Mark Alpert - Il Teorema Dell'Apocalisse

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Mark Alpert IL TEOREMA DELL’APOCALISSE Romanzo Traduzione di Roberta Zuppet Titolo originale The Omega Theory ISBN 978-88-429-1958-2 Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Editype s.r.l.

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Mark Alpert

IL TEOREMA DELL’APOCALISSE

Romanzo

Traduzione di Roberta Zuppet Titolo originale The Omega Theory ISBN 978-88-429-1958-2 Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Editype s.r.l.

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Ai miei genitori e a mio fratello, che mi hanno insegnato a sognare

«La scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca.»

Albert Einstein

RUSSIA GEORGIA ARMENIA TURCHIA IRAQ IRAN AZERBAIJAN KAZAKISTAN UZBEKISTAN TURKMENISTAN AFGHANISTAN PAKISTAN ARABIA SAUDITA YEMEN OMAN KUWAIT KYRGYZSTAN TAJIKISTAN INDIA MAR ARABICO MAR CASPIO GOLFO PERSICO BAHREIN QATAR E.A.U. 800 chilometri

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Accadde martedì 7 giugno alle 16.46, mentre Michael Gupta era alla seduta di terapia comportamentale. Qualcuno bussò alla porta ma, quando il dottor Parsons si alzò per andare ad aprire, l’uscio si spalancò di colpo e si udì una rapida esplosione soffocata. Il dottore cadde all’indietro, sbatte´ la testa sul pavimento e rimase immobile, con un foro nero e sanguinante al centro del petto. Erano nell’aula computer dell’Upper Manhattan Autism Center, dove Michael trascorreva tutti i pomeriggi. Aveva diciannove anni e i suoi insegnanti ritenevano che nell’ultimo biennio avesse fatto molti progressi, ma doveva ancora migliorare le proprie capacità relazionali, in modo da non agitarsi quando camminava su un marciapiede affollato e da non mettersi a piagnucolare se qualcuno lo urtava. Così il dottor Parsons aveva provato a usare Virtual Contact, un software in grado di eseguire simulazioni di persone e di luoghi, creando strade e pedoni animati dall’aspetto realistico. Lo scopo era insegnare al ragazzo che i normali incontri sociali non erano pericolosi. Quando avevano sentito i colpi alla porta, il dottore gli stava mostrando come lanciare la simulazione.

delcollo. Michael evitò di guardarlo in faccia: non gli piaceva

Entrarono un uomo e una donna con indosso due enormi tute blu. Lui era alto, coi capelli neri a spazzola e con una lunga cicatrice a forma di mezzaluna su un lato fissare le persone negli occhi e, in ogni caso, il più delle volte non riusciva a decifrarne le espressioni. Anche lei era alta e coi capelli corti, ma Michael aveva capito che era una donna perche´ la tuta lasciava intravedere la forma del seno. Tre dita della mano sinistra erano fasciate, mentre la destra stringeva una pistola.

nei videogiochi. Quella dell Michael se ne intendeva di pistole. Ne aveva viste diverse, e non solo a donna aveva il silenziatore, uno spesso cilindro grigio che, attaccato alla canna, aveva attutito la detonazione. La sconosciuta aveva sparato al dottor Parsons e ora avrebbe sparato anche a lui. Lei si avvicinò. Michael gemette, scivolò giù dalla sedia e si rannicchiò sul linoleum. Chiuse gli occhi e iniziò a calcolare la serie di Fibonacci, come faceva ogni volta che era spaventato. Aveva ereditato straordinarie capacità matematiche – era il pro-pronipote di Albert Einstein, anche se non avrebbe dovuto rivelarlo ad anima viva –, e la serie di Fibonacci era facile da calcolare: ogni elemento era uguale alla somma dei due precedenti. I numeri gli comparvero davanti agli occhi, scorrendo rapidamente da destra a sinistra come parole in sovrimpressione su uno schermo televisivo: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89... La donna fece altri due passi e Michael aprì gli occhi: pur avendo la fronte premuta contro il pavimento, vide l’ombra della sconosciuta che incombeva su di lui. «Va tutto bene, Michael. Non voglio farti del male», mormorò lei. Il ragazzo gemette più forte, cercando di coprire le sue parole.

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«Non avere paura. Partiremo per un viaggio. Una grande avventura.» Nel frattempo, l’uomo si avvicinò con una barella e tirò una leva per abbassarla. Quando

Il ragazzo iniziò a dibattersi. Scalciò, si contorse e si agitò con violenza, ma

la donna lo afferrò per il polso, Michael provò a urlare, ma lei gli tappò la bocca. «Prendi il Fentanyl!» ordinò al compagno. lo legarono comunque alla barella, immobilizzandogli braccia e gambe. Poi gli misero una maschera per l’ossigeno sul viso, che non gli permetteva ne´ di gridare ne´ di respirare. Riusciva solo a sbattere la testa contro il materassino, così forte da far vibrare le sponde. La donna ruotò la valvola di un barattolo

cì più a m non rius a ui entrava nel naso, dolce e amara allo stesso tempo... Le forze l o

d’acciaio collegato al tubo di plastica della maschera. Michael sentì l’aria che gli bbandonarono e l

uovere nemmeno un dito. Era come essere sospeso tra il sonno e la veglia: ci vedeva e ci sentiva, ma tutto appariva sfocato. I due sconosciuti lo spinsero lungo il corridoio, verso l’uscita d’emergenza, quindi superarono la porta e si diressero verso un’ambulanza parcheggiata all’angolo tra la Broadway e la 98th. Michael vide un gruppo di persone sul marciapiede, intente a fissarlo. Era così stordito da non essere nemmeno in grado di sollevare il capo, ma si sforzò di guardare in faccia i curiosi. Cercava David Swift. L’ultima volta che si era cacciato nei guai, due anni prima, David l’aveva salvato. Da allora, Michael viveva nel suo appartamento e divideva la camera con suo figlio Jonah. Ormai erano loro la sua famiglia: David e sua moglie Monique, Jonah e la piccola Lisa. Era sicuro che David sarebbe arrivato da un momento all’altro. Si sbagliava. Sul marciapiede c’erano solo estranei. L’uomo aprì gli sportelli dell’ambulanza e caricò la barella sul veicolo con l’aiuto della donna, che salì a bordo mentre lui prendeva posto sul sedile del guidatore. Poi lei si sedette su uno strapuntino accanto alla barella, con le ginocchia a pochi centimetri dalla testa del ragazzo, e l’ambulanza si mise in moto. Michael fissò un pannello di controllo sul soffitto e iniziò a contare gli interruttori, ma lei si chinò, ostruendogli la visuale, e gli tolse la maschera. «Ecco, così stai più comodo. Non sei ferito, vero?» Lui trasse un profondo respiro, sentendosi subito più lucido. Cercò di voltarle le spalle, ma la donna gli prese il mento e lo costrinse a guardarla. «Mi dispiace averti messo fretta, però non abbiamo molto tempo.» Si chinò ancora di più su di lui. Aveva gli occhi grigi e il naso sottile, mentre le sopracciglia assomigliavano a virgole nere. Gli sorrise. Michael era confuso. Perche´ gli sorrideva? «Mi chiamo Tamara. Sei un bel ragazzo, sai?» Lo lasciò andare e gli accarezzò i capelli. Lui avrebbe voluto urlare, ma aveva un nodo in gola. «Ti porto da fratello Cyrus. Non vede l’ora di conoscerti.» Michael chiuse gli occhi. Riprovò a calcolare la serie di Fibonacci tuttavia, invece dei numeri, vide solo parole che scorrevano velocemente da destra a sinistra. Erano in tedesco: Die allgemeine Relativita¨tstheorie war bisher in erster Linie...

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«Fratello Cyrus ti piacerà. E` un brav’uomo. E ha bisogno del tuo aiuto. È molto importante.» Lui non si mosse. Forse, se avesse continuato a ignorarla, Tamara avrebbe smesso di parlare e se ne sarebbe andata. Lei però gli posò una mano sulla guancia. «Mi stai ascoltando, Michael? Capisci cosa sto dicendo?» Il ragazzo annuì. Le parole in tedesco seguitarono a passargli davanti alle palpebre abbassate. Poi arrivarono le equazioni, una lunga stringa di lettere greche e operazioni matematiche, con simboli a forma di serpente, forcone e croce. Erano il suo segreto, il suo tesoro. Aveva promesso a David Swift che non avrebbe mai rivelato la teoria a nessuno. Aprì gli occhi. «Non ti aiuterò. Hai ucciso il dottor Parsons.» «Mi dispiace. Era inevitabile. Dobbiamo eseguire gli ordini.» Michael rivide il dottore che si afflosciava sul pavimento. David aveva previsto che sarebbe potuta accadere una cosa simile: c’erano persone cattive, aveva detto, che volevano sfruttare la teoria segreta per fabbricare armi. «Che tipo di armi?» aveva chiesto Michael. «Peggiori delle bombe atomiche. Dispositivi che potrebbero uccidere metà della popolazione mondiale in un sol colpo», aveva risposto David. Tamara fece per accarezzargli nuovamente i capelli, ma lui scosse la testa. «Non vi dirò niente! Volete usare la teoria per fabbricare armi!» «Ti riferisci alla teoria unificata dei campi? Alle equazioni che hai imparato a memoria?» Michael strinse le labbra. Non avrebbe aggiunto altro. «Lascia che ti faccia il quadro della situazione: conosciamo già alcune equazioni della teoria unificata perciò, se avessimo voluto usare queste conoscenze per costruire armi, l’avremmo già fatto.» Tamara gli afferrò il mento e lo tenne fermo. «Ascoltami bene: fratello Cyrus è un uomo pacifico, come il profeta Isaia. Hai mai letto il libro di Isaia?» Michael aveva la nausea: Tamara era così vicina che lui sentiva il suo alito sul

Tamara girò la valvola del barattolo d’acciaio. un lungo viaggio.» Gli rimise la maschera.

volto, però non riusciva a voltarsi. «Lasciami andare! Voglio tornare a casa!» «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.» Lei sorrise. «Quel fanciullo sei tu, Michael. Ecco perche´ fratello Cyrus ha bisogno di te. Ci aiuterai a realizzare la profezia.» Lui cominciò a gridare. Non poteva fare altro.

«Ma ora devi riposare. Ci aspetta

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Alle 16.52, meno di dieci minuti prima che David Swift inaugurasse la conferenza di Fisici per la Pace, la Repubblica Islamica dell’Iran annunciò di aver testato la bomba atomica. Uno degli organizzatori della conferenza ricevette un messaggio sul suo iPhone, e la notizia si diffuse a macchia d’olio tra le centinaia di scienziati e

Pupin Hall, la facoltà di Fisica della Columbia University . Anche David fissgiornalisti riuniti per l’evento, che si radunarono davanti al televisore nell’atrio del

i nstancabilmente i pochi dettagli disponibili. Dopo qualche istante, un video

ò lo schermo: davanti alla Casa Bianca, gli austeri reporter della CNN ripetevano granuloso mostrò i festeggiamenti al parlamento iraniano, dove uomini con barbe e turbanti neri si abbracciavano soddisfatti; quindi comparve una cartina dell’Iran, con una X rossa sul Dasht-e Kavir, nel punto in cui aveva avuto luogo la detonazione sotterranea. «I funzionari del dipartimento di Stato non si sono ancora pronunciati tuttavia, secondo gli analisti dell’intelligence, il test nucleare è andato a buon fine», affermò il giornalista. «Stimano che la forza dell’esplosione sia compresa tra dieci e quindici chilotoni, più o meno come quella della bomba che ha distrutto Hiroshima.» Non si poteva dire che fosse una sorpresa. Erano dieci anni che gli esperti ipotizzavano che prima o poi l’Iran avrebbe prodotto abbastanza uranio altamente arricchito per costruire l’atomica, ma vedere avverarsi tale previsione fu comunque uno shock. David si asciugò il sudore dalla fronte. Si sentiva svuotato e smarrito, e aveva la nausea. «Il presidente si è riunito coi suoi consiglieri nello Studio Ovale. Fonti della Casa Bianca dicono che terrà un discorso alla nazione stasera alle nove», annunciò il

David scosse il capo. Negli ultim

David aveva sospettato che nessuno lo prendesse sul

principale raccoglitore di fondi, lui era comparso diverse volte sulla CNN:

i due anni reporter.

impedire che accadesse una cosa simile. Ufficialmente aveva lavorato sodo proprio per

era ancora professore di Storia della scienza alla Columbia, ma ormai si dedicava quasi solo a Fisici per la Pace, un’organizzazione che, grazie ai suoi contatti nella comunità scientifica, contava oltre duemila membri in tutto il mondo. Essendone l’amministratore, il portavoce e il un irriducibile attivista di quarantasei anni, con indosso una logora giacca di tweed, che predicava la necessità della cooperazione internazionale. Sin dall’inizio, tuttavia, serio: per i network e i giornali, lui era solo l’ennesimo tipo stravagante, un professore eccentrico dai capelli arruffati e dalle idee strampalate. Utile per un’intervista di tanto in tanto, ma fondamentalmente irrilevante. «In una breve dichiarazione, il segretario della Difesa ha riferito che il Pentagono sta vagliando le opzioni a sua disposizione. Un gruppo di portaerei guidato dalla nave da guerra Theodore Roosevelt ha invertito la rotta e si sta dirigendo verso il Golfo

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Persico.» David rimase come paralizzato, ascoltando i reporter che ripetevano affannosamente le stesse frasi. Alle cinque in punto avrebbe dovuto pronunciare il discorso inaugurale della conferenza, ma non si mosse. È inutile, pensò. Come avrebbe potuto parlare della pace quando il mondo si preparava alla guerra? Avrebbe voluto annullare l’impegno e tornare a casa, magari portare Lisa a fare una passeggiata a Central Park, oppure giocare a baseball con Jonah e Michael. Poi udì qualcuno che si schiariva la voce. Quando si voltò, vide sua moglie Monique, che inclinò la testa e gli sorrise, inarcando leggermente un sopracciglio. Aveva il volto a forma di cuore, di un bel marrone scuro. «Nonè ora del suo discorso, professore?» David era felice di vederla. Benche´ pure Monique fosse membro di Fisici per la Pace – era uno degli scienziati più stimati

super computer d

del Paese –, quel pomeriggio non avrebbe potuto presenziare, perche´ doveva lavorare nel laboratorio informatico. Lei e un altro fisico della Columbia stavano eseguendo un programma per la simulazione delle collisioni di particelle sul

ell’università che, dato il numero elevato di richieste, si poteva usare solo a orari stabiliti. «Cos’è successo? Il computer è andato in tilt?» domandò David. Lei scosse la testa. Indossava la solita tenuta da lavoro – jeans sbiaditi, vecchie scarpe da ginnastica e una T-shirt di Bob Marley –, ma era più bella che mai, coi capelli che le cadevano sulla schiena legati in splendide treccine. «No, solo un ritardo. La simulazione è slittata di venti minuti. Giusto il tempo di fare un salto e augurarti buona fortuna.» Lui sorrise. «Ne avrò bisogno.» Indicò il televisore. «Hai visto il telegiornale? Gli iraniani hanno testato l’atomica.» Monique si fece seria. «Dimentica il telegiornale, David. Devi...» «Come faccio a dimenticarlo? È l’unica cosa che importi a questa gente.» «No, ti sbagli. Queste persone sono venute da tutto il mondo per ascoltarti. Vogliono sentir parlare di pace, non di guerra.» «Mi torna in mente un vecchio adagio: ’Gli attivisti per la pace non possono mettere fine alla guerra, ma la guerra può mettere fine all’attivismo per la pace’.» «Non ci credo. Nemmeno per un secondo.» Monique corrugò la fronte.

n el violento quartiere fosse stataa gravi difficoltà economiche, era

di Anacostia, a Washington D.C. Benche´ David conosceva quell’espressione. Sua moglie era una donna combattiva, nata

abbandonata e avesse dovuto far fronte uscita dal ghetto e si era conquistata un posto nell’Ivy League, diventando docente in una delle migliori facoltà di Fisica del pianeta. Arrendersi non era nella sua natura, non aveva neppure preso in considerazione l’idea. David la baciò sulla fronte. «D’accordo. Comincio a chiamare il pubblico. Grazie per l’incoraggiamento.» «Figurati, tesoro.» Monique gli infilò la mano sotto la giacca e gli diede un pizzicotto. «Torno a casa non appena finisco la simulazione, okay? Ti darò una piccola ricompensa per il tuo duro lavoro.» Gli fece l’occhiolino e si avviò verso l’uscita. David la osservò allontanarsi, con lo sguardo puntato sui jeans. Quindi fece segno a uno dei suoi dottorandi, che cominciò a guidare gli ospiti verso le scale. Nel giro di dieci minuti erano tornati tutti nella sala conferenze, occupando file di sedie che avrebbero avuto bisogno di una bella mano di vernice; più che per le apparenze, David aveva scelto quella stanza per il suo significato simbolico: sullo stesso piano, infatti, c’era il laboratorio in cui era iniziata l’era atomica. Settantadue anni prima,

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una squadra di scienziati capeggiata da Enrico Fermi aveva usato il ciclotrone della Columbia per scindere gli atomi di uranio. Sebbene poi si fossero trasferiti in una struttura più grande a Los Alamos, nel Nuovo Messico, la ricerca era stata soprannominata «Progetto Manhattan», dal luogo in cui aveva avuto origine. Ormai il ciclotrone non esisteva più – era stato smantellato, portato via e rottamato –, ma David ne avvertiva ancora la presenza. Non avrebbe potuto esserci posto più adatto. Mentre raggiungeva il leggio, notò che tutte le sedie erano occupate e alcune persone si erano accampate nei corridoi e lungo la parete in fondo. Riconobbe molti fisici e diversi giornalisti. D’un tratto la conferenza era diventata molto interessante, e i reporter nelle prime due file lo osservavano attentamente. Lui posò gli appunti sul leggio e regolò il microfono. «Benvenuti alla prima conferenza annuale di Fisici per la Pace. Devo ammettere che sono un po’ stupito di tutta questa affluenza: so per esperienza personale che non è facile riunire così tanti fisici sotto lo stesso tetto, soprattutto quando non si offrono birra e pizza gratis.» Una o due risate, poi silenzio. Il pubblico era troppo angosciato per reagire alle battute di spirito. «Come molti di voi sapranno, non sono un fisico. Sono un professore di Storia della scienza, il che fa di me un’eccezione in questa sala. Le mie ricerche si sono concentrate sui fondatori della fisica moderna, Albert Einstein, Niels Bohr, Erwin Schro¨diger eccetera. Ho studiato come le loro scoperte hanno cambiato il mondo, nel bene e nel male.» David fece una pausa. Notò il dottor Martin Chang e il dottor Leon Hirsch, entrambi premi Nobel, seduti vicini al centro della terza fila. La loro presenza gli metteva un po’ di soggezione. «Negli ultimi cinquant’anni, i progressi della fisica hanno dato il via a una vera e propria rivoluzione tecnologica, hanno condotto all’invenzione dei laser, dei computer, delle macchine per la risonanza magnetica e

degli iPod. Ma, allo stesso tempo, i capi dell’esercito hanno usato questi progressi per sviluppare armi sempre più sofisticate. Missili balistici, satellite killer, aerei spia Predator, razzi Hellfire e, naturalmente, le armi nucleari, che purtroppo si sono appena diffuse in un altro Paese. L’umanità sembra decisa a inventare sempre nuovi modi per autodistruggersi, e molti scienziati sono terrorizzati all’idea che il loro lavoro venga utilizzato a tale scopo. È questa la ragione per cui abbiamo fondato Fisici per la Pace.» Prese il bicchiere d’acqua sul leggio. Gli ascoltatori non fiatarono, aspettando che continuasse. Ovviamente David non poteva scendere nei dettagli e spiegare loro il motivo per cui si era dedicato a quella causa, perche´ avrebbe dovuto parlare della teoria unificata dei campi e della disavventura che per poco non gli era costata la vita. Sapeva che, se voleva promuovere la pace nel mondo, rivelare l’esistenza della teoria era l’ultima cosa da fare. Bevve un sorso d’acqua e posò il bicchiere. «Il lavoro di Fisici per la Pace si basa sul presupposto che le persone siano più simili di quanto non c’immaginiamo: tutti noi vogliamo avere una vita lunga e serena e assicurare la stessa cosa ai nostri figli. È un desiderio universale, forte tanto per gli iraniani, i russi

continuano a dire che siamo diversi, che siam o in conflitto. Ile i palestinesi quanto per gli americani, gli italiani e gli israeliani. Eppure i governi governo americano spinge i suoi cittadini a temere gli iraniani, e il governo iraniano insegna alla sua gente a odiare gli americani.» Scosse la testa. «Be’, io non ho creduto alle

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parole del mio governo, perciò ho deciso di parlare con persone di altri Paesi e vedere coi miei occhi come stessero le cose. E ho scoperto che molti miei colleghi la pensavano esattamente come me. Così abbiamo creato una rete internazionale di scienziati, aprendo nuove linee di comunicazione che aggirassero i governi. Ormai abbiamo membri in più di cinquanta Paesi, compresi il Pakistan, la Siria e, sì, anche l’Iran. Nonostante le deludenti notizie di oggi, credo fermamente che i nostri sforzi siano più importanti che mai.» Scrutò i presenti, cercando di valutarne le reazioni. I fisici erano ossi duri, famigerati per il loro scetticismo e abituati a trovare i punti deboli di ogni argomentazione, ma David percepì soprattutto la loro impazienza. Non erano interessati alla prospettiva storica, volevano saperne di più sulla crisi in corso. Così decise di cambiare strategia. Sventolò in aria gli appunti. «Questo è il discorso che avrei voluto fare stasera. Purtroppo gli eventi iraniani l’hanno reso obsoleto. Perciò farò qualcosa di diverso: invece di parlare, ascolterò. Una cosa che ho imparato nella mia carriera di attivista per la pace è che bisognerebbe ascoltare di più e parlare di meno.» Appallottolò i fogli e li gettò via. Quindi appoggiò i gomiti al leggio. «Abbiamo sentito tutti la notizia del test nucleare iraniano. Vorrei sapere cosa ne pensate. Come dovremmo reagire a questo avvenimento? Quali effetti avrà sulla nostra missione?» Allungò le mani verso gli ascoltatori. «Prego, a voi la parola. Voglio sentire il maggior numero possibile di opinioni.» Si levò un mormorio, ma nessuno osò esprimersi ad alta voce. I fisici si agitarono sulle sedie, i premi Nobel confabularono tra loro e il dottor Hirsch parve sul punto di alzare la mano. Ma poi qualcuno parlò dal fondo della sala. «Sarebbe bene che rivedeste la vostra missione. Quanto è accaduto oggi dimostra che la vostra organizzazione è un fiasco.» David conosceva quella voce. Sbirciò oltre l’ultima fila e scorse Jacob Steele, con

vedevano da cinque anni, da quando Jacobindosso un classico completo tre pezzi che gli stava forse un po’ troppo largo. Non si aveva lasciato la Columbia per dirigere l’Advanced Quantum Institute all’università del Maryland, e David constatò che era molto invecchiato. Erano coetanei, eppure l’altro dimostrava almeno quindici anni in più.

«La vostra rete internazionale non ha impedito agli iraniani di costruire l’atomica. Si direbbe che abbiano ignorato i vostri premurosi tentativi di sensibilizzazione.» Jacob avanzò lungo il corridoio centrale, appoggiandosi su un bastone. David notò il corpo esile, gli occhi infossati, le guance scavate e le macchie marroni sullatesta quasi calva. Jacob aveva la leucemia; gliel’avevano diagnosticata poco prima che partisse per il Maryland. A rendere tutto ancora più triste era il fatto che, vent’anni prima, quando entrambi frequentavano la facoltà di Fisica alla Columbia, Jacob era stato un atleta fenomenale. Aveva stracciato David ogni volta che avevano giocato a basket, anche se non era un amante dello sport. La sua unica passione, infatti, era la fisica. «Non fraintendermi, David. Ammiro i tuoi sforzi, ma gli ideali non servono a granche´ quando si ha a che fare coi terroristi. Mentre tu facevi dichiarazioni di pace e inneggiavi alla cooperazione, i farabutti del mondo affilavano le armi!» David trasse un profondo respiro. La loro amicizia era morta ancora prima che Jacob lasciasse la Columbia. Si erano allontanati dopo che David era stato buttato fuori

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dalla facoltà di Fisica e aveva deciso d’iscriversi a Storia, un tempo però erano stati molto affiatati, e ciò rendeva difficile mantenere il distacco professionale. «Oggi abbiamo subito una sconfitta, non c’è dubbio, ma la pace è un progetto a lungo termine. In questo momento stiamo provando a stabilire legami e a creare relazioni. E speriamo che, nel tempo, i nostri membri diventino difensori della pace in tutti i Paesi», replicò. Jacob si fermò a un paio di metri dal leggio. Poi, nonostante l’espressione sofferente, scoppiò in una risata di scherno. «Toccante, David, davvero. Purtroppo non possiamo starcene con le mani in mano aspettando che la tua utopia si realizzi. Ora che gli iraniani hanno costruito l’atomica, cercheranno di rimpicciolire la testata sino a farla entrare in un missile balistico o nella valigetta di un jihadi. Quando avrai finito di mettere insieme la tua rete di scienziati illuminati, metà Medio Oriente sarà un deserto radioattivo. E forse anche parte degli Stati Uniti.» Scese il silenzio. David intuìche il pubblico non sapeva cosa pensare di Jacob Steele. Era un tipo solitario, che presenziava raramente alle conferenze universitarie e che non collaborava mai con altri colleghi. Gli articoli che aveva pubblicato – soprattutto nel campo del calcolo quantistico e della teoria dell’informazione – erano brillanti ma poco conosciuti. E il suo aspetto malato era la ciliegina sulla torta. David provò un moto di compassione; pur non condividendo le sue idee politiche, non voleva litigare con lui. «Ebbene, che cosa dovremmo fare allora? Abbandonare i tentativi di comunicazione? Quale altra soluzione proponi?» Jacob si girò verso gli ascoltatori. «Dobbiamo eliminare la minaccia! Attaccare immediatamente l’impianto di Natanz, dove gli iraniani producono l’uranio arricchito, e distruggere tutti i laboratori nucleari e le installazioni missilistiche, decimare la loro aeronautica e decapitare la loro leadership militare. È l’unica soluzione sensata. Avremmo dovuto farlo anni fa.» Aveva passato il segno. Dozzine di fisici saltarono su e si misero a urlare; per un gruppo di scienziati amanti della pace, le loro reazioni furono piuttosto violente. I premi Nobel erano i più indignati. «È una follia!» gridò il dottor Hirsch, rosso in volto. «Il mondo musulmano ci si rivolterebbe contro! Per non parlare dei russi e dei cinesi! Scoppierebbe la terza guerra mondiale!» Seguì un’altra raffica di proteste ma, sorprendentemente, Jacob non disse nulla in propria difesa. Salì verso il leggio e sussurrò: «Dobbiamo parlare. Subito». David era sconcertato. «Come sarebbe a dire? Che cosa credi...» «Mi dispiace di aver inscenato questa piccola recita davanti ai tuoi colleghi pacifisti, ma non avevo scelta. Sono arrivato a discorso già iniziato e non potevo aspettare che finissi.» «Dottor Swift! Dottor Swift!» Hirsch, in mezzo al corridoio centrale, agitava le braccia per attirarel’attenzione. «Voglio rispondere a questo pazzo!» David cercò di rabbonirlo. «Aspetti! Tutti avranno la possibilità di...» «E voglio anche fare un annuncio!» Hirsch sollevò il suo iPhone. «Ho appena saputo che la Union of Concerned Scientists ha fatto una dichiarazione sul test nucleare iraniano. Posso usare il microfono per leggerla davanti a tutti?» David sospirò. Era impossibile tenere a bada i fisici: troppa entropia intellettuale per una sola sala.

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Frattanto Jacob insistette: «Lascia che quel vecchio idiota legga la sua dichiarazione. Possiamo parlare qui fuori». «Okay, faccia pure», disse David a Hirsch. «Io torno subito.» Quindi seguì Jacob nel corridoio mal illuminato che separava la sala conferenze dal laboratorio dove un tempo si trovava il ciclotrone. Jacob si appoggiò al bastone, respirando affannosamente. «Mi sembra strano che tu sia diventato pacifista, David. Di certo non lo eri all’università. Anzi, ricordo diverse occasioni in cui ti sei dimostrato piuttosto ’bellicoso’.» Jacob aveva sempre amato le burle, e David si domandò se lui non fosse intervenuto alla conferenza tanto per divertirsi. Ripensandoci, però, era improbabile: Jacob faceva scherzi solo agli amici, e loro due non lo erano più da anni. «È di questo che volevi parlarmi? È per questo che mi hai interrotto?» «Ho in mente in particolare una sera al West End Bar, quando hai litigato con un tizio della facoltà di Matematica. Abbiamo dovuto immobilizzarti per impedirti di ucciderlo.» David aveva dimenticato quell’episodio: all’epoca aveva gravi problemi di alcolismo, e i suoi ricordi erano frammentari. Aveva toccato il fondo dopo che la Columbia l’aveva cacciato dalla facoltà di Fisica per scarso rendimento e, prima d’iscriversi a Storia, si era sottoposto per tre interminabili mesi a un programma di disintossicazione. Sebbene non rammentasse i dettagli del suo lungo periodo di gozzoviglie, il senso di vergogna e fallimento non l’aveva mai abbandonato. Aveva fatto cose ben peggiori che prendere a pugni un matematico. «In caso tu non te ne sia accorto, Jacob, sono nel bel mezzo di una conferenza. Non possiamo rivangare i bei tempi andati quando avrò finito?» «No, non posso aspettare. Hai ascoltato attentamente i resoconti del test iraniano?» «Certo, ho...» «Allora avrai sentito cos’ha detto il Pentagono sull’orario dell’esplosione. Si è verificata oggi all’una.» «Sì,sì, lo so. Probabilmente l’hanno rilevata coi sismografi. Un’esplosione nucleare produce una chiara attività sismica, anche se molto diversa da quella di un terremoto...» «Be’, anch’io ho rilevato l’esplosione, all’una in punto. Ma non coi sismografi. Ecco perche´ sono qui, David: dopo aver visto i dati del Gruppo Caduceo, ho preso il primo volo per New York. Non è un argomento di cui si possa discutere al telefono...» «Che diavolo è il Gruppo Caduceo?» «Devo parlare

anche con Monique Reynolds. Siete coinvolti entrambi.» «Ehi, aspetta un secondo...» «Come ti ho detto, non posso aspettare. Dov’è la dottoressa Reynolds? Saprai pure dove si trova tua moglie, no?» tuonò Jacob. «Sì,è nel laboratorio informatico, impegnata in una simulazione.» «Chiamala. Dille di mollare tutto e di venire qui immediatamente.» «Non capisco. Perche´ hai bisogno di noi?» «Lo sai benissimo. Tu e la dottoressa Reynolds avete informazioni che nessun altro possiede.» David provò una stretta allo stomaco. «Ascolta, che cosa stai cercando di...» «Non puoi tenere il segreto per sempre, David. La comunità fisica è come una piccola città, i pettegolezzi sono all’ordine del giorno. Soprattutto quelli sull’Einheitliche Feldtheorie.» David si sentì raggelare. All’inizio si chiese se avesse capito male, ma quelle parole erano inequivocabili. Einheitliche Feldtheorie, ossia «teoria unificata dei campi». Jacob si riferiva all’ultima scoperta di Albert Einstein, l’elegante ed esauriente teoria del tutto che il grande fisico aveva formulato verso la fine della sua vita, ma che non aveva mai rivelato al mondo, perche´ si era reso conto di quanto fosse pericolosa. David e Monique l’avevano riportata alla luce due anni

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percepito l’interfer

Non aveva la minima idea di cosa

Inutile dire che non è successo durante nessun’altra esplosi

«Non so d i cosa tu stia parlando.»

addietro e poi, per il bene dell’umanità, l’avevano sepolta nuovamente.* In qualche modo, nonostante tutte le loro precauzioni, la voce era giunta alle orecchie di Jacob.

« f Perfavore, on are il i to onto con me. Specialmente in un momento come questo. n f n t

enza e nessun laboratorio l’ha rilevata tranne il mio. Ma un’interruzione più marcata potrebbe scatenare una catastrofe, potrebbe far crollare l’intero sistema. Qualcuno sta deliberatamente manomettendo lo

ùstato molto pi di un test nucleare: l ruppo i G

C iò che è accaduto oggi i a n Ir

n è

C h aduceo a rilevato un’interruzione nello spazio-tempo, originatasi nel Dasht-e K avir e propagatasi alla velocità della luce.Inparolepovere, si è trattato di una l n acerazione ella struttura della realtà: ha interferito con la dell’universo, separando le dimensioni dello spazio e del tempo per un brevissimo istante e poi ricongiungendole.

continuità

* Vedi Mark Alpert, L’ultima equazione, Casa Editrice Nord, Milano, 2009. (N.d.T.) one nucleare. Anzi, non è mai successo in nessun punto dell’universo, non da quando il Big Bang è cominciato quattordici miliardi di anni fa.» David aveva un sapore amaro in bocca. stesse parlando Jacob, ma capiva che era preoccupato. E Jacob non era il tipo da angosciarsi per un nonnulla. «Aspetta, rallenta. Se oggi pomeriggio c’è stata una lacerazione nella struttura dell’universo, perche´ io non me ne sono accorto?» «Per fortuna le anomalie sono state lievissime e sono durate meno di un trilionesimo di secondo, perciò nessuno ha

spazio-tempo. Dobbiamo unire le forze, se vogliamo avere una speranza di bloccare il processo.» David aveva le vertigini: era il momento che temeva da due anni. L’Einheitliche Feldtheorie rivelava la natura fondamentale della realtà, dimostrando che tutte le particelle e le forze dell’universo avevano origine dalle complesse pieghe dello spazio-tempo. Ma la teoria dimostrava pure che lo spazio-tempo si poteva manipolare per liberare le immense energie contenute in quelle pieghe. Se qualcuno era riuscito a scoprire le equazioni... «D’accordo, hai la mia completa attenzione. Voglio sapere tutto di questo Gruppo Caduceo. Che cos’hai...» Risuonò un tonfo. Le porte della sala si spalancarono. David si aspettava di vedere il dottor Hirsch che annunciava lo scoppio di una guerra all’interno di Fisici per la Pace, invece vide una donna robusta, sulla sessantina, con indosso una giacca rossa, accompagnata da un uomo in completo grigio e occhiali da sole. Lucille Parker, agente speciale dell’FBI, era invecchiata dall’ultima volta che David l’aveva vista, aveva qualche ruga in più sulla fronte e intorno agli occhi, tuttavia si muoveva ancora come un marine pronto ad andare in battaglia, camminando a passo deciso col suo caschetto di capelli biondo platino. «Swift! Ci segua», ordinò. Lucille e il suo collega lo presero per i gomiti. David cercò di divincolarsi, ma invano. «Che cosa state facendo? Che cosa succede?» protestò. Lei aggrottò le sopracciglia. «Cattive notizie. Su Michael.» Lukas si mescolò tra la folla rimasta in piedi in fondo alla sala. Per l’occasione aveva acquistato un completo, un gessato blu da quattro soldi, e aveva nascosto sotto la giacca la fondina della sua pistola Heckler & Koch. L’incarico era abbastanza semplice – nell’edificio non c’erano ne´ guardie ne´ metal detector –, l’unico problema era il tempismo: doveva

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portare a termine la missione più o meno nello stesso momento in cui le altre squadre avessero completato le loro, ma non poteva colpire il bersaglio davanti a tutti quegli scienziati. Così si mise in attesa. Per ingannare il tempo, recitò il Padre nostro in latino: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum... Per fortuna, di lì a qualche minuto il bersaglio lasciò la sala. Lukas sgusciò fuori da un’altra uscita e si piazzò vicino alle scale, appiattendosi contro la parete. Era una situazione ideale: il corridoio era buio e c’era un solo testimone da eliminare. Lui s’infilò la mano sotto la giaccia, estrasse la pistola e inserì il silenziatore. Ma, mentre prendeva la mira, le porte si aprirono e comparvero altre due persone: un agente dell’FBI e una sorta di supervisore, un donnone orribile. Lukas indietreggiò, rifugiandosi in una nicchia. Che iella, pensò. Avrebbe preferito evitare una sparatoria, ma era un veterano della Delta Force – l’unità antiterrorismo dell’esercito statunitense –, perciò era esperto di combattimenti. In vent’anni aveva ucciso dozzine di bersagli in Somalia, Bosnia, Iraq e Afghanistan, e non aveva perso le sue capacità da quando, tre anni prima, aveva ricevuto la chiamata del Signore. Gli agenti dell’FBI gli voltavano le spalle, dunque avrebbe potuto liquidarli prima che estraessero le pistole. Puntò l’Heckler & Koch alla testa della donna. «Elimina sempre il comandante per primo», gli avevano insegnato. Poi, però, la fortuna volse ancora a suo favore. I federali si allontanarono col testimone, un professore snello, dai capelli scuri, con pantaloni cachi e una giacca di tweed, lasciando solo il bersaglio. Lukas aspettò che i loro passi si allontanassero. Quindi mirò all’uomo calvo col bastone.

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3

Michael aveva ancora le braccia e le gambe legate alla barella, ma riuscì a girare la testa verso destra e a guardare le nuvole dal finestrino oblungo dell’aeroplano. Non Michael aveva ancora le braccia e le gambe legate alla barella, ma riuscì a girare la testa verso destra e a guardare le nuvole dal finestrino oblungo dell’aeroplano. Non aveva mai viaggiato in aereo, e i primi minuti erano stati spaventosi: il pavimento aveva preso a vibrare all’improvviso e un boato assordante aveva riempito aveva mai viaggiato in aereo, e i primi minuti erano stati spaventosi: il pavimento aveva preso a vibrare all’improvviso e un boato assordante aveva riempito

labbra umide e i denti scintillanti.

soffitto, e s’infilò ello spazio accanto alla barella. Michael si v n T-shirt marrone. Percorse il corridoi

s’inclinò ancora, questa volta dalla parte opposta. In preda al panico, l ui r

cupole losplendida, e splendida, e

inestrino e si concentrò inestrino e si concentrò sulle nuvole, che scivolavano vi in grandi in grandi f f a

d deogiochi, Eighth Air Force, che simulava la cabina di uei suoi videogiochi, Eighth Air Force, che simulava la cabina di

l c l c e proprie urla. Aveva hiuso gli occhi e, quando finalmente li aveva riaperti,e proprie urla. Aveva hiuso gli occhi e, quando finalmente li aveva riaperti,spaccandogli i timpani. Era così forte che il r vspaccandogli i timpani. Era così forte che il ragazzo non udil’abitacolo; poi la barella si era inclinata e il rombo gli era penetrato nel cranio, l’abitacolo; poi la barella si era inclinata e il rombo gli era penetrato nel cranio,

a neppure va neppure

o a testa chio a testa chi

b earella si era addrizzata r il baccano si era ridotto a un rimbombo regolare. b e il baccano si era ridotto a un rimbombo regolare. la

Michael alzò la testa e lanciò un’occhiata alle persone sedute nella cabina di pilotaggio: l’uomo al posto del copilota e Tamara a quello del pilota. Ripensò a uno Michael alzò la testa e lanciò un’occhiata alle persone sedute nella cabina di pilotaggio: l’uomo al posto del copilota e Tamara a quello del pilota. Ripensò a uno

n B-17 impegnato a sorvolare la Germania durante la seconda guerra mondiale. Nel videogame, d un B-17 impegnato a sorvolare la Germania durante la seconda guerra mondiale. Nel videogame, tuttavia, il pilota e il copilota erano due uomini e non lasciavano mai l’aereo per tuttavia, il pilota e il copilota erano due uomini e non lasciavano mai l’aereo per rapire o uccidere la gente. Confuso, Michael si voltò nuovamente verso rapire o uccidere la gente. Confuso, Michael si voltò nuovamente verso i i l

b ll’arancione del tramonto. Era una vista ianche screziate all’arancione del tramonto. Era una vista aiutò a calmarsi. Michael decise di memorizzare la forma delle nuvole, soffermandosi su ogni cresta, gobba o voluta. aiutò a calmarsi. Michael decise di memorizzare la forma delle nuvole, soffermandosi su ogni cresta, gobba o voluta.

b d

Osservò il cielo per circa un’ora. Quindi il fragore dei motori si placò e la barella Osservò il cielo per circa un’ora. Quindi il fragore dei motori si placò e la barella ichiuse

gli occhi, con l’impressione di star precipitando in una profonda voragine.Vide centinaia di stelle rosse che si spostavano insieme da destra a sinistra. Poi, per la seconda volta quel giorno, visualizzò l’Einheitliche Feldtheorie, scritta dal suo

ui richiuse gli occhi, con l’impressione di star precipitando in una profonda voragine.Vide centinaia di stelle rosse che si spostavano insieme da destra a sinistra. Poi, per la seconda volta quel giorno, visualizzò l’Einheitliche Feldtheorie, scritta dal suo trisavolo Albert Einstein. trisavolo Albert Einstein. Michael aveva imparato a memoria le equazioni quando aveva tredici anni e non le aveva mai dimenticate. I loro simboli bizzarri brillavano nell’oscurità dietro le sue palpebre.

Michael aveva imparato a memoria le equazioni quando aveva tredici anni e non le aveva mai dimenticate. I loro simboli bizzarri brillavano nell’oscurità dietro le sue palpebre. Dopo un altro quarto d’ora, sentì un sobbalzo e aprì gli occhi. Fuori del finestrino vide un campo piatto e deserto, punteggiato di luci rosse e bianche. L’aereo sfrecciò Dopo un altro quarto d’ora, sentì un sobbalzo e aprì gli occhi. Fuori del finestrino vide un campo piatto e deserto, punteggiato di luci rosse e bianche. L’aereo sfrecciò su una pista d’atterraggio, sollevando gli alettoni come i B-17 di Eighth Air Force. Il cielo era buio, quasi nero. Mentre rallentavano, Michael scorse un edificio in fondo al su una pista d’atterraggio, sollevando gli alettoni come i B-17 di Eighth Air Force. Il cielo era buio, quasi nero. Mentre rallentavano, Michael scorse un edificio in fondo al campo, un hangar dal tetto curvo e dalle porte gigantesche. Ma non c’erano altre costruzioni ne´ altri aeroplani. Alla fine della pista svoltarono e si fermarono. I motori campo, un hangar dal tetto curvo e dalle porte gigantesche. Ma non c’erano altre costruzioni ne´ altri aeroplani. Alla fine della pista svoltarono e si fermarono. I motori tacquero e, non appena le luci si spensero, Michael non riuscì più a distinguere niente. tacquero e, non appena le luci si spensero, Michael non riuscì più a distinguere niente. Tamara si alzò. Aveva sostituito la tuta blu con un paio di pantaloni mimetici e una Tamara si alzò. Aveva sostituito la tuta blu con un paio di pantaloni mimetici e una

na, per non sbatterla contro il na, per non sbatterla contro il oltò dall’altra

parte, ma lei lo prese per il mento e gli girò la testa, chinandosi su di lui. Aveva le voltò dall’altra parte, ma lei lo prese per il mento e gli girò la testa, chinandosi su di lui. Aveva le

«Come stai, Michael? Tutto bene?» Lui roteò gli occhi a destra e a «Come stai, Michael? Tutto bene?» Lui roteò gli occhi a destra e a

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sinistra, cercando disperatamente di guardare oltre Tamara. Intravide il portello e immaginò David Swift che faceva irruzione nell’aereo. Dov’era David? Perche´ non era là? «Sei scomodo? Mi dispiace. Vorrei farti sgranchire le gambe, ma non posso.» Si mise la mano in tasca. «Hai fame? Ecco, ho qualcosa per te. L’ho comprata questa mattina.» Tirò fuori una barretta al cioccolato Milky Way. «Te la scarto. Te la tengo davanti alla bocca e tu le dai un morso.» Lui scosse la testa. Solitamente il Milky Way gli piaceva, solo che quello era storto e aveva l’involucro sgualcito. Non l’avrebbe mangiato nemmeno se gliel’avesse offerto David. Tamara fece spallucce e mise via lo snack. «Faremo solo una breve sosta. Il viaggio è ancora lungo. Angel farà rifornimento di carburante e di viveri.» Lanciò un’occhiata alla cabina di pilotaggio, dove il suo compagno era intento a premere pulsanti e a girare interruttori. Michael tirò un sospiro di sollievo. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e ripiombare nell’oscurità, ma Tamara era troppo vicina e temeva che lo mordesse.

apposta per conoscerti. Sarà quida un momento all’altro.» Gli traicapelli.

«Mentre aspettiamo, riceveremo la visita di fratello Cyrus. Pensa, Michael, viene passò le dita

«Per favore, comportati bene in sua presenza. Non parlare a meno che non sia lui a interpellarti. È il nostro leader e merita rispetto.» Tamara sorrise e gli accarezzò la guancia. «Aiuterai fratello Cyrus, così lui aiuterà te. Niente più dolore, niente più sofferenza.» Gli fece scivolare lentamente l’indice sulla fronte. «Solo pace. Pace eterna.» Michael avrebbe voluto urlare, ma l’uomo annunciò: «Arrivano!» Tamara corse al portello, lo aprì con una mano e tirò fuori la pistola con l’altra. Quindi rimase sulla soglia, in attesa, con l’arma puntata verso l’esterno, scrutando nell’oscurità. Un’auto si fermò con uno stridere di freni. Poi si udì uno scalpiccio. Infine Tamara indietreggiò e comparve un uomo senza volto. Indossava pantaloni e giacca neri e aveva la testa avvolta in una pesante sciarpa dello stesso colore, che gli copriva tutto il viso a eccezione degli occhi. Michael lo fissò, pietrificato: era come se a bordo fosse salito il buio in persona. Il nuovo

Tamara lo seguì. «Questo è fratello Cyrus. Saluta, Michael!» La cosa

arrivato non era molto alto – anzi, era più basso di Tamara –, ma aveva il torace largo e le spalle robuste, e l’abitacolo angusto lo faceva sembrare enorme. Gli occhi gli brillarono mentre andava verso la barella. strana era che il ragazzo non aveva paura. È un gioco, si ripete´. Immaginò di trovarsi in un videogioco. David l’aveva convinto a rinunciare ai più violenti – Warfighter, Desert Commando, America’s Army –, ma lui li ricordava chiaramente. In quei videogame, i soldati nemici assomigliavano a fratello Cyrus: portavano uniformi e caschi neri e avevano il volto coperto, cosicche´ il giocatore non si facesse scrupolo ad ammazzarli. Se questo è un gioco, dev’esserci una strategia per vincere,pensò Michael. Non aveva una pistola, purtroppo, e il suo avatar era immobilizzato. Ma lui non era completamente indifeso. Evitò di guardare l’uomo negli occhi, concentrandosi invece sulle pieghe della sciarpa. «Ciao, fratello Cyrus.» L’altro incrociò le braccia, rivelando dei guanti neri.

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Non si vedeva un solo centimetro di pelle. Era impossibile stabilire se fosse bianco, nero o altro. «Ciao, Michael», replicò. Aveva la voce bassa, attutita dal tessuto. «Ti prego di perdonare il mio aspetto. Qualche anno fa sono rimasto sfigurato in un incidente. Ho notato che è meno imbarazzante per tutti se mi copro il viso.» Michael si domandò che tipo d’incidente avesseavuto. Un incendio? Un’esplosione? Ma, tutto sommato, non aveva importanza. Tanto lui odiava guardare in faccia la gente. «Dove mi state portando?» «Tutto a tempo debito, Michael, tutto a tempo debito. È un piacere conoscerti. Quand’ero giovane, ho conosciuto Amil Gupta, tuo nonno. È stato l’assistente di Albert Einstein negli anni ’50, giusto? E ha sposato sua nipote, vero?» Fratello Cyrus si avvicinò. «Amil era un genio, uno dei più grandi fisici della sua generazione. La sua morte mi ha addolorato molto.» Michael non

lteoria unificata perche´ essa era a chiave del Suo

informatori nell’FBI e nelle altre agenzie d’intelligence

ripetere la domanda: «Dove mi s

non giudicarlo male: il vecchio si era ammalato, gli aveva spiegato, e lcercato di rivelare l’Einheitliche Feldtheorie. David gli aveva voglia di parlare del nonno. Amil Gupta aveva violato la promessa e aveva

aveva raccomandato di a malattia

l’aveva indotto a fare cose terribili. Michael però non ci credeva. Decise di

agli occhi, ma continuò a gioco.

f

tate portando?» Tamara gli diede uno schiaffo. «Michael! Un po’ di rispetto!» Il dolore e la sorpresa gli fecero venire le lacrime

issare fratello Cyrus. È solo un gioco, si ripete´. Solo un

L’altro gli puntò contro l’indice. «Ho trascorso gli ultimi due anni a osservarti, Michael, e ho capito che sei un ragazzo fuori del comune. Per certi versi, sei ancora più straordinario del tuo illustre trisavolo.» Gli sfiorò il centro della fronte. «E non mi riferisco alle tue capacità matematiche, ai numeri e alle equazioni che riesci a imprimerti nel cervello. No, sto parlando della tua innocenza, della tua purezza di

spirito.» Michael avrebbe voluto domandare per la terza volta: «Dove mi state portando?» ma temeva che Tamara lo schiaffeggiasse ancora, magari con più forza. Oppure che Cyrus lo colpisse con la sua manona. «Dio ti ha dato un dono meraviglioso. Sì, il tuo autismo è un dono. Non sai mentire ne´ ingannare. Non sai cosa sia la crudeltà. La tua mente non conosce gli impulsi malvagi che rendono l’umanità cos ìmeschina. In un mondo peccaminoso, tu c’indichi la via della salvezza.» Cyrus allargò le dita e gliele tenne apochi centimetri dagli occhi. «Tu sei il messaggero del mondo a venire, figliolo, un mondo senza peccato, senza marciume e senza corruzione. Presto porteremo sulla Terra il Regno dei Cieli.» «Amen», sussurrò Tamara chinando il capo. Cyrus ritrasse la mano e fece un passo indietro, ma i suoi occhi continuavano a brillare. «Il Signore ci ha affidato un compito importante, Michael. Dopo la morte di

Amil Gupta, ho sentito alcune voci sulla teoria che aveva scoperto e, grazie ai miei

americane, ho avuto la conferma che si trattava dell’Einheitliche Feldtheorie di Einstein. E ho capito che

l’Onnipotente mi stava dando un segno: il Signore mi stava dicendo di cercare la

Regno sacro. Per fortuna dispongo di notevoli risorse, che mi hanno permesso d’ingaggiare degli esperti per mettere insieme i frammenti di equazioni individuati dalle agenzie d’intelligence.» Michael ebbe un tuffo al cuore. Anche se lui e David Swift avevano tentato di

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possib era stato molto negligente «Non siamo riusciti a ricostruire l’intera teoria, ma abbiamo scoperto abbastanza

ile he ne c avessero trascurato qualcuno. Amil Gupta distruggere tutti i dischi rigidi e i supporti informatici contenenti le formule, era

per imboccare la via della redenzione. Abbiamo escogitato un piano per eseguire la volontà del Signore e aprire le porte del Suo Regno. E, proprio qualche ora fa, l’Onnipotente ci ha dato un altro segno: i risultati del nostro test dimostrano che siamo sulla strada giusta. Ora ci servono i pezzi mancanti della teoria, le parti che non siamo stati in grado di ricostruire.» Cyrus gli puntò l’indice tremante contro la fronte. «So che conosci le equazioni, Michael. Einstein ha affidato l’Einheitliche Feldtheorie ai suoi assistenti e, cinquant’anni dopo, loro l’hanno consegnata a te. Una volta che ce l’avrai rivelata, potremo fare l’ultimo passo.» Tamara prese la mano del

e ci aranno altre s

ragazzo. «Non preoccuparti, sarà semplice. Ti spiegherò cosa fare quando arriveremo al campo.» Lui provò a liberarsi, ma invano. Le corde gli affondarono nei polsi. «Ti ho detto che non ti aiuterò! Hai ucciso il dottor Parsons!» Fratello Cyrus annuì. «Sì,

S uo Regno non i sarà c

vittime, purtroppo. Ma alla fine trionferemo sulla morte. Il Signore me l’ha promesso, sussurrandomi le Sue sante parole all’orecchio. Nel

più morte, solo vita eterna. Tutti i sudditi di Dio risorgeranno e vivremo per sempre nel Suo abbraccio amorevole.» «Amen», ripete´ Tamara.

decollare, assicurati che Angel somministri i «l ortello. p Prima i d

Poi Cyrus le posò una mano sulla spalla. «Sorella, temo di doverti lasciare. Però ci rivedremo dopodomani nel luogo stabilito per l’appuntamento.» Si diresse verso un sedativo al ragazzo. Vogliamo che arrivi riposato.» «Sì, fratello. Vai in pace.» Tamara lasciò la mano di Michael e seguì Cyrus con lo sguardo, continuando a fissare il portello anche dopo che si fu richiuso. Quindi si voltò verso la cabina di pilotaggio e impartì un ordine al suo compagno, che si avvicinò infilando un luccicante ago argenteo in una siringa. Michael non pote´ più fingere che fosse un gioco. Girò il capo da una parte all’altra e iniziò a gridare.

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David Swift e la sua famiglia erano in una stanza degli interrogatori al ventiduesimo piano del Federal Plaza, il distaccamento dell’FBI a Lower Manhattan. Mentre David camminava avanti e indietro, Monique cullava Lisa, cercando di farla addormentare. Jonah, il figlio nato dal primo matrimonio di David, sedeva a un tavolo al centro del locale e fissava lo schermo nero del suo iPod Touch. Aveva tolto l’apparecchio dallo zaino mezz’ora prima, ma non l’aveva acceso. Normalmente era un allegro bambino di nove anni, biondo e con gli occhi azzurri, ma ora aveva le palpebre gonfie e le guance umide. Piangeva da quando gli agenti dell’FBI l’avevano prelevato durante la lezione di karate. David si fermò e gli posò una mano sulla spalla. «Forza, accendilo. Ti aiuterà a ingannare l’attesa.» Jonah non si mosse, continuando a guardare il piccolo display nero. Monique si avvicinò, sempre cullando Lisa, che aveva gli occhi socchiusi e il visetto color caramello appoggiato alla sua spalla. «Ehi, Jonah, posso mostrarti una nuova app, un modello tridimensionale della Via Lattea, puoi zumare sui bracci di spirale e tutto il resto. È fichissima», propose. Il bambino guardò suo padre, con una lacrima che gli rigava la guancia. «Papà, siamo in arresto?» David provò una fitta al cuore. Avrebbe preferito dirgli la verità – cioè che l’FBI li stava proteggendo da ulteriori tentativi di rapimento –, ma non voleva spaventarlo. «No, non siamo in arresto. Va tutto bene.» Jonah si accigliò. «Allora che cosa ci facciamo qui? E dov’è Michael?» L’ultima domanda era la più difficile. David sapeva solo che Michael era stato portato via dall’Upper Manhattan Autism Center e che uno

dei suoi insegnanti, il dottor Irwin Parsons, era stato ucciso con un colpo di pistola. Immaginava il motivo del rapimento – l’Einheitliche Feldtheorie, le equazioni chiuse nella testa di Michael –, tuttavia non aveva idea di chi fossero i bastardi che lo avevano preso o di dove avessero condotto il ragazzo. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, okay? Michael è scomparso, ma la polizia...» «Scomparso? Come sarebbe a dire ’scomparso’?» «Pare si sia allontanato da scuola.» Era una bugia pietosa, David lo sapeva, però era troppo nervoso per trovarne una migliore. Non riusciva a smettere di pensare ai rapitori e a ciò che avrebbero potuto fare a Michael. «Non preoccuparti, la polizia lo troverà. Prima o poi...» «Che cos’è successo? Dov’è andato?» Il bambino corrugò la fronte, cercando di ostentare sicurezza, ma aveva il labbro inferiore che gli tremava. Lui e Michael erano molto affiatati. Anche se Jonah aveva dieci anni in meno, aveva preso il ragazzo sotto la sua ala protettiva, insegnandogli le abitudini e i rituali della famiglia Swift. Avevano disputato innumerevoli partite di Risiko usando regole speciali che lui aveva inventato per impedire a Micheal di vincere sempre. Ogni tanto Jonah

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s’innervosiva – Michael non capiva le barzellette, ne´ tanto meno rideva quando ne sentiva una –, ma faceva sempre del suo meglio per adeguarsi: aveva sempre desiderato un fratello e ora ce l’aveva. Mentre David se ne stava là senza sapere cosa dire, Monique gli porse Lisa, che si agitò per un istante prima di accoccolarsi contro il suo petto, quindi si sedette accanto a Jonah. «Ascolta, Michael starà bene. Ha fatto molti progressi negli ultimi due anni e sa badare a se stesso. Tornerà a casa. Devi solo avere pazienza, okay?» «Dov’è? Dov’è andato?» Jonah ricominciò a piangere. Monique lo abbracciò. All’inizio lui si oppose, cercando furiosamente di liberarsi, ma poi si arrese e singhiozzò contro la sua T-shirt, scosso da un tremore incontrollabile. Anche David aveva le lacrime agli occhi. Lui e Monique adoravano Michael. L’avevano accolto in casa più che altro spinti da un impulso caritatevole, dal semplice desiderio di aiutare un povero ragazzo che era stato abbandonato dalla sua famiglia. David l’aveva iscritto alla migliore scuola per autistici di New York e parlava ogni settimana coi suoi terapisti. Col passare dei mesi, tuttavia, il comportamento di Michael era migliorato: il ragazzo non urlava più se qualcuno lo toccava accidentalmente e aveva iniziato a leggere libri di scienze anziche´ giocare tutto il giorno coi videogame. Pareva che il velo dell’autismo si fosse sollevato leggermente, permettendo d’intravedere il carattere dolce, curioso e ottimista di Michael. Anche se lui non sarebbe mai uscito del tutto dal suo isolamento, c’erano molte buone ragioni per amarlo. Jonah smise di piangere. Monique si alzò e recuperò Lisa, che ormai si era addormentata. La portò nella stanza attigua e la adagiò nella culla fornita dall’FBI. Mentre tornava da David e Jonah, la porta si aprì ed entrò Lucille Parker. Indossava la stessa divisa di due anni prima: una morbida camicetta bianca, e giacca e gonna rosso vivo. Da una catenella intorno al collo le pendeva un paio di occhiali da lettura. Assomigliava più a una bibliotecaria che a un’agente federale, ma David sapeva che sotto la giacca vistosa si nascondeva una fondina, probabilmente con dentro una Glock 17. «Abbiamo rintracciato Karen Atwood. I colleghi di Philadelphia sono andati a prenderla e la stanno portando qui», annunciò Lucille col suo consueto accento texano. David tirò un sospiro di sollievo. La sua prima moglie, che aveva l’affidamento congiunto di Jonah, era andata a una conferenza e non aveva risposto alle sue telefonate. Lui non riusciva a immaginare nessun motivo per cui qualcuno dovesse rapire Karen – che, a differenza di Michael, non sapeva nulla dell’Einheitliche Feldtheorie –, ma era bello avere la certezza che era sana e salva. Jonah saltò su. «Avete trovato la mamma? Sta bene?» Lucille gli sorrise. Aveva il rossetto dello stesso colore della giacca. «Sì, tesoro, sta bene. Le abbiamo appena telefonato e non vede l’ora di parlarti.» Indicò la sua collega davanti alla porta, una donna in completo grigio, dall’espressione impassibile. «Questa è l’agente Carson e ti accompagnerà nel mio ufficio.Vai pure, puoiusare il mio telefono.» Jonah esitò. David gli strinse la spalla. «È tutto a posto. Fai come ti dice.» Il bambino prese per mano l’agente Carson, che lo condusse lungo il corridoio. Lucille aspettò che si

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allontanassero, poi chiuse l’uscio e si voltò. Aveva smesso di sorridere. Dozzine di rughe le increspavano la fronte e il contorno degli occhi. David deglutì. «Che cosa sta succedendo? Avete trovato Michael?» «No, abbiamo avvisato la National Security Agency e ogni dipartimento di polizia del Nord-est. Ma finora nessuna novità.» Si avvicinò al tavolo e indicò le sedie. «Accomodatevi.» David era troppo turbato per sedersi. «Com’è potuto capitare? Come sono riusciti a entrare nel centro e a portare via Michael?» Lucille si sedette, facendo una smorfia di dolore mentre allungava le gambe sotto il tavolo. «Si tratta di rapitori professionisti. Si sono travestiti da paramedici e hanno rubato un’ambulanza dal Lenox Hill Hospital. Sembrava una vera emergenza.» «Ci sono testimoni?» «Abbiamo interrogato alcune persone che si trovavano sulla 98th in quel momento, ma non ci hanno dato indicazioni utili per identificare i colpevoli. È normale. Quando la gente vede un’ambulanza, solitamente è troppo occupata a guardare il tizio sulla barella per notare qualsiasi altra cosa.» Monique si mise accanto a David. «E le videocamere di sorveglianza? Il centro deve pur averne qualcuna.» «Sì, cinque o sei. E sono state tutte disabilitate prima del rapimento. Come dicevo, abbiamo a che fare con dei professionisti.» «E l’ambulanza? Dovrebbe essere facile da rintracciare, giusto?» Lucille aggrottò le sopracciglia. «La polizia di Stato del New Jersey l’ha

MLe NewJersey eadowlands rano e

trovata un’ora fa. I rapitori l’hanno lasciata vicino a un magazzino abbandonato nelle Meadowlands. Devono aver preso un altro veicolo.» Merda, pensò David.

che le nascondevano qualcosa e, sebbene David e Monique non

radio.» Monique, confusa, la fissò intensamente, inclinando il

Irwin Parsons. Ecco p

Lucille annuì, cupa. «Un agente s

vicine all’Interstate 95, al porto di Newark e a due aeroporti: ormai Michael poteva essere ovunque. «Che cosa sta cercando di dirci? Che non avete lo straccio di un indizio?» «Si calmi, Swift. Stiamo seguendo tutte le piste. Abbiamo i rapporti balistici sui due omicidi commessi all’Autism Center e...» «Due omicidi? È stato ucciso qualcun altro oltre al dottor Parsons?»

otto copertura si trovava al pianterreno, nel corridoio dell’aula di terapia comportamentale. I rapitori gli hanno sparato e hanno gettato il corpo in uno sgabuzzino. Poi sono entrati nell’aulaehanno ammazzato

erche´ abbiamo saputo del rapimento così velocemente. Abbiamo capito che qualcosa non andava quando l’agente non ci ha contattati via

capo. «Aspetti un secondo. Perche´ uno dei vostri agenti era al centro?» «È ovvio: sono due anni che teniamo Michael sotto sorveglianza.» Non c’era da meravigliarsi: dopo il pasticcio di Amil Gupta, Lucille aveva interrogato tutte le persone coinvolte. Sapeva

avessero detto una parola sulla teoria unificata dei campi, evidentemente lei aveva dedotto dov’erano custodite le equazioni. «È colpa mia», aggiunse Lucille in tono cupo. «Sono stata troppo indulgente con voi. Vi ho permesso di tenere i vostri segreti, ma sapevo che altre persone non sarebbero state altrettanto gentili se avessero scoperto cosa c’è dentro la testa di Michael, sapevo che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di ottenere quelle informazioni. Così, nell’interesse della sicurezza nazionale, ho chiesto un programma di protezione per il ragazzo. L’abbiamo messo sotto sorveglianza per impedire alle spie straniere di mettere le mani sulla teoria unificata dei campi. Purtroppo ho sottovalutato i rischi.» Fissò il tavolo, parendo d’un tratto molto vecchia. Pur avendo superato da poco la sessantina, dimostrava almeno dieci anni in più.

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David la guardò e all’improvviso vide una donna artritica e sovrappeso, che sarebbe dovuta andare in pensione da tempo. Era strano; due anni prima, quando Lucille l’aveva inseguito senza sosta, dandogli la caccia per mezzo Paese, lui non aveva mai fatto caso alla sua età, perche´ era troppo impegnato a fuggire. Ma questa volta èdiverso, pensò. In quel momento l’agente Parker cercava di aiutarli e loro avevano bisogno di lei. Decise allora di fidarsi. Aveva già detto a Monique della sua conversazione con Jacob Steele. Era ora di parlarne anche a Lucille. «Ho una pista per lei. Non sono sicuro che abbia a che fare col rapimento, ma potrebbe.» «E sarebbe?» domandò Lucille, incuriosita. «Poco prima che veniste a prendermi, ho parlato con Jacob Steele, il direttore dell’Advanced Quantum Institute dell’università del Maryland. Stavamo discutendo del test nucleare iraniano e Jacob ha detto di aver rilevato un’interruzione dello spazio-tempo nel preciso momento dell’esplosione.» «Lo spazio-tempo è la griglia di coordinate dell’universo», spiegò Monique. «Comprende le tre dimensioni dello spazio – lunghezza, larghezza e altezza –, più quella del tempo. Einstein ha dimostrato che lo spazio e il tempo sono legati in un continuum capace di cambiare forma vicino a oggetti massicci, flettendosi intorno alle stelle, ai pianeti e...» «So cos’è lo spazio-tempo.» Lucille estrasse un blocnotes e una matita dalla tasca interna della giacca. «Per colpa vostra ho dovuto studiare tutte queste astruserie scientifiche.» Scarabocchiò qualcosa, quindi si rivolse a David. «Mi parli di questa interruzione. Che cos’ha detto esattamente Steele?» «Be’, non ha avuto molto tempo per spiegare, ha accennato solo al fatto che l’interferenza si è propagata dal luogo del test nucleare, lacerando le dimensioni dello spazio e del tempo. E che lui l’ha rilevata con uno strumento chiamato ’Gruppo Caduceo’, un nome davvero curioso: il caduceo è il simbolo del dio romano Mercurio, il bastone coi serpenti attorcigliati, che oggi si vede negli ospedali e negli studi medici.» Monique era perplessa. «Mai sentito nominare. Jacob non vi accenna mai nei suoi articoli. Dev’essere qualcosa di nuovo.» «Nient’altro?» domandò Lucille. David si sforzò di ricordare le parole esatte di Steele. «Ha aggiunto che l’interruzione è stata come una lacerazione nella struttura della realtà, uno squarcio nella continuità dell’universo. E dimostra che qualcuno sta volutamente manomettendo lo spazio-tempo.» Lucille prese appunti. «Ha detto che si è verificata nello stesso momento del test nucleare iraniano, giusto? Dunque è stata una specie di onda d’urto provocata dall’esplosione?» Monique era più ferrata di David in materia, perciò rispose: «Non è stata una semplice esplosione. L’universo subisce violente esplosioni di continuo: nove, supernove e Gamma Ray Burst, che sono trilioni di volte più potenti delle bombe atomiche. L’energia che liberano può alterare la forma dello spazio-tempo, ma nessuno di questi eventi può lacerarne la struttura». Scosse la testa. «No, per fare una cosa del genere si deve per forza conoscere la teoria unificata dei campi. La teoria è una sorta di modello dell’universo, mostra la configurazione dello spazio-tempo e, se si ha il modello, si sa come modificare la configurazione.» Allargò le braccia, come faceva spesso durante le lezioni al Pupin Hall. «È ciò che è accaduto due anni fa con Amil Gupta: ha usato la teoria per fabbricare un’arma capace di concentrare enormi quantità di energia in un qualsiasi punto dello spazio-tempo. E l’evento in Iran presenta una spaventosa

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somiglianza col suo esperimento.» «Vuol dire che gli iraniani sono al corrente della teoria? E che l’hanno usata per fabbricare un’arma?» Monique alzò le mani. «Chissà? Credevamo che Michael fosse l’unico a conoscere le equazioni, forse però qualcuno è riuscito a ricostruirle.» Lucille riflette´, picchiettando la gomma della matita sul mento. «Okay, ma che cosa c’entra questo col rapimento? Se gli iraniani conoscono già la teoria unificata, perche´ avrebbero dovuto prendere Michael?» Monique fece per rispondere, ma David la precedette: «Ascolti, non può essere una coincidenza. Dobbiamo parlare con Jacob. Voglio sapere a cosa sta lavorando». «Sì, sono d’accordo. Le due cose sono collegate. Prima interpelliamo Jacob, e prima troveremo Michael», aggiunse Monique. Calò il silenzio. Lucille si appoggiò allo schienale, continuando a picchiettare la matita. Poi si alzò. «D’accordo. Tentar non nuoce.» Si diresse verso la porta. «Vado a fare qualche telefonata. Voi due restate qui.» Dopo che fu uscita, David si sedette. Era stanco. Lo stress delle ultime ore l’aveva sfibrato. Monique si accomodò accanto al marito e gli strinse la spalla. «Dobbiamo essere ottimisti, David. Stiamo facendo progressi.» Lui annuì, ma non le credeva. Quando chiudeva gli occhi, vedeva Michael. Michael nell’aula di terapia comportamentale, Michael rannicchiato sul pavimento con le mani sulle orecchie, Michael che urlava dentro un’ambulanza. Le immagini erano terribili, ma era impossibile cancellarle. Tacquero. David abbassò la testa e si strofinò gli occhi con le mani. Lei gli massaggiò il collo, poi la schiena. Non si sentiva volare una mosca. Fu Monique a rompere il silenzio, con la voce calma, logica e tranquilla che usava sempre quando parlava da sola: «Sai cosa non capisco? Jacob è specializzato in computer quantistici, non in fisica elementare. Non ha mai scritto articoli sulla natura

dello spazio-tempo. Dunque perche´ si è improvvisamente interessato all’argomento? Non è un po’ strano?» Fece una pausa, ma non aspettò la risposta. «E sai chi è il maggior finanziatore delle sue ricerche? Il buon vecchio dipartimento della Difesa. Gli hanno concesso una sovvenzione di dieci milioni di dollari per costruire computer quantistici. Tutti i suoi colleghi sono verdi d’invidia! E questo nome, Gruppo Caduceo... un dettaglio curioso. In astronomia il caduceo è il simbolo del pianeta Mercurio. Macosa c’entracon le interruzioni dello spazio-tempo?» David la guardò. «Dobbiamo trovarlo. Dobbiamo trovare Michael.» «Lo troveremo, tesoro...» «Dobbiamo partecipare alle ricerche. Dobbiamo convincere Lucille a permetterci di dare una mano.» «Le parleremo, okay? Sono certa...» «Non lo troverà senza di noi! Questo non è un normale caso di rapimento. È ...» La porta si aprì. Lucille comparve sulla soglia, ma non entrò. Aveva un’espressione indecifrabile, la mandibola le tremava leggermente. «Abbiamo due problemi», annunciò. David si alzò. «Sarebbe a dire?» «Ho provato a chiamare l’ufficio di Steele all’università del Maryland, sperando di trovare un assistente di laboratorio che faceva gli straordinari, ma un messaggio diceva che il centralino era fuori uso.» Lucille ebbe una contrazione alla guancia. «Mi sono incuriosita, così ho interpellato la polizia locale. Un’ora fa c’è stata un’esplosione all’Advanced Quantum Institute.» «Gesù.» David afferrò il bordo del tavolo. «E l’altro problema qual è?» «Dopo aver

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riagganciato, ho visto un’e-mail del mio contatto al dipartimento di polizia di New York: uno studente della Columbia University ha trovato un corpo al Pupin Hall, in un vecchio laboratorio accanto alla sala conferenze. È Steele.»

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5

Aveva trascorso gran

Il presidente sedeva nella Situation Room della Casa Bianca, fissando la pila di raccoglitori posata sul tavolo. parte della serata in riunione col segretario della Difesa e col Comitato dei capi di stato maggiore. Alle otto, erano tornati tutti al Pentagono, concedendogli alcuni minuti preziosi per riflettere sulle loro conclusioni. I raccoglitori contenevano i piani per eliminare gli impianti nucleari iraniani. Si appoggiò allo schienale. Aveva una tremenda emicrania e desiderava disperatamente una sigaretta. Massaggiandosi le tempie, guardò lo schermo davanti a se´, che mostrava le posizioni delle forze d’attacco americane in Medio Oriente: gruppi di portaerei nel golfo Persico, stormi di cacciabombardieri nelle basi aeree in Qatar e in Kuwait. Mentre studiava la mappa, pensò alla moglie e alle figlie, che erano già state scortate dal Secret Service a Camp David, un luogo relativamente sicuro. Immaginò le due bambine sul sedile posteriore della limousine presidenziale, intente ad ammirare i boschi del Maryland attraverso i finestrini fume´ antiproiettile. Il test nucleare iraniano era la crisi più grave verificatasi durante la sua amministrazione. I mullah di Teheran avevano rifiutato le sue offerte di pace e ignorato i suoi avvertimenti, perciò non aveva scelta: era troppo pericoloso lasciare che l’Iran diventasse una potenza nucleare, c’era il rischio che usasse l’atomica contro Israele, o che Israele sferrasse un attacco preventivo. Se lui avesse agito abbastanza rapidamente, invece, avrebbe potuto stroncare l’iniziativa iraniana sul nascere e il mondo avrebbe tirato un sospiro di sollievo. Secondo le comunicazioni militari intercettate dalla National Security Agency, la Guardia rivoluzionaria iraniana aveva solo altre due testate nucleari e le aveva spostate in un sito sicuro vicino alla città di Ashkhaneh, nel Nord del Paese. Le fotografie scattate dai satelliti di ricognizione statunitensi confermavano i rapporti, mostrando i convogli della Guardia che viaggiavano verso la catena montuosa dov’era nascosta la struttura. Il presidente si girò verso un altro schermo, che visualizzava un’immagine satellitare dell’impianto di Ashkhaneh: un’entrata di cemento che conduceva a un

di tremila metri sotto la superficie, quindi missili

labirinto di tunnel e caverne naturali sotterranei. Purtroppo era un bersaglio protetto: le letture dei georadar avevano rilevato che alcune parti si trovavano più

dell’aeronautica, in grado di penetrare sotterranea.

nel terreno e

sfonda-bunker convenzionali non sarebbero serviti a nulla. L’unica arma efficace era una testata nucleare

distruggere l’intera rete

Quella possibilità era fuori questione, naturalmente. Il presidente non intendeva scatenare una guerra nucleare, ma non intendeva neppure permettere che fosse l’Iran a cominciarla.

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Sfogliò i raccoglitori. Quasi tutti i piani del dipartimento della Difesa proponevano attacchi sfonda-bunker convenzionali, seguiti dallo spiegamento di commando per

contromisure: la struttura era situata problema era che gli iraniani penetrare nell’impianto danneggiato ed eliminare le testate là custodite. Il

avevano previsto quella strategia e preso

in una regione inaccessibile, lontano dalle portaerei statunitensi nel Golfo e dalle basi in Afghanistan e in Iraq. Gli iraniani avevano anche un sofisticato sistema di difesa aerea, con dozzine di stazioni radar e batterie missilistiche sulla costa e lungo i confini. Quasi tutti i piani d’attacco del Pentagono avrebbero causato centinaia di vittime. Ce n’era però uno diverso dagli altri. Il presidente prese il raccoglitore etichettato Operazione Cobra – Special Operations Command. Era statoscritto daltenente generale Sam McNair, che comandava le Special Operations Forces (SOF) in Afghanistan. McNair aveva collezionato una sorprendente serie di successi – il che era raro nella guerra contro i talebani – e aveva anche un’inclinazione per le mosse audaci. Il suo piano era l’unico a offrire il vantaggio della sorpresa tattica. Se avesse funzionato, la squadra d’assalto delle SOF avrebbe attaccato da una direzione inaspettata e gli iraniani non avrebbero avuto il tempo di trasferire le testate altrove. Tuttavia, secondo il presidente, la parte migliore era la stima delle vittime: meno di trenta fra morti e feriti. Consultò l’orologio. Era ora di tornare nello Studio Ovale. Di lì a ventinove minuti avrebbe dovuto pronunciare il discorso alla nazione. Uscì e si avviò lungo il corridoio, seguito da un agente del Secret Service e da un assistente, cui disse: «Chiami il segretario della Difesa. Gli dica di dare il via libera all’operazione Cobra».

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6

Tre autopompe, due camion per il trasporto di materiali pericolosi e mezza dozzina di auto della polizia erano parcheggiati davanti alla facoltà d’Informatica dell’università del Maryland. David, Monique e l’agente Parker – che aveva guidato per oltre quattro ore la Chevrolet Suburban messa a disposizione dal governo – arrivarono alle due del mattino, più di sei ore dopo l’esplosione, ma la zona pullulava ancora di personale d’emergenza. Lucille posteggiò dietro un’auto della polizia. Dal sedile posteriore, David guardò il massiccio edificio: sembrava intatto – niente finestre frantumate, niente mattoni anneriti –, eccezion fatta per la folla di poliziotti, vigili del fuoco e detective in borghese che si era assiepata davanti all’ingresso illuminato, appena fuori della barricata di nastro giallo. Lucille si girò verso Monique, accomodata sul sedile anteriore, e indicò il palazzo. «Non mi sembra così grave. Dov’è il laboratorio di Steele?» «Nel seminterrato, credo. Vero, David?» Lui era stato all’Advanced Quantum Institute diversi anni addietro, prima che Jacob ne diventasse il direttore, perciò lo conosceva bene. «Sì,è nel seminterrato. Ecco perche´ l’esplosione non ha danneggiato l’esterno.» «Okay, aprite bene le orecchie: voi due siete i miei consulenti scientifici, perciò non fiatate a meno che non sia io a interpellarvi. Intesi?» Lucille lanciò loro un’occhiata di monito. Aveva acconsentito a portarli con se´, ma non ne era affatto contenta. Normalmente gli agenti dell’FBI non invitavano i civili sulla scena del crimine tuttavia, dopo aver appreso la notizia dell’omicidio di Jacob Steele, Lucille aveva ipotizzato che poteva esserci un legame col rapimento di Michael. E il primo passo per indagare su quel legame, avevano osservato David e Monique, era capire a cosa stesse lavorando Jacob. Alla fine Lucille aveva ammesso che le loro competenze di fisica quantistica avrebbero potuto esserle utili così, quando Karen Atwood era arrivata al Federal Plaza per riprendere Jonah, Monique l’aveva pregata di accudire anche Lisa. Era un grosso favore, ma Karen aveva accettato. La prima e la seconda moglie di David avevano fatto amicizia durante la disavventura di due anni prima e da allora erano sempre andate d’accordo. Lucille aprì la portiera del SUV, e David e Monique la seguirono. Un uomo alto, coi capelli rossi e con un completo grigio, si staccò dalla folla e andò verso di loro, estraendo il distintivo dell’FBI. «Agente Parker? Sono Dickinson, del quartier generale. Sarò il suo ufficiale di collegamento col distaccamento locale.» Lucille gli strinse la mano. «Qual è la situazione? Possiamo accedere all’edificio?» «I vigili del fuoco hanno dato il via libera circa un’ora fa. L’esplosione ha raso al suolo il laboratorio, ma non ci sono eccessivi danni strutturali. I tecnici della scientifica sono nel seminterrato.» «Che cos’hanno trovato? Hanno già eseguito i test sui residui?» «Sì, signora. I risultati preliminari indicano che l’esplosivo usato è il C-4. Abbiamo avvertito il National Counterterrorism Center.» «Chi avete interrogato finora?» Dickinson tirò fuori un bloc-notes. «Fortunatamente il laboratorio era vuoto al

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momento dell’esplosione. C’erano alcune persone nell’edificio, ma nessuna ha notato niente d’insolito prima della deflagrazione.» Sfogliò le pagine. «Abbiamo contattato l’amministrazione dell’università per raccogliere informazioni e alcuni funzionari sono venuti a valutare i danni. Uno di loro dice di aver lavorato con Steele.» Indicò la costruzione col pollice.

