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Marinella Lőrinczi IL SARDO: LA PIÙ 'LATINA' DELLE LINGUE ROMANZE. STORIA DI UN FALSO MINORE. Apparso negli Atti del XXème Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes (Zurigo 1992), Berna, Francke, 1993, II vol., III sezione (La fragmentation linguistique de la Romania), pp. 597 - 606. Versione riveduta (ma bibliograficamente quasi immutata per ragioni documentarie) e leggermente ampliata; le integrazioni più importanti sono tra doppie parentesi quadre [[ ... ]]. Altri lavori che meglio condividono questo tipo di approccio sono (precedentemente) M. L., Dell'esotico dietro l'angolo ovvero che cosa è il sardo per i linguisti , "La Ricerca Folklorica" 6 / 1982, pp. 115 - 125; (e successivamente) La storia della lingua sarda nelle Carte d'Arborea, in L. Marrocu, a cura di, Le carte d'Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Cagliari, AM&D Edizioni, 1997, pp. 407 - 438; La casa del signore. La lingua sarda nel De vulgari eloquentia, "Revista de Filología Románica", vol. 17 / 2000, pp. 61 - 76, volume monografico dedicato a Lenguas minoritarias en la Romania. El sardo. Estado de la cuestión, curato da M. L. L'insieme dialettale sardo, area marginale non soltanto della Romània ma anche della linguistica romanza - in quanto i conoscitori diretti o i frequentatori abituali della lingua sarda non sono troppo numerosi - viene generalmente caratterizzato come l'idioma neolatino più arcaico. Tale idea, divenuta un luogo comune dei discorsi specialistici o meno [ 1], non è tanto antica quanto lascino intendere le storie del pensiero linguistico. Situare le sue origini, come si è soliti fare, nel De Vulgari Eloquentia è del tutto fuorviante se si presta maggiore attenzione al fatto che l'opera dantesca ha potuto influire su questo specifico motivo della riflessione e della coscienza linguistica soltanto negli ultimi due secoli. Sappiamo infatti che durante i periodi di maggiore circolazione del trattato, nel Cinquecento e dagli inizi dell'Ottocento in poi, esso è prevalentemente "pezza d'appoggio e idolo polemico diretto" implicato nella questione della lingua italiana [ 2], dalla quale il sardo era escluso per una serie di ragioni politico-linguistiche abbastanza evidenti per chi conosce la storia politica dell'isola. Vi è pure da far notare un altro aspetto, a quanto pare non tanto ovvio. E cioè che conformemente alla concezione linguistica dantesca, un idioma sardo che imiti il latino (lingua "grammaticale", "artificiale" e perciò prevalentemente scritta), lingua seriore [ 3] ai volgari

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Marinella Lőrinczi

IL SARDO: LA PIÙ 'LATINA' DELLE LINGUE ROMANZE.

STORIA DI UN FALSO MINORE.

Apparso negli Atti del XXème Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes (Zurigo 1992), Berna, Francke, 1993, II vol., III sezione (La fragmentation linguistique de la Romania), pp. 597 - 606. Versione riveduta (ma bibliograficamente quasi immutata per ragioni documentarie) e leggermente ampliata; le integrazioni più importanti sono tra doppie parentesi quadre [[ ... ]]. Altri lavori che meglio condividono questo tipo di approccio sono (precedentemente) M. L., Dell'esotico dietro l'angolo ovvero che cosa è il sardo per i linguisti, "La Ricerca Folklorica" 6 / 1982, pp. 115 - 125; (e successivamente) La storia della lingua sarda nelle Carte d'Arborea, in L. Marrocu, a cura di, Le carte d'Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Cagliari, AM&D Edizioni, 1997, pp. 407 - 438; La casa del signore. La lingua sarda nel De vulgari eloquentia, "Revista de Filología Románica", vol. 17 / 2000, pp. 61 - 76, volume monografico dedicato a Lenguas minoritarias en la Romania. El sardo. Estado de la cuestión, curato da M. L. L'insieme dialettale sardo, area marginale non soltanto della Romània ma anche della linguistica romanza - in quanto i conoscitori diretti o i frequentatori abituali della lingua sarda non sono troppo numerosi - viene generalmente caratterizzato come l'idioma neolatino più arcaico. Tale idea, divenuta un luogo comune dei discorsi specialistici o meno [1], non è tanto antica quanto lascino intendere le storie del pensiero linguistico. Situare le sue origini, come si è soliti fare, nel De Vulgari Eloquentia è del tutto fuorviante se si presta maggiore attenzione al fatto che l'opera dantesca ha potuto influire su questo specifico motivo della riflessione e della coscienza linguistica soltanto negli ultimi due secoli. Sappiamo infatti che durante i periodi di maggiore circolazione del trattato, nel Cinquecento e dagli inizi dell'Ottocento in poi, esso è prevalentemente "pezza d'appoggio e idolo polemico diretto" implicato nella questione della lingua italiana [2], dalla quale il sardo era escluso per una serie di ragioni politico-linguistiche abbastanza evidenti per chi conosce la storia politica dell'isola. Vi è pure da far notare un altro aspetto, a quanto pare non tanto ovvio. E cioè che conformemente alla concezione linguistica dantesca, un idioma sardo che imiti il latino (lingua "grammaticale", "artificiale" e perciò prevalentemente scritta), lingua seriore [3] ai volgari

