Marx_La Sacra Famiglia
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
___________________________________________________________________________
Corso di laurea specialistica in STUDI EUROPEI
Cattedra di FILOSOFIA POLITICA
Prof. Francesco Conigliaro
Marx, Hengels
La Sacra Fam iglia
di Nicola Palilla
A.A.2005/2006
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Breve premessa
L’edizione de La Sacra Famiglia che abbiamo consultato e di cui riportiamo fedeli citazioni,
indicate col rispettivo numero di pagina, è quella degli Editori Riuniti curata nel 1979 da Aldo
Zanardo. Ogni qual volta nel nostro scritto si riporteranno passi dell’opera e se ne
indicheranno le pagine, dunque, ci si riferirà solo a questa edizione. Per scrivere
l’introduzione ed il paragrafo relativo ai giovani hegeliani e all’alienazione, invece, abbiamo
consultato testi di storia della filosofia tra cui Protagonisti e testi della filosofia, volume terzo,
di Nicola Abbagnagno e Giovanni Foriero e il Testo filosofico, volume terzo, di Fabio Ciuffi,
Giorgio Luppi, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette.
Introduzione
La Sacra Famiglia fu la prima opera scritta a quattro mani da Marx e Engels: edita solo nel
febbraio del 1845 e innestata in una polemica filosofica ormai esaurita e priva di ogni
ulteriore interesse, essa non trova la fortuna che, forse, i suoi autori speravano incontrasse. La
Sacra Famiglia di cui al titolo non è la celeberrima triade Gesù, Giuseppe, Maria della
tradizione religiosa cristiana, bensì è il nomignolo affibbiato da Marx e Engels al circolo dei
giovani hegeliani riuniti attorno a Bruno Bauer, a suo fratello Edgar e ad altri filosofi minori.
Appare subito chiaro, quindi, che l’opera è un’aspra polemica contro Bruno Bauer e i suoi
“soci”. Il motivo per cui La Sacra Famiglia non ebbe quel riscontro editoriale che i suoi
autori speravano avesse è presto spiegato. Innanzi tutto l’opera è arrivata troppo tardi,
decisamente in ritardo rispetto ad un dibattito teorico ormai scaduto di interesse perché
abilmente demolito da Feuerbach; in secondo luogo è scarsamente originale a causa delle
argomentazioni chiaramente feuerbachiane utilizzate dai suoi autori e tali da non aggiungere
alcunché di nuovo ad un dibattito, lo ripetiamo, comunque diggià superato. Nonostante i suoi
limiti oggettivi La Sacra Famiglia è uno scritto che è valso la pena riscoprire, perché contiene
i semi da cui scaturirà in seguito il marxismo maturo: non bisogna dimenticare, infatti, che La
Sacra Famiglia è uno scritto giovanile composto, tra l’altro, in un’epoca di forti difficoltà
economiche e di compatibilità con il potere dei suoi autori (Marx è in esilio in Francia). In tal
senso, cioè se vogliamo considerare La Sacra Famiglia come il luogo in cui trovare la genesidel poderoso pensiero materialista e comunista marxiano, possiamo affermare che i capitoli
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più interessanti ed originali sono il quarto – «La critica critica» come la quiete del conoscere
ovvero la «critica critica» come signor Edgar – ed il sesto – «La critica assoluta» ovvero la
«critica critica» come signor Bruno – in cui, rispettivamente, Marx: 1) contesta con ironia la
“libera traduzione critica” di Qu’est-ce que la propriété di Proudhon operata da Edgar Bauer e
in cui semina le tracce del materialismo storico-dialettico; 2) respinge in toto la visione della
questione ebraica di Bruno Bauer, fondata sullo scambio equivoco tra emancipazione
religiosa ed emancipazione politica, e mette in evidenza la sterilità della strategia politica dei
giovani hegeliani incentrata sulla netta separazione tra ‘spirito’ e ‘massa’. La Sacra Famiglia
è a tratti uno scritto noioso e reso pesante da una polemica letteraria, condotta con spirito
d’ironia dissacrante; sembra un “regolamento di conti”, un atto liberatorio con cui Marx s’è
scrollato di dosso la sua precedente simpatia per la sinistra hegeliana; un’opera che era
necessario fare. Per quanto attiene al tema dell’alienazione possiamo dire che esso è trattato e
come polemica contro un sistema filosofico di per sé stesso alienante – l’hegelismo – e come
problema sociale prodotto dalla civiltà borghese: mentre la prima trattazione è quella poco
originale e legata indissolubilmente alle conclusioni dell’amico Feuerbach, è la seconda a
godere di una certa originalità e che lascia intravedere i futuri sviluppi della riflessione di Karl
Marx. Ritengo sia su questo tema, dunque, che dobbiamo porre la nostra attenzione. Ritengo
altresì che non sia possibile trattare de La Sacra Famiglia senza aver scritto qualcosa circa la
sinistra hegeliana e sul concetto di alienazione, che a partire dagli anni ’40 del XIX° secolo
iniziò ad uscire dagli ambienti esclusivamente filosofici per raggiungere quelli politici.
La sinistra hegeliana e l’alienazione
1.
Trovatasi orfana del proprio maestro nel 1831, la scuola filosofica di Georg Wilhem Friedrich
Hegel – che agli amici è noto solo come Hegel! (vogliate perdonarmi!!) – smarrisce la sua
unità di fronte alla questione della compatibilità tra filosofia e religione. A proposito di tale
questione Friedrich 3trass fu il primo a definire i vari orientamenti maturati all’interno
dell’hegelismo senza Hegel con i nomi di destra, centro e sinistra, assumendo tale
terminologia dalla recente consuetudine parlamentare francese (siamo nella Francia della
costituzione octroyée del 1815), la quale disponeva che i deputati prendessero posto nella salaad emiciclo in un determinato modo a secondo che fossero conservatori o progressisti.
