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TRACALICE EBICCHIERE Mario Lozzi "Storie di Montefiascone" Storie di don Sante del Zampa

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TRA CALICEE BICCHIERE

Mario Lozzi

"Storie di Montefiascone"

Storie di don Santedel Zampa

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Mario Lozzi

TRA CALICE E BICCHIERE

Storie di don Sante del Zampa

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Dedico questo libro ai miei Genitori, Vincenzo Bologna e OliveraMezzetti, per i miei Figli Nicoletta e Giulio V.

Ringrazio Mario Lozzi dalle doti straordinarie di narratore, l'amicoFrancesco Marzetti, Meki, che ha reso il libro ancora più colorito edon Agostino che ha messo a disposizione i taccuini con le poesie e idisegni di don Sante.

Non ultimo ringrazio di cuore l'amico Giancarlo Breccola, che nonha esitato a rendere il tutto fattibile senza battere ciglio. ConsideroGiancarlo un grande patrimonio culturale vivente per Montefiascone,per la divulgazione continua che opera a tutti i livelli in grado di for-nire un sano stimolo a piacevoli discussioni ed all’amore per le cosebelle della nostra terra.

Grazie, Gabriele Bologna

Montefiascone, 18 marzo 2004

P.S. mi auguro che “Don Sante” sia di stimolo alla ricerca ed allascrittura di nuove... STORIE DI MONTEFIASCONE

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INTRODUZIONE

Non credo che chi ha conosciuto Don Sante l’abbia potuto dimenticare.La sua figura era così simpatica, il suo conversare così spiritoso, il suo com-portamento così affabile che diveniva facile stringere e conservare con luirapporti di amicizia e di cordialità. Gli piaceva (e parecchio!) il vino, è vero,ma se pensiamo che per amore del vino falisco ci fu una volta un baronetedesco che addirittura ci stese le cuoia, possiamo anche perdonare a DonSante questa debolezza. Quel cannellino frizzante e saporoso era per lui unatentazione irresistibile e, dopo qualche bicchiere, Don Sante diveniva anchepiù spiritoso e simpatico…

PIETRO VOLPINI, La sete di Don Sante, “La Voce” aprile 1974

Dove sono andate le persone argute di un tempo, quando la cibernetica,l’informatica, tutte le altre... “etiche” (e le tasse) erano le mille miglia lon-tane dalla gente che trascorreva la sua vita così come Dio la mandava!!C’era spazio anche per un sorriso, la seriosità e la musoneria, figlie delleinnumerevoli odierne preoccupazioni, erano appannaggio di pochi ricchi edei pessimisti per natura. Ed allora, come il viandante stanco che si fermavicino ad una sorgente di acqua fresca per riposarsi e riprendere poi il cam-mino con più lena e con rinnovato ottimismo, riposiamoci anche noi rac-contando di un prete originale, Don Sante, vissuto a Montefiascone moltianni fa: costui non saliva mai in cattedra, stava tra la gente, ne ascoltava idiscorsi e non disdegnava il bicchieretto di vino che gli veniva offerto quasisempre perché la gente stessa gli voleva bene e lo considerava come uno deisuoi…

ZELINDO GIANLORENZO, Il Mistero della Trinità spiegato al popolo, “La

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Voce” aprile 1999

Andare per via con don Sante era un piacere e un disagio insieme: dis-agio ameno, s’intende, ma pur sempre disagio. Sostava ad ogni passo, oraper salutare, ora per commentare, ed ora per stendere una interessante mac-chietta. Tanti incontri, tante fermate, o fermatone, più o meno saporite, piùo meno lunghe, a seconda del tipo di incontro. Amicone e in buoni rapporticon tutti, con ognuno aveva qualcosa in comune: pranzi, cene, feste, bevu-tine fuori sede, baruffe, sì, anche le baruffe quando trovandosi su di giri,veniva seccamente punto sul suo punto debole, come pure di ognuno cono-sceva bene nomi, soprannomi, virtù e vizi e si divertiva a metterli in vistaridendoci sopra con la semplicità di un bambino, senza trovarvi ne maliziane scortesia ma sempre un tratto di piena amicizia e confidenza.

Inoltre per natura era così portato a colloquiare da farlo perfino da solosdoppiandosi, oppure cogli oggetti di casa o colle piante dell’orto. Da veropoeta, ricco di fantasia, in ogni cosa o in ogni persona, per quanto vario nefosse il tipo, ci vedeva un’anima, un volto, un linguaggio; ascoltava erispondeva dando luogo ad un conversare singolare e gentile.

In quei momenti di gioiosa apertura don Sante ricordando scordava,mentre le ore fuggivano via senza accorgersene, però se ne accorgeva e nonpoco chi l’accompagnava, infatti correva il rischio di mandare a monte gliimpegni e gli appuntamenti. D’altra parte a sollecitarlo non servivano netiratine di veste, ne pizzicotti sulla mano, ne impazienti richiami. Tutto inu-tile e tutto in qualche modo si faceva penoso.

Però quest’aspetto negativo, di gran lunga veniva compensato dal latospassoso che consisteva nell’ascoltare lui e chi con lui parlava. Era una spe-cie di scuola ambulante sul tipo di Socrate o di Aristotele; le lezioni vivacie pratiche, vi fioriva saggezza e prudenza della vita vissuta...

DOMENICO CRUCIANI, Arguzie e buon umore, “La Voce” ottobre 1987.

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Tutte le domenichemattina, con il vento, lapioggia o il sole aspet-tavo sul ciglio dellastrada maestra, donSante che, a cavallo diuna bicicletta da“donna” di color nero,si recava alle Guardie adire la Messa.

Certamente non eroil solo ragazzino adattendere le caramelledi don Sante, ma ricor-do perfettamente chelui, già anziano con icapelli canuti, sempresorridente e arguto, siintratteneva più con meche con gli altri bambi-ni, forse perché aveva saputo che di soprannome - per via della mia chiomaquasi albina - mi chiamavano proprio “Don Sante”.

Lo vedevamo venire abbastanza speditamente da verso le Grazie, latonaca logora, svolazzante e gli occhiali che brillavano al sole. Arrivatodavanti allo spaccio di “Sammistrà”, si fermava, appoggiava il suo bicicloche aveva le retine sulla ruota posteriore per non strappargli la sottana, equando tutti i ragazzi lo avevano circondato, lui tirava fuori dalle tasche unamanciata di caramelle e, a volte, le tirava in aria e poi rideva della gazzarrache si faceva per prenderle.

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Da un taccuino di poesie di don Sante

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All’andata don Sante si fermava poco, aveva fretta di arrivare alleGuardie che distavano ancora tre chilometri ma al ritorno, prima di mezzo-giorno amava intrattenersi di più con noi bambini e anche con gli adultidella Madonnella che lui tutti conosceva e per i quali aveva sempre la suabattuta.

Al ritorno don Sante era sempre ben fornito di fuscellette di ricotta, dipezzi di formaggio, di canestrini di frutta... erano i segni della gratitudinedei contadini delle Guardie che lui non lasciava mai senza una Messa.

lo ero così piccolo che, purtroppo, non ricordo le parole che ci dicevaanche se ho la vaga sensazione di ricordare addirittura il suono della suavoce... un po’ greve, ma giovanile.

Della sua semplicità e della sua bontà ho però, direi un’immagine vivaperché, allora specie per noi bambini la figura del prete era un po’ comequella del carabiniere: ci incuteva timore e la nostra timidezza di ragazzi dicampagna non ci permetteva nessuna confidenza con siffatte persone.

Ma con don Sante era diverso, questo me lo ricordo bene.Quasi tutti noi infatti abbiamo imparato ad andare in bicicletta servendo-

ci della sua e lui lasciava fare, raccomandandoci soltanto di non cadere.Oltre alle caramelle, don Sante ci regalava anche i “santini” che cacciavafuori da qualche tasca all’interno della tonaca (che mistero per noi piccolile tasche dei preti... nascoste sotto la veste nera).

D’estate don Sante si fermava tutto sudato, allora si metteva seduto sottoun albero al ciglio della strada e tirava fuori un fazzoletto bianco grandecome un lenzuolo e si asciugava, mentre la solita frotta di ragazzini gli sirannicchiava intorno evidentemente per ascoltare le sue storielle dove, sen-z’altro, lui infilava anche qualche buon consiglio e qualche sano avverti-mento.

Naturalmente quando ripartiva sulla sua bicicletta “da donna” noi gli sicorreva dietro e lo si accompagnava fino al “ponte” se andava alla Guardiee fino al “cancello di Zucchino” se ritornava alle Grazie.

Lui allora aumentava l’andatura e rideva come un ragazzino e se qualcu-no gli si attaccava al sellino, allora scherzando, scalciava all’indietro per fardesistere dall’inseguimento i suoi piccoli grandi amici della Madonnella.

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I passaggi di don Sante, nei miei ricordi, abbracciano un arco di tempoabbastanza vasto negli anni del dopoguerra... poi lui non passò più, o forsecontinuò ancora a transitare per un po’ sulla sua bicicletta nera, ma noi bam-bini, già cresciuti, le domeniche mattina si andava in giro per i campi o agiocare alla guerra o a “rubare” l’uva e gli altri frutti, non certo per il gustodella “rapina”, ma soltanto più semplicemente per sfamarci un poco.

Da quelle domeniche mattina io non rividi mai più don Sante, lui nonandava più a dir la Messa alle Guardie... ma andava verso la fine dei suoilaboriosi giorni.

Ricordo che il suo nome lo lessi un giorno su una delle prime riviste dio-cesane del nuovo vescovo Boccadoro, sopra e sotto il nome “Don Sante DelZampa” c’erano due righe nere, voleva dire che don Sante era morto.

UMBERTO RICCI, Il passaggio di Don Sante, “La Voce” maggio 1976.

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LA COSA STA ACCUSÌNE

Dicono che la vita adè un misteroche passa. E tutt’è nnutele, che tantoogni faccenna, dicono e adè verola tròe rissotterrata ar camposanto.

Pe’ capisse: la vita è ‘na barlozzapienata con quer tanto de boccalee gnente più. Quarchiduno te strozzaquarc’artro è dorce e quarc’antro ‘n c’è male.

Ognuno che se scòla, adè uno menoe nun penza chi bée ancancaritoche suganno, suganno, scema ‘r pièno

E quanno ner bigonzo adè funito‘r vinaccio de la vita, c’è ‘r velenod’annà da Brucia ‘ndo tutto è sparito. 1

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LE NOTE SONO A CURA DI GIANCARLO BRECCOLA

1. Brucia era il soprannome del custode del camposanto.

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PRIMO BOCCALE

Il sangue del lupo sapeva di libertà.Egli viveva fra i boschi. Quella era la sua casa dove trovava il cibo e il

riparo contro la falce acuta del freddo e lo scroscio dell’acqua… Ma ilbosco diventava sempre più piccolo poiché l’animale con due zampe lotagliava e, spesso, lo bruciava come se non fosse cosa viva, ma solo unmezzo per accrescere la sua ricchezza.

Così il lupo doveva fuggire sempre più lontano. In alto. Sulle montagnedove gli alberi sono radi e la grande fiamma non può estendersi troppo.Sempre inseguito dai canti della scure…

Più in alto, dove c’è la casa dell’erba stentata e della pietra scabra. Ma ilcibo per il lupo non c’è.

Allora l’animale selvaggio, figlio della libertà guardava verso il basso.Laggiù l’animale a due zampe aveva stabilito il suo regno.

E c’erano, vicino alle tane che egli s’era costruito, altre forme simili aquella del lupo, che potevano giocare e far crescere i figli perché avevanocibo.

Il lupo non lo sapeva, ma anche loro avevano corso i boschi come lui.Cento, mille morsi di tempo prima.

E poi la fame li aveva resi servi dell’animale con due zampe e lui liaveva chiamati cani. Essi erano molto simili al lupo; forse avrebbero potutopartecipare con lui un po’ di cibo.

Così, una notte, si avvicinò e tentò di uggiolare un verso per dire cheveniva in pace.

Ma i cani sentirono l’odore del selvatico. Era profumo di libertà, scorda-ta da lunghissimi tempi, quelli del guinzaglio, della frusta e della testa chi-nata.

Era un odore che non potevano sopportare perché risvegliava un cantuc-cio della memoria dove s’era annidata la vergogna.

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Allora assalirono il lupo, lo morsero a sangue.Lo cacciarono lontano. Su, fino al regno della roccia che lima la pelle.

Su, a morire con occhi di libertà, dove il cibo non c’è.Infatti i cani forse sanno che è loro fratello, ma il suo odore è inconsueto.

E perciò diventa un nemico. Agrummeste. 2

2. Una volta un prete, nel bere al sacro calice, si accorse che il vino sapeva d'acetoe disse "Agrum est". Il dialetto l'ha storpiato e lo usa per descrivere qualcosa di aspro e dimolto scomodo.

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SECONDO BOCCALE

Dalla scheda biografica di don SANTE DEL ZAMPA di mons. LuigiBoccadoro.3

Nato ad Acquapendente il 13 marzo 1883Ordinato sacerdote il 9 settembre 1911Morto a Montefiascone il 3 dicembre 1960Parroco ad Arlena di CastroA servizio delle parrocchie rurali di MontefiasconeCappellano alle “Guardie” e all’Ospedale civile

Tutto qui. La sua vita, per chi volesse ricostruirla, sta racchiusa in questesei righe. Dunque era nato ad Acquapendente: “Buon pane, buon vino e cat-tiva gente!” Dicono i maligni vicini. E si sbagliano perché don Sante eraprofondissimamente buono. Tant’è vero che una vecchia della Madonnelladisse di lui: “Nun adè ‘n pezzo de pane , adè ‘n pezzo de pizza de Pasqua!”E non so se mi spiego.

Quello che tento di fare è un ritratto da anziano, quando l’ho conosciuto.Un gran testone bianco, candido.4 Un viso e un collo rosso papavero. Ilresto nascosto sotto una tonaca sempre sdrucita e stinta che lasciava intra-vedere abbondanti rotondità, soprattutto epatiche.

3. BOCCADORO, LUIGI, Spiritualità diocesana dei vescovi e sacerdoti viterbesi(1951-1997), Montefiascone 1998.

4. "La sua candida argentea chioma era diventata tale in seguito ad un atto di gio-vanile baldanza andatogli male. E fu quando, su sfida, osò attraversare lo stretto cornicionedella chiesa di S. Bartolomeo in Seminario. Lo spavaldo, sicuro di sé, si accinse all'arduaimpresa con la persuasione di farla franca. Sennonché, ad un certo punto, per un passo nonben calcolato, minacciò di perdere l'equilibrio e di ruzzolare giù nell'abisso. Fu un momen-to, ma bastò quel momento per renderlo completamente canuto e per sempre"; CRUCIA-NI, DOMENICO, in "La Voce", Montefiascone, ottobre 1986, p. 6.

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Camminava sempre con lentezza: lemme, lemme, ma arrivava sempre.Aveva mani grosse, da contadino, robuste, piene di vene e tendini comeradici, ma un non so che di liscio sul palmo, nonostante i calli, come sefosse fatto soltanto per carezzare. I piedi erano stivati dentro scarpacce ricu-cite mille volte dal calzolaio ed inutilmente lucidate, ogni secolo circa, conla vernicetta nera. E quando le metteva, pregava così: “Signore fate che ‘rpecione,5 ar posto der sòlo 6 nun ci abbie messo ‘r cartone!”

Una specie di barilotto sorridente che non poteva generare assolutamen-te timore o disagio in qualunque interlocutore del mondo.

Ci aveva messo un sacco d’anni per arrivare all’ordinazione sacerdotaleper via del suo rapporto conflittuale col latino e delle sue idee stragiste neiconfronti del greco. Infatti, ogni volta che pronunciava le formule liturgi-che, preferiva borbottarle per conto suo, come se avesse paura che gli ascol-tatori si impressionassero di fronte alla maestà della lingua latina campesta-ta da lui.

Il disagio degli altri non faceva piacere a don Sante. Voleva bene a tuttie, in un certo senso, anche a quelli che lo avevano in antipatia.“Io so’ come un pajariccio - diceva - me pònno menà quanto je pare! A

la fine se stràccono!” E rideva a bocca larga con quella sua precarietà didenti che mo c’erono e mo nun c’èrono. Dicevano che quando rideva sem-brava una motosega.

Viveva in comunione con le piante e con gli uomini anche se, qualchevolta, gli uomini delle leggi non avevano paranza con lui. Perché a lui, leleggi, non sconfinferavano troppo. Così dovette fare i conti con vari perso-naggi che elencherò per quanto me li ricordo.

5. Ciabattino non troppo rifinito; il termine deriva dall'uso della pece che il calzo-laio faceva nel suo lavoro.

6. Suola di cuoio.

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TERZO BOCCALE

Sua Eccellenza mons. GiovanniRosi, il Vescovo, era un uomo cereo.7Impassibile. La legge fatta carne.Anzi, fatta ossa, poiché il Vescovo eraasciutto in modo tale che di lui, proba-bilmente si poteva intuire solo lapelle, distesa sopra una struttura dicalcio, senza quella carne che avrebbepotuto suggerire un qualche ammancodi ascesi. Era davvero un asceta.Veniva dal nord. Da Cremona.

7. "GIOVANNI ROSI vescovo diMontefiascone (Comisano 27/06/1872 -Montefiascone 05/04/1951) consacratovescovo il 29/01/1911. Il Vescovo ha daCristo il divino potere di governare i fedeli: ilVescovo Giovanni Rosi ebbe la grazia diadempiere bene questo servizio ministeriale elo esercitò degnamente. Per 40 anni: insegnòcostantemente che ''Capo della Chiesa èCristo'' (Ef V, 23-IV, 4). Questa è la dottrinache il Vescovo Giovanni Rosi rendeva eviden-te con la sua opera e persona. Eletto, scelto,''Posto a Capo'' della Chiesa Falisca, resetestimonianza a questa verità con l'umiltà delsuo agire, la chiarezza del suo atteggiamentosempre lontano da ogni ambiguità, da ognidubbio. Istituì a tal fine, a mezzo delle Maestre Pie, in tutte le Parrocchie, l'insegnamentodella Dottrina Cristiana in forma di vera e propria scuola. Le Maestre Pie - soleva dire -sono il secondo Clero che, a servizio esclusivo della dottrina per mezzo della catechesi,davano all'adolescenza i motivi della fede, speranza, carità. Curò e concluse il processo diCanonizzazione di S. Lucia Filippini che costituì Patrona della Diocesi e avviò quello delCard. Barbarigo. Celebrò due Congressi Eucaristici. Il suo sepolcro, giustamente, doveva

Il vescovo Giovanni Rosi

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Era stato uno stimatissimo insegnante di teologia finché, su istanza delcardinale Schuster,8 vescovo di Milano e suo grande amico, gli era stataaffidata la diocesi di Montefiascone.

Era un uomo d’un coraggio straordinario che non aveva avuto paura dicondannare il fascismo nelle sue prediche pubbliche. Forse non l’avevanomandato in un campo di concentramento perché più magro di com’era nonsarebbe potuto diventare. La sua personalità era però possente e, prima opoi, finiva per plagiare tutti quelli che gli stavano intorno. Tanto per dirneuna: lui pronunciava la esse strascicata: una via di mezzo fra esse e sci. Beh,quasi tutti i preti della curia avevano finito per assumere quella esse. AncheLoreto, il portinaio, che alla domanda di chi chiedeva se il Vescovo fosse incasa rispondeva : “No, sciua Eccellenza non è ancora rincaciato!” E c’erachi si domandava che cosa avesse mai a che fare il Vescovo con il cacio.

Viveva nel tetro palazzo vescovile, antico, affrescato, pieno di storia e dicrepacci sulle mura. Crepacci larghi che, quando la tramontana maligna ciinfilava dentro il fiato, pareva di stare al polo nord. Era poverissimo, infattisi dice che fosse morto dal freddo, in un inverno particolarmente scoglio-nato. Era inflessibile, a cominciare da se stesso.

