Marx_La Sacra Famiglia

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  UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO  FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE  ___________ ______ Corso di laurea specialistica in STUDI EUROPEI Cattedra di FILOSOFIA POLITICA Prof. Francesco Conigliaro Ma x, Hengels La Sac a Famiglia di Nicola Palilla  A.A.2005/2006  ________________________________________________________________ 

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

 ___________________________________________________________________________ 

Corso di laurea specialistica in STUDI EUROPEI

Cattedra di FILOSOFIA POLITICA 

Prof. Francesco Conigliaro

Marx, Hengels

La Sacra Fam iglia

di Nicola Palilla

 A.A.2005/2006

 ________________________________________________________________ 

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Breve premessa

L’edizione de La Sacra Famiglia che abbiamo consultato e di cui riportiamo fedeli citazioni,

indicate col rispettivo numero di pagina, è quella degli Editori Riuniti curata nel 1979 da Aldo

Zanardo. Ogni qual volta nel nostro scritto si riporteranno passi dell’opera e se ne

indicheranno le pagine, dunque, ci si riferirà solo a questa edizione. Per scrivere

l’introduzione ed il paragrafo relativo ai giovani hegeliani e all’alienazione, invece, abbiamo

consultato testi di storia della filosofia tra cui Protagonisti e testi della filosofia, volume terzo,

di Nicola Abbagnagno e Giovanni Foriero e il Testo filosofico, volume terzo, di Fabio Ciuffi,

Giorgio Luppi, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette.

Introduzione

 La Sacra Famiglia fu la prima opera scritta a quattro mani da Marx e Engels: edita solo nel

febbraio del 1845 e innestata in una polemica filosofica ormai esaurita e priva di ogni

ulteriore interesse, essa non trova la fortuna che, forse, i suoi autori speravano incontrasse. La

Sacra Famiglia di cui al titolo non è la celeberrima triade Gesù, Giuseppe, Maria della

tradizione religiosa cristiana, bensì è il nomignolo affibbiato da Marx e Engels al circolo dei

giovani hegeliani riuniti attorno a Bruno Bauer, a suo fratello Edgar e ad altri filosofi minori.

Appare subito chiaro, quindi, che l’opera è un’aspra polemica contro Bruno Bauer e i suoi

“soci”. Il motivo per cui  La Sacra Famiglia non ebbe quel riscontro editoriale che i suoi

autori speravano avesse è presto spiegato. Innanzi tutto l’opera è arrivata troppo tardi,

decisamente in ritardo rispetto ad un dibattito teorico ormai scaduto di interesse perché

abilmente demolito da Feuerbach; in secondo luogo è scarsamente originale a causa delle

argomentazioni chiaramente feuerbachiane utilizzate dai suoi autori e tali da non aggiungere

alcunché di nuovo ad un dibattito, lo ripetiamo, comunque diggià superato. Nonostante i suoi

limiti oggettivi La Sacra Famiglia è uno scritto che è valso la pena riscoprire, perché contiene

i semi da cui scaturirà in seguito il marxismo maturo: non bisogna dimenticare, infatti, che La

Sacra Famiglia è uno scritto giovanile composto, tra l’altro, in un’epoca di forti difficoltà

economiche e di compatibilità con il potere dei suoi autori (Marx è in esilio in Francia). In tal

senso, cioè se vogliamo considerare La Sacra Famiglia come il luogo in cui trovare la genesidel poderoso pensiero materialista e comunista marxiano, possiamo affermare che i capitoli

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 più interessanti ed originali sono il quarto – «La critica critica» come la quiete del conoscere

ovvero la «critica critica» come signor Edgar – ed il sesto – «La critica assoluta» ovvero la

«critica critica» come signor Bruno – in cui, rispettivamente, Marx: 1) contesta con ironia la

“libera traduzione critica” di Qu’est-ce que la propriété di Proudhon operata da Edgar Bauer e

in cui semina le tracce del materialismo storico-dialettico; 2) respinge in toto la visione della

questione ebraica di Bruno Bauer, fondata sullo scambio equivoco tra emancipazione

religiosa ed emancipazione politica, e mette in evidenza la sterilità della strategia politica dei

giovani hegeliani incentrata sulla netta separazione tra ‘spirito’ e ‘massa’. La Sacra Famiglia

è a tratti uno scritto noioso e reso pesante da una polemica letteraria, condotta con spirito

d’ironia dissacrante; sembra un “regolamento di conti”, un atto liberatorio con cui Marx s’è

scrollato di dosso la sua precedente simpatia per la sinistra hegeliana; un’opera che era

necessario fare. Per quanto attiene al tema dell’alienazione possiamo dire che esso è trattato e

come polemica contro un sistema filosofico di per sé stesso alienante – l’hegelismo – e come

 problema sociale prodotto dalla civiltà borghese: mentre la prima trattazione è quella poco

originale e legata indissolubilmente alle conclusioni dell’amico Feuerbach, è la seconda a

godere di una certa originalità e che lascia intravedere i futuri sviluppi della riflessione di Karl

Marx. Ritengo sia su questo tema, dunque, che dobbiamo porre la nostra attenzione. Ritengo

altresì che non sia possibile trattare de La Sacra Famiglia senza aver scritto qualcosa circa la

sinistra hegeliana e sul concetto di alienazione, che a partire dagli anni ’40 del XIX° secolo

iniziò ad uscire dagli ambienti esclusivamente filosofici per raggiungere quelli politici.

La sinistra hegeliana e l’alienazione

1.

Trovatasi orfana del proprio maestro nel 1831, la scuola filosofica di Georg Wilhem Friedrich

Hegel – che agli amici è noto solo come Hegel! (vogliate perdonarmi!!) – smarrisce la sua

unità di fronte alla questione della compatibilità tra filosofia e religione. A proposito di tale

questione Friedrich 3trass fu il primo a definire i vari orientamenti maturati all’interno

dell’hegelismo senza Hegel con i nomi di destra, centro e  sinistra, assumendo tale

terminologia dalla recente consuetudine parlamentare francese (siamo nella Francia della

costituzione octroyée del 1815), la quale disponeva che i deputati prendessero posto nella salaad emiciclo in un determinato modo a secondo che fossero conservatori o progressisti.