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(naturali e prevalentemente orali), non potrebbe essere concepito come idioma più antico di questi ultimi, dei volgari. Secondo questa logica, sebbene per noi capovolta, la lingua imitante (il sardo) dovrebbe essere per forza di cose successiva alla lingua imitanda (il latino), a sua volta più tardiva delle lingue volgari. Da una siffatta visione non può quindi scaturire una teoria dell'arcaicità del sardo ma della sua recenziorità. Ciò non impedisce però alla storia della linguistica di riprendere, a secoli di distanza, l'idea dantesca sulla fedeltà (seppur distorta) del sardo rispetto al latino, e di reinterpretarla alla luce del corretto rapporto di discendenza tra i due idiomi. Il noto brano della Vulg. Eloq. I, XI (i Sardi "non Latini" imiterebbero "gramaticam tanquam simie homines") diventa quindi un'altra autorevole pezza d'appoggio, questa volta a favore della teoria ad oltranza sulla maggiore arcaicità del sardo [4].

L'affermazione vigorosa e definitiva della teoria "sardo - lingua arcaica" possiamo situarla senza esitazioni nella Sardegna del tardo Settecento. Nel 1782, a Cagliari, lo studioso e poeta sardo Matteo Madao [5] pubblica un'opera molto nota nella linguistica sarda fino ad Ottocento inoltrato (meno nota nella linguistica romanza novecentesca), il Saggio d'un'opera, intitolata il ripulimento [6] della sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina [7]. Nella prefazione (p. 1) l'autore, in consonanza con la costante arcaizzante degli studi sardi, definisce la lingua sarda "venerabile per la sua antichità, pregevole per l'ottimo fondo de' suoi dialetti, ... eccellente per la sua analogia colla Greca e colla Latina". L'idea non è del tutto originale, ma non è comunque riconducibile alla visione che Dante aveva avuto del rapporto tra latino "artificiale" e volgari naturali da una parte, e tra latino e sardo dall'altra. Madao infatti non cita Dante, e non gli sarebbe nemmeno convenuto farlo in quanto era in polemica con tutti i dileggiatori del sardo (Dante compreso, il quale infatti verrà aspramente rimproverato nel 1853 da Vittorio Angius [8]), denigratori che avevano definito la lingua sarda rozza e barbara (vedi oltre, anche nota 11). Madao utilizza invece (p. 17) la versione italiana della famosa dissertazione XXXII delle Antiquitates italicæ Medii Ævi, sive Dissertationes... di L. A. Muratori. Nel corso della parte introduttiva e storica del trattato di Madao il concetto di "venerabilità del sardo" acquisisce una duplice accezione secondo criteri del tutto simili - direi anzi identici - a quelli che porteranno il Diez a individuare le sei lingue romanze in base alla loro originalità (Eigenthümlichkeit) grammaticale e alla loro importanza letteraria. Infatti anche per il Madao il sardo, oltre ad avere alla sua base lingue prelatine quali il fenicio, il greco ed altre ancora, conserverebbe "la più rara

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analogia [lessico-grammaticale soprattutto] colle più universali lingue del mondo" (p. 50), col greco, cioè, e col latino. In secondo luogo il sardo sarebbe "la prima, o una delle più antiche lingue volgari" a comparire per iscritto (p. 17). Nella stessa pagina, a mo' di conferma o di conforto autorevole, si fa ricorso, come si diceva, ad un passo tratto dall'opera del Muratori, autore citato d'altronde dal Madao con grande frequenza.

L'utilizzazione del breve brano muratoriano, breve per come viene citato, è alquanto singolare all'interno di quest'opera del Madao, come ho potuto verificare. Oltre a confrontare, come era d'obbligo, la citazione col proprio testo di provenienza [9], ho eseguito, limitandomi agli aspetti da me trattati, la collazione del testo stampato del Madao con il suo manoscritto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari. Nel manoscritto la citazione tolta dal Muratori compare due volte, la prima volta come nell'opera stampata del Madao e nel medesimo contesto, la seconda volta più in là (p. 26), con la conservazione di alcune parole significative in più. Sia questa seconda citazione che l'intero suo contesto non figurano più nella versione stampata, e dunque ci interessano meno quanto alle conseguenze.

Il testo muratoriano da cui il Madao cita è molto lungo, per cui l'operazione di riduzione cui è stato sottoposto è giustificata. Ciò che ha però un significato diverso dalla semplice economia o compattazione, è l'amputazione di alcune precisazioni, alle volte brevissime, per conservare quanto segue (tra parentesi quadre e in neretto le omissioni del Madao che più ci interessano):

«Specialmente servì l'esempio de' [Provenzali, Corsi, e] Sardi a indurre gl'Italiani a servirsi anche in iscritto della loro propria lingua ... Rammentai l'esempio de' Sardi [e Corsi], che si servirono della loro lingua in iscrivendo, e pare che prima degl'Italiani ... [Lo Strumento esistente nell'Archivio del suddetto Monistero (= di Montecassino), e da me dato alla luce, è scritto nella lingua volgare di Sardegna, la quale era un misto d'italiana e spagnuola. E ciò mi rimette in mente l'osservazione fatta dal Sig. Antonio Maria del Chiaro fiorentino nella Storia della Valacchia, da lui pubblicata nell'anno 1718. Ritiene essa (= la lingua dei Valacchi) molti vocaboli latini, colà portati dai coloni antichi Romani, anzi contornati alla foggia della lingua d'Italia,... Ciò, che fecero i Valacchi corrompendo alla lor maniera la lingua latina si osserva fatto anche dai Sardi]... Non

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credo che si possa dubitare, che i [Corsi e] Sardi prima che gl'Italiani cominciassero a valersi della loro lingua volgare negli atti pubblici ... Però sull'esempio suddetto anche la lingua volgare Italiana, che fino al secolo XIII. era stata solamente in bocca degli uomini, cominciò in quell'istesso secolo a farsi vedere ne' versi de' poeti, nelle lettere, ne' libri, e in altre memorie.»