Me lo ricordo, un anno, per la festa di Santa Margherita nel cuore dell’a-fa. Un caldo da fornetto per la cura dell’artrite. Il Vescovo arrivò in Chiesapreceduto dalla croce astile e da una fila di seminaristi e di preti. Quandoentrò, sotto la cupola scoppiò il canto della Schola Cantorum che lo accla-ma come il grande Sacerdote.

essere ed è nel Santuario della Patrona, S. Lucia. Le virtù cardinali: Prudenza, Giustizia,Fortezza, Temperanza, che caratterizzano la vita di questo santo Pastore, adornano nellabella scultura di Dante Ruffini, il sarcofago che porta l'epigrafe: ''JOANNI CREMENSISUCCESSOR''; BOCCADORO, LUIGI, Spiritualità diocesana dei vescovi e sacerdotiviterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

8. ALFREDO ILDEFONSO SCHUSTER, cardinale italiano (Roma 1880 - Venegono,Varese, 1954). Benedettino cassinese (1898), sacerdote (1904), abate di San Paolo fuori lemura (1918), cardinale e arcivescovo di Milano (1929), diede grande impulso alla diocesi,sviluppando soprattutto l'Azione cattolica. Attento ai problemi politici del suo tempo, nel-l'aprile 1945 si offrì come mediatore nelle trattative di resa tra Mussolini e il CLNAI.Lasciò vari scritti di liturgia e storia sacra.

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“LA SKOLA CANTORUM” con autoritratto di don Sante in alto a sinistra

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Arrivò alla Cattedra e lì gli misero le soprascarpe rosse, il camice pre-zioso sopra la tonaca rossa, il cingolo, una dalmatica da suddiacono, una,più grossa, da diacono, la pianeta da 20 chili di pietre preziose e di perle, lamitria, un paio di guanti rossi con l’anello infilato sopra.

Io ero piccolo e guardavo. Pensavo: “Mo scoppia!” Invece niente: stavarigido con le mani giunte, fermo come uno stollo di pagliaio. E, una moscagli si posò sulla guancia. E lui fermo. E quella passeggiava qua e là. E luiimmobile. Quella gli percorse tutta la pelle del viso ed io guardavo senzapiù sentire niente della liturgia solenne che alitava preghiere e canti lì intor-no. Mi si annodavano le budella a vedere il Vescovo con tutta quella robaaddosso e la mosca sulla faccia e non ci potevo credere che lui restasse cosìmonolitico…

Per fortuna, sennò sarei svenuto, la mosca gli si infilò in una narice. Uncristiano normale avrebbe sfrociato,9 lui no. Mosse leggermente una manoe la bestia capì subito l’imperio celato in quel gesto trascurabile. E volò via.Così le budella mi tornarono a posto.

Ma lui, così, ti affascinava e costringeva, senza dire niente, ad un conte-gno solenne pure l’armata brancaleone dei canonici nei loro stalli. E donSante diceva, usando il plurale al femminile del dialetto montefiasconese:“Le Canoniche stanno ma le stalle! Pònno esse artro che somare?” E ride-va sdentacchiato e con un rantolo di sottofondo che dava l’idea di come cela mettesse tutta.

Quando il Vescovo predicava formava la delizia di quelli più vicini, poi-ché parlava splendidamente, e il tormento per quelli più lontani che nonsentivano la sua voce flebile e dovevano stare per tre quarti d’ora senzacapire un tubo. Noi ragazzi della Schola Cantorum sgattaiolavamo nel cam-panile dove Paoluccio de Terzoli ci faceva giocare a ciribillì 10 finché, per

9. Sfrociare: espellere energicamente aria dal naso nel modo tipico degli equini.10. Il ciribillì era una variante manesca del gioco del vola vola… Si giocava stando

intorno al capo gioco e poggiando l'indice della mano sul ginocchio del capo gioco o su unqualsiasi appoggio. Il capo gioco diceva: "Vola, vola, vola…" e poi, alzando il dito, il nomedi un animale o di un oggetto. I giocatori dovevano alzare il dito soltanto se la cosa nomi-nata volava effettivamente; in caso d'errore si pagava pegno. Il pegno, nel caso del ciribillì,

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la troppa cagnara, nonarrivava qualcuno aprenderci a scaporzoni.

Il Vescovo aveva unanello con una pietratroppo grossa che glidava fastidio al mignolo.Perciò lo teneva semprediritto. Ma quando, nellafoga del discorso, punta-va l’indice contro il pec-cato, la gente vedeval’universale segno dellecorna.

E i contadini diceva-no: “Chissà perché ‘lVesco quanno predica cefa le corna? Se vede chea forza de confessa ledonne s’è fatto capaceche semo tutte cornute!”Ma il Vescovo non se nerese conto mai. Se se lo fosse immaginato magari si sarebbe tagliato ilmignolo. Perché lui era la legge fatta ossa!

E don Sante no!Per questo i loro rapporti, rari, avevano sempre qualcosa di tempestoso.Il Vescovo, una volta, lo fece chiamare e gli disse: “Don Sante, abbiate

giudizio, perché la gente dice male di voi!”E don Sante: “Non date retta, Eccellenza, so’ tutte male lingue!”

consisteva nell'essere tenuto fortemente per un orecchio dal capo gioco il quale, dopo averdetto: "Butta quanto me", costringeva il malcapitato ad una specie di morra. La penitenzaterminava soltanto quando si verificava uniformità tra la buttata del capo gruppo e quelladella vittima.

IL VESCOVO ROSI MENTRE FA “LE CORNA” disegno di Zelindo Gianlorenzo

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“Ma donSante - fece ilVescovo - voi losapere che VoxPopuli, vox dei:la voce del popo-lo è quella diDio!”“Ahio!” fece

don Sante.“E perché

adesso vi lamen-tate?”“ Perché -

disse don Sante -se le cose stannocosì, ci va maleper tutt’e due. Los a p e t e ,E c c e l l e n z a ?Anche di voi nonc’è un cane chedice bene!”

Come fosseandata a finirenon è dato disapere. Tutto èrimasto nel segreto del Palazzo. Però don Sante, da allora, diceva, perfinoin latino: “Ab Episcopo, longe”. E traduceva: “Sta lontano dal Vescovo unabarca de refe!”.11

11. Il refe, filo notoriamente robusto, era usato dai pescatori del lago per le loro reti.Essendo molto sottile, per riempirne una barca ce ne voleva una grande quantità e la sualunghezza era perciò indicativa di una distanza pressoché infinita.

MARIO LOZZI

disegno di Francesco Marzetti

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QUARTO BOCCALE

I Canonici. Me li ricordo nel coro di legno massiccio a baccagliare lepreghiere del breviario. Avevano cotte sontuose, di merletto fine e, per lefeste ricordatore, mettevano una cappa che per alcuni di loro era d’ermel-lino vero, per qualche altro era di coniglio bianco.

Tutte le mattine e le sere si riunivano nel coro di Santa Margherita perrecitare le lodi del Signore ed i vespri. Si preparavano nello sacrestia grandecon gli enormi armadi di legno e, sopra, i ritratti dei più notevoli Cardinali-Vescovi di Montefiascone.

Due finestroni grandi come il panorama, illuminavano tutto il severocomplesso ligneo.

D’inverno, al centro della sacrestia, ardeva un braciere d’ottone, parec-chio panciuto e i canonici che arrivavano gelati, la mattina presto, ci anda-vano a consolare un po’ i geloni delle mani. Invece i Cappellani avevanouna sacrestiola piccola, buia e puzzolente di muffa. Come si confaceva alloro rango inferiore.

Niente braciere, niente finestroni, niente grandi quadri. Era condivisaaddirittura con i chierichetti che vi accatastavano alla rinfusa le piccolecotte e sottane ed ogni volta litigavano per ritrovare ognuno il proprio indu-mento. I cappellani allora intervenivano e li pacificavano, a volte con laparola, a volte con l’esempio di qualche sganassone dato bene.

I cappellani erano due: don Sante e don Guido. Amici di fatiche, bevutee battute sornione nei confronti dei canonici, alteri nella loro divisa ed orga-nizzazione sociale.

Una volta, era il 6 di gennaio, i canonici stavano recitando le lodi.I cappellani sedevano nella fila di seggi inferiore e borbottavano anche

loro le preghiere del coro. Ma erano i canonici che intonavano i canti conle antifone. Almeno due di loro avevano una bella voce ed erano perciò incolluttazione vocale.

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Il canonico Fanali aveva unavoce di basso profondo che ti face-va annacquà le budella,12 il cano-nico Jacoponi aveva una squillantevoce da tenore.13 Uno di loro due,non mi ricordo chi, si alzò per into-nare la sua antifona e forse per lasolennità della festa, forse per l’ec-cellente stato vocale, intonò intono inconsueto, con mille ghirigo-ri e toni plagali che non finivanopiù. Finì con un gorgheggio raffi-nato. E don Guido, non troppo insottofondo: “Se’, don Sa’, le ce sespollina 14 co’ la voce. Se vede chela Befana jà cacato pure ma lue!”Grave, grave, grave scandalo! Che

12. "DON ELPIDIO FANALI (Montefiascone 22/11/1870 - 19/06/1952) ordinatosacerdote il 18/03/1905. Canonico cantore del Capitolo cattedrale di S. Margherita.Famoso per la sua voce, possente, unica; sebbene non musico, cantò ogni musica con unlettore dello spartito a fianco. La gente riempiva la Cattedrale per ascoltarlo in assoluto,meditativo silenzio. Predicò, cantando la lode di Dio; cantò con l'esempio di intemeratavita. Era di carattere inalterabilmente mite e la sua pietà era rimasta quella fiduciosa deifanciulli. Abitava in via Oreste Borghese all'ultimo piano del palazzo in faccia al lago. Dilassù ogni tanto la valle accoglieva e ripeteva l'eco di un canto"; BOCCADORO, LUIGI,Spiritualità diocesana dei vescovi e sacerdoti viterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

13. "MONS. ARMANDO JACOPONI (Montefiascone 29/07/1891 - 11/08/1971)ordinato sacerdote il 29/05/1915. Inizia il suo ministero tra i soldati della grande guerra1915-18 in cui fu ferito; lo compì fra gli anziani dell'ONPI a Montefiascone fra i quali fubenemerito per l'amore e la generosità che vi diffuse a favore del Seminario. Curò i restauridel Tempio di S. Flaviano che ebbe in consegna fino alla erezione a sede parrocchiale diS. Maria delle Grazie. Canonico della Cattedrale. Nominato dalla Sovrintendenza ai BeniCulturali custode e guardiano dell'ambiente, seppe difendere il suolo degradante verso illago o verso Viterbo, dall'invadenza di costruzioni a danno di un panorama unico almondo. Cameriere Segreto di S.S."; BOCCADORO, LUIGI, Spiritualità diocesana deivescovi e sacerdoti viterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

14. Quanto ci prende gusto; come la gallina che, con grande soddisfazione, si togliei pidocchi strofinandosi per terra.

MARIO LOZZI

Don Armando Jacoponi

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però fu solosottolineatoda occhia-tacce, poi-ché si sape-va che i dueerano incor-reggibili, ela casa delSignore noni n c u t e v aloro ilr i s p e t t od o v u t oforse perchécome dice-va donSante: “Io e‘r Signoresemo pappae ciccia!”

D o nG u i d oPresciuttiniera il compagno inseparabile di don Sante. Prima di lui era stato cappellanodell’ospedale e quindi aveva avuto l’incombenza di accompagnare i mortial cimitero. Andava dondolando dietro la croce e davanti alla cassa delmorto e borbottava di continuo. Fra le altre cose, intervallando le preghierediceva:” Boh! Io so’ cappellano der Camposanto da un sacco d’anni, mame sa che nu’ lo conosco tutto! Quello do’ accompagno li morti è fatto solope’ le persone bòne. Mai che trovassi la tomba d’un latro, d’una zoccola,d’un cornuto ! Tutti onesti, puliti e sinceri! Do’ li metteranno quelli gattivi,Dio solo lo sa! Booooh!”

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disegno di Francesco Marzetti

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15. Culo.16. Beveva a tonfo, cioè direttamente dal boccione.

Don Guido s’era rotto un braccio, parecchio tempo prima. Tutt’e due leossa e la scienza medica aveva dovuto travagliare non poco per rabberciareulna e radio. Dice che il dottore d’allora ci aveva faticato parecchio e ciaveva messo tutta l’arte che poteva. Però mi sa che aveva potuto poco.Infatti, quando gli fu levata la gigantesca ingessatura, si accorsero che eranostati intricati gli agganci e così la mano sinistra di don Guido era a rovescio.

Quando faceva il saluto del Dominus vobiscum allargava le mani e parevache nuotasse lo stile libero. E lo sfottevano. “Don Gui’, perché quanno date‘r domminussobisco pare che invece de mannaccelo ‘r Signore, le cacciatecome le mosche?” E don Guido tollerava, ma quando non ne poteva più,esplodeva: “Ma vattala a pijà nder ghèghene! 15 Tu e ‘r dottore che me sache con quello ha raggionato invece che co’ la capoccia!” Nessuno se laprendeva perché da don Guido e don Sante la gente accettava tutto.

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disegno di Francesco Marzetti

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Ho detto che erano in due, i cappellani, dentro la sacrestiola buia e fred-da. In realtà erano tre: don Sante, don Guido e il vino che stava dentro unboccione accuratamente celato fra le vecchie tavole intagliate. C’era sem-pre e veniva rinnovato a notevole velocità. Anche perché il vecchio sacre-stano faceva la posta e, se lo trova-va, ci si attaccava con devozioneed entusiasmo. E don Sante glidiceva: “Lo sai, Santi’, o tu sei unoche a collazione magna pane efaina, o sinnò ne sta’ morammazza-ta de sacrestia ‘r vetro diventa fra-dicio e ‘r vino svapora!”“Svapora, svapora!” diceva subitoSantino. “Credemice un po’”sospirava don Sante.

Io lo vedevo il sacrestano quan-do tonfava 16 ma non avevo vocein capitolo. I cappellani non pote-vano scoprirlo perché fra una liba-gione e l’altra non era facile perniente conoscere e ricordare illivello del vino nel boccione.

Il capo dei canonici era il deca-no: monsignor Latino Salotti.17 Un uomo colto, intelligente, un po’ brusco.Spesso rimproverava aspramente i due cappellani, quando la loro andaturaera così ambigua da non sapere verso quale altare volessero andare.“Vergogna! - diceva - abbiate un contegno da sacerdoti e non da servi delvino!”

17. "MONS. LATINO SALOTTI (Grotte di Castro 18/03/1877 - Montefiascone01/02/1971) ordinato sacerdote il 20/09/1900. 1900-1920: Professore in Seminario. 1920-1971: Parroco - Decano - S. Margherita. 1951: Vicario Capitolare. Scrittore elegante, sag-gista apprezzato, storico preciso, pubblicista fecondo. Soprattutto: predicatore ascoltato,catechista efficace, parroco esimio, sacerdote esemplare; BOCCADORO, LUIGI,Spiritualità diocesana dei vescovi e sacerdoti viterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

Mons. Latino Salotti

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E passava oltre. Altero e duro, con una mano perennemente in tasca eda petto in fuori.

Fra le cartacce che scriveva ogni tanto, mi è restata questa nota poeticadi don Sante, indirizzata al decano Salotti:

Tu, che di botti hai piena la cantina,quando bevi nessun te lo misurae ci hai la serva che ti sta in cucinae stura la barlozza e la riattura.Tu non paghi tasse e bolloTu non hai alcun controllo.Solo a ‘sto pòro pretete metti a fa’ li conti quanno ha sete.

E mugugnava tra sé quando qualche anima buona riteneva di doverlocaritatevolmente correggere: “Tutti nun hanno altro che dì quanto bevo, mamica dicono mai quanto ho sete!”

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QUINTO BOCCALE

Oh! Molti nomi gli dettero i mortali.Dicono che fosse figlio di Zeusnato da madre bella e caducache lo donò alla mano del fatoquando la folgore l’incenerì.

E fu chiamato il Grido, la Furia,la Danza del grande Fragore.

Egli era Dioniso-Baccoil dio dell’orgia e del sogno,del vino che genera dolci pensieri.

Io voglio narrare di quandoTitani selvaggi e furentilo presero, bimbo innocentenel gioco de1 rendere verala vite prima ed il tralcio d’oroe il chicco ambrato dell’uva.

Essi lo presero a serafatto di membra infantililo lacerarono a braniper divorare la carnebambina del piccolo dio.

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Ma sfuggì nella terrail cuore piccino di luie dal suo cuore rinacquee fu Bacco-Zagreo,18 laceratoper cibo ai Titani tremendi.

E cadde sopra di essi,essi, i giganti del male,il lampo tremendo di Zeus.E furono ceneri sparseper tempi e tempi d’oblio.

Questo narrarono gl’Inninell’Orfiche grotte sepolti:che dalla cenere effusaPrometeo possente di mentecompose le membra dell’uomoe dette la vita col fuoco.

Malvagio è dunque il mortale,plasmato da cenere ostile,Ma in esso è celata piccinafavilla del dio divoratoe misto in un unico impasto,dentro la forgia del Titano astuto.

18. Zagréus, dio dell'antica Grecia, figlio di Zeus e Semele (di Persefone secondo unaltro mito). Più che un'entità autonoma, tuttavia, appare come una versione particolare deldio Dioniso: la versione circolante negli ambienti orfici ne faceva il protagonista di un mitoantropogonico. Dioniso-Zagreo è il dio a cui Zeus ha promesso la successione al tronoceleste. Ma i Titani lo fanno a pezzi e lo divorano quando è ancora fanciullo. Zeus incene-risce i Titani e da quelle ceneri, in cui è contenuta anche la divinità di Zagreo, nascono gliuomini. Zagreo, comunque, vien fatto rinascere dal proprio cuore, che è stato sottratto intempo ai Titani.

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E dicono i canti del vecchio misteroche quando la brama d’unirsial dio dell’ebbrezza risuonanel cuore d’ogni uomo ferito,allora egli attinge sorrisoal puro vigore del vinoe una corona di sogniche sono la dolce carezzasopra la pietra dolentedel piccolo grumo di vita.

Allora dirompe ed esplodequella scintilla divinadel Dio lacerato e nascostodentro l’argille dell’uomo.

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SESTO BOCCALE

Era la settimana prima di Pasqua, d’un anno bigio e freddo poco dopo lafine della guerra. I preti andavano a benedire le case e dovevano farlo primache finisse la Settimana Santa, perciò si dividevano il paese come se fosse,appunto, una pizza di Pasqua e andavano ad aspergere le abitazioni, stanzaper stanza, con l’acqua benedetta e l’invocazione della pace. Perché doves-sero farlo prima di Pasqua non l’ho mai capito: forse perché la festa dellaResurrezione doveva trovare tutto purificato o forse, come diceva il pòrosacrestano de le Coste perché: “Broccoli, zoccoli e predicatori doppoPasqua nun so’ più boni” e perciò anche la benedizione scialisce.19

Fatto sta che i preti giravano dalla mattina alla sera e, in omaggio allabenedizione, ricevevano la magra offerta di quei magri tempi: un paio d’uo-va da mettere in un cesto che il chierichetto portava dietro, dietro al prete.Noi chierichetti eravamo beati perché la scuola elementare ci concedeva tregiorni di vacanza più degli altri ragazzi: lunedì, martedì e mercoledì santo,appunto per aiutare il prete nelle benedizioni.

In genere si faceva sempre a botte per scegliere il prete mejo, quello, cioèche non ti dava una sberla se rompevi le uova e non ti tirava le orecchie sefacevi troppa gazzarra. Don Sante era più concupito, allora, di miss Italia esolo i più prepotenti e forti gli si potevano accodare.

Gli toccava sempre la parte più povera del paese: la zona di Borgherigliacon tutte le casupole medievali così ammucchiate che pareva pomiciasserofra loro.

Ho detto che era freddo. Ma freddo a dire di sì. Un freddaccio puttano.Andavamo con don Sante: io con l’acqua santa e l’aspersorio e Gigino dela Sannaccia col capagno. Don Sante era paludato in cotta e stola col ritua-le, cioè il libro delle benedizioni, così unto da sembrare una fetta di ventre-sca.