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Esattamente come avveniva in quel parlamento, infatti, dove la conservazione si collocò alla
destra di chi presiedeva l’aula e il progressismo, all’opposto, alla sinistra dello stesso, tra i
filosofi hegeliani 4trass indicò come appartenenti alla destra i “giustificazionisti” della storia,
i sostenitori della pari dignità e razionalità di filosofia e religione, i politicamente
conservatori; indicò, invece, come membri della sinistra i critici della realtà, tutti quei filosofi,
cioè, che negavano la piena razionalità della realtà, la congruenza tra dover essere ed essere,
la superiorità della filosofia e che in base a queste convinzioni pensavano che la filosofia
servisse a modificare l’irrazionalità delle attuali istituzioni sociali e politiche. Possiamo,
dunque, affermare che i “giovani hegeliani”, altra denominazione della sinistra hegeliana, si
siano visti come continuatori degli illuministi; poterono solo aspirare ad essere tali, però,
perché furono estranei al necessario contesto geografico e storico. Geografico, perché mentre
i philosophes furono gli eredi di una tradizione culturale nazionale razionalista discendente da
Cartesio, i giovani hegeliani sono i continuatori di un sistema filosofico che Feuerbach, non
completamente a torto, definisce una “teologia mascherata”; storico, perché la realtà in cui i
philosophes del XVIII° secolo vissero fu un’epoca con problemi assai differenti da quelli che
una società industriale, come quella tedesca del XIX° secolo, si trova ad affrontare e tra i
quali figura anzi tutto un conflitto sociale assolutamente ignoto ai francesi del secolo dei lumi:
quello tra capitalisti e proletari. Se oggi ci può apparire ovvio che le soluzioni dei problemi
generati da quel conflitto non potessero coincidere con quelle che avevano predisposto gli
animi della Francia alla Rivoluzione del 1789, allora ai giovani hegeliani tale ovvietà non si
fece così palese. Andiamo per ordine. Il contesto storico in cui il dibattito interno
all’hegelismo si consuma è quello della Restaurazione, processo che pone la questione di
come poter “pensare la rivoluzione” dopo il fallimento degli eventi del ’89 e
dell’espansionismo liberatorio napoleonico, ai primi immediatamente successivi, che non
pochi avevano salutato con favore in quanto mezzi per l’emancipazione civile e politica dei
popoli d’Europa. Il passo indietro fatto nel campo delle libertà individuali, dell’uguaglianza,
della fratellanza, dei diritti dell’uomo faceva, infatti, sorgere il dubbio circa la razionalità
della Rivoluzione, circa, cioè, il fatto che essa fosse in senso dialettico necessaria alla causa
della libertà, dubbio al quale si univano i problemi scaturiti dalla rivoluzione industriale,
portatrice del conflitto tra borghesi e aristocratici, da un lato, tra borghesi e operai, dall’altro:
il problema di ripensare l’organizzazione economica e sociale delle comunità umane, per
rispondere efficacemente all’aumento della produzione e all’insediamento di nuove e
numerose fabbriche; il problema dell’urbanizzazione, delle macchine, del proletariato e dellesue drammatiche condizioni di vita e di lavoro. Ponendo l’accento sulla seconda parte del
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celebre aforisma hegeliano: «Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale», i
giovani hegeliani alludono al fatto che la realtà, non essendo ancora in grado di materializzare
la razionalità nella storia, perché solo ciò che è razionale è realtà, la quale – come si è detto –
non è affatto razionale, è riformabile e riformabile da chi sa avvertire lo scarto fra i due
termini dell’aforisma. Questo “chi” non può che indicare i filosofi “critici”: la sinistra
hegeliana, appunto. Ammettere, invero, che la realtà non sia compiutamente razionale
significa rompere con il giustificazionismo storico di Hegel e con la similitudine dello stesso
secondo cui la filosofia non deve essere altro che la “nottola di Minerva”, vale a dire una mera
dimostrazione del divenire dialettico e descrizione dell’Assoluto in fieri e giammai una critica
di ciò che si sta, secondo un piano di sviluppo razionale, compiendo nella storia. Ora, se la
filosofia è pura descrizione e pura giustificazione di ciò che esiste, chi ritiene necessario
trasformare la realtà dovrà per forza attaccare la stessa filosofia, intesa come sistema
hegeliano, per farla “critica” e “canto del gallo”, ossia voce che anticipa i tempi di produzione
del dover essere e che prepara il terreno dell’imminente rivoluzione:
« La filosofia, continuano a ripetere i critici, non deve dare, deve distruggere. Deve
risolversi in critica » [pag.XLVII].
Da principio il dibattito interno all’hegelismo è tutto concentrato sulla compatibilità della
filosofia con la religione storica. Secondo la destra, poiché Hegel aveva insegnato che
filosofia e religione sono solo due “contenitori” differenti per lo stesso “contenuto”, tale
compatibilità non era da mettere in discussione. Filosofia e religione, infatti, hanno entrambe
per oggetto il Sapere Assoluto e differiscono solo per la forma in cui tale sapere si estrinseca:
mentre la seconda manifesta il Sapere sotto forma di rappresentazione, di immagini, simboli,
ritualità ed è, per questo motivo, appannaggio anche dei ceti popolari – la religione sarebbe,
quindi, la forma con cui il Sapere Assoluto raggiunge praticamente tutti gli uomini, che la
colgono in termini intuitivi – la prima si esprime per concetti e, poiché si muove nell’astratto,
è dominio solo dei filosofi e si rivolge solo in potenza a tutti gli uomini. Non c’è, comunque,
un rapporto gerarchico tra le due forme: esse sono dunque compatibili. Secondo la sinistra,
invece, le cose non stanno affatto in tal modo, giacché la filosofia deve essere senz’altro
superiore alla religione: questa è solo una rozza e popolare forma di sapere, un sapere, tra
l’altro, pervertito dagli intenti secolari della Chiesa di esercitare potere sulle masse e
conservare così l’esistente nel modo in cui è. Avendo come sua attribuzione l’Assoluto, ilSapere non può che essere astratto, quindi, conoscibile solo per concetti e mai per
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rappresentazioni: torna un po’ alla memoria il mito platonico della biga alata. Storicamente,
inoltre, la Chiesa è sempre stata per la conservazione e ancora durante la prima metà
dell’Ottocento si oppone a qualunque forma di emancipazione umana: alleata dello Stato,
tanto da configurare quest’ultimo come cristiano, essa va considerata come un fattore di
irrazionalità e, dunque, eliminata. Secondo la sinistra, la filosofia non è solamente superiore
alla religione, è incompatibile con essa: poiché la destra continua ad identificare la filosofia
con la realtà, la filosofia che veramente incarna lo spirito del tempo deve essere
necessariamente critica, negare l’esistenza oggi per poterne avere una compiutamente
razionale domani. Come gli illuministi, i giovani hegeliani pensano di poter compiere la loro
rivoluzione – la rivoluzione nazionale tedesca – attraverso la forza della persuasione delle loro
idee e si dispongono a svolgere un ruolo di suggeritori, sostenitori e controllori del potere
politico attraverso la riedizione di forme di dispotismo illuminato. In Germania detto
dispotismo non può che realizzarsi in Prussia. Originariamente questa prospettiva sembrò
possibile poiché l’ultimo secolo aveva mostrato all’Europa intera il grado di “illuminazione” a
cui lo stato militare di Prussia era saputa pervenire. In questa fase, fiduciosi della volontà del
re di procedere, seppur tiepidamente, contro la Restaurazione nel nome di una via germanica,
e non francese, all’emancipazione umana, i giovani hegeliani esprimono posizioni politiche di
liberalismo moderato e spingono affinché lo Stato prussiano si eriga a muraglia contro il
ritorno della monarchia feudale-cristiana. Il tema politico fondamentale dei giovani hegeliani
è, frattanto, affrancare lo Stato dalle gerarchie ecclesiastiche. È solo quando, in seguito
all’avvento di Federico Guglielmo IV sul trono di Prussia, vengono esclusi dalle università e
dalla vita culturale del regno che i giovani hegeliani si spostano su posizioni decisamente
radicali-democratiche: l’ateismo propugnato in occasione del dibattito sul rapporto tra
filosofia e religione comincia a spostarsi decisamente nel campo della politica e finisce per
chiedere la dissoluzione dello Stato religioso e la fondazione dello Stato ateo o quanto meno
aconfessionale:
«Ora, in ogni modo, nel 1841-43, Bauer dà a i suoi schemi in genere contenuti
democratici. Le alienazioni su cui insiste sono la religione cristiana e lo Stato che
privilegia una religione o una Chiesa. Meno determinatamente definiti, appunto per
il prevalente interesse critico, sono i contenuti dell’emancipazione: democrazia,
sovranità popolare, Stato razionale o libero, libertà universale»
[ pag.XLVIII]
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Dopo il fallimento della via squisitamente speculativa e liberale della “critica” alla
rivoluzione tedesca, anche quella radicale si dimostra impraticabile a causa della totale
assenza di legami fra la “critica” stessa e la massa, essendosi l’opera di propaganda e di
diffusione dei “lumi” limitata solo agli ambienti filosofici e letterari: nel periodo di maggior
difficoltà, anzi, Bauer sviluppa un atteggiamento intellettuale che divide severamente lo
“spirito” dalla “massa” e che origina, secondo la definizione di Abbagnano, una sorta di
“aristocraticismo idealistico”.