Steele è morto.» David conosceva Adam Bennett. Era

«Si chiama Adam Bennett. Ora è nel seminterrato con uno dei miei agenti. Gli ho chiesto di non allontanarsi perche´ pensavo che volesse parlargli. Non sa ancora che unamministratore della DARPA, l’agenzia del Pentagono incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, e aveva il compito di concedere fondi a scienziati e ingegneri di quasi tutti i settori, dalla robotica all’industria aerospaziale, dalle comunicazioni all’informatica. Era una persona gradevole e intelligente; David l’aveva conosciuto un anno prima a una conferenza e gli aveva fatto un’ottima impressione. All’epoca, Bennett aveva appena finito di leggere la sua biografia di Albert Einstein e aveva fatto alcune osservazioni interessanti. Ciononostante David si era sentito a disagio: sebbene la DARPA fosse famosa per aver finanziato l’invenzione di Internet, aveva anche sostenuto le ricerche sul bombardiere stealth e sull’aereo spia Predator. Bennett si recava regolarmente in Iraq e in Afghanistan per testare sul campo nuove tecnologie come i robot di sorveglianza e i proiettili a guida laser. David, essendo un attivista per la pace, aveva trovato la cosa piuttosto inquietante. «Bennett lavora per la DARPA. Conosce tutti nel settore della fisica, e tutti conoscono lui perche´ è la persona che assegna i fondi.» «Già, era il benefattore di Steele. La DARPA finanzia le ricerche sul calcolo quantistico da almeno dieci anni», aggiunse Monique. Dickinson li fissò, domandandosi chi diavolo fossero. Non avevano l’aria di poliziotti: David indossava ancora i pantaloni cachi e la giacca di tweed, e Monique la T-shirt di Bob Marley. L’agente rivolse un’occhiata interrogativa a Lucille, ma lei lo ignorò e disse: «Be’, che cosa stiamo aspettando? Andiamo da questo tizio». Si fece largo tra la calca e passò sotto il nastro giallo. David e Monique la seguirono, con Dickinson alle calcagna. Nell’atrio svoltarono a destra e scesero una scala che puzzava di plastica bruciata. Tuttavia non videro segni tangibili dell’esplosione finche´ non ebbero percorso una trentina di metri lungo il corridoio del seminterrato. Sopra una porta d’acciaio grigio campeggiava un cartello con la scritta: ADVANCED QUANTUM INSTITUTE: LA DIMORA DEGLI IONI INTRAPPOLATI. Lucille spinse l’uscio ed entrarono nel laboratorio. La stanza era buia, rischiarata solo dalle luci d’emergenza dei pompieri e dalle torce degli investigatori federali, con le pareti di calcestruzzo incrostate di fuliggine e il pavimento ricoperto da uno strato di cenere umida che restava appiccicata alle scarpe. L’aria era calda e acre. A quanto pareva, l’impianto antincendio era riuscito a contenere le fiamme, che però avevano annerito i banchi da lavoro, sventrato gli armadietti e fuso computer e monitor. Ovunque c’erano pezzi di metallo accartocciato, sparpagliati qua e là dalla forza della deflagrazione. Il botto aveva devastato l’intonaco del soffitto e mandato in frantumi i tubi e i fili elettrici. I cavi

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tranciati penzolavano come serpenti morti, con le fibre di vetro ben visibili sotto l’isolamento carbonizzato. L’agente Dickinson li guidò dall’altra parte della stanza, superando il foro irregolare che probabilmente era stato l’epicentro dell’esplosione. Imboccarono un altro corridoio seguendo le luci d’emergenza e, man mano che si allontanavano, il tanfo si attenuò. Quindi girarono l’angolo ed entrarono in un ufficio che l’FBI aveva trasformato in una base temporanea, inondando la scrivania con la propria strumentazione: una radio, un paio di laptop e uno spettrometro portatile per analizzare i residui di esplosivo. Un agente dai capelli biondi a spazzola armeggiava con la radio, mentre un uomo più anziano, che indossava uno spigato nero, era accomodato sulla sedia. David lo riconobbe subito: era Adam Bennett. Il federale si mise sull’attenti quando entrò Lucille. Anche Bennett si alzò, guardando prima lei e poi David e Monique. Sgranò gli occhi. «Dottor Swift? Dottoressa Reynolds? Che cosa ci fate qui?» Bennett aveva circa sessantacinque anni. Aveva i capelli bianchi e radi e il volto serio e squadrato, con gli occhi grigi e la pelle pallida, soggetta alle scottature. Era comprensibilmente agitato: le apparecchiature che erano andate distrutte valevano diversi milioni di dollari. Lucille gli tese la mano. «Mr Bennett, sono l’agente speciale Lucille Parker del...» «Perche´ ci ha messo così tanto? Sto aspettando da ore», la interruppe lui. Lei non rispose, limitandosi a inclinare la testa. L’agente biondo recepì il messaggio e lasciò l’ufficio con Dickinson. Bennett la guardò in cagnesco. Era curioso vederli l’uno di fronte all’altra; in fondo, erano molto simili: stessa età, stessa corporatura; persino il colore dei capelli era uguale, anche se quelli di lui erano decisamente più radi. «Dov’è Jacob Steele? È ancora a New York?» chiese. «Si sieda, Mr Bennett.» Lui rimase in piedi, visibilmente contrariato. «Lei non è l’unico funzionario federale qui presente. Questo è un progetto della DARPA e io ho tutto il diritto di sapere cosa sta succedendo!» «D’accordo, allora, glielo dico subito. Jacob Steele è venuto a New York oggi pomeriggio per vedere questi due.» Lucille accennò a David e Monique. «Voleva parlare di uno strumento scientifico cui stava lavorando, il Gruppo Caduceo. Questo nome le dice qualcosa?» «No, non l’ho mai sentito.» «Non mi sorprende. Nessuno ha mai sentito nominare questo maledetto aggeggio. E purtroppo Jacob non ha avuto la possibilità di descriverlo. Questo pomeriggio, mentre si trovava alla facoltà di Fisica della Columbia University, qualcuno glihasparatoin testa conuna 9 millimetri.» Bennett tacque, come se aspettasse che Lucille aggiungesse qualcos’altro. Poi sospirò e fece un passo indietro, lasciandosi cadere sulla sedia. «Più o meno nello stesso momento, qualcuno ha fatto saltare in aria il laboratorio», continuò Lucille. «È evidente che abbiamo a che fare con un gruppo ben organizzato, con squadredi agenti che eseguono missioni sincronizzate, molto probabilmente un’organizzazione terroristica. Ora capisce perche´ prendiamo la faccenda così sul serio?» Lui chiuse gli occhi e si portò una mano sulla fronte. Borbottò qualcosa stringendosi la sella del naso.

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Lucille si avvicinò. «Per svolgere l’indagine, devo sapere a cosa stesse lavorando Jacob. Ecco perche´ sono qui e perche´ lei deve smettere di lamentarsi e parlarmi delle sue ricerche.» Si chinò su di lui. «Pensa di esserne in grado?» Bennett aprì gli occhi e afferrò i braccioli della sedia. Si alzò lentamente, con le gambe che gli tremavano. Aveva perso tutta la sua aggressività. «Scusate. Devo andare alla toilette.» «Faccia pure, ma non ci metta troppo.» Lucille aprì la porta e fece segno ai due agenti in corridoio di seguirlo. David era stupito. «Perche´ l’ha lasciato andare?» «Parlerà quando sarà di ritorno.» Lucille prese posto sulla sedia. «È preoccupato per qualcosa. Altrimenti perche´ sarebbe venuto fin qui nel cuore della notte? Si tratta di sicuro di qualcosa d’imbarazzante e, poiche´ quel tizio è un pezzo grosso della burocrazia federale, sa di doverci raccontare tutto prima che lo veniamo a sapere da altri. Ma è anche un cagasotto, capisce? Ecco perche´ deve andare in bagno, guardarsi allo specchio per qualche minuto etrovare ilcoraggiodi vuotare ilsacco. Tipico comportamento da cagasotto, l’ho visto un milione di volte.» Lucille estrasse un paio di guanti di lattice dalla tasca interna della giacca, poi avvicinò la sedia alla scrivania e iniziò l’ispezione. Frugò in uno schedario che ospitava circuiti stampati e altri componenti hardware, studiando ogni cosa rapidamente ma con estrema attenzione. Poi aprì un cassetto e tirò fuori un barattolo di metallo lucido con alcuni cavi che spuntavano dal fondo e una lastra di vetro circolare in cima. All’interno s’intravedevano due file parallele di elettrodi, tra i quali correva una scanalatura scura, lunga circa otto centimetri e larga mezzo. Lucille inforcò gli occhiali e vi sbirciò dentro. «Okay, finalmente avete l’occasione di rendervi utili. Che diavolo è questo affare?» Monique si avvicinò e riconobbe subito l’oggetto. «È una trappola ionica. È il cuore dei computer quantistici di Jacob. Ricorda quello che le ho detto in auto? Sulle differenze tra i computer quantistici e i normali PC?» Durante il lungo viaggio da New York al Maryland, Monique aveva iniziato a spiegarle i fondamenti del calcolo quantistico. Per fortuna l’agente Parker imparava in fretta. «Sì, certo», rispose. «I computer quantistici usano gli elettroni per effettuare

i calcoli. Al contrario di quelli normali, che usano la corrente elettrica. Ma cosa c’entrano gli ioni?» «Uno ione è un atomo caricato elettricamente. Se si aggiunge un elettrone a un atomo, si ottiene uno ione con carica negativa. Se si toglie un elettrone, se ne ottiene uno con carica positiva. Il vantaggio di usare gli ioni è che si possono spostare: si possono mettere quelli positivi in una camera da vuoto e tenerli sospesi fra elettrodi caricati positivamente.» Monique prese il contenitore e indicò la scanalatura. «Lo ione positivo va qui, nello spazio fra gli elettrodi positivi. Una carica positiva respinge un’altra carica positiva, giusto? Così la repulsione da entrambe le parti intrappola lo ione e lo tiene in una posizione fissa. A quel punto si possono intrappolare altri ioni e allinearli, distanziandoli perfettamente. Come una fila di palline su un abaco.» «A quale scopo?» «Ogni ione ha un orientamento magnetico verso l’alto o verso il basso, come un interruttore. Perciò è simile al bit di un normale computer. Sa cos’è un bit, vero?» Lucille annuì. «Certo. È l’unità di dati che si può inserire in un computer.» Monique sorrise. Quello era il suo pane. «Esatto. Un bit è una singola unità di dati e ha due possibili valori: zero o uno. Otto bit insieme

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compongono un byte, e ogni byte rappresenta uno dei caratteri sulla tastiera.» Indicò uno dei due laptop. «Questo computer ha un microprocessore con quattro gigabyte di RAM, dunque può eseguire calcoli su quattro miliardi di byte di dati. Si tratta di una memoria più che sufficiente per aprire un file Excel o vedere un video su YouTube. Ma un computer quantistico potrebbe fare molto di più.» «In che senso?» «Come dicevo, ogni ione può essere rivolto verso l’alto o verso il basso. Be’, immagini che l’orientamento verso l’alto corrisponda a zero e quello verso il basso a uno. In questo modo, ogni ione contiene un bit d’informazioni, perche´ può essere uno o zero. Una serie di otto ioni, alcuni orientati verso l’alto e altri orientati verso il basso, contiene un byte d’informazioni. E possiamo modificare le informazioni contenute nella stringa puntando un raggio laser contro gli ioni per invertirne l’orientamento. Ma il bello deve ancora venire.» Monique riprese fiato. «Quando si ha a che fare coi singoli ioni, sono valide tutte le folli regole della teoria quantistica: le particelle sono onde e le onde sono particelle, e nulla è assolutamente preciso ne´ prevedibile. Una delle conseguenze pazzesche della teoria quantistica è che possiamo mettere uno ione in stato di sovrapposizione, una condizione in cui è rivolto contemporaneamente verso l’alto e verso il basso.» Lucille fece una smorfia. «Che cosa? È impossibile.» «Sembra impossibile, ma è vero. Uno ione in sovrapposizione è come uno schizofrenico: è insieme uno e zero. Ha due valori simultaneamente. Ora immagini di mettere due ioni in quello stato. Hanno quattro valori allo stesso tempo: uno/uno, zero/zero, uno/zero e zero/uno. E una stringa di tre valori in sovrapposizione ha otto valori. Ha capito il meccanismo?» Lucille riflette´.«Sì. Ogni volta che si aggiunge uno ione alla serie, si raddoppia la quantità di dati che essa può contenere.» «Esatto. La capacità aumenta in modo esponenziale, perciò un computer quantisticocon unnumero di ioni relativamente modesto può memorizzare una straordinaria quantità di dati. E, quando gli ioni interagiscono e iniziano a scambiarsi i dati, eseguono un enorme numero di calcoli contemporaneamente. Se si riuscisse a costruire un computer quantistico con soli cento ioni intrappolati – un obiettivo raggiungibile nel giro di dieci anni –, si potrebbero eseguire trilioni e trilioni di calcoli tutti insieme. Si potrebbero svolgere determinate operazioni miliardi di volte più velocemente che coi migliori computer convenzionali del mondo.» «Che tipo di operazioni? Qualcosa che potrebbe suscitare l’interesse della DARPA?» «Altroche´! Un computer quantistico sarebbe l’ideale per consultare grandi database, cercando gli schemi nascosti nei gigabyte di rumore. O creando simulazioni di fenomeni estremamente complessi, come l’onda d’urto scatenata da un’esplosione nucleare. Ma la DARPA è interessata soprattutto a decifrare i codici: un computer quantistico potrebbe decrittare i codici a chiave pubblica, che sono quelli usati in Internet per criptare i numeri delle carte di credito, oggi considerati inviolabili. Ed è anche il sistema usato

trappola ionica e la studiò per qualche istante, guardandola controluce. Anche Daviddall’esercito per alcune delle sue banche dati top secret.» Lucille annuì. Recuperò la fissò l’apparecchio, domandandosi cosa diavolo stesse combinando il suo vecchio amico.

che qualcuno gli rubasse le idee. Benche´

Prudente oltre ogni limite, Jacob aveva mantenuto il massimo riserbo sui suoi progetti di ricerca anche quando era studente, perche´ era terrorizzato al pensiero

raccontasse ogni dettaglio della sua

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vita privata, spesso deliziando David con vivide descrizioni delle sue avventure sessuali – all’epoca era un vero dongiovanni –, non parlava mai delle sue ricerche. Quando si trattava di lavoro, non si fidava di nessuno. David stava per dirlo a Lucille, quando l’agente biondo aprì la porta e ricondusse dentro Adam Bennett, che sembrava ancora più sconvolto di prima e aveva gli occhi iniettati di sangue. Doveva aver pianto o vomitato, perche´ aveva delle macchie umide sulla giacca. Lucille si appoggiò allo schienale e lo guardò. «Sta meglio?» Bennett trasse un profondo sospiro e annuì. La previsione dell’agente Parker si era rivelata corretta: l’uomo era pronto a parlare. Lei gli mostrò la trappola ionica. «Mentre era via, abbiamo trovato uno dei giocattoli di Jacob e la dottoressa Reynolds è stata così gentile da spiegarmi come funziona.» Lanciò un’occhiata a Monique, che incrociò le braccia e si appoggiò al bordo della scrivania. «Fino a che punto Jacob era andato vicino a costruire un computer quantistico?» Bennett fissò la trappola ionica, senza capire. Poi scosse la testa. «Non ci era andato vicino. È questo il guaio», rispose con voce bassa e roca. Lucille posò il dispositivo e picchiettò le dita sulla lastra di vetro. «Veramente? Nonostante i milioni di dollari che gli avete concesso?» Lui continuò a scuotere la testa, sconsolato. «L’ultimo prototipo che ha costruito per noi era in grado di eseguire calcoli con una serie di sedici ioni. Era un record, superiore a qualsiasi cosa mai creata dalle altre squadre di ricerca, seppur ancora lontano anni luce da una macchina utilizzabile.» Lucille era scettica. «Pensavo che un computer quantistico non necessitasse di molti ioni. Non è questo lo scopo?» «Be’, se si vuole che l’apparecchio svolga operazioni impossibili per i computer normali, ne servono ben più di sedici. Almeno cinquanta. E Jacob aveva difficoltà a migliorare i suoi prototipi. Si è imbattuto in alcuni problemi tecnici.» Bennett fece una smorfia. «La verità è che la tecnologia non è ancora all’altezza. Prima o poi i fisici costruiranno un computer quantistico utilizzabile, ma ci vorrà tempo. Forse cinque anni, forse dieci. E il tempo era proprio ciò che mancava a Jacob.» «Che cosa intende?» Bennett si voltò. Aveva ignorato i coniugi Swift da quando Lucille aveva iniziato a interrogarlo, ma ora

Lucille si raddrizzò di scatto. Quella era la rivelazione imbarazzante che stava aspettando. «Vuol dire che investiva i soldi della DARPA in qualcos’altro?» Bennett trasse un profondo respiro. «Me ne sono accorto un anno fa. Quando ho letto le sue relazioni, ho notato che aveva ordinato l’installazione

a segnare una svolta nell’ambito del calcolo quantistico. Credo sia questa la ragione per cui ha cominciato a dirottare i finanziamenti.» vrebbe otuto p

a nni, ma stava perdendo la battaglia. Gli ho fatto visita

guardò David dritto negli occhi. «Ha visto Jacob oggi pomeriggio? Prima che...» Lasciò la frase a metà. «Come le è sembrato?» David ricordò gli occhi infossati e le guance scavate. «Aveva un aspetto orribile.» «Lottava contro la leucemia da

i astioso. Mi ha detto che aveva sprecato la sua vita, che non aveva concluso nulla di significativo nel campo della

sei mesi fa per controllare progressi delle sue icerche, e pareva depresso e r

fisica e che nessuno si sarebbe ricordato di lui.» Bennett abbassò lo sguardo. «Voleva assolutamente fare una cosa importante prima di morire. E sapeva che non

di linee di fibre ottiche dedicate per collegare il server del suo

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laboratorio alla linea principale della compagnia telefonica.» David r t icordò i cavi r nciati he eva visto nel laboratorio e si rese conto che il numero di a a c v

u p n gruppo di rototipi più semplici, tipo un computer quantistico in questo

l’indice sulle labbra. «Forse JacobM ha cambiato strategia. Invece di sviluppare un computer quantistico più avanzato, avrebbe potuto costruire

onique i icchiettò s p

o le linee di fibre ottiche che aveva ordinato andavano ben al di là delle sue esigenze personali, erano in grado di

ccorreva una connessione Internet più veloce. Ma

laboratorio e altri da altre parti, capaci di lavorare insieme. Questo potrebbe spiegare le linee di fibreottiche. Forse i computer effettuavano scambi di dati.» Bennett si strinse nelle spalle. «Non saprei. Suppongo che sia possibile.» David cercò d’immaginare un immenso flusso di dati che scorreva da un computer

l inee i omuni d c mcazione era «Quando gli ho chiesto spiegazioni, è rimasto sul vago, dicendo solo che gli

trasmettere migliaia di gigabyte al secondo. Jacob avrebbe potuto inviare l’intero contenuto della biblioteca del Congresso in meno di un minuto!» rispose Bennett. «Ho intuito che qualcosa non andava, che Jacob mi stava nascondendo qualcosa, un progetto di ricerca totalmente nuovo. Così gli ho domandato senza tante cerimonie: ’Jacob, stai usando i fondi per uno scopo diverso da quello originale?’ È andato su tutte le furie e ha negato categoricamente. Anche se avevo qualche dubbio, gli ho creduto sulla parola. Perche´ lo stimavo, capite, ed ero dispiaciuto per lui.» «E poi?» lo incalzò Lucille. «Ho notato altre stranezze nella relazione che ha consegnato lo scorso autunno. E non ha rispettato la scadenza per la costruzione del prototipo successivo, un computer quantistico con ventiquattro ioni. Ormai ero quasi certo che stesse lavorando a qualcos’altro, ma non potevo dimostrarlo. Ho provato a parlare con una delle sue assistenti, però non mi ha saputo dire granche´. Jacob teneva tutti all’oscuro.»

all’altro. Forse era quello il motivo per cui Jacob aveva chiamato il progetto «Gruppo Caduceo», ispirandosi al simbolo del messaggero degli dei. Una serie di computer quantistici connessi fra loro tramite fibra ottica sarebbe sicuramente riuscita a inviare molti messaggi in entrambe le direzioni. Ma come avrebbe potuto rilevare una lacerazione nella struttura dell’universo? «Pensa che Jacob si sia avventurato in un altro ramo della fisica? Oltre al calcolo quantistico, intendo», domandò. «Prego?» Bennett lo guardò in tralice. «Quando l’ho visto ieri, mi ha detto che il Gruppo Caduceo aveva rilevato un’anomalia nello spazio-tempo. Ha mai manifestato un interesse per questo tipo di ricerche?» «No, mi dispiace, non ha mai accennato a niente di simile.» Bennett si portò la destra alla fronte. Aveva l’aria stanca. «Vi posso solo dire che ho commesso un errore. Avrei dovuto fermare Jacob quando ho notato le prime irregolarità nel suo lavoro, invece l’ho assecondato e non ho mosso un dito. E ora lui è morto e io non so neppure il perche´.» Si passò una mano tra i capelli. Lucille si alzò e lo raggiunse, con un’espressione un po’ più dolce. «Okay, la prima cosa da fare è scoprire dove Jacob inviava i dati. Dove teneva i database?» Bennett abbassò le mani, respirando affannosamente. «Erano tutti sul server, che è andato distrutto nell’esplosione. Ma usava la linea principale della compagnia telefonica, e loro tengono traccia di tutto il traffico dati.»

gli servivano?» olto più alto del solito. «A cosa

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«Okay, controlleremo. E voglio vedere i documenti riguardanti le ricerche di Jacob.» «Sì, certo. Contatterò il mio ufficio e mi assicurerò che le facciano avere tutto ciò che le serve.» Lucille gli voltò le spalle, riflettendo sulla mossa successiva. «Dobbiamo parlare col destinatario dei dati, è l’unico che sappia cosa stava facendo Jacob. Forse le relazioni contengono un nome.» «Posso darvene uno subito», intervenne Bennett, quasi sussurrando. «Non sono sicuro che sia un nome vero, ma...» Lucille si girò di scatto. «Prego?» «Come dicevo, hoparlato con la sua assistente di laboratorio. Le ho chiesto in via confidenziale se Jacob fosse in contatto con altri ricercatori. Ha risposto di no, ma poi ha ricordato una serie di messaggi sulla segreteria telefonica. Sette, tutti nello stesso giorno, e tutti di un esperto d’informatica dell’Università ebraica di Gerusalemme.» David conosceva l’Università ebraica. Dieci anni prima, mentre svolgeva ricerche per la biografia di Einstein, aveva trascorso un paio di mesi a Gerusalemme setacciando le migliaia di lettere e manoscritti conservati negli archivi dell’ateneo. L’istituto aveva anche una facoltà d’Informatica di livello internazionale. Lucille fissò Bennett. «Qual è il nome?» «È così insolito che non potrei mai dimenticarlo. Olam ben Z’man.» «Merda», borbottò David, che masticava un po’ di ebraico. «È molto strano.» «Sì, l’ho pensato anch’io. Mi sono incuriosito, così l’ho cercato nel dizionario. Significa: ’Universo, il figlio del tempo’», disse Bennett.

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7

Michael si svegliò su un materasso che puzzava di vomito. Si alzò a sedere e sentì un dolore sordo alla spalla. Tastandosi sotto la manica della T-shirt, trovò un tampone di garza fissato col nastro adesivo. Poi ricordò il viaggio in aereo e l’ago luccicante della siringa. Non era più sull’aeroplano, bensì sul pavimento di una stanza buia e soffocante. L’oscurità era così impenetrabile che non si vedeva a un palmo dal naso. Michael strizzò le palpebre e si accorse che indossava ancora i jeans, i calzini e le scarpe da tennis. Fortunatamente non l’avevano spogliato mentre dormiva. David Swift gli aveva raccomandato di non permettere a nessuno di toccargli i genitali, a eccezione di un medico, naturalmente. Ma aveva le mutande bagnate perche´ si era pisciato addosso durante la notte, e la T-shirt era sudata. Gli faceva anche male la gola. Aveva fame e paura, e voleva tornare a casa. Tastando le pareti ruvide, Michael capì che il materasso doveva trovarsi in un

pavimento. Michael

angolo della stanza. Si lanciò un’occhiata dietro le spalle e gli sembrò di vedere un mobile sulla parete di fronte, tuttavia era troppo buio per distinguerne i dettagli. L’unica fonte di luce era un sottile raggio di sole che filtrava attraverso una fessura nel cemento. Largo un paio di centimetri, il fascio luminoso scendeva con un’inclinazione di ventidue gradi e disegnava un parallelogramma giallo sul dedusse che doveva essere mattina presto o sera tardi, però non avrebbe saputo essere più preciso. L’orologio non gli era di nessuna utilità: le lancette fosforescenti segnavano le undici, ma era impossibile. L’aereo deve aver attraversato diversi fusi orari, pensò. Era angosciante non sapere che ore fossero, ancor più di non sapere dove si trovasse.

non dovette ma lui era alto un metro e ottantaquattro, perciò Si alzò e si avvicinò alla fessura. Era quasi a un metro e sessanta dal pavimento,

d’incomprensibile. Gli uomini si girarono verso destra e si allontanarono.

un paesaggio di colline marroni,

nemmeno mettersi punta di piedi. Avvicinò l’occhio alla parete e sbirciò fuori, come se guardasse attraverso un telescopio. All’inizio vide solo un chiarore accecante, ma poi distinse

in

brulle e spoglie, che si allungavano fino all’orizzonte. Due Toyota Land Cruiser grigie erano parcheggiate ai piedi dell’altura più vicina, e dodici uomini in uniforme beige erano allineati davanti alle auto. Erano soldati, ma non assomigliavano a quelli di Warfighter o degli altri videogiochi. Le loro divise sporche non erano tutte uguali: alcune erano mimetiche, altre cachi a tinta unita; un uomo portava una bandana rossa, un altro indossava un turbante nero. Anche le armi erano diverse: fucili d’assalto M-4, mitragliatrici Bizon, fucili AK-47. Comparve un tredicesimo soldato, un tipo robusto con un basco nero,che si fermò davanti gli altri,intrecciò le mani dietro la schienae urlò qualcosa

Michael cercò di seguirli con lo sguardo, ma poi fu distratto da un rumore metallico dietro le sue spalle.

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La stanza si riempì di luce e comparve Tamara, che tirò una catenella per accendere una lampadina nuda avvitata a un portalampada sul soffitto. Teneva in mano un vassoio rettangolare, marrone scuro come quelli di McDonald’s, con sette bustine di ketchup, un sacchetto di patatine e una lattina di Sprite. Quella era la merenda preferita di Michael, che solitamente David Swift gli preparava solo se lui si era comportato molto bene, per esempio se era andato da solo alla rosticceria all’angolo oppure se non aveva fatto i capricci per tre giorni di fila. Era sconcertante vederla là, tra le mani di Tamara. Per un attimo, Michael pensò che l’avesse preparata David, e il cuore prese a battergli un po’ più forte. David era là? Era venuto a salvarlo, finalmente? Ma, quando guardò oltre Tamara, non vide nessuno. La stanza era vuota a eccezione del materasso e di una grande scrivania di legno. Lei avanzò e gli porse il vassoio. «È ora di cena, Michael. Guarda, ti ho portato il tuo piatto preferito.» Era troppo vicina. Il ragazzo si schiacciò contro la parete e scivolò verso sinistra, per aumentare la distanza tra loro. Tamara indossava un’uniforme mimetica simile a quella dei soldati. Dalla spalla sinistra spuntavano diversi fili neri, come se qualcuno le avesse strappato un distintivo dalla camicia. «Coraggio», disse. «Ti piace mettere il ketchup sulle patatine, vero? Esattamente due gocce su ognuna, giusto? Fratello Cyrus dice che sei molto pignolo in fatto di cibo.» Lui scosse la testa: Tamara era sua nemica, perciò le voltò le spalle e fissò la scrivania. «Mi chiamo Michael Gupta, vivo al 562 della 110th West, New York City.» Quello era il messaggio che David Swift gli aveva chiesto d’imparare a memoria in caso si fosse smarrito. Avrebbe dovuto recitarlo a un poliziotto, che poi l’avrebbe accompagnato a casa. «Per favore, non mi tocchi. Non mi piace essere toccato, perche´ sono autistico. Per favore, contatti il mio tutore, David Swift, al 212-555-3988.» Tamara rimase immobile. Poi annuì. «Okay, ho capito.» Andò alla scrivania – che aveva cinque cassetti, tre dei quali senza pomolo – e posò il vassoio accanto al computer, una workstation Sun Ultra 27 con monitor da ventidue pollici. Michael conosceva quel tipo di apparecchio. L’Autism Center ne aveva uno nella sala ricreativa, e lui ci aveva giocato per ore. Tamara prese una sedia pieghevole appoggiata alla parete, la aprì e la mise davanti alla scrivania. Quindi si spostò dall’altra parte della stanza. «Ecco, Michael, vieni a mangiare. Io resto lontana, vedi?» Lui fissò le patatine. Aveva lo stomaco che gorgogliava, ma non voleva obbedire. Decise di ripetere l’ultima frase del messaggio. «Per favore, contatti il mio tutore, David Swift, al 212-555-3988.» «Non mangi da diciotto ore. Starai morendo di fame!» Michael sapeva che quella era un’esagerazione. Non stava davvero morendo di fame. Un essere umano poteva sopravvivereda tre a sei settimane senza cibo.L’aveva letto nella Piccola enciclopedia della scienza, un libro che Monique Reynolds, la moglie di David Swift, gli aveva regalato per il suo diciannovesimo compleanno. Lui andava in confusione quando le persone esageravano; spesso pensava che dicessero la verità quando, in realtà, raccontavano una bugia che avrebbe dovuto essere divertente. Così aveva deciso d’imparare a memoria l’enciclopedia scientifica, che conteneva informazioni utilissime su un’ampia gamma di argomenti. «Non sto morendo di fame»,

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dichiarò. Ma aveva fame, e anche sete. Un essere umano poteva sopravvivere solo da tre a sette giorni senz’acqua. «So che sei spaventato. Il viaggio in aereo è stato molto lungo, e ora sei in un posto sconosciuto, ma devi mangiare», disse Tamara. Michael guardò ancora le patatine. Sapeva che era sbagliato accettarle. Non aveva fatto nessuna delle cose buone elencate sulla lista che aveva compilato David, perciò lui non meritava una ricompensa. Però le regole abituali forse non valevano in quel caso, visto che era stata Tamara a preparare il vassoio. E, anche se era sua nemica, non ci sarebbe stato nulla di male a mangiare il suo cibo, anzi, l’avrebbe reso forte e gli avrebbe permesso di combatterla meglio. Perciò si sedette e aprì una bustina di ketchup con dita tremanti. Prese una patatina e viversò sopra due gocce di salsa, poi s la infilò in bocca e e ne

coda dell’occhio, vide Tamara

preparò un’altra, masticando velocemente. Con la che avanzava. Aveva infranto la promessa di stargli lontana, ma lui era troppo impegnato a mangiare per protestare.

«Ehi, piano, altrimenti ti va di traverso!» Tamara lanciò alcuni urletti striduli. All’inizio Michael pensò che fossero grida di dolore, ma poi si accorse che lei stava ridendo. Non sapeva il perche´ e non gliene importava niente. Spremette il ketchup su altre due patatine e se le mise in bocca entrambe. Masticando rapidamente, le ridusse in una pappa umida, poi usò i molari per dividere la poltiglia e cominciò a inghiottire. Tamara si fermò a mezzo metro di distanza. «Va meglio, vero? Ora sembri felice. Molto felice.» Lui evitò di guardarla. Tenne gli occhi puntati sul vassoio e mangiò un’altra patatina. Quindi bevve un lungo sorso di Sprite. «Hai un viso interessante. Tuo nonno era indiano, vero? Scommetto che hai ereditato da lui questi bellissimi capelli neri.» Tamara gli toccò la testa. Michael sentì le sue dita appena sopra l’orecchio e smise di masticare: aveva infranto un’altra promessa. Lui rimase immobile, con la patatina sulla lingua, e si costrinse a inghiottire. «So che non hai avuto una vita facile, Michael. Fratello Cyrus mi ha raccontato gli eventi dolorosi che hai dovuto affrontare. Per esempio, ciò che è accaduto a tuo nonno due anni fa. E alla tua povera mamma, Elizabeth. Deve mancarti molto.» Lui non voleva parlare di sua madre. Prese una manciata di patatine. «Cyrus mi ha detto che era una prostituta tossicodipendente e che hai vissuto con lei fino a tredici anni.» Gli posò la mano sulla nuca. «Poi tuo nonno ti ha portato via. Era la cosa giusta da fare, suppongo. Ma deve essere stato molto difficile.» Ricominciarono a tremargli le dita. Michael riuscì ad aprire un’altra bustina di ketchup, ma premette troppo forte e la salsa schizzò sul vassoio. «È orribile stare a guardare mentre capitano delle cose brutte alle persone che si amano. A volte si è totalmente impotenti. Non c’è niente che si possa fare.» Tamara gli mise la mano sulla spalla. «Cyrus mi ha detto che Elizabeth è morta di overdose. Metamfetamina.» Lui chiuse gli occhi. Sua madre se n’era andata sei mesi dopo che lui si era trasferito a New York. David Swift e Monique Reynolds avevano organizzato una funzione religiosa in sua memoria. Un ministro in completo nero si era messo dietro una bara di legno, così scintillante che rifletteva le luci della chiesa.

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e n , quando on lie ’a evano rmesso, aveva iniziato g l v p e Michael avrebbe voluto sollevare il coperchio e vedere sua madre per l’ultima volta

a urlare. Non si era calmato finche´ avid D Swift non gli aveva detto la

decomposizione e non ne era r

verità: Elizabeth era morta da due settimane quando l’avevano trovata. Il suo corpo era già in avanzato stato di

imasto granche´. Tamara gli strinse la spalla. Era una sensazione insopportabile. «So cosa significa, Michael. Anche mio fratello Jack era tossicodipendente. Spariva per mesi. Mi sono sgolata cercando di convincerlo a smettere, ma non mi ha dato retta. L’ultima volta che l’ho visto era alla stazione degli autobus di Louisville, aveva la faccia gialla e gli mancavano diversi denti. E aveva tutte le braccia bucate.» Lo lasciò andare. Michael tirò un sospiro di sollievo. Aspettò una decina di secondi, poi aprì un occhio: la donna era appoggiata alla parete e fissava il pavimento scuotendo la testa. «La cosa peggiore è che Jack era così bello. Aveva i capelli neri come i tuoi e uno splendido sorriso», continuò Tamara. Lui lanciò un’occhiata fugace al suo volto. Poi Tamara scoppiò in un’altra risata stridula. «Ma ho una bella notizia! Una notizia fantastica! Molto presto rivedrò Jack. E tu rivedrai tua madre, e anche tuo nonno!» Parlava a voce troppo alta. Michael spinse indietro la sedia, tentando di allontanarsi. Lei sorrise e indicò il soffitto. «Ce l’ha promesso l’Onnipotente! Ha incaricato fratello Cyrus di aprire il Regno dei Cieli, dove ci riuniremo gioiosamente coi nostri cari. Con ogni singola creatura che il Signore ha messo su questa Terra! Alleluia! Alleluia!» Lo guardò. «Sai cos’è il Regno dei Cieli, vero? Tua madre deve avertene parlato, giusto?» Michael conosceva la parola «cielo», ovviamente. Elizabeth aveva usato spesso l’espressione «essere al settimo cielo» e, una volta, lui aveva sfogliato un libro per bambini che conteneva l’immagine di un luogo dove le persone morte avevano le ali e camminavano sulle nuvole. Alla funzione religiosa vi aveva accennato anche il ministro, dicendo che l’anima di Elizabeth era andata in cielo. Ma Michael sapeva che quella era un’altra esagerazione. Sopra la Terra non esistevano posti popolati da anime, bensì solo gli strati dell’atmosfera – troposfera, stratosfera, mesosfera e termosfera – e, più su, lo spazio infinito. La Terra ruotava intorno al Sole, il Sole orbitava nella Via Lattea e le galassie si allontanavano l’una dall’altra mentre l’universo si espandeva a velocità crescente. Lui aveva visto le illustrazioni di tutte quelle cose nella Piccola enciclopedia della scienza, ma il libro non diceva nulla sul Regno dei Cieli. «Non è sopra la Terra, altrimenti gli astronomi lo vedrebbero col telescopio.» Tamara rise ancora, facendogli male alle orecchie. «Hai ragione! Non è sopra la Terra. Le persone hanno un sacco d’idee sbagliate sul Regno dei Cieli. Pensano che sia come l’Isola che non c’è, un luogo magico dove la loro anima andrà quando moriranno. Ma non è quello che dice la Bibbia.» Estrasse un libretto nero dalla tasca. «La Bibbia dice che il Signore fonderà il Regno dei Cieli dopo la seconda venuta, dopo la fine dei giorni. In quel momento sacro, Egli getterà via il nostro mondo corrotto e lo sostituirà col Suo Regno. Allora i defunti risorgeranno dal loro lungo sonno e noi saremo tutt’uno con Dio. In un istante, in un batter d’occhio, al suono

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dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti.» Michael non capiva. «Le persone morte torneranno in vita?» «Non solo le persone, Michael. Ogni cosa risorgerà. Viviamo in un mondo vizioso, pieno di peccato e di morte, ma il Signore ci dà la possibilità di redimere il creato. Ha chiesto a fratello Cyrus di affrettare l’arrivo della fine dei giorni. E nel Regno dei Cieli rinasceranno tutte le cose che hanno vissuto e sono morte in questo mondo allo sbando. Lastoria dell’universosi condenserà in unsingolo momento eterno e vivremo per sempre nell’abbraccio di Dio!» «Continuo a non...» Tamara afferrò la sedia di Michael e la spostò davanti allo schermo del computer. Poi si chinò e premette un pulsante. «È più facile mostrartelo qui. Fratello Cyrus dice che sei molto bravo in matematica, perciò dovresti capire. Questi sono gli strumenti che il Signore ci ha dato per ricostruire il creato.» Il monitor si tinsedi blu, poi visualizzò una sferagialla traslucida che ruotava lentamente intorno alla parola LOGOS. Quindi la sfera svanì e comparve una fila d’icone. Tamara prese il mouse e cliccò prima su un simbolo simile a un atomo d’idrogeno, poi su un altro a forma di stella. Infine digitò una serie di password, muovendo le dita alla velocità della luce. «Ecco la prima parte. Queste sono le equazioni che fratello Cyrus ha recuperato dai rapporti dell’FBI e dalle altre fonti dell’intelligence. Credo che le riconoscerai. Sono le formule della teoria unificata dei campi. O almeno, una loro metà.» Le equazioni si materializzarono sullo schermo. All’inizio Michael non le

aveva imparato a memori a; l’unica differenza era la notazione usat

riconobbe affatto: molti simboli erano incomprensibili – scarabocchi, puntini e delle specie di B e Z inclinate all’indietro –, ma lui identificò le operazioni matematiche e comprese che Tamara aveva detto la verità: le formule erano identiche a quelle che a per scriverle. Fratello Cyrus aveva circa metà delle equazioni dell’Einheitliche Feldtheorie. Anche se espresse con un linguaggio simbolico alternativo, erano sostanzialmente le stesse. «E questa è la seconda parte», riprese Tamara digitando ancora sulla tastiera. «Fratello Cyrus ha assunto un team di esperti informatici che lavorano su questo programma da oltre un anno. Non sono riusciti a completarlo perche´ non conoscevano tutte le equazioni della teoria unificata. Ma, ora che tu sei qui, possiamo finire il lavoro.» Cliccò su un’icona a forma di abaco.

vide abbastanza per cM ichael non riuscì a leggerle. Tuttavia

Lo schermo si oscurò temporaneamente, poi comparve un codice software. Centinaia di righe d’istruzioni presero a scorrere verso l’alto, così in fretta che

apire che non si trattava di un programma comune. Conosceva quasi tutti i linguaggi di programmazione più diffusi – aveva imparato Java, Fortran, C++ e Basic studiando i computer all’Autism Center –, ma quel codice era pieno di comandi che non aveva mai visto. Si chinò per guardare meglio gli operatori e le variabili: qubit, qureg, Cnot, Hadamard... «Che razza di programma è? A cosa serve?» domandò. Iniziava ad avere l’emicrania. «Fratello Cyrus te lo spiegherà meglio di me. Sarà qui domattina, perciò potrai chiederlo a lui. Però posso dirti quello che ha detto a me.» Tamara indicò il monitor. «Questo è ciò che tiene chiusa la porta del Regno dei Cieli. E tu hai la chiave, Michael. Devi solo inserire nel codice le equazioni mancanti. Ricordi il libro d’Isaia? Un fanciullo li guiderà.» Il mal di testa si acuì. Era come se avesse una scheggia di

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vetro conficcata nel cranio, poco sopra il sopracciglio sinistro. Michael guardò ancora il codice e scosse la testa. «Non posso. Non so come fare.» «Consideralo un rompicapo. Ti piace risolvere i rompicapi, vero?»

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8

Fratello Cyrus ammirava l’alba dalla sommità di una collina nel distretto di Adraskan, una desolata regione dell’Afghanistan occidentale dove la seconda brigata di spedizione dei marine combatteva contro i talebani. Le uniche chiazze di colore nel paesaggio arido e sassoso erano i campi di papaveri coltivati per il traffico di eroina. Era una terra di nessuno nel vero senso della parola: i convogli del corpo dei marine sfrecciavano lungo le strade durante il giorno, e di notte i combattenti talebani scendevano dai sentieri montani, ma il territorio apparteneva solo a Dio. In quel momento le creste irregolari e le valli sterili erano deserte, e il mondo peccaminoso dell’uomo sembrava lontano. «Alleluia!» urlò Cyrus mentre contemplava il panorama. Era bellissimo, perche´ Dio l’aveva creato plasmando e modellando la Terra con le Sue mani potenti. Eppure nessun luogo del mondo era totalmente libero dalla contaminazione dell’uomo. I jihadi si nascondevano dietro muri di fango sui monti, mentre gli americani sorvolavano la zona coi loro caccia. Entrambi affermavano di combattere in nome di Dio, invece erano tutti soldati dell’esercito di Satana, intenti a vomitare il loro sudiciume sul creato. Avevano corrotto quella parte del pianeta al punto che Cyrus non poteva più nemmeno passeggiare da solo. Una delle sue guardie del corpo era su un’altura cento metri più in là, e altre tre pattugliavano la zona circostante.

Quei soldati erano i suoi seguaci più fedeli, i Veri credenti, lo proteggevano coi loro fucili e con le loro attenzioni. Li aveva selezionati con cura, scegliendo solo quelli con la fede più salda. Erano felici di compiere le missioni che assegnava loro, perche´ sapevano che la ricompensa sarebbe stata la vita eterna. Fratello Cyrus si girò verso ovest, dove le colline si allungavano in direzione del confine iraniano, a cento chilometri di distanza. Anche gli strumenti del diavolo si potevano usare per scopi sacri e, dal quel punto di vista, gli iraniani si erano rivelati molto utili: la Guardia rivoluzionaria era così impaziente di costruire la bomba atomica da stringere un patto con un estraneo pur di accelerare la progettazione dell’arma. Cyrus aveva le competenze necessarie: prima di ricevere la chiamata del Signore, aveva lavorato per anni sulle testate nucleari. Inoltre aveva ancora amici e informatori nei laboratori militari americani e russi, perciò non aveva avuto difficoltà a recuperare le risorse di cui gli iraniani avevano bisogno. In cambio aveva ricevuto qualcosa di assai più prezioso. Il test nucleare iraniano era stato un ottimo esperimento e i risultati erano a dir poco sorprendenti. Ora Cyrus sapeva esattamente come eseguire la volontà del Signore.

nord-ovest su un’autostrada a due corsie insieme con una quarantina di camion dell’esercito statunitense, tra cui una dozzina di veicoli a pianale aperto che trasportavano carichi coperti da teloni cerati. Cyrus sorrise. Sapeva che non si trattava

Sollevò il binocolo e scorse una lunga fila di Humvee che procedeva in direzione

di normali soldati americani, bensì del I battaglione del 75º reggimento ranger,

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un’unità delle SOF al comando del tenente generale Sam McNair. Erano diretti in Turkmenistan, a nord dell’Iran, dove sarebbe iniziata l’ultima battaglia contro l’esercito di Satana. Grazie ai suoi informatori nello SOC, lo Special Operations Command, Cyrus sapeva di Cobra, il piano segreto per attaccare gli impianti nucleari iraniani passando da nord. A differenza del confine tra l’Iran e l’Afghanistan, dove la Guardia rivoluzionaria aveva posizionato centinaia di missili antiaerei, quello tra l’Iran e il Turkmenistan era scarsamente difeso. Intravedendo una possibilità, gli americani avevano concluso un accordo clandestino col presidente a vita del Turkmenistan, un miserabile dittatore che aveva un disperato bisogno di valuta forte. In cambio di un sostanziale versamento sul suo conto corrente in Svizzera, avrebbe permesso ai ranger di entrare nel suo Paese e di raggiungere una zona di raccolta segreta vicino al confine iraniano. Una volta arrivate a destinazione, le truppe d’assalto avrebbero sferrato l’attacco a sorpresa contro l’impianto nucleare. Cyrus tenne il binocolo puntato sul convoglio finche´ non rimase solo una nuvola di polvere. In meno di un’ora i ranger sarebbero arrivati nella città afghana di Herat, dove si sarebbero fermati in attesa del tramonto, poi sarebbero entrati in Turkmenistan sfruttando il buio. Fratello Cyrus li avrebbe seguiti, guidando un convoglio, molto più modesto, di Veri credenti. Procedeva tutto secondo il piano del Signore. La strada verso la redenzione era spianata. Abbassò il binocolo e si voltò di nuovo verso est. Le alte vette dell’Hindu¯ Ku¯sh distavano centinaia di chilometri, troppi perche´ potesse scorgerle anche solo vagamente, ma ne avvertì la presenza all’orizzonte. Quello era il luogo in cui il Signore gli aveva dato la Sua benedizione, mentre era prigioniero nelle viscere dell’inferno. In una grotta sotto il monte Ga¯zarak, vicino al confine tra l’Afghanistan e il Pakistan, i soldati di Satana l’avevano torturato con ingegnosa crudeltà. Per tre lunghi giorni avevano mutilato il suo corpo e violentato la sua anima, gettandolo in uno stato di agonia e impotenza così profonde che la sua mente aveva vacillato e la sua fede si era sgretolata. Privo di speranza, era diventato un uomo senza Dio, un animale nudo e sanguinante che desiderava solo la morte. Poi, durante uno dei rari momenti in cui gli aguzzini gli avevano concesso qualche minuto di sonno, il Signore gli aveva mostrato il Suo volto. Cyrus l’aveva visto fluttuare pochi centimetri sopra di se´ e l’aveva riconosciuto all’istante. Era colmo d’amore. Erano trascorsi diversi anni eppure, quando chiudeva gli occhi, Cyrus vedeva ancora il viso del Signore. Lo vide anche in quelmomento, sulla cima dellacollina: un viso che non era ne´ bianco ne´ nero, ne´ paffuto ne´ scarno, ne´ giovane ne´ vecchio. Un viso che presentava tutti i lineamenti umani in una volta sola. Un viso che non aveva mai assunto una forma tangibile, ma che sarebbe stato riconoscibile persino per un bambino. Con gli occhi chiusi, Cyrus si tolse la sciarpa e la gettò via, sentendo il calore dei raggi del sole sulle guance. Voleva essere faccia a faccia con Dio, anche se i suoi tratti erano peccaminosi e ripugnanti. S’inginocchiò sul suolo pietroso e chinò il capo. «Signore delle schiere celesti, Signore della gloria. Chiediamo umilmente il Tuo aiuto.

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fDacci la orza difare la Tua volontà. Guida le nostre mani affinche´ portiamo la Tua amorevole redenzione in questo mondo corrotto. E guida i nostri cuori

apriremo le porte del paradiso e s

affinche´ entriamo nel Regno dei Cieli senza vergogna.» Gli s’incrinò la voce. L’aria del deserto gli aveva seccato la gola. «Oh, Signore, sei così vicino! Tra poco

toccare terra con la fronte. Poi pregò in silenzio, con la caldo.

aremo al Tuo cospetto! C’inginocchieremo davanti al Tuo trono e guarderemo il Tuo volto benedetto!» Tremando, si piegò fino a

fronte posata sul terriccio

Passarono i minuti. Cyrus non avrebbe saputo dire quanti; quando pregava, perdeva la cognizione del tempo. A un certo punto, tuttavia, udì uno scalpiccio e aprì gliocchi. Non appenasi alzò scorse una delle sueguardie che saliva la china. Era Tamara, la sua preferita, la più vera tra i Veri credenti. Alta e snella, indossava un’uniforme mimetica e portava un fucile d’assalto M-4. Aveva i capelli così corti che dal casco in Kevlar non le spuntava nemmeno una ciocca. Sembrava un soldato normale, un giovane membro della fanteria americana, ed era proprio ciò che era stata

reclutare seguaci: c’erano molte acausa. Lui aveva s fino a tre anni prima, quando fratello Cyrus l’aveva convinta a combattere per la sua

coperto che l’esercito statunitense era un ottimo posto per nime ferite, molti soldati che avevano un

disperato bisogno della guida del Signore. Cyrus raccolse la sciarpa e se la riavvolse rapidamente intorno alla testa. Nemmeno Tamara era autorizzata a vedere il suo volto. Era troppo raccapricciante. Lei si fermò e si mise sull’attenti. Stava per fargli il saluto militare, ma poi si astenne. Cyrus aveva ripetuto più volte ai suoi seguaci che non era necessario, però ogni tanto quelli lo facevano lo stesso. «La pace sia con te, fratello. Sei pronto per tornare al campo base? Non mi piace l’idea di lasciarti qui all’aperto per troppo tempo», disse Tamara. «Sì, ho appena finito le mie preghiere.» Lui sorrise e si avviò lungo il pendio sassoso. «Come vanno le cose questa mattina? Michael Gupta si è ambientato?» «Ha studiato il file Logos per tutta la notte. Circa un’ora fa, gli ho consigliato di fare una pausa, ma non ha voluto staccarsi dal computer. Ho la sensazione che resterà davanti allo schermo per tutto il giorno.» Cyrus sorrise ancora. Aveva previsto che il programma avrebbe affascinato il ragazzo. Quel giovane genio non aveva resistito alla tentazione di esaminarlo e, con l’aiuto del Signore, presto avrebbe portato a termine il suo compito. «Ha fatto qualche modifica al file?» «No, non ancora. Consulta il codice da ore, però non ha cambiato una virgola. È molto strano.» Tamara scrutò l’orizzonte. Il sole ardeva già sopra il paesaggio brullo. «Sai cosa penso, fratello? Penso che lo stia imparando a memoria e che faccia le modifiche nella propria testa.» «Non mi stupirebbe. Cos’altro ci si può aspettare dal pro-pronipote di Albert Einstein? Una volta che avrà completato il programma, lo convinceremo a metterlo per iscritto.» «Il ragazzo è triste, fratello. La vita è stata molto ingiusta con lui. Ha sofferto molto e non se lo merita.» Tamara scosse la testa. Cyrus si fermò e la guardò attentamente. Di solito era un soldato risoluto, un guerriero di Dio calmo e imperturbabile, ma in quel momento era angosciata e aveva gli occhi lucidi. Senza dubbio stava pensando alla propria vita. Come Michael, Tamara era sopravvissuta ad alcuni fatti spiacevoli: un padre uccel di bosco, una madre morta in giovane età, un’infanzia trascorsa con varie famiglie affidatarie in una

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zona rurale del Kentucky... Non c’era da meravigliarsi che provasse compassione per il ragazzo, ma Cyrus temeva che quel sentimento potesse mettergli i bastoni tra le ruote. Il piano era entrato in una fase critica e il Signore doveva poter contare sulla loro fermezza. «Tamara, sai perche´ il ragazzo ha sofferto. In questo mondo corrotto il dolore e gli orrori affliggono chiunque.» «Sì, fratello, lo so.» «L’Onnipotente verrà a salvarci. In questo preciso istante sta concentrando la Sua volontà in questo luogo, in questo deserto.» Cyrus fece un movimento circolare col braccio, indicando le colline aride. «Una volta che Michael avrà completato il codice, potremo perfezionare Excalibur. Poi la spada sacra di Dio metterà fine a questo mondo sofferente e ci condurrà tutti nel Suo Regno!» Tamara annuì, ma tenne gli occhi puntati sull’orizzonte. Lui le prese dolcemente il mento fra le mani e le girò la testa verso di se´. «Il Signore ha bisogno che tu sia forte, Tamara. Ne sei capace? Riuscirai a essere forte per Lui?» «Sì, fratello!» rispose lei con decisione. I suoi occhi grigi lampeggiarono. «Io servo il Signore! Desidero vedere il Suo volto benedetto!» «Molto bene. Ora torniamo al campo.» Cyrus riprese a camminare. «Suppongo che il resto stia filando liscio. Hai fatto i preparativi per il viaggio di stasera?» «Sì, partiamo alle dieci.» Il tono di Tamara era sicuro, ma la sua espressione tradiva ancora un pizzico di ansia. Si mordicchiò il labbro. «Però abbiamo ricevuto un messaggio. Da Keller.» Cyrus aggrottò le sopracciglia. Sebbene Keller fosse uno dei suoi alleati, non era un Vero credente. Era un misero burocrate, un avido assistente che lavorava presso il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Cyrus era stato costretto a costituire una rete d’informatori pagati a Washington, costituita da uomini che non sapevano nulla dei piani del Signore ed erano animati da motivazioni riprovevoli ma, vendendo informazioni a Cyrus, contribuivano involontariamente alla sacra causa di Dio. «Che cosa dice Keller?» «Ha intercettato un’altra e-mail riguardante l’inchiesta federale sull’esplosione del laboratorio nel Maryland. L’agente Parker continua a raccogliere informazioni sulle ricerche di Steele. Ha presentato la richiesta per un viaggio in Israele e il direttore dell’FBI l’ha approvata.» Lui annuì. A quanto pareva, l’agente speciale Lucille Parker, a capo della task force che non era riuscita a proteggere Michael Gupta, era decisa a rimediare ai propri errori. «Be’, me l’aspettavo, ma non così presto. Non immaginavo che le indagini sarebbero procedute tanto in fretta. L’agente Parker andrà in Israele da sola?» «No, partirà coi tutori di Michael. Ha presentato una richiesta speciale per portare anche David Swift e Monique Reynolds. Arriveranno a destinazione oggi pomeriggio.» Molto interessante, pensò Cyrus. Evidentemente Lucille Parker faceva affidamento sulle loro competenze scientifiche. I coniugi Swift avrebbero potuto complicare le cose, tuttavia era presuntuoso desiderare che la strada verso la redenzione fosse tutta in discesa. Le Scritture prevedevano un’aspra battaglia, i servi del Signore avrebbero dovuto combattere l’esercito di Satana prima di entrare nel Regno dei Cieli. «Ho dei nuovi ordini per te, Tamara. Non appena arriviamo al campo, invia un messaggio criptato a Nicodemus. Digli dei visitatori che stanno per giungere in Terra Santa e chiedigli di preparare loro una degna accoglienza.»

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9

Il Learjet dell’FBI ottenne il permesso di atterrare a Tel Nof, un campo d’aviazione militare nel cuore d’Israele. David e Monique sedevano in ultima fila, dietro Lucille. Mentre l’aereo scendeva, David guardò fuori del finestrino e vide allineata sulla pista di atterraggio una dozzina di F-16, che decollavano a intervalli regolari di trenta secondi l’uno dall’altro per unirsi alla flotta di aeroplani che pattugliava lo spazio aereo del Paese. L’aeronautica israeliana era in stato di massima allerta per via del test nucleare iraniano. Sull’altro lato della base, diversi veicoli corazzati erano assiepati intorno a un bunker di cemento. David sapeva che Tel Nof era uno dei siti in cui Israele conservava le armi nucleari. Il Paese aveva l’atomica e, se necessario, non avrebbe esitato a usarla. Scosse la testa. In quel momento non poteva preoccuparsi di un’eventuale apocalisse nucleare. Doveva concentrarsi sulla missione. Lui e Monique erano lì solo perche´ avevano convinto Lucille che potevano aiutarla a rintracciare Olam ben Z’man, il collaboratore segreto di Jacob Steele. Le loro competenze avrebbero potuto rivelarsi preziose per l’indagine: Monique conosceva la fisica meglio di chiunque altro, mentre David era in contatto con molti scienziati israeliani grazie a Fisici per la Pace. La loro risorsa principale, tuttavia, era la disperazione: se Lucille non avesse accettato di portarli con se´, sarebbero andati ugualmente in Israele e avrebbero iniziato a indagare da soli. Michael era scomparso da trentasei ore e i rapitori non si erano fatti vivi. David e Monique non si sarebbero dati pace finche´ non l’avessero trovato. Purtroppo la ricerca subì una battuta d’arresto non appena arrivarono all’Università ebraica di Gerusalemme. Avevano dato per scontato che Olam ben Z’man – che non figuravanei database israeliani – fosse il bizzarro nome in codice di un professore dell’ateneo. Poiche´ era possibile che costui avesse condiviso il segreto con un collega, Lucille torchiò

interrogatori; per l’occasione, avevano indossato da avere un’aria più ufficiale.

studenti e insegnanti della facoltà d’Informatica. David e Monique assistettero agli dei completi rispettabili, in modo

L’unico altro indizio veniva

del Maryland sia viceversa. Tuttavia,

Communications, la

Diverse persone scoppiarono a ridere quando Lucille menzionò Olam ben Z’man, ma nessuno l’aveva mai sentito nominare.

dalla Verizon

che Olam ben Z’man aveva fatto al laboratorio di Jacob Steele.

compagnia telefonica che aveva rintracciato le chiamate cui aveva accennato Adam Bennett,

I tabulati indicavano che le telefonate erano di fatto partite da una linea quelle

di fibre ottiche in Israele, la stessa linea che era stata usata in altre occasioni per trasmettere milioni di

– la compagnia telefonica israeli secondo i funzionari della Bezeq

ana –, la linea non era collegata a nessun

gigabyte di dati, sia da Israele all’università

computer dell’Università ebraica ed il flusso

di dati, sembrava

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terminare in una stazione di distribuzione a Gerusalemme Est, palestinese della città.

nella parte

Alla fine della giornata, Lucille decise di chiedere aiuto a un agente di sua conoscenza dello Shin Bet, l’equivalente locale dell’FBI, che le doveva un favore da quando, qualche anno prima, l’aveva aiutato a identificare un imam di Brooklyn che raccoglieva soldi per Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi. Prima lo pregò di mandare un esperto di telecomunicazioni alla stazione di distribuzione, poi fissò un appuntamento con lui per parlare di Olam ben Z’man. Poiche´ l’agente aveva insistito per un incontro a quattr’occhi, Lucille si avviò da sola verso un ristorante vicino al quartier generale dello Shin Bet, ma non prima di aver incaricato David e Monique di andare a parlare con l’esperto di telecomunicazioni.

fuori dalle ura della città m La stazione di distribuzione era un piccolo edificio senza finestre appena

vecchia. Arrivarono alle sette e mezzo, quindici minuti prima del tramonto. Quando David smontò dall’auto a noleggio, si schermò gli occhi dal sole e guardò le guglie e i minareti che scintillavano magnificamente nella luce dorata. Quindi contemplò l’antico cimitero che si allungava a est, verso il monte degli Ulivi, mentre Monique osservava la stazione, soffermandosi soprattutto sulle antenne che spuntavano dal tetto. Trovarono l’esperto, Aryeh Goldberg, chino su alcune cianografie sparpagliate sul cofano della macchina. Era un tipo basso e tarchiato, sulla cinquantina, con indosso un paio di jeans, una polo grigia e gli occhiali posati sulla testa calva. Era così concentrato che non udì nemmeno il saluto di Monique. Solo quando lei ripete´: «Salve, Mr Goldberg», lui si raddrizzò e sorrise. Aveva la carnagione scura e vivaci occhi marroni, e non sembrava infastidito dal fatto di dover fare gli straordinari. Abbassando gli occhiali, strinse la mano prima a Monique e poi a David. «Ah, gli americani», esordì in un inglese dall’accento marcato. «Il mio supervisore dice che siete dell’FBI, sì? Agenti federali? Vi conosco perche´ ho il DVD di quel film di gangster, quello con Kevin Costner. Avete presente?» Monique sorrise. «Sì, ma ora...» «Lo so, avete fretta. Devo avvertirvi, però, che siamo alle prese con un gran pasticcio. Stenterete a crederci.» «Che cosa intende?» «Non riesco a capire che fine abbiano fatto i vostri dati. Sono certo che i segnali provenienti dal Maryland sono arrivati a questa stazione e sono stati smistati sulla 3-17, una linea di fibre ottiche dedicata, installata dalla Bezeq l’anno scorso. Sono sicuro che esiste, perche´ sono entrato pochi minuti fa e l’ho vista sul pannello di controllo. Però non è sulla mappa!» Diede una manata alle cianografie. «Sinceramente non ci capisco un’acca: la Bezeq dovrebbe aggiornare questi schemi ogni settimana!» Monique strizzò le palpebre: anche se non era un’agente dell’FBI, sapeva riconoscere un indizio quando ne vedeva uno. «Chi ha ordinato l’installazione della linea?» «Questa è un’altra cosa pazzesca. Ho controllato l’ordine e non ho trovato nessun nome. E l’indirizzo è una casella postale. Ma la persona che ha ordinato la linea paga regolarmente le bollette, così almeno la Bezeq è soddisfatta, sì?» «Esiste un modo per scoprire dove vada la linea? Magari parlando con gli operai che l’hanno installata?» Aryeh fece una smorfia. «Oh, quei tizi sono degli idioti .

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Conosco un metodo più rapido.» Piegò le cianografie e le gettò sul sedile posteriore, quindi estrasse una torcia dal vano portaoggetti. «La 3-17 è raggruppata con altre cinque linee dentro un cavo che passa nella città vecchia. Così seguiamo il cavo e vediamo dove si dirama la linea, sì?» «Si può fare? I cavi non corrono sotto terra?» «Sì, quasi sempre. Ma nella città vecchia è tutto diverso. Gli archeologi non permettono alla Bezeq di scavare, così la compagnia posa le linee ovunque.» Aryeh chiuse la macchina e si avviò. «Venite, da questa parte. Il cavo passa attraverso la porta dei Leoni.» David e Monique seguirono l’ometto, che camminava rapidamente per avere le gambe così corte, e si diressero verso un arco fiancheggiato da leoni scolpiti nel muro: l’ingresso alla città vecchia. David avevagià visto la porta dei Leoni quand’era stato a Gerusalemme dieci anni prima, ma fu di nuovo colpito dalla sua sobria bellezza. Per uno storico, la città vecchia era un autentico paradiso terrestre. Grande meno di un chilometro e mezzo quadrato, era piena fino all’inverosimile di moschee, chiesee templi antichi. David guardò a sinistra e scorse la cupola della Roccia, il santuario musulmano che dominava quella parte di Gerusalemme. Sorgeva su una piazza elevata che gli ebrei chiamavano «monte del Tempio», perche´ lassù si ergeva il sacro tempio prima che i romani lo distruggessero nel 70 d.C. Poco più giù c’era la via Dolorosa, la strada che Gesù aveva percorso verso il luogo della

crocifissione. Era sufficiente per ispirare persino un agnostico come David, che era cresciuto in una famiglia cattolica ma non metteva piede in una chiesa da trent’anni. Superarono la porta dei Leoni e imboccarono un vicolo in leggera discesa, i cui ciottoli erano stati levigati dai millenni. La viuzza era affollata di persone che si muovevano nella direzione opposta, perlopiù donne palestinesi con la testa coperta che lasciavano la città vecchia con le borse della spesa. Passò un gruppo di suore anziane, seguite da due soldati israeliani che pattugliavano nervosamente il quartiere musulmano. Il vicolo era fiancheggiato da negozi di souvenir: T-shirt, poster, zucchetti, narghilè e una vasta gamma di appariscenti dipinti a olio raffiguranti la crocifissione. Davanti ai negozi, sotto tende dai sostegni arrugginiti, alcuni uomini palestinesi, che bevevano il tè da bicchieri sottili, lanciarono occhiate sospettose ad Aryeh Goldberg, ma non dissero nulla nemmeno quando lui ccese la torcia e la puntò su un cavo nero che correva sopra le tende. a

Dopo alcune centinaia di metri, giunsero davanti a un muro dove la linea di fibre ottiche passava vicino a una targa rotonda che recava il numero romano I, intorno alla quale era riunito un folto gruppo di uomini in sandali e tuniche marroni. David riconobbe anche quel luogo: era il punto di partenza della via Dolorosa, la prima stazione della via crucis, dove Ponzio Pilato aveva condannato a morte Gesù. Quegli uomini erano pellegrini cristiani che si radunavano là ogni sera per rivivere la sofferenza di Cristo, e si recavano in processione fino alla famosa tomba dentro la chiesa del Santo Sepolcro. Alcuni di loro portavano voluminose croci di legno sulle spalle, altri indossavano finte corone di spine e leggevano ad alta voce passi della Bibbia. Erano così numerosi da bloccare il flusso dei passanti. Aryeh si fece largo tra i pellegrini, tenendo la torcia puntata sul cavo. Si voltò verso David e Monique. «La scatola di giunzione è laggiù », disse indicando un armadietto d’acciaio fissato al muro. «Devo aprirla per vedere dove vada la linea 3- 17. Potrebbe volerci qualche minuto.

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Devo superare la ressa.» Monique scrutava la folla, nervosa. Molti pellegrini parevano sopraffatti dall’emozione, almeno una dozzina era inginocchiata sui ciottoli e recitava versetti della Bibbia piangendo a dirotto. Un uomo si buttò a terra e per poco non colpì Monique con un’estremità dell’enorme crocifisso che portava sulla schiena. Lei strillò e si spostò di lato. «Gesù! Guarda dove vai!» Il pellegrino, il cui volto scuro e ispido era rigato di lacrime, non rispose. Si alzò vacillando e proseguì lungo il vicolo. Monique gli scoccò un’occhiataccia. David sorrise, cercando di sdrammatizzare. «Non credo che Gesù ti abbia sentita.» Lei non lo trovò divertente. Accigliata, continuò a osservare la calca. «Questo posto è pazzesco. Guarda questi squilibrati.» «Nonè colpa loro. Probabilmente molti soffrono della sindrome di Gerusalemme.» «È un’altra battuta?» «No,è un disturbo mentale diagnosticato. Gli psichiatri israeliani hanno scritto molti articoli sull’argomento. Ogni anno dozzine di turisti che visitano Gerusalemme si convincono di essere il Messia. Solitamente l’illusione svanisce quando lasciano la città.» Monique aggrottò le sopracciglia. «Grandioso. E noi stiamo cercando un tale che si fa chiamare ’Universo, il figlio del tempo’. Forse è svitato anche lui.» «Non credo che Jacob Steele avrebbe collaborato con uno svitato.» David scosse la testa. «Ricordi cos’ha detto Bennett? Jacob voleva fare una scoperta importante prima di morire. Forse Olam ben Z’man ha avuto un’idea brillante, degna del premio Nobel. E forse Jacob è venuto a saperlo e ha cominciato a lavorare con lui per conquistarsi una fetta di gloria.» «Okay, può darsi che Olam sia un genio. Ma molti geni sono anche pazzi.» «A me sembra più astuto che matto: non può essere una coincidenza che la sua linea di fibre ottiche sia stata cancellata dalle mappe della compagnia telefonica. Credo che abbia voluto coprire le proprie tracce.» «Perche´? Di cos’aveva paura?» «Non lo so, ma guarda cos’è capitato a Jacob. Evidentemente qualcuno non gradiva quello che

stavano facendo.» Un pellegrino lanciò un forte lamento e Monique trasalì. «Maledizione, non riesco a ragionare! Tutto questo mi deconcentra! Come diavolo faccio a riflettere?» Sembrava davvero frustrata. David si avvicinò e le mise il braccio intorno alle spalle tremanti. «Ehi, va tutto bene. Risolveremo ogni cosa, okay? In un modo o nell’altro scopriremo cosa sta succedendo, troveremo Michael e lo porteremo a casa.» Monique scosse la testa e scoppiò a piangere. Era uno dei rari momenti in cui si concedeva di mostrarsi vulnerabile. Come Michael, anche lei aveva avuto un’infanzia difficile e, fin da piccola, aveva sviluppato un fiero autocontrollo. Pochissime cose riuscivano ad abbatterla. Singhiozzando piano, appoggiò la fronte alla spalla di David. Lui la strinse. Quando si fu calmata, David la lasciò andare e lei si asciugò gli occhi. Era già tornata normale quando Aryeh ricomparve, senza fiato. «La linea 3-17 si dirama qui», annunciò indicando un edificio poco distante. «Poi scende una scala fino al tunnel Asmoneo.» David aveva già sentito quel nome, doveva averlo letto da qualche parte. «È il tunnel che corre accanto al monte del Tempio? Vicino al muro del Pianto?» «Sì, sono stati gli archeologi a scavarlo. Arriva fino ai grossi blocchi di pietra alla base del muro, dieci metri sotto terra. Viene usato soprattutto dai turisti, ma i kippot srugot amano andarci per pregare.» «Ikippot srugot?» «I sionisti osservanti, i coloni. Si

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chiamano così perche´ indossano zucchetti fatti a maglia, kippot srugot, appunto.» «Aspetti. Pensavo che gli ebrei osservanti portassero cappelli neri», fece David. «No, quelli sono gli haredim, gli ultraortodossi. Anche i kippot srugot sono osservanti, ma sono quasi tutti di destra ece l’hanno a morte coi palestinesi. Sono ossessionati dal muro del Pianto perche´ è l’unica parte rimasta del tempio. Nel quartiere ebraico lo si vede all’esterno, ma i kippot srugot preferiscono pregare nel tunnel perche´ è più vicino al...» «Un attimo», lo interruppe Monique. «Perche´ la linea entra nel tunnel? Ci sono dei computer, lì sotto?» «Non lo so. Ma possiamo scoprirlo, sì? Venite.» Accanto all’entrata c’era un uomo grassoe barbuto con indosso uno yarmulke fatto a maglia. Teneva un libretto delle preghiere in una mano e una mitragliatrice Uzi nell’altra. David sapeva che molti cittadini israeliani avevano l’abitudine di girare armati per via della continua minaccia terroristica, ma la vista di quel tizio fu ugualmente un po’ inquietante. Aryeh si avvicinò e disse qualcosa in ebraico. L’altro rispose in tono aggressivo, sogghignando. Aryeh allargò le mani e replicò, cercando di essere ragionevole, tuttavia il ciccione cominciò a urlare e ad agitare l’Uzi. Quindi Aryeh gli puntò contro un dito e parlò a voce così bassa che David non riuscì a sentirlo. Qualunque cosa avesse detto, il grassone recepì il messaggio. Si spostò con riluttanza e li fece passare. Si ritrovarono in una stanza buia, con le pareti di pietra grigia, che odorava di umido e antichità. In fondo c’era una scala metallica che scendeva in un pozzo scavato alla bell’e meglio nella roccia. Aryeh puntò la torcia sul soffitto irregolare, seguendo il percorso del cavo. «Capite cosa intendo riguardo ai kippot srugot? Sono degli attaccabrighe. L’idiota all’ingresso voleva farci pagare per accedere al tunnel.» Scosse la testa. «Sono sempre così, pazzi e arrabbiati. Ma non è questo l’aspetto peggiore.» «Qual è, allora?» domandò David. «Sono sempre in competizione coi palestinesi. Creano problemi costruendo edifici nel quartiere musulmano e trasformandoli in yeshiva. E poi entrano nelle moschee con le loro Uzi, cantando preghiere.» David annuì. «Capisco.» «Sono un po’ sorpresa, Mr Goldberg. Lei lavora per un’agenzia d’intelligence israeliana, ma sembra parteggiare per l’altro fronte», intervenne Monique. «Non mi faccio illusioni sui palestinesi», replicò Aryeh. «I loro terroristi sono peggio dei kippot srugot,e lo stesso dicasi dei bastardi di Hamas, che lanciano razzi sulle nostre scuole, e dei kamikaze che cercano di far saltare in aria i nostri autobus. E dei mullah in Iran che vogliono bombardarci con l’atomica.» Si fermò per un istante, come se stesse riflettendo sull’eventualità di quella catastrofe. Poi strinse il corrimano e proseguì. «Ma, per qualche ragione, gli ebrei m’irritano di più.» In fondo alla scala si ritrovarono in un’altra stanza buia. La torcia illuminò un soffitto a volta, dove il cavo correva parallelo ai fili della luce. «La linea va da questa parte.» Aryeh si diresse verso una spaccatura verticale nella parete. «Il passaggio è stretto, perciò dovremo camminare in fila indiana, sì? Questo era l’acquedotto che portava l’acqua al tempio.» Era un luogo turistico, con corrimano imbullonati alla pietra calcarea, eppure David aveva un nodo alla gola. Odiava i tunnel. Per poco non era rimasto ucciso in una galleria due anni prima, quando fuggiva dall’FBI, e da allora soffriva di una leggera claustrofobia. Dopo qualche minuto, tuttavia, sbucarono in un corridoio più largo e luminoso, e lui rimase

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a bocca aperta per lo stupore: lungo il lato sinistro correva la parte sotterranea del muro del Pianto. Immensi blocchi di pietra erano impilati l’uno sull’altro, senza ne´ malta ne´ cemento: era bastato il loro peso a tenerli fermi per secoli, anche quando i detriti della città vecchia li avevano sepolti. «Incredibile.» David guardò le lastre lisce sotto i suoi piedi. «Questa è la strada Erodiana, vero? La passeggiata costruita da re Erode fuori dalle mura del tempio.» «Sì,sì», rispose Aryeh, guardando la linea di fibre ottiche. Anche Monique la fissava intensamente. Dopo altri due o tre minuti, incapparono in un gruppo di almeno venticinque persone. Erano kippot srugot che pregavano verso un basso arco scolpito nel muro del Pianto. Ognuno si teneva un libretto nero davanti alla faccia e dondolava avanti e indietro urlando in ebraico. Le Uzi che gli pendevano dalle spalle oscillavano come pendoli. Avvicinatosi, David notò che l’arco era ostruito da pietre grigie. Quei fanatici pregavano verso un’insulsa parete coperta di crepe e umidità. Diede un colpetto sulla spalla di Aryeh. «Perche´ l’arco è bloccato? Che cosa c’è dall’altra parte?» «Il Sancta Sanctorum», rispose l’altro. «La parte più interna deltempio. Ora è stato sostituito dalla cupola della Roccia, e gli ebrei osservanti si rifiutano di entrare nel santuario musulmano. Così pregano qui. Ce n’è sempre una gran folla, giorno e notte.» Un uomo smise di dondolarsi e li guardò in cagnesco. «Mostrate un po’ di rispetto! Copritevi la testa!» sbraitò in inglese. «Vai al diavolo.» Aryeh agitò il pugno nella sua direzione, poi si rivolse nuovamente a David. «Eccoli lì con le loro Uzi. Non le posano nemmeno quando parlano con Dio.» «Altri squilibrati. Questa città ne è piena», bisbigliò Monique all’orecchio di David. Un centinaio di metri più in là, il corridoio si allargava in un locale spazioso. A sinistra c’era un altro arco chiuso e a destra una porta d’acciaio. Aryeh si fermò. Il cavo spariva in un foro sopra il telaio. Il cartello sull’uscio diceva: USCITA D’EMERGENZA in inglese, ebraico e arabo. Lui spinse il battente. Non scattò nessun allarme. Fece un cenno a Monique. «Prima le signore, sì?» David seguì la moglie e Aryeh su per una scala. Poi aprirono una seconda porta e spuntarono in un vicolo acciottolato che assomigliava molto a quello vicino alla porta dei Leoni. Era angusto e fiancheggiato da negozi di souvenir, ma ormai le saracinesche erano abbassate e la viuzza era buia e deserta. Aryeh alzò la torcia e ritrovò il cavo, che correva direttamente verso l’entrata di un edificio poco distante e scompariva in un foro sopra una porta massiccia d’acciaio rinforzato, sormontata dalla scritta: BEIT SHALOM YESHIVA. «Non posso crederci.» Sospirò. «Questa è una delle yeshiva di cui vi ho parlato. Piene di ebrei pazzi che cercano di occupare il quartiere musulmano.» «È sicuro che la linea finisca qui?» domandò David. Tra la porta d’acciaio e le sbarre alle finestre, quel posto somigliava a una prigione. «Sì. Questo è il capolinea. Si capisce dalle marcature.» Aryeh illuminò una coppia di puntini bianchi sul cavo.