19. Evapora, perde fragranza e sapore.

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Giù perun vicoloincontrammouno. Magrocome unragno e con icalzoni tuttirotti, anzisgarrati chegli si vedeva-no le gambeviola per ilfreddo. Forseuno sbandato,forse un pro-fugo. Si acco-stò a donS a n t e :“Padre, hotanto fred-do!”

Don Santesi grattò il capoccione bianco e intanto grugniva: “Che te posso da’? Chete posso da’?” Poi lo prese per un braccio e lo tirò dentro un portone. “Voidue - ci disse - state fòri e nun fate entrà nessuno... e nun guardate!” Poicominciò una strana danza del ventre, alla fine della quale si videro i calzo-ni cadere per terra. Se ne liberò scalciando come un polletro 20 e poi: “Toh- disse al poveraccio - mettete que’, almeno le zampe te staranno mejo!”

Quello cercò di protestare, ma non ci fu verso. Dovette buttare via i suoistracci e indossare i pantaloni deformi, ma caldi di don Sante. Poi gli fecebere due tuorli e, dal fondo del canestro, sotto i ricci dove si posavano le

20. Puledro.

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disegno di Francesco Marzetti

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uova, tirò fuori una bottiglia che non era certo d’acqua minerale. Un paiodi abbondanti sorsate riscaldarono visibilmente il poveraccio che, per gra-titudine, voleva baciargli la mano. Don Sante si schermì e poi fece uno deisacrifici più grossi della sua vita. Prese la bottiglia e gliela dette; “Questoqui nun è vino. E’ giulebbe! Va via subito prima che ci ripenso.” E lo cacciòa spinte.

Allora io: “Don Sa’, ma nun ci avete freddo ne le cosce?” “Tu impiccetede le cosce tue e no de quelle de li preti. Sotto la tonica ce l’hai li carzoncinicorti, si o no?” Tutti i ragazzi, a quei tempi avevano i calzoncini ed eranoabituati al freddo, anche perché gli adulti non ti facevano avvicinare troppoal focolare, sennò venivano le vacche, che sarebbero state tutte macchierosse nelle gambe, ma senza coda e senza corna però.“Allora, si tu ci hai li carzoni corti, io nun posso sta in mutanne? Tanto,

sotto la tonica chi le vede?” “E si lo viene a sapé ‘r Vesco?” Mi dette unascarruffata 21 in testa: “Zittete, pettegolo! Si le sa ‘r Vesco farà quello chefa sempre: dirà e nun dirà, dirà e disdirà, dirà e contraddirà. Però ‘stoporetto mica l’ha incontrato lue! ‘Na cosa accusi è capitata a due soli, ame e a san Martino. Lue jà dato mezzo mantello, io ci avevo solo li carzonie mica je le potevo da ‘na pacca sola!”

E sospirò, non tanto per i pantaloni, quanto per la bottiglia perché, contutte quelle uova ci addiceva parecchio. Infatti lui diceva d’essere un fedeleseguace d’una regola che veniva dalla Scuola medica Salernitana medieva-le. Questa scuola, secondo lui aveva fra le altre, una norma principe per ladigestione difficile, sopratutto per le uova. Diceva così:

“Dammi da bere che ho da mangià l’ovo!”e giù un bicchierozzo di vino.“Dammi da bere che sto a mangià l’ovo!”e giù un altro bicchiere.“Dammi da bere che ho mangiato l’ovo!”e giù il terzo.

21. Arruffata.

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Però, a ripensarci bene, anche se lui ci parlava raffinato e diceva bere emangià, io oggi non sono convinto che la famosa e antica scuola medicaavesse dettato questa regola. Secondo me, quella era farina del suo sacco.Perciò in quel momento era abbacchiato: d’uova ce n’erano quasi mezzocanestro, ma senza la bottiglia... Uno strazio, credete!

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SETTIMO BOCCALE

Si! Dicevano che don Sante ci aveva “li poteri”. Poteva cancellare imalefici, confinare in luoghi ristretti gli animali dannosi e fare tante altrecose incredibili. Forse non era manco vero, ma gli procurava lavoro. Comequando doveva correre a riparare i danni della Rosaccia, appunto nel perio-do Pasquale.

La Rosa, detta Rosaccia, era una strega. C’era pure chi giurava d’averlavista a cavallo d’una scopa o d’un forcone mentre volava verso la danza delsabba. Col diavolo caprone, le versiere e tutti gli altri demoni, incubi e suc-cubi.

Così, quando passava, tutti facevano le corna, chi poteva si grattava, chiaveva più fegato le mandava colpi e paralisi: “Va via, brutta stregacciazozza, zoccolona del diavolo!” Così le dicevano. I vicini avevano sempresulla porta una resta d’aglio: “Perché così si secca meglio!” A volte qual-cuno, da dietro, le lanciava pomodori e uova fradice. Pure qualche sassata,bisognando.

E la Rosaccia moriva avvelenata ogni giorno, soffriva e smaniava anchedi notte, perché i voli con la scopa e tutto il resto le sarebbero serviti persfogarsi, ma non c’era verso che potesse sperimentarli. Brutta com’era,manco il diavolo la voleva. Non c’è assolutamente sugo, credete ad essereuna strega presunta!

Però veniva Pasqua e moltissime donne del contado facevano le pizze.Per sé e per chi le ordinava. La pizza di Pasqua è una faccenda seria. C’èda fare la pasta con uova e farina, c’è da sbatterla fino a farsi venire la coli-te. C’è da metterci la “dose”, una polvere aromatica che ne garantisce ilprofumo e la lievitazione. E questo è il punto dolente. Si devono mettereappena due dita di pasta in una teglia molto profonda, pasta che deve cre-scere oltre il bordo fino ad assumere la forma di fungo porcino ingrassato.Una lievitazione gigantesca. Ma se la pasta non cresce, si deve buttar viatutto.

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In quei tempi, due cose potevano danneggiare l’operazione: la “dose”sbagliata e l’occhiaticcio. La “dose” la preparavano in un segreto da con-fessionale la ditta Castellani, detta Pinanne, e la ditta Marenghi. In concor-renza vivace fra loro, che se una delle due, un anno, avesse sbagliato dose,era roba da karakiri! Polvere misteriose, lieviti impalpabili, adraganti,miscugli ed aromi d’Oriente. Anche prodotti dal magico Maghreb! Tuttocondito con esperienza secolare, tramandata solo in punto di morte. Eramolto difficile anche la possibilità di errore.

Ma c’era il secondo motivo di disastro: l’occhiaticcio, o malocchio, chepoteva produrre orribili stravolgimenti negli impasti, c’erano massaie che,su ordinazione, facevano pizze anche per duecento uova con relativa mon-tagna di farina. Un capitale!

Finalmente, per la Rosaccia veniva il momento consolatorio, era questo.Viveva tutto l’anno attossicata in attesa della settimana prima di quellaSanta. Allora si vestiva nutricata,22 si pettinava con cura e, in ghingheri epiattini, si aggirava per quante più frazioni poteva. Come la grandine. Siaffacciava sulle porte tra l’immane tramestio delle impastagioni e: “Chebone faccenne? Ah! Fate la pizza? Bona Pasqua, sape’! Bona Pasqua mantutte!!!”

Peggio d’una bomba a mano! “Oh! Madonna! L’occhiaticcio! ‘Stamorammazzata! ‘Sta puttangola! Oh pòre pizze mie! Oh che sfraggello! Alòso’ ruinata!” Urla, strilli, sguerci porcini! E la Rosaccia, con un sorriso dimiele in bocca, scivolava via per seminare altre disperazioni che la com-pensavano un po’ della sua.“Le pizze soffrono, nun levitono più! Currite, bisogna benedille! Lèste

che si passa ‘1 tempo, manco la benedizione je fa più gnente !”Ma non tuttii preti erano disposti a trottare dietro le orme della Rosaccia. Anzi nessuno.“Sono stupide superstizioni” dicevano.

E allora? ...DON SANTE!!!Che non sapeva resistere di fronte alla disperazione, becera quanto vi

pare, ma reale, dei contadini. “Sia chiaro che so’ tutte fregnacce - diceva -

22. Aggiustata, vestita con ricercatezza.

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ma si serve pe’ di’ un’orazione!.. Benedimo un po’!” E metteva la stola,faceva inginocchiare tutta la famiglia a recitare il Padre Nostro, l’Ave Mariae il Gloria, poi benediceva. Non si sa come in un latino sempre più criptatoman mano che il numero delle benedizioni aumentava. Si! Perché dopoogni benedizione la gente voleva ricompensare in qualche modo. “None!‘Ste cose nun se pagono sinnò nun vengono bene!” E allora? “Ma però...Don Sa’, un bicchieretto!” E, uno dopo l’altro, in una decina di aspersionisacre non c’era manco più bisogno della formula. Bastava una fiatata di donSante e le pizze lievitavano pure più del normale. E tutti lo chiamavano elo venivano a prendere perfino col carretto se la casa era lontana. E lui ride-va: “‘Sta morammazzata de la Rosa! Me da più lavoro lei che un branco dediavoli!” Però le pizze venivano bene.

Grazie! Con i poteri di don Sante!“Lo sapete? E’ un sorcista, davero! L’ho visto io: ha cacciato li sorci

dell’orto suo che je magnavono le radiche de le scarciòfole!” Chi parlavaera il sacrestano che aveva un pezzo d’orto vicino a quello della parrocchia,quando don Sante era parroco di Arlena. Pare che fosse vero. I topi avevanofatto una strage di carciofi finché don Sante, armato d’acqua santa e rituale,non li aveva maledetti e confinati. Lui stesso raccontava che era stato unesorcismo bomba. La mattina dopo i topi erano scomparsi. Una bella sod-disfazione avere un rapporto così stretto con le potenze superiori, tanto dacacciare via gli animali nocivi e costringerli a stare in posti dove non avreb-bero potuto far danni. Un fosso, per esempio o un roveto o una pietraia. Everso il fosso don Sante li aveva spediti. Però c’era stato un piccolo inci-dente. I sorci maledetti e confinati, lungo il tragitto del loro esilio, s’eranoimbattuti nell’orto del sacrestano e avevano assaggiato i carciofi suoi. E lìs’erano fermati.

Così, dopo due giorni, mentre don Sante ancora gongolava, il sacrestanolo cercò. Era nero come la pece usata parecchio. Ci fu baruffa. Il sacrestanourlava che non era giusto usare l’esorcismo per appestare la roba degli altri.Don Sante spergiurava che i sorci avevano deviato di volontà loro, spintiindubbiamente da forze maligne. Ma dentro di sé pensava che era stato lafame, e una forza più maligna della fame è difficile da trovare. Dopo un’ora

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di buriana il sacrestano pretese che don Sante ripetesse lo scongiuro anchesulla terra sua.“È difficile, fijo - diceva lui - l’esorcismo è come la penicillina. C’è

1’assuefazione e la seconda volta non funziona più.” Il sacrestano non civoleva credere. Intanto, a furia di urlare, le gole s’erano seccate e i due si

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disegno di Francesco Marzetti

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sedettero e cominciarono a bagnarle con un succo di frutta spettacoloso, eraun grechetto che faceva fiammate. I gargarozzi si ammorbidivano; i cervellisi velavano di rosa confetto, gli strilli scendevano di due scale cromaticheintere.

E il sacrestano intartagliò “Ma, allora, come ho da fa?” E don Santeriuscì a spiccicare: “Secondo me, è mejo che ce porti un gatto” “Vabbè -disse il sacrestano - se me regalate un boccione de ‘sto vino, una coppia degatti ce le porto!” Due gatti, se sono chiusi dentro la recinzione d’un orto,quando hanno fame, diventano molto attivi e in una settimana non c’era piùmanco la puzza dei topi.

La gente ridacchiava: “Don Sante ha fatto il sorcismo, il sacrestano hafatto il gattismo e sono pari e patta!”

Ma don Sante borbottava fra sé, come al solito: “Ma se il Padre Eternoli ha creati, i sorci, che li ha fatti a fa? Pe’ maledilli e confinalli? Ma nunsarà l’omo che è avaro de natura e per un mazzo de carciofi vorrebbe cam-bia tutte le leggi de creato? Allora le vacche, le pecore, ‘1 maiale, l’insala-ta nun l’avrebbero da fa loro un esorcismo pe’ confina’ la piaga dell’omoche se li magna tutti? Altro che radiche de carciofo!!!”Mbeh, non era pro-prio la filosofia di Parmenide, ma un’accostata gliela dava.

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OTTAVO BOCCALE

Chi vuole studiare l’orgoglio e il coraggio deve passare un po’ di tempoad osservare la volpe. Furba, terribile, peggio di un samurai. C’è chi raccon-ta che, una volta presa in una tagliola è capace di troncarsi una zampa coni denti ed andarsene con le altre tre per non restare prigioniera. La volpe, icontadini, la chiamano gorpe e una volta, un padre che aiutava il figlio pic-colo a compitare l’alfabeto, gli dette uno scappellotto perché non si ricor-dava come si scrive la lettera “v”: “V come gorpe, broccolo mecquì!”

Se una volpe capita vicino ad un pollaio è peggio della peronospora perle viti. Finché non s’è mangiata tutte le galline non c’è requie. Scava sottola rete, salta gli ostacoli, afferra un gallinaccio e via, nel suo regno di fra-sche, a papparselo. È raro ammazzare una volpe. ‘R zi’ Toto fece l’apposta-mento con lo schioppo per due notti. Era lesso dal sonno e la mattina delterzo giorno ammazzò il cane da caccia di Righetto. Le liti!

La volpe è un flagello. Quella che dico io stava ad Arlena, come donSante, dove il proverbio dice: “Ad Arlena chi ci pranza non ci cena, ma chinon è tanto minchione ci fa pranzo, cena e colazione.” E la volpe non eraminchiona affatto. Era apparsa all’improvviso nel vicinato, aveva trovato disuo gusto le galline grasse e ci si era stanziata.

Le provarono tutte per farla fuori. Niente. Ci fu chi si ricordò che donSante aveva poteri d’esorcista. Se cacciava i sorci, con una maledizione unpo’ più grossa avrebbe potuto confinare anche la volpe, magari nel vicinoterritorio dei poco amati tessennanesi prendendo, così, due piccioni con unafava.“Don Sa’, confinate la gorpe! Don Sa’, confinate la gorpe!”Un mormorio, un ruscello di preghiere, una piena d’invocazioni.

L’autunno stava per scolare l’ultimo suo bicchiere. L’aria era secca di tra-montana che, ogni tanto, portava le folate del fumo delle vitabbie23 e dei

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23. Clematis vitalba, dal latino vit(is) alba vite bianca.

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seccaroni 24 raccolti e bruciati sui campi. Anche l’odore del pane cottoveniva a insaporire il naso da chissà quale forno lontano. Don Sante era incampo. Cotta, stola, libro bisunto secchiello e aspersorio. Fu una benedizio-ne da tramandare alla memoria futura. Molti contadini, dietro di lui, ingi-nocchiati sul sodo, pregavano che l’Arcangelo tagliasse almeno la codadella volpe.“A fulgure et tempestate!.. A flagello vulpis... Maledico te, creatura

ferox et bestia immanis… ut eas..!” E con questa imposizione la mandava.Dove? Secondo lui in un luogo da non deteriorare. Magari a mangiare i topiresidui dei carciofi e così chiodo avrebbe cacciato chiodo. Secondo ledonne il più lontano possibile, anche per non sentirne l’afrore; secondo gliuomini affanculo chissà dove!

La volpe se ne andò. Scomparve. Per giorni e giorni. Don Sante erasull’orlo della beatificazione. Fra lui che aveva stornato la rovina dei pollaie papa Leone che aveva respinto Attila, c’era solo una questioncella di anti-chità. Don Sante ebbe offerte di vini divinamente prodotti, cu rati, invec-chiati. Ma... dopo un paio di settimane arrivò un agricolo stravolto: “Ci arièla gorpe. Anzi, mo so due.”Dies irae, dies illa! Che secondo la traduzione della Marietta de Marzio

è: “Diosilla, diosilla, seculòro guae a chi strilla! Sonarà la trimbettrombaco’ le dèe malidette, stanno larghe e stanno strette..!”. Insomma una cata-strofe, uno scenufraggio! Due volpi! Due! E i contadini guardarono donSante che, lì per lì, pareva la Sibilla Cumana: “Emmò che je se fa?”

Secondo la teoria dell’immunità alla seconda maledizione elaborata aproposito dei topi, l’esorcismo non avrebbe più potuto attaccare.“Ennò! - fece don Sante - Attacca co’ la seconda volpe, la prima è ormai

dorata e fritta”. “Come, come? - fece un buzzurro - come adène?”. “Certo- apologò don Sante - La prima è ormai maledetta. Allora che ha fatto? Èita a cercà un’altra volpe e jà detto così: “Io conosco un posto che è ‘rparadiso der pollastro, però un pretaccio coll’esorcismo m’ha messo lamordacchia. Ma si tu venghi co’ me, io t’insegno ‘r posto; tu chiappe lepolanche do’ te porto io e poi magnamo assieme!”

24. Rami secchi caduti dagli alberi.

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E don Sante buttò avanti un sorriso da cavallo, a denti in fuori come l’a-mericani che hanno imparato a sorridere in quel modo, nel profondo Texas,dai loro equini. Solo che don Sante non aveva proprio tutti i denti e cosìrisultava un sorriso da cavallo un po’ bolso. I rustici restarono stupiti. Lateoria era ancora più brillante dello specchio per le allodole. “Allora - disseuno - se voi maledite pure la siconna gorpe, nun po’ fa’ più gnente mancolèe!?!”. “Eh si” E don Sante stava per prepararsi a partire per la secondacrociata quando uno urlò: “Fermi! Che si don Sante maledice pure la sicon-na, quella ne rimedia un’altra e così so’ tre. Sippoe dura ‘sta bèca de sor-cisime, diventeranno un battajone e ci ammazzeranno solo co’ la puzza devorpino!”“None, none! Nun se fa gnente.”. Dissero in coro tutti i villici.

“M’hanno fregato!” pensò don Sante. E fu fatta una battuta di caccia allavolpe che, in confronto, quelle del re d’Inghilterra sono come il gioco delbuzzico.25Bisquiole! Fu,ammazzata la seconda volpe, ma la prima nessuno la toccò

e nessuno più la vide. “Per forza - diceva don Sante - ormai, dopo che l’hoconfinata, solo ‘r diavolo ce po’ commatte! Nun la vedrete più!” E la suafama riprese lo splendore di prima. Da allora lo chiamarono di continuo.Passere, rughe, formiche ed ogni altro genere di animale nocivo ai raccolti,richiedevano l’intervento rituale di don Sante.

Questa fama lo accompagnò fino a Montefiascone, come abbiamo giàvisto per la storia della Rosaccia. Infatti nel paese si era abituati ad appog-giarsi a formule magiche e ad interventi ultraterreni. Pure se uno diventavaun po’ stitico non andava mica alla farmacia del dott. Rossi. No! si scapi-collava da un guaritore, anche se l’antichissimo proverbio diceva: “Si nuncache, cacarae. Si nun pisce morgarae!”26

Era però un periodo di magra per le fatture e medicazioni taumaturgiche.

25. Buzzico rialzato: chiapparello in versione rampichina, nel quale, al grido:"Buzzico" del giocatore che "stava sotto", gli altri giocatori dovevano scappare per nonfarsi toccare, cioè per non farsi "dare il buzzico". Per mettersi in situazione di immunitàbisognava salire su un qualunque piano rialzato.

26. Morgarae: morirai.

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Era morto Girelletta del Poggetto, mago delle ossa e delle slogature. Erasparita la Margheritona delle Grazie che sapeva tutti gli scongiuri. Era pip-pato pure Settimio del Vignente che era il patrono delle unzioni; aveva lalingua segnata con misteriose incisioni e diceva che erano ereditarie e ance-strali, forse era un modo di mostrare la linguaccia a tutti con la scusa dellamagia. Il Priore, che dominava le formiche e le costringeva a riportare almagazzino tutto il grano rubato, era ormai cenere e panni sporchi. PureGustinello de le Grille, alias Gustino de Pitale, era in quell’altri calzoni. Etutti questi guarivano “col Signore”.