Questo confronto rende abbastanza chiaro il significato delle omissioni, dei tagli operati dal Madao. Muratori si riferisce, come si è visto, alla comparsa precoce di carte, di documenti in volgare sardo, ma - qui interviene il taglio - non soltanto in sardo, bensì pure in corso e in provenzale. Dunque in ambito romanzo il primato del sardo è, per il Muratori, a livello dell'impiego scritto non sporadico, e già questo non è cosa da poco, sebbene tale gloria vada condivisa con il provenzale e il corso. Si potrebbe riflettere in altra sede sul fatto che il corso sia considerato dal Muratori un idioma a se stante. Ma a prescindere da questo, sono altamente esemplari l'imparzialità, riconosciuta del resto anche dal Madao (p. 17), e l'assenza di "pregiudizi centralisti e filotoscani" [10] che traspaiono dalle parole dell'erudito continentale.

Restringendo le constatazioni e le lodi muratoriane alla sola lingua sarda, il Madao toglie al discorso la possibilità di una serie di comparazioni, insieme relativizzanti e apportatrici di solidarietà. Vengono a mancare le occasioni sia per paragonare il sardo alle altre lingue romanze precocemente scritte, sia per collocare l'idioma isolano, più in generale, nella famiglia romanza, in base a similitudini storiche e tipologiche e non soltanto genetiche. E dobbiamo aggiungere che alcune altre, seppur alle volte piccole discrepanze tra manoscritto e testo a stampa confermano l'impressione di un disegno apologetico, all'unico vantaggio del sardo, presente nell'opera pubblicata; come quando, ad esempio, nella versione stampata non compare più l'idea che l'origine antica e nobile del sardo possa essere "pari di qualsivogli'altra dell'Europa" (ms., p. 2r).

In primo luogo, com'è già ovvio, il sardo diventa da solo, e non più in compagnia del provenzale e del corso, lingua dalle attestazioni più antiche di quelle dell'italiano. Esso raggiungerebbe inoltre, sempre in solitudine, la dignità di modello, di esempio, per l'italiano. Rivincita questa, se così fosse veramente, di non poco conto su coloro che avrebbero "riputata [la nazionale Lingua Sarda] barbara e rozza" senza approfondirne la storia [11]. In più, un

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simile titolo di gloria intellettuale acquisirebbe la stessa forza emancipatrice e parificante di quei fatti storici, descritti dal Madao con un chiasmo circospetto, secondo cui le varie "stranie nazioni" [che hanno dominato la Sardegna] "per più secoli o le posero in capo la regia corona [12], o ne cinser per essa l'augusta fronte [13]" (ms., p.10v). Quest'ultima osservazione del Madao, che velatamente indicava l'origine isolana del massimo titolo della casa sabauda e che emana sentore di rivalità o di insubordinazione, non figura più nella versione stampata.

In secondo luogo, scompare dalla citazione la definizione di lingua mista italo-spagnola che il Muratori dà del sardo. La cancellazione è coerente col fatto che nell'intero trattato del Madao domina la volontà dichiarata (ad es. pp. 10, 14, 15; p. 26r del ms.) di sottrarre il sardo al concetto già isidoriano di corruzione linguistica derivante dal contatto con altri popoli ed altre lingue (barbare soprattutto), applicabile invece pienamente alle fasi più antiche dell'italiano. In effetti - argomenta diffusamente il Madao - l'ultimo contatto 'costruttivo', e insieme costitutivo per la sua importanza, sarebbe col latino. Successivamente l'impronta greco-latina si sarebbe mantenuta inalterata, quasi statica, in virtù dell'insularità della Sardegna (pp. 15 - 16), e a maggior ragione nei "paesi centrali" meno esposti alla "infezione" derivante dai contatti. E sopra ogni cosa nel Logudoro, il cui idioma sarebbe "più scevero [= esente] di quella corruzione ... fatta [dal]le tante nazioni a cagion del traffico ... a Cagliari" (p. 33). [[ La parafrasi di questo brano e le stesse convinzioni le ritroveremo presso Giovannni Spano (vedi nota 29). Allo stesso modo del Madao, lo Spano (Ortografia... 1840, I, p. XI) rifiuterà l'identificazione del sardo come lingua mista: "altri lo tacciarono [il sardo] un miscuglio di lingue di quelle nazioni che dominarono questa Terra [= la Sardegna]. ]]