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Poi rischiarò nuovamente la scritta. «E guardate il nome, guardate come chiamano questo posto: Beit Shalom, la ’casa della pace’. Riuscite a crederci?» David e Monique si scambiarono un’occhiata. Lui aveva la sensazione che entrare nella yeshiva con Aryeh sarebbe stato un errore, perche´ quel tipo esprimeva le sue opinioni con un po’ troppa disinvoltura. Gli tese la mano. «Grazie per l’aiuto, Mr Goldberg. Ora continuiamo da soli.» «Sì, fate pure. Credetemi, non ho nessuna voglia di andare lì dentro.» Aryeh strinse la mano a entrambi, quindi si avviò verso una traversa. «Buona fortuna, agenti federali! Vi auguro di trovare quello che state cercando.» Monique lo fissò finche´ non scomparve, poi si rivolse David. «Che cosa vuoi fare? Dobbiamo chiamare Lucille?» Lui riflette´. Di certo Lucille avrebbe voluto che la contattassero prima di avventurarsi nella Beit Shalom Yeshiva. Era lei la professionista, dopotutto. E probabilmente avrebbe insistito per condurre di persona gli eventuali interrogatori. Ma David non era sicuro che quello fosse l’approccio migliore: se, come sospettava, Olam ben Z’man aveva paura di qualcosa, di sicuro sarebbe stato più a suo agio con due professori che con un’agente dell’FBI. «Procediamo per gradi. Se troviamo Olam, cerchiamo di convincerlo a venire con noi da Lucille.» Monique assentì. Stava per dire qualcosa, ma poi girò la testa e sbirciò il vicolo. «Merda! Quello è...» David si voltò, però vide solo i ciottoli scuri e le saracinesche abbassate. «Che cosa c’è?» sussurrò. «Sstt!» Lei continuò a scrutare l’oscurità, quindi scosse la testa. «Maledizione. Credevo di aver visto qualcuno.» «Qualcuno? Chi?» «Ricordi il pellegrino che mi ha quasi colpita col crocifisso? Pensavo di averlo visto laggiù, dietro il pilastro sulla sinistra. Volto scuro, velo di barba nera...» «Gesù, intendi?» Lui tirò un sospiro di sollievo e sorrise. «Credi che Gesù ci stia pedinando?» Monique si avviò verso la yeshiva. «Andiamo, troviamo Olam.» Nicodemus era tentato di sparare. La donna nera al centro della viuzza era un bersaglio facile, e ne´ lei ne´ l’uomo erano armati. Nico lo sapeva perche´ li aveva osservati da vicino mentre portava la croce lungo la via Dolorosa. Avrebbe potuto ucciderli là senza nessun problema e confondersi tra la folla, ma aveva ricevuto ordini molto specifici. Il suo bersaglio principale non era ne´ Monique Reynolds ne´ David Swift, bensì la persona che stavano cercando. Nico li aveva seguiti nella città vecchia con la speranza che lo conducessero da Olam ben Z’man. Accovacciato dietro un pilastro poco distante, osservò gli americani che raggiungevano la pesante porta della yeshiva e suonavano il citofono. L’uscio si aprì, rivelando due uomini barbuti, armati di Uzi. I quattro iniziarono a parlare in inglese. Nico era troppo lontano per sentirli, ma immaginò cosa stessero dicendo. I due tizi fecero entrare i visitatori e richiusero rumorosamente la porta. Lui prese la radio. Era ora di avvisare gli altri membri della squadra, che erano sparpagliati nel quartiere musulmano e in quello ebraico, impegnati a controllare le uscite del tunnel. Una volta che si fossero radunati, avrebbedato il via all’assalto. Sembrava che glioccupanti della yeshiva avessero fortificato l’edificio per paura di attentati terroristici palestinesi, ma Nico e i suoi uomini erano armati e ben addestrati. E, soprattutto, Dio era dalla loro parte. Fratello Cyrus aveva detto che il Signore li avrebbe condotti verso la vittoria, e Nico era un Vero credente.

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Sulla soglia c’erano due kippot srugot alti e robusti, col collo taurino e con le braccia muscolose, ma molto giovani – non avevano più di vent’anni – come dimostrava la barba irregolare, con alcuni foruncoli visibili sotto la peluria. Indossavano jeans, T-shirt e scarpe da ginnastica e, a parte gli yarmulke e le Uzi, sembravano normalissimi studenti universitari. David provò compassione per loro. Dovrebbero rilassarsi sulla spiaggia a Tel Aviv anziche´sorvegliare l’ingresso di una yeshiva a Gerusalemme, pensò. Monique sfoderò il suo sorriso incantevole. «Perdonate il disturbo. Siamo del Federal Bureau of Investigation, la polizia americana, e vorremmo parlare col vostro capo. È possibile?» Quelli si guardarono, indecisi. Forse non capivano l’inglese, anche se la maggior parte degli israeliani lo masticava almeno un po’. Molto probabilmente avevano inteso ogni parola, ma la sola vista di Monique era stata sufficiente per scombussolarli. Se erano comeglialtri studenti delle yeshiva, le uniche donne con cui avevano contatti erano le loro madri e sorelle. Il più alto, il cui yarmulke era punteggiato di stelle a sei punte, lanciò un’occhiata a Monique, poi si rivolse a David. «Scusi. Chi siete?» chiese. «Lavoriamo per il governo americano. Vorremmo farvi qualche domanda.» David aveva parlato in tono fermo, ma temeva che non sarebbe bastato. Non aveva un distintivo ne´ un mandato ufficiale. I ragazzi avevano tutto il diritto di sbattergli la porta in faccia. Il suo interlocutore fece di no con la testa. «Il rav è occupato», bofonchiò. «Ilrav?» «Sì, il rabbino, il rav Kavner. Sta studiando il Talmud. E l’ingresso è vietato alle donne. Mi dispiace.» Il giovane fece per chiudere la porta. «E Olam ben Z’man? Lui è disponibile?» chiese Monique. L’altro si paralizzò, costernato. «Conosce Olam?» «Sì, e si direbbe che lo conosca anche tu. Possiamo entrare, ora?» Lui si strofinò nervosamente il mento, confuso. Quel poveretto non era abituato a prendere decisioni. Alla fine agitò la mano e disse: «Okay, venite». Richiuse l’uscio dietro di loro. «Prima di vedere il rav, dovete consegnarci le armi. Ve le restituiamo dopo.» «Perche´?» domandò David. «Dobbiamo essere prudenti. Il rav ha molti nemici nel quartiere musulmano e la situazione è molto tesa al momento.» «Per via della crisi iraniana?» Lo studente annuì. «Gira voce che i palestinesi collaborino con l’Iran. Hamas e gli hezbollah vogliono portare di nascosto una bomba iraniana in Israele.» David aprì la giacca per mostrargli che era disarmato. «Be’, io sono pulito. Niente pistole, niente bombe.» Monique lo imitò. «Anch’io.» Nell’atrio, una scala scendeva nel seminterrato e un’altra saliva al primo piano. David vide il cavo di fibre ottiche che entrava dal foro sopra l’ingresso e seguiva la prima

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rampa. Fece un passo in quella direzione, ma lo studente lo afferrò per il braccio e lo condusse di sopra. Raggiunsero un’ampia stanza con le sbarre alle finestre, il pavimento di assi scricchiolanti e un lungo tavolo coperto di massicci libri antichi. Una dozzina di giovani era impegnata nella veneranda tradizione dello studio del Talmud, che richiedeva di dibattere sui punti più insidiosi della legge ebraica consultando antichi volumi. A capotavola era accomodato un minuscolo vecchio con una lunga barba candida, che sorrideva ai ragazzi che discutevano. Indossava pantaloni neri e una camicia bianca sgualcita, occhiali enormi e uno yarmulke grande quanto una zuppiera, che faceva sembrare la sua testa ancora più piccola. David si stupì: aveva immaginato che il leader di un gruppo sionista militante avesse una presenza fisica più imponente, invece il rav sembrava un piccolo mendicante ebete. Quando comparvero David e Monique, i giovani si zittirono. Fissavano Monique con le bocche spalancate, pronti a lanciarsi in una sfilza d’imprecazioni. Il rabbino, tuttavia, non parve scioccato ne´ indignato, anzi, sorrise ai due studenti che li avevano accompagnati e disse qualcosa in ebraico. Il più alto dei due rispose con una rapida raffica di parole, fra cui David colse «FBI» e «Olam ben Z’man». Il vecchio smise di sorridere e impallidì. Si alzò, preoccupato. «Che cosa c’è? Che cos’è successo a Olam?» «C’è un posto in cui possiamo parlare in privato, Mr Kavner?» domandò David. «Lo sapevo!» Il rabbino fece una smorfia di dolore e si batte´ il pugno sulla fronte. «Sapevo che sarebbe capitato qualcosa di terribile! L’avevo avvisato!» «Per favore, Mr Kavner.» Monique indicò la porta in fondo allo studio. «Quello è il suo ufficio?» «Sì, sì.» Il rav abbassò il pugno e li accompagnò nell’altra stanza. Entrarono in un bugigattolo senza finestre, con una vecchia scrivania di legno, dietro la quale prese posto il rabbino, e alte pile di libri addossate contro le pareti. Davanti alla scrivania c’erano due sedie dalla fodera strappata. Monique ne occupò una, mentre David rimase in piedi. «Le siamo grati per la collaborazione, Mr Kavner. E...» «Mi dica solo una cosa», lo interruppe l’altro. «Olam è morto?» Si accasciò sulla sedia, disperato. «Be’, non abbiamo prove che sia stato ferito o ucciso, ma...» «Baruch HaShem! » esclamò il rav alzando le mani e guardando il soffitto. «Benedetto sia l’Eterno!» «Ma riteniamo che sia in pericolo, perciò dobbiamo trovarlo il prima possibile. Ha idea di dove possa essere?» Il rabbino corrugò la fronte. «Se sapessi dov’è Olam, pensa che sarei così in ansia? Ha lasciato la yeshiva martedì notte e non abbiamo sue notizie da allora.» Raddrizzò la schiena. «Che tipo di pericolo? Eperche´ sietevenuti voi americani e non la polizia israeliana?» Monique gli rivolse un’occhiata di scuse. «Mi dispiace, rabbino, risponderemo alle sue domande tra un minuto, okay? Prima però dobbiamo cercare di capirci qualcosa. Olam è uno studente di questa yeshiva?» «Sì, sì. Anzi, è il mio studente più brillante. È più grande degli altri e i suoi studi sono più avanzati, ma vive nel dormitorio al piano di sopra e partecipa alla nostra missione sacra.» «Missione sacra?» «Sì, prepariamo Gerusalemme per il Messia.» Il rabbino allargò le braccia, accennando alle pareti. «Ecco perche´ abbiamo acquistato questo edificio e l’abbiamo trasformato in un centro di preghiera e di studio. I palestinesi

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dicono che vogliamo cacciarli dalla città vecchia, ma è una menzogna. La verità è che non c’importa niente di loro. C’importa solo di Dio.» Monique si sforzò di non alzare gli occhi al cielo. «Torniamo a Olam. Da quanto tempo lo conosce?»«Mi faccia pensare.» Il rav si mordicchiò il labbro inferiore e fissò ancora il soffitto. «Sì, è stato quattro anni fa. Olam aveva saputo della nostra missione sacra alla Beit Shalom ed è venuto a trovarmi. Abbiamo fatto una bella chiacchierata e, qualche settimana dopo, ha cominciato i suoi studi qui.» «Ha detto che è più grande degli altri studenti?» «Sì, ha superato la cinquantina. È arrivato in seguito a una tragedia personale, capite. Ricordate la guerra in Libano di qualche anno fa? Quando abbiamo combattuto contro gli assassini hezbollah che avevano lanciato i razzi oltre il nostro confine?» Monique annuì.«Sì.» «Sono rimasti uccisi molti giovani soldati israeliani e il figlio di Olam era tra loro.» Il rav scosse la testa. «Ma l’Eterno agisce in modo misterioso. A volte una tragedia come questa avvicina le persone a Dio. Ed è ciò che è accaduto a Olam. Ha lasciato casa e lavoro ed è andato in cerca di Dio.» «Che lavoro faceva? Prima di arrivare qui, intendo.» «Era uno scienziato dell’Università ebraica, un esperto di computer. E aveva anche contatti col governo israeliano, così come tra le alte sfere dell’esercito e dell’aeronautica. Non gli piaceva parlarne, tuttavia mi ha raccontato alcune storie...» David sentì aumentare il livello di adrenalina. Erano sulla strada giusta. Bennett aveva detto che, nei messaggi lasciati per Jacob Steele, Olam si era definito un informatico. Anche i contatti col governo israeliano sembravano perfettamente logici: qualche pezzo grosso doveva essere intervenuto affinche´ la linea 3-17 non figurasse sulle mappe della compagnia telefonica. «Forse può aiutarci a capire una cosa, Mr Kavner. Abbiamo già controllato i database dell’Università ebraica e Olam ben Z’man non compare da nessuna parte. È il suo vero nome?» L’altro scosse la testa. «Oh, no! Il suo vero nome è Loebman o Loehmann. Uno dei due. O qualcosa del genere.» «Non conosce il suo vero nome?» Monique era incredula. «Nella yeshiva lo chiamiamo col nome sacro che ha assunto quando ha iniziato a studiare la cabala: Olam ben Z’man.» Il vecchio si appoggiò alla scrivania e fissò Monique. «Suppongo che abbia sentito parlare della cabala. È molto popolare in America, a quanto ne so.» Lei non rispose. Quasi sicuramente, i suoi pensieri erano gli stessi di David: con le informazioni di cui disponevano, avrebbero potuto scoprire il vero nome di Olam ben Z’man. Sarebbe stato sufficiente cercare un ex professore della facoltà d’Informatica dell’Università ebraica con un figlio morto in Libano. Il rav si rivolse a David. «E lei? Molti americani sono convinti di conoscere la cabala, ma dicono solo un mucchio di stupidaggini. Credono che sia una specie di setta ebraica, con codici segreti e altre sciocchezze.» Guarda caso, David aveva qualche nozione sull’argomento. Dopo avercambiato facoltà,aveva seguito uncorso di Storia della scienza medievale e la cabala rientrava nel programma. «È una branca della filosofia ebraica medievale. I cabalisti tentavano di spiegare la natura dell’universo. Volevano capire come un Dio infinito ed eterno avesse potuto creare un mondo finito e mortale.» L’altro lo fissò, impassibile. Poi sorrise. «Eccellente! Un americano che sa veramente qualcosa sulla cabala!» Gli puntò contro un dito nodoso. «Ma mi permetta di sottoporla a un piccolo test. Sa cos’è l’Ein Sof? E cosa

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sono le Sephirot?» A David era piaciuto molto quel corso, perciò lo ricordava abbastanza bene. «Ein Sof significa ’senza fine’ e si riferisce al Dio infinito e inconoscibile. Le Sephirot sono le emanazioni di Dio usate per creare il mondo conoscibile. L’idea, credo, è che Dio abbia dovuto frantumarsi in diversi aspetti per manifestarsi nell’universo fisico.» «Fuochino. Sephirot non significa ’emanazioni’, bensì ’enumerazioni’. Come quando si conta, capisce?» Il rav allargò le dita. «Ci sono dieci Sephirot, disposte in uno schema chiamato Etz haChayim, l’’albero della vita’. Questo schema ha tre pilastri e ventidue sentieri, che corrispondono alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Chiaro?» David aveva perso il filo. Voleva provare a riportare la conversazione su Olam ben Z’man, ma Monique lo precedette: «Rabbino, possiamo tornare a quello che ha detto prima? Aveva avvisato Olam che sarebbe accaduto qualcosa di terribile. A cosa si riferiva?» Lui sospirò. «La ’cosa terribile’è scaturita dai suoi studi. Vede, alcuni insegnamenti cabalistici possono essere fraintesi, per questa ragione molti rabbini non accettano studenti minori di quarant’anni. Olam aveva superato quell’età, perciò l’ho accolto volentieri tra noi, anche perche´ era molto brillante... fin troppo. Dopo aver letto tutti i testi che è riuscito a trovare, ha sviluppato delle idee proprie, e sono state quelle idee a metterlo nei guai.» «Quali idee?» Il rav scosse la testa. «Oh, è difficile da spiegare. Non venivano dai libri e dai commentari tradizionali. Venivano dalla scienza, dal suo lavoro coi computer. Olam ha cercato di combinare le teorie scientifiche coi principi della cabala. Io non ci capisco nulla di computer e, quando Olam mi ha esposto le sue teorie, gli ho detto che per me non avevano nessun senso. Così ha trovato qualcun altro con cui parlare, un altro scienziato con cui aveva fatto amicizia.» «Qualcuno dell’Università ebraica?» «No, in America. In un’università del Maryland.» David ebbe un’altra botta di adrenalina: il rabbino alludeva a Jacob Steele. «Mr Kavner, ricorda cos’ha detto Olam delle sue idee? Ci dica solo le parole che ha usato, anche se per lei non significano niente.» L’altro inclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi. «Continuava a usare la parola meyda, ossia ’informazioni’. ’L’universo è una serie d’informazioni’, ripeteva. Quando gli ho chiesto cosa intendesse, ha iniziato a blaterare di particelle e forze della natura, astrusi concetti scientifici che non c’entravano nulla con la cabala. Al che gli ho detto: ’Olam, ti sbagli. L’universo è Dio’. E lui ha risposto: ’Allora le informazioni sono Dio, perche´ nell’universo tutto è costituito da informazioni’.» Aprì gli occhi. «Ditemi, ho fatto male? Come avrei potuto capirci qualcosa?» Monique si avvicinò alla scrivania, fissando Kavner senza guardarlo davvero. La sua mente era impegnata altrove, a riflettere sulle parole del rabbino. «Ricorda qualcos’altro?» «Ora che mi ci fate pensare... Olam aveva alcune idee bizzarre sulle Sephirot. Come ho detto, sono dieci e sono disposte nell’albero della vita. Ebbene, Olam sosteneva che, in realtà, erano programmi informatici. Come quelli presenti sui dischi che s’inseriscono nel computer quando si vuole che la macchina esegua un’operazione. ’Sei pazzo, non puoi mettere le enumerazioni di Dio su un disco’, lo rimproveravo, ma lui insisteva che era vero. Sosteneva che si poteva creare un

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universo di stelle, pianeti e galassie usando semplicemente alcuni programmi informatici.» David ebbe una stretta allo stomaco. Ripensò ai computer quantistici di Jacob Steele, alle serie di ioni capaci di contenere incredibili quantità di dati. Poi ricordò gli avvertimenti di Jacob sull’interruzione dello spazio-tempo, sulla lacerazione nella struttura dell’universo. E ora quegli strani discorsi su Dio, sull’informatica e sulle enumerazioni. Qual era il legame? L’universo era una serie d’informazioni? Trasse un profondo respiro. «Mi dispiace, Mr Kavner, ma continuo a non capire. Come hanno fatto queste idee a mettere Olam nei guai?» L’altro abbassò lo sguardo. «Olam voleva dimostrare di avere ragione. Ha detto che era in grado di fare un esperimento per mettere alla prova le sue teorie sulle Sephirot. All’inizio ho pensato che non dicesse sul serio, poi però mi ha mostrato i progetti e i disegni dello scienziato del Maryland.» Scosse il capo. «Gli ho detto che non ero d’accordo. Avevo un brutto presentimento. Era come il capitolo 11 della Genesi, la torre di Babele. Olam cercava di raggiungere Dio. Era un affronto all’Eterno. Non ne sarebbe venuto niente di buono.» David ebbe un’altra fitta allo stomaco. «Ma Olam ha continuato lo stesso? Ha condotto l’esperimento?» Il vecchio alzò la testa. Aveva gli occhi vitrei. «Eravamo buoni amici. Non ho potuto dirgli di no.» «E il suo computer è nel seminterrato di questo edificio, giusto? Attaccato alla linea di fibre ottiche.» Il rav assentì. «Ha detto che il progetto aveva a che fare con un certo Gruppo Caduceo.» Nico suonò il citofono della yeshiva. Indossava ancora la tunica da pellegrino, ma sotto le sue pieghe aveva nascosto il coltello da combattimento e l’Heckler & Koch 9 millimetri. Vicino a lui c’era Bashir, il suo vice, anche lui armato. Era molto basso – un metro e sessanta –, ma era il suo soldato più crudele. Venivano entrambi da Beirut, erano veterani della lunga guerra civile libanese e non amavano particolarmente gli israeliani. La porta si aprì e Nico vide i due studenti. Avevano ancora le Uzi, tuttavia, anziche ´ imbracciarle tenendo le dita sul grilletto, se le lasciavano penzolare dalla spalla. Questo è indice di scarso addestramento o di stupidità, pensò Nico. È inutile avere un’arma se non si è pronti a usarla. Il ragazzo più alto fece un passo avanti. «Che cosa c’è? Che cosa volete?» chiese. Bashir, che teneva in mano una ciotola delle elemosine, si spostò verso l’altro studente, che aveva uno zucchetto con ricamato un motivo infantile di leoni. «Una donazione, per favore? Per i poveri.» «No, non siamo...» Bashir gli tagliò la gola prima che potesse aggiungere altro. Nico conficcò il coltello nel collo dell’altro giovane, recidendogli la carotide. Quindi estrasse la lama e si fece da parte. Il corpo cadde in avanti, schizzando sangue sui ciottoli. Fin qui, tutto bene, pensò Nico. Erano riusciti a introdursi nell’edificio senza che nessuno desse l’allarme. Si tolse la tunica – sotto indossava pantaloni neri e una camicia dello stesso colore – e fischiò. Dal vicolo buio sbucarono altri sei uomini vestiti di nero, che corsero verso la porta.

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Nell’ufficio di Kavner, dietro quella che sembrava la porta di uno sgabuzzino, c’era una rampa a chiocciola che scendeva nel seminterrato. L’antica sede della yeshiva era piena di stanze e scale improvvisate che erano state costruite e ricostruite da generazioni di occupanti; un tempo, spiegò il rabbino guidando David e Monique giù per i gradini di ferro arrugginito, l’edificio era stato usato da contrabbandieri giordani che avevano scavato dei tunnel per trasportare botti di vino sotto le strade della città vecchia. In fondo agli scalini era buio pesto, ma il rav premette un interruttore e illuminò un’ampia stanza dalle pareti di calcestruzzo, in fondo alla quale c’era un tavolo d’acciaio quadrato ingombro di apparecchiature da laboratorio: pannelli di controllo, oscilloscopi, spettrometri e laser, tutti collegati da serpeggianti cavi neri. «Accidenti! Questa roba deve valere un milione di dollari», sussurrò David. «Due milioni. Olam ha ricevuto i soldi dal suo amico nel Maryland», lo corresse il rabbino. I fondi della DARPA che Steele ha dirottato illegalmente, pensò David. Il denaro dei contribuenti americani era servito per finanziare un esperimento a Gerusalemme. Monique andò al tavolo ed esaminò gli strumenti. Parve stupita mentre osservava i laser racchiusi in custodie d’acciaio rettangolari, con minuscoli cerchi di vetro all’estremità. «Olam quando ha costruito tutto questo?» domandò al rabbino. «Sembra tutto seminuovo.» «Mi faccia pensare. È stato lo scorso agosto? Oppure era luglio? Quasi un anno fa. Per un paio di mesi non ha messo piede fuori di qui. Non lo vedevamo mai. E, anche dopo aver finito, scendeva nel seminterrato tre o quattro volte al giorno. Le macchine erano sempre accese, capisce, e lui doveva controllarle a intervalli regolari per assicurarsi che funzionassero.» «Ma ora non funzionano», osservò Monique indicando il tavolo. I LED dei dispositivi erano spenti. «No, Olam le ha disattivate prima di andarsene. Martedì sera è sceso a controllare le apparecchiature come al solito ed è rimasto nel seminterrato per quasi un’ora. Poi è corso nel mio ufficio dicendo che c’era stata un’emergenza. Doveva recarsi dai suoi vecchi amici dell’esercito, ha aggiunto. Non mi ha detto dove sarebbe andato, limitandosi a promettere che sarebbe tornato il mattino successivo.» Il rabbino s’incupì. «Però non è tornato ne´ ieri ne´ oggi. Nel pomeriggio ho chiamato la polizia, ma mi hanno detto che dovevo aspettare un altro giorno prima di denunciare la scomparsa.» David raggiunse Monique, impegnata a studiare un piccolo specchio posto davanti a un laser con un’inclinazione di quarantacinque gradi: se l’apparecchio fosse stato acceso, il fascio di luce sarebbe stato deviato verso un altro piccolo specchio dall’altra parte del tavolo. David aveva già visto esperimenti di quel tipo: i fisici usavano le superfici riflettenti per guidare i laser verso il bersaglio. Adesso erano spenti, ma gli specchi erano ancora in posizione, dunque era possibile ricostruire il percorso dei raggi. Ed era esattamente ciò che voleva fare Monique.

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Spostò lo sguardo da uno specchio all’altro, seguendo la traiettoria sino alla fine. Poi sorrise e girò intorno al tavolo. «Eccola!» esclamò indicando due morse d’acciaio che sostenevano un tubo di vetro lungo circa otto centimetri. «Quella è la camera a vuoto.» «Che cosa? Quel tubicino?» fece David. Lei annuì. «È simile a quella che Lucille ha trovato nell’ufficio di Jacob Steele. Prima si estrae l’aria, poi s’iniettano gli ioni nel vuoto e si usano i campi elettromagnetici per allinearli. Quand’è tutto pronto, si sparano i raggi laser.» David allungò il collo per vedere meglio il tubo, posato orizzontalmente tra le morse. All’interno c’erano due elettrodi simili ad aghi, uno a ogni estremità,con lepunte aguzze rivolte verso il centro esatto del cilindro. «Ma questa camera è diversa da quella che ha trovato Lucille», replicò. «Questa ha solo due elettrodi. L’altra ne aveva due file parallele, e uno spazio vuoto nel mezzo per gli ioni.» «Non ho detto che sono identiche. Questa è una trappola a ione singolo.» Monique additò le punte degli aghi. «Se entrambi gli elettrodi hanno una carica positiva, possono tenere sospeso uno ione positivo grazie alla forza di repulsione. Questa trappola può contenere un solo ione alla volta.» David era ancora confuso. «Credevo che un computer quantistico necessitasse di più di uno ione. La macchina non esegue forse i calcoli facendo sì che gli ioni interagiscano tra loro? Se questa camera non può contenerne più di uno, come fa a calcolare qualcosa?» «Hai ragione. Non è un computer quantistico. È qualcosa di diverso. Ma non ho ancora capito cosa sia. Dammi un minuto, okay?» David lasciò a Monique il compito di studiare le apparecchiature e si allontanò dal tavolo. Nonostante l’entusiasmo della scoperta, era ancora nervoso. «È sicuro che questo sia un computer?» domandò a Kavner. «È così che ha detto Olam?» Il rabbino agitò le mani. «Non ho idea di cosa sia! Glielo ripeto, non ci ho capito niente di quello che mi ha detto.» «Rifletta per un secondo. L’ha mai definito ’computer’?» «No, l’ha chiamato solo ’Gruppo Caduceo’. E talvolta anche ’orologio ionico’, ma per me è ostrogoto.» David lo fissò. «Orologio ionico, ha detto?» «Sì, altre baggianate! Vi sembra forse un orologio?» David tornò accanto a Monique ed esaminò il tubo di vetro. Naturalmente sapeva che uno ione era troppo piccolo per essere visto a occhio nudo, ma immaginò una particella intrappolata fra gli elettrodi, un atomo che brillava dentro un raggio di luce laser. «Invece è proprio un orologio», mormorò Monique indicando la camera. «Se il laser è regolato sulla giusta frequenza, lo ione inizia a oscillare, assorbendo e rilasciando energia centinaia di trilioni di volte al secondo. E, poiche´ lo ione si comporta come un pendolo, dondolando avanti e indietro fra due livelli di energia, può essere usato a mo’ di orologio. Ho letto di un esperimento analogo sulla Physical Review. Un team di ricercatori in Colorado ha costruito un orologio utilizzando un singolo ione di mercurio. È molto più preciso di un orologio atomico convenzionale. Anche se funzionasse per un miliardo di anni, non rimarrebbe indietro più di un secondo.» David alzò la testa. Sopra il tavolo vide un cavo nero che saliva fino al soffitto, per poi scomparire in un foro perfettamente circolare. La linea di fibre ottiche. In quel momento capì perche´ Olam l’aveva installata. «L’orologio era collegato al laboratorio di Jacob, dove probabilmente ce n’era uno analogo. Ma non l’abbiamo visto perche´ è andato distrutto nell’esplosione», disse.

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«Questo spiega perche´ l’hanno chiamato ’Gruppo Caduceo’! È una serie di orologi che funzionano con ioni di mercurio, e il caduceo è il simbolo del dio Mercurio! Olam e Jacob effettuavano misurazioni accurate del tempo e si scambiavano i dati mediante la linea di fibre ottiche per confrontare le informazioni.» «Ma perche´ prendersi tanto disturbo? Che cosa stavano studiando?» «Non capisci? Un gruppo di orologi atomici molto accurati potrebbe rilevare minuscole differenze nel flusso del tempo. Se un orologio in un determinato luogo funziona un po’ più velocemente di uno identico in un altro luogo – e si è certi che la differenza non dipenda da errori meccanici o da effetti relativistici – potrebbe essere sintomo d’impercettibili variazioni nella struttura dello spazio-tempo. E lo schema delle variazioni sarebbe come una mappa, capace di fornire indizi sulla natura fondamentale dell’universo.» Monique guardò David negli occhi, sperando di essere stata chiara. «Ecco cosa cercavano Jacob e Olam: variazioni piccole ma molto significative. E hanno collocato gli orologi ai capi opposti del pianeta per avere più probabilità di registrarle. Lo scorso martedì però hanno rilevato qualcosa di più grande, qualcosa che li ha spaventati a morte. Un’interruzione sostanziale del tempo, verificatasi simultaneamente al test iraniano.» David scosse la testa. «Non ha senso.Come può un’arma nucleare alterare il flusso del tempo?» «Nonè una semplice arma nucleare, ma qualcosa in grado di dare origine a un fenomeno del tutto diverso. È come se un martello si fosse abbattuto con violenza sullo spazio-tempo e gli avesse dato un bello scossone. Chissà cosa accadrà se vibrerà un altro colpo. Potrebbe...» Monique fu interrotta da uno scalpiccio sulla scala. Echeggiarono due spari soffocati, in rapida successione. Il rumore di passi cessò e qualcosa di pesante rotolò giù per i gradini. Il corpo di uno studente piombò sul pavimento, coi jeans e con la T-shirt intrisi di sangue. Quindi si udirono altri passi, pesanti e veloci. Nico e i suoi uomini misero i silenziatori alle pistole. Quando fecero irruzione nello studio, si sparpagliarono e spararono ai dodici studenti riuniti intorno al tavolo. Nico ne freddò due; Bashir tre. Nel giro di qualche secondo, undici studenti erano morti, ma un giovane pallido e magrissimo seduto a capotavola era riuscito a rifugiarsi dietro una porta in fondo alla stanza. Nico e Bashir lo rincorsero imprecando. Dovevano eliminarlo prima che avvertisse gli americani. Lo seguirono in un piccolo ufficio ingombro di libri, tuttavia, prima che Nico potesse prendere la mira, lo studente urlò:«Rav Kavner!» e sgattaiolò fuori da un altro uscio. «Ibnil kelb! » gridò Nico, furibondo. Si lanciò all’inseguimento del giovane e si ritrovò in cima a una scala a chiocciola. Era buio ma, quando si sporse dal parapetto, vide l’ebreo che scendeva di corsa. Puntò la 9 millimetri e sparò due colpi. Il giovane ruzzolò giù per gli scalini. Nico proseguì, con Bashir alle costole. Restarono vicini al palo centrale, di modo che fosse più difficile colpirli: anche se gli americani erano arrivati disarmati, era possibile che gli ebrei avessero dato loro una pistola o un’Uzi. Quando Nico fu a circa quattro metri dal pianerottolo, si accovacciò e sbirciò nel seminterrato. Un vecchio ebreo barbuto correva istericamente qua e là, mentre gli americani s’inginocchiavano accanto al cadavere.

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L’ebreo dev’essere il rabbino della yeshiva, pensò Nico. Il «rav Kavner» che lo studente aveva tentato di avvertire. Gli americani dovevano averlo interpellato perche ´ era legato a Olam ben Z’man. Nico l’avrebbe interrogato per scoprire dove fosse Olam, ma non era necessario tenere in vita gli altri due. Ormai avevano assolto la loro funzione. Strisciando verso il bordo della scala, puntò l’Heckler & Koch alla fronte della donna. È un peccato, pensò. È bellissima. Poi premette il grilletto. All’ultimo minuto, Monique doveva aver visto qualcosa che si muoveva sui gradini, perche´ urlò: «Stai giù!» e spinse il marito sul pavimento. Quindi David udì un altro sparo attutito e Monique gli cadde addosso con un gemito, mentre uno schizzo di liquido caldo gli macchiava il viso. Con movimenti incredibilmente agili per un uomo della sua età, Kavner si tuffò verso l’interruttore sulla parete, poi il seminterrato piombò nell’oscurità. Si udirono altri spari. Le pallottole scheggiarono il pavimento e centrarono le apparecchiature. Gli uomini armati erano almeno due e, benche´ sparassero alla cieca, David sapeva che, se non si fosse messo al riparo, prima o poi l’avrebbero colpito. Si liberò del peso di Monique e la trascinò sotto il tavolo. Le tastò il collo alla ricerca del battito, ma aveva le dita viscide di sangue e non sentì nulla. Aveva un nodo in gola e gli occhi pieni di lacrime e, senza rendersene conto, piagnucolò: «No, Dio, no!» Poi Monique gli tappò la bocca con violenza e sussurrò con voce roca: «Zitto!» David era così sollevato che fosse viva da non avvertire il dolore al viso. Un’altra raffica di proiettili si abbatte´ sul tavolo, rimbalzando a pochi centimetri dalla sua testa.Quindi i colpi cessarono ed echeggiò un suono ancora più spaventoso: passi che scendevano gli ultimi gradini. David sapeva che, non appena i killer avessero trovato l’interruttore, sarebbe stato spacciato. Disperato, allungò la mano verso le apparecchiature e prese uno specchio, pensando di usare il pesante sostegno come arma. Quindi udì un fruscio a poca distanza. Stava per colpire la persona che si stava avvicinando, ma poi sentì la barba di Kavner sul volto. Il vecchio lo buttò a terra e rotolarono sotto il tavolo. Altre pallottole saltellarono tra i laser e gli oscilloscopi. «Da questa parte! Nel tunnel!» bisbigliò il rabbino. «Nel tunnel? Che cosa...» «Gliel’ho detto, il tunnel dei contrabbandieri! Da questa parte!» Il vecchio si allontanò carponi. David fece per prendere Monique, ma lei si stava già trascinando nella stessa direzione. Ormai i killer avevano raggiunto il seminterrato ed erano sempre più vicini. David lanciò lo specchio. Non colpì nessuno, però l’oggetto si schiantò sulla parete alle spalle degli uomini armati, che fecero fuoco da quella parte. Tra le scintille sprigionate dai proiettili che colpivano la scala di metallo, David intravide Kavner staccare una grata da un tombino nell’angolo opposto della stanza. Calò nuovamente l’oscurità, ma David aveva una buona memoria visiva e corse verso i suoi compagni. Urtò con violenza Monique, che aveva già infilato le gambe nel foro e scivolò oltre il bordo, per poi cadere sul fondo con ungemito. David precipitò dietro di lei, atterrando in una pozza maleodorante dopo un volo di quasi due metri. Si rialzò e allungò le mani verso Kavner. «Coraggio! La aiuto...» Le luci si accesero, rivelando l’espressione terrorizzata del rabbino. David lo afferrò per i fianchi e cercò di tirarlo giù, ma risuonò un’altra raffica di

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spari. Una pallottola colpì il vecchio alla nuca, affondandogli nel cervello e uscendogli dal cranio sopra il sopracciglio sinistro. Il rabbino rimase aggrappato all’orlo del tombino per un istante, con la bocca spalancata e il sangue che gli sgorgava dalla ferita. Quindi si afflosciò e cadde addosso a David. Non era pesante, ma il professore perse l’equilibrio e atterrò sulla schiena. Il cadavere rotolò via, finendo nella pozza. Lui rimase sdraiato nell’acqua lurida, troppo spaventato per muoversi. Riuscìsolo ad alzare lo sguardo, in attesa della pioggia di proiettili. Poi Monique gli afferrò il polso e lo tirò verso un foro nella parete di roccia. Era una rozza apertura ovale, appena sufficiente per farvi passare una botte di vino, e conduceva a un tunnel piuttosto stretto. Nella luce fioca, David vide Monique china su di lui: il braccio destro le pendeva lungo il fianco, col sangue che gocciolava dalla manica della giacca, ma il sinistro era abbastanza forte per aiutarlo ad alzarsi. «Seguimi», sussurrò. Quindi si avviò lungo il tunnel. Lui obbedì. Quando Nico raggiunse il tombino, vide solo il vecchio ebreo che giaceva a faccia in su. Il lato sinistro della fronte era una massa sanguinolenta, ma gli occhi erano aperti e le labbra erano piegate in un sorriso grottesco. Nico era furioso. I suoi soldati avevano ucciso l’uomo che avrebbe voluto interrogare! Sfogò la rabbia sul cadavere, sparandogli altre tre volte alla testa. Quando i boati si placarono, dal pozzo salì un altro rumore: un grattare rapido, simile a uno zampettio di ratti dietro una parete: gli americani stavano fuggendo attraverso un vecchio tunnel dei contrabbandieri, la cui entrata si distingueva vagamente accanto al rabbino. Ormai tutti e sette gli uomini avevano raggiunto il seminterrato. Bashir era fermo sul bordo del tombino, con l’Heckler & Koch puntata contro il rabbino morto. Era il momento di sfruttare la sua corporatura minuta. «Prima tu», ordinò Nico indicando l’imboccatura del tunnel. «Scendi e uccidili.» Il tunnel si snodava sotto le strade del quartiere musulmano, curvando a intervalli regolari di circa quindici metri. Poiche´ l’oscurità era impenetrabile, era impossibile prevedere se la svolta sarebbe stata a destra o a sinistra e Monique imprecavaognivolta che doveva cambiare direzione. Benche´ seguisse i passi della moglie, David continuava a sbattere i gomiti contro le pareti ruvide e a scivolare nelle pozze nauseabonde. Il tunnel, infatti, era stato trasformato in una fogna e il tanfo era insopportabile. Tanto per peggiorare le cose, dopo qualche decina di metri il passaggio si restrinse così all’improvviso che David picchiò la testa contro una sporgenza. Iniziò a chiedersi se sarebbero sbucati da qualche parte: i contrabbandieri non passavano di là da decenni, ed era possibilissimo che l’uscita fosse stata chiusa. Poi vide una luce dietro di se´, il raggio tremolante di una torcia che illuminava la svolta che avevano appena superato, accompagnato da una serie di passi pesanti. È uno dei killer, pensò. E quel figlio di puttana avanzava molto più rapidamente di loro.

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David gridò alla moglie: «Vai, vai!» ma lei si era già messa a correre. Procedevano il più velocemente possibile, però l’inseguitore era sempre più vicino, tanto che, di lì a poco, la torcia li individuò. Monique raggiunse un’altra svolta e si gettò a sinistra. David la imitò ma, non appena la raggiunse, anche l’uomo girò l’angolo e lo spazio angusto fu inondato di luce. Per una frazione di secondo, lei vide solo la propria ombra davanti a se´. Quindi tagliò di nuovo a sinistra e udì uno sparo. Il proiettile colpì la roccia di fronte a loro, provocando una pioggia di detriti esporcizia. «Cazzo!» urlò David. «Cazzo,cazzo,cazzo!» La curva successiva distava solo sei metri e Monique se l’era già lasciata alle spalle ma, quando David la superò, lei era sparita. In quel tratto, il passaggio si allargava e il soffitto era più alto, però davanti a lui c’era solo una parete vuota. Un vicolo cieco. David si paralizzò, in preda al panico. Rimase in ascolto e capì che ora gli inseguitori erano più di uno, tutti muniti di torce. Poi udì un forte tonfo e un rumore di legno scheggiato. Alla sua destra, Monique aveva dato una spallata a una porta sbarrata con delle tavole di legno. «Coraggio!» gridò. «Credo che si possa sfondare!» David vi si lanciò contro con tutto il suo peso. Con sua sorpresa, il compensato cedette e lui ruzzolò sul pavimento liscio di un lungo corridoio. Quando si alzò, notò una fila di giganteschi blocchi di pietra: erano tornati nel tunnel del muro del Pianto, da qualche parte tra il Sancta Sanctorum e l’uscita d’emergenza trovata da Aryeh Goldberg. Echeggiò un altro sparo e una pallottola centrò uno dei blocchi di pietra. David si tuffò di lato, afferrò Monique per il braccio sano e si mise a correre verso nord, in direzione del Sancta Sanctorum. «Aspetta! Fermo! L’uscita d’emergenza è dall’altra parte!» urlò lei. David scosse la testa. Erano ad almeno cento metri dall’uscita e, a differenza del tunnel dei contrabbandieri, quello era ben illuminato e procedeva in linea retta: non appena i killer l’avessero imboccato, ucciderli sarebbe stato un gioco da ragazzi. Nel Sancta Sanctorum, invece, che era molto più vicino, c’era ancora un folto gruppo di kippot srugot riuniti davanti all’arco. Alcuni avevano notato il trambusto e avevano smesso di pregare per guardare l’uomo e la donna che correvano verso di loro. David agitò le braccia con foga. «Hamas! Hamas! Ci seguono!» gridò. La reazione degli ebrei fu immediata: gettarono via i libri di preghiere e impugnarono le Uzi. Quando David fu a pochi metri di distanza, si buttò sul pavimento e trascinò Monique con se´, rotolando verso l’arco. I kippot srugot aprirono il fuoco. Mentre gli spari rimbombavano nel corridoio, David e Monique si rannicchiarono contro la parete. A occhi chiusi, lui rivolse una supplica al Sancta Sanctorum: Dio, Gesù, Signore, aiutaci! I colpi erano assordanti. Poi qualcuno urlò qualcosa in ebraico e i kippot srugot smisero di sparare. David aprì gli occhi. Sul pavimento c’erano sette corpi, tutti vestiti di nero. Miracolosamente non c’erano ebrei feriti. Uno di loro, un gigante dai capelli ricci e dallo yarmulke variopinto, si avvicinò. «State tranquilli, abbiamo contattato l’esercito.» Indicò il braccio di Monique. «E abbiamo chiesto un’ambulanza.» Lei annuì. Tremava e aveva le labbra bluastre. David, preoccupato, si domandò quanto sangue avesse perso.

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La spinse delicatamente per terra. «Ehi, dovresti sdraiarti. Rilassati. Ti meriti un po’ di riposo.» Monique non protestò. Si stese e lasciò che lui le sollevasse le gambe mettendole una pila di libri sotto i talloni. Quindi trasse un lungo respiro. «Mi dispiace», disse. «Ti dispiace? Tesoro, non devi...» «Non mi sto scusando con te. Mi sto scusando con Dio.» Lei abbozzò un sorriso. «E coi Suoi squilibrati.» Non appena gli ebrei iniziarono a sparare, Nico si ritirò nel tunnel dei contrabbandieri. Era così concentrato sull’inseguimento che si era accorto del gruppo d’israeliani solo quando ormai era troppo tardi. Sdraiato sul pavimento puzzolente, ascoltò gli spari in corridoio con un terribile nodo allo stomaco: stavano massacrando i suoi uomini. Anche Bashir, il suo amico e commilitone fin da quand’erano ragazzini, nei bassifondi di Beirut Est. Pensò di raggiungerli nella morte, uscendo allo scoperto e portando con se´ il maggior numero possibile di ebrei, ma poi si alzò e tornò verso il seminterrato della Beit Shalom Yeshiva. Se si fosse sbrigato, sarebbe riuscito a nascondersi nei vicoli del quartiere musulmano prima che arrivasse la polizia israeliana. Poi sarebbe andato al rifugio e avrebbe contattato fratello Cyrus. Cyrus non sarebbe stato soddisfatto, ma era un uomo implacabile. Gli avrebbe dato nuovi ordini, un nuovo piano, e quello sarebbe stato il modo migliore per vendicarsi. Nico avrebbe ucciso gli americani. L’Onnipotente avrebbe guidato la sua mano nel momento in cui avesse tagliato loro la gola.

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12

CampCobra esisteva dameno di dodici ore, ma era già la miglior base militare che il colonnello Brent Ramsey avesse mai visto. Più di settecento ranger del 75º reggimento e duecento tra piloti e membri degli equipaggi dell’8 a e della 160 a squadriglia dell’aeronautica erano nascosti in una caverna sui monti del Kopet Dag, sedici chilometri a nord del confine tra il Turkmenistan e l’Iran. Ramsey, un uomo delle Special Forces con ventidue anni di esperienza, osservava i soldati che scaricavano i camion arrivati dall’Afghanistan la notte precedente. La grotta era vicina a una strada turkmena che attraversava la catena montuosa, e la sua imboccatura era abbastanza grande per consentire il passaggio dei veicoli. Superato l’ingresso, lo spazio si dilatava a dismisura, formando un immenso garage naturale largo più di sessanta metri. Dozzine di Humvee e camion a pianale aperto erano parcheggiate lungo le pareti rocciose. I carichi erano coperti dateloni cerati,ma Ramseyli riconobbedalla forma:i più piccoli erano elicotteri Black Hawk; i più grandi Osprey, aerei a rotore basculante che potevano trasportare il doppio degli uomini e volare al doppio della velocità. E quello era solo il tratto iniziale della grotta, l’atrio. Più in là, si apriva un ambiente ancora più spazioso, dove i ranger avevano allestito una vera e propria tendopoli. Avevano già costruito la mensa, l’arsenale e l’ospedale da campo, per non parlare delle lunghe file di tende che fungevano da alloggi. In fondo la caverna si restringeva un poco e scendeva verso una camera più bassa, per poi condurre a un lago sotterraneo a forma di mezzaluna. L’acqua era verdastra, puzzava di zolfo e non era potabile, ma era riscaldata geotermicamente a trentacinque gradi, e alcuni soldati ne avevano già approfittato per fare il bagno. Ramsey pensò che quella base era maledettamente perfetta. Tanto per cominciare, era a meno di cento chilometri dall’impianto nucleare iraniano, perciò i Black Hawk e gli Osprey avrebbero potuto raggiungere il bersaglio in meno di venti minuti, molto più in fretta di quanto non avrebbero fatto volando dall’Afghanistan o dal golfo Persico. In secondo luogo, la base era mimetizzata alla perfezione: anche se gli iraniani avevano satelliti spia che monitoravano l’attività militare vicino ai confini del Paese, Camp Cobra non sarebbe comparso su nessuna delle loro immagini.Non avrebbero notato movimenti insoliti neppure sulle strade turkmene, perche´ i ranger avevano viaggiato di notte. E il presidente a vita aveva mandato la polizia segreta nell’area e aveva fatto evacuare in gran segreto tutti i villaggi dei dintorni. Era un piano geniale, e il generale McNair meritava una promozione per averlo escogitato. Ramsey non nutriva particolare simpatia per lui – il generale era un rigido conservatore, mentre il colonnello aveva un’indole ribelle –, ma bisognava dare a Cesare quello che era di Cesare. Se Al-Qaeda poteva rintanarsi nelle caverne, allora poteva farlo anche l’esercito degli Stati Uniti.

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I soldati finirono di scaricare l’ultimo camion e tornarono alle tende. Ramsey andò verso l’uscita, scambiando un saluto militare con le due sentinelle. McNair era rientrato in Afghanistan prima dell’alba, affidandogli il comando della base, e il colonnello aveva voglia di sgranchirsi un po’ le gambe. Per ragioni di segretezza, McNair aveva ordinato loro di restare all’interno durante il giorno, ma aveva collocato alcuni cecchini in posizioni ben mimetizzate sui fianchi delle montagne, e Ramsey voleva vedere come se la cavassero quei ragazzi. Era ancora mattina presto e, sul valico, la nebbia era densa, perciò era impossibile che un satellite o un aereo spia lo notassero. Inoltre il colonnello era stato in servizio per le ultime ventidue ore, prendendo pillole di dexedrina per restare sveglio, e ora aveva bisogno di movimento per distendere i nervi. Davanti alla caverna si estendeva un arido altopiano coperto di terriccio compatto e spinose piante del deserto. Le creste del Kopet Dag, spoglie e marroni, si profilavano tutt’intorno. Ramsey amava quei monti; gli ricordavano la sua infanzia nel Texas occidentale. Il Kopet Dag non era particolarmente alto, ma si allungava diritto e deciso come un lungo muro di terra, innalzandosi sopra la piatta distesa del deserto del Karakum e formando una barriera naturale tra il Turkmenistan e l’Iran. L’impianto nucleare iraniano era dall’altra parte di quel muro, dentro una grotta molto simile a quella che ospitava Camp Cobra. Benche´ le montagne ostruisserola visuale, Ramseypuntò comunque gli occhi in quella direzione, sentendosi temerario e smanioso come una recluta diciottenne, la stessa sensazione di profonda impazienza che provava ogni volta che si preparava per una missione. Sapeva che non avrebbero sferrato l’attacco a sorpresa almeno per altri due giorni: con un’ultima mossa diplomatica, infatti, la Casa Bianca aveva concesso

alla Guardia rivoluzionaria quarantotto ore per consegnare le armi nucleari, cosa che naturalmente gli iraniani non avrebbero mai fatto, perciò Ramsey immaginava già gli Osprey e i Black Hawk che decollavano e si dirigevano verso sud. Era così emozionato che decise di attraversare l’altopiano e raggiungere un punto da cui potesse guardare direttamente a sud, attraverso un’apertura tra le montagne. Non riusciva a vedere l’Iran – la nebbia era troppo fitta –, ma distinse un torrente che serpeggiava lungo il valico fiancheggiato da ginepri verdi che risaltavano sullo sfondo marrone. Udì anche il suono inconfondibile di una cascata. Incuriosito, scese la china. Ripensò alla sua infanzia nella contea di Brewster, a tutte le mattinate trascorse a esplorare il ranch del padre sulle Del Norte Mountains, scrutando costantemente il terreno in cerca di serpenti a sonagli e punte di freccia. Quando raggiunse i ginepri, Ramsey cominciò a cercare la cascata, seguendo il fragore dell’acqua tra un folto intrico di vegetazione. Poi sentì qualcuno alle sue spalle che diceva: «Fermo, colonnello». Era una voce americana, senza accenti stranieri. Ramsey immaginò che fosse un cecchino. Alzò le mani e si voltò, buttandola sul ridere: «Bravo, mi hai colto in flagrante». Ma, quando vide il soldato, rimase a bocca aperta. Innanzitutto non era un uomo, bensì una giovane donna, alta, formosa e carina. Indossava un’uniforme dell’esercito, senza indicazione dell’unità ne´ cartellino identificativo.

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La cosa peggiore era che gli puntava alla testa un’Heckler & Koch 9 millimetri dotata di silenziatore. Ramsey la fissò, incredulo. «Che diavolo ti salta in mente?» sbottò abbassando le mani. «Metti giù la pistola!» «Mani in alto, colonnello. Non glielo ripeterò un’altra volta.» Lui scosse la testa. Un ranger doveva aver portato con se´ la sua cazzo di fidanzata. Un idiota arrapato aveva infiltrato quella stronza nel convoglio e le aveva trovato un nascondiglio vicino alla base. Era l’unica spiegazione sensata. Il colonnello fece un passo avanti. «Ho detto metti giù la...» La donna prese la mira e sparò. Ramsey udì un colpo attutito e vide la propria mano destra che esplodeva. Il proiettile gli aveva trapassato le nocche, per poco non gli tranciava pure l’indice e il medio. Ricordando l’addestramento ricevuto nelle Special Forces, lui ignorò il dolore e cercò di estrarre l’M-9 dalla fondina, ma la donna premette ancora il grilletto e gli aprì un foro nel palmo sinistro. Era maledettamente umiliante. Quella stronza l’aveva messo fuori gioco in meno di due secondi. Furibondo, Ramsey le si scagliò addosso, aspettandosi che lo colpisse ancora e ponesse fine alle sue sofferenze, ma lei sorrise. Quindi un altro soldato spuntò dal nulla e lo buttò aterra. Se non altro il nuovo avversario era un uomo. Il colonnello aprìla bocca per mandarlo affanculo, ma poi alzò lo sguardo e vide che quel bastardo era McNair. Il generale torreggiava sopra di lui, alto e magro, coi luminosi occhi azzurri che lampeggiavano di rabbia. Ramsey era confuso e il dolore alle mani non lo aiutava a ragionare in modo lucido. «Generale?» gracchiò. «Credevo fosse tornato in...» «I miei ordini erano chiari, Ramsey.» McNair lo guardò in cagnesco, con le labbra strette. La stronza era alla sua sinistra. «Nessuno doveva lasciare la caverna.» «Mi... mi dispiace, signore!» Ramsey non sapeva cos’altro dire. «Devo andare all’ospedale da campo!» L’altro fece un passo avanti. «No, temo di no. Ora il Signore ha altri progetti per te.» Gli sferrò un calcio alla testa e il colonnello perse i sensi.

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Era un rompicapo, e Michael amava risolvere i rompicapi. Dopo che Tamara gli ebbe mostrato il programma sull’Ultra 27, lui rimase davanti al computer per tutta la notte e la mattina successiva, fissando le linee del codice per sedici ore di fila. Poi fece un sonnellino. Quella sera, Tamara lo svegliò per dargli qualcosa da mangiare e gli disse che doveva assentarsi per svolgere un lavoro importante, ma che Angel si sarebbe preso cura di lui fino al suo ritorno. Un’ora dopo, quand’era scesa l’oscurità, Angel lo condusse fuori e lo mise nel vano di carico di un grande furgone verde, insieme col computer, con la scrivania e col materasso. Per le dieci ore successive, Michael rimase là dentro con Angel, mentre il veicolo sobbalzava sulle strade accidentate, eppure non si annoiò, perche´ continuò a riflettere sul rompicapo. Lui poteva lavorare anche quando l’Ultra 27 era spenta: ormai il codice era impresso nella sua mente, disposto in lunghe righe e in blocchi vertiginosi che scorrevano su e giù sullo schermo nero delle sue palpebre. Voleva trascorrere ogni secondo di veglia studiando quelle stringhe d’istruzioni perche´, quando si concentrava sul rompicapo, non doveva pensare a Tamara, a fratello Cyrus o al dottor Parsons. Dimenticava dove fosse e cosa gli sarebbe successo, e si dedicava totalmente al programma. All’alba, il furgone si fermò nel bel mezzo di un deserto. Quando Angel aprì lo sportello posteriore, Michael vide dune che si allungavano in ogni direzione, increspando la sabbia in grandi onde beige. Angel disse che erano nel deserto del Karakum, che si estendeva per centinaia di chilometri in Turkmenistan. Aiutò Michael a smontare e lo guidò verso un accampamento costruito dai soldati di Cyrus. Diversi pick-up e Land Cruiser erano parcheggiati accanto a tredici capanne disposte in ordine sparso, che sembravano gigantesche zuppiere capovolte. Larghe quasi quattro metri e alte poco più di due, erano costituite da un muro circolare fatto di assicelle di legno e un tetto di feltro a cupola. Si chiamavano «iurte», spiegò Angel mentre ne apriva una. Dentro non c’erano mobili, ma solo un grande tappeto turco steso in terra. Due soldati portarono il materasso e la scrivania e cominciarono a installare la workstation, collegando il cavo di alimentazione a un generatore diesel esterno. Dopo che Angel e gli altri se ne furono andati, Michael prese posto sulla sedia pieghevole davanti al monitor e riprese a studiare il rompicapo. Fissò ancora i fitti blocchi del codice, controllando ogni riga per essere sicuro di averla memorizzata correttamente. Il segreto per comprendere il programma, aveva scoperto, erano le equazioni della teoria unificata dei campi. Leggendo con attenzione le istruzioni dettagliate del software, aveva notato che quest’ultimo eseguiva le stesse operazioni delle leggi della fisica. Una parte del codice determinava le masse delle particelle elementari – l’elettrone, il quark, il neutrino, e così via –, un’altra calcolava l’intensità delle forze tra le particelle, e un’altra ancora generava la varietà dello

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spazio-tempo, specificando la curvatura e la topologia delle dimensioni spaziali nonche´ la direzione del tempo. Il programma era molto diverso da quelli comuni, perche´ i dati che gestiva erano quantistici, non binari; anziche´ limitarsi a zero o uno, ogni bit poteva assumere un enorme numero di valori. Il software, tuttavia, seguiva le normali regole della logica, perciò lui sarebbe riuscito a decifrarlo. Il codice, però, era incompleto. Le persone che l’avevano scritto non disponevano di tutte le equazioni dell’Einheitliche Feldtheorie, così non avevano potuto finirlo. Michael, invece, sapeva a memoria tutta la teoria, dunque era in grado di colmare le lacune. Non lavorava sul monitor – anzi, le sue dita non toccavano mai la tastiera –, bensì perfezionava il codice nella sua testa, aggiungendo nuove righe di variabili e operatori quantistici. Il processo richiedeva alcuni spostamenti insidiosi, ma lui era bravo anche in quello. Non era più difficile che comporre un puzzle, e Michael ne aveva fatti molti quand’era piccolo. A metà mattina intravide la soluzione e a mezzogiorno aveva ormai riempito tutti gli spazi vuoti. Fece scorrere mentalmente il programma, vedendo i blocchi di codice che gli balenavano sulle palpebre. Ora sì che erano nell’ordine giusto. Stava ancora ricontrollando il software quando udì un rumore. Qualcuno aveva tolto il chiavistello. Michael si aspettava di veder arrivare Angel con un altro sacchetto di patatine, invece si trovò di fronte Tamara. Lei indossava ancora la divisa mimetica, ma aveva chiazze di sudore sotto le ascelle, una pistola infilata nella fondina e, nella destra, stringeva una bottiglia mezza piena di liquido marrone. «Michael! Sono tornata!» Lui si tappò le orecchie. La voce era troppo alta. «Oh, scusa!» Tamara si portò una mano alla bocca e indietreggiò. «Sono stata stupida. Ricominciamo da capo.» Andò sull’altro lato della iurta e si sedette sul materasso, posando la bottiglia sul tappeto. «Mi sono lasciata trasportare dall’entusiasmo. È solo che sono contenta di rivederti.» «Dove sei stata?» «Sulle montagne. A sud-ovest da qui.» Tamara si fece aria con la mano. David Swift aveva detto molte volte a Michael che quell’operazione era inutile, perche´ serviva solo a far sentire più caldo. «Ho guidato per tutta la mattina. Ho impiegato cinque ore per fare duecentoquaranta chilometri. Le strade in questo Paese sono orribili.» «Hai la

macchina?» Lei annuì.«È di fratello Cyrus. Una Land Cruiser. Ottima per guidare tra le dune. Quand’ero più giovane, adoravo il fuoristrada.» «Se hai la macchina, voglio che mi riporti da David Swift. Ti ho già dato il suo numero di telefono. 212- 5553988.» Tamara tacque. Poi si alzò e si avvicinò alla scrivania, indicando lo schermo. «Stai ancora lavorando al rompicapo? Hai fatto qualche progresso?» Michael si accasciò sulla sedia, rifiutandosi di guardarla. «Non aver paura, Michael», disse Tamara a bassa voce. «Stai facendo una buona cosa, un’ottima cosa. Ricordi quello che ti ho detto sul Regno dei Cieli?» Lui scosse la testa. «Il codice non parla del cielo. È solo una simulazione. Il programma simula le leggi della fisica.» «Mostra anche la strada della redenzione. Una volta che avremo il codice completo, capiremo come modificare il software.» Un’altra scrollata di capo, più vigorosa. «Non si possono cambiare le leggi della fisica.» Tamara si chinò verso il suo orecchio. «Scommetto che l’hai finito, vero? Hai completato il programma? E ora è nella tua testa?» Michael non rispose ma, quando chiuse gli occhi, rivide il codice che scorreva rapidamente verso l’alto.

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Con suo grande sollievo, Tamara si allontanò, per poi tornare quasi subito e posare la bottiglia sulla scrivania. «Dobbiamo festeggiare. Facciamo un brindisi.» Aprì un cassetto e vi frugò dentro finche´ non trovò due bicchieri. «Bere non è peccato se i nostri cuori sono puri, giusto?» Stappò la bottiglia. Michael sentì un odore dolce e intenso. «Che cos’è?» «Ja¨germeister. Una volta ne bevevo a litri. Fratello Cyrus aveva ragione sul tuo conto. Ha detto che ci avresti dato tutto ciò che ci serviva.» Tamara gli porse un bicchiere e alzò il suo. «Sei un dono dell’Onnipotente, Michael. Il Signore ci ha aiutati!» Ingollò il liquido d’un fiato. Michael non bevve. Non gli piaceva l’odore della bevanda e, in ogni caso, non aveva voglia di festeggiare. Risolvere il rompicapo non l’aveva reso felice. Anzi, l’aveva reso molto infelice, perche´ non aveva più niente con cui distrarsi dalle cose sgradevoli. «Che cosa c’è? Non ti piace lo Ja¨germeister?» domandò Tamara. Lui evitò il suo sguardo e fissò la parete. La capanna era quasi perfettamente circolare. Michael provò a calcolarne il diametro e la circonferenza, però non riuscìa concentrarsi. Continuava a pensare a quello che c’era fuori: le dune, i pick-up, i soldati dalle uniformi marroni... Tamara fece per accarezzargli la spalla, ma si fermò all’ultimo momento, facendo un passo indietro. «Oh, Michael. Mio fratello Jack aveva la stessa espressione quand’era triste e io non sapevo cosa dire per tirargli su il morale.» Lui la fissò. Non l’aveva toccato. Aveva mantenuto la promessa. Tamara tacque, posando il bicchiere sulla scrivania. «D’accordo, basta divertirsi. È ora che ci mostri la soluzione. Coraggio, inizia a scrivere il codice.» Gli appoggiò la tastiera sulle ginocchia. Era leggerissima. Michael la guardò, ma si rifiutò di toccarla. «Non puoi tenerlo per te, Michael. È troppo importante. Il Signore ci offre la possibilità di redimere il mondo. Non vuoi aiutarci?» «Non posso dirvelo. L’ho promesso a David Swift.» «Ascolta, so qualcosa sul conto di David Swift. Crede nella pace, giusto? Come si chiama la sua organizzazione? I Fisici per la Pace?» Michael aveva visto il nome scritto su alcuni documenti, inoltre una sera di sei mesi prima aveva aiutato David ad affrancare seicento buste intestate. «’Fisici per la Pace’, senza articolo.» «Okay, okay, come preferisci. Il punto è che crede nella pace. E, una volta che avremo aperto le porte del Regno dei Cieli, l’umanità vivrà in pace per sempre. Se David Swift sapesse che...» «Il programma non parla del cielo.» «No, non è vero! Il programma ci dirà come aprire le porte del Regno dei Cieli. Fratello Cyrus ha preparato tutto. Quando gli darai il codice, si occuperà del resto. Niente più dolore, niente più sofferenza. E vedrai tua madre, ricordi?» «Mia madre è morta.» «Michael, te l’ho già spiegato! Ci sarà la resurrezione dei morti, come ha promesso Dio. È questo il compito che Egli ha affidato a fratello Cyrus, preparare...» «Non credo a fratello Cyrus. Vuole usare la teoria per fabbricare armi.» Tamara lanciò uno strillo assordante e s’inginocchiò. «Te lo giuro, Michael! Te lo giuro su quanto esiste di più sacro!» Giunse le mani. «Fratello Cyrus è un uomo di pace! Vuole solo la redenzione!» Lui continuava a non

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crederle. Era sua nemica, non sua amica. Aveva ucciso il dottor Parsons. «Non posso dirvelo. L’ho promesso a David Swift!» gridò Michael. Tamara si zittì, abbassando il capo e prendendosi il volto tra le mani. Si dondolò a lungo sulle ginocchia, piangendo. Alla fine si alzò e andò alla porta. Prima di uscire, dichiarò: «Se non ci riveli il codice entro le sette di questa sera, fratello Cyrus sarà costretto a parlarti. E non sarà paziente come me». Chiuse l’uscio e rimise il chiavistello.

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Dopo aver medicato Monique, i dottori del pronto soccorso all’Hadassah Mount Scopus Hospital decisero di tenerla sotto osservazione per una notte. La lesione non era grave – la pallottola aveva mancato l’osso e l’arteria principale del braccio –, ma lei aveva perso molto sangue, perciò le attaccarono una flebo e le somministrarono un leggero sedativo. Dormiva già quando Lucille arrivò all’ospedale coi commando di un’unità dell’esercito israeliano, che si piazzarono davanti alle entrate dell’edificio in caso di nuovi attentati. David le raccontò cos’era accaduto alla Beit Shalom Yeshiva e cos’aveva scoperto su Olam ben Z’man. Quindi Lucille tornò al quartier generale dello Shin Bet per riferire le informazioni ai suoi omologhi israeliani affinche´ rintracciassero l’ex esperto d’informatica. Nel frattempo David salì nella stanza di Monique, al quarto piano, e si addormentò su una comoda poltrona accanto alla finestra, godendosi la prima vera notte di sonno in tre giorni. Si svegliò alle sei. La finestra era rivolta a sud, verso la città vecchia, e in lontananza David distinse la cupola della Roccia, già inondata di sole. La giornata doveva ancora cominciare e l’ospedale era insolitamente tranquillo. La camera era così silenziosa che si udiva la soluzione salina gocciolare nella flebo di Monique. Lei dormiva ancora, distesa sul fianco sinistro, col lenzuolo bianco che le copriva metà del braccio fasciato. Era in posizione fetale, con le ginocchia

rannicchiate e le mani giunte sotto il mento, come se pregasse, il volto finalmente disteso, sereno. Nella prima luce del mattino, sembrava giovane e spensierata, una splendida donna che riposava beata. Ogni volta che David si fermava a osservarla, stentava a credere che avesse davvero accettato di diventare sua moglie: era straordinariamente fortunato, e non solo perche´ Monique era simpatica, intelligente e bellissima. Anche Karen aveva tutte quelle qualità, eppure lei e David si erano resi la vita impossibile. La differenza era che Monique lo capiva. Comprendeva le sue ragioni, le motivazioni che lo spingevano ad agire; sapeva perche´ David perdeva le staffe per stupidaggini, o perche´ a volte s’isolava dal mondo e si chiudeva a rimuginare nel suo ufficio, fissando il soffitto per ore. Monique conosceva la sua storia – il padre ubriacone, la madre impaurita, l’alcolismo – e non cercava di seppellirla, piuttosto si sforzava di capirla, perche´ era parte di lui. Si concentrava su di lui con la stessa passione che dedicava alla fisica, considerando il problema da ogni angolazione, senza darsi pace finche´ non lo risolveva. David tornò a guardare fuori della finestra, verso le mura della città vecchia illuminate dal sole. Vicino all’ospedale, cinque o sei passerotti becchettavano un prato ingiallito. Ripensò a Michael. Forse la cosa più miracolosa cui avesse assistito negli ultimi due anni era il rapporto che sua moglie aveva instaurato col ragazzo: tra Lisa, le ricerche e l’insegnamento, Monique era oberata d’impegni, eppure trovava sempre tempo per lui. Gli aveva regalato molti testi scientifici, dai più semplici

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riguardanti la storia della fisica moderna, ad altri che trattavano la complicata teoria delle stringhe. A cena lo interrogava per vedere quante informazioni avesse memorizzato e, durante il giorno, gli inviava diverse e-mail dall’ufficio, proponendogli complessi problemi di geometria o di calcolo che Michael risolveva con estremo piacere. David provò una fitta al cuore quando pensò a quei messaggi. Dovevano trovare il ragazzo. Dovevano trovarlo. Rimase seduto per altri dieci minuti, fissando le antiche colline di Gerusalemme. Poi qualcuno bussò alla porta. Lui trasalì, immaginando uomini in uniforme nera che facevano irruzione nella stanza. Pur sapendo che l’ospedale era pieno zeppo di soldati incaricati di proteggerli, era ancora nervoso. Camminò in punta di piedi per non disturbare Monique e socchiuse l’uscio. Era Lucille, con una cartellina sotto il braccio. Aveva sostituito il tailleur rosso con un completo giallo canarino. Evidentemente aveva una predilezione per i colori primari. «Come sta sua moglie? Si è ripresa?» sussurrò con espressione preoccupata. Il suo accento texano era un po’ più marcato del solito. David era rimasto sbalordito da come l’agente avesse reagito alla sparatoria. Si era aspettato che Lucille desse in escandescenze, invece lei non aveva avuto nulla da ridire; sembrava che, almeno per il momento, avesse rinunciato alle recriminazioni, offrendo loro comprensione e sostegno. Era difficile da credere, ma David sospettava che l’agente Parker si stesse affezionando a loro. Si comportava come se lui e Monique fossero suoi colleghi. David uscì e chiuse la porta. Notò un soldato israeliano che faceva la guardia una decina di metri più in là, ma per il resto il corridoio era deserto. «Sta molto meglio. Quando ho parlato col medico ieri sera, ha detto che probabilmente l’avrebbero dimessa entro mezzogiorno.» Lucille sospirò. Aveva l’aria esausta. «Non riesco ancora a capire come sia potuto succedere. Tanto per cominciare, perche´ quei bastardi vi pedinavano?» «Credo che anche loro cercassero Olam. Devono aver saputo dell’indagine federale e hanno deciso di seguirci nell’eventualità che lo trovassimo.» «Ma lei e Monique non siete dell’FBI. Come hanno fatto a scoprire che eravate coinvolti nel caso?» David si strinse nelle spalle. «Posso solo dirle che erano armati fino ai denti. Gli israeliani li hanno identificati?» «No, non avevano documenti, perciò abbiamo solo i cadaveri e le armi. Lo Shin Bet sta controllando le impronte digitali e analizzando i reperti balistici, ma finora non ha trovato nessuna corrispondenza.» E probabilmente non la troverà, pensò David. Erano professionisti, come le persone che avevano rapito Michael e ammazzato Jacob. «Merda, siamo stati fortunati a salvarci. O forse Dio ci ha messo lo zampino. Di solito non ci credo, ma ogni tanto faccio uno strappo alla regola.» Lucille inclinò la testa e strizzò le palpebre, studiandolo con attenzione. Poi, all’improvviso, gli tese la destra. «Nonè stata fortuna. E non è stato nemmeno Dio. Complimenti, Swift. Ha un buon istinto di sopravvivenza.» Lui esitò, sorpreso. Poi le strinse la mano. «Grazie.» Nonostante la stanchezza, Lucille aveva una stretta di ferro. «Non s’illuda. Dovrà darsi da fare per rimediare a tutti i guai che ha combinato.» Sorrise e agitò la cartellina, abbassando la voce per non farsi sentire dal soldato. «Il mio contatto allo Shin Bet ha identificato Olam ben Z’man. Il suo vero nome è Oscar Loebner, ex docente d’Informatica all’Università ebraica. Ma quella era solo

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una copertura. Lavorava soprattutto per Aman, la divisione d’intelligence delle Israelian Defense Forces.» «Dunque il rav Kavner aveva ragione quando ha detto che Olam aveva dei contatti con le IDF.» «Sicuramente. Da giovane, Loebner faceva parte del Sayeret Matkal, l’unità scelta dell’esercito. È rimasto ferito all’inizio degli anni ’80, così la divisione d’intelligence lo ha fatto studiare perche´ diventasse un esperto d’informatica. Si è rivelato un genio nella scrittura di software.» Lucille abbassò ulteriormente la voce e si avvicinò a David, che fu investito dal suo nauseante profumo di lavanda. «Il mio contatto non ha voluto raccontarmi tutta la storia, tuttavia pare che Loebner collaborasse al programma nucleare d’Israele. Usavano i suoi software per verificare le bombe.» David annuì. Lavorando per Fisici per la Pace aveva appreso alcuni dettagli sull’arsenale nucleare israeliano. «Dev’essersi occupato di simulazioni su supercomputer, usando programmi in grado di prevedere l’esplosione nucleare che si ottiene da uno specifico modello di testata. I software sono fondamentali per gli israeliani, perche´ non hanno altro modo per verificare le armi nucleari. Non ammettono neppure di possederne, perciò non possono eseguire i test nel deserto. Devono affidarsi interamente alle simulazioni.» «Be’, non possono più contare su Loebner. Ha smesso di lavorare per le IDF quattro anni fa. Ha avuto un esaurimento nervoso dopo la morte del figlio.» Lucille sventolò ancora la cartellina. «Era a conoscenza di molte informazioni top secret, così lo Shin Bet l’ha tenuto

d’occhio. Secondo il suo fascicolo, ha fatto amicizia con alcuni membri del movimento dei coloni, gli israeliani nazionalisti che agitano le acque in Cisgiordania. La Beit Shalom Yeshiva fa parte di questa rete.» «Sì, quel tizio ha vissuto alla yeshiva fino a martedì scorso. Ma dov’è ora?» «Lo Shin Bet non lo sa. Loebner si è dileguato e se ne sono perse le tracce. L’agenzia sta interpellando gli informatori nei villaggi

israeliani in Cisgiordania, ma finora nessuna novità.» David fece una smorfia. Ripensò a Michael e cadde in preda al panico. Nonostante tutti i loro sforzi, non avevano ancora idea di chi l’avesse rapito. Trovare Loebner era la loro unica speranza. «Gesù, che cosa facciamo? Forse dovremmo andare in Cisgiordania. Possiamo cercarlo per conto nostro.» «Aspetti, non ho finito. Lo Shin Bet è un’organizzazione efficiente, tuttavia nessuno batte il buon vecchio FBI.» Sorridendo, Lucille aprì la cartellina ed estrasse una cartina d’Israele. Al centro si allungava una fila di puntini rossi, ognuno con l’indicazione di un orario e di una data.«Unacollega di Washingtonme l’ha spedita un’ora fa. Ha svolto una ricerca su Olam ben Z’man nei nostri database, sebbene le avessi detto che era solo un nome in codice. All’inizio non ha trovato niente, però ieri sera ha provato con alcune grafie alternative e ha scoperto un numero di cellulare intestato a un israeliano di nome Olam Bensmann.» Gli porse la mappa. «La compagnia telefonica ci ha fornito le informazioni sugli spostamenti dell’apparecchio. Queste sono le ultime coordinate GPS conosciute.» David esaminò il foglio. Il primo puntino rosso, corrispondente alle 21.05 del 7 giugno, era collocato nella città vecchia di Gerusalemme, presumibilmente nella Beit Shalom Yeshiva. Poi il proprietario del telefono si era spostato a ovest, seguendo l’autostrada 1. L’ultimo puntino era sulla costa del Mediterraneo, circa venti chilometri a sud di Tel Aviv, e risaliva alle 22.55 del 7 giugno. David lo indicò. «Questi dati sono di tre giorni fa. Non c’è qualcosa di

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più recente?» «No, Loebner deve aver spento il cellulare. Ma la cartina mostra dov’è andato lo scorso martedì notte dopo aver lasciato la yeshiva. Ha detto al rabbino che avrebbe fatto visita ad alcuni vecchi amici, giusto?» «Sì, amici dell’esercito, per essere più precisi.» «Era la verità.» Lucille riprese il foglio e additò l’ultimo puntino.

aveva Israele nome. quel conosceva David Center.» Research «Questo luogo è nel cuore di una base militare israeliana. Si tratta del Soreq Nuclear due laboratori nucleari, il Dimona e il Soreq. Il primo si occupava della produzione di plutonio per le bombe; il secondo, della progettazione delle armi. «È lì che Loebner deve aver svolto il lavoro per il programma nucleare. Quello col supercomputer, intendo.» Lucille rimise la mappa nella cartellina. «Mi piacerebbe sapere cosa ci facesse lì martedì. Ho già chiesto allo Shin Bet l’autorizzazione per andare alla base e parlare col personale di sicurezza. Finora hanno collaborato, perciò credo che mi faranno entrare.» «Veniamo anche noi. Conosco alcuni fisici che lavorano al Soreq. E Monique è un’esperta di simulazioni coi supercomputer. Li usa continuamente per le sue ricerche.» Lucille ci pensò su per qualche momento, poi annuì. «D’accordo, vi voglio entrambi. In questo momento ho bisogno di tutto l’aiuto possibile.»