Poi c’erano quelli che alleviavano i mali col diavolo. Andarci era pecca-to grave, ma dice che guarivano meglio. Pisichillo, per esempio, che guari-va dopo la bestemmia rituale e conviveva con la somara in una grotta della“Selciatella” e vestiva sempre di nero, come un prete a rovescio. Poi c’erastato il pòro Sonno verso i piani di Cappiano comune di Bagnorea. Tuttispariti.

Don Sante fu perciò accolto come se fosse stato Paracelso o ErmeteTrismegisto. E la sua fama fu vigorosa finché, un po’ la vecchiaia, un po’ ilvino, gli affievolirono la virtus apotropaica e fu sconfitto dalle passere nelcampo del vecchio Balestra dove, dopo la benedizione le passere accrebbe-ro la loro attività predatoria. Anzi, disse Balestra: “Nun magnèttono lospauricchio,27 ma poco ce manchette”. Si vede che anche la forza eonica,col tempo, svampa.28

27. Spaventapasseri.28. Svanisce.

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NONO BOCCALE

La virtù che rendeva don Sante più caro al popolo era l’umanità. Egli lasapeva gestire in modo burbero che, però, aveva il sapore d’una profondadolcezza. Come sacerdote era dispensatore di misericordia divina e lo face-va in abbondanza. Era il confessore più ricercato di tutta la provincia e veni-vano da lui anche da molto lontano perché sapevano che non avrebbeapprofondito i sensi di colpa, ma avrebbe dissipato la nebbia dei cattivi sen-timenti con una sperata di sole: quello dell’amore di Dio.“E che t’ho da fa, mo? - diceva - Tu le sae che ‘1 Signore te vò bene!

Dunque, si pure tu cerche de voleje bene, vedi un po’ de nun ariocacce! Egote absolvo...” e il suo borbottio diventava carezza. “Pe’ penitenza diraeun’Ave Maria!”.

Cinque minuti ed uno si alzava ristorato dall’inginocchiatoio. Infatti, aquei tempi, la Confessione era molto frequentata spesso, però, diventava untormento. Certi preti ti interrogavano a tortura cinese e ti facevano predi-cozzi da venti minuti almeno. Che i menischi non li sentivi più. “L’hai fattil’atti impuri?” “No” “Hai fatto bene perché l’impurità rovina il corpo el’anima. Fa schifo al Signore e a tutte le persone perbene. E poi ti fa purecalare la vista. Se sapessi...”. E giù, una fila interminabile di spiacevolezze.“Hai disubbidito?” “Si!” “Male! Male, perché la disubbidienza allontanal’uomo dal timore di Dio. Anche le bestie imparano ad ubbidire… colbastone. Tu, vuoi essere peggio di una bestia? Se sapessi...” E giù, un’altraserqua di angosciosità.

Insomma se peccavi o non peccavi era sempre la medesima solfa, per-ché, in alto, si era deciso che nella confessione, il prete dovesse anche fareun serio approfondimento di catechismo morale. Solo che il prete stavaseduto e, bisognando, aveva pure un cuscino sotto le sue rotondità; tu, inve-ce, sotto le ginocchia avevi un tavolaccio più duro dei tuoi peccati e, a volte,qualche penitente si alzava e tornava al banco mezzo zoppo.

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Magari poi qualche amico gli diceva sotto voce: “Fatti vedere dal dot-tore che ci hai le donzille gonfie parecchio!” E lui: “ Ma no! Io le donzillele ho levate quand’ero piccolo!” “E allora, che so’ quelle du’ merangoleche ci hai sotto il barbazzale?” “Ah, non è niente, so’ le palle che me se so’ingrossate co’ la Confessione...” E poi la penitenza: “Sette paternostri,sette avemmarie e sette gloriapatri.” Come minimo!

Era così che donSante veniva assediatoe doveva mettere laquarta, mentre gli altripreti andavano inprima. Ci fu chi simise a contare il ritmopenitenziale compara-to. Risultò che ogniotto penitenti assoltida don Sante, ne veni-va fuori uno da donAlfonso Orfei,29 tre dadon Elpidio Fanali,

detto Erpirio, due da don Armando e mezzo dal vecchio canonico Rossi,che il Signore l’abbia in pace! C’era pure il canonico Giubilei che era sordofradicio e gli potevi pure dire che avevi ammazzato il Papa, che tanto era lostesso.30 La sua media era di cinque a otto.

29. "MONS. ALFONSO ORFEI (Montefiascone 02/08/1875 - 13/11/1957) ordinatosacerdote il 10/03/1900. Parroco di S. Flaviano - Canonico Sacrista nel Capitolo Cattedraledi S. Margherita. Nei due soli ministeri, di Parroco e Sacrista, collocò tutta la vita con vivapietà e dedizione assoluta. Pareva la preghiera personificata ché, camminando, portavasempre, costante, le sue mani riunite sul petto, mentre le labbra erano in movimento con-tinuo. Saliva ogni giorno il corso per recarsi a l'Ufficio dei Canonici e alla MessaCapitolare delle ore nove. Ogni tanto si fermava a prendere fiato davanti a qualche vetrina.I clienti uscivano dal negozio per salutarlo. Rispondeva invariabilmente: Sia lodato GesùCristo. Cameriere Segreto di S.S."; BOCCADORO, LUIGI, Spiritualità diocesana deivescovi e sacerdoti viterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

30. "MONS. AUGUSTO GIUBILEI (Montefiascone 02/09/1870 - 21/01/1953) ordi-nato sacerdote il 21/09/1895. 1904-1909: Rettore del Seminario Diocesano e Professore.

MARIO LOZZI

Don Alfonso Orfei e don Sante

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La misericordia di don Sante era pressappoco infinita. Tanto che perdonòanche il peccato del vecchio Cucco. Che poi, a rigor di termini, peccato pro-prio non sarebbe stato, ma certo fu una fregna sforgiosa.31

Per mettere nella giusta luce l’autore delle tamanta faccenna32 bisognaparlare un po’ dell’uomo per cercare di comprenderlo. Era stato emigrante,come tanti del nostro paese. Analfabeta e ignaro del mondo, non sapevaparlare se non in dialetto stretto. Delle sue peripezie raccontava:“Annàssamara 33 lappe ‘n paese de la Mèraca 34 che je diciono Venzuela.Ma ‘n posto che se chiamàa Caracasse. Ma però mellì, gnuno potia laoràche ‘l callo te facìa sdrimogna.35 Quanto ch’ène aripijassomo la nàe36 chece portètte mall’Argentina. Ma però nun me piacìa manco lammellì, cheprima de tutto faciono le cappanne col loto e la merda de vaccina. Regà!Puzzaono de mocòre 37 ch’accoraono e si dineguarde piovìa prima che sefussono secche bene, te se squajaono addosso che doppo avoja a laàtte enutricatte! 38 Nun c’èrono Sante. Pe’ ‘na sittimana fezzàe 39 de stabbio cheparie un lòco comido,40 che se scansaono pure le vacche, abbenanche l’ès-sono fatto lòro. Eppoe le gente locale c’iono certe mazzafruste che je dicio-no bolas e ce faciono scapicollà le vitelle. Si, sarvanno do’ me tocco, se

1909: Canonico nel Capitolo Cattedrale - Cappellano Monastero Benedettine. Benemeritoper i restauri della Cattedrale, della Chiesa del Monastero Benedettine, di S. Francesco.Notai quanto lo stimassero gli antichi alunni divenuti preti. Spesso salivano a trovarlo edegli continuava ad educarli col retto parlare, il signorile comportamento, l'invidiabile carat-tere. Furono loro che, appena giunsi, mi pregarono che quel "loro Rettore" fosse fattoMonsignore. Li capeggiava Mons. Guerri che divenne poi Cardinale. Gli inviò anche unabito prelatizio che gli fu indossato "causa mortis" per il suo ingresso in cielo. CameriereSegreto di S.S."; BOCCADORO, LUIGI, Spiritualità diocesana dei vescovi e sacerdotiviterbesi (1951-1997), Montefiascone 1998.

31. Cosa straordinaria.32. Grande fatto.33. Andammo.34. America.35. Liquefare.36. Nave.37. Cattivo odore, dicesi della carne che puzza.38. Lavarti e pulirti.39. Mandavi fetore.40. Cesso, latrina.

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sbajaono, pe ti adèrono pornelle melare!41 Allora dice: Annamo’n p elo piùjò! E riàssomo ma ‘n posto co’ certe piane che pariono infunite. Dice: comese chiama? E ‘r capitano de la nae fece, dice: semo rie ma la Terra derfòco! Allora io me pensètte: e mecquì sarà più callo de tutte; robba daaccoracce! Ahò! Sente un po’ che scrozzola! Appena scento da la nae tesento un freddo santissomo. ‘Na bubbolina, mae proata. T’abbaste dì cheme scappette subboto, co’ decenzia parlanno, da piscià forte. Curse diretoma n’arbolo, tirette fora lesto lesto e... nun me s’aggelette ‘l razzo mallillo? Hae capito sì che terra der foco adèra?”

Questo era Cucco. Che tornò a Montefiascone più povero e ammalina-to42 di prima. E, come tutte le legnate piovono sui somari piagosi, così tuttele disgrazie rullano addosso ai disgraziati. Morì il padre di Cucco. Fu debi-tamente incassato in quattro tavole non piallate dove c’era la scritta“MONOPOLI DI STATO” e fu portato in Chiesa. Il funerale fu bello e commo-vente. Poi i carbollenghi 43 portarono il padre di Cucco al camposanto. Efinora Cucco non aveva peccato in nulla. Dopo una settimana, l’arciprete dele Mosse lo mandò a chiamare:“Cucco! Abbiamo fatto il funerale e voi non avete ancora fatto la vostra

offerta alla Chiesa.”“E quanto v’avarèbbe da dà, sor cura?”“Almeno due lire. Voi avete visto che funerale solenne!”“Eh si! Le viste: le cannéle,44 le cante, ‘r fume poe: parìa ‘na golpà-

ra!”45“Eh, caro Cucco, il mio dovere l’ho fatto bene. Adesso che vostro padre

è in Paradiso, voi volete rifiutare la vostra offerta?”

41. Le pornelle melare si distinguevano da quelle a coscia de monaca per la forma -tonda nelle prime e oblunga nelle seconde - per la dolcezza e, soprattutto, per le irresistibiliproprietà lassative.

42. Malato, malridotto.43. Confraternita religiosa addetta al trasporto dei morti. Il termine è dovuto al colore

nero-carbone della loro divisa.44. Candele.45. Golpara: caccia alla volpe che si effettua riempiendo di fumo la tana dell'animale

e costringendolo, quindi, ad uscire allo scoperto.

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“Sor cura’, ma io nun ci ho un sordo mamanco 46 pe’ fa canta un cèco!”“Industriatevi, Cucco, vedete voi! Avete un grave debito con la Chiesa e

dovete soddisfarlo.”Cucco rimase un po’ soprappensiero, poi disse: “Sor cura’, ma diteme ‘n

pelo:47 doppo quelle cirimogne, ‘l mi pa’, adè in paradiso addaero?”“Certo, certo, Cucco, certo che lo è: un po’ perché è stato sempre un

uomo bravo e onesto e un po’ per le nostre preghiere!”“E... diteme ‘n pelo, sor cura’, nun ce fussara 48 pericolo che ‘l pa’

potessara scialimà 49 jò e annà mellajò 50 ddo’ se merollono 51 quelle gat-tìe?” 52“Cucco, non dite eresie! Chi è in Paradiso resta lassù, ci mancherebbe

altro!”“Allora nun c’è pericolo pel mi pa’ de fa un tonfo de sotto, eh?”“Ma Cucco, come ve lo devo dire, in musica? Non ci siete mai stato al

catechismo?”“Allora, le sapete, sor cura’, si ‘1 mi pàte arimane mellassù, voe quap-

perdicquì ve toccaràj pijavvala ndel culo, che io le sórde nun ce l’ho e nunve pago!”

Se ne andò e l’Arciprete de le Mosse restò stupito per la sottigliezza teo-logica di Cucco e mortificato poiché, da lui, non vide manco il luccichiod’un baiocco. Cucco però, nonostante si vantasse di aver fregato il prete,sentiva un senso di colpa robusto che gli grattava dentro. Come se suo padregli rinfacciasse il fatto di averlo messo nel Paradiso si, ma quello degliinsolventi. Da chi poteva andare a scaricare il fardello del peccato se non dadon Sante? Lo beccò che passava a trascinone per la contrada del Carpine,lo prese per un braccio e gli chiese l’assoluzione. Il segreto dellaConfessione non c’era perché il fatto aveva inondato tutto il paese.

46. Nemmeno.47. Un pelo, un pelino: un po', un pochino.48. Sarà.49. Uscir fuori, traboccare.50. Laggiù.51. Merollare: cuocere lentamente sulla brace.52. Cattivi.

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“T’ho da assolve? Vabbè, brutta bestia, mettete in ginocchio!”E Cucco: “Già che ce séte, don Sa’, perdonateme pure tutte l’altre!”“Ah! Mommò so’ bòne le porre! Toccarà sta’ qui tutta stasera!”E don Sante con santa, appunto, pazienza rimediò un cécciolo per mun-

gere le vacche e con Cucco in ginocchio sulla paglia si mise ad ascoltare losterminato numero di abrasioni della coscienza di lui, fatte in patria e all’e-stero. Ma un peccato travalicò il segreto perché fu Cucco stesso a raccon-tarlo. Eccolo: “Don Sa’, quann’adèromo ma la Terra der fòco, ci adèraun’indiana che ce facìa ‘n pelo de cucina. La cucina sua adera ‘na mon-nezza, ma lièe adèra bella com’un occhio de sole e me facìa la micia. Ungiorno, ma le mi compagne, je disse: Io oje nun ce jengo a laorà che mesàch’adò la frèe!53 Sine - dissono - ci hae la frèe magnarella. E risono.Appena che fùssomo sole je sartètte addosso e je dette ‘n’aggarrata... mel-lìne.54 Quanto che sento tamanto55 pelo, fitto come l’orse! Diociguarde,pensètte, què adène un mostro. Je dette ‘na spéntica56 e la lassètte sta’. Ala sera le disse ma le mi compagne. Stupoto! Me strillèttono, nu le sae chemecquì le donne, col freddo ch’adè, portone le mutanne de pelle de cunijo?Ma benànche che nun l’jo funito, ‘l peccato l’jo fatto uguale. Me le perdo-nate pure que’, don Sa’?”

E don Sante: “Le peccate le posso perdonà, ma la stupidaggine no! Egote absolvo…” E, perdonato il peccato, per rimediare alla stupidaggine,Cucco andò in cantina e ritornò con un quartarone di vino rosso che, poi,don Sante ci mise più di quattro ore per ritrovare la strada di casa.

Lui era così: in mezzo alla gente, col peso delle sue debolezze. Intrisodella nostra miseria ma, proprio per questo, ricco d’un amore potente versoogni essere, ricco di misericordia e tanto vicino al cuore umano da essere,io penso, dentro il cuore di Dio.

53. Febbre.54. Un'agguantata in quel posto.55. Tanto, abbondante.56. Spinta.

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DECIMO BOCCALE

Allora disse il Gran Padre, il Padre di tutte le cose:“Vai, vai e non ritornare da meprima di aver mostrato agli esseri la mia presenza.”

E ne fu spaventatanon era che una piccola goccia, una goccia d’acqua.Come avrebbe potuto dimostrare la presenza di Dio?Voleva ritornare indietro ma non poteva.Era stata mandata.

Quando cadde dal cielo altissimo l’avvolse l’ariae quasi la consumò.Poi fu impastata dalla terra.Si vergognava perché prima era stata un piccolo specchio del cielo.Ora, invece,era piena di polveri attaccaticce.

E sentì una radice vicina. E la radice l’afferrò.Divenne parte di pianta.Fu una fibra, un velo verde, un goccio di frutto.Si sentì bere più volte.

Spesso, soffiata via nel vapore, si rapprese col freddo e cadde giù.

Una lunga storia.Imparò a sentirsi terra e vegetale.Visse molte pulsazioni nel sangue dei viventie fu fiume, lago, filo di perlequando cadeva nella rugiada del mattino.Le sembrò di perdersi, di sparire. Soffrì molto.

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Una volta,durante il viaggio perenne fra la terra e l’aria bassa,fu ghermita dal freddo e divenne soffice e bianca.Poi di nuovo a terra, sporca e catturata.Fu bevuta ancora da erbe ed animali.Ora cercata con rabbia, ora pestata e dimenticata.

Poi, un giorno, il sole la prese con più forza del solitoe la portò con sé, in alto.Le disse: “Sono finite le tue stagioni, gocciolina,sali di nuovo. Ti aspetta il Grande Padre.”

La goccia salì e le sembrò di essere felice.Ma, quando vide protendersi in alto, verso di leirami, fibre, lingue vive, ebbe nostalgia.

Il Padre delle cose le sorrise:“Hai fatto bene, piccola mia - le disse -ora, cosa vuoi?”

“Ritornare giù, Papà, ritornare giù!Qui, vicino a Te, sono un cristallo di gioia,ma laggiù, nel mondo pieno di sete,io sono molto di più:sono la tua Presenza.”

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UNDICESIMO BOCCALE

Le Guardie. Stanno lungo la strada Umbro-Casentinese, meglio cono-sciuta come Orvietana, a sei o sette chilometri da Montefiascone .

C’è un boschetto con una piccola chiesa e, spruzzati intorno, parecchicasali che allora erano tutti abitati. Allora. Quando don Sante ne era cappel-lano, poiché, in un posto così umile non va certo chi è abituato al fasto dellecattedrali.

Ci andava a piedi, i primi tempi, ogni domenica che Dio avesse coman-dato, per celebrare ai contadini la Messa di mezzogiorno. D’inverno erafreddo e basta. D’estate era caldo che accorava. Sudava, don Sante chepareva lo avessero infradiciato con un par di secchiate d’acqua, tonaca etutto. Scendeva dal grembo del Duomo, dove aveva recitato le lodi in coroe veniva giù per la Bandita, la strada dove un tempo passavano le pecore intransumanza. Migliaia di pecore con le palle nobiliari dei Chigi, deiTorlonia, dei Bourbon del Monte, dei Borghese, marchiate a fuoco sullaschiena. Appunto si chiamava la via Bandita perché le pecore ci passavano“a bannita”: a primavera dalla maremma verso i monti dell’Umbria e inautunno, da lassù, di nuovo verso la maremma grassa, calda e maledetta.Passavano, i branchi delle pecore precedute dal vergaro col bastone ricurvoche pareva un cardinale. Poi venivano i biscini e i cani bianchi, maremmani,alla rinfusa con gli ovini. Un Mississipi!

E don Sante camminando ricordava che qualche montefiasconese gliaveva confessato s’era nascosto dentro uno dei tombini e, nel tumulto,aveva tirato giù per una zampa qualche bella pecorotta per fare poi un luper-cale di festa con la famiglia. La fame era tanta e don Sante perdonava. Tantoi grandi signori manco se ne sarebbero accorti.

Solo che, una volta, l’appostato aveva visto una bella zampa grossa pas-sargli sopra e, in un baleno, l’aveva afferrata e tirata giù. E invece era uncane. Cattivo.

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Dentro il tombino successero cose da Gengis Khan. E quando, passatatutta la bannita, fu possibile riaprire il coperchio, saltò fuori il cane conmezza chiappa di culo in bocca e il disgraziato che aveva subito la sottra-zione, dopo, aveva camminato zoppo vita durante. E gli dicevano: “Oh Ne’,te piace la pecora arrosto?” E invariabilmente lui urlava: “Vattela a pijà‘nder culo!!!” Che era una risposta molto sintetica e risparmiava un saccodi passaggi di logica. E quando s’era andato a confessare, don Sante avevavisto un par d’occhi spiritati e aveva fatto uno sforzo ascetico, da guru, pernon ridere. Che sennò sarebbe successo non si sa che. Però non s’era potutotrattenere: “L’assoluzione te la do, ma ‘na chiappa nova, nun posso!” Equell’altro l’aveva guardato... che, meno male non era la Gorgone.