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Esattamente come avveniva in quel parlamento, infatti, dove la conservazione si collocò alla

destra di chi presiedeva l’aula e il progressismo, all’opposto, alla sinistra dello stesso, tra i

filosofi hegeliani 4trass indicò come appartenenti alla destra i “giustificazionisti” della storia,

i sostenitori della pari dignità e razionalità di filosofia e religione, i politicamente

conservatori; indicò, invece, come membri della sinistra i critici della realtà, tutti quei filosofi,

cioè, che negavano la piena razionalità della realtà, la congruenza tra dover essere ed essere,

la superiorità della filosofia e che in base a queste convinzioni pensavano che la filosofia

servisse a modificare l’irrazionalità delle attuali istituzioni sociali e politiche. Possiamo,

dunque, affermare che i “giovani hegeliani”, altra denominazione della sinistra hegeliana, si

siano visti come continuatori degli illuministi; poterono solo aspirare ad essere tali, però,

 perché furono estranei al necessario contesto geografico e storico. Geografico, perché mentre

i philosophes furono gli eredi di una tradizione culturale nazionale razionalista discendente da

Cartesio, i giovani hegeliani sono i continuatori di un sistema filosofico che Feuerbach, non

completamente a torto, definisce una “teologia mascherata”; storico, perché la realtà in cui i

 philosophes del XVIII° secolo vissero fu un’epoca con problemi assai differenti da quelli che

una società industriale, come quella tedesca del XIX° secolo, si trova ad affrontare e tra i

quali figura anzi tutto un conflitto sociale assolutamente ignoto ai francesi del secolo dei lumi:

quello tra capitalisti e proletari. Se oggi ci può apparire ovvio che le soluzioni dei problemi

generati da quel conflitto non potessero coincidere con quelle che avevano predisposto gli

animi della Francia alla Rivoluzione del 1789, allora ai giovani hegeliani tale ovvietà non si

fece così palese. Andiamo per ordine. Il contesto storico in cui il dibattito interno

all’hegelismo si consuma è quello della Restaurazione, processo che pone la questione di

come poter “pensare la rivoluzione” dopo il fallimento degli eventi del ’89 e

dell’espansionismo liberatorio napoleonico, ai primi immediatamente successivi, che non

 pochi avevano salutato con favore in quanto mezzi per l’emancipazione civile e politica dei

 popoli d’Europa. Il passo indietro fatto nel campo delle libertà individuali, dell’uguaglianza,

della fratellanza, dei diritti dell’uomo faceva, infatti, sorgere il dubbio circa la razionalità

della Rivoluzione, circa, cioè, il fatto che essa fosse in senso dialettico necessaria alla causa

della libertà, dubbio al quale si univano i problemi scaturiti dalla rivoluzione industriale,

 portatrice del conflitto tra borghesi e aristocratici, da un lato, tra borghesi e operai, dall’altro:

il problema di ripensare l’organizzazione economica e sociale delle comunità umane, per 

rispondere efficacemente all’aumento della produzione e all’insediamento di nuove e

numerose fabbriche; il problema dell’urbanizzazione, delle macchine, del proletariato e dellesue drammatiche condizioni di vita e di lavoro. Ponendo l’accento sulla seconda parte del

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celebre aforisma hegeliano: «Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale», i

giovani hegeliani alludono al fatto che la realtà, non essendo ancora in grado di materializzare

la razionalità nella storia, perché solo ciò che è razionale è realtà, la quale – come si è detto – 

non è affatto razionale, è riformabile e riformabile da chi sa avvertire lo scarto fra i due

termini dell’aforisma. Questo “chi” non può che indicare i filosofi “critici”: la sinistra

hegeliana, appunto. Ammettere, invero, che la realtà non sia compiutamente razionale

significa rompere con il giustificazionismo storico di Hegel e con la similitudine dello stesso

secondo cui la filosofia non deve essere altro che la “nottola di Minerva”, vale a dire una mera

dimostrazione del divenire dialettico e descrizione dell’Assoluto in fieri e giammai una critica

di ciò che si sta, secondo un piano di sviluppo razionale, compiendo nella storia. Ora, se la

filosofia è pura descrizione e pura giustificazione di ciò che esiste, chi ritiene necessario

trasformare la realtà dovrà per forza attaccare la stessa filosofia, intesa come sistema

hegeliano, per farla “critica” e “canto del gallo”, ossia voce che anticipa i tempi di produzione

del dover essere e che prepara il terreno dell’imminente rivoluzione:

« La filosofia, continuano a ripetere i critici, non deve dare, deve distruggere. Deve

risolversi in critica » [pag.XLVII].

Da principio il dibattito interno all’hegelismo è tutto concentrato sulla compatibilità della

filosofia con la religione storica. Secondo la destra, poiché Hegel aveva insegnato che

filosofia e religione sono solo due “contenitori” differenti per lo stesso “contenuto”, tale

compatibilità non era da mettere in discussione. Filosofia e religione, infatti, hanno entrambe

 per oggetto il Sapere Assoluto e differiscono solo per la forma in cui tale sapere si estrinseca:

mentre la seconda manifesta il Sapere sotto forma di rappresentazione, di immagini, simboli,

ritualità ed è, per questo motivo, appannaggio anche dei ceti popolari – la religione sarebbe,

quindi, la forma con cui il Sapere Assoluto raggiunge praticamente tutti gli uomini, che la

colgono in termini intuitivi – la prima si esprime per concetti e, poiché si muove nell’astratto,

è dominio solo dei filosofi e si rivolge solo in potenza a tutti gli uomini. Non c’è, comunque,

un rapporto gerarchico tra le due forme: esse sono dunque compatibili. Secondo la sinistra,

invece, le cose non stanno affatto in tal modo, giacché la filosofia deve essere senz’altro

superiore alla religione: questa è solo una rozza e popolare forma di sapere, un sapere, tra

l’altro, pervertito dagli intenti secolari della Chiesa di esercitare potere sulle masse e

conservare così l’esistente nel modo in cui è. Avendo come sua attribuzione l’Assoluto, ilSapere non può che essere astratto, quindi, conoscibile solo per concetti e mai per 

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rappresentazioni: torna un po’ alla memoria il mito platonico della biga alata. Storicamente,

inoltre, la Chiesa è sempre stata per la conservazione e ancora durante la prima metà

dell’Ottocento si oppone a qualunque forma di emancipazione umana: alleata dello Stato,

tanto da configurare quest’ultimo come cristiano, essa va considerata come un fattore di

irrazionalità e, dunque, eliminata. Secondo la sinistra, la filosofia non è solamente superiore

alla religione, è incompatibile con essa: poiché la destra continua ad identificare la filosofia

con la realtà, la filosofia che veramente incarna lo spirito del tempo deve essere

necessariamente critica, negare l’esistenza oggi per poterne avere una compiutamente

razionale domani. Come gli illuministi, i giovani hegeliani pensano di poter compiere la loro

rivoluzione – la rivoluzione nazionale tedesca – attraverso la forza della persuasione delle loro

idee e si dispongono a svolgere un ruolo di suggeritori, sostenitori e controllori del potere

  politico attraverso la riedizione di forme di dispotismo illuminato. In Germania detto

dispotismo non può che realizzarsi in Prussia. Originariamente questa prospettiva sembrò

 possibile poiché l’ultimo secolo aveva mostrato all’Europa intera il grado di “illuminazione” a

cui lo stato militare di Prussia era saputa pervenire. In questa fase, fiduciosi della volontà del

re di procedere, seppur tiepidamente, contro la Restaurazione nel nome di una via germanica,

e non francese, all’emancipazione umana, i giovani hegeliani esprimono posizioni politiche di

liberalismo moderato e spingono affinché lo Stato prussiano si eriga a muraglia contro il

ritorno della monarchia feudale-cristiana. Il tema politico fondamentale dei giovani hegeliani

è, frattanto, affrancare lo Stato dalle gerarchie ecclesiastiche. È solo quando, in seguito

all’avvento di Federico Guglielmo IV sul trono di Prussia, vengono esclusi dalle università e

dalla vita culturale del regno che i giovani hegeliani si spostano su posizioni decisamente

radicali-democratiche: l’ateismo propugnato in occasione del dibattito sul rapporto tra

filosofia e religione comincia a spostarsi decisamente nel campo della politica e finisce per 

chiedere la dissoluzione dello Stato religioso e la fondazione dello Stato ateo o quanto meno

aconfessionale:

«Ora, in ogni modo, nel 1841-43, Bauer dà a i suoi schemi in genere contenuti

democratici. Le alienazioni su cui insiste sono la religione cristiana e lo Stato che

 privilegia una religione o una Chiesa. Meno determinatamente definiti, appunto per 

il prevalente interesse critico, sono i contenuti dell’emancipazione: democrazia,

 sovranità popolare, Stato razionale o libero, libertà universale»

[ pag.XLVIII]

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Dopo il fallimento della via squisitamente speculativa e liberale della “critica” alla

rivoluzione tedesca, anche quella radicale si dimostra impraticabile a causa della totale

assenza di legami fra la “critica” stessa e la massa, essendosi l’opera di propaganda e di

diffusione dei “lumi” limitata solo agli ambienti filosofici e letterari: nel periodo di maggior 

difficoltà, anzi, Bauer sviluppa un atteggiamento intellettuale che divide severamente lo

“spirito” dalla “massa” e che origina, secondo la definizione di Abbagnano, una sorta di

“aristocraticismo idealistico”.

 «Il giovane hegelismo non si trova solo a constatare di nuovo che lo Stato prussiano

non ha niente da spartire con la causa del progresso. Si trova a constatare il fatto

nuovo che le proprie speranza nella diffusione dei lumi erano illusorie. La critica si

è rivelata incapace di creare un consenso popolare intorno alle prospettive

dell’emancipazione»[pag.XLIX].

Ci voleva un Karl Marx per mostrare il malinteso concetto racchiuso dalla parola

“emancipazione” nel senso dei giovani hegeliani: emancipazione non può voler dire solo

libertà d’espressione e d’insegnamento, libertà di religione e libertà dello Stato dalla Chiesa,

deve significare liberazione dall’oppressione reale.

2.

Sul concetto di alienazione e sulla necessità di superarla si fonda, direttamente o

indirettamente, tutta la produzione letteraria di Karl Marx. Ne  La Sacra Famiglia questo

concetto e questa necessità sono trattati ancora debolmente poiché, come abbiamo già avuto

modo di scrivere, l’opera in questione non esprime il pensiero del Marx maturo che ha

studiato e commentato gli economisti francesi e inglesi; tuttavia lo “spirito” marxiano è già

tutto presente. La centralità del tema dell’alienazione nella riflessione di Marx può far pensare

che esso sia stato partorito da lui medesimo: è proprio così? Con  La Sacra Famiglia è

 possibile individuare la preoccupazione e l’interesse dei suoi autori per l’alienazione reale,

cioè per il disagio avvertito dall’uomo che è divenuto lo strumento della ricchezza altrui. Il

merito di Marx è, dunque, quello di aver insistito sull’aspetto esterno, non di coscienza, del

fenomeno e di aver fatto segnare in tal modo un grande passo in avanti alla filosofia, quella

non critica. In questo risiede il tratto originale de  La Sacra Famiglia. Secondo la filosofia

hegeliana, l’alienazione è un momento necessario del divenire dialettico, il momento nelquale lo Spirito si materializza nella storia passando dall’astrattezza alla concretezza,

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dall’Infinito al Finito, prima di essere in sé e per sé, dunque, completo. L’alienazione è la

negazione dell’Idea, ma non è un momento in sé negativo quanto una fase dello sviluppo della

realtà. L’alienazione assume un significato negativo solo a partire da Feuerbach, il quale,

dopo aver ricollocato nel giusto ordine soggetto e predicato, arriva a dichiarare “alienazione”

il processo tutto interno all’uomo con cui egli ha creato dio. Invertire soggetto e predicato ha

voluto dire per Feuerbach ricollocare l’essere al centro dell’universo in luogo del pensiero.

Secondo Feuerbach, allora, è stato l’uomo a creare dio, e non viceversa, attraverso la

 proiezione verso l’esterno della propria essenza o delle proprie speranza. Questo processo ha

alienato l’uomo da sé stesso perché, così facendo, egli ha allontanato da sé qualcosa che

 possedeva e lo ha obbligato a ricercare fuori di sé quello che avrebbe dovuto trovare, invece,

dentro di sé. Con Marx “alienazione” sarà sinonimo di “smarrimento”: smarrimento da parte

dell’uomo del proprio oggetto – che gli diventa ostile – smarrimento della propria essenza,

smarrimento di fronte alla propria attività, smarrimento di fronte ai propri simili. Questa idea

innovativa di alienazione sarà quella su cui Marx costruirà la sua condanna della società

 borghese, un’idea che, pur non essendo in modo accademico definita ne  La Sacra Famiglia, è

comunque possibile ammirare nella fase iniziale di quella maturazione mentale che porterà

Marx ad approdare sui lidi noti a tutti. Nell’introduzione abbiamo già spiegato che  La Sacra

 Famiglia è stata composta con l’intento meramente filosofico di polemizzare di Marx contro

Bruno Bauer e i suoi “amici”: essa è fondamentalmente un’opera contro l’alienazione intesa

in questo come modo alienante di filosofare. I capitoli che riguardano questa polemica, in

realtà, sono un ironico spulciare tra le fasi degli scritti critici che a lungo andare diventa

 pedante e quasi fastidioso: per questa ragione lo stesso Engels li ha successivamente giudicati

non indispensabili all’opera. Il tema dell’alienazione reale si evince soprattutto dai capitoli

indicati nell’introduzione: nel nostro breve scritto faremo riferimento a questi.

Intermezzo n°1

« “Per produrre tutto si deve avere una coscienza più forte di quella di un

lavoratore; l’affermazione sarebbe vera solo se rovesciata: il lavoratore non fa

niente, perciò non ha niente; ma egli non fa niente perché il suo lavoro rimane

 sempre un lavoro singolo, un lavoro commisurato al suo bisogno più particolare, unlavoro giornaliero” La critica arriva qui a quell’alto grado di astrazione per il 

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quale considera solo le sue proprie creazioni ideali e le sue generalità,

contraddicenti ogni realtà, come ‘qualcosa’ o meglio come ‘tutto’ (…) è la critica

critica a non produrre niente, il lavoratore produce tutto, e produce a tal punto tutto

che anche nelle sue creazioni spirituali, umilia tutta quanta la critica; cosa di cui i

lavoratori inglesi e francesi possono dare testimonianza. Il lavoratore produce

 perfino l’uomo: il critico rimarrà sempre un non-uomo, anche se ha la soddisfazione

di essere un critico critico» [pagg.22-23]

La sacra famiglia

1.

Fin dal suo giovanile esilio in Francia, Marx ha sposato posizioni politiche comuniste e legato

con gruppi organizzati, filosofi e intellettuali comunisti; ha intrapreso la lettura dei classici

dell’economia politica ed il loro meticoloso studio. Tra le sue letture figura anche Qu’est-ce

que la propriété di Proudhon :

<<Tutti gli sviluppi dell’economia politica hanno come presupposto la proprietà

 privata. Questo presupposto fondamentale ha per l’economia politica il valore di

 fatto incontrovertibile che essa non sottopone ad alcune verifica ulteriore e del quale

anzi, Say confessa candidamente, ad essa capita di parlare solo “accidentellement”.