Leggendo le precedenti frasi citate dall'opera di Madao e ripensando alla tesi cornice in cui si inseriscono le sue riflessioni, ci si può stupire quanto poco siano cambiate negli ultimi due secoli le impostazioni storico-teoriche della linguistica sarda. Nulla di più gratificante, in qualche caso, o nulla di più semplice e di più comodo che ribadire il presupposto secondo cui sarebbe caratteristica maggiore e generalizzata del sardo la sua "notevole arcaicità" [14]. Strettamente legata all'insularità del territorio che implicherebbe il suo isolamento [15] quasi fosse una legge della natura, l'arcaicità linguistica sarebbe potenziata per giunta, quando tale è il caso, dall'ostilità orografica (di sapore classico tuttavia, cfr. gli Insani Montes latini

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per l'attuale Gennargentu). Come per il Madao, è da questi concetti che continuano a scaturire i contrasti con il resto del mondo linguistico romanzo, accanto ai quali le innovazioni fonetiche, sebbene copiose e assai manifeste, acquistano a stento la loro importanza e rimangono di second'ordine [16].

Ma già il Madao dimostrava di essere ben consapevole del progresso del sardo in campo fonetico. Non si potrebbe in effetti sostenere, a suo avviso, che molti vocaboli non siano oramai "coniati in altro modo, e cangino qualche lettera, o sillaba, o desinenza" (pp. 5 - 6). Pertanto - sottolinea il Madao (p. 5) - la "somiglianza delle Sarde parole colle Greche, e le Latine" va intesa soltanto come una serie di corrispondenze più o meno strette che però ovviamente non possono trasformarsi nella completa "identità di linguaggi". Tuttavia le molte e importanti trasformazioni fonetiche subìte dal sardo nel suo complesso - persino "corrosive" le avrebbe definite B. Terracini molto più tardi con una metafora alquanto ambigua - creano al Madao qualche problema sotto il profilo della supposta perfetta analogia tra lingue classiche e sardo. E' nuovamente significativo un passo dal tono vivace, presente nel ms. (p. 17r) ma cancellato in fase di stampa. Il

«volgo ... corrompe il linguaggio, e ne storpia i vocaboli, e ne guasta la pronunzia, e ne rende sì barbaro tutto il dialetto, che sembra un altro da quello, ch'abbiamo in eredità da' nostri antenati. Esso mutila le voci, e vi aggiunge delle sillabe, e ne varia le terminazioni, e accenta diversamente i vocaboli, e commuta spesso le lettere, e le raddoppia, e le traspone, e le fa sonare di modo che appena sembra la dizione figlia della Sarda lingua. ... Fa breve la penultima sillaba lunga ...; fa lunga la penultima breve ...»

L'idea ricompare qualche pagina più avanti nel ms., e compare nella variante stampata (con modifiche) a p. 59. Questa seconda formulazione giustifica l'eliminazione del passo sopra citato, visto che l'iterazione avrebbe involontariamente generato l'enfatizzazione retorica del fenomeno che invece andava minimizzato. Il tono questa volta è più pacato e più tecnico. Parlando del nome Madao sostiene, in maniera incoerente in verità, che

«I nomi Sardi sono perfettamente Latini, e solamente può distinguerli qualche piccola alterazione, fatta in alcuni di essi o per grammaticale figura, come per sincope, apocope, protesi, epentesi, antitesi, aferesi,

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paragoge, o metatesi; o per corruzione del volgo, uso mai sempre or d'accorciare, or d'aumentar, e dilungare, e in somma storpiare i vocaboli del più colto dialetto.» (p. 59)

Tornando ora alla concezione muratoriana del sardo antico (quello dei primi documenti) quale idioma misto italiano-spagnolo, nell'ottica adottata dal Madao essa sarebbe una tesi antistorica. Non perché l'influsso spagnolo sul sardo si fosse esercitato realmente in un'epoca successiva alla produzione di quei documenti, la cui ispanicità sarebbe quindi puro anacronismo, secondo quanto osserva anche Marazzini riferendosi al brano muratoriano (op. cit., p. 83, n. 24). Ma perché per il Madao la formazione del sardo può ritenersi compiuta, geneticamente e tipologicamente parlando, coll'apporto latino; per cui sarebbe esclusa qualsiasi ulteriore possibilità di eventuale ricettività o apertura del sardo verso le lingue da noi chiamate di adstrato. Tali altre lingue, di cui contano per il Madao soltanto lo spagnolo e l'italiano moderno, sarebbero state dai Sardi soltanto apprese agevolmente quali 'seconde' lingue. A questo punto del discorso si inserisce un'altra idea, forse già luogo comune nel Settecento: la facilità o la disinvoltura che i Sardi dimostrerebbero nell'apprendere le lingue straniere (cfr. anche la critica di Dante, il quale parla di "scimmiottamento" del latino) sarebbe la conseguenza scontata di un allenamento plurisecolare ed ininterrotto, avviato molto prima dell'arrivo dei Romani, culminato coll'assimilazione del latino, proseguito a causa dell'introduzione dello spagnolo e infine dell'italiano.

