Zacomo,gente villana!», giaculatorie dette abbastanza forte per-ché gli altri potessero udire e ridere.

Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la si-gnora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solitobicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente:

Crescono sul Parnaso e mirti e alloriFelicissima notte a lor signori.

Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Francoche intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bot-tiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè.

Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbutoavvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le duemani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte,Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di violon-cello, calda e profonda: «Notizie grosse».

«Ah!», fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Lui-sa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. «Si-curo», fece Pedraglio, tranquillo e serio. «Ci siamo.»«Dite su, dite su, dite su!», fremette Franco. Fu l'avvo-

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fondi de tina; adesso le xe lunete, buzarete... no, no,no.» E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, ac-compagnato fino al cancello del giardinetto dall'imperti-nente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la ser-vente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto dellegiaculatorie di Pasotti: «gente maleducata, sior Zacomo,gente villana!», giaculatorie dette abbastanza forte per-ché gli altri potessero udire e ridere.

Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la si-gnora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solitobicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente:

Crescono sul Parnaso e mirti e alloriFelicissima notte a lor signori.

Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Francoche intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bot-tiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè.

Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbutoavvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le duemani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte,Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di violon-cello, calda e profonda: «Notizie grosse».

«Ah!», fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Lui-sa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. «Si-curo», fece Pedraglio, tranquillo e serio. «Ci siamo.»«Dite su, dite su, dite su!», fremette Franco. Fu l'avvo-

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cato che rispose:«Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e

l'Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guer-ra all'Austria. Volete altro?»

Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoiamici.

I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, strin-gendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guer-ra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottigliain mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impe-tuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aper-te, li trascinò via per la vita come una valanga, li portòin loggia ripetendo: «Contate, contate, contate».

Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sul-la terrazza, l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loroprezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bel-lagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto daun'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministrod'Inghilterra a Torino, una lettera di cui l'avvocato pos-sedeva la traduzione. La lettera diceva ch'erano in corsoa Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche peravere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente,che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, cherestavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di for-ma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardialla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ri-cevere al più tardi in dicembre l'invito ufficiale delle Po-

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cato che rispose:«Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e

l'Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guer-ra all'Austria. Volete altro?»

Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoiamici.

I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, strin-gendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guer-ra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottigliain mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impe-tuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aper-te, li trascinò via per la vita come una valanga, li portòin loggia ripetendo: «Contate, contate, contate».

Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sul-la terrazza, l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loroprezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bel-lagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto daun'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministrod'Inghilterra a Torino, una lettera di cui l'avvocato pos-sedeva la traduzione. La lettera diceva ch'erano in corsoa Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche peravere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente,che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, cherestavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di for-ma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardialla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ri-cevere al più tardi in dicembre l'invito ufficiale delle Po-

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tenze occidentali per accedere puramente e semplice-mente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persi-no che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S.A. R. il duca di Genova.

V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua mo-glie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa.«Ma!», diss'ella. «La guerra all'Austria? Come?»

«Ma sicuro!», fece l'avvocato. «Vuole che Cavourmandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini abattersi per i turchi se non ha in pugno la guerraall'Austria? La signora crede che non passerà un anno.»

Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta lapersona.

«Viva Cavour», sussurrò Luisa.«Ah!», fece l'avvocato. «Demostene non avrebbe potu-

to lodar il conte con efficacia maggiore.»Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. «Sono uno

stupido», diss'egli. «Cosa volete che vi dica?»Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cac-

ciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito colvino e i bicchieri.

«Al conte di Cavour!», disse Pedraglio, sottovoce. Tut-ti alzarono il bicchiere ripetendo: «al conte di Cavour!»e bevvero; anche Luisa che non beveva mai.

Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi.

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tenze occidentali per accedere puramente e semplice-mente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persi-no che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S.A. R. il duca di Genova.

V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua mo-glie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa.«Ma!», diss'ella. «La guerra all'Austria? Come?»

«Ma sicuro!», fece l'avvocato. «Vuole che Cavourmandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini abattersi per i turchi se non ha in pugno la guerraall'Austria? La signora crede che non passerà un anno.»

Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta lapersona.

«Viva Cavour», sussurrò Luisa.«Ah!», fece l'avvocato. «Demostene non avrebbe potu-

to lodar il conte con efficacia maggiore.»Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. «Sono uno

stupido», diss'egli. «Cosa volete che vi dica?»Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cac-

ciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito colvino e i bicchieri.

«Al conte di Cavour!», disse Pedraglio, sottovoce. Tut-ti alzarono il bicchiere ripetendo: «al conte di Cavour!»e bevvero; anche Luisa che non beveva mai.

Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi.

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«Alla guerra!», diss'egli.Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bic-

chiere silenziosamente, troppo commossi per poter par-lare.

«Bisogna andarci tutti!», disse Pedraglio.«Tutti!», ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sul-

la spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, lestampò un bacio sui capelli.

Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì,nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato diremi.

«Finanza», sussurrò Franco. Mentre la lancia delleguardie di finanza passava sotto la finestra, Pedragliofece «maledetti porci!» così forte che gli altri zittirono.La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra.

Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Caro-na, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che stra-no senso faceva contemplar quella romita quiete conl'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tri-sti, parevano pensare al formidabile avvenire. Francochiuse la finestra e la conversazione ricominciò som-messa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le propriesupposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlava-no come di un dramma il cui manoscritto fosse già pron-to fino all'ultimo verso, con i punti e le virgole, nellascrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva

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«Alla guerra!», diss'egli.Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bic-

chiere silenziosamente, troppo commossi per poter par-lare.

«Bisogna andarci tutti!», disse Pedraglio.«Tutti!», ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sul-

la spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, lestampò un bacio sui capelli.

Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì,nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato diremi.

«Finanza», sussurrò Franco. Mentre la lancia delleguardie di finanza passava sotto la finestra, Pedragliofece «maledetti porci!» così forte che gli altri zittirono.La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra.

Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Caro-na, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che stra-no senso faceva contemplar quella romita quiete conl'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tri-sti, parevano pensare al formidabile avvenire. Francochiuse la finestra e la conversazione ricominciò som-messa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le propriesupposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlava-no come di un dramma il cui manoscritto fosse già pron-to fino all'ultimo verso, con i punti e le virgole, nellascrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva

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chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demo-lendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi laRussia, domani l'Austria. Invece Franco, diffidentissimodell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon voleredell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamataquest'alleanza, l'Austria, sacrificando i suoi interessi aiprincipii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia,per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatter-la. «Sentite», disse sua moglie, «io invece ho paura chel'Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte.» «Im-possibile», fece l'avvocato. Franco si sgomentò, ammi-rando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio escla-mò: «Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balos-sada compagna!» e l'argomento parve decisivo, nessunoci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di pianidi campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non anda-vano d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagnedel lago di Como come forse nessun altro, da Colico aComo e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella ValMenaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle TrePievi aveva gente devota, pronta magari a menar lemani a un cenno del «scior avocàt». Egli e Franco cre-devano utile qualunque movimento insurrezionale chevalesse a distrarre anche una menoma parte delle forzeaustriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parereche tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i batta-glioni piemontesi. «Faremo la rivoluzione noi donne»,disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. «Io, per par-te mia, butterò nel lago il Carlascia.»

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chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demo-lendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi laRussia, domani l'Austria. Invece Franco, diffidentissimodell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon voleredell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamataquest'alleanza, l'Austria, sacrificando i suoi interessi aiprincipii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia,per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatter-la. «Sentite», disse sua moglie, «io invece ho paura chel'Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte.» «Im-possibile», fece l'avvocato. Franco si sgomentò, ammi-rando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio escla-mò: «Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balos-sada compagna!» e l'argomento parve decisivo, nessunoci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di pianidi campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non anda-vano d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagnedel lago di Como come forse nessun altro, da Colico aComo e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella ValMenaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle TrePievi aveva gente devota, pronta magari a menar lemani a un cenno del «scior avocàt». Egli e Franco cre-devano utile qualunque movimento insurrezionale chevalesse a distrarre anche una menoma parte delle forzeaustriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parereche tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i batta-glioni piemontesi. «Faremo la rivoluzione noi donne»,disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. «Io, per par-te mia, butterò nel lago il Carlascia.»

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Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità incorpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi,assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestrechiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardenteche si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cuitornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour,duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglie-ri.

«Sapete che ore sono?», disse Pedraglio guardandol'orologio

«Le dodici e mezzo! Andiamo a letto.»Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando

in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stes-so Pedraglio, quando vide le candele accese, passò lavoglia di andar a letto.

«Un bel Regno!», diss'egli.«Piemonte», disse Franco, «Lombardo-Veneto, Parma

e Modena.»«E Legazioni», fece V.Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazio-

ni, specialmente l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedra-glio avevano paura di toccarle, temevano di suscitaredifficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglioinvitò i suoi compagni a gridare sottovoce: «Vosèe ada-si, fioeu!». Allora fu V. che propose di andare a letto.Prese in mano la candela ma senza alzarsi.

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Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità incorpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi,assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestrechiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardenteche si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cuitornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour,duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglie-ri.

«Sapete che ore sono?», disse Pedraglio guardandol'orologio

«Le dodici e mezzo! Andiamo a letto.»Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando

in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stes-so Pedraglio, quando vide le candele accese, passò lavoglia di andar a letto.

«Un bel Regno!», diss'egli.«Piemonte», disse Franco, «Lombardo-Veneto, Parma

e Modena.»«E Legazioni», fece V.Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazio-

ni, specialmente l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedra-glio avevano paura di toccarle, temevano di suscitaredifficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglioinvitò i suoi compagni a gridare sottovoce: «Vosèe ada-si, fioeu!». Allora fu V. che propose di andare a letto.Prese in mano la candela ma senza alzarsi.

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«Corpo di Bacco!», diss'egli, non sapeva bene se informa di conclusione o di esordio. In fatto aveva unagran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapevacosa trovar di nuovo. «Proprio corpo di Bacco!», escla-mò Franco ch'era nelle stesse condizioni. Seguì un silen-zio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: «Dun-que?», e si alzò. «Andiamo?», fece Luisa avviandosi perla prima. «E il nome?», chiese l'avvocato. Tutti si fer-marono. «Che nome?» «Il nome del nuovo Regno.»Franco posò subito la candela. «Bravo», diss'egli, «ilnome!», come se fosse una cosa da decidere prima diandare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino?Alta Italia? Italia?

Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio,perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, laposò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per lelunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: «Italia,Italia, Italia, Italia!» senz'ascoltar i «zitto» e i richiamidegli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si ferma-rono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l'avvo-cato dovevano salire per andare a letto, e si diedero lafelice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova;Franco restò a veder salire i suoi amici. «Ehi!», diss'eglia un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò in-vece di raggiungerli. «E se si perde?», sussurrò.

L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso «off!» ma Pe-draglio voltandosi come una iena afferrò Franco per ilcollo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala

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«Corpo di Bacco!», diss'egli, non sapeva bene se informa di conclusione o di esordio. In fatto aveva unagran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapevacosa trovar di nuovo. «Proprio corpo di Bacco!», escla-mò Franco ch'era nelle stesse condizioni. Seguì un silen-zio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: «Dun-que?», e si alzò. «Andiamo?», fece Luisa avviandosi perla prima. «E il nome?», chiese l'avvocato. Tutti si fer-marono. «Che nome?» «Il nome del nuovo Regno.»Franco posò subito la candela. «Bravo», diss'egli, «ilnome!», come se fosse una cosa da decidere prima diandare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino?Alta Italia? Italia?

Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio,perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, laposò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per lelunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: «Italia,Italia, Italia, Italia!» senz'ascoltar i «zitto» e i richiamidegli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si ferma-rono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l'avvo-cato dovevano salire per andare a letto, e si diedero lafelice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova;Franco restò a veder salire i suoi amici. «Ehi!», diss'eglia un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò in-vece di raggiungerli. «E se si perde?», sussurrò.

L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso «off!» ma Pe-draglio voltandosi come una iena afferrò Franco per ilcollo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala

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e poi «addio!», Pedraglio corse su e Franco precipitò ab-basso.

Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera,guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, gra-ve, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli,passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di scio-gliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco,allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo avevaimpetuosamente baciato prima, quando si era parlato diandar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di leifra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolce-mente: «Cara, pensa che gran cosa, dopo, questaItalia!». «Oh sì!», diss'ella. Alzò il viso al viso di suomarito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhierano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi ba-ciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene al-cuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata conlui, nella tenerezza, così umile.

«Allora», diss'ella, «non resteremo più in Valsolda. Tudovrai lavorare come cittadino, non è vero?»

«Sì, sì, certo!»Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di

quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allon-tanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse icapelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimbasi era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un di-tino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivola-

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e poi «addio!», Pedraglio corse su e Franco precipitò ab-basso.

Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera,guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, gra-ve, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli,passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di scio-gliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco,allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo avevaimpetuosamente baciato prima, quando si era parlato diandar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di leifra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolce-mente: «Cara, pensa che gran cosa, dopo, questaItalia!». «Oh sì!», diss'ella. Alzò il viso al viso di suomarito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhierano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi ba-ciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene al-cuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata conlui, nella tenerezza, così umile.

«Allora», diss'ella, «non resteremo più in Valsolda. Tudovrai lavorare come cittadino, non è vero?»

«Sì, sì, certo!»Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di

quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allon-tanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse icapelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimbasi era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un di-tino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivola-

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to fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sulmento. «Vieni, Franco», disse sua madre. Si piegaronoambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavi-tà di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in si-lenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il di-scorso interrotto.

Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume,Luisa mormorò sulla bocca di suo marito:

«Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io».E non gli permise di rispondere.

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to fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sulmento. «Vieni, Franco», disse sua madre. Si piegaronoambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavi-tà di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in si-lenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il di-scorso interrotto.

Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume,Luisa mormorò sulla bocca di suo marito:

«Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io».E non gli permise di rispondere.

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3. Con i guanti

Pasotti, per far la burla più completa, rimproverò suamoglie di avere riferito al signor Giacomo il discorso didon Giuseppe circa la convenienza di quel tale matrimo-nio. La povera sorda cadde dalle nuvole, non sapeva nédi discorsi né di matrimoni, protestò ch'era una calunnia,scongiurò suo marito di non crederci, si disperò, quasi,perché il Controllore mostrava conservar un sospetto. Ilmaligno uomo si preparava un divertimento squisito;dire al signor Giacomo e a don Giuseppe che sua mogliedesiderava rimediare al mal fatto e metter pace, farli tro-vare tutti e tre insieme a casa sua, star ad ascoltare die-tro un uscio la deliziosa scena che seguirebbe fra il si-gnor Giacomo irritato, don Giuseppe atterrito, la Barbo-rin addolorata e sorda. Ma il disegno gli fallì perché suamoglie non poté stare alle mosse e corse al «Palazz» agiustificarsi.

Ella trovò don Giuseppe e la Maria in uno stato di agi-tazione straordinaria. Era capitato loro qualche cosa digrosso che la Maria avrebbe voluto dire e don Giuseppeno. Cedette il padrone a patto che la Maria non gridasse,che si facesse intendere a segni. Trovando contrasto an-che su questa condizione, diventò addirittura, nella suaprudenza, furibondo e la serva non insistette.

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3. Con i guanti

Pasotti, per far la burla più completa, rimproverò suamoglie di avere riferito al signor Giacomo il discorso didon Giuseppe circa la convenienza di quel tale matrimo-nio. La povera sorda cadde dalle nuvole, non sapeva nédi discorsi né di matrimoni, protestò ch'era una calunnia,scongiurò suo marito di non crederci, si disperò, quasi,perché il Controllore mostrava conservar un sospetto. Ilmaligno uomo si preparava un divertimento squisito;dire al signor Giacomo e a don Giuseppe che sua mogliedesiderava rimediare al mal fatto e metter pace, farli tro-vare tutti e tre insieme a casa sua, star ad ascoltare die-tro un uscio la deliziosa scena che seguirebbe fra il si-gnor Giacomo irritato, don Giuseppe atterrito, la Barbo-rin addolorata e sorda. Ma il disegno gli fallì perché suamoglie non poté stare alle mosse e corse al «Palazz» agiustificarsi.

Ella trovò don Giuseppe e la Maria in uno stato di agi-tazione straordinaria. Era capitato loro qualche cosa digrosso che la Maria avrebbe voluto dire e don Giuseppeno. Cedette il padrone a patto che la Maria non gridasse,che si facesse intendere a segni. Trovando contrasto an-che su questa condizione, diventò addirittura, nella suaprudenza, furibondo e la serva non insistette.

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Siccome era corsa voce d'un caso di colèra a Luganonella persona d'un tale venuto da Milano, dove il malec'era, don Giuseppe aveva subito disposto che le provvi-ste per cucina si facessero a Porlezza invece che a Luga-no; e ne aveva incaricato il Giacomo Panighèt, il postinoche portava le lettere in Valsolda non tre volte il giorno,come ora si portano, ma due volte la settimana, com'erala beata consuetudine del piccolo mondo antico. Ora,cinque minuti prima che venisse la signora Pasotti, ilGiacomo Panighèt aveva portato il solito canestro e nelcanestro s'era trovata, sotto i cavoli, una letterina direttaa don Giuseppe. Diceva così:

Lei che giuoca a primiera con don Franco Maironi, loavverta che l'aria di Lugano è molto migliore di quelladi Oria.

Tivano

La Maria mostrò silenziosamente alla Pasotti il cane-stro ancora pieno, le rappresentò con una mimica effica-ce la scoperta della lettera, gliela diede a leggere.

Appena la sorda ebbe letto incominciò una bizzarra,indescrivibile azione muta di tutti e tre. La Maria e donGiuseppe rappresentavano a furia di gesti e di occhiaccila loro sorpresa e il loro terrore; la Pasotti, tra sgomentae smarrita, li guardava a bocca aperta, col foglio in

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Siccome era corsa voce d'un caso di colèra a Luganonella persona d'un tale venuto da Milano, dove il malec'era, don Giuseppe aveva subito disposto che le provvi-ste per cucina si facessero a Porlezza invece che a Luga-no; e ne aveva incaricato il Giacomo Panighèt, il postinoche portava le lettere in Valsolda non tre volte il giorno,come ora si portano, ma due volte la settimana, com'erala beata consuetudine del piccolo mondo antico. Ora,cinque minuti prima che venisse la signora Pasotti, ilGiacomo Panighèt aveva portato il solito canestro e nelcanestro s'era trovata, sotto i cavoli, una letterina direttaa don Giuseppe. Diceva così:

Lei che giuoca a primiera con don Franco Maironi, loavverta che l'aria di Lugano è molto migliore di quelladi Oria.

Tivano

La Maria mostrò silenziosamente alla Pasotti il cane-stro ancora pieno, le rappresentò con una mimica effica-ce la scoperta della lettera, gliela diede a leggere.

Appena la sorda ebbe letto incominciò una bizzarra,indescrivibile azione muta di tutti e tre. La Maria e donGiuseppe rappresentavano a furia di gesti e di occhiaccila loro sorpresa e il loro terrore; la Pasotti, tra sgomentae smarrita, li guardava a bocca aperta, col foglio in

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mano, come se avesse capito; in fatto capiva solamenteche la lettera doveva essere spaventosa. Ebbe un lampo,tese il foglio a don Giuseppe con la sinistra, puntandol'indice della destra sulla parola Franco, incrocio quindii polsi con una mimica interrogativa; e poiché i due, ri-conosciuta la figura delle manette, si sbracciavano a fardi sì col capo, diede in ismanie per l'affezione grandeche portava a Luisa e, senza curarsi più del suo proprioaffare, spiegò per segni, come se anche gli altri due fos-sero stati sordi, che sarebbe corsa subito a Oria, da donFranco, e gli avrebbe recato lo scritto.

Si cacciò la carta in tasca e prese la corsa senza quasisalutare né don Giuseppe né la Maria che si provaronoinutilmente, mezzo spiritati, di afferrarla, di trattenerla,di raccomandarle ogni precauzione possibile. Ella sgu-sciò loro di mano e si mise a trottare, scuotendo il suoalto cappellone, trascinando per terra la sua vecchia sot-tana grigia, verso Oria, dove arrivò tutta scalmanata,con la testa piena di gendarmi, di perquisizioni, d'arresti,di terrori e di pianti.

Salì le scale del giardinetto Ribera, entrò difilata insala, vide gente, riconobbe il Ricevitore e l'I. R. Com-missario di Porlezza, si sgomentò dubitando che fosserolì per il terribile colpo, ma vide pure la signora Bianco-ni, il signor Giacomo Puttini e respirò.

Il Commissario, seduto al posto d'onore, sul canapè

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mano, come se avesse capito; in fatto capiva solamenteche la lettera doveva essere spaventosa. Ebbe un lampo,tese il foglio a don Giuseppe con la sinistra, puntandol'indice della destra sulla parola Franco, incrocio quindii polsi con una mimica interrogativa; e poiché i due, ri-conosciuta la figura delle manette, si sbracciavano a fardi sì col capo, diede in ismanie per l'affezione grandeche portava a Luisa e, senza curarsi più del suo proprioaffare, spiegò per segni, come se anche gli altri due fos-sero stati sordi, che sarebbe corsa subito a Oria, da donFranco, e gli avrebbe recato lo scritto.

Si cacciò la carta in tasca e prese la corsa senza quasisalutare né don Giuseppe né la Maria che si provaronoinutilmente, mezzo spiritati, di afferrarla, di trattenerla,di raccomandarle ogni precauzione possibile. Ella sgu-sciò loro di mano e si mise a trottare, scuotendo il suoalto cappellone, trascinando per terra la sua vecchia sot-tana grigia, verso Oria, dove arrivò tutta scalmanata,con la testa piena di gendarmi, di perquisizioni, d'arresti,di terrori e di pianti.

Salì le scale del giardinetto Ribera, entrò difilata insala, vide gente, riconobbe il Ricevitore e l'I. R. Com-missario di Porlezza, si sgomentò dubitando che fosserolì per il terribile colpo, ma vide pure la signora Bianco-ni, il signor Giacomo Puttini e respirò.

Il Commissario, seduto al posto d'onore, sul canapè

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grande, presso l'ingegnere in capo, parlava molto, congrande facilità e brio, guardando di preferenza Francocome se Franco fosse il solo per il quale valesse la penadi spendere fiato e spirito. Franco stava in una poltrona,muto, ingrugnato quale chi sta in casa altrui e sente unpuzzo che non può convenientemente fuggire né male-dire. Si discorreva della campagna di Crimea e il Com-missario magnificava il piano degli alleati di attaccare ilcolosso in un punto vitale per le sue ambizioni, parlavadella barbarie russa e persino dell'Autocrata in modo dafar rabbrividire Franco per il timore di un'alleanza an-glo-franco-austriaca e da far strabiliare il Carlascia cheaveva le idee del 1849 e vedeva nello Czar un grossoamicone di casa. «E Lei, signor primo deputato politi-co», disse il Commissario volgendo il suo giallastro sor-riso ironico al signor Giacomo, «cosa ne dice Lei?» Ilsignor Giacomo batté gli occhietti e, palpatesi alquantole ginocchia, rispose: «Mi, signor Commissario riveritis-simo, de Russia né de Franza né de Inghilterra no me neintendo e no me ne intrigo. Lasso che i se la despàta. Mami, ghe digo la verità, me fa pecà el poro can del Papuz-za. Lü xe quieto come un polesin e questi ghe fà momò:lü no ciama agiuto e quei core in zinquanta a giutarlo, eintanto i ghe xe adosso tuti, e magna che te magna, elporo Papuzza, sia ch'el vinza, sia ch'el perda, el me restain camisa».

Con questo nomignolo di Papuzza (babbuccia), il si-gnor Giacomo designava venetamente il Turco. Era la

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grande, presso l'ingegnere in capo, parlava molto, congrande facilità e brio, guardando di preferenza Francocome se Franco fosse il solo per il quale valesse la penadi spendere fiato e spirito. Franco stava in una poltrona,muto, ingrugnato quale chi sta in casa altrui e sente unpuzzo che non può convenientemente fuggire né male-dire. Si discorreva della campagna di Crimea e il Com-missario magnificava il piano degli alleati di attaccare ilcolosso in un punto vitale per le sue ambizioni, parlavadella barbarie russa e persino dell'Autocrata in modo dafar rabbrividire Franco per il timore di un'alleanza an-glo-franco-austriaca e da far strabiliare il Carlascia cheaveva le idee del 1849 e vedeva nello Czar un grossoamicone di casa. «E Lei, signor primo deputato politi-co», disse il Commissario volgendo il suo giallastro sor-riso ironico al signor Giacomo, «cosa ne dice Lei?» Ilsignor Giacomo batté gli occhietti e, palpatesi alquantole ginocchia, rispose: «Mi, signor Commissario riveritis-simo, de Russia né de Franza né de Inghilterra no me neintendo e no me ne intrigo. Lasso che i se la despàta. Mami, ghe digo la verità, me fa pecà el poro can del Papuz-za. Lü xe quieto come un polesin e questi ghe fà momò:lü no ciama agiuto e quei core in zinquanta a giutarlo, eintanto i ghe xe adosso tuti, e magna che te magna, elporo Papuzza, sia ch'el vinza, sia ch'el perda, el me restain camisa».

Con questo nomignolo di Papuzza (babbuccia), il si-gnor Giacomo designava venetamente il Turco. Era la

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personificazione della Turchia in un turco ideale, contanto di turbante, di barba, di pancia e di babbucce. Nel-la sua qualità di uomo pacifico e di semi-libero pensato-re, il Puttini aveva un debole per il pigro, placido e bo-nario Papuzza.

«Stia tranquillo», disse ridendo il Commissario. «Il suoamico Papuzza se la caverà benone. Siamo amici di Pa-puzza anche noi e non lo lasceremo mutilare né svena-re.»

Franco non si tenne dal brontolare con tanto di cipi-glio:

«Sarebbe però una bella ingratitudine verso la Russia!»Il Commissario tacque, e la signora Peppina propose,

con un tatto insolito, di andare a vedere i fiori.«Meglio!», fece l'ingegnere, assai contento che si tron-

casse quel dialogo.Nel passar della sala nel giardinetto, il Commissario

prese familiarmente il braccio di Franco e gli disseall'orecchio: «Ha ragione, sa, dell'ingratitudine, ma certecose noi impiegati non le possiamo dire». Franco, a cuiil tocco della Imperial Regia mano bruciava, fu sorpresodi questa uscita. Se colui avesse avuto una faccia piùitaliana, gli avrebbe creduto; con quella faccia calmuccanon gli credette e lasciò cader il discorso. Lo ripigliòl'altro, sottovoce, affacciandosi alla ringhiera verso illago e fingendo di guardar il ficus repens che veste la

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personificazione della Turchia in un turco ideale, contanto di turbante, di barba, di pancia e di babbucce. Nel-la sua qualità di uomo pacifico e di semi-libero pensato-re, il Puttini aveva un debole per il pigro, placido e bo-nario Papuzza.

«Stia tranquillo», disse ridendo il Commissario. «Il suoamico Papuzza se la caverà benone. Siamo amici di Pa-puzza anche noi e non lo lasceremo mutilare né svena-re.»

Franco non si tenne dal brontolare con tanto di cipi-glio:

«Sarebbe però una bella ingratitudine verso la Russia!»Il Commissario tacque, e la signora Peppina propose,

con un tatto insolito, di andare a vedere i fiori.«Meglio!», fece l'ingegnere, assai contento che si tron-

casse quel dialogo.Nel passar della sala nel giardinetto, il Commissario

prese familiarmente il braccio di Franco e gli disseall'orecchio: «Ha ragione, sa, dell'ingratitudine, ma certecose noi impiegati non le possiamo dire». Franco, a cuiil tocco della Imperial Regia mano bruciava, fu sorpresodi questa uscita. Se colui avesse avuto una faccia piùitaliana, gli avrebbe creduto; con quella faccia calmuccanon gli credette e lasciò cader il discorso. Lo ripigliòl'altro, sottovoce, affacciandosi alla ringhiera verso illago e fingendo di guardar il ficus repens che veste la

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muraglia.«Si guardi anche Lei», diss'egli, «da certe parole. C'è

delle bestie che possono interpretar male.» E accennòleggermente col capo al Ricevitore. «Se ne guardi, se neguardi!» «Grazie», rispose Franco, asciutto, «ma noncredo che avrò bisogno di guardarmi.» «Non si sa, nonsi sa, non si sa», sussurrò il Commissario, e toltosi di là,andò, seguito da Franco, dove il Ricevitore e l'ingegnerediscorrevano di tinche presso la scaletta che scende alsecondo ripiano del giardinetto.

Lì presso c'era il famoso vaso rosso di gelsomini.«Questo rosso sta male, signor Maironi», disse il be-

stione ex abrupto, e diede un colpo all'aria con la manocome per dire «via!». In quel momento Luisa si affacciòal giardino dalla sala e chiamò suo marito. Il Commissa-rio si voltò al suo zelante accolito e gli disse bruscamen-te: «Lasci stare!»

La Pasotti partiva e voleva salutare Franco. Questi de-siderava farla uscire per il giardino ma ella, volendo evi-tare le cerimonie con quegli altri signori, preferì di scen-der per la scala interna e Franco l'accompagnò fino allaporta di strada, ch'era aperta. Con suo grande stupore, laPasotti, invece di uscire, chiuse la porta e si mise a fargliuna mimica concitata, affatto inintelligibile, accompa-gnandola di sospiri tronchi e di stralunamenti d'occhi:dopo di che si levò di tasca una lettera e gliela porse.

Franco lesse, si strinse nelle spalle e intascò la carta.

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muraglia.«Si guardi anche Lei», diss'egli, «da certe parole. C'è

delle bestie che possono interpretar male.» E accennòleggermente col capo al Ricevitore. «Se ne guardi, se neguardi!» «Grazie», rispose Franco, asciutto, «ma noncredo che avrò bisogno di guardarmi.» «Non si sa, nonsi sa, non si sa», sussurrò il Commissario, e toltosi di là,andò, seguito da Franco, dove il Ricevitore e l'ingegnerediscorrevano di tinche presso la scaletta che scende alsecondo ripiano del giardinetto.

Lì presso c'era il famoso vaso rosso di gelsomini.«Questo rosso sta male, signor Maironi», disse il be-

stione ex abrupto, e diede un colpo all'aria con la manocome per dire «via!». In quel momento Luisa si affacciòal giardino dalla sala e chiamò suo marito. Il Commissa-rio si voltò al suo zelante accolito e gli disse bruscamen-te: «Lasci stare!»

La Pasotti partiva e voleva salutare Franco. Questi de-siderava farla uscire per il giardino ma ella, volendo evi-tare le cerimonie con quegli altri signori, preferì di scen-der per la scala interna e Franco l'accompagnò fino allaporta di strada, ch'era aperta. Con suo grande stupore, laPasotti, invece di uscire, chiuse la porta e si mise a fargliuna mimica concitata, affatto inintelligibile, accompa-gnandola di sospiri tronchi e di stralunamenti d'occhi:dopo di che si levò di tasca una lettera e gliela porse.

Franco lesse, si strinse nelle spalle e intascò la carta.

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Poi, siccome la Pasotti consigliava, con la sua mimicadisperata, fuga fuga, Lugano Lugano, la rassicurò conun gesto sorridendo. Colei gli afferrò ancora una volta lemani, scosse ancora con un fremito di supplica, il cap-pellone inclinato a destra e i due lunghi riccioli neri. Poispalancò gli occhi, porse le labbra in fuori quanto poté,si calcò l'indice sul naso nel segno del silenzio. «Ancacon Pasott!», diss'ella; e furono le sole sue parole duran-te tutta questa spiegazione; dopo le quali scappò.

Franco risalì le scale, pensando ai casi suoi. Poteva es-sere un falso allarme, poteva essere una cosa seria. Maperché mai lo si sarebbe arrestato? Cercò di ricordare seavesse in casa qualche cosa di compromettente e nontrovò nulla. Pensò ad una perfidia della nonna ma cacciòsubito quest'idea, se ne rimproverò e rimise ogni deci-sione a più tardi, quando avrebbe parlato a sua moglie.Ritornò nel giardinetto dove il Commissario, appena lovide, gli chiese di mostrargli certe dalie che la signoraPeppina vantava. Udito che le dalie erano nell'orto, pro-pose a Franco di accompagnarvelo. Potevano andar soli;tanto, gli altri erano profani. Franco accettò.

Il contegno di quel piccolo birro inguantato già parevamolto strano; avrebbe pur voluto capire se potesse inqualche modo accordarsi con l'avvertimento misterioso.

«Senta, signor Maironi», disse risolutamente il Com-missario quando Franco ebbe chiuso dietro a sé l'usciodell'orto. «Le voglio dire una parola.»

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Poi, siccome la Pasotti consigliava, con la sua mimicadisperata, fuga fuga, Lugano Lugano, la rassicurò conun gesto sorridendo. Colei gli afferrò ancora una volta lemani, scosse ancora con un fremito di supplica, il cap-pellone inclinato a destra e i due lunghi riccioli neri. Poispalancò gli occhi, porse le labbra in fuori quanto poté,si calcò l'indice sul naso nel segno del silenzio. «Ancacon Pasott!», diss'ella; e furono le sole sue parole duran-te tutta questa spiegazione; dopo le quali scappò.

Franco risalì le scale, pensando ai casi suoi. Poteva es-sere un falso allarme, poteva essere una cosa seria. Maperché mai lo si sarebbe arrestato? Cercò di ricordare seavesse in casa qualche cosa di compromettente e nontrovò nulla. Pensò ad una perfidia della nonna ma cacciòsubito quest'idea, se ne rimproverò e rimise ogni deci-sione a più tardi, quando avrebbe parlato a sua moglie.Ritornò nel giardinetto dove il Commissario, appena lovide, gli chiese di mostrargli certe dalie che la signoraPeppina vantava. Udito che le dalie erano nell'orto, pro-pose a Franco di accompagnarvelo. Potevano andar soli;tanto, gli altri erano profani. Franco accettò.

Il contegno di quel piccolo birro inguantato già parevamolto strano; avrebbe pur voluto capire se potesse inqualche modo accordarsi con l'avvertimento misterioso.

«Senta, signor Maironi», disse risolutamente il Com-missario quando Franco ebbe chiuso dietro a sé l'usciodell'orto. «Le voglio dire una parola.»

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Franco, che stava scendendo i due scalini appoggiatialla soglia della porta, si fermò e aggrottò le sopracci-glia. «Venga qua!», soggiunse l'altro, imperioso. «Ciòche sto per fare è forse contro il mio dovere ma lo faccioegualmente. Sono troppo amico della signora marchesaSua nonna per non farlo. Lei corre un gravissimo peri-colo.»

«Io?», disse Franco, freddamente. «Quale?»Franco aveva rapida e sicura l'intuizione del pensiero

altrui. Le parole del Commissario si accordavano benecon quelle portategli dalla Pasotti; pure egli sentì, inquel momento, che il piccolo birro aveva un tradimentonel cuore.

«Quale?», rispose costui. «Mantova!»Franco udì senza batter ciglio il formidabile nome, si-

nonimo di segrete e di forche.«Io non posso aver paura di Mantova», diss'egli. «Non

ho fatto nulla per andar a Mantova.»«Eppure!»«Di che cosa mi accusano?», ripeté Franco.«Questo lo sentirà se resta qui», rispose il Commissa-

rio, pigiando sulle ultime parole. «E adesso vediamo ledalie.»

«Non ho fatto nulla», tornò a dire Franco. «Non mimuovo.»

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Franco, che stava scendendo i due scalini appoggiatialla soglia della porta, si fermò e aggrottò le sopracci-glia. «Venga qua!», soggiunse l'altro, imperioso. «Ciòche sto per fare è forse contro il mio dovere ma lo faccioegualmente. Sono troppo amico della signora marchesaSua nonna per non farlo. Lei corre un gravissimo peri-colo.»

«Io?», disse Franco, freddamente. «Quale?»Franco aveva rapida e sicura l'intuizione del pensiero

altrui. Le parole del Commissario si accordavano benecon quelle portategli dalla Pasotti; pure egli sentì, inquel momento, che il piccolo birro aveva un tradimentonel cuore.

«Quale?», rispose costui. «Mantova!»Franco udì senza batter ciglio il formidabile nome, si-

nonimo di segrete e di forche.«Io non posso aver paura di Mantova», diss'egli. «Non

ho fatto nulla per andar a Mantova.»«Eppure!»«Di che cosa mi accusano?», ripeté Franco.«Questo lo sentirà se resta qui», rispose il Commissa-

rio, pigiando sulle ultime parole. «E adesso vediamo ledalie.»

«Non ho fatto nulla», tornò a dire Franco. «Non mimuovo.»

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«Vediamo queste dalie, vediamo queste dalie!», insi-stette il Commissario.

Parve a Franco che avrebbe dovuto ringraziarquell'uomo e non poté farlo. Gli mostrò i suoi fiori conquel tanto di cortesia che occorreva, con perfetta tran-quillità; e lo ricondusse dall'orto in casa, discorrendo dinon so qual professore Maspero, di non so qual segretoper combattere l'oïdium.

In sala si discorreva di un altro peggiore oïdium. La si-gnora Peppina aveva in corpo una terribile paura del co-lèra. Riconosceva, sì, che il colèra ammoniva ogni buoncristiano di mettersi in grazia di Dio e che quando si è ingrazia di Dio è una fortuna di andar all'altro mondo:«Ma però, anca la pell, neh! Quella cara pelascia! Apensà che l'è domà vüna!».

«Il colèra», disse Luisa, «se avesse giudizio, potrebbefare bellissime cose; ma non ne ha.» «Vede», sussurròalla signora Peppina, mentre il Biancòn si alzava per an-dare incontro al Commissario di ritorno con Franco, «ilcolèra è capace di portar via Lei e di lasciar qui Suo ma-rito.» A questa uscita stravagante la signora Peppinaebbe un sussulto di spavento, fece «Esüsmaria!» e poicapì di essersi tradita, di non aver mostrato per il suoCarlascia quella tenerezza di cui parlava sempre, afferròil ginocchio della sua vicina e si piegò a dirle sottovoce,rossa come un papavero: «Citto, citto, citto!»

Ma Luisa non badava più a lei; un'occhiata di Franco le

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«Vediamo queste dalie, vediamo queste dalie!», insi-stette il Commissario.

Parve a Franco che avrebbe dovuto ringraziarquell'uomo e non poté farlo. Gli mostrò i suoi fiori conquel tanto di cortesia che occorreva, con perfetta tran-quillità; e lo ricondusse dall'orto in casa, discorrendo dinon so qual professore Maspero, di non so qual segretoper combattere l'oïdium.

In sala si discorreva di un altro peggiore oïdium. La si-gnora Peppina aveva in corpo una terribile paura del co-lèra. Riconosceva, sì, che il colèra ammoniva ogni buoncristiano di mettersi in grazia di Dio e che quando si è ingrazia di Dio è una fortuna di andar all'altro mondo:«Ma però, anca la pell, neh! Quella cara pelascia! Apensà che l'è domà vüna!».

«Il colèra», disse Luisa, «se avesse giudizio, potrebbefare bellissime cose; ma non ne ha.» «Vede», sussurròalla signora Peppina, mentre il Biancòn si alzava per an-dare incontro al Commissario di ritorno con Franco, «ilcolèra è capace di portar via Lei e di lasciar qui Suo ma-rito.» A questa uscita stravagante la signora Peppinaebbe un sussulto di spavento, fece «Esüsmaria!» e poicapì di essersi tradita, di non aver mostrato per il suoCarlascia quella tenerezza di cui parlava sempre, afferròil ginocchio della sua vicina e si piegò a dirle sottovoce,rossa come un papavero: «Citto, citto, citto!»

Ma Luisa non badava più a lei; un'occhiata di Franco le

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aveva detto ch'era successo qualche cosa.

Partita tutta quella gente, lo zio Piero si mise a leggerela Gazzetta di Milano e Luisa disse a suo marito: «Sonole tre, andiamo a svegliar Maria».

Quando fu con lui nella camera dell'alcova, invece diaprir le imposte, gli domandò cosa fosse accaduto. Fran-co le raccontò tutto, dal biglietto della Pasotti allo stranocontegno, alla strana confidenza del Commissario.

Luisa lo ascoltò molto seria ma senza dar segno di ti-more. Esaminò il biglietto misterioso. Ella e Franco sa-pevano che fra gli agenti governativi di Porlezza v'eraun galantuomo il quale nel 1849 e nel 1850 aveva salva-to parecchi patrioti avvertendoli segretamente; ma sape-vano pure che quel galantuomo là non conosceva l'orto-grafia né la grammatica. Il biglietto portato dalla Pasottiera correttissimo. Quanto al Commissario, si sapeva cheera uno dei più tristi e maligni arnesi del Governo. Luisaapprovò la risposta di suo marito. «Giurerei che ti vo-gliono far partire», diss'ella.

Franco lo pensava pure ma senza trovarne un ragione-vole perché. Luisa ne aveva bene in mente uno, suggeri-tole dal suo disprezzo per la nonna. Il Commissario eraun buon amico della nonna, l'aveva detto egli stesso perun raffinamento, secondo lei, di astuzia. Nel guanto delCommissario vi era l'artiglio della nonna. Non Francosolo ma tutti si volevano colpire; e si volevano colpire

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aveva detto ch'era successo qualche cosa.

Partita tutta quella gente, lo zio Piero si mise a leggerela Gazzetta di Milano e Luisa disse a suo marito: «Sonole tre, andiamo a svegliar Maria».

Quando fu con lui nella camera dell'alcova, invece diaprir le imposte, gli domandò cosa fosse accaduto. Fran-co le raccontò tutto, dal biglietto della Pasotti allo stranocontegno, alla strana confidenza del Commissario.

Luisa lo ascoltò molto seria ma senza dar segno di ti-more. Esaminò il biglietto misterioso. Ella e Franco sa-pevano che fra gli agenti governativi di Porlezza v'eraun galantuomo il quale nel 1849 e nel 1850 aveva salva-to parecchi patrioti avvertendoli segretamente; ma sape-vano pure che quel galantuomo là non conosceva l'orto-grafia né la grammatica. Il biglietto portato dalla Pasottiera correttissimo. Quanto al Commissario, si sapeva cheera uno dei più tristi e maligni arnesi del Governo. Luisaapprovò la risposta di suo marito. «Giurerei che ti vo-gliono far partire», diss'ella.

Franco lo pensava pure ma senza trovarne un ragione-vole perché. Luisa ne aveva bene in mente uno, suggeri-tole dal suo disprezzo per la nonna. Il Commissario eraun buon amico della nonna, l'aveva detto egli stesso perun raffinamento, secondo lei, di astuzia. Nel guanto delCommissario vi era l'artiglio della nonna. Non Francosolo ma tutti si volevano colpire; e si volevano colpire

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nella persona di colui che sosteneva la famiglia con leproprie fatiche, col proprio generoso cuore. Ella sapeva,per discorsi riferitile dalle solite lingue odiose, che lanonna detestava lo zio Piero perché lo zio Piero avevadato modo a suo nipote di ribellarsi a lei e di vivere nel-la ribellione, abbastanza comodamente. Ora si cercavaun pretesto di colpirlo. La fuga del nipote sarebbe statauna confessione e, per un Governo come l'austriaco, unbuon pretesto di colpir lo zio. Luisa non lo disse subito,solamente lasciò capire che aveva un'idea; allora suomarito gliela fece, poco a poco, metter fuori. Uditala, cicredette nel suo cuore ma protestò a parole, cercò difen-der la nonna da un'accusa troppo poco fondata e troppomostruosa. Comunque la cosa fosse, marito e moglie siaccordavano interamente nella risoluzione di non muo-versi, di aspettare gli avvenimenti. Perciò non stetteropiù a fare né a discutere supposizioni. Luisa si alzò,andò ad aprire le imposte, si voltò a guardar sorridendosuo marito nella luce; gli stese la mano ch'egli strinse escosse col cuore caldo e la lingua impedita. Pareva lorodi esser soldati condotti per una via quieta al rombo lon-tano del cannone, a Dio sa qual sorte.

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nella persona di colui che sosteneva la famiglia con leproprie fatiche, col proprio generoso cuore. Ella sapeva,per discorsi riferitile dalle solite lingue odiose, che lanonna detestava lo zio Piero perché lo zio Piero avevadato modo a suo nipote di ribellarsi a lei e di vivere nel-la ribellione, abbastanza comodamente. Ora si cercavaun pretesto di colpirlo. La fuga del nipote sarebbe statauna confessione e, per un Governo come l'austriaco, unbuon pretesto di colpir lo zio. Luisa non lo disse subito,solamente lasciò capire che aveva un'idea; allora suomarito gliela fece, poco a poco, metter fuori. Uditala, cicredette nel suo cuore ma protestò a parole, cercò difen-der la nonna da un'accusa troppo poco fondata e troppomostruosa. Comunque la cosa fosse, marito e moglie siaccordavano interamente nella risoluzione di non muo-versi, di aspettare gli avvenimenti. Perciò non stetteropiù a fare né a discutere supposizioni. Luisa si alzò,andò ad aprire le imposte, si voltò a guardar sorridendosuo marito nella luce; gli stese la mano ch'egli strinse escosse col cuore caldo e la lingua impedita. Pareva lorodi esser soldati condotti per una via quieta al rombo lon-tano del cannone, a Dio sa qual sorte.

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4.Con gli artigli

L'ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due gior-ni dopo, spirata la sua licenza, se n'andò via in barca,pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insiemealla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giornisenza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persua-sero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che laPolizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo otto-bre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e,partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nelbaciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccòle mani e le gambe. «Maria ha la febbre», diss'ella.

Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva conla testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo soli-to. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po'acceso, la respirazione un po' frequente. Franco si spa-ventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlatti-na, il gastrico, l'infiammazione cerebrale. Luisa, piùtranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavo-lino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza ru-more, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena ilsottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furo-no svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che pian-geva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santo-

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4.Con gli artigli

L'ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due gior-ni dopo, spirata la sua licenza, se n'andò via in barca,pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insiemealla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giornisenza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persua-sero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che laPolizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo otto-bre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e,partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nelbaciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccòle mani e le gambe. «Maria ha la febbre», diss'ella.

Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva conla testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo soli-to. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po'acceso, la respirazione un po' frequente. Franco si spa-ventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlatti-na, il gastrico, l'infiammazione cerebrale. Luisa, piùtranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavo-lino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza ru-more, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena ilsottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furo-no svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che pian-geva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santo-

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nina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nelletto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliòsonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.

Franco tenne il lume acceso per poterla osservare me-glio.

Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quan-do all'uscio di strada furono precipitosamente battutidue colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?»,diss'egli. «Zitto!», fece Luisa afferrandogli un braccio etendendo l'orecchio.

Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «LaPolizia!», e saltò a terra. «Va', va'!», supplicò lei, sotto-voce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Sca-valca il muro!»

Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciòfuori della camera, risoluto di non lasciar volontaria-mente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso delpericolo. Discese le scale a salti. «Chi è?», diss'egli, pri-ma di aprire. «La Polizia!», si rispose. «Aprite subito!»

«A quest'ora non apro a chi non vedo.»Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima

disse: «Parli lei», e la voce che parlò poi era ben cono-sciuta da Franco.

«Apra, signor Maironi.»Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un si-

gnore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestio-

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nina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nelletto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliòsonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.

Franco tenne il lume acceso per poterla osservare me-glio.

Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quan-do all'uscio di strada furono precipitosamente battutidue colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?»,diss'egli. «Zitto!», fece Luisa afferrandogli un braccio etendendo l'orecchio.

Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «LaPolizia!», e saltò a terra. «Va', va'!», supplicò lei, sotto-voce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Sca-valca il muro!»

Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciòfuori della camera, risoluto di non lasciar volontaria-mente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso delpericolo. Discese le scale a salti. «Chi è?», diss'egli, pri-ma di aprire. «La Polizia!», si rispose. «Aprite subito!»

«A quest'ora non apro a chi non vedo.»Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima

disse: «Parli lei», e la voce che parlò poi era ben cono-sciuta da Franco.

«Apra, signor Maironi.»Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un si-

gnore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestio-

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ne; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poitre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato cheportava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori.

«Lei è il signor Maironi?», disse quel dagli occhiali, unaggiunto della Polizia di Milano. «Venga di sopra conme». E tutta la compagnia si avviò sulle scale con unostrepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.

Non erano ancora al primo piano che la scala si illumi-nò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondopiano.

«Questa è Sua moglie?», chiese l'aggiunto.«Crede?», rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mor-

morò: «Sarà la domestica». L'aggiunto si voltò a dare unordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in frettaal secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, piùaspramente di prima: «Sua moglie è a letto?».

«Naturalmente.»«Dove? Bisogna che si alzi!»L'uscio dell'alcova si aperse, comparve Luisa, in veste

da camera con i capelli sciolti e con una candela inmano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano supe-riore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta enon poteva venir giù. L'aggiunto gli ordinò di lasciar ilsuo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutòla signora che non rispose al saluto. Sperando che Fran-co fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per

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ne; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poitre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato cheportava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori.

«Lei è il signor Maironi?», disse quel dagli occhiali, unaggiunto della Polizia di Milano. «Venga di sopra conme». E tutta la compagnia si avviò sulle scale con unostrepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.

Non erano ancora al primo piano che la scala si illumi-nò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondopiano.

«Questa è Sua moglie?», chiese l'aggiunto.«Crede?», rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mor-

morò: «Sarà la domestica». L'aggiunto si voltò a dare unordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in frettaal secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, piùaspramente di prima: «Sua moglie è a letto?».

«Naturalmente.»«Dove? Bisogna che si alzi!»L'uscio dell'alcova si aperse, comparve Luisa, in veste

da camera con i capelli sciolti e con una candela inmano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano supe-riore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta enon poteva venir giù. L'aggiunto gli ordinò di lasciar ilsuo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutòla signora che non rispose al saluto. Sperando che Fran-co fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per

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Page 209: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Videsuo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito.

L'aggiunto si avanzò per entrar in camera. «No!»,esclamò Franco. «C'è un'ammalata!» Luisa impugnò lamaniglia dell'uscio chiuso guardando colui in faccia.

«Questa malata chi è?», domandò l'aggiunto.«Una bambina.»«Eh, cosa vogliono che le facciamo?»«Scusi», disse Luisa scotendo nervosamente la mani-

glia quasi in atto di sfida. «Hanno bisogno d'entrare tut-ti?»

«Tutti.»Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria

si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, chefaceva male al cuore.

«Luisa», disse Franco, «lascia che questi signori fac-ciano la loro parte!»

L'aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fi-sonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata si-nistra. «Ascolti Suo marito, signora», diss'egli tanto permordere di rimando, a qualche modo. «Lo trovo pruden-te.»

«Meno di lei che si fa scortare da un esercito!», risposeLuisa aprendo l'uscio. Quegli la guardò, si strinse nellespalle e passò oltre, seguito dagli altri.

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trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Videsuo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito.

L'aggiunto si avanzò per entrar in camera. «No!»,esclamò Franco. «C'è un'ammalata!» Luisa impugnò lamaniglia dell'uscio chiuso guardando colui in faccia.

«Questa malata chi è?», domandò l'aggiunto.«Una bambina.»«Eh, cosa vogliono che le facciamo?»«Scusi», disse Luisa scotendo nervosamente la mani-

glia quasi in atto di sfida. «Hanno bisogno d'entrare tut-ti?»

«Tutti.»Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria

si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, chefaceva male al cuore.

«Luisa», disse Franco, «lascia che questi signori fac-ciano la loro parte!»

L'aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fi-sonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata si-nistra. «Ascolti Suo marito, signora», diss'egli tanto permordere di rimando, a qualche modo. «Lo trovo pruden-te.»

«Meno di lei che si fa scortare da un esercito!», risposeLuisa aprendo l'uscio. Quegli la guardò, si strinse nellespalle e passò oltre, seguito dagli altri.

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«Aprano tutto, qui!», diss'egli forte, ruvidamente, indi-cando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Francolampeggiarono. «Parli sottovoce!», diss'egli. «Non mispaventi la bambina!»

«Silenzio a Lei!», tuonò l'aggiunto calando un pugnosulla scrivania. «Apra!»

La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzaredisperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiavesulla scrivania.

«A Lei!», diss'egli.«Ella è in arresto!», gridò l'aggiunto.«Va bene!»Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era china-

ta tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzòimpetuosamente il viso.

«Ci ho diritto anch'io, a quest'onore», diss'ella con lasua bella voce vibrante.

L'aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovista-re da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarnelettere e carte ch'egli esaminava rapidamente e buttavaparte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scri-vania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messosossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Ma-ria. L'aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dalletto grande ch'egli intendeva pure di visitare.

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«Aprano tutto, qui!», diss'egli forte, ruvidamente, indi-cando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Francolampeggiarono. «Parli sottovoce!», diss'egli. «Non mispaventi la bambina!»

«Silenzio a Lei!», tuonò l'aggiunto calando un pugnosulla scrivania. «Apra!»

La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzaredisperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiavesulla scrivania.

«A Lei!», diss'egli.«Ella è in arresto!», gridò l'aggiunto.«Va bene!»Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era china-

ta tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzòimpetuosamente il viso.

«Ci ho diritto anch'io, a quest'onore», diss'ella con lasua bella voce vibrante.

L'aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovista-re da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarnelettere e carte ch'egli esaminava rapidamente e buttavaparte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scri-vania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messosossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Ma-ria. L'aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dalletto grande ch'egli intendeva pure di visitare.

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«Mi metta il lettuccio in ordine», rispose Luisa fre-mente. Fino a quel momento il bestione Carlascia erasempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come sequella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, nonfosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto.Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodarcon le sue manacce enormi le materasse e le lenzuoladel lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il lettogrande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non pian-geva più, guardava quella baraonda con tanto d'occhispalancati.

«Adesso vengano con me», disse l'aggiunto. Luisa sitenne sicura d'esser condotta via con suo marito e chieseche si facesse scendere la sua domestica per affidarle labambina. All'idea che Luisa pure fosse tratta in arresto,che si volesse togliere a Maria malata anche la madre,Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise ungrido di protesta:

«Questo non è possibile! Lo dica!»L'aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si faces-

se venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura,entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando.

«Stupida!», mormorò Franco, fra i denti.«La donna starà qui con la bambina», disse l'aggiunto.

«Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisi-zione.» Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarmenell'alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi,

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«Mi metta il lettuccio in ordine», rispose Luisa fre-mente. Fino a quel momento il bestione Carlascia erasempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come sequella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, nonfosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto.Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodarcon le sue manacce enormi le materasse e le lenzuoladel lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il lettogrande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non pian-geva più, guardava quella baraonda con tanto d'occhispalancati.

«Adesso vengano con me», disse l'aggiunto. Luisa sitenne sicura d'esser condotta via con suo marito e chieseche si facesse scendere la sua domestica per affidarle labambina. All'idea che Luisa pure fosse tratta in arresto,che si volesse togliere a Maria malata anche la madre,Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise ungrido di protesta:

«Questo non è possibile! Lo dica!»L'aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si faces-

se venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura,entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando.

«Stupida!», mormorò Franco, fra i denti.«La donna starà qui con la bambina», disse l'aggiunto.

«Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisi-zione.» Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarmenell'alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi,

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dal Bianconi, da Franco e Luisa.«Prima di continuar la perquisizione», diss'egli, «do-

manderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Lorocontegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengonoarmi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate chemanoscritte, ostili all'Imperial Regio Governo.»

Franco rispose forte:«No».«È quello che vedremo», fece l'aggiunto.«Si accomodi.»

Mentre l'aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti,guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisache otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere,nel cassettone di una camera del secondo piano, unavecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la scia-bola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, ca-duto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava so-pra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si an-dava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa avevadimenticato del tutto la vecchia sciabola dell'Impero.Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l'avessedimenticata! Se non l'avesse consegnata nel '48, dopo laguerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare,pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicitàpatriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da

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dal Bianconi, da Franco e Luisa.«Prima di continuar la perquisizione», diss'egli, «do-

manderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Lorocontegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengonoarmi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate chemanoscritte, ostili all'Imperial Regio Governo.»

Franco rispose forte:«No».«È quello che vedremo», fece l'aggiunto.«Si accomodi.»

Mentre l'aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti,guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisache otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere,nel cassettone di una camera del secondo piano, unavecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la scia-bola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, ca-duto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava so-pra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si an-dava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa avevadimenticato del tutto la vecchia sciabola dell'Impero.Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l'avessedimenticata! Se non l'avesse consegnata nel '48, dopo laguerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare,pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicitàpatriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da

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trentasei anni nel fondo d'un cassettone, era pure diven-tato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Francoche non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spal-liera d'una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sottouna stretta convulsa; ell'alzò le mani, atterrita come seavesse parlato.

Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con isuoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone,frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricor-dar il posto preciso dove l'aveva veduta, d'immaginaruna via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi,macchinalmente, la candela che un gendarme accostava,secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto,ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzavaper guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun ri-medio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola,c'era solo da sperare che non si visitasse anche quellacamera.

Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nellafronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano lemani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuocomuto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordinetronco dell'aggiunto, qualche risposta sommessa deigendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le lorograndi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ri-cevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala dagiuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, ilsilenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra

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trentasei anni nel fondo d'un cassettone, era pure diven-tato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Francoche non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spal-liera d'una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sottouna stretta convulsa; ell'alzò le mani, atterrita come seavesse parlato.

Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con isuoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone,frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricor-dar il posto preciso dove l'aveva veduta, d'immaginaruna via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi,macchinalmente, la candela che un gendarme accostava,secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto,ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzavaper guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun ri-medio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola,c'era solo da sperare che non si visitasse anche quellacamera.

Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nellafronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano lemani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuocomuto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordinetronco dell'aggiunto, qualche risposta sommessa deigendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le lorograndi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ri-cevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala dagiuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, ilsilenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra

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faccia, la sinistra voce dell'aggiunto, quantunque nulla sitrovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva unuomo sicuro d'arrivare al suo scopo. E non poter farniente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglioche non lo sapesse, forse quest'ignoranza poteva salvar-lo.

Visitate la sala e la loggia, l'aggiunto passò nel salotto.Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una ra-pida rassegna dei piccoli uomini illustri. «Il signor inge-gnere in capo Ribera», diss'egli vedendo i ritratti diGouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napo-leonici, «avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto diS. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c'è?»

«No», rispose Franco.«Che razza d'impiegati!», fece colui con un disprezzo,

con un'arroganza da non dire.«Hanno gl'impiegati il dovere», scattò Franco, «di te-

nere ritratti...»«Non sono qui», lo interruppe l'aggiunto, «per discute-

re con Lei!»Franco voleva replicare. «Citto, Lei, con quella lingua

lunga quatter brazza!», fece il Ricevitore, burbero.L'aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce

alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe?Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immagi-nando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse

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faccia, la sinistra voce dell'aggiunto, quantunque nulla sitrovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva unuomo sicuro d'arrivare al suo scopo. E non poter farniente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglioche non lo sapesse, forse quest'ignoranza poteva salvar-lo.

Visitate la sala e la loggia, l'aggiunto passò nel salotto.Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una ra-pida rassegna dei piccoli uomini illustri. «Il signor inge-gnere in capo Ribera», diss'egli vedendo i ritratti diGouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napo-leonici, «avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto diS. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c'è?»

«No», rispose Franco.«Che razza d'impiegati!», fece colui con un disprezzo,

con un'arroganza da non dire.«Hanno gl'impiegati il dovere», scattò Franco, «di te-

nere ritratti...»«Non sono qui», lo interruppe l'aggiunto, «per discute-

re con Lei!»Franco voleva replicare. «Citto, Lei, con quella lingua

lunga quatter brazza!», fece il Ricevitore, burbero.L'aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce

alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe?Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immagi-nando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse

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che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nellasua mente tutte le possibilità del momento, le sciaguratee le prospere. Se si fermava sulle prime, l'orrore la por-tava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, lafantasia ritornava con avidità perversa alle prime.

Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secon-do piano, udì Maria piangere. Franco chiese all'aggiuntoche permettesse a sua moglie di scendere dalla bambinama ella protestò che voleva restare. L'idea di non esserecon lui quando si scoprisse l'arma, l'atterriva. Intantol'aggiunto entrò in uno stanzino dov'erano parecchi libri,trovò un'opera stampata a Capolago col titolo Scritti let-terari di un italiano vivente e domandò:

«Chi è quest'italiano vivente?»«Il padre Cesari», rispose Franco, audacemente.

L'altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome difrate, si diede l'aria dell'uomo colto, disse: «Ah, cono-sco!», e ripose il libro, chiese dove dormisse l'ingegnerein capo.

Luisa era troppo soggiogata da un'angoscia sola persentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoinella camera dello zio così pulita e ordinata, così pienadel suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sa-rebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentìuno struggimento, una rabbia da piangerne. «Mi pare»,diss'egli, «che almeno questa camera dovrebb'essere ri-spettata.»

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che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nellasua mente tutte le possibilità del momento, le sciaguratee le prospere. Se si fermava sulle prime, l'orrore la por-tava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, lafantasia ritornava con avidità perversa alle prime.

Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secon-do piano, udì Maria piangere. Franco chiese all'aggiuntoche permettesse a sua moglie di scendere dalla bambinama ella protestò che voleva restare. L'idea di non esserecon lui quando si scoprisse l'arma, l'atterriva. Intantol'aggiunto entrò in uno stanzino dov'erano parecchi libri,trovò un'opera stampata a Capolago col titolo Scritti let-terari di un italiano vivente e domandò:

«Chi è quest'italiano vivente?»«Il padre Cesari», rispose Franco, audacemente.

L'altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome difrate, si diede l'aria dell'uomo colto, disse: «Ah, cono-sco!», e ripose il libro, chiese dove dormisse l'ingegnerein capo.

Luisa era troppo soggiogata da un'angoscia sola persentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoinella camera dello zio così pulita e ordinata, così pienadel suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sa-rebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentìuno struggimento, una rabbia da piangerne. «Mi pare»,diss'egli, «che almeno questa camera dovrebb'essere ri-spettata.»

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«Ella si tenga le Sue osservazioni», rispose l'aggiunto,e incominciò con far buttare all'aria coperte e materasse.Poi volle la chiave del cassettone. L'aveva Franco, chediscese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nel-la sua camera. Lo zio gliel'aveva consegnata prima dipartire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovatoun po' di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V'eraun rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei porta-fogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite,una scodellina di legno con varie monete.

L'aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scopersefra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alber-to e un pezzo di quaranta lire del Governo Provvisoriodi Lombardia. «Il signor ingegnere in capo», dissel'aggiunto, «ha conservato queste monete con una curastraordinaria! D'ora in poi le conserveremo noi.» Chiuseil cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri.

Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitorelo credette disposto a scendere e siccome il corridoio eraquasi buio e la scala non si vedeva, s'incamminò egli,come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: «Diqua». La stanza della sciabola era a sinistra.

«Aspetti», disse l'aggiunto. «Guardiamo anche quidentro.» E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Lui-sa, ch'era rimasta l'ultima del seguito, giunto il momentosupremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l'indecisio-ne dell'aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò

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«Ella si tenga le Sue osservazioni», rispose l'aggiunto,e incominciò con far buttare all'aria coperte e materasse.Poi volle la chiave del cassettone. L'aveva Franco, chediscese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nel-la sua camera. Lo zio gliel'aveva consegnata prima dipartire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovatoun po' di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V'eraun rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei porta-fogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite,una scodellina di legno con varie monete.

L'aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scopersefra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alber-to e un pezzo di quaranta lire del Governo Provvisoriodi Lombardia. «Il signor ingegnere in capo», dissel'aggiunto, «ha conservato queste monete con una curastraordinaria! D'ora in poi le conserveremo noi.» Chiuseil cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri.

Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitorelo credette disposto a scendere e siccome il corridoio eraquasi buio e la scala non si vedeva, s'incamminò egli,come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: «Diqua». La stanza della sciabola era a sinistra.

«Aspetti», disse l'aggiunto. «Guardiamo anche quidentro.» E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Lui-sa, ch'era rimasta l'ultima del seguito, giunto il momentosupremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l'indecisio-ne dell'aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò

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come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pron-ta.

«Chi dorme qui?», le chiese l'aggiunto.«Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che

sono morti da quarant'anni. Dopo non vi ha più dormitonessuno.»

Nella camera v'erano due letti, un canapè, un cassetto-ne. L'aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassetto-ne. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io,la chiave», disse Luisa con perfetta indifferenza. Disce-se accompagnata da un gendarme e risalì con un cestel-lino pieno di chiavi, lo porse all'aggiunto.

«Non la conosco», disse, «non si adopera mai.Dev'essere una di queste.»

Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevi-tore, poi Franco. La buona non c'era.

«Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro», disseLuisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l'aggiuntocome per dirgli: «Mi pare inutile». Ma l'aggiunto glivoltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «Questa chiaveci dev'essere».

Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva mani-glie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, ilpiù robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì nécol primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisasi risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, in-

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come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pron-ta.

«Chi dorme qui?», le chiese l'aggiunto.«Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che

sono morti da quarant'anni. Dopo non vi ha più dormitonessuno.»

Nella camera v'erano due letti, un canapè, un cassetto-ne. L'aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassetto-ne. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io,la chiave», disse Luisa con perfetta indifferenza. Disce-se accompagnata da un gendarme e risalì con un cestel-lino pieno di chiavi, lo porse all'aggiunto.

«Non la conosco», disse, «non si adopera mai.Dev'essere una di queste.»

Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevi-tore, poi Franco. La buona non c'era.

«Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro», disseLuisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l'aggiuntocome per dirgli: «Mi pare inutile». Ma l'aggiunto glivoltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «Questa chiaveci dev'essere».

Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva mani-glie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, ilpiù robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì nécol primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisasi risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, in-

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sieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò lemaniglie del terzo cassetto. «Questo non è chiuso»,diss'egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente.L'aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro.

Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicellidel soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto,gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spa-smodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormo-rar con voce benigna: «Disegni». Poi l'aggiunto fece:«Oh!». I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì.Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: «Cosac'è?». L'aggiunto aveva in mano una lunga, curva bustadi cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo avevaprima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con unaccento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo.«Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaro-slavetz, 1812.» Franco balzò in piedi, sorpreso, incredu-lo, e in pari tempo l'aggiunto aperse la busta. Franco nonla poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Suamoglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento enon gli pareva possibile.

Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto.Luisa si trasse nell'ombra precipitosamente, cadde a se-dere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno,s'irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intantol'aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso,chiese a Franco dove fosse l'arma. Franco fu per rispon-dere che non lo sapeva com'era vero. Ma questa potendo

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sieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò lemaniglie del terzo cassetto. «Questo non è chiuso»,diss'egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente.L'aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro.

Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicellidel soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto,gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spa-smodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormo-rar con voce benigna: «Disegni». Poi l'aggiunto fece:«Oh!». I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì.Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: «Cosac'è?». L'aggiunto aveva in mano una lunga, curva bustadi cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo avevaprima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con unaccento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo.«Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaro-slavetz, 1812.» Franco balzò in piedi, sorpreso, incredu-lo, e in pari tempo l'aggiunto aperse la busta. Franco nonla poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Suamoglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento enon gli pareva possibile.

Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto.Luisa si trasse nell'ombra precipitosamente, cadde a se-dere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno,s'irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intantol'aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso,chiese a Franco dove fosse l'arma. Franco fu per rispon-dere che non lo sapeva com'era vero. Ma questa potendo

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parere una giustificazione personale, rispose invece:«In Russia».La sciabola non era in Russia, era confitta nella mel-

ma, in fondo al lago, dove l'aveva segretamente gittatalo zio Piero, invece di consegnarla.

«E perché hanno scritto sciabola?», fece il Ricevitoretanto per mostrare un po' di zelo anche lui.

«Chi ha scritto è morto», disse Franco.«Questa chiave subito!», esclamò rabbiosamente il

Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cas-setti furono aperti; uno era vuoto, l'altro conteneva dellecoperte di lana e della lavanda.

La perquisizione finì qui. L'aggiunto discese in sala eintimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quartod'ora. «Ma ci arresti tutti, dunque!», esclamò Luisa.

L'aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco:«Dentro un quarto d'ora. Lei! Vada pure nella Sua came-ra». Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, dirassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, nonmostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nellavoce una dolcezza seria, una virile tranquillità.

Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Al-manach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, sichinò un momento su Maria che dormiva e non le diedeun bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poi-ché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due

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parere una giustificazione personale, rispose invece:«In Russia».La sciabola non era in Russia, era confitta nella mel-

ma, in fondo al lago, dove l'aveva segretamente gittatalo zio Piero, invece di consegnarla.

«E perché hanno scritto sciabola?», fece il Ricevitoretanto per mostrare un po' di zelo anche lui.

«Chi ha scritto è morto», disse Franco.«Questa chiave subito!», esclamò rabbiosamente il

Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cas-setti furono aperti; uno era vuoto, l'altro conteneva dellecoperte di lana e della lavanda.

La perquisizione finì qui. L'aggiunto discese in sala eintimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quartod'ora. «Ma ci arresti tutti, dunque!», esclamò Luisa.

L'aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco:«Dentro un quarto d'ora. Lei! Vada pure nella Sua came-ra». Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, dirassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, nonmostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nellavoce una dolcezza seria, una virile tranquillità.

Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Al-manach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, sichinò un momento su Maria che dormiva e non le diedeun bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poi-ché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due

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uscite della camera, si sciolse presto dalle sue bracciadicendole in francese che non conveniva dare spettacoloa quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordinidell'aggiunto.

Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera,verso Albogasio, all'approdo che chiamano del Canevaa.Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco siudì sopra la testa uno strepito d'imposte, vide batter sul-la faccia bianca della chiesa il lume della sua camera esi voltò a dir verso la finestra:

«Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!»Luisa non rispose.Quando i gendarmi arrivarono con l'arrestato presso il

Canevaa, l'aggiunto comandò loro di fermarsi.«Signor Maironi», diss'egli, «Ella ha avuto la sua le-

zione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a ri-spettare le Autorità.»

Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore diFranco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò acasa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto dellachiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò:

«Franco?». Egli saltò avanti, fu visto, vide l'ombra dilei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciòsulla scala gridando «libero, libero!» mentre sua mogliela scendeva a precipizio con una furia di «come comecome?». Si cercarono con le braccia avide, si afferraro-

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uscite della camera, si sciolse presto dalle sue bracciadicendole in francese che non conveniva dare spettacoloa quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordinidell'aggiunto.

Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera,verso Albogasio, all'approdo che chiamano del Canevaa.Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco siudì sopra la testa uno strepito d'imposte, vide batter sul-la faccia bianca della chiesa il lume della sua camera esi voltò a dir verso la finestra:

«Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!»Luisa non rispose.Quando i gendarmi arrivarono con l'arrestato presso il

Canevaa, l'aggiunto comandò loro di fermarsi.«Signor Maironi», diss'egli, «Ella ha avuto la sua le-

zione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a ri-spettare le Autorità.»

Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore diFranco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò acasa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto dellachiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò:

«Franco?». Egli saltò avanti, fu visto, vide l'ombra dilei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciòsulla scala gridando «libero, libero!» mentre sua mogliela scendeva a precipizio con una furia di «come comecome?». Si cercarono con le braccia avide, si afferraro-

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no, si strinsero, non parlarono più.Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto

che avevano visto, udito e provato, ritornando semprealla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsisu tante inezie, sull'accento veneto che aveva l'aggiunto,sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sulgendarme biondo che doveva essere un cane. Di quandoin quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e ladolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andara letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepi-da, il lago immobile. L'afa, le tenebre, le forme vaghe,mostruose delle montagne pigliavano nella immagina-zione una mortale pesantezza austriaca; l'aria stessa nepareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco,ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che ve-gliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. Labambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare.

Cercarono di dormire anch'essi e non ci riuscirono.Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare.

Egli domandava sottovoce: «Dormi?». Ella rispondeva«no» e allora tornavano in campo le monete o le carte ola sciabola o lo sgherro dall'accento veneto. Oramai nonerano più davvero cose nuove e siccome sull'alba Mariasi agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sus-surrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tac-que definitivamente, come se ne fosse persuaso.

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no, si strinsero, non parlarono più.Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto

che avevano visto, udito e provato, ritornando semprealla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsisu tante inezie, sull'accento veneto che aveva l'aggiunto,sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sulgendarme biondo che doveva essere un cane. Di quandoin quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e ladolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andara letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepi-da, il lago immobile. L'afa, le tenebre, le forme vaghe,mostruose delle montagne pigliavano nella immagina-zione una mortale pesantezza austriaca; l'aria stessa nepareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco,ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che ve-gliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. Labambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare.

Cercarono di dormire anch'essi e non ci riuscirono.Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare.

Egli domandava sottovoce: «Dormi?». Ella rispondeva«no» e allora tornavano in campo le monete o le carte ola sciabola o lo sgherro dall'accento veneto. Oramai nonerano più davvero cose nuove e siccome sull'alba Mariasi agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sus-surrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tac-que definitivamente, come se ne fosse persuaso.

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Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, SanMamette, furono pieni di bisbigli: «Avii sentii?». «Ohcar Signor!». «Avii sentii?». «Oh cara Madonna!» I bi-sbigli più sonori, per forza, furono quelli che appreseroil fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in boc-ca: «Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!». La poveradonna credette che un esercito avesse spazzato via i suoiamici e si mise a sbuffare «oh! oh!» come una locomoti-va. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina.Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle discendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affettoai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo discopa. Via. Via anche quella!. «E la serva? Ci sarà laserva?» Il perfido uomo menò in aria un altro colpo discopa e la Barborin capì che Sua Maestà I. R. A. avessefatto portar via anche la serva.

Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dallaValsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia.Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Grei-sberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al go-verno del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva acasa Maironi dalla carrozza dell'I. R. Delegato di Bre-scia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, unbell'uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, nonaveva un'aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla saladi ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi delsoffitto in aspettazione della marchesa, loro contempo-

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Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, SanMamette, furono pieni di bisbigli: «Avii sentii?». «Ohcar Signor!». «Avii sentii?». «Oh cara Madonna!» I bi-sbigli più sonori, per forza, furono quelli che appreseroil fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in boc-ca: «Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!». La poveradonna credette che un esercito avesse spazzato via i suoiamici e si mise a sbuffare «oh! oh!» come una locomoti-va. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina.Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle discendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affettoai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo discopa. Via. Via anche quella!. «E la serva? Ci sarà laserva?» Il perfido uomo menò in aria un altro colpo discopa e la Barborin capì che Sua Maestà I. R. A. avessefatto portar via anche la serva.

Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dallaValsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia.Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Grei-sberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al go-verno del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva acasa Maironi dalla carrozza dell'I. R. Delegato di Bre-scia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, unbell'uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, nonaveva un'aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla saladi ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi delsoffitto in aspettazione della marchesa, loro contempo-

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ranea. Però, quando l'uscio in faccia, spalancato damano servile, lasciò passar lentamente la grossa perso-na, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, ilcavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grin-zosa della vecchia. Una dama lombarda devotaall'Austria era un animale raro e di gran pregio agli oc-chi dell'Imperial Regio Governo: ogni leale funzionariole doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ri-cevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solitaflemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notiziedei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stessotono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi lemani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tanteparole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.

Aspettava che le parlasse della perquisizione edell'ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passatoil suo dispiacere che Franco subisse la influenza di suamoglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenes-se al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fattoapertamente il liberale e la cui famiglia, specialmentequella signorina della trappola, professava il più sfaccia-to liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva rispostoche di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenutoconto. Poi la marchesa aveva istigato il CommissarioZérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dalloZérboli della perquisizione; perciò, quando vide Grei-sberg, intese ch'era venuto a parlarle di questo. Ora ellavoleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori pri-

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ranea. Però, quando l'uscio in faccia, spalancato damano servile, lasciò passar lentamente la grossa perso-na, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, ilcavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grin-zosa della vecchia. Una dama lombarda devotaall'Austria era un animale raro e di gran pregio agli oc-chi dell'Imperial Regio Governo: ogni leale funzionariole doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ri-cevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solitaflemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notiziedei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stessotono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi lemani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tanteparole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.

Aspettava che le parlasse della perquisizione edell'ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passatoil suo dispiacere che Franco subisse la influenza di suamoglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenes-se al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fattoapertamente il liberale e la cui famiglia, specialmentequella signorina della trappola, professava il più sfaccia-to liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva rispostoche di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenutoconto. Poi la marchesa aveva istigato il CommissarioZérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dalloZérboli della perquisizione; perciò, quando vide Grei-sberg, intese ch'era venuto a parlarle di questo. Ora ellavoleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori pri-

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vati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata maidi gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiandoun impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse.Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei dichieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo.Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso lasua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva unfavore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghiebenefiche del Governo.

Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l'altra ce-desse. Visto che stava muta e dura, si fece a un trattomolle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veni-va da Verona, le propose d'indovinar il giro che avevafatto. Era passato per un paese così carino, aveva vedutouna villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! In-dovinare non era il forte della marchesa; gli domandòs'era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per laBrianza non c'era venuto. Tornò a descriver la villa cosìminutamente che la marchesa non poté a meno di rico-noscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cava-liere le propose d'indovinare perché mai fosse andato aveder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la teladella commedia che le si recitava, ma il suo viso melen-so non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l'aveva ta-stata un'altra volta per sapere se appigionerebbe la villaa S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamented'incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva presodelle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del

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vati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata maidi gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiandoun impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse.Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei dichieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo.Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso lasua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva unfavore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghiebenefiche del Governo.

Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l'altra ce-desse. Visto che stava muta e dura, si fece a un trattomolle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veni-va da Verona, le propose d'indovinar il giro che avevafatto. Era passato per un paese così carino, aveva vedutouna villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! In-dovinare non era il forte della marchesa; gli domandòs'era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per laBrianza non c'era venuto. Tornò a descriver la villa cosìminutamente che la marchesa non poté a meno di rico-noscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cava-liere le propose d'indovinare perché mai fosse andato aveder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la teladella commedia che le si recitava, ma il suo viso melen-so non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l'aveva ta-stata un'altra volta per sapere se appigionerebbe la villaa S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamented'incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva presodelle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del

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Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose inguardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinareneppur questo. Già le pareva di diventare ogni giornopiù stupida. Anni e dispiaceri! «Ne ho avuto uno grossoanche di questi giorni!», diss'ella. «Ho saputo che la Po-lizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote aOria.»

Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita,buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. «Marchesa»,diss'egli prendendo un tono che non ammetteva repli-che, «Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornitoper mezzo mio e per mezzo del signor Commissario diPorlezza preziose informazioni al Governo, il quale Letien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non futorto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincre-sce invece che non si avrà modo, forse, di prendereprovvedimenti severi contro un'altra persona che ha deitorti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire que-sta persona il signor Commissario di Porlezza ha fattoanche più del suo dovere. Ella deve capire senz'altro,marchesa, che non è il caso di dispiaceri e che anzi haun obbligo particolare verso il Governo.» La marchesanon s'era mai udita parlare così alto e con tanta formida-bile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore cherispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondula-mento continuo del collo e del capo; ma pareva proprioil moto d'un animale che lavorasse faticosamente a ingo-iar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino

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Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose inguardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinareneppur questo. Già le pareva di diventare ogni giornopiù stupida. Anni e dispiaceri! «Ne ho avuto uno grossoanche di questi giorni!», diss'ella. «Ho saputo che la Po-lizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote aOria.»

Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita,buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. «Marchesa»,diss'egli prendendo un tono che non ammetteva repli-che, «Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornitoper mezzo mio e per mezzo del signor Commissario diPorlezza preziose informazioni al Governo, il quale Letien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non futorto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincre-sce invece che non si avrà modo, forse, di prendereprovvedimenti severi contro un'altra persona che ha deitorti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire que-sta persona il signor Commissario di Porlezza ha fattoanche più del suo dovere. Ella deve capire senz'altro,marchesa, che non è il caso di dispiaceri e che anzi haun obbligo particolare verso il Governo.» La marchesanon s'era mai udita parlare così alto e con tanta formida-bile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore cherispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondula-mento continuo del collo e del capo; ma pareva proprioil moto d'un animale che lavorasse faticosamente a ingo-iar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino

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a dire una parola d'acquiescenza. Solamente, quando ri-prese la sua placidezza obesa, osservò che non avevamai domandato di prendere provvedimenti contro nessu-no, che se nella perquisizione non si era trovato niente acarico dell'ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che delresto in casa Ribera se n'eran dette di tutti i colori e che idiscorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, piùmansueto, che non poteva dire se si fosse trovato nienteo no e che l'ultima parola sarebbe stata pronunciata dalmaresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmentedella cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorsodella villa di Monzambano. La chiese formalmente perSua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni.La marchesa ringraziò dell'onor grande, disse che la suavilla non meritava tanto, che le pareva troppo angusta,che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo aSua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar ilprezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cava-liere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che biso-gnava risponder subito, risponder netto, sì o no, e con-venne bene che la vecchia piegasse il capo. «Per com-piacere a Sua Eccellenza», diss'ella. Greisberg tornò su-bito amabile, scherzò sulle misure che si potrebberoprendere contro quel signor ingegnere. Non c'era dasparger sangue, c'era da spargere, tutt'al più, un po'd'inchiostro; non c'era da togliergli la libertà, c'era darendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portaredue limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi,non senza una fioca espressione di contentezza fra un

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a dire una parola d'acquiescenza. Solamente, quando ri-prese la sua placidezza obesa, osservò che non avevamai domandato di prendere provvedimenti contro nessu-no, che se nella perquisizione non si era trovato niente acarico dell'ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che delresto in casa Ribera se n'eran dette di tutti i colori e che idiscorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, piùmansueto, che non poteva dire se si fosse trovato nienteo no e che l'ultima parola sarebbe stata pronunciata dalmaresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmentedella cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorsodella villa di Monzambano. La chiese formalmente perSua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni.La marchesa ringraziò dell'onor grande, disse che la suavilla non meritava tanto, che le pareva troppo angusta,che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo aSua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar ilprezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cava-liere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che biso-gnava risponder subito, risponder netto, sì o no, e con-venne bene che la vecchia piegasse il capo. «Per com-piacere a Sua Eccellenza», diss'ella. Greisberg tornò su-bito amabile, scherzò sulle misure che si potrebberoprendere contro quel signor ingegnere. Non c'era dasparger sangue, c'era da spargere, tutt'al più, un po'd'inchiostro; non c'era da togliergli la libertà, c'era darendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portaredue limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi,non senza una fioca espressione di contentezza fra un

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sorso e l'altro, come se ci fosse nella limonata un saporenuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da leiuna parola esplicita su questo punto del Ribera, una con-fessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la taz-za vuotata rapidamente, le disse: «Mi ci metterò io, sa, eci riusciremo a questo. È contenta?».

La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano,piano, guardando nel bicchiere.

«Non va bene?», domandò ancora il cugino dopo unainutile attesa.

«Sì, è buona», rispose il sonnolento naso. «Bevo ada-gio per i denti.»

Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Francoerano seduti sull'erba di Looch, presso al cimitero. Par-lavano della bontà grande e squisita della mamma, laparagonavano alla bontà grande e semplice dello zio no-tandone le somiglianze e le differenze. Non dicevanoquale delle due bontà paresse loro superiore nell'insie-me, ma dai loro giudizi s'indovinavano le inclinazionidiverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fedenel soprannaturale e Luisa preferiva l'altra. Egli soffrivadi questa contraddizione segreta pur esitando di rilevar-la, temendo di premere il tasto che poteva dare una notatroppo penosa. Ma la fronte sua n'era adombrata e a uncerto punto gli sfuggì di dire: «Quante disgrazie, quanteamarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazio-

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sorso e l'altro, come se ci fosse nella limonata un saporenuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da leiuna parola esplicita su questo punto del Ribera, una con-fessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la taz-za vuotata rapidamente, le disse: «Mi ci metterò io, sa, eci riusciremo a questo. È contenta?».

La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano,piano, guardando nel bicchiere.

«Non va bene?», domandò ancora il cugino dopo unainutile attesa.

«Sì, è buona», rispose il sonnolento naso. «Bevo ada-gio per i denti.»

Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Francoerano seduti sull'erba di Looch, presso al cimitero. Par-lavano della bontà grande e squisita della mamma, laparagonavano alla bontà grande e semplice dello zio no-tandone le somiglianze e le differenze. Non dicevanoquale delle due bontà paresse loro superiore nell'insie-me, ma dai loro giudizi s'indovinavano le inclinazionidiverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fedenel soprannaturale e Luisa preferiva l'altra. Egli soffrivadi questa contraddizione segreta pur esitando di rilevar-la, temendo di premere il tasto che poteva dare una notatroppo penosa. Ma la fronte sua n'era adombrata e a uncerto punto gli sfuggì di dire: «Quante disgrazie, quanteamarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazio-

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ne, con che forza, con che pace! Credi tu che una purabontà naturale le avrebbe potute sopportare così?».«Non lo so», rispose Luisa. «La povera mamma avevavissuto, io credo, in un mondo superiore prima che inquesto: aveva sempre il cuore là.» Ella non disse tutto ilsuo pensiero. Pensava che se le anime buone di questomondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a suamadre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e deiprepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uo-mini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pa-reva di ammirar coloro che vi resistono per una forzaloro propria sopra quegli altri che invocano e ottengonoaiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ellanon voleva confessar questi sentimenti a suo marito.Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a in-contrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore vo-lesse far soffrire un uomo tale? «No no no!», esclamòFranco, che in un altro momento non avrebbe osato, for-se, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Bogliacalò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. ALuisa quello stormire parve legarsi con le ultime paroledi Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapesse-ro qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.

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ne, con che forza, con che pace! Credi tu che una purabontà naturale le avrebbe potute sopportare così?».«Non lo so», rispose Luisa. «La povera mamma avevavissuto, io credo, in un mondo superiore prima che inquesto: aveva sempre il cuore là.» Ella non disse tutto ilsuo pensiero. Pensava che se le anime buone di questomondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a suamadre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e deiprepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uo-mini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pa-reva di ammirar coloro che vi resistono per una forzaloro propria sopra quegli altri che invocano e ottengonoaiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ellanon voleva confessar questi sentimenti a suo marito.Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a in-contrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore vo-lesse far soffrire un uomo tale? «No no no!», esclamòFranco, che in un altro momento non avrebbe osato, for-se, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Bogliacalò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. ALuisa quello stormire parve legarsi con le ultime paroledi Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapesse-ro qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.

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5. Il segreto del vento e dei noci

La febbre di Maria non durò che otto giorni, eppurequando la piccina si alzò i suoi genitori la trovarono mu-tata nel viso e nello spirito più che se gli otto giorni fos-sero stati otto mesi. Gli occhi avevan preso un colorepiù oscuro, una singolare espressione di serietà e di ma-turità precoce. Parlava più chiaro e spedito, ma con lepersone che non le garbavano non parlava affatto; nean-che le salutava. Ciò spiaceva più a Franco che a Luisa.Franco la voleva gentile e Luisa temeva di guastarle lasincerità. Maria aveva per sua madre un affetto non tan-to espansivo ma violento: fiero, quasi, e geloso. Volevamolto bene anche a suo padre; però si capiva che lo sen-tiva diverso da sé. Franco aveva trasporti di passione peressa, l'afferrava all'impensata, la stringeva, la divoravadi baci ed ella allora gittava il capo all'indietro puntandouna manina sul viso di suo padre e guardandolo scuracome se qualche cosa in lui le fosse straniero e ripu-gnante. Spesso Franco la sgridava con ira e Maria pian-geva, lo fissava attraverso le lagrime senza muoversi,come affascinata, ancora con quella espressione di per-sona che non comprende. Egli vedeva la predilezionedella bambina per sua madre e se ne compiaceva, gli pa-reva una preferenza giusta, non dubitava che Maria, più

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5. Il segreto del vento e dei noci

La febbre di Maria non durò che otto giorni, eppurequando la piccina si alzò i suoi genitori la trovarono mu-tata nel viso e nello spirito più che se gli otto giorni fos-sero stati otto mesi. Gli occhi avevan preso un colorepiù oscuro, una singolare espressione di serietà e di ma-turità precoce. Parlava più chiaro e spedito, ma con lepersone che non le garbavano non parlava affatto; nean-che le salutava. Ciò spiaceva più a Franco che a Luisa.Franco la voleva gentile e Luisa temeva di guastarle lasincerità. Maria aveva per sua madre un affetto non tan-to espansivo ma violento: fiero, quasi, e geloso. Volevamolto bene anche a suo padre; però si capiva che lo sen-tiva diverso da sé. Franco aveva trasporti di passione peressa, l'afferrava all'impensata, la stringeva, la divoravadi baci ed ella allora gittava il capo all'indietro puntandouna manina sul viso di suo padre e guardandolo scuracome se qualche cosa in lui le fosse straniero e ripu-gnante. Spesso Franco la sgridava con ira e Maria pian-geva, lo fissava attraverso le lagrime senza muoversi,come affascinata, ancora con quella espressione di per-sona che non comprende. Egli vedeva la predilezionedella bambina per sua madre e se ne compiaceva, gli pa-reva una preferenza giusta, non dubitava che Maria, più

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tardi, avrebbe teneramente amato anche lui. A Luisa di-spiaceva molto, per amore del marito, che la bambinadimostrasse maggior affetto a lei, però questo sentimen-to suo non era vivo e schietto come la compiacenza ge-nerosa di Franco. A Luisa pareva in fondo che Francomalgrado tanti trasporti, amasse sua figlia come un esse-re distinto da lui; mentre lei, che trasporti esteriori di te-nerezza non ne aveva, amava la bambina come una par-te vitale di se stessa; perciò non poteva trovare ingiustod'esserne preferita. Poi ell'aveva in cuore una Maria fu-tura probabilmente diversa da quella che aveva in cuoreFranco. Anche per questo non le poteva rincrescere diavere un predominio morale sulla figliuola. Vedeva ilpericolo che Franco favorisse uno sviluppo forte delsentimento religioso; pericolo gravissimo, secondo lei;perché Maria, piena di curiosità, avida di racconti, ave-va i germi d'un'immaginazione assai viva, assai propiziaalle fantasie religiose e ne poteva venire uno squilibriomorale. Non si trattava di sopprimere il sentimento reli-gioso; questo, Luisa non l'avrebbe fatto mai, nonfoss'altro per rispetto a Franco; ma occorreva che Maria,fatta donna, sapesse trovare il perno della propria vita inun senso morale sicuro e forte per sé, non appoggiato acredenze che finalmente erano ipotesi e opinioni, e pote-vano un giorno o l'altro mancarle. Serbar fede al Giusto,al Vero, fuor di qualsiasi altra fede, di qualsiasi speranzae paura, pareva a lei lo stato più sublime della coscienzaumana. A una tale perfezione si figurava aver rinunciatoper sé poiché andava a messa e due volte l'anno ai sacra-

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tardi, avrebbe teneramente amato anche lui. A Luisa di-spiaceva molto, per amore del marito, che la bambinadimostrasse maggior affetto a lei, però questo sentimen-to suo non era vivo e schietto come la compiacenza ge-nerosa di Franco. A Luisa pareva in fondo che Francomalgrado tanti trasporti, amasse sua figlia come un esse-re distinto da lui; mentre lei, che trasporti esteriori di te-nerezza non ne aveva, amava la bambina come una par-te vitale di se stessa; perciò non poteva trovare ingiustod'esserne preferita. Poi ell'aveva in cuore una Maria fu-tura probabilmente diversa da quella che aveva in cuoreFranco. Anche per questo non le poteva rincrescere diavere un predominio morale sulla figliuola. Vedeva ilpericolo che Franco favorisse uno sviluppo forte delsentimento religioso; pericolo gravissimo, secondo lei;perché Maria, piena di curiosità, avida di racconti, ave-va i germi d'un'immaginazione assai viva, assai propiziaalle fantasie religiose e ne poteva venire uno squilibriomorale. Non si trattava di sopprimere il sentimento reli-gioso; questo, Luisa non l'avrebbe fatto mai, nonfoss'altro per rispetto a Franco; ma occorreva che Maria,fatta donna, sapesse trovare il perno della propria vita inun senso morale sicuro e forte per sé, non appoggiato acredenze che finalmente erano ipotesi e opinioni, e pote-vano un giorno o l'altro mancarle. Serbar fede al Giusto,al Vero, fuor di qualsiasi altra fede, di qualsiasi speranzae paura, pareva a lei lo stato più sublime della coscienzaumana. A una tale perfezione si figurava aver rinunciatoper sé poiché andava a messa e due volte l'anno ai sacra-

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menti, e intendeva rinunciarvi per Maria, ma come unoche rinuncia alla perfezione cristiana perché si trovaaver moglie e figliuoli; a malincuore e il meno possibile.

A Maria poteva essere serbata in sorte la ricchezza. Bi-sognava impedire assolutamente che accettasse una vitadi frivolezze, compensate dalla messa alla mattina, dalrosario alla sera e da elemosine. Luisa si era provataqualche volta di tastar Franco su questo terreno di dareall'educazione di Maria un indirizzo morale disgiuntodall'indirizzo religioso e il tasto aveva sempre rispostomale. Che non si credesse nella religione Franco lo capi-va; che qualcuno la potesse trovare insufficiente comenorma della vita, gli riusciva affatto inconcepibile. Chetutti poi dovessero aspirare alla santità, che non fossebuon cristiano chi amasse il tarocco, la primiera, la cac-cia, la pesca, i buoni pranzetti e le bottiglie fini, neanchegli passava per il capo. E questo indirizzo moraledell'educazione disgiunto dall'indirizzo religioso gli pa-reva una fisima perché secondo lui i galantuomini senzafede erano galantuomini per natura o per abitudine, nonper un ragionamento morale o filosofico. Non c'era dun-que modo per Luisa d'intendersi con suo marito circaquesto delicato punto. Doveva operare da sé e con moltacautela per non offenderlo né affliggerlo. Se Franco mo-strava alla bambina le stelle e la luna, i fiori e le farfallecome opere mirabili di Dio e le faceva della poesia reli-giosa buona per una ragazza di dodici anni, Luisa tace-va; se invece gli avveniva di dire a Maria: «Bada, Iddio

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menti, e intendeva rinunciarvi per Maria, ma come unoche rinuncia alla perfezione cristiana perché si trovaaver moglie e figliuoli; a malincuore e il meno possibile.

A Maria poteva essere serbata in sorte la ricchezza. Bi-sognava impedire assolutamente che accettasse una vitadi frivolezze, compensate dalla messa alla mattina, dalrosario alla sera e da elemosine. Luisa si era provataqualche volta di tastar Franco su questo terreno di dareall'educazione di Maria un indirizzo morale disgiuntodall'indirizzo religioso e il tasto aveva sempre rispostomale. Che non si credesse nella religione Franco lo capi-va; che qualcuno la potesse trovare insufficiente comenorma della vita, gli riusciva affatto inconcepibile. Chetutti poi dovessero aspirare alla santità, che non fossebuon cristiano chi amasse il tarocco, la primiera, la cac-cia, la pesca, i buoni pranzetti e le bottiglie fini, neanchegli passava per il capo. E questo indirizzo moraledell'educazione disgiunto dall'indirizzo religioso gli pa-reva una fisima perché secondo lui i galantuomini senzafede erano galantuomini per natura o per abitudine, nonper un ragionamento morale o filosofico. Non c'era dun-que modo per Luisa d'intendersi con suo marito circaquesto delicato punto. Doveva operare da sé e con moltacautela per non offenderlo né affliggerlo. Se Franco mo-strava alla bambina le stelle e la luna, i fiori e le farfallecome opere mirabili di Dio e le faceva della poesia reli-giosa buona per una ragazza di dodici anni, Luisa tace-va; se invece gli avveniva di dire a Maria: «Bada, Iddio

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non vuole che tu faccia questo, Iddio non vuole che tufaccia quello», Luisa soggiungeva subito: «Questo èmale, quello è male, non si deve mai far il male». Quiperò non poteva a meno di aprirsi qualche screzio visi-bile fra il padre e la madre perché non sempre il giudi-zio morale dell'uno si accordava col giudizio moraledell'altra. Una volta erano insieme alla finestra della salamentre Maria giuocava sul sagrato con una bambina diOria presso a poco della sua età. Passa un fratello diquesta, un prepotentone di otto anni e intima alla sorelli-na di seguirlo. Questa rifiuta e piange. Maria, seria se-ria, affronta il prepotente con i pugni. Franco la trattienecon una chiamata imperiosa; la piccina si volta a guar-darlo e scoppia in lagrime mentre quell'altro si trascinavia la sua vittima. Luisa lasciò la finestra dicendo sotto-voce a suo marito: «Scusa, questo non è giusto». «Comenon è giusto?» Franco si riscaldò, alzò la voce, chiese asua moglie se voleva una Maria violenta e manesca. Ellarispondeva con dolcezza e con fermezza, senza risentirsidi qualche parola pungente, sosteneva che il sentimentodi Maria era buono, che opporsi alla prepotenza eall'ingiustizia era il compito migliore per tutti, che se unbambino vi adoperava le mani, fatto adulto vi avrebbeadoperato mezzi più civili, ma che se si reprimeva in luila espressione naturale dell'animo, si correva il rischiodi schiacciare con essa anche il buon sentimento nascen-te.

Franco non si persuase. Secondo lui era molto dubbio

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non vuole che tu faccia questo, Iddio non vuole che tufaccia quello», Luisa soggiungeva subito: «Questo èmale, quello è male, non si deve mai far il male». Quiperò non poteva a meno di aprirsi qualche screzio visi-bile fra il padre e la madre perché non sempre il giudi-zio morale dell'uno si accordava col giudizio moraledell'altra. Una volta erano insieme alla finestra della salamentre Maria giuocava sul sagrato con una bambina diOria presso a poco della sua età. Passa un fratello diquesta, un prepotentone di otto anni e intima alla sorelli-na di seguirlo. Questa rifiuta e piange. Maria, seria se-ria, affronta il prepotente con i pugni. Franco la trattienecon una chiamata imperiosa; la piccina si volta a guar-darlo e scoppia in lagrime mentre quell'altro si trascinavia la sua vittima. Luisa lasciò la finestra dicendo sotto-voce a suo marito: «Scusa, questo non è giusto». «Comenon è giusto?» Franco si riscaldò, alzò la voce, chiese asua moglie se voleva una Maria violenta e manesca. Ellarispondeva con dolcezza e con fermezza, senza risentirsidi qualche parola pungente, sosteneva che il sentimentodi Maria era buono, che opporsi alla prepotenza eall'ingiustizia era il compito migliore per tutti, che se unbambino vi adoperava le mani, fatto adulto vi avrebbeadoperato mezzi più civili, ma che se si reprimeva in luila espressione naturale dell'animo, si correva il rischiodi schiacciare con essa anche il buon sentimento nascen-te.

Franco non si persuase. Secondo lui era molto dubbio

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che in Maria vi fossero di quei sentimenti eroici. Ella siera arrabbiata di vedersi portar via la sua compagna digiuoco e niente altro. Ma poi, la parte della donna nonera forse di opporre alle ingiustizie e alle prepotenzeuna dolcezza mansueta, di mitigare ed emendare gli of-fensori piuttosto che di respinger con la forza l'offesa?Luisa diventò rossa e rispose che ad alcune donne, forsealle migliori, questa parte conveniva, ma che non potevaconvenire a tutte perché tutte non potevano essere tantomiti e umili. «E tu sei di quelle altre?», esclamò Franco.

«Credo di sì.»«Bella cosa!»«Ti rincresce molto?»«Moltissimo.»Luisa gli pose le mani sulle spalle. «Ti rincresce mol-

to?», diss'ella fissandolo negli occhi, «che io m'irriticome te d'aver questi padroni in casa, che io desidericome te di aiutare anche con le mie mani a cacciarli viao preferiresti che io cercassi di emendare Radetzky e dimitigare i croati?»

«Questa è un'altra cosa!»«Come un'altra cosa? No, è la stessa cosa!»«È un'altra cosa!», ripeté Franco; e non seppe dimo-

strare che fosse un'altra cosa. Gli pareva di aver torto se-condo un raziocinio superficiale e di avere ragione se-condo una verità profonda che non riusciva ad afferrare.

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che in Maria vi fossero di quei sentimenti eroici. Ella siera arrabbiata di vedersi portar via la sua compagna digiuoco e niente altro. Ma poi, la parte della donna nonera forse di opporre alle ingiustizie e alle prepotenzeuna dolcezza mansueta, di mitigare ed emendare gli of-fensori piuttosto che di respinger con la forza l'offesa?Luisa diventò rossa e rispose che ad alcune donne, forsealle migliori, questa parte conveniva, ma che non potevaconvenire a tutte perché tutte non potevano essere tantomiti e umili. «E tu sei di quelle altre?», esclamò Franco.

«Credo di sì.»«Bella cosa!»«Ti rincresce molto?»«Moltissimo.»Luisa gli pose le mani sulle spalle. «Ti rincresce mol-

to?», diss'ella fissandolo negli occhi, «che io m'irriticome te d'aver questi padroni in casa, che io desidericome te di aiutare anche con le mie mani a cacciarli viao preferiresti che io cercassi di emendare Radetzky e dimitigare i croati?»

«Questa è un'altra cosa!»«Come un'altra cosa? No, è la stessa cosa!»«È un'altra cosa!», ripeté Franco; e non seppe dimo-

strare che fosse un'altra cosa. Gli pareva di aver torto se-condo un raziocinio superficiale e di avere ragione se-condo una verità profonda che non riusciva ad afferrare.

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Non parlò più, fu pensieroso tutto quel giorno e si vede-va che cercava la sua risposta. Ci pensò anche la notte,gli parve di averla trovata e chiamò sua moglie che dor-miva.

«Luisa!», diss'egli. «Luisa! Quella è un'altra cosa.»«Cos'è stato?», fece Luisa svegliandosi di soprassalto.Egli aveva pensato che la offesa del dominio straniero

non era personale come le offese private e che procede-va dalla violazione d'un principio di giustizia generale;ma nell'atto di spiegar ciò a sua moglie, gli venne inmente che anche nelle offese private aveva sempre luo-go la violazione d'un principio di giustizia generale, sifigurò di avere sbagliato.

«Niente», diss'egli.Sua moglie credette che sognasse e, posatogli il capo

sopra una spalla, si riaddormentò. Se vi erano argomenticapaci di convertire Franco alle idee di sua moglie, era-no quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suopetto, che gli avevan fatto tante altre volte deliziosa-mente sentire un reciproco abbandono delle anime. Oranon fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una lamarapida e fredda, il pensiero che questo latente antagoni-smo fra le idee di sua moglie e le sue avesse un giorno ol'altro a scoppiare in qualche doloroso modo e se lastrinse atterrito nelle braccia come per difender sé e leicontro i fantasmi della propria mente.

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Non parlò più, fu pensieroso tutto quel giorno e si vede-va che cercava la sua risposta. Ci pensò anche la notte,gli parve di averla trovata e chiamò sua moglie che dor-miva.

«Luisa!», diss'egli. «Luisa! Quella è un'altra cosa.»«Cos'è stato?», fece Luisa svegliandosi di soprassalto.Egli aveva pensato che la offesa del dominio straniero

non era personale come le offese private e che procede-va dalla violazione d'un principio di giustizia generale;ma nell'atto di spiegar ciò a sua moglie, gli venne inmente che anche nelle offese private aveva sempre luo-go la violazione d'un principio di giustizia generale, sifigurò di avere sbagliato.

«Niente», diss'egli.Sua moglie credette che sognasse e, posatogli il capo

sopra una spalla, si riaddormentò. Se vi erano argomenticapaci di convertire Franco alle idee di sua moglie, era-no quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suopetto, che gli avevan fatto tante altre volte deliziosa-mente sentire un reciproco abbandono delle anime. Oranon fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una lamarapida e fredda, il pensiero che questo latente antagoni-smo fra le idee di sua moglie e le sue avesse un giorno ol'altro a scoppiare in qualche doloroso modo e se lastrinse atterrito nelle braccia come per difender sé e leicontro i fantasmi della propria mente.

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Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le suegrosse forbici da giardiniere per fare il solito sterminiodi seccumi nel giardinetto e sulla terrazza. Era un'ora ditanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore. Nonuna foglia che si muovesse; purissima, cristallina l'ariada ponente; sfumanti a levante, dentro lievi vapori, lemontagne fra Osteno e Porlezza; la casa sfolgorata dalsole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldoma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori dellacosta più visibili fra il rosseggiar delle foglie caduche,certa segreta frescura dell'aria imbalsamata d'olea fra-grans, il silenzio d'ogni vento, le aeree montagne dellago di Como bianche di neve accordantisi malinconica-mente a dire che la cara stagione moriva. Sterminati iseccumi, Franco propose a sua moglie di andar in barcaa Casarico per riportare all'amico Gilardoni i due primivolumi dei Mystères du Peuple, divorati avidamente inpochi giorni, e averne il terzo. Fu deciso di partire amezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma primache Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cap-pello e la mantiglia a sghimbescio, la Barborin Pasotti.Era salita dal cancello del giardinetto e si fermò sullasoglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la per-quisizione; vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sot-tovoce: «Ah Signor, ah Signor, ah Signor!», si precipitòsu Luisa, la coperse di baci.

«Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!». Avrebbe volen-

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Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le suegrosse forbici da giardiniere per fare il solito sterminiodi seccumi nel giardinetto e sulla terrazza. Era un'ora ditanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore. Nonuna foglia che si muovesse; purissima, cristallina l'ariada ponente; sfumanti a levante, dentro lievi vapori, lemontagne fra Osteno e Porlezza; la casa sfolgorata dalsole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldoma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori dellacosta più visibili fra il rosseggiar delle foglie caduche,certa segreta frescura dell'aria imbalsamata d'olea fra-grans, il silenzio d'ogni vento, le aeree montagne dellago di Como bianche di neve accordantisi malinconica-mente a dire che la cara stagione moriva. Sterminati iseccumi, Franco propose a sua moglie di andar in barcaa Casarico per riportare all'amico Gilardoni i due primivolumi dei Mystères du Peuple, divorati avidamente inpochi giorni, e averne il terzo. Fu deciso di partire amezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma primache Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cap-pello e la mantiglia a sghimbescio, la Barborin Pasotti.Era salita dal cancello del giardinetto e si fermò sullasoglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la per-quisizione; vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sot-tovoce: «Ah Signor, ah Signor, ah Signor!», si precipitòsu Luisa, la coperse di baci.

«Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!». Avrebbe volen-

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tieri fatto altrettanto con Franco, ma Franco non gradivacerte espansioni, aveva una faccia poco incoraggiante,per cui la povera donna si accontentò di prendergli escuotergli ambedue le mani. «Car el mè don Franco!Car el mè don Franco!». Si raccolse finalmente in brac-cio la Maria che le puntò le manine al petto facendo unviso simile a quello di suo padre. «Son vègia, neh? Sonbrutta, neh? Te piasi no? L'è nient, l'è nient, l'è nient!».E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, nonosando affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoiamici che aveva portato loro una bella notizia e gli occhile brillavano di questo mistero gaudioso. La marchesaaveva scritto a Pasotti e nella lettera c'era un periodo chela Barborin aveva imparato a mente: «Ho appreso convivo dispiacere (vivo dispiacere, gh'è sü inscì) il tristefatto di Oria... di Oria... (spètta!) il triste fatto di Oria...(ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell pa-cienza!) desidero non abbia cattive conseguenze». Il pe-riodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scu-ro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osòmetter fuori il commento favorevole che aveva nellabocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborinche aveva approfittato della andata di suo marito a Lu-gano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assaimortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco efinì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprioonde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi de-sideravano partire in barca e struggendosi di stare un po'con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono

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tieri fatto altrettanto con Franco, ma Franco non gradivacerte espansioni, aveva una faccia poco incoraggiante,per cui la povera donna si accontentò di prendergli escuotergli ambedue le mani. «Car el mè don Franco!Car el mè don Franco!». Si raccolse finalmente in brac-cio la Maria che le puntò le manine al petto facendo unviso simile a quello di suo padre. «Son vègia, neh? Sonbrutta, neh? Te piasi no? L'è nient, l'è nient, l'è nient!».E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, nonosando affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoiamici che aveva portato loro una bella notizia e gli occhile brillavano di questo mistero gaudioso. La marchesaaveva scritto a Pasotti e nella lettera c'era un periodo chela Barborin aveva imparato a mente: «Ho appreso convivo dispiacere (vivo dispiacere, gh'è sü inscì) il tristefatto di Oria... di Oria... (spètta!) il triste fatto di Oria...(ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell pa-cienza!) desidero non abbia cattive conseguenze». Il pe-riodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scu-ro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osòmetter fuori il commento favorevole che aveva nellabocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborinche aveva approfittato della andata di suo marito a Lu-gano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assaimortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco efinì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprioonde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi de-sideravano partire in barca e struggendosi di stare un po'con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono

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Page 237: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

lasciando l'incarico alla Veronica di metter la bambina aletto un po' più tardi.

Maria non parve gradir molto la compagnia della suavecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andòmolto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. Lapovera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò laVeronica, ma la Veronica discorreva con una guardia difinanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, brac-cialetti, l'orologio, persino il cappellone da vicereginaBeauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuavaa piangere. Ebbe allora l'idea di mettersi al piano e simise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d'unamonferrina antidiluviana. Allora la principessina Mariasi mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di ca-mera così delicatamente come se le sue braccine fosserostate ali di farfalla e posar sulle ginocchia così pianocome se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere levecchie gambe.

Udite cinque o sei repliche della monferrina, Mariafece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano lemani rugose della suonatrice e disse sottovoce: «Canta-mi una canzonetta». Poi, non ottenendo risposta, si voltòa guardarla in faccia, le gridò a squarciagola:

«Cantami una canzonetta!».«Non capisco», rispose la Pasotti, «sono sorda.»«Perché sei sorda?»

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lasciando l'incarico alla Veronica di metter la bambina aletto un po' più tardi.

Maria non parve gradir molto la compagnia della suavecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andòmolto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. Lapovera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò laVeronica, ma la Veronica discorreva con una guardia difinanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, brac-cialetti, l'orologio, persino il cappellone da vicereginaBeauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuavaa piangere. Ebbe allora l'idea di mettersi al piano e simise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d'unamonferrina antidiluviana. Allora la principessina Mariasi mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di ca-mera così delicatamente come se le sue braccine fosserostate ali di farfalla e posar sulle ginocchia così pianocome se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere levecchie gambe.

Udite cinque o sei repliche della monferrina, Mariafece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano lemani rugose della suonatrice e disse sottovoce: «Canta-mi una canzonetta». Poi, non ottenendo risposta, si voltòa guardarla in faccia, le gridò a squarciagola:

«Cantami una canzonetta!».«Non capisco», rispose la Pasotti, «sono sorda.»«Perché sei sorda?»

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«Sono sorda», replicò l'infelice, sorridendo.«Ma perché sei sorda?»La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la

bambina.«Non capisco», diss'ella.«Allora», fece Maria con un'aria molto grave, «sei stu-

pida.»Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando:«Voglio una canzonetta!»Qualcuno disse dal giardinetto:«Eccolo, quel delle canzonette!»Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. «Missipipì»,

diss'ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corseincontro allo zio Piero ch'entrava. Si alzò anche la Pa-sotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso ilvecchio inaspettato amico. «Tè chì, tè chì, tè chì!». Ecorse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte «Missipipì,Missipipì!», e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dellozio che questi, quantunque paresse non averne voglia,dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulleginocchia e ripeterle la vecchia canzone:

Ombretta sdegnosa...Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo

che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica

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«Sono sorda», replicò l'infelice, sorridendo.«Ma perché sei sorda?»La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la

bambina.«Non capisco», diss'ella.«Allora», fece Maria con un'aria molto grave, «sei stu-

pida.»Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando:«Voglio una canzonetta!»Qualcuno disse dal giardinetto:«Eccolo, quel delle canzonette!»Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. «Missipipì»,

diss'ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corseincontro allo zio Piero ch'entrava. Si alzò anche la Pa-sotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso ilvecchio inaspettato amico. «Tè chì, tè chì, tè chì!». Ecorse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte «Missipipì,Missipipì!», e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dellozio che questi, quantunque paresse non averne voglia,dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulleginocchia e ripeterle la vecchia canzone:

Ombretta sdegnosa...Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo

che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica

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voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo ziointervenne: «Oh lasciatela un po' qui!», e uscì con leisulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornas-sero.

Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinòallo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia.

«Perché sei venuto?», diss'ella. «Non c'è mica, sai, ilpranzo per te.»

«Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te.»«Sempre?»«Sempre.»«Proprio sempre sempre sempre?»«Proprio sempre.»Maria tacque, pensierosa. Poi domandò:«E cosa mi hai portato?»Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Ma-

ria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sot-to qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quelfantoccino avrebbe pianto di tenerezza.

«È brutto questo regalo», diss'ella, ricordando gli altridello zio. «E se resti qui, non mi porti più niente?»

«Più niente.»«Va' via, zio», diss'ella.

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voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo ziointervenne: «Oh lasciatela un po' qui!», e uscì con leisulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornas-sero.

Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinòallo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia.

«Perché sei venuto?», diss'ella. «Non c'è mica, sai, ilpranzo per te.»

«Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te.»«Sempre?»«Sempre.»«Proprio sempre sempre sempre?»«Proprio sempre.»Maria tacque, pensierosa. Poi domandò:«E cosa mi hai portato?»Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Ma-

ria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sot-to qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quelfantoccino avrebbe pianto di tenerezza.

«È brutto questo regalo», diss'ella, ricordando gli altridello zio. «E se resti qui, non mi porti più niente?»

«Più niente.»«Va' via, zio», diss'ella.

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Egli sorrise.Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era

bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo ziodello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Ma-ria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali?Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si misea raccontarle cose della sua infanzia, cose di ses-sant'anni prima, quando la gente portava parrucca e co-dino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tem-po lontano, di farla vivere per un momento insieme aisuoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendopresenti quei cari morti, come parlando più per essi cheper lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, nonbatteva palpebra. Né lui né lei s'accorgevano che intantopassava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barcache doveva venire.

E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospet-tare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Francofu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflorelo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginoc-chia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguitoda Luisa, con l'idea che fosse successo qualche cosa.«Tu qui?», diss'egli correndo. Luisa, pallida, non dissenulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subitoche vi era una brutta novità, non gli avevano mai vedutouna faccia così seria.

«Addio», diss'egli.

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Egli sorrise.Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era

bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo ziodello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Ma-ria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali?Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si misea raccontarle cose della sua infanzia, cose di ses-sant'anni prima, quando la gente portava parrucca e co-dino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tem-po lontano, di farla vivere per un momento insieme aisuoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendopresenti quei cari morti, come parlando più per essi cheper lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, nonbatteva palpebra. Né lui né lei s'accorgevano che intantopassava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barcache doveva venire.

E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospet-tare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Francofu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflorelo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginoc-chia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguitoda Luisa, con l'idea che fosse successo qualche cosa.«Tu qui?», diss'egli correndo. Luisa, pallida, non dissenulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subitoche vi era una brutta novità, non gli avevano mai vedutouna faccia così seria.

«Addio», diss'egli.

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«Cosa è stato?», sussurrò Franco.Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza

nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vec-chio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tran-quilla:

«Destituito».Franco e Luisa lo guardarono un momento come istu-

piditi. Poi Franco esclamò: «Oh zio, zio!», e lo abbrac-ciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre, Mariascoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ellastessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola.

Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l'I. R.Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli chela perquisizione operata nella sua casa di Oria avevadati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva volutoassolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era volu-to iniziare un processo contro di lui ma che in vista deilunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitavaa togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscerele accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere.

«E allora?», disse Franco.«E allora...». Lo zio tacque un poco e poi pronunciò

una frase sacramentale d'ignota origine che egli stesso ei suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando ilgiuoco andava disperatamente male: «Siamo arcifritti, oRegina».

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«Cosa è stato?», sussurrò Franco.Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza

nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vec-chio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tran-quilla:

«Destituito».Franco e Luisa lo guardarono un momento come istu-

piditi. Poi Franco esclamò: «Oh zio, zio!», e lo abbrac-ciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre, Mariascoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ellastessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola.

Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l'I. R.Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli chela perquisizione operata nella sua casa di Oria avevadati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva volutoassolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era volu-to iniziare un processo contro di lui ma che in vista deilunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitavaa togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscerele accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere.

«E allora?», disse Franco.«E allora...». Lo zio tacque un poco e poi pronunciò

una frase sacramentale d'ignota origine che egli stesso ei suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando ilgiuoco andava disperatamente male: «Siamo arcifritti, oRegina».

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Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo delvecchio. «Zio, zio», gli sussurrò, «ho paura che sia statoper causa nostra!»

Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasseFranco e sé di qualche imprudenza.

«Sentite, cari amici», diss'egli con un tono bonario cheaveva pure qualche recondito sapore di rimprovero,«questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta ebisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, suqualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattrosvanziche al giorno e su due bocche di più: la mia equella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo.»Franco e Luisa protestarono. «Ci vuol altro! Ci vuol al-tro!», fece lo zio agitando le braccia, come a dispregiodi un sentimentalismo irragionevole. «Viver bene e cre-pare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fat-ta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandate-mi dell'acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi trove-rete dieci polpette che la signora Carolina dell'Agria miha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vannopoi troppo male.»

Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salot-to con passo franco, mostrando anche da tergo la suafaccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua sere-nità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della ter-razza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracci-glia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel

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Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo delvecchio. «Zio, zio», gli sussurrò, «ho paura che sia statoper causa nostra!»

Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasseFranco e sé di qualche imprudenza.

«Sentite, cari amici», diss'egli con un tono bonario cheaveva pure qualche recondito sapore di rimprovero,«questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta ebisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, suqualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattrosvanziche al giorno e su due bocche di più: la mia equella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo.»Franco e Luisa protestarono. «Ci vuol altro! Ci vuol al-tro!», fece lo zio agitando le braccia, come a dispregiodi un sentimentalismo irragionevole. «Viver bene e cre-pare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fat-ta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandate-mi dell'acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi trove-rete dieci polpette che la signora Carolina dell'Agria miha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vannopoi troppo male.»

Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salot-to con passo franco, mostrando anche da tergo la suafaccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua sere-nità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della ter-razza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracci-glia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel

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momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio diDelegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tiratotale un colpo di denti da farne una melma sola.

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momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio diDelegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tiratotale un colpo di denti da farne una melma sola.

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6. L'asso di danari spunta

«La barca è pronta», disse Ismaele, entrando senzacomplimenti con la pipa nella sinistra e una lanternanella destra.

«Che ore sono?», domandò Franco.«Undici e mezzo.»«Il tempo?»«Nevica.»«Bene», esclamò lo zio, ironicamente, allargando le

gambe davanti alla vampa del ginepro che scoppiettavanel caminetto.

Nel minuscolo salottino assediato dall'inverno Luisastava mettendo, ginocchioni, un fazzoletto al collo diMaria, Franco aspettava col cappuccio di sua moglie inmano e la Cia, la vecchia governante, col cappello in te-sta e le mani nel manicotto, andava brontolando al suopadrone: «Che signore è mai Lei! Cosa vuol fare quisolo a casa?».

«Per dormire non ho bisogno di nessuno», risposel'ingegnere, «e se sono matti gli altri non sono matto io.Mettetemi qua il mio latte e il mio lume.»

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6. L'asso di danari spunta

«La barca è pronta», disse Ismaele, entrando senzacomplimenti con la pipa nella sinistra e una lanternanella destra.

«Che ore sono?», domandò Franco.«Undici e mezzo.»«Il tempo?»«Nevica.»«Bene», esclamò lo zio, ironicamente, allargando le

gambe davanti alla vampa del ginepro che scoppiettavanel caminetto.

Nel minuscolo salottino assediato dall'inverno Luisastava mettendo, ginocchioni, un fazzoletto al collo diMaria, Franco aspettava col cappuccio di sua moglie inmano e la Cia, la vecchia governante, col cappello in te-sta e le mani nel manicotto, andava brontolando al suopadrone: «Che signore è mai Lei! Cosa vuol fare quisolo a casa?».

«Per dormire non ho bisogno di nessuno», risposel'ingegnere, «e se sono matti gli altri non sono matto io.Mettetemi qua il mio latte e il mio lume.»

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Era la vigilia di Natale e l'idea pazza di quella gentesavia, la risoluzione che pareva incredibile all'ingegnereera di andare a S. Mamette per assistervi alla messa so-lenne di mezzanotte.

«E quella povera vittima!», diss'egli guardando la bam-bina.

Franco diventò rosso, osservò che desiderava preparar-le dei ricordi preziosi, questa partenza notturna in barca,il lago oscuro, la neve, la chiesa piena di lumi e di gen-te, l'organo, i canti, la santità del Natale. Egli parlavacon calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un'altrapersona che taceva.

«Sì sì sì sì», fece lo zio, come se si fosse aspettata que-sta rettorica, questa poesia buona a niente.

«Anch'io, sai, il punch!», gli disse la piccina. Lo ziosorrise: manco male! Quello sarà proprio un ricordo pre-zioso. Franco, sentendosi così demolire la sua sottilepreparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro.«E questo Gilardoni?», chiese Luisa. «Sono qui ades-so», fece Ismaele uscendo con la sua lanterna.

Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi e don-na Ester Bianchi a prendere il punch in casa sua dopo lamessa. Lo si aspettava dal Niscioree dov'era andato a pi-gliare la signorina che ci viveva sola con due vecchieserve, dopo la morte del padre avvenuta nel 1852. L'otti-mo professore aveva pianto segretamente la signora Te-resa per uno spazio di tempo ragionevole. Durante quel-

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Era la vigilia di Natale e l'idea pazza di quella gentesavia, la risoluzione che pareva incredibile all'ingegnereera di andare a S. Mamette per assistervi alla messa so-lenne di mezzanotte.

«E quella povera vittima!», diss'egli guardando la bam-bina.

Franco diventò rosso, osservò che desiderava preparar-le dei ricordi preziosi, questa partenza notturna in barca,il lago oscuro, la neve, la chiesa piena di lumi e di gen-te, l'organo, i canti, la santità del Natale. Egli parlavacon calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un'altrapersona che taceva.

«Sì sì sì sì», fece lo zio, come se si fosse aspettata que-sta rettorica, questa poesia buona a niente.

«Anch'io, sai, il punch!», gli disse la piccina. Lo ziosorrise: manco male! Quello sarà proprio un ricordo pre-zioso. Franco, sentendosi così demolire la sua sottilepreparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro.«E questo Gilardoni?», chiese Luisa. «Sono qui ades-so», fece Ismaele uscendo con la sua lanterna.

Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi e don-na Ester Bianchi a prendere il punch in casa sua dopo lamessa. Lo si aspettava dal Niscioree dov'era andato a pi-gliare la signorina che ci viveva sola con due vecchieserve, dopo la morte del padre avvenuta nel 1852. L'otti-mo professore aveva pianto segretamente la signora Te-resa per uno spazio di tempo ragionevole. Durante quel-

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la pessima convalescenza del cuore che lo tiene debole emolle, in continuo pericolo di ricadere, egli si era troppopoco guardato dal bel visino brioso, dagli occhi vivaci,dalla gaiezza scintillante della principessina del Niscio-ree, come la chiamavano i Maironi. Ella era così diversanello spirito e nel corpo dalla signora Teresa, la sua per-sona vigorosa nelle forme della grazia più squisita sug-geriva l'idea di un amore così lontano da quell'altro, cheal professore pareva di poterle volere bene senza offen-dere la santa immagine della madre di Luisa. Infatti eglisantificò sempre maggiormente questa immagine, laspinse in su in su verso il cielo, tanto in su che qualchenuvola cominciò a passare fra lui e lei; prima eran cirri,adesso eran cumuli e stava per giungere uno strato defi-nitivo. Egli era più timido ancora con donna Ester chenon lo fosse stato con la signora Teresa. Aveva del restoun inconscio bisogno di amare senza speranza per poter-si poi compiangere, per la voluttà di un doppio inteneri-mento, verso una bella creatura e verso se stesso. E lasua timidezza era pure contenta di possedere una scusain quella gran differenza d'età e di aspetto. Però col nonfar alcuna difesa contro gli occhi maliziosi, i folti capellibiondi, il sottile collo di neve, col bersi e ribersi nel cuo-re la voce fresca, il riso d'argento, l'uomo si metteva inpericolo di cuocere intollerabilmente.

Ester, che a ventisette anni ne mostrava venti salvo chenella morbidezza delle movenze e in una certa occulta,deliziosa scienza degli occhi, non aveva desiderato di

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la pessima convalescenza del cuore che lo tiene debole emolle, in continuo pericolo di ricadere, egli si era troppopoco guardato dal bel visino brioso, dagli occhi vivaci,dalla gaiezza scintillante della principessina del Niscio-ree, come la chiamavano i Maironi. Ella era così diversanello spirito e nel corpo dalla signora Teresa, la sua per-sona vigorosa nelle forme della grazia più squisita sug-geriva l'idea di un amore così lontano da quell'altro, cheal professore pareva di poterle volere bene senza offen-dere la santa immagine della madre di Luisa. Infatti eglisantificò sempre maggiormente questa immagine, laspinse in su in su verso il cielo, tanto in su che qualchenuvola cominciò a passare fra lui e lei; prima eran cirri,adesso eran cumuli e stava per giungere uno strato defi-nitivo. Egli era più timido ancora con donna Ester chenon lo fosse stato con la signora Teresa. Aveva del restoun inconscio bisogno di amare senza speranza per poter-si poi compiangere, per la voluttà di un doppio inteneri-mento, verso una bella creatura e verso se stesso. E lasua timidezza era pure contenta di possedere una scusain quella gran differenza d'età e di aspetto. Però col nonfar alcuna difesa contro gli occhi maliziosi, i folti capellibiondi, il sottile collo di neve, col bersi e ribersi nel cuo-re la voce fresca, il riso d'argento, l'uomo si metteva inpericolo di cuocere intollerabilmente.

Ester, che a ventisette anni ne mostrava venti salvo chenella morbidezza delle movenze e in una certa occulta,deliziosa scienza degli occhi, non aveva desiderato di

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pescar quell'amante rispettabile ma lo sentiva preso e sene compiaceva, stimandolo un grande ingegno, un sa-pientone. Che egli osasse parlarle d'amore, ch'ella potes-se sposar quella sapienza giallognola, rugosa e secca,neppure le veniva in mente; ma neanche avrebbe volutospegnere un focherello così discreto che faceva onore alei e, probabilmente, piacere a lui. S'ella ne rideva qual-che volta con Luisa, non era però mai la prima a ridere esoggiungeva subito: «Povero signor Gilardoni! Poveroprofessore!».

Ella entrò frettolosa, con la testolina bionda chiusa inun gran cappuccio nero, come una primavera travestita-si, per chiasso, da dicembre. Dicembre le veniva dietro,affagottato il collo in una gran sciarpa sulla quale si por-geva, lucente e rosso, il naso professorale irritato dallaneve. Era tardi, tutti si accomiatarono dallo zio ed eglirimase solo con il suo lume e il suo latte, davanti alle ul-time brage moribonde del ginepro.

Gli restava sul viso una leggera ombra di disapprova-zione. Franco faceva troppo il poeta! Adesso la vita eradura in casa Maironi. Si faceva colazione con una tazzadi latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso chepuzzava di farmacia. Non si mangiava carne che la do-menica e il giovedì. Una bottiglia di vin Grimelli venivaogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva sa-perne di privilegi. Ogni giorno, per questa bottiglia, sor-gevano le stesse nubi, scoppiava la stessa piccola burra-sca e si scioglieva secondo il volere dello zio, con una

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pescar quell'amante rispettabile ma lo sentiva preso e sene compiaceva, stimandolo un grande ingegno, un sa-pientone. Che egli osasse parlarle d'amore, ch'ella potes-se sposar quella sapienza giallognola, rugosa e secca,neppure le veniva in mente; ma neanche avrebbe volutospegnere un focherello così discreto che faceva onore alei e, probabilmente, piacere a lui. S'ella ne rideva qual-che volta con Luisa, non era però mai la prima a ridere esoggiungeva subito: «Povero signor Gilardoni! Poveroprofessore!».

Ella entrò frettolosa, con la testolina bionda chiusa inun gran cappuccio nero, come una primavera travestita-si, per chiasso, da dicembre. Dicembre le veniva dietro,affagottato il collo in una gran sciarpa sulla quale si por-geva, lucente e rosso, il naso professorale irritato dallaneve. Era tardi, tutti si accomiatarono dallo zio ed eglirimase solo con il suo lume e il suo latte, davanti alle ul-time brage moribonde del ginepro.

Gli restava sul viso una leggera ombra di disapprova-zione. Franco faceva troppo il poeta! Adesso la vita eradura in casa Maironi. Si faceva colazione con una tazzadi latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso chepuzzava di farmacia. Non si mangiava carne che la do-menica e il giovedì. Una bottiglia di vin Grimelli venivaogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva sa-perne di privilegi. Ogni giorno, per questa bottiglia, sor-gevano le stesse nubi, scoppiava la stessa piccola burra-sca e si scioglieva secondo il volere dello zio, con una

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brevissima pioggerella di decotto in ciascuno dei cinquebicchieri. La serva era stata licenziata; restava la Veroni-ca per le faccende grosse, per la polenta, e qualche voltaper badare a Maria. Malgrado queste ed altre economie,malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario,malgrado i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggiodi capra, di castagne, di noci, che piovevano dalla gentedel paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentrol'entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiaturada un notaio di Porlezza; molta fatica e miserabilissimiguadagni. Franco aveva cominciato a copiar con ardoreanche lui, ma ci reggeva meno di sua moglie e poi nonc'era lavoro per due. Avrebbe dovuto darsi le mani attor-no, cercar un impiego privato, ma di questo lo zio nonvedeva indizio; per cui?

Per cui, questo pensare a spedizioni poetiche gli parevaanche più fuor di luogo. Dopo aver meditato alquantosulla triste situazione e sulla poca probabilità che Francosapesse uscirne, trovò che dal canto suo la prima cosa afare era di bere il suo latte e la seconda di andarsene aletto. Ma no, gli venne un altro pensiero. Aperse l'usciodella sala, e, visto tutto buio, andò in cucina, accese unalanterna, la portò in loggia, spalancò una finestra e, poi-ché nevicava senza vento, posò il lume sul davanzale,onde quella gente poetica potesse dirigersi ritornando acasa per il lago tenebroso. Dopo di che se n'andò a dor-mire.

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brevissima pioggerella di decotto in ciascuno dei cinquebicchieri. La serva era stata licenziata; restava la Veroni-ca per le faccende grosse, per la polenta, e qualche voltaper badare a Maria. Malgrado queste ed altre economie,malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario,malgrado i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggiodi capra, di castagne, di noci, che piovevano dalla gentedel paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentrol'entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiaturada un notaio di Porlezza; molta fatica e miserabilissimiguadagni. Franco aveva cominciato a copiar con ardoreanche lui, ma ci reggeva meno di sua moglie e poi nonc'era lavoro per due. Avrebbe dovuto darsi le mani attor-no, cercar un impiego privato, ma di questo lo zio nonvedeva indizio; per cui?

Per cui, questo pensare a spedizioni poetiche gli parevaanche più fuor di luogo. Dopo aver meditato alquantosulla triste situazione e sulla poca probabilità che Francosapesse uscirne, trovò che dal canto suo la prima cosa afare era di bere il suo latte e la seconda di andarsene aletto. Ma no, gli venne un altro pensiero. Aperse l'usciodella sala, e, visto tutto buio, andò in cucina, accese unalanterna, la portò in loggia, spalancò una finestra e, poi-ché nevicava senza vento, posò il lume sul davanzale,onde quella gente poetica potesse dirigersi ritornando acasa per il lago tenebroso. Dopo di che se n'andò a dor-mire.

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Nella vecchia barca di casa l'ingegnoso Franco avevaarchitettato una specie di felze per l'inverno con due fi-nestrini ai lati e un usciolino a prora. Ora i sei viaggiato-ri vi stavano attorno a un minuscolo tavolino, sul qualeardeva una candela. Vedendo l'espressione estatica delprofessore ch'era seduto in faccia a Ester, Franco si di-vertì a spegner il lume e osservò che la filosofia potevatrovarsi male al buio, ma che la poesia ci si trovava be-nissimo.

Infatti i pensieri suoi e de' suoi compagni, prima rac-colti intorno al lume, uscivano adesso per il vetrodell'usciolino dietro un chiaror fioco dove si vedeva laprora della barca, già biancastra di neve sul lago immo-bile e nero. E le immaginazioni lavoravano. A chi pare-va di andar verso Osteno, a chi pareva di andar verso laCaravina, a chi pareva di andar verso Cadate; e ciascunodiceva i propri dubbi parlando piano come per non sve-gliare il lago addormentato. Un po' alla volta si misero adiscutere, ma le sei teste, ad ogni colpo dei remi, face-vano un cenno di completo accordo. Così ciascuno deicritici saliti nella navicella d'un grande poeta si credefare una via differente. Chi stima dirigersi verso unideale, chi verso un altro, chi stima accostarsi a un mo-dello, chi a un altro, chi andar avanti, chi tornar indietro;e il poeta li commove, li scuote col suo verso tutti insie-me, li porta sulla propria via.

Ismaele portò fedelmente il suo carico a S. Mamette.La neve cadeva sempre grossa e placida. Sotto i portici

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Nella vecchia barca di casa l'ingegnoso Franco avevaarchitettato una specie di felze per l'inverno con due fi-nestrini ai lati e un usciolino a prora. Ora i sei viaggiato-ri vi stavano attorno a un minuscolo tavolino, sul qualeardeva una candela. Vedendo l'espressione estatica delprofessore ch'era seduto in faccia a Ester, Franco si di-vertì a spegner il lume e osservò che la filosofia potevatrovarsi male al buio, ma che la poesia ci si trovava be-nissimo.

Infatti i pensieri suoi e de' suoi compagni, prima rac-colti intorno al lume, uscivano adesso per il vetrodell'usciolino dietro un chiaror fioco dove si vedeva laprora della barca, già biancastra di neve sul lago immo-bile e nero. E le immaginazioni lavoravano. A chi pare-va di andar verso Osteno, a chi pareva di andar verso laCaravina, a chi pareva di andar verso Cadate; e ciascunodiceva i propri dubbi parlando piano come per non sve-gliare il lago addormentato. Un po' alla volta si misero adiscutere, ma le sei teste, ad ogni colpo dei remi, face-vano un cenno di completo accordo. Così ciascuno deicritici saliti nella navicella d'un grande poeta si credefare una via differente. Chi stima dirigersi verso unideale, chi verso un altro, chi stima accostarsi a un mo-dello, chi a un altro, chi andar avanti, chi tornar indietro;e il poeta li commove, li scuote col suo verso tutti insie-me, li porta sulla propria via.

Ismaele portò fedelmente il suo carico a S. Mamette.La neve cadeva sempre grossa e placida. Sotto i portici

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della piazza v'era molta gente e un viavai di lanterne.C'era pure il preposto che arringava un gruppo di fedelidisposti a disertar la chiesa per l'osteria. Egli stava di-mostrando che il Paradiso è difficile a guadagnare e chebisogna pensarci per tempo: «Vialter credii che andà inParadis el sia giusta come andà in la barca del Parella. Esü gent! E sü gent! Gh'è semper post! Avii capì che l'èminga inscì?». Sulla scalinata che sale alla chiesa Esterdomandò a Luisa se il paradiso fosse proprio così picco-lo. Il professore che accompagnava Ester con l'ombrelloebbe un'idea, palpitò, tremò e, fattosi un coraggio leoni-no, la mise fuori; disse che il paradiso era più piccoloancora e poteva stare sotto un ombrello. La cosa passoliscia, Ester non rispose e tutta la compagnia entrò, mi-sta a una frotta di donne, nelle tenebre della chiesa.

Il professore si fermò sulla porta, incerto fra l'amore ela filosofia. La filosofia lo tirava indietro con un filo el'amore lo tirava avanti con una fune; egli entrò e si poseaccanto a Ester. Franco ebbe per un momento la crudeleidea di trascinarlo avanti, fra i banchi degli uomini; mapoi mutò pensiero e si pose anche lui presso sua moglie.Giovò poco, perché Ester, fingendo voler dire qualchecosa a Luisa, le si avvicinò e spinse maliziosamente lavecchia Cia verso il professore. Questi, ancora palpitan-te per quella sua disperata audacia del paradiso sottol'ombrello, alla mossa di Ester si turbò, pensò di averlaoffesa, si diede dell'asino e dell'asino e dell'asino.

La chiesa era già tutta piena e anche le signore dovette-

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della piazza v'era molta gente e un viavai di lanterne.C'era pure il preposto che arringava un gruppo di fedelidisposti a disertar la chiesa per l'osteria. Egli stava di-mostrando che il Paradiso è difficile a guadagnare e chebisogna pensarci per tempo: «Vialter credii che andà inParadis el sia giusta come andà in la barca del Parella. Esü gent! E sü gent! Gh'è semper post! Avii capì che l'èminga inscì?». Sulla scalinata che sale alla chiesa Esterdomandò a Luisa se il paradiso fosse proprio così picco-lo. Il professore che accompagnava Ester con l'ombrelloebbe un'idea, palpitò, tremò e, fattosi un coraggio leoni-no, la mise fuori; disse che il paradiso era più piccoloancora e poteva stare sotto un ombrello. La cosa passoliscia, Ester non rispose e tutta la compagnia entrò, mi-sta a una frotta di donne, nelle tenebre della chiesa.

Il professore si fermò sulla porta, incerto fra l'amore ela filosofia. La filosofia lo tirava indietro con un filo el'amore lo tirava avanti con una fune; egli entrò e si poseaccanto a Ester. Franco ebbe per un momento la crudeleidea di trascinarlo avanti, fra i banchi degli uomini; mapoi mutò pensiero e si pose anche lui presso sua moglie.Giovò poco, perché Ester, fingendo voler dire qualchecosa a Luisa, le si avvicinò e spinse maliziosamente lavecchia Cia verso il professore. Questi, ancora palpitan-te per quella sua disperata audacia del paradiso sottol'ombrello, alla mossa di Ester si turbò, pensò di averlaoffesa, si diede dell'asino e dell'asino e dell'asino.

La chiesa era già tutta piena e anche le signore dovette-

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ro star in piedi dietro la spalliera del primo banco. Esters'incaricò di Maria, la pose a sedere sulla spalliera men-tre il sagrestano accendeva le candele dell'altar maggio-re. La Cia tormentava il professore, credendolo unsant'uomo, con mille domande sulle differenze tra il ritoromano e il rito ambrosiano, e Maria teneva occupataEster con altre domande ancora più straordinarie.

«Per chi si accendono quei lumi?»«Per il Signore.»«Va' a letto adesso, il Signore?»«No, taci.»«E il bambino Gesù è già a letto?»«Sì, sì», rispose Ester storditamente, per finirla.«Col mulo?»Lo zio aveva portato una volta a Maria un brutto mu-

letto di legno ch'ella odiava; e, quando si ostinava inqualche capriccio, sua madre la poneva a letto con quelmulo sotto il guanciale, sotto la testolina troppo dura.

«Citto, ciallina!», fece Ester.«Io no, a letto col mulo. Io dico scusa.»«Zitto! Ascolta l'organo, adesso.»Tutti i ceri erano ormai accesi e l'organista salito al suo

posto andava stuzzicando, come per risvegliarlo, il suovecchio strumento che pareva mettere grugniti di cor-

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ro star in piedi dietro la spalliera del primo banco. Esters'incaricò di Maria, la pose a sedere sulla spalliera men-tre il sagrestano accendeva le candele dell'altar maggio-re. La Cia tormentava il professore, credendolo unsant'uomo, con mille domande sulle differenze tra il ritoromano e il rito ambrosiano, e Maria teneva occupataEster con altre domande ancora più straordinarie.

«Per chi si accendono quei lumi?»«Per il Signore.»«Va' a letto adesso, il Signore?»«No, taci.»«E il bambino Gesù è già a letto?»«Sì, sì», rispose Ester storditamente, per finirla.«Col mulo?»Lo zio aveva portato una volta a Maria un brutto mu-

letto di legno ch'ella odiava; e, quando si ostinava inqualche capriccio, sua madre la poneva a letto con quelmulo sotto il guanciale, sotto la testolina troppo dura.

«Citto, ciallina!», fece Ester.«Io no, a letto col mulo. Io dico scusa.»«Zitto! Ascolta l'organo, adesso.»Tutti i ceri erano ormai accesi e l'organista salito al suo

posto andava stuzzicando, come per risvegliarlo, il suovecchio strumento che pareva mettere grugniti di cor-

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ruccio. Nel punto in cui un campanello suonò e l'organoalzò tutte le sue gran voci e uscirono i chierici e uscì ilsacerdote, Luisa prese di soppiatto, come un'amante, lamano di suo marito.

Quelle due mani, stringendosi furtivamente, parlavanodi un prossimo avvenimento, di una risoluzione graveche conveniva tener segreta e che non ancora era presain modo irrevocabile. La piccola mano nervosa disse«coraggio!». La mano virile rispose «l'avrò». Bisognavadecidersi. Franco doveva partire, lasciar sua moglie, labambina, il vecchio zio, forse per qualche mese, forseper qualche anno; doveva lasciar Valsolda, la casettacara, i suoi fiori, forse per sempre, emigrare in Piemon-te, cercar lavoro e guadagno con la speranza di poterchiamare a sé la famiglia quando le altre grandi speran-ze nazionali sfumassero. Contento che sua moglie aves-se scelto la chiesa e quel momento solenne per incorag-giarlo al sacrifizio, non lasciò più la dolce mano, la ten-ne egli pure come l'avrebbe tenuta un amante, non guar-dando mai Luisa, serbando impassibile il viso e rigida lapersona. Parlava con la mano sola, con l'anima nel pal-mo e nelle dita, il più vario appassionato linguaggio mi-sto di blande carezze e di strette, di tenerezze e di ardo-ri. Qualche volta ella si provava di ritirarsi dolcementeed egli la tratteneva allora violento. Guardava l'altarecol viso alzato, come assorto nel suono dell'organo, nel-la voce del sacerdote, nel canto del popolo. In fatto nonseguiva le preghiere, ma sentiva la Divina Presenza, un

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ruccio. Nel punto in cui un campanello suonò e l'organoalzò tutte le sue gran voci e uscirono i chierici e uscì ilsacerdote, Luisa prese di soppiatto, come un'amante, lamano di suo marito.

Quelle due mani, stringendosi furtivamente, parlavanodi un prossimo avvenimento, di una risoluzione graveche conveniva tener segreta e che non ancora era presain modo irrevocabile. La piccola mano nervosa disse«coraggio!». La mano virile rispose «l'avrò». Bisognavadecidersi. Franco doveva partire, lasciar sua moglie, labambina, il vecchio zio, forse per qualche mese, forseper qualche anno; doveva lasciar Valsolda, la casettacara, i suoi fiori, forse per sempre, emigrare in Piemon-te, cercar lavoro e guadagno con la speranza di poterchiamare a sé la famiglia quando le altre grandi speran-ze nazionali sfumassero. Contento che sua moglie aves-se scelto la chiesa e quel momento solenne per incorag-giarlo al sacrifizio, non lasciò più la dolce mano, la ten-ne egli pure come l'avrebbe tenuta un amante, non guar-dando mai Luisa, serbando impassibile il viso e rigida lapersona. Parlava con la mano sola, con l'anima nel pal-mo e nelle dita, il più vario appassionato linguaggio mi-sto di blande carezze e di strette, di tenerezze e di ardo-ri. Qualche volta ella si provava di ritirarsi dolcementeed egli la tratteneva allora violento. Guardava l'altarecol viso alzato, come assorto nel suono dell'organo, nel-la voce del sacerdote, nel canto del popolo. In fatto nonseguiva le preghiere, ma sentiva la Divina Presenza, un

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rapimento, una effervescenza di amore, di dolore, disperanza in Dio. Luisa gli aveva presa la mano indovi-nando ch'egli pregava, che tutte le sue angustie, tutte lesue dubbiezze gli si agitavano nel cuore. Avea realmentevoluto infondergli coraggio, convinta ch'era bene per luidi prender questo partito doloroso. Fraintese la strettache le rispose; le parve un'appassionata protesta controla separazione, e non la potendo, quantunque le fossedolce, approvare, accennava ogni tanto a ritrar la mano.Fu lui che all'Elevazione ritrasse, per rispetto, la propria.Egli dovette quindi prendersi in braccio Maria che s'eraaddormentata e continuò a dormire con la testa sullaspalla di suo padre, mostrando un bel mezzo visino pa-cifico. Non lo sapeva, lei, cara, che il suo papà sarebbeandato lontano lontano e il suo papa aveva il cuore tuttomolle di quel piccolo tesoro caldo che vi respirava su, diquella testina dall'odore di uccelletto del bosco. Gli pa-reva già di essere partito e che lo cercasse, che pianges-se, e allora gli correva nelle braccia un desiderio distringerla forte, fermato subito dal timor di destarla.

Il Gilardoni era uscito il primo e stava sul sagrato adaspettare donna Ester con l'ombrello aperto. Ella vennea braccetto di Luisa, e la perfida Luisa, malgrado il pre-gar sommesso della compagna, disse al professore:«Ecco la Sua dama». Ester non ebbe il coraggio di rifiu-tar il braccio del Gilardoni ma gli osservò ridendo chesplendevano mille stelle.

Il Gilardoni guardò il cielo, mise fuori due o tre frasi

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rapimento, una effervescenza di amore, di dolore, disperanza in Dio. Luisa gli aveva presa la mano indovi-nando ch'egli pregava, che tutte le sue angustie, tutte lesue dubbiezze gli si agitavano nel cuore. Avea realmentevoluto infondergli coraggio, convinta ch'era bene per luidi prender questo partito doloroso. Fraintese la strettache le rispose; le parve un'appassionata protesta controla separazione, e non la potendo, quantunque le fossedolce, approvare, accennava ogni tanto a ritrar la mano.Fu lui che all'Elevazione ritrasse, per rispetto, la propria.Egli dovette quindi prendersi in braccio Maria che s'eraaddormentata e continuò a dormire con la testa sullaspalla di suo padre, mostrando un bel mezzo visino pa-cifico. Non lo sapeva, lei, cara, che il suo papà sarebbeandato lontano lontano e il suo papa aveva il cuore tuttomolle di quel piccolo tesoro caldo che vi respirava su, diquella testina dall'odore di uccelletto del bosco. Gli pa-reva già di essere partito e che lo cercasse, che pianges-se, e allora gli correva nelle braccia un desiderio distringerla forte, fermato subito dal timor di destarla.

Il Gilardoni era uscito il primo e stava sul sagrato adaspettare donna Ester con l'ombrello aperto. Ella vennea braccetto di Luisa, e la perfida Luisa, malgrado il pre-gar sommesso della compagna, disse al professore:«Ecco la Sua dama». Ester non ebbe il coraggio di rifiu-tar il braccio del Gilardoni ma gli osservò ridendo chesplendevano mille stelle.

Il Gilardoni guardò il cielo, mise fuori due o tre frasi

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senza senso comune e chiuse l'ombrello. Non nevicavapiù, sopra il Boglia il cielo era lucido, s'udiva in alto unrombo continuo. «Vento, vento!», disse Ismaele rag-giungendo la comitiva. «Vado a piedi! Vado a piedi!»,gemette allora la Cia che aveva una gran paura del lago.Intanto la gente, uscendo di chiesa, urtò e scompose ilgruppo, lo trasse giù per la scalinata. I sei viaggiatori eil barcaiuolo si riunirono da capo sulla piazza di S. Ma-mette e lì donna Ester dichiarò che non si sentiva troppobene, che rinunciava al punch e che sarebbe andata acasa a piedi con la Cia.

Il professore taceva in disparte.Franco e Luisa capirono che non c'era da insistere e le

due donne s'avviarono a Oria con la scorta d'Ismaele ilquale doveva ritornar poi a prendere i Maironi e la bar-ca.

Una lucerna modérateur era accesa nel salotto del Gi-lardoni, un bel fuoco ardeva nel caminetto, il Pinellaaveva preparato ogni cosa per il punch e chi lo fece fuLuisa perché il professore pareva aver perduto la testa,non faceva che darsi dello stupido e della bestia. Sulleprime non gli si poté cavar niente; poi vennero fuori,poco a poco, la storia del paradiso sotto l'ombrello e cer-te infernali conseguenze di quel paradiso. Nello scende-re la scalinata della chiesa c'era stato fra lui ed Esterquesto dialogo: «Sa, donna Ester, temevo quasi di averla

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senza senso comune e chiuse l'ombrello. Non nevicavapiù, sopra il Boglia il cielo era lucido, s'udiva in alto unrombo continuo. «Vento, vento!», disse Ismaele rag-giungendo la comitiva. «Vado a piedi! Vado a piedi!»,gemette allora la Cia che aveva una gran paura del lago.Intanto la gente, uscendo di chiesa, urtò e scompose ilgruppo, lo trasse giù per la scalinata. I sei viaggiatori eil barcaiuolo si riunirono da capo sulla piazza di S. Ma-mette e lì donna Ester dichiarò che non si sentiva troppobene, che rinunciava al punch e che sarebbe andata acasa a piedi con la Cia.

Il professore taceva in disparte.Franco e Luisa capirono che non c'era da insistere e le

due donne s'avviarono a Oria con la scorta d'Ismaele ilquale doveva ritornar poi a prendere i Maironi e la bar-ca.

Una lucerna modérateur era accesa nel salotto del Gi-lardoni, un bel fuoco ardeva nel caminetto, il Pinellaaveva preparato ogni cosa per il punch e chi lo fece fuLuisa perché il professore pareva aver perduto la testa,non faceva che darsi dello stupido e della bestia. Sulleprime non gli si poté cavar niente; poi vennero fuori,poco a poco, la storia del paradiso sotto l'ombrello e cer-te infernali conseguenze di quel paradiso. Nello scende-re la scalinata della chiesa c'era stato fra lui ed Esterquesto dialogo: «Sa, donna Ester, temevo quasi di averla

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offesa». «Come?» «Con quell'affare dell'ombrello.»«Che ombrello?» Qui il professore non era stato buonodi ripetere il suo complimento. «Sa, Le avevo dettoqualche cosa...» «Che cosa?» «Si parlava delParadiso...» Silenzio di Ester. «... e io quando mi trovocon una persona che stimo, che stimo proprio di tuttocuore, dico facilmente degli spropositi. Vorrei quasi dir-ne uno anche adesso, donna Ester.» «Spropositi mai,sa», aveva risposto Ester e s'era staccata da lui per anda-re a Oria con la Cia. Veramente il dialogo non fu riferitocosì. Il Gilardoni raccontò che aveva fatto capire la suagran passione e che donna Ester si era sdegnata. Francoaveva una gran voglia di ridere; Luisa disse scherzando:«Lasci fare a me, lasci fare a me che farò il punch e lapace e tutto; e Lei, un'altra volta, non sia un seduttorecosì terribile!». Il povero professore per poco non si in-ginocchiò a baciarle uno scarpino e, rifatto animo, ripre-se le sue funzioni di ospite, servì il punch agli amici.

«Guardate Maria», disse Franco, sottovoce. La piccinasi era addormentata sulla poltrona del professore, pressola finestra.

Franco prese la lucerna e l'alzò per vederla meglio. Pa-reva una piccola creatura del cielo, caduta lì col lumedelle stelle, assopita, soffusa nel viso di una dolcezzanon terrena, di una solennità piena di mistero. «Cara!»,diss'egli. Raccolse sua moglie a sé con un braccio, sem-pre guardando Maria. Il Gilardoni venne loro alle spalle,mormorò «che bellezza!» e tornò al caminetto sospiran-

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offesa». «Come?» «Con quell'affare dell'ombrello.»«Che ombrello?» Qui il professore non era stato buonodi ripetere il suo complimento. «Sa, Le avevo dettoqualche cosa...» «Che cosa?» «Si parlava delParadiso...» Silenzio di Ester. «... e io quando mi trovocon una persona che stimo, che stimo proprio di tuttocuore, dico facilmente degli spropositi. Vorrei quasi dir-ne uno anche adesso, donna Ester.» «Spropositi mai,sa», aveva risposto Ester e s'era staccata da lui per anda-re a Oria con la Cia. Veramente il dialogo non fu riferitocosì. Il Gilardoni raccontò che aveva fatto capire la suagran passione e che donna Ester si era sdegnata. Francoaveva una gran voglia di ridere; Luisa disse scherzando:«Lasci fare a me, lasci fare a me che farò il punch e lapace e tutto; e Lei, un'altra volta, non sia un seduttorecosì terribile!». Il povero professore per poco non si in-ginocchiò a baciarle uno scarpino e, rifatto animo, ripre-se le sue funzioni di ospite, servì il punch agli amici.

«Guardate Maria», disse Franco, sottovoce. La piccinasi era addormentata sulla poltrona del professore, pressola finestra.

Franco prese la lucerna e l'alzò per vederla meglio. Pa-reva una piccola creatura del cielo, caduta lì col lumedelle stelle, assopita, soffusa nel viso di una dolcezzanon terrena, di una solennità piena di mistero. «Cara!»,diss'egli. Raccolse sua moglie a sé con un braccio, sem-pre guardando Maria. Il Gilardoni venne loro alle spalle,mormorò «che bellezza!» e tornò al caminetto sospiran-

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do «beati voi!».Allora Franco, intenerito, sussurrò all'orecchio di sua

moglie: «Glielo diciamo?». Ella non capì, lo guardò ne-gli occhi. «Che parto», diss'egli, sempre sottovoce. Lui-sa trasalì, rispose «sì, sì» tutta commossa perché nonl'attendeva a questo, avendolo in chiesa creduto incerto.La sorpresa di lei non sfuggì a Franco. Ne fu turbato, sisentì scosso nel suo proposito ed ella intese, ripeté im-petuosamente «sì, sì» e lo spinse verso il Gilardoni.

«Caro amico», diss'egli, «Le debbo dir una cosa.»Il professore, assorto nella contemplazione del fuoco,

non rispondeva. Franco gli posò una mano sulla spalla.«Ah!», fece quegli trasalendo. «Scusi. Che cosa?»

«Le debbo raccomandare qualcuno.»«A me? Chi?»«Un vecchio, una signora e una bambina.»I due uomini si guardarono in silenzio, uno commosso,

l'altro stupefatto.«Non capisce?», sussurrò Luisa.No, non capiva, non rispondeva.«Le raccomando», riprese Franco, «mia moglie, mia fi-

glia e il nostro vecchio zio.»«Oh!», esclamò il professore, guardando ora Luisa ora

Franco.

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do «beati voi!».Allora Franco, intenerito, sussurrò all'orecchio di sua

moglie: «Glielo diciamo?». Ella non capì, lo guardò ne-gli occhi. «Che parto», diss'egli, sempre sottovoce. Lui-sa trasalì, rispose «sì, sì» tutta commossa perché nonl'attendeva a questo, avendolo in chiesa creduto incerto.La sorpresa di lei non sfuggì a Franco. Ne fu turbato, sisentì scosso nel suo proposito ed ella intese, ripeté im-petuosamente «sì, sì» e lo spinse verso il Gilardoni.

«Caro amico», diss'egli, «Le debbo dir una cosa.»Il professore, assorto nella contemplazione del fuoco,

non rispondeva. Franco gli posò una mano sulla spalla.«Ah!», fece quegli trasalendo. «Scusi. Che cosa?»

«Le debbo raccomandare qualcuno.»«A me? Chi?»«Un vecchio, una signora e una bambina.»I due uomini si guardarono in silenzio, uno commosso,

l'altro stupefatto.«Non capisce?», sussurrò Luisa.No, non capiva, non rispondeva.«Le raccomando», riprese Franco, «mia moglie, mia fi-

glia e il nostro vecchio zio.»«Oh!», esclamò il professore, guardando ora Luisa ora

Franco.

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Page 257: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

«Vado via», disse questi con un sorriso che fece doleril cuore al Gilardoni. «Allo zio non l'abbiamo ancoradetto ma è cosa necessaria. Nelle nostre condizioni nonposso star qui a far niente. Dirò che vado a Milano, cre-derà chi vorrà; invece sarò in Piemonte.»

Gilardoni giunse le mani silenziosamente, sbalordito.Luisa abbracciò Franco, lo baciò, gli tenne il capo sulpetto, ad occhi chiusi. Il professore s'immaginò ch'ellapiegasse con dolore alla volontà di suo marito. «Oh sen-ta», diss'egli, volto a Franco. «Se ci fosse la guerra, ca-pirei; ma così, se dà una tale afflizione a Sua moglie perragioni economiche, ha torto!»

Luisa, tenendosi sempre al collo di suo marito con unbraccio, agitò in silenzio l'altra mano verso Gilardoniper farlo tacere.

«No, no, no», mormorò, ricongiungendo le braccia in-torno al collo di Franco, «fai bene, fai bene», e perché ilGilardoni insisteva, si staccò da suo marito. «Oh, maprofessore!», diss'ella scotendogli le mani incontro, «seglielo dico io che fa bene di partire, se glielo dico io chesono sua moglie! Ma caro professore!»

«Oh infine, signora!», proruppe il Gilardoni. «Bisognapoi anche sapere...»

Franco stese impetuoso le braccia verso di lui, gridò:«Professore!»

«Fa male!», gli rispose questi. «Fa male! Fa male!»

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«Vado via», disse questi con un sorriso che fece doleril cuore al Gilardoni. «Allo zio non l'abbiamo ancoradetto ma è cosa necessaria. Nelle nostre condizioni nonposso star qui a far niente. Dirò che vado a Milano, cre-derà chi vorrà; invece sarò in Piemonte.»