Ora, Proudhon sottopone la base dell’economia politica, la proprietà privata, ad un

esame critico e precisamente al primo esame decisivo, privo di riguardi e nello

 stesso tempo scientifico>> [pag.38].

La critica che Marx muove all’economia politica ha inizio con un colpo che è già di per sé

stesso mortale: quello contro la proprietà privata. Marx coglie nello scritto di Proudhon una

denuncia molto importante, il fatto, cioè, che per gli economisti la proprietà privata è sempre

stata considerata come un dato di fatto, quasi un elemento della natura: tacendo sull’originedella proprietà, quindi, gli economisti hanno taciuto sulla contraddizione interna al

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capitalismo, quella contraddizione che rende conflittuali i rapporti tra salari e profitti. Marx,

commentando Proudhon, scrive che gli economisti esordiscono sempre affermando che salari

e profitti sono in rapporti assolutamente amichevoli e, quindi, umani; il valore di un prodotto,

affermano, è la perfetta somma di tutti i costi di produzione e dipende anche dall’utilità

sociale del prodotto finito; tuttavia, il mercato, vale a dire i meccanismi legati alla mano

invisibile, produce successivamente una variazione del prezzo del tutto casuale che infine

rende il prezzo del prodotto non più corrispondente ai suoi costi di produzione. Che fine fa

tale variazione: si divide tra salari e profitti? No, di essa si impossessa il capitalista, il quale

non varia il salario dell’operaio.

<<  All’inizio, la misura del salario è determinata attraverso l’accordo libero tra

libero lavoratore e il libero capitalista. Poi si dimostra sia che il lavoratore è

costretto a lasciare che esso venga determinato, sia che il capitalista è costretto a

 stabilirlo al livello più basso possibile. Al posto della libertà della parte contraente è

 subentrata la coazione. La stessa cosa avviene nel commercio ed in tutti gli altri

rapporti economici>> [pag.39].

Marx individua la causa di questo perfido meccanismo, per il quale i rapporti economici

diventano disumani, nella proprietà e non dimentica di osservare che anche Adam Smith,

David lo hanno ammesso e denunciato. Tuttavia, queste denuncie lasciano il tempo che

trovano, sono temporanee ammissioni, eccezionali ammissioni che né smontano la loro (degli

economisti, s’intende) fiducia nel mercato né pone nei loro (sempre degli economisti) pensieri

la possibilità di indagare scientificamente sull’origine della proprietà. Per rimuovere la

contraddizione salari/profitti è, dunque, necessario andare oltre la proprietà:

<< Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano come tali un tutto. Entrambi

  sono figure del mondo della proprietà privata. Ciò che conta è la posizione

determinata che entrambi occupano nell’opposizione. Non basta dichiarare che sono

due lati di un tutto>> [pag. 43].

In questo passo scorgiamo i semi del materialismo dialettico marxiano. Marx afferma che

tanto i capitalisti quanto i proletari << presentano la stessa autoalienazione umana>> perché

entrambi vivono sulla propria pelle la scissione indotta dalla civiltà borghese tra citoyen ebourgeois, cioè, tra la dimensione politica collettiva e l’egoista esistenza individuale, con la

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differenza, però, che mentre i primi la sopportano e l’alimentano, poiché l’alienazione è la

 base della loro ricchezza, i secondi la soffrono, ne fanno quotidianamente esperienza per via

delle loro miserevoli condizioni di lavoro e vi vedono dentro la causa della loro impotenza e

della loro disumanata esistenza. Ora Marx, dopo aver fatto dei capitalisti e dei proletari i due

elementi di un’opposizione “hegeliana” (“ Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano

come tali un tutto”), vede l’unica via d’uscita per il genere umano dall’alienazione della

civiltà borghese nel superamento di detta opposizione. Contrariamente da Hegel, però, Marx

non pensa che l’opposizione debba risolversi con la sintesi dei due elementi, bensì che si

risolva con la distruzione dell’opposizione stessa ad opera del proletariato:

<< Se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti

esso vince solo togliendo se stesso ed il suo opposto. Allora scompare sia il 

 proletariato sia l’opposto che lo condiziona, la proprietà privata>> [pag.44].

Perché il compito di rimuovere l’opposizione spetta al proletariato? Perché solo il proletariato

ha l’interesse a farlo, avendo all’interno di quella il ruolo di “partito distruttore”. Secondo

Marx la proprietà privata, a causa della crescita del proletariato e del peggioramento delle sue

condizioni di vita, tende inevitabilmente alla sua dissoluzione e, quindi, non può non essere

che il proletariato esegua la condanna a morte di chi l’opprime:

<< è perché nel proletariato sviluppato è compiuta praticamente l’astrazione da

ogni umanità, perfino della parvenza dell’umanità; è perché nelle condizioni di vita

del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita della società moderna nella

loro asprezza più disumana; è perché nel proletariato l’uomo ha perduto sé stesso,

ma nello stesso tempo non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita,

bensì anche è costretto immediatamente anche nel bisogno non più sopprimibile, non

  più eludibile, assolutamente imperativo – della manifestazione pratica della

necessità – alla rivolta contro questa inumanità; ecco perché il proletariato può e

deve necessariamente liberare sé stesso. Ma non può liberare sé stesso senza

togliere le proprie condizioni di vita.>>[pag.44].

Qui, oltre ad evincersi i tratti del materialismo storico, Marx polemizza fortemente con la

“critica”, la quale, considerandosi <<pura>> o <<assoluta>>, pretende di essere l’unicainterprete della realtà e depositaria della verità, l’unica forza in grado di realizzare la

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rivoluzione. Marx deride, in buona sostanza, chiunque voglia colmare il vuoto di razionalità

nella realtà senza calarsi tra i proletari e senza frequentare la “temprante scuola del lavoro”,

chiunque pensa di poter emancipare da una condizione reale di degradazione l’uomo reale – 

quello che lavora, che ama, che gioisce, che soffre, che lotta – senza assumere alcuna

iniziativa reale,  pratica. Dice Marx che il proletariato ha chiara di fronte a sé la strada che

l’attende e che deve intraprendere :

<<il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro>> [pag.44].