Ma la tesi del sardo quale lingua mista non è esclusiva del Muratori tra le fonti illustri confutate dal Madao. Viene citato altresì, nel ms. (p. 25v) ma non più nel libro, un passo tolto dalla prefazione della Storia naturale della Sardegna di un altro continentale, il famoso naturalista Francesco Cetti [17]. [[ Cetti non era stato notato prima d'ora nelle vesti del linguista, probabilmente perché il manoscritto di Madao è poco frequentato. ]] Cetti afferma:

«Nella lingua propiamente Sarda il fondo principale è Italiano. Vi si mischia il Latino nelle desinenze, e nelle voci: v'è pure una forte dose di Castigliano, un sentor di Greco, un micolìn [= una briciola] di Franzese, altrettanto di Tedesco, e finalmente voci non riferibili ad altro linguaggio, che io sappia. Voci prettamente latine sono Deus, tempus, est, homine etc. Latine sono le terminazioni in at, et, it, us nella coniugazione de' verbi; dicono meritat, devet, consistit, dimandamus ...

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Parole Castigliane sono preguntare ... Sono Castigliane le desinenze in os, peccados, santos ...»

Nonostante la formulazione per noi dilettantesca, il Cetti sostiene, riguardo al sardo moderno, la stessa idea che il Muratori esprime riguardo alla lingua dei testi sardi antichi. Cetti percepisce infatti il sardo come un misto di italiano-castigliano-latino. Questo abbinamento di termini ci offre immediatamente anche la chiave di lettura dell'espressione muratoriana un misto di [lingua] italiana e spagnuola. Non si tratterebbe, a mio avviso, di un precorrimento antistorico, assurdo da parte del Muratori e perciò inspiegabile, di quei contatti tra sardo e spagnolo che si sono invece verificati molto più tardi rispetto all'emanazione dei documenti medievali in questione, ma di una indicazione tipologica relativa alla struttura morfo-fonetica del sardo. "Sono Castigliane le desinenze in os" esplicita infatti il Cetti. Ciò che colpisce allo stesso modo i due osservatori 'stranieri' è in realtà l'uscita consonantica di numerosissime parole, in -s nel caso dei sostantivi al plurale, come avviene appunto anche in spagnolo.

Se anche il Madao avesse interpretato in questo modo i due brani del Muratori e del Cetti, avrebbe subito trovato degli alleati per le sue tesi successive, anzi che degli antagonisti da combattere o, meglio, da censurare. Trattando dell'analogia "tra'l Sardo, e il latino idioma quanto all'Alfabeto" cioè ai suoni, Madao fa infatti sùbito l'esempio del formante s del plurale nominale: amores ecc. (p. 52 bis = 53). La classificazione del sardo in un gruppo distinto da quello dell'italiano avviene, insomma, per tutti e tre gli autori menzionati, siano essi continentali o meno, sulla base del plurale nominale sigmatico. Con la differenza che il Muratori e il Cetti inseriscono il sardo nel medesimo gruppo dello spagnolo, pur rimarcando caratteristiche (lessicali soprattutto) che lo avvicinano all'italiano. Invece il Madao non tenta nessun ravvicinamento tipologico del genere, a meno che non si tratti di paragoni con la lingua "matrice", cioè col latino.

All'interno di questa logica possiamo dunque assumere il suono-desinenza [s], nonché la lettera corrispondente, quale emblema del sardo (che potremmo perciò chiamare «emblema sigma»). Precisiamolo meglio in termini anche storiografici: quale simbolo della peculiarità del sardo che invece a partire dall'Ottocento, in un diverso contesto di conoscenze e di metodi d'indagine, nonché nel settore della sola fonetica, sarà rappresentata dal suono [k] (da

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chiamare pertanto «emblema kappa»). Da quel suono, evidentemente, che nei dialetti centrali del sardo si è conservato, come tutti sappiamo, anche davanti a vocali palatali, e che oggigiorno viene ritenuto dai più uno dei tratti di maggiore arcaicità in assoluto [18].

L'esistenza dell'occlusiva velare sorda [k] seguita dalle vocali palatali [e, i] non è ovviamente ignorata dal Madao. La sua gerarchia dei valori è però assai differente dalla nostra, in quanto è pure diversa la valutazione di questo suono in termini articolatori e storici. Egli definisce il suono [k] del sardo come aspirato (p. 55), forse perché in alcuni dialetti centrali a tale suono corrisponde alle volte un colpo di glottide (in posizione intervocalica) o una aspirazione (una costrittiva laringale) più o meno accentuati, o anche una occlusiva velare effettivamente aspirata [19]. Ma egli sarà stato senz'altro influenzato anche dalla resa grafica italianizzante <ch>, la quale lo avrà indotto, col conforto delle testimonianze classiche, a stabilire delle corrispondenze col [k] latino aspirato dei grecismi o della nota pronuncia ellenizzante. Perciò in analogia coll'aspirazione secondaria e allogena di [k] in latino, egli ritiene come poco genuina, non originaria, anche la pronuncia di [k] sardo, principalmente davanti alle vocali [e, i]: schire "sapere", paschere "pascere", chentu' "cento" ecc.