Gilardoni giunse le mani silenziosamente, sbalordito.Luisa abbracciò Franco, lo baciò, gli tenne il capo sulpetto, ad occhi chiusi. Il professore s'immaginò ch'ellapiegasse con dolore alla volontà di suo marito. «Oh sen-ta», diss'egli, volto a Franco. «Se ci fosse la guerra, ca-pirei; ma così, se dà una tale afflizione a Sua moglie perragioni economiche, ha torto!»

Luisa, tenendosi sempre al collo di suo marito con unbraccio, agitò in silenzio l'altra mano verso Gilardoniper farlo tacere.

«No, no, no», mormorò, ricongiungendo le braccia in-torno al collo di Franco, «fai bene, fai bene», e perché ilGilardoni insisteva, si staccò da suo marito. «Oh, maprofessore!», diss'ella scotendogli le mani incontro, «seglielo dico io che fa bene di partire, se glielo dico io chesono sua moglie! Ma caro professore!»

«Oh infine, signora!», proruppe il Gilardoni. «Bisognapoi anche sapere...»

Franco stese impetuoso le braccia verso di lui, gridò:«Professore!»

«Fa male!», gli rispose questi. «Fa male! Fa male!»

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«Cosa c'è, Franco?», dimandò Luisa, meravigliata.«C'è qualche cosa che io non so?»

«C'è che devo andar via, che andrò via e non c'è altro!»Maria s'era svegliata di soprassalto a quel grido di suo

padre: «Professore!», poi, vedendo la mamma così agi-tata, si dispose a piangere. Finalmente scoppiò in lagri-me dirotte: «No papà, no via papà, no via papà!».

Franco se la tolse in braccio, la baciò, l'accarezzò. Ellaandava ripetendo fra i singhiozzi «papà mio, papà mio»con una voce accorata e grave che faceva male al cuore.Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di volerstar sempre con lei e piangeva per il dolore d'ingannarla,per la commozione di quella tenerezza nuova che venivaproprio adesso.

Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardonis'accorse ch'era in sospetto di un segreto e le domandò,per toglierla da quel pensiero, se Franco intendesse par-tire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una let-tera di Torino. Fra una settimana, forse; tutt'al più fraquindici giorni. Luisa taceva e il discorso cadde. Francoparlò allora di politica, delle probabilità che la guerrascoppiasse a primavera. Anche questo discorso morìpresto. Pareva che il Gilardoni e Luisa pensassero ad al-tro, che ascoltassero il batter delle onde ai muridell'orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch,assicurò che il lago non era troppo cattivo, che si potevapartire.

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«Cosa c'è, Franco?», dimandò Luisa, meravigliata.«C'è qualche cosa che io non so?»

«C'è che devo andar via, che andrò via e non c'è altro!»Maria s'era svegliata di soprassalto a quel grido di suo

padre: «Professore!», poi, vedendo la mamma così agi-tata, si dispose a piangere. Finalmente scoppiò in lagri-me dirotte: «No papà, no via papà, no via papà!».

Franco se la tolse in braccio, la baciò, l'accarezzò. Ellaandava ripetendo fra i singhiozzi «papà mio, papà mio»con una voce accorata e grave che faceva male al cuore.Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di volerstar sempre con lei e piangeva per il dolore d'ingannarla,per la commozione di quella tenerezza nuova che venivaproprio adesso.

Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardonis'accorse ch'era in sospetto di un segreto e le domandò,per toglierla da quel pensiero, se Franco intendesse par-tire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una let-tera di Torino. Fra una settimana, forse; tutt'al più fraquindici giorni. Luisa taceva e il discorso cadde. Francoparlò allora di politica, delle probabilità che la guerrascoppiasse a primavera. Anche questo discorso morìpresto. Pareva che il Gilardoni e Luisa pensassero ad al-tro, che ascoltassero il batter delle onde ai muridell'orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch,assicurò che il lago non era troppo cattivo, che si potevapartire.

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Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi ri-prese il sonno, Luisa domandò a suo marito se vi fosseuna cosa ch'ella non sapeva e che il Gilardoni non dove-va dire.

Franco tacque.«Basta», diss'ella. Allora suo marito le passò un brac-

cio al collo, la strinse a sé, protestando contro parole cheella non aveva dette: «Oh Luisa, Luisa!».

Luisa si lasciò abbracciare ma non rispose all'abbrac-cio; onde suo marito, disperato, le promise subito di dir-le tutto, tutto. «Mi credi curiosa?», sussurrò ella fra lesue braccia. No, no, egli voleva raccontarle ogni cosasubito, dirle perché non avesse parlato prima. Ella si op-pose; preferiva che parlasse più tardi, spontaneamente.

Avevano il vento in favore e il lume che brillava aduna finestra della loggia serviva bene di mira a Ismaele.Franco tenne sempre abbracciato il collo di sua moglie eguardava tacendo quel punto lucente. Né l'uno né l'altrapensarono alla mano amorosa e prudente che lo avevaacceso. Vi pensò Ismaele, affermò che né la Veronica néla Cia eran capaci di un simile tratto di genio e benedis-se la faccia del signor ingegnere.

Nell'uscire di barca Maria si svegliò e gli sposi nonparvero pensar più che a lei. Quando furono a letto,Franco spense il lume.

«Si tratta della nonna», diss'egli. La voce era commos-

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Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi ri-prese il sonno, Luisa domandò a suo marito se vi fosseuna cosa ch'ella non sapeva e che il Gilardoni non dove-va dire.

Franco tacque.«Basta», diss'ella. Allora suo marito le passò un brac-

cio al collo, la strinse a sé, protestando contro parole cheella non aveva dette: «Oh Luisa, Luisa!».

Luisa si lasciò abbracciare ma non rispose all'abbrac-cio; onde suo marito, disperato, le promise subito di dir-le tutto, tutto. «Mi credi curiosa?», sussurrò ella fra lesue braccia. No, no, egli voleva raccontarle ogni cosasubito, dirle perché non avesse parlato prima. Ella si op-pose; preferiva che parlasse più tardi, spontaneamente.

Avevano il vento in favore e il lume che brillava aduna finestra della loggia serviva bene di mira a Ismaele.Franco tenne sempre abbracciato il collo di sua moglie eguardava tacendo quel punto lucente. Né l'uno né l'altrapensarono alla mano amorosa e prudente che lo avevaacceso. Vi pensò Ismaele, affermò che né la Veronica néla Cia eran capaci di un simile tratto di genio e benedis-se la faccia del signor ingegnere.

Nell'uscire di barca Maria si svegliò e gli sposi nonparvero pensar più che a lei. Quando furono a letto,Franco spense il lume.

«Si tratta della nonna», diss'egli. La voce era commos-

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sa, rotta. Luisa mormorò «caro» e gli prese una mano,affettuosamente. «Non ho mai parlato», riprese Franco,«per non accusar la nonna e poi anche...» Qui seguì unapausa; quindi fu egli che mescolò al suo dire le più tene-re carezze mentre sua moglie, invece, non vi rispondevapiù. «Temevo», disse, «l'impressione tua, i tuoi senti-menti, le idee che ti potevano venire...» Più le paroleavevano questo dubbio sapore, più la voce era tenera.

Luisa sentiva avvicinarsi, non un alterco, ma un con-trasto più durevole e grave; non avrebbe voluto, adesso,che suo marito parlasse, e suo marito, sentendola diven-tar fredda, non proseguì. Ella gli posò la fronte alla spal-la e disse sottovoce, malgrado se stessa: «Racconta».

Allora Franco, parlandole nei capelli, le ripeté il rac-conto fattogli dal professore nella notte del suo matri-monio. Nel riferire a memoria la lettera e il testamentodi suo nonno, temperò alquanto le frasi ingiuriose versosuo padre e la nonna. A mezzo il racconto, Luisa, chenon si aspettava una rivelazione simile, alzò il capo dal-la spalla di suo marito. Questi s'interruppe.

«Avanti», diss'ella.Finito ch'egli ebbe, gli domandò se si potesse dimo-

strare che il testamento del nonno era stato soppresso.Franco rispose prontamente di no. «Ma», diss'ella, «per-ché allora parlavi delle idee che mi potevan venire?». Ilsuo pensiero era subito corso al probabile delitto dellanonna, alla possibilità di un'accusa.

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sa, rotta. Luisa mormorò «caro» e gli prese una mano,affettuosamente. «Non ho mai parlato», riprese Franco,«per non accusar la nonna e poi anche...» Qui seguì unapausa; quindi fu egli che mescolò al suo dire le più tene-re carezze mentre sua moglie, invece, non vi rispondevapiù. «Temevo», disse, «l'impressione tua, i tuoi senti-menti, le idee che ti potevano venire...» Più le paroleavevano questo dubbio sapore, più la voce era tenera.

Luisa sentiva avvicinarsi, non un alterco, ma un con-trasto più durevole e grave; non avrebbe voluto, adesso,che suo marito parlasse, e suo marito, sentendola diven-tar fredda, non proseguì. Ella gli posò la fronte alla spal-la e disse sottovoce, malgrado se stessa: «Racconta».

Allora Franco, parlandole nei capelli, le ripeté il rac-conto fattogli dal professore nella notte del suo matri-monio. Nel riferire a memoria la lettera e il testamentodi suo nonno, temperò alquanto le frasi ingiuriose versosuo padre e la nonna. A mezzo il racconto, Luisa, chenon si aspettava una rivelazione simile, alzò il capo dal-la spalla di suo marito. Questi s'interruppe.

«Avanti», diss'ella.Finito ch'egli ebbe, gli domandò se si potesse dimo-

strare che il testamento del nonno era stato soppresso.Franco rispose prontamente di no. «Ma», diss'ella, «per-ché allora parlavi delle idee che mi potevan venire?». Ilsuo pensiero era subito corso al probabile delitto dellanonna, alla possibilità di un'accusa.

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Ma se l'accusa non era possibile?Franco non rispose ed ella, dopo aver pensato un poco,

esclamò: «Ah, la copia del testamento? Adoperarla?Quello è un testamento che potrebbe valere?»

«S컫E tu non l'hai voluto far valere?»«No.»«Perché, Franco?»«Ecco!», esclamò Franco, pigliando fuoco. «Vedi? Lo

sapevo! No, non lo voglio far valere, no, no, assoluta-mente, no!»

«Ma le ragioni?»«Dio, le ragioni! Le ragioni si sentono, le devi sentire

senza che io te le dica!»«Non le sento. Non credere ch'io pensi ai denari. Non

pigliamoli i denari, dalli a chi vuoi tu. Io sento le ragionidella giustizia. C'è la volontà di tuo nonno da rispettare,c'è un delitto che tua nonna ha commesso. Tu sei tantoreligioso, devi riconoscere che questa carta l'ha fatta ve-nir fuori la giustizia divina. Tu ti vuoi mettere fra la giu-stizia divina e questa donna?»

«Lascia stare la giustizia divina!», rispose Franco, vio-lento. «Cosa sappiamo noi delle vie che prende la giusti-zia divina? Vi è anche la misericordia divina! Si trattadella madre di mio padre, sai! E non li ho disprezzati

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Ma se l'accusa non era possibile?Franco non rispose ed ella, dopo aver pensato un poco,

esclamò: «Ah, la copia del testamento? Adoperarla?Quello è un testamento che potrebbe valere?»

«S컫E tu non l'hai voluto far valere?»«No.»«Perché, Franco?»«Ecco!», esclamò Franco, pigliando fuoco. «Vedi? Lo

sapevo! No, non lo voglio far valere, no, no, assoluta-mente, no!»

«Ma le ragioni?»«Dio, le ragioni! Le ragioni si sentono, le devi sentire

senza che io te le dica!»«Non le sento. Non credere ch'io pensi ai denari. Non

pigliamoli i denari, dalli a chi vuoi tu. Io sento le ragionidella giustizia. C'è la volontà di tuo nonno da rispettare,c'è un delitto che tua nonna ha commesso. Tu sei tantoreligioso, devi riconoscere che questa carta l'ha fatta ve-nir fuori la giustizia divina. Tu ti vuoi mettere fra la giu-stizia divina e questa donna?»

«Lascia stare la giustizia divina!», rispose Franco, vio-lento. «Cosa sappiamo noi delle vie che prende la giusti-zia divina? Vi è anche la misericordia divina! Si trattadella madre di mio padre, sai! E non li ho disprezzati

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sempre questi maledetti denari? Cosa ho fatto quando lanonna mi ha minacciato di non lasciarmi un soldo sesposavo te?»

La tenerezza e la collera, miste insieme, gli fecerogroppo alla gola. Non potendo parlare, afferrò il capo diLuisa, se lo strinse sul petto.

«Ho disprezzato i denari per aver te», riprese con vocesoffocata. «Come vuoi che adesso cerchi di riprenderlicon dei processi?»

«Ma no!», lo interruppe Luisa rialzando il capo. «I de-nari li darai a chi vorrai! È della giustizia che parlo io!Ma non la senti, tu, la giustizia?»

«Dio mio!», diss'egli mettendo un profondo sospiro.«Era meglio che non t'avessi parlato neanche stasera!»

«Forse sì. Se non volevi rinunciare in nessun caso aituoi propositi, forse era meglio.»

La voce di Luisa, dicendo questo, esprimeva tristezza,non collera.

«Del resto», soggiunse Franco, «quella carta non esistepiù.»

Luisa trasalì. «Non esiste più?», diss'ella sottovoce,con ansia.

«No. Il professore deve averla distrutta, per ordinemio.»

Seguì un lungo silenzio. Luisa ritirò il capo adagio

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sempre questi maledetti denari? Cosa ho fatto quando lanonna mi ha minacciato di non lasciarmi un soldo sesposavo te?»

La tenerezza e la collera, miste insieme, gli fecerogroppo alla gola. Non potendo parlare, afferrò il capo diLuisa, se lo strinse sul petto.

«Ho disprezzato i denari per aver te», riprese con vocesoffocata. «Come vuoi che adesso cerchi di riprenderlicon dei processi?»

«Ma no!», lo interruppe Luisa rialzando il capo. «I de-nari li darai a chi vorrai! È della giustizia che parlo io!Ma non la senti, tu, la giustizia?»

«Dio mio!», diss'egli mettendo un profondo sospiro.«Era meglio che non t'avessi parlato neanche stasera!»

«Forse sì. Se non volevi rinunciare in nessun caso aituoi propositi, forse era meglio.»

La voce di Luisa, dicendo questo, esprimeva tristezza,non collera.

«Del resto», soggiunse Franco, «quella carta non esistepiù.»

Luisa trasalì. «Non esiste più?», diss'ella sottovoce,con ansia.

«No. Il professore deve averla distrutta, per ordinemio.»

Seguì un lungo silenzio. Luisa ritirò il capo adagio

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adagio, lo posò sul guanciale proprio. Poi Franco uscì adir forte: «Un processo! Con quei documenti! Con quel-le ingiurie! Alla madre di mio padre! Per i denari!»

«Ma non ripetere questa cosa!», esclamò sua moglie,sdegnata. «Perché la ripeti sempre? Sai pure che non èvera!»

Parlavano concitati l'uno e l'altra; si capiva che duranteil silenzio di prima avevano continuato a lavorar fortecol pensiero su questo punto.

Egli si irritò del rimprovero e rispose alla cieca:«Non so niente».«Oh Franco!», disse Luisa, addolorata. Egli si era già

pentito dell'oltraggio e le domandò perdono, accusò ilproprio temperamento che gli faceva dire cose non pen-sate, implorò una parola buona. Luisa gli rispose sospi-rando «sì, sì» ma egli non fu contento, volle che dicesseproprio «ti perdono», che lo abbracciasse. Il tocco dellecare labbra non lo ristorò come al solito. Passarono al-cuni minuti ed egli stette in ascolto per capire se suamoglie si fosse addormentata. Udì il vento, il respiro lie-ve di Maria, il fragor delle onde, qualche tremolìo deivetri, non altro. Sussurrò: «Mi hai proprio perdonato?»,e udì rispondersi con dolcezza: «Sì, caro». Andò poco efu lei che stette in ascolto, che udì, insieme al vento, alleonde, agli scricchiolii delle imposte, il respiro uguale,regolare della piccina, il respiro uguale, regolare del ma-rito. Allora mise un altro gran sospiro, un sospiro deso-

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adagio, lo posò sul guanciale proprio. Poi Franco uscì adir forte: «Un processo! Con quei documenti! Con quel-le ingiurie! Alla madre di mio padre! Per i denari!»

«Ma non ripetere questa cosa!», esclamò sua moglie,sdegnata. «Perché la ripeti sempre? Sai pure che non èvera!»

Parlavano concitati l'uno e l'altra; si capiva che duranteil silenzio di prima avevano continuato a lavorar fortecol pensiero su questo punto.

Egli si irritò del rimprovero e rispose alla cieca:«Non so niente».«Oh Franco!», disse Luisa, addolorata. Egli si era già

pentito dell'oltraggio e le domandò perdono, accusò ilproprio temperamento che gli faceva dire cose non pen-sate, implorò una parola buona. Luisa gli rispose sospi-rando «sì, sì» ma egli non fu contento, volle che dicesseproprio «ti perdono», che lo abbracciasse. Il tocco dellecare labbra non lo ristorò come al solito. Passarono al-cuni minuti ed egli stette in ascolto per capire se suamoglie si fosse addormentata. Udì il vento, il respiro lie-ve di Maria, il fragor delle onde, qualche tremolìo deivetri, non altro. Sussurrò: «Mi hai proprio perdonato?»,e udì rispondersi con dolcezza: «Sì, caro». Andò poco efu lei che stette in ascolto, che udì, insieme al vento, alleonde, agli scricchiolii delle imposte, il respiro uguale,regolare della piccina, il respiro uguale, regolare del ma-rito. Allora mise un altro gran sospiro, un sospiro deso-

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lato. Dio, come poteva Franco essersi condotto così?Ciò che la feriva nel più vivo del cuore era ch'egli pares-se sentir poco le offese fatte alla povera mamma e allozio. Ma su questo pensiero non voleva fermarsi, almenoprima di aver considerato il torto di lui altrove, di fronteall'idea di giustizia; e là lo sentiva, con amarezza eppurnon senza compiacimento, inferiore a sé, governato dasentimenti che procedevano dalla fantasia, mentre ilsentimento suo proprio era penetrato di ragione. Avevatanto del bambino, Franco. Ecco, egli poteva già dormi-re ed ella si teneva sicura di non chiuder occhio fino allamattina. A lei pareva di non aver fantasia perché non sela sentiva muovere, accendere così facilmente. Chi leavesse detto che la fantasia poteva in lei più che in suomarito, l'avrebbe fatta ridere. Eppure era così. Solamen-te, per dimostrarlo, occorreva capovolgere ambedue leanime, perché Franco aveva la sua fantasia visibile afior d'anima e tutta la sua ragione al fondo, mentre Luisaaveva la fantasia al fondo e la ragione, molto visibil-mente, a fior d'anima. Ella non dormì infatti e pensò pertutta la notte, con la sua fantasia del fondo dell'anima,come la religione favorisca i sentimentalismi deboli,com'essa che predica la sete della giustizia sia incapacedi formare negl'intelletti devoti a lei il vero concetto digiustizia.

Anche il professore, che aveva infiltrazioni sierose difantasia nelle cellule raziocinanti del cervello come nel-

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lato. Dio, come poteva Franco essersi condotto così?Ciò che la feriva nel più vivo del cuore era ch'egli pares-se sentir poco le offese fatte alla povera mamma e allozio. Ma su questo pensiero non voleva fermarsi, almenoprima di aver considerato il torto di lui altrove, di fronteall'idea di giustizia; e là lo sentiva, con amarezza eppurnon senza compiacimento, inferiore a sé, governato dasentimenti che procedevano dalla fantasia, mentre ilsentimento suo proprio era penetrato di ragione. Avevatanto del bambino, Franco. Ecco, egli poteva già dormi-re ed ella si teneva sicura di non chiuder occhio fino allamattina. A lei pareva di non aver fantasia perché non sela sentiva muovere, accendere così facilmente. Chi leavesse detto che la fantasia poteva in lei più che in suomarito, l'avrebbe fatta ridere. Eppure era così. Solamen-te, per dimostrarlo, occorreva capovolgere ambedue leanime, perché Franco aveva la sua fantasia visibile afior d'anima e tutta la sua ragione al fondo, mentre Luisaaveva la fantasia al fondo e la ragione, molto visibil-mente, a fior d'anima. Ella non dormì infatti e pensò pertutta la notte, con la sua fantasia del fondo dell'anima,come la religione favorisca i sentimentalismi deboli,com'essa che predica la sete della giustizia sia incapacedi formare negl'intelletti devoti a lei il vero concetto digiustizia.

Anche il professore, che aveva infiltrazioni sierose difantasia nelle cellule raziocinanti del cervello come nel-

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le cellule amorifiche del cuore, spenta la lucerna, passògran parte della notte davanti al caminetto lavorandocon le molle e con la fantasia, pigliando, guardando, la-sciando cader brage e progetti fino a che gli restaronoun ultimo carbone lucente e un'ultima idea. Prese allorauno zolfino e accostatolo alla bragia ne riaccese la lu-cerna, prese l'idea pure luminosa e scottante, se la portòa letto.

Era questa: partire, all'insaputa di tutti, per Brescia,presentarsi alla marchesa con i terribili documenti, otte-nere una capitolazione.

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le cellule amorifiche del cuore, spenta la lucerna, passògran parte della notte davanti al caminetto lavorandocon le molle e con la fantasia, pigliando, guardando, la-sciando cader brage e progetti fino a che gli restaronoun ultimo carbone lucente e un'ultima idea. Prese allorauno zolfino e accostatolo alla bragia ne riaccese la lu-cerna, prese l'idea pure luminosa e scottante, se la portòa letto.

Era questa: partire, all'insaputa di tutti, per Brescia,presentarsi alla marchesa con i terribili documenti, otte-nere una capitolazione.

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7.È giuocato

Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, ilprofessore Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli oc-chi, dall'Albergo degli Angeli, passava davanti al Duo-mo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una filadi cavalli condotti a mano dai postiglioni, entravanell'ufficio delle diligenze erariali. Il piccolo cortiledove ora è la Posta era già pieno di gente, di bestie, dilanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di ca-valli, scosse di sonagliere; all'eremita della Valsolda pa-reva un finimondo.

Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattroper ciascuna. Il professore andava a Lodi perché avevasaputo che la marchesa era in visita presso un'amica diLodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo.

Faceva un freddo intenso e il povero professore giravainquieto intorno al carrozzone mostruoso pestando i pie-di per riscaldarsi; tanto che un altro viaggiatore gli disseargutamente: «Freschino, eh? Freschinetto, freschi-netto!». Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli,un impiegato chiamò i viaggiatori per nome e il buonBeniamino sparì nel ventre del carrozzone insieme a duepreti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con una

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7.È giuocato

Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, ilprofessore Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli oc-chi, dall'Albergo degli Angeli, passava davanti al Duo-mo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una filadi cavalli condotti a mano dai postiglioni, entravanell'ufficio delle diligenze erariali. Il piccolo cortiledove ora è la Posta era già pieno di gente, di bestie, dilanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di ca-valli, scosse di sonagliere; all'eremita della Valsolda pa-reva un finimondo.

Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattroper ciascuna. Il professore andava a Lodi perché avevasaputo che la marchesa era in visita presso un'amica diLodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo.

Faceva un freddo intenso e il povero professore giravainquieto intorno al carrozzone mostruoso pestando i pie-di per riscaldarsi; tanto che un altro viaggiatore gli disseargutamente: «Freschino, eh? Freschinetto, freschi-netto!». Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli,un impiegato chiamò i viaggiatori per nome e il buonBeniamino sparì nel ventre del carrozzone insieme a duepreti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con una

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natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli spor-telli furono chiusi, un comando fu dato, le sonaglieretintinnarono, il carrozzone si scosse, i preti, la vecchia,il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i se-dici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l'androne, leruote pesanti lo empirono di fragore, poi tutto questofracasso si smorzò e la diligenza svoltò a destra versoPorta Romana.

Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggia-tori non sentivano più che il pestar disordinato dei sedicizoccoli sulle pietre. Il professore guardava passar lecase scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo caf-fè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli parevache il silenzio della grande città avesse qualche cosa diminaccioso e di formidabile per quei soldati, che le stes-se mura delle case nereggiassero d'odio. Quando la dili-genza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato dinebbia che dai finestrini non si vedeva quasi più nulla,chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere d'immaginarle persone e le cose che aveva nel cuore, di conversarcon esse.

Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva infaccia, era donna Ester tutta chiusa in un gran mantellonero e col cappuccio in capo. Ella lo guardava fiso; i be-gli occhi gli dicevano: «Bravo, Lei fa una bella azione,mostra molto cuore, non l'avrei creduto. L'ammiro. Ellanon è più né vecchio, né brutto per me. Coraggio!». Aquesta esortazione di aver coraggio gli veniva una stret-

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natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli spor-telli furono chiusi, un comando fu dato, le sonaglieretintinnarono, il carrozzone si scosse, i preti, la vecchia,il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i se-dici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l'androne, leruote pesanti lo empirono di fragore, poi tutto questofracasso si smorzò e la diligenza svoltò a destra versoPorta Romana.

Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggia-tori non sentivano più che il pestar disordinato dei sedicizoccoli sulle pietre. Il professore guardava passar lecase scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo caf-fè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli parevache il silenzio della grande città avesse qualche cosa diminaccioso e di formidabile per quei soldati, che le stes-se mura delle case nereggiassero d'odio. Quando la dili-genza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato dinebbia che dai finestrini non si vedeva quasi più nulla,chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere d'immaginarle persone e le cose che aveva nel cuore, di conversarcon esse.

Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva infaccia, era donna Ester tutta chiusa in un gran mantellonero e col cappuccio in capo. Ella lo guardava fiso; i be-gli occhi gli dicevano: «Bravo, Lei fa una bella azione,mostra molto cuore, non l'avrei creduto. L'ammiro. Ellanon è più né vecchio, né brutto per me. Coraggio!». Aquesta esortazione di aver coraggio gli veniva una stret-

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ta di paura, gli scattava in mente la immagine della mar-chesa; e il rumor sordo delle ruote si trasformava nellavoce nasale della vecchia dama che gli diceva: «Si acco-modi. Cosa desidera?».

A questo punto la diligenza si fermò e il professoreaperse gli occhi. Porta Romana. Qualcuno aperse losportello, domandò le carte di sicurezza, e, raccoltele, siallontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì atutti fuorché al giovine elegante. «Lei scenda», glidiss'egli. Quegli impallidì, discese in silenzio e non ri-tornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello, unavoce ruvida disse: «Avanti!». Il signore dalla natta col-locò la sua borsa da viaggio sul sedile rimasto vuoto;nessun altro viaggiatore diede segno di accorgersidell'accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ri-preso il trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino seconoscesse il nome del giovine e quegli rispose brusca-mente «off!», girò verso il professore due occhi sgo-mentati e sospettosi. Il professore guardò l'altro preteche subito trasse di tasca una corona e fattosi il segnodella croce si mise a pregare. Il professore tornò a chiu-dere gli occhi e l'immagine del giovane sconosciuto siperdette per sempre nella nebbia come parevano perder-visi i rari fantasmi d'alberi, di pioppi e di salici, che pas-savano a destra e a sinistra della via.

«Come incominciare?», pensava il Gilardoni. Dallanotte di Natale in poi non aveva fatto che immaginare ediscutere fra sé il modo di presentarsi alla marchesa, di

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ta di paura, gli scattava in mente la immagine della mar-chesa; e il rumor sordo delle ruote si trasformava nellavoce nasale della vecchia dama che gli diceva: «Si acco-modi. Cosa desidera?».

A questo punto la diligenza si fermò e il professoreaperse gli occhi. Porta Romana. Qualcuno aperse losportello, domandò le carte di sicurezza, e, raccoltele, siallontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì atutti fuorché al giovine elegante. «Lei scenda», glidiss'egli. Quegli impallidì, discese in silenzio e non ri-tornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello, unavoce ruvida disse: «Avanti!». Il signore dalla natta col-locò la sua borsa da viaggio sul sedile rimasto vuoto;nessun altro viaggiatore diede segno di accorgersidell'accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ri-preso il trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino seconoscesse il nome del giovine e quegli rispose brusca-mente «off!», girò verso il professore due occhi sgo-mentati e sospettosi. Il professore guardò l'altro preteche subito trasse di tasca una corona e fattosi il segnodella croce si mise a pregare. Il professore tornò a chiu-dere gli occhi e l'immagine del giovane sconosciuto siperdette per sempre nella nebbia come parevano perder-visi i rari fantasmi d'alberi, di pioppi e di salici, che pas-savano a destra e a sinistra della via.

«Come incominciare?», pensava il Gilardoni. Dallanotte di Natale in poi non aveva fatto che immaginare ediscutere fra sé il modo di presentarsi alla marchesa, di

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entrar nell'argomento e di svolgerlo, la capitolazione daoffrire. Non aveva chiara in mente che quest'ultima; ovela signora marchesa facesse un largo assegno al nipote,egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le tenevaseco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effettofulmineo; ma come incominciare? Nessuno dei tantiesordi pensati lo accontentava. Anche adesso, fantasti-cando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendodal solo termine conosciuto: "Si accomodi. Cosa deside-ra?". Immaginava una risposta che poi gli pareva o trop-po ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana dall'argo-mento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dalsolito principio: "Cosa desidera?".

Un livido chiaror d'alba, pieno d'uggia, di tristezza e disonno, entrò nella diligenza. Adesso che l'ora del collo-quio stava per giungere, mille dubbi, mille incertezzenuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni delprofessore. La stessa base de' suoi calcoli improvvisa-mente crollò. Se la marchesa non gli dicesse né «si ac-comodi» né «cosa desidera?». Se lo accogliesse Dio sain quale altro modo imbarazzante? E se non lo volessericevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere?L'improvviso strepitar dei sedici zoccoli sopra un ciotto-lato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora il ciotto-lato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano.

A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all'Albergo delSole, ebbe una stanza dove non c'era né sole né fuoco.Non osando affrontare la nebbia delle vie, né le vampe

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entrar nell'argomento e di svolgerlo, la capitolazione daoffrire. Non aveva chiara in mente che quest'ultima; ovela signora marchesa facesse un largo assegno al nipote,egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le tenevaseco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effettofulmineo; ma come incominciare? Nessuno dei tantiesordi pensati lo accontentava. Anche adesso, fantasti-cando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendodal solo termine conosciuto: "Si accomodi. Cosa deside-ra?". Immaginava una risposta che poi gli pareva o trop-po ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana dall'argo-mento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dalsolito principio: "Cosa desidera?".

Un livido chiaror d'alba, pieno d'uggia, di tristezza e disonno, entrò nella diligenza. Adesso che l'ora del collo-quio stava per giungere, mille dubbi, mille incertezzenuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni delprofessore. La stessa base de' suoi calcoli improvvisa-mente crollò. Se la marchesa non gli dicesse né «si ac-comodi» né «cosa desidera?». Se lo accogliesse Dio sain quale altro modo imbarazzante? E se non lo volessericevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere?L'improvviso strepitar dei sedici zoccoli sopra un ciotto-lato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora il ciotto-lato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano.

A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all'Albergo delSole, ebbe una stanza dove non c'era né sole né fuoco.Non osando affrontare la nebbia delle vie, né le vampe

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della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto danotte che sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigarettadi canfora in bocca, qualche buona idea e il mezzogior-no.

Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio propo-sito di scordar tutte le frasi meditate, di rimettersi allaispirazione del momento. Un domestico in cravattabianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavi-mento di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dalsoffitto a stucchi, e, fatto un inchino, uscì. Poche antichesedie a bracciuoli, bianche e dorate, con la stoffa rossa,stavano in semicerchio davanti al camino dove tre oquattro ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata diottone. L'aria aveva un odor misto di vecchie muffe, divecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di vecchiestoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile es-senza di vecchiaia che faceva raggrinzar l'anima.

Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emo-zione del Gilardoni, il prossimo ingresso della signoramarchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un grandeuscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, eccoFriend che trotta dentro fiutando il pavimento a destra ea manca, ecco una gran campana di seta nera sotto uncupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti laparrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti dellamarchesa.

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della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto danotte che sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigarettadi canfora in bocca, qualche buona idea e il mezzogior-no.

Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio propo-sito di scordar tutte le frasi meditate, di rimettersi allaispirazione del momento. Un domestico in cravattabianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavi-mento di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dalsoffitto a stucchi, e, fatto un inchino, uscì. Poche antichesedie a bracciuoli, bianche e dorate, con la stoffa rossa,stavano in semicerchio davanti al camino dove tre oquattro ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata diottone. L'aria aveva un odor misto di vecchie muffe, divecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di vecchiestoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile es-senza di vecchiaia che faceva raggrinzar l'anima.

Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emo-zione del Gilardoni, il prossimo ingresso della signoramarchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un grandeuscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, eccoFriend che trotta dentro fiutando il pavimento a destra ea manca, ecco una gran campana di seta nera sotto uncupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti laparrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti dellamarchesa.

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«Che miracolo, professore, a Lodi?», disse la vocesonnolenta, mentre il cagnolino fiutava gli stivali delprofessore. Questi fece un profondo saluto e la damache pareva appunto l'ampolla dell'essenza di vecchiaia,andò a porsi in un seggiolone accanto al fuoco e fece ac-comodare la sua bestiola in un altro; dopo di che accen-nò al Gilardoni di accomodarsi pure. «Suppongo»,diss'ella, «che avrà qualche parente alle Dame Inglesi.»

«No», rispose il professore, «veramente no.»La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua manie-

ra. «Allora», disse, «sarà forse venuto a far provvista dimascherponi.»

«Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari.»«Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che pio-

va, adesso.»A questa impreveduta diversione il professore ebbe

paura di perdere la tramontana. «Sì», diss'egli sentendo-si diventare sciocco come lo scolaro cui l'esame piegamale: «pioviggina».

La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l'imba-razzo interno, apprendere alla marchesa che egli era ve-nuto per dirle qualche cosa di particolare. Ella si guardòbene dall'offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli deltempo, del freddo, dell'umido, di un raffreddore diFriend che infatti accompagnava di frequenti starnuti ildiscorso della sua dama. La voce sonnolenta aveva un

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«Che miracolo, professore, a Lodi?», disse la vocesonnolenta, mentre il cagnolino fiutava gli stivali delprofessore. Questi fece un profondo saluto e la damache pareva appunto l'ampolla dell'essenza di vecchiaia,andò a porsi in un seggiolone accanto al fuoco e fece ac-comodare la sua bestiola in un altro; dopo di che accen-nò al Gilardoni di accomodarsi pure. «Suppongo»,diss'ella, «che avrà qualche parente alle Dame Inglesi.»

«No», rispose il professore, «veramente no.»La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua manie-

ra. «Allora», disse, «sarà forse venuto a far provvista dimascherponi.»

«Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari.»«Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che pio-

va, adesso.»A questa impreveduta diversione il professore ebbe

paura di perdere la tramontana. «Sì», diss'egli sentendo-si diventare sciocco come lo scolaro cui l'esame piegamale: «pioviggina».

La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l'imba-razzo interno, apprendere alla marchesa che egli era ve-nuto per dirle qualche cosa di particolare. Ella si guardòbene dall'offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli deltempo, del freddo, dell'umido, di un raffreddore diFriend che infatti accompagnava di frequenti starnuti ildiscorso della sua dama. La voce sonnolenta aveva un

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placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e ilprofessore sudava freddo al pensiero di fermare quellamelliflua vena per offrir in cambio la pillola amara cheaveva in tasca. Egli avrebbe potuto approfittar d'unapausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe far-lo; e fu invece la marchesa che ne approfittò per metterfuori la sua chiusa.

«La ringrazio tanto», diss'ella, «della visita, e adessoLa congedo perché Ell'avrà le Sue faccende e, per dire ilvero, ho un impegno anch'io.»

Qui bisognò saltare:«Veramente», rispose il Gilardoni, tutto agitato, «io ero

venuto a Lodi per parlare con Lei, signora marchesa.»«Questo», osservò la dama, gelida, «non lo avrei potu-

to immaginare.»Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto.«Si tratta di cose urgentissime», diss'egli, «e io debbo

pregare...»La marchesa lo interruppe.«Se si tratta di affari, bisogna ch'Ella si rivolga al mio

agente di Brescia.»«Scusi, signora marchesa; si tratta d'un affare specialis-

simo. Nessuno sa e nessuno deve sapere che sono venu-to da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo nipote.»

La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggio-

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placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e ilprofessore sudava freddo al pensiero di fermare quellamelliflua vena per offrir in cambio la pillola amara cheaveva in tasca. Egli avrebbe potuto approfittar d'unapausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe far-lo; e fu invece la marchesa che ne approfittò per metterfuori la sua chiusa.

«La ringrazio tanto», diss'ella, «della visita, e adessoLa congedo perché Ell'avrà le Sue faccende e, per dire ilvero, ho un impegno anch'io.»

Qui bisognò saltare:«Veramente», rispose il Gilardoni, tutto agitato, «io ero

venuto a Lodi per parlare con Lei, signora marchesa.»«Questo», osservò la dama, gelida, «non lo avrei potu-

to immaginare.»Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto.«Si tratta di cose urgentissime», diss'egli, «e io debbo

pregare...»La marchesa lo interruppe.«Se si tratta di affari, bisogna ch'Ella si rivolga al mio

agente di Brescia.»«Scusi, signora marchesa; si tratta d'un affare specialis-

simo. Nessuno sa e nessuno deve sapere che sono venu-to da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo nipote.»

La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggio-

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lone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni.«Non mi parli», disse solennemente la vecchia signora,

«di quella persona che per me non esiste più. Andiamo,Friend.»

«No, signora marchesa!», ripigliò il professore. «Ellanon può assolutamente immaginare cosa Le dirò!»

«Non m'importa di niente, non voglio saper niente, Lariverisco!»

La inflessibile dama si mosse, così dicendo, versol'uscio.

«Marchesa!», esclamò alle sue spalle il professor Be-niamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abba-iava disperatamente alle gambe: «Si tratta del testamen-to di Suo marito!»

Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tut-tavia non si voltò.

«Questo testamento non Le può piacere», soggiunserapidamente il Gilardoni, «ma io non ho l'intenzione dipubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!»

Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certaemozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tuttotranquille.

«Che storie mi conta?», rispose. «Le pare una bellaconvenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi,il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia

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lone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni.«Non mi parli», disse solennemente la vecchia signora,

«di quella persona che per me non esiste più. Andiamo,Friend.»

«No, signora marchesa!», ripigliò il professore. «Ellanon può assolutamente immaginare cosa Le dirò!»

«Non m'importa di niente, non voglio saper niente, Lariverisco!»

La inflessibile dama si mosse, così dicendo, versol'uscio.

«Marchesa!», esclamò alle sue spalle il professor Be-niamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abba-iava disperatamente alle gambe: «Si tratta del testamen-to di Suo marito!»

Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tut-tavia non si voltò.

«Questo testamento non Le può piacere», soggiunserapidamente il Gilardoni, «ma io non ho l'intenzione dipubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!»

Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certaemozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tuttotranquille.

«Che storie mi conta?», rispose. «Le pare una bellaconvenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi,il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia

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famiglia?»«Perdoni», replicò il professore frugandosi in tasca.

«Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con menoriguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti.Queste...»

«Si tenga i suoi scartafacci», interruppe la marchesavedendogli levar di tasca delle carte.

«Queste sono le copie fatte da me...»«Le dico che se le tenga, che se le porti via!»La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo

per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir undomestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue cartesopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: «Lelascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritorne-rò domani, le guardi, ci pensi bene!», e prima che arri-vasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto,tolse il ferraiuolo, infilò le scale.

La marchesa rimandò il domestico, stette un poco inascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò achiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, inco-minciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscurae le mani tremavano.

Il professore stava per andare a letto nella sua cameragelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recarglil'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia.

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famiglia?»«Perdoni», replicò il professore frugandosi in tasca.

«Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con menoriguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti.Queste...»

«Si tenga i suoi scartafacci», interruppe la marchesavedendogli levar di tasca delle carte.

«Queste sono le copie fatte da me...»«Le dico che se le tenga, che se le porti via!»La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo

per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir undomestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue cartesopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: «Lelascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritorne-rò domani, le guardi, ci pensi bene!», e prima che arri-vasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto,tolse il ferraiuolo, infilò le scale.

La marchesa rimandò il domestico, stette un poco inascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò achiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, inco-minciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscurae le mani tremavano.

Il professore stava per andare a letto nella sua cameragelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recarglil'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia.

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Egli sentì bene un certo rimescolamento interno manon si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccoloCommissario insolente gli domandò perché fosse venutoa Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari pri-vati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari pri-vati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Conchi? Il professore nominò la marchesa. «Ma se nessunaMaironi sta a Lodi!», esclamò il Commissario, e perchél'altro protestava, lo interruppe subito: «Basta, basta, ba-sta!». La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni,quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco,che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodicon un fine politico.

«Lei ne sa più di me!», esclamò il Gilardoni soffocan-do a stento la collera.

«Faccia silenzio!», gl'intimò il Commissario. «Del re-sto Ella non deve credere che l'I. R. Governo abbia pau-ra di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciarLodi entro due ore!»

Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il col-po; il filosofo non capì.

«Son venuto», diss'egli, «a Lodi per un affare urgenteche non ho finito, per un interesse privato gravissimo.Come posso partire dentro due ore?»

«Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancorain Lodi, La faccio arrestare.»

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Egli sentì bene un certo rimescolamento interno manon si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccoloCommissario insolente gli domandò perché fosse venutoa Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari pri-vati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari pri-vati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Conchi? Il professore nominò la marchesa. «Ma se nessunaMaironi sta a Lodi!», esclamò il Commissario, e perchél'altro protestava, lo interruppe subito: «Basta, basta, ba-sta!». La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni,quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco,che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodicon un fine politico.

«Lei ne sa più di me!», esclamò il Gilardoni soffocan-do a stento la collera.

«Faccia silenzio!», gl'intimò il Commissario. «Del re-sto Ella non deve credere che l'I. R. Governo abbia pau-ra di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciarLodi entro due ore!»

Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il col-po; il filosofo non capì.

«Son venuto», diss'egli, «a Lodi per un affare urgenteche non ho finito, per un interesse privato gravissimo.Come posso partire dentro due ore?»

«Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancorain Lodi, La faccio arrestare.»

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«La mia salute», replicò la vittima, «non mi permettedi viaggiare di notte in dicembre.»

«Ebbene, La farò arrestare subito.»Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e

uscì.Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino

chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sullegambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che ave-va pur fatto una bella spedizione e inghiottendo salivaogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte in-fame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la si-gnora Marchesa.

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«La mia salute», replicò la vittima, «non mi permettedi viaggiare di notte in dicembre.»

«Ebbene, La farò arrestare subito.»Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e

uscì.Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino

chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sullegambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che ave-va pur fatto una bella spedizione e inghiottendo salivaogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte in-fame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la si-gnora Marchesa.

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8.Ore amare

L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo leminutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua mo-glie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lozio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storiadella diocesi di Como, Luisa uscì a passeggio con Ma-ria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bi-sgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso ilcimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lìfaceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma dialloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise cheMaria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolarsull'erba secca dietro a lei, e pensò.

Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la not-te di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capola storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontareil suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato,per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinio-ne del professore. Poiché il testamento era stato distrut-to, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. Lacuriosità di Luisa non era però una fredda curiosità diosservatrice. La condotta di suo marito l'aveva grave-mente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come avevafatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che an-

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8.Ore amare

L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo leminutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua mo-glie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lozio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storiadella diocesi di Como, Luisa uscì a passeggio con Ma-ria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bi-sgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso ilcimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lìfaceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma dialloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise cheMaria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolarsull'erba secca dietro a lei, e pensò.

Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la not-te di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capola storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontareil suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato,per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinio-ne del professore. Poiché il testamento era stato distrut-to, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. Lacuriosità di Luisa non era però una fredda curiosità diosservatrice. La condotta di suo marito l'aveva grave-mente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come avevafatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che an-

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che il silenzio serbato con lei fosse un peccato gravecontro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sen-tirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaroalla vigilia della sua partenza e in un momento in cuiegli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere chequando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte viera stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto siera sollevato almeno un momento nell'anima sua. Sialzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.

Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Mariadi andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma labambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle perso-ne grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrònell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare alprofessore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere.Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Perfortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un librod'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. AlloraLuisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sape-va tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disappro-vato suo marito, di aver provato e di provare ancora ungran dolore...

«Perché perché perché?», interruppe il buon Beniami-no. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Hofatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tuttoacceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dicaniente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosaaveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il

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che il silenzio serbato con lei fosse un peccato gravecontro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sen-tirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaroalla vigilia della sua partenza e in un momento in cuiegli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere chequando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte viera stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto siera sollevato almeno un momento nell'anima sua. Sialzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.

Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Mariadi andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma labambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle perso-ne grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrònell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare alprofessore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere.Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Perfortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un librod'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. AlloraLuisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sape-va tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disappro-vato suo marito, di aver provato e di provare ancora ungran dolore...

«Perché perché perché?», interruppe il buon Beniami-no. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Hofatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tuttoacceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dicaniente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosaaveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il

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testamento non era stato distrutto?Allora il professore, rosso come una bragia, facendo

degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma percarità, neh? - ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi se-greti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi.Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinseforte forte il viso fra le mani.

«Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato.«Ho fatto male, signora Luisina?»

«Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avutol'aria di andare a proporre una transazione, un mercato!E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!»

Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avessevoluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa pro-fessorale più quadra. Il povero professore, costernato,andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh cheasino!», senza tuttavia comprender bene quale asinataavesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso illago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté ildorso della destra sul palmo della sinistra, il suo visos'illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss'ella.«Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì el'accompagnò, tutto palpitante, nello studio.

Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente:«Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi

Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ot-

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testamento non era stato distrutto?Allora il professore, rosso come una bragia, facendo

degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma percarità, neh? - ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi se-greti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi.Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinseforte forte il viso fra le mani.

«Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato.«Ho fatto male, signora Luisina?»

«Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avutol'aria di andare a proporre una transazione, un mercato!E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!»

Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avessevoluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa pro-fessorale più quadra. Il povero professore, costernato,andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh cheasino!», senza tuttavia comprender bene quale asinataavesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso illago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté ildorso della destra sul palmo della sinistra, il suo visos'illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss'ella.«Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì el'accompagnò, tutto palpitante, nello studio.

Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente:«Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi

Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ot-

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timo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disappro-vato per l'uso inopportuno di un documento destinato asorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si at-tende né si desidera da parte della signora marchesa».

Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al pro-fessore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto.«Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suomarito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, perLei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Lui-sa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui,pensando a Franco, pensando che forse la marchesa po-trebbe prendere quella lettera per un artificio, per unospauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il pro-fessore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella prote-stò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo avevafatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esa-cerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripete-va col cuore amaro. E né lei né il professore si accorseroche Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, lapiccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinel-la l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'avevaaperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspettodi sua madre, si fermò a fissarla con una espressione disgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare«ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la presetra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime paroledel professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silen-zio!».

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timo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disappro-vato per l'uso inopportuno di un documento destinato asorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si at-tende né si desidera da parte della signora marchesa».

Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al pro-fessore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto.«Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suomarito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, perLei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Lui-sa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui,pensando a Franco, pensando che forse la marchesa po-trebbe prendere quella lettera per un artificio, per unospauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il pro-fessore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella prote-stò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo avevafatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esa-cerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripete-va col cuore amaro. E né lei né il professore si accorseroche Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, lapiccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinel-la l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'avevaaperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspettodi sua madre, si fermò a fissarla con una espressione disgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare«ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la presetra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime paroledel professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silen-zio!».

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«Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madrenon le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ri-peté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando fi-nalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un pocoe poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolinaridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silen-zio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passandosotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò dacapo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tuttaraccolta nello sforzo di comporsi una maschera indiffe-rente, le diede solo una strappata, che però bastò a farlatacere.

Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scher-zando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati apasseggio, la guardò sottecchi col solito risolino timidoe provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa,silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistet-te. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolita-mente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse pianopiano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh poverome!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovavasua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogòaddosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via chestrillava come un'aquila. «Meglio ancora!», esclamò lozio. «Bravissimi!» «Lasci un po' fare, Lei», gli disse laCia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbi-dire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone,«mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si az-

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«Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madrenon le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ri-peté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando fi-nalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un pocoe poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolinaridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silen-zio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passandosotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò dacapo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tuttaraccolta nello sforzo di comporsi una maschera indiffe-rente, le diede solo una strappata, che però bastò a farlatacere.

Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scher-zando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati apasseggio, la guardò sottecchi col solito risolino timidoe provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa,silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistet-te. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolita-mente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse pianopiano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh poverome!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovavasua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogòaddosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via chestrillava come un'aquila. «Meglio ancora!», esclamò lozio. «Bravissimi!» «Lasci un po' fare, Lei», gli disse laCia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbi-dire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone,«mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si az-

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zittì tutta ingrugnata.Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alco-

va, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far pian-gere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò allasua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimo-sa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Ma-ria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati peruna ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale simise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo seriimezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di solein viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasiche teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile eprese Maria con sé, la interrogò benignamente, veden-dola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. «Che signi-ficava questo cosa, silenzio?» «Non lo so.» «Ma perchéla mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so.Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sem-pre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a pas-seggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facili-tato il nome del professore così.) «E hai cominciato incasa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è sta-to il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.»«Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha det-to: per carità, silenzio!». Franco non parlò più. «Lamamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladro-ni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto mag-gior piacere a suo padre quante più cose gli raccontavadi questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato

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zittì tutta ingrugnata.Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alco-

va, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far pian-gere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò allasua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimo-sa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Ma-ria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati peruna ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale simise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo seriimezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di solein viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasiche teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile eprese Maria con sé, la interrogò benignamente, veden-dola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. «Che signi-ficava questo cosa, silenzio?» «Non lo so.» «Ma perchéla mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so.Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sem-pre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a pas-seggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facili-tato il nome del professore così.) «E hai cominciato incasa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è sta-to il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.»«Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha det-to: per carità, silenzio!». Franco non parlò più. «Lamamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladro-ni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto mag-gior piacere a suo padre quante più cose gli raccontavadi questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato

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in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo,perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guar-dò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita sedovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suomarito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se lefoglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno altronco fossero in ordine perché la notte si annunziava ri-gida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramenteche se avessero avuto senso e parola, gli si sarebberomostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per lasua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di es-sergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli ven-ne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'aver-gli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi alcollo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuorel'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a'suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar inchiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbuc-ciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stetteun momento in forse, lottando con se stessa, poi balzòfuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale.

«Franco!», diss'ella. Franco non rispose, parve respin-gerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nellavicina camera dell'alcova. «Cosa vuoi?», diss'egli, scos-so ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non glirispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, glipiegò il viso sul petto e disse sottovoce:

«Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni».

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in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo,perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guar-dò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita sedovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suomarito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se lefoglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno altronco fossero in ordine perché la notte si annunziava ri-gida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramenteche se avessero avuto senso e parola, gli si sarebberomostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per lasua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di es-sergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli ven-ne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'aver-gli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi alcollo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuorel'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a'suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar inchiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbuc-ciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stetteun momento in forse, lottando con se stessa, poi balzòfuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale.

«Franco!», diss'ella. Franco non rispose, parve respin-gerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nellavicina camera dell'alcova. «Cosa vuoi?», diss'egli, scos-so ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non glirispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, glipiegò il viso sul petto e disse sottovoce:

«Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni».

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Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dalcollo le braccia di sua moglie e rispose asciutto:

«Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiun-se, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardonidi tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio».

Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettatodi me», diss'ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fat-to questo?»

«Ebbene», diss'egli, «e se avessi fatto questo? Del re-sto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda,non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lodirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza ri-mordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendopoi anche Luisa disposta a parlare, non volle assoluta-mente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore tra-boccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Sidolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più statacon lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Loaveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli ave-va capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale!Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? Nocerto; egli era un povero disutile e niente altro. Non eranaturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amas-se meno? Perché certo certo lo amava meno di una vol-ta.

Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco,no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia ba-

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Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dalcollo le braccia di sua moglie e rispose asciutto:

«Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiun-se, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardonidi tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio».

Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettatodi me», diss'ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fat-to questo?»

«Ebbene», diss'egli, «e se avessi fatto questo? Del re-sto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda,non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lodirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza ri-mordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendopoi anche Luisa disposta a parlare, non volle assoluta-mente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore tra-boccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Sidolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più statacon lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Loaveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli ave-va capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale!Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? Nocerto; egli era un povero disutile e niente altro. Non eranaturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amas-se meno? Perché certo certo lo amava meno di una vol-ta.

Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco,no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia ba-

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stante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato unasmentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allorafu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamentefra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!».S'intesero sino al fondo con una comunicazione magne-tica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un mutosforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'unodell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamen-te riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsiper un momento con la volontà e con l'amore malgradola intima disunione delle loro idee e della loro natura;tutto senza una parola, senza una sola voce.

Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitarLuisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facessespontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che glifosse gradito.

La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Pierofece chiamare Franco.

Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non poten-do riscaldare la stanza e non volendo, per economia, ac-cendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però ilfreddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mez-zo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte.

«Ciao», diss'egli quando Franco entrò.Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua

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stante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato unasmentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allorafu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamentefra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!».S'intesero sino al fondo con una comunicazione magne-tica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un mutosforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'unodell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamen-te riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsiper un momento con la volontà e con l'amore malgradola intima disunione delle loro idee e della loro natura;tutto senza una parola, senza una sola voce.

Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitarLuisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facessespontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che glifosse gradito.

La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Pierofece chiamare Franco.

Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non poten-do riscaldare la stanza e non volendo, per economia, ac-cendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però ilfreddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mez-zo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte.

«Ciao», diss'egli quando Franco entrò.Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua

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bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole inso-lite.

Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse ilpiù solenne dei suoi esordi:

«Sètet giò».Franco sedette.«Dunque parti domani?»«Sì, zio.»«Bene.»Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello

zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiòle guance, gli uscì piena e sonora.

«Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora,dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto.Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi.Adesso...»

Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuòlo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che seifermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisognoc'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia in-cominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il piùdifficile. Ecco.»

Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto aritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare.

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bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole inso-lite.

Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse ilpiù solenne dei suoi esordi:

«Sètet giò».Franco sedette.«Dunque parti domani?»«Sì, zio.»«Bene.»Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello

zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiòle guance, gli uscì piena e sonora.

«Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora,dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto.Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi.Adesso...»

Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuòlo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che seifermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisognoc'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia in-cominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il piùdifficile. Ecco.»

Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto aritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare.

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Page 287: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

«Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.»Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirandol'anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, coseche bisogna dire. Lascia stare.»

Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce ilsuo tono grave.

«È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti do-mando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E pervoi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua non-na dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più fa-cile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che nonci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose nonsaranno ancora accomodate, di fare qualche passo.»

Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli oc-chi.

«Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non nefaccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamen-to. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un let-to e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti chemi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e ilprefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne canta-re cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch.Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dovemetterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prende-rai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anchea Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo dellamia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso,

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«Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.»Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirandol'anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, coseche bisogna dire. Lascia stare.»

Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce ilsuo tono grave.

«È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti do-mando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E pervoi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua non-na dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più fa-cile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che nonci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose nonsaranno ancora accomodate, di fare qualche passo.»

Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli oc-chi.

«Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non nefaccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamen-to. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un let-to e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti chemi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e ilprefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne canta-re cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch.Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dovemetterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prende-rai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anchea Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo dellamia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso,

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glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.»Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire

lo zio parlar della sua morte così serenamente come diun affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lozio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccatoalla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella talcrepada!».

«Oh e adesso contami!», diss'egli. «Che lavoro speri ditrovare?»

«Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scriveT. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio.Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassialtro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segre-tissima, almeno per il primo tempo.»

Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?»,diss'egli.

Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe aLugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla po-sta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quel-le di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si eragià detto che Franco andava a Milano il giorno otto peraffari e che sarebbe stato assente forse un mese, forseanche più.

«Questo dover infinocchiar la gente non è la più bellacosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti ab-braccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mat-

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glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.»Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire

lo zio parlar della sua morte così serenamente come diun affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lozio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccatoalla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella talcrepada!».

«Oh e adesso contami!», diss'egli. «Che lavoro speri ditrovare?»

«Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scriveT. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio.Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassialtro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segre-tissima, almeno per il primo tempo.»

Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?»,diss'egli.

Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe aLugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla po-sta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quel-le di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si eragià detto che Franco andava a Milano il giorno otto peraffari e che sarebbe stato assente forse un mese, forseanche più.

«Questo dover infinocchiar la gente non è la più bellacosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti ab-braccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mat-

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tina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli.Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non di-menticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io,come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non hocospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma almio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutamila bandiera tricolore. Ciao, neh!»

Qui lo zio aperse le braccia.«Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco

alzandosi commosso da quell'abbraccio. «Se posso ap-pena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi fac-cio venire tutti.»

«E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.»«Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila

miei amici.»«Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze!

Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?»Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei mo-

menti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buongiorno, zio. Mi dici l'Ombretta Pipì?»

Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che laraccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe.

«Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambo-la, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ahnon c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo conl'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora

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tina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli.Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non di-menticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io,come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non hocospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma almio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutamila bandiera tricolore. Ciao, neh!»

Qui lo zio aperse le braccia.«Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco

alzandosi commosso da quell'abbraccio. «Se posso ap-pena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi fac-cio venire tutti.»

«E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.»«Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila

miei amici.»«Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze!

Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?»Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei mo-

menti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buongiorno, zio. Mi dici l'Ombretta Pipì?»

Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che laraccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe.

«Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambo-la, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ahnon c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo conl'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora

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bisogna proprio dire:Ombretta sdegnosaDel Missipipì,Non far la ritrosaE baciami qui.»

Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la primavolta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. Elo zio rideva come lei.

«Papà», diss'ella facendosi seria, «perché piangi? Seiin castigo?»

Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di cono-scenti che avevan promesso di venire a congedarsi daFranco prima della sua partenza per Milano. Luisa feceil miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo ziochiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester,i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, ilprofessor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione,di una inquietudine continua perché Luisa, non avendoancora allestito il bagaglio di Franco, andava e venivadalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momentoed Ester era quindi sempre in moto, quando passava die-tro al professore, quando gli passava davanti, quando adestra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di starein un turbine magnetico.

Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisi-zione non s'era più veduta, anche la signora Peppina.

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bisogna proprio dire:Ombretta sdegnosaDel Missipipì,Non far la ritrosaE baciami qui.»

Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la primavolta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. Elo zio rideva come lei.

«Papà», diss'ella facendosi seria, «perché piangi? Seiin castigo?»

Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di cono-scenti che avevan promesso di venire a congedarsi daFranco prima della sua partenza per Milano. Luisa feceil miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo ziochiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester,i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, ilprofessor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione,di una inquietudine continua perché Luisa, non avendoancora allestito il bagaglio di Franco, andava e venivadalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momentoed Ester era quindi sempre in moto, quando passava die-tro al professore, quando gli passava davanti, quando adestra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di starein un turbine magnetico.

Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisi-zione non s'era più veduta, anche la signora Peppina.

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«Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür donFranco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?» Adesso èil Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché hal'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per ve-dere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nellacasa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suoPaolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèsscon sto vioròn chì ch'el capiss nagott?», pensa il Paolin,e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «An-dèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto acapire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, pigliala sua sulle scale.

Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la si-gnora Peppina con mal garbo. La povera donna neavrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie eteneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua av-versione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardar-lo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane basto-nato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suobuon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sache dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn?Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!»Franco discorreva col professore ma udiva e fremevad'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venissea chiamarlo.

Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Gia-como Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran ve-nuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon,

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«Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür donFranco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?» Adesso èil Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché hal'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per ve-dere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nellacasa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suoPaolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèsscon sto vioròn chì ch'el capiss nagott?», pensa il Paolin,e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «An-dèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto acapire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, pigliala sua sulle scale.

Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la si-gnora Peppina con mal garbo. La povera donna neavrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie eteneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua av-versione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardar-lo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane basto-nato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suobuon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sache dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn?Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!»Franco discorreva col professore ma udiva e fremevad'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venissea chiamarlo.

Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Gia-como Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran ve-nuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon,

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desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Ancheil suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccoloeroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Francoa salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemen-te la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore,a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudinedi sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza.Chi sa? Non potrebb'essere l'I. R. Commissario? Benchéla barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela,pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per averla fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, idue vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Francorimase nell'orto. L'aria era mite, il picco di Cressognosaliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, ilsole dorava ancora le coste giallognole della Valsoldapicchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lagoscendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, igrandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bi-sgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caropaese dei suoi sogni, de' suoi amori. «Addio, Valsolda»,pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l'olea si-nensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che ver-deggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra leaiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, leagavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori prati-cati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della

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desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Ancheil suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccoloeroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Francoa salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemen-te la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore,a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudinedi sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza.Chi sa? Non potrebb'essere l'I. R. Commissario? Benchéla barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela,pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per averla fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, idue vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Francorimase nell'orto. L'aria era mite, il picco di Cressognosaliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, ilsole dorava ancora le coste giallognole della Valsoldapicchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lagoscendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, igrandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bi-sgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caropaese dei suoi sogni, de' suoi amori. «Addio, Valsolda»,pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l'olea si-nensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che ver-deggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra leaiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, leagavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori prati-cati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della

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famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallidevite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio inverna-le. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le avevapensate piantandole col suo fine sentimento del graziosoe del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzionedi lui.

Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi,dovevano significare una certa finezza di spirito e dicultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranciavevano il compito speciale di dare al quadretto una in-tonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di al-zare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedi-le; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevanodire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le aga-vi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agliaranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini delpino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breveoasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordodelle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verdecorona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, ad-dio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondesserotristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua mo-glie non ci ama come te".

Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva cammi-nato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dallariva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzòin piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Fran-co! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i

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famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallidevite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio inverna-le. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le avevapensate piantandole col suo fine sentimento del graziosoe del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzionedi lui.

Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi,dovevano significare una certa finezza di spirito e dicultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranciavevano il compito speciale di dare al quadretto una in-tonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di al-zare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedi-le; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevanodire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le aga-vi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agliaranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini delpino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breveoasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordodelle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verdecorona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, ad-dio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondesserotristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua mo-glie non ci ama come te".

Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva cammi-nato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dallariva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzòin piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Fran-co! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i

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Pasotti. Franco salutò col cappello.I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a

fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizionenon si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che vo-leva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la no-tizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Macomè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc!Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentòil fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopocinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosidietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti,mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva diraltro che «dò ôr! dò ôr in barca!» mentre suo maritoschiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fabene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino diginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma stabenone!». La povera sorda, indovinando che parlava delginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smor-fie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo.Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Francoaccompagnando gli atti con effusioni e profluvi di senti-mento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile eperfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Ilmondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, valà! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensarecome t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quandoandavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto ba-loss chì!»

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Pasotti. Franco salutò col cappello.I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a

fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizionenon si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che vo-leva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la no-tizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Macomè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc!Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentòil fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopocinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosidietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti,mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva diraltro che «dò ôr! dò ôr in barca!» mentre suo maritoschiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fabene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino diginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma stabenone!». La povera sorda, indovinando che parlava delginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smor-fie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo.Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Francoaccompagnando gli atti con effusioni e profluvi di senti-mento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile eperfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Ilmondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, valà! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensarecome t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quandoandavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto ba-loss chì!»

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Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante delmondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettantopoco poteva intendersi sua moglie con le signore chel'interrogavano.

«Come l'ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signoraPeppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Ohdèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto ancheLuisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa do-manda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sordanon capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho man-giàa? Se voeui disnà chì?». Intervenne Pasotti, disse chein ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamodi affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andavaseccando da un pezzo per questo benedetto bucato, chefinalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Al-lora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto dilavare.

La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhiaddosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!».Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Con-trollore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mi-stero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pa-sotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venutoper loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ciavesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbevoluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi finoa che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi sen-za che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester pre-

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Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante delmondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettantopoco poteva intendersi sua moglie con le signore chel'interrogavano.

«Come l'ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signoraPeppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Ohdèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto ancheLuisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa do-manda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sordanon capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho man-giàa? Se voeui disnà chì?». Intervenne Pasotti, disse chein ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamodi affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andavaseccando da un pezzo per questo benedetto bucato, chefinalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Al-lora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto dilavare.

La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhiaddosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!».Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Con-trollore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mi-stero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pa-sotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venutoper loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ciavesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbevoluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi finoa che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi sen-za che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester pre-

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se congedo e il professore che aveva ottenuto il perdonodella capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di nondomandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla acasa.

I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiorefino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesseposto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Par-lò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegneree Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina ela Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pre-gò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nellacamera dell'alcova si guardò attorno con due occhionispaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügadaneh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogòsilenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlarforte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, ri-spose che non sapeva niente, che suo marito non le ave-va detto niente, che le aveva imposto la storia del bucatoma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Lui-sa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?».La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatis-sima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, so-spiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattessedentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze.Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto ladomanda di Luisa:

«La marchesa!».

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se congedo e il professore che aveva ottenuto il perdonodella capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di nondomandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla acasa.

I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiorefino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesseposto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Par-lò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegneree Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina ela Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pre-gò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nellacamera dell'alcova si guardò attorno con due occhionispaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügadaneh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogòsilenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlarforte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, ri-spose che non sapeva niente, che suo marito non le ave-va detto niente, che le aveva imposto la storia del bucatoma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Lui-sa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?».La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatis-sima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, so-spiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattessedentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze.Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto ladomanda di Luisa:

«La marchesa!».

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Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. «L'èa Lod», diss'ella sottovoce. «El Controlòr l'è staa a Lod.Speri comè!» E poi scappò in sala temendo esser sospet-tata da suo marito.

Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disseforte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare echiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me»,gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermir-si. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la fa-miglia per qualche tempo, gli era difficile passar la serafuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente neces-sario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss'egli.

«Si tratta del tuo viaggio di domani!» Appena partiti iPasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questocolloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pa-sotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri senon avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Fran-co era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in chemodo? L'amico di Torino poteva essere stato impruden-te. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse inaria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti nonera l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel volta-faccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a To-rino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona,un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commis-sari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere

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Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. «L'èa Lod», diss'ella sottovoce. «El Controlòr l'è staa a Lod.Speri comè!» E poi scappò in sala temendo esser sospet-tata da suo marito.

Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disseforte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare echiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me»,gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermir-si. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la fa-miglia per qualche tempo, gli era difficile passar la serafuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente neces-sario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss'egli.

«Si tratta del tuo viaggio di domani!» Appena partiti iPasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questocolloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pa-sotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri senon avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Fran-co era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in chemodo? L'amico di Torino poteva essere stato impruden-te. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse inaria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti nonera l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel volta-faccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a To-rino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona,un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commis-sari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere

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che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Te-meva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasot-ti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue sup-posizioni. Insomma non c'era che andare e udire.

Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più af-fettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua mogliech'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle as-solutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombanoe una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco do-vette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni diamicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio edi lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto,il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in ma-teria.

Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pa-sotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seg-giola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo difoulard, lo andava palpando.

«Dunque», diss'egli, «caro Franco, come ti dicevo, sitratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi acasa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io nonti porto un affare anche più grosso di quello che hai aMilano.»

Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque.Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare dimaneggiarlo e riprese:

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che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Te-meva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasot-ti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue sup-posizioni. Insomma non c'era che andare e udire.

Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più af-fettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua mogliech'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle as-solutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombanoe una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco do-vette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni diamicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio edi lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto,il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in ma-teria.

Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pa-sotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seg-giola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo difoulard, lo andava palpando.

«Dunque», diss'egli, «caro Franco, come ti dicevo, sitratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi acasa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io nonti porto un affare anche più grosso di quello che hai aMilano.»

Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque.Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare dimaneggiarlo e riprese:

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«Il mio caro amico don Franco Maironi si può immagi-nare che se io entro in argomento intimo e delicato, houna ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo esono autorizzato a farlo».

Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alza-rono a quelli torbidi e diffidenti di Franco.

«Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuoavvenire.»

Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da ban-da. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolinoentrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhisu Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spal-liera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di dife-sa.

«È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia versola tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa ondemetter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo pa-dre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che benemi voleva!» (Franco sapeva che suo padre aveva unavolta minacciato Pasotti col bastone perché s'intromette-va troppo nelle faccende di casa sua.) «Basta. Avendosaputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mison detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Mai-roni, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. Esono andato.»

Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli eracapitato? E chi aveva chiesto intercessioni?

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«Il mio caro amico don Franco Maironi si può immagi-nare che se io entro in argomento intimo e delicato, houna ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo esono autorizzato a farlo».

Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alza-rono a quelli torbidi e diffidenti di Franco.

«Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuoavvenire.»

Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da ban-da. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolinoentrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhisu Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spal-liera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di dife-sa.

«È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia versola tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa ondemetter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo pa-dre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che benemi voleva!» (Franco sapeva che suo padre aveva unavolta minacciato Pasotti col bastone perché s'intromette-va troppo nelle faccende di casa sua.) «Basta. Avendosaputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mison detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Mai-roni, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. Esono andato.»

Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli eracapitato? E chi aveva chiesto intercessioni?

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«Debbo dirlo», riprese Pasotti, «sono contento. Tuanonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmen-te si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, mainsomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è unalotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoiprincipii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi ri-sentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere comesoffre; ma insomma piega, piega. Certamente non biso-gna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino aspezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire:sopra tutto i suoi principii politici.»

Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussultodi tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questopunto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto inmente il bastone del fu don Alessandro.

«Ti capisco», riprese. «Credi che non ti capisca? Iomangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nelcuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro ilmomento in cui certi colori cederanno il posto a certi al-tri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarlacom'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisognapigliarla com'è. Si può combattere come ho combattutoio, ma...»

«Tutto questo discorso mi pare inutile», esclamò Fran-co, alzandosi.

«Aspetta!», riprese Pasotti. «Il diavolo non sarà poiforse tanto brutto! Siedi, ascolta!»

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«Debbo dirlo», riprese Pasotti, «sono contento. Tuanonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmen-te si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, mainsomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è unalotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoiprincipii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi ri-sentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere comesoffre; ma insomma piega, piega. Certamente non biso-gna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino aspezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire:sopra tutto i suoi principii politici.»

Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussultodi tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questopunto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto inmente il bastone del fu don Alessandro.

«Ti capisco», riprese. «Credi che non ti capisca? Iomangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nelcuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro ilmomento in cui certi colori cederanno il posto a certi al-tri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarlacom'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisognapigliarla com'è. Si può combattere come ho combattutoio, ma...»

«Tutto questo discorso mi pare inutile», esclamò Fran-co, alzandosi.

«Aspetta!», riprese Pasotti. «Il diavolo non sarà poiforse tanto brutto! Siedi, ascolta!»

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Franco non volle saperne di sedersi ancora.«Sentiamo!», diss'egli con voce vibrante d'impazienza.«Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matri-

monio...»«Grazie!», interruppe il giovane.«Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente;

per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanzicheall'anno. Non c'è male, eh?»

«Avanti!»«Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una

condizione umiliante non sarei venuto a proportela. Lanonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certaguarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è unmodo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lodevo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessiproposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia erach'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne aveviabbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anchel'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinottiche pensano come te e che sono nella carriera giudizia-ria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata.Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale.»

«Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No!Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa be-stialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpadi essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano

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Franco non volle saperne di sedersi ancora.«Sentiamo!», diss'egli con voce vibrante d'impazienza.«Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matri-

monio...»«Grazie!», interruppe il giovane.«Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente;

per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanzicheall'anno. Non c'è male, eh?»

«Avanti!»«Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una

condizione umiliante non sarei venuto a proportela. Lanonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certaguarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è unmodo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lodevo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessiproposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia erach'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne aveviabbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anchel'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinottiche pensano come te e che sono nella carriera giudizia-ria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata.Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale.»

«Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No!Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa be-stialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpadi essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano

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oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, peroffrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure,per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo purealla nonna e tu... e tu... e tu...»

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione fe-lina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla si-mulazione ma soggetto alla collera. Era venuto inter-rompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre piùviolente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar unnembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto piùle indovinava, balzò egli pure in piedi.

«Fermati!», esclamò. «Che maniera è questa?»«Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma

Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un mo-mento!», diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugnisul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri spe-rate molto in quel testamento e quello non è un testa-mento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il de-lirio di un pazzo!»

Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortitodal colpo. «Che testamento?», diss'egli.

«Via!», riprese Pasotti freddo e beffardo. «C'intendia-mo bene!»

Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. «Mano!», diss'egli. «Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamen-ti?»

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oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, peroffrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure,per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo purealla nonna e tu... e tu... e tu...»

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione fe-lina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla si-mulazione ma soggetto alla collera. Era venuto inter-rompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre piùviolente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar unnembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto piùle indovinava, balzò egli pure in piedi.

«Fermati!», esclamò. «Che maniera è questa?»«Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma

Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un mo-mento!», diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugnisul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri spe-rate molto in quel testamento e quello non è un testa-mento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il de-lirio di un pazzo!»

Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortitodal colpo. «Che testamento?», diss'egli.

«Via!», riprese Pasotti freddo e beffardo. «C'intendia-mo bene!»

Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. «Mano!», diss'egli. «Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamen-ti?»

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«Ah!», fece Pasotti con ironica dolcezza. «Adesso vabenissimo.»

Franco l'avrebbe strozzato.«Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so.»Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente.«Oh già!», riprese Pasotti, beffardo più di prima. «Lo

informerò io il signore. Sappia dunque che il signor pro-fessore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si èrecato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato allamarchesa con una copia senza valor legale di un pretesotestamento del povero Suo nonno. In questo testamentoElla, signor don Franco, è istituito erede universale conaccompagnamento di offese atroci alla moglie e al figliodel testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signorGilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esservenuto di suo capo, senza farne saper niente a voi.»

Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosioscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forzeper non smarrirsi, per dare una risposta degna.

«Hai ragione», diss'egli. «Anche la nonna ha ragione.Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostra-to quel testamento tre anni sono, la notte del mio matri-monio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto chel'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se siè recato a Lodi per quella bella impresa che dice, hacommesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi

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«Ah!», fece Pasotti con ironica dolcezza. «Adesso vabenissimo.»

Franco l'avrebbe strozzato.«Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so.»Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente.«Oh già!», riprese Pasotti, beffardo più di prima. «Lo

informerò io il signore. Sappia dunque che il signor pro-fessore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si èrecato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato allamarchesa con una copia senza valor legale di un pretesotestamento del povero Suo nonno. In questo testamentoElla, signor don Franco, è istituito erede universale conaccompagnamento di offese atroci alla moglie e al figliodel testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signorGilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esservenuto di suo capo, senza farne saper niente a voi.»

Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosioscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forzeper non smarrirsi, per dare una risposta degna.

«Hai ragione», diss'egli. «Anche la nonna ha ragione.Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostra-to quel testamento tre anni sono, la notte del mio matri-monio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto chel'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se siè recato a Lodi per quella bella impresa che dice, hacommesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi

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avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilobene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il dana-ro del Governo: e siccome questa signora ha la fortunadi essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, eadoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte leperfidie che vuole, mai non userò una carta che la diso-nora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo anome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché lesdegno! Buona sera.»

Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante disovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sualanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo nécurando affatto dove mettesse i piedi, esclamando ditempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro dirovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusacontro Luisa.

Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettavaFranco nel salottino con Maria che teneva alzata perchésuo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La pove-ra Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi,a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a do-mandar con una vocina dolente: «Quando viene,papà?». Ma ell'aveva una mamma unica al mondo perconsolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzoscarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, co-stavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi?

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avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilobene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il dana-ro del Governo: e siccome questa signora ha la fortunadi essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, eadoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte leperfidie che vuole, mai non userò una carta che la diso-nora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo anome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché lesdegno! Buona sera.»

Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante disovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sualanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo nécurando affatto dove mettesse i piedi, esclamando ditempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro dirovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusacontro Luisa.

Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettavaFranco nel salottino con Maria che teneva alzata perchésuo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La pove-ra Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi,a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a do-mandar con una vocina dolente: «Quando viene,papà?». Ma ell'aveva una mamma unica al mondo perconsolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzoscarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, co-stavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi?

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Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gliscalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in gra-naio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie sciar-pe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo non-no. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fattaprestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabi-le stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sullatavola. «Adesso gli reciteremo l'orazione funebre»,diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustiamortale poteva toglierle, se le bisognava. «Prima, però,domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di pren-derti il suo stivale.» Ella fece che Maria giungesse lemani e recitasse questa filastrocca guardando comica-mente il soffitto:

Caro signor bisnonno benedetto,Questo stival, se Lei non se lo mette,Lo doni alla Sua Ombretta,Che aspetta con gran frettaUn paio di scarpetteE Le scocca su in cielo un bel bacettoAlla pianta del piede con rispetto.

Venne poi una poco riverente fantasia come ne nasce-van tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storiadell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che ungiorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto dipan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del

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Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gliscalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in gra-naio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie sciar-pe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo non-no. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fattaprestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabi-le stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sullatavola. «Adesso gli reciteremo l'orazione funebre»,diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustiamortale poteva toglierle, se le bisognava. «Prima, però,domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di pren-derti il suo stivale.» Ella fece che Maria giungesse lemani e recitasse questa filastrocca guardando comica-mente il soffitto:

Caro signor bisnonno benedetto,Questo stival, se Lei non se lo mette,Lo doni alla Sua Ombretta,Che aspetta con gran frettaUn paio di scarpetteE Le scocca su in cielo un bel bacettoAlla pianta del piede con rispetto.

Venne poi una poco riverente fantasia come ne nasce-van tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storiadell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che ungiorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto dipan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del

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bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mammacon cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimastoin Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? Lamamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicatoper di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giùdal cielo, se ve lo incontrava.

In quel momento entrò Franco.Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano

tempesta.«Dunque?», diss'ella. Franco rispose concitato: «Metti

a letto Maria».Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per

aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò«ti dico di metterla a letto» tanto aspramente che Mariasi mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Acce-se un lume, prese la bambina in braccio, la porse silen-ziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e laportò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quel-lo stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomitisulla tavola, si strinse il capo fra le mani.

L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardonigli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti par-lava, col ricordo di quel «cosa, silenzio?», di quel «ba-sta!» e del racconto della bambina. Egli aveva dentro asé come un vortice dove questa idea spariva girando ericompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuo-re.

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bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mammacon cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimastoin Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? Lamamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicatoper di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giùdal cielo, se ve lo incontrava.

In quel momento entrò Franco.Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano

tempesta.«Dunque?», diss'ella. Franco rispose concitato: «Metti

a letto Maria».Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per

aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò«ti dico di metterla a letto» tanto aspramente che Mariasi mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Acce-se un lume, prese la bambina in braccio, la porse silen-ziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e laportò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quel-lo stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomitisulla tavola, si strinse il capo fra le mani.