La critica ha solo pensieri, è pura speculazione; gli operai, invece, sanno benissimo di aver 

 bisogno di praticare l’emancipazione e non di nuovi complicati pensieri: a cosa può servire ai

  proletari un gruppo di persone che in luogo di parlare dell’uguaglianza come di una

caratteristica che gli uomini avvertono come elemento della prassi, cioè come comportamento

di un essere umano verso l’altro, parla di “autocoscienza infinita”? Cosa vorrà mai significare

questa espressione? Come può un operaio comprenderne il senso e come potrà egli utilizzarla

 per la sua emancipazione? La critica, quindi, oltre ad essere critica è pure criptica, poiché

 parlan una lingua incomprensibile alla massa. Eppure la critica pretende di essere pratica:

<<  La filosofia è stata iperpratica solo nel senso che essa stava sospesa sopra la

 prassi. La critica critica, per la quale l’umanità si riduce ad una massa priva di

 spirito, è la testimonianza più vistosa della infinita piccolezza con cui gli uomini

reali appaiono alla speculazione>> [pag.48],

cioè a dire che la critica ha ritenuto che il suo superato programma di “diffusione dei lumi”

attraverso le università e le pubblicazioni fosse sufficiente a creare quel legame, una sorta di

cordone ombelicale, tra sé ed una massa informe e senza guida, la quale, invece, nella realtà

sa bene in quali disumane condizioni vive e quale sia la via d’uscita da tali condizioni. La

critica è stata pratica solo nella sua rappresentazione astratta della realtà e della sua azione. In

altre parole: la critica ha fantasticato un mondo, che non c’è, nel quale la sua impronta

filosofica e storica fosse determinante. Qual è, allora, l’origine della proprietà? Proudhon

ritiene – e Marx sottoscrive – che alla base della proprietà vi sia la prescrizione, cioè, il

diritto, giacché:

<< Se il proprietario è proprietario solo in quanto lavoratore, egli cessa di essere

 proprietario non appena cessa di essere lavoratore>> [pag.56].

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Secondo Proudhon la proprietà fu all’origine stabilita per tutelare l’uguaglianza e affinché

ciascuno che lavorasse la terra potesse avere di che cibarsi in base ai bisogni propri e a quelli

familiari in condizioni di parità rispetto agli altri. Dunque, paradossalmente, la proprietà fu sì

fatta per l’uguaglianza, ma, essendo la causa dell’alienazione e delle disumane condizioni di

vita dei lavoratori, ne è successivamente divenuta la negazione. Come dirimere tale

contraddizione? Proudhon ritiene che l’emergenza del paradosso sia la dimostrazione del fatto

che la proprietà non possa nemmeno logicamente esistere a meno di considerarla nella forma

  blanda di “possesso uguale”, ossia tale da non danneggiare il godimento degli altri.

Quest’ultimo, però, è un punto tra i più critici dell’argomentazione proudhoniana, un punto,

forse, che segnerà assieme ad altri il definitivo distacco di Marx dal francese – il quale da

 parte sua non fu mai comunista. Attraverso Proudhon Marx ha colpito l’economia politica e la

sinistra baueriana: il primo colpo è servito a mostrare da dove sorge l’alienazione; il secondo

 – quello che ne   La Sacra Famiglia è considerato lo scopo principale dall’autore – ha

evidenziato l’inadeguatezza della filosofia critica e sotto il profilo squisitamente speculativo

e, soprattutto, sotto quello pratico. Ennesima dimostrazione di detta inadeguatezza è l’accusa

che la sinistra rivolge ai lavoratori relativamente alla loro incapacità di associarsi e combattere

insieme:

<<il lavoratore moderno pensa solo a sé, cioè si fa pagare per la sua persona. È lui

 stesso che non mette in conto la forza prodigiosa e immensa che sorge dalla sua

cooperazione con altre forze>>. Secondo la critica critica tutto il male sta solo nel 

“pensiero” dei lavoratori>> [pag. 63].

In buona sostanza tale passo si inserisce nel discorso della divisione del lavoro, la quale

sarebbe la responsabile dell’impossibilità del lavoratore di riacquistare ciò che ha prodotto a

causa del fatto che il salario remunera solo una parte del prodotto finito, esattamente quella

 per la quale è stata necessaria l’opera del lavoratore. Avendo egli realizzato solo una parte di

quel bene, egli non può riacquistarlo tutto. In base alla traduzione critica di Edgar Bauer,

Proudhon affermerebbe che a tale situazione gli operai non sanno porre rimedio a causa del

loro egoismo. Marx accusa la critica di aver volutamente travisato Proudhon, giacché il

francese sa benissimo che i lavoratori inglesi e francesi si stanno organizzando e cooperano

 per eliminare la loro alienazione con l’azione pratica e non con il puro pensiero. Piuttosto che

agire, la critica insegna ai lavoratori che: 

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<< essi cessano di essere nella realtà lavoratori salariati se superano nel pensiero il 

  pensiero del lavoro salariato>> [pag.64],

come se davvero bastasse pensare di non essere più salariato per non continuare ad esserlo

nella realtà. Dice Marx:

<< Lo “Spirito” che vede nella realtà solo categorie, riduce naturalmente anche

ogni attività e prassi umana al processo ideale dialettico della critica critica. È 

questo che distingue il suo socialismo dal socialismo e dal comunismo di massa> >

[pag.64].

La critica compiace sé stessa e vede nella dialettica il dispiegarsi dello sua splendida

rappresentazione irreale della realtà; il suo socialismo non è che l’ennesima rappresentazione:

la critica, insomma, sbaglia sia nei suoi argomenti che nella sua strategia.

Intermezzo n°2

<< Les grands ne nous paraissent grands

que parce-que nous sommes à ge noux.

Levons nous !

Ma per sollevarsi, non è sufficiente sollevarsi nel pensiero, e lasciar pendere sopra la

 propria testa reale, sensibile, il giogo reale, sensibile, che non è possibile eliminare con le

idee>> [pag.105-106]

2.

Il massimo della polemica contro la sinistra hegeliana è raggiunto nel capitolo VI, capitolo in

cui il filosofo di Treviri “smonta” pezzo per pezzo quelle che lui stesso ha ironicamente

 battezzato “le tre campagne della critica assoluta”. Le “campagne” a cui Marx si riferisce

sono condotte dalla critica pura, ossia da Bruno Bauer in persona, attraverso una serie di

articoli trattanti l’emancipazione degli ebrei, il rapporto tra “spirito” e “massa” – quasi

mortificando quest’ultima – della Rivoluzione francese e del socialismo. Il tratto comune a

tutte le contro argomentazioni al riguardo espresse da Marx è l’accusa rivolta a Bauer e soci

di vivere e filosofare senza stabilire alcun legame reale con chi soffre l’alienazione reale: per 

Marx si tratta di dichiarare pubblicamente e in modo definitivo la fine della filosofia critica,sterile sia filosoficamente che politicamente, e di denunciarne l’inidoneità all’interno di un

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reale processo rivoluzionario. Il maggiore esempio pratico di questa inidoneità rivoluzionaria

è offerto dalla questione ebraica, a proposito della quale, a detta di Marx, la “critica come

signor Bruno” mostra quanto sia lontano il suo orizzonte speculativo dalla realtà e come

miseramente indotta a fallire sia la sua proposta politica quando tenta d’emancipare l’uomo

dalla sua alienazione. Marx contesta chiaramente a Bauer di non aver mai afferrato nemmeno

la sola essenza dell’alienazione e lo rimprovera di chiudersi sempre più nella sua solitaria

intimità speculativa, in un atteggiamento di presuntuosa superiorità e di chiusura rispetto alla

massa, che lo porta inevitabilmente a confondere la sua personale domanda di libertà con

quella dell’intera umanità. Bauer riduce la causa universale della libertà alla sua esclusiva