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Andarono a prendere Michael quando fece buio. Due soldati in uniforme marrone entrarono nella iurta e lo tirarono su dalla sedia afferrandolo per le braccia, quindi lo trascinarono verso un pick-up Toyota e lo caricarono sul pianale, insieme con casse di munizioni e una mitragliatrice a nastro. Benche´ Michael urlasse e si dimenasse, riconobbe immediatamente l’arma, un’M240 munita di treppiede, la mitragliatrice standard di medio calibro dell’esercito statunitense. L’aveva vista in un videogioco. I soldati montarono sul pianale e lo tennero giù, bloccandogli le spalle contro la sponda posteriore. Accanto all’M240 c’era un terzo uomo, un tipo robusto con una divisa cachi e un basco nero su cui campeggiava un distintivo a forma di pugnale bianco. Il motore si accese e lo sconosciuto si sedette su una cassa. Il veicolo partì, sobbalzando lungo un sentiero sterrato che serpeggiava tra le dune. Il sole era tramontato da qualche minuto e il deserto stava diventando grigio e scialbo. Michael smise di gridare e cercò di orientarsi. La parte più luminosa del cielo era alle loro spalle, dunque stavano procedendo verso est. Lanciò un’occhiata all’uomo col basco e notò il naso storto e i baffi castani, quindi fissò il distintivo. L’altro si tolse il copricapo e glielo mostrò. «Ti piace?» domandò con voce cupa. «È un ricordo dei vecchi tempi.» Lo fece girare sull’indice, poi se lo rimise in testa. «Ero sergente maggiore. Il sergente maggiore Lukas Carter, dell’esercito degli Stati Uniti. Ora sono un umile soldato del Signore.» Fece il saluto militare. Michael guardò ancora il distintivo e vide un triangolo giallo accanto al pugnale. Aveva già visto anche quello nei videogame. Era il simbolo della Delta Force. Lukas indicò il basco. «Sai perche´ continuo a portarlo? Il peccato della superbia. Sono stato nella Delta Force per sedici anni. Ho partecipato a missioni in tutto il mondo, ho ricevuto tutte le onorificenze possibili e immaginabili.» Si chinò verso il ragazzo.«Ma crediche a Dio importi delle mie onorificenze? Credi che Gli importi di quante medaglie mi hanno conferito?» Michael non rispose. Non sapeva cosa dire. «No, il Signore ha cose più importanti cui pensare. Soprattutto ora.» Lukas si avvicinò ancora di più. Aveva l’alito che puzzava di cipolla. «Sta per arrivare il giorno del giudizio. Finalmente l’Onnipotente ripulirà questo mondo sudicio, sbaragliando gli eserciti di Satana. E mi ha chiesto di fare la mia parte.» Il puzzo era nauseante. Michael girò la testa e trattenne il respiro. Non aveva paura di Lukas. Aveva di nuovo la sensazione di essere in un videogioco, il che era strano e disorientante, forse, ma non spaventoso. Voleva vedere cosa sarebbe accaduto. «Sarò sincero con te, Michael. Gli ultimi giorni sarannoduri. Ecco perche´ li chiamanoi ’giorni dellatribolazione’. Ma fratello Cyrus ci aiuterà a superarli. Quell’uomo ha un legame speciale con Dio.» Lukas puntò un dito tozzo contro il ragazzo. «Obbedisci a Cyrus, capito? In questo modo andrà tutto bene. Saremo seduti

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accanto al trono di Dio in men che non si dica.» Lukas agitò il dito, quasi sfiorandogli la guancia. Poi si raddrizzò. Michael riprese a respirare, però tenne la testa girata. Con la coda dell’occhio vide che l’altro si appoggiava alla cassa, puntellandosi sui gomiti e guardando il cielo, dov’erano comparse le prime stelle. Percorsero circa un chilometro, poi Michael notò qualcosa sulla destra, un grosso oggetto nero mezzo sepolto sotto la sabbia. Strizzò le palpebre, cercando di capire di cosa si trattasse; assomigliava al guscio sconquassato di una cisterna di petrolio. Ben presto scorse altri frammenti: aste arrugginite che spuntavano dal terreno, pezzi di tubo sparpagliati qua e là. E, infine, un profondo cratere, largo circa trenta metri. Aveva le pareti diritte, come se fosse stato fatto con una gigantesca trivella. Michael rabbrividì. «Impressionante, eh?» Lukas dovette urlare per soverchiare il rombo del motore, che si era intensificato perche´ il pick-up procedeva su una cresta sabbiosa. «È successo molto tempo fa, quando il Turkmenistan faceva ancora parte dell’URSS. Uno dei più grandi incidenti industriali dellastoria sovietica. Edè tutto dire, perche´ i comunisti ne hanno avuti molti, d’incidenti.» «Che cos’è successo?» Era la prima volta che Michael apriva bocca da quando l’avevano prelevato dalla iurta. «I rottami appartengono a un impianto di perforazione sovietico. Il deserto del Karakum si trova su un serbatoio di gas naturale, capisci? I russi volevano sfruttarlo, ma non conoscevano la geologia della zona. Quando hanno trivellato la superficie, gli impianti sono crollati e hanno formato delle depressioni, alcune abbastanza profonde perche´ il metano cominciasse a uscire dalle spaccature del terreno.» Una raffica di vento freddo investì il pick-up e Michael rabbrividì nuovamente. Guardò dritto davanti a se´, oltre Lukas, e vide che il sentiero curvava lungo la china ripida. La luce era quasi

svanita dall’orizzonte occidentale, ma lui notò un altro bagliore che veniva da est e illuminava la sommità della cresta. Era come una tenda di luce che riempiva il quarto orientale del cielo, e diventava sempre più intensa man mano che il veicolo avanzava. «Quello è...?» Quindi arrivarono in cima e videro il cratere ardente. Era ai piedi del pendio, quasi un chilometro più in là, ma era abbagliante. Grande più del doppio rispetto alla cavità che avevano superato poco prima, era un cerchio perfetto del diametro di quasi cento metri, completamente invaso dalle fiamme. Nuvole di metano si sollevavano dal fondo per oltre quindici metri, come grandi alberi di fuoco, producendo turbini e sbuffi impetuosi. Fiamme più piccole punteggiavano il pavimento roccioso; alcune tremolavano, altre salivano vorticando. Le vampe s’innalzavano persino dalle pareti scoscese, ruggendo forte; guizzavano sopra il bordo, proiettando un chiarore giallastro. Mentre il pick-up scendeva la china e si avvicinava all’orlo, Michael sentì un soffio di aria calda sul viso. Non aveva mai visto tanto fuoco prima di allora. La sensazione di essere in un videogame diventò ancora più netta. Il cratere era grande, accecante e colorato. «Come ha fatto a incendiarsi?» chiese a Lukas. L’altro scrollò le spalle. «Chissà? Potrebbe essere successo quando l’impianto è crollato. O forse qualcuno ci ha buttato dentro un fiammifero in un secondo momento per bruciare il metano affinche´ non avvelenasse l’aria. A ogni modo, il fuoco brucia da almeno trent’anni. E sotto il deserto c’è abbastanza gas naturale per alimentarlo

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per secoli.» Il pick-up rallentò e si fermò a circa trenta metri dal bordo. La luce era così abbagliante che Michael non vide subito gli altri veicoli ma, quando il motore si spense, notò altri due furgoni e tre Land Cruiser. Lungo il margine si snodava una fila di soldati, coi contorni dei caschi e dei fucili che si stagliavano contro le fiamme. Lukas urlò qualcosa e alcuni uomini corsero verso di loro. Quelli sul furgone abbassarono la sponda posteriore e Michael cadde tra le braccia dei loro compagni. Uno lo prese per le ascelle e un altro per le gambe, e lo portarono verso il cratere. Il cuore cominciò a battergli più forte, mentre l’aria torrida gli pizzicava le guance e gli seccava la bocca. Ormai erano a soli tre metri dalla voragine. Lui guardò giù e vide le fiamme che si protendevano da ogni crepa e da ogni mucchio di sassi. Erano vicine, troppo vicine! Il gioco iniziava a spaventarlo e Michael avrebbe voluto interromperlo, ma l’unica cosa che poteva fare era gridare. Poi scorse Tamara, a un paio di metri dal precipizio. I soldati lo scaricarono ai suoi piedi e lei si chinò su di lui. Gli strinse il braccio destro e tentò di tranquillizzarlo. «Va tutto bene, Michael, va tutto bene. Sono qui, ora, vedi?» Lui gridò più forte e scalciò, però lei non mollò la presa. «Stai fermo!» ordinò. «Siamo vicini al bordo e potrebbe sgretolarsi! Così cadremmo nel cratere e moriremmo!» Michael guardò l’orlo dell’abisso. Era sabbioso e irregolare, e le fiamme disegnavano ombre scure sulle crepe: Tamara aveva detto la verità, perciò smise di agitarsi. «Coraggio, Michael, alzati. Ti stai sporcando tutto.» Lei si raddrizzò e lo tirò su. Comparveun soldato.Era Angel, ma sembrava più robusto del solito perche´ indossava la tenuta da combattimento e il giubbotto antiproiettile, dalle cui tasche spuntavano caricatori, un binocolo e bombe dirompenti. Afferrò Michael per il braccio sinistro, con una presa più salda di quella di Tamara, e lo costrinse a voltare le spalle al cratere. Michael notò che gli altri soldati indietreggiavano, allontanandosi dalla voragine, e provò un barlume di speranza: forse lo stavano per riportare al campo. Ma poi si accorse che si stavano semplicemente spostando per far posto a qualcun altro, un uomo che si era materializzato nell’oscurità. A Michael occorse qualche istante per riconoscerlo, perche´ i suoi vestiti neri si confondevano col cielo buio. L’unico sprazzo di colore erano gli occhi, chiaramente visibili attraverso le fessure della sciarpa. Le sue pupille riflettevano il chiarore giallo delle fiamme. Fratello Cyrus fece qualche passo avanti. «Ciao, Michael. Sai dove siamo?» Il ragazzo non rispose. Ora che non doveva più guardare il cratere, aveva meno paura. Fissò le pieghe della sciarpa, desiderando di strappargliela via. Cyrus indicò l’abisso. «Questo è il cratere di Darvaza. I turkmeni lo chiamano ’porta dell’inferno’. Nome inquietante, non trovi?» Michael tacque. Anche i soldati rimasero in silenzio. L’unico suono che si sentiva era il crepitio del fuoco. «Purtroppo non è un nome preciso. L’inferno non è sotto di noi.» Cyrus scosse la testa, poi allargò le braccia. «L’inferno è qui. Il nostro mondo è un mattatoio, un lurido porcile di peccato e di morte. Ma il Signore ha promesso di liberarci da questo inferno e di condurci nel

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Regno dei Cieli.» «Sì, fratello!» urlarono Tamara e Angel. Gli altri soldati non fiatarono, erano troppo lontani per udire Cyrus sopra i ruggiti delle vampe. Fratello Cyrus incrociò le braccia. «Michael, vorrei parlarti di Dio. Mi esprimerò in termini scientifici, così capirai meglio.» Estrasse dalla tasca un libretto nero. «In termini scientifici, Dio è il principio organizzatore. È il teorema, il programma, l’alfa e l’omega. La Sua volontà si è incarnata nelle fiamme del creato, generando le stelle, i pianeti e tutte le cose viventi, ed Egli ci parla da dentro la nostra mente, perche´ i nostri pensieri sono semplici manifestazioni del Suo amore. Benche´ il Suo universo sia ora corrotto fino al midollo, la bellezza del disegno divino è racchiusa nella possibilità di correggerne i difetti.» «Sì, fratello!» ripeterono Tamara e Angel. Cyrus però tenne gli occhi puntati su Michael. «Dio ci ha fatto una promessa duemila anni fa. Ha promesso di redimere il mondo alla fine dei giorni e di far risorgere i morti dal loro lungo sonno affinche´ possano vivere per sempre nel Regno dei Cieli. È scritto qui, può leggerlo chiunque.» Agitò il volumetto nell’aria. «Tuttavia il mondo del peccato ha dimenticato la promessa di Dio. I sacerdoti e i ministri hanno diffuso la loro idea di paradiso, il luogo sopra le nuvole, il cosiddetto ’aldilà’. Predicano che le anime volano in quel luogo non appena le persone muoiono. Ebbene, questa dottrina non contraddice solo la parola di Dio, ma va anche contro la logica. Quelli sostengono che il paradiso non si può vedere dalla Terra perche´ esiste su un piano mistico della realtà,mala vera ragione è più semplice: il loro paradiso è immaginario.» Fece un passo avanti. Michael sentì il coraggio che lo abbandonava. «Ma la promessa di Dio non è immaginaria», continuò Cyrus dando un colpetto alla copertina del libro. «E i Veri credenti non l’hanno dimenticata. Sanno che il Regno dei Cieli è un luogo reale quanto il suolo su cui poggiamo i piedi, e che il Signore ci ha chiesto di affrettarne la venuta. Ci ha dato tutti gli strumenti di cui abbiamo bisogno, gli strumenti della scienza e della matematica, e ora non dobbiamo più aspettare. Possiamo cancellare il mondo del peccato e fare posto per il Regno eterno di Dio.» Avanzò ancora, allargando le braccia. «Non aver paura, ragazzo mio. Sì, moriremo, ma presto rinasceremo nel Regno di Dio. Gli orologi smetteranno di funzionare e il tempo si fermerà. Il passato dell’universo si comprimerà in un unico momento e il Signore ci abbraccerà per sempre.» Fece un altro passo, ma Michael urlò prima che potesse toccarlo. Cyrus rimase immobile per alcuni secondi, con le braccia allargate. Quindi guardò ancora il cratere, coi bagliori gialli che gli guizzavano negli occhi. «Ora devi servire il Signore, Michael. Devi dirci il codice. Dobbiamo conoscere tutto il programma per sguainare Excalibur, la spada sacra di Dio. Tamara mi ha detto che ti rifiuti di collaborare, perciò ho preparato una dimostrazione. Ti mostrerò cosa accade a coloro che provano a impedire all’Onnipotente di mantenere la Sua promessa.» Si voltò e ordinò: «Portatelo qui!» Michael scorse un movimento, quindi tre figure emersero dalle tenebre. Due degli uomini di Cyrus scortavano un tipo alto e nerboruto con le mani legate dietro la schiena e la testa

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incappucciata. I soldati tenevano il prigioniero per i gomiti e lui incespicava sulla sabbia, trascinando il piede sinistro. A un certo punto cadde in ginocchio e Michael notò le bende insanguinate che gli avvolgevano le mani. Lo sconosciuto indossava un’uniforme dell’esercito americano e, quando si avvicinò, il ragazzo vide un distintivo sulla sua spalla sinistra: 75º REGGIMENTO RANGER. Il cartellino sul suo petto diceva RAMSEY. I soldati si fermarono accanto a Cyrus, che posò la destra sulla testa del prigioniero e borbottò parole inintelligibili. Quindi indicò il cratere e gridò: «Andate!» Tamara e Angel costrinsero Michael a voltarsi e a guardare i loro compagni che conducevano l’uomo verso il precipizio. Quel poveretto scalciò e si accasciò a terra, ma i soldati lo sollevarono così in alto che i piedi gli penzolarono nell’aria. Per un momento, Michael pensò che volessero mostrargli le fiamme, però poi si rese conto che era impossibile, perche´ quel tale aveva ancora il cappuccio sul capo. Infine lo gettarono nel cratere. Michael continuava a guardare le vampe, ma l’uomo era sparito. Era come se il videogioco avesse subito un errore di programma che aveva bloccato lo schermo e cancellato i dati. In compenso echeggiò un lungo gemito. Quindi un cilindro di fuoco delle dimensioni di un uomo atterrò tra le fiamme più piccolesul fondo della voragine. «Perdonaci, Signore! Stiamo arrivando! Presto saremo con Te!» gridò Cyrus. Michael avrebbe voluto tapparsi le orecchie, ma Tamara e Angel glielo impedirono. Lo tirarono verso fratello Cyrus, che gli posò la destra sulla fronte. Nella sinistra teneva un piccolo dispositivo color argento che assomigliava un po’ a un iPod. Lo accese e glielo mise sotto il mento. «Dicci il codice», intimò, avvicinandosi tanto che il ragazzo distinse i fili della sciarpa. «Parla nel registratore. So che vedi il programma nella tua mente. Il Signore ti ha rivelato la soluzione, e ora tu devi passarla a noi.» Era vero, Michael vedeva il programma. Non doveva neppure abbassare le palpebre. Le righe del codice gli balenarono davanti agli occhi, scorrendo verso l’alto. Salivano tra il suo viso e quello di fratello Cyrus, con le variabili quantistiche e gli operatori che scintillavano sulla sciarpa nera. Ma Cyrus non riusciva a visualizzarli. Solo Michael ne era in grado. Quello era il suo segreto, il suo tesoro. «Ogni cosa ha uno scopo, Michael. Il codice ci dirà come usare Excalibur, come puntare la spada di Dio verso la parte più debole di questo pianeta allo sbando. Poi, in un sol colpo, metteremo fine a questo mondo e il Regno dei Cieli lo sostituirà. Come ha promesso Dio.» Lui scosse la testa. Non gli importava del cielo. Aveva fatto una promessa a David Swift e intendeva mantenerla. All’inizio Cyrus non fiatò. Gli tenne il registratore sotto il mento e aspettò. Poi abbassò la mano e fece un passo indietro. «D’accordo, non voglio sprecare altro tempo.» Si rivolse a Tamara. «Buttalo dentro.» Lei strinse il braccio di Michael. «Prego?» «Mi hai sentito, sorella. Butta il ragazzo nel cratere.» Lei fece un verso lamentoso, simile all’uggiolio di un cane, e affondò le dita nel bicipite di Michael. «Fratello, concedigli ancora un po’ di tempo. Ci dirà tutto se...» «No! Basta aspettare!» sbraitò Cyrus. «Non tollererò più l’insolenza del ragazzo. La sua testardaggine è un affronto a Dio.» «Ma come faremo a...» «Troveremo un altro

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modo. Ora smetti di discutere e obbedisci.» Michael non capì cosa stesse accadendo finche´ non sentì Angel che gli strattonava il braccio sinistro, così bruscamente da fargli perdere l’equilibrio. L’uomo lo trascinò verso il precipizio, tuttavia Tamara si aggrappò al suo braccio destro e lo tirò dall’altra parte. «No, fratello! Non farlo!» Michael urlò. Sentì una fitta che gli si allargava dalle spalle al petto. Udì grida e passi rapidi, ma il dolore era così intenso che gli si appannò la vista e dovette chiudere gli occhi. La presa alla sua destra si allentò. Quando riaprì gli occhi, scorse due soldati che lottavano con Tamara. Uno le diede un pugno in faccia mentre l’altro la colpiva nello stomaco. Lei si chinò e gli altri due le torsero le braccia dietro la schiena. Il sangue le colò dalle narici e le bagnò le labbra. Poi un altro soldato afferrò Michael per il braccio destro. Era quasi identico a Angel e indossava lo stesso tipo di giubbotto antiproiettile, con le tasche colme di caricatori e granate, solo che il cartellino diceva JORDAN. L’uomo prese il posto di Tamara e, senza dire una parola, si voltò verso il cratere. Quindi lui e Angel si avviarono, trascinando il ragazzo. Lui scalciò e si piegò in due come aveva fatto il prigioniero, ma Angel e Jordan erano troppo forti. Lo portarono sull’orlo. Terrorizzato, Michael affondò i talloni nel terreno, cercando affannosamente di allontanarsi. D’un tratto la sabbia si sgretolò e lui cominciò a cadere. Poi l’ordine di Cyrus soverchiò le sue urla: «Fermi!» Angel e Jordan lo tirarono fuori e lo scaraventarono all’indietro. Michael atterrò a diversi metri dall’abisso. Aveva le vertigini, e il cuore gli batteva all’impazzata. Stava ancora gridando, ma si accorse che le grida non erano più solo rumore. Erano parole e numeri. Stava recitando il codice: «Mixer uguale Hadamard... fase qureg... qureg eigen... fase mixer per i uguale zero... fase di moltiplicazione controllata e eigen... tornare a fase di misurazione ». Rimase sdraiato a lungo sulla schiena, snocciolando il programma. Non era ferito, ma aveva la nausea e si sentiva debole. Cyrus si chinò, tenendogli il registratore sopra la bocca. Angel e Jordan erano dietro di lui, coi volti illuminati dal fuoco. E, in lontananza, Michael credette di udire i singhiozzi di Tamara. Arrivò alla fine del programma. Cyrus si raddrizzò e spense il registratore. «Okay, torniamo al campo. Dobbiamo immettere il codice e vedere se è completo.» Tornò verso i pick-up e le Land Cruiser. Angel e Jordan gli fecero il saluto militare. Poi Angel tese una mano a Michael. «Vieni. Andiamo.» Con un altro urlo, Michael si alzò e si gettò contro Angel, afferrandogli le tasche del giubbotto. Prima che l’altro potesse reagire, il ragazzo gli diede una testata sul naso. Angel cadde, frastornato, e Michael si buttò su di lui. Quindi rotolò via e si appallottolò, incrociando le braccia e premendosi la fronte sulle ginocchia. Udì altre grida e un rumore di passi. Altri soldati lo afferrarono e lo sollevarono, ma lui rimase nella stessa posizione finche´ non lo depositarono sul pianale del pickup. Quando fu sicuro che gli uomini non lo guardassero, si portò le mani sull’ombelico, aprì la tasca dei pantaloni e v’infilò dentro la piccola sfera che aveva rubato a Angel: una bomba dirompente M67.

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Dal sedile posteriore di una limousine blindata, David ammirava il verdeggiante paesaggio israeliano. La macchina era dello Shin Bet e l’autista altri non era se non Aryeh Goldberg, incaricato di aiutare l’FBI a seguire la traccia del cellulare di Oscar Loebner, alias Olam ben Z’man. Lucille sedeva accanto ad Aryeh, mentre Monique – che stava molto meglio dopo un giorno e mezzo di riposo – era di fianco a David. Erano le due del pomeriggio e stavano percorrendo l’autostrada 1, diretti al Soreq Nuclear Research Center. David sperava vivamente che avrebbero fatto qualche progresso entro la fine della giornata, perche´ ormai riusciva a stento a contenere l’ansia che provava per Michael. Dopo aver sintonizzato la radio su una stazione di Tel Aviv che trasmetteva vivaci canzoni pop israeliane, Aryeh aveva inziato una lunga discussione con Lucille riguardo a come avrebbero gestito l’interrogatorio del capo della sicurezza del Soreq. David lanciò un’occhiata a Monique, ma lei stava guardando fuori, verso le colline della Giudea. Non aveva detto una parola da quand’era salita in auto. Assorta nei suoi pensieri, si massaggiava distrattamente il braccio ferito, accarezzando le bende nascoste sotto la manica della giacca. La luce che entrava dal finestrino le illuminava metà del viso: un orecchio marrone, un sopracciglio deciso, un occhio irrequieto. David la conosceva abbastanza bene da sapere cosa stava accadendo: sua moglie stava rimuginando su un’idea. Ben presto si lasciarono alle spalle le colline della Giudea e attraversarono la pianura costiera. Ai lati della strada apparvero campi verde brillante, alcuni coltivati e altri punteggiati di fiori selvatici. Dalla radio uscì la versione ebraica di una canzone di Michael Jackson e Aryeh cominciò a canticchiare. Poi la macchina centrò una buca e tutti e quattro rimbalzarono sui sedili. Monique grugnì. «Tutto bene?» chiese David. Lei annuì con espressione vacua; continuava a muovere gli occhi, senza concentrarsi su niente di preciso. Poi li chiuse e trasse un lungo respiro. Quando li riaprì, fissò David. «Ho capito a cosa si riferiva Olam.» «Prego? Che cosa...?» «Ricordi cos’ha detto il rav Kavner? Riguardo alle scemenze cabalistiche che Olam continuava a predicare? E all’idea da cui era ossessionato?» «Le Sephirot, intendi? E meyda?» «Sì, tutte quelle stronzate. Non ci sono arrivata mentre eravamo alla yeshiva, e poi me ne sono dimenticata quando gli assassini hanno iniziato a spararci addosso. Ma ora so a cosa si riferiva Olam. Parlava di fisica digitale.» Monique si piegò verso David. «Nella sua vita precedente, Oscar Loebner faceva l’informatico, giusto? Però era anche esperto di fisica, perche´ la sua specialità erano le simulazioni di esplosioni nucleari, perciò è logico che abbia unito le due cose e...» David alzò le mani. Anche se era uno storico della scienza, non era informato quanto lei sui progressi più recenti. «Ehi, rallenta! Che cos’è la fisica digitale?» «Gesù, David, dovresti aggiornarti

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meglio. La fisica digitale è in voga dagli anni ’90, da quando sono usciti alcuni articoli di John Archibald Wheeler sull’argomento. Conosci Wheeler, giusto?» David annuì. «Certo. È il tizio che ha coniato il termine ’buco nero’. È morto qualche anno fa.» «Era professore emerito alla facoltà di Princeton quando io insegnavo lì. Era un grande fisico, un visionario. E, negli ultimi anni della sua vita, ha imboccato una nuova direzione. Alcuni pensavano che fosse diventato un po’ matto a causa dell’età, ma io lo rispettavo. Cercava di risolvere uno dei più grandi misteri della scienza: perche´ l’universo è comprensibile? Perche´ segue precise leggi matematiche che si possono scoprire e capire, come le equazioni di campo di Einstein e le leggi della teoria quantistica?» Quello era un ambito che David conosceva meglio: la natura matematica dell’universo, infatti, era un argomento fondamentale per gli storici e i filosofi della scienza. «Che cosa dicono i suoi articoli?» «Wheeler sostiene che la concezione tradizionale dell’universo è obsoleta. Molti immaginano ancora le particelle elementari solo come minuscole palle da biliardo che rotolano sul tavolo dello spazio-tempo, ma lui la giudica una raffigurazione limitata. Una particella elementare è un insieme di valori quantistici – energia, massa, carica, momento angolare intrinseco, e così via –, dunque è più logico descriverla come un pacchetto d’informazioni. Anche lo spazio-tempo si compone d’informazioni, un’enorme serie di valori che specificano la curvatura delle dimensioni. Wheeler chiama questa ipotesi ’It from Bit’: tutte le cose fisiche scaturiscono dalle informazioni.» «Aspetta un secondo. Ho sentito parlare di It from Bit.» David si sforzò di ricordare. «È la versione aggiornata di un’idea precedente, giusto? La teoria dell’universo computazionale?» «Sì,è la stessa cosa, più o meno. Quando due particelle collidono, si scambiano informazioni.

Entrano in collisione con una serie di valori – l’input – ed escono con un’altra serie, l’output. Così le interazioni tra particelle assomigliano a operazioni matematiche che hanno luogo sul chip di un computer. E i programmi che coordinano le interazioni sono semplicemente le leggi della fisica, la teoria unificata. Si può immaginare l’universo come un grande computer in funzione da quattordici miliardi di anni.

Questo spiegherebbe perchè segua le leggi matematiche. Il mondo è intrinsecamente matematico, perche´ le sue particelle sono sempre impegnate a calcolare.» David era scettico. Sapeva che alcuni fisici e informatici accarezzavano l’idea dell’universo computazionale dagli anni ’60. La maggior parte dei ricercatori, tuttavia, la respingeva, ed era per quello che lui non vi aveva mai prestato molta attenzione. «Ma è un’ipotesi un po’ campata per aria, giusto? Più una metafora che una vera teoria, non credi? Certo, l’universo potrà anche funzionare come un computer, tuttavia ciò non significa che io sia solo un insieme di dati.» «Perche´ no? Gran parte di quello che osserviamo è un’illusione. Gli oggetti sembrano solidi anche se i loro atomi sono perlopiù spazio vuoto: la forza di gravità è, in realtà, una piegatura dello spazio-tempo. Dunque perche´ non potremmo essere costituiti da informazioni?» «Vuoi dire che viviamo tutti in un PC? Come in Matrix?» Monique scosse la testa. «David, per favore. In quei film la mente delle persone è collegata a una simulazione installata su un bizzarro computer che ha assunto il comando del mondo. Ma, se la formula It From Bit fosse corretta, vorrebbe dire che tutto il

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maledetto universo non è altro che una specie di computer naturale. Non si può uscire dal programma, perche´ è l’unica cosa che esiste.» David era un po’ sorpreso dal suo trasporto. L’aveva sempre considerata una scienziata piuttosto conservatrice, riluttante ad accettare un’ipotesi senza prove concrete. Il fatto che fosse così entusiasta di It From Bit lo stupì. Dopotutto, forse non è un’idea così strampalata, pensò. «Ma, se l’universo è un computer, chi l’ha programmato? Dio? Credi che abbia creato il mondo scrivendo un software?» «Be’, evidentemente è quello che credeva Olam. Pensava che le Sephirot fossero i programmi di Dio, ricordi? Ma l’ipotesi It From Bit non richiede l’esistenza di un essere divino. Il programma potrebbe essersi sviluppato da solo. Potrebbe essere partito da un’unica informazione, il bit primordiale nato spontaneamente dal vuoto quantistico. Poi i calcoli hanno proliferato, producendo un mucchio di dati casuali. Alla fine, dai dati sono emerse stringhe d’istruzioni che sono diventate le leggi della fisica, il programma universale capace di organizzare tutti i calcoli. Questo programma ha generato il Big Bang, la palla infuocata di particelle e radiazioni in espansione. Poi sono comparsi algoritmi più complessi, che hanno creato le galassie, la vita e la coscienza.» «Ma qual è lo scopo del computer? Che cosa calcola?» «Calcola noi. Il computer ci circonda e noi siamo i suoi risultati. Il programma ha guidato la formazione del sistema solare e l’evoluzione della specie umana. I nostri cervelli sono computer più piccoli, derivati da quello più grande. Oppure si possono considerare come sottoprogrammi che girano sul sistema operativo dell’universo, come PowerPoint ed Explorer girano su Windows. Solo che, grazie a Dio, l’universo non è difettoso come Windows.» Monique sorrise. «E c’è un’altra differenza rispetto a un normale PC: l’universo è un computer quantistico. Sono le particelle a eseguire i calcoli, come nelle macchine di Jacob Steele. In sostanza, lui voleva forzare il computer universale.» Era senza fiato quando finì. Sempre sorridendo, si appoggiò al sedile e aspettò che David rispondesse. Lui la fissò, ammirato. Monique sapeva essere molto convincente. «Okay. Ma cosa c’entra il Gruppo Caduceo? Qual è il nesso con It From Bit?» «Lo scopo del Gruppo Caduceo era confermare l’ipotesi, dimostrare che è più di una semplice metafora. Oscar Loebner ha trovato un modo per corroborare la folle teoria di Olam ben Z’man.» «Ma come? Il Gruppo Caduceo è solo una coppia di orologi collegati, giusto?» «La strategia di Loebner era concentrarsi sul flusso del tempo. Il tempo è uno dei concetti più misteriosi della fisica. Gli studiosi si domandano da anni perche´ esista e perche´ si muova in una sola direzione. Ma il ruolo del tempo diventa chiaro se immagini l’universo come un computer. Un programma informatico organizza i propri calcoli in una sequenza graduale, perciò ogni computer ha un orologio. A ogni suo tic, i calcoli fanno un altro passo avanti. Al primo tic, per esempio, il programma somma due numeri. Poi, al secondo tic, moltiplica il totale per un terzo numero, e così via. Un computer da un megahertz ha un orologio che ticchetta un milione di volte al secondo, e un computer da un gigahertz...» «Sì,sì, lo so», la interruppe David. «Il suo orologio ticchetta un

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miliardo di volte al secondo.» «Il che lo rende più potente, perche´ può eseguire più calcoli nella stessa quantità di tempo. Ma l’orologio dell’universo funzionerebbe in maniera un po’ diversa, perche´ anche il tempo è determinato dal programma universale. E, poiche´ il programma regola costantemente il proprio tempo di esecuzione, lascerebbe un indizio rivelatore nel mondo fisico: il flusso del tempo ondeggerebbe leggermente da un luogo all’altro. Queste variazioni non sarebbero facili da rilevare: occorrerebbe una coppia di orologi molto accurati a migliaia di chilometri l’uno dall’altro. Ma la scoperta dimostrerebbe l’esistenza del programma universale e confermerebbe la veridicità di It From Bit.» «Dunque credi sia questa la ragione per cui Jacob Steele si è lasciato coinvolgere? Ha saputo dell’idea di Loebner e ha pensato che avrebbero potuto dividere il premio Nobel costruendo il Gruppo Caduceo?» «Sì,è logico. Jacob non avrebbe avuto difficoltà a progettare gli orologi, perche´ questi sfruttavano la stessa tecnologia degli ioni intrappolati usata dai suoi computer quantistici. E avrebbe potuto utilizzare i soldi della sovvenzione della DARPA.» «E che mi dici delle interruzioni che hanno rilevato la mattina del test nucleare iraniano? Hai idea di cosa possa averle causate?» Monique tacque. Scese il silenzio, rotto solo dalla musica della radio. Poi lei trasse un profondo respiro e scosse la testa. La determinazione appassionata che le aveva illuminato il volto fino a quel momento parve svanire. Si girò nuovamente verso il finestrino. «No, non ci sono ancora arrivata. Finora so solo che le interruzioni sono state una sorpresa. Ma ciò che le ha provocate...» Lasciò la frase a metà. David guardò fuori dall’altra parte. Il panico tornò ad assalirlo. Ormai Michael era scomparso da tre giorni, e loro non sapevano chi fossero i rapitori o perche´ l’avessero preso. Gli unici indizi venivano da uno scienziato israeliano mentalmente instabile che, a quanto pareva, voleva dimostrare che l’universo era un computer. E non riuscivano a rintracciare nemmeno lui. Premette la fronte contro il vetro e chiuse gli occhi. Poi sentì la mano di sua moglie che, lentamente, gli scivolava dalla spalla lungo il braccio. Quindi Monique intrecciò le dita con le sue. Nessuno dei due parlò. Cinque minuti dopo, la limousine uscì dall’autostrada e si diresse a ovest. Aryeh smise di canticchiare e spense la radio. «Ci siamo quasi. Quello è il cancello della base aerea di Palmachim.» David scorse un paesaggio di collinette sabbiose, punteggiate di rovi e olivi, su cui si stagliava un’alta recinzione di filo spinato e, un chilometro più in là, s’intravedeva il Mediterraneo. Aryeh si fermò davanti a una garitta occupata da soldati con indosso l’uniforme dell’aeronautica israeliana. Disse qualche parola in ebraico al comandante, che controllò il suo tesserino e li fece passare. La strada proseguiva verso il mare, superando diverse zone di atterraggio mezze nascoste tra le dune. «Questo è un eliporto, giusto?» chiese Lucille. «Esatto. Ci teniamo i Black Hawk e i Cobra. Ed è da qui che lanciamo missili e satelliti. Il nostro Paese sarà anche piccolo, ma è pieno di persone intelligenti, sì?In questo posto hannolavorato molti scienziati oltre a Oscar Loebner.» «Be’, speriamoche Oscar abbia parlato con uno di loro quand’è venuto martedì. Ci serve una traccia.» Quando furono in prossimità della pista di atterraggio, Aryeh svoltò a destra

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e si diresse verso un gruppo di edifici bassi, tra cui c’era una struttura con una cupola dalla forma insolita, simile a una tazza bianca capovolta sul suo piattino. David riconobbe la costruzione grazie al lavoro che aveva svolto per Fisici per la Pace. L’organizzazione, infatti, aveva compilato un catalogo degli impianti nucleari del mondo, e quello era un reattore da cinque megawatt, il cuore del Soreq Nuclear Research Center. Aryeh parcheggiò a circa cento metri di distanza. Poi smontò e li guidò verso l’edificio amministrativo. L’ufficio di Rahm Elon, il capo della sicurezza, era al pianterreno. David si allarmò un poco quando lo vide: Rahm era un soldato in uniforme dall’aria aggressiva, alto, molto muscoloso, con la pelle olivastra e gli occhi nascosti dietro un paio di lenti da sole. Aveva un’enorme pistola Desert Eagle nella fondina. Strinse la mano ad Aryeh da dietro la scrivania. Seguirono sorrisi e uno scambio di convenevoli in ebraico. Ma Rahm smise di sorridere quando Aryeh gli presentò Lucille, David e Monique. Evidentemente non gradiva la presenza degli americani nella sua base. Si sedettero. «Ci stavamo chiedendo se aveste fatto qualche progresso», disse Aryeh. «I miei amici federali sono impazienti di trovare Mr Loebner, alias Olam ben Z’man, come preferisce farsi chiamare.» Rahm annuì, ma la sua espressione rimase fredda. «Abbiamo avuto la conferma che Loebner era alla base martedì notte», replicò. Poi tacque e guardò dritto davanti a se´. Aryeh aspettò qualche secondo, imperturbabile. «Ah, ottimo. Perche´ anche lo Shin Bet è curioso. Vorrebbe sapere come abbia fatto Loebner a superare il cancello di una struttura delle IDF, considerando che il suo lasciapassare è stato revocato quattro anni fa.» «E perche´ lo Shin Bet è così curioso?» domandò Rahm. «Si tratta di sicurezza militare, non di una questione che riguarda la polizia.» Aryeh fece spallucce. «Sai com’è, un pezzo grosso del ministero della Giustizia s’interessa alla faccenda e comincia a impartire ordini ai suoi vice. Tipiche stronzate governative, eh?» «Hai ragione, sono stronzate. Tu e i tuoi amici americani non dovreste nemmeno essere qui.» Aryeh sorrise e fece un gesto conciliante. «Ascolta, Rahm, non vogliamo

causarvi problemi, vogliamo solo Loebner. Non possiamo lasciarlo a piede libero. Ha troppi segreti pericolosi in testa. Forse puoi dirci perche´ è venuto al Soreq, sì? E forse, a Dio piacendo, dov’è andato dopo?» Rahm si limitò a guardarli in cagnesco, senza dissimulare la sua contrarietà. Quindi estrasse una cartellina da un cassetto. «Loebner non ha superato il cancello. È entrato dalla recinzione.» Porse il fascicolo ad Aryeh. «Crediamo che si sia infiltrato nella base intorno alle dieci di martedì sera. Purtroppo non abbiamo scoperto la violazione fino a mezzanotte.» Aryeh sfogliò il dossier. «Un po’ tardi, eh? Non avete rilevatori antintrusione lungo il perimetro?» «Abbiamo sensori di movimento, telecamere a infrarossi e impianti video a circuito chiuso. Ma Loebner ha disabilitato le apparecchiature nel settore 34. È tutto nel rapporto.» Lucille, che sedeva accanto ad Aryeh, allungò il collo per dare un’occhiata ai fogli. Poi chiese a Rahm: «Immagino che Loebner abbia sfruttato l’addestramento, eh? Quello ricevuto nel Sayeret Matkal».

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Lui tenne gli occhi puntati su Aryeh, rifiutandosi di guardarla. «Il Matkal è la nostra unità delle forze speciali assegnata all’antiterrorismo. I suoi membri sono molto bravi a infiltrarsi.» «Come fa a sapere che è stato Loebner a introdursi nella base, se le videocamere erano disattivate?» «Solo quelle del settore 34. Una volta che Loebner è entrato, è comparso sugli altri video di sorveglianza. Indossava la sua vecchia uniforme delle IDF, perciò non ha insospettito il personale di sicurezza. Ma, dopo esserci accorti della violazione del perimetro, abbiamo rivisto i nastri e identificato l’intruso come Loebner.» Rahm tirò fuori un DVD. «Qui c’è il filmato girato dalle videocamere nell’edificio 203, il magazzino del Soreq. La videocamera davanti alla porta mostra Loebner che entra nell’edificio alle 22.17 di martedì; un minuto dopo, quella nel seminterrato lo riprende mentre cammina verso il deposito a lungo termine e digita il codice d’accesso sul pannello. Alle 22.52 si vede Loebner che esce dalla stanza e lascia l’edificio. Poi si è allontanato dalla base, presumibilmente usando lo stesso foro nella recinzione.» Porse il DVD ad Aryeh. Lucille lo fissò. «Che cosa c’è nel deposito a lungo termine?» domandò. Rahm si ostinò a non guardarla. «Varie apparecchiature legate a progetti che sono stati interrotti e desegretati. Il materiale top secret è custodito in un luogo più sicuro, nell’edificio 101. La maggior parte della roba conservata nel deposito ha almeno vent’anni.» «Che cosapuò dirci delle ricerche di Loebner? Il deposito contiene materiali riguardanti il suo lavoro sulle testate nucleari?» interloquì David. Rahm girò lentamente la testa e lo fissò. Pronunciare la parola «testate» era stato un errore. L’espressione dell’uomo passò da fredda a furibonda. «Non posso commentare le ricerche di Loebner, ma ripeterò quello che ho detto prima: il materiale top secret è custodito in un altro luogo. Non lo conserviamo nel deposito a lungo termine.» «Be’, manca qualcosa nel deposito?» chiese Monique. «Non manca niente. Ma ci sono stati alcuni danni», rispose Rahm. «Di che tipo?» Lui si alzò con un grugnito. «Basta con le domande. Vi accompagno, così darete un’occhiata di persona. Poi spero vivamente che potremo considerare chiusa questa faccenda.» Nicodemus, accovacciato tra icespugli davantialla recinzione, regolò il binocolo per vedere meglio l’edificio amministrativo del Soreq. Aveva saputo in anticipo dove si sarebbe svolto l’incontro e, grazie agli informatori di fratello Cyrus nello Shin Bet e nell’FBI, aveva scoperto anche il vero nome di Olam ben Z’man. Cyrus aveva escogitato un nuovo piano per eliminare l’ebreo, e il compito di Nico era pedinare gli americani. Non ne era molto soddisfatto; era esasperante osservare quei kilab mentre ogni cellula del suo corpo chiedeva vendetta. Ma Cyrus gli aveva raccomandato di essere paziente, e Nico aveva obbedito. Stavano compiendo la volontà del Signore e sarebbero stati ricompensati in Cielo. Gli americani e l’agente dello Shin Bet uscirono dall’edificio amministrativo circa quindici minuti dopo essere entrati. Il capo della sicurezza, un altro schifoso kelb,li guidò attraverso il parcheggio, in direzione di una struttura grigia e squadrata che assomigliava a un magazzino. David Swift e Monique Reynolds camminavano accanto all’agente dell’FBI, una vecchiaccia grassa dai capelli color argento. Nico strinse le labbra mentre li guardava con un insopportabile misto di rabbia e impazienza. «Non manca molto», sussurrò ai bersagli. «I Veri credenti vi faranno visita molto presto.»

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Si resero conto dei danni non appena entrarono. Il deposito a lungo termine era un enorme spazio senza finestre, pieno di file ordinate di casse di legno molto grandi, ognuna abbastanza capiente da contenere un sofà, stampinate con lettere ebraiche rosse. Le pareti erano di un bianco immacolato e il linoleum era tirato a lucido. Anzi, la stanza era così ordinata che David si stupì di vedere il rottame di alluminio gettato in malo modo nel corridoio tra due file di contenitori, davanti a una cassa aperta. L’area era delimitata dal nastro giallo, come se si trattasse di un cadavere. Lui e Monique si avvicinarono, precedendo Aryeh e Lucille. Raggiunsero la striscia di nastro che si allungava attraverso il corridoio e si chinarono per esaminare meglio l’oggetto. Era un grosso cilindro argenteo,dal diametro di circa un metro e lungo tre. A quanto pareva, Oscar Loebner aveva forzato la cassa, ne aveva tirato fuori il contenuto e l’aveva preso a martellate. I colpi avevano ammaccato il cilindro e aperto un vistoso foro al centro. All’interno s’intravedevano frammenti metallici più piccoli: montanti e staffe frantumati, aste spezzate dalle estremità irregolari. A giudicare dalla forma, l’oggetto poteva essere l’involucro di un missile. In fondo, Aryeh aveva detto che le IDF lanciavano missili e satelliti dalla base aerea di Palmachim, quindi il cilindro poteva essere il componente di un razzo sperimentale, magari progettato per ospitare una testata. Lucille sembrava essere di quell’idea. Dopo aver ispezionato il rottame, si allontanò dal nastro, imitata da Aryeh. «Dimmi una cosa, Rahm. Non c’è niente di radioattivo lì dentro, vero?» domandò lui. L’altro corrugò la fronte. «Te l’ho già detto, il materiale sensibile non è custodito qui. La maggior parte della roba in questa stanza è ciarpame. Vecchia, desegretata e inutile.» Indicò le lettere rosse. «Quelle indicano la data in cui la cassa è stata sigillata: 5 agosto 1989, quasi ventidue anni fa.» Monique indicò il rottame. «Be’, che cos’è questo aggeggio? Se è stato desegretato, può dircelo, giusto?» Rahm estrasse un piccolo bloc-notes dalla tasca, più perplesso che irritato. «Questo ’aggeggio’ è così vecchio che abbiamo faticato a identificarlo. Viene da un progetto denominato ’Cherev’, ossia ’spada’ in ebraico.» Aprì il bloc-notes e cominciò a leggere. «Il progetto è durato dal 1984 al 1989. Vi hanno partecipato i nostri ricercatori del laboratorio laser e del gruppo Sviluppo satellitare.» «Era coinvolto anche Oscar Loebner?» chiese David. «No, in quegli anni lavorava coi supercomputer. Ma i ricercatori di vari laboratori del Soreq s’incontrano spesso a seminari ed eventi sociali, perciò è probabile che Loebner sapesse del Cherev.» Monique continuava a fissare il cilindro. «Dunque questo coso è un laser o un satellite?» «È entrambe le cose.» Rahm girò pagina. «È un laser che avrebbe dovuto essere mandato in orbita. Ma non si è mai staccato dal suolo, ovviamente. Il progetto è stato annullato nel 1989, e questo aggeggio è qui da

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allora.» «Che cos’avrebbe dovuto fare in orbita?» «Purtroppo i registri non forniscono una descrizione completa. Alcuni documenti sono andati perduti quando il Soreq ha digitalizzato gli archivi negli anni ’90. Abbiamo provato a metterci in contatto con gli scienziati responsabili del Cherev, ma due di loro sono morti e il terzo ha l’Alzheimer.» Merda, pensò David. Fa’ che non sia un altro vicolo cieco. «Non c’erano persone più giovani? Magari qualche assistente?» domandò. «Stiamo cercando di contattarli. E abbiamo chiesto informazioni ai ricercatori americani che erano al corrente del Cherev.» Lucille drizzò le orecchie. Avanzò verso Rahm, strizzando le palpebre. «Ricercatori americani?» «Sì, al Lawrence Livermore National Laboratory in California. Si trattava di un progetto congiunto tra il Livermore e il Soreq. I laboratori si scambiavano i risultati.» Lei fece una smorfia, palesemente irritata dal fatto che Rahm non vi avesse accennato prima: il Livermore era uno dei principali laboratori di armi nucleari negli Stati Uniti. «E chi sono questi scienziati americani?» domandò. «L’FBI può aiutarvi a rintracciarli.» «Ho una lista.» Rahm sfogliò il bloc-notes finche´ non trovò la pagina che cercava. «Sì, eccola. Il nome in codice che il Livermore usava per il progetto era Excalibur. Che è anche il nome di una spada, giusto?» David ricominciò a sperare. Aveva sentito parlare di Excalibur. «Aspetti un secondo. L’iniziativa faceva parte del programma Guerre stellari? Sa, il piano di difesa missilistica proposto da Ronald Reagan.» Rahm fece spallucce. «I registri non lo dicono, ma potrebbe essere.Gli americani e gli israeliani hanno collaborato alle ricerche sulla difesa missilistica negli anni ’80. Per ovvie ragioni, Israele è molto interessato a questa tecnologia.» David esaminò nuovamente l’oggetto sul pavimento, soffermandosi soprattutto sulle aste spezzate all’interno del cilindro. Sì, ora lo riconosceva. Aveva visto gli schizzi di quel dispositivo in diversi libri e articoli. Era una reliquia della guerra fredda, dimenticata

dal pubblico ma familiare per gli storici. Si rivolse a Lucille. «ConoscoExcalibur. È un particolare tipo di laser capace di sparare fasci a raggi X. È stato l’ultima invenzione del dottor Stranamore.» Lei inarcò un sopracciglio. «Dottor Stranamore?» «Edward Teller, intendo, il padre della bomba H. Ufficialmente, negli anni ’80 era già in pensione, ma ha continuato a gestire il laboratorio Livermore. È stato lui a

inventare Guerre stellari e a convincere il presidente Reagan che avrebbe potuto funzionare.» «Ehi, rallenti», intervenne Lucille.«Hosentito parlare di Guerre stellari, ma che diavolo è Excalibur?» «Il fiore all’occhiello del programma. L’idea di Teller era combinare un laser a raggi X con una testata nucleare e lanciare il tutto in orbita. Nell’eventualità di un attacco missilistico da parte dell’Unione Sovietica, l’aeronautica statunitense avrebbe dato il segnale per far detonare la testata nello spazio. Excalibur avrebbe incanalato l’energia della bomba in fasci laser che avrebbero abbattuto i missili sovietici mentre viaggiavano sopra l’atmosfera.» Monique annuì. «Ma certo, ne ho sentito parlare anch’io! Il dispositivo aveva aste laser in grado di assorbire i raggi X dell’esplosione nucleare, giusto? E ogni asta poteva essere puntata su un bersaglio diverso, cosicche´ i raggi laser potessero abbattere un’intera ondata di missili tutti in una volta.» «Sì, era una strategia assurda, ambiziosa fino alla follia. Il governo ha speso centinaia di milioni...» David si piegò sopra il nastro e indicò i frammenti dentro il cilindro. «Vedete quelle schegge irregolari? Sono pezzi delle aste laser. Ciascuna era lunga circa un metro ed era

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formata da centinaia di trefoli metallici, intrecciati insieme comeifili in un cavo.» Indicò i montanti rotti. «La testata andava lì, doveva essere inserita nel cilindro appena prima del lancio, accanto alle aste laser. In caso di detonazione, gli atomi nei trefoli metallici avrebbero assorbito le radiazioni dell’esplosione e le avrebbero rilasciate in un fascio laser che avrebbe viaggiato lungo l’asta. L’esplosione nucleare avrebbe distrutto l’intero congegno, ovviamente, ma i raggi laser sarebbero usciti dalle estremità delle aste prima che il dispositivo si polverizzasse. E, poiche´ avrebbero avuto una frequenza nell’intervallo dei raggi X, avrebbero emesso molta più energia di un normale laser, sufficiente per demolire un missile sovietico.» Monique fischiò. Fissò il cilindro, poi guardò David. «Sarà anche stata una strategia assurda, ma la tecnologia è davvero sorprendente.» «Era rivoluzionaria», concesse lui. «I ricercatori del Livermore hanno cercato di fare qualcosa di assolutamente inedito. E hanno avuto un certo successo coi test iniziali. Hanno costruito prototipi di Excalibur e posizionato i laser a raggi X vicino alle bombe atomiche nel sito per test nucleari in Nevada. Quando le bombe sono esplose, i ricercatori hanno rilevato i raggi laser emessi dai prototipi. Teller ha predetto che Excalibur sarebbe stato pronto per l’uso nel giro di qualche anno, ma poi il progetto è incappato in problemi tecnici e il governo ha tagliato i fondi. Subito dopo, l’Unione Sovietica si è frantumata, la guerra fredda è finita e gli USA hanno vietato i test nucleari. Così Excalibur è stato annullato e, credetemi, è stato meglio così. Dovremmo tentare di eliminare le armi nucleari, non di mandarle nello spazio.» Con suo stupore, nessuno dissentì. Il silenzio fu rotto da Aryeh: «Okay, ora sappiamo cos’è questo aggeggio, sì? Il Livermore scambiava informazioni col Soreq, dunque i ricercatori israeliani devono aver costruito il proprio prototipo di laser. Ma perche´, dopo tutti questi anni, Loebner è venuto a distruggerlo? Che senso ha?» «Forse Loebner è un traditore. Forse lavora con gli iraniani e per questo ha sabotato un sistema di difesa che potrebbe abbattere i loro missili», ipotizzò Lucille. «Ma Excalibur non ha mai funzionato», obiettò Aryeh. «Le IDF l’hanno accantonato e se ne sono dimenticate. E Israele ha altri sistemi di difesa missilistica già pronti per l’uso, come i razzi Patriot e gli intercettatori Arrow. Se davveroLoebner voleva sabotarci, perche´ non si è accanito contro quelli?» «Perche´ i sistemi in funzione hanno misure di sicurezza più efficaci», rispose Lucille. «Loebner ha distrutto quello che ha potuto, poi si è volatilizzato.» Aryeh fece un sorrisetto scettico. Non la contraddisse, ma era evidente che non fosse d’accordo. David scosse la testa. «No, il cattivo non è Loebner. Sappiamo che stava lavorando a un esperimento con Jacob Steele. E al momento del test nucleare iraniano hanno rilevato qualcosa che li ha allarmati. Un’anomalia nel flusso del tempo, un’interruzione negli ingranaggi del...» «Sono solo congetture», interloquì Lucille. «Ci servono altre informazioni. Dobbiamo...» «Loebner ha fiutato il pericolo e ha preso l’iniziativa.» David indicò nuovamente il cilindro sfasciato. «A poche ore dal test nucleare, si è precipitato qui e ha demolito il prototipo. Perciò Excalibur deve essere coinvolto in qualche modo, fa parte della minaccia.» Lucille si mise le mani sui fianchi, incredula. «Excalibur è un’arma difensiva, progettata per abbattere i missili. Come diavolo potrebbe diventare una minaccia?» David scosse la

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testa. Ripensò a ciò che Monique gli aveva detto su It From Bit e sull’universo computazionale. Riflette´ sul Gruppo Caduceo, sui due orologi a ioni singoli nascosti alla Beit Shalom Yeshiva e all’università del Maryland. E ricordò l’ultima volta che aveva visto Jacob Steele, nel corridoio davanti alla sala conferenze della Columbia. C’èdell’altro. Mi sfugge qualcosa, pensò. Il dettaglio mancante, nascosto in un angolo della sua memoria, si rifiutava di affiorare. «Non so spiegarlo. Ma sono certo di avere ragione», disse. Il sole scendeva già verso il Mediterraneo quando lasciarono il Soreq. Aryeh e Lucille sedevano davanti, come prima, e David e Monique avevano preso posto dietro, tuttavia nessuno parlò ne´ accese la radio. Non avevano fatto il minimo passo avanti nelle ricerche di Oscar Loebner. Avevano trovato una nuova prova, ma niente indizi sul nascondiglio dell’uomo. Se avessero avuto abbastanza tempo, forse avrebbero potuto interrogare i suoi ex colleghi, ricostruire i suoi movimenti e risolvere il mistero della sua scomparsa, scoprire cosa avesse rilevato col Gruppo Caduceo, perche´ avesse distrutto il laser a raggi X e quale fosse il suo legame col rapimento di Michael. Ma David sapeva che dovevano agire in fretta. Non c’era più un minuto da perdere. Guardò fuori del finestrino. I pali del telefono lungo l’autostrada che li avrebbe riportati a Gerusalemme proiettavano lunghe ombre sui campi tinti d’oro dalla luce del tardo pomeriggio. Il suo timore più grande era che Lucille decidesse di rientrare in America: data la mancanza di progressi fino a quel momento, forse sarebbe voluta tornare a New York per riorganizzare l’indagine. David sapeva che sarebbe stato un errore tuttavia, se Lucille avesse preso quella decisione, lui avrebbe avuto poche speranze di farle cambiare idea. Anche se aveva instaurato un buon rapporto con lei, in fondo era solo un civile. A metà tragitto, nel punto in cui l’autostrada s’inerpicava sulle colline della Giudea, si fermarono per fare benzina. Per fortuna il traffico non era intenso e la stazione di servizio era quasi vuota. Mentre Aryeh andava alle pompe, Lucille aprì la sua enorme borsa nera e tirò fuori un rossetto. David lanciò un’occhiata nervosa a Monique, quindi si girò verso Lucille, chinandosi nella fessura tra i sedili anteriori. «Che cosa facciamo ora? Restiamo in Israele o torniamo negli Stati Uniti?» domandò con voce carica di tensione. Lei parve un po’ sbalordita dalla sua schiettezza. Abbassò il rossetto e si voltò. «Non si preoccupi, Swift. Abbiamo ancora delle cose da sbrigare qui.» David non sapeva se stesse dicendo la verità o se stesse solo cercando di rassicurarlo. «Veramente? Ho la sensazione che siamo finiti in un vicolo cieco.» «No, non capisce. Le indagini sono un lavoro difficile, non si può pretendere di fare progressi a ogni interrogatorio. Il più delle volte non si cava un ragno dal buco. Occorre provare molti approcci finche´ non si trova quello che produce risultati.» «Ma qual è la prossima mossa? Nessuno sa dove sia andato Loebner dopo aver lasciato il Soreq. Ormai potrebbe essere ovunque.» «Comincio a pensare che dovremmo smetterla di concentrarci tanto su Oscar Loebner, l’esperto d’informatica. Quel tizio è anche Olam ben Z’man, il fanatico della cabala. È legato alla Beit Shalom Yeshiva e ai coloni ebrei. E l’FBI possiede molte informazioni sugli

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esponenti dell’estrema destra della Cisgiordania, perche´ hanno sostenitori anche negli Stati Uniti.» «Crede che Loebner si sia rifugiato in Cisgiordania?» «Sarebbe un buon nascondiglio: alcuni insediamenti sorgono su colline sperdute circondate da villaggi palestinesi. Le autorità israeliane ci vanno di rado e i coloni sono ben riforniti di armi perche´ combattono continuamente contro i palestinesi. Tenga, guardi questo.» Lucille frugò nella borsa ed estrasse un BlackBerry. «Questa mattina ho scaricato alcuni dati. Abbiamo un collegamento criptato coi computer dell’FBI a Washington.» Sullo schermo comparve una lista dei villaggi israeliani in Cisgiordania in ordine alfabetico. Il primo era Adora, il secondo Alei Zahav. Ogni nome era accompagnato da una foto satellitare e da diversi link contenenti altre informazioni. «Uau, è impressionante», commentò David. «Già, l’FBI ha investito milioni nei nuovi server e nelle apparecchiature per networking, ma almeno una volta al mese il sistema si blocca e gli schermi si oscurano. Abbiamo avuto un periodo sfortunato coi computer.» Lucille fece scorrere l’elenco: Alfei Menashe, Alon Shvut, Almon, Argaman, Ariel. David però non li vide nemmeno, perche´ gli era venuta in mente una cosa. Il dettaglio mancante che gli sfuggiva da quand’era entrato nel deposito a lungo termine gli affiorò alla memoria all’improvviso. Ricordò ciò che Jacob Steele aveva detto davanti alla sala conferenze della Columbia: Un’interruzione più marcata potrebbe scatenare una catastrofe, potrebbe far crollare l’intero sistema. Lucille continuò a blaterare sui villaggi israeliani e a consultare la lista – Dolev, Doran, Efrat, Elazar –, ma lui era troppo agitato per ascoltarla. Assalito da una tremenda paura, afferrò Monique per il braccio. «Ho capito perche´ l’ha fatto! Perche ´ Loebner ha distrutto il laser!» Lei trasalì e lanciò un gridolino. «Gesù! Che diavolo ti prende?» «Un blocco, un blocco informatico! Ecco di cosa aveva paura Loebner!» Indicò il BlackBerry di Lucille. «Ogni sistema informatico si blocca, giusto? Non esiste un solo computer in questo maledetto mondo che non si sia bloccato almeno una volta.» Monique lo fissò attentamente. «Okay, rallenta. Di cosa stai parlando?» «Non capisci? Se l’universo è un...» In quel momento le quattro portiere della limousine si aprirono. Un uomo con una giacca nera comparve dietro Monique e le mise una mano guantata sulla bocca. Un secondo fece lo stesso con David, mentre altri due immobilizzarono Lucille prima che lei potesse estrarre la pistola. Erano forti e rapidi, e sotto le giacche portavano camicie nere e pantaloni dello stesso colore. Come i killer alla Beit Shalom Yeshiva. Sono venuti a finire il lavoro, pensò David. Gli aggressori salirono in auto e chiusero le portiere. Quando il tizio che aveva preso posto sul sedile del guidatore mise in moto, David intravide un furgone nero parcheggiato dall’altro lato delle pompe di benzina, in cui altri due uomini spinsero Aryeh. Poi gli sportelli si chiusero e il veicolo si allontanò. La limousine lo seguì a tutto gas, tornando verso l’autostrada. David aveva la testa girata di lato, con la guancia destra premuta contro il tessuto del sedile. Osservò attentamente il tipo dietro Monique: calvo e dal torace largo, con una benda nera sull’occhio. Per tutta risposta, lo sconosciuto gli sorrise e allentò la presa su Monique, togliendole la mano dalla bocca. «Shalom! Mi chiamo Olam ben Z’man.»

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I soldati di fratello Cyrus entrarono nella iurta e, mentre Michael sedeva sul materasso, staccarono la prolunga che collegava l’Ultra 27 al generatore diesel e portarono fuori la workstation senza dire una parola. A Michael non importava. Non toccava il computer da quand’era tornato dal cratere la notte precedente. In fondo a un cassetto della scrivania aveva trovato una matita e un quaderno a spirale. Sulla prima pagina aveva scritto La scoperta dello spazio-tempo: era così che s’intitolava il capitolo 3 d’Introduzione alla fisica moderna, uno dei volumi che Monique Reynolds gli aveva regalato per il suo diciannovesimo compleanno. Michael l’aveva imparato a memoria e ora lo stava copiando sul quaderno, trascrivendo il testo con la sua calligrafia precisa e disegnando le illustrazioni. Amava riscrivere i libri a memoria, perche´ era un modo per dimenticare tutto il resto. Ridisegnare le immagini era la parte migliore. La sua preferita del capitolo 3 era la fotografia in bianco e nero di Albert Einstein. La didascalia diceva che era stata scattata nel 1905, l’anno in cui il grande fisico aveva scoperto la teoria della relatività. Michael la riprodusse con estremo piacere, perche´ mostrava il suo trisavolo a ventisei anni, solo sette più di lui. Una volta finito, tuttavia, fu assalito dalla paura. Nonostante i suoi sforzi, gli era tornato in mente un pensiero terribile: la principale scoperta di Einstein, la teoria unificata dei campi, era nelle mani di fratello Cyrus, e lui aveva infranto la promessa di non rivelarla a nessuno. Erano quasi le sei di sera. Michael posò la matita, ormai ridotta a un mozzicone. Seduto sul bordo del materasso, fissò lo spazio vuoto dove prima c’era l’Ultra 27. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma doveva riflettere sul programma, doveva capire se Cyrus poteva davvero usare il codice per ricreare l’universo. Il problema era che Michael non lo capiva perfettamente. Sapeva che era equivalente alla teoria unificata, e aveva formulato e memorizzato ogni riga del codice, ma, come David Swift gli aveva ripetuto spesso, memorizzare non significava capire. David lo esortava sempre a riflettere sui libri che leggeva, a rielaborare le informazioni perche´ acquisissero senso. Così Michael decise di seguire il consiglio: chiuse gli occhi e pensò al programma. Innanzitutto si rese conto che era in funzione da moltissimo tempo. Secondo Introduzione alla fisica moderna, l’universo esisteva nella sua forma attuale da quand’era iniziato il Big Bang, quasi quattordici miliardi di anni prima. Se fosse stato possibile interrompere il programma, ciò sarebbe dovuto accadere nei primi millisecondi della sua esistenza, quando lo spazio-tempo era intriso di energia. In quel caso l’universo sarebbe finito quasi subito dopo essere nato. Il programma, tuttavia, aveva continuato a funzionare nel caos primordiale ed era sopravvissuto agli sconvolgimenti delle epoche successive. Michael sospettava che alcune parti del codice fungessero da algoritmi di correzione degli errori, capaci d’impedire a

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eventuali anomalie di guastare il sistema. Dunque concluse che fratello Cyrus aveva mentito: anche se avesse costruito una bomba grande quanto la Via Lattea, non sarebbe riuscito a generare abbastanza energia per modificare il programma. Poi, però, ebbe un’altra idea. Forse Cyrus non aveva bisogno di tanta energia. Il fatto che l’universo fosse sopravvissuto così a lungo non escludeva a priori la possibilità di un’interruzione; significava solo che l’evento era molto improbabile, così improbabile da non potersi verificare spontaneamente in nessuna parte dell’universo osservabile per almeno quattordici miliardi di anni. Ma non era impossibile, e una persona in gamba avrebbe potuto scatenarlo volontariamente. Michael corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare il programma. Il software ricomparve sullo schermo nero delle sue palpebre, e lui esaminò ogni riga di codice. Allo stesso tempo ricordò ciò che Cyrusaveva dettosul Regno dei Cieli: Gli orologi smetteranno di funzionare e il tempo si fermerà. Il passato dell’universo si comprimerà in un unico momento e il Signore ci abbraccerà per sempre. Ripensando a quelle parole, si concentrò su un particolare blocco di codice. Vide le variabili quantistiche e gli operatori che si spostavano in nuove posizioni, riallineandosi fino a formare un’istruzione completamente diversa. Era così semplice che Michael si stupì di non essersene accorto prima: fratello Cyrus poteva ricreare l’universo, bastava solo una lieve alterazione del codice. Doveva smettere di pensarci. Tremava nonostante il caldo soffocante. Aprì gli occhi e fissò il pavimento, il motivo di poligoni bianchi e arancioni che si ripetevano sullo sfondo rosso del tappeto. Era una sorta di mosaico, una serie di quadrati, triangoli ed esagoni che s’incastravano perfettamente, senza spazi vuoti ne´ sovrapposizioni. Per un quarto d’ora, Michael dimenticò fratello Cyrus e studiò il disegno, cercando d’individuarne le simmetrie rotazionali. Poi trasse un profondo respiro e si alzò. Si avvicinò alla parete dietro la scrivania e trovò il forellino tra le assicelle di legno dove prima scorreva il cavo di alimentazione del computer. S’inginocchiò sul tappeto e sbirciò fuori. A una decina di metri da lui, due soldati aspettavano nel vano di carico del grosso furgone verde che lo aveva condotto fino al campo nel deserto, mentre altri due camminavano molto lentamente verso di loro, portando un involucro rettangolare nero. L’oggetto era piccolo, lungo solo quarantacinque centimetri, e Michael si stupì che fossero necessari due uomini per trasportarlo. Quando raggiunsero il veicolo, passarono l’involucro ai loro compagni, quindi recuperarono un pezzo di tubo grigio, lungo circa tre metri e del diametro di quindici centimetri, e misero anche quello sul furgone. Continuarono a caricare per quindici minuti, poi chiusero gli sportelli e si allontanarono, dirigendosi verso ovest sulla pista nel deserto. Altri due uomini riempirono un secondo furgone e si allontanarono a loro volta. Poi fu il turno di un terzo veicolo, insieme con quattro Land Cruiser e tre pick-up Toyota, che si avviarono nella stessa direzione. Alle sette erano rimaste solo due Land Cruiser e un pick-up. Michael contò sette soldati che pattugliavano la zona, sei dei quali intenti a camminare a coppie tra le capanne vuote. Il settimo era Angel, impegnato a parlare alla radio. Aveva un benda di garza sul naso e un grosso livido viola su entrambe le guance per la testata di Michael.

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Non appena lo vide, il ragazzo staccò l’occhio dal foro e guardò il mucchio di vestiti sudici gettati ai piedi del materasso, dove aveva nascosto la bomba dirompente. L’aveva avvolta nelle mutande sporche di piscio, pensando che nessuno avrebbe voluto toccare qualcosa di così disgustoso. Conosceva la granata M67 perche´ era un’arma di America’s Army, un videogame sviluppato dall’esercito statunitense per attirare nuove reclute, in cui c’era pure un programma di addestramento che insegnava a usare la granata, perciò Michael sapeva che quell’arma aveva un raggio di esplosione di quasi cinque metri. Quella caratteristica rendeva l’M67 molto efficace durante i combattimenti, ma nel suo caso costituiva un problema. Michael non avrebbe potuto lanciarla all’interno della iurta, perche´ sarebbe morto anche lui. Avrebbe dovuto aspettare che qualcuno aprisse la porta; allora, forse, sarebbe riuscito a correre fuori con l’M67 e a scagliarla contro i soldati. Ma, se voleva fuggire dal campo, doveva assicurarsi che tutti e sette gli uomini di Cyrus fossero a non più di cinque metri dall’epicentro dell’esplosione. Studiò la iurta, fissando il materasso, la scrivania e il secchio di plastica che fungeva da WC. Grazie alla sua lunga esperienza coi videogame, sapeva che ogni programma aveva le sue scorciatoie, i suoi trucchi. Se il personaggio tocca un pannello segreto, si apre una porta. Se si trova un oggetto nascosto – una chiave, un anello, un barattolo –, i nemici svaniscono nel nulla. Così iniziò a cercare gli oggetti nascosti. Prima notò la paglietta accanto al secchio. Serviva a pulire gli escrementi che restavano attaccati sul fondo e, fino a quel momento, lui non l’aveva toccata. Ma ora la raccolse. Poi prese la torcia sul materasso – la usava per trovare il secchio di notte – ed estrasse la batteria da nove volt. Infine andò alla scrivania e aprì il primo cassetto. Dentro c’erano un grosso sacchetto di patatine e la bottiglia che Tamara aveva portato il giorno precedente, ancora mezzapiena di Ja¨germeister. Portò i quattro oggetti ai piedi del materasso e li nascose sotto i vestiti. È un gioco. Stai per toccare il pannello segreto, pensò. Quindi iniziò a battere i pugni contro la porta. «Ehi! Ehi! C’è qualcuno?» urlò. Aspettò, ma non sentì nessun rumore di passi. Dopo dieci secondi bussò ancora. Stava per fare un altro tentativo, quando la porta si spalancò ed entrò Angel, che dovette abbassarsi per passare sotto lo stipite. Indossava ancora l’ingombrante giubbotto antiproiettile della sera prima e, nello spazio angusto della iurta, sembrava ancora più nerboruto. Nella destra impugnava una pistola, una semiautomatica M-9. Michael indietreggiò verso il centro della stanza, rimpiangendo di non aver rubato una pistola anziche´ una bomba. Angel però avrebbe notato di certo la scomparsa di un’arma del genere, mentre non si era accorto del furto dell’M67. L’uomo lo fissò per sei lunghi secondi, puntandogli la pistola al petto. «Che cosa vuoi?» Michael si concentrò sulla sua cicatrice a forma di mezzaluna. Non era piacevole da guardare, ma era sempre meglio del suo volto tumefatto. O della pistola. «Vorrei parlare con Tamara, per favore. Potresti chiederle di venire?» Angel sbuffò. «Temo di no. Ora Tamara è una prigioniera, proprio come te.» «Scusa, non capisco.» Angel fece un passo avanti. «È stata colpa tua. Le hai fatto perdere la fede. È chiusa in un’altra iurta. Forse il Signore la perdonerà, ma fratello Cyrus no.» Michael strinse

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i pugni per nascondere il tremore alle mani. Le unghie gli affondarono nei palmi. «Allora vorrei vedere fratello Cyrus. Vorrei parlargli il prima possibile.» «Fratello Cyrus non c’è. Vuoi vedere qualcun altro?» «Sai quando tornerà?» «Non tornerà. In caso tu non te ne sia accorto, stiamo levando le tende. Andiamo sulle montagne, a Kuruzhdey.» Michael ricordò ciò che aveva detto Tamara: era andata sulle montagne per sbrigare un lavoro importante, aveva affermato. Circa duecentoquaranta chilometri a sud-ovest, aveva aggiunto. «Allora vorrei parlare con fratello Cyrus non appena arriviamo in questo posto.» Angel scosse la testa. «Ho una brutta notizia per te: tu non vieni con noi. Hai già causato abbastanza problemi.» «Scusa, non capisco.» «Fratello Cyrus mi contatterà via radio entro un’ora. Sta controllando le informazioni che gli hai dato. Non appena avrà finito, non avremo più bisogno di te.» «Scusa, non...» «Allora te lo dico chiaro e tondo.» Angel fece un altro passo avanti. Allungò il braccio e gli premette l’M-9 sulla fronte. «Una volta ricevuto il via libera da fratello Cyrus, ti sparerò. Il Signore ti vuole fuori dei piedi, e io obbedirò al Suo comando. Sarai l’ultima persona che ucciderò prima di entrare nel Suo Regno.» Michael sentì il cerchio freddo dell’arma. Tremando, continuò a fissare la cicatrice di Angel. È un gioco, si ripete´. E lui era bravo coi giochi. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere il soldato con la forza fisica, ma forse avrebbe potuto superarlo in astuzia. Angel aveva già commesso un errore. Forse ne avrebbe commesso un altro. Michael si sforzò di guardarlo in faccia: il tampone di garza sul naso, la pelle viola intorno agli occhi, le iridi marrone opaco. Poi sorrise, perche´ gli era venuto in mente qualcosa di appropriato da dire. Era una battuta che un personaggio di Desert Commando diceva dopo aver dato un pugno in faccia a un avversario durante la scena del combattimento corpo a corpo. «Come sta il tuo naso, stronzo?» Poi il mondo piombò nell’oscurità. Quando Michael si svegliò, era steso sul tappeto, supino. Aveva la guancia sinistra calda e gonfia e non riusciva ad aprire l’occhio. Angel se n’era andato e la iurta era immersa nel silenzio. Sottili strisce di luce filtravano fra le assicelle alla parete. Michael girò la testa, mosse braccia e gambe, poi le dita delle mani e dei piedi. Per fortuna, nulla di rotto. Quando si alzò, la stanza gli vorticò intorno, ma si fermò quasi subito. Poi lui barcollò verso la porta e spinse il battente applicando la minor pressione possibile. L’uscio si aprì di un paio di centimetri. Nella rabbia, Angel aveva dimenticato di chiudere a chiave.

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Olam ben Z’man li fece entrare di nascosto in Cisgiordania. Dopo aver abbandonato la limousine in un parcheggio vuoto, i suoi uomini avevano trasferito David, Monique e Lucille sul furgone nero. Aryeh era già a bordo, e ben presto tutti e quattro si erano ritrovati seduti sul pavimento del veicolo, sorvegliati da kippot srugot vestiti di nero e armati di Uzi. Per l’ora successiva David non era riuscito a vedere nulla all’esterno, ma dalle svolte e dai sobbalzi frequenti aveva intuito che stavano percorrendo le tortuose vie secondarie della Cisgiordania. Il panico si era lentamente fatto strada dentro di lui, in parte per via delle curve e delle sbandate, in parte per la situazione in generale: era contento di aver trovato Olam, tuttavia non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi suo prigioniero. Finalmente il veicolo si fermò e le guardie aprirono gli sportelli. Il sole stava tramontando e gli ultimi raggi costrinsero David a strizzare le palpebre. Uno degli uomini di Olam lo afferrò per il braccio e lo trascinò giù dal furgone, conducendolo in cima a una collina spoglia, verso un gruppo di roulotte fatiscenti, su una delle quali era appeso uno striscione bianco con due stelle a sei punte e il nome del villaggio: SHALHEVET. Un’altra guardia si occupò di Monique, mentre dalle rulotte uscirono altri kippot srugot, ciascuno con un’Uzi a tracolla. Altri uomini si avvicinarono al furgone e presero Lucille e Aryeh. David notò con sgomento che li portavano verso un altro alloggio. Le guardie spinsero lui e Monique oltre la porta della roulotte principale, in una stanza senza finestre. In un angolo c’era un massiccio armadietto d’acciaio grigio, alto più o meno come un frigorifero e largo tre volte tanto, di fronte al quale si trovava una vecchia scrivania malridotta con una sedia pieghevole da un lato e due dall’altro.