«Il giovane hegelismo non si trova solo a constatare di nuovo che lo Stato prussiano
non ha niente da spartire con la causa del progresso. Si trova a constatare il fatto
nuovo che le proprie speranza nella diffusione dei lumi erano illusorie. La critica si
è rivelata incapace di creare un consenso popolare intorno alle prospettive
dell’emancipazione»[pag.XLIX].
Ci voleva un Karl Marx per mostrare il malinteso concetto racchiuso dalla parola
“emancipazione” nel senso dei giovani hegeliani: emancipazione non può voler dire solo
libertà d’espressione e d’insegnamento, libertà di religione e libertà dello Stato dalla Chiesa,
deve significare liberazione dall’oppressione reale.
2.
Sul concetto di alienazione e sulla necessità di superarla si fonda, direttamente o
indirettamente, tutta la produzione letteraria di Karl Marx. Ne La Sacra Famiglia questo
concetto e questa necessità sono trattati ancora debolmente poiché, come abbiamo già avuto
modo di scrivere, l’opera in questione non esprime il pensiero del Marx maturo che ha
studiato e commentato gli economisti francesi e inglesi; tuttavia lo “spirito” marxiano è già
tutto presente. La centralità del tema dell’alienazione nella riflessione di Marx può far pensare
che esso sia stato partorito da lui medesimo: è proprio così? Con La Sacra Famiglia è
possibile individuare la preoccupazione e l’interesse dei suoi autori per l’alienazione reale,
cioè per il disagio avvertito dall’uomo che è divenuto lo strumento della ricchezza altrui. Il
merito di Marx è, dunque, quello di aver insistito sull’aspetto esterno, non di coscienza, del
fenomeno e di aver fatto segnare in tal modo un grande passo in avanti alla filosofia, quella
non critica. In questo risiede il tratto originale de La Sacra Famiglia. Secondo la filosofia
hegeliana, l’alienazione è un momento necessario del divenire dialettico, il momento nelquale lo Spirito si materializza nella storia passando dall’astrattezza alla concretezza,
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dall’Infinito al Finito, prima di essere in sé e per sé, dunque, completo. L’alienazione è la
negazione dell’Idea, ma non è un momento in sé negativo quanto una fase dello sviluppo della
realtà. L’alienazione assume un significato negativo solo a partire da Feuerbach, il quale,
dopo aver ricollocato nel giusto ordine soggetto e predicato, arriva a dichiarare “alienazione”
il processo tutto interno all’uomo con cui egli ha creato dio. Invertire soggetto e predicato ha
voluto dire per Feuerbach ricollocare l’essere al centro dell’universo in luogo del pensiero.
Secondo Feuerbach, allora, è stato l’uomo a creare dio, e non viceversa, attraverso la
proiezione verso l’esterno della propria essenza o delle proprie speranza. Questo processo ha
alienato l’uomo da sé stesso perché, così facendo, egli ha allontanato da sé qualcosa che
possedeva e lo ha obbligato a ricercare fuori di sé quello che avrebbe dovuto trovare, invece,
dentro di sé. Con Marx “alienazione” sarà sinonimo di “smarrimento”: smarrimento da parte
dell’uomo del proprio oggetto – che gli diventa ostile – smarrimento della propria essenza,
smarrimento di fronte alla propria attività, smarrimento di fronte ai propri simili. Questa idea
innovativa di alienazione sarà quella su cui Marx costruirà la sua condanna della società
borghese, un’idea che, pur non essendo in modo accademico definita ne La Sacra Famiglia, è
comunque possibile ammirare nella fase iniziale di quella maturazione mentale che porterà
Marx ad approdare sui lidi noti a tutti. Nell’introduzione abbiamo già spiegato che La Sacra
Famiglia è stata composta con l’intento meramente filosofico di polemizzare di Marx contro
Bruno Bauer e i suoi “amici”: essa è fondamentalmente un’opera contro l’alienazione intesa
in questo come modo alienante di filosofare. I capitoli che riguardano questa polemica, in
realtà, sono un ironico spulciare tra le fasi degli scritti critici che a lungo andare diventa
pedante e quasi fastidioso: per questa ragione lo stesso Engels li ha successivamente giudicati
non indispensabili all’opera. Il tema dell’alienazione reale si evince soprattutto dai capitoli
indicati nell’introduzione: nel nostro breve scritto faremo riferimento a questi.
Intermezzo n°1
« “Per produrre tutto si deve avere una coscienza più forte di quella di un
lavoratore; l’affermazione sarebbe vera solo se rovesciata: il lavoratore non fa
niente, perciò non ha niente; ma egli non fa niente perché il suo lavoro rimane
sempre un lavoro singolo, un lavoro commisurato al suo bisogno più particolare, unlavoro giornaliero” La critica arriva qui a quell’alto grado di astrazione per il
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quale considera solo le sue proprie creazioni ideali e le sue generalità,
contraddicenti ogni realtà, come ‘qualcosa’ o meglio come ‘tutto’ (…) è la critica
critica a non produrre niente, il lavoratore produce tutto, e produce a tal punto tutto
che anche nelle sue creazioni spirituali, umilia tutta quanta la critica; cosa di cui i
lavoratori inglesi e francesi possono dare testimonianza. Il lavoratore produce
perfino l’uomo: il critico rimarrà sempre un non-uomo, anche se ha la soddisfazione
di essere un critico critico» [pagg.22-23]
La sacra famiglia
1.
Fin dal suo giovanile esilio in Francia, Marx ha sposato posizioni politiche comuniste e legato
con gruppi organizzati, filosofi e intellettuali comunisti; ha intrapreso la lettura dei classici
dell’economia politica ed il loro meticoloso studio. Tra le sue letture figura anche Qu’est-ce
que la propriété di Proudhon :
<<Tutti gli sviluppi dell’economia politica hanno come presupposto la proprietà
privata. Questo presupposto fondamentale ha per l’economia politica il valore di
fatto incontrovertibile che essa non sottopone ad alcune verifica ulteriore e del quale
anzi, Say confessa candidamente, ad essa capita di parlare solo “accidentellement”.