E camminava giù, don Sante e rideva. Poi attraversava la Cassia, vicinoal pastificio di Perugini, scendeva lungo il Fosso, alle Cannelle, salutava levecchie al sole d’inverno e all’ombra d’estate: la Bagaiulla, la Chiconta...Poi arrivava alla chiesa delle Grazie dove c’era attaccata casa sua.

Entrava e lì cominciavano le tentazioni come al pòro Santantonio neldeserto. La legge canonica diceva che per celebrare o ricever la Comunionesi doveva essere digiuni dalla mezzanotte. Legge d’acciaio brunito, emana-ta sotto pena di peccato mortale.

Don Sante, quando arrivava, era già stanco e sapeva che avrebbe dovutocamminare ancora per quattro o cinque chilometri. C’era già al tempo suo,una benigna interpretazione della legge che diceva :”L’acqua non rompe ildigiuno”. E don Sante: “È vero, nun rompe il digiuno ma rompe li cojoni!Po’ esse infetta. Chissà da do viene!” Era meglio disinfettarla anche perchélui non aveva avuto l’occasione di bere acqua pura e temeva qualche sturbo.Era meglio disinfettarla. E, dopo lunghi periodi di tentazioni respinte, sidecise. Due gocce. Due goccerelle sole di vinerello. Come medicinale, veh!Non come voluttuario! Nemmeno la medicina rompeva il digiuno e cosiquasi tutto era a posto. Quasi. Perché quell’acquatello poteva dare sollievoad una sete normale, non a quella di don Sante. Così le gocce medicinalidiventarono, poco a poco, sempre più abbondanti, fino ad escludere, quasicompletamente, prima, ed assolutamente, poi, tutta l’acqua, nemica dellasalute. Capace di produrre ogni malanno.

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A riprova, i vecchi portavano i nipotini verso porta dell’Olmo sulla piaz-zetta sotto Sant’Andrea, dove si affacciavano i colatoi dell’acqua piovana.Lì c’erano buchi profondi sulle pietre del selciato, prodotti da secoli di spur-go del tetto. Davanti a quei buchi i nonni dicevano ai bambini teneri: “Levegghe ‘ste buche? L’ha fatte l’acqua! Donque aricordete: L’acqualogra.57 LOGRA!!! Stacce attento!”

Stante dunque il fatto che l’acqua poteva essere una micidiale nemicadella salute don Sante non poteva affidarsi ad essa, mentre il purissimo vinoaveva tutte le qualità medicinali che si potessero immaginare. Anche il dot-tor Tirille58 diceva: “Porta appresso vino, cavolo, ajo e cipolla e ci hai conte più de mezza farmacia!”

Che poi, in fondo, che cos’era il vino se non quasi tutt’acqua con un po’di succo d’uva mischiato? E che poteva rompere il digiuno una cosa così?Acqua e medicina, in un’unica soluzione direttamente dalla damigiana!Don Sante era fiero di aver trovato un sillogismo così sottile da fregare tuttoil CODEX IURIS CANONICI, alla faccia di tutti i giuristi della SacraCongregazione!

L’interno costrutto di ciò fu evidente: ad una cert’ora della domenica donSante era in gaudiamese,59 cioè in una sorta di beatitudine contemplativadove anche il mondo più nero diventava d’un candore luminoso.

Finché usò il cavallo di san Francesco tutto andò quasi bene. Arrivava,serpeggiando, alla Madonnella dove i ragazzi della frazione l’aspettavanoperché sapevano che aveva le tasche piene di caramelle.

Erano giochi, risate, strilli di gioia. Poi riprendeva la lunga via e arrivavaalle Guardie quasi lucido.

I guai cominciarono quando fu tentato dalla modernità. Perché maidoveva farsi quella immane scarpinata, quando c’erano i mezzi per rispar-miarla? Il romito della Madonnella, il pòro Baronesso che,60 forse, era un

57. Logora.58. Dott. Terilli.59. Dal latino gaudemus.60. BARONESSO, al secolo Ernesto Rastrello, così si presentava: "Io sono Ernesto di

Sant'Ernesto, re degli innesti, del fu Bonaventura fu Pietro, nato a Montefilo, mercante delsoffio, principe al terreno".

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precursore dei nostritempi aveva enun-ciato, una volta pertutte: “Chi disselaorà, disse a le bòa,chi disse cammina,disse a caallo, chidisse maccaron,disse coll’òa!”

Poi era entrato incasa, aveva preso loschioppo e avevasparato al manicodella vanga, piantatoa terra.

E s’era messo afare l’eremita.

Dormiva in unforno vecchio e indisuso, andava confierezza davanti allagente con una maz-zarella dove avevainciso una croce ediceva a tutti “Bon saluto!” Gli dicevano: “Oh Baroné, emmò, nun laora-te?” “Eh fije - rispondeva - sacco vòto nun sta ritto!” Allora gli davano lacolazione: pane, cacio, capicollo, sotto l’ombra d’una quercia che profuma-va d’eternità. E, accanto, la fiasca del vino! “Emmò, Barone’, che fate, nunlaorate manco èsso?” “Eh fije, sacco pieno vò riposo!”

E Baronesso, il romito, si sdraiava sotto i rami, accanto la fiasca delvino, e rimaneva solo con i suoi pensieri filosofici mentre i contadini sorri-devano fra loro perché non lo avevano certo invitato per lavorare! Tutt’alpiù per chiacchierarci un po’. Perché lui, Baronesso, era loro carne ed osso

MARIO LOZZI

Il “Baronesso”

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e, senza studiare sui libri, aveva raggiunto le vette della filosofia, tanto che,se fosse stato un po’ meno scorbutico, nessuno gli avrebbe potuto impediredi creare una scuola peripatetica come Aristotele.“Pumbere et umbere sumbere!” diceva, e traduceva pure: “Semo néb-

bia!” E non si sarebbe potuto tradurre meglio il detto latino che lui storpia-va con tanta sfacciataggine.61 Poi si alzava, dopo la pennichella, e lasciavail suo testamento spirituale ai contadini che si squagliavano dal sudore,stampati nel cielo lattiginoso d’estate, sopra il giallo di frate grano.

Il pensiero metafisico di Baronesso, forse, fece riflettere parecchio donSante: “Chi disse cammina, disse a caallo”. Ma lui il cavallo non ce l’ave-va e poi era un tipo di locomozione costoso. Inoltre forse avrebbe potutoaffezionarcisi e così gli avrebbe partecipato ciò che riteneva più prezioso: ilvino.

E il cavallo avrebbe fatto la fine della somara delle Coste che, vivendocon i padroni che l’amavano come un figlia, costumava come loro e bevevail vino in un mastello di legno fatto apposta per lei. Era sempre brilla conle orecchie basse e le zampe che le si afficàono 62 al primo peso. Era mortadi cirrosi epatica e avevano mandato il suo fegato al museo di Firenze comerarità assoluta… Dunque, niente cavallo.

Siccome il surrogato moderno del cavallo è la bicicletta, don Sante necomperò una. Furono cardi amari per imparare ad andarci, furono amaris-simi per installarcisi sopra con la tonaca… Era una tonaca invadente, anda-va sempre fra i razzi delle ruote. Don Sante cadde parecchie volte, si spor-cò, si scorticò tutto. Ma era, a modo suo, un duro. Piano, piano...

All’inizio sapeva andare solo in pianura e scendeva ad ogni salita ediscesa. Di questa, poi, non si fidò mai completamente, ma in salita comin-ciò ad andare. Lo acclamavano per la strada. Uno gli disse: “Don Sa’, insalita me parete Coppi!” e lui: “Pò èsse, ma Coppi mica fa tutte le scoreggeche fo io! Perché le fò? Un po’ perché da la fatica nu’ le reggo, un po’ per-ché me fanno compagnia, un po’ perché ‘na spintarella a razzo me la danno

61. …quo Tullus dives et Ancus, pulvis et umbra sumus ; Q. HORATI FLACCI CAR-MINVM - LIBER IV - 7.

62. Cedevano.

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pure loro.” C’erano solo gli aerei ad elica, allora, ma il principio della rea-zione cominciava a farsi strada. Così, fra una propulsione e l’altra donSante aggrediva le salite che vanno quasi continuamente dalle Guardie allaMadonnella.

Poi c’era un autista del postale di Garbini che veniva da Celleno. Forsesi chiamava Adorno, ma non sono sicuro. Si metteva dietro, dietro la bici didon Sante e strombettava il clacson in modo ritmico per tutta la durata dellasalita o finche il prete non cascava.

Questa cosa lo faceva diventare una bestia. Gli faceva cenni con la manosinistra di andarsene, gli faceva le corna, ma quello niente. Dopo un po’cominciava ad urlare: “Fijio de mignotta, va via che me fai cascà!”Macché. Finché non andava dentro la forma.

Una volta gli si intricò la tonaca e fece uno scoppio da barlozza, ci fuallora chi insinuò che avesse detto una robusta pastocchia 63 e, alle rimo-stranze di qualche bizzoca avesse risposto: “Quanno ce vò, ce vò!”. Ma lacosa non è credibile, don Sante non bestemmiò mai. Abbondò in parolacce,tanto che una vecchia arzilla gli disse, una volta: “Don Sa’, me parete unomo!” E lui: “Meno male! Che si ero femmina, diventavo la pretessaGiovanna che già, da Papessa, nun ha fatto pochi guai!”

La bicicletta era il suo tormento. Cadeva spesso, sopratutto lungo ladiscesa dell’Umbro-Casentinese dove, a sinistra, confina il piazzaletto dellachiesa delle Guardie. Lì la discesa è fiancheggiata da alberi e qualcuno diessi don Sante l’ha conosciuto di persona. Poi c’era la spalletta del ponte,anche quella molto pericolosa.

A volte era un po’ pesto parecchio. Ma la bicicletta l’attirava come fa lavipera col rospo. E prova e riprova e casca e ricasca, don Sante in biciclettadivenne il simbolo della tigna e dell’impaccio.

Diceva: “Nun imparerò mai bene, perché capisco troppo!” E il poro donDomenico Cruciani,64 suo biografo, gli faceva notare: “Ma, don Sa’, chi

63. Bestemmia.64. DON DOMENICO CRUCIANI ha pubblicato su "LA VOCE" vari articoli su don Sante

con il titolo "Arguzie e buon umore"; aprile 1986, p. 6; maggio 1986, p. 6; luglio 1986, p.6; agosto 1986, p. 6; settembre 1986, p. 6.ottobre 1986, p. 6; dicembre 1986, p. 7; gennaio

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capisce impara, anzi impara prima!” “Eh no! - rispondeva lui - io capiscodi più. Per esempio, se uno guarda un pedale e capisce, impara a pedalà,io invece penso più in là. Penso a quanto male pò fa un pedale nella nocelladel piede se casco! E casco e becco ‘l pedale propio nella nocella! Uno checapisce poco vede l’arberi e cerca de scanzalli. Io, invece non vedo solol’arbero; penso a quanto è tosto e ce vò subito a sbatte! E inutile, capiscotroppo!”

Poi, alla fine ci si arrangiò. Il guaio fu che, quasi subito, come tutte lesue cose, la bicicletta divenne di pubblica utilità. La prendevano tutti; inmodo particolare i ragazzini delle Grazie e la riducevano, come diceva lui,un cempene.65 E la bicicletta andava sempre più a scazzafrullone.66

1987, p. 6; febbraio 1987, p. 6; maggio 1987, p. 15; giugno 1987, p. 14; agosto 1987, p. 8;ottobre 1987, p. 8; gennaio 1988, p. 7.

65. Cémpene: cembalo, tamburello; in senso figurato persona o cosa mal ridotta.66. Scazzafrullone: riferito a qualcosa o qualcuno che si trova ora qui, ora là e che,

per questo, sta andando in malora

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disegno di Francesco Marzetti

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Così, una domenica, mentre i contadini aspettavano sul piazzaletto delleGuardie, don Sante passò in discesa come un fulmine. Imboccò la pianuradi sotto e si fermò quasi al bivio di Monte Rado. Poi tornò indietro e ci miseun quarto d’ora. Smontò alle Guardie tutto costipato. “Don Sa’, perché nunve séte fermato? Pareva che volevate fa ‘l Giro d’Italia!” E lui, furibondo:“Per colpa de ‘sti bastardi de regazzini. Me l’hanno rovinata tutta e così lifreni hanno fatto fichetto. ‘L manubrio è storto e va a scantarone.67 Pure‘1 sellino è lento e m’arza de culo! Eh, ma basta! Chi vo’ Santi se li preghie chi vo’ Turchi se l’ammazzi! D’ora in poi la bicicletta la metto sotto chia-ve e chi ce vo’ annà che se la comprasse una com’ho fatto io”.

Parole scritte sulla rena asciutta quando tira il grecale. Lui, di propriosuo, aveva la tonaca si e no!

67. Scantarone: di fianco.

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DODICESIMO BOCCALE

La chiesetta delle Guardie ha un piccolo altare maggiore di fronte al por-tone d’entrata, ma, al tempo che dico io, c’era un altro piccolo altarino amezza navata, sulla destra. La chiesa era officiata ogni domenica e le donnela tenevano pulita e l’abbellivano sempre con fiori freschi di campo o col-tivati da loro. Alcune, quando je toccava, venivano anche da casali lontanisenza badare alla strada e alla faticata, perché quella era la “loro” chiesa edon Sante era il “loro” prete e, a costo di ammazzarlo lo avrebbero vedutobeato e santo.

A capo delle donne che curavano la chiesa c’era la Palazia. Era anziana,un po’ parecchio gobba e bagnorese. Praticamente esercitava le funzioni disacrestana e veniva rispettata ed obbedita. La Palazia sapeva tutto sulle abi-tudini di don Sante, sapeva quando era barzotto,68 quando era aggaozzolato69 e quando era zuppo com’un purcino. E, se le azioni del prete si adattava-no al suo senso morale, gli regalava un bottigliozza di “carcerato” che sisvina e si imbottiglia a luna piena di febbraio, quando però deve galoppareil cavallo atroce della tramontana. Allora il vino diventa naturalmente friz-zante come lo champagne e va messo in una bordolese col tappo a forzaree una gabbietta di filo di ferro per tenerlo fermo e quindi “incarcerarlo”.

I primi tempi don Sante accettava il dono, si infilava la bottiglia in unadelle strabocchevoli tasche della tonaca e partiva con la bicicletta. Poi,appena arrivato alle Grazie, accaldato ed arso, saliva in casa, stappava… ericeveva un secondo battesimo dal razzo di vino che usciva dalla bottigliasciabbuccolata.70 Come un gioco pirotecnico…

La Palazia lo educò: “Nun l’ete da bea subbito, ancancarito! 71 ‘R vino

68. Barzòtto: riferito ad un qualcosa che si trova in condizione intermedia, ad esem-pio tra fresco e secco, duro e tenero, dritto e moscio, giovane e vecchio.

69. Aggaozzolato: intricato, messo in una situazione dalla quale è difficile uscire.70. Sciabbuccolata: sciabordata, agitata.

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s’addà riposa popò!”A Montefiascone si direbbe un pelo e, volendo esseregentili e delicati un pelinello. A Bagnoregio si dice popò e la Palazia ne erafiera: “Si ‘r vino adè sobrascolato squizza arto come lo stollo der pajaro!”C’era una profonda diaclasi fra lo sciabuccolato ed il sobrascolato chesignificavano la stessa cosa a meno di 13 chilometri di distanza, però donSante capì che il risultato era lo stesso: infradiciatura e niente da bere.Perciò rimandava il “consumo medicinale” da una domenica all’altra. Lobeveva con religione e, quando arrivava al fondo, quasi spremeva la botti-glia e se qualcuno poi gli diceva che puzzava di vino, rispondeva con lacelebre frase di Remo Fumagalli, carpentiere, figlio del famosoBonaventura che aveva ideato il palco girevole per permettere al pittoreFontana di affrescare la cupola di Santa Margherita: “È meglio puzzà divino che d’Olio Santo!”

La Palazia si confessava per ultima, dopo che l’avevano fatto tutti oquasi i contadini presenti che volevano la santa Comunione. In genere laconfessione avveniva mentre lei aiutava don Sante a pararsi per la messa,cioè a mettere tutti i sacri indumenti. Era la confessione più telegrafica checi fosse mai stata. Lei diceva: “Don Sa’, ‘r solito!” E lui: “Vabbè: la soli-ta!” Che poi sarebbe stata l’Ave Maria di penitenza. E borbottava la formu-la d’assoluzione con un segno geroglifico che solo il Signore sapeva che erala Croce.

E poi accadde. Don Sante sentì la necessità d’una medicina più robusta.Era accappannato 72 a causa di vari meteorismi e trincò parecchio più delsolito. Quel giorno, alla Madonnella, non c’erano ragazzi a fargli perderetempo, perché era il periodo delle mandoline 73 e tutti andavano a rubarnepiù che si poteva. Avevano un sapore così aspro che mannava ar somaro,tutti, però, si sentivano obbligati a mangiarli perché pare che fosse un puntod’onore e, se qualche bardassotto si rifiutava, i più grandi lo prendevano aforza e gli mettevano il tortomaio 74 sulla punta del pisello, e dopo il ragaz-

71. Ancancarito: diventato cancrenoso; in senso figurato inasprito, diventato schiavodi una cattiva abitudine o di un vizio.

72. Mogio, abbattuto.73. Mandolina: frutto del Prunus Communis; ancora acerbo, era molto apprezzato

dai bambini e dai ragazzi che lo coglievano direttamente dalle piante, possibilmente altrui.

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zo doveva tenere l’affare immerso in una padelletta con acqua ed olio sbat-tuto, per refrigerio, mentre, in genere, le nonne si sfogavano: “Poarino cici-no; ‘sti dilinguente janno messo ‘1 tortomaio mal lillo. Mirate, vede j’èdiente tamanto 75 com’un pestasale! eh ma si le chiappo cheduno je leronco, vennisse jò tutto ‘1 Paradiso!”

Dunque i ragazzi non c’erano e lui arrivò alle guardie allegro da festapatronale. “Oh, Madonna! ‘L prete adè in ciampanelle!” Lo aiutarono ascendere. Confessò in un baleno. La Palazia ebbe serie difficoltà a fargliindossare i paramenti, sul bancone in fondo alla chiesa. Partì a sguiscio, colcalice pericolante tra le sue mani. A metà strada tralancò e la sua rotta piegòa destra, verso l’altarino disusato da decenni. “Oh, Madonna - fece laPalazia - ha sbilercato e ha sbajato buco!” E corse all’altare maggiore,rimediò il Messale e le ampolline e portò il tutto dove don Sante stava cer-cando con l’aiuto di Dio, la protezione di San Giuseppe e l’intercessionealmeno d’una ventina d’altri Santi di sistemare il Corporale e il Calice.Inciaffugliò parecchie preghiere, ma nessuno se ne meraviglio. Si arrivò

alla Comunione. In quell’altarino il tabernacolo c’era. Scassato, ma c’era.La porticina era viziata e semiaperta da tempo immemorabile. Don Sante,in estasi divina e di vino, introdusse la mano con devozione per prendere laPisside con le Sacre particole, che non c’era...

Di tutti i posti del mondo, dove può andare a trascorrere il giorno un bar-bagianni? E quale volatile rapace può essere più geloso del proprio habitat?E quale becco può essere più micidiale?

Don Sante afferrò una zampa dell’uccellaccio, la tirò a sé... Quando ci sisveglia di soprassalto, in genere si è incazzati. Pare che questo vale pure peri barbagianni.