L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardonigli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti par-lava, col ricordo di quel «cosa, silenzio?», di quel «ba-sta!» e del racconto della bambina. Egli aveva dentro asé come un vortice dove questa idea spariva girando ericompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuo-re.

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«Dunque?», tornò a chiedere Luisa, rientrando. Francola guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzòe le afferrò le mani. «Dimmi se sai niente!», diss'egli.Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offese-ro. «Come, se so niente?», esclamò accesa in volto. «Melo domandi così?» «Ah tu sai!», gridò Franco, gittandoda sé le mani di lei e levando le braccia in alto.

Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua com-plicità col professore, la propria smentita, l'offesa morta-le, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira,non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spa-ventata. «No, Franco, no, Franco», diss'ella sottovoce egli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le lab-bra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse do-mandar perdono e la respinse. «Lo so, sì, lo so»,diss'ella tornando appassionata al suo petto, «ma l'ho sa-puto dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegnocome te, più di te!» Ma Franco aveva troppo bisogno disfogarsi, di offendere. «E come vuoi che ti creda?»,esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece an-cora un passo incontro, gli stese le braccia. «No», sup-plicò straziata, «dimmi che mi credi, dimmelo subito su-bito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!»

«Cosa, non so?»«Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non

vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto manon cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più?»

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«Dunque?», tornò a chiedere Luisa, rientrando. Francola guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzòe le afferrò le mani. «Dimmi se sai niente!», diss'egli.Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offese-ro. «Come, se so niente?», esclamò accesa in volto. «Melo domandi così?» «Ah tu sai!», gridò Franco, gittandoda sé le mani di lei e levando le braccia in alto.

Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua com-plicità col professore, la propria smentita, l'offesa morta-le, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira,non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spa-ventata. «No, Franco, no, Franco», diss'ella sottovoce egli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le lab-bra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse do-mandar perdono e la respinse. «Lo so, sì, lo so»,diss'ella tornando appassionata al suo petto, «ma l'ho sa-puto dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegnocome te, più di te!» Ma Franco aveva troppo bisogno disfogarsi, di offendere. «E come vuoi che ti creda?»,esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece an-cora un passo incontro, gli stese le braccia. «No», sup-plicò straziata, «dimmi che mi credi, dimmelo subito su-bito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!»

«Cosa, non so?»«Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non

vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto manon cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più?»

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Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinsele mani da rompergliele e disse con voce soffocata: «Ticrederò, sì, ti crederò». Luisa che lo guardava lagrimosachiese una parola migliore. «Ti crederò», disse, «ti cre-derò?»

«Ti credo, ti credo.»Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgo-

glio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accentofu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo con-vinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per lemani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via viacon un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolce-mente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncarquel silenzio, parole calde non ne trovava, parole freddenon ne voleva, si mise a raccontare senz'altro comeavesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio aLodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamentefredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suomarito. Mentre riferiva le confidenze del professore,Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente:«E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello?- Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?».La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Avevagià detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilar-doni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse!Franco si chetò ma di mala voglia.

Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora con-

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Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinsele mani da rompergliele e disse con voce soffocata: «Ticrederò, sì, ti crederò». Luisa che lo guardava lagrimosachiese una parola migliore. «Ti crederò», disse, «ti cre-derò?»

«Ti credo, ti credo.»Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgo-

glio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accentofu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo con-vinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per lemani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via viacon un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolce-mente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncarquel silenzio, parole calde non ne trovava, parole freddenon ne voleva, si mise a raccontare senz'altro comeavesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio aLodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamentefredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suomarito. Mentre riferiva le confidenze del professore,Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente:«E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello?- Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?».La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Avevagià detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilar-doni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse!Franco si chetò ma di mala voglia.

Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora con-

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tro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era unamico, aveva errato gravemente, gravissimamente, macon buona intenzione. Dove andavano a finire le massi-me di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'eglinon perdonava neppure a chi aveva voluto fargli delbene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò cheFranco perdonava moltissimo quando a perdonare c'erafollia e gloria e perdonava pochissimo quando c'eranosemplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsiparlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentivasuperiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosa-mente il colpo. «Ecco!», esclamò con una reticenza pie-na di sottintesi. «Tu lo difendi! Già!».

Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque.«E perché non parlare, tu?», riprese Franco. «Perché

non raccontarmi tutto subito?»«Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò

di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosseinutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande.L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, vole-vo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidatoGilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente vo-luto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha dettoalla nonna che noi non ne sapevamo niente.»

«Non lo ha creduto! Naturale!»«E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti

avrà ben capito che tu non sapevi niente!»

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tro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era unamico, aveva errato gravemente, gravissimamente, macon buona intenzione. Dove andavano a finire le massi-me di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'eglinon perdonava neppure a chi aveva voluto fargli delbene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò cheFranco perdonava moltissimo quando a perdonare c'erafollia e gloria e perdonava pochissimo quando c'eranosemplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsiparlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentivasuperiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosa-mente il colpo. «Ecco!», esclamò con una reticenza pie-na di sottintesi. «Tu lo difendi! Già!».

Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque.«E perché non parlare, tu?», riprese Franco. «Perché

non raccontarmi tutto subito?»«Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò

di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosseinutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande.L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, vole-vo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidatoGilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente vo-luto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha dettoalla nonna che noi non ne sapevamo niente.»

«Non lo ha creduto! Naturale!»«E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti

avrà ben capito che tu non sapevi niente!»

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Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccon-tarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ci-glio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Francoavesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venutafuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un im-piegato destituito per ragioni politiche. «Certo!»,diss'ella, «avrebbe voluto anche questo! Canaglia!» Suomarito trasalì come se quella scudisciata avesse toccatoil sangue anche a lui... «Adagio», diss'egli, «con questeparole! Prima, è una supposizione tua; e poi...»

«È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una vil-tà simile?»

Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, risposeora mollemente a sua moglie.

«Sì sì sì, ma insomma...»Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la

nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la fa-ceva quasi impazzire. «Almeno questo», diss'ella, «miconsentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensareche questo testamento c'è ancora!»

«Oh!», esclamò Franco. «Torniamo da capo?»«Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che

io neanche pensi, neanche senta come non piace a te?Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non vogliopoi essere né una cosa né l'altra.»

La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco

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Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccon-tarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ci-glio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Francoavesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venutafuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un im-piegato destituito per ragioni politiche. «Certo!»,diss'ella, «avrebbe voluto anche questo! Canaglia!» Suomarito trasalì come se quella scudisciata avesse toccatoil sangue anche a lui... «Adagio», diss'egli, «con questeparole! Prima, è una supposizione tua; e poi...»

«È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una vil-tà simile?»

Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, risposeora mollemente a sua moglie.

«Sì sì sì, ma insomma...»Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la

nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la fa-ceva quasi impazzire. «Almeno questo», diss'ella, «miconsentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensareche questo testamento c'è ancora!»

«Oh!», esclamò Franco. «Torniamo da capo?»«Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che

io neanche pensi, neanche senta come non piace a te?Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non vogliopoi essere né una cosa né l'altra.»

La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco

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attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopral'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare intera-mente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella co-scienza della sua ribellione.

«Va bene», disse Franco parlando a se stesso. «Sarebbevile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più chedomani vado via?»

«Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo po-vero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sullaorigine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospi-tale Maggiore. Fa giustizia.»

«No!», rispose Franco. «Chimere! Il fine non giustificai mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Que-sta storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No,non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche di-chiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in facciase cambiassi! E parto domattina.»

Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero ildialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuorevi fosse adesso qualche cosa di morto.

«Hai pensato», disse Franco, «che farei anche disonorea mio padre?»

«In che modo?»«Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e

poi perché farei supporre la complicità di mio padre nel-la soppressione del testamento. Già, tu non le capisci

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attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopral'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare intera-mente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella co-scienza della sua ribellione.

«Va bene», disse Franco parlando a se stesso. «Sarebbevile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più chedomani vado via?»

«Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo po-vero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sullaorigine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospi-tale Maggiore. Fa giustizia.»

«No!», rispose Franco. «Chimere! Il fine non giustificai mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Que-sta storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No,non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche di-chiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in facciase cambiassi! E parto domattina.»

Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero ildialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuorevi fosse adesso qualche cosa di morto.

«Hai pensato», disse Franco, «che farei anche disonorea mio padre?»

«In che modo?»«Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e

poi perché farei supporre la complicità di mio padre nel-la soppressione del testamento. Già, tu non le capisci

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queste cose. Che te ne importa?»«Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi

che il testamento non sia stato trovato.»Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva

sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa sialzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispo-se a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appog-giar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase unpezzo, assorto nella contemplazione delle ombre dellanotte. Poi disse piano, senza volgere il capo:

«Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me».Nessuna risposta.Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto

senza collera, con la dolcezza inesprimibile che avevanei momenti di depressione fisica o morale, se gli eraaccaduto, fin dal principio della loro unione, di mancareverso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: «No».

«Allora forse non mi amavi come ho creduto?»«No no no.»Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté:«Non mi amavi?»«Sì sì, tanto.»Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rien-

trò nella voce.

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queste cose. Che te ne importa?»«Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi

che il testamento non sia stato trovato.»Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva

sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa sialzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispo-se a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appog-giar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase unpezzo, assorto nella contemplazione delle ombre dellanotte. Poi disse piano, senza volgere il capo:

«Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me».Nessuna risposta.Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto

senza collera, con la dolcezza inesprimibile che avevanei momenti di depressione fisica o morale, se gli eraaccaduto, fin dal principio della loro unione, di mancareverso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: «No».

«Allora forse non mi amavi come ho creduto?»«No no no.»Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté:«Non mi amavi?»«Sì sì, tanto.»Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rien-

trò nella voce.

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«E allora», diss'egli, «perché non mi hai dato tuttal'anima tua?»

Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendereil lavoro. Le mani tremavano.

E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva onon doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per laprima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe al-largata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale?Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora:«Non parli?». Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò.

«È vero, l'anima mia non è mai stata interamente conte.» Tremò nel dir così, e Franco non respirava più.

«Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te», ri-prese Luisa, «nel sentimento che deve governare tutti glialtri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madreintendeva e tu intendi la religione come un insieme dicredenze, di culto e di precetti, ispirato e dominatodall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a con-cepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, perquanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibi-le e incomprensibile, non ho mai potuto capire il fruttodi costringer la mia ragione ad accettare cose che nonintende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigerela mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea supe-riore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva tal-mente penetrata, con l'esempio e con la parola, de' mieidoveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi dava-

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«E allora», diss'egli, «perché non mi hai dato tuttal'anima tua?»

Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendereil lavoro. Le mani tremavano.

E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva onon doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per laprima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe al-largata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale?Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora:«Non parli?». Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò.

«È vero, l'anima mia non è mai stata interamente conte.» Tremò nel dir così, e Franco non respirava più.

«Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te», ri-prese Luisa, «nel sentimento che deve governare tutti glialtri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madreintendeva e tu intendi la religione come un insieme dicredenze, di culto e di precetti, ispirato e dominatodall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a con-cepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, perquanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibi-le e incomprensibile, non ho mai potuto capire il fruttodi costringer la mia ragione ad accettare cose che nonintende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigerela mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea supe-riore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva tal-mente penetrata, con l'esempio e con la parola, de' mieidoveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi dava-

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no un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo.Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corri-spondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto so-pra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione dellasua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho cono-sciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermatanel proposito di diventare, nelle cose di religione, comete, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' allavolta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbodire anche questo?»

«Sì, tutto.»«Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuo-

re più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma chela tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tuttiquesti tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amarme, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bel-lezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuocuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e dipregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avrestidato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramen-te vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avrestisentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai,già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chisente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avreivoluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, pocoo molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vaisopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere.»

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no un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo.Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corri-spondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto so-pra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione dellasua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho cono-sciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermatanel proposito di diventare, nelle cose di religione, comete, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' allavolta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbodire anche questo?»

«Sì, tutto.»«Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuo-

re più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma chela tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tuttiquesti tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amarme, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bel-lezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuocuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e dipregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avrestidato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramen-te vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avrestisentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai,già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chisente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avreivoluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, pocoo molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vaisopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere.»

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Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di prote-sta.

«Se vuoi», disse umilmente Luisa, «mi fermo.»«No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!»Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa

tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro«avanti!».

«Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato dafare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quelloche fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione collagente, tener vivo il sentimento buono, preparare tuttociò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se ver-rà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tantedifficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza alconcetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altroconcetto. Perché religiosa mi sentivo anch'io moltissi-mo. Il concetto religioso che mi si veniva formandosempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dioesiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come cre-di tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non glieneimporta nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprendedal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato,dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto ilbene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo contutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio, eche ci occupiamo solamente della terra, delle cose che sipossono intendere, che si possono sentire! Adesso capi-

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Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di prote-sta.

«Se vuoi», disse umilmente Luisa, «mi fermo.»«No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!»Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa

tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro«avanti!».

«Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato dafare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quelloche fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione collagente, tener vivo il sentimento buono, preparare tuttociò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se ver-rà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tantedifficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza alconcetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altroconcetto. Perché religiosa mi sentivo anch'io moltissi-mo. Il concetto religioso che mi si veniva formandosempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dioesiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come cre-di tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non glieneimporta nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprendedal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato,dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto ilbene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo contutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio, eche ci occupiamo solamente della terra, delle cose che sipossono intendere, che si possono sentire! Adesso capi-

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sci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere,di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!»

Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le pro-prie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser final-mente sincera, di porsi con franchezza sopra un terrenoproprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sde-gno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenerapietà di lui.

«Ecco», soggiunse, «se si trattasse solamente di questodispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificatomille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bi-sognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa.Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tuemani.»

Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, unafreddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso dilui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che laevitavano e si fermò per via, respinta da una forza supe-riore, benché egli non avesse detto una parola né fattoun gesto.

«Franco!», supplicò. «Non mi puoi amare più?»Egli non rispose.«Franco! Franco!», diss'ella, tendendogli le mani giun-

te. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamenteindietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eternomezzo minuto.

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sci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere,di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!»

Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le pro-prie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser final-mente sincera, di porsi con franchezza sopra un terrenoproprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sde-gno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenerapietà di lui.

«Ecco», soggiunse, «se si trattasse solamente di questodispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificatomille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bi-sognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa.Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tuemani.»

Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, unafreddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso dilui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che laevitavano e si fermò per via, respinta da una forza supe-riore, benché egli non avesse detto una parola né fattoun gesto.

«Franco!», supplicò. «Non mi puoi amare più?»Egli non rispose.«Franco! Franco!», diss'ella, tendendogli le mani giun-

te. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamenteindietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eternomezzo minuto.

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Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respira-zione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio.

«Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?»«Sì.»Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La

scosse con violenza e disse amaramente: «Basta». Luisalo guardò con tristezza indicibile e mormorò: «Basta?».Egli rispose con ira: «Sì, basta basta basta basta!». Tac-que un istante e riprese duramente: «Sarò un neghittoso,un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sonopoi un bambino da venirmi a quietare con due carezzedopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!».

«Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costatotanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?»

«Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti siprenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tusentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole ecosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di mequello che ti piace ma lascia stare le cose che non capi-sci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!»

Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, ela sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio,d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli of-fuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il maritoavrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorchéd'orgoglio.

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Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respira-zione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio.

«Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?»«Sì.»Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La

scosse con violenza e disse amaramente: «Basta». Luisalo guardò con tristezza indicibile e mormorò: «Basta?».Egli rispose con ira: «Sì, basta basta basta basta!». Tac-que un istante e riprese duramente: «Sarò un neghittoso,un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sonopoi un bambino da venirmi a quietare con due carezzedopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!».

«Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costatotanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?»

«Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti siprenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tusentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole ecosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di mequello che ti piace ma lascia stare le cose che non capi-sci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!»

Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, ela sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio,d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli of-fuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il maritoavrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorchéd'orgoglio.

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Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il la-voro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza sa-per bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbat-tendo l'uscio dietro di sé.

Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si ge-lava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, sidiede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile,violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie.Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi tempe-ramenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo diconfondere in cuor suo la propria causa con quelladell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza,l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima unaturbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immagi-nare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magna-nime risposte proprie.

A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò perandar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora at-tese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì al-cun movimento e la bambina piangeva sempre più forte.Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetrodell'uscio.

Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il visoappoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume dellacandela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì ca-dere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza vocecon certa severa dolcezza: «Luisa, Maria piange». Luisa

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Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il la-voro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza sa-per bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbat-tendo l'uscio dietro di sé.

Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si ge-lava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, sidiede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile,violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie.Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi tempe-ramenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo diconfondere in cuor suo la propria causa con quelladell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza,l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima unaturbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immagi-nare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magna-nime risposte proprie.

A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò perandar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora at-tese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì al-cun movimento e la bambina piangeva sempre più forte.Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetrodell'uscio.

Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il visoappoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume dellacandela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì ca-dere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza vocecon certa severa dolcezza: «Luisa, Maria piange». Luisa

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levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senzadir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina asedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno.Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicando-lo con la voce grossa di pianto: «No via, papà, no via,papà!». Franco se la strinse in braccio, la coperse dibaci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si tenevastretta una mano del papà, non la voleva in alcun modolasciare.

Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte,volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano lemani. «Non vieni a letto?», le chiese Franco. Ella rispo-se «no» tremando più di prima. Franco credette indovi-nar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese.«Oh, puoi venire!», diss'egli sdegnoso. Luisa accese illume e disse più pacatamente che doveva lavorare allescarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: «Buo-na notte». Franco rispose asciutto: «Buona notte». Ebbeun momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poi-ché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coper-ta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde po-tersi tenere una manina di Maria che non dormiva anco-ra, e spense il lume.

Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva,bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina ela immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita alui nelle idee come nei sentimenti, immaginava chequella manina stretta volesse compensarlo del dolore

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levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senzadir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina asedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno.Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicando-lo con la voce grossa di pianto: «No via, papà, no via,papà!». Franco se la strinse in braccio, la coperse dibaci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si tenevastretta una mano del papà, non la voleva in alcun modolasciare.

Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte,volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano lemani. «Non vieni a letto?», le chiese Franco. Ella rispo-se «no» tremando più di prima. Franco credette indovi-nar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese.«Oh, puoi venire!», diss'egli sdegnoso. Luisa accese illume e disse più pacatamente che doveva lavorare allescarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: «Buo-na notte». Franco rispose asciutto: «Buona notte». Ebbeun momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poi-ché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coper-ta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde po-tersi tenere una manina di Maria che non dormiva anco-ra, e spense il lume.

Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva,bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina ela immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita alui nelle idee come nei sentimenti, immaginava chequella manina stretta volesse compensarlo del dolore

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datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti persempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forseLuisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbelontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore,pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria,pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mam-ma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa:«Custodite, custodite la mia Maria!». Offerse tutto sestesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Mariafosse salva dall'errore.

«Papà», disse Ombretta. «Un bacio.»Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il

caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tac-que un minuto e chiamò:

«Papà».«Cosa?»«Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà.»«No, no, cara, ma dormi.»«Sì, papà, dormo.»Tacque un altro minuto e poi:«La mamma è a letto, papà?»«No, cara.»«Perché?»«Perché ti fa le scarpette.»

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datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti persempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forseLuisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbelontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore,pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria,pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mam-ma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa:«Custodite, custodite la mia Maria!». Offerse tutto sestesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Mariafosse salva dall'errore.

«Papà», disse Ombretta. «Un bacio.»Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il

caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tac-que un minuto e chiamò:

«Papà».«Cosa?»«Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà.»«No, no, cara, ma dormi.»«Sì, papà, dormo.»Tacque un altro minuto e poi:«La mamma è a letto, papà?»«No, cara.»«Perché?»«Perché ti fa le scarpette.»

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«Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come ilbisnonno?»

«Taci, dormi.»«Contami una storia, papà.»Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Lui-

sa e s'imbarazzò presto. «Oh papà», disse Maria conl'accento della compassione, «tu non sai raccontar lestorie.»

Questo lo umiliò. «Senti, senti», rispose, e si mise a re-citare una ballata di Carrer,

Al bosco nacque, povera bambina,Gerolimina,

rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempreda capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbas-sando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino ache Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entròcon essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire inpace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essereun tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si ri-mise subito.

Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pa-cificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver co-scienza di un altro dovere che oramai gl'incombeva difronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasisacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, controlei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e sof-

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«Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come ilbisnonno?»

«Taci, dormi.»«Contami una storia, papà.»Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Lui-

sa e s'imbarazzò presto. «Oh papà», disse Maria conl'accento della compassione, «tu non sai raccontar lestorie.»

Questo lo umiliò. «Senti, senti», rispose, e si mise a re-citare una ballata di Carrer,

Al bosco nacque, povera bambina,Gerolimina,

rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempreda capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbas-sando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino ache Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entròcon essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire inpace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essereun tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si ri-mise subito.

Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pa-cificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver co-scienza di un altro dovere che oramai gl'incombeva difronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasisacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, controlei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e sof-

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frire; e poi... e poi... se Iddio santo vorrà che il cannonetuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla au-striaca che la faccia piangere e pregare anche lei!

Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere dellasera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitar-le a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanzatranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto avenire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosadirebbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano,disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette allascrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia.

Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendevale scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo enon espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato.

«Sono le quattro», diss'ella. «Se vuoi partire mancamezz'ora.» Occorreva partire alle quattro e mezzo peressere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar ilprimo battello che veniva da Colico. Invece di andar aComo e quindi a Milano come s'era annunciato ufficial-mente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S.Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimen-to e il Generoso.

Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliareMaria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò asé.

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frire; e poi... e poi... se Iddio santo vorrà che il cannonetuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla au-striaca che la faccia piangere e pregare anche lei!

Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere dellasera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitar-le a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanzatranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto avenire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosadirebbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano,disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette allascrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia.

Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendevale scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo enon espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato.

«Sono le quattro», diss'ella. «Se vuoi partire mancamezz'ora.» Occorreva partire alle quattro e mezzo peressere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar ilprimo battello che veniva da Colico. Invece di andar aComo e quindi a Milano come s'era annunciato ufficial-mente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S.Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimen-to e il Generoso.

Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliareMaria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò asé.

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«Parto», le disse piano. «Ieri sera sono stato cattivo,con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diver-samente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio tem-peramento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore.»

«Per parte mia non ne sento affatto», rispose Luisa condolcezza, come uno che facilmente è benigno perché sisente superiore.

Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fupreso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio chenon aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, siinginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro unamanina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salottovi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò seveniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto,la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca,l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con unpiede sullo scalino e un piede sulla prua del battello.

La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diedeil buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odo-rata la burrasca.

Due minuti ancora e il pesante battello spinto daIsmaele con la remata lenta e tranquilla «di viaggio»passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al fi-nestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellatasenza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro,passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio!Passarono il Camposanto, la «Zocca de Mainé», la stra-

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«Parto», le disse piano. «Ieri sera sono stato cattivo,con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diver-samente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio tem-peramento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore.»

«Per parte mia non ne sento affatto», rispose Luisa condolcezza, come uno che facilmente è benigno perché sisente superiore.

Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fupreso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio chenon aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, siinginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro unamanina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salottovi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò seveniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto,la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca,l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con unpiede sullo scalino e un piede sulla prua del battello.

La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diedeil buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odo-rata la burrasca.

Due minuti ancora e il pesante battello spinto daIsmaele con la remata lenta e tranquilla «di viaggio»passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al fi-nestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellatasenza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro,passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio!Passarono il Camposanto, la «Zocca de Mainé», la stra-

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dicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franconon guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte,nel casottino del battello ed egli non poteva vedere suamoglie, che non parlava.

«Vieni a Porlezza per le carte del notaio», diss'egli, «oproprio per accompagnar me?»

«Anche questo!», mormorò Luisa, tristemente. «Hovoluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne seioffeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose.Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza sof-frire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso que-sta strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai.Non farmi abbassare a dirlo adesso!»

«Non farmi abbassare!», esclamò Franco. «Io non ca-pisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Diomio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona dite stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esat-tamente, li conservi sempre così netti, così freddi!»

Luisa mormoro:«Sì, siamo diversi».Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno.

Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlòe cercò che il discorso non cadesse fino a che la villanon fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabi-lito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la va-ligia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne ave-

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dicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franconon guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte,nel casottino del battello ed egli non poteva vedere suamoglie, che non parlava.

«Vieni a Porlezza per le carte del notaio», diss'egli, «oproprio per accompagnar me?»

«Anche questo!», mormorò Luisa, tristemente. «Hovoluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne seioffeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose.Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza sof-frire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso que-sta strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai.Non farmi abbassare a dirlo adesso!»

«Non farmi abbassare!», esclamò Franco. «Io non ca-pisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Diomio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona dite stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esat-tamente, li conservi sempre così netti, così freddi!»

Luisa mormoro:«Sì, siamo diversi».Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno.

Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlòe cercò che il discorso non cadesse fino a che la villanon fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabi-lito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la va-ligia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne ave-

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va già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di por-tarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la vil-la della nonna con le sue suggestioni sinistre, passò.

Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte,durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontratialla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi.E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto lerupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, ad-dio, tempo passato.

«Ricordati», disse Franco quasi duramente, «che Mariadeve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È uncomando che ti do.»

«Lo avrei fatto anche senza comando», rispose Luisa.«So che Maria non appartiene solo a me.»

Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida dellaValsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago se-gnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viag-giatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza chene sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso dabisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di fur-to per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gri-dare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar dilena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di farpresto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio.

Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetrodell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse ungrande interesse di udirne le parole.

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va già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di por-tarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la vil-la della nonna con le sue suggestioni sinistre, passò.

Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte,durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontratialla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi.E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto lerupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, ad-dio, tempo passato.

«Ricordati», disse Franco quasi duramente, «che Mariadeve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È uncomando che ti do.»

«Lo avrei fatto anche senza comando», rispose Luisa.«So che Maria non appartiene solo a me.»

Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida dellaValsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago se-gnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viag-giatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza chene sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso dabisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di fur-to per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gri-dare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar dilena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di farpresto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio.

Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetrodell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse ungrande interesse di udirne le parole.

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Quando approdarono si voltò a sua moglie. «Esci an-che tu?» Ella rispose: «Se credi». Uscirono. Una carret-tella era sulla riva, pronta. «Guarda», disse Luisa, «chenella borsa troverai da far colazione.» Si abbracciarono,si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre oquattro curiosi. «Fa che Maria», disse Franco, «mi per-doni di esser partito così», e furono le ultime sue paroleperché il Toni Pollìn insisteva, «presto, presto!». La car-rettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di fru-state per la stretta, scura viuzza di Porlezza.

Franco viaggiava sul Falco, da Campo verso Argegno,quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa egli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indiriz-zo di carattere di sua moglie: «per te». L'aperse avida-mente e lesse:

Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che sof-fro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette dellequali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venirda te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti cosìduro con me. Debbo aver molto peccato contro la Veritàperché mi sieno così difficili e amari i primi passi chefaccio seguendo lei.

Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto su-scettibile: adesso sento che le tue parole umilianti nonpotrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi

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Quando approdarono si voltò a sua moglie. «Esci an-che tu?» Ella rispose: «Se credi». Uscirono. Una carret-tella era sulla riva, pronta. «Guarda», disse Luisa, «chenella borsa troverai da far colazione.» Si abbracciarono,si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre oquattro curiosi. «Fa che Maria», disse Franco, «mi per-doni di esser partito così», e furono le ultime sue paroleperché il Toni Pollìn insisteva, «presto, presto!». La car-rettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di fru-state per la stretta, scura viuzza di Porlezza.

Franco viaggiava sul Falco, da Campo verso Argegno,quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa egli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indiriz-zo di carattere di sua moglie: «per te». L'aperse avida-mente e lesse:

Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che sof-fro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette dellequali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venirda te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti cosìduro con me. Debbo aver molto peccato contro la Veritàperché mi sieno così difficili e amari i primi passi chefaccio seguendo lei.

Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto su-scettibile: adesso sento che le tue parole umilianti nonpotrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi

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trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte dime, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la miacoscienza della verità.

Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io speroche possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima.

Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellinache abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidatoe vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noiquando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Ionon t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adessosono io che spero di conquistare te.

Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegnosenza muoversi dal suo posto.

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trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte dime, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la miacoscienza della verità.

Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io speroche possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima.

Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellinache abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidatoe vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noiquando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Ionon t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adessosono io che spero di conquistare te.

Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegnosenza muoversi dal suo posto.

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9.Per il pane, per l'Italia, per Dio

Otto mesi dopo, nel settembre del 1855, Franco abitavauna misera soffitta a Torino, in via Barbaroux. Aveva ot-tenuto nel febbraio un posto di traduttore all'Opinione,con ottantacinque lire il mese. Più tardi fece anche rela-zioni del Parlamento e lo stipendio gli fu portato a centolire il mese. Il Dina, direttore del giornale, gli volevabene e gli procacciava qualche lavoro straordinario, fuo-ri d'ufficio, tanto da fargli prendere altre venticinque otrenta lire il mese. Franco viveva con sessanta lire ilmese. Il resto andava a Lugano e da Lugano, per le manifedeli d'Ismaele, a Oria. Per vivere un mese con sessantalire ci voleva una forza d'animo che lo stesso Franconon avrebbe creduto, prima, possedere. Le ore d'ufficio,il tradurre, assai laborioso per un uomo pieno di scrupolie di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni;e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimprove-rava di non saper vivere con meno.

Si era legato con altri sei emigrati, parte lombardi parteveneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, di-sputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altrierano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti poverissimi, nonavevano mai voluto pigliar un soldo dal governo pie-montese a titolo di sussidio. L'Udinese che apparteneva

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9.Per il pane, per l'Italia, per Dio

Otto mesi dopo, nel settembre del 1855, Franco abitavauna misera soffitta a Torino, in via Barbaroux. Aveva ot-tenuto nel febbraio un posto di traduttore all'Opinione,con ottantacinque lire il mese. Più tardi fece anche rela-zioni del Parlamento e lo stipendio gli fu portato a centolire il mese. Il Dina, direttore del giornale, gli volevabene e gli procacciava qualche lavoro straordinario, fuo-ri d'ufficio, tanto da fargli prendere altre venticinque otrenta lire il mese. Franco viveva con sessanta lire ilmese. Il resto andava a Lugano e da Lugano, per le manifedeli d'Ismaele, a Oria. Per vivere un mese con sessantalire ci voleva una forza d'animo che lo stesso Franconon avrebbe creduto, prima, possedere. Le ore d'ufficio,il tradurre, assai laborioso per un uomo pieno di scrupolie di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni;e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimprove-rava di non saper vivere con meno.

Si era legato con altri sei emigrati, parte lombardi parteveneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, di-sputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altrierano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti poverissimi, nonavevano mai voluto pigliar un soldo dal governo pie-montese a titolo di sussidio. L'Udinese che apparteneva

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a una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceve-va niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cin-que lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine deiteatri di commedia. Un notaio padovano copiava nellostudio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco,soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grandenegozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gliamici lo chiamavano il «Fante di bastoni». Un quarto,milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide diCarlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria me-neghína, il Padovano gli aveva posto nome «Caval dispade». La professione del Caval di spade era quella dilitigare continuamente col Fante di bastoni per antagoni-smo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti,e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina miste-riosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldil'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle lorofamiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti alle-gri. Si chiamavano e si facevano chiamare «i sette sa-pienti». Dominavano Torino, nella loro sapienza,dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da BorgoSan Dalmazzo a Piazza Milano.

La più misera era quella di Franco che la pagava settelire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella delportinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessunodella compagnia si faceva del tutto servire, e il Padova-no avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tor-mentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico

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a una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceve-va niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cin-que lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine deiteatri di commedia. Un notaio padovano copiava nellostudio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco,soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grandenegozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gliamici lo chiamavano il «Fante di bastoni». Un quarto,milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide diCarlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria me-neghína, il Padovano gli aveva posto nome «Caval dispade». La professione del Caval di spade era quella dilitigare continuamente col Fante di bastoni per antagoni-smo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti,e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina miste-riosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldil'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle lorofamiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti alle-gri. Si chiamavano e si facevano chiamare «i sette sa-pienti». Dominavano Torino, nella loro sapienza,dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da BorgoSan Dalmazzo a Piazza Milano.

La più misera era quella di Franco che la pagava settelire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella delportinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessunodella compagnia si faceva del tutto servire, e il Padova-no avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tor-mentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico

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filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il piùdestro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare ibottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricor-rendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto,certe volte, «o mi povra dona!», ne vedeva capitare unaprocessione. L'Udinese aveva bene un'amante, una pic-cola «tota» del primo baraccone di piazza Castellosull'angolo di Po; ma era geloso e non permetteva cheattaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicava-no chiamandola «tota bürattina» perché vendeva fantoc-ci e bambole. Egli era del resto, grazie a «tota buratti-na», il solo della compagnia che avesse gli abiti semprein ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale.A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia bat-tezzata «la trattoria del mal de stomi» dove per trentalire il mese avevano colazione e pranzo. Il loro lusso erail bicierìn, un miscuglio di caffè, latte e cioccolatte chesi aveva per quindici centesimi. Lo prendevano la matti-na, i veneti al caffè Alfieri, gli altri al caffè Florio. MenoFranco, però. Franco rinunciava al bicierìn e al relativotorcètt, pasta da un soldo, per ammassare tanto che glibastasse a far una corsa a Lugano e portar un regaluccioa Maria. Andavano a passeggiare, l'inverno, sotto i por-tici di Po, quelli della Sapienza, dalla parte dell'Univer-sità, non quelli della Follia, dalla parte di S. Francesco;e poi sedevano al caffè dove uno della compagnia, perturno, prendeva il caffè mentre gli altri leggevano i gior-nali e saccheggiavano lo zucchero. Una volta alla setti-mana, invece che andare al caffè, si cacciavano, per ac-

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filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il piùdestro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare ibottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricor-rendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto,certe volte, «o mi povra dona!», ne vedeva capitare unaprocessione. L'Udinese aveva bene un'amante, una pic-cola «tota» del primo baraccone di piazza Castellosull'angolo di Po; ma era geloso e non permetteva cheattaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicava-no chiamandola «tota bürattina» perché vendeva fantoc-ci e bambole. Egli era del resto, grazie a «tota buratti-na», il solo della compagnia che avesse gli abiti semprein ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale.A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia bat-tezzata «la trattoria del mal de stomi» dove per trentalire il mese avevano colazione e pranzo. Il loro lusso erail bicierìn, un miscuglio di caffè, latte e cioccolatte chesi aveva per quindici centesimi. Lo prendevano la matti-na, i veneti al caffè Alfieri, gli altri al caffè Florio. MenoFranco, però. Franco rinunciava al bicierìn e al relativotorcètt, pasta da un soldo, per ammassare tanto che glibastasse a far una corsa a Lugano e portar un regaluccioa Maria. Andavano a passeggiare, l'inverno, sotto i por-tici di Po, quelli della Sapienza, dalla parte dell'Univer-sità, non quelli della Follia, dalla parte di S. Francesco;e poi sedevano al caffè dove uno della compagnia, perturno, prendeva il caffè mentre gli altri leggevano i gior-nali e saccheggiavano lo zucchero. Una volta alla setti-mana, invece che andare al caffè, si cacciavano, per ac-

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contentare il Fante di bastoni, in un buco di via Bertoladove si beveva il più puro e squisito Giambava.

A teatro ci andava l'Udinese e in grazia sua, di tanto intanto, qualche altro, gratis; sempre alla commedia, perlo più al Rossini o al Gerbino. Per Franco il passar da-vanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica,era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe ofar colazione con cinque centimetri quadrati di frittatabuonissima per osservare le macchie del sole. Fortunata-mente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario alMinistero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò allafamiglia di un distintissimo maggiore medico dell'eser-cito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, lasera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente,quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sa-pienti, per una ragione o per l'altra, non passavano lasera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano,a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a di-sputar di politica con la signora, una fiera patriota vene-ziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tut-te eroicamente affrontate le durezze e le amarezzedell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi eranostati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissi-mo professore dell'Università di Padova, le care, bene-dette teste oneste e dure della rigida amministrazionepiemontese avevano imposto di subire un esame se vo-leva diventare capitano medico, niente meno.

La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava

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contentare il Fante di bastoni, in un buco di via Bertoladove si beveva il più puro e squisito Giambava.

A teatro ci andava l'Udinese e in grazia sua, di tanto intanto, qualche altro, gratis; sempre alla commedia, perlo più al Rossini o al Gerbino. Per Franco il passar da-vanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica,era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe ofar colazione con cinque centimetri quadrati di frittatabuonissima per osservare le macchie del sole. Fortunata-mente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario alMinistero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò allafamiglia di un distintissimo maggiore medico dell'eser-cito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, lasera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente,quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sa-pienti, per una ragione o per l'altra, non passavano lasera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano,a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a di-sputar di politica con la signora, una fiera patriota vene-ziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tut-te eroicamente affrontate le durezze e le amarezzedell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi eranostati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissi-mo professore dell'Università di Padova, le care, bene-dette teste oneste e dure della rigida amministrazionepiemontese avevano imposto di subire un esame se vo-leva diventare capitano medico, niente meno.

La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava

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lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva li-scia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da unaparte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avreb-be risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grandeargomento. Non vedendo che parlasse mai né della lette-rina né di ciò ch'era stato fra loro quell'ultima notte, arri-schiò un'allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s'eramesso più volte a scrivere col proposito di affrontare leidee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, siteneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmenteargomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla pennadi quelli che gli sembravan tali ma poi, quand'eranoscritti, ne scopriva subito la insufficienza, ne stupiva, sene doleva, ritentava la prova e sempre con eguale suc-cesso. Eppure sua moglie aveva ben torto; di questo nondubitava un momento; dunque vi doveva essere modo didimostrarglielo. Bisognava studiare. Cosa? Come? Nedomandò a un prete dal quale si era confessato pocodopo il suo arrivo a Torino. Questo prete, un piccolovecchietto contraffatto, focoso e dottissimo, lo invitò acasa sua, in piazza Paesana, si pose ad aiutarlo con entu-siasmo, gli suggerì una quantità di libri, parte da leggerlui, parte da mandare a sua moglie. Forte orientalista egran tomista, provando una vivissima simpatia per Fran-co, attribuendogli un ingegno e una cultura forse supe-riori al vero, per poco non gli suggerì di studiar l'ebraicoe volle poi assolutamente che leggesse S. Tommaso. Ar-rivò sino a dargli un abbozzo di lettera a sua moglie congli argomenti che doveva sviluppare. Franco s'innamorò

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lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva li-scia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da unaparte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avreb-be risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grandeargomento. Non vedendo che parlasse mai né della lette-rina né di ciò ch'era stato fra loro quell'ultima notte, arri-schiò un'allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s'eramesso più volte a scrivere col proposito di affrontare leidee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, siteneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmenteargomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla pennadi quelli che gli sembravan tali ma poi, quand'eranoscritti, ne scopriva subito la insufficienza, ne stupiva, sene doleva, ritentava la prova e sempre con eguale suc-cesso. Eppure sua moglie aveva ben torto; di questo nondubitava un momento; dunque vi doveva essere modo didimostrarglielo. Bisognava studiare. Cosa? Come? Nedomandò a un prete dal quale si era confessato pocodopo il suo arrivo a Torino. Questo prete, un piccolovecchietto contraffatto, focoso e dottissimo, lo invitò acasa sua, in piazza Paesana, si pose ad aiutarlo con entu-siasmo, gli suggerì una quantità di libri, parte da leggerlui, parte da mandare a sua moglie. Forte orientalista egran tomista, provando una vivissima simpatia per Fran-co, attribuendogli un ingegno e una cultura forse supe-riori al vero, per poco non gli suggerì di studiar l'ebraicoe volle poi assolutamente che leggesse S. Tommaso. Ar-rivò sino a dargli un abbozzo di lettera a sua moglie congli argomenti che doveva sviluppare. Franco s'innamorò

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subito del vecchietto entusiasta che aveva poi, anchenell'aspetto, la purezza d'un Santo. Si mise a studiar S.Tommaso con grande ardore e vi durò poco. Gli parve dimettersi in un mare senza fine e senza principio, di nonpotervisi dirigere. Il disegno scolastico della trattazione,quella uniformità nella forma dell'argomentare pro econtro, quel gelido latino denso di profondo pensiero eincolore alla superficie, gli schiacciarono in tre giornitutta la buona volontà. Gli argomenti dell'abbozzo di let-tera non li capì che in piccola parte. Se li fece spiegare,li intese meglio, si dispose a scendere in campo con essie si trovò impacciato come David nell'armatura di Saul.Gli pesavano, non li poteva maneggiare, senti che nonerano roba sua e che non lo sarebbero diventati mai. No,egli non poteva presentarsi a sua moglie col tricorno econ la tonaca del professor G., impugnando una lanciadi teologia e coprendosi con uno scudo di metafisica.Riconobbe che non era nato per filosofare in nessunmodo; gli mancava persino l'organo del rigido ragiona-mento logico; o almeno il suo bollente cuore, ricco ditenerezze e di sdegni, voleva troppo parlare anche lui, afavore o contro, secondo la propria passione. Suonandouna sera a casa C., tutto fremente e con gli occhi sfavil-lanti, l'andante della suonata op. 28 di Beethoven, gli ca-pitò di dire a mezza voce: «Ah questo, questo, questo!».Nessun Padre, pensava, nessun Dottore potrebbe comu-nicar il sentimento religioso come Beethoven. Metteva,suonando, tutta l'anima sua nella musica e avrebbe purvoluto esser con Luisa, suonarle il divino andante, unirsi

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subito del vecchietto entusiasta che aveva poi, anchenell'aspetto, la purezza d'un Santo. Si mise a studiar S.Tommaso con grande ardore e vi durò poco. Gli parve dimettersi in un mare senza fine e senza principio, di nonpotervisi dirigere. Il disegno scolastico della trattazione,quella uniformità nella forma dell'argomentare pro econtro, quel gelido latino denso di profondo pensiero eincolore alla superficie, gli schiacciarono in tre giornitutta la buona volontà. Gli argomenti dell'abbozzo di let-tera non li capì che in piccola parte. Se li fece spiegare,li intese meglio, si dispose a scendere in campo con essie si trovò impacciato come David nell'armatura di Saul.Gli pesavano, non li poteva maneggiare, senti che nonerano roba sua e che non lo sarebbero diventati mai. No,egli non poteva presentarsi a sua moglie col tricorno econ la tonaca del professor G., impugnando una lanciadi teologia e coprendosi con uno scudo di metafisica.Riconobbe che non era nato per filosofare in nessunmodo; gli mancava persino l'organo del rigido ragiona-mento logico; o almeno il suo bollente cuore, ricco ditenerezze e di sdegni, voleva troppo parlare anche lui, afavore o contro, secondo la propria passione. Suonandouna sera a casa C., tutto fremente e con gli occhi sfavil-lanti, l'andante della suonata op. 28 di Beethoven, gli ca-pitò di dire a mezza voce: «Ah questo, questo, questo!».Nessun Padre, pensava, nessun Dottore potrebbe comu-nicar il sentimento religioso come Beethoven. Metteva,suonando, tutta l'anima sua nella musica e avrebbe purvoluto esser con Luisa, suonarle il divino andante, unirsi

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a lei pregando in un inenarrabile spasimo dello spirito,così. Né gli venne in mente che Luisa, la quale del restosentiva la musica molto meno di lui, avrebbe piuttostodato all'andante il senso del doloroso conflitto fra il pro-prio affetto e le proprie idee.

Andò da G., gli riportò S. Tommaso, gli confessò tuttala sua impotenza con parole così umili e commosse cheil vecchio prete, dopo qualche momento di silenzio acci-gliato e inquieto, gli perdonò. «Là là là», diss'egli ri-prendendosi con rassegnazione il suo primo volume del-la Somma, «ca s'raccomanda al Sgnour e sperouma cafassa Chiel.» Così finirono gli studi teologici di Franco.

Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle propriee soprattutto il consiglio del professore «ca s'raccoman-da al Sgnour» non furono senza frutto. Cominciò a in-tendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rim-proverato da lei di non condurre la vita che secondo lasua fede avrebbe dovuto, egli s'era offeso di ciò più chedi tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portòall'altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerarele proprie colpe d'accidia, d'ira e persin di gola, a tenersiresponsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. Eprovò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, diseparar la causa propria dalla causa di Dio. Quandoebbe il posto all'Opinione e regolò le proprie spese perpoter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scris-se che l'assegno era assolutamente troppo forte in pro-porzione dei suoi guadagni. Il saper ch'egli viveva a To-

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a lei pregando in un inenarrabile spasimo dello spirito,così. Né gli venne in mente che Luisa, la quale del restosentiva la musica molto meno di lui, avrebbe piuttostodato all'andante il senso del doloroso conflitto fra il pro-prio affetto e le proprie idee.

Andò da G., gli riportò S. Tommaso, gli confessò tuttala sua impotenza con parole così umili e commosse cheil vecchio prete, dopo qualche momento di silenzio acci-gliato e inquieto, gli perdonò. «Là là là», diss'egli ri-prendendosi con rassegnazione il suo primo volume del-la Somma, «ca s'raccomanda al Sgnour e sperouma cafassa Chiel.» Così finirono gli studi teologici di Franco.

Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle propriee soprattutto il consiglio del professore «ca s'raccoman-da al Sgnour» non furono senza frutto. Cominciò a in-tendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rim-proverato da lei di non condurre la vita che secondo lasua fede avrebbe dovuto, egli s'era offeso di ciò più chedi tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portòall'altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerarele proprie colpe d'accidia, d'ira e persin di gola, a tenersiresponsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. Eprovò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, diseparar la causa propria dalla causa di Dio. Quandoebbe il posto all'Opinione e regolò le proprie spese perpoter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scris-se che l'assegno era assolutamente troppo forte in pro-porzione dei suoi guadagni. Il saper ch'egli viveva a To-

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rino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo alei. Allora egli le rispose, questo non proprio sincera-mente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, delresto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché pro-vava un'avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozipassati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e allamusica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debo-lezze, comprese quelle per la cucina raffinata e per i viniscelti. Soggiunse che della vita passata aveva domanda-to perdono a Dio e che credeva doverlo domandare an-che a lei. Insomma il Padovano, cui si era legato digrande amicizia, udito recitarsi da lui, come a riprova diprecedenti confessioni, questo brano di lettera, gli disse:«Ciò, la par l'orazion de Manasse re di Giuda».

Luisa scriveva molto affettuosamente, sì, ma con mi-nore effusione. Il silenzio di Franco circa l'argomentodel colloquio doloroso le spiaceva; e cominciar lei, difronte a un silenzio così ostinato, non le parve utile.

I propositi di lavoro e di sacrificio la commossero pro-fondamente; quando lesse quella confessione da grandelinquente con la domanda di perdono a Dio e a lei, nesorrise e baciò la lettera sentendo ch'era un atto di sotto-missione e un'acquiescenza umile alle censure che tantolo avevano a prima giunta irritato. Povero Franco, eccogli slanci della sua nobile, generosa natura! Ma durereb-bero? Rispose subito e se dalla risposta traspariva la suacommozione, ne traspariva pure il sorriso, del qualeFranco non fu contento. Nella chiusa v'eran questi pe-

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rino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo alei. Allora egli le rispose, questo non proprio sincera-mente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, delresto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché pro-vava un'avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozipassati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e allamusica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debo-lezze, comprese quelle per la cucina raffinata e per i viniscelti. Soggiunse che della vita passata aveva domanda-to perdono a Dio e che credeva doverlo domandare an-che a lei. Insomma il Padovano, cui si era legato digrande amicizia, udito recitarsi da lui, come a riprova diprecedenti confessioni, questo brano di lettera, gli disse:«Ciò, la par l'orazion de Manasse re di Giuda».

Luisa scriveva molto affettuosamente, sì, ma con mi-nore effusione. Il silenzio di Franco circa l'argomentodel colloquio doloroso le spiaceva; e cominciar lei, difronte a un silenzio così ostinato, non le parve utile.

I propositi di lavoro e di sacrificio la commossero pro-fondamente; quando lesse quella confessione da grandelinquente con la domanda di perdono a Dio e a lei, nesorrise e baciò la lettera sentendo ch'era un atto di sotto-missione e un'acquiescenza umile alle censure che tantolo avevano a prima giunta irritato. Povero Franco, eccogli slanci della sua nobile, generosa natura! Ma durereb-bero? Rispose subito e se dalla risposta traspariva la suacommozione, ne traspariva pure il sorriso, del qualeFranco non fu contento. Nella chiusa v'eran questi pe-

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riodi: «Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensatocon rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, eho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, ben-ché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbiaparola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; madelle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, ohcome vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!».

Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Fran-co non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu al-quanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argo-mento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: «Se tuvedessi come recita il Padre nostro, mattina e sera, ecome si comporta a Messa, la domenica, saresti conten-to».

Egli rispose: «Di quanto mi scrivi circa le pratiche reli-giose di Maria, sono contento e ti ringrazio».

Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno espedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele an-dava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lette-ra della moglie e riportava quella del marito. In giugnoMaria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdettequasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, perqualche tempo, molto turbato. Durante questi due perio-di, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la cor-rispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ulti-me lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degliavvenimenti onde furono colti alla fine di settembre.

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riodi: «Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensatocon rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, eho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, ben-ché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbiaparola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; madelle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, ohcome vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!».

Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Fran-co non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu al-quanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argo-mento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: «Se tuvedessi come recita il Padre nostro, mattina e sera, ecome si comporta a Messa, la domenica, saresti conten-to».

Egli rispose: «Di quanto mi scrivi circa le pratiche reli-giose di Maria, sono contento e ti ringrazio».

Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno espedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele an-dava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lette-ra della moglie e riportava quella del marito. In giugnoMaria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdettequasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, perqualche tempo, molto turbato. Durante questi due perio-di, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la cor-rispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ulti-me lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degliavvenimenti onde furono colti alla fine di settembre.

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Luisa a Franco

Oria, 12 settembre 1855

Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettarel'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria èandato a Caprino con alcuni amici suoi e delle PotenzeOccidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nellacantina dello Scarselon e là ha bevuto «un cicinìn» equindi è ritornato a Lugano dove un altro «cicinìn» lo hafatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina.Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e cosìlo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino,tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresceassai.

Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice tea-trale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di mu-sica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Cavaldi spade che bisogna ricondurre la musica italiana altamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua pru-denza. Essa è stata però così grande che non sono certis-sima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare,in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri si-gnori, occorrono alcune persone sicure cui far capo conle opportune comunicazioni da Torino, sia direttamentesia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo an-

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Luisa a Franco

Oria, 12 settembre 1855

Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettarel'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria èandato a Caprino con alcuni amici suoi e delle PotenzeOccidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nellacantina dello Scarselon e là ha bevuto «un cicinìn» equindi è ritornato a Lugano dove un altro «cicinìn» lo hafatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina.Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e cosìlo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino,tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresceassai.

Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice tea-trale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di mu-sica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Cavaldi spade che bisogna ricondurre la musica italiana altamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua pru-denza. Essa è stata però così grande che non sono certis-sima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare,in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri si-gnori, occorrono alcune persone sicure cui far capo conle opportune comunicazioni da Torino, sia direttamentesia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo an-

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drò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un me-dico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parleròcon lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti cruc-ciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Cipenserò io e posso anche promettere di foderarti le ma-niche di seta, grazie ad una sottana che mia madre midiceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nelsecolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che néio né Ombretta porteremo certo mai.

Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando ilcaldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato laprima lezione di lettura col metodo Lambruschini.

Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa!Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone dellatombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne hofatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratiniper le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove hodisegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezzasufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e haesclamato: «Oh povero me!». Poi, malgrado le mie pro-teste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto chestudiava per scrivere a papà. «Scrivere a papà» è la suaidea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducen-dole la mano, perderei forse il più forte stimolo che pos-so adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sache prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo af-fetto per te vien sempre fuori con una mistura di amorproprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma

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drò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un me-dico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parleròcon lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti cruc-ciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Cipenserò io e posso anche promettere di foderarti le ma-niche di seta, grazie ad una sottana che mia madre midiceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nelsecolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che néio né Ombretta porteremo certo mai.

Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando ilcaldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato laprima lezione di lettura col metodo Lambruschini.

Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa!Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone dellatombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne hofatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratiniper le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove hodisegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezzasufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e haesclamato: «Oh povero me!». Poi, malgrado le mie pro-teste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto chestudiava per scrivere a papà. «Scrivere a papà» è la suaidea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducen-dole la mano, perderei forse il più forte stimolo che pos-so adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sache prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo af-fetto per te vien sempre fuori con una mistura di amorproprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma

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tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva apapà. Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronicaperché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucinal'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai allaVeronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te.Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero car-rubo perché manda ombra in cucina e gli augurava dicrepare. «Taci!», le intimò Maria con una forza inespri-mibile. «Ti mando via se non taci.» L'altra la rimbeccò eMaria fuori a piangere. Io udii e accorsi. «Perché pian-gi?» «Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta dipapà.» Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso falei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza unapredica alla Veronica e prende un'aria d'importanzacome se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ognimattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: «Staibene, pianta?». Oggi ha versato molte lagrime perché labreva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gliebbe fatta la solita domanda, io le dissi: «Vedi che nonsta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?». Più tardimi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradi-so. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veroni-ca mandando l'ombra in cucina, non può andare in Para-diso. Tacque mortificata.

Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perditadel suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dicemessa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo,una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fannoin loggia delle conversazioni senza fine, non più inter-

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tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva apapà. Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronicaperché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucinal'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai allaVeronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te.Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero car-rubo perché manda ombra in cucina e gli augurava dicrepare. «Taci!», le intimò Maria con una forza inespri-mibile. «Ti mando via se non taci.» L'altra la rimbeccò eMaria fuori a piangere. Io udii e accorsi. «Perché pian-gi?» «Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta dipapà.» Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso falei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza unapredica alla Veronica e prende un'aria d'importanzacome se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ognimattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: «Staibene, pianta?». Oggi ha versato molte lagrime perché labreva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gliebbe fatta la solita domanda, io le dissi: «Vedi che nonsta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?». Più tardimi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradi-so. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veroni-ca mandando l'ombra in cucina, non può andare in Para-diso. Tacque mortificata.

Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perditadel suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dicemessa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo,una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fannoin loggia delle conversazioni senza fine, non più inter-

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rotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lozio le racconta tante vecchie cose che non ha mai rac-contato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia,perché credo che si apra più volentieri con la piccinasola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o qua-si mai baci né carezze, come se Maria fosse una personagrande.

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Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Ve-ronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medi-co di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mez-zo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bel-lezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me necommossi che un momento fra i vecchi castagni di Pel-lio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle siscopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza eun pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva,verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazio-ne insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina eche l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi haiparlato di mia madre?

Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di «Pèllsora», fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visi-

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rotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lozio le racconta tante vecchie cose che non ha mai rac-contato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia,perché credo che si apra più volentieri con la piccinasola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o qua-si mai baci né carezze, come se Maria fosse una personagrande.

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Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Ve-ronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medi-co di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mez-zo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bel-lezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me necommossi che un momento fra i vecchi castagni di Pel-lio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle siscopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza eun pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva,verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazio-ne insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina eche l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi haiparlato di mia madre?

Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di «Pèllsora», fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visi-

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tare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato.Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino miafferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'èa Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi checorrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavourin una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bona-partista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglesee dice «la perfida Albione». Si teneva sicurissimo, delresto, della guerra a primavera e non gli piacque udireche ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammi-rata meno. Quanto ad agire nel momento buono, diceche in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre,«come micch». Perché parla sempre in plurale, dice«nün chì». Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando divenire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso dicuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mo-stra un pezzo di pane. «Nün chì», mi disse, «gh'emmpoeu anca el Brenta.» Sai, hanno a vendicare il Brenta,fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quan-do scoppierà la guerra, non fosse di liberare la «süraPeppina» e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andreivolentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.

Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col cu-rato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato avevala Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopo-li. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti itedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto inteneritoper il suo Papuzza e il curato propose di bere una botti-glia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli do-

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tare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato.Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino miafferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'èa Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi checorrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavourin una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bona-partista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglesee dice «la perfida Albione». Si teneva sicurissimo, delresto, della guerra a primavera e non gli piacque udireche ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammi-rata meno. Quanto ad agire nel momento buono, diceche in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre,«come micch». Perché parla sempre in plurale, dice«nün chì». Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando divenire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso dicuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mo-stra un pezzo di pane. «Nün chì», mi disse, «gh'emmpoeu anca el Brenta.» Sai, hanno a vendicare il Brenta,fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quan-do scoppierà la guerra, non fosse di liberare la «süraPeppina» e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andreivolentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.

Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col cu-rato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato avevala Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopo-li. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti itedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto inteneritoper il suo Papuzza e il curato propose di bere una botti-glia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli do-

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mandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiarele buone fortune di Papuzza. «Mi l'era per bev», bronto-la il curato. «L'è ben che ghe n'è minga», risponde lozio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per con-solarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lom-bardi, concludendo: «Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghen'è miga».

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Non credo che Pasotti verrà più in casa nostra. Me nerincresce per quella povera Barborin che non potrà piùvenirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel cheho fatto.

Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, comequi lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore,me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella delRomìt li udì mentre scendevano discorrendo ad Alboga-sio Superiore. Quando è venuto da noi ha affettato sem-pre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quellesue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mitrova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora sta-rai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo net-to che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventapallido. «Perché?», dice. «Perché Lei va dicendo che

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mandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiarele buone fortune di Papuzza. «Mi l'era per bev», bronto-la il curato. «L'è ben che ghe n'è minga», risponde lozio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per con-solarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lom-bardi, concludendo: «Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghen'è miga».

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Non credo che Pasotti verrà più in casa nostra. Me nerincresce per quella povera Barborin che non potrà piùvenirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel cheho fatto.

Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, comequi lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore,me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella delRomìt li udì mentre scendevano discorrendo ad Alboga-sio Superiore. Quando è venuto da noi ha affettato sem-pre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quellesue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mitrova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora sta-rai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo net-to che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventapallido. «Perché?», dice. «Perché Lei va dicendo che

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Franco è in ben altro luogo.» Si confonde, protesta, fre-me. «Protesti pure», dico io. «Tanto è inutile. Lo so. Delresto Franco sta benissimo dov'è. Lo dica pure a chi cre-de.» «Lei mi offende!», diss'egli. Io non stetti tanto a ri-flettere e risposi: «Sarà!». Allora se n'andò precipitosa-mente, senza salutarmi, nero come l'asso di picche, poi-ché sono in vena di simili paragoni. Sono sicura che sta-sera andrà a Cressogno.

Il Cüstant ci ha mandato a regalare una magnifica tincapresa da lui stamattina con gran dispetto del Biancònche pesca tutto il giorno, non prende niente e si arrabbiaperché le tinche, brave! se ne impipano di S. M. I. R. A.e del suo Carlascia. «Poer omàsc!», dice la süra Peppi-na. «El se mangia el fidegh!». Gli passerà, gli passerà.

Miti sensi, pace amicaTornan presto a nobil cor;Dio conservi e benedicaFerdinando Imperator.

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Ho raccontato allo zio l'episodio Pasotti e n'è stato as-sai malcontento. «Bel profitto», ha detto, «che ne cave-rai!» Povero zio, parrebbe un utilitario. Invece è un filo-

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Franco è in ben altro luogo.» Si confonde, protesta, fre-me. «Protesti pure», dico io. «Tanto è inutile. Lo so. Delresto Franco sta benissimo dov'è. Lo dica pure a chi cre-de.» «Lei mi offende!», diss'egli. Io non stetti tanto a ri-flettere e risposi: «Sarà!». Allora se n'andò precipitosa-mente, senza salutarmi, nero come l'asso di picche, poi-ché sono in vena di simili paragoni. Sono sicura che sta-sera andrà a Cressogno.

Il Cüstant ci ha mandato a regalare una magnifica tincapresa da lui stamattina con gran dispetto del Biancònche pesca tutto il giorno, non prende niente e si arrabbiaperché le tinche, brave! se ne impipano di S. M. I. R. A.e del suo Carlascia. «Poer omàsc!», dice la süra Peppi-na. «El se mangia el fidegh!». Gli passerà, gli passerà.

Miti sensi, pace amicaTornan presto a nobil cor;Dio conservi e benedicaFerdinando Imperator.

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Ho raccontato allo zio l'episodio Pasotti e n'è stato as-sai malcontento. «Bel profitto», ha detto, «che ne cave-rai!» Povero zio, parrebbe un utilitario. Invece è un filo-

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sofo. In fondo, di fronte agli sdegni miei per tante bruttecose che sono nel mondo, il suo argomento capitale è«ghe voeur alter!».

Oggi la messa parrocchiale è stata ad Albogasio Supe-riore. Nell'uscire di chiesa con Maria ho avuto unosguardo desolato della povera Pasotti che aveva eviden-temente l'ordine di evitarmi. Invece è discesa con noiEster e poi è anche salita in casa e mi ha tenuto, aquattr'occhi, un discorso che da qualche tempo mi aspet-tavo. Ha cominciato pregandomi di non ridere e ridendolei. Insomma capisci che il professore, dalli e dalli, hafatto un po' di breccia. E così, quantunque Ester affermidi non poter decifrare i propri sentimenti. Io vedo tuttoil cammino ch'egli ha fatto nel suo cuore. Sulle prime, tene ricordi? lo chiamava valsoldesemente el vecc, el veg-giòn, el zücca pelada, l'oreggiàt, el nasòn, el barbarostì.Quando s'accorse della simpatia di lui un sentimento digratitudine le fece smettere questi titoli, senza riconci-liarla però né con il cranio lucido né con le orecchie aventaglio né col pelo rossiccio né col naso fioritodell'adoratore. Adesso de' primi tre guai non si parlapiù; su questi tre punti l'amico ha vinto la battaglia epuò portarli in trionfo. Solo intorno al quarto punto vi èancora del combattimento. «Mi l'è quel nas!», dicevaEster stamattina e rideva rideva, si nascondeva il bel vi-setto brillante. Il naso scandaloso mi pare che fatalmen-te prosperi, si colori e ingrossi sempre più.

Quel semplice uomo mi confidò poco fa, forse perchélo ripetessi a Ester, che ha sempre bevuto solamente ac-

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sofo. In fondo, di fronte agli sdegni miei per tante bruttecose che sono nel mondo, il suo argomento capitale è«ghe voeur alter!».

Oggi la messa parrocchiale è stata ad Albogasio Supe-riore. Nell'uscire di chiesa con Maria ho avuto unosguardo desolato della povera Pasotti che aveva eviden-temente l'ordine di evitarmi. Invece è discesa con noiEster e poi è anche salita in casa e mi ha tenuto, aquattr'occhi, un discorso che da qualche tempo mi aspet-tavo. Ha cominciato pregandomi di non ridere e ridendolei. Insomma capisci che il professore, dalli e dalli, hafatto un po' di breccia. E così, quantunque Ester affermidi non poter decifrare i propri sentimenti. Io vedo tuttoil cammino ch'egli ha fatto nel suo cuore. Sulle prime, tene ricordi? lo chiamava valsoldesemente el vecc, el veg-giòn, el zücca pelada, l'oreggiàt, el nasòn, el barbarostì.Quando s'accorse della simpatia di lui un sentimento digratitudine le fece smettere questi titoli, senza riconci-liarla però né con il cranio lucido né con le orecchie aventaglio né col pelo rossiccio né col naso fioritodell'adoratore. Adesso de' primi tre guai non si parlapiù; su questi tre punti l'amico ha vinto la battaglia epuò portarli in trionfo. Solo intorno al quarto punto vi èancora del combattimento. «Mi l'è quel nas!», dicevaEster stamattina e rideva rideva, si nascondeva il bel vi-setto brillante. Il naso scandaloso mi pare che fatalmen-te prosperi, si colori e ingrossi sempre più.

Quel semplice uomo mi confidò poco fa, forse perchélo ripetessi a Ester, che ha sempre bevuto solamente ac-

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qua anche in gioventù e che il rossore e il turgore delsuo naso dipendono da frequenti sofferenze viscerali.Ho paura che questo nuovo aspetto delle cose non mi-gliori la situazione.

Credo però che l'amica finirà con superare anche uncosì grande e grosso ostacolo. Il fatto è che la passionedi lui è all'apice. Egli le ha scritto trenta pagine di con-fessione generale, vuotandosi proprio il cuore e rivoltan-done la fodera, per modo da intenerire un croato. Io loaiutai presso Ester che deciderà entro due giorni e vuoleche la risposta gli sia fatta da me. Io poi capisco che laletteratura del professore le mette soggezione e che haun gran timore di fare sbaglietti di ortografia. Buon se-gno!

18

Sono stata tre giorni senza scrivere temendo non esserpadrona della mia penna, non saper comprimere il miopensiero dentro parole che devono avere una data misu-ra e non più. Adesso lo posso fare e lo faccio. Sappiperò, Franco, che non rispondo esser padrona di mesempre!

È venuto dunque da me, la sera del 15, l'agente di tuanonna. Poiché la rata semestrale de' tuoi interessi scade

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qua anche in gioventù e che il rossore e il turgore delsuo naso dipendono da frequenti sofferenze viscerali.Ho paura che questo nuovo aspetto delle cose non mi-gliori la situazione.

Credo però che l'amica finirà con superare anche uncosì grande e grosso ostacolo. Il fatto è che la passionedi lui è all'apice. Egli le ha scritto trenta pagine di con-fessione generale, vuotandosi proprio il cuore e rivoltan-done la fodera, per modo da intenerire un croato. Io loaiutai presso Ester che deciderà entro due giorni e vuoleche la risposta gli sia fatta da me. Io poi capisco che laletteratura del professore le mette soggezione e che haun gran timore di fare sbaglietti di ortografia. Buon se-gno!

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Sono stata tre giorni senza scrivere temendo non esserpadrona della mia penna, non saper comprimere il miopensiero dentro parole che devono avere una data misu-ra e non più. Adesso lo posso fare e lo faccio. Sappiperò, Franco, che non rispondo esser padrona di mesempre!

È venuto dunque da me, la sera del 15, l'agente di tuanonna. Poiché la rata semestrale de' tuoi interessi scade

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il 16 ho creduto che avesse le cinquecento svanziche egli ho detto senz'altro che andavo a preparargli la rice-vuta. Allora il gentilissimo signor Bellini mi disse che laricevuta mia non gli poteva bastare. «Come», rispondo,«se Le è bastata il 16 marzo?» «Ma!», dice. «I miei or-dini!» «Ma Franco non c'è.» «Lo so.» «E allora, cosa èvenuto a fare?» «Sono venuto a dirle che il signor donFranco, per avere il denaro deve presentarsi all'agenziadella signora marchesa in Brescia.» «E se non potesseandare a Brescia?» Qui il signor Bellini fece un gestocome per dire: pensateci voi. Io gli risposi che andavabene, gli feci portare il caffè e gli dissi che avrei deside-rato comperare dalla signora marchesa le librerie del tuoantico studio di Cressogno. Il Bellini diventò giallo epartì mogio mogio come il nostro vecchio cane Patò dicasa Rigey quando aveva rubato.

È certo che in questa immondizia vi ha un dito del si-gnor Pasotti.

Ieri è venuto qua il prefetto della Caravina e ha raccon-tato che il 14 sera Pasotti è andato a Cressogno assai tar-di ed è capitato in casa della nonna mentre si diceva ilrosario, per cui gli toccò pure di rosarieggiare. Questofaceva ridere il prefetto; secondo lui il Pasotti va a mes-sa perché è I. R. pensionato ma di preghiere dice solo«el Patèr d'i ratt», che io non so cosa sia. Soggiunse poiche quando gli altri partirono, Pasotti restò a confabula-re con la nonna e che c'era anche il Bellini. Bellini eraarrivato il 15 stesso, da Brescia. Probabilmente avevarecati i denari per te.

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il 16 ho creduto che avesse le cinquecento svanziche egli ho detto senz'altro che andavo a preparargli la rice-vuta. Allora il gentilissimo signor Bellini mi disse che laricevuta mia non gli poteva bastare. «Come», rispondo,«se Le è bastata il 16 marzo?» «Ma!», dice. «I miei or-dini!» «Ma Franco non c'è.» «Lo so.» «E allora, cosa èvenuto a fare?» «Sono venuto a dirle che il signor donFranco, per avere il denaro deve presentarsi all'agenziadella signora marchesa in Brescia.» «E se non potesseandare a Brescia?» Qui il signor Bellini fece un gestocome per dire: pensateci voi. Io gli risposi che andavabene, gli feci portare il caffè e gli dissi che avrei deside-rato comperare dalla signora marchesa le librerie del tuoantico studio di Cressogno. Il Bellini diventò giallo epartì mogio mogio come il nostro vecchio cane Patò dicasa Rigey quando aveva rubato.

È certo che in questa immondizia vi ha un dito del si-gnor Pasotti.

Ieri è venuto qua il prefetto della Caravina e ha raccon-tato che il 14 sera Pasotti è andato a Cressogno assai tar-di ed è capitato in casa della nonna mentre si diceva ilrosario, per cui gli toccò pure di rosarieggiare. Questofaceva ridere il prefetto; secondo lui il Pasotti va a mes-sa perché è I. R. pensionato ma di preghiere dice solo«el Patèr d'i ratt», che io non so cosa sia. Soggiunse poiche quando gli altri partirono, Pasotti restò a confabula-re con la nonna e che c'era anche il Bellini. Bellini eraarrivato il 15 stesso, da Brescia. Probabilmente avevarecati i denari per te.

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Fino all'ottobre, quando arriverà il denaro tuo, c'è davivere. Altro non dico.

Il ciclamino che troverai qui dentro te lo manda Maria.Devo pure raccontarti questa cosa! Puoi pensare in qua-le stato d'animo ella mi vede. Mi ode anche spesso di-scorrere dell'argomento con lo zio. Lo zio è sempre lozio. In vita sua ha solamente giudicato birbanti quegliappaltatori che gli offrivano quattrini e un altro zio, ilsuo antipodo, che dopo di essersi servito del nipote peranni, non gli ha lasciato un fico secco. Altri birbanti nonha mai voluto vedere e neanche adesso vuol vederne.Ora, quando io discorro con lui, Maria vorrebbe ascolta-re sempre. Io la mando via ma poi tante volte mi accor-go che piano piano ritorna. Stamattina si mette a recitarele sue orazioni. Oh, Franco, tua figlia è ben religiosa nelsenso tuo! L'ultima che recita è il requiem per la poveranonna Teresa. «Mamma», dice allora, «voglio recitare ilrequiem anche per la nonna di Cressogno.» Ho rispostoquel che ho risposto, parole amare; avrò fatto anchemale, se vuoi, lo confesso. Maria mi guarda e fa: «Èproprio cattiva la nonna di Cressogno?». «Sì.» «E per-ché lo zio dice che non è proprio cattiva?» «Perché lozio è tanto buono.» «E tu, allora, non sei mica tantobuona?» Cara la mia innocente, me la mangiai di baci,non ne potei proprio a meno. Appena fu libera di parla-re, riprese subito: «Non vai mica, sai, in Paradiso, senon sei tanto buona». Quella del Paradiso è la sua fissa-zione. Povero Franco, non averla con te, tu che saresticosì contento di lei! Fai un gran sacrificio! Se ti può far

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Fino all'ottobre, quando arriverà il denaro tuo, c'è davivere. Altro non dico.

Il ciclamino che troverai qui dentro te lo manda Maria.Devo pure raccontarti questa cosa! Puoi pensare in qua-le stato d'animo ella mi vede. Mi ode anche spesso di-scorrere dell'argomento con lo zio. Lo zio è sempre lozio. In vita sua ha solamente giudicato birbanti quegliappaltatori che gli offrivano quattrini e un altro zio, ilsuo antipodo, che dopo di essersi servito del nipote peranni, non gli ha lasciato un fico secco. Altri birbanti nonha mai voluto vedere e neanche adesso vuol vederne.Ora, quando io discorro con lui, Maria vorrebbe ascolta-re sempre. Io la mando via ma poi tante volte mi accor-go che piano piano ritorna. Stamattina si mette a recitarele sue orazioni. Oh, Franco, tua figlia è ben religiosa nelsenso tuo! L'ultima che recita è il requiem per la poveranonna Teresa. «Mamma», dice allora, «voglio recitare ilrequiem anche per la nonna di Cressogno.» Ho rispostoquel che ho risposto, parole amare; avrò fatto anchemale, se vuoi, lo confesso. Maria mi guarda e fa: «Èproprio cattiva la nonna di Cressogno?». «Sì.» «E per-ché lo zio dice che non è proprio cattiva?» «Perché lozio è tanto buono.» «E tu, allora, non sei mica tantobuona?» Cara la mia innocente, me la mangiai di baci,non ne potei proprio a meno. Appena fu libera di parla-re, riprese subito: «Non vai mica, sai, in Paradiso, senon sei tanto buona». Quella del Paradiso è la sua fissa-zione. Povero Franco, non averla con te, tu che saresticosì contento di lei! Fai un gran sacrificio! Se ti può far

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piacere ti dirò che la sola possibilità per me di amare Id-dio la trovo in questa bambina perché in essa Iddio midiventa visibile, intelligibile.

Addio, Franco; ti abbraccio

Luisa

P.S. Sappi che ho licenziato la Veronica per il 1° otto-bre. Per economia, prima; e poi perché mi sono accortache fa all'amore con una guardia di finanza. Oh, miscordavo quest'altra! Mezz'ora fa è venuta Ester a dirmiche si è decisa per il sì ma che desidera di aspettare an-cora un giorno a vedere il professore. Si capisce che ilnaso è inghiottito ma non ancora passato giù nello sto-maco.

Franco a Luisa

Torino, 12 settembre 1855

Iersera Dina mi ha mandato al d'Angennes dove si èdata male un'opera vecchiotta che non mi garba, MarinFaliero. Aggiungi l'idea tormentosa di dover scriverel'appendice e intenderai che non è stato un invitarmi anozze. Un collega mi propose di presentarmi in un palcodov'erano due dame sfoggiatamente eleganti. Credol'abbia fatto per desiderio del Dina perché esitava, gitta-

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piacere ti dirò che la sola possibilità per me di amare Id-dio la trovo in questa bambina perché in essa Iddio midiventa visibile, intelligibile.

Addio, Franco; ti abbraccio

Luisa

P.S. Sappi che ho licenziato la Veronica per il 1° otto-bre. Per economia, prima; e poi perché mi sono accortache fa all'amore con una guardia di finanza. Oh, miscordavo quest'altra! Mezz'ora fa è venuta Ester a dirmiche si è decisa per il sì ma che desidera di aspettare an-cora un giorno a vedere il professore. Si capisce che ilnaso è inghiottito ma non ancora passato giù nello sto-maco.

Franco a Luisa

Torino, 12 settembre 1855

Iersera Dina mi ha mandato al d'Angennes dove si èdata male un'opera vecchiotta che non mi garba, MarinFaliero. Aggiungi l'idea tormentosa di dover scriverel'appendice e intenderai che non è stato un invitarmi anozze. Un collega mi propose di presentarmi in un palcodov'erano due dame sfoggiatamente eleganti. Credol'abbia fatto per desiderio del Dina perché esitava, gitta-

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va qualche rapida occhiata ai miei panni i quali mostra-no aperto il canchero della borsa. Pensa se mi fu agevo-le il trarmi d'impaccio!

Panni vetusti Fedeli e frusti

vi debbo anche per questo una gratitudine che non ri-fiuto.

In teatro non si parlava che di Sebastopoli. I più credo-no che la pace non si farà, che l'Inghilterra non vorrà po-sare le armi prima d'aver levato ai russi per cin-quant'anni il prurito delle conquiste. Uscendo dal teatroudii il deputato B., un fiero avversario della spedizione,dire a qualcuno: «Hanno preso la loro tomba. Un picco-lo Napoleone, una piccola Mosca!». Io dissi forte:«Hanno preso Verona». B. mi guardò con due occhi ful-minei e io guardai lui senza abbassare i miei. Egli sistrinse nelle spalle e se n'andò. Salii nella mia soffitta emi posi a scrivere l'appendice sui margini di un giornaleonde non sciupare carta.

Scrivi, cancella, riscrivi e ricancella, ne son venuto acapo alle quattro del mattino. Qui mi dicono che i mieiperiodi hanno una forma troppo classica e che adoperotroppi vocaboli e modi toscani. «Già, Lei, col Suo Giu-sti!», mi ha detto D. Il guaio è ch'io non so scrivere unitaliano piemontese come forse piacerebbe a lui. Intantomi son buscato un bellissimo e lucentissimo scudo nuo-vo di zecca con un Vittorio Emanuele così parlante che

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va qualche rapida occhiata ai miei panni i quali mostra-no aperto il canchero della borsa. Pensa se mi fu agevo-le il trarmi d'impaccio!

Panni vetusti Fedeli e frusti

vi debbo anche per questo una gratitudine che non ri-fiuto.

In teatro non si parlava che di Sebastopoli. I più credo-no che la pace non si farà, che l'Inghilterra non vorrà po-sare le armi prima d'aver levato ai russi per cin-quant'anni il prurito delle conquiste. Uscendo dal teatroudii il deputato B., un fiero avversario della spedizione,dire a qualcuno: «Hanno preso la loro tomba. Un picco-lo Napoleone, una piccola Mosca!». Io dissi forte:«Hanno preso Verona». B. mi guardò con due occhi ful-minei e io guardai lui senza abbassare i miei. Egli sistrinse nelle spalle e se n'andò. Salii nella mia soffitta emi posi a scrivere l'appendice sui margini di un giornaleonde non sciupare carta.

Scrivi, cancella, riscrivi e ricancella, ne son venuto acapo alle quattro del mattino. Qui mi dicono che i mieiperiodi hanno una forma troppo classica e che adoperotroppi vocaboli e modi toscani. «Già, Lei, col Suo Giu-sti!», mi ha detto D. Il guaio è ch'io non so scrivere unitaliano piemontese come forse piacerebbe a lui. Intantomi son buscato un bellissimo e lucentissimo scudo nuo-vo di zecca con un Vittorio Emanuele così parlante che

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potrebbe farvi svenire dalla commozione, come svenneier l'altro all'hôtel della Liguria una signora veneta ve-dendo passare alla testa d'una colonna di fanteria il ge-nerale Giannotti che scambiò, in grazia de' baffi maiu-scoli, per il Re. Io serberò lo scudo, ve lo porterò a Lu-gano, tu lo porrai da parte e sarà la prima pietra delladote di Ombretta. Va bene? L'idea me n'è venuta per unsogno che feci stamattina, appena addormentato, nell'orain cui l'anima

Alle sue visïon quasi è divina.

Sognai ch'era nella chiesa di S. Sebastiano di Oria, conte e Maria, grande, bella, vestita da sposa; che lo sposoera Michele Steno e che lo zio Piero si stava mettendocotta e stola per celebrar lui il matrimonio e che MicheleSteno si alzò dall'inginocchiatoio per venirmi a dire:«Sì, tutto va bene, ma e la dote, e la dote?».