Gli uomini indicarono queste ultime. David e Monique presero posto, mentre i kippot srugot si piazzavano alle loro spalle, con le Uzi puntate alle loro teste. Per un attimo David credette che volessero giustiziarli, ma poi comparve Olam ben Z’man, coi pantaloni neri infilati negli stivali da combattimento e con le maniche della camicia rimboccate. A David, la testa calva e la benda sull’occhio dell’uomo fecero venire in mente Moshe Dayan, il famoso generale israeliano, tuttavia Olam era più nerboruto: era alto quasi due metri e aveva le spalle e il torace da culturista. Aveva tutta l’aria di poter sollevare di peso Moshe Dayan e scagliarlo dall’altra parte del Giordano. Il volto scuro era segnato dall’età – Olam aveva superato la cinquantina, ricordò David –, ma il tratto più sorprendente era l’occhio sano, che aveva una brillante iride azzurra. Olam tese loro la mano. «Bene, bene! Finalmente siete qui!» Quando David fece per alzarsi, le guardie lo presero per le spalle e lo spinsero di nuovo sulla sedia, perciò lui dovette stringergli la mano da seduto. «Sono un amico di Jacob Steele, mi chiamo...» «So chi è. Jacob mi ha parlato di lei. David Swift, docente di Storia alla

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Columbia University, nonche´ presidente di Fisici per la Pace. Mentre lei, signora, è Monique Reynolds, docente di Fisica alla Columbia. Vi prego di perdonarmi per avervi colti così alla sprovvista. Non è stato molto educato trascinarvi qui con la forza, eh? Ma dovevo assicurarmi che nessuno ci seguisse.» David era disorientato. Aveva tante domande da fargli che non sapeva da dove iniziare. «Ascolti, abbiamo un’emergenza. Siamo venuti in Israele con l’FBI perche´...» «... perche´ qualcuno ha ucciso Jacob e rapito Michael Gupta. Ho dei contatti nel governo israeliano, sapete, e mi hanno parlato della vostra indagine. Il problema è che pure i nostri nemici dispongono di agenti infiltrati nelle agenzie d’intelligence sia in Israele sia in America.» Si accomodò sulla sedia dietro la scrivania. «Ecco perche´ i miei uomini stanno interrogando l’agente Parker dell’FBI e Mr Goldberg dello Shin Bet.» Monique scosse la testa. «Ma loro non sono vostri nemici. Conducono l’inchiesta.» «Mi dispiace, dobbiamo essere prudenti. I Qliphoth hanno molte spie. Non vi siete chiesti come abbiano fatto a trovarvi così velocemente dopo che siete arrivati a Gerusalemme? Sapevano già che voi e gli agenti eravate venuti in Israele a cercarmi.» David lo guardò, a disagio. «I Qliphoth?» «Nella cabala i Qliphoth sono le forze distruttive dell’universo, l’opposto delle Sephirot. Come una specie di diavoli ma, per favore, non fraintendetemi: i nemici contro cui combattiamo sono uomini, non diavoli.» Merda, pensò David. Olam gli stava già propinando un sacco di sciocchezze sulla cabala. Così tentò di riportarlo alla realtà: «Dunque sta dicendo che qualcuno dell’FBI ha fatto una soffiata a queste persone?» «O l’FBI o lo Shin Bet, sono compromessi entrambi. I Qliphoth speravano di trovarmi, così i loro killer vi hanno seguiti alla Beit Shalom Yeshiva. Volevano uccidere me, invece hanno ammazzato il rav. Sono preoccupati perche´ ho scoperto il loro piano. Il Gruppo Caduceo ha rilevato le interruzioni causate dal loro test nel Dasht-e Kavir.» Nel sentire nominare il Gruppo Caduceo, David tirò un sospiro di sollievo: in quel momento voleva parlare con Oscar Loebner lo scienziato, non con Olam ben Z’man il mistico ebraico. Monique però lo precedette: «Le interruzioni dello spazio-tempo, intende? Quelle che si sono verificate quand’è esplosa la bomba iraniana?» Olam annuì. «Si sono propagate dal sito del Kavir, colpendo prima il mio orologio e poi quello di Jacob. Le anomalie sono state lievissime, ciascuna di durata inferiore a un trilionesimo di secondo: troppo brevi per essere registrate dagli orologi atomici convenzionali, che non sono precisi come i nostri, e troppo deboli per essere rilevate dal nostro sistema nervoso, il che spiega perche´ nessuno si sia accorto dell’interferenza. Ma, durante quei momenti fugaci, le interruzioni dello spazio-tempo sono state molto marcate. In ogni occasione il tempo è stato compresso così violentemente che ha quasi cessato di esistere.» «Ma cosa le ha causate? È impossibile che un’esplosione nucleare laceri lo spazio-tempo in questo modo.» Invece di rispondere alla domanda di Monique, Olam aprì un cassetto. Tirò fuori un foglio e lo posò sulla scrivania. Era una foto scattata da un satellite di ricognizione, che mostrava una strada sterrata nel bel mezzo di un deserto che conduceva a un bunker, accanto al quale era parcheggiato un furgone. Tra il veicolo e la costruzione c’era un carrello elevatore che trasportava un cilindro argenteo, su cui Olam puntò un dito. «Un satellite israeliano l’ha fotografato nel sito iraniano del Kavir lunedì,il giorno prima del test nucleare. Gli analisti

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dell’intelligence delle IDF non sono riusciti a identificare il dispositivo, così lunedì sera mi hanno inviato un’e-mail criptata con una copia dell’immagine. Anche se non lavoro più per la direzione dell’intelligence, ogni tanto aiuto ancora i vecchi amici. Ho capito subito di cosa si trattava: questo è un prototipo del laser Excalibur.» David si chinò sulla scrivania, cercando di vedere meglio la foto, e notò il pannello scorrevole posto al centro del cilindro: lo scomparto per la testata nucleare, la fonte di energia per i fasci laser a raggi X che avrebbero dovuto abbattere i missili sovietici. «Gesù. Che cosa ci fa quel coso in Iran? Gli iraniani stanno forse lavorando sulla difesa missilistica?» «Sapevo che non potevano averlo costruito da soli. La tecnologia è al di fuori della loro portata. Perciò ho ipotizzato che l’avessero rubato. Ho controllato con un ex collega del Soreq e lui mi ha confermato che il laser a raggi X israeliano era ancora al laboratorio. Un amico del Lawrence Livermore, invece, mi ha detto che il loro era stato trasferito due mesi prima. Ha promesso che sarebbe andato in fondo alla questione e scoperto dove fosse finito il prototipo.» Olam scosse la testa. «L’indomani gli iraniani hanno fatto esplodere la bomba e il Gruppo Caduceo harilevatole interruzioni. Allora hocapito cosaintendevano fare i Qliphoth col prototipo rubato, e non ha nulla a che vedere con la difesa missilistica.» Monique si alzò e prese a camminare sue giù. Le guardie non la fermarono. «Gli iraniani cercavano di usare Excalibur come arma offensiva? Di sparare il laser a raggi X per alterare volutamente lo spazio-tempo?» Olam fece di no con la testa. «Devo essere sincero con lei, dottoressa Reynolds: li chiamo Qliphoth perche´ non so chi siano. Evidentemente collaborano col governo iraniano, tuttavia non credo che i mullah conoscano i loro piani. Vede, l’Iran vuole radere al suolo Israele, forse anche l’America, ma i Qliphoth vogliono distruggere tutto il creato! Neppure i mullah arriverebbero a tanto.» David aveva un nodo allo stomaco. Fu assalito dalla stessa

paura che aveva provato mentre era sulla limousine. I suoi sospetti erano fondati. «Sta dicendo che stanno tentando di bloccare il programma universale?» «Allora sapete del programma? Ve ne ha parlato il rav Kavner?» Monique annuì. «Ci ha detto quel poco che aveva capito. In seguito ci siamo accorti che alludeva all’ipotesi It From Bit e...» «Ah, non è più un’ipotesi. Ormai sappiamo con certezza che It From

Bit è corretto: abbiamo appena assistito alle prove di un sovraccarico. I raggi laser di Excalibur sono stati abbastanza potenti da interferire col programma.» Monique fece una smorfia. «Che cosa? Un sovraccarico?» «In termini tecnici è stato un overflow del buffer di memoria. Ogni computer ha una memoria, giusto? E l’universo non fa eccezione.» «Ma com’è possibile che...» «Per favore, mi lasci spiegare. La memoria dell’universo è ovunque, incastrata nello spazio-tempo. Quando riempiamo di particelle un volume di spazio, aggiungiamo dati alla sua memoria. Ogni memoria, però, ha i suoi limiti. Se si mette troppa materia in un piccolo volume, lo spazio- tempo locale crollerà e formerà un buco nero. Conosce i buchi neri, vero?» «Sì,certo.» Monique roteò la mano, esortandolo ad arrivare al dunque. «Un buco nero è una scocciatura per chi vive nelle sue vicinanze, ma non è una catastrofe per l’universo nel suo complesso. Il programma universale ha algoritmi di correzione degli errori che impediscono al sovraccarico d’influire sul resto del sistema. Il buco nero piega lo spaziotempo circostante con la sua gravità, tuttavia l’interruzione fondamentale è limitata a un singolo punto. Capite?» David faticava a

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tenergli dietro. «Okay, ma cosa c’entra il laser a raggi X?» «Un laser è un fenomeno insolitamente ordinato. Le particelle di luce nel fascio hanno tutte la stessa frequenza e la stessa fase, perciò le informazioni che trasmettono sono molto ripetitive. Il programma universale ha cache di memoria specializzate per questi dati ripetitivi. Tuttavia quando...» Monique alzò le mani. «Aspetti un secondo. Cache di memoria specializzate? Come fa a sapere che esistono?» Olam sorrise. «L’universo non è solo un computer, ma anche un computer molto efficiente. Le cache specializzate aumentano l’efficienza del programma comprimendo i dati ripetitivi.» Aveva parlato in tono compiaciuto, come se fosse orgoglioso dell’ingegnosità del meccanismo. Il suo sorriso, però, svanì quasi subito. «Purtroppo c’è un inconveniente: le cache specializzate si sovraccaricano più facilmente di quelle normali. Così, se si concentrano intensi fasci laser a raggi X su un volume di spazio molto piccolo, l’aumento di dati può inondare la memoria. Ora, un evento di questo tipo sarebbe molto improbabile, perche´ i processi naturali generano raramente fasci laser a raggi X, ma Excalibur permette di scatenare un sovraccarico orientando i fasci laser in modo che convergano nel vuoto dentro il cilindro del dispositivo.» Monique si fermò accanto all’angolo della scrivania. «E il sovraccarico può interferire con altre parti del computer universale? Le parti che determinano la struttura dello spazio-tempo? È questo che il Gruppo Caduceo ha rilevato?» «Sì, ha mostrato l’interferenza nella dimensione temporale, che fortunatamente è stata molto breve. L’interruzione nel sito del Kavir è stata tenuta sotto controllo dagli algoritmi di correzione degli errori nel programma universale, che hanno isolato l’overflow della memoria e gli hanno impedito di compromettere il resto del sistema. Ma temo che un altro test sia imminente. Secondo i miei calcoli, se i Qliphoth facessero esplodere una testata più potente e facessero qualche modifica al laser a raggi X, i risultati potrebbero essere molto diversi. Se i fasci fossero più intensi e convergessero nel punto giusto, i dati sovraccaricherebbero troppe cache e neutralizzerebbero gli algoritmi di correzione degli errori. Allora lo spazio-tempo crollerebbe nel sito del sovraccarico e l’errore di sistema si diffonderebbe alla velocità della luce.» Monique si morse il labbro. «Si espanderebbe come una bolla e distruggerebbe ogni cosa sul suo cammino.» Olam annuì. «La Terra sparirebbe in un ventesimo di secondo, il sistema solare in circa dodici ore. Ma non mi piace la parola ’bolla’. Non si tratta di una bolla, bensì di un blocco: un errore paralizza il computer e il sistema crolla.» Scese il silenzio. Oscar Loebner aveva appena dato loro una notizia spaventosa. Più di vent’anni prima, i fabbricanti di armi della guerra fredda avevano involontariamente costruito una macchina apocalittica, e ora qualcuno aveva compreso il potere nascosto di Excalibur, la sua capacità di scatenare un evento così straordinario da non essersi mai verificato, nemmeno una volta, nella lunga storia dell’universo. Un evento fatale, pensò David. L’errore supremo. «Ma perche´ qualcuno dovrebbe voler bloccare il programma? È un suicidio!» Olam fece spallucce. «Non so chi siano i Qliphoth, dunque posso solo ipotizzare quali siano le loro ragioni, però, vede, il blocco distruggerebbe tutta la materia, ma non il computer. Come quando si blocca un PC, giusto?

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Lo schermo si oscura, tuttavia il programma può riavviarsi. Allo stesso modo, l’universo potrebbe riavviarsi, e dal vuoto emergerebbe un altro Big Bang, anche se il programma del nuovo universo potrebbe essere molto diverso da quello vecchio. Anzi, forse sarebbe possibile pilotare il blocco affinche´ il riavvio apporti determinate modifiche al software. Si potrebbero cambiare le leggi dellafisica. Magari regolare la velocità dellaluce ele altre costanti fisiche per creare un universo più semplice o più efficiente del nostro. Oppure si potrebbe dare vita a un nuovo spazio-tempo con un diverso numero di dimensioni. Forse un universo con due dimensioni temporali, che consentirebbe di viaggiare a ritroso nel tempo. O un universo atemporale, dove ogni cosa esisterebbe in una stasi eterna.» David si alzò. «Allora pensa che queste persone vogliano costruire un universo migliore? Magari la loro versione del paradiso?» «Chissà? Ci sono tanti pazzi nel mondo, tanti falsi Messia. Si potrebbe persino pensare di recuperare la memoria del vecchio universo e inserirla in quello nuovo. Come una resurrezione, no? Ogni cosa rinascerebbe in un nuovo formato, come quando si convertono i file di un computer da Windows a Mac. Non sarebbe facile scatenare un riavvio di questo tipo – bisognerebbe regolare le angolazioni delle aste laser di Excalibur nel modo giusto – ma, se si conoscesse il programma universale nel dettaglio, ci si potrebbe riuscire.» David non poteva staccare gli occhi dalla foto. Immaginava un idiota arrogante che decideva di ricreare l’universo. La natura umana era fatta così. Ma poi un nuovo pensiero accese un barlume di speranza. Indicò il cilindro argenteo sulla fotografia. «Il prototipo del Livermore è stato distrutto nell’esplosione nucleare nel sito del Kavir, giusto? E lei ha messo fuori uso quello custodito al Soreq. Perciò, a meno che questi Qliphoth non costruiscano un nuovo laser a raggi X, dovremmo essere al sicuro, no?» Olam aggrottò le sopracciglia. «Dimentica una cosa. Excalibur è stato creato negli ultimi anni della guerra fredda, quando gli americani e i sovietici non facevano altro che spiarsi a vicenda. All’epoca, i laboratori nazionali erano bersagli fondamentali delle operazioni d’intelligence. Se una delle due parti sviluppava una nuova tecnologia, solitamente l’altra si metteva in pari nel giro di qualche anno.» «Che cosa significa? Anche i sovietici avevano forse un laser a raggi X?» «Secondo le mie fonti, l’hanno costruito nel sito per test nucleari di Semipalatinsk, ma si sono imbattuti negli stessi problemi tecnici che avevano fermato gli americani. Così, nel 1990, si sono arresi e hanno trasferito il dispositivo in un deposito militare in Turkmenistan. Quando l’Unione Sovietica si è frantumata, nel ’91, l’esercito non si è preso il disturbo di riportare il laser in Russia. Lo considerava inutile, perciò l’ha lasciato al deposito con tutte le altre apparecchiature superflue.» Olam posò le mani sulla scrivania e si alzò.«È lì che andremo. I miei vecchi amici hanno accettato di prestarci un aereo da trasporto. Partirà dalla base di Ramat David tra due ore.» «Sta concertando un’operazione con le IDF?» Olam scosse la testa. «Ve l’ho detto, non possiamo fidarci di nessuno che lavori per il governo israeliano o americano. I Qliphoth hanno collaboratori ovunque. Come credete che abbiano fatto a trafugare Excalibur dal laboratorio di Livermore? No, sto organizzando questa missione al di fuori dei canali ufficiali. Guardatevi intorno e vedrete i membri della nostra squadra d’attacco.» Indicò i due kippot srugot, che avevano abbassato le armi.

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«Con noi ci saranno venti uomini. Sono quasi tutti ex commilitoni con cui ho combattuto nel Sayeret Matkal. L’aereo ci porterà a Baku, in Azerbaijan, poi prenderemo una barca a nolo per attraversare il mar Caspio. Il deposito in Turkmenistan è abbastanza vicino alla costa.» Monique lo guardò di traverso. «Crede che il laser a raggi X sia ancora lì? Dopo tutti questi anni?» «Ne sono sicuro. Ho verificato coi miei contatti nel Mossad, che ha un’ottima rete di agenti nell’Asia centrale. Troveremo il dispositivo e lo distruggeremo.» David si chinò sulla scrivania. «E Michael? Dobbiamo trovare anche lui.» Olam si avvicinò. Era così alto che il naso di David era a pochi centimetri dalle sue ascelle, il cui tanfo di sudore era insopportabile. «Michael è coi Qliphoth, ne sono certo, così come sono sicuro del fatto che anche loro stiano cercando il laser, perciò sospetto che troveremo il ragazzo in Turkmenistan.» «Allora veniamo con voi.» David alzò il mento e lo guardò negli occhi. «Dobbiamo riuscire a portare a casa Michael sano e salvo.» Olam gli mise un braccio intorno alle spalle. «Certo che venite con noi. Perche´ pensate che vi abbiamo portato qui?» Lo fissò con un’espressione tra l’ammirato e il divertito. «Jacob mi ha raccontato cos’è accaduto due anni fa, come lei e la dottoressa Reynolds abbiate salvato l’Einheitliche Feldtheorie. Non vi siete ancora accorti di essere uno strumento di Keter?» «Keter? Che cos’è?» «La più alta delle Sephirot, il primo passo nell’enumerazione dell’universo. Lo strumento di Keter occupa un posto speciale nel piano divino. Ecco perche´ siete qui, ecco perche´ continuano a capitarvi queste cose pazzesche. Keter è lo strumento di Dio, e ora voi ci garantirete la vittoria!» Mentre l’ebreo stringeva la spalla di David, una guardia entrò e disse alcune parole in ebraico. Olam annuì, poi si rivolse ancora a David. «I miei uomini hanno finito d’interrogare l’agente Parker e Mr Goldberg. Per fortuna nessuno dei due è una spia. Ora possono unirsi alla lotta. Quando avrò mostrato loro fino a che punto i Qliphoth si sono infiltrati nelle loro agenzie, capiranno perche´ dobbiamo agire di nascosto. Voglio che l’agente Parker venga in Turkmenistan con noi. Ho bisogno di bravi soldati. Ma ho un altro compito per Mr Goldberg», continuò guidando David verso l’armadietto d’acciaio. «Probabilmente dovrebbe parlare con loroprimadi...» «No, a Mr Goldberg piacerà questo incarico: dovrà decodificare alcuni messaggi per me con l’aiuto di questa macchina.» Olam aprì un’anta dell’armadio, rivelando un intricato groviglio di cavi, circuiti elettronici, e centinaia di tubicini di vetro disposti in linee ordinate. «Il Gruppo Caduceo non è l’unico progetto cui sto lavorando. Ho trovato il modo di costruire qualcos’altro con la tecnologia degli ioni intrappolati.» Ognuno di quei tubicini di vetro era una trappola a ione singolo, identica a quelle del Gruppo Caduceo, ma David aveva la sensazione che quel dispositivo non fosse un orologio. I tubi erano collegati a fibre ottiche che si aggrovigliavano in una matassa arruffata. Sembrava un po’ l’interno di una scatola di giunzione telefonica, con dozzine di linee di fibre ottiche che trasmettevano flussi di dati in ogni direzione. Mentre lui era ancora intento a studiare la macchina, cercando di capirne lo scopo, Monique trasalì, entusiasta. «Oddio. Ha centinaia di ioni, qui dentro!» Olam annuì. «4096, per essere precisi.» «E sono tutti collegati da linee di fibre ottiche! Ogni ione emette segnali ottici che

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viaggiano lungo le linee, giusto? E i segnali permettono agli ioni d’interagire e di eseguire calcoli.» «È stata una buona idea, vero? Questo computer quantistico è il primo al mondo che faccia veramente qualcosa di utile.» «Ma come ci è riuscito? Pensavo che la tecnologia non fosse ancora all’altezza. Non è questa la ragione per cui Jacob ha abbandonato il calcolo quantistico?» Olam si fece serio. «Io ce l’ho fatta perche´ così era scritto. Useremo questo computer nella battaglia contro i Qliphoth.» Quella notte, attraverso gli occhiali a infrarossi, i rimorchi di Shalhevet apparivano come abbaglianti rettangoli bianchi contro la cima nera della collina. Gli israeliani e gli americani avevano provato a eludere la sorveglianza di Nico rintanandosi in quel villaggio in Cisgiordania, ma lui li aveva seguiti. Era nascosto dietro un masso su un’altura vicina, a circa duecento metri di distanza. Shalhevet brulicava di ebrei armati, alcuni intenti a pattugliare il perimetro dell’avamposto e altri a vigilare sulla grande rulotte in cui Olam ben Z’man si consultava coi suoi uomini. Nico l’aveva intravisto, corrispondeva alla descrizione fornita dagli informatori di Cyrus: un grosso kelb calvo con una benda nera sull’occhio. Quando fece per avvicinarsi un poco, dalle roulotte uscirono diverse figure. Nico non riusciva a vederle nei dettagli, ma riconobbe lo stesso Swift e Monique. Mezza dozzina di sionisti barbuti li ricondusse al furgone e salì a bordo con loro. Poi Olam uscì dal rimorchio con l’agente dell’FBI e si avviò verso un veicolo identico. Nico strinse il pugno, soffocando l’impulso d’imbracciare il fucile. Gli ordini erano chiari: non attaccare finche´ non avrai la certezza di ucciderli tutti. Così si limitò a osservare i due furgoni che si allontanavano, avanzando lungo un sentiero sterrato che portava all’autostrada. Benche´ gli autisti non avessero acceso i fari, i motori caldi e i tubi di scappamento brillavano sul display del binocolo. I veicoli svoltarono a sinistra sull’autostrada 60, dirigendosi verso nord. A quel punto, Nico era già sulla sua auto, mezzo chilometro più indietro. Quando superò Nablus, afferrò la radio. Fratello Cyrus sarebbe stato soddisfatto.

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Quando calò l’oscurità, il dolore al volto si era ormai attenuato, e Michael era in grado di aprire l’occhio sinistro e di attraversare la iurta senza avere le vertigini. Sentendo un motore che si accendeva, il ragazzo corse a sbirciare dal forellino appena in tempo per vedere Angel e altri due soldati salire su un pick-up Toyota, che ben presto lasciò il campo e scomparve sulla pista, muovendosi verso la striscia di orizzonte dove il sole era tramontato quindici minuti prima. Meno male, pensò. Ormai erano rimasti solo quattro soldati e l’oscurità gli avrebbe permesso di sgusciare via facilmente. Tuttavia non poteva certo fuggire nel deserto a piedi: quando Angel e i suoi uomini fossero tornati e si fossero accorti della sua scomparsa, l’avrebbero riacciuffato subito inseguendolo col pick-up. Ma c’erano ancora due Land Cruiser al campo, e Michael intuì che le sue probabilità di successo sarebbero aumentate notevolmente se avesse viaggiato a bordo di un veicolo. Lui non sapeva guidare, ma Tamara sì. E Angel aveva detto che era chiusa in un’altra iurta. I quattro soldati pattugliavano il campo a coppie, la prima delle quali si muoveva disegnando un otto che girava intorno alle capanne sul lato occidentale, mentre l’altra faceva la stessa cosa su quello orientale. Era una tattica efficace, perche´ permetteva loro di tenere d’occhio quasi tutto il perimetro in ogni momento. Michael però si era accorto che una coppia camminava più velocemente dell’altra, e ogni sei minuti c’era

un breve intervallo di tempo in cui nessuno dei quattro vedeva l’ingresso della sua iurta. Controllò l’orologio e decise di andarsene alla prima opportunità, che sarebbe arrivata intorno alle 20.57. Il cielo stava diventando sempre più scuro, ma i soldati non avevano ancora acceso le torce. Alle 20.55 il ragazzo aprì il sacchetto di patatine e vi versò dentro quasi duecento millilitri di Ja¨germeister. La paglietta e la batteria erano già nelle sue tasche. Alle 20.56 recuperò l’M67 dal mucchio di vestiti sporchi e andò alla porta. Nell’ultimo minuto ripassò la sequenza di operazioni che aveva imparato da America’s Army: Prima rilascio la levetta della bomba, poi tiro la sicura. La levetta scatta non appena lanceròla granata. La miccia brucia per quattro secondi prima della detonazione. Tenne la bomba e il sacchetto nella destra, e la bottiglia di liquore nella sinistra. Aspettò altri quindici secondi, poi spinse la porta e uscì. Era più buio di quanto non avesse immaginato; le iurte erano montagnole nere che si stagliavano contro la sabbia grigio scuro. Michael chiuse silenziosamente l’uscio e girò intorno alla prima capanna, tenendosi vicino al muro, sul lato opposto rispetto ai soldati, camminando scalzo sulla sabbia. Udì un verso acuto che veniva dall’interno della costruzione. Riconobbe la voce di Tamara, ma non avrebbe saputo dire se la donna stesse ridendo o piangendo. Avrebbe voluto fermarsi ad ascoltare, però sapeva che le sentinelle sarebbero rispuntate da un momento all’altro, così continuò a

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muoversi. Raggiunse la iurta successiva e infine quella all’angolo sudorientale del campo, dove s’infilò chiudendosi la porta alle spalle. La stanza era buia, ma Michael sentì materassi e mucchi d’indumenti sotto i piedi. Dev’essere l’alloggio dove dormono i soldati, pensò. Arrancò verso la parete di fronte alla porta e posò sul tappeto la granata, il sacchetto e la bottiglia. Poi tirò fuori la paglietta e la batteria. Leggendo la Piccola enciclopedia scientifica aveva imparato che una batteria da nove volt era più potente di una D o di un’AA e, se il conduttore che collegava i poli era un materiale ad alta resistenza – come l’alluminio della paglietta –, la corrente elettrica avrebbe generato calore. Così non si stupì di ciò che accadde quando strofinò la paglietta sulla batteria: il groviglio di fili brillò di arancione e s’incendiò. Michael l’aveva visto fare su YouTube e aveva sempre voluto provare. Una volta che la paglietta ebbe preso fuoco, lui la appoggiò sul tappeto accanto alla parete. Poi capovolse il sacchetto e versò sulle fiamme le patatine intrise di Ja¨germeister: la combinazione di alcol e grassi era un ottimo accelerante. Gettò il resto del liquore tutt’intorno, anche se non sarebbe stato necessario, dato che il tappeto e le assicelle erano asciutti. Quando Michael uscì di corsa, il fuoco si era ormai propagato sul pavimento e sulle pareti. Si allontanò di qualche metro e si nascose dietro una duna, buttandosi a terra a pancia in giù. Quindi, stringendo la bomba nella destra, aspettò che arrivassero i soldati. Quella parte del piano l’aveva quasi indotto a gettare la spugna: come avrebbe potuto attirare tutti e quattro i soldati entro il raggio di esplosione della granata? Lui non era capace di prevedere le azioni delle altre persone; trovava impossibile mettersi nei panni di qualcun altro – persino la metafora lo confondeva –,

perciò all’inizio non riusciva proprio a immaginare cosa potesse spingere i soldati a riunirsi in un solo punto. Ma poi aveva ripensato al cratere di Darvaza, il profondo burrone ardente. Se fosse scoppiato un incendio, soprattutto se fosse stato abbastanza grande, i soldati avrebbero reagito immediatamente, sarebbero accorsi e avrebbero cercato di spegnere le fiamme prima che distruggessero i loro averi. E andò proprio così. Arrivò prima una coppia di soldati, poi l’altra. Urlarono e batterono gli stivali per spegnere il fuoco. Le loro azioni furono logiche, prevedibili e inevitabili quanto la traiettoria della granata lanciata da Michael.

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Angel era irritato. Uno dei furgoni del convoglio diretto a Kuruzhdey era uscito di strada ed era finito in un fosso a circa dieci chilometri dal campo di Darvaza e, poichè il suo pick-up era l’unico veicolo con un motore abbastanza potente per rimorchiarlo, lui si era dovuto recare sul luogo dell’incidente insieme con due uomini. Trovava un po’ umiliante quel compito – era un soldato di Dio, non un meccanico –, ma non aveva avuto altra scelta: il convoglio trasportava materiali importanti per fratello Cyrus. Per fortuna portarono a termine il compito rapidamente, liberando il furgone al primo tentativo. Stavano sganciando la fune di traino, quando arrivò una trasmissione da fratello Cyrus: «Quartier generale a Angel. Ci sei, Angel?» Lui recuperò la radio. Era la chiamata che stava aspettando. «Qui Angel, pronto per le istruzioni. Passo.» «Il Signore è dalla nostra parte, Angel. Ci vediamo in paradiso. Passo.» Lui sorrise. Il messaggio significava che era tutto a posto. Fratello Cyrus aveva eseguito il programma sui suoi potenti computer per confermare che fosse coerente e completo. Il piano del Signore era entrato nell’ultima fase. Mancavano meno di quarantott’ore alla redenzione. «Ricevuto. Chiedo autorizzazione a procedere col repulisti. Passo», rispose Angel. «Autorizzazione concessa. Che la pace sia con te, Angel. Passo e chiudo.» Angel si agganciò la radio alla cintura e ordinò ai suoi uomini di salire sul pick-up. Quindi si accomodò sul sedile del guidatore, fece inversione e si avviò verso il campo di Darvaza. Solitamente non amava i repulisti, e non era entusiasta all’idea di uccidere Tamara – era stata un soldato eccellente, finche´ non aveva perso la fede –, ma sapeva che avrebbe provato un certo piacere ad ammazzare il ragazzo. Era un bamboccio

testardo che aveva bisogno di una lezione. Mentre Angel guidava verso est stringendo il volante, immaginò di avere le mani intorno al collo del ragazzo. Non avrebbe nemmeno dovuto sprecare un proiettile. Il boato della deflagrazione fece sussultare Tamara. Poco prima, la donna aveva sentito odore di fumo, perciò all’inizio credette che una cassa di munizioni fosse esplosa a causa di un incendio scoppiato in una delle altre iurte. Ma alla detonazione seguì un terribile silenzio: niente urla, niente radio ne´ passi pesanti sulla sabbia. Si udiva solo il crepitio distante di un fuoco, e null’altro. Poi qualcuno fece per aprire la porta, e Tamara si alzò, pronta ad aggredire chiunque fosse entrato. Tuttavia, quando l’uscio si spalancò, apparve un ragazzo alto e scalzo, coi capelli arruffati e con un occhio nero. «Michael! Che cosa ti è successo?» Tamara corse verso di lui a braccia aperte, ma si fermò all’ultimo momento, ricordando che non gli piaceva essere toccato. Il ragazzo fece un passo indietro. «Scusa. Dobbiamo andarcene il prima possibile.» Lei lo guardò. Non era mai stato facile leggere le espressioni di Michael, ma in quel momento il suo volto era più imperscrutabile che mai, pallidissimo e con

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un grosso livido intorno all’occhio sinistro. «Oddio! È stato Angel? Oppure uno degli altri?» «Quattro soldati sono morti. Ho preso due armi dai loro giubbotti.» Michael alzò le mani, mostrando una pistola M-9 e una granata a concussione. «Michael, dammi quella bomba! È pericoloso!» gridò lei facendo per prenderla. Michael però fece un altro passo indietro. «So usare quest’arma», dichiarò con voce lenta e monotona. Tamara lo fissò e scosse la testa. Gli era capitato qualcosa di terribile, qualcosa che l’aveva cambiato. «Dobbiamo andarcene il prima possibile. Angel e gli altri due soldati torneranno molto presto.» Michael s’infilò la pistola nei pantaloni e la granata in una tasca. Poi si girò e uscì. Tamara lo seguì. Il cielo era nero e senza luna, ma la luce tremolante dell’incendio rischiarava il campo. Raggiunsero le Land Cruiser. Lei sbirciò dal finestrino di una delle due auto e vide che, grazie a Dio, le chiavi erano nell’accensione. Montò sul sedile del guidatore e mise in moto. Michael aprì la portiera del passeggero, ma non salì. «Coraggio!» lo esortò Tamara. «Che cosa stai aspettando?» Lui fissò qualcosa in lontananza, poi alzò il braccio e indicò. «Fari. A ovest.» Angel stentava a crederci: una iurta aveva preso fuoco e nessuno dei soldati al campo l’aveva contattato via radio. Non aveva senso. A meno che i suoi uomini non avessero disertato – cosa molto improbabile –, gli avrebbero segnalato immediatamente l’emergenza. Era così concentrato sull’incendio che per poco non notò la Land Cruiser che attraversava il campo. Aveva i fari spenti, ma Angel notò il riflesso delle fiamme sulla carrozzeria. Il veicolo raggiunse la pista e si diresse a est, verso il cratere. Angel schiacciò l’acceleratore e il pick-up sobbalzò. Quando fu vicino al campo, scorse dei corpi vicino alla iurta incendiata. No, non erano corpi, ma soltanto pezzi: busti, braccia e gambe, ancora avvolti nel tessuto cachi. Quattro soldati erano morti, e i prigionieri che li avevano uccisi cercavano di fuggire. Tenendo una mano sul volante, Angel si voltò verso il pianale. I due uomini rimasti sedevano sulle casse di munizioni accanto all’M240. Uno di loro, pensò, avrebbe potuto saltare giù e prendere la Land Cruiser che era ancora parcheggiata al centro del campo, cento metri più avanti. L’altro avrebbe potuto aprire le casse e cominciare a caricare la mitragliatrice. Tamara lasciò il campo a fari spenti, sperando di svanire nello sconfinato deserto nero senza dare nell’occhio, ma Angel la scorse troppo presto e si lanciò dritto verso di lei, con gli abbaglianti del pick-up che si riflettevano nello specchietto retrovisore della jeep. Tamara aveva guidato spesso la Land Cruiser fuoristrada e conosceva i pregi e i difetti di quell’automobile, che aveva un motore V8 molto potente, ma non quanto quello del pick-up, e in più era poco maneggevole. Tanto per peggiorare le cose, ben presto comparve un’altra coppia di fari: la seconda Land Cruiser. Merda! Dove ho la testa? pensò lei. Avrebbe dovuto forare le gomme prima di andarsene.

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La pista s’inerpicava sulla china di una lunga cresta fiancheggiata dalle dune. All’inizio il pick-up e l’altra Land Cruiser procedevano fianco a fianco, a una distanza di circa duecento metri dal loro veicolo, ma poi il pick-up sterzò a destra e seguì una seconda pista parallela alla prima. Tamara temeva che l’altro percorso fosse leggermente più breve, il che avrebbe permesso a quei bastardi di tagliarle la strada. Si chiese se andare fuoristrada, ma sapeva che era l’opzione più rischiosa: se si fosse arenata nella sabbia, lei e Michael sarebbero stati spacciati. Mentre rifletteva e tentava di accelerare il più possibile senza ribaltare l’auto o finire in una duna, udì uno scoppiettio lontano. Poi ricordò cosa trasportasse Angel sul pianale del pick-up. Si voltò verso Michael, che sedeva rigido sul sedile del passeggero. «Stai giù!» urlò. «Stai...» Un proiettile mandò in frantumi il lunotto e Tamara sentì un dolore improvviso alla guancia sinistra, che in breve tempo si estese all’orecchio e al cuoio capelluto, mentre il sangue le colava sul lato del collo. Lei cadde nel panico, pensando che la pallottola l’avesse centrata, e per poco non mollò il volante. Poi però si accorse che pure il finestrino del guidatore era sparito. Quindi si tastò la testa; sentì varie schegge di vetro conficcate nella pelle, ma nessuna ferita d’arma da fuoco. Il proiettile l’aveva mancata. Lanciò un’occhiata a destra e vide Michael rannicchiato sotto il vano portaoggetti. «Michael! Stai bene?» chiese. Lui non rispose. L’orecchio sinistro le ronzava e il vento entrava dai vetri sfondati. «Michael! Michael!» «Sì, sto bene. Dovresti andare più forte», ribatte´ lui a voce bassa. Tamara schiacciò l’acceleratore a tavoletta. La Land Cruiser rombò e sfrecciò lungo la pista, saltando con un balzo una piccola duna di sabbia. Superarono il campo di rottami industriali e il primo cratere, quello più piccolo, che non aveva preso fuoco: una voragine nera alla loro destra. La pista parallela si snodava lungo l’altro lato del baratro, e i rottami e le dune bloccavano la linea di fuoco dell’M240, che per un po’ tacque. Presto però avrebbero raggiunto la sommità della cresta e i due percorsi si sarebbero riuniti in corrispondenza del cratere. L’altra Land Cruiser e il pick-up lavoravano in tandem, con la jeep che illuminava il bersaglio coi fari alti affinche´ il mitragliere sul furgone potesse prendere la mira. Prima o poi un altro proiettile avrebbe raggiunto l’automobile e la corsa sarebbe finita. «Michael! Hai ancora la pistola?» gridò Tamara. «Sì.» «Ti dirò come usarla. Prima devi...» «La so usare. È un’M-9, l’arma standard di America’s Army.» «Okay, magnifico. Voglio che spari ai fari della macchina dietro di noi.» «Il veicolo dista circa cento metri. La gittata massima effettiva dell’M-9 è cinquantacinque metri.» «Come? Che cosa...» «L’arma non è abbastanza accurata per colpire i fari, soprattutto da un veicolo in movimento.» «Voglio solo che provi...» La Land Cruiser saltò. Volarono per quella che sembrò un’eternità, poi le ruote anteriori toccarono il suolo e la vettura schizzò lungo l’altro lato della cresta. Il cratere era davanti a loro, un baratro ardente al centro del parabrezza, e diventava sempre più grande man mano che avanzavano. Tamara scorse il punto in cui le piste si congiungevano, a soli cento metri di distanza e, nello specchietto retrovisore, il pick- up che si avvicinava da sud ovest. L’M-20 riprese a sparare e i proiettili piovvero sulla

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sabbia alle loro spalle. Tamara si rese conto che ormai era inutile provare a colpire i fari: il mitragliere li vedeva benissimo grazie alla luce delle fiamme. Il terreno si appiattì vicino al bordo del precipizio. Dopo che ebbero superato l’intersezione, lei sterzò bruscamente a sinistra, cercando di mettere la maggiore distanza possibile tra loro e gli inseguitori. Poi sentì un colpetto sulla spalla. Michael si stava arrampicando nello spazio tra i sedili, spostandosi sul retro dell’automobile. «Vai laggiù, vicino all’orlo», disse indicando l’estremità settentrionale del burrone. «Michael, stai giù, cazzo!» «L’altra arma che ho rubato ai soldati è una granata a concussione. Voglio lanciarla, ma prima devi avvicinarti al cratere.» Tamara si voltò. Michael era sul sedile posteriore, con la bomba stretta in mano. «Oh, Gesù. Stai attento...» «Devo lanciare la granata in modo che esploda vicino a entrambi i veicoli, che però sono lontani tra loro. Perciò, se vuoi che li metta fuori gioco entrambi, devi avvicinarti al bordo.» È una follia, pensò Tamara. Ma non obiettò. Essendo a corto d’idee, era pronta ad accettare qualsiasi proposta. Sterzò a destra, puntando verso l’estremità settentrionale del burrone. Guardò ancoranello specchietto retrovisore.Il pick-up e l’altra Land Cruiser erano a meno di cinquanta metri. Tentavano di raggiungerla girando intorno al cratere il più rapidamente possibile, guidando a pochi metri dalla voragine. Michael si girò verso il lunotto distrutto e s’inginocchiò sul sedile, muovendo silenziosamente le labbra. Stava contando. Secondo Tamara, quella era una mossa disperata: l’altra jeep era circa dodici metri davanti a Angel e, se Michael fosse stato fortunato, avrebbe centrato l’auto, ma non il pick-up. E a quel punto il mitragliere avrebbe ricominciato a sparare. Poi Michael gridò: «Svolta a sinistra!» e gettò la bomba. Tamara obbedì senza pensarci. Quindi udì l’esplosione. L’altra Land Cruiser si sollevò dal terreno, come se fosse incappata in un’enorme cunetta e, quando rimbalzò sullasabbia, ilpick-up sbandò per evitarla. Poiil margine del cratere si sgretolò, si aprirono mille crepe e il suolo cedette. I due veicoli sprofondarono e scivolarono di lato. Mentre si allontanava a tutta velocità, Tamara udì uno scricchiolio soffocato alle sue spalle. Quando guardò nello specchietto retrovisore, gli inseguitori erano spariti, il cratere era diventato ancora più grande, con un nuovo orlo irregolare all’estremità settentrionale, e al suo interno non si vedevano altro che le fiamme insaziabili.

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«Dove diavolo sei, Lucy?» Il direttore era incazzato nero. Benche´ fosse a più di ottomila chilometri di distanza, nel suo ufficio al quartier generale dell’FBI a Washington, la sua voce carica di rimprovero tuonò forte e chiara all’altro capo della linea, tanto che Lucille dovette staccare il BlackBerry dall’orecchio. «Sono in Cisgiordania, signore.» Per la precisione era sul furgone di Olam ben Z’man, che si stava dirigendo a nord, verso la base aerea di Ramat David, ma non era necessario che il direttore venisse a conoscenza di quel dettaglio. Se, come sosteneva Olam, c’erano diverse spie infiltrate nell’FBI, sarebbe stato imprudente sbottonarsi troppo. «E sto ancora lavorando al caso di rapimento. Ma abbiamo avuto alcune complicazioni.» «In Cisgiordania? Pensavo fossi a Gerusalemme.» «Sì, signore, mi lasci spiegare. Le avevo detto che questo caso avrebbe potuto avere implicazioni per la sicurezza nazionale, e avevo ragione. Il tizio che stavamo cercando è un informatico che svolgeva incarichi top secret per le IDF e ha trovato le prove di un furto verificatosi al laboratorio nucleare Lawrence Livermore. Il dispositivo trafugato è un laser a raggi X. Il nome in codice del progetto è Excalibur.» Seguì una lunga pausa. Il silenzio del direttore confermò i sospetti di Lucille: il suo superiore sapeva già del furto. In effetti era compito dell’FBI indagare sulle falle di sicurezza nei laboratori nazionali. «Sì, ne ho sentito parlare», disse lui alla fine. «Il governo israeliano ci ha contattati martedìe ha detto di avere immagini satellitari che mostravano Excalibur nel sito per test nucleari iraniano. Ma, quando abbiamo chiamato il responsabile del Livermore, ha affermato che il laser a raggi X era stato smantellato e rottamato due mesi prima. E aveva i documenti che lo comprovavano. Cosìabbiamo detto agli israeliani che si sbagliavano, i loro analisti devono aver confuso l’oggetto nella foto.» «Signore, se posso chiederlo, da dove venivano i documenti?» «Dall’appaltatore che si è occupato dello smantellamento,una piccola società di Sacramento, la Logos Enterprises.» «Edè una fonte attendibile?» «Non ho ragione di credere il contrario. Che cosa sta succedendo, Lucy? Vuota il sacco.» Lucille trasse un profondo respiro. «I miei contatti qui mi hanno dato un’informazione che non hanno ancora passato ufficialmente a Washington. Le stazioni di ascolto israeliane fanno gli straordinari per via del test nucleare, monitorando tutte le comunicazioni in entrata e in uscita dall’Iran. Due giorni fa, hanno intercettato un messaggio dalla California all’Afghanistan occidentale, vicino al confine iraniano. Il messaggio aveva la crittografia dell’esercito degli Stati Uniti, ma gli israeliani sono riusciti a decifrarlo.» «Che cosa? Non possono decifrare i nostri codici. È impossibile!» Il direttore aveva di nuovo alzato la voce, costringendo Lucille ad allontanare ancora di più il BlackBerry.

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Aveva ragione. Le agenzie d’intelligence israeliane non ne erano in grado, tuttavia Olam ben Z’man aveva decrittato il messaggio col suo bizzarro computer quantistico. Aveva provato a descrivere la tecnologia a Lucille prima di lasciare Shalhevet, ma per lei era arabo. Per il momento, però, preferiva non rivelare la verità al direttore. «Il mittente deve aver incasinato la crittografia. A ogni modo, ecco il testo: ’Ricevuta richiesta su rimozione Excalibur. Dato risposta concordata. In attesa di ulteriori istruzioni’. Come vede, signore, il messaggio indica che potrebbe essere in atto una sorta d’insabbiamento.» «Chi l’ha spedito? E chi l’ha ricevuto?» «Il mittente e il destinatario hanno usato entrambi dispositivi wireless non registrati. Ma il segnale del mittente è passato per un ripetitore di Sacramento, perciò ritengo sia meglio ricontrollare la Logos Enterprises. Il segnale del destinatario è passato per un ripetitore nella città afghana di Hera¯t. Ho verificato con un contatto alla National Security Agency: i talebani in quella parte del Paese non usano spesso i cellulari, e non hanno mai crittografato i messaggi in questo modo.» Ci fu un’altra lunga pausa. Il direttore tacque, limitandosi a picchiettare l’unghia sulla scrivania, come faceva sempre quand’era nervoso. «È una pessima notizia, Lucy. Come minimo si tratta di uso non autorizzato della crittografia militare. E, se c’è un legame coi talebani o col programma nucleare iraniano, potremmo avere un problema serio.» Lei era d’accordo. Era in ansia da quando Olam le aveva parlato di Excalibur, benche´ non avesse capito molto delle parti più assurde della storia: i sovraccarichi di dati, le cache di memoria, il programma universale.. Ecco perche´ non ne aveva parlato col suo capo: lui l’avrebbe presa per squilibrata e avrebbe ignorato i suoi avvertimenti, invece il messaggio intercettato era una prova concreta, dimostrava che le spie straniere avevano rubato i codici militari statunitensi e si erano infiltrate in un laboratorio nucleare, il che rappresentava una violazione maledettamente grave della sicurezza. Era quello il motivo per cui Lucille aveva deciso di partecipare alla missione non autorizzata di Olam: a Washington c’era un nido di vipere, e alcune si erano insinuate nell’FBI. Doveva convincere il direttore a stanarle. «Signore, posso darle un consiglio? Quando sceglierà la squadra che interrogherà i tizi della Logos Enterprises, ordini agli agenti di non rivelare niente sulle comunicazioni criptate.

Devono chiedere solo ulteriori dettagli sullo smantellamento di Excalibur. A quel punto l’appaltatore potrebbe allarmarsi e inviare un altro messaggio che noi potremmo intercettare. Se siamo fortunati, identificheremo il destinatario in Afghanistan e poi potremo chiedere al Pentagono di rintracciarlo.» «Buona idea. Metto in moto gli ingranaggi.» Lui tossicchiò e ricominciò a picchiettare sulla scrivania. «Dove sei esattamente?» Lucille guardò fuori del finestrino. Erano a meno di venti chilometri dall’aeroporto. Se fosse salita sull’aereo di Olam, avrebbe violato tutte le regole del manuale dell’FBI. Ma non importa, pensò. Tanto aveva intenzione di andare in pensione di lì a poco. «Mi dispiace, signore, non la sento più... La richiamo quando torna il segnale.»

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Fratello Cyrus si tolse i guanti e afferrò il disco di uranio a mani nude. Aveva un diametro di soli dieci centimetri ed era spesso meno di due, ma era molto pesante, quasi cinque chili. Di un colore argento opaco, assomigliava a una moneta gigante. Nella custodia nera davanti a luic’erano cinque dischi identici, ognuno posato nel suo scomparto rivestito di piombo. Un’altra custodia conteneva nove anelli di uranio che avrebbero circondato i dischi. Presi singolarmente, i pezzi si potevano maneggiare senza correre rischi. L’U-235 decadeva con estrema lentezza, perciò le radiazioni emesse erano pochissime. Anzi, non erano neppure caldi al tatto. Si era in pericolo solo quando li si metteva tutti insieme. In totale, Cyrus aveva cento chili di uranio altamente arricchito, molto più della massa critica di cui aveva bisogno. Aveva ottenuto il combustibile da un reattore per la ricerca in Kazakistan, una delle tante strutture dell’Asia centrale che ancora conservava il vecchio uranio sovietico, in barba agli sforzi degli americani per fermare il contrabbando di materiale nucleare. Per semplificare le cose, Cyrus aveva deciso di costruire una bomba gun type per scatenare l’esplosione, lo stesso modello usato per Little Boy, l’arma nucleare che aveva distrutto Hiroshima. Conosceva bene quella tecnologia: all’inizio della sua carriera aveva studiato le nozioni fondamentali sulle armi nucleari per sovrintendere meglio allo sviluppo di nuovi congegni. All’epoca era un ragazzo arrogante, ossessionato dai desideri e dalle ambizioni terreni, eppure Dio guidava la sua vita già allora, dandogli tutti gli strumenti di cui avrebbe avuto bisogno per redimere il mondo. Fratello Cyrus rimise il disco di uranio nello scomparto, poi si alzò. Si trovava all’interno di un DRASH, ossia un Deployable Rapid Assembly Shelter, nome fantasioso che indicava una grande tenda militare, larga circa sei metri e lunga dodici. Al centro era stato installato il cannone, già rivolto verso il cielo. Per prima cosa avrebbero posizionato i dischi di uranio sul fondo, mentre gli anelli sarebbero stati sistemati vicino alla sommità, in un barattolo simile a un proiettile, sopra il quale sarebbero stati posti alcuni sacchi di cordite. Quando tutto fosse stato pronto, lui avrebbe ordinato ai suoi uomini di far detonare la cordite. L’esplosione avrebbe spinto il proiettile nella canna a una velocità di trecento chilometri al secondo, facendo sì che gli anelli al suo interno circondassero i dischi. A quel punto, l’U-235 sarebbe diventato critico e il suo lento decadimento avrebbe accelerato, liberando energia da trilioni e trilioni di atomi. Cyrussi avvicinò e posò la mano sul cannone.Il dispositivo aveva già dato prova di se´ al sito per test nucleari nel Kavir. Lui aveva fornito agli iraniani tutto il necessario, compresi altri cinquanta chili di uranio arricchito presi dal reattore kazako e, in cambio, la Guardia rivoluzionaria gli aveva permesso di testare il prototipo di Excalibur che aveva rubato dal Livermore. La testata nucleare iraniana era entrata

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perfettamente in Excalibur e, quando la bomba era esplosa, le aste laser avevano assorbito i raggi X e incanalato miliardi di joule di energia in dodici potenti fasci che erano confluiti all’interno del cilindro. Concentrandosi su un’area minuscola, i laser a raggi X avevano sfidato i limiti del programma universale, riversando intensi flussi di dati in cache di memoria specializzate che non avevano mai gestito tante informazioni prima di allora. Le conseguenti interruzioni non erano state abbastanza gravi per bloccare il programma: l’universo, come l’uomo, era una creatura testarda, incapace di accettare la luce dell’amore divino. Ma, grazie al codice rivelato da Michael, adesso Cyrus sapeva come configurare i fasci per neutralizzare gli algoritmi di correzione dell’errore. Inoltre questa volta intendeva provocare un’esplosione più violenta, che avrebbe intensificato il flusso di dati nelle cache. La detonazione, cento volte più potente di quella del test nel Kavir, avrebbe garantito l’avvento del Regno dei Cieli. Cyrus chiuse gli occhi. Aveva già sacrificato molto per arrivare a quel punto, e c’era un ultimo sacrificio da compiere. Il mondo aveva alle spalle una storia di sofferenze così lunga che sembrava crudele rincarare la dose nelle ultime ore, eppure era inevitabile. Sarebbe stato un gesto brutale e spietato, ma era l’unico modo per porre fine al supplizio una volta per tutte. Il difetto del programma che aveva corrotto l’universo era la dimensione del tempo, che era la fonte del male, del peccato e della morte. Offrendo le infinite prospettive del futuro, il tempo guastava la perfezione del presente, proprio come Adamo aveva distrutto il giardino dell’Eden quando aveva deciso di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza. Ma ormai la redenzione era imminente e i Veri credenti avrebbero rimediato a quel difetto: eliminando la dimensione del tempo, avrebbero reso il Regno di Dio immutabile ed eterno. Cyrus si tolse la sciarpa per mostrare il volto all’Onnipotente. «Oh, Signore. Fammi essere forte. Fa’che non mi lasci distrarre dalla perfidia di questo mondo mentre ci avviciniamo alla fine. Fa’ che pensi solo a Te. Presto guiderò i Tuoi sudditi nel Regno dei Cieli e i nostri pensieri risorti si fonderanno coi Tuoi per sempre. Il creato sarà una gemma perfetta, incastonata nella felicità della vita eterna! Dall’inizio

alla fine, dall’alfa all’omega!» Continuò a pregare per diversi minuti, con la mano sulla colonna d’acciaio puntata verso il cielo. Quando aprì gli occhi, vide il generale McNair che, col capo chino, aspettava pazientemente. «Ah, Samuel! Stavi pregando con me?» «Sì, fratello», rispose il generale alzando il capo. I suoi vivaci occhi azzurri risaltavano sul volto lungo e scarno. «Come si legge nel libro di Rut: Dove andrai tu andrò anch’io.» Cyrus non indossava la sciarpa, ma non aveva importanza, McNair aveva già visto molte volte il suo viso ripugnante. I due uomini si conoscevano da venticinque anni e, cosa ancora più importante, erano stati proprio McNair e la sua squadra delle Special Forces a salvare Cyrus dalla grotta sotto il monte Gazarak, dopo che i soldati di Satana lo avevano torturato per tre giorni. Il generale lo aveva visto umiliato e deturpato, ma non aveva provato disgusto. Anzi, quell’episodio aveva rafforzato il legame tra loro. «Questo è un momento magnifico! Dopo tutti questi anni di fatica, siamo quasi al cospetto del Signore! Molto presto vedremo il Suo volto benedetto!» esultò Cyrus.

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«Sì, fratello, non vedo l’ora.» La sua voce era apppassionata come sempre, ma i suoi occhi non osavano incrociare quelli di Cyrus. McNair continuava a inumidirsi le labbra e ad aprire e chiudere le mani. La sua uniforme puzzava di sudore. «Che cosa c’è, Samuel? Sembri turbato.» McNair tacque. Sebbene fosse conosciuto come uno dei generali più severi dell’esercito degli Stati Uniti, la presenza di Cyrus lo faceva esitare. Aveva fatto più di qualsiasi altro Vero credente per spianare la strada al Regno eterno di Dio, eppure necessitava di costanti rassicurazioni. Cyrus sorrise. «Hai qualche dubbio sul tuo sacrificio?» L’altro scosse energicamente la testa. «No, fratello. Nessun dubbio.» «Allora sei forse in ansia per le tue truppe? Forse perche´ non sai cosa accadrà loro?» «No,è meglio così. La decisione sarebbe stata un fardello troppo grande per loro, così l’ho presa io. Non potrei immaginare un gesto più generoso per i miei uomini che aprire loro le porte del Regno di Dio.» Strinse il pugno, ma poi lasciò cadere il braccio sul fianco. «Più si avvicina il momento, e più sono preoccupato. I miei superiori al comando centrale mi tengono d’occhio. E i capi di stato maggiore chiedono ogni ora aggiornamenti su Cobra. La mia fede è ancora solida come una roccia, fratello, tuttavia temo che i miscredenti scoprano la nostra operazione e la interrompano.» Cyrus gli posò la mano sulla spalla. «Stai calmo, Samuel. Devi sempre ricordare che Dio è dalla nostra parte. Non ci ha forse dato tutto ciò di cui abbiamo bisogno?» Indicò il cannone. «Persino quei miscredenti di Washington stanno facendo la loro parte, favorendo i piani del Signore senza saperlo. A proposito, quali sono le ultime notizie sull’assalto dei ranger?» «Gli iraniani non hanno risposto all’ultimatum del presidente, ma nessuno si aspettava che lo facessero: ora che hanno la bomba, non si arrenderanno senza combattere. Il presidente concederà loro altre ventiquattr’ore e, se non risponderanno entro allora, avremo il via libera. In altre parole, sferreremo l’attacco a sorpresa domani, dopo il calare del sole.» Cyrus sorrise ancora. «Vedi? Abbiamo tutto il tempo per preparare ogni cosa.» McNair annuì, ma continuò a evitare il suo sguardo. «Fratello, ho parlato con Lukas qualche minuto fa. Era nel convoglio che è appena arrivato dal campo di Darvaza. Mi ha detto che Tamara non è più una credente e che tu l’hai cacciata per aver disobbedito ai tuoi ordini.» L’altro smise di sorridere. Era doloroso ricordare l’accaduto e sospettava che fosse angosciante anche per McNair. Il generale si era affezionato molto a Tamara. Cyrus gli strinse la spalla. «Sì, la sua compassione per il ragazzo l’ha resa debole. Ho dovuto ordinare a Angel di ucciderla ma, ascoltami, Samuel. Il suo sonno sarà breve. Nel giro di qualche ora, Tamara risorgerà con tutti noi e la rivedremo nel Regno eterno.» «No, è ancora viva. Lukas mi ha detto che il convoglio ha perso il contatto radio con Angel, così ha rimandato un paio di uomini al campo. Hanno trovato quattro soldati morti e nessuna traccia di Tamara ne´ del ragazzo. Pare che siano fuggiti. Mancava pure una Land Cruiser, e in fondo al cratere c’erano i resti carbonizzati di altri due veicoli.» Cyrus era furioso e indignato. «Che cosa? Perche´ non sono stato informato?» «Lukas ha detto di aver appena ricevuto la notizia.

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Aveva paura di riferirtela, così ha chiesto a me di farlo.» Cyrus era fuori di se´ dalla rabbia. La corruzione del mondo non smetteva mai di stupirlo, era così radicata nella struttura dell’universo che a volte lui aveva la sensazione che ogni particella tramasse contro di lui. Chiuse gli occhi. Tamara aveva messo a repentaglio l’operazione e di certo, non appena avesse raggiunto la città più vicina, avrebbe cercato di contattare le autorità americane. Anche se sulle prime i funzionari non le avessero creduto, avrebbero sicuramente svolto delle indagini. Tamara andava fermata. Cyrus trasse un profondo respiro. Quindi seguì il consiglio che aveva dato a McNair: ricordò che Dio era dalla loro parte, aprì gli occhi e puntò il dito contro il generale. «D’accordo, ci occuperemo della faccenda. Organizzeremo una squadra di ricerca. Lukas ha idea di dove possano essere andati i prigionieri?» «Ha detto che gli uomini hanno trovato le tracce di una Land Cruiser che si allontanavano dal cratere. Le hanno seguite verso nord-est, ma ritengono che i fuggiaschi abbiano un vantaggio di diverse ore.» «Bene, molto bene. Manderò Lukas e un’altra squadra a Dasoguz perche´ si avvicinino ai prigionieri dalla direzione opposta. Con l’aiuto del Signore, taglieremo loro la strada prima che raggiungano i villaggi delle oasi.» «C’è qualcosa che io possa fare, fratello?» Cyrus annuì. «Voglio che sfrutti i tuoi contatti nel governo turkmeno. Chiama il tuo nuovo amico, il presidente a vita, e digli di mobilitare le sue forze di sicurezza interne. Potremmo aver bisogno del loro aiuto per risolvere questo pasticcio.»

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Un aereo da trasporto delle IDF con quattordici passeggeri a bordo – Olam, David, Monique, Lucille e dieci kippot srugot armati fino ai denti – atterrò all’aeroporto di Baku, in Azerbaijan, alle due del 12 giugno. Il pilota, che aveva lavorato con Olam nel Sayeret Matkal, guidò il velivolo verso un hangar vuoto. Avevano appuntamento con un altro ex collega di Olam, che adesso era un agente del Mossad incaricato delle operazioni d’intelligence nella regione. All’inizio David era stupito che Loebner avesse tanti contatti utili, ma lui spiegò che il Sayeret Matkal era una sorta di confraternita: i veterani dell’unità di commando occupavano posizioni influenti nei ministeri e nelle agenzie d’intelligence del governo israeliano. Nel corso degli anni, disse, aveva fatto molti favori ai vecchi amici, e ora loro si stavano sdebitando. Nell’hangar smontarono dall’aereo e salirono su un minibus. Lasciarono l’aeroporto senza problemi – l’agente del Mossad aveva già distribuito bustarelle ai funzionari azerbaijani – e il veicolo sfrecciò verso Pirallahi, un lugubre deposito di petrolio sul mar Caspio. Quando raggiunsero la costa, Olam ordinò loro di scendere e corsero al buio verso un molo fatiscente, in fondo al quale li aspettava un motopeschereccio arrugginito, con un alto albero vicino alla prua e una tuga a poppa. A bordo c’era già un’altra dozzina di kippot srugot, arrivati in Azerbaijan con un volo precedente. Quando furono saliti tutti, Olam mise in moto e, nel giro di qualche minuto, furono in mare aperto, diretti verso il Turkmenistan. David si appoggiò al parapetto; all’orizzonte non vide nulla se non le luci lontane delle torri di trivellazione off-shore. La tuga aveva due cabine: una più piccola, riservata al comandante, e una molto più grande per l’equipaggio. Olam assegnò la prima a Lucille e Monique, mentre gli altri si sistemarono nella seconda. David si sdraiò su una cuccetta e chiuse gli occhi, esausto. Poco prima di scivolare nel sonno, immaginò un lungo cilindro argenteo puntato verso il cielo come un cannone, che scintillava sotto le luci fluorescenti. È un laser a raggi X, pensò.La copia russadi Excalibur li aspettavanel depositoturkmeno dall’altra parte del mare. David era cosìstanco che avrebbepotuto dormire per dodici ore, ma alle sette fu svegliato da un canto stonato. Gli uomini di Olam, disposti in cerchio, si dondolavano avanti e indietro mentre leggevano i libri di preghiera. Ognuno indossava i tefillin, i piccoli astucci neri che gli ebrei osservanti si legavano alla fronte e al braccio durante le preghiere mattutine. Per diversi minuti, David rimase immobile nella cuccetta, osservando di nascosto i kippot srugot. Mentre le loro voci si alzavano e si abbassavano, si domandò cosa Olam avesse rivelato loro del programma universale. In un certo senso, era una conferma della loro fede: avevano sempre creduto che Dio avesse un piano per il mondo, e ora potevano toccare con mano le Sue istruzioni, il linguaggio divino del codice quantistico. Ma, almeno per David, non era affatto certo che fosse stato Lui a scriverlo. Come aveva

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detto Monique, il programma universale si sarebbe potuto evolvere da solo, emergendo dal caos primordiale e sopravvivendo fino a quel momento semplicemente perche´ erapiù forte delle alternative. Così la fede continuava a essere una scelta, o meglio una benedizione, e David invidiava i kippot srugot, che erano stati fortunati a ricevere quel dono. Per un attimo fu tentato di raggiungerli, prendere un libro di preghiera e cantare un inno all’Onnipotente. Quell’impulso, però, non durò a lungo e lui perse interesse. Si vestì in silenzio e uscì dalla cabina. Sul ponte, la luce era accecante. La superficie calma del mar Caspio era interrotta solo dalle torri di trivellazione e dalle boe. La barca puzzava di acciughe e, poiche´ quello non era uno dei suoi aromi preferiti, David si spostò verso la prua, sperando in una boccata d’aria fresca. Quindi udì un clic inconfondibile: lo sparo attutito di una pistola col silenziatore. Corse in direzione del rumore e si paralizzò: l’agente Parker teneva sotto tiro una torre di trivellazione abbandonata a circa cento metri dalla prua di dritta. La piattaforma petrolifera era deserta e David non capiva perche´ Lucille avesse aperto il fuoco, poi intuì che si stava esercitando. La donna strinse l’arma con entrambe le mani, quindi sparò un altro colpo. Il proiettile rimbalzò su un montante. Soddisfatta, Lucille abbassò la pistola e sostituì il caricatore vuoto con uno pieno.I tailleur che aveva indossato negli ultimi giorni erano stati sostituiti da un paio d’ingombranti pantaloni mimetici e da un dolcevita nero, sul quale s’intravedevano le cinghie della fondina che, simili a bretelle, scendevano verso la cintura stretta intorno alla vita generosa. David fece un passo avanti, muovendosi lentamente per non spaventarla. «Bel colpo. Sono contento che lei non sia dalla parte dei cattivi», commentò. Lucille mise via la Glock e si girò. Nella luce del primo mattino sembrava diversa: più rilassata, più fresca, più giovane. Aveva il volto roseo, e le zampe di gallina parevano meno profonde del solito. Assomigliava di più alla Lucille che David aveva conosciuto due anni prima, l’implacabile agente dell’FBI che gli aveva dato la caccia in tredici Stati. «’Giorno, Swift. Non riesce a dormire nemmeno lei.» «I soldati di Olam mi hanno svegliato. Iniziano a pregare presto. Sono molto precisi.» Lei ridacchiò. «Be’, speriamo che lo siano anche nel combattere. Se l’esercito turkmeno ci sorprende a entrare di nascosto nel Paese, ci sarà una bella sparatoria.» David fu improvvisamente assalito dall’inquietudine. Fino a quel momento era stato così concentrato nel cercare Michael che non aveva pensato ai rischi per se stesso e per Monique. «Che cosa succederà se ci arrestano? Sa qualcosa delle carceri turkmene?» «Carceri? Saremo fortunati se ci arriveremo vivi, in carcere.» Lucille appoggiò i gomiti al parapetto. «A quanto ne so, i rapporti tra l’America e il Turkmenistan non sono esattamente idilliaci. Ci sono buone probabilità che c’impicchino come spie. E il dipartimento di Stato non potrebbe alzare un dito.» Scosse la testa. «No, ormai siamo soli. L’unica che possa aiutarci è la buona vecchia signora Glock.» Anche se le sue previsioni avevano spaventato a morte David, lei non sembrava troppo preoccupata. Anzi, aveva l’aria felice. Lui indicò la pistola. «È per questo che si stava esercitando?» «Sì, non lo facevo da qualche tempo.» Lucille allungò il braccio destro, aprendo e chiudendo la mano. «Mi sentivo un po’ rigida questa mattina, così ho pensato di provare. Credevo che, se

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avessi usato il silenziatore, non avrei attirato troppa attenzione.» «Non deve preoccuparsi. Non c’è nessun altro nel raggio di chilometri.» «Su questo ha ragione. Sono qui da quasi un’ora e non ho visto altre barche. Suppongo che la pesca non sia molto fruttuosa da queste parti.» «Be’, il Caspio ha molti problemi ambientali. Ospitava tonnellate di storioni, ma i pescatori di frodo li hanno decimati per il caviale. Ora ci sono solo pesci più piccoli, e stanno scomparendo anche quelli.» Lucille alzò il capo e sorrise. «Ecco cosa mi piace di lei, Swift: ha la testa piena d’informazioni, e alcune sono addirittura utili.» Ridacchiò ancora, poi tolse la Glock dalla fondina. David pensò che volesse ricominciare a sparare, ma lei gli porse la pistola tenendola per la canna. «Anche lei dovrebbe fare un po’ di pratica. Ha già usato una Glock, giusto?» Lui annuì. Era un’altra delle cose che erano successe due anni prima. «Sì, però sparavo a casaccio. Non cercavo di colpire niente in particolare.» «Okay, le insegno a prenderela mira. Coraggio, impugni la pistola.» David esitò. Non era sicuro di voler imparare. Lucille aggrottò le sopracciglia. «Senta, Swift, è stato lei a insistere per partecipare alla missione e, se non sa sparare, diventerà solo un pericolo per tutti. Ora prenda questa maledetta pistola.» Lui obbedì. L’impugnatura era calda e un po’ sudata. «È carica», disse lei. «Perciò la tenga puntata verso il basso. Innanzitutto bisogna tirare indietro il carrello per inserire le munizioni nella camera di scoppio. Ma questo lo sa già, vero?» David annuì. «Qual è il mio bersaglio?» Lucille indicò una boa a circa venticinque metri dal peschereccio. «Cerchi di colpire quell’affare. Ricordi, la barca si muove, perciò occorre seguire il bersaglio e mirare leggermente più indietro. Tenga il braccio diritto, in linea con la canna. Stringa la mano sinistra intorno alla destra, coi pollici incrociati. Allinei il mirino anteriore dentro quello posteriore e si assicuri che il bersaglio sia poco più sopra. Infine prema il grilletto con decisione e lentezza.» Sforzandosi di ricordare le istruzioni, David mirò alla boa. Era un obiettivo abbastanza grande, un cilindro delle dimensioni di un barile di petrolio, e lui non pensava che avrebbe avuto difficoltà a centrarlo. Ma, quando sparò, la pallottola finì nell’acqua a un metro e mezzo di distanza. «Sbagliato», disse Lucille. «Ha premuto male il grilletto. Quello della Glock è pesante e, se lo si preme di colpo, si perde la mira. Ora non si preoccupi della velocità. Sia preciso e determinato.» David scelse un’altra boa, ma mancò anche quella, più o meno dello stesso margine. Riprovò e fallì per la terza volta. Stava per ritentare, quando Lucille disse: «Aspetti», e si mise alle sue spalle. «È teso e non respira correttamente.» Gli posò la destra sulla schiena e la sinistra sul petto, sotto la clavicola, quindi gli raddrizzò la spina dorsale. Aveva mani straordinariamente forti. «Non si pieghi troppo. Ora dimentichi la pistola per un secondo e faccia tre respiri profondi.» Lui obbedì, un po’ intimorito, e inspirò l’aria salmastra del Caspio. «Ora faccia dei piccoli respiri da neonato. Si rilassi, poi spari. È facile se non s’irrigidisce», disse Lucille. Respiri da neonato. A David piacque quell’espressione.

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Respirò e si costrinse a restare calmo. Individuò un’altra boa. Allineò i mirini e seguì il bersaglio. Poi premette il grilletto con decisione e lentezza. Il proiettile rimbalzò sul metallo. «Perfetto! Non si fermi, continui a sparare!» esclamò Lucille. Lui tenne ferma la pistola e premette il grilletto, regolando la mira man mano che la boa scivolava via. Contò altri nove colpi andati a segno prima di finire le munizioni. Nove centri su tredici pallottole. Quasi il settanta percento, calcolò mentre abbassava l’arma. Lucille sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Ha visto? Gliel’avevo detto che era facile! E, una volta imparato il trucco, non si dimentica più.È come andare in bicicletta.» Anche David sorrise, sebbene non si sentisse altrettanto trionfante. Aveva appena scoperto che esisteva un trucco per uccidere le persone, il che non era un bel

cr p m pensiero. «Be’, lei è una brava maestra. Grazie.» «Quando tutto questo sarà finito,

uò is iversi all'accade ia dell'FBI. Le scriverò persino una lettera di raccomandazioni. Non è mai troppo tardi per servire il proprio Paese, sa.» David le restituì la Glock, contento di sbarazzarseneLucille sostituì il caricatore vuoto. Poi udirono dei passi alle loro spalle e sulla coperta a prua apparve Monique, slanciata e bellissima in dolcevita e pantaloni mimetici. Lucille la salutò allegramente: «Ehi, venga! Sto insegnando a sparare all’attivista per la pace». Monique si avvicinò, ma non rispose. Aveva un’espressione cupa e le labbra strette in una linea severa. È preoccupata per la missione, ipotizzò David. «Darei qualche dritta anche a lei, ma so che non ne ha bisogno», continuò Lucille. «Ricordo il suo dossier. Aveva una Smith & Wesson prima di sposare Swift, giusto? Andava al poligono di tiro una volta al mese, se non sbaglio.» Monique annuì, però non aprì bocca. David intuì che era sconvolta. Aveva gli occhi vitrei. Anche Lucille se ne accorse. Mise via la pistola e si allontanò. «Be’, è meglio che vada. Voglio vedere se su questa barca c’è qualcosa da mangiare a parte le acciughe.» David aspettò che fosse entrata nella tuga, poi mise un braccio intorno alla vita di Monique. «Ehi, che c’è? Che cosa...» Lei si portò l’indice alle labbra. «Sstt. Non parlare, tesoro. Abbracciami e basta.» Rimasero accanto al parapetto, in silenzio. David sorrise e le accarezzò la guancia col dorso delle dita. Solitamente quel gesto la tranquillizzava, ma quella volta non servì a granche´. Monique corrugò la fronte e si mordicchiò il labbro. Quindi si girò di spalle, fissando l’orizzonte orientale, dove la costa del Turkmenistan non si vedeva ancora. La sua è più che preoccupazione, pensò David. È una premonizione. Monique aveva un’espressione disperata, come se avesse previsto la propria morte. Lui non sopportava quello sguardo. Avrebbe voluto cancellarlo, eliminarlo, bandirlo per sempre dal viso della moglie. Strinse forte Monique e premette le labbra sulle sue. Erano umide, calde e salate per via degli schizzi del mare. Lei si appoggiò al petto del marito, aprendo la bocca e chiudendo gli occhi. Anche David chiuse gli occhi e sentì le sue dita sulla nuca. Il peschereccio dondolava, ma loro erano in perfetto equilibrio. David ebbe la sensazione che il tempo rallentasse, che ogni

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secondo volesse dilatarsi all’infinito finche´ ogni cosa non si fosse fermata, e la sua vita non si fosse ridotta a un unico momento luminoso. «Ho paura. Ho paura e ho bisogno di te. Subito», gli sussurrò Monique all’orecchio. «Dove dovremmo...» «Nella cabina più piccola. Mentre Lucille fa colazione, avremo la stanza tutta per noi.» Lo prese per mano e lo guidò verso la tuga.

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Dopo che ebbero lasciato il cratere, Tamara passò le otto ore successive a guidare nell’oscurità più assoluta. Si era rifiutata di accendere i fari della Land Cruiser, perche´ era certa che fratello Cyrus avrebbe ordinato ai Veri credenti di cercarla, e sapeva che, con le luci accese, l’avrebbero avvistata a chilometri di distanza. Così aveva proceduto a passo d’uomo, calcolando la posizione delle dune in base all’inclinazione della jeep e girandoci intorno alla cieca. Poiche´ il convoglio di Cyrus era andato a sud-ovest, verso Kuruzhdey, Tamara credeva fosse più sicuro prendere la direzione opposta. Per fortuna Michael si era rivelato estremamente utile: a quanto pareva, aveva memorizzato alcune carte astronomiche e, guardando il cielo e consultando l’orologio ogni dieci minuti, l’aiutava a procedere sempre verso nord- est. Il sole sorse alle cinque e mezzo e Tamara si fermò per riempire il serbatoio con le grandi taniche di benzina sul retro dell’auto. Adesso che era giorno, poteva avanzare Molto più velocemente, sfiorando persino i cinquanta chilometri orari, ma il viaggio sulla pista accidentata continuava a essere faticoso. Alle nove l’abitacolo della macchina era torrido e, benche´ avessero percorso più di centosessanta chilometri da quando avevano lasciato il campo di Darvaza, erano ancora circondati dalle dune. Il deserto sembrava infinito. Ogni dieci minuti, Michael controllava l’orologio e le mostrava la direzione esatta, orientandosi in base alla posizione del sole, ma per il resto il ragazzo era apatico, non diceva una parola ormai da ore. Tamara cominciava a preoccuparsi: sull’auto non c’erano viveri, solo una bottiglia d’acqua. Di tanto in tanto Michael gemeva, e lei supponeva che fosse perche´ aveva fame. Poi, poco dopo le dieci, lui disse: «Guarda», e indicò verso destra. All’inizio Tamara pensò che stesse correggendo nuovamente la rotta, ma questa volta pareva che si fosse sbagliato. «Michael, sei sicuro che quello sia il Nord-est? Mi sembra troppo vicino al sole per...» «No. C’è un villaggio», la interruppe Michael. Strizzando le palpebre, Tamara distinse un gruppo di baracche grigie all’orizzonte e, sullasinistra, una fila d ipali del telefono che spuntavano dalla sabbia. Sterzò in quella direzione, accelerando il più possibile. Doveva assolutamente riuscire a mettersi in contatto con l’ambasciata statunitense: se avesse spiegato loro la situazione, forse li avrebbero aiutati a uscire dal Turkmenistan prima che i Veri credenti li rintracciassero. Non le importava della propria vita, ma era decisa a salvare Michael, anche se ciò avesse significato denunciare Cyrus. Da quand’era entrata a far parte dei Veri credenti, si era aggrappata alla profezia, alla promessa di rivedere Jack. Ma ormai aveva capito che fratello Cyrus si era sbagliato: la promessa era stata mantenuta sulla Terra, non era riservata al Regno dei Cieli. Tamara aveva riconosciuto lo spirito di Jack in Michael; gli occhi impotenti di suo fratello la fissavano dal volto inespressivo del ragazzo. Per lei, salvarlo era più importante che redimere l’universo.

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Dopo pochi minuti raggiunse il villaggio, se così si poteva chiamare quella dozzina di rozze baracche di lamiere arrugginite ammassate l’una sull’altra in un guazzabuglio disarmonico.Quae là,alcuni fuochi agonizzavanoin fosse annerite di braci ardenti. L’insediamento sorgeva alla fine di una lunga pista, ma non c’erano ne´ automobili ne´ furgoni. L’unico veicolo a motore era una motocicletta polverosa, parcheggiata dietro una struttura di cemento squadrata, l’edificio più grande del villaggio. C’era anche un cammello legato a un palo, un animale rognoso che se ne stava su un rettangolo di sabbia disseminato di escrementi. Non si vedeva nessuno. Stavano arrivando le ore più calde della giornata e probabilmente gli abitanti si erano rifugiati nei loro tuguri. Tamara si fermò vicino all’insediamento, chiedendosi cosa fare. Poi vide due bambini che portavano un mastello di stagno, tenendone un manico ciascuno. Avevano circa sei anni ed erano bellissimi: il maschietto indossava un paio di calzoncini e una T-shirt a righe, mentre la femminuccia aveva un lungo vestito variopinto e un foulard a fiori. Portavano l’acqua dalla pompa a una baracca, ma rallentarono quando adocchiarono la Land Cruiser. Parevano più incuriositi che spaventati. Tamara smontò e andò verso di loro. Non appena la scorsero, i bambini si fermarono di scatto: probabilmente non avevano mai visto una donna in uniforme. Lei sorrise. «Ciao, ragazzi! Sto cercando un telefono.» Scandì bene la parola «telefono», sperando che la lingua turkmena avesse un vocabolo analogo. «Sapete dove posso trovare un telefono?» Loro la fissarono, affascinati ma confusi. Poi Michael scese dall’auto e i bambini s’intimorirono. Indietreggiarono, rovesciando un po’ d’acqua e tenendo gli occhi puntati sull’M-9 legata ai pantaloni. Tamara andò da lui e gli nascose l’arma sotto la maglietta. Quindi tornò dai bambini.«Sapetecos’è un telefono, vero? Ivostri genitori hanno un telefono?» Ma quelli continuarono a guardare Michael, incantati. Lui si girò di lato, distogliendo gli occhi, poi però si fece avanti e s’inginocchiò accanto a loro. Arricciò le labbra ed emise uno squillo. Tamara era sbalordita: il suono era identico al trillo di un vecchio telefono a disco. Quindi il ragazzo appiattì le labbra e produsse un verso simile alla suoneria di un cellulare. Finalmente i bambini capirono. La femminuccia annuì, ridendo. Il maschietto gridò: «Hanha! » e indicò la costruzione di cemento. Tamara si diede della stupida. Avrebbe dovuto capirlo sin dall’inizio: nonostante lo squallore, quell’edificio era molto più bello delle baracche di metallo, perciò doveva appartenere alla famiglia più ricca del villaggio, l’unica che potesse permettersi un telefono. «Grazie», disse ai bambini. Poi si rivolse a Michael. «Vieni, facciamo una chiamata.» Si avvicinarono alla costruzione da dietro, superando la motocicletta parcheggiata accanto alla porta di servizio. Si trattava di un’Ural, un robusto modello russo dotato di sidecar. Tamara le lanciò solo un’occhiata fugace, ma Michael si fermò a fissarla. Aveva un’espressione così rapita che lei sorrise. «Ti piacciono le moto?» domandò. Lui indicò l’Ural. «Assomiglia a quella che mi ha fatto guidare Monique Reynolds.» «Monique Reynolds? È la tua mamma adottiva, giusto?» Michael annuì. «Eravamo sulla spiaggia. Mi ha fatto salire sul sidecar e mi ha insegnato a mettere in

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moto e a usare i comandi.» Tamara lo lasciò esaminare la moto per un po’. Poi disse: «Andiamo», e Michael la seguì con riluttanza. Raggiunsero la porta principale, che era verniciata di nero. Lei bussò e, quando l’uscio si aprì, si sentì ancora più stupida di prima. L’uomo sulla soglia indossava un’uniforme verde con le spalline rosse e, alle sue spalle, c’era una stanza buia e tetra con la bandiera rossa e verde del Turkmenistan appesa alla parete. Merda, pensò Tamara, questa non è un’abitazione privata, è la stazione di polizia! E, a giudicare da quello che sapeva dei poliziotti del Terzo mondo, quel tizio le sarebbe stato più d’intralcio che d’aiuto. Lui non fiatò, limitandosi a stringere le palpebre. Il suo volto era bruno, squadrato e sospettoso. Tamara indicò se stessa e Michael. «Siamo americani e ci siamo persi. Ci stavamo chiedendo se potessimo usare il suo telefono.» L’uomo tacque. Allungò il collo e guardò dietro di loro, probabilmente domandandosi come diavolo fossero arrivati fin là. Quindi vide la Land Cruiser, posteggiata poco lontano. «Sì,è la nostra macchina», spiegò Tamara, recitando la parte della turista sprovveduta. «E abbiamo quasi finito la benzina. Abbiamo proprio bisogno di fare una telefonata.» Il poliziotto aggrottò le sopracciglia e tese la mano. «Passaporto!» ordinò. Tamara assunse un’espressione sconsolata, scuotendo mestamente la testa. «Questo è un altro problema! Ci hanno rubato i passaporti e i soldi! Non abbiamo niente!» «Passaporto!» ripete´ l’altro, a voce più alta. A quanto sembrava, era l’unica parola inglese che conosceva. Vedendo che lei non reagiva, le urlò addosso in turkmeno, schizzandole le guance di saliva. Tamara strinse i denti e lo squadrò. L’uomo aveva una semiautomatica nella fondina attaccata alla cintura, forse una Makarov russa. Lei aveva già visto armi di quel tipo, perche´ alcuni Veri credenti ne possedevano una. «Dobbiamo solo fare una telefonata, d’accordo? Poi le spieghiamo tutto.» Il turkmeno si girò e indicò la stanza buia. Poi urlò altre parole incomprensibili, ma il messaggio era chiaro: voleva che lei e Michael entrassero. Tamara dubitava molto che li avesse invitati a usare il telefono. Fece un passo verso la porta e sbirciò nell’oscurità. Vide un pavimento crepato, un paio di scrivanie e una cella vuota con sbarre di ferro arrugginite. Ma nessun altro poliziotto. L’agente Sputacchione era solo. Tamara si voltò verso Michael. «Voglio che tu faccia una cosa per me, okay? Fingi d’inciampare nel gradino.» «Scusa, non...» «Non c’è niente da capire. Fingi semplicemente di cadere.» Lei entrò e si posizionò accanto al poliziotto. Poi Michael la sorprese nuovamente. Guardando dritto davanti ase´, urtò il gradino col piede e finì per terra lungo disteso. Quando l’agente gli inveì contro, il ragazzo emise un gemito convincente e, non appena l’uomo si chinò per farlo alzare, Tamara gli sfilò la Makarov dalla fondina e sparò un colpo di avvertimento in aria prima ancora che il poliziotto potesse girarsi. Lui indietreggiò barcollando e agitando le braccia. «Dentro!» ordinò Tamara accennando alla cella. Tenne la pistola puntata contro la fronte del turkmeno finche´ quello non fu entrato nella cella. Poi lei controllò le

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sbarre per assicurarsi che fosse chiusa. Infine si mise a cercare il telefono. «Chiudi a chiave la porta d’ingresso», disse a Michael. Il telefono era su una scrivania. Lei sollevò il ricevitore e udì il segnale di libero. «Tamara? Arriva qualcuno», l’avvisò Michael, guardando fuori. «Chi? Un altro poliziotto?» «No, un’altra Land Cruiser.»