Una beccata bionica!Don Sante ebbe uno sturbo, ritirò la mano e non seppe capacitarsi del

perché fosse sanguinante. Il vapore del vino sfumò. Pensò di essersi meri-tato il castigo per eccedenza di spirito. Si volse tutto umile all’assemblea

74. Tortomajo o turtumajo: pianta (Euphorbia characias) secernente un liquido latti-ginoso dal potere urticante che i ragazzi spalmavano sull'organo genitale per farlo gonfiare.

75. Tamanto: grosso.

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dei fedeli e mostrò la mano insanguinata: “Fratelli ! Oggi la Comunionenun se po’ fa. Vedé, il Padrone qui è...”

A questo punto le versioni dei cronisti variano: “È adirato?” oppure “Èmolto seccato?” “È sdegnato dall’alto dei cieli?” oppure, più brutalmente“È incazzato?”

Quest’ultima volgarissima versione fu quella riportata al Vescovo che, asua volta… s’incazzò! 76

Del resto, don Sante aveva molta familiarità col suo Datore di Lavoro

76. Un'altra versione dello stesso episodio vorrebbe che il rapace notturno fosse statoinserito di proposito nel tabernacolo per fare uno scherzo a don Sante. Questa versione,improbabile per l'atto sacrilego che i contadini avrebbero dovuto compiere, è quella cheClaudio Corba riporta, in forma edulcorata, in una sua poesia intitolata RICORDO DIDON SANTE.

Don Sante, sacerdote poco sobrio. per via del vin che troppo tracannava. del Vescovo suo fu chiamato al soglio e: "...la gente di Lei mi raccontava

del dolce vino trangugiato a brocche." "Eccellenza mia reverenda e santa. la sete mia non dicon quelle bocche che l'arsura mi sento sempre tanta!"

Un dì che Santa Messa lui dicea. alle Guardie, dei contadini la frazione. Tabernacolo ad aprire s'accingea ed ai presenti dar lor la Comunione.

Questi ivi una civetta avean nascosta che soffio acuto sull'istante emise. quando sentì la chiave nella toppa. Don Sante a ripensare non si mise.

verso i fedeli si girò imminente:"La cattiveria vostra e così tantache il Sommo Dio - ed io non c'entro niente -punire vuol la vostra tracotanza.

A protezione una civetta ha messo di Cristo, suo Figliolo qui incarnato.

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del Cielo. E lo dimostrava in discorsi confidenziali, diciamo così. Comeaccadde a Montefiascone nella chiesa delle Suore del Divino Amore, cheerano chiamate le Monichelle perché le loro campane suonavano un alle-grissimo ritmo:

Sémo le Monichellesémo le Monichellesémo tutte bellesémo tutte belle!

E le campane delle Benedettine, dette le Moniche Ricche, rispondevano,invidiose, con i rintocchi:

Chi si e chi nochi si e chi nochi si e chi no.

A parte questo, le Monichelle avevano, e credo abbiano ancora, un altaredella festa che era uno spettacolo. Era fatto tutto di pezzi intagliati e inca-strati fra loro in modo mirabile. Rami, foglie, fiori, cento candelabri. Cento.Veniva applicato sul normale altare di stucco settecentesco, lo nascondevainteramente e formava una gloriosa struttura dorata e policroma, delicatis-sima, che terminava molto in alto con un tronetto da sogno, intagliato nellegno, utilizzato per l’esposizione del sacro Ostensorio.

Lo sapeva montare solo Fulgenzio de le Sanfraiane, alto, panciuto, sem-pre col basco. Era fratello del pòro don Armando e, come lui, intelligente,allegro e buongustaio. E artista. Quando si trattava di montare l’altare dilegno ci si metteva, tutto solo, un giorno prima, con l’arte, la santa pazienzae una brocca di vino per aiutare l’estro. Mi risulta che ne poteva bere anchedue senza perdere la lucidità.

Poi cominciava l’esposizione delle Sante Quarant’ore, durante le qualiil popolo, in parte, e le Monichelle, ininterrottamente, adoravanol’Eucarestia esposta solennemente con l’Ostensorio prezioso, lassù, in alto

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nella sublimità del trono. Solo che per portarlo lassù, un prete doveva faremanovre. Prima saliva con la scaletta apposita sulla mensa dell’altare le cuitovaglie immacolate e ricamate venivano coperte lì per lì, con un telo dicanapa grezza, poi il prete si scansava e Fulgenzio metteva la scaletta diprima sulla mensa. Il prete la saliva di nuovo, si doveva sporgere, reggendo1’Ostensorio solo con la destra alzata il più possibile e con diversi stenti lodoveva deporre sul tronetto altissimo. Era un azzardo, poiché si rischiava dicadere con tutti i paramenti, da sette o otto metri d’altezza.

Gli altri preti non si fidavano. Nessuno aveva l’altezza acconcia eccet-tuato don Luigi Picotti che però, allora, era ancora un seminarista .

Così toccava a don Sante, il meno alto in grado ed anche il più tracca-gnotto. Per darsi coraggio appinsava alla brocca di Fulgenzio che fraterna-mente acconsentiva, poi arrancava su, fra i canti sinfonici delle Monichelle,scritti e musicati dall’antico abate Perla il cui fantasma, si dice, va ancoradi notte rasente le mura delle case di Borgonicchio.

Don Sante saliva fra le volute di fumo dell’incenso raffinato che non glipiaceva e che, secondo lui, impuzzoliva pure il Paradiso. Comunque, amodo suo, pregava per mantenere con la Divina Provvidenza gli equilibri.Ma, una volta, barcollò più del solito; la scaletta vecchia scricchiolò e sem-brò inchinarsi. Don Sante non poteva afferrarsi da nessuna parte poiché icandelabri esilissimi si sarebbero subito spezzati. Allora gli si risvegliò lafede profonda e fece questa orazione:”Signore che reggete il mondo, reg-gete pure a me, sinnò se capoculamo 77 tutt’e due!”

E pare che fu ascoltato. Ma tutte queste cose non furono affatto graditedal Vescovo quando le ascoltò a sua volta.

Ci fu un filo-mulino di anime pie, con una lingua all’acido muriatico cheandarono da sua Eccellenza a riferire. Le anime pie sono così, se non dico-no male di qualcuno, scoppiano. Don Sante diceva fra l’altro: “Le sae per-ché ‘ste marroche 78 se chiamono anime pie? Perché chi ce casca sotto sela pia ‘nder…” e nominava posti che qui non pare confacente...

per impedire a voi dal Sacro desco l'animo sentir sì rigenerato."77. Ci capovolgiamo, precipitiamo.

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Venne la sentenza: “Don Sante non tocchi più assolutamente il vino, sesi eccettua quello della Santa Celebrazione!” Che poi vino non era più per-ché diventava il sangue del Signore. Era minacciata la sospensione a divi-nis!

Don Sante disse: “So’ diventato un giudìo. M’hanno messo in un campode concentramento!” Erano infatti in voga, allora, posti come Auschwitz,ma in confronto a come stava don Sante senza vino, lassù la vita non era poitanto male. Infatti diceva: “Quanno l’Ebbrei nu’ le pònno più, je dannon’arrostita lesta lesta nel formo crematorio, a me, invece, me fanno morì afoco lento e col pilotto!”

78. Marroca: essere ripugnante dall'aspetto tra la biscia ed il lumacone, che sinascondeva nei luoghi ove ristagnava l'acqua (pozzi, fogne, paludi), facendo sentire la suapaurosa voce gracidante e rauca. Una delle funzioni di questa fantastica figura era quella

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TREDICESIMO BOCCALE

La sospensione a divinis non voleva dire, certo, che uno era appiccato alcielo. Significava che un prete era punito e non poteva più dire Messa, néconfessare, né amministrare gli altri sacramenti. Un prete ridotto così eracome un cesso senza lo sciacquone dell’acqua. Don Sante fu spaventatodalla minaccia.

Le bizzoche dicevano che faceva finta e che, ogni volta che poteva, unangollita 79 de vino se la faceva.

Don Sante era tanto amato dalla gente quanto era criticato dalle donne dichiesa perché, secondo loro, i suoi comportamenti non erano confacenti alladignità.

C’era la Concetta, alle Grazie, che stava in una casetta sopra l’orto didon Sante, lo guardava con rancore quando, senza tonaca, con una foglia dicavolo in testa, una canottiera piena di buchi e un paio di calzonacci comequelli di Bracaccia,80 vangava o zappava.

Qualche volta, mentre lui stava beato a fare uno spuntino sotto unacapannella di canne e foglie di zucca rampicante, la Concetta, dalla finestradi sopra, gli buttava addosso l’acqua bollente della scolatura della pasta.

Parecchia la deviavano le foglie di zucca, ma diversi schizzi se li becca-va lui. “Scusate, don Sa’, nun v’avevo visto!” “Conce’, te potesse pijà uncórpo!” “Oh, Madonna! Un prete che manna li córpi!” “Famme finìConce’: ...de fortuna, volevo di’” E quando lo raccontava sarnacava 81 lasua risata e diceva “...Ma intanto je l’ho mammato!”

di scoraggiare i bambini piccoli ad avvicinarsi alla pericolosa bocca dei pozzi e dellecisterne ove, a detta dei grandi, la spaventosa marroca avrebbe potuto ghermirli.

79. Ingozzata.80. Era uno dei personaggi caratteristici che, una volta, giravano per Montefiascone.

Indossava sempre un paio di pantaloni completamente sformati e cadenti e da lì il sopran-nome. Quando qualcuno era vestito in modo scomposto e sciatto, subito scattava l'escla-mazione: "Me parghe Bracaccia".

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Però, com’èlogico, ci masti-cava male: unconto è uncórpo, puredeviato a fortu-na, un altroconto una sbol-lentata. E rumi-nava vendette.E, alla fine, suc-cesse.

Una sera,mentre stava algabinetto, cheera un bugigat-tolo stretto conuna finestrellad’un palmo,sentì la Concettae altre due pette-gole propriosotto la finestrel-la che chiacchie-ravano e dicevano male di lui. In genere la Concetta e le altre, questi dis-corsi li facevano lontano, perché non si fidavano. Ma quella sera, chissàperché...

Don Sante fu lesto come una fucilata: afferrò il pitale che era pieno per-ché ne usava il contenuto per concimare l’orto, e... battezzò. Urla di schifoe di sconcerto! “Oh! scusate tanto! Nun v’aveva visto! Volevo concima l’or-to! Voi, Conce’ me lo riscallate e io lo concimo. St’orto ce dovrà ringraziape quanto lo curamo!”

Rimasero come tre cime di broccolo dopo la guazza, poi si ripresero e

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disegno di Francesco Marzetti

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cominciarono ad urlare invettive, ma don Sante aveva già chiuso la fine-strella e, seduto sulla tazza, cantava a squarciagola, da quel poeta che era:

Vojo canta così: fiore sbocciaton’orto accusì nun s’era mae vedutotu l’ariscalli e io l’ho concimato!

Ma, da quel momento, la guerriglia fu trasformata in guerra aperta,dichiarata e senza quartiere, anche perché don Sante andava in giro dicendodelle tre anziane: “Ete sentito le puzzono de piscio? Cuminciono a fasselasotto! È lo scaroso! 82 E ringraziamo Dio. La faranno finita d’anna’ dalVesco a gracicà le mi faccenne, ‘ste cornacchiacce spennate!”

Dicono che l’appetito viene mangiando e così, don Sante, continuò nellastrada delle sue vendette. Dopo qualche giorno, cominciò a gridare in casae nell’orto: “Vojo butta ‘sta tonicaccia! Sine, sine, la vojo butta all’ortica!Vedete voi si nu’ la butto! Manco la vojo vede più!” E le vecchie marrochecorsero subito dal Vescovo a raccontare che don Sante era “posseduto” evoleva spretarsi.

Passò l’Angelo e disse ammene! Il Vescovo lo chiamò subito.Era molto preoccupato perché don Sante era come un cavallo balzano e

non si capiva bene mai quello che voleva fare. “Figliolo mi si riferisce chevolete gettare via la sacra veste! Alla vostra età! Non ne sentite rimorso,vergogna?” “Eccellenza! Perché devo sentire rimorso? Che, alla mia età èproibito fare una veste nuova? Guardatela com’è ridotta: lisa, piena dibuchi, sbrindellata! Certo cha la butto, si! Sto mettendo i soldi da parte perfarla una nuova. Se vostra Eccellenza volesse contribuire...”

Non si sa se il Vescovo contribuì. Si sa, però, che alle devote cornacchiefece una lavata di capo senza sciampo.

E rimasero con le orecchie basse per lungo tempo. Ormai avevano persola credibilità .

81. Sarnacare: emettere un rumore simile a quello che fa il maiale quando dorme;respirare rumorosamente..

82. Scaroso: Termine storpiato della più difficile parola “arteriosclerosi”. Il termine

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Un po’ carogna era, don Sante, e non poté fare a meno di approfittarsene.Una mattina distribuiva le Sacre particole: “Corpus Domini nostri JesùChristi, custodiat animan tuam in vitam aeternam... Corpus Domini...Corpus...” e, via via recitando la formula che gli altri preti dicevano ad ognifedele e lui a volte ogni tre, a volte ogni quattro, deponeva l’Ostia sacrasulla lingua di ognuno. Tutto intento alla sacra funzione gli capitò di vedere,inginocchiata lungo la balaustra, una delle cornacchie sue. Lei aprì labocca, tirò fuori la lingua e chiuse gli occhi tutta beata. Don Sante mise dinuovo l’Ostia nella pisside e le allentò una sganassone sotto il mento, dafarle mordere la lingua: “A te gnente, bizzoca farza! Su la tu’ lingua Cristoce sta scomodo!” E passò oltre tutto serafico: “Corpus... Corpus...” Equando lo raccontava rideva con quel suo riso rantolato: “Manco potè di’gnente, co’ la lingua mozzicata, ‘sta marroca!”

Però, all’improvviso gli arrivò il cataclisma. Veniva su da Tartarola colferraiolo avvolto intorno al corpo e il lembo destro sulla spalla sinistra inmodo da essere completamente fasciato dal mantello. Perché, sotto, nascon-deva due buoni fiaschi di vino. Un rosolio! E vide venire, verso iCappuccini, il Vescovo a passeggio col suo cancelliere, che all’epoca eradon Tommaso Leonetti.“Madonna santissima, oggi me lessa!”Si avviò tutto rigido verso il prelato, con la stessa allegria di Cicoria

quando andava alla ghigliottina.83

viene anche usato in senso dispregiativo, nei confronti di una persona che, anche non sof-frendo di tale malattia si comporta come l'avesse.

83. La storia di Cicoria fa parte dell'immaginario di diversi paesi. A Montefiasconeè conosciuto come Pietro Cicoria, a Bolsena come Peppe Cicoria; a Viterbo ritengono chel'esecuzione sia avvenuta in piazza della Rocca: "Quando in carcere il giorno prima dellacondanna, gli chiesero quale fosse il suo ultimo desiderio, anche lui, come un altro con-dannato viterbese, certo Camicia, chiese un bel piatto di maccheroni e se lo divorò tran-quillo e contento. Mentre lo conducevano al patibolo approntato a piazza della Rocca,vedendo tanta gente che si affrettava per non perdere lo spettacolo disse: "Non correte,prendetevela con comodo, tanto se non arrivo io la festa non comincia". Una volta salitosul palco, noncurante delle raccomandazioni del frate che voleva ben prepararlo alla morte,dichiarò: " 'Na fregna così non m'era mai successa". Poi, accorgendosi che cominciava apiovere, rivolgendosi al boia esclamò: "Aho, sbrighete a tajamme 'sta capoccia, se no pija-mo pure l'acqua". Un'altra versione della storia è quella che vuole un certo Cencio Cicoria

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Il Vescovo tese la mano ina-nellata per il bacio rituale. DonSante si piegò per baciare l’anel-lo, interito 84 come se avesseinghiottito una pertica di sorbo.Allora il cancelliere tutto faceto:“Don Sante, non sarete micaparalizzato! Non si usa più darela mano al Vescovo?” E brusca-mente gli scostò il lembo delmantello. Apparvero i due fia-schi.

Don Sante sollevò le maniche li tenevano con un candoreda cero pasquale e: “Ah va’! Echi me ce l’avrà messi?”

Il cancelliere rise, il Vescovono. Scattò la sospensione a divi-nis. Per sette mesi. “M’hannocastrato”. Diceva.

E una donna gli si avvicinòmentre borbottava il breviario inchiesa. Aveva molta roba dapurificare, con ogni evidenza.

condannato alla pena capitale il 27 gennaio 1863. Il Cicoria aveva rubato 8 galline e ungalletto a don Pio Falcioni e poi, per sua disgrazia, era andato a confessare il suo peccatoproprio allo stesso prete che lo denunciò. Dopo 33 giorni dal misfatto fu giustiziato:"Questa è la verità sul poveretto / lasciata ai posteri in memoria / che all'ultimo fiatoimmortalò 'l su' detto / Eccoci qua! Disse! Cicoria / Un affare così non m'era capitato mae/ e così finiscono le mi giorne e le mi guae!". In realtà, dal taccuino di Mastro Titta, al secoloGiovan Battista Bugatti, ove il boia aveva diligentemente annotato le 514 esecuzioni cheaveva effettuato a Roma ed in tutto il territorio dello Stato Pontificio dal 22 marzo 1796 al17 agosto 1864 - poi aggiornato fino al 1870 dal successore - si evince che l'unico Cicoriagiustiziato nello stato pontificio nell'Ottocento fu tale Cicoria Arberio (o Alberto o Arberto)di città di Castello, condannato all'ultimo supplizio li 26 giugno 1855 per ladrocinio e omi-

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Il cancelliere del vescovo Rosi, don TommasoLeonetti, fu succesivamente nominato vescovo

di Ferentino e arcivescovo di Capua.Don Sante conservava la sua foto con dedica

tra le cose più care: le sue poesie

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“Don Sa’, confessateme un pelo!”“Io li peli nun li confesso! Ma adesso nun posso confessà manco li cri-

stiani!”“E via, don Sa’, ce vòle un attimo!”E lui abbaiava; “Va via, va via!”“Don Sa’, Madonna! Che ve mettete a fa’ ‘l prezioso?”“Va via, t’ho detto! Che io nun so’ più un santo confessore. SO’ UN

SANTO MARTIREEE!”Al grido inconsueto si voltarono tutti.“Si so’ un martire! Li preti della Sinigoga fecero appiccà Cristo su la

croce e li preti cristiani m’hanno appiccato a me, sur DIVINIS! Che si m’a-vessero lasciato appiccato solo sur VINIS, ce sarebbe stato tanto bene!”

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QUATTORDICESIMO BOCCALE

Le formiche degli uomini sono molte. Moltissime le loro strade. Leseguono a branchi, a lunghe file anonime, senza perché. Una volta c’eraArduino delle Coste, conosciuto da tutti come Pettorea perché aveva unparticolare modo di incedere. A balzi, come se volesse scontrarsi con tuttiquelli che incontrava. Dunque Arduino s’era messo in testa di far cammi-nare le formiche in modo razionale: scavava stradelline, creava piccoliponti con le cannucce: “Stusìne riaréte prima e v ‘aggadiarete meno”.85

Niente! Aveva voglia a correggere le sequele degli insetti! Quelli ritor-navano sempre nelle piste di prima, tanto che Pettorea diceva che bisogna-va cambiare il proverbio: “‘Nse pò dine tignoso come ‘na sumara, s’à dadine tosto quant’e le formiche !”

Anche le formiche degli uomini sono così. Non si possono deviare nem-meno secondo i criteri del più fine raziocinio. Sarebbe inutile. Bisognaadattarsi a loro. Questo era il problema che affascinava don Sante: comefare per rendere accessibili i dogmi della pura Teologia alla mente del saet-tone locale.

Capire la Teologia può anche essere facile, ma capire il saettone... è cosalunga e contorta. Ma don Sante era portato a capire, perdonare, riplasmaretutto, compresi gli assiomi. E così scaturiva la sua teologia particolare,digerita a misura di saettone.