Ora, Proudhon sottopone la base dell’economia politica, la proprietà privata, ad un
esame critico e precisamente al primo esame decisivo, privo di riguardi e nello
stesso tempo scientifico>> [pag.38].
La critica che Marx muove all’economia politica ha inizio con un colpo che è già di per sé
stesso mortale: quello contro la proprietà privata. Marx coglie nello scritto di Proudhon una
denuncia molto importante, il fatto, cioè, che per gli economisti la proprietà privata è sempre
stata considerata come un dato di fatto, quasi un elemento della natura: tacendo sull’originedella proprietà, quindi, gli economisti hanno taciuto sulla contraddizione interna al
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capitalismo, quella contraddizione che rende conflittuali i rapporti tra salari e profitti. Marx,
commentando Proudhon, scrive che gli economisti esordiscono sempre affermando che salari
e profitti sono in rapporti assolutamente amichevoli e, quindi, umani; il valore di un prodotto,
affermano, è la perfetta somma di tutti i costi di produzione e dipende anche dall’utilità
sociale del prodotto finito; tuttavia, il mercato, vale a dire i meccanismi legati alla mano
invisibile, produce successivamente una variazione del prezzo del tutto casuale che infine
rende il prezzo del prodotto non più corrispondente ai suoi costi di produzione. Che fine fa
tale variazione: si divide tra salari e profitti? No, di essa si impossessa il capitalista, il quale
non varia il salario dell’operaio.
<< All’inizio, la misura del salario è determinata attraverso l’accordo libero tra
libero lavoratore e il libero capitalista. Poi si dimostra sia che il lavoratore è
costretto a lasciare che esso venga determinato, sia che il capitalista è costretto a
stabilirlo al livello più basso possibile. Al posto della libertà della parte contraente è
subentrata la coazione. La stessa cosa avviene nel commercio ed in tutti gli altri
rapporti economici>> [pag.39].
Marx individua la causa di questo perfido meccanismo, per il quale i rapporti economici
diventano disumani, nella proprietà e non dimentica di osservare che anche Adam Smith,
David lo hanno ammesso e denunciato. Tuttavia, queste denuncie lasciano il tempo che
trovano, sono temporanee ammissioni, eccezionali ammissioni che né smontano la loro (degli
economisti, s’intende) fiducia nel mercato né pone nei loro (sempre degli economisti) pensieri
la possibilità di indagare scientificamente sull’origine della proprietà. Per rimuovere la
contraddizione salari/profitti è, dunque, necessario andare oltre la proprietà:
<< Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano come tali un tutto. Entrambi
sono figure del mondo della proprietà privata. Ciò che conta è la posizione
determinata che entrambi occupano nell’opposizione. Non basta dichiarare che sono
due lati di un tutto>> [pag. 43].
In questo passo scorgiamo i semi del materialismo dialettico marxiano. Marx afferma che
tanto i capitalisti quanto i proletari << presentano la stessa autoalienazione umana>> perché
entrambi vivono sulla propria pelle la scissione indotta dalla civiltà borghese tra citoyen ebourgeois, cioè, tra la dimensione politica collettiva e l’egoista esistenza individuale, con la
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differenza, però, che mentre i primi la sopportano e l’alimentano, poiché l’alienazione è la
base della loro ricchezza, i secondi la soffrono, ne fanno quotidianamente esperienza per via
delle loro miserevoli condizioni di lavoro e vi vedono dentro la causa della loro impotenza e
della loro disumanata esistenza. Ora Marx, dopo aver fatto dei capitalisti e dei proletari i due
elementi di un’opposizione “hegeliana” (“ Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano
come tali un tutto”), vede l’unica via d’uscita per il genere umano dall’alienazione della
civiltà borghese nel superamento di detta opposizione. Contrariamente da Hegel, però, Marx
non pensa che l’opposizione debba risolversi con la sintesi dei due elementi, bensì che si
risolva con la distruzione dell’opposizione stessa ad opera del proletariato:
<< Se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti
esso vince solo togliendo se stesso ed il suo opposto. Allora scompare sia il
proletariato sia l’opposto che lo condiziona, la proprietà privata>> [pag.44].
Perché il compito di rimuovere l’opposizione spetta al proletariato? Perché solo il proletariato
ha l’interesse a farlo, avendo all’interno di quella il ruolo di “partito distruttore”. Secondo
Marx la proprietà privata, a causa della crescita del proletariato e del peggioramento delle sue
condizioni di vita, tende inevitabilmente alla sua dissoluzione e, quindi, non può non essere
che il proletariato esegua la condanna a morte di chi l’opprime:
<< è perché nel proletariato sviluppato è compiuta praticamente l’astrazione da
ogni umanità, perfino della parvenza dell’umanità; è perché nelle condizioni di vita
del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita della società moderna nella
loro asprezza più disumana; è perché nel proletariato l’uomo ha perduto sé stesso,
ma nello stesso tempo non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita,
bensì anche è costretto immediatamente anche nel bisogno non più sopprimibile, non
più eludibile, assolutamente imperativo – della manifestazione pratica della
necessità – alla rivolta contro questa inumanità; ecco perché il proletariato può e
deve necessariamente liberare sé stesso. Ma non può liberare sé stesso senza
togliere le proprie condizioni di vita.>>[pag.44].
Qui, oltre ad evincersi i tratti del materialismo storico, Marx polemizza fortemente con la
“critica”, la quale, considerandosi <<pura>> o <<assoluta>>, pretende di essere l’unicainterprete della realtà e depositaria della verità, l’unica forza in grado di realizzare la
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rivoluzione. Marx deride, in buona sostanza, chiunque voglia colmare il vuoto di razionalità
nella realtà senza calarsi tra i proletari e senza frequentare la “temprante scuola del lavoro”,
chiunque pensa di poter emancipare da una condizione reale di degradazione l’uomo reale –
quello che lavora, che ama, che gioisce, che soffre, che lotta – senza assumere alcuna
iniziativa reale, pratica. Dice Marx che il proletariato ha chiara di fronte a sé la strada che
l’attende e che deve intraprendere :
<<il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro>> [pag.44].
La critica ha solo pensieri, è pura speculazione; gli operai, invece, sanno benissimo di aver
bisogno di praticare l’emancipazione e non di nuovi complicati pensieri: a cosa può servire ai
proletari un gruppo di persone che in luogo di parlare dell’uguaglianza come di una
caratteristica che gli uomini avvertono come elemento della prassi, cioè come comportamento
di un essere umano verso l’altro, parla di “autocoscienza infinita”? Cosa vorrà mai significare
questa espressione? Come può un operaio comprenderne il senso e come potrà egli utilizzarla
per la sua emancipazione? La critica, quindi, oltre ad essere critica è pure criptica, poiché
parlan una lingua incomprensibile alla massa. Eppure la critica pretende di essere pratica:
<< La filosofia è stata iperpratica solo nel senso che essa stava sospesa sopra la
prassi. La critica critica, per la quale l’umanità si riduce ad una massa priva di
spirito, è la testimonianza più vistosa della infinita piccolezza con cui gli uomini
reali appaiono alla speculazione>> [pag.48],
cioè a dire che la critica ha ritenuto che il suo superato programma di “diffusione dei lumi”
attraverso le università e le pubblicazioni fosse sufficiente a creare quel legame, una sorta di
cordone ombelicale, tra sé ed una massa informe e senza guida, la quale, invece, nella realtà
sa bene in quali disumane condizioni vive e quale sia la via d’uscita da tali condizioni. La
critica è stata pratica solo nella sua rappresentazione astratta della realtà e della sua azione. In
altre parole: la critica ha fantasticato un mondo, che non c’è, nel quale la sua impronta
filosofica e storica fosse determinante. Qual è, allora, l’origine della proprietà? Proudhon
ritiene – e Marx sottoscrive – che alla base della proprietà vi sia la prescrizione, cioè, il
diritto, giacché:
<< Se il proprietario è proprietario solo in quanto lavoratore, egli cessa di essere
proprietario non appena cessa di essere lavoratore>> [pag.56].