Più delle sorti di [k] lo preoccupa, invece, la perdita di [s, m] latini finali del nominativo singolare maschile, neutro e femminile, alla quale si sottraggono soltanto corpus, pecus, tempus, pet(t)us (da lui scritto pectus) [[ cfr. le successive grafie etimologizzanti dello Spano, criticate da Wagner: "ipse hat factu custu", Ortografia ..., 1840, I, pp. 78 - 79, che saranno imitate dai falsari delle carte d'Arborea ]] e qualche altra parola oggi considerata (semi)dotta (Deus ecc.): infatti manu e simili (v. qui sopra chentu') sono scritti dal Madao manu', con un apostrofo finale, al fine di supplire all'assenza della consonante finale (scomparsa, caduta) e così conferire 'latinità' anche alla veste grafico-visiva del sardo. Madao ritiene innanzi tutto che il "troncamento" di tali consonanti provenga in sardo non dalla pronuncia volgare del latino, improntata alla brevità, ma da quella colta, seppur non del tutto classica (infatti noi lo consideriamo arcaico e/o popolare), in cui ci si sforzava di "scacciare dalla fine de' vocaboli, l'S come fischiante, e l'M come mugghiante" (p. 56). Le fonti classiche sono, naturalmente, le ben note osservazioni di Cicerone (cfr. Orator 161: "Sic enim loquebamur: qui est omnibu' princeps, non omnibus princeps et: vita illa dignu' locoque, non dignus") e di Quintiliano (Institutio

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oratoria IX, IV, 38) [20]. La lingua sarda si adeguerebbe dunque, come se fosse l'unica lingua romanza a farlo, alle tendenze già insite nella lingua latina, anche in questo "[serbando] una perfetta analogia" con quest'ultima (p. 57).

Sarà abbastanza evidente, a questo punto, che il valore dei suoni viene considerato dal Madao prevalentemente nella loro funzione morfologica. Sebbene non la enunci apertamente, l'idea soggiacente è chiara. Non solo. Essa equivale a ciò che generazioni di comparatisti hanno sostenuto, dal tedesco Ludolf in poi, quando individuavano nella morfologia l'ossatura di una lingua ovvero la sua parte più stabile, nonché, per tale ragione, il criterio comparativo più sicuro e più valido. Dipende pertanto dall'importanza accordata alla morfologia del sardo e delle lingue in generale, se il Madao tratta del suono [s] finale in due riprese, la prima volta in positivo, evidenziandone il carattere latino ereditario e il ruolo di desinenza del plurale nominale, la seconda volta in negativo, adducendo però la stessa causa genetica per la sua perdita quasi totale in quanto segno del singolare (soprattutto maschile). In questo modo le sue vedute raggiungono, sebbene per vie e con finalità diverse e senza che se ne renda conto, quelle del Muratori e del Cetti sopra riportate.

Riassumiamo quello che ho evidenziato quale punto di una certa importanza nelle riflessioni dei tre autori (Muratori, Cetti, Madao). Uno dei tratti più caratterizzanti del sardo è, per tutti e tre, la grande frequenza di [s] finale quale desinenza nominale. Se per il Muratori e il Cetti tale suono è utile soprattutto ai fini di una classificazione che potremmo chiamare tipologica, per il Madao esso è una delle testimonianze preziose delle origini. In quanto poi tale desinenza appartiene al nome, di riflesso anche il gruppo nominale acquisisce rilievo nella caratterizzazione del sardo.

Questi due criteri concatenati sono facilmente ravvisabili, a mio avviso, anche nell'esemplificazione (domus nova, dominus meus) addotta da Dante nella nota maniera canzonatoria. Se è vero che Dante usa esempi lessicali abbastanza elementari, entro sintagmi che "si sclerotizzano, a ragion veduta [in quanto i Sardi riprodurrebbero la "grammatica" in maniera imperfetta e meccanica], in formule da sillabario" [21], è meno convincente l'idea che il poeta abbia scelto la via di questo tipo di ipercaratterizzazione grammaticale soltanto per alludere ad una maldestra o scolastica distorsione operata dai Sardi ai danni della nobile grammatica, o anche per imitare la nota pronuncia energica delle consonanti [22]. Guardando con gli occhi maliziosi dell'uomo medievale - com'è noto

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Dante non era ben disposto verso i Sardi - si potrebbe forse intravedere nella presupposta velleità emulativa dei Sardi una sorta di impudenza, non dissimile da quella delle loro donne (Purg. XXIII, 94 - 95), sorretta da una certa qual superbia. In effetti, a ben guardare, l'ipercaratterizzazione grammaticale, che in Dante è lo scimmiottamento del presunto scimmiottamento, mette a fuoco tre ordini di fenomeni attinenti alla forma in senso lato: uno fonetico, uno morfo-fonetico e uno meso-lessicale. La sovrabbondanza di [s] finale in sardo contravverrebbe a quel principio di eleganza fonetica dei volgari colti, evidenziato da Dante, che vuole bandita l'eccessiva asperitas (cfr. Vulg. Eloq. II, 7). Per una persona litterata, alfabetizzata cioè in latino, tale fenomeno poteva infatti risultare doppiamente sgradevole, considerando che la percettibilità di una 'aspra' desinenza nominale quale (u)s era sicuramente acuita dal fatto che la prima pars orationis ad essere appresa fosse proprio il sostantivo. E per terminare, poteva essere imputata a un volgare provinciale una inverecondia maggiore dello scopiazzare la "grammatica" in tutto e per tutto, vale a dire anche nelle sembianze di un idioma risibilmente litterale [23] che secoli più tardi qualcuno [24] avrebbe persino definito "lingua antica più barbara che sarda"?