“buona causa”, alla causa, cioè, della propria libertà intellettuale e la rivoluzione

all’emancipazione non del genere umano, bensì dall’oppressore (lo Stato prussiano) che lo ha

escluso dall’insegnamento. Questi sono i motivi per cui Marx può accusare Bauer di aver 

ricondotto l’intera filosofia critica al suo stesso egoismo e di aver così scisso la filosofia, che

molto può fare per l’affrancamento dell’umanità, dagli individui reali. Secondo Marx la

rivoluzione è possibile se i filosofi, che nel processo rivoluzionario avrebbero il ruolo di

“arma spirituale”, accettano il principio per cui è il proletariato – la massa, come esso è

sprezzantemente chiamato dalla critica – a costituirne la “forza materiale” con cui si giungerà

alla disalienazione. Mentre per Bauer tutto è astrazione e pensiero e gli uomini di cui parla

sono mere rappresentazioni mentali astratte, per Marx l’uomo è quello della realtà che non ha

solo idee, ma passioni e sentimenti (come l’amore, quell’amore che la critica ha ridotto a

mero soggetto dell’egoismo altrui:<<Oggetto! Spaventoso! Non c’è niente di più riprovevole,

di più profano, di più massiccio di un oggetto: à bas l’oggetto!>> [pag.25]); è l’uomo egoista

che ha i suoi interessi, i suoi pregi e i suoi difetti, ma è l’uomo che vive nella società; è

l’uomo che con la sua piccola e spicciola vita appare come un punto insignificante di fronte

all’Infinito, ma è l’uomo che scrive la storia, giacché è falso che la storia esiste affinché la

verità assoluta si dispieghi:

<<Come per i vecchi teologi, le piante esistono per essere mangiate dagli animali,

 gli animali per essere mangiati dagli uomini, così la storia esiste per servire all’atto

di consumo del mangiare teoretico, cioè a dimostrare. L’uomo esiste perché esiste la

 storia; la storia esiste perché esista la dimostrazione della verità. In questa forma

criticamente banalizzata si ripete la sapienza speculativa secondo cui l’uomo esiste,

la storia esiste, perché la verità giunga all’autocoscienza>> [pag.102].

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Mentre per la critica solo pochi uomini sono in grado di penetrare la Ragione – non a caso

solo i filosofi critici – e tutto il resto dell’umanità è “massa”, per Marx è nella massa che si

trova la vera forza rivoluzionaria che farà coincidere finalmente realtà e razionalità; per Marx

le alienazioni non possono appartenere alla sola sfera della coscienza, poiché esse sono

materiali e consistono nelle disumane condizioni in cui versa il proletariato:

<<la rivoluzione non può che venire da soggetti reali, dagli interessi reali, e

  precisamente dai più forti di questi interessi, cioè dagli interessi materiali che

determinano i movimenti delle grandi masse. La ragione non è la pura e semplice

negazione del mondo; è la negazione di un certo mondo attuata da un altro

mondo>> [pag.LXIII].

Si dimostra, partendo dal dato oggettivo e non dalle categorie poste volutamente nel pensiero,

come l’alienazione sia un fenomeno di natura principalmente economica che si toglie solo

eliminando la società borghese ed il suo fulcro: la proprietà privata. La critica rivolta da Marx

a Bauer sul modo in cui questi pensava di aver risolto la questione ebraica, si basa

 propriamente su questa convinzione: Bauer non vede l’alienazione economica – dalla quale

  per via della sua buona causa è personalmente estraneo – e finisce per pensare

l’emancipazione degli ebrei come una pura e semplice emancipazione religiosa. La

Rivoluzione francese aveva, in nome dell’uguaglianza, riconosciuto agli ebrei i medesimi

diritti civili e politici dei cristiani e il successivo espansionismo napoleonico non solo aveva

confermato la cosa, ma l’aveva anche estesa a tutti i territori dell’impero. Anche in Germani,

allora, gli ebrei ebbero riconosciuti diritti civili e politici. La Restaurazione, però, aveva

riaperto la questione, poiché nel 1840, solo in Francia, Belgio e Olanda gli ebrei erano

veramente emancipati. Nei regni tedeschi la pressione degli ebrei divenne tale che la

questione dei loro diritti divenne argomento di disputa anche per la critica. Bauer era

 personalmente (ma lui stesso era la critica!) contrario all’emancipazione in senso liberale

degli ebrei, poiché riteneva il conferimento di diritti ad un gruppo minoritario concreto e

 particolare della società come un privilegio contrario allo Spirito, il quale è astratto e

generale. Secondo Bauer e la sua limitata concezione dell’alienazione, gli ebrei avrebbero

ottenuto l’emancipazione politica richiesta solo se fosse stato superato lo Stato cristiano,

superamento che avrebbe richiesto in primis l’abbandono da parte loro della religione. Bauer 

riteneva veramente che gli ebrei fossero “peggiori” dei cristiani, perché a causa della loro

antica religione essi erano assolutamente incompatibili con la libertà e la modernità. Il loro plurisecolare isolamento, dunque, era imputabile esclusivamente alla religione. Gli ebrei,

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sempre secondo Bauer, sono un popolo astorico che non partecipa al progresso, alle lotte per 

la libertà, alla costruzione dello Stato moderno, allo sviluppo delle scienze; la loro fede è

l’ostacolo alla loro libertà. L’emancipazione degli ebrei, tuttavia, non si sarebbe compiuta con

un atto collettivo di apostasia, ma si sarebbe completato con l’abbattimento dello stato

religioso, quello Stato Cristiano che in quanto tale, ovviamente, non avrebbe mai potuto

elevare gli ebrei – gli uccisori di Cristo – allo stesso livello dei cristiani. La richiesta

d’emancipazione degli ebrei, in definitiva, deve inserirsi nella universale richiesta di

emancipazione e non limitarsi solamente a quella propria: dato il carattere religioso

dell’alienazione, gli ebrei religiosamente emancipati dovranno unirsi ai cristiani

“decristianizzati” e istituire lo Stato ateo, l’unico stato che, essendo per definizione critica ben

lungi dall’alienazione, potrà emancipare tutti e realizzare l’uguaglianza e la libertà generali

secondo lo “Spirito”. Marx avversa tutto ciò, argomentando che Bauer confonde due forme di

alienazione, quella religiosa e quella politica, che sono sì due forme importanti e storiche di

alienazione, ma che non colgono la vera essenza del fenomeno, perché l’alienazione contro

cui bisogna combattere è quella di natura economica. Insomma, Bauer, dall’alto della sua

 posizione da filosofo critico che conosce la realtà dal suo solo punto di vista, non ha saputo

nemmeno diagnosticare il male, figuriamoci allora che prognosi! Lo Stato di cui parla Bauer,

argomenta Marx, esiste diggià ed è quello degli Stati Uniti d’America, dove, nonostante non

ci sia alcuna chiesa o religione di Stato, il problema dell’emancipazione esiste ed è grave in

quanto comprensivo e dell’oppressione del proletariato e dello schiavismo a cui è sottoposta

la popolazione di pelle nera (quando Marx scrive mancano ancora vent’anni alla Guerra di

Secessione). Lo Stato di cui parla Bauer, quindi, è lo Stato cristiano perfetto dove:

<< si è mostrato al signor Bauer che la scomposizione dell’uomo nel cittadino non

religioso e nell’uomo privato religioso non contraddice per nulla l’emancipazione

  politica. Gli è stato mostrato che, come lo Stato si emancipa dalla religione

emancipandosi dalla religione di Stato, e abbandonando la religione a sé stessa

all’interno della società civile, così l’uomo singolo si emancipa politicamente dalla

religione, comportandosi verso di essa non più come verso un affare pubblico, ma

come verso un affare privato. Gli si è mostrato infine che l’atteggiamento

terroristico della Rivoluzione francese verso la religione, ben lontano dal 

contraddire questa concezione, la conferma.>>[pag.145-146],

anche se ci permettiamo di obbiettare che un conto è la laicità dello Stato, un altro il suo

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ateismo, implicante, quest’ultimo, il superamento della religione da parte di tutti i cittadini e

non il semplice abbandono da parte dello Stato di una chiesa specifica. Comunque, al di là

della licenza con la quale ci siamo permessi di contraddire Marx, resta il fatto che il punto

forte del ragionamento del filosofo ebreo-tedesco è che liberarsi della religione non è il primo

  passo da farsi, giacché la religione – che più tardi Marx definirà “oppio de popoli” – 

tramonterà solo quando tutte le strutture dell’oppressione umana saranno crollate. Anche la

religione è espressione del sistema di produzione.

<<Gli ebrei, oggi, sono emancipati nella misura in cui vivono nella teoria; sono

liberi nella misura in cui vogliono essere liberi>> [pag.123]:

ancora una volta Bauer insiste sul fatto che la libertà deve essere principalmente intesa in

termini spirituali e speculativi; ancora una volta si marca la differenza tra il socialismo della

“massa” e il socialismo umanitario della critica. Mentre quest’ultimo fa consistere la libertà

nella dissoluzione della massa, del primo la massa è il fondamento, quella stessa massa che

vede nel socialismo la via per la sua liberazione reale e tangibile. << La questione ebraica è

una questione religiosa>> dice Bauer; dice Marx:

<< Non si è mai negato, come il signor Bauer vorrebbe far apparire, che la questione

ebraica è anche una questione religiosa. Si è mostrato piuttosto che il signor Bauer 

concepisce solo l’essenza religiosa dell’ebraismo, ma non il fondamento mondano,

reale di questa essenza religiosa. Il signor Bauer spiega, perciò, gli ebrei reali con

la religione ebraica, invece di spiegare il mistero della religione ebraica con gli

ebrei reali>>[pag.142].

L’ebraismo non è affatto una religione antica e “scaduta”; la cultura ebraica non è estranea al

  progresso, allo sviluppo delle scienze e alla storia: l’ebraismo è l’essenza della società

moderna, di quella società, cioè, che si fonda sul sistema del denaro. L’ebraismo è, quindi,

attualissimo e solo un teologo con pregiudizi quale è Bruno Bauer non può accorgersi di

quanto esso sia vivo nella <<prassi commerciale e industriale>>. In pratica, secondo Marx è

impossibile chiedere agli ebrei di abbandonare la loro religione, dato che il giudaismo si è

 perfettamente compiuto nel mondo cristiano: lo Stato moderno di fatto è come se li avesse già

in potenza emancipati, logico appare che lo faccia pure in atto. Non essendosi accorto delfatto che la questione ebraica non fosse solo una questione religiosa, il signor Bauer non ha

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compreso che il superamento dell’ebraismo conduce la questione fuori dall’orizzonte

religioso e verso il definitivo abbattimento della società borghese: perché gli ebrei dovrebbero

rinunciare alla propria religione per vivere liberamente in un mondo che ne intriso? Più in

generale, si può pensare di edificare uno Stato in tutto e per tutto identico a quello precedente,

fatta eccezione per i suoi rapporti con la Chiesa, e pensare di aver in tal modo redento

l’umanità dal suo male, dato che questo male è negli elementi che il nuovo stato non scalfisce

minimamente? I diritti umani che gli ebrei invocano non sono affatto estranei alla loro cultura,

anzi corrispondono esattamente alla loro richiesta di professare liberamente la loro fede, di

esercitare liberamente la loro attività finalizzate al profitto, a esprimere il loro egoismo

sfrenato, a far fruttare liberamente la loro proprietà. I diritti umani (i quali sono espressione

dell’emancipazione della sfera politica dalla religione) non fanno altro che ristabilire su nuove

 basi la schiavitù, perché sono i diritti che legittimano la proprietà privata e l’alienazione

umana che ne deriva e che, frammentando la comunità politica in individui egoisti alieni l’un

dall’altro, li rende deboli, divisi e facili da dominare:

<<   Nel mondo moderno ciascuno è nello stesso tempo membro della schiavitù e

membro della comunità. La schiavitù della società civile è apparentemente la libertà

 più grande, poiché è l’indipendenza, apparentemente compiuta, dell’individuo, il 

quale considera il movimento sfrenato, vincolato non più da legami generali e non più

dell’uomo, dei suoi elementi vitali alienati, per esempio la proprietà, l’industria, la

religione, ecc…come la propria libertà, mentre essa è piuttosto la sua compiuta

 schiavitù ed inumanità. Al posto del privilegio è subentrato qui il diritto>>[pag.152].

3.

<<Tutte le grandi azioni della storia passata – apprendiamo – sono state fin dall’inizio

azioni mancate e prive di effettivo successo, perché la massa si è interessata ed 

entusiasmata per esse; cioè, esse hanno dovuto di necessità avere un esito miserevole

 perché l’idea, di cui intesse si trattava, era tale che doveva di necessità accontentarsi di

una concezione superficiale e quindi doveva di necessità contare anche sul plauso della

massa>> [pag.103].

Citando in tal modo Bauer, Marx ha voluto porre in evidenza la distanza che separa la critica

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dalla “massa”, ossia chi pretende di poter operare l’emancipazione umana attraverso il

  pensiero e chi è chiamato dalle sue misere condizioni materiali a riscattarsi rimuovendo

realmente l’alienazione che l’opprime. Sostanzialmente Bauer vuole affermare, attraverso

l’ennesima rilettura mistificante della storia recente, che se tutti i tentativi fin lì esperiti

dall’uomo per la sua liberazione si sono risolti con esiti negativi – compresa la grande

Rivoluzione Francese, che ha prodotto infine la Restaurazione – è perché l’idea che li ha

sostenuti fu debole e legata alla superficialità della massa. La massa, secondo Bauer, è per 

natura disorientata, amorfa e senza una sua coscienza e una sua volontà ben definite. Le idee

che sospingono le sue iniziative non possono che legarsi ad interessi spiccioli, particolari e

concreti: non possono, quindi, condurre verso un grande scopo come l’emancipazione

dell’uomo che, contrariamente alla visione ottenebrata della massa, deve essere tale da

condurre l’Infinito nel Finito, la razionalità nella realtà, e così non può non essere che legata a

grandi ed universali conquiste. Le idee della massa sono troppo lontane dalla razionalità, sono

la potenza che deve attendere l’atto per divenire finalmente rivoluzione.

<< Nella massa e non altrove, come ritengono i suoi vecchi portavoce liberali, è da

cercare il vero nemico dello spirito>>[pag.105] <<La massa si credeva in possesso

di tante verità, le quali per essa erano chiare per sé (…)Ma una verità si possiede

completamente solo…quando la si segue attraverso le sue dimostrazioni>>[pag.101].