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Secondo Proudhon la proprietà fu all’origine stabilita per tutelare l’uguaglianza e affinché
ciascuno che lavorasse la terra potesse avere di che cibarsi in base ai bisogni propri e a quelli
familiari in condizioni di parità rispetto agli altri. Dunque, paradossalmente, la proprietà fu sì
fatta per l’uguaglianza, ma, essendo la causa dell’alienazione e delle disumane condizioni di
vita dei lavoratori, ne è successivamente divenuta la negazione. Come dirimere tale
contraddizione? Proudhon ritiene che l’emergenza del paradosso sia la dimostrazione del fatto
che la proprietà non possa nemmeno logicamente esistere a meno di considerarla nella forma
blanda di “possesso uguale”, ossia tale da non danneggiare il godimento degli altri.
Quest’ultimo, però, è un punto tra i più critici dell’argomentazione proudhoniana, un punto,
forse, che segnerà assieme ad altri il definitivo distacco di Marx dal francese – il quale da
parte sua non fu mai comunista. Attraverso Proudhon Marx ha colpito l’economia politica e la
sinistra baueriana: il primo colpo è servito a mostrare da dove sorge l’alienazione; il secondo
– quello che ne La Sacra Famiglia è considerato lo scopo principale dall’autore – ha
evidenziato l’inadeguatezza della filosofia critica e sotto il profilo squisitamente speculativo
e, soprattutto, sotto quello pratico. Ennesima dimostrazione di detta inadeguatezza è l’accusa
che la sinistra rivolge ai lavoratori relativamente alla loro incapacità di associarsi e combattere
insieme:
<<il lavoratore moderno pensa solo a sé, cioè si fa pagare per la sua persona. È lui
stesso che non mette in conto la forza prodigiosa e immensa che sorge dalla sua
cooperazione con altre forze>>. Secondo la critica critica tutto il male sta solo nel
“pensiero” dei lavoratori>> [pag. 63].
In buona sostanza tale passo si inserisce nel discorso della divisione del lavoro, la quale
sarebbe la responsabile dell’impossibilità del lavoratore di riacquistare ciò che ha prodotto a
causa del fatto che il salario remunera solo una parte del prodotto finito, esattamente quella
per la quale è stata necessaria l’opera del lavoratore. Avendo egli realizzato solo una parte di
quel bene, egli non può riacquistarlo tutto. In base alla traduzione critica di Edgar Bauer,
Proudhon affermerebbe che a tale situazione gli operai non sanno porre rimedio a causa del
loro egoismo. Marx accusa la critica di aver volutamente travisato Proudhon, giacché il
francese sa benissimo che i lavoratori inglesi e francesi si stanno organizzando e cooperano
per eliminare la loro alienazione con l’azione pratica e non con il puro pensiero. Piuttosto che
agire, la critica insegna ai lavoratori che:
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<< essi cessano di essere nella realtà lavoratori salariati se superano nel pensiero il
pensiero del lavoro salariato>> [pag.64],
come se davvero bastasse pensare di non essere più salariato per non continuare ad esserlo
nella realtà. Dice Marx:
<< Lo “Spirito” che vede nella realtà solo categorie, riduce naturalmente anche
ogni attività e prassi umana al processo ideale dialettico della critica critica. È
questo che distingue il suo socialismo dal socialismo e dal comunismo di massa> >
[pag.64].
La critica compiace sé stessa e vede nella dialettica il dispiegarsi dello sua splendida
rappresentazione irreale della realtà; il suo socialismo non è che l’ennesima rappresentazione:
la critica, insomma, sbaglia sia nei suoi argomenti che nella sua strategia.
Intermezzo n°2
<< Les grands ne nous paraissent grands
que parce-que nous sommes à ge noux.
Levons nous !
Ma per sollevarsi, non è sufficiente sollevarsi nel pensiero, e lasciar pendere sopra la
propria testa reale, sensibile, il giogo reale, sensibile, che non è possibile eliminare con le
idee>> [pag.105-106]
2.
Il massimo della polemica contro la sinistra hegeliana è raggiunto nel capitolo VI, capitolo in
cui il filosofo di Treviri “smonta” pezzo per pezzo quelle che lui stesso ha ironicamente
battezzato “le tre campagne della critica assoluta”. Le “campagne” a cui Marx si riferisce
sono condotte dalla critica pura, ossia da Bruno Bauer in persona, attraverso una serie di
articoli trattanti l’emancipazione degli ebrei, il rapporto tra “spirito” e “massa” – quasi
mortificando quest’ultima – della Rivoluzione francese e del socialismo. Il tratto comune a
tutte le contro argomentazioni al riguardo espresse da Marx è l’accusa rivolta a Bauer e soci
di vivere e filosofare senza stabilire alcun legame reale con chi soffre l’alienazione reale: per
Marx si tratta di dichiarare pubblicamente e in modo definitivo la fine della filosofia critica,sterile sia filosoficamente che politicamente, e di denunciarne l’inidoneità all’interno di un
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reale processo rivoluzionario. Il maggiore esempio pratico di questa inidoneità rivoluzionaria
è offerto dalla questione ebraica, a proposito della quale, a detta di Marx, la “critica come
signor Bruno” mostra quanto sia lontano il suo orizzonte speculativo dalla realtà e come
miseramente indotta a fallire sia la sua proposta politica quando tenta d’emancipare l’uomo
dalla sua alienazione. Marx contesta chiaramente a Bauer di non aver mai afferrato nemmeno
la sola essenza dell’alienazione e lo rimprovera di chiudersi sempre più nella sua solitaria
intimità speculativa, in un atteggiamento di presuntuosa superiorità e di chiusura rispetto alla
massa, che lo porta inevitabilmente a confondere la sua personale domanda di libertà con
quella dell’intera umanità. Bauer riduce la causa universale della libertà alla sua esclusiva
“buona causa”, alla causa, cioè, della propria libertà intellettuale e la rivoluzione
all’emancipazione non del genere umano, bensì dall’oppressore (lo Stato prussiano) che lo ha
escluso dall’insegnamento. Questi sono i motivi per cui Marx può accusare Bauer di aver
ricondotto l’intera filosofia critica al suo stesso egoismo e di aver così scisso la filosofia, che
molto può fare per l’affrancamento dell’umanità, dagli individui reali. Secondo Marx la
rivoluzione è possibile se i filosofi, che nel processo rivoluzionario avrebbero il ruolo di
“arma spirituale”, accettano il principio per cui è il proletariato – la massa, come esso è
sprezzantemente chiamato dalla critica – a costituirne la “forza materiale” con cui si giungerà
alla disalienazione. Mentre per Bauer tutto è astrazione e pensiero e gli uomini di cui parla
sono mere rappresentazioni mentali astratte, per Marx l’uomo è quello della realtà che non ha
solo idee, ma passioni e sentimenti (come l’amore, quell’amore che la critica ha ridotto a
mero soggetto dell’egoismo altrui:<<Oggetto! Spaventoso! Non c’è niente di più riprovevole,
di più profano, di più massiccio di un oggetto: à bas l’oggetto!>> [pag.25]); è l’uomo egoista
che ha i suoi interessi, i suoi pregi e i suoi difetti, ma è l’uomo che vive nella società; è
l’uomo che con la sua piccola e spicciola vita appare come un punto insignificante di fronte
all’Infinito, ma è l’uomo che scrive la storia, giacché è falso che la storia esiste affinché la
verità assoluta si dispieghi:
<<Come per i vecchi teologi, le piante esistono per essere mangiate dagli animali,
gli animali per essere mangiati dagli uomini, così la storia esiste per servire all’atto
di consumo del mangiare teoretico, cioè a dimostrare. L’uomo esiste perché esiste la
storia; la storia esiste perché esista la dimostrazione della verità. In questa forma
criticamente banalizzata si ripete la sapienza speculativa secondo cui l’uomo esiste,
la storia esiste, perché la verità giunga all’autocoscienza>> [pag.102].