E il pòro Giusaffatte de le Terre Sante diceva: “Don Sa’, ‘l peccato orig-ginale l’ho capito. Adamo ha magnato la mela e ‘l Patre Eterno l’ha spuz-zato 86 dal Paradiso terrestre. Ma che c’entramo noe?!!? Mica je 1’emodate noe le mozziche ma ‘sta puttangola de mela! Ma po’ essa che ‘sta con-danna sie infunita? Si noe nun émo magnato gnente, ‘l Signore nun pote-rebbe fa’ ‘n’aggaozzolata de tutte le peccate e scancella ‘sta nunnara?”.87

cidio; nella nota, tuttavia, non viene precisato né il luogo né le modalità dell'esecuzione.84. Rigido, intirizzito.85. "Così arriverete prima e v'annoierete meno".

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Risposta teologica: “Le vede, Giusaffà, ‘sta beca nun pò finì perché noece portamo ‘r segno ! lo vede ‘r fico d’Adamo? Ce l’emo tutte perché vordi’ che ‘r pezzo de la mela anco nun l’emo ingollito e si ‘sta tamanta melacapitasse ‘n’artra vorta, ognun de noe 1’arimagnarebbe! Ecco perché lapena der peccato dura. Nun è corpa der Patre Eterno ma dell’omo chetiene ‘r fico d’Adamo piantato mar gargarozzo come segno de la su’ birbac-cionaggine ! Defatte troeme ‘n omo senza difette e te pago ‘na cena!”

E Giusaffatte: “Ho capito. ‘L giorno che le gente angollisciaranno 88

tutte le fiche d’Adamo sarà funito ‘sto malidetto peccato origginale che ciaggadia! 89“

E gli dicevano: “Ma com’è sta faccenna de la Santissama Ternità? UnCristiano man tre Cristiane e tre Cristiane ma un Cristiano solo. Come pòèssa?”

Allora lui: “Lo vedete ‘r forcone? È uno solo, però cià tre punte. Si jemanca ‘na punta nun è più un forcone e ‘r manico è uno solo ma l’arreggetutte e tre. Avete capito mo?”“Mò sine! Ma perché l’artre prete nun parlono stusìne? 90“ Forse per-

ché gli altri non avevano l’immediatezza e la psicologia istintiva che gli tur-binavano dentro e, qualche volta, lo facevano pure deragliare.

Come quella volta, ad Arlena, mentre si svolgeva la processione. DonSante portava l’Ostensorio sotto un baldacchino tutto ricamato, retto da seiuomini. Uno di loro aveva il figlio piccolo con sé, attaccato ai pantaloni,dato che le mani gli servivano per tenere l’asta del baldacchino.

Ed il piccolo frignava: “Oh ba’, damme mano! Oh ba’, damme mano!..”La preghiera veniva disturbata dalla lagna insistente. Don Sante intonava leorazioni e, ogni tanto si volgeva al piccolo e gli abbaiava: “Statte zitto!”

Macché. Il pianto cresceva, sempre più insistente. Ad un certo punto donSante non ne poteva più. Si chinò verso il bimbo e gli mostrò l’Ostensorio:“Statte zitto... Sinnò te fò magna dal lupo!” 91

86. Espulso.87. Nenia, storia noiosa.88. Ingoieranno.89. Aggadiare: tormentare, angosciare.

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Se ne pentì immediatamente perché, all’istante, si rese conto dell’enor-mità che aveva detto. “Però - aggiungeva - ‘l regazzino s’è zittato subito!”“E ‘l Patreterno?” “Che volete che ve dica, ci avrà fatto una risata! Infondo ‘l lupo l’ha creato lue si o no?”

San Benedetto Giuseppe Labre era un Santo particolarissimo del ‘700.Aveva scelto la vita del pellegrino perpetuo ed andava per le strade, tuttostracciato e sporco, pregando incessantemente e annunciando le cose delVangelo. Il panegirico che ne fece don Sante fu memorabile. Salì sul pulpitodelle Monichelle e, all’improvviso, si vide il Vescovo lì davanti ad ascoltarela predica. “Vergine Santissima, aiutateme voe! E’ mejo che me sbrigo chemeno cose dico co’ questo qui sotto e mejo è!”“Fratelli - fa - questo Santo voleva bene a tutti e tutte le cose del mondo.

Quando gli volevano acciaccà qualcuno dei pidocchi che lo popolavano,diceva di lasciarlo sta perché era ‘na creatura di Dio. Anche co’ le purcifaceva lo stesso. Ebbene li pidocchi e le purci l’hanno portato tanto in altoche nun è venuto giù più. E è diventato Santo. E potreste essere santi puretutti voi - e guardava fisso il Vescovo - se foste capaci di voler bene anchea un pidocchio, per esempio, come me. Ma séte capaci? Io nun credo e per-ciò sarà difficile che diventate santi come Lui”.

Scese dal pulpito a scapicollo e fece per sgattaiolare in sacrestia. Ma ilVescovo lo bloccò: “Don Sante, avete fatto una predica breve, ma mi hafatto meditare, vi chiedo di perdonarmi se non sempre ho dimostrato divolervi bene.” “A momente me cascava la corata per terra! - commentavalui - ‘Ste vescove so’ come la gragnòla, nun sae mae come, ma te casconoaddosso sempre! ‘Sta vorta, però, me pare d’avello fregato io!”

90. Così.91. Zelindo Gianlorenzo riporta una variante dello stesso episodio: "Si narra come in

occasione di una festa religiosa il nostro Don Sante aprisse la processione portando laCroce: dietro di lui, in doppia fila, venivano i partecipanti al corteo e ai lati della strada, lafolla di cittadini; fra questi, una giovane donna tentava invano di far tacere il suo piccolobambino tenuto per mano, il quale piangeva disperatamente come solo a quell'età si sa fare.Giunto a quel punto, Don Sante si voltò di sottecchi verso il bambino facendo gli occhiaccie, agitando la Croce in su e in giù, gli mormorò: "Te fo magnà dal bao!". Il bambino tacqueimmediatamente e credo che se qualcuno avesse guardato in quel momento la Croce, forseavrebbe visto apparire l'ombra di un sorriso sul volto dolorante di Gesù."; GIANLOREN-

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E sgraujava 92 una risata un po’ buffa e un po’soprappensiero.La gente capì questo particolarissimo tipo di beatificazione. La gente.

Che storpiava le preghiere derivate dal latino, un po’ perché non capiva leparole, un po’ perché voleva sbrigarsi. Così capitava che, nel dire ilPaternostro, c’era la frase: “Et ne nos inducas in tentationem” che volevadire e non c’indurre in tentazione. Ma la gente pronunciava: “E Tenenossein du’ casse” e poi dicevano che l’uomo più alto del mondo era statoTenenosse perché l’avevano dovuto mettere in due casse dopo morto.

E una donna che aveva cantato a modo suo lo Stabat Mater nella proces-sione del venerdì santo, gli disse: “Don Sa’, émo cantato che la Madonnajà arigalato un pennente 93 mar fijio. E co’ tutto quello struggello de la viacrucise, propio mellì ija d’erigala ‘n pennente?” In realtà aveva cantatouna specie di latino che, quando era stato ancora vergine, aveva significatocosì: “...dum pendebat Filius” Allora don Sante: “Capische quante ‘nacrastica. ‘L pennente era lue, ‘r Fijio de Dio e suo che stàa a pennolone dala Croce; hae capito si o nnò?”

Ogni Venerdì, don Sante, diceva la Messa nella chiesa di Sant’Andrea insuffragio dell’anime sante del Purgatorio e, mentre lui celebrava, le donnedicevano il rosario che, considerate le “tanìe”, doveva durare press’a pocoquanto la Celebrazione. Ma le donne arrocchiavano giovandosi appunto dellatino. Per esempio, nella seconda parte dell’Ave Maria, si sarebbe dovutodire: “Ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.”

Le donne invece dicevano: “Scatò, schinò sternòstre. Ammenne.” E que-sta tecnica riduceva sensibilmente i tempi. Per non parlare di ciò che suc-cedeva in tutto il resto, comprese le litanie: “Sale su quer mòro. Spé coll’o-jio stizza. Turrise brugnola. ecc… Ora prenò, ora prenò… “ 94

Succedeva che le donne finissero molto prima del celebrante e, per ilresto della messa dicevano male della gente, sbadigliavano, si grattavano ecose simili. Don Sante ci si riscaldava: “Dite bene ‘ste preghiere che si iofosse ‘1 Padreterno co’ voe ce sbaioccarèbbe poco pure io.” Niente!!!

ZO, ZELINDO, "SINITE PARVULOS VENIRE AD ME!" secondo Don Sante, in "LaVoce", Montefiascone, settembre 1999, p. 2.

92. Sgraujà: grufolare; fig. arruffare malamente.

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Una mattina gli girava male. Je rodeva, avrebbe detto il laicame. Si voltòper lanciare il primo saluto: “Dominus vobiscum!” quasi all’inizio dellaMessa, quando sentì la Brodara che intonava già il terzo Mistero doloroso.Si fermò un attimo e poi: “Ah si? Allora: Orate fratres!” Che era il salutodi quasi mezza Messa. Stava per voltarsi verso l’altare. Le donne protesta-rono. “Ma don Sa’, voe arrocchiate, nun vale!” E lui: “Perché, voe no? Sifamo a fregà, ve credete che io so’ più stupido?” E ci fu un corso di riedu-cazione alla preghiera.

Venne a preparargli l’altare il pòro Gustinello che si lamentava: “DonSa’, giusto perché séte voe! Che nun me sarebbe mosso da casa manco pe’tutte le quatrine de Frigo! Ci ho n’ogna incarnata ma un piede che me fasentì le sette tribbele der pòro Giobbe de la Bibbia!” E don Sante: “Uh! Leciciate! Gesù Cristo s’è incarnato tutto e nun ha mae fatto tutte le giostreche fae tu pe’ n’ogna.”

E le persone colte gli rimproveravano il senso bislacco delle sue molteprediche. E lui: “Sarò patrone de parlà de Dio come me pare? Che ve cre-dete che quanno ha creato ma me s’è sbajato? E si m’ha fatto cusì un po’de razzo matto ce l’ha da ave’ pure Lui! E si ha fatto li ricci e le spinose ejà commannato de fa l’amore (e solo Lui po’ sape’ come) nun ve pare chesia un tipo che è pure allegro e no musone, sempre co’ la bilancia su lemano pe’ pesà li peccati? Che poi nun sarebbe pe’ gnente ‘na vita da Dio,ma da finanziere!”

Dio del sorriso. Questa era la sua teologia di fondo. Quando gli parlava-no del fuoco eterno, giù nelle gole rosse del Tartaro, rispondeva: “N’hovisto mae che un puro spirito se scotta. Che l’anima cià ‘r culo d’abbrucià?‘R vero fòco è quello de la gattiveria che se portamo dentro! Si nu lo spe-gnemo col l’opere bone, quello è ‘l vero focòre del diavolo ch’abbrucia dadentro e no da fora!”

E quando parlava dei suoi Santi preferiti diceva: “San Magno e SanGiovese!”

E sapeva pregare, voleva bene a tutti o quasi, era capace di intenso per-dono. Portava allegria! “Mejio nun so fa, nun semo gnente, ma con chi sela volemo pijà? ‘L pòro Santagostino che prima l’aveva fatte quante

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Bertoldo, e dopo s’era convertito e era diventato più rigido d’una pertica,ha lassato detto “Homo saccus stercoris est!” che vordì che l’omo è unsacco de merda. Imbè, io mica pretendo d’esse un invortino de confetti!”

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QUINDICESIMO BOCCALE

Nella sua vita ebbe modo di vedere il Fascismo dominare e poi crollare.Si trovò a vivere fra le contestazioni degli squadristi neri, prima, e quelledegli attivisti comunisti, poi. Lo aggredivano perché prete, simbolo d’unpotere antico e indistruttibile, ma gli scontri erano sempre improntati alloscherzo perché nessuno, proprio nessuno, poteva veramente voler male adon Sante.

E un repubblichino, nero come il carbone, gli cantava dietro, dietro:

Si nun è st’anno,sarà n’artr’annoche preti e frati lavoreranno

Era il periodo in cui una delle incombenze di don Sante era quella diaccompagnare i defunti al Cimitero. Così lui rispondeva:

Io faccio il beccamorto, amico mio,tu comincia a morì che io lavoro,e si tutte sparite da qui intorno,lavorerò quarantott’ore al giorno.

E, naturalmente, nessuno si sognava di prenderlo a legnate. Nemmeno icomunisti del dopoguerra che si divertivano a sfotterlo per sentire la rispo-sta. “Don Sa’, co’ la capoccia de le prete ce faremo a ruzzolone giù pe ‘rBorgo!”“Co’ la mia si - diceva lui - ma la tua impuntarebbe!” E faceva il segno

delle corna perché pare che la moglie di questo qui, gli facesse vincere, ognianno, la corsa di San Martino. E, nonostante le contestazioni, i neri, i rossie i bianchi andavano a confessarsi da lui, che non rifiutava nessuno, e achiedergli consiglio o consolazione.

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disegno di Francesco Marzetti

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“Don Sa’, éte visto ‘st’urtime elezzione? E’ entrato mar commune quercornutaccio de… che nun vale manco un quarto de me.”“È giusto, fijo - rispondeva lui tutto paterno - si quello è cornuto e vale

un quarto de te, tu hae da pensa che ci hae tre quarte de corna in più delue. T’hanno sbattuto ne la piattabanda der portone e pe’ forza lue è potutoentra e tu no! Però consolete: anche come cornuto tu vale tre quarte dipiù!”

E gli si disse, da parte dei bempensanti: “‘Ste politichènte so’ come quel-le che stanno attorno ma ‘na cazzarola de sugo. Rìono, antegnono ‘r supezz’e pane e magnono quant’e Lutarane! 95 Anvece tutte quelle oneste sela pijono ‘nder...”“None, fijo - rispondeva lui - nun ce so’ quelle oneste. Ce so’ solo quelle

che nun ci hanno ‘r pezzo de pane per intigna. Tu prega Dio che te facciavé ‘r pezzo de pane e vedrae come te sbrodole dentr’a la cazzarola!”“Don Sa’, ‘sto monno è un monnezzaro! Le gente so’ tutte marce!”“Nun di’ le gente, fijo, dì noe che così ce chiappe mejo! ‘L monno è come

‘na barzelletta: c’è chi la dice, chi ce ride e chi ce s’incazza. Ma, a la fine,sempre ‘na barzelletta è.”

Dice: “Si, ma io nun capiscio le guste del monno, ce so’ tante che fannole cose più strane, che nun se ponno veda!”

E don Sante: “Tutti li gusti so’ gusti, fijo, anche quello de pulisse ‘r culoco’ ‘na revolverata!”

Non aveva paura degli uomini, ma aveva una fifa matta dei cani.Probabilmente essi sentivano questo suo terrore. Così, all’improvviso, uncanaccio maremmano lo morse, da dietro, ad un calcagno.

Allora la medicina non sapeva usare ancora molte prevenzioni e perciòil dottore gli disse: “Don Sante, se il cane è idrofobo, la malattia si mani-festa dopo quaranta giorni e si vede, come primo sintomo dalla pauradell’acqua.”“Dotto’, io un po’ idrofobo so’ stato sempre! Credete che questo mi

renda immune?”

93. Grosso orecchino pendente.94. "Salus infirmorum, Speculum iustitiae, Turris eburnea… Ora pro nobis".

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“Non scherzi, reverendo, si tratta di una malattia terribile, spesso conesiti mortali, ma, per fortuna, sembra che il cane non sia malato. Bisognasolo aspettare.”

E don Sante passò quaranta giorni di terrore. Cercava di scherzarci, dice-va alla gente: “Nun me fate arrabbià, se no m’arrabbio come li cani.”

Ma aveva paura: “Mica per niente - diceva - è perché ho sempre fattouna vita da cani e sta’ a vede che me tocca morì pure come un cane arrab-biato!”

Poi la quarantena finì e la paura passò. Quella della rabbia, non quelladei cani. “Però un non so che de rabbia me l’ha lasciata. Me pare che co’l’acqua ci ho anche meno paranza de prima! Lo vedi? L’acqua mette paurapure a li cani. Nun s’è mai sentito di’ che il vino facci lo stesso!” E, purfacendo una vita da cani - sempre povero, umiliato, stracciato - continuavaad aver paura di loro. E diceva che era un’assurdità, ma in lui c’erano tantecose assurde. Per esempio, i branchi dei cani randagi gli andavano a man-giare l’uva della vignarella che aveva in affitto e coltivava con ogni cura:“Nun è vero che fra cani nun ce se mozzica! Guarda un po’! Me vengonoa divora li rampazzi a me che campo come loro! E nun li posso mancomaledì, che so’ colleghi!”

Morì per mancanza di fiato, fu sepolto nella tomba comune dei preti.Dopo di lui ci sono stati sepolti altri prelati importanti e poi ancora preti. Èsparito anche il suo nome dalla grande lapide e pure il suo ricordo si staaffievolendo, anche in quelli che l’hanno conosciuto.

Noi che gli abbiamo voluto bene speriamo che queste poche righe, alle-gre ed umili, come fu la sua vita, possano soffiare via la polvere dellamemoria e far rivivere per un po’ la sua risata bolsa.

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disegno di Francesco Marzetti

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SEDICESIMO BOCCALE

Quando rombava la forza dell’erba mia, ho visto venire il cavallo opacodel lungo viaggio. Per te.

Ma, prima di lui, giungeva l’uomo della falce di luna.E il tuo fieno, ormai giallo si è sparso nel prato dove è signora la cenere

e la polvere.Quando sei salito sul cavallo trasparente per il viaggio lungo, dietro il

fragile muro del tempo, io ero là, col tumulto della mente e tenevo per te ilboccale della staffa.

Quello che augura un viatico senza freddo e promette un ritorno che,forse, è solo fatto di ricordo.

Tu hai bevuto l’ultimo bicchiere e poi sei salito sul cavallo d’opalina e iltrito delle ossa pestate ti accompagnava.

E poi...Dove sei tu, ora, signore della vita ridente e piccina?Sono le strade della fatica che ricordano il tuo passo?Sono le mura ricche di muffa che fanno eco alla tua risata?E mi racconta la farfalla del tempo che il buio della tomba senza nome

protegge tutto il vestito del tuo respiro stroncato.E la goccia che cade sulla foglia della vita è figlia della nuvola ed è

madre del vino, quando si sposa con una vite ritorta.Dove sei tu, che portavi la carezza, dolce come il moscato ed acre come

il fiore dell’aceto?Forse una coda di stelle ti copre o, forse, sull’ultimo giro del mondo aiuti

il Padre a creare l’eterna allegria per ospitare quelli che sempre e sempre ilcavallo diafano trasporta.

Ho riportato il ruscello delle tue parole.Ho cercato di far rifiorire il pepe della tua fantasia.Non ti ho ancora ritrovato. Ma sento che presto cadrò, come te. Quando

la falce di luna mi taglierà le giunture.Allora preparami un sorriso che mi spinga nel primo andare!

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Uno dei taccuini di poesie di don Sante

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LE POESIE DI DON SANTE

A DON SANTE

Del Zampa Sante, basta solo er nomePe di’ poeta quanto mai genialeScrive italiano e romanesco comeLo scrive un redattore de Giornale.

Vede ‘na cosa? Te ce fa ‘no schizzoLa satira davero nun j’amancaScrive continuamente e nun se stancaCià sempre pronto un motto oppure un frizzo.

E co’ li versi e co’ l’aritornelliFra poco tempo lui darà le melea Pascarella e a Gioacchino Belli!!

GIULIO GARDINI

21 settembre 1917

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IL VINO È IL CAVALLO DEL POETA

...così dissero i padri vecchi della poesia.Quelli che raccoglievano dentro il cuore le ottave e gli stornelli. E li can-

tavano, poi, quando la dea della bellezza li faceva annegare nell’azzurrodella sfera alta o nel piano verde di quando i prati cambiano la pelle oppurenel giallo del sole, quando va ad incarnarsi dentro le spighe mature.