Gli stessi aspetti puramente linguistici del sardo sono stati dunque sottoposti, a distanza di numerosi secoli, ad interpretazioni molteplici e non soltanto divergenti, ma decisamente opposte sul piano delle valutazioni. Ed è proprio per questo che già nel titolo del suo saggio il Madao si dimostra consapevole del fatto che da sola l'origine latina non avrebbe garantito la 'rispettabilità' dell'idioma che si accingeva a difendere ed illustrare e abbina perciò al latino il greco, ai fini comparativi. Più avanti sopprime il paragone fatto dal Muratori col valacco (cioè col romeno), idioma lontano e a lui certamente indifferente; tanto più che siccome del valacco non veniva vantato nessun merito letterario, l'accostamento non poteva arrecare nessun prestigio.

Per concludere le vicende del brano muratoriano nella sua forma ridotta dal Madao, basti dire che esso fu noto agli intellettuali sardi del secolo scorso [= Ottocento] e continuò a fungere da sostegno alla tesi oramai ampiamente condivisa anche all'estero secondo cui il sardo "è uno dei pochi [idiomi] che ricordano con minor travisamento la lingua madre di Roma" [25]. Le prove esibite in quest'ultima occasione erano due: dall'interno le poesie bifronti, sardo-latine, del Madao, mentre dall'esterno "il celebre Muratori nella sua Dissert. XXXII ... parlando del primato del dialetto sardo sugli altri d'Italia

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ebbe in esso a constatare le sembianze native del latino idioma". Veniva però passato sotto silenzio a quale primato lo studioso modenese avesse fatto riferimento. E questo parrà incomprensibile soltanto a chi non ricordi che dieci anni addietro rispetto al momento dell'ultima citazione, nel 1870 una "erudita camorra teutonica", comprendente tra gli altri il Mommsen, aveva decretate false le fantasiose Carte di Arborea relative a una Sardegna giudicale nostalgicamente immaginaria [26]. Le prove filologiche diventavano dunque non soltanto controproducenti, ma oramai anche superflue dinanzi ad una coscienza linguistica consolidata.

[[ Cronologicamente è all'incirca a metà strada tra il Saggio del Madao (1782) e quest'ultima operetta del medico Meloni-Satta (1881) la già citata Ortografia sarda nazionale ossia Gramatica della lingua logudorese paragonata all'italiana [27] che Giovanni Spano pubblica nel 1840 (Cagliari, Reale Stamperia, 2 voll.). Nelle pagine introduttive del primo volume lo Spano rilancia decisamente l'idea del Madao (da questi ricavata - com'è stato dimostrato - dal testo muratoriano epurato) secondo cui il sardo, e solo il sardo, avrebbe sviluppato un impiego scritto anteriormente all'italiano. Attraverso la metafora di tipo biologico (individuo adulto vs. infante, cioè sardo medievale vs. italiano medievale) che lo Spano applica a questa manifestazione pionieristica del sardo, si rafforza nei lettori (e i lettori dello Spano erano e sono stati anche successivamente numerosi e attenti) l'idea del primato del sardo; tale idea, cinque lustri più tardi rispetto alla Ortografia dello Spano, sarà abbondantemente illustrata e teorizzata dalle e nelle ultime carte false d'Arborea (1865, pubblicate nell'Appendice all'edizione del Martini [28]). Spano riformula la teoria del Madao senza richiamarla esplicitamente e non rimanda più a Muratori (il rimando a Muratori operato da Meloni-Satta sarà del tutto approssimativo). La precoce maturazione del sardo (e quindi il raggiungimento di uno stadio stabile proprio di un'età matura e adulta) diventa implicitamente, presso Spano, la ragione della sua maggiore e, per così dire, maestosamente patriarcale prossimità al latino:

[...] il Sardo Dialetto, e più per le sue tristi vicende, e per esser comparso adulto quando tutti gli altri dell'Italia vagivano appena, frai quali tutti oggidì esso è l'unico che ritragga dell'antica ed insigne Sua Madre che fu la Lingua latina. (Spano, Ortografia, I, p. VII; enfasi mia) [29] ]]

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NOTE e BIBLIOGRAFIA

1. M. Lőrinczi Angioni, Dell'esotico dietro l'angolo ovvero che cosa è il sardo per i linguisti, "La Ricerca Folklorica" 6 / 1982, pp. 115 - 125; W. Mańczak, Le sarde est-il la langue romane la plus archaïque?, Actes du XVIIème Congr. Ling. Phil. Rom. (Aix-en-Provence 1983), 1985, II, pp. 111 - 130, rec. mia in "Rivista italiana di dialettologia" 10 / 1987, pp. 475 - 476. Per una critica più recente di tale luogo comune persistente v. W. Mańczak, Le sarde, langue archaïque ou innovatrice?, "Studi di linguistica teorica ed applicata" XIX / 1990, 2, pp. 407 - 417.