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Dal sedile del passeggero, Lukas scorse l’auto che i prigionieri avevano rubato, parcheggiata all’ingresso di un villaggio, circa quattrocento metri più avanti. «Sono loro!» urlò a Jordan, lo spilungonedai capelli rossialla guida della Land Cruiser, che lanciò la vettura a tutta velocità. Li avrebbero raggiunti in quindici secondi, stimò Lukas. Si voltò verso i due soldati sul sedile posteriore. «Ricordate gli ordini: sparate agli pneumatici, ma non all’abitacolo. Devo interrogare Tamara prima di giustiziarla. Chiaro?» Tirò indietro il carrello dell’Heckler & Koch. In realtà non doveva interrogare quella stronza. Voleva che sopravvivesse alla sparatoria per piantarle una pallottola nello stomaco e guardarla agonizzare. Voleva che la sua fosse una morte lenta e dolorosa, che soffrisse quanto Angel, che era precipitato nel cratere. Sebbene la redenzione si avvicinasse rapidamente, c’era ancora un po’ di tempo per la vendetta. La Land Cruiser viaggiava a oltre novanta chilometri orari, con le ruote che sollevavano grosse nuvole di sabbia. All’inizio seguì la pista verso la stazione di polizia ma poi lasciò la strada e cominciò a sobbalzare tra le dune. Tamara si accorse che andava dritta verso la sua auto. Probabilmente quegli idioti pensavano che lei e Michael fossero ancora a bordo. Stringendo la Makarov con entrambe le mani, assunse la posizione di tiro che aveva imparato sette anni prima, durante l’addestramento di base, coi piedi piantati sulla soglia della stazione di polizia. La Land Cruiser procedeva da sinistra a destra, una sessantina di metri più in là. Lei chiuse l’occhio sinistro e prese la mira. Quindi sparò allo pneumatico anteriore destro. Dopo il secondo colpo, la gomma esplose e la macchina sbandò. Tamara cambiò bersaglio, mirando allo pneumatico posteriore, ma la jeep s’inclinò sul bordo di una duna e rotolò lungo la china, per poi atterrare sul tetto. Lei puntò l’arma contro i finestrini: voleva eliminare i passeggeri prima che potessero strisciare fuori, ma la metà anteriore della Land Cruiser era scivolata dietro un cumulo di sabbia, così fu costretta a concentrare i colpi sul sedile posteriore. Poi notò un movimento dietro l’auto. Una pallottola centrò lo stipite della porta, a pochi centimetri dalla sua testa. Tamara rientrò, accovacciandosi accanto a Michael. Arrivò una nuova raffica di proiettili, che si conficcarono nelle scrivanie, scheggiarono il pavimento e rimbalzarono contro le sbarre della cella. Il poliziotto urlò e si rifugiò in un angolo, tentando di togliersi dalla linea di fuoco. Gli spari proseguirono per circa quindici secondi, poi cessarono all’improvviso. Avvicinatasi all’uscio, Tamara sbirciò fuori e vide due figure dietro la Land Cruiser. Un soldato dai capelli rossi puntò il fucile contro la stazione di polizia, imitato da un

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brutto bestione armato di pistola.Li riconobbe: JordaneLukas, dueVeri credenti per cui non provava molta simpatia. Erano entrambi ex commando della Delta Force che erano stati reclutati da fratello Cyrus e dal generale McNair, nonche´ ottimi tiratori. Rientrò rapidamente. Michael le strattonò la manica. Sembrava spaventato, ma non in preda al panico, il che era un bene, date le circostanze. «Sono soldati di fratello Cyrus?» Lei annuì. «Ne ho colpiti un paio, però due sono ancora vivi.» Si udì uno sparo, ma non era diretto contro la stazione di polizia. Poi ci fu un altro colpo, più distante. Tamara sbirciò ancora fuori e vide Lukas mirare alla sua Land Cruiser, che aveva già uno pneumatico anteriore a terra. Il soldato premette ancora il grilletto e fece esplodere la seconda gomma. Evidentemente aveva capito che lei e Michael non erano sulla vettura, tuttavia voleva impedire loro di fuggire. Accecata dalla rabbia, Tamara strinse la Makarov e prese la mira, ma un proiettile dell’M-16 di Jordan le sibilò vicino all’orecchio destro, impedendole di fare fuoco. «Maledizione!» esclamò lei cadendo a terra. «Non riesco a sparare! Quello schifoso copre la porta!» Michael si mordicchiò il labbro e fissò il pavimento. Per un attimo, Tamara pensò che stesse per scoppiare a piangere, invece il ragazzo non si scompose e si limitò a indicare il retro della stazione di polizia. Oltre le scrivanie, la cella e la bandiera turkmena c’era un’altra uscita. «Possiamo andarcene da lì e prendere la motocicletta parcheggiata dietro l’edificio. L’Ural, quella col sidecar.» Merda, pensò Tamara. Perche´ non le era venuto in mente? Era così sollevata che avrebbe voluto scoppiare a ridere. Poi però ripensò all’area dietro la stazione di polizia e scosse la testa: le baracche erano troppo ammassate, sarebbe stato impossibile passarci in mezzo con la moto. Avrebbero dovuto girare intorno alle costruzioni, attraversando la linea di fuoco a meno di trenta metri dalla posizione di Jordan. Quel bastardo li avrebbe centrati in un attimo. A meno che non fosse stato distratto da qualcos’altro. Tamara cominciò a elaborare un piano. Non era perfetto, ma in guerra la perfezione non esisteva. Lanciò un’occhiata a Michael. Avrebbe voluto prenderlo per le spalle e guardarlo negli occhi, ma sapeva che l’avrebbe infastidito. Così parlò lentamente, con dolcezza. «Michael, che cosa sai dell’Ural? Hai detto che tua madre ti ha insegnato a metterla in moto, giusto?» Lui annuì. «Sì, e a usare i comandi. L’acceleratore e il freno sono sulla manopola destra, e la frizione sulla sinistra. Le marce...» «Credi di saperla guidare da solo?» Il ragazzo annuì ancora. «Sì. Monique Reynolds ha detto che il sidecar dà più stabilità alla motocicletta. Voleva farmela guidare sulla spiaggia, ma poi David Swift è arrivato di corsa e ha detto che non era sicuro...» «Okay, Michael, ascolta. Voglio che tu esca dalla porta sul retro, salga sull’Ural e la metta in moto. Poi vai verso sud il più velocemente possibile. Capito?» «E tu ti siederai nel sidecar?» Tamara scosse la testa. «No, io resto qui. I soldati di Cyrus cercheranno di ucciderti mentre ti allontani, ma io sparerò per prima. Correrò fuori e scaricherò loro addosso tanti proiettili che non riusciranno a prendere la mira.» «Vuoi che torni più tardi? A prenderti?» «No, voglio che continui a viaggiare. Vai a sud finche´ non incontri un

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altro villaggio. Poi trova un telefono e chiama David Swift. Digli cos’ha in mente fratello Cyrus. Conosci il numero di telefono di David Swift, giusto?» Lui annuì per la terza volta. «Sì, 212-555-3988.» Tamara sorrise. Avrebbe voluto abbracciarlo, però si trattenne. Le si strinse lo stomaco al pensiero che non l’avrebbepiù rivisto. Ma era l’unico modo. Doveva salvarlo. «Okay, vai! Non dimenticare quello che ti ho detto!» Michael attraversò la stanza di corsa. Mentre apriva la porta e si precipitava fuori, Tamara sbirciò ancora oltre lo stipite dell’ingresso principale. Le due Land Cruiser grigie scintillavano sotto il sole, la più lontana inginocchiata sugli pneumatici sgonfi, la più vicina a pancia in su come uno scarafaggio. Lukase Jordan erano accovacciati dietro l’auto ribaltata, in attesa. Dietro di loro, le dune si allungavano a perdita d’occhio. Tamara udì il rombo dell’Ural. Anche i Veri credenti lo sentirono: Jordan sollevò la testa e Lukas si girò in direzione del rumore.Tamara aspettò che il suono aumentasse d’intensità e volume, segno che Michael aveva iniziato la fuga verso sud. Non appena Jordan spostò l’M-16, lei si lanciò fuori urlando a squarciagola e sparando contro i soldati. Jordan sgranò gli occhi e le puntò contro il fucile, ma lei lo colpì alla gola prima che potesse premere il grilletto. Poi mirò a Lukas, che si tuffò dietro la Land Cruiser. Il proiettile lo mancò, passandogli sopra la spalla. Tamara avanzò e sparò ancora,

cercando di mettersi tra Lukas e la motocicletta. Se fosse riuscita a rifugiarsi dietro una duna, avrebbe potuto bloccarlo e impedirgli di centrare Michael. Con la coda dell’occhio, vide il ragazzo sfrecciare sulla sabbia una trentina di metri più in là. Poi Lukas fece qualcosa d’inaspettato: uscì dal suo nascondiglio e le sparò alla schiena. Tamara sentì una fitta tra le scapole e un’altra alla base della colonna vertebrale; perse l’equilibrio e dovette abbassare la pistola, ma all’inizio non provò nessun dolore. Riuscì persino a fare qualche altro passo prima di cadere. Mentre si accasciava, girò la testa, sperando di vedere ancora Michael, invece scorse Lukas che s’inginocchiava sull’orlo della duna e puntava l’arma contro la motocicletta. A quel punto il dolore le esplose in tutto il corpo: Michael non ce l’avrebbe fatta, Lukas gli avrebbe sparato e il ragazzo sarebbe morto. E sarebbe stato tutta colpa sua. Tamara crollò sulla sabbia, sentì un’altra fitta alla schiena e le si annebbiò la vista. Udì molte altre detonazioni, ma non ciò che si aspettava di sentire: il suono della moto che si schiantava. Alzò il capo a fatica e cercò di mettere a fuoco. Gli spari venivano dall’Ural. Michael aveva tirato fuori l’M-9 e aveva colpito Lukas che, steso dietro la duna, si teneva il braccio destro. La gioia che provò Tamara fu ancora più forte del dolore. Michael esplose altri tre proiettili, che volarono sopra la testa del soldato. Quindi ci fu solo il rombo della moto che si affievoliva. Lukas si alzò vacillando. Trovò la pistola e provò a sparare con la sinistra, ma ormai l’Ural era troppo lontana. Tamara posò la fronte sulla sabbia e sussurrò: «Grazie». Poi si diresse verso la Land Cruiser capovolta. Stava per morire, ma c’era un’altra cosa che poteva fare per Michael. Non riusciva a muovere le gambe, così strisciò in avanti a forza di braccia, lasciandosi dietro una scia di grumi rossastri.

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Si fermò solo quando ebbe raggiunto il corpo di Jordan. Tamara usò le ultime forze per gettarsi sopra il cadavere. Aveva le vertigini e non vedeva l’ora di chiudere gli occhi. Ma si morse la lingua per restare cosciente e tastò Jordan. «Stupida stronza! Credi di poterci fermare?» tuonò Lukas alle sue spalle. Prima che Tamara potesse rispondere, le sferrò un calcio alla schiena, spezzandole le costole col tacco dello stivale. Infine la prese per i capelli e le tirò indietro la testa. «Rispondimi, stronza! Credi di poterci fermare?» «No... Io no, ma Michael sì.» «Ti sbagli di grosso!» le gridò Lukas nell’orecchio. «Adesso prendo la radio e segnalo la sua posizione alle altre unità, e poi gli metteremo alle calcagna venti soldati. Perciò non hai ottenuto un cazzo. Hai solo prolungato la sua sofferenza! E ora soffrirai anche tu!» La afferrò per la spalla e la girò sulla schiena. Tamara però aveva già estratto una granata M67 dalla tasca di Jordan e, mentre Lukas sbraitava, aveva tirato la sicura e rilasciato la levetta. Lukas la fissò, perplesso, mentre la miccia da quattro secondi le bruciava tra le mani. Tamara non sapeva se avrebbe mai visto il Regno dei Cieli, ma ormai non aveva importanza. Sorrise a Lukas. «Ti sbagli. Le nostre sofferenze sono finite.»

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Mentre l’oscurità scendeva sulla costa orientale del mar Caspio, la squadra d’assalto di Olam si allontanava dal peschereccio su tre Zodiac – con motore fuoribordo da sessanta cavalli, dotato di marmitta per servizio pesante per ridurre al minimo il rumore –, che procedevano in fila indiana, a una distanza di cento metri l’uno dall’altro. Olam viaggiava sul primo con David, Monique e Lucille, che aveva coperto la sua massa di capelli biondo platino con un berretto di lana nera. Indossavano pantaloni e camicie neri e avevano il volto, il collo e le mani dipinti di vernice nera. Quasi tutti i kippot srugot erano muniti di fucili Galil – l’arma standard in dotazione alla fanteria delle IDF –, mentre Olam aveva un fucile da cecchino sulla spalla e Lucille stringeva la sua Glock. David e Monique, infine, avevano le pistole Desert Eagle fornite da Olam. Per David, il peso dell’arma infilata nella fondina era impossibile da ignorare. Si avvicinarono allo stretto che conduceva al Kara-Bogaz-Gol, un golfo poco profondo del mar Caspio. Per arrivare avrebbero dovuto attraversare un ponte, ma per fortuna quel tratto della costa turkmena era deserto e gli Zodiac proseguirono senza incidenti, lasciando che la corrente li trasportasse oltre i piloni di calcestruzzo. Nel giro di venti minuti raggiunsero la vasta distesa buia del Kara-Bogaz-Gol. Poiche´ erano molto lontani dai centri abitati, poterono mandare i motori su di giri e ben presto si lanciarono a tutta velocità verso il punto d’attracco, situato a nord del loro obiettivo principale, il deposito militare turkmeno. Olam sedeva tra David e Monique. Diede una gomitata a David. «Che ne pensa?» domandò indicando l’oscurità che li circondava. «È come l’universo prima della creazione, eh? La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso. E noi siamo come lo spirito di Dio, giusto? Aleggiamo sulle acque.» David aggrottò le sopracciglia. Avrebbe preferito essere seduto accanto a Monique. Dopo aver fatto l’amore in cabina, lei era ripiombata nella cupezza, e non avevano scambiato nemmeno una parola mentre s’infilavano i vestiti neri e si spalmavano la vernice sul viso. Lui provò a incrociare lo sguardo della moglie, ma il buio era così fitto che riuscì a distinguere solo il suo profilo. Scosse la testa. «Non siamo lo spirito di Dio», affermò. «Che cosa c’è, amico mio? È nervoso? Gliel’ho detto, non deve preoccuparsi. Distruggeremo il laser a raggi X prima che i Qliphoth possano usarlo. Lei ci garantirà la vittoria perche´ è lo strumento di...» «Sì, lo so, lo strumento di Keter, il primo passo nell’enumerazione dell’universo, qualunque cosa significhi.» Olam parve divertito. «Non ama parlare di Dio, vero? Preferisce evitare l’argomento, eh? Le piace di più parlare di forze, particelle e dimensioni.» «No, non è questo. Non mi piace quando le persone pensano di agire per conto di Dio. Agiscono come se Dio avesse detto loro cosa fare e pensano che il

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loro compito sia dirlo a tutti gli altri. Questa è più o meno la storia della religione.» Olam scoppiò in una risata sommessa. «Per essere uno storico, non è molto rigoroso nell’analisi dei fatti. Non tutte le religioni sono così esigenti. Nella mia versione del giudaismo, Dio non dà ordini. Esiste, punto e basta. È dentro di noi e in tutto ciò che ci circonda.» Indicò nuovamente l’oscurità, sollevando la destra e disegnando un cerchio col dito. David fissò l’acqua, guardando oltre le sagome dei commando sull’altro lato dello Zodiac. Si girò ancoraverso Monique, tanto per assicurarsi che fosse ancora là, ma le spalle larghe di Olam gli ostruirono la visuale. Il misticismo dell’ebreo iniziava a irritarlo. «Se è solo una presenza, perche´ non chiamarla ’realtà’? Perche´ creare il concetto di Dio?» «Forse non mi sono spiegato bene. L’universo è un insieme d’informazioni, giusto? Penso che siamo d’accordo su questo. E Dio è l’idea che collega le informazioni. Il programma che mette tutto insieme.» «Ma perche´ chiamarlo ’Dio’? Quando si usa questo nome, s’implica l’esistenza di una figura paterna e celeste, unvecchio benevolo che vigila sull’universo e che tiene a noi. E un Dio di questo tipo non esiste.» «Ne è sicuro?» Olam si chinò verso di lui. Il suo puzzo di sudore si mescolò con l’odore salmastro del golfo. «Che cosa crede che ci protegga dal caos? Se non ci fosse nessun programma, l’universo sarebbe un guazzabuglio, accadrebbe tutto insieme e nulla avrebbe senso. Ma il programma sceglie una realtà tra tutte le possibilità quantistiche e dice: ’Così sia’. E, anche se la scelta può sembrarci casuale, non lo è affatto. Lei dovrebbe essere il primo a ricordare le parole di Einstein: ’Dio non gioca a dadi con l’universo’. Il programma coordina ogni cosa.» «Che cosa sta cercando di dire? Che il programma ha una coscienza? Che ha a cuore i nostri interessi?» Olam scosse la testa. «Dico solo che ogni cosa viene scelta secondo un piano. Ogni movimento di ogni particella. E, in questo senso, l’universo tiene a noi. Tutto e tutti sono importanti. È rassicurante, no?» David fece spallucce. Non riusciva a riflettere in quel momento. Era sudaticcio, disorientato e molto spaventato. Avrebbe voluto che Olam chiudesse il becco. L’uomo gli diede una pacca sulla spalla. «Devo parlare con l’agente Parker per un istante. Prenda il mio posto.» Si alzò e si diresse verso la poppa, dove Lucille sedeva accanto al timoniere. Non appena se ne fu andato, David scivolò vicino a Monique. Lei tacquee non girò nemmeno il capo, ma allungò la mano verso la sua e gliela strinse. Trenta minuti dopo, il timoniere ridusse i giri del motore, poi spense il fuoribordo e sollevò l’elica. I commando saltarono giù dallo Zodiac e lo trascinarono a riva. Anche David e Monique smontarono, prima arrancando nell’acqua bassa e poi camminando su una piana di sale che scricchiolò sotto gli stivali. Ben presto i soldati tirarono in secco tutti e tre gli Zodiac e si diressero verso la lunga cresta nera che separava le acque del golfo dal cielo stellato. Un angusto sentiero s’inerpicava lungo la china ripida. Il gruppo si era messo in marcia da poco, quando vide una luce lampeggiante: era il segnale che aspettava. L’uomo che li accolse era un altro ex membro del Sayeret Matkal, un agente del Mossad che aveva lavorato per diversi anni nell’Asia centrale. Olam aveva già spiegato alla squadra d’assalto lo scopo dell’appuntamento, ma David si stupì quando raggiunse la sommità della collina e vide cosa li aspettava lassù: una mandria di

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ventidue cavalli, tenuti per le briglie da ragazzi turkmeni ingaggiati dall’agente del Mossad. Monique affiancò David. «Sono bellissimi», sussurrò. «Sono Akhal-Tekè, i cavalli dorati del Turkmenistan. Si dice che abbiano una velocità e una resistenza straordinarie», replicò lui. Monique ne accarezzò uno, parlandogli con dolcezza. Pur essendo una ragazza di città, quando insegnava a Princeton aveva trascorso alcuni week-end facendo equitazione. L’esperienza di David era più modesta – era salito in groppa a un pony quando aveva sette anni e aveva trascorso una giornata e mezzo in un ranch per turisti con la sua prima moglie dieci anni addietro –, ma Olam gli aveva assicurato che gli Akhal-Tekè erano creature mansuete e che il suo cavallo avrebbe seguito istintivamente gli altri. Un ragazzo aiutò David a montare in sella e gli tenne le briglie mentre lui prendeva confidenza con l’animale. Olam ordinò a due commando di fare la guardia agli Zodiac, mente altri sei furono incaricati della ricognizione: in sella ai cavalli più veloci, avrebbero preceduto la squadra principale di diversi chilometri e ne avrebbero sorvegliato i fianchi, pronti a lanciare l’allarme via radio in caso di pericolo. Olam, David, Monique, Lucille e altri dodici uomini si avviarono verso sud, attraverso una pianura arida, in direzione del deposito militare. Era il Paese meno popolato che David avesse mai visto. Il paesaggio era assolutamente piatto e l’unica luce era quella delle stelle, che non era sufficiente nemmeno per consentirgli di vedere gli altri Akhal-Tekè, di cui udiva solo lo scalpiccio degli zoccoli sulla sabbia compatta. Era sorprendente che gli animali trovassero la strada in quell’oscurità. Evidentemente la loro visione notturna era migliore della sua. Dopo un po’, David cominciò a rilassarsi e a godersi la sensazione di volare nel buio, col vento fresco che gli soffiava sul viso. Si sentiva così inebriato che per qualche secondo dimenticò il laser a raggi X e la missione. Dopo un’ora, tuttavia, cominciò a essere indolenzito e il tragitto diventò molto meno piacevole. Ma Olam non si fermò. Alle due, una falce di luna si alzò sopra l’orizzonte, emanando una luce quasi accecante in confronto a tutta quell’oscurità. D’improvviso David riuscì a distinguere i cavalli e, in lontananza, scorse una sinuosa distesa di massi che luccicavano sotto i raggi argentei. Era un’enorme parete di roccia irregolare che si stagliava sopra la pianura come i dirupi del Grand Canyon. La luna illuminava gli strati del fronte roccioso, larghe strisce di pietra più chiara alternate a righe più scure. «Yangykala», borbottò Olam, che cavalcava alla sinistra di David. «Che cosa? È il nome del canyon?» L’altro annuì. «Significa ’fortezza ardente’. Forza, sbrighiamoci. Ora che la luna è alta, tutti possono vederci. Si nasconda nell’ombra creata da quei grossi massi.» Avanzarono in fila indiana, con Olam in testa, inoltrandosi in una gola che penetrava più a fondo nel canyon. Ben presto, David fu circondato da torreggianti formazioni rocciose a forma di castelli, templi, guglie e prue. Fu assalito da un leggero senso di claustrofobia: le pietre avevano un aspetto sinistro e minaccioso, come se aspettassero solo di scivolare giù e schiacciarlo. Iniziava a domandarsi se avessero sbagliato strada, quando Olam diede

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il segnale di fermare la colonna. I commando smontarono e David li imitò goffamente. Olam si arrampicò su una sporgenza rocciosa, poi si stese a pancia in giù e guardò nel binocolo a infrarossi. Lucille lo seguì, muovendosi come una capra di montagna, ed estrasse il proprio binocolo. Dopo alcuni istanti, Olam fece segno a David e Monique, esortandoli ad avanzare. I due lo raggiunsero sulla sporgenza, strisciando carponi. Lui passò il binocolo a David. «Dia un’occhiata al deposito e mi dica che ne pensa.» David obbedì. Era un edificio simile a un piccolo magazzino, forse lungo una trentina di metri e largo la metà, situato sull’orlo di un burrone che segnava la fine del canyon. La costruzione, circondata da dirupi su tre lati, era ulteriormente protetta da una recinzione alta circa sei metri. «È una buona posizione. Facilmente difendibile.» Olam annuì. «Che ne pensa della sicurezza?» «Non vedo guardie ne´ sentinelle, ma suppongo che siano dentro l’edificio.» Olam recuperò il binocolo e lo passò a Monique. «Vede qualcosa d’insolito?» «Le luci sono spente», disse lei. «Ci sono diversi riflettori, ma sono disattivati. Senza luci, gli occupanti non possono vedere se qualcuno si avvicina. Perciò o sono molto stupidi o non c’è nessuno.» «Esatto.» Olam sorrise. «Pare che i soldati abbiano chiuso a chiave e siano andati a casa. Mentre eravamo sul peschereccio, abbiamo analizzato le bande radio usate dall’esercito turkmeno e abbiamo intercettato alcuni messaggi inconsueti. Sembra che il presidente abbia ordinato alle forze di sicurezza interne di ritirarsi nella capitale. Potrebbe essere un colpo di fortuna per noi.» «Oppure una trappola. I soldati potrebbero essere nascosti nell’edificio, pronti a tenderci un’imboscata.» Lucille abbassò il binocolo. Olam assentì. «Esatto. Dobbiamo essere prudenti.» Si voltò e andò a consultarsi coi commando. Due di loro si staccarono dal gruppo e si diressero verso il deposito, l’uno con un tronchese e l’altro con una mazza e un piede di porco. Altri quattro soldati presero posizione ai lati dell’edificio, coi fucili puntati. Quindi Olam tornò con altri due binocoli, uno per se´ e uno per David. «Ora tutti possiamo vedere cosa succede.» Grazie agli infrarossi che catturavano le emissioni di calore, David osservò le teste e le mani dei due commando diretti verso il deposito, che brillavano sul display del binocolo. I soldati strisciarono fino alla recinzione e la tagliarono col tronchese, poi corsero verso l’entrata, inserirono il piede di porco tra la porta e lo stipite e le assestarono una mazzata, un colpo forte che riecheggiò nel burrone. Non appena riuscirono a forzare l’uscio, i commando sparirono all’interno della struttura. L’eco si smorzò. Il silenzio si protrasse a lungo, e a David si strinse lo stomaco per la tensione, ma poi la radio di Olam gracchiò, emettendo una serie di parole in ebraico. L’uomo rispose nella stessa lingua, poi si rivolse a David e Monique. «Non ci sono soldati turkmeni nella costruzione. Tuttavia i miei uomini hanno trovato un cilindro d’alluminio lungo circa tre metri.» David annuì. «Deve essere la copia russa di Excalibur.» «Non ne sarei così sicuro», disse Olam. «Voglio che lei e la dottoressa Reynolds entriate a verificare che sia veramente il laser a raggi X. Avete visto il dispositivo danneggiato nel deposito del Soreq, perciò sapete cosa cercare. Dovrebbe esserci un pannello scorrevole al centro del cilindro, con dodici aste laser all’interno. Una volta confermato che si tratta di Excalibur, dite agli uomini di cominciare a

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piazzare le cariche di C-4.» Si voltò e indicò i sei commando rimasti, ciascuno con in mano una borsa. «Questa è la squadra degli artificieri. Hanno abbastanza esplosivo da radere al suolo l’edificio.» Lucille si alzò. «Aspetti un secondo. Se loro vanno lì dentro, io li accompagno.» «D’accordo», acconsentì Olam. «Io resto fuori e sorveglio i dirupi con gli altri uomini, nel caso in cui i Qliphoth si avvicinassero di soppiatto. Perche´ anche loro vogliono il laser, no?» Sorridendo, diede un colpetto al fucile. «Va bene. Torniamo tra qualche minuto», disse Lucille. Poi lei, David e Monique seguirono gli artificieri, che si erano già incamminati verso il deposito. S’infilarono nel varco della recinzione, quindi corsero verso la porta. Dentro il magazzino, le torce dei commando s’incrociavano nel buio, rischiarando dozzine di vecchie casse stampinate con caratteri cirillici. Gli uomini aprirono le borse e tirarono fuori bobine di filo e mattoni gialli di C-4, che sembravano pezzi di formaggio avvolti nel cellophane. I due soldati che erano entrati per primi avevano puntato le torce su un lungo cilindro d’alluminio posato su un cavalletto di legno al centro della stanza. David si avvicinò e distinse il pannello scorrevole che si apriva a metà del dispositivo, simile al ripiano di uno scrittoio con alzata a scomparsa, solo che quello era grande quanto bastava per inserire una testata nucleare accanto alle aste laser. Una volta posizionata la bomba, il pannello sarebbe stato sollevato e l’aria sarebbe stata pompata fuori del cilindro, cosicche´ le radiazioni dell’esplosione nucleare viaggiassero liberamente verso i laser. Il pannello era chiuso. David lo afferrò con una certa esitazione. Doveva abbassarlo per vedere se le aste laser si trovassero all’interno del dispositivo. Aveva quasi paura che ci fosse anche una vecchia testata nucleare, ma sapeva che era assurdo: i russi non avrebbero abbandonato anche quella. Tentò di far scorrere il pannello, ma invano. Riprovò, cercando di metterci un po’ più di forza. Niente da fare. Monique lo raggiunse. «Che cosa c’è? Non si apre?» «Non è stato toccato per vent’anni. Probabilmente è arrugginito.» Lucille fece un passo avanti. «Coraggio, le do una mano.» David si spostò e lei afferrò il bordo. Al «tre», tirarono insieme e

riuscirono ad aprire il pannello. Lui notò con sollievo che dentro non c’erano testate nucleari, ma non c’erano neppure le aste laser. Il cilindro era vuoto a eccezione di una pila di mattoni gialli, ognuno infilzato da una sottile spina di metallo collegata a un groviglio di fili. Assomigliavano ai blocchi di C-4 che gli israeliani avevano estratto dalle borse. David era confuso. Come facevano a essere già là dentro? Ma Lucile ne intuì immediatamente la ragione. «Bomba!» urlò. Si girò verso i commando, che si paralizzarono di colpo. «Il cilindro è stato manomesso! Tuttifuori!» Quindi si voltò verso la porta e trascinò via con se´ David e Monique, continuando a gridare: «Bomba! Bomba! Bomba!» Avevano appena raggiunto l’uscita, qualche passo avanti rispetto ai commando, quando il C-4 esplose.

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Aryeh Goldberg era un vero esperto nella crittoanalisi. Aveva svolto il servizio militare nell’Unità 8200, la famosa divisione delle IDF che aveva il compito di decifrare le comunicazioni dei nemici d’Israele. Per tre anni Goldberg aveva decrittato i messaggi radio degli eserciti siriano e libanese, intercettati dalla stazione di ascolto israeliana sul monte Avital, nelle alture del Golan. E, da quando era entrato nello Shin Bet, aveva perfezionato le sue capacità, imparando nuove tecniche crittografiche. Ma, quando aveva visto il computer quantistico di Olam ben Z’man, aveva capito di essere improvvisamente diventato obsoleto: quell’armadietto pieno di tubetti di vetroe fibre ottiche avevareso inutile tutto ciò che lui aveva imparato nel corso della sua intera carriera. Aryeh, seduto a una scrivania nella roulotte di Olam a Shalhevet, inseriva nel computer i dati che gli erano stati forniti proprio dall’Unità 8200; Olam era un vecchio amico del generale Yaron, il comandante della divisione, col quale aveva stretto un accordo segreto poco prima di partire per il Turkmenistan con gli americani, offrendosi di decrittare i messaggi in codice che l’Unità 8200 non riusciva a decodificare. Così, la mattina del 13 giugno, uno dei kippot srugot dell’insediamento – un giovane snello e con una barbetta rossiccia di nome Ehud ben Ezra – aveva prelevato una pila di CD dal quartier generale dell’Unità 8200 a Herzliya e l’aveva portata a Shalhevet. I dischi, che ora si trovavano sulla scrivania di Aryeh, contenevano tutte le comunicazioni criptate che erano state intercettate dalle stazioni di ascolto israeliane negli ultimi tre giorni. Aryeh non contattava i suoi superiori allo Shin Bet da quand’era arrivato nell’insediamento: i messaggi precedentemente decifrati dal computer di Olam avevano rivelato che spie straniere si erano infiltrate nell’agenzia d’intelligence israeliana, nonche´ nell’FBI, nella CIA, nell’NSA e al Pentagono. Aryeh era così allarmato che non riusciva nemmeno a dormire. Stravaccato sulla sedia, fissava con espressione inebetita Ehud ben Ezra che inseriva i dischi nel computer quantistico. Era stato Olam a insegnare come usare l’apparecchiatura al ragazzo, un ex studente dell’Università ebraica che sembrava un po’ più sveglio degli altri coloni di Shalhevet. Mentre avviava il programma di decrittazione, Ehud attaccò bottone ad Aryeh, facendogli una sfilza di domande sulla crittografia. L’altro cercò stancamente di spiegargli le nozioni di base: «Okay,è molto semplice. Un cifrario è il testo necessario a codificare – e di conseguenza a decodificare – un messaggio. Si usa per trasformare una semplice frase in qualcosa d’incomprensibile, oppure per rendere un codice di nuovo leggibile». Ehud annuì. «E il cifrario coincide con la chiave?» «No, la chiave è il parametro che serve per la decodifica dell’algoritmo crittografico. Perciò, se un generale dell’esercito usa una chiave per codificare un messaggio, il povero fesso che attende istruzioni nel suo nascondiglio deve conoscerla, altrimenti non potrà leggere nulla.

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Ma, se si utilizza la stessa chiave troppe volte, il nemico può scoprirla, giusto? Perciò l’esercito deve modificare i codici ogni giorno, introducendo sempre nuove chiavi prima che i nemici decrittino quelle vecchie.» «Ma come...» «Sì, so cosa stai per chiedermi. Come fa il generale a distribuire le nuove chiavi ai poveri fessi nei loro nascondigli? È un grosso problema nelle comunicazioni militari, tenere traccia di tutte le chiavi e assicurarsi che i nemici non le rubino mentre sonoin transito. Ma si può risolvere con la crittografia a chiave pubblica, il tipo di cifratura usato in Internet.» «Mi sembra di aver letto qualcosa, però non aveva...» «Dimentica ciò che hai letto, ascoltami e basta. Anziche´ usare una sola chiave, questo sistema ne ha due. Ogni utente usa una chiave pubblica per codificare i messaggi e una chiave privata per decodificarli. È come avere un cofanetto con due serrature: l’una per aprirlo, l’altra per chiuderlo. Se si vuole inviare un messaggio segreto a un amico, gli si dice: ’Ehi, dammi la tua chiave pubblica’. Lui te la spedisce via Internet e tu la utilizzi per criptare il messaggio; è un po’ come chiudere la comunicazione nel cofanetto. Poi si trasmette il messaggio codificato all’amico, che ricorre alla propria chiave privata per aprire il cofanetto. Poiche´ non c’è bisogno che lui comunichi a nessuno la sua chiave privata, il messaggio risulta impossibile da intercettare.» «Ed è così che l’esercito distribuisce le nuove chiavi per le sue comunicazioni?» «Sì,è molto più sicuro che distribuirle su carta. Le IDF e il Pentagono usano sistemi a chiave pubblica per proteggere le loro reti dati top secret. La rete del Pentagono è quella che hatrasferito il messaggiosu Excalibur decrittato da Olam qualche giorno fa. Sai, quello che è stato inviato dalla California in Afghanistan dopo il test nucleare iraniano.» «Ma, se il sistema a chiave pubblica è così sicuro, come ha fatto Olam a decodificare il messaggio?» Aryeh sorrise. Nonostante la stanchezza, il discorso lo divertiva. «Ah, è questo il trucco. Poiche´ la chiave privata decodifica ciò che la chiave pubblica ha

criptato, devono essere legate tra loro matematicamente, giusto? Quella privata si basa di solito su una coppia di numeri primi, e quella pubblica è il numero che si ottiene quando si moltiplicano quei due numeri tra loro. Così, se la chiave privata si basa su 7 e 19, la chiave pubblica è 133, okay?» Ehud riflette´ per un istante: evidentemente la matematica non era la sua materia preferita. «Sì, 7 per 19 fa 133.» «Se fosse davvero così, però, la chiave privata non sarebbe poi così privata, no? Perche´, una volta scoperta la chiave pubblica, per esempio 133, basta solo trovare i fattori primi per ottenere anche la chiave privata. Tuttavia, se si trattasse di un numero più grande, un numero con centinaia e centinaia di cifre, trovare i fattori primi sarebbe molto difficile. Per un computer, moltiplicare due numeri primi molto grandi è facile, viceversa, se gli si dà il risultato e gli si dice: ’Dimmi quali numeri primi ho moltiplicato’, la macchina può impiegare anni per fornire la risposta. Ecco perche´ è arduo decodificare la cifratura. Trovare la chiave privata non è impossibile, ma bisogna aspettare a lungo se si utilizza un normale computer.» Anche Ehud sorrise. Finalmente aveva capito. «Ma il computer di Olam è diverso, vero? È in grado di trovare i fattori primi di numeri molto grandi.» «Esatto! Un computer quantistico esegue trilioni e trilioni di calcoli tutti insieme, perciò può verificare molti numeri contemporaneamente per determinare il fattore primo. Se si conosce la chiave pubblica del messaggio, che è facile da intercettare, il computer quantistico troverà la chiave privata e decodificherà

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la comunicazione. È ciò che la macchina sta facendo in questo momento.» Aryeh indicò il computer, che produceva un ronzio sommesso. «Hai appena inserito tre giorni di comunicazioni criptate, ma il computer le decifrerà in un’ora circa.» Ehud fissò la macchina a bocca aperta, quindi si rivolse ad Aryeh. «Be’, allora farò giusto in tempo a dire le preghiere mattutine. Vuole che le porti la colazione quando torno?» L’altro scosse la testa. L’ansia gli aveva tolto l’appetito. «No, non ho fame.» «Le porto comunque qualcosa. Deve mangiare, Mr Goldberg.» Dopo che Ehud se ne fu andato, Aryeh si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Forse dovrei sdraiarmi un po’, pensò. Avrebbe dovuto fare un sonnellino mentre il computer lavorava, ma sospettava che non ci sarebbe riuscito: sarebbe stato come provare ad appisolarsi in una casa in fiamme. L’istinto gli diceva che qualcosa non andava, ed era molto preoccupato per i suoi amici americani, che probabilmente erano già nei deserti del Turkmenistan. Avrebbe voluto contattarli, tuttavia sapeva che Olam e i suoi commando non avrebbero usato le radio a meno che non fosse stato necessario, e inoltre lui non aveva ancora nulladi utile dacomunicareloro, dovevaprima analizzare le intercettazioni. Poi, con un po’ di fortuna, avrebbe identificato le persone che Olam chiamava Qliphoth, le stesse che avevano collocato Excalibur nel sito per test nucleari in Iran. Incrociò le braccia sulla scrivania e vi posò sopra la testa. Prima di lasciare Shalhevet, Lucille gli aveva confidato di avere un piano per spingere i Qliphoth a uscire allo scoperto:avrebbeconvinto l’FBI a fare un salto alla Logos Enterprises, l’appaltatore californiano che aveva prelevato Excalibur dal Livermore e che avrebbe dovuto smantellarlo. L’idea era innervosire i tizi della Logos al punto d’indurli a inviare un altro messaggio al loro contatto in Afghanistan, cosa che forse avevano già

fatto. Anzi, Aryeh sperava che la comunicazione fosse già stata intercettata dall’Unità 8200 e che ora fosse su uno dei dischi all’interno del computer quantistico. Immaginò la macchina che sputava fuori un nome, il nome del contatto afghano, ma le lettere erano sfocate e lui non riusciva a leggerle... Ehud lo svegliò, scuotendolo delicatamente. «Mr Goldberg? Guardi, le ho portato da mangiare», disse appoggiando un’insalata israeliana sulla scrivania. Aryeh fissò per un attimo i cetrioli e i pomodori tagliati a dadini. Quindi tornò in se´, si stiracchiò e sbadigliò. Quando consultò l’orologio, si rese conto di aver dormito per un’ora e mezzo. «Il computer ha finito?» domandò a Ehud. Il giovane annuì, anche se non sembrava soddisfatto. «Sì. Uno dei messaggi decifrati contiene la parola ’Excalibur’, ma non ci sono...» Aryeh saltò su. «Dov’è? Fammi vedere!» Ehud posò un foglio sulla scrivania e indicò una riga di testo. Aryeh si chinò sul documento. Il segnale era partito dalla California, dallo stesso dispositivo wireless non registrato che era stato utilizzato per il messaggio precedente, ed era stato ritrasmesso dallo stesso ripetitore a Sacramento. Ma questa volta la comunicazione non era arrivata nell’Afghanistan occidentale, bensì era rimbalzata su un ripetitore in Turkmenistan meridionale prima di essere trasferita al destinatario. Il messaggio era breve, solo sette parole. Altre indagini su Excalibur. Dobbiamo parlare subito.

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Aryeh era deluso. Aveva sperato in qualcosa di più. «Tutto qui? Nient’altro?» Ehud picchiettò su una riga in fondo alla pagina. «Il computer ha decodificato anche un secondo messaggio, inviato dal Turkmenistan a Sacramento circa trenta secondi dopo il primo. Ma proprio non lo capisco.» Passa a DRSN. Ti chiamo immediatamente. Aryeh fece una smorfia. «Ah, cattive notizie. Il DRSN è il Defense Red Switch Network del Pentagono. Serve a trasmettere comunicazioni vocali, non dati. Evidentemente il nostro amico in Turkmenistan ha accettato di parlare coi suoi contatti in California. Purtroppo non saremo in grado di decifrare la conversazione.» «Perche´?» domandò Ehud. «Pensavo che avessimo la macchina di decrittazione migliore del mondo.» «Il DRSN è diverso, haun’infrastruttura separatadi linee e terminali sicuri, perciò le nostre stazioni di ascolto non riescono a origliarlo facilmente. Di solito è riservato ai principali funzionari del Pentagono. Il fatto che i nostri amici afghani lo usino è davvero sorprendente. Devono avere degli informatori nelle alte sfere.» Aryeh scosse la testa. Maledizione, pensò. Ci erano andati così vicini. «Ma, se la rete è così controllata, deve esserci qualcuno che verifica gli accessi, giusto? Come un operatore telefonico.» «Non per forza. Potrebbe essere automatizzata.» «Però probabilmente serve un codice per accedervi. E qualcuno deve avere dei registri, elenchi in cui si segna chi è entrato nella rete e quando, giusto?» Aryeh fissò il ragazzo. Aveva ragione: non si poteva accedere a una rete protetta come il DRSN con un dispositivo non registrato, di certo gli utenti dovevano inserire un codice personale assegnato loro dalla rete stessa. E, se Aryeh fosse riuscito a consultare i tabulati del DRSN e i registri dei codici, avrebbe potuto scoprire chi avesse fatto la misteriosa chiamata dal Turkmenistan alla California. I registri erano

top secret, naturalmente, ma lui aveva una fonte al Pentagono. Fece un passo avanti e abbracciò Ehud, baciandolo sulla fronte. «Dovresti tornare a scuola, lo sai? Sei troppo intelligente per stare in un posto come questo.» «Perche´? Non...» «Ora vattene. Devo fare alcune telefonate.» Aryeh lo lasciò andare e accennò alla porta.

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La prima cosa che David scorse non appena aprìgli occhi fu una sottile striscia di cielo che correva tra due dirupi frastagliati, di un azzurro-grigiastro opaco, il colore dell’alba. Solo dopo si accorse degli uomini che lo fissavano con indosso stivali incrostati di fango e uniformi marroni sbrindellate. David non riusciva a mettere a fuoco i loro volti, però i fucili che imbracciavano li vedeva eccome. E, benche´ perdesse sangue da diversi tagli alla testa, al collo e alle braccia, nessuno si affrettò a medicarlo ne´ lo aiutò ad alzarsi. Quindi quei tipi non erano suoi amici. Merda. Allora chi diavolo sono? pensò. Poi notò che uno di loro non era un uomo, bensì una donna robusta dai capelli chiari e arruffati, con una grossa ferita a una gamba e coi pantaloni strappati all’altezza del ginocchio e umidi in fondo. David la vide aprire la bocca, ma non udì nulla di ciò che disse. Le sue orecchie avevano qualcosa che non andava. Quindi lei parlò nuovamente, emettendo un suono molto vago. L’agente Lucille Parker gridava il suo nome. I due uomini che tenevano Lucille per le braccia la gettarono a terra accanto a David e, in quel momento, a lui tornò in mente tutto: gli Zodiac, gli Akhal-Tekè, il deposito, il C-4. Lucille gli strinse il braccio. Non aveva più la pistola, e anche quella di David era scomparsa. Lei aveva un profondo squarcio sul mento e un altro che si allungava dallo zigomo all’angolo delle labbra, entrambi bagnati delle sue lacrime. «Lucille! Che cos’è successo? Dov’è Monique?» gemette David, e la sua voce gli parve strana e distante. Leichiuse gliocchi escosse la testa.«Eravamo davanti alla porta. L’esplosione ci ha scagliati via.» «Ma dov’è...» Solo allora David vide i corpi sul terreno, stesi a faccia in su in una lunga linea. Evidentemente i soldati in uniforme marrone li avevano trascinati fuori dalle macerie. Col cuore che batteva all’impazzata, David si rizzò a sedere. Contò dodici cadaveri, tutti uomini barbuti vestiti di nero. Non c’erano ne´ Monique ne´ Olam. All’inizio fu sollevato ma, mentre fissava i kippot srugot morti, fu sopraffatto dall’orrore. Aveva ascoltato le loro preghiere solo ventiquattro ore prima. Puntellandosi sul gomito, indicò gli altri soldati. «Chi siete? Chi diavolo siete?» Quelli non risposero. David non capì nemmeno se sapessero l’inglese. Tuttavia, mentre aspettava che dicessero qualcosa, comparve un tipo alto e nerboruto, con indosso una divisa verde e una kefiah drappeggiata sulle spalle e sulla nuca. Aveva un viso familiare: bruno, scarno e coperto da un velo di barba. David lo riconobbe e si voltò verso Lucille. «È il pellegrino! Quello con la croce, quello che ci ha seguiti nella yeshiva a Gerusalemme!» L’uomo annuì. «Mi chiamo Nicodemus. E, sì, vi ho seguiti nella Beit Shalom. Quella sì che è stata una buona giornata per uccidere gli ebrei.» Sorrise. «Quanti ne abbiamo fatti fuori? Tredici? Quattordici? Buffo, è più o meno lo stesso

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numero di oggi.» Lucille lo guardò in tralice. «Non dimentichi che pure gli ebrei hanno ammazzato alcuni dei suoi uomini.» Lui contrasse il labbro superiore, ma continuò a sorridere. «No, non l’ho dimenticato. È questo il motivo per cui ho organizzato questa operazione. Quando ho scoperto che volevate venire in Turkmenistan, mi sono precipitato qui per raggiungere gli altri Veri credenti. Avevano già portato via il laser a raggi X dal deposito, ma ce n’era un altro che era danneggiato irreparabilmente, così abbiamo usato il cilindro di riserva come esca e l’abbiamo riempito di C-4. Poi abbiamo trovato un nascondiglio e abbiamo aspettato che arrivaste.» Indicò la fila di cadaveri. «Ha funzionato, non credete? Vi abbiamo uccisi quasi tutti. Olam ben Z’man e Monique Reynolds sono fuggiti, ma non andranno lontano. Cercheranno di riunirsi coi sei israeliani incaricati della ricognizione e poi di tornare agli Zodiac. Ma abbiamo una squadra che li aspetta al punto d’attracco.» Lucille strinse ancora di più il braccio di David, ma lui capì che quel gesto non era dettato dalla paura, bensì dalla speranza. Monique e Olam erano ancora vivi, e quel pensiero ricordò a David perche´ si trovasse là, perche´ avesse viaggiato per migliaia di chilometri per recarsi in quel luogo orribile. «Dov’è mio figlio? Dov’è Michael Gupta?» chiese guardando Nicodemus negli occhi. «Oh, è morto anche lui. L’abbiamo ammazzato dopo che ha dato a fratello Cyrus le informazioni di cui avevamo bisogno. Ma posso assicurarti che l’abbiamo fatto nel modo più umano possibile. Fratello Cyrus è il Redentore, santo e compassionevole. Molto più compassionevole di me.» David vacillò, tuttavia non smise di fissarlo. Nicodemus invece distolse lo sguardo e contrasse ancora il labbro. David sentì accendersi un barlume di speranza, perche´ capì che quel tizio mentiva. «No, Michael non è morto. Volevate ucciderlo e forse avete ancora intenzione di farlo. Ma lui è vivo.» Nicodemus smise di sorridere e gli scoccò un’occhiataccia, dilatando le narici. Poi si voltò verso i suoi uomini. «Tirateli su!» Due soldati sollevarono David, altri due si occuparono di Lucille. Da un fodero di cuoio assicurato alla cintura, Nicodemus estrasse un lungo coltello, che scintillò nella luce sempre più intensa dell’alba. Fece un passo avanti, tendendo la lama a pochi centimetri dagli occhi di David. «Hai ammazzato il mio amico Bashir e, per questo, dovrei tagliarti la gola. Ma fratello Cyrus vuole parlarti, dunque dovrò aspettare.» David aveva le vertigini, tuttavia strinse i denti. «Peccato. Mi si spezza il cuore.» «Già. Devo obbedire a fratello Cyrus, perciò non posso ucciderti.» L’altro ritrasse la mano. «Ma posso far fuori lei.» Con un movimento fulmineo andò verso l’agente Parker e la sgozzò. Lucille guardò David per un istante, con occhi umidi e imploranti, la bocca che si apriva e si chiudeva, senza articolare nessun suono, mentre una vivace riga rossa le si delineava sul collo. Infine il sangue sgorgò e la testa dell’agente Parker si afflosciò all’indietro.

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Michael fece esattamente ciò che gli aveva detto Tamara: continuò a viaggiare verso sud a bordo dell’Ural, cercando un altro villaggio in cui fare una telefonata. Proseguì per tutto il pomeriggio, scrutando costantemente l’orizzonte, ma non vide nient’altro che dune punteggiate di brutti cespugli dai rami bianchi e spogli e, a un certo punto, due cammelli che camminavano su un tratto di terreno duro e piatto. Ma niente villaggi, niente piste e niente pali del telefono. Poi, dopo esattamente centottantun chilometri (Michael aveva controllato il contachilometri prima di partire), la motocicletta si fermò. Il serbatoio era vuoto. Per le tre ore successive, il ragazzo cercò di spingere la moto verso sud, ma non andò molto lontano. Quando il sole cominciò a tramontare, la portò in un avvallamento sabbioso tra due dune, in un punto riparato dal vento. Aveva sete, ma non aveva acqua. Quando aprì il vano portaoggetti sul retro del sidecar, trovò solo un barattolo di pesche e una rivista arrotolata con alcune donne nude in copertina. Riuscì a forare il barattolo sbattendolo contro il parafango dell’Ural e succhiò lo sciroppo fino all’ultima goccia. Tuttavia, una volta finito, aveva più sete che mai. Cercò di distrarsi esaminando le foto delle donne nude, studiandole finche´ non fece buio. Dopo il tramonto, la temperatura calò, mentre il vento continuava ad aumentare, soffiandogli la sabbia negli occhi. Michael si rannicchiò nel sidecar imbottito e, benche´ avesse ancora freddo, riuscì a dormire per qualche ora. Poi sorse il sole e, alle otto, nell’Ural faceva già troppo caldo. Lui si tolse la T- shirt e creò una tenda legando le maniche al manubrio della motocicletta, ma l’aria era torrida anche all’ombra e il ragazzo aveva le labbra secche e screpolate. Ricordò che un essere umano poteva sopravvivere da tre a sette giorni senz’acqua. Ma la Piccola enciclopedia della scienza diceva pure che il tempo di sopravvivenza si riduceva notevolmente quando la temperatura era elevata, a causa della maggiore sudorazione. Provò a concentrarsi di nuovo sul giornale, ma aveva la vista appannata. Quando alzò la testa e guardò le dune, gli parve che fluttuassero, come onde dell’oceano. Credette di sentire anche lo sciabordio dell’acqua, ma sapeva che era solo il suo battito cardiaco, chiaramente udibile quando si tappava le orecchie con le mani. Una volta David Swift gli aveva detto che nel suo corpo c’erano circa sei litri di sangue e Michael aveva immaginato di conservarlo in quattro cartoni di latte da un litro e mezzo, che avrebbero occupato quasi tutto il ripiano superiore del frigorifero. Ora, tuttavia, visualizzò il suo sangue che gocciolava sulla sabbia, unendo i granelli in spessi grumi rossicci, come quelli che aveva osservato l’ultima volta che aveva visto Tamara. Chiuse gli occhi. Tamara era morta, ne era certo. E lui non aveva fatto ciò che gli aveva detto, non aveva trovato un villaggio ne´ un telefono e non avrebbe mai avuto

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la possibilità di chiamare David Swift. Gli bruciavano gli occhi e gli faceva male lo stomaco se pensava a tutti gli errori che aveva commesso. Sei una frana. Hai fallito sotto tutti i punti di vista, si disse. Poi udì la voce di David Swift, che sembrava venire da dietro le sue spalle: Non sei una frana, Michael. Sei un ragazzo magnifico. Quando si girò, il ragazzo vide solo l’Ural, ma rispose ugualmente a David: «No, non è vero. Ho infranto la promessa. Ho rivelato il codice a Cyrus». Non è colpa tua. Hai resistito finche´ hai potuto. Sono fiero di te, Michael. Molto fiero di te. Avrebbe voluto piangere, ma era troppo disidratato. «Non conta! Ho infranto la promessa e ora Cyrus modificherà il programma. Ucciderà il mondo!» No, non può farlo. Non si può uccidere il mondo. Guardalo, Michael. Guarda quant’è bello. Lui alzò gli occhi e vide solo dune. E, nella sua mente, visualizzò cose ancor peggiori. L’uomo che precipitava nel cratere. I soldati smembrati dalla granata. «È già morto. Non c’è niente di vivo qui.» E quegli uccelli? All’inizio Michael non capiva. Il cielo era una lastra azzurra, vuota e infuocata. Ma poi li vide: due grossi uccelli neri che sorvolavano le dune. Solo che erano incredibilmente grandi e non sbattevano le ali. Quindi Michael udì un ronzio lontano, cupo e ritmico, come se un gigante percuotesse l’immensa grancassa del deserto. «Non sono uccelli. Sono elicotteri», sussurrò.

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Non la seppellirono nemmeno. Dopo che Nicodemus le ebbe tagliato la gola, i soldati buttarono il corpo di Lucille sopra i cadaveri dei commando israeliani. David ebbe appena il tempo di lanciare un’ultima occhiata all’agente Parker – gli occhi aperti, la testa rovesciata all’indietro, la camicia sporca di sangue –, prima che gli uomini lo gettassero a terra e gli premessero il volto sul terriccio. Uno di loro gli legò le mani dietro la schiena, mentre un altro gli immobilizzava le gambe e un terzo lo imbavagliava con una striscia di tessuto che sapeva di olio per motori. Poi lo trascinarono verso un convoglio di Land Cruiser grigie e lo gettarono nel bagagliaio di uno dei veicoli, facendogli sbattere la testa contro i sedili piegati. Tre soldati in uniforme marrone salirono insieme con lui; due si accomodarono sui sedili anteriori, il terzo, invece – un uomo dal volto affilato, col mento pronunciato e col naso lungo –, prese posto dietro e, non appena il convoglio si mise in moto, chiese: «Stai comodo, fratello?» Lui ringhiò e cercò di sferrargli un calcio, ma il soldato gli tirò un pugno nello stomaco, quindi gli legò un’altra corda intorno alle ginocchia e la ancorò a un bullone che sporgeva dal pavimento. David continuò a dimenarsi per diversi minuti, con grande divertimento dei Veri credenti. Alla fine si calmò e chiuse gli occhi, ma la tortura continuò. Rivide Lucille col collo pieno di sangue che apriva e chiudeva la bocca, come se tentasse di dirgli qualcosa. David voleva morire. Ma prima voleva uccidere tutti quelli che lo circondavano. La strada era sconnessa. La vettura sobbalzava su solchi, creste e buche, avanzando a non più di cinquanta chilometri orari, tuttavia non fece nessuna curva, perciò lui era certo che procedessero in linea retta. Dopo un po’ aprì un occhio e vide la luce del mattino che illuminava Volto affilato: si stavano muovendo in direzione sud-est. Cominciò pian piano a riprendersi. Pensò a Monique, a Michael e a Olam, che erano ancora vivi, nonostante tutto. Si erano salvati per miracolo, perciò lui non doveva perdere le speranze. Ma poi ricordò Excalibur e fu preso nuovamente dallo sconforto: Nicodemus aveva detto che i Veri credenti avevano portato via il laser russo dal deposito e, visto che avevano già testato il prototipo americano in Iran, facendo esplodere una bomba nucleare per alimentare il dispositivo, ne conoscevano gli effetti. David non sapeva perche´ volessero distruggere l’universo, ma in fondo non aveva importanza. I pazzi non avevano bisogno di giustificazioni. Il loro leader doveva essere fratello Cyrus, l’uomo che Nicodemus aveva chiamato «Redentore». David ipotizzò che fosse una sorta di capo religioso, una figura messianica, abbastanza ricca da armare un piccolo esercito e abbastanza potente da ottenere la collaborazione degli iraniani. Il peggior tipo di fanatico. Un folle astuto, metodico e influente, pensò.

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Dopo circa quattro ore, i Veri credenti seduti davanti decisero che era ora di pranzo e passarono una fetta di pane e una salsiccia nera e deforme a Volto affilato. Non offrirono da mangiare a David e, anche se l’avessero fatto, lui non avrebbe accettato. Viaggiarono per un’altra ora su una strada più agevole, quindi svoltarono a destra, dove iniziarono a procedere in salita. Guardando fuori del finestrino, David si accorse che il convoglio si era lasciato alle spalle il deserto per affrontare un passo montano, una strada che si snodava tra ripide chine marroni punteggiate di sassi. Gli si tapparono le orecchie per via dell’altitudine. In meno di dieci minuti arrivarono ad alta quota. David cercò di capire dove fossero. Trentasei ore prima, mentre si trovava ancora sull’aereo che da Israele l’aveva portato in Azerbaijan, aveva studiato una mappa del Turkmenistan. La visualizzò mentalmente e cercò di ricostruire la strada che avevano percorso partendo dal canyon di Yangykala. Calcolò che si erano spostati di circa trecentoventi chilometri a sud-est, perciò ora dovevano essere sul Kopet Dag, la catena montuosa che correva lungo il confine meridionale del Turkmenistan. Gli si strinse lo stomaco: erano diretti verso la Repubblica Islamica dell’Iran. Riprese a dibattersi, tentando di strappare la fune che lo inchiodavaal pavimento. Una volta che avessero superato la frontiera, non avrebbe più avuto la possibilità di fuggire. Probabilmente fratello Cyrus li aspettava nel sito del Kavir, insieme col laser russo e con un’altra bomba nucleare. Andavano verso l’Armageddon, la battaglia finale, durante la quale la razza umana avrebbe dimostrato la propria stupidità mandando in corto circuito l’intero universo. La Land Cruiser si allontanò dalla strada e si fermò. David girò la testa di qua e di là, cercando i segni di una dogana: una garitta, qualche bandiera, una sbarra abbassata. Urlò, sperando di attirare l’attenzione delle guardie, anche se probabilmente fratello Cyrus le aveva corrotte affinche´ guardassero dall’altra parte. Anche le altre auto del convoglio lasciarono la strada e parcheggiarono poco distante. I due soldati davanti smontarono e aprirono il portellone. Intanto Volto affilato estrasse un coltello dal fodero assicurato alla cintura. David si paralizzò, pensando a Lucille, ma l’uomo recise semplicemente la corda che lo legava al pavimento, poi lo prese per le caviglie e lo tirò fuori dalla macchina, aiutato dagli altri due, che lo afferrarono per le braccia. David provò a divincolarsi, ma invano: non mangiava da sedici ore ed era molto debole. I tre Veri credenti lo trasportarono lungo una distesa piatta e polverosa ai piedi di un pendio scosceso, mentre gli altri uomini in uniforme marrone scendevano dalle Land Cruiser e si allineavano davanti alle vetture. Tuttavia non c’erano sbarre, bandiere ne´ garitte: quello non era un confine, il convoglio si era fermato nel bel mezzo del nulla. I tre uomini si arrestarono di colpo e poco dopo li raggiunse Nicodemus, che si drappeggiò la kefiah sulle spalle e si chinò su David, sorridendo. «Piaciuto il viaggio, professore?» Lui gridò: «Vaffanculo!» A causa del bavaglio, la parola assomigliò più che altro a un grugnito, ma Nicodemus parve cogliere il significato. Il suo sorriso si allargò. «Ho una notizia per te.

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Prima di lasciare lo Yangykala, abbiamo informato l’esercito turkmeno che diversi commando israeliani si erano introdotti di nascosto nel Paese. Ora una divisione di elicotteri sta dando la caccia agli intrusi. Credi che tua moglie e il tuo amico Olam si arrenderanno? Oppure si faranno sparare addosso?» David ringhiò ancora e si dimenò con forza, cercando di scagliarsi contro quel bastardo, ma riuscì solo a far incespicare Volto affilato. Nicodemus rise. «D’accordo, bando alle ciance. Hai appuntamento con fratello Cyrus. Da questa parte.» S’incamminò lungo un sentiero in discesa e i soldati lo seguirono, facendo dondolare David come un quarto di bue. Alla base della montagna c’era una piccola apertura irregolare,che permetteva l’ingresso a una caverna immersa nell’oscurità. Nicodemus prese la torcia che teneva appesa alla cintura ed entrò, abbassando la testa con sicurezza, come se l’avesse già fatto molte volte. Volto affilato procedette camminando all’indietro, stringendo la presa intorno alle caviglie di David, seguito a ruota dagli altri due soldati. La grotta era lunga e stretta, con le pareti calcaree incrostate di muffa e di escrementi di pipistrello, e a David ricordò il tunnel dei contrabbandieri sotto la città vecchia di Gerusalemme. Dopo circa trenta metri, la galleria iniziò a scendere. Nicodemus rallentò e si voltò, puntando la torcia sul terreno sassoso per aiutare i soldati a trovare la strada. «Bel posto, non credi, professore? Questa montagna è come il formaggio svizzero, piena di buchi, e tutti i passaggi convergono sul fondo. Questo tunnel è la nostra ’porta di servizio’, perche´ è molto più stretto dell’entrata principale. Aspetta e vedrai.» Lungo la discesa, in un paio di occasioni i soldati persero l’equilibrio, facendo quasi cadere David. Ormai lui aveva smesso di dimenarsi, limitandosi a fissare le pareti, su cui tremolavano le ombre proiettate dalla torcia. Sentiva il peso

della montagna sopra di se´, i miliardi di tonnellate di roccia e terriccio, e aveva l’impressione che l’aria diventasse più calda e umida man mano che procedevano. Il buio e lo spazio angusto erano opprimenti e David andò in iperventilazione. Questo è un viaggio di sola andata, pensò. I soldati lo conducevano alla sua tomba. Il tunnel si spianò e si ritrovarono in una camera sotterranea, al cui centro si trovava una pozza ovale di acqua verdastra, larga circa quindici metri. Dal soffitto arcuato, disseminato di stalattiti, piovevano diverse gocce d’acqua, che disegnavano cerchi sulla superficie della pozza. L’aria torrida puzzava di uova marce. David intuì immediatamente che si trattava di una sorgente geotermica: il Kopet Dag era un’area molto attiva dal punto di vista tettonico; sotto i monti c’erano rocce fuse che riscaldavano l’acqua nelle camere sotterranee, mentre il tanfo dipendeva dal solfuro d’idrogeno che veniva rilasciato quando il liquido caldo scioglieva i minerali contenenti zolfo. Nicodemus e i soldati si diressero verso il lato opposto della camera. David notò un chiarore che filtrava da una fessura nella parete di fronte. In principio il suo cuore sussultò, pensando che si trattasse di un raggio di sole, invece poi lui si accorse che era solo una luce artificiale azzurrina che penetrava dalla camera adiacente. L’apertura era appenasufficiente per consentire il passaggio,ed era bloccata da un soldato robusto, con un fucile sulla spalla, che fece il saluto militare a Nicodemus. La

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sua uniforme, tuttavia, era diversa dalle cenciose tute marroni dei Veri credenti: aveva un motivo mimetico verde chiaro e sembrava fresca di bucato. Nicodemus ricambiò il saluto. «L’abbiamo trovato, sergente. Perciò ci deve delle scuse. Gliel’avevo detto che i miei uomini l’avrebbero acciuffato.» L’altro fissò David. «È lui?» domandò inarcando un sopracciglio. «Lo so, sembra che non valga un soldo bucato. Ma è intelligente.» Il sergente si chinò per guardarlo meglio. Aveva i capelli biondi cortissimi e le guance arrossate dalla rasatura. Le maniche dell’uniforme, rimboccate fino ai gomiti, rivelavano avambracci muscolosi coperti di tatuaggi. Nella luce intensa che arrivava dal passaggio, David lesse il nome appuntato sul suo petto, MORRISON; e il distintivo sulla sua spalla sinistra: 75º RANGER. David ricominciò a urlare. Quel tizio non era uno sprovveduto, bensì un ranger dell’esercito degli Stati Uniti, un soldato delle SOF. David supplicò: «Aiutami!» ma il bavaglio rese le sue grida inintelligibili. Morrison lo guardò in cagnesco, quindi si raddrizzò e si rivolse a Nicodemus. «Come diavolo ha fatto questo tipo ad avere la meglio sul colonnello Ramsey? È una mezza cartuccia.» «Riteniamo che sia una spia, ma non sappiamo per chi lavori. Potrebbe aver atteso che Ramsey uscisse dalla caverna per tendergli un’imboscata. I nostri uomini lo interrogheranno e scopriranno cos’è successo esattamente. È per questo che l’abbiamo portato qui. Perciò, per favore, ci faccia passare.» Il sergente si spostò. Nicodemus imboccò il passaggio per primo, seguito da Volto affilato. Gli altri due soldati stavano facendo entrare David, quando Morrison fece un passo avanti e gli sferrò un rapido calcio nelle costole. «Questo è per Ramsey, stronzo!» David fu sopraffatto dal dolore; chiuse gli occhi e si rannicchiò in posizione fetale. Dovette intervenire Volto affilato per riuscire a spostarlo. Quando David si riprese, rimase scioccato alla vista della camera. Era grande come un’arena, quanto il Madison Square Garden. Il soffitto, alto almeno trenta metri, era illuminato da potenti riflettori montati su lunghi pali d’acciaio. A sinistra, un vero e proprio lago sotterraneo si estendeva fino ai recessi più bui della grotta,

mentre davanti c’era una sporgenza rocciosa su cui s’innalzavano due tende, una più grande e una più piccola. A destra, una scala naturale di lastre calcaree s’inerpicava per una decina metri verso un’immensa camera superiore. Lassù, David scorse dozzine di tende ammassate vicino ai gradini,mala cavernasi estendevabenoltre e sembrava contenere un intero campo militare. Le voci di centinaia di soldati echeggiavano tra le pareti. Gesù, che diavolo sta succedendo? pensò David. Era ancora sbalordito quando i Veri credenti lo raccolsero e lo portarono verso la tenda più grande, il cui ingresso era sorvegliato da altri due ranger. Le guardie salutarono Nicodemus come se fosse un vecchio amico, come se fosse perfettamente normale che un manipolo di fanatici religiosi si avventurasse in un accampamento segreto dell’esercito. I Veri credenti condussero David nella tenda e lo depositarono, a faccia in su, su una rozza panca, come quelle che si vedevano spesso nelle mense militari. Nicodemus prese un’altra corda e gliela avvolse intorno alle ginocchia, alla vita e al torace, legandolo alla lunga tavola di legno. «Sei un po’confuso, eh? Be’, ho tempo

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sufficiente per darti qualche spiegazione. Ti trovi a Camp Cobra, una caverna occupata da novecentosessanta soldati americani. Sono quasi tutti ranger e stanno per sferrare un attacco a sorpresa contro l’Iran. E il loro comandante è il generale McNair che, guarda caso, è amico di fratello Cyrus.» Strinse la fune, strappando a David una smorfia di dolore. «McNair ha invitato Cyruse i Veri credenti a Camp Cobra, ma doveva trovare un motivo convincente per spiegare ai ranger perche´ tutti questi sconosciuti avessero accesso alla grotta. Così ha inventato una bella storiella, ha detto di aver ordinato a una squadra delle Special Forces sotto copertura di trovare il colonnello Ramsey, un ranger molto sfortunato che è uscito dalla caverna ed è scomparso qualche giorno fa.» Diede un ultimo strattone alla corda e la annodò. «Poi la tragedia: la squadra delle Special Forces ha scoperto che Ramsey era morto, ma se non altro ha acciuffato l’assassino. Che saresti tu!» Nicodemus gli puntò contro il dito e sorrise. «È una bella storia, eh? Ma ormai siamo vicini al finale. Addio, professor Swift.» Poi lui e i suoi uomini uscirono. La fune era così stretta che David respirava a fatica. Nell’oscurità della tenda, distinse delle apparecchiature elettroniche – computer, radio, schermi – appoggiate su tavoli che correvano lungo le pareti di tela. Sembrava un centro di comando e controllo, il genere di posto da cui i generali dell’esercito monitoravano il campo di battaglia e impartivano ordini alle truppe. Ma, oltre a David, c’era solo un’altra persona, un tipo girato di spalle, con indosso pantaloni, giacca e guanti neri. Aveva una mano posata su un cilindro d’acciaio alto circa tre metri e del diametro di quindici centimetri, che si stagliava sopra la sua testa, avvolta in una sciarpa nera. Senza nemmeno girarsi, lo sconosciuto disse: «Ciao, David, io sono fratello Cyrus». Diede un colpetto al tubo. «E questa è Little Boy.» I due elicotteri atterrarono nel deserto. Michael era piuttosto lontano, ma la sabbia

sollevata dai rotori gli pungeva la pelle e picchiettava sulla motocicletta. La polvere vorticò in un enorme turbine che oscurò i velivoli, riducendoli a vaghe sagome nere. Non assomigliano più a uccelli, pensò. Sembravano girini giganteschi con in testa cappellini muniti di elica. La scena era così buffa che gli strappò una risata. Michael non aveva idea del perche´ gli elicotteri fossero atterrati proprio là o di chi ci fosse a bordo. Forse trasportano gli uomini di fratello Cyrus, che sono venuti a spararmi. Ma non aveva più paura. Morire per una pallottola era meglio che morire di sete. I soldati gli avrebbero fatto un favore. Si alzò e strizzò le palpebre, cercando di vedere oltre la nuvola di sabbia. Un tizio smontò da un elicottero e corse verso di lui. In un primo momento, Michael vide solo che era robusto e che aveva in mano un fucile. Poi comparve un altro tipo, più basso ed esile. Non appena i due si avvicinarono, il ragazzo notò che il primo soldato aveva una benda nera sull’occhio, e che il secondo era una donna. Monique Reynolds. «Michael!» esclamò lei gettandogli le braccia al collo.

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Il contatto di Aryeh Goldberg al Pentagono non era ebreo. Era un cattolico irlandese di nome Joe Dowling che lavorava come esperto di telecomunicazioni alla Defense Information Systems Agency. Non nutriva particolare simpatia per Israele ed era diventato una fonte delle agenzie d’intelligence del Paese non per motivi ideologici, ma semplicemente perche´ riteneva che il dipartimento della Difesa statunitense lo pagasse troppo poco, così arrotondava vendendo le informazioni che raccoglieva dalle reti di comunicazione del Pentagono, di solito notizie sugli schieramenti di truppe americane in Medio Oriente. Aryeh lo disprezzava, ma le sue soffiate erano sempre affidabili. «Ho un lavoro per te che deve essere sbrigato il prima possibile», gli disse attraverso il telefono satellitare fornito dallo Shin Bet, dotato di una cifratura sufficiente per scoraggiare chiunque avesse origliato la conversazione senza essere in possesso di un computer quantistico. «Nessun problema. Ma addebito un extra per l’urgenza. Lo sai, vero?» replicò Dowling. «Sì, conosco le tue tariffe. Troverai le istruzioni al solito posto.» Aryeh aveva già inviato l’ordine a un collega del Mossad a Washington, che aveva lasciato il pacchetto nel nascondiglio dove Dowling riceveva gli incarichi clandestini. L’involucro conteneva informazioni sulla chiamata del DRSN dal Turkmenistan in California, comprese la probabile durata della conversazione e le posizioni approssimative del mittente e del destinatario. Quei dati avrebbero consentito a Dowling di rintracciare la telefonata e d’identificare i codici personali usati per accedere alla rete. «In realtà si tratta di un lavoro semplice. Stiamo solo cercando il nome della persona che ha fatto la chiamata.» «Ehi, sono bravo coi nomi. Quando arrivano i soldi?» Aryeh riflette´. Non aveva chiesto l’autorizzazione allo Shin Bet. Non poteva rivelare i propri sospetti ai suoi superiori perche´ uno di loro avrebbe potuto essere una spia dei Qliphoth, ma era sicuro che, una volta sbrogliata la matassa e denunciati i traditori, lo Shin Bet avrebbe approvato la spesa retroattivamente. «Domani, al solito posto. Ma solo se sei veloce.» «Non preoccuparti. Ti richiamo tra un’ora.» David la riconobbe, naturalmente. Ogni storico della fisica del XXI secolo aveva studiato Little Boy, la bomba da quindici chilotoni che aveva distrutto Hiroshima. Era il modello di arma nucleare più semplice possibile: bastava infilare un blocco di uranio in un tubo lungo tre metri e spingerlo contro un secondo blocco posizionato sul fondo. Little Boy era più rozza e meno efficiente dei congegni costruiti in seguito, ma era infallibile, al punto che i ricercatori del Progetto Manhattan non si erano neppure presi il disturbo di testarla. Sapevano senza ombra di dubbio che avrebbe funzionato. Non appena David la vide, iniziò a urlare. Strattonò le corde che lo legavano alla panca e gridò: «Bomba! Bomba! Bomba!» come aveva fatto Lucille quando aveva

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visto il C-4 nel deposito turkmeno. Urlò fino a sgolarsi, e poi insistette ancora, sperando che forse uno dei ranger nell’accampamento sotterraneo s’incuriosisse o si allarmasse. Ma il bavaglio gli attutiva la voce e rendeva incomprensibili le sue parole, perciò nessuno si precipitò nella tenda. Fratello Cyrus si avvicinò lentamente. La sciarpa gli copriva tutto il volto, solo gli occhi erano visibili attraverso una stretta fessura nel tessuto nero. L’uomo lo guardò. «Fa’ pure, urla pure, se vuoi, non mi dà fastidio. E non darà fastidio a nessun altro nel campo: i ranger credono che tu abbia ucciso il colonnello Ramsey, e lui era un uomo molto amato. Credono pure che io sia qui per interrogarti, perciò si aspettano di sentirti gridare.» La voce non era crudele, bensì calma e ragionevole, se non addirittura comprensiva. L’uomo stava semplicemente esponendo i fatti. «E forse ti fa bene sfogarti un po’. Forse hai bisogno di purificare il tuo spirito. Di liberarti della rabbia e della paura e di pensare solo al Signore. Ora possiamo trarre una gioia speciale dal rivolgerci a Dio, perche´ queste sono le ultime ore di vita di questo mondo corrotto. Molto presto il Suo amore inonderà l’universo.» Allargò le braccia come se volesse benedirlo. «E tu, David, dovresti essere il più felice. La redenzione è opera tanto mia quanto tua. Il Signore ti ha affidato questo compito e tu l’hai svolto bene. Ecco perche´ ti ho fatto portare qui, per ringraziarti e gioire con te!» David scosse la testa. Chi diavolo era quel tizio? Era esasperante ascoltarlo senza potergli rispondere. Lui avrebbe voluto prenderlo per il collo, sbattergli la faccia sul tubo e domandargli: Gesù Cristo, che cazzo stai facendo? Ma, con le mani legate e la bocca imbavagliata, poteva solo scuotere il capo e sgolarsi. «Rifletti per un istante, David. Due anni fa, quando hai scoperto la teoria unificata di Einstein, ci hai permesso d’intravedere per la prima volta il piano di Dio. So che hai cercato di nascondere la teoria ma, mentre tornavi a New York e riprendevi il tuo lavoro alla Columbia University, le agenzie d’intelligence di tutto il mondo hanno iniziato a indagare sull’accaduto. Mi sarebbe piaciuto parlarti allora, solo che tu e la tua famiglia eravate sotto la sorveglianza dell’FBI, così ho cominciato a svolgere qualche ricerca da solo. Conoscevo alcuni scienziati che potevano aiutarmi a comprendere i rapporti dei servizi segreti. E sapevo che prima o poi il Signore sarebbe intervenuto.» Allungò le mani, come se si preparasse ad accettare un dono. «E l’ha fatto. Nel giro di un anno abbiamo messo insieme metà delle equazioni della teoria. In più, i miei scienziati hanno scoperto che le formule facevano parte di un programma universale in funzione dai tempi del Big Bang, un programma di cui sono riusciti a ricostruire la maggior parte dei comandi. E mi sono accorto – sia lode a Dio! – che aveva un punto debole. Il Signore mi ha mostrato il difetto e mi ha detto cosa fare.» Fratello Cyrus si sedette sulla panca, proprio accanto alla testa di David. Si chinò lentamente, come se gli facessero malele articolazioni. Non era giovane, doveva aver superato la sessantina. Un bel pugno nello stomaco sarebbe bastato per neutralizzarlo. David cercò di allentare la fune, ma ormai aveva le mani indolenzite. «La fase succesiva è stata procurarmi gli strumenti di cui avevo bisogno, ma l’Onnipotente aveva pensato anche a questo. Sapevo che avremmo potuto usare Excalibur per sfuttare il punto debole del programma perche´, da giovane, avevo

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partecipato al progetto della sera raggi X al Livermore, così com’ero convinto che avremmo potuto rubare l’uranio da un reattore in Kazakistan; ero pure certo che gli iraniani ci avrebbero permesso di testare Excalibur nel sito del Kavir, se avessimo dato loro un po’ di combustibile nucleare. Dopo che Michael Gupta si è unito al nostro gruppo e ha riempito le lacune nel codice, siamo riusciti a stabilire come regolare correttamente il laser russo di cui ci eravamo impossessati. Michael ci ha mostrato non solo come sovraccaricare il programma difettoso, ma anche come ricreare l’universo secondo il volere di Dio, un Regno dei Cieli perfetto e atemporale, in cui tutti risorgeremo e vivremo nella pace eterna. Anche tu hai contribuito, David. La nostra operazione aveva due incognite – Jacob Steele e Olam ben Z’man – e tu ci hai aiutati a eliminarle.» Cyrus gli posò la mano sulla spalla. Quel gesto sorprese e disgustò David, che si contorse così violentemente che avrebbe ribaltato la panca, se Cyrus non vi fosse stato seduto sopra. L’altro ritrasse la mano, ma rimase chino su di lui, riducendo quasi la voce a un sussurro. «C’era un ultimo ostacolo. Per scatenare il sovraccarico della memoria, dovevamo intensificare i fasci laser, e l’unico modo era far esplodere un’arma più potente. Ci occorrevano almeno cinquecento chilotoni, più di quanti possa generarne una semplice bomba all’uranio. Una testata termonucleare americana sarebbe servita allo scopo, ma come avremmo potuto far detonare la bomba vicino al laser? A causa del Comprehensive Test Ban Treaty, l’America e la Russia non fanno più test nucleari da anni e, anche se avessimo rubato una testata, non saremmo stati in grado di farla detonare: solo il presidente conosce i codici necessari a sbloccare le chiavi elettroniche che permettono il collegamento dei detonatori con le cariche. Così avevamo un problema, un grave problema che minacciava di vanificare tutti i nostri sforzi.» Cyrus si alzò e tornò al tubo. Voltando le spalle a David, allargò le braccia verso l’arma, come se volesse benedirla. «Ma il Signore è intervenuto nuovamente. Mi ha parlato nei miei pensieri, dov’è sempre presente. Sapevo di dover costringere l’America a usare una delle sue armi nucleari, e sapevo che il presidente aveva promesso di non farlo mai, a meno che un altro Paese non avesse sferrato un attacco nucleare per primo. Dunque l’unica

possibilità era accontentarlo. Little Boy esploderà alle due di oggi pomeriggio, distruggendo questo accampamento. E, poiche´ l’uranio di questo dispositivo viene dalla medesima riservadi U-235cheabbiamo dato agli iraniani, i resti dell’esplosione avranno le stesse marcature radioisotopiche di quelli del test nel Kavir. La CIA manderà subito i suoi drone da ricognizione – i suoi aerei senza pilota – per indagare sulla catastrofe nucleare e, quando analizzerà i residui della ricaduta radioattiva, concluderà che si è trattato di un’altra bomba iraniana. Il che è perfettamente logico, non credi? È piuttosto ovvio pensare che la Guardia rivoluzionaria usi una delle sue armi nucleari per eliminare il battaglione di ranger pronto ad attaccarla.» David chiuse gli occhi, sopraffatto dall’orrore. L’esplosione nucleare avrebbe fatto crollare la caverna, i soldati americani sarebbero rimasti schiacciati sotto tonnellate di roccia e, per tutta risposta, gli Stati Uniti avrebbero sferrato un attacco nucleare. «Il bersaglio della ritorsione americana sarà una caverna molto simile a questa, vicino alla città iraniana di

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A¯ shkha¯neh, dove la Guardia rivoluzionaria custodisce il resto dell’U-235 che le abbiamo fornito. L’aeronautica statunitense manderà un caccia B-2 a sganciare la sua principale arma sfonda-bunker, una testata nucleare B83 modificata. La bomba è attaccata a un sistema di guida preciso ed è progettata per raggiungere una profondità di sei metri prima di esplodere. E ha una potenza di milleduecento chilotoni, più che sufficiente per i nostri scopi. Conosciamo le coordinate del bersaglio e, tra qualche minuto, i Veri credenti e io andremo ad Ashkhaneh col laser a raggi X. Posizioneremo il dispositivo in corrispondenza dell’obiettivo, cosicche´ le aste laser siano vicine alla testata al momento della detonazione...» Cyrus continuò a blaterare con la sua voce calma e ragionevole. Pareva che recitasse la lista della spesa anziche´ i preparativi per la fine del mondo. David tenne gli occhi chiusi, troppo inorridito per guardarlo. Gesù, come diavolo ha fatto a reperire tutte queste informazioni top secret? Come faceva Cyrus a sapere tutte quelle cose sulle testate e sui bersagli dell’aeronautica? Non poteva aver scoperto tutto tramite il generale McNair. David non riusciva a capacitarsene. Frustrato, smise di pensare e cominciò a sbattere la nuca contro la panca. Era l’unica reazione sensata. Cyrus gli posò una mano sulla fronte e s’inginocchiò di fronte a lui. «Ti capisco, David. Anch’io ho provato questo dolore. Anch’io sono stato prigioniero, un tempo, sulle montagne dell’HinduKush. Ero andato in Afghanistan per testare sul campo un nuovo drone da ricognizione. Un plotone della fanteria mi stava scortando a una base aerea vicino a Jalalabad, quando i talebani ci hanno teso un’imboscata.» Abbassò la testa e fissò il pavimento. «I soldati di Satana mi hanno catturato e mi hanno portato in una grotta sotto il monte Gazanak. Poi sono iniziati gli interrogatori. Gli uomini di Satana hanno fatto a turno, torturandomi e mutilandomi. Infine, tre giorni dopo, sono stato salvato. Il mio vecchio amico Sam McNair guidava la squadra delle Special Forces che ha fatto irruzione nel nascondiglio e ha ucciso i miei aguzzini. Ma il Signore mi aveva già salvato, David. Ho visto il Suo volto benedetto per la prima volta su quella montagna. E ora può accadere lo stesso a te. Devi solo rivolgerti a Lui.» David cercò di

scrollarsi via dalla fronte la mano di Cyrus, ma quello lo tenne giù con decisione. Poi, con l’altra mano, iniziò a togliersi la sciarpa. «Voglio mostrarti una cosa. Una volta vivevo nel peccato. Ero un uomo superbo e arrogante nella mia corruzione. Dimoro ancora nel corpo di quell’uomo e dico empietà con la sua lingua. E ho ancora il suo viso orrendo. Ho sopportato questo fardello per gli ultimi sette anni mentre nascondevo il mio vero io e la mia conoscenza del Signore. Ma tra qualche ora me ne libererò, mi sbarazzerò di questa carne mutilata e renderò la mia anima al Cielo, dove i miei pensieri riposeranno in eterno con Dio.» Si tolse l’ultima strisciadi tessuto dalla faccia e la sciarpacadde a terra. «Prega con me ora, David. Mostriamo il nostro vero io al Signore.» David lo fissò. Il volto di fratello Cyrus era squadrato e pallido, con le labbra sottili, gli occhi grigi e la fronte sormontata da radi capelli bianchi. E non era orrendo ne´ sfigurato. Era liscio e perfettamente normale, il viso di un sessantenne dai modi garbati. Cyrus sorrise. «Mi hai già visto, vero?» Era vero. David l’aveva già visto. Joe Dowling richiamò dopo cinquantotto minuti.