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Mentre per la critica solo pochi uomini sono in grado di penetrare la Ragione – non a caso
solo i filosofi critici – e tutto il resto dell’umanità è “massa”, per Marx è nella massa che si
trova la vera forza rivoluzionaria che farà coincidere finalmente realtà e razionalità; per Marx
le alienazioni non possono appartenere alla sola sfera della coscienza, poiché esse sono
materiali e consistono nelle disumane condizioni in cui versa il proletariato:
<<la rivoluzione non può che venire da soggetti reali, dagli interessi reali, e
precisamente dai più forti di questi interessi, cioè dagli interessi materiali che
determinano i movimenti delle grandi masse. La ragione non è la pura e semplice
negazione del mondo; è la negazione di un certo mondo attuata da un altro
mondo>> [pag.LXIII].
Si dimostra, partendo dal dato oggettivo e non dalle categorie poste volutamente nel pensiero,
come l’alienazione sia un fenomeno di natura principalmente economica che si toglie solo
eliminando la società borghese ed il suo fulcro: la proprietà privata. La critica rivolta da Marx
a Bauer sul modo in cui questi pensava di aver risolto la questione ebraica, si basa
propriamente su questa convinzione: Bauer non vede l’alienazione economica – dalla quale
per via della sua buona causa è personalmente estraneo – e finisce per pensare
l’emancipazione degli ebrei come una pura e semplice emancipazione religiosa. La
Rivoluzione francese aveva, in nome dell’uguaglianza, riconosciuto agli ebrei i medesimi
diritti civili e politici dei cristiani e il successivo espansionismo napoleonico non solo aveva
confermato la cosa, ma l’aveva anche estesa a tutti i territori dell’impero. Anche in Germani,
allora, gli ebrei ebbero riconosciuti diritti civili e politici. La Restaurazione, però, aveva
riaperto la questione, poiché nel 1840, solo in Francia, Belgio e Olanda gli ebrei erano
veramente emancipati. Nei regni tedeschi la pressione degli ebrei divenne tale che la
questione dei loro diritti divenne argomento di disputa anche per la critica. Bauer era
personalmente (ma lui stesso era la critica!) contrario all’emancipazione in senso liberale
degli ebrei, poiché riteneva il conferimento di diritti ad un gruppo minoritario concreto e
particolare della società come un privilegio contrario allo Spirito, il quale è astratto e
generale. Secondo Bauer e la sua limitata concezione dell’alienazione, gli ebrei avrebbero
ottenuto l’emancipazione politica richiesta solo se fosse stato superato lo Stato cristiano,
superamento che avrebbe richiesto in primis l’abbandono da parte loro della religione. Bauer
riteneva veramente che gli ebrei fossero “peggiori” dei cristiani, perché a causa della loro
antica religione essi erano assolutamente incompatibili con la libertà e la modernità. Il loro plurisecolare isolamento, dunque, era imputabile esclusivamente alla religione. Gli ebrei,
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sempre secondo Bauer, sono un popolo astorico che non partecipa al progresso, alle lotte per
la libertà, alla costruzione dello Stato moderno, allo sviluppo delle scienze; la loro fede è
l’ostacolo alla loro libertà. L’emancipazione degli ebrei, tuttavia, non si sarebbe compiuta con
un atto collettivo di apostasia, ma si sarebbe completato con l’abbattimento dello stato
religioso, quello Stato Cristiano che in quanto tale, ovviamente, non avrebbe mai potuto
elevare gli ebrei – gli uccisori di Cristo – allo stesso livello dei cristiani. La richiesta
d’emancipazione degli ebrei, in definitiva, deve inserirsi nella universale richiesta di
emancipazione e non limitarsi solamente a quella propria: dato il carattere religioso
dell’alienazione, gli ebrei religiosamente emancipati dovranno unirsi ai cristiani
“decristianizzati” e istituire lo Stato ateo, l’unico stato che, essendo per definizione critica ben
lungi dall’alienazione, potrà emancipare tutti e realizzare l’uguaglianza e la libertà generali
secondo lo “Spirito”. Marx avversa tutto ciò, argomentando che Bauer confonde due forme di
alienazione, quella religiosa e quella politica, che sono sì due forme importanti e storiche di
alienazione, ma che non colgono la vera essenza del fenomeno, perché l’alienazione contro
cui bisogna combattere è quella di natura economica. Insomma, Bauer, dall’alto della sua
posizione da filosofo critico che conosce la realtà dal suo solo punto di vista, non ha saputo
nemmeno diagnosticare il male, figuriamoci allora che prognosi! Lo Stato di cui parla Bauer,
argomenta Marx, esiste diggià ed è quello degli Stati Uniti d’America, dove, nonostante non
ci sia alcuna chiesa o religione di Stato, il problema dell’emancipazione esiste ed è grave in
quanto comprensivo e dell’oppressione del proletariato e dello schiavismo a cui è sottoposta
la popolazione di pelle nera (quando Marx scrive mancano ancora vent’anni alla Guerra di
Secessione). Lo Stato di cui parla Bauer, quindi, è lo Stato cristiano perfetto dove:
<< si è mostrato al signor Bauer che la scomposizione dell’uomo nel cittadino non
religioso e nell’uomo privato religioso non contraddice per nulla l’emancipazione
politica. Gli è stato mostrato che, come lo Stato si emancipa dalla religione
emancipandosi dalla religione di Stato, e abbandonando la religione a sé stessa
all’interno della società civile, così l’uomo singolo si emancipa politicamente dalla
religione, comportandosi verso di essa non più come verso un affare pubblico, ma
come verso un affare privato. Gli si è mostrato infine che l’atteggiamento
terroristico della Rivoluzione francese verso la religione, ben lontano dal
contraddire questa concezione, la conferma.>>[pag.145-146],
anche se ci permettiamo di obbiettare che un conto è la laicità dello Stato, un altro il suo
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ateismo, implicante, quest’ultimo, il superamento della religione da parte di tutti i cittadini e
non il semplice abbandono da parte dello Stato di una chiesa specifica. Comunque, al di là
della licenza con la quale ci siamo permessi di contraddire Marx, resta il fatto che il punto
forte del ragionamento del filosofo ebreo-tedesco è che liberarsi della religione non è il primo
passo da farsi, giacché la religione – che più tardi Marx definirà “oppio de popoli” –
tramonterà solo quando tutte le strutture dell’oppressione umana saranno crollate. Anche la
religione è espressione del sistema di produzione.