Maria mia dolcissima, verrà pure per te il gran giornodella dote; quand'anche tu tenessi allora in serbo moltipezzi d'oro sopra lo scudo d'argento, avresti tuttavia loscudo più caro!

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potrebbe farvi svenire dalla commozione, come svenneier l'altro all'hôtel della Liguria una signora veneta ve-dendo passare alla testa d'una colonna di fanteria il ge-nerale Giannotti che scambiò, in grazia de' baffi maiu-scoli, per il Re. Io serberò lo scudo, ve lo porterò a Lu-gano, tu lo porrai da parte e sarà la prima pietra delladote di Ombretta. Va bene? L'idea me n'è venuta per unsogno che feci stamattina, appena addormentato, nell'orain cui l'anima

Alle sue visïon quasi è divina.

Sognai ch'era nella chiesa di S. Sebastiano di Oria, conte e Maria, grande, bella, vestita da sposa; che lo sposoera Michele Steno e che lo zio Piero si stava mettendocotta e stola per celebrar lui il matrimonio e che MicheleSteno si alzò dall'inginocchiatoio per venirmi a dire:«Sì, tutto va bene, ma e la dote, e la dote?».

Maria mia dolcissima, verrà pure per te il gran giornodella dote; quand'anche tu tenessi allora in serbo moltipezzi d'oro sopra lo scudo d'argento, avresti tuttavia loscudo più caro!

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Il Fante di bastoni è in pericolo di essere licenziato dalsuo principale per le condizioni veramente miserevolidel suo vestito. Il Fante è per verità uno sciupone e nonha ancora appreso, duris in rebus, a maneggiare unaspazzola; ma insomma gli altri sapienti hanno decisoche non faranno colazione per una settimana ond'egli sipossa rimpannucciare. Vedi bassezza del cuore umano!Il Fante si è sbracciato a ringraziare e poi si disponeva afar colazione lui, come se nulla fosse. Questogliel'abbiamo proibito. Così oggi invece di andar al«Mal de stomi» passammo una mezz'oretta sulla via delPo, verso il Valentino, a veder l'acqua scendere. L'Udi-nese portò seco il flauto, perché ad una colazione idealedove si offrivano le più trimalcioniane idee di cibi e dibevande, la musica non poteva mancare. Egli aveva unalettera de' suoi con magnifiche proposte di ritornoall'ovile. Persino il cavallo da sella gli offrono. Ci narròdi avere risposto che lo vedranno presto arrivare sopraun cavallo del Re Vittorio Emanuele. Allora il Padova-no, gran motteggiatore, gli ha detto con tutta flemma:«Ciò, eroe, sonistu anca el trombon, ti?». (Vedi chet'imito, poiché la ferula de' pedanti mi è lontana, nelletue scandalose familiarità col dialetto.) L'Udinese si èarrabbiato alquanto ma poi vi ha fatto su la sua bravasonatina di flauto. Il fatto strano è che nessuno di noi hasentito fame. Però, levando la seduta, abbiamo decisoche l'abbigliamento del Fante verrà semplificato ech'egli potrà benissimo fare a meno del giustacuore, mo-dernamente detto sottoveste.

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Il Fante di bastoni è in pericolo di essere licenziato dalsuo principale per le condizioni veramente miserevolidel suo vestito. Il Fante è per verità uno sciupone e nonha ancora appreso, duris in rebus, a maneggiare unaspazzola; ma insomma gli altri sapienti hanno decisoche non faranno colazione per una settimana ond'egli sipossa rimpannucciare. Vedi bassezza del cuore umano!Il Fante si è sbracciato a ringraziare e poi si disponeva afar colazione lui, come se nulla fosse. Questogliel'abbiamo proibito. Così oggi invece di andar al«Mal de stomi» passammo una mezz'oretta sulla via delPo, verso il Valentino, a veder l'acqua scendere. L'Udi-nese portò seco il flauto, perché ad una colazione idealedove si offrivano le più trimalcioniane idee di cibi e dibevande, la musica non poteva mancare. Egli aveva unalettera de' suoi con magnifiche proposte di ritornoall'ovile. Persino il cavallo da sella gli offrono. Ci narròdi avere risposto che lo vedranno presto arrivare sopraun cavallo del Re Vittorio Emanuele. Allora il Padova-no, gran motteggiatore, gli ha detto con tutta flemma:«Ciò, eroe, sonistu anca el trombon, ti?». (Vedi chet'imito, poiché la ferula de' pedanti mi è lontana, nelletue scandalose familiarità col dialetto.) L'Udinese si èarrabbiato alquanto ma poi vi ha fatto su la sua bravasonatina di flauto. Il fatto strano è che nessuno di noi hasentito fame. Però, levando la seduta, abbiamo decisoche l'abbigliamento del Fante verrà semplificato ech'egli potrà benissimo fare a meno del giustacuore, mo-dernamente detto sottoveste.

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Ah noi faremmo a meno anche del pranzo per poterpassare il Ticino col Re nell'aprile del 1856! Ne parlava-mo tornando in città dalla colazione ideale. Il Padovanoha osservato che in aprile l'acqua è troppo fredda e chesarebbe meglio aspettare fino a giugno. Si diceva chegran cosa sarà l'Italia senza tedeschi. Ti assicuro ch'era-vamo tutti entusiasti malgrado il vuoto dello stomaco.Tutti meno il Padovano, sempre; del quale va pur detto,a sua scusa, che patisce la fame, o quasi, per non vedereaustriaci, e che quantunque bussi all'uscio de' quarantasi batterà meglio di qualche giovane che adesso si man-gia un caiserlicchio a colazione e due a pranzo. Egli cre-de che torneremo un paese di cani e gatti. «Per esem-pio», diceva, «intendiamoci bene. Partiti i tedeschi, cia-scuno a casa sua e guai a voi se venite a rompermi lescatole a Padova!». Mi pareva di udire lo zio Piero,quando noi pure, a Oria, s'è parlato della grandezza, del-lo splendore futuro d'Italia. «Eh sì sì!», diceva. «Eh sìsì! Il lago diventerà di latte e miele e la Galbiga de for-magg de grana!»

Vedremo, vedremo!

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La tua lettera mi suscita un tumulto di sentimenti che

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Ah noi faremmo a meno anche del pranzo per poterpassare il Ticino col Re nell'aprile del 1856! Ne parlava-mo tornando in città dalla colazione ideale. Il Padovanoha osservato che in aprile l'acqua è troppo fredda e chesarebbe meglio aspettare fino a giugno. Si diceva chegran cosa sarà l'Italia senza tedeschi. Ti assicuro ch'era-vamo tutti entusiasti malgrado il vuoto dello stomaco.Tutti meno il Padovano, sempre; del quale va pur detto,a sua scusa, che patisce la fame, o quasi, per non vedereaustriaci, e che quantunque bussi all'uscio de' quarantasi batterà meglio di qualche giovane che adesso si man-gia un caiserlicchio a colazione e due a pranzo. Egli cre-de che torneremo un paese di cani e gatti. «Per esem-pio», diceva, «intendiamoci bene. Partiti i tedeschi, cia-scuno a casa sua e guai a voi se venite a rompermi lescatole a Padova!». Mi pareva di udire lo zio Piero,quando noi pure, a Oria, s'è parlato della grandezza, del-lo splendore futuro d'Italia. «Eh sì sì!», diceva. «Eh sìsì! Il lago diventerà di latte e miele e la Galbiga de for-magg de grana!»

Vedremo, vedremo!

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La tua lettera mi suscita un tumulto di sentimenti che

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non si scrivono.Mi addolorano, senza dubbio, l'atto della nonna e la

obliqua malevolenza del Pasotti ma più mi affligge losdegno tuo troppo forte. Quando un mio procuratore sipresenterà a Brescia, il pagamento non potrà venire ri-fiutato. È vero, tu sei donna e non hai l'obbligo di cono-scere queste cose. Anche la collera ti perdono poichéfreddo non rimasi nemmeno io, da principio. Quindi mison detto: Di che ti sdegni e che ti sorprende? Non co-noscevi tu quel malanimo e non ne avesti offese mag-giori?

Infinitamente mi rattrista che tu non abbia saputo cela-re i tuoi sentimenti a Maria, infinitamente mi commuo-ve che tu ne sia pentita e infinitamente mi consola chetu ami il Signore nella bambina, che tu me lo scriva. Adir vero, cara, non dovrei appagarmene così perché adamare Iddio ne invitano i cieli e la terra ed Egli ci è visi-bile in ogni luce, intelligibile in ogni vero! Ma insommatu incominci a udire la voce Sua! Nelle mie lettere nonho mai toccato questo punto per sentirmi troppo inetto aparlartene degnamente, efficacemente. E ora lascio cheIddio ti parli nella bambina, torno nel mio silenzio. Sap-pi soltanto che ascolto palpitante, che prego e spero.

Posso io dirti quello che sento per Maria? Chi potrebbedire questa commozione, questa tenerezza immensa,questo desiderio che mi strugge di tenermela almeno unmomento, un solo momento, sul cuore? Credi tu che iopossa attendere fino a novembre? No no no, scriverò ap-pendici, copierò, monterò qualche guardia per altri ma

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non si scrivono.Mi addolorano, senza dubbio, l'atto della nonna e la

obliqua malevolenza del Pasotti ma più mi affligge losdegno tuo troppo forte. Quando un mio procuratore sipresenterà a Brescia, il pagamento non potrà venire ri-fiutato. È vero, tu sei donna e non hai l'obbligo di cono-scere queste cose. Anche la collera ti perdono poichéfreddo non rimasi nemmeno io, da principio. Quindi mison detto: Di che ti sdegni e che ti sorprende? Non co-noscevi tu quel malanimo e non ne avesti offese mag-giori?

Infinitamente mi rattrista che tu non abbia saputo cela-re i tuoi sentimenti a Maria, infinitamente mi commuo-ve che tu ne sia pentita e infinitamente mi consola chetu ami il Signore nella bambina, che tu me lo scriva. Adir vero, cara, non dovrei appagarmene così perché adamare Iddio ne invitano i cieli e la terra ed Egli ci è visi-bile in ogni luce, intelligibile in ogni vero! Ma insommatu incominci a udire la voce Sua! Nelle mie lettere nonho mai toccato questo punto per sentirmi troppo inetto aparlartene degnamente, efficacemente. E ora lascio cheIddio ti parli nella bambina, torno nel mio silenzio. Sap-pi soltanto che ascolto palpitante, che prego e spero.

Posso io dirti quello che sento per Maria? Chi potrebbedire questa commozione, questa tenerezza immensa,questo desiderio che mi strugge di tenermela almeno unmomento, un solo momento, sul cuore? Credi tu che iopossa attendere fino a novembre? No no no, scriverò ap-pendici, copierò, monterò qualche guardia per altri ma

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verrò a Lugano prima! Coprila di baci per me, intanto,dille che Papà ha sempre nel cuore la sua Ombretta eche la benedice, domandale cosa le farebbe piacere ch'iole portassi e poi scrivimelo senza pensar poi troppo allamia povertà.

Ti abbraccio, Luisa mia, con l'anima.

Franco

Luisa a Franco

24 settembre 1855

Finalmente! Da quando sei partito io desiderai sempre,che tu toccassi quel punto. Come mi sarò spiegata, quel-la notte, nella mia commozione dolorosa? Come miavrai inteso tu nella tua? Da mesi e mesi sento il biso-gno di parlarne con te e non l'ho fatto mai per mancanzadi coraggio.

Vedi, per esempio. Tu mi hai accusata d'orgoglio, quel-la notte. Ti supplico di credere che non sono orgogliosa;non posso neanche comprendere un'accusa simile!

Mi par di capire dalla tua lettera che tu mi supponga ri-tornata alla fede in Dio. Ma t'ho io mai detto di non cre-dere in Dio? Non posso averti detto questo perché lastoria de' pensieri miei mi è tutta scritta nella mente, e lospavento, l'angoscioso pensiero di non poter forse più

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verrò a Lugano prima! Coprila di baci per me, intanto,dille che Papà ha sempre nel cuore la sua Ombretta eche la benedice, domandale cosa le farebbe piacere ch'iole portassi e poi scrivimelo senza pensar poi troppo allamia povertà.

Ti abbraccio, Luisa mia, con l'anima.

Franco

Luisa a Franco

24 settembre 1855

Finalmente! Da quando sei partito io desiderai sempre,che tu toccassi quel punto. Come mi sarò spiegata, quel-la notte, nella mia commozione dolorosa? Come miavrai inteso tu nella tua? Da mesi e mesi sento il biso-gno di parlarne con te e non l'ho fatto mai per mancanzadi coraggio.

Vedi, per esempio. Tu mi hai accusata d'orgoglio, quel-la notte. Ti supplico di credere che non sono orgogliosa;non posso neanche comprendere un'accusa simile!

Mi par di capire dalla tua lettera che tu mi supponga ri-tornata alla fede in Dio. Ma t'ho io mai detto di non cre-dere in Dio? Non posso averti detto questo perché lastoria de' pensieri miei mi è tutta scritta nella mente, e lospavento, l'angoscioso pensiero di non poter forse più

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credere in Dio mi son venuti dopo la tua partenza; ne soil giorno e l'ora. Avevo udito parlare a S. Mamette di ungran pranzo dato da tua nonna a Brescia e io non potevoassolutamente procurare al nostro diletto zio quel regi-me di cibi e di vino che il medico, temendo per l'occhiodestro, prescriveva. Ho lottato con quelle tenebre spa-ventose, Franco, e ho vinto. È vero, la vittoria è in granparte della nostra Maria. Vorrei dire che se tante nerenuvole mi nascondono l'esistenza di una Giustizia Supe-riore, me ne trapela però un raggio in Maria; e questoraggio mi fa credere e mi fa sperare nell'Astro. Perchésarebbe orribile che l'universo non avesse un governo digiustizia!

Quella notte, dunque, io ti ho potuto solamente direche intendevo la religione in un modo diverso da te, chegli atti di fede cristiana e le preghiere non mi parevanoessenziali all'idea religiosa ma l'amore e l'azione perquelli che soffrono, sì! Ma lo sdegno e l'azione controcoloro che fanno soffrire, sì!

E tu vuoi ritornare nel tuo silenzio? Ma no, non lodevi. Ti senti debole, dici. Debole te o il tuo Credo? Ra-gioniamo, discutiamo. Confessa che voialtri credentiamate le vostre credenze anche perché sono un comodoriposo dell'intelletto. Vi adagiate in esse come inun'amaca sospesa in aria per tante fila lavorate dagli uo-mini, annodate dagli uomini a diversi uncini. Voi vi statebene e se si va tentando, saggiando con la mano ancheuno solo di questi fili, ve ne turbate e avete paura che sispezzi, perché poi molto facilmente si spezzerà il suo vi-

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credere in Dio mi son venuti dopo la tua partenza; ne soil giorno e l'ora. Avevo udito parlare a S. Mamette di ungran pranzo dato da tua nonna a Brescia e io non potevoassolutamente procurare al nostro diletto zio quel regi-me di cibi e di vino che il medico, temendo per l'occhiodestro, prescriveva. Ho lottato con quelle tenebre spa-ventose, Franco, e ho vinto. È vero, la vittoria è in granparte della nostra Maria. Vorrei dire che se tante nerenuvole mi nascondono l'esistenza di una Giustizia Supe-riore, me ne trapela però un raggio in Maria; e questoraggio mi fa credere e mi fa sperare nell'Astro. Perchésarebbe orribile che l'universo non avesse un governo digiustizia!

Quella notte, dunque, io ti ho potuto solamente direche intendevo la religione in un modo diverso da te, chegli atti di fede cristiana e le preghiere non mi parevanoessenziali all'idea religiosa ma l'amore e l'azione perquelli che soffrono, sì! Ma lo sdegno e l'azione controcoloro che fanno soffrire, sì!

E tu vuoi ritornare nel tuo silenzio? Ma no, non lodevi. Ti senti debole, dici. Debole te o il tuo Credo? Ra-gioniamo, discutiamo. Confessa che voialtri credentiamate le vostre credenze anche perché sono un comodoriposo dell'intelletto. Vi adagiate in esse come inun'amaca sospesa in aria per tante fila lavorate dagli uo-mini, annodate dagli uomini a diversi uncini. Voi vi statebene e se si va tentando, saggiando con la mano ancheuno solo di questi fili, ve ne turbate e avete paura che sispezzi, perché poi molto facilmente si spezzerà il suo vi-

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cino e dopo questo un altro e tutto il vostro letto fragilerovinerà dall'aria in terra con vostro spavento e dolore.Conosco questo spavento e questo dolore, so che si pagacosì la compiacenza di camminar poi sul solido e perciònon mi trattiene dal discutere teco una pietà che sarebbefalsa. Ma forse mi inganno e sarai tu che mi solleverai ate nel tuo letto di fragili fili e d'aria. Maria non può fartanto. Se Maria mi fa credere in Dio non vuol dire chepossa farmi credere anche nella Chiesa. E tu credi sopratutto nella Chiesa, tu! Cerca di persuadermi dunque e iopure ti ascolterò palpitando; e se non prego, almeno spe-ro, perché adesso più che mai desidero pienamente unir-mi a te. Adesso con l'antico affetto sento per teun'ammirazione nuova, una gratitudine nuova.

Ti offenderai di questo mio sfogo? Pensa che otto mesisono devi aver trovato una mia lettera nella tua borsa daviaggio e che da otto mesi aspettavo risposta!

Il professore ed Ester si vedono in casa nostra, oramaicome fidanzati. Quelli son felici, almeno. Ella va inchiesa, egli non ci va, e né l'uno né l'altro si danno pen-siero di ciò più che del colore diverso de' loro capelli. Ecosì fanno novecentonovantanove sposi su mille, credo!

Ti abbraccio. Scrivi a lungo, a lungo.

Luisa

Questa lettera non partì da Lugano che il 26 settembree Franco l'ebbe il 27. Il 29, alle otto della mattina, rice-

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cino e dopo questo un altro e tutto il vostro letto fragilerovinerà dall'aria in terra con vostro spavento e dolore.Conosco questo spavento e questo dolore, so che si pagacosì la compiacenza di camminar poi sul solido e perciònon mi trattiene dal discutere teco una pietà che sarebbefalsa. Ma forse mi inganno e sarai tu che mi solleverai ate nel tuo letto di fragili fili e d'aria. Maria non può fartanto. Se Maria mi fa credere in Dio non vuol dire chepossa farmi credere anche nella Chiesa. E tu credi sopratutto nella Chiesa, tu! Cerca di persuadermi dunque e iopure ti ascolterò palpitando; e se non prego, almeno spe-ro, perché adesso più che mai desidero pienamente unir-mi a te. Adesso con l'antico affetto sento per teun'ammirazione nuova, una gratitudine nuova.

Ti offenderai di questo mio sfogo? Pensa che otto mesisono devi aver trovato una mia lettera nella tua borsa daviaggio e che da otto mesi aspettavo risposta!

Il professore ed Ester si vedono in casa nostra, oramaicome fidanzati. Quelli son felici, almeno. Ella va inchiesa, egli non ci va, e né l'uno né l'altro si danno pen-siero di ciò più che del colore diverso de' loro capelli. Ecosì fanno novecentonovantanove sposi su mille, credo!

Ti abbraccio. Scrivi a lungo, a lungo.

Luisa

Questa lettera non partì da Lugano che il 26 settembree Franco l'ebbe il 27. Il 29, alle otto della mattina, rice-

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vette il seguente telegramma pure da Lugano:

Bambina malata gravemente. Vieni subito.

Zio

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vette il seguente telegramma pure da Lugano:

Bambina malata gravemente. Vieni subito.

Zio

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10.Esüsmaria, sciora Lüisa!

Nelle prime ore pomeridiane del 27 settembre Luisa ri-tornava da Porlezza con alcune carte da copiare per ilnotaio. In quel tempo gli scogli fra San Michele e Por-lezza erano affatto selvaggi, non avevano la sottile bri-glia che ora li doma. Luisa s'era fatta tragittare in barcaper quel breve tratto e poi aveva preso, a piedi, la stra-dicciuola che, come tutte quelle del mio piccolo mondo,antico e moderno, non comporta altri metodi di viaggia-re; la stradicciuola graziosa e perfida che cerca ognimezzo di non arrivar mai dove il viandante vorrebbe. ACressogno passa sopra la villa Maironi che nemmancosi vede.

«Se la incontrassi!», pensava Luisa con un ribollimen-to del sangue; ma non incontrò nessuno. Sull'erta daCressogno al Campò il sole bruciava. Quando si trovònel fresco, alto vallone che chiamano il Campò, sedetteall'ombra del colossale castagno che vive ancora, ultimodi tre o quattro venerabili patriarchi. Guardava le casedel suo nativo Castello appollaiate a tondo sopra un altospuntone di scogli ombrosi e pensava alla povera mam-ma compiacendosi che almeno ella fosse in pace, quan-do sentì esclamare: «Oh, cara Madonna!». Era la süraPeppina che veniva pure da Cressogno, disperata di non

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10.Esüsmaria, sciora Lüisa!

Nelle prime ore pomeridiane del 27 settembre Luisa ri-tornava da Porlezza con alcune carte da copiare per ilnotaio. In quel tempo gli scogli fra San Michele e Por-lezza erano affatto selvaggi, non avevano la sottile bri-glia che ora li doma. Luisa s'era fatta tragittare in barcaper quel breve tratto e poi aveva preso, a piedi, la stra-dicciuola che, come tutte quelle del mio piccolo mondo,antico e moderno, non comporta altri metodi di viaggia-re; la stradicciuola graziosa e perfida che cerca ognimezzo di non arrivar mai dove il viandante vorrebbe. ACressogno passa sopra la villa Maironi che nemmancosi vede.

«Se la incontrassi!», pensava Luisa con un ribollimen-to del sangue; ma non incontrò nessuno. Sull'erta daCressogno al Campò il sole bruciava. Quando si trovònel fresco, alto vallone che chiamano il Campò, sedetteall'ombra del colossale castagno che vive ancora, ultimodi tre o quattro venerabili patriarchi. Guardava le casedel suo nativo Castello appollaiate a tondo sopra un altospuntone di scogli ombrosi e pensava alla povera mam-ma compiacendosi che almeno ella fosse in pace, quan-do sentì esclamare: «Oh, cara Madonna!». Era la süraPeppina che veniva pure da Cressogno, disperata di non

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aver potuto trovare uova né a S. Mamette né a Loggioné a Cressogno. «Adess el me coppa, el Carlo! El memazza addirittura, cara Lee!» Avrebbe voluto andare an-che a Puria, ma era mezza morta di stanchezza. Chepaesi da cani! Che strade! Quanti sassi! «Quand pensi alme Milan, cara Lee!» Sedette anche lei sull'erba pressoLuisa, le disse un mondo di tenerezze e volle che indo-vinasse con chi avesse parlato di lei, allora allora. Macon la signora marchesa! Ma sicuro! «Ah cara Lee!S'ciao!» Pareva che la Peppina avesse gran cose a dire enon osasse e ne provasse una molestia in gola, volessepur farsele strappare. «Che roba!», esclamava ogni tanto«Che roba! Che discors! S'ciao, s'ciao!» Luisa tacevasempre. Allora l'altra cedette a quel gran prurito e buttòfuori ogni cosa. Era andata dal cuoco della signora mar-chesa, per farsi prestare delle uova, e la signora marche-sa, udita la sua voce, aveva voluto assolutamente veder-la, trattenerla a chiacchierare, e lei si era sentita nel cuo-re come una ispirazione del cielo che le diceva: Parla diquella povera gente! Forse è il momento buono. Parladella Maria, «de quel car belee, de quel car ratin, dequel car strafoi!». Ah era stata una ispirazione del dia-volo e non del cielo. Aveva cominciato a parlarne, vole-va dire quanto era bella, quanto era cara, e quella granmeraviglia di un gran talento così spropositato; e lei, labruttona, con una faccia «che ghe disi nagòtt», a inter-rompere: «Lasci stare, signora Bianconi; so ch'è moltomale educata e altro non può essere». Aveva provato al-lora a toccare un altro tasto, la disgrazia del signor inge-

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aver potuto trovare uova né a S. Mamette né a Loggioné a Cressogno. «Adess el me coppa, el Carlo! El memazza addirittura, cara Lee!» Avrebbe voluto andare an-che a Puria, ma era mezza morta di stanchezza. Chepaesi da cani! Che strade! Quanti sassi! «Quand pensi alme Milan, cara Lee!» Sedette anche lei sull'erba pressoLuisa, le disse un mondo di tenerezze e volle che indo-vinasse con chi avesse parlato di lei, allora allora. Macon la signora marchesa! Ma sicuro! «Ah cara Lee!S'ciao!» Pareva che la Peppina avesse gran cose a dire enon osasse e ne provasse una molestia in gola, volessepur farsele strappare. «Che roba!», esclamava ogni tanto«Che roba! Che discors! S'ciao, s'ciao!» Luisa tacevasempre. Allora l'altra cedette a quel gran prurito e buttòfuori ogni cosa. Era andata dal cuoco della signora mar-chesa, per farsi prestare delle uova, e la signora marche-sa, udita la sua voce, aveva voluto assolutamente veder-la, trattenerla a chiacchierare, e lei si era sentita nel cuo-re come una ispirazione del cielo che le diceva: Parla diquella povera gente! Forse è il momento buono. Parladella Maria, «de quel car belee, de quel car ratin, dequel car strafoi!». Ah era stata una ispirazione del dia-volo e non del cielo. Aveva cominciato a parlarne, vole-va dire quanto era bella, quanto era cara, e quella granmeraviglia di un gran talento così spropositato; e lei, labruttona, con una faccia «che ghe disi nagòtt», a inter-rompere: «Lasci stare, signora Bianconi; so ch'è moltomale educata e altro non può essere». Aveva provato al-lora a toccare un altro tasto, la disgrazia del signor inge-

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gnere rimasto cieco d'un occhio. E la marchesa: «Quan-do non si è onesti, signora Bianconi, il Signore castiga».Qui la Peppina, guardando Luisa, si pentì delle suechiacchiere, si pose ad accarezzarla, ad accusarsi d'averparlato, a dirle che si desse pace. Luisa l'assicurò ch'eratranquillissima, che di nulla si sorprendeva più da partedi quella persona. La Peppina volle ad ogni modo darleun bacio e partì brontolando fra sé molti «poer a mi!»col vago sospetto di aver fatto, senza uova, una granfrittata.

Luisa si alzò, si voltò a guardar verso Cressogno strin-gendo il pugno. «Almeno uno scudiscio!», pensò. «Al-meno frustarla!» L'idea di un incontro, la vecchia ideache l'aveva fatta balzar di passione quattro anni prima lasera del funerale di sua madre, la stessa idea che le erabalenata testé, nel passar da Cressogno, la riafferrò vio-lenta, le fece dare un passo verso la discesa. Si fermòsubito e ritornò lentamente indietro, si avviò verso S.Mamette, arrestandosi ogni tanto a riflettere, con lafronte scura e le labbra strette, a sciogliere qualche nodonella fila di una tela che veniva tessendo nel suo segre-to.

A Casarico andò dal professore per offrirgli un ritrovoa casa sua con la fidanzata per l'indomani alle due. Nelcongedarsi gli domandò se possedesse ancora le carteMaironi. Il professore, meravigliato della domanda inat-tesa, rispose di sì e ne aspettava una spiegazione; maLuisa partì senz'altro. Le premeva di esser a casa, non

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gnere rimasto cieco d'un occhio. E la marchesa: «Quan-do non si è onesti, signora Bianconi, il Signore castiga».Qui la Peppina, guardando Luisa, si pentì delle suechiacchiere, si pose ad accarezzarla, ad accusarsi d'averparlato, a dirle che si desse pace. Luisa l'assicurò ch'eratranquillissima, che di nulla si sorprendeva più da partedi quella persona. La Peppina volle ad ogni modo darleun bacio e partì brontolando fra sé molti «poer a mi!»col vago sospetto di aver fatto, senza uova, una granfrittata.

Luisa si alzò, si voltò a guardar verso Cressogno strin-gendo il pugno. «Almeno uno scudiscio!», pensò. «Al-meno frustarla!» L'idea di un incontro, la vecchia ideache l'aveva fatta balzar di passione quattro anni prima lasera del funerale di sua madre, la stessa idea che le erabalenata testé, nel passar da Cressogno, la riafferrò vio-lenta, le fece dare un passo verso la discesa. Si fermòsubito e ritornò lentamente indietro, si avviò verso S.Mamette, arrestandosi ogni tanto a riflettere, con lafronte scura e le labbra strette, a sciogliere qualche nodonella fila di una tela che veniva tessendo nel suo segre-to.

A Casarico andò dal professore per offrirgli un ritrovoa casa sua con la fidanzata per l'indomani alle due. Nelcongedarsi gli domandò se possedesse ancora le carteMaironi. Il professore, meravigliato della domanda inat-tesa, rispose di sì e ne aspettava una spiegazione; maLuisa partì senz'altro. Le premeva di esser a casa, non

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potendo far conto per la custodia di Maria né sullo zioné sulla Cia e fidandosi poco della servetta licenziata.Trovò la Maria sul sagrato, sola, e sgridò la Veronica.Poi andò in camera, si pose a scrivere a Franco.

Scriveva da cinque minuti quando udì un bussar legge-ro alla finestra dello stanzino attiguo. Quella finestraguarda sopra una scaletta che mette dal sagrato a certestalle e quindi ad una scorciatoia per Albogasio Superio-re. Luisa andò nello stanzino e vide all'inferriata il visorosso, scalmanato della Pasotti che le fece segno di tace-re e le domandò se avesse visite. Udito che no, la signo-ra Barborin diede due frettolose occhiate in alto e inbasso, corse giù per la scaletta ed entrò in casa tutta tre-pidante.

Povera donna, era in terreno proibito e non aveva inmente che lo spettro di Pasotti furibondo. Pasotti era aLugano. Oh Signore, sì, era a Lugano! Dato a Luisaquest'annuncio, la disgraziata creatura cominciò a stra-lunar gli occhi e a contorcersi. Pasotti era a Lugano peril gran pranzo dell'indomani, per le provviste. Come,Luisa non sapeva di questo pranzo? Non sapeva chi cisarebbe venuto? Ma la marchesa, la signora marchesaMaironi! Luisa trasalì.

La Pasotti fraintese l'espressione dei suoi occhi, credet-te leggervi un rimprovero e si mise a piangere con lemani sul viso, a dirsi nelle mani, scotendo quei due po-veri riccioloni neri, che ci aveva una rabbia, una rabbia!

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potendo far conto per la custodia di Maria né sullo zioné sulla Cia e fidandosi poco della servetta licenziata.Trovò la Maria sul sagrato, sola, e sgridò la Veronica.Poi andò in camera, si pose a scrivere a Franco.

Scriveva da cinque minuti quando udì un bussar legge-ro alla finestra dello stanzino attiguo. Quella finestraguarda sopra una scaletta che mette dal sagrato a certestalle e quindi ad una scorciatoia per Albogasio Superio-re. Luisa andò nello stanzino e vide all'inferriata il visorosso, scalmanato della Pasotti che le fece segno di tace-re e le domandò se avesse visite. Udito che no, la signo-ra Barborin diede due frettolose occhiate in alto e inbasso, corse giù per la scaletta ed entrò in casa tutta tre-pidante.

Povera donna, era in terreno proibito e non aveva inmente che lo spettro di Pasotti furibondo. Pasotti era aLugano. Oh Signore, sì, era a Lugano! Dato a Luisaquest'annuncio, la disgraziata creatura cominciò a stra-lunar gli occhi e a contorcersi. Pasotti era a Lugano peril gran pranzo dell'indomani, per le provviste. Come,Luisa non sapeva di questo pranzo? Non sapeva chi cisarebbe venuto? Ma la marchesa, la signora marchesaMaironi! Luisa trasalì.

La Pasotti fraintese l'espressione dei suoi occhi, credet-te leggervi un rimprovero e si mise a piangere con lemani sul viso, a dirsi nelle mani, scotendo quei due po-veri riccioloni neri, che ci aveva una rabbia, una rabbia!

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Avrebbe vissuto un anno a pane ed acqua piuttosto cheinvitar a pranzo la marchesa! Questa del pranzo era cer-to una gran croce per lei, in causa di tanti pensieri, dellafatica di preparar tante cose e delle tremende strapazzatedi Pasotti; ma la croce suprema era di far dispiacere aLuisa! Almeno fosse una croce buona da offrire al Si-gnore! Ma no, ci aveva troppa rabbia. Era venuta appo-sta per dire alla sua cara Luisa quanto soffriva per que-sto pranzo.

«Perdònem, Lüisa», diss'ella con la sua voce velata chepareva venire da una vecchia spinetta chiusa. «Ghen'impodi propri no, propri no, propri no!»

Eran sedute accanto sopra un canapè. La Pasotti si levòdi tasca un fazzolettone, se ne coperse gli occhi con unamano e con l'altra cercò, senza volgere il capo, quella diLuisa. Ma Luisa si alzò, andò alla scrivania e scrisse so-pra un pezzo di carta: "A che ora viene la marchesa?Che via tiene?". La Pasotti rispose che il pranzo era alletre e mezzo, che la marchesa doveva scendere verso letre allo sbarco della Calcinera, che Pasotti vi si sarebbetrovato a riceverla con quattro uomini e la famosa por-tantina che aveva servito nel secolo scorso per un arci-vescovo di Milano.

Luisa ascoltò attentissimamente ogni cosa, in silenzio.Prima di andarsene, la Pasotti le disse che sarebbe statafelice di baciare quel caro amore della Maria ma che te-meva non sapesse poi tacere. Qui la buona donna si cac-

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Avrebbe vissuto un anno a pane ed acqua piuttosto cheinvitar a pranzo la marchesa! Questa del pranzo era cer-to una gran croce per lei, in causa di tanti pensieri, dellafatica di preparar tante cose e delle tremende strapazzatedi Pasotti; ma la croce suprema era di far dispiacere aLuisa! Almeno fosse una croce buona da offrire al Si-gnore! Ma no, ci aveva troppa rabbia. Era venuta appo-sta per dire alla sua cara Luisa quanto soffriva per que-sto pranzo.

«Perdònem, Lüisa», diss'ella con la sua voce velata chepareva venire da una vecchia spinetta chiusa. «Ghen'impodi propri no, propri no, propri no!»

Eran sedute accanto sopra un canapè. La Pasotti si levòdi tasca un fazzolettone, se ne coperse gli occhi con unamano e con l'altra cercò, senza volgere il capo, quella diLuisa. Ma Luisa si alzò, andò alla scrivania e scrisse so-pra un pezzo di carta: "A che ora viene la marchesa?Che via tiene?". La Pasotti rispose che il pranzo era alletre e mezzo, che la marchesa doveva scendere verso letre allo sbarco della Calcinera, che Pasotti vi si sarebbetrovato a riceverla con quattro uomini e la famosa por-tantina che aveva servito nel secolo scorso per un arci-vescovo di Milano.

Luisa ascoltò attentissimamente ogni cosa, in silenzio.Prima di andarsene, la Pasotti le disse che sarebbe statafelice di baciare quel caro amore della Maria ma che te-meva non sapesse poi tacere. Qui la buona donna si cac-

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ciò mezzo il braccio sinistro in tasca, ne cavò una bar-chetta di metallo, pregò Luisa di darla alla sua figliuolanel nome di un'altra vecchia barca sdruscita che non vo-leva essere nominata. Poi scappò giù per le scale escomparve.

Luisa tornò alla lettera incominciata per Franco e dopoaver meditato lungamente con la penna in mano, la ripo-se senz'avervi scritto parola, prese le carte del notaio, simise a copiare.

A pranzo non parlò mai. Il pranzo fu triste anche per-ché la Cia fece un'osservazione inopportuna sulla man-canza di formaggio nella minestra che così non potevapiacere al suo padrone; e il suo padrone s'arrabbiò, ledisse ch'era una fatua e che se la minestra era senza for-maggio, lei era senza sale. «Già», mormorò la Cia,«s'arrabbia solo con me.» L'argomento suggeriva tantecose amare e inutili a dire che nessuno parlò più. SoloMaria uscì, dopo qualche minuto, a osservare con unapiccola aria di sapienza: «Perché non abbiamo denari,non è vero, mamma, non bisogna mettere il formaggionella minestra?». Sua madre la baciò e le disse di tacere.La piccina tacque, contenta di se stessa. La finestra eraaperta, si udirono alcune voci schiamazzar forte nellastrada verso la scalinata del Pomodoro e Luisa riconob-be quella di Pasotti che certo ritornava allora da Luganocon le provvigioni e parlava così forte apposta per farsiudire a casa Ribera.

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ciò mezzo il braccio sinistro in tasca, ne cavò una bar-chetta di metallo, pregò Luisa di darla alla sua figliuolanel nome di un'altra vecchia barca sdruscita che non vo-leva essere nominata. Poi scappò giù per le scale escomparve.

Luisa tornò alla lettera incominciata per Franco e dopoaver meditato lungamente con la penna in mano, la ripo-se senz'avervi scritto parola, prese le carte del notaio, simise a copiare.

A pranzo non parlò mai. Il pranzo fu triste anche per-ché la Cia fece un'osservazione inopportuna sulla man-canza di formaggio nella minestra che così non potevapiacere al suo padrone; e il suo padrone s'arrabbiò, ledisse ch'era una fatua e che se la minestra era senza for-maggio, lei era senza sale. «Già», mormorò la Cia,«s'arrabbia solo con me.» L'argomento suggeriva tantecose amare e inutili a dire che nessuno parlò più. SoloMaria uscì, dopo qualche minuto, a osservare con unapiccola aria di sapienza: «Perché non abbiamo denari,non è vero, mamma, non bisogna mettere il formaggionella minestra?». Sua madre la baciò e le disse di tacere.La piccina tacque, contenta di se stessa. La finestra eraaperta, si udirono alcune voci schiamazzar forte nellastrada verso la scalinata del Pomodoro e Luisa riconob-be quella di Pasotti che certo ritornava allora da Luganocon le provvigioni e parlava così forte apposta per farsiudire a casa Ribera.

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Page 364: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

Dopo pranzo lo zio Piero sedette nella sua poltrona, inloggia, e si prese Maria sulle ginocchia. Luisa uscì solain terrazza. In faccia al Bisgnago dorato dal sole, la co-stiera della Valsolda era quasi tutta nell'ombra. Lontanolontano il santuario della Caravina brillava sulla puntaverde protesa oltre i sassi del Tentiòn e gli oliveti diCressogno, fuori dell'ombra, nel lago ceruleo. Luisaguardava laggiù con una espressione di contentezza fie-ra. Ah signor Pasotti, se il vostro pranzo è una vendetta,l'avete pensata male!

La sua risoluzione era presa. Glielo offriva il destinoquesto incontro con la vecchia canaglia! Non ebbe undubbio né uno scrupolo. La passione da tanto tempoconcepita, accarezzata e covata, aveva accumulato in leiquella forza che, quando è piena, trasforma di colpo ilpensiero in atto, per modo che ne par tolta la responsa-bilità dell'agente e n'è invece solamente risospinta piùindietro, ad un primo interno moto di consenso alla ten-tazione.

Sì, l'indomani, o allo sbarco, o sulla Calcinera, o sulsagrato dell'Annunciata ell'affronterebbe la marchesa,con disprezzo, le romperebbe la guerra in faccia, la con-siglierebbe di guardarsi perché si volevano adoperarecontro di lei tutte le legittime armi. Sì, le direbbe così ecosì farebbe, da sé, da sola, poiché Franco non voleva.Se Franco aveva promesso qualche cosa, ella non avevapromesso niente. Rientrò in loggia, si mise a discorrerecon lo zio, a scherzare con Maria, più allegramente che

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Dopo pranzo lo zio Piero sedette nella sua poltrona, inloggia, e si prese Maria sulle ginocchia. Luisa uscì solain terrazza. In faccia al Bisgnago dorato dal sole, la co-stiera della Valsolda era quasi tutta nell'ombra. Lontanolontano il santuario della Caravina brillava sulla puntaverde protesa oltre i sassi del Tentiòn e gli oliveti diCressogno, fuori dell'ombra, nel lago ceruleo. Luisaguardava laggiù con una espressione di contentezza fie-ra. Ah signor Pasotti, se il vostro pranzo è una vendetta,l'avete pensata male!

La sua risoluzione era presa. Glielo offriva il destinoquesto incontro con la vecchia canaglia! Non ebbe undubbio né uno scrupolo. La passione da tanto tempoconcepita, accarezzata e covata, aveva accumulato in leiquella forza che, quando è piena, trasforma di colpo ilpensiero in atto, per modo che ne par tolta la responsa-bilità dell'agente e n'è invece solamente risospinta piùindietro, ad un primo interno moto di consenso alla ten-tazione.

Sì, l'indomani, o allo sbarco, o sulla Calcinera, o sulsagrato dell'Annunciata ell'affronterebbe la marchesa,con disprezzo, le romperebbe la guerra in faccia, la con-siglierebbe di guardarsi perché si volevano adoperarecontro di lei tutte le legittime armi. Sì, le direbbe così ecosì farebbe, da sé, da sola, poiché Franco non voleva.Se Franco aveva promesso qualche cosa, ella non avevapromesso niente. Rientrò in loggia, si mise a discorrerecon lo zio, a scherzare con Maria, più allegramente che

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non avesse fatto da molti mesi. Più tardi scrisse un bi-glietto all'amico avvocato V. pregandolo di venire appe-na gli fosse possibile. Voleva saper da lui come avrebbepotuto usare delle carte possedute dal Gilardoni. Quindisi rimise a copiare per il notaio di Porlezza. Maria nonera contenta di tanto scrivere che faceva la mamma;però, quando la mamma le disse che scriveva per mette-re il formaggio nella minestra dello zio, s'affrettò a dire:«e anche nella mia, non è vero, mamma?». Appena fuposta a letto, vedendo che la mamma tornava a scrivere,le venne in mente di chiedere se la nonna di Cressognoavesse il formaggio nella minestra. «Ne ha troppo», ri-spose Luisa, «e bisogna cavarglielo perché non le facciamale.»

«Oh no, cavarglielo, poveretta!»«Taci, dormi.»Ma la bambina non si addormentò.Dopo un pezzetto parve a Luisa di udirla piangere. Si

alzò, andò a vedere. Piangeva veramente, sottovoce.«Cos'hai?»«Il papà!», singhiozzò la povera piccina. «Il mio

papà!»«Verrà, cara, verrà presto il tuo papà. Dormi e fa un bel

sogno che viene papà insieme col Re Vittorio Emanuelee che la mamma e la Cia fanno un gran risotto, che tipiace tanto, e che tu dici: viva il Re! e che il Re dice:

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non avesse fatto da molti mesi. Più tardi scrisse un bi-glietto all'amico avvocato V. pregandolo di venire appe-na gli fosse possibile. Voleva saper da lui come avrebbepotuto usare delle carte possedute dal Gilardoni. Quindisi rimise a copiare per il notaio di Porlezza. Maria nonera contenta di tanto scrivere che faceva la mamma;però, quando la mamma le disse che scriveva per mette-re il formaggio nella minestra dello zio, s'affrettò a dire:«e anche nella mia, non è vero, mamma?». Appena fuposta a letto, vedendo che la mamma tornava a scrivere,le venne in mente di chiedere se la nonna di Cressognoavesse il formaggio nella minestra. «Ne ha troppo», ri-spose Luisa, «e bisogna cavarglielo perché non le facciamale.»

«Oh no, cavarglielo, poveretta!»«Taci, dormi.»Ma la bambina non si addormentò.Dopo un pezzetto parve a Luisa di udirla piangere. Si

alzò, andò a vedere. Piangeva veramente, sottovoce.«Cos'hai?»«Il papà!», singhiozzò la povera piccina. «Il mio

papà!»«Verrà, cara, verrà presto il tuo papà. Dormi e fa un bel

sogno che viene papà insieme col Re Vittorio Emanuelee che la mamma e la Cia fanno un gran risotto, che tipiace tanto, e che tu dici: viva il Re! e che il Re dice:

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niente affatto, viva invece Ombretta Pipì e il suo papà!Fa questo sogno, sai.»

«Sì, mamma, sì.»

L'indomani il professore Beniamino capitò a Oriaun'ora prima di quella che Luisa gli aveva indicato.Dopo il sì di Ester l'uomo era trasfigurato. Pareva moltopiù giovane di prima. Il colore giallognolo della sua pel-le, irradiato da una rosea luce interiore, era scomparsoquasi del tutto, non gli si vedeva più che sul cranio doveLuisa si attendeva che tornassero a spuntare, un giorno ol'altro, i capelli. Egli non camminava, non respirava piùcome prima. Il passo e il respiro erano sempre inquieti,nervosi, rotti da sussulti che rispondevano al balenard'immagini, Dio sa di quali immagini, sotto quel craniolucido. Gli occhi non è a dire come brillassero. Soloquando guardavano Ester si stringevano, si velavano diuna tenerezza pia, come se il professore avesse avutopaura d'incenerire la diletta saettandole addosso senzaprecauzioni tutto il fuoco dell'anima. Esser guardata aquel modo non piaceva a Ester; e Luisa, la consiglieradel professore, ebbe il coraggio di dirgli che non biso-gnava guardar la sua fidanzata stringendo gli occhicome fanno i cani affettuosi.

Il pover uomo promise che avrebbe cercato di non far-lo più e lo fece ancora. Luisa era sempre il suo nume tu-telare, l'oracolo che interrogava persino per sapere come

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niente affatto, viva invece Ombretta Pipì e il suo papà!Fa questo sogno, sai.»

«Sì, mamma, sì.»

L'indomani il professore Beniamino capitò a Oriaun'ora prima di quella che Luisa gli aveva indicato.Dopo il sì di Ester l'uomo era trasfigurato. Pareva moltopiù giovane di prima. Il colore giallognolo della sua pel-le, irradiato da una rosea luce interiore, era scomparsoquasi del tutto, non gli si vedeva più che sul cranio doveLuisa si attendeva che tornassero a spuntare, un giorno ol'altro, i capelli. Egli non camminava, non respirava piùcome prima. Il passo e il respiro erano sempre inquieti,nervosi, rotti da sussulti che rispondevano al balenard'immagini, Dio sa di quali immagini, sotto quel craniolucido. Gli occhi non è a dire come brillassero. Soloquando guardavano Ester si stringevano, si velavano diuna tenerezza pia, come se il professore avesse avutopaura d'incenerire la diletta saettandole addosso senzaprecauzioni tutto il fuoco dell'anima. Esser guardata aquel modo non piaceva a Ester; e Luisa, la consiglieradel professore, ebbe il coraggio di dirgli che non biso-gnava guardar la sua fidanzata stringendo gli occhicome fanno i cani affettuosi.

Il pover uomo promise che avrebbe cercato di non far-lo più e lo fece ancora. Luisa era sempre il suo nume tu-telare, l'oracolo che interrogava persino per sapere come

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dovesse comportarsi nei colloqui con la fidanzata. Nellasua umiltà egli era felice di venir accettato per un senti-mento di stima. Pensare ch'Ester potesse amarlo d'amoregli pareva una presunzione ridicola. Per questo egli te-meva sempre di sbagliare, con lei, di offenderla. Undubbio che lo tormentava era questo: sarebbe o non sa-rebbe da arrischiare un bacio? Appena venutogli questodubbio, l'aveva sottoposto a Luisa e Luisa, la sapienzaincarnata, gli aveva risposto: «No, adesso è troppo pre-sto. Bisogna che il primo bacio non venga né troppopresto né troppo tardi». La possibilità del «troppo tardi»parve terribile e insopportabile al professore, il quale,ne' suoi colloqui con l'oracolo, dopo averlo consultatosu cento diverse cose, capitava regolarmente ogni voltaalla domanda fatale: «E sto basìn?». Luisa in parte ci sidivertiva per la sua propensione a cogliere il comico an-che nelle persone cui voleva bene; in parte dubitavarealmente di una ripugnanza fisica che si manifestassein Ester, data l'occasione, con violenza e mandasse tuttoa monte. Ella si accorse, per fortuna, che il professorepareva sempre meno brutto alla sua fidanzata. Perciòquando lo vide comparire così per tempo, sapendo chepiù tardi lo avrebbe lasciato solo con Ester per andare aincontrar la nonna, le venne subito in mente che quellopoteva essere il giorno del «basìn». Ma il professore sipresentò tutto accigliato. Aveva cattive notizie. A SanMamette si diceva che fosse stato arrestato e condotto aComo il medico di Pellio, che gli avessero trovato lette-re e note compromettenti per altre persone fra le quali si

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dovesse comportarsi nei colloqui con la fidanzata. Nellasua umiltà egli era felice di venir accettato per un senti-mento di stima. Pensare ch'Ester potesse amarlo d'amoregli pareva una presunzione ridicola. Per questo egli te-meva sempre di sbagliare, con lei, di offenderla. Undubbio che lo tormentava era questo: sarebbe o non sa-rebbe da arrischiare un bacio? Appena venutogli questodubbio, l'aveva sottoposto a Luisa e Luisa, la sapienzaincarnata, gli aveva risposto: «No, adesso è troppo pre-sto. Bisogna che il primo bacio non venga né troppopresto né troppo tardi». La possibilità del «troppo tardi»parve terribile e insopportabile al professore, il quale,ne' suoi colloqui con l'oracolo, dopo averlo consultatosu cento diverse cose, capitava regolarmente ogni voltaalla domanda fatale: «E sto basìn?». Luisa in parte ci sidivertiva per la sua propensione a cogliere il comico an-che nelle persone cui voleva bene; in parte dubitavarealmente di una ripugnanza fisica che si manifestassein Ester, data l'occasione, con violenza e mandasse tuttoa monte. Ella si accorse, per fortuna, che il professorepareva sempre meno brutto alla sua fidanzata. Perciòquando lo vide comparire così per tempo, sapendo chepiù tardi lo avrebbe lasciato solo con Ester per andare aincontrar la nonna, le venne subito in mente che quellopoteva essere il giorno del «basìn». Ma il professore sipresentò tutto accigliato. Aveva cattive notizie. A SanMamette si diceva che fosse stato arrestato e condotto aComo il medico di Pellio, che gli avessero trovato lette-re e note compromettenti per altre persone fra le quali si

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nominava don Franco Maironi.«Per Franco non ho angustie», disse Luisa. «Del resto,

senta, professore: vuol dire che porremo nel contodell'imperatore d'Austria anche il dottore di Pellio ch'èbello grosso e pesa un mucchio di libbre, ma non pen-siamo a malinconie in un giorno come questo. Oggi e ilgiorno del Suo basìn.»

«Ah sì? Ah sì?», fece il professore tutto rosso e ansan-te. «Dice davvero, signora Luisina? Dice davvero?»

Sì, ell'aveva parlato sul serio. Gli spiegò che se Esterveniva come aveva detto, alle due, li avrebbe, dopo unamezz'ora, lasciati soli. In loggia c'era sempre lo zio manon conveniva seccarlo. Potevano restare in sala.

«E allora, con buon garbo, si fa il colpo», diss'ella.«Ma prima io voglio avere da Lei una promessa.»

«Che promessa?»«Mi occorrono le famose carte.»«Quando vorrà.»«Guardi che le domando io, non Franco.»«Sì, sì, quello che Lei fa è tutto bene. Domani Le por-

terò le carte.»«Bravo.»Luisa discorreva con la sua calza fra le mani, sferruz-

zando sempre, con un'apparenza di tranquillità ilare che

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nominava don Franco Maironi.«Per Franco non ho angustie», disse Luisa. «Del resto,

senta, professore: vuol dire che porremo nel contodell'imperatore d'Austria anche il dottore di Pellio ch'èbello grosso e pesa un mucchio di libbre, ma non pen-siamo a malinconie in un giorno come questo. Oggi e ilgiorno del Suo basìn.»

«Ah sì? Ah sì?», fece il professore tutto rosso e ansan-te. «Dice davvero, signora Luisina? Dice davvero?»

Sì, ell'aveva parlato sul serio. Gli spiegò che se Esterveniva come aveva detto, alle due, li avrebbe, dopo unamezz'ora, lasciati soli. In loggia c'era sempre lo zio manon conveniva seccarlo. Potevano restare in sala.

«E allora, con buon garbo, si fa il colpo», diss'ella.«Ma prima io voglio avere da Lei una promessa.»

«Che promessa?»«Mi occorrono le famose carte.»«Quando vorrà.»«Guardi che le domando io, non Franco.»«Sì, sì, quello che Lei fa è tutto bene. Domani Le por-

terò le carte.»«Bravo.»Luisa discorreva con la sua calza fra le mani, sferruz-

zando sempre, con un'apparenza di tranquillità ilare che

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non riusciva a coprir del tutto la sovreccitazione interna,predisposta dal giorno prima, cresciuta coll'insonnia,crescente a misura che si avvicinava il momento di par-tire. Nello stesso tono scherzoso della sua voce vibravauna corda insolita. Ne' suoi capelli, sempre correttissimi,era un'ombra di disordine, come il tocco di un lieve sof-fio che le avesse sfiorato la fronte. Il professore non siaccorse di nulla e andò in loggia a discorrere con l'inge-gnere, a prendere consiglio anche da lui per una darsenache intendeva costruire in capo al suo giardino onde po-tervi tenere una barchetta. Maria era pure in loggia e pi-gliò molto interesse a questa futura barchetta del signorLadroni. Gli raccontò che ne possedeva una anche lei,corse a prenderla per fargliela vedere e il professorescherzò, la pregò di accompagnarlo a Lugano con la suabarca. «Sei troppo grande, tu!», diss'ella. «La mia bam-bola sì che la condurrò a spasso in barca!» «Ma cosamai!», fece lo zio. «Quella barca lì è buona per andareal fondo.»

«No!»«Sì!»Ombretta si impazientì e corse in camera per provar la

barchetta nel catino, ma nel catino non c'era acqua e lapiccina ritornò in sala mogia mogia, con la sua barchettain braccio, e non andò più dallo zio.

Ester capitò al tocco e tre quarti. Disse che aveva uditoil tuono e che perciò era venuta prima. Il tuono? Luisa

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non riusciva a coprir del tutto la sovreccitazione interna,predisposta dal giorno prima, cresciuta coll'insonnia,crescente a misura che si avvicinava il momento di par-tire. Nello stesso tono scherzoso della sua voce vibravauna corda insolita. Ne' suoi capelli, sempre correttissimi,era un'ombra di disordine, come il tocco di un lieve sof-fio che le avesse sfiorato la fronte. Il professore non siaccorse di nulla e andò in loggia a discorrere con l'inge-gnere, a prendere consiglio anche da lui per una darsenache intendeva costruire in capo al suo giardino onde po-tervi tenere una barchetta. Maria era pure in loggia e pi-gliò molto interesse a questa futura barchetta del signorLadroni. Gli raccontò che ne possedeva una anche lei,corse a prenderla per fargliela vedere e il professorescherzò, la pregò di accompagnarlo a Lugano con la suabarca. «Sei troppo grande, tu!», diss'ella. «La mia bam-bola sì che la condurrò a spasso in barca!» «Ma cosamai!», fece lo zio. «Quella barca lì è buona per andareal fondo.»

«No!»«Sì!»Ombretta si impazientì e corse in camera per provar la

barchetta nel catino, ma nel catino non c'era acqua e lapiccina ritornò in sala mogia mogia, con la sua barchettain braccio, e non andò più dallo zio.

Ester capitò al tocco e tre quarti. Disse che aveva uditoil tuono e che perciò era venuta prima. Il tuono? Luisa

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uscì subito sulla terrazza a guardar il cielo. Minaccegrosse non ne vide. Sopra il Picco di Cressogno e soprala Galbiga il cielo era tutto sereno fino ai monti del lagodi Como. Dall'altra parte, sopra Carona, sì, era scuro,ma non poi tanto. Se la marchesa non venisse per pauradel tempo! Prese il piccolo vecchio cannocchiale chestava sempre in loggia. Non si vedeva niente. Già, eratroppo presto. Per arrivare alla Calcinera alle tre, la mar-chesa, colla pesante gondola, doveva partire verso ledue e mezzo; Luisa ritornò in sala dov'erano Ester, ilprofessore e Maria. Avrebbe preferito che Maria restas-se in loggia con lo zio, ma la signorina Ombretta, quan-do veniva gente, si appiccicava sempre a sua madre, sta-va lì tutta occhi, tutta orecchi. Luisa pensò che al mo-mento di partire l'avrebbe mandata via e intanto la tennecon sé. Già, i fidanzati stavan da parte e discorrevanoquasi sottovoce.

Alle due Luisa uscì ancora sulla terrazza, guardò colcannocchiale se per caso la gondola spuntasse al Ten-tiòn. La marchesa poteva forse anticipare, per il cattivotempo. Nulla. Guardò poi a ponente. Il cielo non era piùscuro di prima. Solamente, fra il monte Bisgnago e ilmonte Caprino, sopra la leggera insenatura che chiama-no la Zocca d'i Ment, era fumato su dalla Vall'Intelvi e siaffacciava fermo un nuvolone azzurrognolo, sinistrocome un sopracciglio aggrottato sopra un occhio cieco.Pareva aver veduto il branco dei compagni torvi che siaffacciavano al lago sopra Carona e voler essere della

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uscì subito sulla terrazza a guardar il cielo. Minaccegrosse non ne vide. Sopra il Picco di Cressogno e soprala Galbiga il cielo era tutto sereno fino ai monti del lagodi Como. Dall'altra parte, sopra Carona, sì, era scuro,ma non poi tanto. Se la marchesa non venisse per pauradel tempo! Prese il piccolo vecchio cannocchiale chestava sempre in loggia. Non si vedeva niente. Già, eratroppo presto. Per arrivare alla Calcinera alle tre, la mar-chesa, colla pesante gondola, doveva partire verso ledue e mezzo; Luisa ritornò in sala dov'erano Ester, ilprofessore e Maria. Avrebbe preferito che Maria restas-se in loggia con lo zio, ma la signorina Ombretta, quan-do veniva gente, si appiccicava sempre a sua madre, sta-va lì tutta occhi, tutta orecchi. Luisa pensò che al mo-mento di partire l'avrebbe mandata via e intanto la tennecon sé. Già, i fidanzati stavan da parte e discorrevanoquasi sottovoce.

Alle due Luisa uscì ancora sulla terrazza, guardò colcannocchiale se per caso la gondola spuntasse al Ten-tiòn. La marchesa poteva forse anticipare, per il cattivotempo. Nulla. Guardò poi a ponente. Il cielo non era piùscuro di prima. Solamente, fra il monte Bisgnago e ilmonte Caprino, sopra la leggera insenatura che chiama-no la Zocca d'i Ment, era fumato su dalla Vall'Intelvi e siaffacciava fermo un nuvolone azzurrognolo, sinistrocome un sopracciglio aggrottato sopra un occhio cieco.Pareva aver veduto il branco dei compagni torvi che siaffacciavano al lago sopra Carona e voler essere della

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partita anche lui. Luisa cominciò a sentirsi inquieta, adaver paura che la marchesa non venisse. Andò in giardi-netto a guardar il Boglia. Il Boglia non aveva che nuvo-le bianche, leggere. Ritornò in sala e trovò Maria pianta-ta davanti al professore e ad Ester, che ridevano, moltorossi in viso, l'uno e l'altra. «Sei malata?», aveva detto lapiccina ad Ester. «No; perché?» «Perché vedo che ti ta-sta il polso.» Le cose erano avviate bene, pareva. Luisaportò via la piccina, le proibì di avvicinarsi mai più aquei signori. Un momento dopo passò lo zio Piero, disseche andava di sopra a scrivere alcune lettere e avvertìLuisa di badare alle finestre della loggia, perché venivaun temporale. «Addio, signorina Ombretta!», diss'egli.«Addio, signor Pipì», rispose la bambina, petulante.Egli se ne andò, ridendo.

Luisa, che ormai durava fatica a star ferma, uscì per laterza volta sulla terrazza, guardò col cannocchiale. Ilcuore le diede un balzo; la gondola spuntava al Tentiòn.

Erano le due e un quarto.Una persona che veniva da Albogasio s'era fermata a

discorrere sul sagrato con qualcuno che scendeva dallascaletta sul fianco di casa Ribera. Diceva: «È passatagiù in questo momento col signor Pasotti, la portantina.C'era dietro una quantità di ragazzi».

Il cielo era coperto, adesso, anche sul Picco di Cresso-gno e sulla Galbiga. Solo i monti del lago di Como ave-vano ancora un po' di sole. La minaccia del furioso ven-

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partita anche lui. Luisa cominciò a sentirsi inquieta, adaver paura che la marchesa non venisse. Andò in giardi-netto a guardar il Boglia. Il Boglia non aveva che nuvo-le bianche, leggere. Ritornò in sala e trovò Maria pianta-ta davanti al professore e ad Ester, che ridevano, moltorossi in viso, l'uno e l'altra. «Sei malata?», aveva detto lapiccina ad Ester. «No; perché?» «Perché vedo che ti ta-sta il polso.» Le cose erano avviate bene, pareva. Luisaportò via la piccina, le proibì di avvicinarsi mai più aquei signori. Un momento dopo passò lo zio Piero, disseche andava di sopra a scrivere alcune lettere e avvertìLuisa di badare alle finestre della loggia, perché venivaun temporale. «Addio, signorina Ombretta!», diss'egli.«Addio, signor Pipì», rispose la bambina, petulante.Egli se ne andò, ridendo.

Luisa, che ormai durava fatica a star ferma, uscì per laterza volta sulla terrazza, guardò col cannocchiale. Ilcuore le diede un balzo; la gondola spuntava al Tentiòn.

Erano le due e un quarto.Una persona che veniva da Albogasio s'era fermata a

discorrere sul sagrato con qualcuno che scendeva dallascaletta sul fianco di casa Ribera. Diceva: «È passatagiù in questo momento col signor Pasotti, la portantina.C'era dietro una quantità di ragazzi».

Il cielo era coperto, adesso, anche sul Picco di Cresso-gno e sulla Galbiga. Solo i monti del lago di Como ave-vano ancora un po' di sole. La minaccia del furioso ven-

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to temporalesco che in Valsolda si chiama caronasca siera fatta più seria. Sopra Carona il color delle nuvoleandava confondendosi a quello dei monti. Il nuvolonedella Zocca d'i Ment era diventato turchino cupo e an-che il Boglia cominciava ad aggrottar le ciglia. Il lagoera immobile, plumbeo.

Luisa aveva stabilito di partire quando la gondola fossearrivata in faccia a S. Mamette. Ritornò in sala. Maria leaveva obbedito in parte, non s'era mossa dal suo posto,ma vedendo che il professore faceva ad Ester un discor-so lungo e animato, gli aveva chiesto:

«Le racconti una storia?»In quel punto entrò Luisa.«Sì, cara», fece Ester ridendo, «mi racconta una sto-

ria.»«Oh anche a me, anche a me!»Un sordo fragor di tuono. «Va', Maria, cara», disse

Ester. «Va' nella tua camera, va a pregar il Signore chenon venga un brutto temporale, una brutta grandine!»

«Oh, sì, sì, vado a pregar il Signore!»La piccina se n'andò, con la sua barchetta, nella camera

dell'alcova, impettita e seria, come se in quel momentola salvezza della Valsolda dipendesse da lei. La preghie-ra, per lei, era sempre una cosa solenne, era un contattocol mistero, che le faceva prendere un'aria grave e atten-ta come certe storie d'incantesimi e di magie. Ella salì

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to temporalesco che in Valsolda si chiama caronasca siera fatta più seria. Sopra Carona il color delle nuvoleandava confondendosi a quello dei monti. Il nuvolonedella Zocca d'i Ment era diventato turchino cupo e an-che il Boglia cominciava ad aggrottar le ciglia. Il lagoera immobile, plumbeo.

Luisa aveva stabilito di partire quando la gondola fossearrivata in faccia a S. Mamette. Ritornò in sala. Maria leaveva obbedito in parte, non s'era mossa dal suo posto,ma vedendo che il professore faceva ad Ester un discor-so lungo e animato, gli aveva chiesto:

«Le racconti una storia?»In quel punto entrò Luisa.«Sì, cara», fece Ester ridendo, «mi racconta una sto-

ria.»«Oh anche a me, anche a me!»Un sordo fragor di tuono. «Va', Maria, cara», disse

Ester. «Va' nella tua camera, va a pregar il Signore chenon venga un brutto temporale, una brutta grandine!»

«Oh, sì, sì, vado a pregar il Signore!»La piccina se n'andò, con la sua barchetta, nella camera

dell'alcova, impettita e seria, come se in quel momentola salvezza della Valsolda dipendesse da lei. La preghie-ra, per lei, era sempre una cosa solenne, era un contattocol mistero, che le faceva prendere un'aria grave e atten-ta come certe storie d'incantesimi e di magie. Ella salì

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sopra una sedia, disse le poche orazioni che sapeva e poisi atteggiò come vedeva atteggiarsi in chiesa le più de-vote del paese, si mise a muover le labbra com'esse, adire una preghiera senza parole. Colui che allora l'aves-se veduta conoscendo il terribile segreto dell'ora immi-nente avrebbe pensato che l'angelo della bambina fossein quel momento supremo accanto a lei e le sussurrassedi pregare per qualche altra cosa che i vigneti e gli uli-veti della Valsolda, per qualche altra cosa più a lei vici-na, ch'egli non diceva, ch'ella non sapeva e non potevamettere in parole: avrebbe pensato che negl'inarticolatibisbigli di lei vi fosse un riposto senso tenero e tragico,il docile abbandono di un'anima dolce ai consiglidell'angelo suo, al voler misterioso di Dio.

Alle due e mezzo i nuvoloni torvi di Carona diedero unaltro tuono cupo a cui subito risposero gli altri nuvolonidel Boglia e della Zocca d'i Ment. Luisa corse sulla ter-razza. La gondola era in faccia a S. Mamette e venivadritta alla Calcinera. Si vedevano benissimo i barcaiuolifar forza di remi. Mentre Luisa posava il cannocchiale,il primo colpo di vento strepitò per la loggia sbattendousci, vetri e imposte. Atterrita all'idea di indugiarsi trop-po, Luisa chiuse in fretta e in furia, passò correndo perla sala, tolse l'ombrello, uscì senz'avvertir nessuno, sen-za chiuder la porta di casa e prese la via di AlbogasioInferiore. Passato il cimitero, nel luogo che chiamanoMainè, incontrò Ismaele.

«Dove la va, sciora Lüisa, con sto temp?»

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sopra una sedia, disse le poche orazioni che sapeva e poisi atteggiò come vedeva atteggiarsi in chiesa le più de-vote del paese, si mise a muover le labbra com'esse, adire una preghiera senza parole. Colui che allora l'aves-se veduta conoscendo il terribile segreto dell'ora immi-nente avrebbe pensato che l'angelo della bambina fossein quel momento supremo accanto a lei e le sussurrassedi pregare per qualche altra cosa che i vigneti e gli uli-veti della Valsolda, per qualche altra cosa più a lei vici-na, ch'egli non diceva, ch'ella non sapeva e non potevamettere in parole: avrebbe pensato che negl'inarticolatibisbigli di lei vi fosse un riposto senso tenero e tragico,il docile abbandono di un'anima dolce ai consiglidell'angelo suo, al voler misterioso di Dio.

Alle due e mezzo i nuvoloni torvi di Carona diedero unaltro tuono cupo a cui subito risposero gli altri nuvolonidel Boglia e della Zocca d'i Ment. Luisa corse sulla ter-razza. La gondola era in faccia a S. Mamette e venivadritta alla Calcinera. Si vedevano benissimo i barcaiuolifar forza di remi. Mentre Luisa posava il cannocchiale,il primo colpo di vento strepitò per la loggia sbattendousci, vetri e imposte. Atterrita all'idea di indugiarsi trop-po, Luisa chiuse in fretta e in furia, passò correndo perla sala, tolse l'ombrello, uscì senz'avvertir nessuno, sen-za chiuder la porta di casa e prese la via di AlbogasioInferiore. Passato il cimitero, nel luogo che chiamanoMainè, incontrò Ismaele.

«Dove la va, sciora Lüisa, con sto temp?»

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Luisa rispose che andava ad Albogasio e passò oltre.Dopo cento passi le venne in mente che non aveva av-vertito la Veronica della sua partenza, che non le avevadetto di chiuder le finestre nella camera da letto e di ba-dare a Maria. Pensò di mandarglielo a dire da Ismaele.Egli era già scomparso dietro la svolta del Camposanto.Si sentì nel cuore un impulso a tornar indietro ma nonc'era tempo. Il rombo del tuono era continuo, radi goc-cioloni battevano qua e là sul granturco, colpi di ventostormivano per i gelsi, a intervalli, precorrendo i turbinidella caronasca. Luisa aperse l'ombrello e affrettò ilpasso.

La furia della pioggia la colse nelle viuzze scured'Albogasio. Non pensò a riparar dentro una porta, andòavanti imperterrita. Incontrò una frotta di ragazzi chescappavano dalla pioggia dopo aver inutilmente attesosul sagrato dell'Annunciata il passaggio della marchesain portantina. Nel breve tratto di via ch'è tra la casa co-munale di Albogasio e la chiesa, il vento le rovesciòl'ombrello. Ella si mise a correre, raggiunse quella listadi sagrato che guarda, dietro la chiesa, sulla cala dellaCalcinera. Là, protetta dalla chiesa contro l'impeto dellapioggia e del vento, raddrizzò alla meglio l'ombrello e siaffacciò al parapetto.

La chiesa dell'Annunciata posa sulla testa d'uno sco-glio che dalle radici del Boglia sporge, male avviluppatodi rovi e di caprifichi, sopra il lago e chiude da ponentela piccola cala della Calcinera. La lista di sagrato

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Luisa rispose che andava ad Albogasio e passò oltre.Dopo cento passi le venne in mente che non aveva av-vertito la Veronica della sua partenza, che non le avevadetto di chiuder le finestre nella camera da letto e di ba-dare a Maria. Pensò di mandarglielo a dire da Ismaele.Egli era già scomparso dietro la svolta del Camposanto.Si sentì nel cuore un impulso a tornar indietro ma nonc'era tempo. Il rombo del tuono era continuo, radi goc-cioloni battevano qua e là sul granturco, colpi di ventostormivano per i gelsi, a intervalli, precorrendo i turbinidella caronasca. Luisa aperse l'ombrello e affrettò ilpasso.

La furia della pioggia la colse nelle viuzze scured'Albogasio. Non pensò a riparar dentro una porta, andòavanti imperterrita. Incontrò una frotta di ragazzi chescappavano dalla pioggia dopo aver inutilmente attesosul sagrato dell'Annunciata il passaggio della marchesain portantina. Nel breve tratto di via ch'è tra la casa co-munale di Albogasio e la chiesa, il vento le rovesciòl'ombrello. Ella si mise a correre, raggiunse quella listadi sagrato che guarda, dietro la chiesa, sulla cala dellaCalcinera. Là, protetta dalla chiesa contro l'impeto dellapioggia e del vento, raddrizzò alla meglio l'ombrello e siaffacciò al parapetto.

La chiesa dell'Annunciata posa sulla testa d'uno sco-glio che dalle radici del Boglia sporge, male avviluppatodi rovi e di caprifichi, sopra il lago e chiude da ponentela piccola cala della Calcinera. La lista di sagrato

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dov'era Luisa corre appunto su quel ciglio dello scoglio.Ell'avrebbe potuto seguir di lassù il cammino della gon-dola dalle acque di Cressogno fino allo sbarco; ma ora,infuriando l'acquazzone, un baglior bianco le nasconde-va ogni cosa. Però se la marchesa non ritornava a Cres-sogno, doveva pure, in qualunque punto approdasse,passar poi di là, perché lì, dov'è l'attacco dello scogliosporgente con la costa, monta sul sagrato la scalinatadella Calcinera, unica via per salire ad Albogasio Supe-riore sì dallo sbarco sottoposto che da S. Mamette o daCasarico o da Cadate.

In pochi minuti la violenza dell'acquazzone diminuì, ifoschi fantasmi delle montagne cominciarono a dise-gnarsi nel fondo bianco. Luisa guardò giù allo sbarco.Non v'era gondola, non v'era portantina sulla riva, nonv'era niente. Questo le diede noia. Possibile che la gon-dola fosse ritornata a Cressogno? Il fumo si diradò rapi-damente, apparve Cadate, apparve sulla bocca della dar-sena del Palazz, bianco nella nebbiolina grigia, la poppadella gondola. Ecco, la marchesa si era rifugiata al Pa-lazz e così aveva fatto anche Pasotti con la sua portanti-na e i portatori. Il temporale si poteva dir cessato, laportantina non tarderebbe a comparire.

Invece tardò dieci lunghi minuti. Luisa teneva fissi gliocchi sulla stradicciuola che svolta da Cadate nel senodella Calcinera. Non vi era dentro a lei nessun movi-mento di pensieri. Tutta l'anima sua guardava e aspetta-va; niente altro. Della gente le passò a sinistra salendo

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dov'era Luisa corre appunto su quel ciglio dello scoglio.Ell'avrebbe potuto seguir di lassù il cammino della gon-dola dalle acque di Cressogno fino allo sbarco; ma ora,infuriando l'acquazzone, un baglior bianco le nasconde-va ogni cosa. Però se la marchesa non ritornava a Cres-sogno, doveva pure, in qualunque punto approdasse,passar poi di là, perché lì, dov'è l'attacco dello scogliosporgente con la costa, monta sul sagrato la scalinatadella Calcinera, unica via per salire ad Albogasio Supe-riore sì dallo sbarco sottoposto che da S. Mamette o daCasarico o da Cadate.

In pochi minuti la violenza dell'acquazzone diminuì, ifoschi fantasmi delle montagne cominciarono a dise-gnarsi nel fondo bianco. Luisa guardò giù allo sbarco.Non v'era gondola, non v'era portantina sulla riva, nonv'era niente. Questo le diede noia. Possibile che la gon-dola fosse ritornata a Cressogno? Il fumo si diradò rapi-damente, apparve Cadate, apparve sulla bocca della dar-sena del Palazz, bianco nella nebbiolina grigia, la poppadella gondola. Ecco, la marchesa si era rifugiata al Pa-lazz e così aveva fatto anche Pasotti con la sua portanti-na e i portatori. Il temporale si poteva dir cessato, laportantina non tarderebbe a comparire.

Invece tardò dieci lunghi minuti. Luisa teneva fissi gliocchi sulla stradicciuola che svolta da Cadate nel senodella Calcinera. Non vi era dentro a lei nessun movi-mento di pensieri. Tutta l'anima sua guardava e aspetta-va; niente altro. Della gente le passò a sinistra salendo

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dalla Calcinera o venendo da Albogasio; ogni volta ellasi coperse piegando l'ombrello, per non esser conosciutao almeno per evitar saluti e conversazioni. Finalmenteun gruppo di persone comparve sulla svolta. Luisa di-stinse la portantina, dietro la portantina Pasotti e donGiuseppe, poi, ultimi, i due barcaiuoli della marchesa.Non si mosse ancora, seguì con gli occhi la portantinache avanzava molto lentamente e chiuse l'ombrello per-ché non pioveva quasi più. Ricomparvero cinque o seiragazzi d'Albogasio. Ella disse loro bruscamente di an-darsene. Indugiavano a obbedire ma un improvvisoscroscio di pioggia, senza vento né tuoni, li pose infuga. La portantina toccava allora il piede della scalina-ta. Luisa si mosse.

Aveva l'occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in unsolo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che lebatteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d'un torbi-do velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passionedelle cose intorno alla sua propria. Discendeva lentalenta, con l'ombrello chiuso, stringendone forte il mani-co, come fosse stato la impugnatura d'un'arma. La scali-nata è un po' tortuosa, bisogna scendere alquanti scaliniprima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse laportantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto didue portatori. Luisa discese fin dove si spandono soprala scalinata i rami d'un gran noce.

Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori del-la marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene.

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dalla Calcinera o venendo da Albogasio; ogni volta ellasi coperse piegando l'ombrello, per non esser conosciutao almeno per evitar saluti e conversazioni. Finalmenteun gruppo di persone comparve sulla svolta. Luisa di-stinse la portantina, dietro la portantina Pasotti e donGiuseppe, poi, ultimi, i due barcaiuoli della marchesa.Non si mosse ancora, seguì con gli occhi la portantinache avanzava molto lentamente e chiuse l'ombrello per-ché non pioveva quasi più. Ricomparvero cinque o seiragazzi d'Albogasio. Ella disse loro bruscamente di an-darsene. Indugiavano a obbedire ma un improvvisoscroscio di pioggia, senza vento né tuoni, li pose infuga. La portantina toccava allora il piede della scalina-ta. Luisa si mosse.

Aveva l'occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in unsolo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che lebatteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d'un torbi-do velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passionedelle cose intorno alla sua propria. Discendeva lentalenta, con l'ombrello chiuso, stringendone forte il mani-co, come fosse stato la impugnatura d'un'arma. La scali-nata è un po' tortuosa, bisogna scendere alquanti scaliniprima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse laportantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto didue portatori. Luisa discese fin dove si spandono soprala scalinata i rami d'un gran noce.

Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori del-la marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene.

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Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina conl'ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori,giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero,che si facessero da banda per lasciarle il passo.

Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch'erano allatesta della portantina, un fratello d'Ismaele e un cuginodella Veronica. A quattro passi accennò loro, con un ge-sto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamen-te, posarono la portantina a terra e così fecero, senza sa-perne il perché, i due portatori che seguivano. Pasottialzò l'ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, uncipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da bandaper lasciarla passare, non sospettando che l'incontro fos-se premeditato.

Ma Luisa non si mosse. «Ella non credeva incontrarmi,signor Pasotti», disse a voce alta. La marchesa mise ilcapo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vi-gor nuovo nella sua voce floscia:

«Avanti!»In quel momento partirono dall'alto del sagrato acute,

disperate grida: «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!». Luisanon udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori«avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.

«Avanti pure!», diss'ella, risoluta di mettersi a fiancodella portantina. «Non ho a dire che due parole.»

Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima imma-

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Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina conl'ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori,giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero,che si facessero da banda per lasciarle il passo.

Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch'erano allatesta della portantina, un fratello d'Ismaele e un cuginodella Veronica. A quattro passi accennò loro, con un ge-sto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamen-te, posarono la portantina a terra e così fecero, senza sa-perne il perché, i due portatori che seguivano. Pasottialzò l'ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, uncipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da bandaper lasciarla passare, non sospettando che l'incontro fos-se premeditato.

Ma Luisa non si mosse. «Ella non credeva incontrarmi,signor Pasotti», disse a voce alta. La marchesa mise ilcapo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vi-gor nuovo nella sua voce floscia:

«Avanti!»In quel momento partirono dall'alto del sagrato acute,

disperate grida: «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!». Luisanon udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori«avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.

«Avanti pure!», diss'ella, risoluta di mettersi a fiancodella portantina. «Non ho a dire che due parole.»

Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima imma-

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ginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi alloradal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.

«Parole, adesso?», fece Pasotti avanzandosi quasi mi-naccioso.

«Sciora Lüisa! Sciora Luisa!», si gridò da vicino conaccento di strazio; e venne con le grida un rumor di pas-si precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. «Sì, ades-so!», rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Ioavverto, per mia bontà, questa signora...»

«Sciora Lüisa!»Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre,

quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate,singhiozzanti: «Che La vegna a cà subet! Che La vegnaa cà subet!». Le facce, i pianti, le voci la strapparon d'uncolpo fuori della sua passione, del suo proposito.

Si avventò fra quelle donne esclamando: «Cosa c'è?».Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzantidall'orbita: «Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!».

«Ma cosa c'è, stupide?»«La Soa tosa, la Soa tosa!»Ella gridò come pazza: «La Maria? La Maria? Cosa?

Cosa?», udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò unostrido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su perla scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro,ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia,che strillavano e piangevano.

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ginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi alloradal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.

«Parole, adesso?», fece Pasotti avanzandosi quasi mi-naccioso.

«Sciora Lüisa! Sciora Luisa!», si gridò da vicino conaccento di strazio; e venne con le grida un rumor di pas-si precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. «Sì, ades-so!», rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Ioavverto, per mia bontà, questa signora...»

«Sciora Lüisa!»Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre,

quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate,singhiozzanti: «Che La vegna a cà subet! Che La vegnaa cà subet!». Le facce, i pianti, le voci la strapparon d'uncolpo fuori della sua passione, del suo proposito.

Si avventò fra quelle donne esclamando: «Cosa c'è?».Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzantidall'orbita: «Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!».

«Ma cosa c'è, stupide?»«La Soa tosa, la Soa tosa!»Ella gridò come pazza: «La Maria? La Maria? Cosa?

Cosa?», udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò unostrido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su perla scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro,ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia,che strillavano e piangevano.

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Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull'ultimo sca-lino.

Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sol-levarono. Urlò: «Dio, è morta?». Qualcuno rispose:«No, no!». «Il medico?», diss'ella ansando. «Ilmedico?». Molte voci risposero che c'era.

Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancioe la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro alei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero in-contrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide:

«È viva? È viva?». Il compagno d'Ismaele ritornò in-dietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veni-va. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere:«Esüsmaria, sciora Luisa!», e fece atto di trattenerla.Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita dalui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro,correndo: «L'è forsi nient! l'è forsi nient!». Pareva che lapioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangen-do.

Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancorala forza di gridare: «Maria! Maria mia!». La finestradell'alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Esterche la sgridava. Alcune persone fra le quali il professorGilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva lemani giunte e piangeva silenziosamente, pallido comeun cadavere. Gli altri bisbigliavano: «Coraggio! Speria-mo!». Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse

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Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull'ultimo sca-lino.

Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sol-levarono. Urlò: «Dio, è morta?». Qualcuno rispose:«No, no!». «Il medico?», diss'ella ansando. «Ilmedico?». Molte voci risposero che c'era.

Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancioe la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro alei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero in-contrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide:

«È viva? È viva?». Il compagno d'Ismaele ritornò in-dietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veni-va. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere:«Esüsmaria, sciora Luisa!», e fece atto di trattenerla.Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita dalui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro,correndo: «L'è forsi nient! l'è forsi nient!». Pareva che lapioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangen-do.

Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancorala forza di gridare: «Maria! Maria mia!». La finestradell'alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Esterche la sgridava. Alcune persone fra le quali il professorGilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva lemani giunte e piangeva silenziosamente, pallido comeun cadavere. Gli altri bisbigliavano: «Coraggio! Speria-mo!». Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse

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la vita con un braccio, la trasse su per le scale che erangremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano.

Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose diconforto: «Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!».All'entrata della camera dell'alcova, si sciolse dal brac-cio del professore, entrò sola.

Avevan dovuto accendere il lume perché nell'alcova,causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombret-ta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la boc-ca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le lab-bra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dot-tore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale,portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fian-chi, alternativamente; facendo pressioni sull'addome.

«Dottore? Dottore?», singhiozzò Luisa.«Facciamo il possibile», rispose il dottore, grave. Ella

precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, licoperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da untremito. «No no!», fece il dottore. «Coraggio,coraggio!» «A me», esclamò Luisa. Il dottore l'arrestòcon un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinòsul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respiròpiù volte profondamente, si rialzò. «Ma è rosea, è ro-sea!», sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in si-lenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria.

Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alza-rono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il re-

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la vita con un braccio, la trasse su per le scale che erangremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano.

Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose diconforto: «Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!».All'entrata della camera dell'alcova, si sciolse dal brac-cio del professore, entrò sola.

Avevan dovuto accendere il lume perché nell'alcova,causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombret-ta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la boc-ca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le lab-bra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dot-tore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale,portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fian-chi, alternativamente; facendo pressioni sull'addome.

«Dottore? Dottore?», singhiozzò Luisa.«Facciamo il possibile», rispose il dottore, grave. Ella

precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, licoperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da untremito. «No no!», fece il dottore. «Coraggio,coraggio!» «A me», esclamò Luisa. Il dottore l'arrestòcon un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinòsul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respiròpiù volte profondamente, si rialzò. «Ma è rosea, è ro-sea!», sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in si-lenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria.

Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alza-rono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il re-

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spiro. L'uscio della sala era aperto; altri volti si affaccia-rono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accan-to al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una vocemormorò:

«Si muove».Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore

spense il cerino. «Lana calda!», diss'egli. Luisa si preci-pitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia.Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli daun lato, ella dall'altro si diedero a strofinar forte il pettoe il ventre della piccina. Dopo un po', vedendo il pallo-re, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno aduna ragazza di pigliarne il posto. «Ceda, ceda», diss'egliperché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sonostanco anch'io. Non è possibile.» Luisa scosse il caposenza parlare continuando l'opera sua con energia con-vulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le so-pracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinòa Ester di far riscaldare dell'altra lana per coprirne legambe della bambina. Ester andò, fece lei, perché la Ve-ronica, appena successo il caso, era sparita, non si trova-va più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva ilfatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le do-mandarono: «E così? E così?». Ester fece un gesto scon-solato, passò senza rispondere. Poi le discussioni rico-minciarono a mezza voce.

Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse ri-

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spiro. L'uscio della sala era aperto; altri volti si affaccia-rono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accan-to al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una vocemormorò:

«Si muove».Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore

spense il cerino. «Lana calda!», diss'egli. Luisa si preci-pitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia.Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli daun lato, ella dall'altro si diedero a strofinar forte il pettoe il ventre della piccina. Dopo un po', vedendo il pallo-re, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno aduna ragazza di pigliarne il posto. «Ceda, ceda», diss'egliperché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sonostanco anch'io. Non è possibile.» Luisa scosse il caposenza parlare continuando l'opera sua con energia con-vulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le so-pracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinòa Ester di far riscaldare dell'altra lana per coprirne legambe della bambina. Ester andò, fece lei, perché la Ve-ronica, appena successo il caso, era sparita, non si trova-va più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva ilfatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le do-mandarono: «E così? E così?». Ester fece un gesto scon-solato, passò senza rispondere. Poi le discussioni rico-minciarono a mezza voce.

Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse ri-

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masta nell`acqua. Durante la furia del temporale un taleToni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Glivenne in mente che il battello del signor ingegnere fosselegato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena.Discese a salti, vide aperto l'uscio della darsena ed en-trò. Il battello ballava spaventosamente, inondato daglisprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, sidimenava fra le catene e s'era posto di traverso, avendola poppa quasi addosso al muro. In faccia all'uscio chemette dalla via pubblica nella darsena, corre un anditodal quale due scalette scendono all'acqua, la prima difianco alla prora della barca, la seconda di fianco allapoppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda ondeaccorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l'ultimoscalino, dov'eran sessanta o settanta centimetri d'acqua,vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e ilcapo sott'acqua. Nel trarla dall'acqua scorse nel fondouna barchetta di metallo. Portò su la bambina gridandocon la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, perfortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutòEster a spogliar la povera creatura che non dava più se-gni di vita.

Con chi era ella stata prima di scendere in darsena?Con la Veronica no, perché la Veronica era stata vedutaentrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la suaguardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester ocon il professore neppure. Ester l'aveva mandata a pre-gare nella camera dell'alcova e poi non l'aveva veduta

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masta nell`acqua. Durante la furia del temporale un taleToni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Glivenne in mente che il battello del signor ingegnere fosselegato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena.Discese a salti, vide aperto l'uscio della darsena ed en-trò. Il battello ballava spaventosamente, inondato daglisprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, sidimenava fra le catene e s'era posto di traverso, avendola poppa quasi addosso al muro. In faccia all'uscio chemette dalla via pubblica nella darsena, corre un anditodal quale due scalette scendono all'acqua, la prima difianco alla prora della barca, la seconda di fianco allapoppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda ondeaccorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l'ultimoscalino, dov'eran sessanta o settanta centimetri d'acqua,vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e ilcapo sott'acqua. Nel trarla dall'acqua scorse nel fondouna barchetta di metallo. Portò su la bambina gridandocon la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, perfortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutòEster a spogliar la povera creatura che non dava più se-gni di vita.

Con chi era ella stata prima di scendere in darsena?Con la Veronica no, perché la Veronica era stata vedutaentrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la suaguardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester ocon il professore neppure. Ester l'aveva mandata a pre-gare nella camera dell'alcova e poi non l'aveva veduta

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più. La Cia stava a lavorare e l'ingegnere a scriverequando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall.Maria doveva esser discesa in darsena dalla cameradell'alcova per mettere la sua barchetta nell'acqua e fa-talmente avea trovato aperta la porta di casa, apertol'uscio della darsena. Il Toni Gall era d'opinione cheavesse passato qualche minuto nell'acqua perché galleg-giava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nelfondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua sco-perta spaventosa stando in sala con la Cia, con l'inge-gnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozza-vano, meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove primastavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Nonaveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchie-re del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma ta-ceva. La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne egrave che turbata. Pareva ch'egli vedesse davanti a sél'ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; sicapiva che non aveva speranza. E si capiva che il suodolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità pas-seggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto,composto, dell'uomo savio e forte.

Dall'uscio aperto dell'alcova venivan voci ora d'interro-gazione ora di comando. Nessuno poté però dire, perun'ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualchevolta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva aqualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor divita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo

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più. La Cia stava a lavorare e l'ingegnere a scriverequando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall.Maria doveva esser discesa in darsena dalla cameradell'alcova per mettere la sua barchetta nell'acqua e fa-talmente avea trovato aperta la porta di casa, apertol'uscio della darsena. Il Toni Gall era d'opinione cheavesse passato qualche minuto nell'acqua perché galleg-giava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nelfondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua sco-perta spaventosa stando in sala con la Cia, con l'inge-gnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozza-vano, meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove primastavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Nonaveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchie-re del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma ta-ceva. La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne egrave che turbata. Pareva ch'egli vedesse davanti a sél'ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; sicapiva che non aveva speranza. E si capiva che il suodolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità pas-seggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto,composto, dell'uomo savio e forte.

Dall'uscio aperto dell'alcova venivan voci ora d'interro-gazione ora di comando. Nessuno poté però dire, perun'ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualchevolta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva aqualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor divita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo

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zio Piero volgeva il capo verso l'uscio dell'alcova e soloin quei momenti si disordinava un poco nel viso. Purtroppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente,in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempodurando piovoso, la luce mancava.

Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa.Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il san-gue nelle vene di tutti. Rispose la voce del dottore conun accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottoreaveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile:desistiamo», e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.

Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fit-ta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casaparve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio anda-vano diventando bui, vi si andò avvivando il debolechiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente co-minciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamen-te, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato dellavia gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si av-viò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchiose non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacerecon un gesto brusco.

Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla fa-miglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester etre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono deigemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano uma-ni. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una

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zio Piero volgeva il capo verso l'uscio dell'alcova e soloin quei momenti si disordinava un poco nel viso. Purtroppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente,in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempodurando piovoso, la luce mancava.

Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa.Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il san-gue nelle vene di tutti. Rispose la voce del dottore conun accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottoreaveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile:desistiamo», e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.

Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fit-ta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casaparve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio anda-vano diventando bui, vi si andò avvivando il debolechiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente co-minciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamen-te, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato dellavia gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si av-viò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchiose non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacerecon un gesto brusco.

Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla fa-miglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester etre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono deigemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano uma-ni. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una

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sedia e disse forse: «C'è qui il signor ingegnere?».«Scior sì», rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume.L'ingegnere non parlò né si mosse.

Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Ali-prandi, che mi piace ricordar qui come un franco galan-tuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò alcanapè dove sedeva lo zio Piero.

«Signor ingegnere», diss'egli con le lagrime agli occhi,«adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei.»

«Io?», rispose lo zio Piero alzando il viso.«Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna

che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un pa-dre. Questi sono i momenti del padre.»

«Lo lasci stare, il mio padrone», brontolò la Cia. «Nonè buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.»

Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere ebaci.

L'ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un mo-mento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e dis-se al medico:

«Debbo andar solo?»«Desidera che ci sia anch'io?»«Sì.»«Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma

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sedia e disse forse: «C'è qui il signor ingegnere?».«Scior sì», rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume.L'ingegnere non parlò né si mosse.

Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Ali-prandi, che mi piace ricordar qui come un franco galan-tuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò alcanapè dove sedeva lo zio Piero.

«Signor ingegnere», diss'egli con le lagrime agli occhi,«adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei.»

«Io?», rispose lo zio Piero alzando il viso.«Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna

che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un pa-dre. Questi sono i momenti del padre.»

«Lo lasci stare, il mio padrone», brontolò la Cia. «Nonè buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.»

Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere ebaci.

L'ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un mo-mento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e dis-se al medico:

«Debbo andar solo?»«Desidera che ci sia anch'io?»«Sì.»«Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma

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tentare bisogna.»Il dottore mandò via le donne ch'erano ancora

nell'alcova, poi si volse dall'entrata all'ingegnere e gli fe'segno di venire.

«Donna Luisa», diss'egli dolcemente. «C'è lo zio, ilsuo caro zio, che viene a pregarla.»

Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fattidue passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul let-to con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, labaciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su lelabbra, gemiti lunghi, inesprimibili.

«Sì sì sì sì», diss'ella, quasi con un sorriso tenero nellavoce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar ilsuo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che glivuol tanto bene. Sì sì sì sì.»

«Luisa», disse lo zio Piero, «quietati. Tutto è stato fattoquel che si poteva fare, adesso vieni con me, non starpiù qui, vieni con me.»

«Zio zio zio», fece Luisa con una voce grossa di tene-rezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno,cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tuaMaria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il no-stro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona micail nostro zio.»

Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strap-pò un singhiozzo. «Lasciala in pace», diss'egli con voce

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tentare bisogna.»Il dottore mandò via le donne ch'erano ancora

nell'alcova, poi si volse dall'entrata all'ingegnere e gli fe'segno di venire.

«Donna Luisa», diss'egli dolcemente. «C'è lo zio, ilsuo caro zio, che viene a pregarla.»

Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fattidue passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul let-to con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, labaciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su lelabbra, gemiti lunghi, inesprimibili.

«Sì sì sì sì», diss'ella, quasi con un sorriso tenero nellavoce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar ilsuo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che glivuol tanto bene. Sì sì sì sì.»

«Luisa», disse lo zio Piero, «quietati. Tutto è stato fattoquel che si poteva fare, adesso vieni con me, non starpiù qui, vieni con me.»

«Zio zio zio», fece Luisa con una voce grossa di tene-rezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno,cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tuaMaria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il no-stro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona micail nostro zio.»

Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strap-pò un singhiozzo. «Lasciala in pace», diss'egli con voce

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soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: «Andiamo noi,cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Ma-ria? Sì, sì, andiamo, andiamo». Si lasciò sdrucciolare dalletto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al pettocol braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro alcollo del vecchio, gli sussurrò: «un bacio, un bacio, unbacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo».

Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpatoamaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagri-me. «Guarda, guarda, zio», diss'ella. «Dottore, porti quail lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, chetesoro. Dottore!»

L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; maquel dolore folle aveva qualche cosa di sacro ches'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolocadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quel-le pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Ma-ria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il visoe l'amore della casa.

«Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamomaltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto malecon tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria,la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.»

«Basta!», disse il dottore risolutamente, posando illume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, manon a questa, a quella ch'è in Paradiso.»

L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal

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soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: «Andiamo noi,cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Ma-ria? Sì, sì, andiamo, andiamo». Si lasciò sdrucciolare dalletto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al pettocol braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro alcollo del vecchio, gli sussurrò: «un bacio, un bacio, unbacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo».

Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpatoamaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagri-me. «Guarda, guarda, zio», diss'ella. «Dottore, porti quail lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, chetesoro. Dottore!»

L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; maquel dolore folle aveva qualche cosa di sacro ches'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolocadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quel-le pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Ma-ria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il visoe l'amore della casa.

«Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamomaltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto malecon tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria,la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.»

«Basta!», disse il dottore risolutamente, posando illume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, manon a questa, a quella ch'è in Paradiso.»

L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal

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viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la suamorta sul seno. «No!», stridette, «no! non in Paradiso! Èmia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!»

Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il let-to matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemitiche non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'inge-gnere che tremava. «Passerà, passerà», diss'egli. «Biso-gna aver pazienza. Adesso resto io.»

In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte.«E avvertire il signor don Franco?», diss'egli. Si parlò

allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano,l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, anome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisseil telegramma, in sala c'era un'altra persona, la poveraPasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accom-pagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, di-sperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva en-trare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì,raccomandò quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangerein loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova eil prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pa-sotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini,piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entra-re da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzoalla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina alSignore. «Che la guarda», soggiunse, «che La guarda,sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Si-

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viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la suamorta sul seno. «No!», stridette, «no! non in Paradiso! Èmia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!»

Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il let-to matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemitiche non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'inge-gnere che tremava. «Passerà, passerà», diss'egli. «Biso-gna aver pazienza. Adesso resto io.»

In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte.«E avvertire il signor don Franco?», diss'egli. Si parlò

allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano,l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, anome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisseil telegramma, in sala c'era un'altra persona, la poveraPasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accom-pagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, di-sperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva en-trare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì,raccomandò quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangerein loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova eil prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pa-sotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini,piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entra-re da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzoalla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina alSignore. «Che la guarda», soggiunse, «che La guarda,sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Si-

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gnor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soamammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Para-dis!»

Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e ri-spose con dolcezza: «L'à capii che ghe credi minga, mi,al So Paradis! El me Paradis l'è chi!».

L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e que-gli usci singhiozzando.

Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme alprofessore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usci-va più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultimedue ore in sala, col professore ed Ester, senza udir maiun grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Eraandato due volte a guardare. Luisa stava seduta sullasponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e lafaccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Ali-prandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuo-va dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima.Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le racco-mandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la suaamica, di farla piangere e parlare.

A vegliare con Ester si trattenevano altre donne delpaese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cin-que. Lo zio Piero era andato a letto.

L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a

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gnor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soamammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Para-dis!»

Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e ri-spose con dolcezza: «L'à capii che ghe credi minga, mi,al So Paradis! El me Paradis l'è chi!».

L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e que-gli usci singhiozzando.

Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme alprofessore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usci-va più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultimedue ore in sala, col professore ed Ester, senza udir maiun grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Eraandato due volte a guardare. Luisa stava seduta sullasponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e lafaccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Ali-prandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuo-va dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima.Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le racco-mandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la suaamica, di farla piangere e parlare.

A vegliare con Ester si trattenevano altre donne delpaese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cin-que. Lo zio Piero era andato a letto.

L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a

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guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare.Silenzio. «Maledetto lago!», fece il dottore, pigliando ilbraccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certoegli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che illago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbioche altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistradelle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'erauna pietà immensa per il padre, per il povero padre chenon sapeva ancora niente.

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guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare.Silenzio. «Maledetto lago!», fece il dottore, pigliando ilbraccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certoegli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che illago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbioche altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistradelle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'erauna pietà immensa per il padre, per il povero padre chenon sapeva ancora niente.

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11.Ombra e aurora

Franco, appena ricevuto il telegramma, corse all'ufficiodell'Opinione in via della Rocca. Dina, vedendolo torbi-do, gli disse: «Oh! Lo avete saputo?». Franco si sentigelare il sangue, ma Dina, quando udì del telegramma,fece un atto di stupore. No no, non sapeva nulla di que-sto. Era stato informato da parte del Presidente del Con-siglio che la Polizia austriaca aveva fatto perquisizionied arresti in Vall'Intelvi e che fra le carte di un medico siera trovato il nome di don Franco Maironi con indica-zioni assai compromettenti. Dina soggiunse che in unmomento così angoscioso per un padre non osava quasidirgli perché il conte di Cavour si interessasse a lui.Gliene aveva parlato egli stesso, Dina, e il conte s'eramostrato dispiacente che un gentiluomo lombardo dicosì bel nome si trovasse a Torino in condizioni dure eoscure. Dina credeva ch'egli avesse intenzione di offrir-gli un impiego al Ministero degli Esteri. Ora Franco do-veva partire, certo. La bambina guarirebbe ed egli ritor-nerebbe nel più breve tempo possibile. Intanto si ferme-rebbe a Lugano, non è vero? in attesa di notizie; e senon fosse proprio necessario non si arrischierebbe micadi entrar in Lombardia. Con quest'affare di Vall'Intelvisarebbe un'imprudenza enorme. Franco tacque e il suo

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11.Ombra e aurora

Franco, appena ricevuto il telegramma, corse all'ufficiodell'Opinione in via della Rocca. Dina, vedendolo torbi-do, gli disse: «Oh! Lo avete saputo?». Franco si sentigelare il sangue, ma Dina, quando udì del telegramma,fece un atto di stupore. No no, non sapeva nulla di que-sto. Era stato informato da parte del Presidente del Con-siglio che la Polizia austriaca aveva fatto perquisizionied arresti in Vall'Intelvi e che fra le carte di un medico siera trovato il nome di don Franco Maironi con indica-zioni assai compromettenti. Dina soggiunse che in unmomento così angoscioso per un padre non osava quasidirgli perché il conte di Cavour si interessasse a lui.Gliene aveva parlato egli stesso, Dina, e il conte s'eramostrato dispiacente che un gentiluomo lombardo dicosì bel nome si trovasse a Torino in condizioni dure eoscure. Dina credeva ch'egli avesse intenzione di offrir-gli un impiego al Ministero degli Esteri. Ora Franco do-veva partire, certo. La bambina guarirebbe ed egli ritor-nerebbe nel più breve tempo possibile. Intanto si ferme-rebbe a Lugano, non è vero? in attesa di notizie; e senon fosse proprio necessario non si arrischierebbe micadi entrar in Lombardia. Con quest'affare di Vall'Intelvisarebbe un'imprudenza enorme. Franco tacque e il suo

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direttore, nel congedarlo, insistette: «Abbia prudenza!Non si lasci prendere!», ma non ebbe alcuna risposta.

Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma,Franco aveva camminato su e giù per Torino come insogno, senza udire il suono dei propri passi, senza co-scienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andandomacchinalmente dove gli occorreva, in quella congiun-tura, di andare, dove lo portava una facoltà inferiore eservile dell'anima, quel misto di ragione e d'istinto checi sa guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentrelo spirito nostro, fisso in un problema o in una passione,niente se ne cura. Vendette orologio e catena per cento-trentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperòuna bambola per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caf-fè Florio per far avvertire gli amici e, dovendo pigliar iltreno delle undici e mezzo per Novara, fu alla stazionealle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Pa-dovano e l'Udinese. Essi cercarono di rincorarlo conogni sorta di supposizioni rosee e di ragionamenti vani,ma egli non rispondeva parola, aspettava con una avidi-tà immensa il momento di partire, di esser solo, di corre-re verso Oria, perché, qualunque ne fosse il pericolo, eraben deciso di andare a Oria. Entrò in una carrozza di ter-za classe e quando la locomotiva fischiò, quando il trenosi scosse, mise un gran sospiro di sollievo, e si diede tut-to al pensiero della sua Maria. Ma v'era troppa gente,troppo rozza e chiassosa gente intorno a lui. A Chivasso,non potendo resistere a quei discorsi, a quelle risate,

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direttore, nel congedarlo, insistette: «Abbia prudenza!Non si lasci prendere!», ma non ebbe alcuna risposta.

Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma,Franco aveva camminato su e giù per Torino come insogno, senza udire il suono dei propri passi, senza co-scienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andandomacchinalmente dove gli occorreva, in quella congiun-tura, di andare, dove lo portava una facoltà inferiore eservile dell'anima, quel misto di ragione e d'istinto checi sa guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentrelo spirito nostro, fisso in un problema o in una passione,niente se ne cura. Vendette orologio e catena per cento-trentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperòuna bambola per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caf-fè Florio per far avvertire gli amici e, dovendo pigliar iltreno delle undici e mezzo per Novara, fu alla stazionealle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Pa-dovano e l'Udinese. Essi cercarono di rincorarlo conogni sorta di supposizioni rosee e di ragionamenti vani,ma egli non rispondeva parola, aspettava con una avidi-tà immensa il momento di partire, di esser solo, di corre-re verso Oria, perché, qualunque ne fosse il pericolo, eraben deciso di andare a Oria. Entrò in una carrozza di ter-za classe e quando la locomotiva fischiò, quando il trenosi scosse, mise un gran sospiro di sollievo, e si diede tut-to al pensiero della sua Maria. Ma v'era troppa gente,troppo rozza e chiassosa gente intorno a lui. A Chivasso,non potendo resistere a quei discorsi, a quelle risate,

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passò in una carrozza vuota di seconda classe dove simise a parlar solo, guardando il sedile di faccia.

Dio, perché non mettere nel telegramma una parola dipiù? Oh, Signore, una parola sola! Il nome della malat-tia, almeno!

Un nome orribile gli attraversò la mente: croup. Stesele braccia avanti, contro il fantasma, in uno stiramentoconvulso, aspirando aria con tutta la forza sua e le lasciòricader con un soffio che parve vuotargli il petto d'animae di vita. Perché doveva trattarsi di un male subitaneo,altrimenti Luisa avrebbe scritto. Altro lampo nella men-te: congestione cerebrale? Egli stesso, da bambino, erastato a morte per una congestione cerebrale. Signore, Si-gnore, questa era una luce buona. Era Dio che glielamandava! Fu preso da singhiozzi nervosi, senza lagri-me. Maria, tesoro, amore, gioia! Doveva esser questo,sì. La vide ansante, accesa, vegliata dal medico e dallamamma, immaginò in un minuto lunghe lunghe ore alsuo capezzale, lunghe angoscie, il rinascer della speran-za, il primo sussurro della dolce voce:

«Papà mio».Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo

muto di preghiera. Poi ricadde a seder esausto, volse gliocchi senza sguardo alla campagna fuggente, sentendoquasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme all'oriz-zonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, as-sopito, nell'anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo

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passò in una carrozza vuota di seconda classe dove simise a parlar solo, guardando il sedile di faccia.

Dio, perché non mettere nel telegramma una parola dipiù? Oh, Signore, una parola sola! Il nome della malat-tia, almeno!

Un nome orribile gli attraversò la mente: croup. Stesele braccia avanti, contro il fantasma, in uno stiramentoconvulso, aspirando aria con tutta la forza sua e le lasciòricader con un soffio che parve vuotargli il petto d'animae di vita. Perché doveva trattarsi di un male subitaneo,altrimenti Luisa avrebbe scritto. Altro lampo nella men-te: congestione cerebrale? Egli stesso, da bambino, erastato a morte per una congestione cerebrale. Signore, Si-gnore, questa era una luce buona. Era Dio che glielamandava! Fu preso da singhiozzi nervosi, senza lagri-me. Maria, tesoro, amore, gioia! Doveva esser questo,sì. La vide ansante, accesa, vegliata dal medico e dallamamma, immaginò in un minuto lunghe lunghe ore alsuo capezzale, lunghe angoscie, il rinascer della speran-za, il primo sussurro della dolce voce:

«Papà mio».Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo

muto di preghiera. Poi ricadde a seder esausto, volse gliocchi senza sguardo alla campagna fuggente, sentendoquasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme all'oriz-zonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, as-sopito, nell'anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo

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toglieva dal suo torpore suggerendogli l'idea di una cor-sa angosciosa, richiamando il suo cuore a correre, a bat-ter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglioarrivare a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuo-re alle palpebre, ma si muovevano, mutavano continua-mente, non poteva arrestarle più d'un momento. Era Lui-sa che gli correva incontro sulle scale, era lo zio che glistendeva le braccia sull'entrata della sala, era il dottorAliprandi che gli apriva l'uscio dell'alcova e gli diceva«bene bene», era, nella camera buia, un moto di ombresilenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi luci-di di febbre.

A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da To-rino, l'impero della realtà lo riprese. Quando sarebbe aLugano, come, per qual via andrebbe a Oria? Scoperta-mente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? Ese non lo lasciassero passare perché non aveva sul pas-saporto il visto dell'uscita, o se, peggio, vi fosse un ordi-ne di arresto per quest'affare del medico di Pellio? Me-glio prendere la montagna. Poteva venire arrestato dopo,ma con la pratica dei luoghi che aveva fatto prima del1848, cacciando, era quasi sicuro di arrivare a casa.Questo faticoso lavoro di fare e disfare piani lo distrassealquanto, gli tenne occupata la mente sin oltre Arona,sul battello del Lago Maggiore. Aveva fatto il conto diarrivare a Lugano nel cuore della notte. Se vi fosse qual-cuno ad aspettarlo? Se non v'era nessuno, poteva darsiche alla farmacia Fontana, dove andavano molte valsol-

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toglieva dal suo torpore suggerendogli l'idea di una cor-sa angosciosa, richiamando il suo cuore a correre, a bat-ter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglioarrivare a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuo-re alle palpebre, ma si muovevano, mutavano continua-mente, non poteva arrestarle più d'un momento. Era Lui-sa che gli correva incontro sulle scale, era lo zio che glistendeva le braccia sull'entrata della sala, era il dottorAliprandi che gli apriva l'uscio dell'alcova e gli diceva«bene bene», era, nella camera buia, un moto di ombresilenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi luci-di di febbre.

A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da To-rino, l'impero della realtà lo riprese. Quando sarebbe aLugano, come, per qual via andrebbe a Oria? Scoperta-mente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? Ese non lo lasciassero passare perché non aveva sul pas-saporto il visto dell'uscita, o se, peggio, vi fosse un ordi-ne di arresto per quest'affare del medico di Pellio? Me-glio prendere la montagna. Poteva venire arrestato dopo,ma con la pratica dei luoghi che aveva fatto prima del1848, cacciando, era quasi sicuro di arrivare a casa.Questo faticoso lavoro di fare e disfare piani lo distrassealquanto, gli tenne occupata la mente sin oltre Arona,sul battello del Lago Maggiore. Aveva fatto il conto diarrivare a Lugano nel cuore della notte. Se vi fosse qual-cuno ad aspettarlo? Se non v'era nessuno, poteva darsiche alla farmacia Fontana, dove andavano molte valsol-

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desi, si sapesse qualche cosa. Se Iddio volesse fargli tro-vare a Lugano notizie rassicuranti potrebbe rimettereall'indomani ogni decisione circa l'andata a Oria. Presedunque il partito di non far progetti sino a Lugano e pre-gò fervorosamente Iddio che gli facesse trovare questebuone notizie. Il cielo era coperto, le montagne avevanogià una tinta autunnale triste, il lago era leggermentenebbioso, le campane di Meina suonavano; sul vaporenon c'era quasi nessuno e la preghiera di Franco gli morìnel cuore sotto una tristezza pesante, gli occhi suoi sismarrirono dietro uno stormo di gabbiani bianchi chevolavan lontano verso le acque di Laveno, verso il paesenascosto dov'era l'anima sua.

Arrivò a Magadino dopo le sette, fece il monte Ceneria piedi, per il sentiero che mette alla Cantoniera, preseuna vettura a Bironico e arrivò a Lugano dopo la mezza-notte. Discese in piazza presso il caffè Terreni. Il caffèera chiuso, la piazza deserta, scura; tutto taceva, anche illago di cui s'intravedeva un palpitar lento nell'ombra.Franco si fermò un momento sulla riva con la speranzache qualcheduno fosse venuto ad aspettarlo e comparis-se da qualche parte. Non poteva veder la Valsolda na-scosta dietro il monte Brè; ma quella era l'acqua stessache rispecchiava Oria, che dormiva nella darsena dellasua casa. Gli si allargò un poco il cuore in un sentimentodi pace, gli parve essere ritornato tra familiari suoi. Ta-cendo ogni voce umana, gli parlavano le grandi monta-gne oscure, sopra tutte il monte Caprino e la Zocca d'i

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desi, si sapesse qualche cosa. Se Iddio volesse fargli tro-vare a Lugano notizie rassicuranti potrebbe rimettereall'indomani ogni decisione circa l'andata a Oria. Presedunque il partito di non far progetti sino a Lugano e pre-gò fervorosamente Iddio che gli facesse trovare questebuone notizie. Il cielo era coperto, le montagne avevanogià una tinta autunnale triste, il lago era leggermentenebbioso, le campane di Meina suonavano; sul vaporenon c'era quasi nessuno e la preghiera di Franco gli morìnel cuore sotto una tristezza pesante, gli occhi suoi sismarrirono dietro uno stormo di gabbiani bianchi chevolavan lontano verso le acque di Laveno, verso il paesenascosto dov'era l'anima sua.

Arrivò a Magadino dopo le sette, fece il monte Ceneria piedi, per il sentiero che mette alla Cantoniera, preseuna vettura a Bironico e arrivò a Lugano dopo la mezza-notte. Discese in piazza presso il caffè Terreni. Il caffèera chiuso, la piazza deserta, scura; tutto taceva, anche illago di cui s'intravedeva un palpitar lento nell'ombra.Franco si fermò un momento sulla riva con la speranzache qualcheduno fosse venuto ad aspettarlo e comparis-se da qualche parte. Non poteva veder la Valsolda na-scosta dietro il monte Brè; ma quella era l'acqua stessache rispecchiava Oria, che dormiva nella darsena dellasua casa. Gli si allargò un poco il cuore in un sentimentodi pace, gli parve essere ritornato tra familiari suoi. Ta-cendo ogni voce umana, gli parlavano le grandi monta-gne oscure, sopra tutte il monte Caprino e la Zocca d'i

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Ment che vedevano Oria. Gli parlavano dolcemente, glisuggerivano un presentimento buono. Diciannove oreeran passate dalla data del telegramma; il male potevaesser vinto.

Non comparendo nessuno, si avviò alla farmacia Fon-tana, suonò il campanello. Egli conosceva da molti anniquell'ottimo, cordiale galantuomo del signor Carlo Fon-tana, passato anche lui col mondo antico. Il signor Carlovenne alla finestra e si meravigliò molto di vedere donFranco. Non aveva alcuna notizia della Valsolda, erastato due giorni a Tesserete, n'era ritornato da poche ore,non sapeva niente. Il suo assistente, il signor Benedetto,era partito anche lui da poche ore, per Bellinzona. Fran-co ringraziò e si avviò verso Villa Ciani, risoluto di an-dare subito ad Oria.

Poteva scegliere fra due vie: o salire da Pregassona ilversante svizzero del Boglia, toccar l'Alpe della Bolla,attraversare il Pian Biscagno e il gran bosco dei faggi,uscirne sul ciglio del versante lombardo, al faggio dellaMadonnina, calare ad Albogasio Superiore e Oria; oprendere la comoda via di Gandria verso il lago, e poi ilsentiero malvagio e rischioso che da Gandria, ultimovillaggio svizzero, taglia la costa ertissima, passa il con-fine a un centinaio di metri sopra il lago, porta alla ca-scina di Origa, cala nei burroni della Val Malghera e nerisale alla cascina di Rooch, vi trova la stradicciuola sel-ciata che passa sopra il Niscioree e discende a Oria. Laprima via era assai più lunga e faticosa ma in compenso

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Ment che vedevano Oria. Gli parlavano dolcemente, glisuggerivano un presentimento buono. Diciannove oreeran passate dalla data del telegramma; il male potevaesser vinto.

Non comparendo nessuno, si avviò alla farmacia Fon-tana, suonò il campanello. Egli conosceva da molti anniquell'ottimo, cordiale galantuomo del signor Carlo Fon-tana, passato anche lui col mondo antico. Il signor Carlovenne alla finestra e si meravigliò molto di vedere donFranco. Non aveva alcuna notizia della Valsolda, erastato due giorni a Tesserete, n'era ritornato da poche ore,non sapeva niente. Il suo assistente, il signor Benedetto,era partito anche lui da poche ore, per Bellinzona. Fran-co ringraziò e si avviò verso Villa Ciani, risoluto di an-dare subito ad Oria.

Poteva scegliere fra due vie: o salire da Pregassona ilversante svizzero del Boglia, toccar l'Alpe della Bolla,attraversare il Pian Biscagno e il gran bosco dei faggi,uscirne sul ciglio del versante lombardo, al faggio dellaMadonnina, calare ad Albogasio Superiore e Oria; oprendere la comoda via di Gandria verso il lago, e poi ilsentiero malvagio e rischioso che da Gandria, ultimovillaggio svizzero, taglia la costa ertissima, passa il con-fine a un centinaio di metri sopra il lago, porta alla ca-scina di Origa, cala nei burroni della Val Malghera e nerisale alla cascina di Rooch, vi trova la stradicciuola sel-ciata che passa sopra il Niscioree e discende a Oria. Laprima via era assai più lunga e faticosa ma in compenso

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migliore per eludere al confine la vigilanza delle guar-die. Partendo dalla farmacia Fontana, Franco decise diappigliarsi a quella. Ma quando fu a Cassarago, dovemettono la strada di Pregassona a quella di Gandria,quando vide la punta di Castagnola così vicina e pensòche da Castagnola si va a Gandria in meno di mezz'ora,che da Gandria si può andare a Oria in un'ora e mezza,l'idea di salire il Boglia, di camminare sette od otto oregli divenne intollerabile. Salendo il Boglia sarebbe poianche arrivato di giorno; questo era, per la sicurezza,uno scapito grande. Prese risolutamente la via di Casta-gnola e Gandria. Il cielo era tutto coperto di nuvole pe-santi. Sotto i grandi castani ove passava il sentiero diCastagnola, non si sapeva dove mettere il piede; ma chesarebbe poi stato nel gran bosco del Boglia, se Francoavesse presa quella via? Così fu dentro Castagnola epeggio di così nel labirinto delle viuzze di Gandria.Dopo averle fatte e rifatte più volte, sbagliando, Francoriuscì finalmente sul sentiero del confine e si fermò a ri-posare. Sul punto di cimentarsi nel fitto delle tenebre aipericoli di un sentiero difficile, di un incontro con leguardie austriache, per giungere poi a quell'altro pauro-so passo dell'entrar in casa, del far la prima domanda,dell'udir la prima risposta, alzò la mente a Dio, raccolsetutti i suoi pensieri in un proposito di fortezza e di cal-ma.

Si ripose in cammino. Gli occorreva ora dare tutta lasua attenzione al sentiero per non smarrirlo, per non pre-

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migliore per eludere al confine la vigilanza delle guar-die. Partendo dalla farmacia Fontana, Franco decise diappigliarsi a quella. Ma quando fu a Cassarago, dovemettono la strada di Pregassona a quella di Gandria,quando vide la punta di Castagnola così vicina e pensòche da Castagnola si va a Gandria in meno di mezz'ora,che da Gandria si può andare a Oria in un'ora e mezza,l'idea di salire il Boglia, di camminare sette od otto oregli divenne intollerabile. Salendo il Boglia sarebbe poianche arrivato di giorno; questo era, per la sicurezza,uno scapito grande. Prese risolutamente la via di Casta-gnola e Gandria. Il cielo era tutto coperto di nuvole pe-santi. Sotto i grandi castani ove passava il sentiero diCastagnola, non si sapeva dove mettere il piede; ma chesarebbe poi stato nel gran bosco del Boglia, se Francoavesse presa quella via? Così fu dentro Castagnola epeggio di così nel labirinto delle viuzze di Gandria.Dopo averle fatte e rifatte più volte, sbagliando, Francoriuscì finalmente sul sentiero del confine e si fermò a ri-posare. Sul punto di cimentarsi nel fitto delle tenebre aipericoli di un sentiero difficile, di un incontro con leguardie austriache, per giungere poi a quell'altro pauro-so passo dell'entrar in casa, del far la prima domanda,dell'udir la prima risposta, alzò la mente a Dio, raccolsetutti i suoi pensieri in un proposito di fortezza e di cal-ma.

Si ripose in cammino. Gli occorreva ora dare tutta lasua attenzione al sentiero per non smarrirlo, per non pre-

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cipitare. I campicelli di Gandria finiscono presto. Poivengono fratte folte, pendenti sopra il lago, valloncellifranosi, mascherati dal bosco, che ruinano diritti al bas-so. In quei passaggi bui Franco era costretto di menar lebraccia alla cieca per abbrancar un ramo, poi un altro,cacciar il viso nel fogliame che almeno aveva l'odoredella Valsolda, trascinarsi di pianta in pianta, tastar coipiedi il suolo, non senza terrori di sprofondare, cercar letracce del sentiero. Il suo fardello era piccino ma puregli dava impaccio. E gli dava noia quello stormir dellefrasche al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsilontano, sui monti e sul lago, nel silenzio religioso dellanotte. Allora si fermava e stava in ascolto. Non udivache il remoto rombo della cascata di Rescia, qualchelungo ululato di allocchi nei boschi di là del lago e tal-volta giù nel profondo, sull'acqua, un secco tocco, Diosa di che. Non impiegò meno di un'ora per arrivare alconfine. Là, fra la valle del Confine e la Val Malghera, ilbosco era stato tagliato di recente, il pendio sassoso eranudo, maggiore perciò il pericolo di precipitare, mag-giore il pericolo di venire scoperto. Attraversò quel trat-to pian piano, fermandosi spesso, mettendosi carponi.Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lie-ve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passavaqualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran leguardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là eracoperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese lacosta occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra partesenza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli mar-

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cipitare. I campicelli di Gandria finiscono presto. Poivengono fratte folte, pendenti sopra il lago, valloncellifranosi, mascherati dal bosco, che ruinano diritti al bas-so. In quei passaggi bui Franco era costretto di menar lebraccia alla cieca per abbrancar un ramo, poi un altro,cacciar il viso nel fogliame che almeno aveva l'odoredella Valsolda, trascinarsi di pianta in pianta, tastar coipiedi il suolo, non senza terrori di sprofondare, cercar letracce del sentiero. Il suo fardello era piccino ma puregli dava impaccio. E gli dava noia quello stormir dellefrasche al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsilontano, sui monti e sul lago, nel silenzio religioso dellanotte. Allora si fermava e stava in ascolto. Non udivache il remoto rombo della cascata di Rescia, qualchelungo ululato di allocchi nei boschi di là del lago e tal-volta giù nel profondo, sull'acqua, un secco tocco, Diosa di che. Non impiegò meno di un'ora per arrivare alconfine. Là, fra la valle del Confine e la Val Malghera, ilbosco era stato tagliato di recente, il pendio sassoso eranudo, maggiore perciò il pericolo di precipitare, mag-giore il pericolo di venire scoperto. Attraversò quel trat-to pian piano, fermandosi spesso, mettendosi carponi.Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lie-ve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passavaqualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran leguardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là eracoperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese lacosta occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra partesenza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli mar-

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tellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivimette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante vol-te con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendoviolette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ri-cordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola di-sputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualitàche dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agri-coltore e Luisa un ingegnere meccanico.

Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicel-li scaglionati sul monte che fanno una chiara piccolamacchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sot-to, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nelportichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sullaviottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso.Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci sonpochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parla-re sommessamente nella cascina.

Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuo-ri del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Nonudì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo estette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermòquasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietroadagio e disse ad alta voce, con accento forestiero:«Non c'è niente. Sarà stata una volpe».

Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il qualenon osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discor-rere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore,

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tellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivimette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante vol-te con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendoviolette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ri-cordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola di-sputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualitàche dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agri-coltore e Luisa un ingegnere meccanico.

Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicel-li scaglionati sul monte che fanno una chiara piccolamacchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sot-to, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nelportichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sullaviottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso.Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci sonpochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parla-re sommessamente nella cascina.

Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuo-ri del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Nonudì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo estette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermòquasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietroadagio e disse ad alta voce, con accento forestiero:«Non c'è niente. Sarà stata una volpe».

Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il qualenon osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discor-rere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore,

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di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro lacascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stavaper muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, usciredalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne inteseuna dire: «Non resta qui nessuno?», e un'altra risponde-re: «È inutile».

Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altrasenza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevanodi cose indifferenti. Uno diceva che si può restaresott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribattevache dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passòin silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbri-vidì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese lapipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò aicompagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati,scendevan la costa di Val Malghera.

«Quanti anni aveva?»Uno di coloro rispose, pure forte:«Tre anni e un mese».Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo

e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi,all'udir «tre anni e un mese», l'età di Maria, si alzò sullebraccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor deipassi si perdeva già in Val Malghera.

«Dio, Dio, Dio, Dio!», diss'egli. Si rizzò ginocchioni,ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola

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di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro lacascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stavaper muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, usciredalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne inteseuna dire: «Non resta qui nessuno?», e un'altra risponde-re: «È inutile».

Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altrasenza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevanodi cose indifferenti. Uno diceva che si può restaresott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribattevache dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passòin silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbri-vidì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese lapipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò aicompagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati,scendevan la costa di Val Malghera.

«Quanti anni aveva?»Uno di coloro rispose, pure forte:«Tre anni e un mese».Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo

e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi,all'udir «tre anni e un mese», l'età di Maria, si alzò sullebraccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor deipassi si perdeva già in Val Malghera.

«Dio, Dio, Dio, Dio!», diss'egli. Si rizzò ginocchioni,ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola

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terribile: «aveva». Si torse le mani, gemette ancora:«Dio, Dio, Dio, Dio!».

Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza.Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventatosordo, con un gran tremito nel braccio che portava labambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò ilpaese e invece di scendere per la scalinata del Pomodo-ro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scor-ciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa sca-letta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della ca-tastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror deboleche usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sottola finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoporticoe spinse l'uscio.

Era aperto.Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un

odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò astento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo amezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che laluce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise ilpiede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato;molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odord'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento,non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udivaqualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udivaniente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta:«Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria?

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terribile: «aveva». Si torse le mani, gemette ancora:«Dio, Dio, Dio, Dio!».

Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza.Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventatosordo, con un gran tremito nel braccio che portava labambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò ilpaese e invece di scendere per la scalinata del Pomodo-ro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scor-ciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa sca-letta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della ca-tastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror deboleche usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sottola finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoporticoe spinse l'uscio.

Era aperto.Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un

odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò astento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo amezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che laluce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise ilpiede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato;molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odord'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento,non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udivaqualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udivaniente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta:«Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria?

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La vuoi la tua mamma, in terra con te?». «Luisa!Luisa!», singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccial'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuzialeche aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolcelor frutto, morto.

«Vieni, caro, vieni vieni», diss'ella e lo trasse dentro.Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giace-

va nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e lan-guenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie,gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite diolea fragrans, e altre frondi non fiorite, egualmente scu-re, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tantocaro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondierano sparsi anche sul viso.

Franco s'inginocchiò singhiozzando: «Dio, Dio, Dio!»,mentre Luisa prese due roselline, le pose in una maninadi Maria e poi la baciò sulla fronte.

«Tu puoi baciarla sui capelli», diss'ella. «Sul viso no. Ildottore non vuole.»

«Ma tu? Ma tu?»«Oh, per me è un'altra cosa.»Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che tra-

sparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve leposò lievemente, come per un addio tenero, non dispera-to, alla veste caduta e vuota della diletta creatura suapartita per altra dimora.

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La vuoi la tua mamma, in terra con te?». «Luisa!Luisa!», singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccial'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuzialeche aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolcelor frutto, morto.

«Vieni, caro, vieni vieni», diss'ella e lo trasse dentro.Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giace-

va nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e lan-guenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie,gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite diolea fragrans, e altre frondi non fiorite, egualmente scu-re, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tantocaro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondierano sparsi anche sul viso.

Franco s'inginocchiò singhiozzando: «Dio, Dio, Dio!»,mentre Luisa prese due roselline, le pose in una maninadi Maria e poi la baciò sulla fronte.

«Tu puoi baciarla sui capelli», diss'ella. «Sul viso no. Ildottore non vuole.»

«Ma tu? Ma tu?»«Oh, per me è un'altra cosa.»Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che tra-

sparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve leposò lievemente, come per un addio tenero, non dispera-to, alla veste caduta e vuota della diletta creatura suapartita per altra dimora.

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«Maria, Maria mia», sussurrò fra i singhiozzi, «checosa è stato?»

Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso del-le guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo.

«Non lo sai?», gli chiese la moglie senza sorpresa, pa-catamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato;ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Luga-no per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arri-vata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dor-mire.

«Povero Franco!», diss'ella baciandolo sul capo, quasimaternamente. «Non c'è mica stata malattia.»

Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: «Come? Nonc'è stata malattia?»

La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu,entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco,rimase sbalordita. «Va'», le disse Luisa, «posa il fuoco lìfuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi,povera Leu.» Quella obbedì.

«Non c'è stata malattia?», ripeté Franco.«Vieni», gli rispose sua moglie, «ti racconterò tutto.»Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimo-

niale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno dino, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a ter-ra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloro-so con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dram-

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«Maria, Maria mia», sussurrò fra i singhiozzi, «checosa è stato?»

Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso del-le guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo.

«Non lo sai?», gli chiese la moglie senza sorpresa, pa-catamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato;ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Luga-no per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arri-vata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dor-mire.

«Povero Franco!», diss'ella baciandolo sul capo, quasimaternamente. «Non c'è mica stata malattia.»

Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: «Come? Nonc'è stata malattia?»

La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu,entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco,rimase sbalordita. «Va'», le disse Luisa, «posa il fuoco lìfuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi,povera Leu.» Quella obbedì.

«Non c'è stata malattia?», ripeté Franco.«Vieni», gli rispose sua moglie, «ti racconterò tutto.»Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimo-

niale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno dino, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a ter-ra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloro-so con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dram-

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ma che diceva, con una voce simile a quella della sordaPasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese lemosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse,sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i senti-menti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse ifatti sino al momento in cui s'era convinta che Marianon aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò abaciar la sua morta e le sussurrò: «Il tuo papà ha in men-te che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non èvero».

Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senzanome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non re-nitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardo-se, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con unbraccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, ba-gnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quan-do gli rompevan la voce: «Povera Luisa mia, no, nonl'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh,no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fat-to per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, tibenedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir piùquella cosa! La nostra Maria...» Un violento singhiozzogli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere,si vinse, continuò: «Non sai cosa dice la nostra Maria inquesto momento? Dice: mamma mia, papà mio, adessosiete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate unitipiù che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, per-ché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui

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ma che diceva, con una voce simile a quella della sordaPasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese lemosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse,sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i senti-menti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse ifatti sino al momento in cui s'era convinta che Marianon aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò abaciar la sua morta e le sussurrò: «Il tuo papà ha in men-te che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non èvero».

Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senzanome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non re-nitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardo-se, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con unbraccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, ba-gnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quan-do gli rompevan la voce: «Povera Luisa mia, no, nonl'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh,no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fat-to per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, tibenedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir piùquella cosa! La nostra Maria...» Un violento singhiozzogli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere,si vinse, continuò: «Non sai cosa dice la nostra Maria inquesto momento? Dice: mamma mia, papà mio, adessosiete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate unitipiù che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, per-ché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui

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e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dicecosì?».

Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti vio-lenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo vole-va alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano egliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poigli sussurrò: «Rispondimi».

«Tu sei buono», rispose Luisa con voce accorata e de-bole, «tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici.Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io,che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, nonsarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succede-va niente, Maria sarebbe viva.»

«Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi crede-re che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu pote-vi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbesuccessa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa.Ascolta invece quello che ti dice Maria.»

«Povero Franco! Poveretto, poveretto!», disse Luisa,con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare ilsangue. Franco tacque, tremando, non valendo a imma-ginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Sisciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la pri-ma. Ella riprese però la mano di suo marito, volle acco-starsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente asé quella di lei, tentò un'ultima parola:

«Perché non mi vuoi rispondere?»

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e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dicecosì?».

Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti vio-lenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo vole-va alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano egliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poigli sussurrò: «Rispondimi».

«Tu sei buono», rispose Luisa con voce accorata e de-bole, «tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici.Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io,che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, nonsarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succede-va niente, Maria sarebbe viva.»

«Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi crede-re che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu pote-vi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbesuccessa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa.Ascolta invece quello che ti dice Maria.»

«Povero Franco! Poveretto, poveretto!», disse Luisa,con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare ilsangue. Franco tacque, tremando, non valendo a imma-ginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Sisciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la pri-ma. Ella riprese però la mano di suo marito, volle acco-starsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente asé quella di lei, tentò un'ultima parola:

«Perché non mi vuoi rispondere?»

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«Ti farei troppo male», diss'ella, sottovoce.Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima

di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancareogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come seMaria, chiamata inutilmente, fosse morta una secondavolta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori dellacamera poterono tanto sopra di esso che dovette uscireper non venir meno.

Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura,fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senzaritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dallaluce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le bracciasul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole aflutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente,chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito.E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che glipermettesse di piangere ma che sapeva bene perché labambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che ilSignore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stan-do con sua madre? Ah quella sera, quella ultima serache Maria gli aveva detto «papà mio, un bacio» e tantealtre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, comecome aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spa-simo di ricordarlo. «Signore, Signore», diss'egli verso ilcielo, «Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito se-condo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesorocon Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu necongiungerai!» Non fu amaro il dirotto pianto in cui le

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«Ti farei troppo male», diss'ella, sottovoce.Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima

di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancareogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come seMaria, chiamata inutilmente, fosse morta una secondavolta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori dellacamera poterono tanto sopra di esso che dovette uscireper non venir meno.

Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura,fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senzaritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dallaluce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le bracciasul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole aflutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente,chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito.E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che glipermettesse di piangere ma che sapeva bene perché labambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che ilSignore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stan-do con sua madre? Ah quella sera, quella ultima serache Maria gli aveva detto «papà mio, un bacio» e tantealtre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, comecome aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spa-simo di ricordarlo. «Signore, Signore», diss'egli verso ilcielo, «Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito se-condo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesorocon Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu necongiungerai!» Non fu amaro il dirotto pianto in cui le

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parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ulti-ma sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo aMaria, di averla ingannata. «Maria, Maria mia», suppli-cò piangendo, «perdonami!» Dio, come gli pareva im-possibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva diandar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suolettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aper-te abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E in-vece vi era, sì, ma!... Oh che cosa! non poteva, non po-teva essere fine al pianto.

Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'avevamandata la signora. Egli ebbe un movimento di teneragratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infe-licità nera la sua! E quali spaventose apparenze di casti-go per lei nel colpo che le piombava sopra in quel mo-mento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compre-so, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davveroe aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva in-teso pure. E queste spaventose apparenze di castigo nonfrutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio piùche mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa!Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva biso-gno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, dasperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta inDio.

Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece rac-contar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udi-to della cosa terribile. «La voreva propi el Signor la Soa

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parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ulti-ma sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo aMaria, di averla ingannata. «Maria, Maria mia», suppli-cò piangendo, «perdonami!» Dio, come gli pareva im-possibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva diandar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suolettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aper-te abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E in-vece vi era, sì, ma!... Oh che cosa! non poteva, non po-teva essere fine al pianto.

Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'avevamandata la signora. Egli ebbe un movimento di teneragratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infe-licità nera la sua! E quali spaventose apparenze di casti-go per lei nel colpo che le piombava sopra in quel mo-mento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compre-so, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davveroe aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva in-teso pure. E queste spaventose apparenze di castigo nonfrutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio piùche mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa!Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva biso-gno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, dasperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta inDio.

Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece rac-contar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udi-to della cosa terribile. «La voreva propi el Signor la Soa

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tosetta», disse la Leu per ultimo. «Bisoeugnava vedèllain gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccinseri. La somejava on angiol tal e qual! Propi.» Poi do-mandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, prefe-riva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe?La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quandocominciava a discorrere, non smetteva facilmente e for-se aveva anche paura di starsene soletta in cucina: «Elso papà!», diss'ella ancora prima di andarsene. «El socar papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì aportagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che laparlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai,Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a tro-varlo". Ciào, l'è ona gran roba!»

Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambinaper toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punitoLuisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribilecastigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì,quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propriavita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal ri-spondente alle credenze che professava, tale da renderloresponsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giu-dicava buono per le qualità di cui non aveva merito al-cuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva so-pra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato efrutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umi-liò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore,nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Id-

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tosetta», disse la Leu per ultimo. «Bisoeugnava vedèllain gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccinseri. La somejava on angiol tal e qual! Propi.» Poi do-mandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, prefe-riva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe?La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quandocominciava a discorrere, non smetteva facilmente e for-se aveva anche paura di starsene soletta in cucina: «Elso papà!», diss'ella ancora prima di andarsene. «El socar papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì aportagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che laparlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai,Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a tro-varlo". Ciào, l'è ona gran roba!»

Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambinaper toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punitoLuisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribilecastigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì,quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propriavita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal ri-spondente alle credenze che professava, tale da renderloresponsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giu-dicava buono per le qualità di cui non aveva merito al-cuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva so-pra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato efrutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umi-liò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore,nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Id-

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dio lo ricongiungesse con Maria.Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza.

Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne dellago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminen-te soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lonta-no, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si leva-ron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Tere-sa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco sponta-nea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse:ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le cam-pane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago enell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e piùbianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungol'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distesedell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra legrandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondidella passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano si-lenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspet-tazione della luce, della gloria immensa che scendeva inoriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dallecampane.

Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! Laluce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, por-tarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Ita-lia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia,Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slanciodi desiderio.

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dio lo ricongiungesse con Maria.Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza.

Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne dellago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminen-te soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lonta-no, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si leva-ron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Tere-sa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco sponta-nea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse:ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le cam-pane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago enell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e piùbianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungol'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distesedell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra legrandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondidella passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano si-lenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspet-tazione della luce, della gloria immensa che scendeva inoriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dallecampane.

Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! Laluce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, por-tarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Ita-lia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia,Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slanciodi desiderio.

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Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udir-le, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, chevenisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiatapresso il corpicino della sua creatura le promise cheogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlar-le, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera.Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva vo-luto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso diventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita dalungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, undato momento, dalla corrente del sangue, divampata confulminea violenza.

Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza diDio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'animatendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non esse-re affatto in colpa della morte di Maria. Se realmenteesisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padro-na degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua.Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visi-ta della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Mariale persone che potevano custodirla in assenza della ma-dre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, euccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, pro-prio nel momento in cui stava per compiere un atto digiustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giu-stizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invecel'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tuttele ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e

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Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udir-le, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, chevenisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiatapresso il corpicino della sua creatura le promise cheogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlar-le, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera.Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva vo-luto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso diventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita dalungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, undato momento, dalla corrente del sangue, divampata confulminea violenza.

Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza diDio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'animatendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non esse-re affatto in colpa della morte di Maria. Se realmenteesisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padro-na degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua.Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visi-ta della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Mariale persone che potevano custodirla in assenza della ma-dre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, euccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, pro-prio nel momento in cui stava per compiere un atto digiustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giu-stizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invecel'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tuttele ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e

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del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'ini-qui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì,in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse,sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malva-gia!

Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esi-stesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che unaparte dell'essere umano continuasse a vivere, non mira-colosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò eraforse più facile a concepire, che la esistenza di un tiran-no invisibile, di un Creatore feroce contro le propriecreature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, me-glio un padrone cieco ma non nemico, non deliberata-mente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcunmodo né in questa vita né in una vita futura, se vi fosse,al fantasma vano, Giustizia.

La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri comea quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosaper lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di col-lera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di unpunto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava unaribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Ilpensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di leipoteva parere più forte; ma Colui che meglio è cono-sciuto dalle generazioni umane quanto più ascendononella civiltà e nella scienza; Colui che consente venireonorato da ciascuna generazione secondo il poter suo eche gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli,

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del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'ini-qui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì,in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse,sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malva-gia!

Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esi-stesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che unaparte dell'essere umano continuasse a vivere, non mira-colosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò eraforse più facile a concepire, che la esistenza di un tiran-no invisibile, di un Creatore feroce contro le propriecreature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, me-glio un padrone cieco ma non nemico, non deliberata-mente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcunmodo né in questa vita né in una vita futura, se vi fosse,al fantasma vano, Giustizia.

La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri comea quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosaper lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di col-lera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di unpunto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava unaribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Ilpensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di leipoteva parere più forte; ma Colui che meglio è cono-sciuto dalle generazioni umane quanto più ascendononella civiltà e nella scienza; Colui che consente venireonorato da ciascuna generazione secondo il poter suo eche gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli,

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servendosi per il governo della terra, nel tempo opportu-no, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essen-do la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio deglieserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sulviso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba siaccendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irra-diando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, frale lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre piùsi oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhispenti.

Al levar del sole una barca comparve alla punta dellaCaravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna allachiamata di Luisa.

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servendosi per il governo della terra, nel tempo opportu-no, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essen-do la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio deglieserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sulviso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba siaccendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irra-diando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, frale lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre piùsi oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhispenti.

Al levar del sole una barca comparve alla punta dellaCaravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna allachiamata di Luisa.

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12.Fantasmi

La sera di quello stesso giorno una conversazione fiori-ta si raccolse nella sala rossa della marchesa. Pasotti viportò seco a forza la sua disgraziata moglie e quasi aforza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai ca-pricci dispotici del Controllore gentilissimo. Venneropure il curato di Puria e il Paolin, curiosi di veder l'effet-to della tragedia di Oria sulla vecchia faccia di marmo.Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente rilut-tante anche lui come un pecorone. Venne il curato diCima, devoto alla marchesa, venne il prefetto della Ca-ravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato,come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loronemica.

Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col soli-to flemmatico saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè,la signora Barborin alla quale il padrone aveva proibitoil menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiaredagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paoloncirca le rispettive loro dame e soddisfatta d'aver appresoche la Paolina e la Paolona stavano bene, incrociò lemani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al se-micerchio de' suoi cortigiani. Pasotti, non vedendoFriend, s'informò subito di lui con ossequiosa premura:

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12.Fantasmi

La sera di quello stesso giorno una conversazione fiori-ta si raccolse nella sala rossa della marchesa. Pasotti viportò seco a forza la sua disgraziata moglie e quasi aforza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai ca-pricci dispotici del Controllore gentilissimo. Venneropure il curato di Puria e il Paolin, curiosi di veder l'effet-to della tragedia di Oria sulla vecchia faccia di marmo.Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente rilut-tante anche lui come un pecorone. Venne il curato diCima, devoto alla marchesa, venne il prefetto della Ca-ravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato,come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loronemica.

Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col soli-to flemmatico saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè,la signora Barborin alla quale il padrone aveva proibitoil menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiaredagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paoloncirca le rispettive loro dame e soddisfatta d'aver appresoche la Paolina e la Paolona stavano bene, incrociò lemani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al se-micerchio de' suoi cortigiani. Pasotti, non vedendoFriend, s'informò subito di lui con ossequiosa premura:

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«E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse avutonelle granfie, solus cum solo, quel brutto diavolaccioringhioso che sciupava i calzoni a lui e le sottane a suamoglie, lo avrebbe strozzato con gioia. Friend era infer-mo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamen-tò il caso con la segreta speranza che il maledetto mo-stro fosse per crepare. La Pasotti vedendo tante boccheparlare, tante facce diventar contrite, e non udendo unaparola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse alPaolon suo vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancan-do la bocca, indicando col dito la direzione di Oria. IlPaolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu»,diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso,un'aria compunta.

Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'unamalattia schifosa. Il Paolin e il curato di Puria diederopremurosi consigli. Il prefetto della Caravina avevaespresso altrove la temperata opinione che fosse da but-tarlo nel lago con la sua padrona al collo. Mentre si par-lava con tanto interesse della bestia di casa, egli pensavaa Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la mattina,quando s'era opposta come una forsennata, prima allachiusura della bara, poi al trasporto, e quando nel cimi-tero aveva gettato lei con le sue proprie mani la terrasulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbepresto discesa a giacer con lei e che quello doveva esse-re il loro paradiso.

Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fanta-

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«E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse avutonelle granfie, solus cum solo, quel brutto diavolaccioringhioso che sciupava i calzoni a lui e le sottane a suamoglie, lo avrebbe strozzato con gioia. Friend era infer-mo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamen-tò il caso con la segreta speranza che il maledetto mo-stro fosse per crepare. La Pasotti vedendo tante boccheparlare, tante facce diventar contrite, e non udendo unaparola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse alPaolon suo vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancan-do la bocca, indicando col dito la direzione di Oria. IlPaolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu»,diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso,un'aria compunta.

Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'unamalattia schifosa. Il Paolin e il curato di Puria diederopremurosi consigli. Il prefetto della Caravina avevaespresso altrove la temperata opinione che fosse da but-tarlo nel lago con la sua padrona al collo. Mentre si par-lava con tanto interesse della bestia di casa, egli pensavaa Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la mattina,quando s'era opposta come una forsennata, prima allachiusura della bara, poi al trasporto, e quando nel cimi-tero aveva gettato lei con le sue proprie mani la terrasulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbepresto discesa a giacer con lei e che quello doveva esse-re il loro paradiso.

Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fanta-

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smi della bambina morta e della madre disperata eranoperò nella sala. Quando nessuno seppe più che dire delcane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmisquallidi furono uditi da tutti domandar che si parlassedi loro; e ciascuno li vide negli occhi della persona cheli amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò subito unadiversione, propose al signor Giacomo un problema ditarocchi. Uno scartante che ha tre cartine, tutte figure,una dama e due cavalli, e ha pure il matto, cosa devefare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il si-gnor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfian-do le gote rosse e il cravattone bianco: «Apff! No. Con-trollore gentilissimo, no, La me dispensa. Da le dame nodigo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Glialtri tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fanta-smi non furono più uditi e ciascuno respirò.

Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entravacon due candele accese e apparecchiava il tavolino deltarocco in un angolo della sala, fra il gran camino e ilbalcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e dice-va con la sua flemma sonnolenta:

«Se creden».I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incomin-

ciava l'entro in tre o la partita in quattro.Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco,

esitò, quella sera, a portare i lumi. Non gli pareva possi-bile che la padrona e i signori avessero il coraggio di

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smi della bambina morta e della madre disperata eranoperò nella sala. Quando nessuno seppe più che dire delcane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmisquallidi furono uditi da tutti domandar che si parlassedi loro; e ciascuno li vide negli occhi della persona cheli amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò subito unadiversione, propose al signor Giacomo un problema ditarocchi. Uno scartante che ha tre cartine, tutte figure,una dama e due cavalli, e ha pure il matto, cosa devefare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il si-gnor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfian-do le gote rosse e il cravattone bianco: «Apff! No. Con-trollore gentilissimo, no, La me dispensa. Da le dame nodigo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Glialtri tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fanta-smi non furono più uditi e ciascuno respirò.

Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entravacon due candele accese e apparecchiava il tavolino deltarocco in un angolo della sala, fra il gran camino e ilbalcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e dice-va con la sua flemma sonnolenta:

«Se creden».I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incomin-

ciava l'entro in tre o la partita in quattro.Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco,

esitò, quella sera, a portare i lumi. Non gli pareva possi-bile che la padrona e i signori avessero il coraggio di

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giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo en-trare, ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, pri-ma di entrar in casa, aveva sostenuto contro il prefettoche non si sarebbe giuocato. Egli guardò trionfante ilsuo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendo-si, per una solidarietà di Paoli, che avesse ragione ilPaolin. Pasotti, che si era tenuto sicuro di giuocare, co-minciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette mi-nuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campa-nello. Quegli restituì al Paolin l'occhiata trionfante e viaggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia, chepoté.

«Apparecchiate», diss'ella al cameriere.Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in

fondo agli occhi suoi crucciosi si vedeva il fantasmadella bambina morta. Mentr'egli disponeva sul tavolinole candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fecenella sala quel silenzio di aspettazione che soleva prece-dere l'alzarsi della marchesa. Ma la marchesa non diedesegno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti e gli disse:

«Controllore, se desideran giuocare Loro...»«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di

mia moglie non deve impedirle di fare la Sua partita.Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo a guarda-re.»

«Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce eramolle ma il no era duro.

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giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo en-trare, ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, pri-ma di entrar in casa, aveva sostenuto contro il prefettoche non si sarebbe giuocato. Egli guardò trionfante ilsuo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendo-si, per una solidarietà di Paoli, che avesse ragione ilPaolin. Pasotti, che si era tenuto sicuro di giuocare, co-minciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette mi-nuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campa-nello. Quegli restituì al Paolin l'occhiata trionfante e viaggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia, chepoté.

«Apparecchiate», diss'ella al cameriere.Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in

fondo agli occhi suoi crucciosi si vedeva il fantasmadella bambina morta. Mentr'egli disponeva sul tavolinole candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fecenella sala quel silenzio di aspettazione che soleva prece-dere l'alzarsi della marchesa. Ma la marchesa non diedesegno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti e gli disse:

«Controllore, se desideran giuocare Loro...»«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di

mia moglie non deve impedirle di fare la Sua partita.Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo a guarda-re.»

«Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce eramolle ma il no era duro.

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Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuo-care a tarocchi, credette aver finalmente trovato una pa-rola ossequiosa e savia da metter fuori.

«Già!», diss'egli.Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra

lui?», ma non osò parlare. La marchesa non parve accor-gersi della scoperta del Paolon e soggiunse:

«Posson giuocare Loro».«Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!»Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefet-

to», diss'egli facendo spiccare le sillabe e alzando unpoco la mano aperta con una presa tra il pollice e l'indi-ce, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesalo desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.»

La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiatoda quel silenzio, borbottò a mezza voce:

«È un lutto di famiglia, infine».Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non

era mai stato pronunciato nelle conversazioni serali del-la sala rossa, la marchesa non aveva mai fatto allusionea lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio diquattro anni.

«Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suopadre e sua madre è un castigo di Dio.»

Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a

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Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuo-care a tarocchi, credette aver finalmente trovato una pa-rola ossequiosa e savia da metter fuori.

«Già!», diss'egli.Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra

lui?», ma non osò parlare. La marchesa non parve accor-gersi della scoperta del Paolon e soggiunse:

«Posson giuocare Loro».«Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!»Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefet-

to», diss'egli facendo spiccare le sillabe e alzando unpoco la mano aperta con una presa tra il pollice e l'indi-ce, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesalo desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.»

La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiatoda quel silenzio, borbottò a mezza voce:

«È un lutto di famiglia, infine».Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non

era mai stato pronunciato nelle conversazioni serali del-la sala rossa, la marchesa non aveva mai fatto allusionea lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio diquattro anni.

«Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suopadre e sua madre è un castigo di Dio.»

Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a

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voce bassa, in tono solenne:«Fulmineo».E il curato di Cima soggiunse più forte:«Evidente».Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e

allora il Paolon osservò: «Proprio!». Il signor Giacomosoffiò.

«Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato diCima. «E anche, date le circostanze, un segno della Suaprotezione sopra qualche altra persona.»

Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono lamarchesa come se la Mano protettrice dell'Onnipotentefosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece quella ManoDivina stava sopra il cappellone della Pasotti e le tenevaben chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvicontaminatrici parole d'iniquità. «Curato», disse Pasotti,«poiché la signora marchesa lo propone, facciamo unapartitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.»

I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lascia-rono subito dolcemente andare, nel loro angolo, alle co-mode mollezze della conversazione sbottonata, alle vec-chie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi comel'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pa-sotti dopo la prima giuocata, ridendo forte per far suona-re la sua vittoria e la sua allegria.

Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no.

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voce bassa, in tono solenne:«Fulmineo».E il curato di Cima soggiunse più forte:«Evidente».Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e

allora il Paolon osservò: «Proprio!». Il signor Giacomosoffiò.

«Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato diCima. «E anche, date le circostanze, un segno della Suaprotezione sopra qualche altra persona.»

Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono lamarchesa come se la Mano protettrice dell'Onnipotentefosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece quella ManoDivina stava sopra il cappellone della Pasotti e le tenevaben chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvicontaminatrici parole d'iniquità. «Curato», disse Pasotti,«poiché la signora marchesa lo propone, facciamo unapartitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.»

I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lascia-rono subito dolcemente andare, nel loro angolo, alle co-mode mollezze della conversazione sbottonata, alle vec-chie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi comel'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pa-sotti dopo la prima giuocata, ridendo forte per far suona-re la sua vittoria e la sua allegria.

Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no.

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La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sof-ferto angosce mortali aspettando un gesto del marito chele imponesse di giuocare. Oh Signore, dovrebbe toccarleanche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto nonvenne fatto e la sua prima impressione nel veder i quat-tro prender posto al tavolino fu di sollievo. Ma poi le ri-prese subito un disgusto amaro. Che insulto, quel giuo-co, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara Om-brettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva at-tenzione a lei: ella si mise a recitare mentalmente unafila di Pater, Ave e Gloria, per la cattiva creatura sedutaall'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina acomparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per laconversione dei peccatori che soleva dire mattina e seraper suo marito da quando aveva scoperto certe sue fami-liarità con una bassa persona di casa.

Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò eprese congedo. «Aspetti», gli disse la marchesa, «diprender un bicchier di vino.» Alle nove e mezzo solevacapitare una bottiglia preziosa di San Colombano vec-chio. «Stasera non bevo», rispose il prefetto, eroicamen-te. «Son troppo sottosopra da questa mattina in poi. IlPuria sa perché.»

«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tra-gedia, già.»

Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò laPasotti con l'espressione del «c'intendiamo» e partì.

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La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sof-ferto angosce mortali aspettando un gesto del marito chele imponesse di giuocare. Oh Signore, dovrebbe toccarleanche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto nonvenne fatto e la sua prima impressione nel veder i quat-tro prender posto al tavolino fu di sollievo. Ma poi le ri-prese subito un disgusto amaro. Che insulto, quel giuo-co, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara Om-brettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva at-tenzione a lei: ella si mise a recitare mentalmente unafila di Pater, Ave e Gloria, per la cattiva creatura sedutaall'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina acomparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per laconversione dei peccatori che soleva dire mattina e seraper suo marito da quando aveva scoperto certe sue fami-liarità con una bassa persona di casa.

Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò eprese congedo. «Aspetti», gli disse la marchesa, «diprender un bicchier di vino.» Alle nove e mezzo solevacapitare una bottiglia preziosa di San Colombano vec-chio. «Stasera non bevo», rispose il prefetto, eroicamen-te. «Son troppo sottosopra da questa mattina in poi. IlPuria sa perché.»

«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tra-gedia, già.»

Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò laPasotti con l'espressione del «c'intendiamo» e partì.

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Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studia-va la marchesa senza parere. Era ella tocca o no dai fattidi Oria? L'essersi astenuta dal giuoco gli pareva un indi-zio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al propriosangue in astratto. Osservandola bene il curato notò chele sue mani tremavano: cosa nuova. Ella dimenticò didomandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa nuova.La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qual-che contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò ilcurato. Siccome ella taceva, la Pasotti taceva, il Paolontaceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò lui dirompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltarquelle teste verso il tavolino del giuoco e commentare leapostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin, i «no digo» egli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse unpoco, si compiacque di osservare che i giuocatori si di-vertivano. La Pasotti non udì né disse mai parola e glialtri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si dolseche fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' diconversazione. Gli altri due dissero di lei tutto il granbene che meritava e che dice ancora chi la ricorda. Ellastava lì malinconica e muta, non sospettando affattod'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore protegge-va la sua profonda, ingenua umiltà, non le lasciava pe-netrar negli orecchi le lodi della gente ma solo le stra-pazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi nerisi ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò ungran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abban-donarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a ripo-

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Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studia-va la marchesa senza parere. Era ella tocca o no dai fattidi Oria? L'essersi astenuta dal giuoco gli pareva un indi-zio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al propriosangue in astratto. Osservandola bene il curato notò chele sue mani tremavano: cosa nuova. Ella dimenticò didomandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa nuova.La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qual-che contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò ilcurato. Siccome ella taceva, la Pasotti taceva, il Paolontaceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò lui dirompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltarquelle teste verso il tavolino del giuoco e commentare leapostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin, i «no digo» egli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse unpoco, si compiacque di osservare che i giuocatori si di-vertivano. La Pasotti non udì né disse mai parola e glialtri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si dolseche fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' diconversazione. Gli altri due dissero di lei tutto il granbene che meritava e che dice ancora chi la ricorda. Ellastava lì malinconica e muta, non sospettando affattod'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore protegge-va la sua profonda, ingenua umiltà, non le lasciava pe-netrar negli orecchi le lodi della gente ma solo le stra-pazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi nerisi ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò ungran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abban-donarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a ripo-

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sare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmen-te il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno dialzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu con-tenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puriail quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone».È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago edelle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al cura-to del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi.«Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Eglie il Paolin discorrevano sottovoce ma con gran calore,commentando le parole della marchesa, del prefetto, diPasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, di-sputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per ilsì, il Paolin per il no. Il Paolon precedeva con la lanter-na mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolinandò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durez-za della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenag-gine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temeritàdel prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezzadell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti.Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigiane-rie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoi-smo porco. «Che gran mond mincion!», fu il suo rias-sunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'èquel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora,lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopouna sentenza tanto logica nulla restava più a dire né agrugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salitaprocedette silenziosa per le umide ombre del Campò,

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sare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmen-te il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno dialzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu con-tenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puriail quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone».È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago edelle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al cura-to del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi.«Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Eglie il Paolin discorrevano sottovoce ma con gran calore,commentando le parole della marchesa, del prefetto, diPasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, di-sputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per ilsì, il Paolin per il no. Il Paolon precedeva con la lanter-na mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolinandò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durez-za della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenag-gine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temeritàdel prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezzadell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti.Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigiane-rie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoi-smo porco. «Che gran mond mincion!», fu il suo rias-sunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'èquel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora,lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopouna sentenza tanto logica nulla restava più a dire né agrugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salitaprocedette silenziosa per le umide ombre del Campò,

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nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersidi uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno.

Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanelloper il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Ilrosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva lesue radici nei peccati antichi della marchesa e venivasempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuoviGloria a misura che la vecchia dama avanzava neglianni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un te-schio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungoassai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pe-savano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa fur-fanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari,mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava unamolestia sempre compressa a furia di rosari e sempre ri-nascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remis-sione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltàd'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capoin mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritorna-va con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, lasua superbia avevano a lottare con il terrore di un carce-re perpetuo per debiti, oltre la tomba.

Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori equelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire aiDeprofundis, annunciò tre Avemarie nuove secondo lasua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina

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nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersidi uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno.

Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanelloper il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Ilrosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva lesue radici nei peccati antichi della marchesa e venivasempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuoviGloria a misura che la vecchia dama avanzava neglianni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un te-schio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungoassai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pe-savano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa fur-fanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari,mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava unamolestia sempre compressa a furia di rosari e sempre ri-nascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remis-sione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltàd'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capoin mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritorna-va con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, lasua superbia avevano a lottare con il terrore di un carce-re perpetuo per debiti, oltre la tomba.

Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori equelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire aiDeprofundis, annunciò tre Avemarie nuove secondo lasua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina

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di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero do-mandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tuttolo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e disperse-ro quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo dinervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri,esse furono dette secondo la loro comune intenzione chenon restassero, come troppo spesso accadeva, definitiva-mente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté ar-restare lo spettro nel suo cammino.

La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acquadi cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare diOria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, leimpose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davantiagli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta unavolta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni,piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e lebraccia nude, stranamente somigliante ad un bambinosuo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Nonsapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto esgomento di non sapersi liberare da una immagine mo-lesta; forse paura di questo pensiero, che se non fossestato commesso certo grosso peccato antico, se il testa-mento del marchese Franco non fosse stato arso, la bam-bina non sarebbe morta.

Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla ca-meriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò.Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si videsotto le palpebre una chiara macchia informe che si ven-

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di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero do-mandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tuttolo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e disperse-ro quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo dinervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri,esse furono dette secondo la loro comune intenzione chenon restassero, come troppo spesso accadeva, definitiva-mente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté ar-restare lo spettro nel suo cammino.

La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acquadi cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare diOria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, leimpose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davantiagli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta unavolta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni,piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e lebraccia nude, stranamente somigliante ad un bambinosuo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Nonsapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto esgomento di non sapersi liberare da una immagine mo-lesta; forse paura di questo pensiero, che se non fossestato commesso certo grosso peccato antico, se il testa-mento del marchese Franco non fosse stato arso, la bam-bina non sarebbe morta.

Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla ca-meriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò.Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si videsotto le palpebre una chiara macchia informe che si ven-

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ne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poiin un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino,morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva giàdi assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazio-ne le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non videpiù nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ellaaperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose dipensar una partita di tarocchi per cacciar le immagina-zioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi,poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino dagiuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessòdallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva diquesti soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebretutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente li-neamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimolentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nelsonno o nella morte, non mostrando più che i capelli.Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi eudì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici.Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto adocchi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come pri-ma sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo infor-me e si svolgevano continuamente. Si disegnò un qua-drante d'orologio, che diventò un occhio spaventato dipesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne allamarchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopo-re già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò ilcampanello.

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ne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poiin un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino,morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva giàdi assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazio-ne le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non videpiù nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ellaaperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose dipensar una partita di tarocchi per cacciar le immagina-zioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi,poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino dagiuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessòdallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva diquesti soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebretutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente li-neamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimolentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nelsonno o nella morte, non mostrando più che i capelli.Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi eudì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici.Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto adocchi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come pri-ma sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo infor-me e si svolgevano continuamente. Si disegnò un qua-drante d'orologio, che diventò un occhio spaventato dipesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne allamarchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopo-re già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò ilcampanello.

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La cameriera si fece chiamar due volte e poi vennemezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lumesopra una sedia per modo che dal letto non si potesseveder la fiamma; di prendere un volume di prediche delBarbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera eraabituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leg-gere e in capo alla seconda pagina, udendo il respirodella padrona farsi greve, andò pian piano smorzando lavoce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio.Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, sialzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guancia-le con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta,prese il lume e si ritirò in punta di piedi.

La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacersulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i cep-pi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice conun lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sullanecessità della confessione. Ella gli si protestava inno-cente, ripeteva: «Ma non sa che si è annegata da sé?». Ilgiudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre convoce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No,non l'ho uccisa». Non era flemmatica nel sogno, si agi-tava come una disperata. «Badi», rispondeva il giudice.«La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva:«Lo dice». Poi batté forte le mani palma a palma edesclamò: «Entrate!». Fino a questo punto la marchesaaveva sentito, sognando, di sognare; qui credette sve-gliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.

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La cameriera si fece chiamar due volte e poi vennemezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lumesopra una sedia per modo che dal letto non si potesseveder la fiamma; di prendere un volume di prediche delBarbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera eraabituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leg-gere e in capo alla seconda pagina, udendo il respirodella padrona farsi greve, andò pian piano smorzando lavoce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio.Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, sialzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guancia-le con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta,prese il lume e si ritirò in punta di piedi.

La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacersulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i cep-pi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice conun lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sullanecessità della confessione. Ella gli si protestava inno-cente, ripeteva: «Ma non sa che si è annegata da sé?». Ilgiudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre convoce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No,non l'ho uccisa». Non era flemmatica nel sogno, si agi-tava come una disperata. «Badi», rispondeva il giudice.«La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva:«Lo dice». Poi batté forte le mani palma a palma edesclamò: «Entrate!». Fino a questo punto la marchesaaveva sentito, sognando, di sognare; qui credette sve-gliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.

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Una forma umana debolmente luminosa stava a sederesulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sìch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Appari-zione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme ave-vano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; latesta, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusad'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano lamarchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta.Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parla-vano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambinalo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu seistata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa.Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna.»

Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tuttoquesto ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito,stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qual-che cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah...ah...» mentre le mani, le braccia, il busto del fantasmasfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidi-vano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmentepure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Sestesso, null'altro rimanendo dell'Apparizione che pocafosforescenza poi assorbita dall'ombra.

La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non siricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì ametter fuori la voce. Con un impeto della sua volontàpotente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambedal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio,

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Una forma umana debolmente luminosa stava a sederesulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sìch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Appari-zione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme ave-vano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; latesta, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusad'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano lamarchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta.Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parla-vano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambinalo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu seistata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa.Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna.»

Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tuttoquesto ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito,stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qual-che cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah...ah...» mentre le mani, le braccia, il busto del fantasmasfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidi-vano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmentepure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Sestesso, null'altro rimanendo dell'Apparizione che pocafosforescenza poi assorbita dall'ombra.

La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non siricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì ametter fuori la voce. Con un impeto della sua volontàpotente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambedal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio,

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incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, caddecon essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere.

La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe ri-sposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nel-la penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa dibianco e d'enorme che si divincolava sul pavimentocome una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gri-dò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casae si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il pre-te, il prete! Il prefetto, il prefetto!»

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incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, caddecon essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere.

La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe ri-sposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nel-la penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa dibianco e d'enorme che si divincolava sul pavimentocome una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gri-dò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casae si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il pre-te, il prete! Il prefetto, il prefetto!»

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13.In fuga

Alle due e mezzo dopo la mezzanotte, Franco, l'avvo-cato V. e il loro amico Pedraglio erano seduti in loggia,al buio, in silenzio. A un tratto Pedraglio si alzò dicen-do: «Cosa fa questo asino?», uscì sulla terrazza, vi stettein ascolto e rientrò. «Niente», diss'egli. «Disi mi, e perquell'asino che si sarà addormentato dobbiamo star quida minchioni ad aspettare che ci prendano? Tu, Maironi,la strada presso a poco la sai e siamo poi anche in treche abbiamo il fegato buono. Se occorrerà de dà via onquai cazzott el darèm via, neh ti avocàt?»

Il Pedraglio s'era trovato la sera prima, verso le sette,sulla strada fra Loveno e Menaggio nel luogo che chia-mano «el crott del Bertin». Un uomo gli aveva chiestol'elemosina e posto in mano un biglietto. Poi si era al-lontanato rapidamente. Il biglietto diceva: «Perché ilCarlino Pedraj non valo mica subito a Oria a trovare ilSignor Maironi e il signor avocatto di Varenna per fareuna bella spasseggiata con gli amici cari da quel co diquel palo?». Dopo l'arresto del medico di Pellio, amicosuo, Pedraglio era in sospetto di qualche tiro della Poli-zia, e quel biglietto non era il primo avviso salutare esgrammaticato che pervenisse a un patriota. Il bigliettoparlava chiaro; bisognava passar subito il palo del confi-

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13.In fuga

Alle due e mezzo dopo la mezzanotte, Franco, l'avvo-cato V. e il loro amico Pedraglio erano seduti in loggia,al buio, in silenzio. A un tratto Pedraglio si alzò dicen-do: «Cosa fa questo asino?», uscì sulla terrazza, vi stettein ascolto e rientrò. «Niente», diss'egli. «Disi mi, e perquell'asino che si sarà addormentato dobbiamo star quida minchioni ad aspettare che ci prendano? Tu, Maironi,la strada presso a poco la sai e siamo poi anche in treche abbiamo il fegato buono. Se occorrerà de dà via onquai cazzott el darèm via, neh ti avocàt?»

Il Pedraglio s'era trovato la sera prima, verso le sette,sulla strada fra Loveno e Menaggio nel luogo che chia-mano «el crott del Bertin». Un uomo gli aveva chiestol'elemosina e posto in mano un biglietto. Poi si era al-lontanato rapidamente. Il biglietto diceva: «Perché ilCarlino Pedraj non valo mica subito a Oria a trovare ilSignor Maironi e il signor avocatto di Varenna per fareuna bella spasseggiata con gli amici cari da quel co diquel palo?». Dopo l'arresto del medico di Pellio, amicosuo, Pedraglio era in sospetto di qualche tiro della Poli-zia, e quel biglietto non era il primo avviso salutare esgrammaticato che pervenisse a un patriota. Il bigliettoparlava chiaro; bisognava passar subito il palo del confi-

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ne. Il Pedraglio non sapeva niente della disgrazia diFranco né del suo ritorno né che l'avvocato fosse a Oria,ma non andò a cercar altro, corse a Loveno, si provvidedi denaro e si pose in cammino. Non si fidò di venire aPorlezza, prese il sentiero che presso Tavordo sale perun vallone deserto al Passo Stretto. Agile come un ca-moscio, arrivò in quattr'ore a Oria, trovò che Franco el'avvocato si preparavano a partire per un altro avverti-mento misterioso pervenuto loro dal curato di Castello,ch'era stato a Porlezza e ne aveva ricevuto l'incarico inconfessione. Ismaele doveva guidarli oltre il confine. Ipassi del Boglia erano guardatissimi. Ismaele si propo-neva di passar fra il monte della Nave e Castello per ca-lar poi nella valle, tagliar dritto all'Alpe di Castello sottoil Sasso Grande e di là scendere a Cadro, un'ora sopraLugano.

Ma Ismaele doveva venire alle due, e alle due e mezzonon s'era veduto ancora.

Anche Luisa era in piedi. Stava nell'alcova rammen-dando un paio di calze di Maria per metterle poi sul let-tino dove aveva disposto le cosucce di Ombretta con lastessa cura di quando la piccina era viva. Non aveva vo-luto vedere né l'avvocato né Pedraglio. Dopo le smaniedel funerale il suo dolore aveva ripreso quell'aspettocupo che più dispiaceva al dottor Aliprandi. Non sma-niava più, non parlava; pianto, non aveva mai. Il suocontegno con Franco era un contegno di pietà perl'uomo che l'amava e il cui affetto, la cui presenza le

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ne. Il Pedraglio non sapeva niente della disgrazia diFranco né del suo ritorno né che l'avvocato fosse a Oria,ma non andò a cercar altro, corse a Loveno, si provvidedi denaro e si pose in cammino. Non si fidò di venire aPorlezza, prese il sentiero che presso Tavordo sale perun vallone deserto al Passo Stretto. Agile come un ca-moscio, arrivò in quattr'ore a Oria, trovò che Franco el'avvocato si preparavano a partire per un altro avverti-mento misterioso pervenuto loro dal curato di Castello,ch'era stato a Porlezza e ne aveva ricevuto l'incarico inconfessione. Ismaele doveva guidarli oltre il confine. Ipassi del Boglia erano guardatissimi. Ismaele si propo-neva di passar fra il monte della Nave e Castello per ca-lar poi nella valle, tagliar dritto all'Alpe di Castello sottoil Sasso Grande e di là scendere a Cadro, un'ora sopraLugano.

Ma Ismaele doveva venire alle due, e alle due e mezzonon s'era veduto ancora.

Anche Luisa era in piedi. Stava nell'alcova rammen-dando un paio di calze di Maria per metterle poi sul let-tino dove aveva disposto le cosucce di Ombretta con lastessa cura di quando la piccina era viva. Non aveva vo-luto vedere né l'avvocato né Pedraglio. Dopo le smaniedel funerale il suo dolore aveva ripreso quell'aspettocupo che più dispiaceva al dottor Aliprandi. Non sma-niava più, non parlava; pianto, non aveva mai. Il suocontegno con Franco era un contegno di pietà perl'uomo che l'amava e il cui affetto, la cui presenza le

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erano, malgrado lei stessa, indifferenti. Franco, speran-do nell'impiego di cui gli aveva tenuto parola il suo di-rettore, aveva parlato di portar seco la famiglia a Torino.Lo zio, poveretto, era disposto anche a questo sacrificioma Luisa aveva detto chiaro che piuttosto di allontanarsidalla sua figliuola finirebbe nel lago come lei.

Franco, udita la proposta di partire senza Ismaele, sialzò e disse che andava a congedarsi da sua moglie.Nello stesso momento l'avvocato udì un passo nella stra-da. «Silenzio!», diss'egli. «È qui.» Franco uscì sulla ter-razza. Qualcuno veniva infatti dalla parte di Albogasio.Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mez-za voce:

«Ismaele!»«Sono io», rispose una voce che non era quella di

Ismaele. «Sono il prefetto. Vengo su.»Il prefetto? A quell'ora? Che poteva essere accaduto?

Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese lescale in fretta.

Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ri-comparire. Capitò invece la moglie d'Ismaele a dire chesuo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlòdal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Queglicorse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che salivacol prefetto. «La guida è ammalata», diss'egli, cono-

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erano, malgrado lei stessa, indifferenti. Franco, speran-do nell'impiego di cui gli aveva tenuto parola il suo di-rettore, aveva parlato di portar seco la famiglia a Torino.Lo zio, poveretto, era disposto anche a questo sacrificioma Luisa aveva detto chiaro che piuttosto di allontanarsidalla sua figliuola finirebbe nel lago come lei.

Franco, udita la proposta di partire senza Ismaele, sialzò e disse che andava a congedarsi da sua moglie.Nello stesso momento l'avvocato udì un passo nella stra-da. «Silenzio!», diss'egli. «È qui.» Franco uscì sulla ter-razza. Qualcuno veniva infatti dalla parte di Albogasio.Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mez-za voce:

«Ismaele!»«Sono io», rispose una voce che non era quella di

Ismaele. «Sono il prefetto. Vengo su.»Il prefetto? A quell'ora? Che poteva essere accaduto?

Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese lescale in fretta.

Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ri-comparire. Capitò invece la moglie d'Ismaele a dire chesuo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlòdal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Queglicorse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che salivacol prefetto. «La guida è ammalata», diss'egli, cono-

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scendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non per-diamo tempo.» Franco gli rispose che subito non potevavenire e che lo precedessero. Come, non poteva venire?No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamòl'avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perché par-tissero subito. Era successa una cosa straordinaria, do-veva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risolu-zione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai nonl'avrebbero abbandonato. L'allegro Pedraglio, uso aspendere oltre i desideri di suo padre, osservò che allapeggio a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buonmercato e più virtuosamente che a Torino e che ciòavrebbe consolato il suo «regiôr». «No no!», esclamòFranco. «Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!» Edentrò nell'alcova.

«Partite?», gli disse Luisa con quella voce che parevavenire da un mondo lontano. «Addio.» Egli le si avvici-nò, si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano.«Luisa», mormorò, «c'è qui il prefetto della Caravina.»Ella non mostrò alcuna sorpresa. «La nonna lo ha fattochiamare stanotte», continuò Franco. «Gli ha detto diaver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo.»

«Oh, che menzogna!», fece Luisa con una voce grossadi disprezzo, senz'ira. «Come se fosse possibile che an-dasse da lei e non venisse da me!»

«Maria le ha toccato il cuore», riprese Franco. «Ella cidomanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di

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scendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non per-diamo tempo.» Franco gli rispose che subito non potevavenire e che lo precedessero. Come, non poteva venire?No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamòl'avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perché par-tissero subito. Era successa una cosa straordinaria, do-veva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risolu-zione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai nonl'avrebbero abbandonato. L'allegro Pedraglio, uso aspendere oltre i desideri di suo padre, osservò che allapeggio a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buonmercato e più virtuosamente che a Torino e che ciòavrebbe consolato il suo «regiôr». «No no!», esclamòFranco. «Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!» Edentrò nell'alcova.

«Partite?», gli disse Luisa con quella voce che parevavenire da un mondo lontano. «Addio.» Egli le si avvici-nò, si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano.«Luisa», mormorò, «c'è qui il prefetto della Caravina.»Ella non mostrò alcuna sorpresa. «La nonna lo ha fattochiamare stanotte», continuò Franco. «Gli ha detto diaver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo.»

«Oh, che menzogna!», fece Luisa con una voce grossadi disprezzo, senz'ira. «Come se fosse possibile che an-dasse da lei e non venisse da me!»

«Maria le ha toccato il cuore», riprese Franco. «Ella cidomanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di

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andar da lei, di portarle una parola di pace anche perte.»

Neppure Franco credeva all'Apparizione, scettico pro-fondamente com'era per tutto il soprannaturale non reli-gioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza supe-riore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar ilcuore della nonna e ciò gli recava una commozione in-dicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s'irritò, comeFranco temeva, all'idea di mandar un messaggio amore-vole. «La nonna avrà paura dell'inferno», osservò conquella sua freddezza mortale. «L'inferno non c'è, tutto siriduce a un po' di spavento, è una pena da niente, la su-bisca e poi muoia anche lei come si muore tutti eamen.» Franco intese che sarebbe stato inutile insistere.«Allora vado», diss'egli. Ella tacque.

«Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno», ri-prese Franco. «Dovrò prendere la montagna.»

Nessuna risposta.Il giovane disse sottovoce: «Luisa!». Rimprovero, do-

lore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Lemani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, sifermarono. Ella mormorò:

«Non sento più niente. Sono un sasso».Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli,

le disse addio, entrò nell'alcova, s'inginocchiò, abbrac-ciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro:

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andar da lei, di portarle una parola di pace anche perte.»

Neppure Franco credeva all'Apparizione, scettico pro-fondamente com'era per tutto il soprannaturale non reli-gioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza supe-riore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar ilcuore della nonna e ciò gli recava una commozione in-dicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s'irritò, comeFranco temeva, all'idea di mandar un messaggio amore-vole. «La nonna avrà paura dell'inferno», osservò conquella sua freddezza mortale. «L'inferno non c'è, tutto siriduce a un po' di spavento, è una pena da niente, la su-bisca e poi muoia anche lei come si muore tutti eamen.» Franco intese che sarebbe stato inutile insistere.«Allora vado», diss'egli. Ella tacque.

«Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno», ri-prese Franco. «Dovrò prendere la montagna.»

Nessuna risposta.Il giovane disse sottovoce: «Luisa!». Rimprovero, do-

lore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Lemani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, sifermarono. Ella mormorò:

«Non sento più niente. Sono un sasso».Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli,

le disse addio, entrò nell'alcova, s'inginocchiò, abbrac-ciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro:

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«ancora un bacio, papà», ebbe un assalto di pianto, sicontenne, corse via precipitosamente.

Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come par-tire se non conoscevan le strade? L'avvocato conoscevala strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfug-gire alle guardie? Quando udirono che Franco intendevaandare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscìdai gangheri, disse ch'era un'indegnità di piantar così gliamici nell'imbarazzo. Il prefetto, udito come le cose sta-vano, s'unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco,gli propose di scrivere due parole ch'egli avrebbe portatea Cressogno. Ma Franco aveva l'idea che la sua Mariavolesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne inmente che il prefetto era pratico di tutti i sentieri comeuna lepre. «Va' tu!», gli diss'egli. «Accompagnali tu!» Ilprefetto stava per rispondere che forse la marchesa po-trebbe aver bisogno di lui, quando l'avvocato fece: «Zit-to! guardate».

Proprio davanti alla casa, dove l'ombra del monte Bi-sgnago si profilava sull'acqua ondulando, c'era una bar-ca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di fi-nanza.

«Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia»,mormorò Pedraglio. «Temono che si scappi in barca.Almeno spiano!»

«Zitto!», fece ancora l'avvocato affacciandosi alla fine-stra verso il sagrato.

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«ancora un bacio, papà», ebbe un assalto di pianto, sicontenne, corse via precipitosamente.

Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come par-tire se non conoscevan le strade? L'avvocato conoscevala strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfug-gire alle guardie? Quando udirono che Franco intendevaandare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscìdai gangheri, disse ch'era un'indegnità di piantar così gliamici nell'imbarazzo. Il prefetto, udito come le cose sta-vano, s'unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco,gli propose di scrivere due parole ch'egli avrebbe portatea Cressogno. Ma Franco aveva l'idea che la sua Mariavolesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne inmente che il prefetto era pratico di tutti i sentieri comeuna lepre. «Va' tu!», gli diss'egli. «Accompagnali tu!» Ilprefetto stava per rispondere che forse la marchesa po-trebbe aver bisogno di lui, quando l'avvocato fece: «Zit-to! guardate».

Proprio davanti alla casa, dove l'ombra del monte Bi-sgnago si profilava sull'acqua ondulando, c'era una bar-ca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di fi-nanza.

«Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia»,mormorò Pedraglio. «Temono che si scappi in barca.Almeno spiano!»

«Zitto!», fece ancora l'avvocato affacciandosi alla fine-stra verso il sagrato.

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Tutti tacquero, trattenendo il respiro.«Fioeui!», disse V. scostandosi bruscamente dalla fine-

stra: «Ghe semm!». Franco andò alla finestra, vide unuomo solo che veniva correndo, credette a un falso al-larme; ma l'uomo, quel tale che portava il nomignolo di«légora fügada», che vedeva e sapeva tutto, gli gittò,passando sotto la finestra, due parole: «La forza!». Siudirono in pari tempo i passi di molte persone. Francoesclamò «Con me! anche tu, prefetto!». Si slanciò, se-guito da tutti, nel cortiletto ch'è tra la casa e il monte,raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia chemette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro chenessuno si accorse di una guardia di finanza appostatacon la carabina in pugno a due passi dall'uscio della le-gnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto,era un galantuomo che mangiava a malincuore il paneaustriaco per non averne potuto trovare altro. «Presto!»,diss'egli sottovoce. «Prendano i campi e poi la strada diBoglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a si-nistra!» Franco ringraziò quell'uomo, si avventò con icompagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuolacomunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via,saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stette-ro in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dalsagrato e poi sul sentiero dov'era appostata la guardia.Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscitefossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via at-traverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chia-

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Tutti tacquero, trattenendo il respiro.«Fioeui!», disse V. scostandosi bruscamente dalla fine-

stra: «Ghe semm!». Franco andò alla finestra, vide unuomo solo che veniva correndo, credette a un falso al-larme; ma l'uomo, quel tale che portava il nomignolo di«légora fügada», che vedeva e sapeva tutto, gli gittò,passando sotto la finestra, due parole: «La forza!». Siudirono in pari tempo i passi di molte persone. Francoesclamò «Con me! anche tu, prefetto!». Si slanciò, se-guito da tutti, nel cortiletto ch'è tra la casa e il monte,raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia chemette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro chenessuno si accorse di una guardia di finanza appostatacon la carabina in pugno a due passi dall'uscio della le-gnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto,era un galantuomo che mangiava a malincuore il paneaustriaco per non averne potuto trovare altro. «Presto!»,diss'egli sottovoce. «Prendano i campi e poi la strada diBoglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a si-nistra!» Franco ringraziò quell'uomo, si avventò con icompagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuolacomunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via,saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stette-ro in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dalsagrato e poi sul sentiero dov'era appostata la guardia.Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscitefossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via at-traverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chia-

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mano «Sass del Lori», tennero consiglio. Avrebbero po-tuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albo-gasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi ar-rampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia.Ma il sentiero era difficile a trovare a quell'ora; temendoperdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere unascaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casaPuttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avreb-bero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Facevagià un po' meno scuro; ciò era male per un verso ma erabene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e dimuricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualchevolta, inciampando in un sasso o pungendosi in una sie-pe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altrizittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal prefettoche saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quandofurono tutti raccolti sulla scaletta, Franco si staccò dalgruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno dilui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferròper le braccia, invano il prefetto lo supplicò di nonesporsi a un arresto sicuro, magari all'ergastolo. Eglicredeva di obbedire alla voce di Maria, a un dovere dicoscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per lascaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mametteche sarebbe stato troppo pericoloso. «Avanti!», disse ilprefetto. «Quello là è matto, pensiamo a noi.»

Girando la casa del Puttini udirono gente che venivaloro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era

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mano «Sass del Lori», tennero consiglio. Avrebbero po-tuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albo-gasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi ar-rampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia.Ma il sentiero era difficile a trovare a quell'ora; temendoperdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere unascaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casaPuttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avreb-bero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Facevagià un po' meno scuro; ciò era male per un verso ma erabene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e dimuricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualchevolta, inciampando in un sasso o pungendosi in una sie-pe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altrizittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal prefettoche saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quandofurono tutti raccolti sulla scaletta, Franco si staccò dalgruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno dilui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferròper le braccia, invano il prefetto lo supplicò di nonesporsi a un arresto sicuro, magari all'ergastolo. Eglicredeva di obbedire alla voce di Maria, a un dovere dicoscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per lascaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mametteche sarebbe stato troppo pericoloso. «Avanti!», disse ilprefetto. «Quello là è matto, pensiamo a noi.»

Girando la casa del Puttini udirono gente che venivaloro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era

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aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Eranocontadini e uno diceva: «Dove diavol el va a st'orachì?». Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco.Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia deifuggitivi e s'imbattono in quella gente, ecco che trovanouna traccia. Sull'alba si trova sempre gente. Stavolta s'èpotuta evitare; un'altra volta, forse, non si potrà; un altroincontro può riescir fatale all'avvocato e a Pedragliocome il primo riuscirà probabilmente fatale a Franco.«Bisognerebbe che vi travestiste da contadini», dice ilprefetto. All'avvocato, che ha dell'artista e del poeta econosce bene il Puttini, viene un'idea: pigliar gli abitidel sior Zacomo per il Pedraglio ch'è piccolo anche lui,pigliar per sé un vestito della serva ch'è grande e grossa,cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene lespalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Al-bogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del Comu-ne. Detto fatto salgon le scale e il prefetto, ch'è pratico,va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde;la sua camera è vuota. Il prefetto indovina subito che laperfida servente è andata a S. Mamette per qualche ne-gozio segreto, come quello dell'olio. Ecco perché l'usciodi strada era aperto! Vanno in cucina, accendono duelumi, l'avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la came-ra del sior Zacomo. Intanto Pedraglio esplora la cucinacon l'altro lume, in cerca «de on quai diavol de bev» perpigliar fiato.

Il sior Zacomo dormiva in una stanza d'angolo oltre

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aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Eranocontadini e uno diceva: «Dove diavol el va a st'orachì?». Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco.Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia deifuggitivi e s'imbattono in quella gente, ecco che trovanouna traccia. Sull'alba si trova sempre gente. Stavolta s'èpotuta evitare; un'altra volta, forse, non si potrà; un altroincontro può riescir fatale all'avvocato e a Pedragliocome il primo riuscirà probabilmente fatale a Franco.«Bisognerebbe che vi travestiste da contadini», dice ilprefetto. All'avvocato, che ha dell'artista e del poeta econosce bene il Puttini, viene un'idea: pigliar gli abitidel sior Zacomo per il Pedraglio ch'è piccolo anche lui,pigliar per sé un vestito della serva ch'è grande e grossa,cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene lespalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Al-bogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del Comu-ne. Detto fatto salgon le scale e il prefetto, ch'è pratico,va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde;la sua camera è vuota. Il prefetto indovina subito che laperfida servente è andata a S. Mamette per qualche ne-gozio segreto, come quello dell'olio. Ecco perché l'usciodi strada era aperto! Vanno in cucina, accendono duelumi, l'avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la came-ra del sior Zacomo. Intanto Pedraglio esplora la cucinacon l'altro lume, in cerca «de on quai diavol de bev» perpigliar fiato.

Il sior Zacomo dormiva in una stanza d'angolo oltre

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una sala che l'avvocato attraversò in punta di piedi cam-minando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole edi pere. Egli si accosta all'uscio: è chiuso. Origlia: silen-zio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L'infame uscioscricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zaco-mo dice rabbiosamente: «Andé! No seché! Andé via!».L'avvocato entrò senz'altro. «Via, maledeta, digo!», gri-dò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bian-ca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise agemere. «Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoniper carità, credeva che fosse la servente! Avvocato di-stintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?» «Gnentegnente, sior Zacomo», fece l'avvocato contraffacendolomolto lombardamente col suo imperturbabile umorismo.«Ghe xe qua, digo, ciò, el Commissario de Porlezza.»

«Oh Dio!» Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambefuori del letto.

«Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo inBoglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!»

«Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Boglia noghe xe tori! Mi sudo tuto!»

«No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò,dove ch'el gera. Ma il signor Commissario», continuò ilbeffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo loimbarazzava, «Le proibisce assolutamente di venire connoi, per le sue buone ragioni. Le proibisce di uscire pri-ma del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle

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una sala che l'avvocato attraversò in punta di piedi cam-minando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole edi pere. Egli si accosta all'uscio: è chiuso. Origlia: silen-zio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L'infame uscioscricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zaco-mo dice rabbiosamente: «Andé! No seché! Andé via!».L'avvocato entrò senz'altro. «Via, maledeta, digo!», gri-dò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bian-ca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise agemere. «Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoniper carità, credeva che fosse la servente! Avvocato di-stintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?» «Gnentegnente, sior Zacomo», fece l'avvocato contraffacendolomolto lombardamente col suo imperturbabile umorismo.«Ghe xe qua, digo, ciò, el Commissario de Porlezza.»

«Oh Dio!» Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambefuori del letto.

«Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo inBoglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!»

«Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Boglia noghe xe tori! Mi sudo tuto!»

«No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò,dove ch'el gera. Ma il signor Commissario», continuò ilbeffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo loimbarazzava, «Le proibisce assolutamente di venire connoi, per le sue buone ragioni. Le proibisce di uscire pri-ma del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle

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via gli abiti.»E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior

Zacomo, gl'intimò il silenzio in nome del Commissario,pigliò il cappellone a cilindro, arraffò la mazza di cannad'India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appe-na uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare anessuno prima del ritorno del Commissario e tutto innome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più mortoche vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e frugalà, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, unfazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesonetriduo. «Accidenti!», fece l'avvocato, quando vide laroba immonda che doveva mettere. Il suo travestimentoandava veramente male, la sottana era corta, il fazzolet-tone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma nonc'era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappello-ne in testa e canna d'India in mano, riescì un sior Zaco-mo perfetto. L'avvocato gli fece prendere sotto l'ascellauno scartafaccio che trovò in cucina, gl'insegnò comedoveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavidella cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedra-glio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, unoin chiave di violino, disse, e l'altro in chiave di basso. Ecosì uscirono, il prefetto davanti, poi il finto sior Zaco-mo che soffiava come una macchina a vapore, poi la fin-ta Marianna con la gerla. Appena furono in istrada eccospuntar la Marianna vera di ritorno da San Mamette conun fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del

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via gli abiti.»E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior

Zacomo, gl'intimò il silenzio in nome del Commissario,pigliò il cappellone a cilindro, arraffò la mazza di cannad'India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appe-na uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare anessuno prima del ritorno del Commissario e tutto innome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più mortoche vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e frugalà, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, unfazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesonetriduo. «Accidenti!», fece l'avvocato, quando vide laroba immonda che doveva mettere. Il suo travestimentoandava veramente male, la sottana era corta, il fazzolet-tone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma nonc'era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappello-ne in testa e canna d'India in mano, riescì un sior Zaco-mo perfetto. L'avvocato gli fece prendere sotto l'ascellauno scartafaccio che trovò in cucina, gl'insegnò comedoveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavidella cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedra-glio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, unoin chiave di violino, disse, e l'altro in chiave di basso. Ecosì uscirono, il prefetto davanti, poi il finto sior Zaco-mo che soffiava come una macchina a vapore, poi la fin-ta Marianna con la gerla. Appena furono in istrada eccospuntar la Marianna vera di ritorno da San Mamette conun fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del

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padrone, diede volta e via a gambe.«Brutta ladra», fece il prefetto. «Benone. Il travesti-

mento va benone.» In cinque minuti furono sulla stradadi Boglia. Il prefetto ridiscese, udì persone che salivanoda Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e diguardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse dinuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casaRibera per arrestare don Franco Maironi e pare anchel'avvocato V., perché sapevano che ci doveva essere ehanno molto domandato di lui. Non hanno trovato nél'uno né l'altro benché le guardie di finanza sieno statedi piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Ades-so la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendoche i due sieno scappati per il tetto. Mentre si dannoqueste informazioni al prefetto, ecco un ragazzo venir dicorsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. «Igendarmi!», dice. «I gendarmi!» È pallido come un cen-cio lavato e scappa senza saper perché, non gli si puòcavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donnache si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quat-tro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazzadi Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia statoveduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e dueguardie hanno preso la strada di Boglia. Il prefetto rab-brividisce. «Già», dice qualcuno. «La strada di Bogliaper tagliargli il passo.» Questa è la speranza del prefetto,che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco.Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la

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padrone, diede volta e via a gambe.«Brutta ladra», fece il prefetto. «Benone. Il travesti-

mento va benone.» In cinque minuti furono sulla stradadi Boglia. Il prefetto ridiscese, udì persone che salivanoda Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e diguardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse dinuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casaRibera per arrestare don Franco Maironi e pare anchel'avvocato V., perché sapevano che ci doveva essere ehanno molto domandato di lui. Non hanno trovato nél'uno né l'altro benché le guardie di finanza sieno statedi piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Ades-so la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendoche i due sieno scappati per il tetto. Mentre si dannoqueste informazioni al prefetto, ecco un ragazzo venir dicorsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. «Igendarmi!», dice. «I gendarmi!» È pallido come un cen-cio lavato e scappa senza saper perché, non gli si puòcavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donnache si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quat-tro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazzadi Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia statoveduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e dueguardie hanno preso la strada di Boglia. Il prefetto rab-brividisce. «Già», dice qualcuno. «La strada di Bogliaper tagliargli il passo.» Questa è la speranza del prefetto,che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco.Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la

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finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il lorodestino è ormai fuori delle sue mani mentre per Francoegli può far molto ancora. Si incammina verso Cresso-gno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano esalvo se i gendarmi non ne trovano nuove tracce, perchélo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menanoal confine e non mai sulla via di Cressogno.

Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada,da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripi-dissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvoca-to camminava in silenzio, l'altro malediceva continua-mente, sottovoce, il suo vestiario, «el loder d'on cappel»che gl'invischiava la fronte d'unto; «el boia d'un marsi-non» che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püsnon incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì trale stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupe-fatta: «Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?». L'avvo-cato mormorò: «Boffa!», e l'altro si mise a soffiar «apff!apff!» come un mantice. «Se perd el fiaa per sti stradchì, cara lü», disse la vecchia. Non incontrarono piùnessuno fino alla Sostra.

La Sostra è una stalla a mezza montagna, circa, con unfienile, un portico e una cisterna, alquanto in dispartedalla strada. Quella strada è la più dannata che sia inValsolda, farebbe cacciar la lingua a uno stambecco. Pe-draglio e l'avvocato, trafelati, grondanti di sudore, entra-rono un momento alla Sostra. Anche lì silenzio e deser-to. A quella altezza si respirava già un'aria diversa. E

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finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il lorodestino è ormai fuori delle sue mani mentre per Francoegli può far molto ancora. Si incammina verso Cresso-gno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano esalvo se i gendarmi non ne trovano nuove tracce, perchélo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menanoal confine e non mai sulla via di Cressogno.

Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada,da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripi-dissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvoca-to camminava in silenzio, l'altro malediceva continua-mente, sottovoce, il suo vestiario, «el loder d'on cappel»che gl'invischiava la fronte d'unto; «el boia d'un marsi-non» che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püsnon incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì trale stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupe-fatta: «Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?». L'avvo-cato mormorò: «Boffa!», e l'altro si mise a soffiar «apff!apff!» come un mantice. «Se perd el fiaa per sti stradchì, cara lü», disse la vecchia. Non incontrarono piùnessuno fino alla Sostra.

La Sostra è una stalla a mezza montagna, circa, con unfienile, un portico e una cisterna, alquanto in dispartedalla strada. Quella strada è la più dannata che sia inValsolda, farebbe cacciar la lingua a uno stambecco. Pe-draglio e l'avvocato, trafelati, grondanti di sudore, entra-rono un momento alla Sostra. Anche lì silenzio e deser-to. A quella altezza si respirava già un'aria diversa. E

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come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come illago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume!L'avvocato guardava su amorosamente alla prima crestadel Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi;un'altra mezz'ora di arrampicata. «Andiamo», diss'egli.Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoriadell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il PassoStretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tran-quillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, unpoema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese delsecolo decimosettimo. «Andiamo!», ripeté il suo com-pagno dopo un paio di minuti, e si alzava già quando udìvenir gente. Ebbe appena il tempo di dire «attento!» e divoltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedra-glio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntarsulla strada prima due guardie di finanza e poi due gen-darmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Ledue guardie si fermarono. Una di loro salutò: «Riverito,signor Puttini», e disse ai gendarmi: «È il primo deputa-to politico di Albogasio». I gendarmi salutarono pure,Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scarta-faccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata maun gendarme intimò loro di proseguire e quando vide in-camminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso.Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. «Tu, cane,non mi conosci, spero», pensò Pedraglio con una torbidacoscienza della sua doppia personalità. «Lascia fare ame.»

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come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come illago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume!L'avvocato guardava su amorosamente alla prima crestadel Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi;un'altra mezz'ora di arrampicata. «Andiamo», diss'egli.Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoriadell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il PassoStretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tran-quillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, unpoema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese delsecolo decimosettimo. «Andiamo!», ripeté il suo com-pagno dopo un paio di minuti, e si alzava già quando udìvenir gente. Ebbe appena il tempo di dire «attento!» e divoltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedra-glio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntarsulla strada prima due guardie di finanza e poi due gen-darmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Ledue guardie si fermarono. Una di loro salutò: «Riverito,signor Puttini», e disse ai gendarmi: «È il primo deputa-to politico di Albogasio». I gendarmi salutarono pure,Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scarta-faccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata maun gendarme intimò loro di proseguire e quando vide in-camminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso.Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. «Tu, cane,non mi conosci, spero», pensò Pedraglio con una torbidacoscienza della sua doppia personalità. «Lascia fare ame.»

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«Signor deputato politico», disse colui, «avrebbe vedu-to stamattina il signor Maironi di Oria?»

«Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora.»«E Lei dove va?»«Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì.

Vado su per l'affar del toro comunale.»«Bestia», pensò l'avvocato. «Comunale me lo fa diven-

tare!» Ma passò felicemente anche il toro comunale. Ilgendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo in-terlocutore in viso. «Lei è deputato politico», diss'egliinsolentemente, «e porta quella roba sul viso?» Pedra-glio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzonero, barba reproba da liberale. «Taglieremo, tagliere-mo», diss'egli con serietà comica. «Sì signore. Va sulBoglia anche Lei?» Il gendarme se n'andò duro durosenza rispondergli, senza udire su quale ignominioso pa-tibolo il deputato politico lo mandava.

I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bellama riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio.Adesso bisognava contare con le guardie che conosce-vano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quelmastino di gendarme parlasse della barba? «Su su», fecel'avvocato, «teniamo loro dietro e se li vediamo o liudiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra versoil confine.» Partito disperato, quest'ultimo, perché nonconoscevano il terreno, certo familiare alle guardie.

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«Signor deputato politico», disse colui, «avrebbe vedu-to stamattina il signor Maironi di Oria?»

«Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora.»«E Lei dove va?»«Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì.

Vado su per l'affar del toro comunale.»«Bestia», pensò l'avvocato. «Comunale me lo fa diven-

tare!» Ma passò felicemente anche il toro comunale. Ilgendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo in-terlocutore in viso. «Lei è deputato politico», diss'egliinsolentemente, «e porta quella roba sul viso?» Pedra-glio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzonero, barba reproba da liberale. «Taglieremo, tagliere-mo», diss'egli con serietà comica. «Sì signore. Va sulBoglia anche Lei?» Il gendarme se n'andò duro durosenza rispondergli, senza udire su quale ignominioso pa-tibolo il deputato politico lo mandava.

I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bellama riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio.Adesso bisognava contare con le guardie che conosce-vano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quelmastino di gendarme parlasse della barba? «Su su», fecel'avvocato, «teniamo loro dietro e se li vediamo o liudiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra versoil confine.» Partito disperato, quest'ultimo, perché nonconoscevano il terreno, certo familiare alle guardie.

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Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoicompagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedra-glio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico gua-dagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina,fermarvisi alquanto e sparire.

Il gran faggio antico che portava nel tronco una imma-gine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onorea una cappelletta, era come la sentinella del gran boscodi Boglia, il soldato posto in una insellatura della crestaa spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda.Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto rac-colto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colma-regia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose deiDenti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella delPian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande,fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano aCadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggiodella Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I duefuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prende-re? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlatola guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nelbosco non conveniva, con quella selvaggina che vi eraentrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo difoglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi corre-re addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vici-no il travestimento non poteva servire. Prender il sentie-ro? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono?Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con

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Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoicompagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedra-glio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico gua-dagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina,fermarvisi alquanto e sparire.

Il gran faggio antico che portava nel tronco una imma-gine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onorea una cappelletta, era come la sentinella del gran boscodi Boglia, il soldato posto in una insellatura della crestaa spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda.Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto rac-colto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colma-regia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose deiDenti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella delPian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande,fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano aCadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggiodella Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I duefuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prende-re? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlatola guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nelbosco non conveniva, con quella selvaggina che vi eraentrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo difoglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi corre-re addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vici-no il travestimento non poteva servire. Prender il sentie-ro? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono?Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con

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loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che sipoteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato duevolte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erbosodel Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sape-va ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizze-ro di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta cheascende dal faggio della Madonnina verso la Colmare-gia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nellenuvole.

Pochi passi sotto il faggio i due furono colti daun'ondata di nebbia che venuta su per un versante si ri-versava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda edensa, un «Dio fece» disse V. Non si vedeva niente acinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedra-glio andò quasi a urtare una guardia di finanza.

Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliarela lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Vistol'ometto dal cappellone, fece: «In Boglia, signor...?».L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. In-fatti la guardia non compié la frase, restò un momento abocca aperta, poi esclamò: «Come?». L'avvocato nonaspettò altro. «Così», diss'egli placidamente; e raccoltisisul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello sto-maco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gam-be all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappòla carabina. «Se gridi, cane, ti brucio», diss'egli. Ma chegridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era,per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti

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loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che sipoteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato duevolte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erbosodel Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sape-va ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizze-ro di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta cheascende dal faggio della Madonnina verso la Colmare-gia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nellenuvole.

Pochi passi sotto il faggio i due furono colti daun'ondata di nebbia che venuta su per un versante si ri-versava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda edensa, un «Dio fece» disse V. Non si vedeva niente acinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedra-glio andò quasi a urtare una guardia di finanza.

Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliarela lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Vistol'ometto dal cappellone, fece: «In Boglia, signor...?».L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. In-fatti la guardia non compié la frase, restò un momento abocca aperta, poi esclamò: «Come?». L'avvocato nonaspettò altro. «Così», diss'egli placidamente; e raccoltisisul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello sto-maco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gam-be all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappòla carabina. «Se gridi, cane, ti brucio», diss'egli. Ma chegridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era,per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti

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l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivas-se a gemer sottovoce «ahi ahi!». «L'è nient, l'è nient»,gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. «Sonoscosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza inpee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedràcome va bene. Non ho adoperato questo a posta.» E glimostrò la chiave. «Oh che pugno!», gemeva la guardia.«Oh che razza di pugno!»

«La salita è un po' maledetta», riprese l'avvocato pi-gliando la carabina dalle mani di Pedraglio. «Ma noi leterremo su, con licenza, il di dietro con questo affarequi. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Leiviene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi.Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli poli-to? Andemm, marsch!»

Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non sipoteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse achiamar aiuto. «Mincion!», fece Pedraglio. «Ghet daatropp fort!» V. rispose che gli aveva dato un pugno dadonna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guar-dia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le feceimbracciare la gerla. «Andem, lizòn», diss'egli. «Poltro-naccio, andiamo!»

Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripi-dissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra iciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi edi mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il neb-

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l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivas-se a gemer sottovoce «ahi ahi!». «L'è nient, l'è nient»,gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. «Sonoscosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza inpee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedràcome va bene. Non ho adoperato questo a posta.» E glimostrò la chiave. «Oh che pugno!», gemeva la guardia.«Oh che razza di pugno!»

«La salita è un po' maledetta», riprese l'avvocato pi-gliando la carabina dalle mani di Pedraglio. «Ma noi leterremo su, con licenza, il di dietro con questo affarequi. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Leiviene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi.Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli poli-to? Andemm, marsch!»

Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non sipoteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse achiamar aiuto. «Mincion!», fece Pedraglio. «Ghet daatropp fort!» V. rispose che gli aveva dato un pugno dadonna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guar-dia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le feceimbracciare la gerla. «Andem, lizòn», diss'egli. «Poltro-naccio, andiamo!»

Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripi-dissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra iciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi edi mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il neb-

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bione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna,poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla,poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste ela urta con la carabina. La carabina fa miracoli. Inmezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende versoBré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedonosull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette apiovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, ilrosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venera-bile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbassoda Pedraglio con un «viva l'Italia!» mentre scivola abraccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correretutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì ane-sone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, do-mandò al curato di poter appendere in chiesa il «marsi-non» per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con laguardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugninello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poemafratesco che finiva così:

A questo punto il Padre LanternoneDisse: ho mutato ancor io opinione.

Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternonepoteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fecebuttar via l'uniforme e indossare il «marsinon» fra le ri-sate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato.«E quel povero Maironi?», diss'egli.

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bione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna,poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla,poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste ela urta con la carabina. La carabina fa miracoli. Inmezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende versoBré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedonosull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette apiovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, ilrosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venera-bile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbassoda Pedraglio con un «viva l'Italia!» mentre scivola abraccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correretutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì ane-sone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, do-mandò al curato di poter appendere in chiesa il «marsi-non» per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con laguardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugninello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poemafratesco che finiva così:

A questo punto il Padre LanternoneDisse: ho mutato ancor io opinione.

Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternonepoteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fecebuttar via l'uniforme e indossare il «marsinon» fra le ri-sate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato.«E quel povero Maironi?», diss'egli.

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Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappellettadi Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontanadi Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, simise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Ca-stello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatrodi dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero dacapre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a VillaMaironi senz'aver incontrato nessuno.

Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, qua-si, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel mo-mento c'era il medico. Franco decise di attender cheuscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva igendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto eFranco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poi-ché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato dellanonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed eravenuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva tro-vato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di mori-re ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tran-quilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla ca-meriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscìdalla camera.

Le imposte socchiuse della camera dove la marchesagiaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lamedi luce grigia che non giungevano alla faccia supina sulguanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo lanota voce dormigliosa:

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Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappellettadi Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontanadi Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, simise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Ca-stello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatrodi dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero dacapre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a VillaMaironi senz'aver incontrato nessuno.

Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, qua-si, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel mo-mento c'era il medico. Franco decise di attender cheuscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva igendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto eFranco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poi-ché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato dellanonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed eravenuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva tro-vato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di mori-re ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tran-quilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla ca-meriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscìdalla camera.

Le imposte socchiuse della camera dove la marchesagiaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lamedi luce grigia che non giungevano alla faccia supina sulguanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo lanota voce dormigliosa:

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«Sei qui, Franco?»«Sì, addio nonna», diss'egli e si chinò a darle un bacio.

La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo ave-va però qualche cosa di vago e di scuro che pareva in-sieme desiderio e sgomento. «Muoio, sai, Franco», dissela marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli avevadetto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avida-mente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gliavesse proprio detto così. Poi rispose:

«Non fa niente. Son pronta».Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce,

Franco intese perfettamente che la nonna era pronta avivere altri vent'anni. «Mi rincresce della tua disgrazia»,diss'ella, «e ti perdono tutto.»

Non eran parole di perdono che Franco si aspettava dalei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, enon a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa diogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesadi un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come unsordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spre-mendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo pia-cere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altrimomenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sde-gnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nelcuore, non poteva essere così. Aveva però notato che lanonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questono, non glielo poteva permettere.

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«Sei qui, Franco?»«Sì, addio nonna», diss'egli e si chinò a darle un bacio.

La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo ave-va però qualche cosa di vago e di scuro che pareva in-sieme desiderio e sgomento. «Muoio, sai, Franco», dissela marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli avevadetto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avida-mente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gliavesse proprio detto così. Poi rispose:

«Non fa niente. Son pronta».Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce,

Franco intese perfettamente che la nonna era pronta avivere altri vent'anni. «Mi rincresce della tua disgrazia»,diss'ella, «e ti perdono tutto.»

Non eran parole di perdono che Franco si aspettava dalei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, enon a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa diogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesadi un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come unsordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spre-mendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo pia-cere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altrimomenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sde-gnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nelcuore, non poteva essere così. Aveva però notato che lanonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questono, non glielo poteva permettere.

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«Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sof-ferto molto», diss'egli, «prima dell'ultima sventura; eadesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lozio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisognache ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed ioabbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicen-da.»

Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tac-que. Benché non vedesse più la morte al suo capezzaleaveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e dicerte parole del prefetto che l'aveva confessata. «Faròtestamento», diss'ella, «e desidero che tu sappia che tut-ta la roba Maironi sarà per te.»

Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Cre-deva ella di aver comperato la pace con questo? Qui ve-ramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il con-siglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'avevadato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapacedi comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'ideache si potesse credere esser egli venuto per interesse,riuscì intollerabile. «No no», esclamò fremendo tutto etemendo del proprio sangue focoso, «no no, non mi la-sciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi aOria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Mag-giore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a te-nerla!»

La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu pic-

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«Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sof-ferto molto», diss'egli, «prima dell'ultima sventura; eadesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lozio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisognache ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed ioabbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicen-da.»

Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tac-que. Benché non vedesse più la morte al suo capezzaleaveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e dicerte parole del prefetto che l'aveva confessata. «Faròtestamento», diss'ella, «e desidero che tu sappia che tut-ta la roba Maironi sarà per te.»

Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Cre-deva ella di aver comperato la pace con questo? Qui ve-ramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il con-siglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'avevadato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapacedi comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'ideache si potesse credere esser egli venuto per interesse,riuscì intollerabile. «No no», esclamò fremendo tutto etemendo del proprio sangue focoso, «no no, non mi la-sciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi aOria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Mag-giore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a te-nerla!»

La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu pic-

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chiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pi-gliasse congedo per non stancare l'ammalata. «Bisognasbrigarsi!», diss'egli, fuori. «Qui hai fatto più che il tuodovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gen-darmi possono capitare da un momento all'altro. Hocombinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone cheper la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia lagondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. Idue barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantel-li di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta apoppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in te-sta sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi farannoneanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non tiriconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino.»

L'idea era buona. La gondola della marchesa era sem-pre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispet-to come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste;anche quando ritornava da Lugano non si faceva appro-dare alla Ricevitoria che pro forma.

La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbiedelle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste tri-ste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il dome-stico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Ma-mette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi diMainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gliocchi di Franco si riempirono di lagrime. «No, cara»,egli pensa, «no, amore, no, vita, tu non sei là dentro esia benedetto il Signore, che mi dice di non credere que-

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chiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pi-gliasse congedo per non stancare l'ammalata. «Bisognasbrigarsi!», diss'egli, fuori. «Qui hai fatto più che il tuodovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gen-darmi possono capitare da un momento all'altro. Hocombinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone cheper la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia lagondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. Idue barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantel-li di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta apoppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in te-sta sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi farannoneanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non tiriconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino.»

L'idea era buona. La gondola della marchesa era sem-pre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispet-to come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste;anche quando ritornava da Lugano non si faceva appro-dare alla Ricevitoria che pro forma.

La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbiedelle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste tri-ste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il dome-stico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Ma-mette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi diMainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gliocchi di Franco si riempirono di lagrime. «No, cara»,egli pensa, «no, amore, no, vita, tu non sei là dentro esia benedetto il Signore, che mi dice di non credere que-

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sta cosa orribile!» Poche remate ancora ed ecco la caset-ta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la fi-nestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore te-nebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le suegiornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discendesilenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba.Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la suapartenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dallaPolizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sullaterrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia;tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare,vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Alipran-di apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di re-mare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affacciaalla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano,guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero èin loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli porta-no, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e ildottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto,passano le case di Oria, la gondola piega all'apprododella Ricevitoria.

Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrel-lo, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene adossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Ali-prandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie delladama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la suaPeppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveret-ta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola

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sta cosa orribile!» Poche remate ancora ed ecco la caset-ta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la fi-nestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore te-nebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le suegiornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discendesilenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba.Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la suapartenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dallaPolizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sullaterrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia;tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare,vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Alipran-di apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di re-mare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affacciaalla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano,guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero èin loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli porta-no, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e ildottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto,passano le case di Oria, la gondola piega all'apprododella Ricevitoria.

Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrel-lo, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene adossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Ali-prandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie delladama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la suaPeppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveret-ta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola

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commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitanol'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione glipermette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cresso-gno e il dottore si volta a Franco, dice: «Andiamo!».Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le manisul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi ami-ci e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia néd'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nellaChina. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo,gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre ilconfine, nella nebbia.

Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo spor-tello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma siabbracciarono come fratelli. «Quando verrà l'ora dellecannonate», disse l'Aliprandi, «ci sarò anch'io.» Con-vennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima,solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore dovevapure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, delresto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che unmedico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scese aterra, andò all'albergo della Corona.

Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita,egli uscì in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviòalla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoiamici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a unvecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione.

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commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitanol'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione glipermette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cresso-gno e il dottore si volta a Franco, dice: «Andiamo!».Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le manisul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi ami-ci e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia néd'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nellaChina. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo,gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre ilconfine, nella nebbia.

Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo spor-tello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma siabbracciarono come fratelli. «Quando verrà l'ora dellecannonate», disse l'Aliprandi, «ci sarò anch'io.» Con-vennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima,solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore dovevapure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, delresto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che unmedico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scese aterra, andò all'albergo della Corona.

Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita,egli uscì in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviòalla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoiamici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a unvecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione.

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Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmaciasi diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia ditrovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi!

Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompa-gnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolomondo antico luganese, artista e degno che un altro arti-sta, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era untal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che aquei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscu-re vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con ilsuo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suonobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo mapulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pron-to sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adora-tore della propria città, egli viveva di pane, formaggio eacqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro glionori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende,sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e VillaChialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meravigliadel mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compia-ceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classi-co accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirateglidalla sala da pranzo: «ca l'è poeu quand ca ga disi:

Le trombe squillanoNel gran salone,Ai suoni accordisiQuesta canzone.

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Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmaciasi diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia ditrovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi!

Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompa-gnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolomondo antico luganese, artista e degno che un altro arti-sta, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era untal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che aquei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscu-re vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con ilsuo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suonobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo mapulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pron-to sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adora-tore della propria città, egli viveva di pane, formaggio eacqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro glionori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende,sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e VillaChialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meravigliadel mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compia-ceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classi-co accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirateglidalla sala da pranzo: «ca l'è poeu quand ca ga disi:

Le trombe squillanoNel gran salone,Ai suoni accordisiQuesta canzone.

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Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedra-glio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li avevacondotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie diFranco. «Come?», diss'egli dopo l'incontro. «È questo ilLoro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquilarapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fattoanni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivolu-zione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho de-scritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Ma-roggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi:

O baldi figli di Lombardia,V'apre le braccia Lugano mia.

È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Ades-so corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentireall'albergo.»

«Madonna!», fece Pedraglio.

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Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedra-glio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li avevacondotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie diFranco. «Come?», diss'egli dopo l'incontro. «È questo ilLoro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquilarapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fattoanni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivolu-zione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho de-scritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Ma-roggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi:

O baldi figli di Lombardia,V'apre le braccia Lugano mia.

È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Ades-so corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentireall'albergo.»

«Madonna!», fece Pedraglio.

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PARTE TERZA

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1.Il savio parla

Non una ma tre primavere erano passate dopoquell'autunno del 1855 senza la fioritura d'armi e distendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Tici-no. Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbepassata così la quarta. Grandi avvenimenti, annunciatidebitamente da una splendida cometa, erano in cammi-no. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti escricchiolii sordi, come nelle viscere d'un fiume gelatoalla vigilia dello sgelo. Il freddo mortale, il silenzio pau-roso di dieci anni erano per passare portati via in un fra-gor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti.Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guar-die, che tacevano, di una prossima passeggiata militare aTorino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavutobene dal colpo di quella mattina, dal tradimentodell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dallafine comica del «marsinon», aveva perduto ogni stimaper i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, te-descone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette dellepazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritis-simo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco,gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo itedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri

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1.Il savio parla

Non una ma tre primavere erano passate dopoquell'autunno del 1855 senza la fioritura d'armi e distendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Tici-no. Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbepassata così la quarta. Grandi avvenimenti, annunciatidebitamente da una splendida cometa, erano in cammi-no. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti escricchiolii sordi, come nelle viscere d'un fiume gelatoalla vigilia dello sgelo. Il freddo mortale, il silenzio pau-roso di dieci anni erano per passare portati via in un fra-gor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti.Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guar-die, che tacevano, di una prossima passeggiata militare aTorino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavutobene dal colpo di quella mattina, dal tradimentodell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dallafine comica del «marsinon», aveva perduto ogni stimaper i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, te-descone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette dellepazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritis-simo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco,gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo itedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri

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ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Ildottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchiosott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimet-teva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di pre-sentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse inItalia. Il curato di Castello, Introini, quando incontravadon Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzonedel 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 epoi nascosta da capo:

Stare nostre crante ulaneQua fenute d'Ungheria,Ma franzose crante...!Fato tuti scappar fia!

E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!»Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente

le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraioLuisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vesti-va ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhipiù grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dalgiorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Usci-ta dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accom-pagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire ilrosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupoche aveva posato le viole sopra la fossa di Maria. Parlòserena, ilare quasi, con l'una e con l'altra, domandò diuna bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che an-

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ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Ildottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchiosott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimet-teva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di pre-sentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse inItalia. Il curato di Castello, Introini, quando incontravadon Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzonedel 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 epoi nascosta da capo:

Stare nostre crante ulaneQua fenute d'Ungheria,Ma franzose crante...!Fato tuti scappar fia!

E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!»Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente

le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraioLuisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vesti-va ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhipiù grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dalgiorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Usci-ta dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accom-pagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire ilrosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupoche aveva posato le viole sopra la fossa di Maria. Parlòserena, ilare quasi, con l'una e con l'altra, domandò diuna bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che an-

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dava al rosario con la nonna, le raccomandò di staretranquilla in chiesa come sempre vi stava la sua Maria.Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre quel-le donne rabbrividivano e anche stupivano perché ades-so Luisa non andava in chiesa mai. Domandò a una ra-gazza se i giovanotti pensassero, come al solito, di reci-tare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerseaiuto per i costumi. Si accomiatò sul sagratodell'Annunciata e nello scender soletta la Calcinera ri-prese il viso di spettro.

Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. Lafelicità del professore, la sua adorazione per Ester vor-rebbero un poema. Lo zio Piero diceva di lui ch'era di-ventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo enon gli permetteva, quando c'era gente, di prender da-vanti a lei certe pose estatiche. La sola persona per laquale non valesse questa proibizione era Luisa. Ma diLuisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sem-pre per lui un essere sovrumano; al rispetto per la perso-na s'era aggiunto il rispetto per il dolore e in presenza dilei egli teneva sempre un contegno riguardoso. Da dueanni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ognisera e, se qualche cosa poteva turbare la pace degli spo-si, erano queste visite.

Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico aEster; ma Ester aveva un tale affetto per l'amica sua, unatale pietà della sua sventura e si sentiva fitto nel cuoreun tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Ma-

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dava al rosario con la nonna, le raccomandò di staretranquilla in chiesa come sempre vi stava la sua Maria.Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre quel-le donne rabbrividivano e anche stupivano perché ades-so Luisa non andava in chiesa mai. Domandò a una ra-gazza se i giovanotti pensassero, come al solito, di reci-tare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerseaiuto per i costumi. Si accomiatò sul sagratodell'Annunciata e nello scender soletta la Calcinera ri-prese il viso di spettro.

Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. Lafelicità del professore, la sua adorazione per Ester vor-rebbero un poema. Lo zio Piero diceva di lui ch'era di-ventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo enon gli permetteva, quando c'era gente, di prender da-vanti a lei certe pose estatiche. La sola persona per laquale non valesse questa proibizione era Luisa. Ma diLuisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sem-pre per lui un essere sovrumano; al rispetto per la perso-na s'era aggiunto il rispetto per il dolore e in presenza dilei egli teneva sempre un contegno riguardoso. Da dueanni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ognisera e, se qualche cosa poteva turbare la pace degli spo-si, erano queste visite.

Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico aEster; ma Ester aveva un tale affetto per l'amica sua, unatale pietà della sua sventura e si sentiva fitto nel cuoreun tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Ma-

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ria nel giorno terribile, che non osava opporsi risoluta-mente ai desideri di lei né distogliere suo maritodall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua disappro-vazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò chefaceva di sera nello studio del professore; non andò piùoltre. Il professore, invece, sarebbe stato felice di questiconvegni ma soffriva del dispiacere di Ester.

Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casaGilardoni. Fu Ester che le aperse. Luisa non rispose alsuo saluto che le parve imbarazzato, la guardò soltanto equando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passarle sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente chel'altra si mise a piangere. «Abbi pazienza», le disse Lui-sa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a confor-tarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore,la riunione con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardiasarebbe libera, Franco ritornerebbe a casa. E allora... al-lora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe ritor-nare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò lemani. «No!», diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai!mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!» Ester non potéreplicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il profes-sore.

Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di la-grime e che Luisa pareva sovreccitata. Salutò mogiomogio e sedette in silenzio accanto a Ester, immaginan-do che avessero parlato del solito argomento spiacevolea sua moglie. Questa avrebbe voluto mandarlo via, ri-

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ria nel giorno terribile, che non osava opporsi risoluta-mente ai desideri di lei né distogliere suo maritodall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua disappro-vazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò chefaceva di sera nello studio del professore; non andò piùoltre. Il professore, invece, sarebbe stato felice di questiconvegni ma soffriva del dispiacere di Ester.

Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casaGilardoni. Fu Ester che le aperse. Luisa non rispose alsuo saluto che le parve imbarazzato, la guardò soltanto equando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passarle sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente chel'altra si mise a piangere. «Abbi pazienza», le disse Lui-sa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a confor-tarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore,la riunione con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardiasarebbe libera, Franco ritornerebbe a casa. E allora... al-lora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe ritor-nare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò lemani. «No!», diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai!mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!» Ester non potéreplicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il profes-sore.

Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di la-grime e che Luisa pareva sovreccitata. Salutò mogiomogio e sedette in silenzio accanto a Ester, immaginan-do che avessero parlato del solito argomento spiacevolea sua moglie. Questa avrebbe voluto mandarlo via, ri-

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prendere il discorso con Luisa, ma non osò farlo. Luisafremeva contro quella immagine di futuro pericolo chedi quando in quando le si era affacciata confusamenteall'anima, che aveva sempre cacciata con orrore primadi considerarla, e che ora, per le parole dell'amica sua, lerisorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, peno-so silenzio, Ester sospirò e le disse sottovoce:

«Va' pure, sai. Andate pure».Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò da-

vanti all'amica sua, le posò il capo in grembo. «Sai»,diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima credevo che cifosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista;ma se vi fosse il Dio buono nel quale credi tu, non po-trebbe condannare una madre che ha perduto la sua uni-ca figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei viveancora!»

Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suomarito e Luisa evocavano la bambina morta. Il professo-re Gilardoni, strano miscuglio di libero pensatore e dimistico, aveva letto con moltissimo interesse le cosemeravigliose che si raccontavano delle sorelle america-ne Fox, degli esperimenti di Eliphas Levi, aveva seguitoil movimento spiritista propagatosi rapidamente in Eu-ropa come una mania che prendeva le teste e le tavole.Ne aveva parlato a Luisa, e Luisa, invasa, acciecatadall'idea di poter sapere se la sua bambina esistesse an-cora e, posto che esistesse, di aver qualche comunica-

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prendere il discorso con Luisa, ma non osò farlo. Luisafremeva contro quella immagine di futuro pericolo chedi quando in quando le si era affacciata confusamenteall'anima, che aveva sempre cacciata con orrore primadi considerarla, e che ora, per le parole dell'amica sua, lerisorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, peno-so silenzio, Ester sospirò e le disse sottovoce:

«Va' pure, sai. Andate pure».Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò da-

vanti all'amica sua, le posò il capo in grembo. «Sai»,diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima credevo che cifosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista;ma se vi fosse il Dio buono nel quale credi tu, non po-trebbe condannare una madre che ha perduto la sua uni-ca figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei viveancora!»

Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suomarito e Luisa evocavano la bambina morta. Il professo-re Gilardoni, strano miscuglio di libero pensatore e dimistico, aveva letto con moltissimo interesse le cosemeravigliose che si raccontavano delle sorelle america-ne Fox, degli esperimenti di Eliphas Levi, aveva seguitoil movimento spiritista propagatosi rapidamente in Eu-ropa come una mania che prendeva le teste e le tavole.Ne aveva parlato a Luisa, e Luisa, invasa, acciecatadall'idea di poter sapere se la sua bambina esistesse an-cora e, posto che esistesse, di aver qualche comunica-

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zione con lei, non vedendo altro in tutto il meravigliosodei fatti e lo strano delle teorie che questo punto lucente,lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento conEster e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannatu-rale che alla dottrina cristiana. Non pigliò quindi la cosasul serio e acconsentì subito a posar le mani sopra un ta-volino insieme all'amica e al marito, il quale, dal cantosuo, mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. Iprimi esperimenti non riuscirono. Ester, molto annoiata,avrebbe voluto che si rinunciasse a continuare; ma unasera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, sichinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, siriabbassò, tornò ad alzarsi, con grande sgomento diEster, con gran gioia del professore e di Luisa. La seradopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il pro-fessore gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il ta-volino rispose battendo il piede a terra secondo l'alfabe-to suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo nome:Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, ilprofessore tremava di commozione, voleva far sapere aVan Helmont che aveva in biblioteca le sue opere, maLuisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. VanHelmont rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida comeun cadavere, si alzò protestando che non voleva conti-nuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero apersuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non avevaun sentimento religioso profondo, ma paura del diavoloe dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo non fu pos-sibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo

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zione con lei, non vedendo altro in tutto il meravigliosodei fatti e lo strano delle teorie che questo punto lucente,lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento conEster e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannatu-rale che alla dottrina cristiana. Non pigliò quindi la cosasul serio e acconsentì subito a posar le mani sopra un ta-volino insieme all'amica e al marito, il quale, dal cantosuo, mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. Iprimi esperimenti non riuscirono. Ester, molto annoiata,avrebbe voluto che si rinunciasse a continuare; ma unasera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, sichinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, siriabbassò, tornò ad alzarsi, con grande sgomento diEster, con gran gioia del professore e di Luisa. La seradopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il pro-fessore gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il ta-volino rispose battendo il piede a terra secondo l'alfabe-to suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo nome:Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, ilprofessore tremava di commozione, voleva far sapere aVan Helmont che aveva in biblioteca le sue opere, maLuisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. VanHelmont rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida comeun cadavere, si alzò protestando che non voleva conti-nuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero apersuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non avevaun sentimento religioso profondo, ma paura del diavoloe dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo non fu pos-sibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo

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marito non osava contraddirla. Fu Luisa che a forza discongiuri ottenne una transazione. Le sedute ricomincia-rono ma Ester non vi prese parte più.

Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamen-te, quando vedeva sua marito preoccupato, distratto, gligittava un'allusione crucciosa alle pratiche segrete dellostudio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, edera Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché,indirettamente, aveva capito che Luisa credeva di comu-nicare con lo spirito della bambina. Ella le aveva dettouna volta: «Domani sera non vengo perché Maria nonvuole». E un'altra volta: «Vado a Looch perché Mariavuole un fiore dalla Nonna». A Ester pareva incredibileche una testa lucida e forte come quella si smarrissecosì. Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensadi persuaderla con le buone e la crudeltà di opporselecon le cattive.

Il professore accese una candela e salì, seguito da Lui-sa, nello studio. Noi conosciamo lo studiolo simile a unacabina di bastimento, con gli scaffali pieni di libri, il ca-minetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona doveMaria s'era addormentata la notte di Natale. Adessov'era di più, fra il caminetto e la finestra, un piccolo ta-volino rotondo con un sol piede tripartito a un palmo daterra.

«Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «difar tanto dispiacere a Ester.» Posò il lume sulla scrivania

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marito non osava contraddirla. Fu Luisa che a forza discongiuri ottenne una transazione. Le sedute ricomincia-rono ma Ester non vi prese parte più.

Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamen-te, quando vedeva sua marito preoccupato, distratto, gligittava un'allusione crucciosa alle pratiche segrete dellostudio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, edera Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché,indirettamente, aveva capito che Luisa credeva di comu-nicare con lo spirito della bambina. Ella le aveva dettouna volta: «Domani sera non vengo perché Maria nonvuole». E un'altra volta: «Vado a Looch perché Mariavuole un fiore dalla Nonna». A Ester pareva incredibileche una testa lucida e forte come quella si smarrissecosì. Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensadi persuaderla con le buone e la crudeltà di opporselecon le cattive.

Il professore accese una candela e salì, seguito da Lui-sa, nello studio. Noi conosciamo lo studiolo simile a unacabina di bastimento, con gli scaffali pieni di libri, il ca-minetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona doveMaria s'era addormentata la notte di Natale. Adessov'era di più, fra il caminetto e la finestra, un piccolo ta-volino rotondo con un sol piede tripartito a un palmo daterra.

«Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «difar tanto dispiacere a Ester.» Posò il lume sulla scrivania

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e invece di disporre, secondo il solito, il tavolino e le se-die, andò a guardar dalla finestra il chiaror vagodell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa ri-mase immobile e subito egli si voltò bruscamente comeavesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di lei. Glie-la vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva ri-soluto di troncare mentre ne aveva solamente avuta latentazione e le prese, commosso, le mani, le disse cheEster era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui nélei avrebbero mai voluto recarle volontariamenteun'afflizione. Luisa non rispose ma il professore duròfatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre eglicollocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie,ella sedette sulla poltrona, come oppressa.

«Ecco», fece il professore.Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera.«Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella«Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagi-

na.» Il professore non intese queste ultime parole, si ac-costò al lume e lesse ad alta voce:

Torino, 18 febbraio 1859.

Luisa mia,Sai che non mi hai scritto da quindici giorni?

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e invece di disporre, secondo il solito, il tavolino e le se-die, andò a guardar dalla finestra il chiaror vagodell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa ri-mase immobile e subito egli si voltò bruscamente comeavesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di lei. Glie-la vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva ri-soluto di troncare mentre ne aveva solamente avuta latentazione e le prese, commosso, le mani, le disse cheEster era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui nélei avrebbero mai voluto recarle volontariamenteun'afflizione. Luisa non rispose ma il professore duròfatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre eglicollocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie,ella sedette sulla poltrona, come oppressa.

«Ecco», fece il professore.Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera.«Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella«Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagi-

na.» Il professore non intese queste ultime parole, si ac-costò al lume e lesse ad alta voce:

Torino, 18 febbraio 1859.

Luisa mia,Sai che non mi hai scritto da quindici giorni?

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«Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi sicorresse. «No, legga pure, è meglio.» Il professore con-tinuò:

Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta latua del 6. Sono stato forse, nella prima, troppo vivace eti ho ferita. Benedetto temperamento il mio, che nonsolo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue misi riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto san-gue che a trentadue anni suonati si riscalda come a ven-tidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di ritornaresull'argomento onde riprendermi quelle parole che han-no potuto offenderti.

Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti,non si discorre che di diplomazie e di guerra; ma glianni scorsi se ne parlò moltissimo e parecchie personeche io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positi-vamente che erano illuse ma non ho mai dubitato, quan-do mi riferivano conversazioni avute con gli spiriti, del-la loro buona fede. Pare che l'immaginazione, eccitata,possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma iovoglio credere che nel tuo caso non v'inganni l'immagi-nazione, che il vostro tavolino si muova e si esprimadavvero come dici. Ho avuto torto di metter questo indubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di noningannarti e poiché conosco abbastanza l'onestà del pro-fessor Gilardoni. Ma vi è poi per me una questione disentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio,

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«Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi sicorresse. «No, legga pure, è meglio.» Il professore con-tinuò:

Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta latua del 6. Sono stato forse, nella prima, troppo vivace eti ho ferita. Benedetto temperamento il mio, che nonsolo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue misi riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto san-gue che a trentadue anni suonati si riscalda come a ven-tidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di ritornaresull'argomento onde riprendermi quelle parole che han-no potuto offenderti.

Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti,non si discorre che di diplomazie e di guerra; ma glianni scorsi se ne parlò moltissimo e parecchie personeche io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positi-vamente che erano illuse ma non ho mai dubitato, quan-do mi riferivano conversazioni avute con gli spiriti, del-la loro buona fede. Pare che l'immaginazione, eccitata,possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma iovoglio credere che nel tuo caso non v'inganni l'immagi-nazione, che il vostro tavolino si muova e si esprimadavvero come dici. Ho avuto torto di metter questo indubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di noningannarti e poiché conosco abbastanza l'onestà del pro-fessor Gilardoni. Ma vi è poi per me una questione disentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio,

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io ho la speranza di andare un giorno, con altre anime ame care, dov'ella è. Se mi comparisse spontaneamente,se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua voceviva e vera, forse non potrei sopportare una gioia cosìgrande; chiamarla, costringerla di venire non vorrei mai.Mi ripugna, è contrario a quel senso di venerazione cheho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io,Luisa, parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di mee anche di te, sapendo che ci vede, che ci ama, che potràmolto ancora, in questa vita stessa, sopra di noi. Talivorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendoalla lettera in cui alludevi a una comunicazione di lei misono espresso con acerbità, perdonami in grazia non so-lamente del mio cattivo carattere ma delle idee altresì edei sentimenti che sono come parte della mia natura.

Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immen-sa in cui si vive qui. La mia gola sta bene; da quando siparla di guerra ho gittato canfora e acqua sedativa, ma inervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarlidieno scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoroche abbiamo al Ministero, dove non c'è più orario e chipiù gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più devesgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà delconte di Cavour, mi pareva di mangiare il pane delloStato a tradimento. Adesso non è così ma sto per to-gliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altrodiscorso che ho nel cuore da un pezzo e che adesso tifaccio con una commozione indicibile.

Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo

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io ho la speranza di andare un giorno, con altre anime ame care, dov'ella è. Se mi comparisse spontaneamente,se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua voceviva e vera, forse non potrei sopportare una gioia cosìgrande; chiamarla, costringerla di venire non vorrei mai.Mi ripugna, è contrario a quel senso di venerazione cheho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io,Luisa, parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di mee anche di te, sapendo che ci vede, che ci ama, che potràmolto ancora, in questa vita stessa, sopra di noi. Talivorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendoalla lettera in cui alludevi a una comunicazione di lei misono espresso con acerbità, perdonami in grazia non so-lamente del mio cattivo carattere ma delle idee altresì edei sentimenti che sono come parte della mia natura.

Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immen-sa in cui si vive qui. La mia gola sta bene; da quando siparla di guerra ho gittato canfora e acqua sedativa, ma inervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarlidieno scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoroche abbiamo al Ministero, dove non c'è più orario e chipiù gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più devesgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà delconte di Cavour, mi pareva di mangiare il pane delloStato a tradimento. Adesso non è così ma sto per to-gliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altrodiscorso che ho nel cuore da un pezzo e che adesso tifaccio con una commozione indicibile.

Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo

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nell'esercito come volontari per la durata della campa-gna; Si entra nel 9° fanteria che ha il deposito a Torino.Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma iointendo di trovarmi istruito al reggimento quando entre-rà in campagna e ho solamente preso l'impegno di nonlasciar l'ufficio che un giorno prima di arruolarmi.

Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci ve-diamo. Vero che tu sei sorvegliata dalla Polizia e che ti èproibito di venire a Lugano; però io ti ho proposto piùvolte più modi di venirmi a incontrare segretamente al-meno al confine, sulla montagna, e tu non mi hai rispo-sto. Ho creduto indovinare che tu non ti sapessi allonta-nare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pa-reva troppo e ti confesso che ne provai un'amarezzamolto profonda! Poi mi pentivo, mi pareva d'essereegoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sonomutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibiledi aver a restare sopra un campo di battaglia, ma impos-sibile non è. Prenderò parte ad una guerra che si annun-cia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perchése l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, eforse anche l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuocotutto. Si dice che passeremo l'inverno venturo sotto Ve-rona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di moriresenz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non possovenire al confine né a Lugano, né mi può bastare di starcon te dieci minuti! Fatti portare a Lugano, in qualchemodo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da Luga-no in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da

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nell'esercito come volontari per la durata della campa-gna; Si entra nel 9° fanteria che ha il deposito a Torino.Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma iointendo di trovarmi istruito al reggimento quando entre-rà in campagna e ho solamente preso l'impegno di nonlasciar l'ufficio che un giorno prima di arruolarmi.

Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci ve-diamo. Vero che tu sei sorvegliata dalla Polizia e che ti èproibito di venire a Lugano; però io ti ho proposto piùvolte più modi di venirmi a incontrare segretamente al-meno al confine, sulla montagna, e tu non mi hai rispo-sto. Ho creduto indovinare che tu non ti sapessi allonta-nare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pa-reva troppo e ti confesso che ne provai un'amarezzamolto profonda! Poi mi pentivo, mi pareva d'essereegoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sonomutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibiledi aver a restare sopra un campo di battaglia, ma impos-sibile non è. Prenderò parte ad una guerra che si annun-cia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perchése l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, eforse anche l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuocotutto. Si dice che passeremo l'inverno venturo sotto Ve-rona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di moriresenz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non possovenire al confine né a Lugano, né mi può bastare di starcon te dieci minuti! Fatti portare a Lugano, in qualchemodo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da Luga-no in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da

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Luino non puoi passare. A Magadino piglierai il battelloche parte di là circa al tocco e mezzo. Scenderai circaalle quattro a Isola Bella dove, presso a poco allastess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a que-sta stagione, è un deserto. Vi passeremo la sera insiemee ripartiremo la mattina, tu per Oria, io per Torino.

Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgoun giorno della tua compagnia.

Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pen-sano che alle armi, la loro Polizia si lascia sfuggire mi-gliaia di giovani che vengono a prenderle qui. Sarebberoterribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, peressi, viva Dio! non verrà.

Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, chetu creda far piacere a Maria non venendo? Ma non sai,la mia Maria, la mia povera piccina, se le avessero dettocorri a salutar il tuo papà che forse va a morire come...

La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un sin-ghiozzo. Luisa si nascose il viso fra le mani. Egli leposò la lettera sulle ginocchia e disse a stento: «DonnaLuisa, può avere un dubbio?»

«Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.»«Ma non gli vuol bene?»«Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.»«Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La

commuove l'idea che potrebbe non vederlo mai più?»

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Luino non puoi passare. A Magadino piglierai il battelloche parte di là circa al tocco e mezzo. Scenderai circaalle quattro a Isola Bella dove, presso a poco allastess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a que-sta stagione, è un deserto. Vi passeremo la sera insiemee ripartiremo la mattina, tu per Oria, io per Torino.

Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgoun giorno della tua compagnia.

Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pen-sano che alle armi, la loro Polizia si lascia sfuggire mi-gliaia di giovani che vengono a prenderle qui. Sarebberoterribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, peressi, viva Dio! non verrà.

Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, chetu creda far piacere a Maria non venendo? Ma non sai,la mia Maria, la mia povera piccina, se le avessero dettocorri a salutar il tuo papà che forse va a morire come...

La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un sin-ghiozzo. Luisa si nascose il viso fra le mani. Egli leposò la lettera sulle ginocchia e disse a stento: «DonnaLuisa, può avere un dubbio?»

«Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.»«Ma non gli vuol bene?»«Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.»«Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La

commuove l'idea che potrebbe non vederlo mai più?»

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Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisa-mente in piedi stringendosi le tempie fra le mani, piantòin viso al professore due occhi dove non erano lagrimema invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa»,esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di con-traddizioni, quante idee opposte che si combattono eprendono continuamente il luogo l'una dell'altra! Quan-do ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta:"sì, povero Franco, stavolta vado", e poi ecco una voceche mi dice qui nella fronte: "no, non devi andare per-ché... perché... perché...".»

Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da baglio-ri di pazzia negli occhi che lo fissavano, non osò chiede-re spiegazioni. Gli occhi strani sempre fissi ne' suoi ven-nero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani,gli disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria».

Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il profes-sore voltava le spalle al lume che batteva sul viso diLuisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo undici minuti disilenzio profondo il professore mormorò: «Si muove».

Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando daun lato. Ricadde e batté un piccolo colpo. Il viso di Lui-sa s'illuminò.

«Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito al-fabeto.»

Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poidiciotto, poi uno. «Rosa», disse il professore, piano.

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Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisa-mente in piedi stringendosi le tempie fra le mani, piantòin viso al professore due occhi dove non erano lagrimema invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa»,esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di con-traddizioni, quante idee opposte che si combattono eprendono continuamente il luogo l'una dell'altra! Quan-do ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta:"sì, povero Franco, stavolta vado", e poi ecco una voceche mi dice qui nella fronte: "no, non devi andare per-ché... perché... perché...".»

Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da baglio-ri di pazzia negli occhi che lo fissavano, non osò chiede-re spiegazioni. Gli occhi strani sempre fissi ne' suoi ven-nero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani,gli disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria».

Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il profes-sore voltava le spalle al lume che batteva sul viso diLuisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo undici minuti disilenzio profondo il professore mormorò: «Si muove».

Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando daun lato. Ricadde e batté un piccolo colpo. Il viso di Lui-sa s'illuminò.

«Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito al-fabeto.»

Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poidiciotto, poi uno. «Rosa», disse il professore, piano.

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Rosa era il nome di una sorellina di sua moglie, mortanell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altrevolte questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaciMaria.»

Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté questeparole:

«Son qui. Maria.»«Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con

un'espressione, in viso, di beatitudine.«Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre

ha scritto a tua madre?»Il tavolino rispose:«Sì».«Cosa deve fare tua madre?»Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino

rimase immobile.«Rispondi», fece il professore.Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensi-

bile di lettere.«Non abbiamo capito. Ripeti.»Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il

professore quasi bruscamente. «No!», supplicò Luisa.«Non insista, non insista! Maria non vuol rispondere!»

Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile»,

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Rosa era il nome di una sorellina di sua moglie, mortanell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altrevolte questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaciMaria.»

Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté questeparole:

«Son qui. Maria.»«Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con

un'espressione, in viso, di beatitudine.«Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre

ha scritto a tua madre?»Il tavolino rispose:«Sì».«Cosa deve fare tua madre?»Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino

rimase immobile.«Rispondi», fece il professore.Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensi-

bile di lettere.«Non abbiamo capito. Ripeti.»Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il

professore quasi bruscamente. «No!», supplicò Luisa.«Non insista, non insista! Maria non vuol rispondere!»

Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile»,

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diceva, «che lo spirito non risponda. Lei lo sa, ci è suc-cesso altre volte di non intendere quel che dice.»

Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di co-stringere Maria era contenta d'interrompere la seduta. Ilprofessore rimase meditabondo al proprio posto.«Zitto!», diss'egli.

Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi.«Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato

col pensiero s'Ella deve andare e il tavolino ha risposto"sì". Ridomandi lei ad alta voce.»

Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino sirimettesse in moto. Alla domanda di Luisa «debbo an-dare?» batté prima tredici colpi poi quattordici. La ri-sposta era «no».

Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con losguardo. Egli rimase lungamente muto, poi rispose so-spirando:

«Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spiritodi menzogna».

«E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente.«Impossibile. Non si può sapere.»«Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è cer-

tezza mai?»«Mai.»

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diceva, «che lo spirito non risponda. Lei lo sa, ci è suc-cesso altre volte di non intendere quel che dice.»

Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di co-stringere Maria era contenta d'interrompere la seduta. Ilprofessore rimase meditabondo al proprio posto.«Zitto!», diss'egli.

Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi.«Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato

col pensiero s'Ella deve andare e il tavolino ha risposto"sì". Ridomandi lei ad alta voce.»

Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino sirimettesse in moto. Alla domanda di Luisa «debbo an-dare?» batté prima tredici colpi poi quattordici. La ri-sposta era «no».

Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con losguardo. Egli rimase lungamente muto, poi rispose so-spirando:

«Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spiritodi menzogna».

«E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente.«Impossibile. Non si può sapere.»«Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è cer-

tezza mai?»«Mai.»

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Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva esserecosì. Doveva mancarmi anche questo».

E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela bat-teva sui capelli, sulle braccia, sulle mani di lei. Ella nonsi moveva, nulla si moveva nella camera, tranne la fiam-mella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un ul-timo lume di speranza e di conforto stava morendo nellapovera testa caduta sotto il colpo d'un dubbio amaro einvincibile. Che poteva fare, che poteva dire il Gilardo-ni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per operasua, il desiderio di Ester. Tre o quattro minuti dopo siudirono passi al piano inferiore e la voce di Ester. Luisa,lentamente, si alzò.

«Andiamo», diss'ella.«Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni,

senza muoversi. «Bisognerebbe forse domandare aglispiriti se confessano Cristo.»

«No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, an-che con la mano, ostilmente. Il professore prese la can-dela in silenzio.

Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposan-to. Vi appoggiò la fronte, gittò verso la fossa di Mariaun soffocato addio e ridiscese. Giunta sul sagrato andòad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormen-tato nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pen-siero per la sua china. Posò i gomiti sul parapetto, si pie-gò, si appoggiò il viso alle mani sempre guardando

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Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva esserecosì. Doveva mancarmi anche questo».

E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela bat-teva sui capelli, sulle braccia, sulle mani di lei. Ella nonsi moveva, nulla si moveva nella camera, tranne la fiam-mella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un ul-timo lume di speranza e di conforto stava morendo nellapovera testa caduta sotto il colpo d'un dubbio amaro einvincibile. Che poteva fare, che poteva dire il Gilardo-ni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per operasua, il desiderio di Ester. Tre o quattro minuti dopo siudirono passi al piano inferiore e la voce di Ester. Luisa,lentamente, si alzò.

«Andiamo», diss'ella.«Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni,

senza muoversi. «Bisognerebbe forse domandare aglispiriti se confessano Cristo.»

«No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, an-che con la mano, ostilmente. Il professore prese la can-dela in silenzio.

Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposan-to. Vi appoggiò la fronte, gittò verso la fossa di Mariaun soffocato addio e ridiscese. Giunta sul sagrato andòad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormen-tato nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pen-siero per la sua china. Posò i gomiti sul parapetto, si pie-gò, si appoggiò il viso alle mani sempre guardando

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l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensieroveniva pigliando una forma precisa non dentro a lei malaggiù nell'acqua. Essa lo considerò. Morire, finire. Loconosceva, lo aveva veduto ancora questo pensieroguardando nell'acqua così, molto tempo addietro, primadi cominciare le evocazioni col professore. Poi erascomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero dolce epietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace.Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fedenegli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra voltamolto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la imma-gine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era cadu-to, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasicompleto che Luisa attribuiva a un principio di apatiasenile. Ella non aveva capito come nell'animo del vec-chio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni pro-fonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite alcimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopratutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fossestata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intendermeglio lo zio almeno in quest'ultimo punto della chiesa,perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, inchiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione disuo padre e di sua madre praticata sinora freddamente,per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pare-va a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e chese ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbealtro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse chebastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Lui-

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l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensieroveniva pigliando una forma precisa non dentro a lei malaggiù nell'acqua. Essa lo considerò. Morire, finire. Loconosceva, lo aveva veduto ancora questo pensieroguardando nell'acqua così, molto tempo addietro, primadi cominciare le evocazioni col professore. Poi erascomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero dolce epietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace.Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fedenegli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra voltamolto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la imma-gine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era cadu-to, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasicompleto che Luisa attribuiva a un principio di apatiasenile. Ella non aveva capito come nell'animo del vec-chio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni pro-fonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite alcimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopratutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fossestata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intendermeglio lo zio almeno in quest'ultimo punto della chiesa,perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, inchiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione disuo padre e di sua madre praticata sinora freddamente,per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pare-va a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e chese ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbealtro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse chebastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Lui-

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sa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco?Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno epoi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di conso-larsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo.

Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al pa-rapetto, Franco, passando in via di Po davanti a SanFrancesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo.Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero do-minante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si eratrasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armie, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui eraparso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide inmente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Simise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore inten-so.

Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo,un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarlae non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima ledisse: e se il professore si è ingannato? Se non è veroche il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Senon è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal pa-rapetto e sali, a passi lenti, in casa.

Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del cami-no, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto.La Cia e la Leu cucinavano.

«Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria.Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col

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sa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco?Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno epoi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di conso-larsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo.

Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al pa-rapetto, Franco, passando in via di Po davanti a SanFrancesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo.Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero do-minante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si eratrasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armie, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui eraparso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide inmente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Simise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore inten-so.

Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo,un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarlae non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima ledisse: e se il professore si è ingannato? Se non è veroche il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Senon è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal pa-rapetto e sali, a passi lenti, in casa.

Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del cami-no, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto.La Cia e la Leu cucinavano.

«Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria.Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col

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Sedentario.»«Di che cosa, zio?»«Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha

detto che chiuderà un occhio e che passerai.»Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda.

Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lozio di venire in salotto con lei.

«Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Nonavrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco.»

La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella.Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le

altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier dilatte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese ilbicchiere e disse piano:

«Non ho ancora deciso».«Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deci-

so?»«Se andrò all'Isola Bella.»«Euh! Che diavolo?»Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa

simile.«E perché non andresti?»Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa

ovvia:

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Sedentario.»«Di che cosa, zio?»«Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha

detto che chiuderà un occhio e che passerai.»Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda.

Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lozio di venire in salotto con lei.

«Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Nonavrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco.»

La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella.Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le

altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier dilatte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese ilbicchiere e disse piano:

«Non ho ancora deciso».«Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deci-

so?»«Se andrò all'Isola Bella.»«Euh! Che diavolo?»Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa

simile.«E perché non andresti?»Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa

ovvia:

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«Ho paura di non poter lasciare Maria».«Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.»Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino,

lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onestavoce del cuore:

«Cara Luisa, hai perso la bussola».E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò

ricadere sulle ginocchia.«Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo

chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole informazione, che poi uscirono.

«Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono im-possibili. Ma quando» (così dicendo rialzò il capo eguardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla, la bus-sola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da unpezzo.»

Luisa trasalì.«Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato

a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti.Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha persodei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessunafaceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dob-biamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano.Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattrovisite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh poverome! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con

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«Ho paura di non poter lasciare Maria».«Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.»Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino,

lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onestavoce del cuore:

«Cara Luisa, hai perso la bussola».E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò

ricadere sulle ginocchia.«Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo

chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole informazione, che poi uscirono.

«Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono im-possibili. Ma quando» (così dicendo rialzò il capo eguardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla, la bus-sola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da unpezzo.»

Luisa trasalì.«Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato

a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti.Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha persodei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessunafaceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dob-biamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano.Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattrovisite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh poverome! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con

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quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in se-greto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!»

«No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente.«Non dir queste cose. Non puoi capire.»

«Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cuiera capace. «Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra.Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto nienteperché in queste cose il mio principio è stato sempre dilasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando tivedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il sensocomune, non posso a meno di farti riflettere che se sivoltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi gua-dagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a ve-dere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limi-ti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ciandrò io.»

«Tu?», esclamò Luisa.«Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se

non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che haiperduto la testa e che spero di andar presto anch'io a tro-var la povera Maria.»

Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero unaparola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autoritàdell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Lui-sa fu vinta.

«Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.»

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quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in se-greto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!»

«No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente.«Non dir queste cose. Non puoi capire.»

«Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cuiera capace. «Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra.Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto nienteperché in queste cose il mio principio è stato sempre dilasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando tivedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il sensocomune, non posso a meno di farti riflettere che se sivoltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi gua-dagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a ve-dere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limi-ti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ciandrò io.»

«Tu?», esclamò Luisa.«Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se

non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che haiperduto la testa e che spero di andar presto anch'io a tro-var la povera Maria.»

Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero unaparola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autoritàdell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Lui-sa fu vinta.

«Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.»

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«Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono qua-rant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasio-ne. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?»

«E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era anda-to a letto. «Vuol proprio partire anche il mio padrone?Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!»

E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunatogli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da leinon aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle pre-murose domande di lei era andato in collera protestandodi non aver avuto male, di aver sentito solo un po' disonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, congli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole cheudiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lonta-no, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.

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«Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono qua-rant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasio-ne. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?»

«E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era anda-to a letto. «Vuol proprio partire anche il mio padrone?Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!»

E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunatogli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da leinon aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle pre-murose domande di lei era andato in collera protestandodi non aver avuto male, di aver sentito solo un po' disonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, congli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole cheudiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lonta-no, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.

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2. Solenne rullo

Il venticinque febbraio, giorno della partenza, lo zioPiero si alzò alle sette e mezzo e andò alla finestra. Undenso nebbione pendeva sul lago biancastro e nasconde-va le montagne per modo che se ne vedevano solamentedue brevi liste nere, una a destra e l'altra a sinistra, fra illago e la nebbia. «Ahimè!», sospirò lo zio. Non s'era an-cora finito di vestire che Luisa entrò e lo pregò, col pre-testo del cattivo tempo, di restare, di lasciarla partir sola.La Cia era in grande angoscia, e avea pregato Luisa diinsistere sapendo ch'egli era stato côlto, il giorno venti,da forti vertigini e che il ventidue, senza dir niente anessuno, era andato a confessarsi. Egli s'irritò, convennetacere, lasciargli fare la sua volontà. Povero zio, avevagoduto sempre una salute di ferro ed era molto apprensi-vo, il menomo disturbo lo allarmava; ma ora non gli pa-reva bene che Luisa partisse sola in quelle condizioni dispirito, e si sacrificava per lei. Si vestì, ritornò alla fine-stra e chiamò trionfalmente Luisa che stava nel giardi-netto.

«Alza la testa!», diss'egli. «Guarda su in Boglia!»In alto, sopra Oria, attraverso la nebbia fumante, si ve-

deva l'oro pallido del sole sulla montagna e più in alto

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2. Solenne rullo

Il venticinque febbraio, giorno della partenza, lo zioPiero si alzò alle sette e mezzo e andò alla finestra. Undenso nebbione pendeva sul lago biancastro e nasconde-va le montagne per modo che se ne vedevano solamentedue brevi liste nere, una a destra e l'altra a sinistra, fra illago e la nebbia. «Ahimè!», sospirò lo zio. Non s'era an-cora finito di vestire che Luisa entrò e lo pregò, col pre-testo del cattivo tempo, di restare, di lasciarla partir sola.La Cia era in grande angoscia, e avea pregato Luisa diinsistere sapendo ch'egli era stato côlto, il giorno venti,da forti vertigini e che il ventidue, senza dir niente anessuno, era andato a confessarsi. Egli s'irritò, convennetacere, lasciargli fare la sua volontà. Povero zio, avevagoduto sempre una salute di ferro ed era molto apprensi-vo, il menomo disturbo lo allarmava; ma ora non gli pa-reva bene che Luisa partisse sola in quelle condizioni dispirito, e si sacrificava per lei. Si vestì, ritornò alla fine-stra e chiamò trionfalmente Luisa che stava nel giardi-netto.

«Alza la testa!», diss'egli. «Guarda su in Boglia!»In alto, sopra Oria, attraverso la nebbia fumante, si ve-

deva l'oro pallido del sole sulla montagna e più in alto

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ancora una trasparenza serena.«Bella giornata!»Luisa non rispose e il vecchio discese allegro in loggia,

uscì sulla terrazza a goder la battaglia magnifica dellanebbia e del sole.

Tutto il lago d'oriente fra la Ca Rotta, l'ultima casa diS. Mamette, a sinistra, e il golfo del Dòi a destra, parevaun mare immenso, bianco. La Ca Rotta traspariva appe-na, come un fantasma. Al golfo del Dòi cominciava lasottile lista nera scoperta fra il piombo del lago e il neb-bione. A poco a poco quel nebbione si faceva turchinic-cio, vaghi chiarori rompevano in cielo verso Osteno, infondo al mare d'oriente tremavano luccicori nuovi, veni-van liste, chiazze brune di brezza; un occhio di sole ap-pariva e scompariva sopra Osteno nei vapori turbinanti,ingrandiva rapidamente, splendé vincitore. La nebbiafuggì da ogni parte, a brani e fiocchi. Molti ne passaro-no davanti a Oria, grandi e veloci, altri si buttarono allacosta, il grosso ripiegò verso l'ultimo levante; colà, die-tro e sopra un pesante sipario bianco, le montagne dellago di Como sorsero gloriose nel sereno.

Lo zio Piero chiamò Luisa perché vedesse lo spettaco-lo, l'ultima scena splendida del dramma; il trionfo delsole, la fuga delle nebbie, la gloria delle montagne. Egliammirava patriarcalmente, senza finezze di senso arti-stico ma con calor giovanile, con sincera enfasi di voce,da vecchio che ha vissuto castamente, che non ha sciu-

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ancora una trasparenza serena.«Bella giornata!»Luisa non rispose e il vecchio discese allegro in loggia,

uscì sulla terrazza a goder la battaglia magnifica dellanebbia e del sole.

Tutto il lago d'oriente fra la Ca Rotta, l'ultima casa diS. Mamette, a sinistra, e il golfo del Dòi a destra, parevaun mare immenso, bianco. La Ca Rotta traspariva appe-na, come un fantasma. Al golfo del Dòi cominciava lasottile lista nera scoperta fra il piombo del lago e il neb-bione. A poco a poco quel nebbione si faceva turchinic-cio, vaghi chiarori rompevano in cielo verso Osteno, infondo al mare d'oriente tremavano luccicori nuovi, veni-van liste, chiazze brune di brezza; un occhio di sole ap-pariva e scompariva sopra Osteno nei vapori turbinanti,ingrandiva rapidamente, splendé vincitore. La nebbiafuggì da ogni parte, a brani e fiocchi. Molti ne passaro-no davanti a Oria, grandi e veloci, altri si buttarono allacosta, il grosso ripiegò verso l'ultimo levante; colà, die-tro e sopra un pesante sipario bianco, le montagne dellago di Como sorsero gloriose nel sereno.

Lo zio Piero chiamò Luisa perché vedesse lo spettaco-lo, l'ultima scena splendida del dramma; il trionfo delsole, la fuga delle nebbie, la gloria delle montagne. Egliammirava patriarcalmente, senza finezze di senso arti-stico ma con calor giovanile, con sincera enfasi di voce,da vecchio che ha vissuto castamente, che non ha sciu-

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pata la freschezza del cuore, che conserva una certa in-nocenza d'immaginazione. «Guarda, Luisa», esclamò,«se non bisogna dire: Gloria al Padre, al Figliuolo, alloSpirito Santo!» Luisa non rispose, si allontanò subitoper non veder quel recinto bianco, di là dall'orto, chel'attirava con violenza, con una tacita voce di rimprove-ro e di dolore. Ella vi era andata alle sei, vi aveva passa-ta un'ora nella nebbia, seduta sull'erba fradicia.

Lo zio rimase in contemplazione sulla terrazza fino almomento di partire. S'egli fosse stato un poeta presun-tuoso avrebbe supposto che la Valsolda gli desse il buonviaggio con uno spettacolo d'addio, volesse mostrarglisibella come forse non l'aveva veduta mai; ma queste fan-tasie poetiche a lui non venivano e poi si trattava di unviaggio così breve! No, gli passò invece nella mentel'immagine di Maria, l'idea di vedersela capitar correndofra le gambe, di prenderla sulle ginocchia, di recitarle lacanzonetta antica:

Ombretta sdegnosaDel Missipipì.

«Basta!», sospirò. «È stata una gran cosa!», e, chiama-to dalla Cia, si avviò lentamente verso il giardinettodove l'attendeva Luisa, pronta a scendere in barca. «Oh,son qui», diss'egli, «e voi guardate bene, mentre staremovia, di non lasciar cadere la casa nel lago.»

Durante il tragitto sul Lago Maggiore, a bordo del SanBernardino, Luisa stette quasi sempre nella sala di se-

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pata la freschezza del cuore, che conserva una certa in-nocenza d'immaginazione. «Guarda, Luisa», esclamò,«se non bisogna dire: Gloria al Padre, al Figliuolo, alloSpirito Santo!» Luisa non rispose, si allontanò subitoper non veder quel recinto bianco, di là dall'orto, chel'attirava con violenza, con una tacita voce di rimprove-ro e di dolore. Ella vi era andata alle sei, vi aveva passa-ta un'ora nella nebbia, seduta sull'erba fradicia.

Lo zio rimase in contemplazione sulla terrazza fino almomento di partire. S'egli fosse stato un poeta presun-tuoso avrebbe supposto che la Valsolda gli desse il buonviaggio con uno spettacolo d'addio, volesse mostrarglisibella come forse non l'aveva veduta mai; ma queste fan-tasie poetiche a lui non venivano e poi si trattava di unviaggio così breve! No, gli passò invece nella mentel'immagine di Maria, l'idea di vedersela capitar correndofra le gambe, di prenderla sulle ginocchia, di recitarle lacanzonetta antica:

Ombretta sdegnosaDel Missipipì.

«Basta!», sospirò. «È stata una gran cosa!», e, chiama-to dalla Cia, si avviò lentamente verso il giardinettodove l'attendeva Luisa, pronta a scendere in barca. «Oh,son qui», diss'egli, «e voi guardate bene, mentre staremovia, di non lasciar cadere la casa nel lago.»

Durante il tragitto sul Lago Maggiore, a bordo del SanBernardino, Luisa stette quasi sempre nella sala di se-

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conda classe. Ne salì una volta onde persuadere lo zioPiero a discendere anche lui; ma lo zio Piero, chiuso nelsuo zimarrone grigio, non volle muoversi, malgradol'aria fredda, dal ponte dove stava pacificamente a guar-dar montagne e paesi, e far un po' di conversazione conun prete di Locarno, con una vecchierella di Belgirate econ altri viaggiatori di seconda classe. Luisa dovette la-sciarvelo e ridiscese, preferendo star sola con i propripensieri. Più si avvicinava all'Isola Bella più le crescevadentro un'agitazione sorda, una incerta attesa di tantecose. Come avverrebbe l'incontro con Franco? Qualecontegno terrebb'egli con lei? Le farebbe i discorsi chele aveva fatto lo zio? Le lettere erano molto pietose e te-nere, ma chi non sa che si scrive in un modo e si parla inun altro? Come, dove, passerebbero la sera? E poi l'altracosa, la cosa terribile a pensare...? Tutte queste preoccu-pazioni salivano, salivano, tendevano a diventar domi-nanti, a porsi in antagonismo con l'immagine del Cimi-tero di Oria che ogni tratto ritornava impetuosa, come ariprendere il suo. Alla stazione di Cannero, Luisa si udìsul capo un grande strepito di passi, un grande chiassodi voci e di grida, salì a vedere dello zio. Erano militaririchiamati alle bandiere, venuti al battello con due gran-di barche. Altre barchette portavano donne, bambini,vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, la mag-gior parte bersaglieri, bei giovinotti allegri, rispondeva-no ai saluti, gridando: «Viva l'Italia!» promettevano re-gali da Milano. Una vecchia, che aveva tre figli fra queisoldati, gridava loro, tutta scarmigliata ma non piangen-

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conda classe. Ne salì una volta onde persuadere lo zioPiero a discendere anche lui; ma lo zio Piero, chiuso nelsuo zimarrone grigio, non volle muoversi, malgradol'aria fredda, dal ponte dove stava pacificamente a guar-dar montagne e paesi, e far un po' di conversazione conun prete di Locarno, con una vecchierella di Belgirate econ altri viaggiatori di seconda classe. Luisa dovette la-sciarvelo e ridiscese, preferendo star sola con i propripensieri. Più si avvicinava all'Isola Bella più le crescevadentro un'agitazione sorda, una incerta attesa di tantecose. Come avverrebbe l'incontro con Franco? Qualecontegno terrebb'egli con lei? Le farebbe i discorsi chele aveva fatto lo zio? Le lettere erano molto pietose e te-nere, ma chi non sa che si scrive in un modo e si parla inun altro? Come, dove, passerebbero la sera? E poi l'altracosa, la cosa terribile a pensare...? Tutte queste preoccu-pazioni salivano, salivano, tendevano a diventar domi-nanti, a porsi in antagonismo con l'immagine del Cimi-tero di Oria che ogni tratto ritornava impetuosa, come ariprendere il suo. Alla stazione di Cannero, Luisa si udìsul capo un grande strepito di passi, un grande chiassodi voci e di grida, salì a vedere dello zio. Erano militaririchiamati alle bandiere, venuti al battello con due gran-di barche. Altre barchette portavano donne, bambini,vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, la mag-gior parte bersaglieri, bei giovinotti allegri, rispondeva-no ai saluti, gridando: «Viva l'Italia!» promettevano re-gali da Milano. Una vecchia, che aveva tre figli fra queisoldati, gridava loro, tutta scarmigliata ma non piangen-

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te, che si ricordassero del Signore e della Madonna.«Sì», brontolo un vecchio sergente che li accompagna-va, «ca s'ricordo del Sgnour, d'la Madonna, del Vescov edel prevost!» I soldati molto pratici del «prevost», laprigione militare, risero della barzelletta e il battellopartì. Grida, sventolar di fazzoletti e poi un canto, uncanto potente di cinquanta voci gagliarde:

Addio, mia bella, addio,L'armata se ne va.

I soldati si erano tutti ammucchiati a prora su cataste disacchi e barili, quale seduto, quale sdraiato, quale in pie-di, e cantavano a squarciagola, con l'accompagnamentocupo delle ruote del vapore che filava diritto giù versolo sfondo di cielo cui le sottili colline d'Ispra dividonodall'immenso specchio dell'acque, verso il Ticino. Queigiovinotti avevano a passarlo presto, il Ticino, probabil-mente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate.Molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno,dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumorcupo delle ruote del vapore pareva saperne qualchecosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali fila-va il battello parevano fiere e paghe, benché nell'ombra,di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombar-de, tragiche nell'aspetto benché illuminate dal sole. Lui-sa si sentì un lieve formicolio nel sangue, un palpito delsuo patriottismo ardente d'una volta. E quelle madri cheavevan visto partire i loro figli così? Prevenne il proprio

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te, che si ricordassero del Signore e della Madonna.«Sì», brontolo un vecchio sergente che li accompagna-va, «ca s'ricordo del Sgnour, d'la Madonna, del Vescov edel prevost!» I soldati molto pratici del «prevost», laprigione militare, risero della barzelletta e il battellopartì. Grida, sventolar di fazzoletti e poi un canto, uncanto potente di cinquanta voci gagliarde:

Addio, mia bella, addio,L'armata se ne va.

I soldati si erano tutti ammucchiati a prora su cataste disacchi e barili, quale seduto, quale sdraiato, quale in pie-di, e cantavano a squarciagola, con l'accompagnamentocupo delle ruote del vapore che filava diritto giù versolo sfondo di cielo cui le sottili colline d'Ispra dividonodall'immenso specchio dell'acque, verso il Ticino. Queigiovinotti avevano a passarlo presto, il Ticino, probabil-mente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate.Molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno,dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumorcupo delle ruote del vapore pareva saperne qualchecosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali fila-va il battello parevano fiere e paghe, benché nell'ombra,di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombar-de, tragiche nell'aspetto benché illuminate dal sole. Lui-sa si sentì un lieve formicolio nel sangue, un palpito delsuo patriottismo ardente d'una volta. E quelle madri cheavevan visto partire i loro figli così? Prevenne il proprio

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pensiero, si disse subito che anche lei avrebbe donatovolentieri un figlio all'Italia, che quelle madri non po-trebbero in nessun caso paragonarsi a lei. Ma com'eradiverso di leggere in Valsolda una lettera che parlava diguerra e di sentir veramente il soffio e il rumor dellaguerra intorno a sé, di respirarla nell'aria! Nella quietadella Valsolda era un'ombra senza realtà: qui l'ombra pi-gliava corpo. Qui il dolore privato di Luisa, il dolore im-menso che le riempiva intorno l'aria morta di Oria,s'impiccioliva a fronte della emozione pubblica, ed ellalo sentiva e ciò le recava una molestia, un malessere in-definibile. Era paura di perdere parte del dolore proprio,come dire parte di se stessa? Era desiderio di sottrarsi adun paragone che le ripugnava di fare? In pari tempol'idea che Franco andrebbe a questa guerra, l'idea ondepoco ella si era commossa in Valsolda, prendeva pureuna realtà nuova nella sua mente, le dava delle scosse alcuore, lottava essa pure con l'immagine del Camposantodi Oria. Per la prima volta l'immagine del passato nonera più sola, assoluta, onnipotente signora dell'animasua; ne avesse pure sdegno quest'anima e rincrescimen-to, nuove immagini, immagini del presente e del futuro,le facevano assalto.

Lo zio cominciò ad aver freddo e discese sotto coperta.«Fra poco più d'un'ora», diss'egli, «saremo a Isola Bel-

la.»«Sei stanco?»

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pensiero, si disse subito che anche lei avrebbe donatovolentieri un figlio all'Italia, che quelle madri non po-trebbero in nessun caso paragonarsi a lei. Ma com'eradiverso di leggere in Valsolda una lettera che parlava diguerra e di sentir veramente il soffio e il rumor dellaguerra intorno a sé, di respirarla nell'aria! Nella quietadella Valsolda era un'ombra senza realtà: qui l'ombra pi-gliava corpo. Qui il dolore privato di Luisa, il dolore im-menso che le riempiva intorno l'aria morta di Oria,s'impiccioliva a fronte della emozione pubblica, ed ellalo sentiva e ciò le recava una molestia, un malessere in-definibile. Era paura di perdere parte del dolore proprio,come dire parte di se stessa? Era desiderio di sottrarsi adun paragone che le ripugnava di fare? In pari tempol'idea che Franco andrebbe a questa guerra, l'idea ondepoco ella si era commossa in Valsolda, prendeva pureuna realtà nuova nella sua mente, le dava delle scosse alcuore, lottava essa pure con l'immagine del Camposantodi Oria. Per la prima volta l'immagine del passato nonera più sola, assoluta, onnipotente signora dell'animasua; ne avesse pure sdegno quest'anima e rincrescimen-to, nuove immagini, immagini del presente e del futuro,le facevano assalto.

Lo zio cominciò ad aver freddo e discese sotto coperta.«Fra poco più d'un'ora», diss'egli, «saremo a Isola Bel-

la.»«Sei stanco?»

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«Niente affatto. Sto benone.»«Però andrai a letto presto questa sera?»Lo zio, distratto, non rispose. Invece dopo un poco escì

a dire: «Sai cosa pensavo? Pensavo che dovrebbe capi-tare un'altra Maria».

Luisa, che gli era seduta accanto, si alzò di botto, fre-mente, e andò a guardar fuori dal finestrino in faccia,voltando le spalle allo zio. Questi non capì affatto, cre-dette a un senso d'imbarazzo e si addormentò nel suoangolo. Il battello tocca Intra. Adesso prima dell'Isolanon c'è che Pallanza. Il battello rade la costa; Luisaguarda dal finestrino ovale passar le rive, le case, gli al-beri. Come si corre, come si corre!

Pallanza. Il battello resta fermo cinque minuti.Luisa sale sul ponte, domanda quando si arriverà

all'Isola Bella. Il battello non toccherà Suna né Baveno.Sarà un viaggio di pochi minuti. E il battello di Arona,quando arriva? Pare che sia in ritardo. Ella scende e sve-glia lo zio che sale sul ponte con lei. L'ultimo tratto delviaggio è fatto in silenzio: lo zio sta a guardar Pallanzache si allontana e Luisa ha fissi gli occhi sull'Isola ches'avanza, non vede altro.

Il battello giunse all'approdo dell'Isola Bella alle tre equaranta minuti. Nessun indizio del battello di Arona.Un inserviente disse a Luisa che quel battello era sem-pre in ritardo per colpa del treno di Novara che non ave-

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«Niente affatto. Sto benone.»«Però andrai a letto presto questa sera?»Lo zio, distratto, non rispose. Invece dopo un poco escì

a dire: «Sai cosa pensavo? Pensavo che dovrebbe capi-tare un'altra Maria».

Luisa, che gli era seduta accanto, si alzò di botto, fre-mente, e andò a guardar fuori dal finestrino in faccia,voltando le spalle allo zio. Questi non capì affatto, cre-dette a un senso d'imbarazzo e si addormentò nel suoangolo. Il battello tocca Intra. Adesso prima dell'Isolanon c'è che Pallanza. Il battello rade la costa; Luisaguarda dal finestrino ovale passar le rive, le case, gli al-beri. Come si corre, come si corre!

Pallanza. Il battello resta fermo cinque minuti.Luisa sale sul ponte, domanda quando si arriverà

all'Isola Bella. Il battello non toccherà Suna né Baveno.Sarà un viaggio di pochi minuti. E il battello di Arona,quando arriva? Pare che sia in ritardo. Ella scende e sve-glia lo zio che sale sul ponte con lei. L'ultimo tratto delviaggio è fatto in silenzio: lo zio sta a guardar Pallanzache si allontana e Luisa ha fissi gli occhi sull'Isola ches'avanza, non vede altro.

Il battello giunse all'approdo dell'Isola Bella alle tre equaranta minuti. Nessun indizio del battello di Arona.Un inserviente disse a Luisa che quel battello era sem-pre in ritardo per colpa del treno di Novara che non ave-

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va quasi più regola, causa i movimenti militari. Nessunodiscese all'Isola, nessuno era sulla riva tranne l'uomo ad-detto allo sbarco. Partito il battello, accompagnò eglistesso i due viaggiatori all'albergo del Delfino. Era uncaso, diss'egli, che trovassero il Delfino aperto a quellastagione. Ci svernava una grossa famiglia inglese. Pare-va l'isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intornoimmobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle po-vere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra unbastione rotondo del giardino e l'albergo, non si vedevapersona viva. Gl'inglesi erano fuori, in barca; l'albergotaceva come la riva e l'acqua. I nuovi venuti ebbero duecamere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, difronte al malinconico stretto fra l'isola e la costa boscosache va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull'angolodi ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S.Vittore, che sorge a fianco dell'albergo, e l'isolotto lonta-no dei Pescatori. Lo zio Piero si piantò a quella finestracontemplando l'isolotto, il mucchietto di case sporgentedallo specchio del lago e appuntato in un campanile, legrandi montagne di Val di Toce e di Val di Gravellone,mezzo nascoste da una nebbiolina penetrata di sole. Lui-sa, visto che lì v'eran due letti, passò rapidamentenell'altra camera dov'era un'alcova con due letti pure.«Ecco», disse lo zio Piero entrandovi un momento dopo,«questa va bene per voialtri.» Luisa domandò sottovoceall'albergatore se non si potessero avere tre camere inve-ce di due. No, non si potevano avere. «Ma se così vabene! Ma se così va benone!», ripeteva lo zio. «Voi qui

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va quasi più regola, causa i movimenti militari. Nessunodiscese all'Isola, nessuno era sulla riva tranne l'uomo ad-detto allo sbarco. Partito il battello, accompagnò eglistesso i due viaggiatori all'albergo del Delfino. Era uncaso, diss'egli, che trovassero il Delfino aperto a quellastagione. Ci svernava una grossa famiglia inglese. Pare-va l'isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intornoimmobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle po-vere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra unbastione rotondo del giardino e l'albergo, non si vedevapersona viva. Gl'inglesi erano fuori, in barca; l'albergotaceva come la riva e l'acqua. I nuovi venuti ebbero duecamere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, difronte al malinconico stretto fra l'isola e la costa boscosache va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull'angolodi ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S.Vittore, che sorge a fianco dell'albergo, e l'isolotto lonta-no dei Pescatori. Lo zio Piero si piantò a quella finestracontemplando l'isolotto, il mucchietto di case sporgentedallo specchio del lago e appuntato in un campanile, legrandi montagne di Val di Toce e di Val di Gravellone,mezzo nascoste da una nebbiolina penetrata di sole. Lui-sa, visto che lì v'eran due letti, passò rapidamentenell'altra camera dov'era un'alcova con due letti pure.«Ecco», disse lo zio Piero entrandovi un momento dopo,«questa va bene per voialtri.» Luisa domandò sottovoceall'albergatore se non si potessero avere tre camere inve-ce di due. No, non si potevano avere. «Ma se così vabene! Ma se così va benone!», ripeteva lo zio. «Voi qui

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e io là.» Luisa tacque e l'albergatore se n'andò. «Nonvedi che hai l'alcova come a casa?» Non gli veniva inmente, all'uomo patriarcale, che per Luisa la sola vistadi quell'alcova fosse un tormento. Ella gli rispose chepreferiva l'altra camera, più chiara, più allegra. «Amen»,disse lo zio, «fate vobis. M'inalcoverò io.»

Anche quell'angolo dell'albergo ritornò nel silenzio.Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona dovevaesser vicino, l'uomo di prima s'incamminava lentamenteverso lo sbarco e poco dopo si udì un rumor lontano diruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rima-neva in camera.

Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò pres-so una casupola che toglieva di vedere il battello di cuiudiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo leuscì davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suomarito fra un gruppo di persone che gli facevano ungrande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte,corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono,egli muto, cieco d'emozione, ridente e lagrimoso, pienodi gratitudine e anche trepido, incerto circa l'animo dilei, circa il modo di regolarsi; ella più composta, palli-dissima e seria. «Addio», ripeteva, «addio», e s'incam-minò verso l'albergo. Venne allora da Franco una furiadi domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine,prima; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzòil viso e disse: «Guarda!». Lo zio era lassù alla finestra egittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto.

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e io là.» Luisa tacque e l'albergatore se n'andò. «Nonvedi che hai l'alcova come a casa?» Non gli veniva inmente, all'uomo patriarcale, che per Luisa la sola vistadi quell'alcova fosse un tormento. Ella gli rispose chepreferiva l'altra camera, più chiara, più allegra. «Amen»,disse lo zio, «fate vobis. M'inalcoverò io.»

Anche quell'angolo dell'albergo ritornò nel silenzio.Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona dovevaesser vicino, l'uomo di prima s'incamminava lentamenteverso lo sbarco e poco dopo si udì un rumor lontano diruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rima-neva in camera.

Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò pres-so una casupola che toglieva di vedere il battello di cuiudiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo leuscì davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suomarito fra un gruppo di persone che gli facevano ungrande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte,corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono,egli muto, cieco d'emozione, ridente e lagrimoso, pienodi gratitudine e anche trepido, incerto circa l'animo dilei, circa il modo di regolarsi; ella più composta, palli-dissima e seria. «Addio», ripeteva, «addio», e s'incam-minò verso l'albergo. Venne allora da Franco una furiadi domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine,prima; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzòil viso e disse: «Guarda!». Lo zio era lassù alla finestra egittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto.

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«Oh!», fece Franco, stupefatto; e prese la corsa.Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una

espressione di contentezza persino nel ventre pacifico.«Ciao, neh», diss'egli e gli prese le mani, gliele scossetenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come sein quel momento significassero ringraziamenti, ma nonpoté difendersi dall'impeto di Franco. «Figurati»,diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane,«se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo!Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!» El'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a or-dinare il pranzo.

Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco tras-se Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinsecon un braccio le spalle, incapace di un discorso qual-siasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio»,non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci,nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non glirispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese ilcapo come una cosa santa, le andò sfiorando con le lab-bra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì checercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si com-mosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgo-mento, volle difendersi più contro se stessa che controFranco. «Sai», disse, «ho il cuore tanto freddo, non vo-levo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tuavessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zioche venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa.»

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«Oh!», fece Franco, stupefatto; e prese la corsa.Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una

espressione di contentezza persino nel ventre pacifico.«Ciao, neh», diss'egli e gli prese le mani, gliele scossetenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come sein quel momento significassero ringraziamenti, ma nonpoté difendersi dall'impeto di Franco. «Figurati»,diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane,«se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo!Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!» El'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a or-dinare il pranzo.

Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco tras-se Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinsecon un braccio le spalle, incapace di un discorso qual-siasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio»,non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci,nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non glirispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese ilcapo come una cosa santa, le andò sfiorando con le lab-bra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì checercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si com-mosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgo-mento, volle difendersi più contro se stessa che controFranco. «Sai», disse, «ho il cuore tanto freddo, non vo-levo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tuavessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zioche venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa.»

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Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli lelabbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tac-quero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza:

«Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia maipiù». In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che ilpranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito,gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante,ma pure abbastanza forte per significargli ch'era unacommossa risposta.

A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lozio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non appro-vava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoiriuscire tu?», gli diceva. «Cosa farai senza la canfora,l'acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò cheaveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro,che sarebbe stato il più robusto soldato del 9°. «Sarà!»,brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?»Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suomarito. «N'occor alter!», fece lo zio. «Evviva!» Egliaveva poi anche un gran concetto della potenza austria-ca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco,non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto unaiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli avevaudito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Mag-giore: «Nous allons supprimer l'Autriche». Certo, biso-gnava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani efrancesi tra il Ticino e l'Isonzo.

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Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli lelabbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tac-quero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza:

«Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia maipiù». In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che ilpranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito,gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante,ma pure abbastanza forte per significargli ch'era unacommossa risposta.

A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lozio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non appro-vava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoiriuscire tu?», gli diceva. «Cosa farai senza la canfora,l'acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò cheaveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro,che sarebbe stato il più robusto soldato del 9°. «Sarà!»,brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?»Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suomarito. «N'occor alter!», fece lo zio. «Evviva!» Egliaveva poi anche un gran concetto della potenza austria-ca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco,non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto unaiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli avevaudito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Mag-giore: «Nous allons supprimer l'Autriche». Certo, biso-gnava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani efrancesi tra il Ticino e l'Isonzo.

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«Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mipare che il signore parlasse di entrare nel 9° reggimen-to!»

«Sì!»«Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°.

Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia,Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.»

«Faremo il possibile.»Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano

alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco.Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passòla visione di una colonna di fanteria lanciata alla baio-netta, fra la mitraglia.

Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solitochilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso ilPalazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche raragocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortiledella villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse ilbraccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si ferma-rono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contarle ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Era-no passate due ore, ne restavano altre undici; poi venivala separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente,sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e ilfianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola deiPescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donnevenivano loro incontro a braccetto, chiacchierando.

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«Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mipare che il signore parlasse di entrare nel 9° reggimen-to!»

«Sì!»«Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°.

Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia,Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.»

«Faremo il possibile.»Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano

alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco.Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passòla visione di una colonna di fanteria lanciata alla baio-netta, fra la mitraglia.

Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solitochilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso ilPalazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche raragocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortiledella villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse ilbraccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si ferma-rono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contarle ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Era-no passate due ore, ne restavano altre undici; poi venivala separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente,sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e ilfianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola deiPescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donnevenivano loro incontro a braccetto, chiacchierando.

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Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie sesi ricordava dei Rancò.

Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto conaltri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pa-scoli di Valsolda, che si attraversano per salire al PassoStretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora dibroncio e di tormento. «Sì», rispose Luisa. «Mi ricor-do.» Sentirono ambedue nello stesso momento quantol'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fossedoloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Unsuono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Francolasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto.Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumidell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle cam-pane che parevano di una nave perduta in mare, il silen-zio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova,tutto era così triste!

«E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar ilviso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacqueun poco, indi rispose sottovoce:

«Sì, caro».Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di

calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbeuna scossa di gioia ma si contenne.

«Penso», riprese, «alla lettera che t'ho scritto subito,appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai dettoil giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano

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Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie sesi ricordava dei Rancò.

Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto conaltri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pa-scoli di Valsolda, che si attraversano per salire al PassoStretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora dibroncio e di tormento. «Sì», rispose Luisa. «Mi ricor-do.» Sentirono ambedue nello stesso momento quantol'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fossedoloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Unsuono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Francolasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto.Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumidell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle cam-pane che parevano di una nave perduta in mare, il silen-zio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova,tutto era così triste!

«E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar ilviso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacqueun poco, indi rispose sottovoce:

«Sì, caro».Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di

calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbeuna scossa di gioia ma si contenne.

«Penso», riprese, «alla lettera che t'ho scritto subito,appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai dettoil giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano

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sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar aprendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te lericordi?»

«Sì.»Egli le prese una mano, se la recò alle labbra.«Ti ringrazio ancora», diss'egli, «per quelle tre parole.

Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella di-scesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?»

«Sì.»«E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di ar-

rivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, toc-ca a Lei di sostenere me"?»

Luisa non rispose, gli strinse la mano.«Non sono stato buono a nulla», diss'egli tristemente.

«Non ti ho saputo sostenere.»«Hai fatto tutto quello che potevi.»La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben di-

versa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo.Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passilenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inertequanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco sifermò e disse piano:

«E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?»Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla

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sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar aprendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te lericordi?»

«Sì.»Egli le prese una mano, se la recò alle labbra.«Ti ringrazio ancora», diss'egli, «per quelle tre parole.

Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella di-scesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?»

«Sì.»«E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di ar-

rivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, toc-ca a Lei di sostenere me"?»

Luisa non rispose, gli strinse la mano.«Non sono stato buono a nulla», diss'egli tristemente.

«Non ti ho saputo sostenere.»«Hai fatto tutto quello che potevi.»La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben di-

versa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo.Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passilenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inertequanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco sifermò e disse piano:

«E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?»Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla

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e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò:«Cosa?». Non udì rispondere, piegò adagio adagio ilviso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuo-re gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quandoaveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzòil viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscìdi metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promes-so...». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non loposso, non domandarmelo, non è più possibile.»

«Cosa, non è possibile?»«Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi

dir tu.» Ella riprese a camminare, volendo staccarsi daquel discorso. Tenne però il braccio del marito, che lafermò.

«Luisa!», diss'egli, severo, quasi impetuoso. «Mi la-scerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partirecosì?»

Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello dilui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiòguardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco lerestò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò dirispondergli.

«Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss'ella,amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio,la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccioin aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar così, tu chedicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il

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e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò:«Cosa?». Non udì rispondere, piegò adagio adagio ilviso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuo-re gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quandoaveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzòil viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscìdi metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promes-so...». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non loposso, non domandarmelo, non è più possibile.»

«Cosa, non è possibile?»«Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi

dir tu.» Ella riprese a camminare, volendo staccarsi daquel discorso. Tenne però il braccio del marito, che lafermò.

«Luisa!», diss'egli, severo, quasi impetuoso. «Mi la-scerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partirecosì?»

Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello dilui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiòguardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco lerestò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò dirispondergli.

«Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss'ella,amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio,la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccioin aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar così, tu chedicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il

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tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo unavolta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sonoio il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosaho sofferto io in questi anni? Sai neancheimmaginare...» Sentì la voce sfuggirsi un momento masi padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginarecosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza neces-sità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importinulla di lacerarmi l'anima?». Ella gli si gettò fra le brac-cia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo disinghiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò faticaa staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa ilcammino dell'albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoiche desideri di morire io, quando posso morir bene, peril mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parla-re. Incontrarono due giovani amanti, che passando loroaccanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise.Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davantia S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa sifermò un momento sul primo scalino e disse piano le treparole di Muzzaglio:

«Ti amo tanto».Franco non rispose che con una stretta del braccio. Di-

scesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergodel Delfino.

Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamaz-

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tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo unavolta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sonoio il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosaho sofferto io in questi anni? Sai neancheimmaginare...» Sentì la voce sfuggirsi un momento masi padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginarecosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza neces-sità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importinulla di lacerarmi l'anima?». Ella gli si gettò fra le brac-cia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo disinghiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò faticaa staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa ilcammino dell'albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoiche desideri di morire io, quando posso morir bene, peril mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parla-re. Incontrarono due giovani amanti, che passando loroaccanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise.Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davantia S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa sifermò un momento sul primo scalino e disse piano le treparole di Muzzaglio:

«Ti amo tanto».Franco non rispose che con una stretta del braccio. Di-

scesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergodel Delfino.

Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamaz-

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zavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fe-cero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò delmomento buono per vuotare l'ultima bottiglia. «Signo-ra», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo maritoLe avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subi-to un gran baccano perché Franco aveva dimenticato didire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Tori-no e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, pro-mettendo una visitina d'omaggio alla signora. «El piùsapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che ave-va vuotata la bottiglia. «Vualtri fe' bordelo e non bevì;mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora», disseun bel giovane, «è, com'Ella ben intende, l'asino sapien-te della compagnia.»

«Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzan-dosi e salutando.

«Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa,sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti,ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro,dai baffi arricciati: «Lei dev'essere il signor Caval dispade».

«No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre glialtri applaudivano, «che se vede la bestia?»

Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartiresubito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e ilchiasso divenne così enorme, malgrado la presenza diLuisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore de'

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zavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fe-cero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò delmomento buono per vuotare l'ultima bottiglia. «Signo-ra», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo maritoLe avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subi-to un gran baccano perché Franco aveva dimenticato didire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Tori-no e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, pro-mettendo una visitina d'omaggio alla signora. «El piùsapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che ave-va vuotata la bottiglia. «Vualtri fe' bordelo e non bevì;mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora», disseun bel giovane, «è, com'Ella ben intende, l'asino sapien-te della compagnia.»

«Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzan-dosi e salutando.

«Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa,sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti,ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro,dai baffi arricciati: «Lei dev'essere il signor Caval dispade».

«No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre glialtri applaudivano, «che se vede la bestia?»

Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartiresubito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e ilchiasso divenne così enorme, malgrado la presenza diLuisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore de'

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suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano glisnocciolò dolcemente una litania placida di vituperi pa-dovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e sen'andò.

I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche lorouna giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravanotutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento.Bevvero al 9° fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pi-stapauta» nazionali nel presente e nell'avvenire e discus-sero sul luogo e il nome della prima battaglia che si da-rebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padova-no furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovanovoleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nomemilitar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!»

Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe cadutoappunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheg-gia di granata nella coscia, combattendo da buon soldatoa due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parla-vano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate,parlavano della futura Italia dicendo alquante corbelle-rie, ma si sentiva che non importava loro un fico seccodella vita pur di farla libera, questa vecchia patria, egrande. «Ghe pàrele teste da far l'Italia?», disse il Pado-vano a Luisa. «Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, mapar far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia chevien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopovegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche dequei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà,

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suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano glisnocciolò dolcemente una litania placida di vituperi pa-dovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e sen'andò.

I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche lorouna giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravanotutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento.Bevvero al 9° fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pi-stapauta» nazionali nel presente e nell'avvenire e discus-sero sul luogo e il nome della prima battaglia che si da-rebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padova-no furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovanovoleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nomemilitar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!»

Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe cadutoappunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheg-gia di granata nella coscia, combattendo da buon soldatoa due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parla-vano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate,parlavano della futura Italia dicendo alquante corbelle-rie, ma si sentiva che non importava loro un fico seccodella vita pur di farla libera, questa vecchia patria, egrande. «Ghe pàrele teste da far l'Italia?», disse il Pado-vano a Luisa. «Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, mapar far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia chevien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopovegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche dequei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà,

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"che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!"»I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco

di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Francoli accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a ve-dere lo zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'alberga-tore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto son-no, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumo-rosamente. Posò il lume e attese Franco.

Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dor-miva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui primad'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino,alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso,tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in puntadi piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che leaveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ellasperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alledieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Maga-dino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su que-ste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava,nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tenerlontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In paritempo andava e veniva per la camera, pigliando e po-sando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con laintenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Eglipareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tra-colla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse,chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cin-quanta pezzi da venti lire. «Capisci», le disse, «che al-

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"che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!"»I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco

di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Francoli accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a ve-dere lo zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'alberga-tore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto son-no, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumo-rosamente. Posò il lume e attese Franco.

Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dor-miva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui primad'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino,alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso,tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in puntadi piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che leaveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ellasperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alledieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Maga-dino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su que-ste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava,nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tenerlontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In paritempo andava e veniva per la camera, pigliando e po-sando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con laintenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Eglipareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tra-colla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse,chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cin-quanta pezzi da venti lire. «Capisci», le disse, «che al-

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meno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questinon sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tascauna lettera suggellata. «E questo è il mio testamento»,soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche diquel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre chehai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cuidevo le mille lire. A parte del testamento ci sono due ri-ghe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezzagrave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera,le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a scio-gliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene chesi facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e daun'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rot-ta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al va-pore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsivestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e sicominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella euna crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. «Tienletu», diss'egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si samai, potrebbero cadere in mano ai croati.» Ella inorridì,tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinseda soffocarlo.

Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattroe mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella came-ra dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e pro-pose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisselì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione

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meno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questinon sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tascauna lettera suggellata. «E questo è il mio testamento»,soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche diquel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre chehai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cuidevo le mille lire. A parte del testamento ci sono due ri-ghe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezzagrave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera,le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a scio-gliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene chesi facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e daun'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rot-ta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al va-pore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsivestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e sicominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella euna crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. «Tienletu», diss'egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si samai, potrebbero cadere in mano ai croati.» Ella inorridì,tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinseda soffocarlo.

Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattroe mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella came-ra dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e pro-pose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisselì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione

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di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse,abbracciò e baciò suo marito come trasognata e cometrasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse inesso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei?Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre pren-deva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve chescoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisio-nomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza dicaffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza,un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manife-stamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una pa-rola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli lu-ceva negli occhi; la bocca non osò dire niente.

Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si ap-poggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giornoprima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbrac-ciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagri-me, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occul-to che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò confracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò:«Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio tibenedica!», disse Franco e saltò sul battello.

Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delleruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornòall'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata inquest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre unaseconda volta.

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di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse,abbracciò e baciò suo marito come trasognata e cometrasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse inesso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei?Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre pren-deva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve chescoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisio-nomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza dicaffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza,un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manife-stamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una pa-rola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli lu-ceva negli occhi; la bocca non osò dire niente.

Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si ap-poggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giornoprima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbrac-ciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagri-me, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occul-to che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò confracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò:«Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio tibenedica!», disse Franco e saltò sul battello.

Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delleruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornòall'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata inquest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre unaseconda volta.

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Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si puòdire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsidentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinsein lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sem-pre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro delDestino nulla potesse più avere di nuovo per lei, checerte intime fibre del suo cuore fossero morte. E adessouna Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sap-pi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude,un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita in-tensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto,continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio».Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisarestò assorta in questa Voce.

Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempoera umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non vollesaperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desidera-to, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, peraverne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi sipoteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte,vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desideròentrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, ilcelebrante si voltava a dire: «Benedicat vos omnipotensDeus». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimovangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era pocaluce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita:«Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi bene-dire».

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Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si puòdire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsidentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinsein lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sem-pre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro delDestino nulla potesse più avere di nuovo per lei, checerte intime fibre del suo cuore fossero morte. E adessouna Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sap-pi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude,un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita in-tensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto,continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio».Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisarestò assorta in questa Voce.

Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempoera umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non vollesaperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desidera-to, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, peraverne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi sipoteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte,vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desideròentrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, ilcelebrante si voltava a dire: «Benedicat vos omnipotensDeus». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimovangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era pocaluce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita:«Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi bene-dire».

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Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava adogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tut-to che fosse disposto per venir guardato. Contemplò lafacciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarcoBorromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran pal-ma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, nonaveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, lasera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzoci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, loscalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e ilcustode propose di approfittarne per vedere il giardino.Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò ivisitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Ven-ne un giardiniere, un giovinetto educato che piacquemolto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo,e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minutiper l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci sof-friva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancavamoltissimo ella stessa di dover guardare tante piante,udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio,mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitu-dine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettu-no. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocornodei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchiscalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa ap-profittò di quell'esitazione per chiedere al giardinieredove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto», risposecolui, «a sinistra, sulla piazza degli Strobus.» Lo zio silasciò persuadere a discendere su questa piazza degli

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Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava adogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tut-to che fosse disposto per venir guardato. Contemplò lafacciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarcoBorromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran pal-ma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, nonaveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, lasera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzoci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, loscalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e ilcustode propose di approfittarne per vedere il giardino.Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò ivisitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Ven-ne un giardiniere, un giovinetto educato che piacquemolto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo,e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minutiper l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci sof-friva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancavamoltissimo ella stessa di dover guardare tante piante,udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio,mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitu-dine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettu-no. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocornodei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchiscalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa ap-profittò di quell'esitazione per chiedere al giardinieredove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto», risposecolui, «a sinistra, sulla piazza degli Strobus.» Lo zio silasciò persuadere a discendere su questa piazza degli

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Strobus.Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'inter-

rogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir dalontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburie ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi dellaGuardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizisulla riva. «Adesso si fa per giuoco», disse il giovinetto.«Mica per giuoco, ma insomma...! Il mese venturo fare-mo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestiagrossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vaporeaustriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemon-tesi Radescòn. «Entra adesso nel porto di Laveno», dis-se il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vo-gliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buonie sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus, po-sto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiatoda due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù,fra i grossi tronchi distorti degli strobus, si vedeva tre-molare lo specchio delle acque bianche fino alla listanera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione,era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino alcancello stemmato che guarda la verde Isola Madre,Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla grandistesa delle acque plumbee, incoronate di colossi neb-biosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno aimonti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. DelRadetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di

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Strobus.Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'inter-

rogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir dalontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburie ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi dellaGuardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizisulla riva. «Adesso si fa per giuoco», disse il giovinetto.«Mica per giuoco, ma insomma...! Il mese venturo fare-mo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestiagrossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vaporeaustriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemon-tesi Radescòn. «Entra adesso nel porto di Laveno», dis-se il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vo-gliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buonie sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus, po-sto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiatoda due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù,fra i grossi tronchi distorti degli strobus, si vedeva tre-molare lo specchio delle acque bianche fino alla listanera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione,era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino alcancello stemmato che guarda la verde Isola Madre,Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla grandistesa delle acque plumbee, incoronate di colossi neb-biosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno aimonti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. DelRadetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di

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Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giar-diniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fian-co al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano infe-riore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ellaera contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoisguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lonta-ne e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo unmomento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le erichebianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyèresblanches portano fortuna», diss'egli. Vedendo che Luisa,distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra dellebegonie. «Vecchio strobus», diss'egli parlando forte perfarsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchiostrobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardi-no privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il brac-cio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspet-tando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la si-gnora muovere verso il signore seduto, affrettare il pas-so, precipitarsi con un grido sopra di lui.

Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Pieroera stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiatoalla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto colmento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Eraproprio stato uno spettacolo di addio quello che la suaValsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro veneratovecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore de'suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto,

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Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giar-diniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fian-co al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano infe-riore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ellaera contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoisguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lonta-ne e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo unmomento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le erichebianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyèresblanches portano fortuna», diss'egli. Vedendo che Luisa,distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra dellebegonie. «Vecchio strobus», diss'egli parlando forte perfarsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchiostrobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardi-no privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il brac-cio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspet-tando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la si-gnora muovere verso il signore seduto, affrettare il pas-so, precipitarsi con un grido sopra di lui.

Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Pieroera stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiatoalla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto colmento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Eraproprio stato uno spettacolo di addio quello che la suaValsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro veneratovecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore de'suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto,

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sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superio-re, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. Itamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di unmondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spun-tava un germe vitale preparato alle future battagliedell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quellionde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedettoall'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto pretedell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le santeparole a un più degno.

FINE

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sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superio-re, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. Itamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di unmondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spun-tava un germe vitale preparato alle future battagliedell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quellionde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedettoall'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto pretedell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le santeparole a un più degno.

FINE

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Page 504: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

GLOSSARIO

AABERRAZIONE: errore.ABIATICO: voce dialettale lombarda per indicare il

nipote, figliuolo di un figlio o di una figlia.ACCOZZAGLIA: riunione disordinata di cose o di

persone.ADUNCO (naso): torto in punta.AGAVI: piante a grosse foglie lunghe, carnose, con i

margini spinosi e con fibre tessili.ALCOVA: camera da letto.ALLOCCO: gufo selvatico.ALTERA: orgogliosa, dignitosa.AMPOLLOSO: pomposo, declamatorio.ANACREONTICA: breve componimento poetico, leg-

gero, inneggiante all'amore, al vino, alla letizia.ANDITO: ingresso.ANSIONE triduo: rosolio forte preparato con anici: tri-

duo per indicare una notevole dose.ANTIFONE: rimproveri.

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GLOSSARIO

AABERRAZIONE: errore.ABIATICO: voce dialettale lombarda per indicare il

nipote, figliuolo di un figlio o di una figlia.ACCOZZAGLIA: riunione disordinata di cose o di

persone.ADUNCO (naso): torto in punta.AGAVI: piante a grosse foglie lunghe, carnose, con i

margini spinosi e con fibre tessili.ALCOVA: camera da letto.ALLOCCO: gufo selvatico.ALTERA: orgogliosa, dignitosa.AMPOLLOSO: pomposo, declamatorio.ANACREONTICA: breve componimento poetico, leg-

gero, inneggiante all'amore, al vino, alla letizia.ANDITO: ingresso.ANSIONE triduo: rosolio forte preparato con anici: tri-

duo per indicare una notevole dose.ANTIFONE: rimproveri.

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ARCANA: misteriosa, segreta.ASCETA: si dice di chi vive una vita sobria e pura.ASCETICO: contemplativo.AUSTERA: severa.AUTOCRATA: sovrano assoluto: uomo prepotente,

despota.AVITA: ereditaria, degli avi.

BBALOSS: voce dialettale lombarda per "birbante",

"furfante".BAGATTO: carta del gioco dei tarocchi (giuoco di car-

te).BATH: carta pregiata da lettera.BATTAGLIO (di campana): lungo e grosso ferro so-

speso dentro la campana e che battendo in essa la fasuonare.

BARABBA: prepotente, ozioso.BARGNIF: voce dialettale lombarda per "diavolo".BEGLI UOMINI: pianticella da giardino che produce

fiori rossi, violetti e bianchi.BISCROME: note musicali.BREVA: voce dialettale lombarda che indica il vento

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ARCANA: misteriosa, segreta.ASCETA: si dice di chi vive una vita sobria e pura.ASCETICO: contemplativo.AUSTERA: severa.AUTOCRATA: sovrano assoluto: uomo prepotente,

despota.AVITA: ereditaria, degli avi.

BBALOSS: voce dialettale lombarda per "birbante",

"furfante".BAGATTO: carta del gioco dei tarocchi (giuoco di car-

te).BATH: carta pregiata da lettera.BATTAGLIO (di campana): lungo e grosso ferro so-

speso dentro la campana e che battendo in essa la fasuonare.

BARABBA: prepotente, ozioso.BARGNIF: voce dialettale lombarda per "diavolo".BEGLI UOMINI: pianticella da giardino che produce

fiori rossi, violetti e bianchi.BISCROME: note musicali.BREVA: voce dialettale lombarda che indica il vento

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periodico che domina il Lago di Como.«BRÜT MOSTER»: brutto mostro! in dialetto lombar-

do.

CCALMUCCA: di razza mongolica, asiatica.CANAPÈ: divano, sofà.CANFORA: sostanza bianca, di odore acuto, prodotta

da un albero diffuso nel continente asiatico e special-mente in Giappone. Usata anche come medicinale.

CARONA (i monti di): monti della provincia di Como,visibili dal Lago di Como.

CAPPELLO A STAIO: cappello maschile duro, di for-ma alta a cilindro.

CARRUBO: albero che nasce nei paesi caldi ed il cuifrutto si dà ai cavalli.

CASARICO: piccola borgata sulle rive del Lago diComo.

CAVEDINI: pesci d'acqua dolce.CENSUARIA: patrimoniale.CERULEO: di colore azzurro pallido.«CHARITAS INCIPIT AB EGO»: la carità, la pietà

comincia da me.

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periodico che domina il Lago di Como.«BRÜT MOSTER»: brutto mostro! in dialetto lombar-

do.

CCALMUCCA: di razza mongolica, asiatica.CANAPÈ: divano, sofà.CANFORA: sostanza bianca, di odore acuto, prodotta

da un albero diffuso nel continente asiatico e special-mente in Giappone. Usata anche come medicinale.

CARONA (i monti di): monti della provincia di Como,visibili dal Lago di Como.

CAPPELLO A STAIO: cappello maschile duro, di for-ma alta a cilindro.

CARRUBO: albero che nasce nei paesi caldi ed il cuifrutto si dà ai cavalli.

CASARICO: piccola borgata sulle rive del Lago diComo.

CAVEDINI: pesci d'acqua dolce.CENSUARIA: patrimoniale.CERULEO: di colore azzurro pallido.«CHARITAS INCIPIT AB EGO»: la carità, la pietà

comincia da me.

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Page 507: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

CHIGLIA: la parte di sotto di una imbarcazione.CHIMERE: illusioni, fantasticherie, castelli in aria.CLOROTICA: anemica, afflitta da clorosi; malattia ca-

ratterizzata dalla scarsità dei globuli rossi del sangue.«CORPO DI SBRIO BACO!»: esclamazione in dialet-

to veneto per "corpo di Bacco!".CORRUCCIO: sdegno, dispetto, fastidio, stizza.CRIMEA: penisola che si protende nel Mar Nero; ap-

partenente alla Russia.CRESSOGNO: piccola borgata nelle vicinanze del

Lago di Como.CROME: note musicali.«CUM QUIBUS»: per indicare denaro.CUPIDITÀ: avidità, desiderio smodato.CURIALESCO: che si riferisce alla legge, alla profes-

sione dell'avvocato.CZAR: o meglio Zar, nome dell'ex imperatore della

Russia.

DDÀRSENA: parte più interna di un porto dove si cu-

stodiscono le imbarcazioni da riparare.DASIO: borgata sulle rive del Lago di Como.

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CHIGLIA: la parte di sotto di una imbarcazione.CHIMERE: illusioni, fantasticherie, castelli in aria.CLOROTICA: anemica, afflitta da clorosi; malattia ca-

ratterizzata dalla scarsità dei globuli rossi del sangue.«CORPO DI SBRIO BACO!»: esclamazione in dialet-

to veneto per "corpo di Bacco!".CORRUCCIO: sdegno, dispetto, fastidio, stizza.CRIMEA: penisola che si protende nel Mar Nero; ap-

partenente alla Russia.CRESSOGNO: piccola borgata nelle vicinanze del

Lago di Como.CROME: note musicali.«CUM QUIBUS»: per indicare denaro.CUPIDITÀ: avidità, desiderio smodato.CURIALESCO: che si riferisce alla legge, alla profes-

sione dell'avvocato.CZAR: o meglio Zar, nome dell'ex imperatore della

Russia.

DDÀRSENA: parte più interna di un porto dove si cu-

stodiscono le imbarcazioni da riparare.DASIO: borgata sulle rive del Lago di Como.

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Page 508: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

DISPOTICO: tirannico, violento.DISQUISIZIONI: esposizioni particolareggiate di un

argomento.

EEPITETO: nome o aggettivo che si aggiunge ad un so-

stantivo per meglio qualificarlo.ERARD (un): pianoforte di marca tedesca assai famo-

sa.ESECRAZIONE: maledizione.ET PROPTER NIMIUM EST DOMINUS MEUS

MORTUUS EST: frase latina: "e per avere esagerato (ri-ferito al bere) il mio padrone è morto".

EX ABRUPTO: in latino, d'improvviso.

FFAGOTTO: strumento musicale.FANTESCA: domestica.FELZE: specie di copertura forte e rigida che adorna le

gondoleFERULA: bacchetta, sferza che usavano i pedanti.FIAT: voce verbale latina che vale "sia fatto".FICUS REPENS: nome latino di una pianta da giardi-

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DISPOTICO: tirannico, violento.DISQUISIZIONI: esposizioni particolareggiate di un

argomento.

EEPITETO: nome o aggettivo che si aggiunge ad un so-

stantivo per meglio qualificarlo.ERARD (un): pianoforte di marca tedesca assai famo-

sa.ESECRAZIONE: maledizione.ET PROPTER NIMIUM EST DOMINUS MEUS

MORTUUS EST: frase latina: "e per avere esagerato (ri-ferito al bere) il mio padrone è morto".

EX ABRUPTO: in latino, d'improvviso.

FFAGOTTO: strumento musicale.FANTESCA: domestica.FELZE: specie di copertura forte e rigida che adorna le

gondoleFERULA: bacchetta, sferza che usavano i pedanti.FIAT: voce verbale latina che vale "sia fatto".FICUS REPENS: nome latino di una pianta da giardi-

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Page 509: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

no.FISIMA: capriccio, idea senza fondamento.FRANCOLINI: uccelli simili alla starna, di carne assai

pregiata.

GGARDENIA: fiore assai delicato e di profumo soave.GERLA: canestro, cesta.GHEMME (vin di): vino da pasto rosso del Piemonte

(Novara).GIACULATORIE: brevi preghiere.GRIFAGNA: minacciosa.

IINDOCILE LOMBARDO-VENETO: per indicare i

fermenti di ribellione che in quel tempo si verificavanonella Lombardia e nel Veneto che erano sotto la domina-zione austriaca.

INFERRAIUOLATO: intabarrato, avvolto nel ferraiuo-lo, mantello ampio e corto.

ININTELLIGIBILE: incomprensibile.I. R. GAZZETTA DI MILANO: Imperiale regia Gaz-

zetta di Milano, giornale che si pubblicò a Milano sotto

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no.FISIMA: capriccio, idea senza fondamento.FRANCOLINI: uccelli simili alla starna, di carne assai

pregiata.

GGARDENIA: fiore assai delicato e di profumo soave.GERLA: canestro, cesta.GHEMME (vin di): vino da pasto rosso del Piemonte

(Novara).GIACULATORIE: brevi preghiere.GRIFAGNA: minacciosa.

IINDOCILE LOMBARDO-VENETO: per indicare i

fermenti di ribellione che in quel tempo si verificavanonella Lombardia e nel Veneto che erano sotto la domina-zione austriaca.

INFERRAIUOLATO: intabarrato, avvolto nel ferraiuo-lo, mantello ampio e corto.

ININTELLIGIBILE: incomprensibile.I. R. GAZZETTA DI MILANO: Imperiale regia Gaz-

zetta di Milano, giornale che si pubblicò a Milano sotto

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Page 510: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

la dominazione austriaca.IREOS: giaggiolo, fiore delicato da cui si ricava una

polvere assai profumata.

LLUGANO: importante città della Svizzera, prossima al

confine italiano (Lombardia).

MMANSUETUDINE: disposizione dell'animo contro

l'ira.MARCHE!: avanti! in francese.MARSINON: abito a coda (in dialetto lombardo).MELOMANIA: eccessivo amore per la musica.«MI CAPISSI NAGOTT» "io non ci capisco nulla" in

dialetto lombardo.MISTICO: contemplativo.

NNATTA: tremore fibroso che nasce sul viso o sul capo.NEGROMANZIA: magia, pretesa arte di evocare i

morti per consultarli intorno all'avvenire

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la dominazione austriaca.IREOS: giaggiolo, fiore delicato da cui si ricava una

polvere assai profumata.

LLUGANO: importante città della Svizzera, prossima al

confine italiano (Lombardia).

MMANSUETUDINE: disposizione dell'animo contro

l'ira.MARCHE!: avanti! in francese.MARSINON: abito a coda (in dialetto lombardo).MELOMANIA: eccessivo amore per la musica.«MI CAPISSI NAGOTT» "io non ci capisco nulla" in

dialetto lombardo.MISTICO: contemplativo.

NNATTA: tremore fibroso che nasce sul viso o sul capo.NEGROMANZIA: magia, pretesa arte di evocare i

morti per consultarli intorno all'avvenire

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Page 511: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

NUME TUTELARE: santo protettore.

OOÏDIUM: parassita che si manifesta in forma di bolla

sui grappoli d'uva e ne dissecca i chicchi.OLEA FRAGRANS: nome latino di pianta da giardi-

no, assai profumata.«ONA BELLA TENCA»: "una bella tinca" riferito a

persona in senso spregiativo. La tinca è pesce d'acquadolce.

ORACOLO: predizione, pronostico.

PPANTEISTA: filosofo seguace della dottrina secondo

la quale Dio non è fuori del mondo, ma è il mondo stes-so.

PARCAMENTE: in modo sobrio, modesto.PARCE MIHI, DOMINE, QUIA BRIXIENSIS SUM:

perdonami, o Signore, perché sono bresciano. In latino.PASSIFLORE: piante rampicanti.PATAVINITÀ: abitudini padovane.PEDINE: donne di modeste condizioni.PICCATO: seccato.

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NUME TUTELARE: santo protettore.

OOÏDIUM: parassita che si manifesta in forma di bolla

sui grappoli d'uva e ne dissecca i chicchi.OLEA FRAGRANS: nome latino di pianta da giardi-

no, assai profumata.«ONA BELLA TENCA»: "una bella tinca" riferito a

persona in senso spregiativo. La tinca è pesce d'acquadolce.

ORACOLO: predizione, pronostico.

PPANTEISTA: filosofo seguace della dottrina secondo

la quale Dio non è fuori del mondo, ma è il mondo stes-so.

PARCAMENTE: in modo sobrio, modesto.PARCE MIHI, DOMINE, QUIA BRIXIENSIS SUM:

perdonami, o Signore, perché sono bresciano. In latino.PASSIFLORE: piante rampicanti.PATAVINITÀ: abitudini padovane.PEDINE: donne di modeste condizioni.PICCATO: seccato.

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Page 512: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

POSTICCIO: finto.

QQUATTORDICI DI COPPE (fa il): di persona che fin-

ge di non capire.

RRABBUFFO: rimprovero.RENITENZE: resistenze, ritrosie, ripugnanze.RESÈDA: pianta erbacea di colore giallo-verde e di

profumo delicatissimo.RETICENZA: tacere lasciando intendere che si avreb-

bero altre cose da dire.

SSAN MAMETTE: piccola borgata sulle rive del Lago

di Lugano.S.A.R.: Sua Altezza Reale.SATRAPO: uomo potente e ricco.S.M.I.R.A.: per indicare l'imperatore d'Austria.SOLUS CUM SOLO: da solo a solo, in latino.SPANTA: chiara, aperta.

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POSTICCIO: finto.

QQUATTORDICI DI COPPE (fa il): di persona che fin-

ge di non capire.

RRABBUFFO: rimprovero.RENITENZE: resistenze, ritrosie, ripugnanze.RESÈDA: pianta erbacea di colore giallo-verde e di

profumo delicatissimo.RETICENZA: tacere lasciando intendere che si avreb-

bero altre cose da dire.

SSAN MAMETTE: piccola borgata sulle rive del Lago

di Lugano.S.A.R.: Sua Altezza Reale.SATRAPO: uomo potente e ricco.S.M.I.R.A.: per indicare l'imperatore d'Austria.SOLUS CUM SOLO: da solo a solo, in latino.SPANTA: chiara, aperta.

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Page 513: Massimo Biagetti Marco Totolo (ODT/ePub)...calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella tenera-mente; e si mise a giuocar

SPINETTA: strumento musicale a corda di piccola di-mensione; il nome viene dall'inventore, il venezianoGiovanni Spinetti (sec. XV - XVI).

STOINI: piccoli tappeti da tenersi sotto i piedi e che simettono agli usci delle case.

SVANZICA: moneta austriaca, del valore di circa set-tanta centesimi, in circolazione nella Lombardia e nelVeneto al tempo della dominazione dell'Austria.

TTAROCCHI: giuoco di carte.TAUMATURGO: che fa cose che paiono miracoli.TITILLAMENTI: solleticare lievemente.TOTO CORDE: con tutto il cuore, in latino.

VVALSOLDA: amena valle della Lombardia, dalla qua-

le prende il nome anche un piccolo paese che è sullariva del Lago di Lugano.

VERBENA: pianta perenne che dà fiori dai più svariaticolori.

VESTIBOLO: atrio, ingresso.

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SPINETTA: strumento musicale a corda di piccola di-mensione; il nome viene dall'inventore, il venezianoGiovanni Spinetti (sec. XV - XVI).

STOINI: piccoli tappeti da tenersi sotto i piedi e che simettono agli usci delle case.

SVANZICA: moneta austriaca, del valore di circa set-tanta centesimi, in circolazione nella Lombardia e nelVeneto al tempo della dominazione dell'Austria.

TTAROCCHI: giuoco di carte.TAUMATURGO: che fa cose che paiono miracoli.TITILLAMENTI: solleticare lievemente.TOTO CORDE: con tutto il cuore, in latino.

VVALSOLDA: amena valle della Lombardia, dalla qua-

le prende il nome anche un piccolo paese che è sullariva del Lago di Lugano.

VERBENA: pianta perenne che dà fiori dai più svariaticolori.

VESTIBOLO: atrio, ingresso.

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