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«Aryeh? Ho l’informazione che volevi. La metto in un pacchetto e la lascio nel solito posto.» Aryeh strinse il telefono. Non poteva aspettare. «No, dimmelo subito. Dimmi il nome.» «Al telefono? Sei sicuro...» «Sì, al telefono! Vuoi essere pagato oppure no?» Ci fuuna pausa. «Okay,d’accordo. Il codice di accesso alla rete usato dal contatto in Turkmenistan è di un amministratore della DARPA, Adam Cyrus Bennett.»

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Michael piangeva, ma senza lacrime. Monique gli porse una borraccia e gli fece bere un piccolo sorso, poi lo aiutò ad alzarsi e lo condusse verso uno dei due elicotteri. A metà strada, le ginocchia gli cedettero e rischiò di cadere, ma il soldato robusto con la benda sull’occhio lo afferrò per il braccio. Era uno degli uomini più muscolosi che Michael avesse mai visto e puzzava terribilmente, come una vecchia scarpa da tennis. «Shalom! Mi chiamo Olam», tuonò il soldato. La sua voce stentorea non infastidì il ragazzo. Era sempre meglio che ascoltare il battito del proprio cuore. Quando raggiunsero l’elicottero, due soldati lo presero per i gomiti e lo aiutarono a salire, per poi guidarlo verso un sedile sul lato sinistro dell’abitacolo. Avevano un aspetto curioso – con lunghe barbe arruffate, uniformi nere e zucchetti fatti a maglia –, però Michael non vi badò. Non era mai stato a bordo di un elicottero ed era impaziente di guardarsi intorno; soprattutto voleva andare a vedere la cabina di pilotaggio, ma Monique glielo impedì. Prese posto accanto a lui e gli fece bere un altro sorso d’acqua. Poi lo abbracciò. «Oh, Michael! Grazie a Dio! Grazie a Dio!» Se fosse stato qualcun altro, lui avrebbe urlato di certo. Ma, per qualche ragione, il tocco di Monique era diverso – non ripugnante ne´ fastidioso –, simile a quello di sua madre. Michael non ne era entusiasta, però lo tollerava. «Per quanto tempo sei stato nel deserto? E come sei arrivato qui? Che cosa ci facevi con quella motocicletta?» chiese Monique. Michael non rispose. Non aveva voglia di parlare di Tamara ne´ di come si era procurato l’Ural. Bevve un altro sorso dalla borraccia. Lei si ritrasse e lo guardò. Poi annuì. «Va tutto bene, Michael. Sono solo contenta di averti trovato.» «Già,è un miracolo!» Olam era in piedi accanto al sedile, con la testa piegata, per non sbatterla contro il soffitto. «Come una storia della Bibbia, vero? Il pozzo nel deserto! Il Dio di Abramo ci ha sottoposti a una dura prova, tuttavia non ci ha abbandonati.» A Michael venne in mente una cosa. Si guardò intorno, contando le persone nell’abitacolo. «Dov’è David Swift? È sull’altro elicottero?» Monique chinò il capo. Aveva le guance rigate di lacrime. Olam le diede un colpetto al braccio. «Non si preoccupi. È vivo.» Quindi si rivolse a Michael. «David è stato con noi fino a otto ore fa, quando siamo caduti in un’imboscata nel canyon di Yangykala. Ho visto quei bastardi che uccidevano l’agente Parker, ma non hanno ammazzato David. L’hanno catturato e l’hanno caricato su una Land Cruiser, poi si sono diretti a sud-est.» Michael osò guardare l’occhio dell’uomo. Era molto grande, come una palla da golf, e l’iride era di un azzurro luminoso. «Questo elicottero è tuo?» La risata di Olam echeggiò nello spazio angusto. «Ora sì! Dopo essere fuggiti dallo Yangykala, abbiamo raggiunto i sei uomini che avevo mandato in ricognizione. Poi l’esercito turkmeno ci ha messo alle costole i

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suoi MI-8.» Michael sapeva cos’era un MI-8, li aveva visti nei videogiochi. Se non fosse stato così intontito, si sarebbe già accorto che l’elicottero su cui viaggiava era di quel tipo. «L’MI-8 è un elicottero russo per il trasporto delle truppe. Si può usare anche in combattimento.» «Sì, l’esercito turkmeno ne ha ereditati alcuni dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Devo essere sincero, non sono molto efficienti. Preferisco volare su uno Yanshuf, la versione israeliana del Black Hawk. In confronto, questo è un macinino.» Olam picchiò il pugno contro la parete. «E questi particolari MI-8 non hanno ne´ razzi ne´ missili sui piloni. Le uniche armi sono le mitragliatrici incorporate...» Michael sorrise. Gli piaceva parlare col soldato. «Ma, se questi elicotteri sono dell’esercito turkmeno, come avete...» «Ah, sì, abbiamo fatto loro uno scherzetto. Quando gli MI-8si sono avvicinati, abbiamo posato le armi e ci siamo arresi. Però, una volta che sono atterrati, abbiamo cambiato idea.» Olam scoppiò in un’altra risata fragorosa, quindi estrasse un foglio dalla tasca della tuta. «Ce l’aveva addosso un pilota. Qualcuno aveva detto loro dov’eravamo, e aveva ordinato di cercare anche te.» Indicò Michael. «Questo foglio dice che ti eri diretto a sud da un villaggio nella provincia di Dasoguz. Ecco come ti abbiamo trovato.» Monique alzò la testa e si asciugò le lacrime. «L’esercito turkmeno collabora coi soldati che ci hanno attaccati. Il responsabile dell’operazione deve aver...» «Si chiama fratello Cyrus. L’ho conosciuto in un campo vicino a Darvaza», la interruppe Michael. Lei lo fissò. «Fratello Cyrus? È il suo vero nome?» «È così che lo chiamano i suoi soldati. Porta una sciarpa intorno alla faccia.» Monique gli sfiorò delicatamente la spalla. «È importante, Michael. Quanti soldati ha?» Lui chiuse gli occhi e cercò di ricordare. «Ho contato un totale di cinquantadue uomini al campo. Venticinque indossavano le mostrine delle SOF. Ho visto anche sette Land Cruiser, sei pick-up

Tundra e quattro furgoni Kamaz.» «Che altro? Fratello Cyrus ha una cosa che si chiama Excalibur? Ha mai citato questo nome, Michael?» Lui le voltò le spalle. Rammentava quella parola. «Ha detto che avrebbe sguainato Excalibur. Ha detto che il codice gli avrebbe mostrato come puntare la spada di Dio verso la parte più debole di questo pianeta allo sbando.» «Che cosa intendeva per ’codice’? Si riferiva forse a un programma?» Michael annuì. Gli bruciavano gli occhi e calde lacrime iniziarono a scorrergli sulle guance. «Ho infranto la promessa. Gli ho rivelato le equazioni.» «Questo programma incorpora le leggi della fisica? E permette di ricreare l’universo?» La voce di Monique era flebile, non più di un sussurro. Lui aveva la vista appannata dalle lacrime e, in breve, il viso di Monique tremolò e svanì. «Mi dispiace! Mi dispiace! È colpa mia! Mi dispiace!» Lei lo tirò ase´ e lo abbracciò ancora. Michael le posò la fronte sul petto, piangendo forte. Fino a quel momento aveva creduto che Monique non l’avrebbe perdonato. Come si poteva perdonare qualcuno per aver ucciso il mondo? Ma, se ce l’avesse avuta con lui, non l’avrebbe abbracciato in quel modo. Il ragazzo rimase immobile per quasi un minuto, mentre Monique gli dava dei colpetti sulla schiena e lo massaggiava con movimenti circolari. Alla fine disse: «Va tutto bene, Michael. Ce la caveremo». Poi si rivolse a Olam. «Dobbiamo contattare gli americani in Afghanistan. Questo elicottero ha una radio, vero?» «E che cosa

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diremo? Che un certo fratello Cyrus vuole distruggere l’universo? Anche se ci credessero, non potrebbero agire abbastanza rapidamente. Prima avvierebbero un’inchiesta, poi invierebbero cablogrammi diplomatici al presidente turkmeno. Infine aspetterebbero la sua risposta.» Scosse la testa. «No, è troppo tardi. Cyrus è pronto a colpire.» «Be’, che cosa possiamo fare? Non sappiamo dove sia!» Olam tirò fuori un altro foglio. «Sappiamo che il convoglio di Land Cruiser si è avviato verso sud-est dal canyon di Yangykala... Potremmo tornare laggiù e cercare di ricostruire il percorso del convoglio.» Monique si chinò sul foglio, imitata da Michael. Era una mappa del Turkmenistan. Il Paese aveva la forma di una scarpa, col tacco e con la suola che premevano sull’Iran e la punta che penetrava in Afghanistan. Nella parte più arcuata della suola, Michael lesse un nome familiare. Lo indicò. «Kuruzhdey», disse. Monique lo guardò. «Hai detto qualcosa, Michael?» «Kuruzhdey», ripete´ lui. «Angel ha detto che i furgoni di fratello Cyrus sarebbero andati lì.» Olam studiò la mappa. Quindi si girò e disse qualcosa in ebraico ai suoi uomini. Due soldati scesero dall’elicottero e corsero verso l’altro MI-8, mentre altri due si precipitarono nella cabina di pilotaggio e iniziarono a girare gliinterruttori sui pannelli dicontrollo. Di lìaqualche secondo, Michael udì il fischio dei motori turboalbero. «Dista duecentocinquanta chilometri. Ci metteremo un’ora», disse Olam entrando nella cabina di pilotaggio.

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Fratello Cyrus decise di lasciare Camp Cobra passando per la «porta di servizio». Nicodemus e gran parte degli altri Veri credenti lo accompagnarono, illuminando con le torce le pareti rocciose del tunnel, mentre una dozzina di uomini rimase a guardia della tenda che ospitava Little Boy, per assicurarsi che nessuno manipolasse il dispositivo nucleare. Probabilmente era una precauzione superflua; i ranger nell’accampamento non sapevano della bomba e il generale McNair aveva dato ordine di stare alla larga dalla tenda, tuttavia Cyrus sapeva che il Signore ricompensava sempre i prudenti. Anche McNair sarebbe rimasto a Camp Cobra, mentre lui e i suoi sarebbero andati in Iran. Il detonatore di Little Boy era programmato per scattare alle due, perciò avevano quasi un’ora per tagliare la corda. Quel sentiero lungo e angusto era molto faticoso per Cyrus, soprattutto per le sue ginocchia indolenzite. Sarebbe stato più comodo passare per l’entrata principale, ma non poteva certo attraversare le lunghe file di tende della camera superiore e le dozzine di aerei parcheggiate davanti all’imboccatura della caverna con la sciarpa sul viso e, se si fosse mostrato a volto scoperto, i ranger avrebbero potuto riconoscerlo. Pur essendo un civile, Adam Cyrus Bennett era un personaggio piuttosto popolare. Aveva iniziato la sua carriera nel 1969 come ricercatore al laboratorio Livermore, dove aveva studiato le testate nucleari e i laser a raggi X. Quando la guerra fredda era

finita, era diventato amministratore della DARPA, con l’incaricodi assegnare le sovvenzioni del dipartimento della Difesa ai ricercatori che sviluppavano nuove tecnologie militari. Per i dodici anni successivi era stato un funzionario pubblico irreprensibile ed era andato spesso in prima linea per testare sul campo le nuove armi e capire le necessità dei soldati. Era stato in una di quelle occasioni – un viaggio nell’Afghanistan orientale nel 2004 – che i talebani avevano teso un’imboscata alla sua scorta militare e l’avevano portato nella grotta sotto il monte Gazanak. Allora Adam Cyrus Bennett aveva visto il volto del Signore e aveva compreso di aver sempre servito il padrone sbagliato. Dopo che le truppe di McNair l’avevano salvato, era stato riportato a Washington e aveva trascorso i tre mesi seguenti al Walter Reed Army Medical Center. I medici avevano detto che si era ripreso magnificamente, soprattutto considerando la gravità delle ferite e, dopo un altro mese di riposo, era tornato nel suo ufficio alla DARPA e aveva ricominciato a rafforzare la superiorità militare americana. A quel punto, tuttavia, non era più Adam Cyrus Bennett. I soldati di Satana avevano estirpato la sua anima corrotta, strappandola fuori del corpo coi tagli che gli avevano inferto sul petto, sulla schiena e tra le gambe. Ma il Signore, nella Sua saggezza infinita, gli aveva donato un nuovo spirito. Così era diventato fratello Cyrus, l’umile servo di Dio. Ormai «Adam Cyrus Bennett» era solo un travestimento, un modo per attuare segretamente i piani del Signore.

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Ed era un ottimo travestimento, perfetto per la sua nuova missione. Il suo ufficio distribuiva ogni anno finanziamenti per cinquecento milioni di dollari, un terzo dei quali veniva dai fondi neri top secret del Pentagono. Poiche´ il dipartimentodella Difesanon aveva l’obbligo di rivelare i dettagli di quegli stanziamenti, era stato facile per Cyrus destinare clandestinamente una notevole quantità di denaro alla redenzione. Aveva usato i fondi neri per ingaggiare esperti che studiassero i rapporti dell’intelligence sulla teoria unificata dei campi e per finanziare le attività clandestine dei Veri credenti – i furgoni e le Land Cruiser, l’accampamento nel deserto turkmeno –, e il furto dell’uranio arricchito dal reattore in Kazakistan. Cyrus aveva utilizzato un’altra parte dei soldi per fondare la Logos Enterprises, la società fittizia che aveva sottratto Excalibur dal Livermore, e aveva speso dieci milioni di dollari per la costruzione del Gruppo Caduceodi Jacob Steele. Quella era stata la parte più difficile dell’operazione. Jacob era andato alla DARPA con la proposta di costruire orologi a ione singolo per dimostrare la natura computazionale dello spazio-tempo. Cyrus aveva intuito immediatamente l’utilità di un simile strumento per la sua causa: misurando le fugaci interruzioni temporali provocate dal test di Excalibur in Iran, il Gruppo Caduceo avrebbe indicato se il laser fosse veramente in grado di dare il via alla redenzione. Tenendo nascosto il suo vero scopo, Cyrus aveva permesso a Jacob di dirottare la sovvenzione della DARPA verso l’esperimento. Dopo il test nucleare iraniano, i suoi uomini erano andati nel laboratorio di Jacob e avevano scaricato i dati sulle interruzioni, quindi avevano fatto saltare in aria la struttura per distruggere le prove. Ma anche Steele aveva un segreto: si era rifiutato sin dall’inizio di rivelare il nome del suo collaboratore israeliano. Alla fine Cyrus aveva mandato un Vero credente a estorcergli quell’informazione, tuttavia Jacob non aveva ceduto nemmeno quando Lukas gli aveva puntato una 9 millimetri alla testa. Fortunatamente Cyrus aveva alcuni indizi sull’identità dell’israeliano, e li aveva riferiti a Lucille Parker quando si era recata al laboratorio per indagare sull’esplosione. Cyrus sapeva che sarebbe riuscita a rintracciare il misterioso Olam ben Z’man e, quando Lucille l’aveva trovato, lui aveva organizzato l’imboscata nel canyon di Yangykala per eliminare la minaccia. Ripensando all’accaduto, non pote´ fare a meno di meravigliarsi del proprio successo. Tuttavia non era orgoglioso di se stesso; il merito era solo del Signore, che gli aveva dato tanti seguaci devoti. Il generale McNair era stato il primo, e ben presto Cyrus aveva trovato altre persone che odiavano quel mondo corrotto e aspettavano il Regno di Dio. Lui e McNair avevano concentrato gli sforzi sui loro colleghi al dipartimento della Difesa, reclutando altri due generali e diverse dozzine di soldati di grado inferiore. Quei Veri credenti conoscevano fin troppo bene la corruzione del mondo, avendola vista coi loro occhi in Iraq e in Afghanistan. Le loro anime erano state lacerate dalla guerra e dalle sue atrocità. Prima d’incontrare Cyrus, molti soldati avevano pensato di suicidarsi. Ma, una volta capito che lui avrebbe potuto cancellare il male e aprire le porte del paradiso – il vero paradiso, non una fantasia infantile –, avevano preso un impegno col Signore. Allo stesso tempo, Cyrus aveva costituito una rete d’informatori pagati e, usando i fondi della DARPA, li aveva infiltrati nelle

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agenzie governative degli Stati Uniti e d’Israele. Oltre a fornirgli informazioni preziose, quegli uomini l’avevano aiutato a nascondere l’operazione ai burocrati e agli ispettori federali. L’unica difficoltà, aveva scoperto, era di natura personale: man mano che il suo lavoro dava dei frutti, lui diventava sempre più impaziente. Era così ansioso di entrare nel Regno dei Cieli che aveva cominciato a odiare la sua vecchia vita e il suo corpo ripugnante. Ogni volta che si guardava allo specchio, ricordava il libro di Giosuè, capitolo 7, versetto 13: Uno votato allo sterminio è in mezzo a te. Aveva iniziato a portare una sciarpa intorno al viso quand’era coi Veri credenti, e presto il suo disprezzo verso se stesso era diventato così profondo che aveva preso l’abitudine d’indossarla anche quand’era solo. La corruzione dell’universo era scritta sul suo volto e lui voleva liberarsene. Dopo essersi arrampicato faticosamente per diversi minuti, intravide l’imboccatura del tunnel. Nicodemus e altri soldati corsero avanti imbracciando i fucili, nell’eventualità in cui ci fossero dei nemici all’esterno. Non appena i Veri credenti ebbero messo in sicurezza l’area, Cyrus uscì alla luce del sole. I raggi gli riscaldarono la sciarpa, che si era riavvolto intorno alla testa dopo aver pregato con David Swift. Guardò la montagna da cui era sbucato e pensò ai novecentosessanta uomini nella caverna, ignari di ciò che li aspettava. Gli si riempirono gliocchidi lacrime. Tutti quei giovani magnifici, così tenaci e ottimisti! Li immaginò mentre lo guardavano come se fosse il loro padre, e lui – che non aveva figli – fu sopraffatto dall’amore. Avrebbe voluto prenderli in disparte e gioire nello stupore del loro sacrificio. Con un gesto grandioso avrebbero cancellato tutti i loro peccati. La luce dell’amore di Dio avrebbe brillato nella grotta, e un tuono sarebbe echeggiato nelle viscere della Terra. I servi di Satana in America, in Russia e in Cina avrebbero scorto il lampo e udito il boato, ma non avrebbero riconosciuto la mano di Dio. Immersi nell’oscurità, i leader di quel mondo corrotto avrebbero visto solo la morte. Il presidente, il più potente di tutti, avrebbe reagito scagliando altra morte contro i suoi nemici. Ma la sua testata nucleare avrebbe colpito Excalibur, la poderosa spada di Dio, sepolta ai piedi di un monte iraniano. Ed Excalibur avrebbe fatto risorgere l’universo, trasformando la morte in vita eterna. Cyrus e i Veri credenti svoltarono a sinistra, incamminandosi verso il vasto altopiano davanti all’entrata principale. Ben presto furono abbastanza vicini da vedere i due CV-22 Osprey che erano stati portati fuori della caverna. I soldati di McNair avevano aperto le ali degli aerei e ruotato i rotori basculanti nella posizione verticale di decollo. Secondo i piani originali dell’operazione Cobra, i velivoli avrebbero dovuto guidare l’assalto dei ranger all’impianto nucleare iraniano di Ashkhaneh, ma l’attacco non si sarebbe mai verificato, ovviamente. Sarebbe dovuto iniziare dopo l’imbrunire, mentre Little Boy sarebbe esplosa di lì a cinquantadue minuti. I soldati che avevano rifornito e preparato gli Osprey erano già tornati nella grotta: Cyrus non aveva bisogno che gli aviatori delle Special Forces guidassero gli aerei, aveva i suoi piloti e i suoi navigatori. Tuttavia si avvicinò un uomo solitario, un tipo alto e magro in uniforme da combattimento, con tre stelle nere disposte in una fila verticale sotto il colletto: il tenente generale Sam McNair.

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«Sono venuto a salutarti, fratello. E ad augurarti buona fortuna», disse. Sembrava molto più allegro dell’ultima volta che avevano parlato. Non deve più preoccuparsi, pensò Cyrus. Anche se i suoi superiori al SOC avessero scoperto cosa stava facendo, ormai non avrebbero fatto in tempo a fermarlo. «Grazie per aver approntato gli aerei. Come hai spiegato la situazione ai tuoi soldati?» «Ho detto loro che l’operazione Cobra è stata annullata perche´ gli iraniani hanno accettato di consegnare le armi nucleari. È una menzogna assurda, ma gli uomini l’hanno bevuta.» McNair indicò gli Osprey. «Credono che gli aerei trasporteranno una delegazione speciale all’impianto di Ashkhaneh per supervisionare la distruzione dei dispositivi nucleari. Ancora una volta, non è una storia molto credibile, ma servirà a farci guadagnare un altro po’ di tempo.» «E che cosa succederà quando il radar di bordo del Pentagono rileverà gli Osprey mentre entrano in Iran? Hai considerato questa eventualità?» «Sì, fratello. Ho chiuso tutte le comunicazioni in entrata e in uscita dalla caverna. Ho detto agli uomini che dobbiamo restare dentro e mantenere il silenzio radio per la prossima ora.» Cyrus annuì, soddisfatto. McNair aveva fatto un buon lavoro. Non solo si era occupato dei preparativi a Camp Cobra, ma l’aveva anche aiutato a organizzare l’ultima fase del viaggio, mettendo a sua disposizione gli Osprey, grazie ai quali Cyrus sarebbe riuscito a trasportare il laser e i Veri credenti ad Ashkhaneh. Nemmeno superare il confine sarebbe stato un problema, perche´ gli iraniani li aspettavano. Cyrus, infatti, aveva promesso alla Guardia rivoluzionaria un’altra spedizione di U-235. E il volo avrebbe richiesto meno di mezz’ora, perciò avrebbero raggiunto l’impianto nucleare iraniano poco prima che Little Boy esplodesse. È un piano perfetto, pensò. Come aveva promesso il Signore. «Allora non c’è altro da fare se non dirci addio.» Cyrus posò una mano sulla fronte di McNair. «Il Signore è lieto del tuo sacrificio, Samuel. E ci assicureremo che il tuo sonno duri solo qualche ora. L’aeronautica reagirà rapidamente, non appena calerà l’oscurità. E poi tu e io entreremo insieme nel Regno di Dio.» Anziche´ piegare il capo per ricevere l’ultima benedizione, il generale lo guardò negli occhi. «Fratello, ancora una domanda. Hai eliminato David Swift?» «No, l’ho lasciato nella camera inferiore della grotta. Ben sorvegliato, naturalmente. Tra cinquanta minuti compirà lo stesso sacrificio tuo e dei tuoi uomini. Speriamo che negli ultimi momenti veda il Signore e capisca i propri errori.» McNair corrugò la fronte. «Swift è un infedele. Non merita di essere con noi alla fine.» «Anche gli infedeli servono Dio. E presto saremo insieme nel Regno dei Cieli. Perciò siamo generosi.» Cyrus mantenne lo sguardo fisso su McNair, per rendere più incisive le proprie parole. Poi gli prese la testa e gli diede l’ultima benedizione, recitando velocemente la formula in latino. Aveva ancora molte cose da fare ed era ansioso di partire. Doveva disabilitare i transponditori degli Osprey e inviare una trasmissione radio agli iraniani. Una volta arrivato ad Ashkhaneh, avrebbe dovuto collocare il laser in corrispondenza delle coordinate dell’obiettivo. Lasciò McNair e si avviò coi suoi uomini verso gli Osprey. Erano velivoli curiosi, di tipo ibrido: le ali erano identiche a quelle degli aerei, ma a ogni estremità c’era un enorme rotore a tre pale attaccato a un motore a turboelica. Quando i rotori erano puntati verso l’alto, gli Osprey potevano decollare come elicotteri ma, una volta in

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aria, i rotori s’inclinavano in avanti e funzionavano come eliche. Mentre fratello Cyrus osservava quegli aggeggi sgraziati, un gruppo di Veri credenti si avvicinò a uno dei due aerei, trasportando il laser russo come se fosse un pesante feretro. Il portellone sul retro dell’Osprey si aprì e i soldati infilarono il dispositivo nella fusoliera. Poi le turboeliche si accesero e i rotori cominciarono a girare, con le pale nere che fendevano il cielo.

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La voce lenta e pacata del generale Yaron, il comandante dell’Unità 8200, risuonò all’altro capo del telefono: «Mi dispiace, Aryeh. Ho trasmesso le informazioni allo stato maggiore delle IDF, ma è l’unica cosa che posso fare». Aryeh conosceva Yaron da molto tempo – una volta lavoravano insieme nell’unità di crittoanalisi dell’esercito –, eppure non si era mai reso conto di quanto detestasse la sua voce. In America, Yaron sarebbe stato considerato un tipo freddo, ma per un israeliano era un autentico iceberg. «Non ci credo!» sbottò. «Non capiscono quanto sia pericolosa la situazione? Questo Bennett collabora con gli iraniani! Lo stato maggiore non ha letto i messaggi che abbiamo decifrato?» «Sì. Ma le prove sono indiziarie.» «Indiziarie? I messaggi sono chiari come il sole! Bennett ha rubato Excalibur dal laboratorio Livermore e l’ha installato nel sito del Kavir poco prima del test nucleare! E ora è in Turkmenistan, e Dio solo sa quale potrebbe essere la sua prossima mossa!» Aryeh sapeva di aver perso il controllo, ma non era riuscito a trattenersi. In fondo, il suo tono concitato compensava l’indifferenza di Yaron. «Le IDF non potrebbero almeno informare gli americani che un funzionario del Pentagono è impazzito?» Ci fu una pausa. Quella era un’altra abitudine esasperante di Yaron: rifletteva sempre prima di parlare. «Lo stato maggiore ha già contattato i suoi ufficiali di collegamento nel dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.» «E che cos’hanno detto gli americani?» Un altro silenzio snervante. «Niente. Ci hanno semplicemente ringraziati per le informazioni.» «Non si rende conto di cosa sta succedendo? Bennett ha una maledetta confraternita di spie. Si sono infiltrate nel Pentagono, nell’FBI e persino nello Shin Bet. I suoi amici lo proteggono, capisce? Insabbieranno i suoi piani finche´ non sarà troppo tardi!» Questa volta la pausa durò ben venti secondi: Yaron doveva riflettere con molta attenzione, probabilmente per capire fino a che punto poteva sbottonarsi senza finire nei guai. «C’è un’altra spiegazione possibile», disse il generale alla fine. «Come sai, gli americani hanno tentato d’impedirci di colpire gli impianti nucleari iraniani. Hanno insistito per occuparsi del problema da soli. È possibile che i messaggi decodificati siano legati a questa iniziativa. Sai, il Turkmenistan confina con l’Iran...» Aryeh impiegò qualche istante per comprendere cosa intendesse. «Crede che gli americani stiano programmando un assalto? Che vogliano attaccare l’Iran dal Turkmenistan?» «Sono solo congetture. Non ho le prove.» «Questo rende la situazione ancora più pericolosa! Bennett è fuori di testa, ma la teoria scientifica che...» «Aryeh, mi dispiace, devo salutarti. Ti consiglio di continuare a lavorare sulle intercettazioni. Se scopri altre informazioni rilevanti, fammelo sapere.» Poi cadde la linea. Nell’oscurità, David urlava nonostante il bavaglio. Aveva ancora le braccia e le caviglie legate, e una terza corda lo assicurava a un chiodo conficcato nel terreno. Mezz’ora prima, Cyrus aveva ordinato ai suoi uomini di spostarlo dalla grande tenda

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che ospitava Little Boy a quella più piccola e buia. Non sapeva esattamente che ora fosse, ma supponeva che fossero quasi le due. Dunque la bomba sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro. Poi i lembi della tenda si aprirono ed entrarono due ranger. David non credeva ai suoi occhi – finalmente aveva attirato l’attenzione di qualcuno! – e gridò ancora più forte, ripetendo: «Bomba! Bomba! Bomba!» anche se le sue parole risultavano incomprensibili. Ma le sue speranze si spensero quando guardò meglio i soldati: uno era il sergente Morrison; l’altro era un uomo più vecchio, alto e magro, con tre piccole stelle sotto il colletto dell’uniforme e il nome MCNAIR appuntato al petto. Era il complice di fratello Cyrus, rammentò, il generale a capo dell’accampamento, che lo guardava con odio palese. Morrison indicò David. «È lui, signore, è questo il figlio di puttana che ha ucciso il colonnello Ramsey.» McNair annuì. «Non sembra iraniano, vero? E neppure turkmeno.» «Ho sentito dire che è americano, signore. Un maledetto traditore.» David scosse la testa. McNair sapeva esattamente chi era, eppure fingeva di non conoscerlo, proprio come fingeva di non sapere del dispositivo nucleare al centro del campo. David provò un senso di nausea: McNair intendeva sacrificare isuoi soldati. Li aveva condannati a morte senza nessuna esitazione. Il generale grugnì: «Be’, chiunque sia capisce l’inglese. Lo tiri su, sergente». Morrison estrasse un coltello e tagliò la corda che legava David al pavimento, ma non recise le funi intorno alle caviglie e ai polsi e, peggio ancora, non gli tolse il bavaglio. Poi lui e McNair lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono fuori. I riflettori illuminavano a giorno la camera inferiore della caverna. David strizzò le palpebre, accecato. Davanti alla tenda c’erano altri due ranger, che si misero sull’attenti. «Signore!» gridò uno di loro. «Vuole che trasferiamo il prigioniero? Possiamo...» «Riposo, voglio solo fare quattro chiacchiere con lui. Non ha risposto ad alcune domande durante l’ultimo interrogatorio, dunque ho pensato di riprovare», replicò McNair. I soldati assentirono, lanciando un’occhiataccia a David. «Serve aiuto, signore? Mi piacerebbe fare qualche domanda a questo bastardo», si offrì uno dei due. «No, grazie. Possiamo occuparcene il sergente Morrison e io.» Mentre avanzavano verso il lago sotterraneo, David scorse la tenda che conteneva Little Boy, circondata da una dozzina di soldati, tutti armati di fucili da assalto. Urlò: «Laggiù! Laggiù! Laggiù!» ma McNair e Morrison lo trascinarono dall’altra parte. Ben presto raggiunsero la riva del lago. Là il tanfo di uova marce era più forte; l’acqua verdastra lambiva la sporgenza di calcare grigio, mentre colonne di bolle salivano in superficie. Vicino al soffitto, i pipistrelli volavano verso le grotte sull’altra sponda. Morrison e McNair camminavano sul bordo, tenendosi lontani dalle tende e dai riflettori, finche´ non raggiunsero una pozza poco profonda. Benche´ quel piccolo bacino fosse collegato a quello principale da uno stretto canale, l’acqua era più spumeggiante e di un verde più vivace. David s’inquietò: quella vista gli ricordò le sorgenti calde dello Yellowstone Park, che aveva visitato anni prima. McNair e Morrison lo buttarono sulla riva fangosa.

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«Noi la chiamiamo ’vasca acida’», disse il generale indicando l’acqua. «Quando ci siamo accampati in questa caverna, qualche giorno fa, alcuni dei nostri ragazzi hanno deciso di andare a nuotare, ma si sono accorti che, se ci si avvicina troppo a questa pozza, la pelle inizia a bruciare. Guarda, ti faccio vedere.» Fece un passo avanti e immerse la punta dello stivale. Si udì un sibilo, mentre un mare di bolle si formava sul cuoio marrone chiaro. A David tornò in mente un dettaglio della sua visita allo Yellowstone: quando si era seduto su un masso accanto a una sorgente, l’umidità gli aveva aperto un foro nei pantaloni. La pozza conteneva alte concentrazioni di acido solforico, che si formava nell’acqua quando il solfuro d’idrogeno si combinava con l’ossigeno. McNair gli sorrise, poi si rivolse a Morrison. «Sergente, per favore, indietreggi di venti passi. Voglio parlare a tu per tu col prigioniero.» L’altro sembrò a disagio. «Signore, è sicuro di...» «Conosce il mio motto, sergente: mai lasciare indietro nessuno. Quest’uomo ha ucciso il colonnello Ramsey, e ora mi dirà dove ha abbandonato il corpo. In un modo o nell’altro, lo farò cantare. Perciò,perfavore,si allontani.» Morrison obbedì con riluttanza. McNair aspettò che fosse fuori portata d’orecchio, poi si chinò su David e lo prese per la camicia. «Come forse avrai intuito, in realtà non m’importa niente di Ramsey. È stato fratello Cyrus a ordinare la sua esecuzione, e so esattamente dove si trovano le sue ossa.» Poi lo trascinò verso la pozza e gli tenne la testa e le spalle sopra la superficie dell’acqua. «Ramsey è stato giustiziato al cratere. Una morte molto dolorosa, ma almeno è stata rapida. La tua sarà un po’ più lenta. Abbiamo venticinque minuti prima del sacrificio.» Lo immerse nella pozza, abbassandolo delicatamente, come se lo stesse battezzando. L’acqua gli arrivò solo all’altezza delle orecchie, ma per David fu come se uno sciame d’api gli pungesse il cuoio capelluto. Urlò e tentò di sollevare la testa. Dopo qualche secondo McNair lo tirò fuori e lo gettò nel fango. «Fa male, vero? Ma anche tu ci hai fatto del male. Tu e gli israeliani avete quasi mandato a monte i nostri piani. E quell’idiota di tuo figlio ha corrotto Tamara, una donna che mi stava molto a cuore.» David era steso sulla schiena, stordito dal dolore. Aveva compreso che McNair aveva accennato a Michael, tuttavia era troppo terrorizzato e confuso per cogliere il senso delle sue parole. Il generale si mise le mani sui fianchi. «Non ho mai capito gli infedeli come te. Pensate che sia divertente farsi beffe di Dio? Schernire valori importanti come la fede e il patriottismo? Per te è solo uno scherzo, vero? Qualcosa di cui ridere coi tuoi amici di New York?» David scosse il capo. «Tiè mai venuto in mente che, mentre ci deridevi, i miei uomini rischiavano la vita per proteggerti? Che ti stavi scagliando contro chi combatteva per tenerti al sicuro?» McNair si accovacciò accanto a lui. La sua voce era carica di disprezzo. «No, non te ne importava niente. Perche´ sei un peccatore ingrato. Ma adesso è ora che tu ti faccia perdonare. Voglio che tu chieda scusa, al cospetto di Dio e deimieiuomini. Che tu chiedascusa per la tua lurida esistenza. Altrimenti ritorni nella vasca.» McNair gli tolse il bavaglio.

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David sentì salire l’adrenalina: quella era la sua occasione. Ma quando provò a urlare ancora: «Bomba!» non riuscì a emettere nessun suono. Aveva la mandibola indolenzita e la gola riarsa. «Per favore... Non fare questo... ai tuoi uomini», ansimò. «Risposta sbagliata. Esiste una cosa chiamata ’fede’, David, e io credo nella redenzione.» «C’è ancora tempo... per evacuare la grotta... e disabilitare la...» McNair gli diede un pugno in faccia. David sentì una fitta lancinante allo zigomo destro, poi le orecchie presero a ronzargli e la testa iniziò a pulsare. Il dolore si propagò velocemente alla fronte, mentre un nuovo spasmo gli straziava le dita. Le sue mani, intrappolate fra la schiena e il terreno, sembravano in fiamme. Anche il fango, infatti, conteneva acido solforico. McNair si massaggiò le nocche. «Sei il peccatore più testardo che abbia mai conosciuto. Nemmeno alla fine sei disposto ad ammettere di aver sbagliato.» «Per favore... Per favore, ascolta...» Prima che David potesse aggiungere un’altra parola, McNair lo prese per la camicia e lo rituffò nella pozza. Il professore cercò di tirare fuori la testa dall’acqua ma, non appena le mani e le braccia toccarono la superficie, il dolore lo annientò. Fu come se qualcuno l’avesse buttato nell’acqua bollente. Si agitò disperatamente, gridando: «No, no, basta!» Ma McNair non lo tirò fuori. David doveva aver perso conoscenza per qualche secondo perche´, quando riaprì gli occhi, si ritrovò di nuovo nel fango. Le sue braccia erano scosse da un tremito incontrollabile. Tentò spasmodicamente di toglierle dalla melma, strattonandole così forte che a momenti si spezzava le ossa. Ma poi si accorse di una cosa che gli snebbiò la mente e alleviò il dolore all’istante: la corda intorno ai polsi si era allentata. Ricordò ancora lo Yellowstone e il buco nei pantaloni. Stava accadendo la stessa cosa. L’acido solforico stava bruciando i legacci.

McNair lo afferrò di nuovo per la camicia. «D’accordo, questa è la tua ultima possibilità. Se non apri gli occhi, te li sciolgo nell’acido. Hai capito, Swift? Se la prossima frase che esce dalla tua bocca non è una richiesta di perdono, ti metterò la testa sott’acqua e ti ritroverai due fori sanguinanti al posto degli occhi.» David annuì, continuando a muovere le braccia per spingere le corde più a fondo nel fango. «Okay.

Mi dispiace. Mi dispiace tanto. Per favore, perdonami.» Il generale si chinò finche´ la sua faccia non fu a pochi centimetri da quella di David. «Mi stai prendendo in giro?» Lui scosse la testa. Il dolore era quasi insopportabile, ma le funi si stavano allentando. Ancora un piccolo sforzo. «No, te lo giuro! Per favore, Dio, perdonami!» McNair lo fissò, arricciando il naso con aria disgustata. Poi gli voltò le spalle e chiamò Morrison, che attendeva poco più in là. «Sergente! Il prigioniero si è scusato per le sue azioni. Crede che dovremmo perdonarlo?» Mentre il generale aspettava la risposta, David liberò la mano destra. Il dolore alle dita era insopportabile, ma lui riuscì a raccogliere una manciata di fango e a buttarla in faccia a McNair. L’altro cadde all’indietro, coprendosi gli occhi con le mani. Morrison urlò: «Ehi!» e si mise a correre verso di lui. David aveva ancora le gambe legate, così rotolò come un barile per allontanarsi dalla vasca acida, dirigendosi verso il profondo lago sotterraneo. Quindi ruzzolò nell’acqua e cominciò a nuotare.

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Per la maggior parte del volo, Michael era rimasto accanto a Monique–che era seduta dietro Olam nella cabina di pilotaggio–, ispezionando con curiosità i quadranti e gli interruttori sulla plancia porta strumenti dell’MI-8, ma qualche minuto prima era tornato nell’abitacolo. Rimasta sola, Monique guardò fuori del finestrino, verso il Kopet Dag, che si ergeva come un muro scuro sul bordo meridionale del deserto. Quando l’elicottero si avvicinò, si distinsero i fianchi grigi delle montagne e le creste che s’innalzavano bruscamente dal terreno, così come imassicci speroni che sporgevano di lato, e le frane di roccia che si allargavano a ventaglio lungo i pendii. Infine, quando furono molto vicini, Monique scorse la breccia nel muro, una strada lastricata che si arrampicava dal deserto fino a uno spazio angusto tra due creste. Quello era il valico che conduceva a Kuruzhdey. Con la cloche ben stretta nella destra, Olam girò un interruttore sul pannello superiore con la sinistra. «Interessante. La strada è deserta. E sono quasi le due del pomeriggio. Solitamente c’è almeno qualche auto o qualche camion a quest’ora, no?» Monique guardò giù. L’ebreo aveva ragione, non c’era nemmeno un veicolo. «Che ne pensa? Qualcuno ha chiuso le strade?» «Si direbbe che la zona sia stata evacuata. Il villaggio che abbiamo appena superato era troppo tranquillo.» «Be’, se ora collabora con fratello Cyrus, l’esercito turkmeno potrebbe sgomberare l’area facilmente. Ma perche´ diavolo dovrebbe farlo? Che cosa ci guadagna?» Olam fece spallucce. «Soldi, suppongo. O forse hanno subito delle intimidazioni. I Qliphoth sono molto potenti. Sembra che abbiano amici ovunque.» Monique ricordò la prima conversazione con Olam a Shalhevet, quando li aveva messi in guardia dai Qliphoth. «Diavoli, giusto? È questo il significato della parola ebraica?» «Letteralmente, significa ’involucri’ o ’gusci’. Le Sephirot diffondono la luce di Dio sull’universo, e i Qliphoth la bloccano.» Indicò le montagne e le fitte ombre che le separavano. «Ma la cabala dice pure che i Qliphoth sono parte di Dio. Anche loro servono a uno scopo. Quando rompiamo i Qliphoth, quando spacchiamo i gusci, la luce di Dio splende ancora più forte, giusto?» Monique annuì anche se, in realtà, non aveva capito bene. Non era mai stata molto religiosa, il concetto di Dio le era sempre sembrato superfluo, come l’etere luminifero che, secondo le credenze di un tempo, riempiva l’universo. Lei aveva imparato a farsi strada da sola nella vita, senza l’aiuto di Dio ne ´ di nessun altro. Ma ora il suo ateismo cominciava a vacillare. A quel punto era disposta ad accettare l’aiuto di chiunque. Così, mentre Olam pilotava l’elicottero verso i monti e l’altro M-81 li seguiva a poca distanza, recitò una preghiera silenziosa: Se ci sei davvero, lassù,è giunto il momento che mostri il Tuo volto. Impedisci a quel coglione squilibrato di Cyrus di distruggere il creato. E, Ti prego, salva David. Ti prego, salva David. L’acqua era calda e scura. David aveva ancora i piedi legati, perciò muoveva le gambe come la coda di una sirena e si spingeva avanti con le mani a coppa, cercando

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di fare lunghe bracciate poderose, mentre i suoi muscoli ricordavano i giorni lontani in cui nuotava nella squadra della Stuyvesant High School. Gli avambracci gli bruciavano terribilmente, ma il dolore si attenuò man mano che lui scivolava sott’acqua e metteva un po’ di distanza tra se´ e la pozza. Nel lago, l’acido solforico era così diluito che sott’acqua si riusciva persino a tenere gli occhi aperti, benche´ non si vedesse nulla. David procedeva verso le grotte sull’altra sponda, restando in apnea fino ad avere i polmoni in fiamme, quindi riemerse silenziosamente e trasse un rapido respiro. Poi si rituffò. La seconda volta che tornò su, si ritrovò in una grotta buia, un luogo perfetto dove cercare un nascondiglio. Udì l’acqua che sciabordava contro una parete rocciosa, così si diresse verso il rumore e s’issò sulla riva. Poi rannicchiò le ginocchia per sciogliere la corda intorno alle caviglie. Per fortuna anche quella si era bagnata di acido solforico e, dopo qualche istante, si allentò. Fu allora che il dolore alle braccia tornò, più forte di prima. David era contento di non poter vedere le bruciature, però distingueva perfettamente le lancette fosforescenti dell’orologio, che funzionava ancora. Erano le 13.49. Undici minuti alla detonazione. Udì delle urla sulla sponda opposta, a sessanta metri di distanza. Nella luce dei riflettori, distinse alcuni soldati che correvano verso la vasca acida, dove McNair e Morrison erano ancora accovacciati. Gli uomini si raggrupparono intorno a loro, alcuni impegnati a parlare alla radio. Poi tre uomini si tolsero gli stivali e le uniformi. Vogliono venire a cercarmi. Resta solo da vedere se mi troveranno prima che esploda la bomba, pensò David. Si allontanò dalla parete e prese a nuotare in diagonale, spostandosi verso la tenda dov’era custodita Little Boy. Sapeva che era una follia, sia perche´ la zona pullulava di guardie sia perche´, ora che aveva aggredito il generale McNair, era ancora meno probabile che i soldati lo ascoltassero. Ma non c’era altro da fare. Avanzò il più rapidamente possibile e, nel giro di due minuti, riuscì a distinguere i volti di alcuni uomini che si trovavano di fianco alla tenda. «Ehi! C’è una bomba là dentro! Mi sentite?» gridò. I soldati lo avvistarono. Rimasero immobili per un istante, limitandosi a fissarlo. Poi sei di loro si misero a correre. «No, dovete uscire di qui!» continuò David. «Dobbiamo uscire tutti! C’è una maledetta testata nucleare nella tenda e sta per...» Un proiettile cadde in acqua qualche metro alla sua sinistra. David si allontanò più in fretta che pote´. Gesù,è tutto inutile. I soldati sarebbero morti nell’esplosione, e anche lui. Cyrus aveva pianificato troppo bene l’operazione e ormai era impossibile annullarla. David rimase sott’acqua il più a lungo possibile. Era certo che gli uomini aspettassero che riemergesse per piantargli un proiettile in fronte ma, quando affiorò, non udì nessuno sparo. Invece vide il sergente Morrison nuotare molto velocemente verso di lui. David si tuffò ancora, dirigendosi verso le grotte buie. Rimase in apnea per almeno mezzo minuto, poi decise di risalire, ma sbatte´ violentemente il capo contro qualcosa. Il colpo lo disorientò. Contorcendosi nell’oscurità, sollevò le mani e sentì una scivolosa pietra calcarea. Era entrato in una caverna subacquea. Si girò e cercò

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di uscire, ma finì contro un’altra parete. Aggrappandosi alla roccia, nuotò rasente al muro, finche´ non riprovò a riemergere. Picchiò ancora la testa contro il soffitto. In preda al panico, andò nella direzione opposta: non sarebbe riuscito a trattenere il fiato ancora per molto, aveva i polmoni sul punto di scoppiare. Il suo corpo fu scosso da uno spasmo. Poi finalmente riuscì a uscire dall’acqua. Sputacchiò e respirò. Morrison non c’era, e non c’erano neppure i soldati pronti a sparargli dalla riva. Anzi, non era più nel lago sotterraneo, bensì nella pozza ovale della camera adiacente, quella che aveva visto dopo aver percorso il tunnel con Nicodemus. Doveva aver attraversato un cunicolo sotterraneo che collegava i due bacini. A sinistra, vide il raggio di luce che filtrava dal passaggio circolare tra le due camere. Non c’era nessuno. Raggiunse la sporgenza rocciosa e uscì dall’acqua. Quindi guardò l’orologio, ma il quadrante era crepato; doveva averlo sbattuto contro la roccia mentre si dibatteva sott’acqua. Le lancette si erano fermate sulle 13.54. Respirando affannosamente, scrutò l’oscurità, cercando il tunnel. Gesù, avrebbe dato qualsiasi cosa per una torcia! Poi sentì uno spiffero freddo, che lo condusse a una piccola apertura. Stava per iniziare la lunga arrampicata verso l’esterno, quando udì un grido alle sue spalle. Era Morrison che nuotava verso la sporgenza. «Ehi! Ehi! Sta scappando!» Olam cominciava a sentirsi frustrato. Era da un po’ che l’MI-8 sorvolava il distretto di Kuruzhdey, però ne´ lui ne´ Monique vedevano furgoni ne´ Land Cruiser sul passo montano. C’erano burroni boscosi e altopiani aridi tra le creste ripide, e persino alcune strutture di calcestruzzo sparpagliate lungo la

strada lastricata, ma niente veicoli ne´ persone ne´ movimenti di nessun tipo. Olam avvistò una torre radio su una vetta a qualche chilometro di distanzama, quando si avvicinò, scorse solo una misera baracca alla base del pilone, troppo piccola per contenere Excalibur. Così tornò verso Kuruzhdey e studiò ancora il valico, volando sotto le creste e dentro i precipizi, e controllando ogni dirupo e ogni promontorio.

Monique aveva un nodo allo stomaco. Forse Michael aveva capito male quando Angel gli aveva rivelato la destinazione dei Veri credenti. Oppure Angel aveva mentito o aveva inavvertitamente detto il nome sbagliato. Poi Olam indicò il suolo. «Ah, guardi lì! Vede i segni?» Monique puntò gli occhi su un altopiano sabbioso tra due creste parallele. Distinse alcune macchie di vegetazione marrone, ma niente di più. «Quali segni?» «È una zona di atterraggio! Si direbbe che due grossi elicotteri siano decollati non molto tempo fa.» Lei si avvicinò al finestrino. Vicino al centro dell’altopiano c’era un cerchio di terreno dove la sabbia era stata smossa. No, due cerchi. E diverse tracce convergevano da là verso una rientranza alla base di una delle due creste. «Ha ragione, laggiù è successo qualcosa.» «Andiamo a dare un’occhiata, okay?» Olam prese la radio e disse qualcosa in ebraico al tenente Halutz, il pilota dell’altro elicottero. Poi iniziarono a scendere. David s’inerpicò lungo il tunnel scosceso. Era buio pesto e il pavimento era molto scivoloso e coperto da sassi e lastre malferme, ma lui abbassò la testa e procedette a tentoni, appoggiando i piedi alla cieca e aggrappandosi alle pareti. Incespicava spesso

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e urlava di dolore quando gli avambracci ustionati gli sfregavano contro la roccia, però non si fermò. Non poteva fermarsi. Ripensò a quando aveva percorso il tunnel con Nicodemus e Volto affilato e cercò di ricordare quanto fosse lungo. Trecento metri? Seicento? Gli tornò in mente anche l’orologio rotto, con le lancette ferme sulle 13.54. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da allora. Poi udì altre urla echeggiare nel cunicolo. D’un tratto, le pareti furono illuminate dalla luce tremolante delle torce alle sue spalle. David cominciò a correre più forte. Non aveva più paura dei soldati, non aveva paura di niente a eccezione del dispositivo in fondo alla caverna, del tubo d’acciaio che custodiva cinquanta chili di uranio. Mentre avanzava, gridò: «Bomba! Bomba! Bomba!» e rivide Lucille che si precipitava fuori del deposito turkmeno, spingendo lui e Monique verso la porta. Poi scorse l’imboccatura del tunnel, il magnifico cerchio di luce e, con un urlo trionfante, uscì all’aria aperta. Ma non era finita. Attraversò di corsa il terreno piatto ai piedi della montagna, dirigendosi verso un burrone sull’altro lato della strada. Superò una striscia di asfalto e si gettò lungo una china sabbiosa. Poi due braccia tatuate lo spinsero a terra. Lui e Morrison ruzzolarono insieme nella gola, sinche´ non finirono in una macchia di cespugli secchi. David atterrò sulla schiena, senza fiato; il sergente si mise in ginocchio e alzò il pugno. La sua testa bionda si stagliò contro il cielo e, sopra la sua spalla, David scorse la montagna da cui era appena fuggito. Morrison tirò indietro il braccio, prendendo bene la mira ma, prima che potesse colpirlo, un rimbombo scosse la base del Kopet Dag e il monte cominciò a crollare.

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Il presidente dormiva profondamente nella camera padronale della Casa Bianca, quando gli agenti del Secret Service fecero irruzione nella stanza e accesero le luci. L’agente Thompson – il suo preferito del turno di notte – si avvicinò al letto con un accappatoio bordeaux. L’altro sollevò le coperte. «Mi dispiace, signor presidente. Dobbiamo uscire subito.» Thompson lo afferrò per il gomito e lo tirò su dal materasso. «Che cosa?» Il presidente era intontito e confuso. Si domandò dove fosse sua moglie, poi ricordò che era a Camp David con le bambine. Gesù, che ora è? «Dai, ragazzi, sono in boxer. Lasciate che...» «Abbiamo dei vestiti per lei sul Marine One, signore.» I due uomini lo aiutarono a indossare l’accappatoio, poi lo spinsero fuori della camera e lungo il corridoio. «Thompson a Blowtorch. Abbiamo Renegade. Ci dirigiamo verso il prato sud. Passo», disse l’agente nel microfono sul polsino della camicia mentre si affrettavano verso le scale. Ormai il presidente era sveglio e iniziava a preoccuparsi. In passato c’erano già stati dei falsi allarmi, durante i quali il Secret Service l’aveva portato via dalla Casa Bianca perche´ un idiota a bordo di un aereo privato era entrato nello spazio aereo protetto, ma mai nel cuore della notte. «Che cosa sta succedendo?» domandò. «Non lo so, signore. Ma la accompagniamo da Andy», rispose Thompson. Merda. Quello non era un falso allarme. Andy era il nome in codice dell’Andrews Air Force Base, il campo dove si trovava l’Air Force One. Qualunque fosse la natura dell’emergenza, il Pentagono l’aveva giudicata abbastanza grave da portare il comandante in capo via da Washington. I tre uomini raggiunsero il prato sud, dov’era appena atterrato il Marine One. Lottando contro la corrente d’aria prodotta dal rotore, corsero sull’erba e salirono sull’elicottero. Decollarono immediatamente, facendo rotta verso sud-est. Gli agenti porsero al presidente un completo grigio, una camicia bianca e un paio di scarpe nere, e lui si vestì rapidamente nella toilette. Quindi passò nell’abitacolo e si sedette al suo solito posto. Il velivolo era affollato. Di fronte a lui c’erano il capo di stato maggiore dell’esercito, il consigliere per la sicurezza nazionale, il direttore della National Intelligence e il segretario della Difesa. Dall’altra parte dell’abitacolo erano accomodati diversi generali del Comando centrale – l’organo di controllo delle operazioni militari in Medio Oriente – e del SOC, che sovrintendeva a tutte le unità delle SOF. Infine, nell’angolo opposto, c’era un giovane maggiore dell’aeronautica il cui unico compito era portare la «palla da football», all’apparenza una normale valigetta nera, solo che aveva un’antenna vicino al manico. Il presidente aspettò un istante, finche´ non ebbe ritrovato la calma. Poi si rivolse al capo di stato maggiore.

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«Qual è la situazione?» L’altro, solitamente torvo e rubicondo, era pallido e aveva un velo di barba. «Circa un’ora fa, abbiamo rilevato un evento sismico che ha tutte le caratteristiche di un’esplosione nucleare sotterranea. All’inizio abbiamo pensato che gli iraniani avessero fatto un altro test, ma l’epicentro si trova nel distretto turkmeno di Kuruzhdey, dov’è appostato il nostro battaglione.» Fece una pausa, evitando di guardarlo negli occhi. «Abbiamo cercato di contattare l’unità, tuttavia non siamo riusciti a rintracciarla via radio, così abbiamo ordinato ai satelliti di ricognizione di puntare le macchine fotografiche su Kuruzhdey.» Aprì la cartellina che teneva sulle ginocchia ed estrasse una pila di fotografie. «Queste risalgono a trenta minuti fa. Mostrano l’area davanti all’entrata di Camp Cobra.» Il presidente le esaminò. Aveva già visto alcune foto satellitari di Camp Cobra e ricordava la topografia del sito: una striscia di terreno piatto che correva tra due creste parallele. Ma in quelle immagini una cresta era crollata ed era stata sostituita da un ampio ventaglio di detriti rocciosi. Per circa dieci secondi rimase senza fiato. Quando finalmente ricominciò a respirare, provò un dolore al petto. «Gesù... Ci sono superstiti?» L’altro fece una smorfia. «Ci stiamo preparando a mandare una squadra di ricerca e soccorso dall’Afghanistan, ma prima dobbiamo misurare i livelli di radiazioni. Abbiamo già inviato un paio di drone da ricognizione a raccogliere campioni di residui radioattivi.» Il presidente annuì, sforzandosi di restare calmo. Dopotutto era il suo lavoro: analizzare la situazione in maniera razionale e reagire di conseguenza. In quel momento, tuttavia, si sentiva tutt’altro che razionale. Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per rimanere seduto. Avrebbe voluto correre nella cabina di pilotaggio, prendere il comando del Marine One e andare direttamente in Turkmenistan. Avrebbe voluto atterrare sul mucchio di detriti che aveva visto sulla fotografia e scavare a mani nude. «Com’è potuto accadere? È stato un incidente? I ranger non avevano testate tattiche, vero?» «No, signore. E non è stato un incidente. Circa venti minuti prima dell’esplosione, i nostri sistemi radar hanno rilevato due aerei che viaggiavano da Kuruzhdey verso il confine iraniano. E abbiamo intercettato un breve messaggio inviato da uno dei due velivoli all’impianto nucleare di Ashkhaneh.» «Hanno comunicato con gli iraniani? Con la Guardia rivoluzionaria?»

«Sì, signore. Il messaggio era in farsi. La traduzione inglese è: ’Detonazione tra diciannove minuti’.» Il presidente annuì ancora. Ora capiva perche´ il Pentagono aveva deciso di allontanarlo dalla capitale. Quasi mille soldati americani erano stati uccisi in un attacco nucleare. E avrebbero potuto esserci altri attentati. Quel pensiero lo spaventò a morte, ma lo aiutò anche a concentrarsi. Datti una calmata. Tira fuori le palle e prendi in mano la situazione. «I sistemi radar hanno seguito i due aerei?» «Sono atterrati vicino all’impianto di Ashkhaneh», rispose il capo di stato maggiore. «Quando i satelliti sono passati sopra la regione, la Guardia rivoluzionaria aveva già nascosto i velivoli, molto probabilmente dentro il bunker. Ma le immagini mostrano una compagnia di soldati armati, di certo la squadra d’attacco. Devono aver scoperto la posizione dell’accampamento dei ranger e sferrato un attacco preventivo.» Un uomo coi capelli grigi e con le orecchie a sventola alzò la mano per attirare la sua attenzione. Era il generale Philip Estey del SOC. «Signor presidente, i nostri analisti hanno ipotizzato un possibile scenario per spiegare l’accaduto: il sito di Camp Cobra era una caverna con molti passaggi ed entrate. I commando iraniani devono aver

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scoperto un tunnel non sorvegliato dai ranger e se ne sono serviti per piazzare un dispositivo nucleare dentro la montagna.» Il presidente ebbe ancora la tentazione di sbottare. Era furibondo. Nessuno, al Pentagono, aveva mai accennato a quella possibilità. Come avevano potuto gli strateghi e gli esperti trascurare una cosa cosìovvia? «Cristo! Non ci credo! Non avete...» Quando vide l’espressione affranta di Estey, che era un caro amico di McNair, però, si zittì. «Aspetti, mi dispiace. Il generale McNair era a CampCobra al momento dell’esplosione?» Estey annuì solennemente. «Sì, signore. McNair teneva molto al successo della missione e ha partecipato attivamente e tutte le fasi di realizzazione.» Chinò la testa e fissò il pavimento. «Non smetterò di sperare finche´ non riceveremo notizie dalla squadra di ricerca e soccorso, ma molto probabilmente Sam è morto.» Anche altri generali chinarono il capo. Per alcuni istanti si udì solo il rumore dei rotori. Il presidente però non aveva tempo per piangere i defunti. Era ancora furioso. «D’accordo, la nostra priorità è difenderci da ulteriori attentati. Le nostre forze in Medio Oriente devono mettersi in stato di massima allerta. Tutte le unità devono tornare alle basi e rimanere nascoste.» Si rivolse al direttore della National Intelligence. «Ci sono prove che gli iraniani stiano preparando un altro attacco nucleare?» «No, signore. Crediamo ancora che i loro dispositivi nucleari siano nell’impianto di Ashkhaneh.» «Be’, non daremo loro l’opportunità di usarne un altro.

Distruggeremo l’impianto. Lo raderemo al suolo.» Il presidente si voltò verso il capo di stato maggiore. «Faccia decollare i caccia stealth armati di B83, la bomba nucleare sfonda-bunker. Non appena avremo la conferma che gli iraniani sono responsabili dell’attentato a Camp Cobra, le darò l’autorizzazione per utilizzare la testata.» Accennò alla «palla da football», che conteneva i piani d’attacco nucleare. «Come intende averne conferma? Se lo chiede agli iraniani, negheranno qualsiasi coinvolgimento», ribatte´ il capo di stato maggiore. Estey alzò ancora la mano. «Signor presidente, tra qualche ora dovremmo essere in grado di analizzare i residui radioattivi raccolti dai drone. Se le marcature radioisotopiche dell’esplosione di Camp Cobra sono simili a quelle del test iraniano nel Dasht-e Kavir, possiamo concludere che è stato usato lo stesso combustibile nucleare in entrambe le occasioni.» Il presidente trasse un profondo respiro. Era una decisione difficile, con terribili conseguenze in qualsiasi caso. Ma, poiche´ lui era il comandante in capo, la sua prima responsabilità era verso le truppe. E doveva fermare immediatamente gli iraniani, prima che attaccassero ancora. «Per me va bene. Se otteniamo la conferma dall’analisi dei residui, sferreremo l’attacco nucleare contro Ashkhaneh. E poi distruggeremo il resto dell’esercito iraniano con le forze convenzionali. Suppongo che i piani siano già pronti.» Il capo di stato maggiore fece il saluto militare. «Sì, signore!» Ormai il Marine One stava scendendo. Il presidente guardò fuori del finestro e vide le piste di atterraggio dell’Andrews Air Force Base. Un centinaio di metri più in là c’era un 747 con le parole UNITED STATES OF AMERICA scritte a lettere grigie sulla fusoliera. L’aereo era simile agli altri 747 della flotta Air Force One, ma il presidente sapeva che all’interno era molto diverso. Era un E-4B, modificato appositamente per fungere da posto di comando mobile, con apparecchiature elettroniche rinforzate, capaci di

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resistere agli impulsi elettromagnetici provocati dalle esplosioni nucleari ad alta quota. Il Pentagono gli aveva dato il nome in codice di Nightwatch, ma era meglio conosciuto come Doomsday Plane, l’aereo dell’apocalisse.

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Come fratello Cyrus aveva previsto, gli iraniani dell’impianto nucleare di A ¯ shkha¯neh erano piuttosto contrariati. Non avevano gradito il fatto che lui avesse interrotto il silenzio radio col suo criptico messaggio in farsi, ne´ l’arrivo dei due Osprey che parevano essere stati rubati al corpo dei marine. I soldati iraniani erano già abbastanza spaventati all’idea di un attacco americano – i satelliti di ricognizione dell’aeronautica statunitense passavano sopra l’area ogni trenta minuti –, perciò si precipitarono fuori del bunker e trasferirono rapidamente gli aerei in un hangar che la Guardia rivoluzionaria aveva scavato nel versante della montagna. Si trattava essenzialmente di una grande caverna dall’imboccatura larga e dal soffitto arcuato, molto diversa dal bunker, che invece era costituito da una rete separata di grotte con un fortino di calcestruzzo all’ingresso e una ragnatela di tunnel digradanti che correvano più di trecentocinquanta metri sotto il monte. Dentro l’hangar, i soldati di Cyrus scaricarono l’uranio arricchito, trascinando giù dagli Osprey le pesanti casse rivestite di piombo. Gli iraniani portarono l’U-235 nel bunker, impazienti di tornare nelle viscere della caverna, dove avevano immagazzinato le precedenti spedizioni di combustibile nucleare. Poi il generale Jannati, il comandante dell’impianto di Ashkhaneh, entrò nell’hangar con due dei suoi tenenti. Cyrus lo conosceva bene: dato che parlava inglese, era diventato il suo principale contatto nella Guardia rivoluzionaria. Era un uomo basso e scheletrico con un’uniforme ridicola. «Buon pomeriggio, Mr Black», lo salutò. Cyrus non aveva rivelato la sua vera identità agli iraniani, che lo conoscevano come Cyrus Black, il leader mascherato di un giro di contrabbando internazionale. «È un piacere rivederla, generale. Per favore, ci perdoni per aver violato le regole di sicurezza, ma abbiamo dovuto lasciare il Turkmenistan in quattro e quattr’otto.» Jannati aveva un’espressione accigliata. «Sareste dovuti arrivare di notte. E in auto, non in aereo. L’accordo era molto chiaro su questo punto.» «Le chiedo scusa. Ora però avete l’ultima spedizione di U-235. E ho portato un piccolo extra per lei.» Il generale lanciò un’occhiata nervosa ai tenenti. Quindi si chinò verso di lui. «È sugli aerei?» bisbigliò. Cyrus annuì. Jannati amava il Courvoisier, ma il cognac era illegale nella Repubblica Islamica dell’Iran, perciò il generale aveva cercato un modo alternativo per assecondare la propria passione. Jannati impartì ai tenenti un ordine in farsi. I due uomini fecero il saluto militare e uscirono. Una volta che se ne furono andati, il generale prese Cyrus per il braccio e sidiresseversogliOsprey. «Sietestati fortunatia lasciare il Turkmenistan. Ho appena saputo che c’è stato un terremoto.» «Davvero?» «Sì, poco dopo il confine. Meno di cento chilometri a nord di qui.» Fratello Cyrus sorrise. Sia lode al Signore. Sia lode a Lui nel Suo potente Regno dei Cieli.

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Mentre Jannati apriva la cassa di Courvoisier e stappava una bottiglia di XO Imperial da duecento dollari, Cyrus prese in disparte Nicodemus e gli riferì la bella notizia. Poi ordinò discretamente ai Veri credenti di rimuovere il laser dall’Osprey,portarlo fuori dell’hangare metterlo in posizione in corrispondenza del bersaglio. Ricordò loro di procedere lentamente e con prudenza: non c’era bisogno di affrettarsi, spiegò, l’aeronautica statunitense non avrebbe sferrato l’attacco fino all’imbrunire, quando i caccia stealth B-2 fossero stati impossibili da rilevare. Dopo un’ora e mezzo, i Veri credenti tornarono nell’hangar. A quel punto Jannati era già ubriaco fradicio e giaceva stravaccato su una cassa di legno, con la testa penzoloni e una mano stretta intorno alla bottiglia di cognac. Cyrus lo teneva d’occhio, sorridendo dietro la sciarpa. Ormai erano sulla soglia del Regno dei Cieli, a pochi passi di distanza. Passò mentalmente in rassegna i preparativi per accertarsi di non aver dimenticato nulla. L’unico difetto del piano era il fatto che l’esercito turkmeno non avesse catturato Olam ben Z’man, ma Cyrus non lo considerava una grave minaccia: anche se l’israeliano avesse cercato di avvertire gli americani, era molto improbabile che il Pentagono lo prendesse sul serio. Mentre Jannati beveva un altro sorso di cognac, la radio alla sua cintura gracchiò. Ne uscì una voce esitante, che fece una domanda in farsi e, non ricevendo risposta, la ripete´ dopo qualche secondo. Evidentemente la Guardia rivoluzionaria si stava chiedendo quando il comandante sarebbe tornato nel bunker. Jannati ignorò le trasmissioni il più a lungo possibile, poi prese l’apparecchio e iniziò a sbraitarvi dentro. Quando ebbe finito, lo gettò via e si rivolse a Cyrus. «Idioti. Non riescono a combinare niente da soli, aspettano sempre i miei ordini.» Scosse la testa. «Ho detto loro che avrei sparato al prossimo che mi avesse disturbato. Forse ora avrò un po’ di

pace.» Cyrus annuì. «Mossa saggia. Sta insegnando loro la disciplina.» «Esatto! Ogni esercito deve avere un po’ di disciplina.» Jannati indicò i Veri credenti, che stavano sull’attenti dall’altra parte dell’hangar. «Guardi i suoi uomini, come sono obbedienti. Come ci riesce? Suppongo che li paghi bene, eh?» Cyrus annuì ancora. Per convincere gli iraniani che era un contrabbandiere, aveva preteso quindici milioni di dollari in cambio dell’uranio. «I soldi aiutano, ma la cosa più importante è la fiducia. Gli uomini devono credere nel loro leader.» Jannati strizzò le palpebre. «Lei e i suoi soldati siete religiosi? Cristiani osservanti di qualche tipo?» Cyrus fissò il generale, in bilico sul bordo della cassa. L’iraniano era più perspicace di quanto avesse immaginato. «Esatto, crediamo in Dio.» «Già, lo sospettavo. Mi dica un’altra cosa, Mr Black. Che cosa c’è nel cilindro d’alluminio che i suoi uomini hanno scaricato dall’aereo poco fa?» Jannati bevve un altro sorso. Lui trasalì. La domanda l’aveva colto alla sprovvista. «Prego?» «Non l’ho guardato bene, ma aveva un’aria familiare. Avete piazzato un dispositivo analogo nel sito del Kavir prima del test nucleare, vero?» Maledizione, pensò Cyrus. Aveva sperato che il Courvoisier distraesse Jannati da Excalibur. «Mi scusi, credevo di averle spiegato tutto durante gli incontri precedenti. Ho un altro cliente di cui non posso rivelare l’identità, un governo molto interessatoai test nucleari.Mi hapagato per installare alcuni strumenti scientifici nel

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sito del test. I dati così raccolti lo aiuteranno a portare avanti il proprio programma nucleare. Il vostro comandante in capo ha accettato questa condizione quando abbiamo stretto l’accordo.» «Era disperato, vero? Avrebbe acconsentito a qualsiasi cosa purche´ lei gli desse l’uranio. I nostri impianti di arricchimento non producevano il combustibile abbastanza velocemente, e lui aveva ricevuto forti pressioni perche´ conducesse un test entro quest’anno.» Jannati si coprì la bocca e ruttò. «Ma ora la situazione è cambiata. I miei superiori mi hanno ordinato di farle qualche domanda riguardo a quegli ’strumenti scientifici’.» Cyrus si allarmò, ma mantenne un tono calmo. «Certo. Che cosa vuole sapere?» «Be’, innanzitutto perche´ vuole installare delle apparecchiature aggiuntive proprio ora. Non abbiamo in programma altri test nucleari.» Cyrus annuì. Aveva sperato di evitare quel confronto, ma era impossibile. Jannati era diventato una minaccia, e le minacce alla redenzione andavano eliminate. Fece un passo avanti. «La spiegazione è semplice.» Allungò la mano. «Venga con me, generale. Credo che lo troverà affascinante.» Jannati oscillò sulla cassa, sorridendo stancamente. «Che cosa? Vuole andare da qualche parte?» «Non si preoccupi, non è lontano.» Cyrus gli posò la mano sulla schiena. Dopo una breve esitazione, l’altro fece spallucce e gli permise di guidarlo fuori dell’hangar. Una volta usciti, svoltarono a sinistra e camminarono lungo la base della montagna, verso uno spiazzo di terreno piatto e sabbioso. Diverse settimane prima, mentre preparavano Excalibur per il test nel Kavir, alcuni Veri credenti avevano preso in prestito un bulldozer dagli iraniani e avevano scavato una buca profonda nove metri, in cui avevano calato una grossa camera d’acciaio. Infine avevano riempito la fossa, ma avevano lasciato un tunnel in modo da avere ancora accesso alla camera.