<<Gli ebrei, oggi, sono emancipati nella misura in cui vivono nella teoria; sono
liberi nella misura in cui vogliono essere liberi>> [pag.123]:
ancora una volta Bauer insiste sul fatto che la libertà deve essere principalmente intesa in
termini spirituali e speculativi; ancora una volta si marca la differenza tra il socialismo della
“massa” e il socialismo umanitario della critica. Mentre quest’ultimo fa consistere la libertà
nella dissoluzione della massa, del primo la massa è il fondamento, quella stessa massa che
vede nel socialismo la via per la sua liberazione reale e tangibile. << La questione ebraica è
una questione religiosa>> dice Bauer; dice Marx:
<< Non si è mai negato, come il signor Bauer vorrebbe far apparire, che la questione
ebraica è anche una questione religiosa. Si è mostrato piuttosto che il signor Bauer
concepisce solo l’essenza religiosa dell’ebraismo, ma non il fondamento mondano,
reale di questa essenza religiosa. Il signor Bauer spiega, perciò, gli ebrei reali con
la religione ebraica, invece di spiegare il mistero della religione ebraica con gli
ebrei reali>>[pag.142].
L’ebraismo non è affatto una religione antica e “scaduta”; la cultura ebraica non è estranea al
progresso, allo sviluppo delle scienze e alla storia: l’ebraismo è l’essenza della società
moderna, di quella società, cioè, che si fonda sul sistema del denaro. L’ebraismo è, quindi,
attualissimo e solo un teologo con pregiudizi quale è Bruno Bauer non può accorgersi di
quanto esso sia vivo nella <<prassi commerciale e industriale>>. In pratica, secondo Marx è
impossibile chiedere agli ebrei di abbandonare la loro religione, dato che il giudaismo si è
perfettamente compiuto nel mondo cristiano: lo Stato moderno di fatto è come se li avesse già
in potenza emancipati, logico appare che lo faccia pure in atto. Non essendosi accorto delfatto che la questione ebraica non fosse solo una questione religiosa, il signor Bauer non ha
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compreso che il superamento dell’ebraismo conduce la questione fuori dall’orizzonte
religioso e verso il definitivo abbattimento della società borghese: perché gli ebrei dovrebbero
rinunciare alla propria religione per vivere liberamente in un mondo che ne intriso? Più in
generale, si può pensare di edificare uno Stato in tutto e per tutto identico a quello precedente,
fatta eccezione per i suoi rapporti con la Chiesa, e pensare di aver in tal modo redento
l’umanità dal suo male, dato che questo male è negli elementi che il nuovo stato non scalfisce
minimamente? I diritti umani che gli ebrei invocano non sono affatto estranei alla loro cultura,
anzi corrispondono esattamente alla loro richiesta di professare liberamente la loro fede, di
esercitare liberamente la loro attività finalizzate al profitto, a esprimere il loro egoismo
sfrenato, a far fruttare liberamente la loro proprietà. I diritti umani (i quali sono espressione
dell’emancipazione della sfera politica dalla religione) non fanno altro che ristabilire su nuove
basi la schiavitù, perché sono i diritti che legittimano la proprietà privata e l’alienazione
umana che ne deriva e che, frammentando la comunità politica in individui egoisti alieni l’un
dall’altro, li rende deboli, divisi e facili da dominare:
<< Nel mondo moderno ciascuno è nello stesso tempo membro della schiavitù e
membro della comunità. La schiavitù della società civile è apparentemente la libertà
più grande, poiché è l’indipendenza, apparentemente compiuta, dell’individuo, il
quale considera il movimento sfrenato, vincolato non più da legami generali e non più
dell’uomo, dei suoi elementi vitali alienati, per esempio la proprietà, l’industria, la
religione, ecc…come la propria libertà, mentre essa è piuttosto la sua compiuta
schiavitù ed inumanità. Al posto del privilegio è subentrato qui il diritto>>[pag.152].
3.
<<Tutte le grandi azioni della storia passata – apprendiamo – sono state fin dall’inizio
azioni mancate e prive di effettivo successo, perché la massa si è interessata ed
entusiasmata per esse; cioè, esse hanno dovuto di necessità avere un esito miserevole
perché l’idea, di cui intesse si trattava, era tale che doveva di necessità accontentarsi di
una concezione superficiale e quindi doveva di necessità contare anche sul plauso della
massa>> [pag.103].
Citando in tal modo Bauer, Marx ha voluto porre in evidenza la distanza che separa la critica
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dalla “massa”, ossia chi pretende di poter operare l’emancipazione umana attraverso il
pensiero e chi è chiamato dalle sue misere condizioni materiali a riscattarsi rimuovendo
realmente l’alienazione che l’opprime. Sostanzialmente Bauer vuole affermare, attraverso
l’ennesima rilettura mistificante della storia recente, che se tutti i tentativi fin lì esperiti
dall’uomo per la sua liberazione si sono risolti con esiti negativi – compresa la grande
Rivoluzione Francese, che ha prodotto infine la Restaurazione – è perché l’idea che li ha
sostenuti fu debole e legata alla superficialità della massa. La massa, secondo Bauer, è per
natura disorientata, amorfa e senza una sua coscienza e una sua volontà ben definite. Le idee
che sospingono le sue iniziative non possono che legarsi ad interessi spiccioli, particolari e
concreti: non possono, quindi, condurre verso un grande scopo come l’emancipazione
dell’uomo che, contrariamente alla visione ottenebrata della massa, deve essere tale da
condurre l’Infinito nel Finito, la razionalità nella realtà, e così non può non essere che legata a
grandi ed universali conquiste. Le idee della massa sono troppo lontane dalla razionalità, sono
la potenza che deve attendere l’atto per divenire finalmente rivoluzione.
<< Nella massa e non altrove, come ritengono i suoi vecchi portavoce liberali, è da
cercare il vero nemico dello spirito>>[pag.105] <<La massa si credeva in possesso
di tante verità, le quali per essa erano chiare per sé (…)Ma una verità si possiede
completamente solo…quando la si segue attraverso le sue dimostrazioni>>[pag.101].