Ma c’erano altre dee che facevano esplodere la poesia nel petto.C’era la dea armata che spremeva sangue di eroismo dentro il torchio

della guerra.E c’era la dea vestita di sventura che alimentava il fuoco della tragedia.C’era poi una dea piccola, sorniona e rubizza che sfrugugliava nei sen-

timenti bassi dell’uomo e ne rovesciava all’aria aperta il letame dello spiri-to.

Questa fu la pulsione di don Sante poeta.Gli antichi Greci la chiamarono IRONIA, i Romani: SATIRA.Dice che andava fra le pieghe delle coscienze a versarvi un riso aspro,

dolente, ma medicinale.Da essa don Sante fu spinto a filare e tessere versi di melodia, fra un sor-

riso e una sghignazzata…Così incominciò a parlare della propria vita

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IL PRIMO GIORNO DI COLLEGIO

INGRESSO E PARTENZA 1907-1911

Nell’anno mille-nove-cento-sette,venni alla scuola di Teologiaquivi a Montefiascon, dove s’ammettepur chi da prete vuol tener la via.Or che lo studio sacro l’ò compiuto,faccio il fagotto, parto e vi saluto!

Addio diletti professor di cuiuna memoria porterò stampata;addio Collegio ov’io quattr’anni fui,addio rocca mia bella diroccata,addio Montefiascon città di studi,addio sapienza, addio sessanta scudi!96

95. Luterani erano i lanzichenecchi, seguaci di Martin Lutero, che misero a saccoRoma, devastando le terre pontificie e esaurendo ogni scorta alimentare.

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Fra le sue pagine, disordinate, scarabocchiate a mano, spesso accom-pagnate da disegni semplici ma efficaci, affiorano anche ricordi trasognatidella giovinezza. Cose stampate nell’occhio e trasportate nella pennadall’estasi dei luoghi belli conosciuti e, quasi, assorbiti come vino sincero,dal teatro della natura.

PANORAMA DI MONTEFIASCONE

Sonnetto stetico

Lo vegghe ‘ncima ‘ncolle imbarsimatod’arome che qui sempre je svaporasu’ ‘l lago de Bursigno, circondatoda paesetti cari, ch’innamora!..

Mannaggia ch’orizzonte sconfinato!el tramonto del sole t’aristora;se vede ‘l mare, dillo a chi c’è stato,si nun ce crede, poe se vede ancora.

Quassù l’inverno pare primaverae nun me poi trovà sito più amenopel canto, pe’ lo studio e la preghiera.

Quanno la tramontana a ciel serenoarida soffia, o mugge la bufera,scotte d’un foco che n’adè terreno.

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Il suo periodo fu tormentato: due guerre e l’ultima delle grandi calami-tà: la febbre spagnola che produsse migliaia di vittime. Don Sante vissequesta epidemia come, del resto, aveva fatto per tutto il resto della sua vita.Con bonomia, pazienza e con una sommessa risata.

LA FEBBRE GRIPPALE - OVVEROSIA LA SPAGNOLA

Mo ce mancava puro st’infezzione…se po’ sapé ch’edè st’epidemiache co’ tre giorni viene e spazza via,Cristo-gesù-maria! Tante persone?

Ne la caserma de faccia a la miavedi più vorte ar giorno er Carrettone,e se nun viene presto un acquazzone,ce coje a tutti quanti e così sia.

Morì in quattro battute! n’a parola!ma dimme un po’ se sa da che paesest’accidente è venuta? Te consola.

Primma da Francia venne la francesemo da la Spagna viene la spagnoladall’Inghilterra poi… verrà l’inglese.

30 settembre 1918

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ANNO SANTO

Sonetto dialettale

Da quanno m’hanno fatto Cappellanode li Morti, ci ho avuto un’affluenzada non temer nessuna concorrenza!ma mica porto jella! Il caso è strano!

Si, lo capisco… c’è molta influenza!el tempo stesso è sempre molto strano,ma c’è un rimedio ch’ha del sovrumanofra tanti aritrovati de la scienza.

Contando quei di morte naturale,con tutti quei morti di malattiache (non volendo) ammazza lo speziale!

Se annamo ancora avanti de sto passosenza contà li morti giù in Corea;chi resta ancora in piedi ad’è de… sasso!

21 dicembre 1950

NB, in occasione dell’improvvisa morte del più grandepoeta romanesco dei nostri tempi TRILUSSA Requiescant

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La seconda guerra mondiale. Si svolse quasi sempre lontano dalViterbese, salvo che negli ultimi episodi, dopo la caduta di Montecassino.Allora veramente furono esperimentati bombardamenti, incursioni, sac-cheggi, violenze di ogni genere. Ma fin quasi alla fine degli eventi bellici,a Montefiascone si sentiva parlare della guerra come una cosa lontana,quasi una favola che tale sarebbe rimasta. Ogni tanto arrivavano sbandati,esuli, gente che aveva perduto tutto e che fuggiva braccata.È il caso di questo vecchietto, fotografato da don Sante mentre racconta

di fatti lontani a chi non sa e non ha provato. Una specie di Ulisse in dia-letto, quando evoca alla corte dei Feaci i grandi fatti d’arme sepolti dallapolvere della dimenticanza.

Don Sante “Cappellano de li Morti” delle Seconda guerra mondiale

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ER VECCHIETTO GIROVAGO SE FERMA A MONTEFIASCONE

[...] Ma voi qui a Montefiasconesiete proprio fortunati,con quel ber Cuppolone!e tanti preti e frati!Da voi la tesseraè sol di nomevi vedo vivereancora comeai bei tempi del passatoquando niente era vietato!

Ma voi finora non avete vistoche da lontano, i fuochi artificiali!Voi non sentite ancor l’urlo sinistrode li bombardamenti micidiali.Ve ne state intorno al descoo di fuori a o prende il frescoe anche in allarmepe’ fa tacere a voi ce vo ‘l gendarme!

Quanno la terra trema, er pavimentoballa la sorfa… e tutto intorno crolla,er savio nell’udir, le spalle scrolladicendo: scosse son… d’assestamento!Voi mostrate il cor tranquilloperché avete er capo bello.Co’ l’ara e i polliandate a letto sempre satolli.

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[...] Sfila ‘gni giorno ‘na gran teoriade macchine fregate all’italiani,e si staranno qui… ‘sti luterani,me lo sai di’ che un porteranno via?Vacche, pecore e maiali…moto, Singer e postalie bicicletteso’ assai peggiori de le cavallette!

Er povero vecchiettosbirciando quella notase risogna un bicchierettopur co’ la panza votae caduto ginocchioni,recitando le orazioni,pian pianino s’addormentama con l’anima contenta.

21 settembre 1943 (S. Matteo)

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A modo suo... Molto a modo suo, don Sante si occupò di medicina. Erasolito dire che esercitava una cura definitiva, quella che guariva tutti imali, quando accompagnava gli ormai ex ammalati col “Carrettone” giùda Brucia. Ed, in effetti, dopo quel viaggetto, non c’era più possibilità dicontrarre alcunché di nocivo.Tuttavia egli aveva anche un vademecum per cercare di prolungare il

soggiorno in questa valle di lacrime dove, a detta del pòro Bista, “Ce sepiagnìa tanto bene!”

RIMEDI INVERNALI

Prendete pur la sera una tazzinadi tiglio inzuccherato; e andate a lettocol prete! e sentirete aprirvi il petto.È contro il raffreddor la medicina.

Ma se volete un mio consiglio schietto(come dottor la chiamerei ricetta)tutte le sere, quanno sete a lettola man stendete sulla colonnettaed afferrate il colmo bicchierettocaldo, spumante e poi non date rettaai serapismi; li polmoni e il pettos’allargheranno e come in tutta fretta!

Adesso nei caffè è tanto in vogasorbirsi un bel tazzon di Camomilla,nauseante in cambio de fa moca…ma un calice de vino che zampillaera dai nostri padri molto usatoe preferito ad ogni surrogato.

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E lascia che il Dottor insista e strilliil nettare che gli Dei trincano in cielofa far dei sonni placidi e tranquillianche se fuori fiocchi o infuri il gelo.Se fosse vero che il vino fa male,me lo sapreste dì siccome ad’èche quanno manca il succo di Noèsi fa ricorso a quello artificiale?

Quanno te sento affranto da stanchezzatutto grondante polvere e sudore,se vuoi provar ristoro e dolce ebbrezzabevi il generosissimo liquoreche fa dimentica dolori e penee rifluire il sangue ne le vene…

1940

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I FANGHI

Se invece di soffrire a pagamentobeveste un bon brulè nel caldo letto,se potrebbe ottener lo stesso effettocon meno spesa e senza alcun tormentoinvece stì moderni aritrovatiti fan passar le pene dei dannati.

L’acqua acetosa poi non c’è l’egualelo dice chiaro un distico latinoche te guarisce da qualunque male,ma pur laggiù, c’è vendita di vino.Si vede che il romano, gran beonenon ha letto nemmeno l’iscrizione.

E l’arcinota acqua di Chiancianoche al fegato malato è una mansantama pur lassù qualsiasi toscanosolo del Chianti parla e se ne vantae chi per cura la beve al mattinoa pranzo e a cena trinca col bon vino.

E c’è l’acqua de ramice,97 lontanocon un sapore assai nauseantese tu la bevi calda (caso strano)te fa l’effetto più d’un bon purgante‘no scudo al fiasco! e allor che meravigliase preferisco d’est una bottiglia?

96. Sessanta scudi erano la somma che veniva versata dalla Curia annualmente pergli studenti poveri del Seminario.

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Vicino a noi c’è pure l’acqua forteche sgorga in umil grotta senza igienefa grande effetto all’intestino e al rene.Tanto ch’ho avuto la felice sortede vede una notissima Eminenzache la volle onorar di sua presenza

Io ce so stato più d’una mattinama dopo rinfrescato l’intestinoho fatto all’ombra una colazioncinaa base de presciutto, frutta e vino!

RIFLESSIONISe non stringe il pastoralela mia destra, poco male!!crudel destino,basta che stringa un bon bicchier di vino!Però il vero estro satirico di questo poeta erompe e si dipana nell’osser-

97. Ramice era una fonte d'acqua magnesiaca, un tempo notissima. Era situata nelfondo della Teverina. Forse oggi non esisterà più, perché abbandonata da decenni, tuttavia,

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vazione acuta dei suoi contemporanei. In questo campo si vede tutto il pia-cere che provava a ridere in modo sornione dei difetti dei paesani. In questatrascrizione i vari cognomi montefiasconesi, per motivi facili da intuire,sono stati alterati e resi irriconoscibili.

PROVERBI PAESANI

SIGNORMINI interessatimuoion tutti arruncinatiper un palmo o più di terrastanno in odio e si fan guerraDopo crepati se fanno accompagnàda prete e frati nell’aldilà.“Se te le fossi magnati e bevuti‘sti scoccia palle ‘un ce l’avresti avuti!”

Lingua lunga dei NEGRETTIson di tutti i più sospetti;tajan sempre i panni addossoa ciascuno a più non posso;Con sardonico sorriso,con la beffa impressa in viso,fanno un saluto…che merita in cambio ‘no starnuto!

Ai MAGGETTI il lungo naso

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la natura, non a casoha donato per ficcarloin ogni buco! Come il tarlo.Io son sicuroche già l’hanno ficcato in più d’un furo.

È risentito che chi sta FRA PIÈpiù l’ammazzi e più ce n’è!Fanno vita da meschini,p’ammassà sempre quatriniperò li fijnon c’è uno solo che jarissomijperò gli eredison tutti larghi che manco ci credi?

Degna pure di menzioneè la stirpe BUGGIARONEda un origgini sì umìleso’ arrivati al signorilecon l’astuzia e col lavorose so fatte un pozzo d’oro.Che lazzaronirubban pure la piega dei calzoni.

E tutti l’antri pien d’ipocrisiasempre untuosi in casa e per la viada vivi fanno sempre i colli tortie restano accusì fin doppo morti

Delizioso anche questo quadretto di contrasto familiare.

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LITIGI IN FAMIGLIA

(dialetto montefiasconese)

La moje stracca el marito ubbriaco“A ‘st’ora venghi a casa? scellarato”“Lesta scioana, ché vojo magnà”“Poro sborgnone, te l’hae guadagnato?”

“Poche parole e nun me fa arrabbià”“Ma chi t’ascorta, poro scapestrato,tutte le giorne te vai a ‘mbriacà,ed io so stracca morta senza fiato.”

“ Ma vene cà, ma vene cà scioananun te sfiatà che te fa male al pettova a empì la panatella, ‘ca puttana

staremo a la balocca drento al lettofamme un po’ de provenna da cristianoprima però facemo un bicchieretto.”

giugno 1944Un po’ oscuro il significato di questo “VICOLETTO CELEBRE”. Forse era

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una stradetta dove la sorte aveva radunato un’accolta di donne con la lin-gua come il fuoco. È abbastanza comune nei paesi dove lo sport più fre-quentato era la maldicenza. Sembra però che un matrimonio abbia risana-to un po’ l’ambiente.

ER VICOLETTO CELEBRE

Feroci tigri di foreste ircane;acuti artigli d’african leonelanianti morso di rabbioso canevipere d’infocato solleone.

Aspidi, salamandre maremmanenon reggono di certo al paragonecon le lingue sacrileghe, ruffianech’abitano in questo celebre rione!

Vicolo senza onor; bolgia infernale,l’invidia vi corrode il labbro, il pettotrovate gusto solo nel dir male.

Ma il vostro (o sposi) anello benedettoha già fugato il nero temporalesantificato il triste vicoletto.

2 ottobre 1944

In questi versi incombe l’ombra di Giuseppe Gioacchino Belli. C’è la

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al tempo di don Sante, era considerata miracolosa, tanto che c'era il proverbio: "Pure si cihae la carcia [calce] a le budella - Ramice te fa scioia in cacarella".

stessa felice forza d’osservazione lo stesso acume nell’immedesimarsi in undolore sincero, quanto semplice ed immediato, che richiama tutto il mondoabituale attorno all’evento angoscioso. Dalla preghiera si passa all’escla-mazione e alla superstizione con una naturalezza che rivela mondi neoliti-ci, ma vivi, molto vivi, rudimentali e profondi.

L’OPERAZIONE(dialetto falisco)

Incominciò col dì: me sento male!mecchì… sotto a la panza! e pe’ destinome toccò de portallo all’Ospitale!

Anime sante mie del purgantognoguardateme ‘sto povero nocentesinnò bestemmio peggio d’un dimogno.

Ah! Poro cocco mio com’è addientoè tutto naso e occhie e ‘st’assassinel’hanno sparato!98 e poe frugato drento.

Si magna un pelo strilla dal dolorede corpo; e nun se trova a dinuellequello che jà presento el Professore.

Ellà qui c’è stata si! quarche fatturade quella mignottaccia de cartelloma si l’incontro!!! pora nervatura!

12 marzo 1951E questo è il parossismo. La beffa, non della religione e dei suoi misteri,

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ma della prosopopea del predicatore, abituato ad esercitarsi nella facileoratoria rivolta al popolino ed incapace di immedesimarsi nelle passionicarnose della povera gente. Così cerca di calmare le angosce originate daisuoi spropositi oratori, con uno sproposito ancora più grosso.

ER PREDICATORE (TROPPA VERITÀ)

Giovedì Santo

Incominciò col dì: le battiturecome sull’aia; gl’insulti, er sudorede sangue; e numerò le lividure;l’ossa scoperte… l’atroce dolore!

La faccia aricoperta de brutturemorto inchiodato come un malfattoree dal suo labbro non uscì neppureun flebile lamento; oh! Dio che amore.

Sceso dar parco er Padre fra Giovannisente singhiozzà; strilli, un batticore!Pe’ falli smette da li pianti e affanni

pe’ mitigà quel gran dolor sincerodisse: e mò basta; è storia de tant’annie poi chissà? se manco sarà vero!

15 agosto 1944

Gli amici!

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Giuseppe Gianlorenzo è stato un uomo grande. Buono. Onesto.E padre.Padre d’un dialetto che, prima, solo raramente aveva avuto l’onore della

scrittura. Un poeta che la natura se la sentiva dentro. Un uomo da ricordare.Don Sante gli era amico e chissà quante arguzie si saranno sciolte dalla

tavola fra un bicchieretto e l’altro. Un incontro di acume e di allegria.

S. CANUTO - SONETTO

A Giuseppe Gianlorenzo

Appena ho visto verso me speditoil vostro messo, ho subito pensatoche da Tuscania fosse un novo invitoe mi vedevo quasi imbarazzato!

Ma letto il plico, l’ho tanto graditoperché così m’avete liberatodall’imbarazzo, e quindi ho preferitoil Vostro compleanno. Ho indovinato?

La Chiesa oggi festeggia San Canuto,ed io ch’ho il capo bianco de bucatoci tengo a festeggiarlo; e ben venuto.

Mentre a Tuscania stanno a mormorànotando con dolor la mia mancanzaqua da Voi Pe’, la stanno a riparà!

19 gennaio 1948Quando, nel 1951, fece il suo ingresso nella piccola diocesi di

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Il poeta-scrittoreGiuseppe Gianlorenzo

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Monte f i a s cone ,mons. Luigi Bocca-doro, l’accoglienzafu solenne e calda.C’era chi si ralle-grava, chi spergiu-rava che la Chiesalocale sarebbe di-ventata un’altra.Chi pregava e chilodava il Signore.Fra i tanti lui, donSante. Semprenell’ultimo postodel clero, osservò,fotografò ed emise il suo giudizio pieni di popolare saggezza.Cosa avvenne dopo? Sarà compito degli storici stricare i nodi dell’ac-

caduto. Forse don Sante, da dove è, bofonchierà un sorriso nel luogo dovetutte queste cose contano meno del fiore della botte.

L’INGRESSO SOLENNE A MONTEFIASCONE DER NOVELLOPASTORE (MONS. LUIGI BOCCADORO)Sonetto (dialettale romanesco)

Ha fatto a tutti gran bella impressionecon quella bocca sempre sorridente;pe’ quarant’anni e più, ‘sta pôra gentes’era straccata de vedé er musone.99

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98. Aperto con un taglio longitudinale sul davanti; per lo più riferito ad animali sven-

Ingresso a Montefiascone del vescovo Boccadoro(don Sante è in alto a sinistra)

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E lui ce s’è commosso veramentea quella vista de tante personeche applaudiva… ma senza finzionede l’antri ingressi è stato il più imponente.

E me voio augurà (in lieto canto)che doppo la dominica palmarumnun venga presto er venerdì Santo!

Tu me domanne: durerà? Speramo,ché quella torre all’uragan non crollae ‘l pesciolino… non abbocca all’amo!100

Dal Seminario 9 ottobre 1951

L’epitaffio se l’è fatto da solo. Non tanto tempo prima di morire. È la suafoto, ma non oso commentarlo per paura di sentire il rumore delle pernac-chie che ha minacciato e che credo di interpretare nei “versi diversi”.

A DEL ZAMPA SANTE

Poeta satirico faceto dialettalenon giunse alla metaper mancanza di tempo.

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100. Lo stemma del vescovo Boccadoro è composto da una torre e da un pesce.

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Di nessun disse male sul serioascoltato e sentito da tuttinon ebbe critici né nemici.

Provò l’ascesa del Parnasoma per non sbatterci il nasorimase alla falde.

La gloria non lo baciò in fronteperò la bona fama da mortolo guardò con sorriso!

Il primo a gustare il fruttodelle sue concezioni poetichefu lui stesso.

Gli amici che sapevano il suo desideriodi non voler essere lapidatogli posero sul corpo questa pietratanto leggerain modo che non la sentisse.

Pregate per luiaffinché dall’altro mondo(dove si vedono le cose al nudo)non vi mandi qualche verso

molto diversoda quelli che scrissequaggiù.

1950-1951 Anno Santo

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grafica e impaginazione: GIANCARLO BRECCOLAstampa: GRAFFIETTI STAMPATI WWW.GRAFFIETTI.IT

MONTEFIASCONE - MARZO 2004