Cyrus aveva detto agli iraniani che stava installando un dispositivo di monitoraggio che avrebbe misurato le onde sismiche del test nel Kavir, ma era una menzogna: quello era il luogo in cui avrebbero posizionato il laser russo. Cyrus accompagnò Jannati in una trincea che conduceva all’imboccatura del tunnel. L’entrata era un grosso rettangolo rinforzato da travi, che assomigliava all’ingresso di un box a due posti, a eccezione di una bassa barriera formata da sacchi di sabbia, ed era sorvegliata da Nicodemus e da altri due Veri credenti, tutti armati di fucili. Cyrus fece il segnale convenuto a Nico, quindi si rivolse ancora a Jannati. «Questo laser a raggiX è quasi identico a quello che abbiamo collocato nel sito del Kavir, ma è stato costruito dai russi, che hanno copiato il prototipo americano.» «Come ha detto? Un laser?» S’infilarono nel tunnel, che s’inoltrava nel sottosuolo. Nico li seguì, accendendo la torcia. «Un laser a raggi X. Trasforma le radiazioni di un’esplosione nucleare in fasci laser ad alta energia», ripete´ Cyrus. «Ma le ho detto che non abbiamo in programma altri...» «Aspetti solo un momento, generale. Poi sarà tutto chiaro.» Ben presto raggiunsero la camera d’acciaio, che era dotata di una grande vetrata, più o meno come quelle che si trovavano negli acquari pubblici. Cyrus e Jannati si fermarono e Nico puntò la torcia sulla spessa lastra di vetro, da cui si vedeva il lungo cilindro d’alluminio che i Veri credenti

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avevano appena posizionato. Il pannello scorrevole era aperto, mostrando le dodici aste laser, composte da centinaia di fili sottili legati insieme e bloccate da montanti che sporgevano da un palo centrale. Il gruppo ricordava lo scheletro di un ombrello chiuso, con le aste che corrispondevano alle stecche, tutte orientate verso un punto focale dentro il cilindro: il punto omega. Cyrus le fissò per un momento, rapito dalla loro bellezza. Quindi si voltò verso Jannati. «Conosce la testata B83?» chiese. Il generale, confuso, spostò più volte lo sguardo da lui alla vetratae viceversa.«B83?Nonè una bombanucleare americana?» Cyrus annuì. «In origine era una bomba a gravità, ma l’aeronautica l’ha munita di un sistema di guida GPS e l’ha trasformata in un’arma sfonda-bunker. È progettata per penetrare sotto la superficie prima di esplodere, in modo da danneggiare il più possibile gli impianti sotterranei. Per distruggere una struttura come la vostra, situata in una caverna sotto una montagna, il bersaglio migliore sarebbe un’area di terreno sabbioso accanto alla base del monte.» «Mi scusi, ma non capisco cosa...» «In questo istante ci troviamo sul bersaglio. Tra qualche ora, un caccia stealth sgancerà una B83 che colpirà il suolo proprio sopra questa camera e penetrerà per sei metri nella sabbia. Vede, il bersaglio è stato pianificato in anticipo e io conoscevo già le coordinate quando abbiamo scavato questa buca. Un GPS militare è molto preciso. Un eventuale errore di mira sarebbe inferiore a un metro.» Jannati tacque per qualche secondo. Quindi scoppiò a ridere. «Molto bene, Mr Black! E ora mi dirà che è una spia americana? E che ha consegnato l’uranio alla Guardia rivoluzionaria solo per dare all’aeronautica statunitense un pretesto per farci saltare in aria?» «No, non proprio. Ho dovuto lanciare una provocazione più significativa affinche´ il presidente reagisse con la B83. In realtà, il terremoto in Turkmenistan è stato un’esplosione nucleare che ha incenerito una base militare segreta chiamata Camp Cobra. E io ho piazzato prove molto convincenti del coinvolgimento iraniano nella sua distruzione.» Il generale smise di ridere e dondolò sulle gambe malferme. «D’accordo, basta con queste sciocchezze. Che cosa sta succedendo?» «Il Pentagono ora si sente costretto a rispondere al fuoco. E i miei seguaci a Washington si assicureranno che il presidente

sferri l’attacco nucleare contro questo impianto. Il generale Bolger del Global Strike Command è un Vero credente, come il generale Estey del SOC.» Cyrus indicò la sommità della camera d’acciaio, che era coperta da una grata. «La testata entrerà da lì. Il muso s’incastrerà nella grata e la bomba esploderà. Abbiamo già estratto l’aria dalla camera, così le radiazioni potranno viaggiare nel vuoto fino alle aste laser. E, poiche´ la testata sarà così vicina alle aste al momento dell’esplosione, l’energia che si sprigionerà sarà enorme.» Jannati fissò la camera, con un lampo di paura negli occhi iniettati di sangue. «Non dirà sul serio, vero? Che diavolo avete intenzione di fare?» «Vede come le aste laser sono orientate verso un punto focale? I fasci convergeranno all’interno del cilindro, secondo uno schema specifico che amplificherà al massimo il flusso di dati alle cache di memoria in quel minuscolo volume di spazio. E quando le cache saranno sovraccariche...» «Maledizione, mi risponda! Che cosa avete intenzione di fare?» «Sto cercando di spiegarglielo, generale. Vogliamo aprire le porte del Regno.» Arricciando il labbro, Jannati fece per impugnare la pistola, ma Nico lo colpì alla nuca con la torcia e,

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mentre il generale vacillava, gli sfilò la SIG Sauer 9 millimetri dalla fondina. Poi lo afferrò per i capelli, gli tirò indietro la testa e gli tagliò la gola con un coltello. Jannati atterrò sulla schiena. Si portò la mano al collo, ma il sangue gli schizzò tra le dita. Cyrus si chinò su di lui. «Be’, non abbiamo tempo per una spiegazione esauriente, però ci rincontreremo, generale. Nel Regno dei Cieli, il Signore ci stringerà tutti tra le Sue braccia, ogni creatura che...» Jannati inarcò la schiena e gli sputò addosso un grumo rosso. Quindi la mano gli scivolò via dalla golae i fiotti di sangue zampillarono liberamente. Cyrus estrasse il fazzoletto e si pulì i vestiti. La corruzione del mondo non smetteva mai di stupirlo, ma presto sarebbe finita. Si girò verso Nico. «Torna nell’hangar e recupera la radio del generale. Se i suoi soldati riprovano a contattarlo, di’ loro che il comandante è indisposto.» Si rimise in tasca il fazzoletto. «Non credo che gli iraniani ci causeranno problemi prima di sera ma, per sicurezza, ordina ai nostri uomini di scavare posizioni difensive intorno al tunnel.» 39 David aprì gli occhi e vide Monique.Non distingueva bene il suo viso – aveva gli occhi pieni di sabbia e gli bruciavano terribilmente –, ma notò che aveva le treccine sporche di terra. Erano carine, anche se lui sapeva che sua moglie sarebbe stata mortificata se si fosse guardata allo specchio. Monique si asciugò le lacrime e si chinò su di lui, mordicchiandosi il labbro, e David avrebbe voluto dire qualcosa sui suoi capelli, qualcosa che la facesse ridere, però aveva la gola così riarsa da non riuscire neppure a deglutire. Poi la guardò meglio e vide un taglio irregolare sulla guancia sinistra e un altro sul mento. Scoppiò a piangere, in parte perche´ odiava vederla ferita, e in parte perche´ era contento che fosse viva. David era a bordo di un veicolo, in un abitacolo grigio e squadrato, su una barella che sporgeva dalla parete d’acciaio come una mensola. Provò ad alzarsi e si accorse di avere gli avambracci bendati. Ricordò le ustioni provocate dall’acido solforico. Agitato, si rizzò a sedere e afferrò Monique per le spalle. «La montagna! I soldati! Dobbiamo tornare indietro. Dobbiamo vedere...» Lei scosse la testa. «No, David. Non possiamo tornare indietro. La montagna è crollata. E la zona è piena di residui radioattivi.» Altre lacrime le rigarono il viso. «L’ho visto dall’alto. Dall’imboccatura della grotta è uscita una fiammata. Poi il dirupo si è sgretolato e...» «Aspetta. L’hai visto dall’alto?» «Siamo su un elicottero.» Monique indicò la cabina di pilotaggio. «È così che ti abbiamo trovato. Dopo esserci allontanati dall’esplosione, abbiamo visto un movimento nel burrone. Abbiamo raccolto te e altri sette uomini, tutti soldati dell’esercito statunitense. Pare che facciano parte di un’unità delle SOF.» «Sì, si stavano preparando ad attaccare l’Iran. Ma c’erano centinaia di uomini in quella caverna! Ne avete trovati solo sette?» «Erano gli unici sopravvissuti. Quattro erano cecchini appostati sui pendii vicino alla grotta, e tre dicono di essere usciti per inseguirti. Abbiamo scavato a lungo tra le macerie, come i piloti dell’altro elicottero. Poi ci siamo spostati di circa sedici chilometri a ovest e siamo atterrati su questa vetta. Il vento soffia verso est, dunque dovremmo essere al sicuro dalla ricaduta radioattiva. E ora...» «Shalom! Lo strumento di Keter si è svegliato?» Olam ben Z’man entrò nell’abitacolo, con indosso gli stessi vestiti neri che aveva usato per l’incursione nel canyon di Yangykala.

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Tuttavia, prima di poter reagire alla sua comparsa, David vide qualcun altro accanto all’israeliano. Era un ragazzo alto, coi capelli arruffati e col volto tumefatto, che girò leggermente la testa per evitare d’incrociare il suo sguardo, ma si avvicinò alla barella senza esitazione e alzò la destra come per prestare giuramento. «Dove sei stato? Ti ho cercato.» Anche David alzò la destra. Era il saluto che usava sempre con Michael. «Ora sono qui e sono molto felice di vederti.» Poi si voltò e si coprì gli occhi, sopraffatto dall’emozione. Rimase immobile e aspettò di essere nuovamente in grado di respirare. Le lacrime aggravarono il bruciore, ma lui non vi badò. Era colmo di gratitudine. Scese il silenzio. Quando David tolse la mano, Michael si era già avvicinato a un finestrino e aveva iniziato a disegnare sul vetro appannato. Monique sfiorò la spalla del marito. «Sei degli uomini di Olam sono ancora vivi. Shomron, l’operatore radio, è rimasto ferito nel canyon di Yangykala, ma gli altri stanno bene. Ora sono fuori e tentano d’inviare un messaggio alle basi americane in Afghanistan. C’è un pilone di trasmissione su questa montagna.» «Già,è per questo che siamo atterrati qui. Le radio degli elicotteri non sono abbastanza potenti. È strano, ma pare che qualcuno disturbi le frequenze militari in quest’area», aggiunse Olam. No, non è strano, pensò David. «È l’aeronautica statunitense. Probabilmente segue gli ordini di uno dei Veri credenti di Cyrus. Disturbano le radioonde perche´ lui non vuole che nessuno sappia cos’è accaduto a Camp Cobra.» Ricordò il viso dell’uomo, tondo e pallido, così normale e familiare. «Mentre m’interrogava si è tolto la sciarpa. È Adam Bennett.» Monique lo fissò a bocca aperta, portandosi le dita alle labbra. «Che cosa? L’amministratore della DARPA?» Lui annuì. «La confessione nel laboratorio di Jacob era una messinscena. Voleva solo che trovassimo Olam al posto suo. Quel tizio è uno squilibrato, ma gestisce un’organizzazione straordinaria, probabilmente finanziata coi soldi dirottati dalla DARPA. E alcuni dei suoi seguaci ricoprono incarichi importanti nell’esercito. Come il generale delle SOF che gli ha permesso di piazzare la bomba nella caverna.» «Charah!» Olam si girò verso la cabina di pilotaggio, con l’occhio che fiammeggiava d’ira. «Vi avevo detto che i

Qliphoth erano potenti! Ecco come hanno fatto a infiltrarsi in tutte quelle agenzie!» Monique si alzò di scatto. «Ma è pazzesco! Perche´ dovrebbero far saltare in aria una base americana?» «Cyrus aveva bisogno di un’esplosione più violenta per dare al laser energia sufficiente per scatenare il crash quantistico», rispose David. «Continuo a non...» «Ha distrutto Camp Cobra per provocare una reazione da parte del presidente. Ora lui ordinerà un attacco nucleare contro gli iraniani, e Cyrus piazzerà il laser a raggi X in corrispondenza del bersaglio.» Calò nuovamente il silenzio. Monique aggrottò le sopracciglia. David sapeva esattamente cosa significava quell’espressione. Sua moglie non era più spaventata ne´ confusa. Era incazzata. «Dov’è ora quel figlio di puttana?» domandò lei. «Cyrus ha detto che sarebbe andato in un impianto della Guardia rivoluzionaria vicino alla città iraniana di Ashkhaneh. È quello il bersaglio della bomba americana.» Olam tirò fuori una cartina dalla tasca e la aprì. Quindi indicò il centro della pagina. «Sì, Ashkhaneh. È circa cento chilometri a sud di qui. Anch’essa in montagna, sulle

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creste più meridionali del Kopet Dag.» Monique lo afferrò per il braccio. «Dobbiamo fermarlo! Dobbiamo usare quella cazzo di radio e chiamare la Casa Bianca!» Lui scosse la testa. «Anche se riuscissimo a captare un segnale tra i disturbi elettronici, come facciamo a essere sicuri che qualcuno ci ascolti? Se i Veri credenti si sono infiltrati nel Pentagono, non ci permetteranno di comunicare col presidente.» «Allora che cosa facciamo? Aspettiamo che l’universo vada a catafascio?» «No. Non aspetteremo.» Olam piegò la cartina e la mise via. «Cinque dei miei uomini sono ancora in grado di combattere, e abbiamo sette ranger dell’esercito. Abbiamo anche due mitragliatrici incorporate su ciascun elicottero, e abbastanza carburante per raggiungere Ashkhaneh.» Si avviò verso la porta e urlò qualcosa in ebraico ai suoi soldati. Poi si rivolse ancora a David e Monique. «Shomron resterà qui e continuerà a lavorare alla torre radio. Perciò dovete prendere una decisione. Rimanete o venite con me?» David si alzò. Si sentiva un po’ frastornato e aveva le braccia rigide, ma era ancora in condizioni di maneggiare una pistola. Guardò Monique e lei annuì. Sarebbero andati con Olam. Però avrebbero lasciato là Michael. David si avvicinò al ragazzo, che stava ancora disegnando sul finestrino. «Michael? Ascolta, tu resterai qui con uno degli israeliani, okay? Monique e io dobbiamo andare via, ma torneremo non appena possibile. Ti lasceremo cibo e acqua, e forse Shomron può darti un rompicapo da risolvere. D’accordo, amico? Credi di potercela fare?» Il ragazzo fece una smorfia, con gli occhi ancora puntati sul finestrino. David notò che aveva disegnato un fuoco, con dozzine di fiamme arzigogolate che s’innalzavano da una grande conca. «Ti prometto che torneremo, Michael. Hai capito? Te lo prometto.» Alzò ancora la destra, come per prestare giuramento.

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Il presidente sedeva tutto solo nel suo ufficio sull’E-4B, diretto da qualche parte nel Midwest. Era metà mattina negli Stati Uniti e tardo pomeriggio in Iran. Il sole splendeva fuori dei finestrini, proiettando ombre scure sulla scrivania. La stanza era minuscola, quasi come uno sgabuzzino. La parte centrale dell’E-4B era occupata quasi interamente dagli specialisti di comunicazioni dell’aeronautica, che tenevano l’apparecchio in contatto col resto dell’esercito. C’erano anche il capo di stato maggiore, il direttore della National Intelligence e il segretario della Difesa. Mancavano, invece, i consiglieri della Casa Bianca, i membri del Congresso, i reporter e gli assistenti. Il presidente era circondato solo da uomini in uniforme. La scrivania era ingombra di documenti top secret. Ogni dieci minuti circa, un colonnello dell’aeronautica bussava alla porta e gli consegnava un nuovo rapporto sull’esplosione a Camp Cobra. Le prime squadre di ricerca e soccorso erano arrivate sul posto, avvolte nelle tute di protezione, e avevano cominciato a cercare i superstiti. Fino a quel momento non ne avevano trovati. Il dipartimento di Stato aveva contattato il governo iraniano e chiesto informazioni sui due aerei che avevano attraversato il confine dirigendosi verso l’impianto di Ashkhaneh, ma i funzionari di Teheran sostenevano di non saperne nulla. Le agenzie di stampa parlavano di un

terremoto in Turkmenistan meridionale e il Pentagono si era astenuto dal contraddirle. Prima o poi il presidente avrebbe dovuto fare un discorso alla nazione, rivelando l’immane portata della tragedia. Ma non ancora. Dopo un po’ si rese conto di non riuscire a concentrarsi sui rapporti: pensava solo all’esplosione e ai soldati di Camp Cobra che si preparavano per la missione, pulendo i fucili, riempiendo gli zaini, scrivendo lettere ai genitori, alle mogli o alle fidanzate. Poi immaginava la detonazione, l’improvviso lampo di luce che aveva distrutto ogni cosadentro la caverna.Infine vedeva caderela montagna, seppellendo le loro ceneri. Se erano stati gli iraniani, meritavano di essere puniti. Erano morti novecentosessanta soldati americani, tra cui un tenente generale. E, soprattutto, si era trattato di un attacco nucleare, il primo mai sferrato contro gli Stati Uniti, il che lo costringeva a reagire con decisione, ricorrendo anche lui alle armi nucleari. Eppure il presidente era inquieto. Parlare di deterrenza era una cosa, ma sganciare materialmente la bomba era un altro paio di maniche. Avrebbe cambiato il mondo, e non in meglio. Qualcuno bussò alla porta. «Avanti», disse. Pensavasi trattasse ancora del colonnello, invece entrò il direttore della National Intelligence. «Signore, abbiamo finito di analizzare i residui dell’esplosione a Camp Cobra. La marcatura radioisotopica è identica a quella della ricaduta radioattiva del test nucleare iraniano.» Fu come un calcio nello stomaco. Il presidente fissò i rapporti

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sulla scrivania. «Siete sicuri? Assolutamente sicuri?» «Le percentuali di U-235 e U- 232 nella caduta radioattiva sono le stesse. Abbiamo trovato anche quantità identiche di berillio, un elemento non molto comune per le bombe all’uranio.» Il presidente tacque. Sapeva cosa doveva fare, ma non fiatò. «Sono prove inconfutabili, signore», aggiunse l’altro. «Le marcature radioisotopiche sono uniche, come le impronte digitali. Sappiamo che l’uranio nell’arma responsabile della distruzione di Camp Cobra viene dalla stessa riserva che ha fornito il combustibile per la bomba iraniana testata nel Dasht-e Kavir. E i risultati relativi al berillio indicano che le due bombe avevano anche la medesima struttura.» Il presidente lo fissò ancora per qualche istante. Poi scosse la testa. Non poteva più rimandare. Era arrivato il momento. «Dica a tutti di riunirsi nella sala conferenze. Apriremo la ’palla da football’.»

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Nella roulotte di Shalhevet, Aryeh Goldberg continuava a decifrare i messaggi criptati col computer quantistico di Olam ben Z’man. Fra le comunicazioni intercettate dalle stazioni di ascolto israeliane nei mesi precedenti, trovò ulteriori prove del complotto di Adam Cyrus Bennett. Da gennaio, Bennett aveva scambiato dozzine di messaggi col tenente generale Samuel McNair, un comandante delle SOF dell’esercito statunitense, e con Nicodemus Aoun, un terrorista libanese che le IDF conoscevano bene. Aryeh non aveva ancora chiarito tutti i dettagli, tuttavia riteneva di avere materiale sufficiente per convincere lo stato maggiore delle IDF a entrare in azione. Stava per chiamare il quartier generale dell’Unità 8200 a Herzliya e chiedere di parlare ancora col comandante, ma Yaron lo anticipò: «Aryeh? Devi venire subito. Ti ricordi dove si trova il quartier generale della divisione, vero?» Più che dalle parole, Aryeh rimase parecchio stupito dal tono: Yaron, solitamente freddo, sembrava preoccupato. «Che cosa c’è? Perche´ avete bisogno di me?» «Abbiamo sentito cose molto strane.E pensiamo siano legate alle comunicazioni che hai decifrato.» «Quali cose?» Yaron fece una pausa, ma solo di un secondo. «Le agenzie di stampa parlano di un terremoto nel Turkmenistan meridionale. Nulla di grave, se non fosse che l’epicentro è vicino alla torre radio che ha trasmesso uno dei messaggi su Excalibur.» «Che c’è di strano? L’area è molto attiva dal punto di vista tettonico, no?» «La cosa strana è che le IDF non credono si tratti di un terremoto. I sismografi indicano che si è verificata un’esplosione nucleare sotterranea. Quando la nostra divisione d’intelligence ha contattato gli americani per vedere se fossero giunti alla stessa conclusione, i funzionari del Pentagono si sono rifiutati di discuterne, ma sono passati a DEFCON 1, il massimo livello di allerta.» Aryeh si morse il labbro. Ricordò ciò che Olam aveva detto prima di partire per il Turkmenistan: Excalibur incanalava l’energia delle esplosioni nucleari e, più l’esplosione era potente, più devastanti sarebbero stati i danni provocati dal laser. «Credete che gli iraniani abbiano fatto detonare un’altra bomba? E che ora gli americani vogliano vendicarsi?» «Apri bene le orecchie, Aryeh. Quand’è iniziata la crisi iraniana, l’Unità 8200 ha schierato diverse imbarcazioni nel mar Arabico per monitorare le comunicazioni radio nella regione. Circa un’ora fa, una di loro ha captato un segnale criptato spedito da un satellite americano Milstar in un fascio intenso e ristretto. Ma non c’erano navi americane nel raggio del fascio, e il radar della nostra imbarcazione non ha registrato la presenza di aerei nei paraggi.» «Mi dispiace. Non...» «Mezz’ora dopo, un’altra imbarcazione ha rilevato un secondo fascio proveniente dallo stesso satellite, cinquecento chilometri a nord del primo. Così i nostri analisti hanno trovato una traccia da seguire e hanno tratto una conclusione ragionevole: il Milstar comunica con un caccia B-2 americano. Vedi, l’aereo è dotato di tecnologia stealth, il che spiega perche´ non è comparso sul radar.

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E una squadriglia di B-2 è stanziata circa duemila chilometri a sud delle nostre imbarcazioni, sull’isola di Diego Garcia, nell’oceano Indiano.» Aryeh conosceva i caccia stealth, naturalmente. Ne aveva persino visto uno anni prima, durante un’esibizione aeronautica in America: un velivolo nero e lucido a forma d’ala di pipistrello. «Quegli aerei sono in grado di trasportare armi nucleari, giusto?» «Esatto. E la traccia indica che il B-2 è diretto in Iran.» Aryeh scosse la testa. Sudava freddo e aveva i crampi allo stomaco. Raccolse i fogli con le trascrizioni delle intercettazioni e li infilò nella sacca. «Sto arrivando. Sarò a Hezliya tra mezz’ora.»

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Michael era nella baracca alla base della torre radio, seduto a gambe incrociate sul pavimento di legno. David Swift gli aveva lasciato una bottiglia d’acqua e una barretta al cioccolato con l’illustrazione di una mucca sull’incarto. Era uno snack israeliano, gli aveva spiegato, un regalo di uno dei soldati vestiti di nero. David gli aveva assicurato che aveva lo stesso sapore del Milky Way, ma il ragazzo era riluttante ad assaggiarlo. Anche Shomron sedeva sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete opposta e la gamba fasciata stesa davanti a se´. Altre bende gli coprivano tutto il viso a eccezione della bocca e di un occhio. All’inizio Michael ripensò alla sciarpa di fratello Cyrus e s’inquietò, ma poi cominciò a trovarsi a suo agio con Shomron. Anzi, il fatto che l’uomo avesse il volto coperto era un sollievo. Quando Michael lo guardava, non doveva seguire i complicati movimenti dei muscoli facciali e scervellarsi per capirne il significato: il suo viso aveva sempre la stessa espressione, e lui non doveva temere di essersi perso qualcosa. «Olam mi ha detto che sei un ragazzo intelligente. Bravissimo in matematica e in fisica. È vero?» domandò l’uomo. Michael annuì. Era felice che Olam gli avesse fatto quel complimento. Gli piaceva quel soldato calvo con la benda sull’occhio. «Sì,è vero. Il mio trisavolo era Albert Einstein.» «Dici sul serio? Allora sono fortunato ad averti qui. Potrei aver bisogno delle tue capacità.» L’israeliano si spostò e indicò una console grigia nell’angolo. «Quelli sono i comandi della torre radio, e devo usarli per risolvere un rompicapo. Ti piacciono i rompicapi?» Michael fece di sì con la testa. «Bene. Questo riguarda il jamming. Sai cos’è?» Il ragazzo si sforzò di ricordare la definizione scritta nella Piccola enciclopedia scientifica. «Il jamming è l’interruzione volontaria di un segnale radio. Per impedire a qualcuno di ricevere il segnale, un apposito dispositivo trasmette rumore sulla medesima frequenza.» «Sì, esatto. È quello che stanno facendo i nostri nemici in questo momento. Hanno un aereo EA-18 Growler che trasmette grandi quantità di rumore sulle frequenze militari. Così, anche se abbiamo questa bellissima torre radio, i nostri segnali vengono coperti.» Michael riflette´. «Sai dove si trova l’aereo?» «Ah, ottimo! Vedo che stai già pensando alla soluzione. Ora ti spiegherò un’altra cosa. Si chiama ’contromisura’.» I due MI-8 superarono il confine, volando a soli nove metri dal suolo per evitare di essere rilevati dal radar iraniano. Seguivano i contorni del Kopet Dag, nascondendosi il più a lungo possibile dietro ogni cresta prima di scavalcare la sommità e abbassarsi nella valle successiva. Sorvolarono dirupi, canyon e frane di roccia illuminati dalla luce intensa del tramonto. Un gregge di capre selvatiche si sparpagliò sotto di loro quando gli elicotteri si lanciarono verso sud, ma non c’erano villaggi, strade ne´ persone. Il paesaggio era arido e stranamente deserto, come se l’apocalisse fosse già arrivata.

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Lo stomaco di David faceva le capriole mentre l’elicottero saliva e scendeva, mentre Monique, seduta alla sua destra, sembrava tranquilla, intenta a esaminare la semiautomatica Desert Eagle che le aveva dato Olam. La soppesò con attenzione e si esercitò a caricarla, infilando ed estraendo il caricatore finche´ non ci ebbe preso la mano. Osservandola, David ripensò a Lucille. Scosse rapidamente la testa per scacciare il ricordo – non sopportava di pensare a lei in quel momento –, ma continuò a provare una curiosa sensazione di disorientamento, legata forse al fatto che, pur essendo completamente diverse, tutte e due le donne sapevano maneggiare una pistola. Tutti gli israeliani si erano spostati sull’elicottero del tenente Halutz, a eccezione di Olam, che pilotava il loro MI-8, per lasciare il posto ai sette ranger, che ora dividevano l’abitacolo con David e Monique. Sei di loro – i quattro cecchini e i due soldati che erano usciti dal tunnel per inseguire il prigioniero – sedevano sul lato opposto, mentre il sergente Morrison era accanto a David. Poiche´ aveva lasciato Camp Cobra disarmato, Olam gli aveva dato uno degli AK-47 che aveva sequestrato ai turkmeni. All’inizio Morrison aveva deliberatamente ignorato David ma, una ventina di minuti dopo il decollo, mentre Olam effettuava una serie di brusche manovre, David sbatte´ la nuca contro la parete e il sergente si girò. «Tutto bene, signore?» urlò sopra il rumore dei rotori. David si massaggiò la testa. Era un po’ strano sentirsi chiamare «signore». Quello era lo stesso uomo che gli aveva sferrato un calcio alle costole e che aveva aiutato il generale McNair a trascinarlo verso la vasca acida. Ma era stato prima che Little Boy esplodesse. «Sto bene. Grazie.» Morrison continuò a fissarlo. Evidentemente voleva aggiungere qualcosa, ma non ne aveva il coraggio. Dopoun po’, David si stancò di aspettare,perciò gli tese la destra. «Non è necessario che mi chiami ’signore’. Sono David.» L’altro gli strinse la mano, con gli occhi iniettati di sangue e pieni di rimorso. «Mi dispiace, amico. Vorrei averti dato retta. Lo vorrei con tutto il cuore.» Sembrava sincero. Si aggrappò alla mano di David come se fosse un’ancora di salvezza, rifiutandosi di lasciarla andare. David, però, non era ancora pronto a perdonarlo. «Già, lo vorrei anch’io.» Il sergente scosse la testa. «Stento ancora a crederci. Come diavolo ha potuto McNair fare una cosa simile? È incredibile, cazzo.» «Era convinto di attuare il piano di Dio, ma le istruzioni venivano da Cyrus.» «E anche Cyrus lavora al Pentagono, giusto? Un altro maledetto mostro.» «No, non è un mostro, è solo uno squilibrato. È convinto di farci un favore.» Morrison gli strinse ancora di più la mano. Gli fece male, ma non intenzionalmente, questa volta. «Comunque sia, David, morirà. Te lo giuro.» Lo mollò e indicò le bende sui suoi avambracci. «Come vanno le ustioni? Il paramedico israeliano ti ha dato qualcosa per il dolore?» David annuì.«Sì, mi ha imbottito di farmaci.» Morrison indicò la Desert Eagle tra le sue dita. «E quella? Pensi di riuscire a usarla?» «Sì, ho fatto un po’ di pratica con una Glock. Questa pistola è più pesante, ma credo che me la caverò.» «Una volta ne ho provata una. È un’arma straordinaria.» Morrison si

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chinò verso di lui e diede un colpetto alla canna dell’AK-47. «E io sarò dietro di te, okay? Io e i miei uomini ti copriremo le spalle. Non posso cambiare ciò che ho fatto prima, tutta la merda che è successa nella caverna. Ma posso aiutarti ora.» David annuì. Ce l’aveva ancora con Morrison, tuttavia preferiva combattere con lui che contro di lui. Poi si sentì toccare la spalla destra e si voltò verso Monique, che guardava fuori del finestrino. Lei indicò un’altra cresta, circa tre chilometri più a sud. C’era un fortino di calcestruzzo arroccato sul versante di una montagna, quasi invisibile nella penombra. L’entrata del bunker iraniano, con tanto di fortificazioni appena scavate. «Un minuto all’atterraggio! Preparatevi a scendere!» annunciò Olam.

Lo Spirit of America, un caccia stealth di stanza sull’isola di Diego Garcia, sorvolava già l’Iran sudorientale quando ricevette l’Emergency Action Message dal satellite Milstar. Il messaggio era stato codificato dal Global Strike Command dell’aeronautica, che modificava le proprie chiavi di cifratura ogni ora. Le chiavi erano state trasmesse al B-2 con un’altra comunicazione criptata inviata precedentemente, quando il caccia era ancora sopra il mar Arabico. Dalla radio uscì la voce nervosa di uno specialista di comunicazioni dell’aeronautica, che ripete´ per tre volte il preambolo a sei caratteri: «Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo. Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo. Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo». Il colonnello George Ashley, il comandante della missione, si girò sul sedile e aprì la cassaforte nella cabina di pilotaggio. Tirò fuori il cifrario del 13 giugno e trovò le tabelle di autenticazione degli EAM. I primi due caratteri del preambolo indicavano la tavola da usare, e gli altri quattroerano il codice di autenticazione. Ashley consultò la tavola Lima Tre e cercò il codice dell’ora corrente. Era Foxtrot Hotel Sette Romeo. «L’Emergency Action Message è stato autenticato. Questo messaggio è un ordine di controllo nucleare valido», disse, recitando le parole che aveva memorizzato molto tempo prima e che aveva sperato di non dover mai pronunciare. Passò il cifrario al maggiore Wilcox, il pilota, che guardò la pagina e annuì. «Sono d’accordo.» Poi Ashley si concentrò sullo schermo davanti a se´, che mostrava il resto del messaggio. L’ordine chiedeva loro di procedere verso il bersaglio programmato e di sganciare la testata B83. Conteneva anche le chiavi elettroniche che avrebbero azionato il detonatore. Il colonnello deglutì. «Quanto manca ad Ashkhaneh, maggiore?» «Circa trentacinque minuti, signore.»

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Fratello Cyrus avvistò i due elicotteri quand’erano ancora lontani diversi chilometri. All’inizio provò una punta di disperazione. È la prima ondata di un gruppo d’assalto americano, pensò. In qualche modo i suoi piani erano stati scoperti e il presidente aveva ordinato un attacco aereo contro di lui. Dopo mezzo minuto, tuttavia, osservò meglio i velivoli e si accorse che non erano americani, bensì MI-8 russi, elicotteri da trasporto obsoleti che erano stati progettati più di quarant’anni prima. Inoltre sembrava che ce ne fossero solo due. Non si vedevano infatti altri aerei ne´ veicoli diretti all’impianto di A¯shkha¯neh. Meglio ancora, Cyrus non vide ne´ razzi ne´ missili attaccati ai piloni. Secondo le marcature, gli MI-8 appartenevano alla divisione aeronautica dell’esercito turkmeno, l’unità che era stata incaricata di catturare Olam ben Z’man e i suoi commando sopravvissuti. Evidentemente l’israeliano si era impossessato degli elicotteri e aveva deciso di sfidare ancora Cyrus. Lui sorrise, sollevato. Olam e i suoi velivoli non lo preoccupavano. Le armi dell’ebreo erano ridicole: due mitragliatrici di medio calibro montate su ogni MI-8 e, tutt’al più, le pistole e i fucili dei suoi uomini. I soldati di Cyrus, invece, avevano a disposizione la mitragliatrice più avanzata nell’arsenale dell’esercito statunitense: l’XM-806. Anzi, ne avevano addirittura quattro, posizionate in buche intorno all’entrata del tunnel, pronte a fare a pezzi qualunque aereo o veicolo si fosse avvicinato troppo. Inoltre i Veri credenti avevano missili terra-aria Stinger e lanciabombe con propulsione a razzo. Gli elicotteri volavano troppo basso per colpirli con gli Stinger, ma sarebbero stati bersagli perfetti per i lanciabombe, che erano caricati con un nuovo tipo di esplosivo chiamato «granata termobarica». Il proiettile era studiato per far saltare in aria gli edifici di calcestruzzo, perciò avrebbe sicuramente demolito un MI-8. Cyrus sussurrò una preghiera all’Onnipotente, chiedendo perdono per quel tentennamento momentaneo. Quando ebbe finito, la radio attaccata alla sua cintura gracchiò. Uno dei tenenti di Jannati urlava in un inglese approssimativo: «Attenzione... Mr Black... due elicotteri... si avvicinano da nord... devo parlare col... comandante Jannati... in attesa... di ordini». Cyrus premette il pulsante. «Il generale Jannati conosce la situazione. Gli elicotteri sono pilotati da commando israeliani, e intendiamo distruggerli non appena saranno a tiro. Il vostro comandante ci sta aiutando a coordinare l’operazione.» La parola «israeliani» causò grande costernazione all’altro capo della linea. Cyrus udì le urla di terrore in farsi: «Khoda! Khoda! Chi kar konim?» «Per favore, mantenete la calma. Il generale Jannati vuole che restiate nel bunker. Abbiamo armi contraeree sufficienti per affrontare la minaccia. Ripeto, restate nel bunker.» «Sì... Sì, ricevuto...» Cyrus sorrise. L’ultima ora dell’universo corrotto era stata davvero inebriante come aveva

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sperato. Domandò ancora una volta a Nicodemus se i soldati fossero adeguatamente trincerati. Non riusciva più a vedere gli MI-8 – si erano abbassati dietro uno sperone lungo la cresta –, ma molto presto Olam avrebbe sferrato l’attacco, e i Veri credenti sarebbero stati pronti ad annientarlo. Dopo aver lanciato un’ultima occhiata al cielo sempre più scuro, Cyrus imboccò il tunnel che conduceva alla camera d’impatto. Aveva deciso di trascorrere gli ultimi minuti davanti alla vetrata, fissando il laser meraviglioso che avrebbe aperto le porte del Regno di Dio. Sapeva che non avrebbe visto la testata penetrare nella camera ne´ i fasci laser sprigionarsi dalle radiazioni. Il suo corpo peccaminoso si sarebbe dissolto prima che quelle informazioni arrivassero al suo cervello. Ciononostante voleva essere il più vicino possibile al punto omega, dove il tempo sarebbe finito e la redenzione sarebbe iniziata. Forse era egoistico da parte sua, ma voleva essere il primo a entrare nel Regno dei Cieli. L’MI-8 atterrò su un terreno piatto e sabbioso vicino alla base del monte e David seguì i sei ranger e si rifugiò con loro accanto al versante. Monique era dietro di lui e il sergente Morrison chiudeva la fila. L’elicottero si rialzò non appena furono smontati, ma la sabbia continuò a vorticare tutt’intorno a loro. I soldati diventarono macchie sfocate nella luce violadel crepuscolo, dirette verso un grande muro nero che nascondeva metà del cielo. Una volta raggiunta la china, si radunarono sotto uno strapiombo di granito. David si appoggiò alla parete rocciosa, col cuore che batteva all’impazzata. Monique ansimava al suo fianco, leggermente piegata per riprendere fiato, come faceva dopo che erano andati a correrre insieme, solo che in quell’istante loro indossavano divise nere anziche´ tute da ginnastica e tenevano in mano Desert Eagle da due chili. Si udirono i rotori degli MI-8 in lontananza. L’elicottero di Olam era sopra di loro, impegnato a perlustrare la zona, mentre quello del tenente Halutz si era spinto più a ovest, per scaricare i commando israeliani sull’altro lato del bunker. I ranger si diressero da quella parte, correndo in fila indiana, rasente alla parete. Qualche centinaio di metri più in là c’era uno sperone roccioso che sporgeva verso nord. David ricordò di averlo visto dall’alto: delimitava il bordo orientale del semicerchio in cui erano trincerati gli uomini di Cyrus. I ranger strisciarono avanti per sbirciare oltre il mucchio di pietre all’estremità dello sperone. Poi il terreno scoppiò sotto i loro piedi. Echeggiò un boato e un ranger fu scaraventato in aria con una nuvola di sabbia. David si paralizzò. È una mina. Stiamo attraversando un campo minato, pensò. Il soldato atterrò a qualche metro di distanza. Era morto, ovviamente. Gli mancavano le gambe e la parte inferiore del tronco. Scioccato, David fissò la pozza scura che copriva le sue ultime impronte. Ma gli altri ranger rimasero calmi e indietreggiarono piano, tornando sui loro passi. Avevano l’espressione cupa, tuttavia non si fermarono neppure per un momento, iniziando a scalare la ripida parete orientale dello sperone. David li seguì e si arrampicò fino a una stretta cornice, poi tirò su Monique. Entrambi s’inerpicarono faticosamente lungo la china, smuovendo le pietre a ogni passo.

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Continuarono a salire finche´ non raggiunsero una sporgenza rocciosa in cima allo sperone, dove i ranger si erano già inginocchiati dietro un parapetto naturale di lastre di granito. Anche se il cielo era quasi buio, da lì si vedevano le fortificazioni scavate dagli uomini di Cyrus: quattro buche che ospitavano delle grosse mitragliatrici, collegate fra loro da anguste trincee, che formavano un rozzo quadrato. Al centro c’era una trincea più larga, che conduceva all’entrata di un tunnel, parzialmente ostruita da sacchi di sabbia. Il laser è lì dentro, pensò David. Ricordò che Cyrus aveva accennato a una testata sfonda-bunker capace di penetrare nel terreno prima di esplodere, dunque Excalibur doveva essere posizionato sotto terra, in fondo al cunicolo. Si voltò verso il sergente Morrison e indicò l’ingresso del tunnel. «Laggiù. È quello il bersaglio. Dobbiamo andare lì dentro e distruggere il laser.» L’altro scosse la testa. «Merda, vuoi scherzare? Ci sono almeno quaranta uomini nelle trincee. E servirebbe un carro armato per superare le mitragliatrici.» «Allora contatta gli elicotteri. Di’ loro di concentrare il fuoco sull’imboccatura del tunnel.» «Ascolta, non hai capito. Le armi in quelle buche sparano proiettili perforanti 50 millimetri. Possono centrare un elicottero a duemila metri di distanza e hanno una gettata molto maggiore dei giocattoli presenti sugli MI-8.» «No, sei tu a non capire!» David indicò il cielo, in cui cominciavano a brillare le stelle. «Da un momento all’altro un caccia B-2 sgancerà una testata nucleare sul laser. E, quando succederà, ci ucciderà tutti. Bye-bye all’universo!» «Abbassa la voce!» Morrison prese la radio dalla cintura. «Coordineremo l’attacco con gli elicotteri. Stai giù, d’accordo? E spara solo quando do l’ordine.» Mentre il sergente andava dagli altri ranger, David raggiunse Monique che, stesa a pancia in giù poco più in là, puntava la Desert Eagle attraverso una fessura nelle lastre di granito. Lei gli lanciò

un’occhiata, per poi tornare immediatamente a guardare nei mirini. «Gesù. Si mette male.» «Non preoccuparti, ce la faremo.» «Siamo solo in otto. Più quattro israeliani dall’altra parte. Non è sufficiente.» «Abbiamo anche gli elicotteri. Si stanno mettendo in posizione proprio in questo istante.» Monique non rispose. Non mi crede, pensò David. Probabilmente sua moglie aveva analizzato la situazione, calcolato le probabilità e dedotto che non avevano speranze. Era una conclusione logica, una previsione scientifica attendibile, corroborata dai fatti. Ma David si rifiutava di cedere al pessimismo. Ripensò a Michael, Jonah e Lisa, i suoi tre figli perfetti, sparpagliati ai capi opposti del mondo. Non li avrebbe lasciati morire. Non sapeva come, ma li avrebbe salvati. Dopo circa un minuto, il rumore dei rotori diventò più forte. Gli MI-8 avevano spento le luci e fluttuavano nell’oscurità. David stringeva la pistola con entrambe le mani, puntandola verso le trincee e le buche. Alla sua destra udì i ranger che caricavano i fucili. Poi il sergente Morrison ordinò: «Fuoco!» e lui iniziò a sparare. I colpi furono assordanti. La Desert Eagle sussultò tra le sue dita e la sporgenza rocciosa rimbombò. I ranger mitragliarono le buche e le trincee, e gli elicotteri si abbassarono verso le fortificazioni con le mitragliatrici che scoppiettavano. Poi, però, David sentì un boato ancora più forte, una sequenza di strepiti incredibilmente rapida, come un tuono incessante: le mitragliatrici nemiche avevano aperto il fuoco sugli MI-

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8. David intravide i contorni dei velivoli, che facevano l’impossibile per uscire dallalinea di fuoco. Quindi notò una mitragliatrice orientata verso di loro. «State giù!» urlò Morrison. «State...» I proiettili perforanti crivellarono la montagna. Schegge di roccia schizzarono via dalle lastre di granito e piovvero sui pendii. David e Monique rotolarono a sinistra, urtando un grosso masso, ma i ranger continuarono a sparare. Il versante esplose, eppure loro mantennero le posizioni e risposero al fuoco. David e Monique si spostarono ancora più a sinistra, inerpicandosi lungo la china. Trovarono un altro masso dietro cui rifugiarsi e David spiò oltre l’orlo. In una delle trincee, gli uomini di Cyrus avevano acceso un riflettore rivolto verso lo sperone, mentre un altro illuminava i commando israeliani che sparavano contro le fortificazioni dall’altra parte. E, al centro del campo, vicino all’entrata del tunnel, David scorse un uomo inginocchiato, con un lungo tubo sulla spalla. Non lo vide in faccia perche´ era troppo lontano, ma notò la kefiah a scacchi drappeggiata sulle sue spalle. Non appena lo ebbe riconosciuto, un razzo schizzò fuori del tubo e, lasciandosi dietro una lunga scia infuocata, volò dritto verso uno degli MI-8, che si stava rialzando. Il raggio colpì il muso dell’elicottero e ci fu una tremenda esplosione. Poi David vide solo una palla di fuoco. «Alleluia!» urlò Nicodemus non appena scoppiò la granata termobarica. La detonazione echeggiò tra le montagne e rischiarò lo spiazzo sabbioso, inondando i Veri credenti con la sua luce sacra. Questo è il volto di Dio, il viso abbagliante dell’Onnipotente! esultò Nico. Egli veglia su di noi mentre le porte del paradiso si schiudono, e dice ai Suoi umili servi che è soddisfatto. L’elicottero si schiantò un centinaio di metri più in là. Nico gettò via il lanciabombe vuoto e ne prese un altro, per il secondo insetto satanico da schiacciare. Poi la strada verso la redenzione sarebbe stata sgombra. Si posò il tubo sulla spalla e lo puntò verso il cielo. Poco prima che Aryeh arrivasse al quartier generale dell’Unità 8200, la divisione ricevette una trasmissione radio dal Turkmenistan. Il segnale era stato captato da un’antenna delle IDF sul monte Avital, nelle alture del Golan, e proveniva da una nave sul mar Caspio, un vecchio peschereccio che le agenzie d’intelligence israeliane usavano ogni tanto per intercettare di nascosto le comunicazioni iraniane. Poiche´ il comandante della nave faceva capo a Yaron, inviò la trasmissione direttamente all’ufficio del generale, anche se si trattava semplicemente di un segnale partito da una torre radio sul Kopet Dag e mandato da un certo Mordecai Shomron. Quando Aryeh entrò nell’ufficio di Yaron, il generale era impegnato in una conversazione con Shomron, che era un veterano del Sayeret Matkal e un commilitone di Olam ben Z’man. Yaron – che aveva messo su un po’ di chili e perso qualche capello dall’ultima volta che Aryeh l’aveva visto – sedeva dietro una scrivania invasa da apparecchiature di comunicazione, tra cui una console con due casse e un microfono a collo d’oca. Le parole di Shomron uscivano a raffica dalle casse: «Capisce ora, generale? Questa è una minaccia per l’esistenza dello Stato d’Israele. Anzi, è una minaccia per

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l’esistenza del mondo intero, ma può sottolineare i rischi per Israele, se ritiene che sia il modo migliore per attirare l’attenzione dello stato maggiore». Yaron premette un interruttore e si chinò sul microfono. «Purtroppo non c’è nulla che le IDF possano fare. Il Pentagono ha interrotto le comunicazioni e, anche se le linee fossero aperte, dubito che li convinceremmo ad annullare l’attacco nucleare contro gli iraniani.» «Non esiste un modo per contattare direttamente la Casa Bianca? Benche´ le persone che hanno organizzato il complotto abbiano collaboratori nel governo americano, pensiamo che il presidente non sia coinvolto.» Aryeh ebbe un crampo allo stomaco. Immaginò il caccia B-2 in volo verso l’Iran che riceveva i segnali dai satelliti Milstar. Poi ricordò le cose folli che aveva detto Olam ben Z’man – le testate, i laser a raggi X, i sovraccarichi della memoria e i programmi universali – e cominciò a chiedersi se potessero essere vere. Si avvicinò alla scrivania e indicò la console. «Posso rispondere, signore?» «Fa’ pure», rispose l’altro premendo l’interruttore. «Sono l’agente Aryeh Goldberg dello Shin Bet. Ho decifrato le comunicazioni tra Adam Cyrus Bennett e i suoi collaboratori: Bennett si è infiltrato nel Pentagono in modo così accurato che credo sarebbe difficile avvertire il presidente attraverso i consueti canali militari.» Seguì un silenzio. «Allora cosa suggerisce?» Aryeh si strofinò il mento. Per un esperto di telecomunicazioni come lui, quello era senza dubbio un problema interessante. Quale sarebbe stato il metodo più efficace per inviare un messaggio direttamente al presidente? «Da che tipo di stazione sta trasmettendo?» domandò. «È una torre radio normalmente usata dall’esercito turkmeno, suppongo. L’apparecchiatura è vecchia, ma funziona. Siamo riusciti a eludere i dispositivi di disturbo dell’aeronautica statunitense generando un fascio intenso e ristretto di onde

radio, che ha concentrato il segnale sulla nave israeliana a ovest della nostra posizione.» Aryeh sorrise. «Ottimo. Voglio che si prepari a inviare un altro fascio. Questa volta verso sud.» Poi si rivolse a Yaron. «Generale, potrei avere accesso alle comunicazioni satellitari intercettate dalle imbarcazioni nel mar Arabico? I segnali destinati ai caccia B-2, intendo. Voglio provare a decifrarli.» Yaron gli lanciò un’occhiata severa: in circostanze normali, avrebbe reagito alla richiesta con un rifiuto categorico. In fondo, Aryeh gli stava chiedendo di mostrargli le comunicazioni più sensibili del principale alleato d’Israele. Però annuì. Evidentemente Shomron era riuscito ad aprirgli gli occhi. «Abbiamo intercettato un altro segnale Milstar inviato al B-2 venti minuti fa, mentre il satellite era sopra l’Iran sudorientale. Sai, abbiamo alcune antenne clandestine nel Paese.» «Sì, mi servirà anche quello. Per favore, trasmetta tutte le intercettazioni al quartier generale di Olam a Shalhevet. Dirò ai kippot srugot di accendere il computer», replicò Aryeh. Olam ben Z’man vide la palla di fuoco e pregò per il tenente Halutz. Recitò il Kaddish, la preghiera del lutto, mentre cercava di evitare i proiettili delle mitragliatrici, manovrando la cloche per alzare l’elicottero. Mentre le pallottole 50 millimetri si conficcavano nella fusoliera e fracassavano i finestrini, ripete´ sottovoce le parole in ebraico: «Yit’gadal v’yit’kadash sh’mei raba...» Quando ebbe finito la preghiera, era ormai fuori della linea di fuoco e volava nell’oscurità che avviluppava la montagna. Ma le mitragliatrici dovevano aver colpito i serbatoi, perche´ gli

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indicatori segnalavano che erano quasi vuoti. Olam scosse la testa. Questo elicottero èun rottame in ogni caso, pensò. Ormai poteva servire solo a uno scopo. Diede gas, salendo in un ampio arco sinche´ non fu a quattrocento metri dal suolo. Poi puntò il muso verso il basso e si tuffò in picchiata. Qualche secondo dopo l’esplosione dell’MI-8 di Halutz, una granata colpì i ranger. David e Monique erano lontani più di trenta metri, accovacciati dietro un masso, ma per poco l’onda d’urto non li scaraventò via. I riflettori illuminarono una nuvola di polvere sopra le lastre di granito dietro cui si erano rifugiati i soldati. Sotto la nuvola, mezza dozzina di corpi giaceva immobile sulla sporgenza rocciosa. Il cadavere del sergente Morrison era disteso sopra altri due. Pareva che, all’ultimo momento, avesse cercato di proteggere i suoi compagni. David appoggiò la fronte al masso ruvido. Siamo spacciati. Siamo finiti. Era stato tutto inutile, e di lì a poco il mondo sarebbe svanito, divorato dall’immenso buco del nulla. Provò a immaginare il sovraccarico che avrebbe bloccato il computer universale, interrompendo i trilioni di calcoli che avevano luogo ogni nanosecondo in ogni minucolo volume di spazio. Poi sarebbe iniziato il lungo silenzio. Cyrus l’aveva chiamato Regno dei Cieli, e forse aveva ragione. Il nuovo universo sarebbe stato senza tempo e senza cambiamento, una tomba eterna. Un luogo di pace, indubbiamente, ma solo perche´ nulla sarebbe mai più potuto accadere. Quindi udì un sibilo furioso. Veniva dal rotore dell’MI-8 sopravvissuto, tuttavia era più forte e acuto di prima, simile a un gemito. David sbirciò oltre il bordo del masso e alzò gli occhi, cercando d’individuare l’elicottero. Gli uomini di Cyrus fecero lo stesso, orientando i riflettori verso il cielo. I raggi di luce convergenti trovarono il velivolo, che distava ancora centinaia di metri, ma si avvicinava rapidamente. Le mitragliatrici nelle buche fecero subito fuoco, colpendo la fusoliera massiccia con raffiche di proiettili traccianti. Quindi David rivide Nicodemus inginocchiarsi davanti all’entrata del tunnel con un altro lanciabombe sulla spalla, il tubo rivolto verso il muso dell’MI-8. David si allontanò dal masso, uscendo allo scoperto. Ormai provava solo una rabbia incontrollabile. Prima che il mondo finisse, voleva uccidere quell’uomo. Doveva ucciderlo. Prese la mira con dita tremanti. Poi udì la voce di Lucille. La udì nella mente, nel cuore e nello stomaco. Sentì le sue mani sulla schiena e sul petto, appena sotto la clavicola. Lucille era dietro di lui e gli parlava nell’orecchio. Tenga il braccio diritto, in linea con la canna, diceva. Stringa la mano sinistra intorno alla destra, coi pollici incrociati. Allinei il mirino anteriore dentro quello posteriore e si assicuri che il bersaglio sia poco più sopra. Infine prema il grilletto con decisione e lentezza. Olam si lanciò verso il tunnel. Le mitragliatrici aprirono dozzine di fori nell’MI-8, ma non riuscirono ad arrestarne la discesa. Quando l’israeliano fu a centocinquanta metri, vide, davanti all’ingresso, un uomo con una kefiah a scacchi e un lanciabombe sulla spalla. Ebbe una stretta al cuore. Quella era l’unica cosa in grado di fermarlo. Ma poi l’uomo rabbrividì e mollò il tubo. Cadde a terra e rimase immobile sulla sabbia, con una macchia rosso scuro sulla kefiah.

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Ah, questo è lo strumento di Keter! La corona dell’universo ha guidato la mano di David! pensò Olam. Ridendo, manovrò l’elicottero per consentirgli di entrare nel tunnel. Centrò l’imboccatura a più di trecento chilometri orari, e il rotore saltò via dalla fusoliera. L’MI-8 superò i sacchi di sabbia e sbandò lungo la discesa ripida, senza mai rallentare. Olam ebbe il tempo di recitare un’ultima preghiera, un inno di lode alle Sephirot che avevano creato l’universo. Keter. Chokmah. Binah. Chesed. Geburah. Tihiphareth. Netzach. Hod. Yesod. Malkuth... L’ultima cosa che vide fu Adam Cyrus Bennett, con la schiena appoggiata a una grande vetrata. Il leader dei Qliphoth allargò le braccia come se credesse di poter impedire alla fusoliera da dieci tonnellate di schiantarsi contro il laser. Ma nessuno può modificare le leggi della fisica e, prima di morire, Olam scorse i gusci dei Qliphoth che si spalancavano per far brillare la luce di Dio. Aryeh consultò l’orologio per la quarantesima volta. Basandosi sul percorso e sulla velocità del caccia B-2, Yaron aveva calcolato che l’aereo sarebbe arrivato ad A ¯ shkha¯neh verso le ventuno, ora locale. In quel momento erano le 19.25 in Israele, ossia le 20.55 in Iran. Ma, mentre Aryeh camminava su e giù, il generale sedeva tranquillamente alla scrivania e studiava la stampata del messaggio che avevano appena ricevuto da Shalhevet. Ehud ben Ezra aveva inserito i dati delle intercettazioni dei Milstar e aveva spedito i risultati dei calcoli a Yaron. Il generale sorrise. Era così affascinato dalle capacità del computer che pareva aver dimenticato il caccia. «Interessante. Questa macchina cambia ogni cosa. Dovranno riscrivere tutti i testi di crittografia», mormorò. Aryeh strinse i pugni. «Generale, quanto tempo...» «Questa è la chiave privata!» Yaron gli mostrò il foglio, che era zeppo di cifre. «Grazie a quel pazzo di Loebner, non ci sono più sistemi di cifratura a chiave pubblica sicuri. I miei esperti stanno usando questa chiave per decodificare gli Emergency Action Messages inviati dal Global Strike Command al B-2. E gli EAM sono considerati le comunicazioni più inviolabili del mondo!» «Sì, ma quanto tempo ci vorrà ancora?» «Non molto. Vedi, ci sono varie fasi. Questa chiave privata decifrerà il primo messaggio destinato al caccia, quello

che l’aeronautica ha utilizzato per distribuire le altre chiavi. Poi dovremo usare una di quelle chiavi per decodificare l’Emergency Action Message captato dalle nostre antenne in Iran. E infine dovremo codificare un nuovo EAM sfruttando le stesse chiavi, per far credere che la comunicazione sia arrivata dalle autorità competenti del Global Strike Command. Dovrà avere esattamente la stessa cifratura TRANSEC e COMSEC e...» Un assistente del generale fece irruzione nell’ufficio. «Signore, ci siamo! Siamo pronti per la trasmissione!» Aryeh corse alla scrivania. Premette l’interruttore sulla console e si piegò sul microfono. «Shomron? Sono Goldberg. Abbiamo il messaggio da inviare. Non appena lo riceve, trasmetta il segnale in un fascio intenso e ristretto, orientato direttamente verso sud. È ora che la sua torre entri in funzione.» David vide prima l’elicottero che s’infilava nel tunnel, poi le fiamme e il fumo che uscivano dall’imboccatura. Infine la struttura crollò, spegnendo l’incendio. La sabbia si riversò nello spazio sotterraneo e ben presto si aprì un cratere poco profondo sopra il punto in cui era collocato il laser. Anche se David non avesse visto il codice di registrazione dell’MI-

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8, avrebbe scommesso che fosse stato Olam,enon il tenente Halutz, a lanciare il velivolo contro il tunnel. Occorreva essere un po’ folli per escogitare un piano simile. David aveva le lacrime agli occhi: l’israeliano aveva salvato il mondo, che però sarebbe stato un posto più noioso senza di lui. I soldati di Cyrus smisero di sparare. La metà di loro corse verso il tunnel e fissò il terreno con espressione vacua. Alcuni s’inginocchiarono, altri urlarono, altri ancora tentarono di scavare a mani nude, ma rinunciarono quasi subito. Poi, a uno a uno, cominciarono a fuggire. Gettando via gli zaini e le armi, scavalcarono le trincee e si dileguarono nell’oscurità. Si sparpagliarono a casaccio, alcuni a nord, altri a est e altri ancora a ovest. David notò che non avevano una destinazione particolare. Semplicemente si allontanavano dal punto in cui sarebbe esplosa la testata. Col loro leader morto e col laser distrutto, sapevano che il Regno dei Cieli – o almeno la versione che Cyrus ne aveva prefigurato – non avrebbe aperto loro le sue porte nell’immediato futuro. Ciò che li aspettava era una morte banale, un normalissimo oblio. Quella prospettiva li colmò di terrore – fa quell’effetto a molte persone –, così ascoltarono gli istinti più vili e tagliarono la corda. Ma David non li imitò. Sapeva che non si poteva essere più veloci di un’esplosione da un megatone. Lo scoppio avrebbe devastato la zona circostante entro un raggio di sedici chilometri e avrebbe provocato una ricaduta radioattiva su un’area ancora più vasta. Esausto, incespicò verso Monique, che, appollaiata sulla china sassosa a qualche metro di distanza, guardava gli ultimi soldati di Cyrus abbandonare le buche. Era un fisico, perciò sapeva ancora meglio di David che fuggire era inutile. Lui si sedette con un grugnito stanco. «Questo posto è occupato?» domandò. Monique gli appoggiò la testa sulla spalla. «Sai qual è la cosa più ironica? È una splendida serata.» Era vero. David abbracciò la moglie e guardò il cielo, ammirando le stelle che luccicavano sopra il Kopet Dag. Non vedeva niente di così bello da anni. È facile dimenticare quanto sia magnifico il mondo, pensò. Diede un pizzicotto al fianco morbido di Monique. Gli piaceva quella parte del suo corpo. «Mi sento in colpa perche´ non posso mantenere la promessa che ho fatto a Michael. Gli ho promesso che saremmo tornati a prenderlo.» «Non preoccuparti, David. Michael starà bene.» «E Jonah. E Lisa. Gesù, sarà dura per loro. Non so come...» Monique gli posò l’indice e il medio sulle labbra. «Sstt. Non parliamone.» Prima che lei potesse ritrarre la mano, David le strinse il polso. Poi le baciò le dita. «Ti amo, Monique. Vorrei solo aver trascorso più tempo insieme.» Lei avvicinò il volto al suo. «Ora siamo insieme.» Due minuti prima che lo Spirit of America raggiungesse le coordinate dell’obiettivo, dalla radio del caccia uscì un’altra voce. Il colonnello Ashley ebbe l’impressione che fosse meno nervosa della precedente. Apparteneva a un uomo più vecchio, con un accento strano: «Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo. Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo. Lima Tre Foxtrot Hotel Sette Romeo». Ashley controllò l’orologio. Il codice di autenticazione era ancora valido. Ciononostante aprì la cassaforte, sfogliò il cifrario e verificò nuovamente le tavole. Aveva l’obbligo di seguire le procedure. «L’Emergency Action Message è stato

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autenticato. Questo messaggio è un ordine di controllo nucleare valido.» Passò il cifrario al pilota. Il maggiore Wilcox era teso come una corda di violino. «Sono d’accordo. Sono d’accordo. Qual è il messaggio?» Il colonnello sorrise quando lesse le prime parole sul display. «Missione annullata. Tornare alla base!» «Evviva! Meno male!» esclamò Wilcox. «Aspetti, c’è dell’altro. Vogliono che disabilitiamo il detonatore sulla testata, e poi che confermiamo di averlo fatto. Per essere sicuri che la bomba non venga utilizzata.» Wilcox scosse la testa. «Qualcuno deve aver combinato un bel casino.» «Dobbiamo inviare la conferma via satellite all’E-4B Nightwatch. E c’è anche un messaggio per il presidente. Strettamente confidenziale.» «Sa cosa significa, vero? Si rivolgono direttamente ai vertici per aggirare i pezzi grossi del dipartimento della Difesa. Qualcuno al Pentagono ha combinato un pasticcio coi fiocchi e i controfiocchi. E ora il Global Strike Command vuole denunciarlo.» «Ascolti, non sappiamo...» «Be’, come lo spiegherebbe altrimenti? Altri due minuti, e avremmo sganciato una bomba nucleare, Cristo santo! Penso che si possa considerare un bel casino.» Ashley era d’accordo, ma non gli piaceva incoraggiare le congetture. «Eseguiamo gli ordini, maggiore.» «Sì, signore!» Wilcox compì un’ampia virata a destra. Il colonnello digitò sul pannello il codice per disabilitare il detonatore. Quindi guardò il paesaggio buio fuori del finestrino, le montagne che per poco non avevano bombardato. Grazie a Dio, sussurrò. Grazie a Dio.

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EPILOGO

Sei ranger dell’esercito statunitense, con guanti bianchi e baschi marrone chiaro, scesero la rampa di carico dell’aereo da trasporto C-17 con una bara coperta da una bandiera. Avanzando a passo lento e misurato, attraversarono la pista di atterraggio della Dover Air Force Base, il campo d’aviazione nel Delaware dove arrivavano le salme dei soldati americani caduti all’estero. David seguì il solenne rituale da dieci metri di distanza, in fondo a una lunga fila di funzionari del dipartimento della Difesa e dell’FBI. Era un pomeriggio caldo e afoso di fine luglio, con la temperatura che superava i trenta gradi. I volti imperturbabili dei ranger scintillavano di sudore mentre loro portavano il feretro verso un furgone parcheggiato vicino al C-17.Si fermarono davanti allo sportello posteriore, che era già aperto, e aspettarono alcuni secondi prma di caricare la bara, mentre i funzionari facevano un lento saluto militare. Quindi fecero uno sbrigativo dietro front e tornarono verso la stiva del C-17. Sull’aereo c’erano altri sette corpi. David si portò la destra al cuore, imitato da Monique. Erano arrivati da New York City quel mattino, invitati alla cerimonia dal direttore dell’FBI, che era all’altra estremità della fila. C’era anche Aryeh Goldberg, venuto apposta da Israele. Fu un ricongiungimento dolceamaro.

Il campo dell’aviazione rimase silenzioso mentre i soldati scaricavano l’aeroplano, trasferendo lentamente i feretri sul furgone. David guardò Monique per accertarsi che stesse bene, lei gli rivolse un rapido cenno rassicurante. Nelle ultime cinque settimane non avevano fatto altro che cercare di riprendersi, per fortuna nessuno dei due

aveva corsi estivi da tenere ne´ importanti progetti di ricerca da seguire. Potevano stare insieme e coi loro figli. Ogni ora di vita su questa Terra è un dono, ma la cosa strana è che non lo capiamo veramente finche´ non siamo vicini alla morte, pensò David. Dopo lo scontro fuori dell’impianto di Ashkhaneh, lui e Monique erano rimasti seduti sotto le stelle per mezz’ora, aspettando con calma che il caccia sganciasse la testata. Col passare dei minuti, tuttavia, avevano intuito che l’aereo era stato deviato e che, dopotutto, non sarebbero stati inceneriti. Così si erano riuniti coi tre commando israeliani sopravvissuti e si erano messi in contatto radio col generale Yaron, che aveva ordinato loro di percorrere diversi chilometri verso sud fino a una remota autostrada, dove avrebbero potuto incontrarsi con una delle sue spie. Nelle quarantott’ore successive, la spia era riuscita a condurli di nascosto dal Kopet Dag ai monti Alborz, quindi in Azerbaijan e infine in Israele. Frattanto Michael e Shomron erano stati prelevati dalla squadra di ricerca e soccorso americana mandata nel Turkmenistan meridionale. Grazie al messaggio di Aryeh al presidente, ritrasmesso dal caccia, la Casa Bianca aveva rinunciato ad attaccare l’Iran e aveva iniziato a smantellare la rete segreta di Adam Cyrus Bennett.

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Quando David e Monique erano rientrati negli Stati Uniti, i giornali erano ormai zeppi di articoli sulla catastrofe nucleare a Camp Cobra. L’FBI aveva già arrestato i Veri credenti sopravvissuti, anche se alcuni di loro – come il generale Estey del SOC – si erano tolti la vita prima di essere catturati. Poi il presidente aveva tenuto un discorso spiegando come un alto funzionario del dipartimento della Difesa avesse tradito la nazione. Bennett, aveva rivelato, si era messo a capo di un gruppo di fanatici che aveva collaborato con la Guardia rivoluzionaria iraniana, usando i fondi del budget top secret del Pentagono per procurarsi l’uranio arricchito e costruire dispositivi nucleari. Il presidente, tuttavia, non aveva accennato a Excalibur. Aveva detto che Bennett aveva distrutto Camp Cobra per provocare una guerra nucleare tra l’America e l’Iran, ma non aveva menzionato i laser a raggi X, il programma universale ne´ il rischio di crash quantistico. La Casa Bianca aveva deciso di non rendere nota quella debolezza del grandioso disegno del creato. Se l’avesse fatto, un altro pazzo avrebbe potuto cercare di sfruttarla.

Per la stessa ragione, il presidente non aveva rivelato il coinvolgimento di David, Monique e Michael attribuendo il merito di aver fermato fratelloCyrus, ai soldati israeliani e americani che avevano combattuto contro i Veri credenti ad Ashkhaneh. Sette delle bare sul C-17 contenevano i corpi dei ranger uccisi durante la sparatoria. Il Pentagono aveva recuperato i resti dopo diverse settimane di tiremmolla diplomatico, ma finalmente il segretario della Difesa e il capo di stato maggiore dell’esercito potevano onorare il ritorno in patria dei caduti. I due funzionari, al centro della fila, tennero il braccio alzato in un rigido saluto finche´ i soldati non ebbero scaricato il penultimo feretro. Poi un’altra squadra di portatori, formata da quattro uomini e due donne in completo grigio, salì sull’aereo e scese la rampa con l’ultima bara, che ospitava la salma dell’agente speciale Lucille Parker. Il direttore dell’FBI avanzò sulla pista di atterraggio, imitato da David, Monique e Aryeh, puntando verso un lucido carro funebre nero posteggiato accanto al furgone. La squadra di agenti dell’FBI si avviò nella stessa direzione, camminando lentamente. David sentì un nodo in gola quando guardò il feretro coperto dalla bandiera. Non era diverso dagli altri, ma lui non ne sopportava la vista. Distolse lo sguardo e osservò il direttore dell’FBI, che aveva chinato il capo e chiuso gli occhi. L’uomo muoveva le labbra, ma parlava così piano che David non capì cosa dicesse. Forse sta pregando. O sta chiedendo scusa a Lucille, pensò. Chiuse gli occhi e rivide l’agente Parker sul ponte del peschereccio, con la Glock puntata contro una torre di trivellazione nel mar Caspio. Era felice quel mattino, e lui voleva ricordarla così. Aprì gli occhi mentre i sei agenti federali infilavano la bara nel carro funebre. Dopo che ebbero chiuso il portellone, il direttore dell’FBI strinse loro la mano, borbottando qualche parola di ringraziamento. Poi tre limousine nere attraversarono il piazzale dell’aeroporto e si fermarono vicino alla fila di funzionari. Dalle vetture smontarono alcuni uomini in completo scuro che ispezionarono rapidamente l’area: erano agenti del Secret Service. Quindi aprironola portiera posteriore della limousine al centro e fecero scendere il presidente degli Stati Uniti.

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I funzionari gli fecero il saluto militare e lui ricambiò, ma non si fermò a chiacchierare col segretario della Difesa ne´ coi suoi vice, andò dritto verso il carro funebre. David non l’aveva mai visto di persona e si stupì un po’ del suo aspetto: pareva più vecchio e triste di come appariva di solito, e notò delle ciocche grigie nei capelli. Il presidente strinse la mano al direttore dell’FBI. «Condoglianze», mormorò. L’altro alzò il capo. Aveva gli occhi lucidi. «Grazie, signore.» «So che è una magra consolazione, ma intendo conferire all’agente Parker la medaglia presidenziale al valore civile. Il Paese ha un grosso debito con lei.» «Su questo non ci sono dubbi. Aveva coraggio da vendere.» Calò un silenzio imbarazzato. Il presidente sembrò a disagio. Poi si rivolse a Monique. «Grazie per i suoi servigi, dottoressa Reynolds. E grazie per non aver rivelato l’esistenza del programma universale. Dev’essere difficile per uno scienziato nascondere la verità, ma in questo caso credo che non abbiamo altra scelta.» Lei gli strinse la mano, ma non fiatò. Per la prima volta da quando David la conosceva, pareva non sapere cosa dire. Quindi il presidente tese la destra a David. «E lei dev’essere il dottor Swift. Il suo nome compare diverse volte nei rapporti dell’FBI.» David, disorientato, gli strinse la mano. «Sì, esatto... L’FBI ama scrivere rapporti su di me.» Rimase là come un ebete, senza trovare nulla d’intelligente da dire. «Ho la brutta abitudine di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.» «Eravamo tutti nel posto sbagliato, temo. Ma lei ci ha aiutati a sistemare le cose.» Il presidente assunse un’espressione mesta. Poi sorrise. «Suppongo che ora tornerà alla Columbia e continuerà a dirigere Fisici per la Pace.» Gesù, pensò David. Stentava a crederci. Il presidente stava chiacchierando con lui.«Sì, stiamo combattendo una battaglia giusta. Abbiamo un’altra conferenza in programma per quest’autunno.» «Mi fa piacere. Sta facendo un lavoro importante. Dobbiamo trovare nuovi modi per superare i confini, perche´ quelli vecchi non funzionano più.» David annuì. Era vero: l’attivismo per la pace era più necessario che

mai. Dopo aver saputo del tradimento di Bennett, la Guardia rivoluzionaria aveva consegnato agli Stati Uniti tutto l’U-235 che Cyrus le aveva dato, ma il governo di Teheran produceva ancora uranio arricchito nell'impianto di Natanz.Sarebbe sicuramente scoppiato un altro conflitto sei cittadini di entrambi i Paesi non fossero rinsaviti. Il presidente fece un passo avanti. Mise una mano sulla spalla di Monique e l’altra su quella di David. «Ho una proposta per voi. Ho riflettuto sulla tragedia che ci ha colpiti e su ciò che avremmo potuto fare per impedirla. E ho concluso che mi servono informazioni più attendibili da parte della comunità scientifica.» Finalmente Monique ritrovò la voce. «Che cosa intende?» «C’è uno squilibrio. Ho centinaia di persone che mi danno consigli su questioni militari, diplomatiche ed economiche, tuttavia il mio rapporto con gli scienziati è limitato. O sono sepolti nella burocrazia federale o sono isolati nei campus universitari. Mi serve un collegamento. Qualcuno che mi metta in contatto con le menti più brillanti di ogni campo, soprattutto in caso di crisi.» Guardò intensamente prima Monique e poi

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David. «Potrebbe interessarvi?» David sorrise. Doveva essere uno scherzo. «Vuole che lavoriamo per lei?» «Non avreste una posizione ufficiale. Sareste più che altro consulenti. Vi chiamerei solo quando avessimo bisogno del vostro aiuto.» «Ma non siamo qualificati. Non abbiamo esperienza ne´...» «Non mi servono altri burocrati. Mi servono persone in gamba che abbiano molti agganci nella comunità scientifica. Voi due sareste perfetti.» David si rese conto che diceva sul serio. Il comandante in capo voleva il loro aiuto. «Non dovete rispondere subito. Pensateci. Vi chiamerà il capo dell’ufficio della Casa Bianca», aggiunse il presidente. David ci stava ancora pensando quattro ore dopo, quando tornò a New York City. Frastornato, lasciò Monique a casa e andò all’Upper Manhattan Autism Center a prendere Michael. Le ultime settimane erano state difficili per lui, che non aveva ancora superato il trauma del rapimento ne´ le cose terribili accadute in seguito. Due settimane dopo essere rientrato negli Stati Uniti, aveva dato un pugno a un insegnante e, dopo qualche giorno, aveva fracassato un computer. David gli aveva fissato altre sedute di terapia, ma i progressi erano lenti. Michael lo aspettava nella sala ricreativa, seduto a un tavolo quadrato sotto lo sguardo vigile del personale del centro. Chino su una pila di fogli, scarabocchiava qualcosa con una penna a sfera. Probabilmente trascriveva le parole di uno dei libri di scienze che aveva memorizzato. David lo osservò per qualche istante, stupendosi della sua espressione concentrata. Poi diede un colpetto al tavolo. «Sono arrivato, Michael. È ora di andare a casa.» Il ragazzo posò la penna, ma non lo guardò. Tenne gli occhi puntati sulle pagine. «Sei in ritardo. Saresti dovuto venire alle 17.00. Sono le 17.05.» «Mi dispiace. C’era molto traffico. Coraggio, andiamo.» Michael non si mosse. David intuì che aveva qualcos’altro in mente. In quelle situazioni aveva imparato che era meglio non mettergli fretta. Così aspettò. «Non mi piace più questa scuola», dichiarò il ragazzo alla fine. David sospirò. Non era la prima volta che facevano quella conversazione. «Ne abbiamo già parlato, Michael. Credo che questi insegnanti ti stiano aiutando molto.» «No, non è vero. Non imparo niente qui.» «Impari ad andare d’accordo con le altre persone. Ed è molto importante.» Michael scosse la testa. «Non mi piace questa scuola. Voglio cambiare.» La voce del ragazzo era calma, ma David notò che i membri del personale li osservavano attentamente. Doveva porre fine alla discussione prima che degenerasse. «D’accordo, ho capito. Fammi fare qualche ricerca, okay? Forse riesco a trovare un altro centro dove...» «Nonè necessario. Ho già trovato un’altra scuola e ho scaricato la domanda d’iscrizione.» Michael porse i moduli a David, che iniziò a sfogliarli. La documentazione era piuttosto lunga, con cinque o sei pagine di quesiti. I fogli erano nell’ordine sbagliato, ma Michael aveva risposto a tutte le domande con la sua calligrafia nitida. Aveva descritto le sue ambizioni, i suoi hobby preferiti e i suoi ricordi più felici. Aveva persino allegato la quota d’iscrizione, cinque banconote da

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venti dollari che aveva risparmiato dalla paghetta. Finalmente David trovò la prima pagina e vide il nome della scuola scritto in cima. Era la Columbia University. «Voglio studiare fisica. Voglio fare il fisico», disse Michael. David si commosse. Certo, pensò. Era la scelta ideale. Il ragazzo indicò una casella in fondo all’ultima pagina. «Ci vuole la tua firma. Dove dice ’Genitore o chi ne fa le veci’.» David si asciugò gli occhi. Poi prese la penna e posò il foglio sul tavolo. «È un piacere. Sarai un grande fisico, Michael.»

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NOTA DELL’AUTORE

Il bello di scrivere thriller scientifici è che si possono inserire teorie e tecnologie reali in una storia fittizia. Qui sotto troverete alcuni degli avvenimenti e dei principi scientifici che ho introdotto nel Teorema dell’apocalisse. Computer quantistici. Ho cominciato a interessarmi all’argomento nel 2008, quando ho fatto l’editing di un articolo scritto da due illustri esperti di calcolo quantistico: Christopher R. Monroe, dell’università del Maryland, e David J. Wineland, del National Institute of Standards and Technology. Monroe mi ha invitato nel suo laboratorio nel campus del College Park, dove i ricercatori stanno iniziando a costruire computer ultraveloci che usano gli ioni per eseguire i calcoli. Il computer di decodificazione descritto nel romanzo si basa sugli ingegnosi dispositivi che ho visto durante quella visita (ho semplificato alcuni dettagli; le vere trappole ioniche, per esempio, richiedono elettroni aggiuntivi e campi elettrici oscillanti). Chi volesse saperne di più può leggere «Quantum Computing with Ions», Scientific American, agosto 2008. It from Bit. Da decenni gli studiosi discutono dell’idea che l’universo sia un computer, in grado di eseguire un programma che diede il via al Big Bang. Ecco cosa scrive l’eminente fisico John Archibald Wheeler nella sua autobiografia, Geons, Black Holes, and Quantum Foam: A Life in Physics (1998): «Sono ora alle prese con una nuova visione, secondo cui ogni cosa è informazione. Più rifletto sul mistero del quanto e sulla nostra curiosa capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, e più vedo possibili ruoli fondamentali per la logica e l’informazione come basi della teoria fisica». Nel libro Il programma dell’universo, pubblicato nel 2006, il ricercatore Seth Lloyd scrive che le fluttuazioni quantistiche all’inizio del tempo avrebbero potuto

generare programmi semplici che organizzarono l’universo, gettando le basi per le leggi fisiche che avrebbero governato tutti i calcoli successivi. Il mio contributo all’argomento è la domanda: se l’universo è un computer, che cosa potrebbe bloccarlo? Excalibur. Negli anni ’80, Edward Teller – il padre della bomba H – promosse un’idea radicale per la difesa missilistica: abbattere gli ICBM sovietici con laser a raggi X ad alta energia alimentati da un’esplosione nucleare nello spazio. Dopo che i ricercatori ebbero testato la proposta con esplosioni nucleari sotterranee in Nevada, il progetto – chiamato prima «Excalibur» e poi «Super Excalibur» – diventò il fiore all’occhiello del programma Guerre stellari. I test successivi, tuttavia, dimostrarono che la tecnologia non era promettente come sembrava, e il governo la abbandonò. Excalibur non diventò mai un’arma, ma fu un passo verso l’ignoto, ed è facile immaginare che questo fenomeno fisico senza precedenti possa avere effetti imprevedibili. Un ottimo libro sull’argomento è Teller’s War di William J. Broad.

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Geologia del Turkmenistan. Un catastrofico incidente in un sito di trivellazione sovietico nel deserto del Karakum aprì una voragine che diventò il cratere di Darvaza, dove il fuoco alimentato dal gas naturale brucia da decenni. Anche lo Yangykala è un luogo reale in Turkmenistan, bello quanto il Grand Canyon, ma meno frequentato dai turisti. La caverna di Camp Cobra è simile a Kow Ata, un’enorme grotta ai piedi di un monte della catena Kopet Dag. E, sì, Kow Ata ha un lago sotterraneo. Si può fare il bagno, ma l’atmosfera è un po’ spettrale. Le stesse persone che mi hanno aiutato a migliorare L’ultima equazione, il primo libro della serie di David Swift, si sono rivelate preziose anche durante la stesura del Teorema dell’apocalisse. I miei amici di Scientific American sono stati per me fonte di sostegno e d’incoraggiamento. I membri del mio gruppo di scrittura – Rick Eisenberg, Johanna Fiedler, Steve Goldstone, Dave King, Melissa Knox ed Eva Mekler – hanno letto e riletto il manoscritto e mi hanno pazientemente segnalato gli errori. Il mio agente, Dan Lazar della Writers House, si è assicurato che rispettassi le scadenze, e Sulay Hernandez della Touchstone ha fatto l’editing del libro con precisione e fantasia. Infine, ancora una volta, ho un grande debito di gratitudine con mia moglie, che mi ha ricordato quanto sono fortunato.