In queste dichiarazioni della critica, riportate fedelmente da Marx, si evince la violenza del
suo passaggio da un atteggiamento illuministico benevolo nei confronti della massa ad uno di
totale distacco – finanche di avversione – per quest’ultima, colpevole di voler resistere
all’opera demiurgica di Bauer grazie alla sua oramai forte coscienza di sé e del suo bisogno
d’emancipazione. Il nuovo comportamento del sempre più solitario e smascherato filosofo
hegeliano a cui sfugge la realtà non fa che porre una nuova opposizione, quella tra “spirito” e
“massa”, opposizione che può adesso assumere un significato ambiguo: quello della Ragione
Universale che regge il mondo e che cerca di affermarsi attraverso la Storia, nonostante
l’ostacolo frapposto dall’impreparazione della Materia; quello della separazione tra una
filosofia che pretende a torto di essere la Ragione ed un movimento proletario che vede la
realizzazione della Ragione solo mediante la prassi. Se le rivoluzioni sin qui sono fallite,
ragiona Marx, non è perché le idee che le hanno sospinte siano scaturite dalla massa, bensì
perché, postulate da altri per i propri interessi, non hanno saputo interessarla. La Rivoluzionefrancese, dunque, in quanto rivoluzione proletaria è fallita perché pensata da una classe, quella
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borghese, nel suo esclusivo interesse. La massa, ben lontana dal giudicare con entusiasmo
quell’interesse, dopo un’iniziale partecipazione ispirata dalla parola “libertà”, ha dovuto
necessariamente tornare nei ranghi e sottostare ad un nuovo regime d’oppressione. Le
rivoluzioni, è il parere di Marx, non falliscono per l’incapacità e l’ignoranza della massa, ma
perché la massa comprende benissimo di non contrarre l’emancipazione cercata dal processo
in corso e già prefigura di dover servire nuovi padroni:
<<Tutti gli scrittori socialisti e comunisti sono partiti dall’osservazione, da un lato,
che anche le azioni splendide e più vantaggiose sembrano rimanere senza splendidi
risultati e sembrano finire in banalità, dall’altro lato, che tutti i progressi dello
spirito sono stati finora progressi contro la massa dell’umanità, la quale è stata
cacciata in una situazione sempre più disumanata>>[pag.108]
Perché la massa dovrebbe prendere forma nelle mani della critica se questa, insistendo con le
“dimostrazioni” di ciò che già è, non fa altro che accettare come un fatto fisiologico la
disumanizzazione dell’uomo? Il rapporto conflittuale che si è instaurato tra lo “spirito” e “la
massa” non è, quindi, solo determinato dalla frustrazione di un filosofo che non vede
compiersi lo sviluppo della realtà secondo il proprio puro pensiero – se Dio non fosse più in
grado di controllare la storia, se questa le scivolasse tra le dita e non si facesse afferrare e
domare, come la prenderebbe? – ma anche dalla noncuranza della massa per una filosofia di
per sé stessa alienante e che non si risolve mai a favore dell’azione pratica:
<< In generale, le idee non possono attuare niente. Per l’attuazione delle idee c’è
bisogno degli uomini, i quali impiegano una forza pratica>> [pag.153].
Prese le distanze dalla massa in quanto negazione dello spirito, la critica cerca di riparare agli
“errori di gioventù” che l’hanno indotta a ritenere possibile una sintesi con la massa, scrivendo
la sua patetica autoapologia:
<<Solo non si era notato il suo sforzo (della critica assoluta) e inoltre si era avuto
uno stadio della critica in cui essa è stata costretta a legarsi sinceramente ai
presupposti del suo avversario e, per un istante, a considerarli seriamente: in breve
uno stadio in cui la critica non aveva ancora completamente la capacità di toglierealla massa la convinzione di avere una causa ed un interesse in comune con la
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critica>>[pag.133].
La critica ammette un suo errore, ma si giustifica immediatamente sostenendo di essere stata
ancora troppo debole per difendersi dalla convinzione della massa di aver qualcosa in comune
con la critica. Per cui, alla fine, l’errore è stato commesso dalla massa! Se la critica conoscesse
meglio il movimento delle classi inferiori del popolo, saprebbe che la resistenza estrema, di
cui esse hanno fatto esperienza nella vita pratica, le trasforma quotidianamente. Marx conosce
bene tali movimenti, conosce bene lo sforzo per l’autoliberazione che i proletari stanno
compiendo e, altresì, sa bene quanto moralmente e politicamente temprante sia il lavoro. Il
proletariato è una forza rivoluzionaria che ha solo bisogno di essere compiutamente
organizzata, non sente il bisogno di benevoli padrini e protettori speculativi, ma di un’azione
storica contro il sistema della proprietà privata.
Conclusioni
Le conclusioni che possiamo trarre si collegano direttamente a quanto da noi già espresso
nell’Introduzione: La Sacra Famiglia è un’opera squisitamente filosofica che tocca il tema
dell’alienazione e del comunismo solo in termini strumentali di critica alla “critica critica”
baueriana. Il tema non è trattato marginalmente, ma deve essere dedotto attraverso una buona
lettura. In sintesi, possiamo dire che il “pomo della discordia” tra Marx e Bauer sia
rappresentato da come concepire l’alienazione: un fenomeno di coscienza, culturale, che si
risolve con l’istruzione e le libertà borghesi ovvero un fenomeno reale, materiale che si supera
abbattendo lo stato borghese e i suoi valori con l’azione pratica? Per Bauer un fenomeno di
coscienza si risolve attraverso la formazione di una coscienza migliore; per Marx un
fenomeno pratico si risolve solo con un’azione pratica migliore. La divergenza nella
considerazione del problema è tutta determinata dall’approccio mentale dei due filosofi:
mentre Bauer non smentisce la sua vocazione teologica e non abiura l’hegelismo, continuando
a pensare prima l’astratto e poi il concreto, cioè pensando prima le categorie e poi cercando di
forzarvi dentro la realtà empirica, Marx assume il dato concreto e reale dell’uomo per arrivare
solo alla fine alla razionalità. Marx, comunque, non fu mai completamente immune
dall’hegelismo, come si dimostra col materialismo storico-dialettico. Ciò che si intravede in
quest’opera è il merito di Marx di aver voluto sanare il conflitto tra pensiero ed azione
alimentato dalla critica: in questo senso ci sembra che la riscoperta de La Sacra Famigliaverso la fine dell’Ottocento appare importantissima per la ricomposizione della storia del
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pensiero marxiano ed è in quest’ottica, non in quella della polemica anti-baueriana, che essa
va letta. La questione puramente filosofica ha anch’essa una sua importanza, ma, vista la
considerazione che filosofi ed interpreti – non chi scrive, che per la sua ignoranza sarebbe
indegno di comporre tali conclusioni – le hanno riservata, ci sembra di non fare un’offesa alla
filosofia se insistiamo su quel punto.
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Indice
Breve premessa pag. 1
Introduzione
La sinistra hegeliana e l’alienazione pag. 4
La Sacra Famiglia pag.10
Conclusioni pag.23