In queste dichiarazioni della critica, riportate fedelmente da Marx, si evince la violenza del

suo passaggio da un atteggiamento illuministico benevolo nei confronti della massa ad uno di

totale distacco – finanche di avversione – per quest’ultima, colpevole di voler resistere

all’opera demiurgica di Bauer grazie alla sua oramai forte coscienza di sé e del suo bisogno

d’emancipazione. Il nuovo comportamento del sempre più solitario e smascherato filosofo

hegeliano a cui sfugge la realtà non fa che porre una nuova opposizione, quella tra “spirito” e

“massa”, opposizione che può adesso assumere un significato ambiguo: quello della Ragione

Universale che regge il mondo e che cerca di affermarsi attraverso la Storia, nonostante

l’ostacolo frapposto dall’impreparazione della Materia; quello della separazione tra una

filosofia che pretende a torto di essere la Ragione ed un movimento proletario che vede la

realizzazione della Ragione solo mediante la prassi. Se le rivoluzioni sin qui sono fallite,

ragiona Marx, non è perché le idee che le hanno sospinte siano scaturite dalla massa, bensì

 perché, postulate da altri per i propri interessi, non hanno saputo interessarla. La Rivoluzionefrancese, dunque, in quanto rivoluzione proletaria è fallita perché pensata da una classe, quella

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 borghese, nel suo esclusivo interesse. La massa, ben lontana dal giudicare con entusiasmo

quell’interesse, dopo un’iniziale partecipazione ispirata dalla parola “libertà”, ha dovuto

necessariamente tornare nei ranghi e sottostare ad un nuovo regime d’oppressione. Le

rivoluzioni, è il parere di Marx, non falliscono per l’incapacità e l’ignoranza della massa, ma

 perché la massa comprende benissimo di non contrarre l’emancipazione cercata dal processo

in corso e già prefigura di dover servire nuovi padroni:

<<Tutti gli scrittori socialisti e comunisti sono partiti dall’osservazione, da un lato,

che anche le azioni splendide e più vantaggiose sembrano rimanere senza splendidi

risultati e sembrano finire in banalità, dall’altro lato, che tutti i progressi dello

 spirito sono stati finora progressi contro la massa dell’umanità, la quale è stata

cacciata in una situazione sempre più disumanata>>[pag.108]

Perché la massa dovrebbe prendere forma nelle mani della critica se questa, insistendo con le

“dimostrazioni” di ciò che già è, non fa altro che accettare come un fatto fisiologico la

disumanizzazione dell’uomo? Il rapporto conflittuale che si è instaurato tra lo “spirito” e “la

massa” non è, quindi, solo determinato dalla frustrazione di un filosofo che non vede

compiersi lo sviluppo della realtà secondo il proprio puro pensiero – se Dio non fosse più in

grado di controllare la storia, se questa le scivolasse tra le dita e non si facesse afferrare e

domare, come la prenderebbe? – ma anche dalla noncuranza della massa per una filosofia di

 per sé stessa alienante e che non si risolve mai a favore dell’azione pratica:

<<  In generale, le idee non possono attuare niente. Per l’attuazione delle idee c’è

bisogno degli uomini, i quali impiegano una forza pratica>> [pag.153].

Prese le distanze dalla massa in quanto negazione dello spirito, la critica cerca di riparare agli

“errori di gioventù” che l’hanno indotta a ritenere possibile una sintesi con la massa, scrivendo

la sua patetica autoapologia:

<<Solo non si era notato il suo sforzo (della critica assoluta) e inoltre si era avuto

uno stadio della critica in cui essa è stata costretta a legarsi sinceramente ai

 presupposti del suo avversario e, per un istante, a considerarli seriamente: in breve

uno stadio in cui la critica non aveva ancora completamente la capacità di toglierealla massa la convinzione di avere una causa ed un interesse in comune con la

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critica>>[pag.133].

La critica ammette un suo errore, ma si giustifica immediatamente sostenendo di essere stata

ancora troppo debole per difendersi dalla convinzione della massa di aver qualcosa in comune

con la critica. Per cui, alla fine, l’errore è stato commesso dalla massa! Se la critica conoscesse

meglio il movimento delle classi inferiori del popolo, saprebbe che la resistenza estrema, di

cui esse hanno fatto esperienza nella vita pratica, le trasforma quotidianamente. Marx conosce

  bene tali movimenti, conosce bene lo sforzo per l’autoliberazione che i proletari stanno

compiendo e, altresì, sa bene quanto moralmente e politicamente temprante sia il lavoro. Il

  proletariato è una forza rivoluzionaria che ha solo bisogno di essere compiutamente

organizzata, non sente il bisogno di benevoli padrini e protettori speculativi, ma di un’azione

storica contro il sistema della proprietà privata.

Conclusioni

Le conclusioni che possiamo trarre si collegano direttamente a quanto da noi già espresso

nell’Introduzione:  La Sacra Famiglia è un’opera squisitamente filosofica che tocca il tema

dell’alienazione e del comunismo solo in termini strumentali di critica alla “critica critica”

 baueriana. Il tema non è trattato marginalmente, ma deve essere dedotto attraverso una buona

lettura. In sintesi, possiamo dire che il “pomo della discordia” tra Marx e Bauer sia

rappresentato da come concepire l’alienazione: un fenomeno di coscienza, culturale, che si

risolve con l’istruzione e le libertà borghesi ovvero un fenomeno reale, materiale che si supera

abbattendo lo stato borghese e i suoi valori con l’azione pratica? Per Bauer un fenomeno di

coscienza si risolve attraverso la formazione di una coscienza migliore; per Marx un

fenomeno pratico si risolve solo con un’azione pratica migliore. La divergenza nella

considerazione del problema è tutta determinata dall’approccio mentale dei due filosofi:

mentre Bauer non smentisce la sua vocazione teologica e non abiura l’hegelismo, continuando

a pensare prima l’astratto e poi il concreto, cioè pensando prima le categorie e poi cercando di

forzarvi dentro la realtà empirica, Marx assume il dato concreto e reale dell’uomo per arrivare

solo alla fine alla razionalità. Marx, comunque, non fu mai completamente immune

dall’hegelismo, come si dimostra col materialismo storico-dialettico. Ciò che si intravede in

quest’opera è il merito di Marx di aver voluto sanare il conflitto tra pensiero ed azione

alimentato dalla critica: in questo senso ci sembra che la riscoperta de  La Sacra Famigliaverso la fine dell’Ottocento appare importantissima per la ricomposizione della storia del

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 pensiero marxiano ed è in quest’ottica, non in quella della polemica anti-baueriana, che essa

va letta. La questione puramente filosofica ha anch’essa una sua importanza, ma, vista la

considerazione che filosofi ed interpreti – non chi scrive, che per la sua ignoranza sarebbe

indegno di comporre tali conclusioni – le hanno riservata, ci sembra di non fare un’offesa alla

filosofia se insistiamo su quel punto.

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 Indice

  Breve premessa pag. 1

  Introduzione

  La sinistra hegeliana e l’alienazione pag. 4 

  La Sacra Famiglia pag.10

Conclusioni pag.23