2. P. V. Mengaldo, in Enciclopedia dantesca, Roma, Treccani, II/1970, v. De Vulgari Eloquentia.

3. Se non altro come Aufbausprache; cfr. A. Asor Rosa, Letteratura italiana V / 1986, Einaudi, 2. 3. 4. Cfr. ad es. Nicolaus Delius, Der Sardinische Dialekt des dreizehnten Jahrhunderts, Bonn, Adolph Marcus, 1868, p. 2 :

[[ Nach Dante's Urtheil sind also die Sardinier alles Anspruchs, zur Bildung einer italienischen Cultursprache das Ihrige beitragen zu dürfen, baar und ledig, weil sie gar keinen eigenen Dialekt zu besitzen scheinen, sondern nur die lateinische Schriftsprache nachahmen, wie die Affen den Menschen. [...] Zu dem Zwecke [...] eine selbst höheren Bestrebungen entsprechende und genügende Cultursprache herauszubilden, konnte freilich der Sardinische Dialekt nicht mitwirken, eben weil er, nach Dante's Auffassung, eigentlich gar kein Dialekt ist, sondern, enger als die Idiome des italienischen Festlandes sich an das Latein anschliessend, aller dialektischen Selbständigkeit und Eigenartigkeit entbehrt. ("Secondo il giudizio di Dante i Sardi non possono minimamente pretendere di contribuire alla formazione di una lingua di cultura italiana, in quanto paiono privi di un loro proprio dialetto e capaci soltanto di imitare la lingua latina scritta come scimmie che imitano gli umani ... Alla

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formazione di una lingua di cultura appropriata e sufficiente in sé ad esprimere le aspirazioni più elevate, il dialetto sardo certamente non potrebbe prendere parte, proprio perché, nell'opinione di Dante, esso in realtà non è un dialetto ma, siccome più strettamente vicino al latino degli idiomi italiani peninsulari, può fare a meno dell'autonomia e dell'individualità dialettali.") ]]

Questa interpretazione del passo dantesco, rigettata da Mengaldo come "vecchia" (Enciclopedia dantesca cit., V / 1976, v. Sardegna. Lingua, p. 35 / II), deve invece essere intesa entro le coordinate di una quasi perfetta identità latino-sarda. Il lavoro del Delius ha 16 pagine.

5. Sul Madao in generale si veda A. Sanna, Introduzione agli studi di linguistica sarda, Cagliari 1957, pp. 25 - 26; A. M. Cirese, Notizie etnografiche sulla Sardegna del '700 nell'opera di Matteo Madao, "Rivista di etnografia" XIII / 1959, pp. 3 - 36; A. Dettori, Sardo: Grammaticografia e lessicografia, in Lex. d. Rom. Ling., Tubinga, Niemeyer, IV / 1988, pp. 914 - 915.

6. Ripulimento va inteso piuttosto come "perfezionamento, restituzione di brillantezza" e non come "rimozione di sudiciume o di impurità, purificazione"; "dirozzare" è infatti il verbo sinonimico usato dall'autore.

7. L'estensione dell'opera è di 69 pp., seguite da altre 8 pp. contenenti un brevissimo scampolo di voci sarde "tolte dal Greco, o da esso dirivate" e di analoghe voci latine, nonché una "Raccolta di varie poesie sarde, lavorate con termini sardi, ed insieme pretti latini". Colgo l'occasione per ringraziare il personale della Biblioteca Universitaria di Cagliari della collaborazione premurosa. 8. Il dialetto dei Sardi «si approssima alla lingua latina più di qualunque altro dialetto italico, checché paja a coloro che non lo conoscono, ma osano giudicare. [Si prosegue nella nota a pie' di pagina:] Tra questi vada il Dante [e si cita l'intero passo incriminato]. Il Tola disse memorabili queste parole nella sua prefazione all’edizione [del 1850] degli Statuti [medievali] di Sassari. Nol sono certamente per senno; anzi per onore di chi le ha scritte [Dante, cioè], che scrisse altissimi sensi, meriterebbero obliterate. Il preclaro scrittore [= Tola] s'ingegna a interpretare l'intenzione [di Dante] in un modo rispettoso, quasi temesse l’animadversione del mondo, se fosse stato più schietto [nel parlare];

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ma est modus in rebus! Nessuno di più di me ammira quell’immenso ingegno [= Dante]; ma qui mi fa ridere. Egli sonnecchia e peggio.» V. Angius, Sardegna, in Dizionario geografico storico statistico e commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, a cura di G. Casalis, Torino, vol. XVIII ter, 1853, p. 138.

9. L. A. Muratori, Dell'origine della lingua italiana. Dissertazione XXXII sopra le antichità italiane, a c. di C. Marazzini, Alessandria, Ed. dell'Orso, 1988, pp. 81 - 90.

10. Parole di Marazzini, ed. cit., p. 19.

11. P. 1r del ms.; la stessa affermazione sull'esistenza di 'dileggiatori' del sardo a pp. 4, 5, 35 del libro. L'autore sotto accusa è specialmente Jean Mabillon (1632-1707), fondatore della diplomatica, che verrà garbatamente rimproverato anche da G. Spano nella sua Ortografia sarda nazionale ossia gramatica [sic!] della lingua logudorese paragonata all'italiana, Cagliari 1840, I, p. XI ("Nessuno infatti lo ravviserà col Mabillon barbaro e intrattabile [l'idioma sardo] [...]).

[[ Ecco però il passo criticato, citato apud Muratori, Dissertazione XXXII, p. 533: «Mabillonius adfert in Itiner.Ital. pag. 182 ex Archivo Camaldulensium Fontis boni [=archivio del Camaldolesi di Fontebuona]. Exstat in multis, ait ille [=Mabillon], una Charta barbaro sermone (hoc est non absimili [=del tutto uguale] a nuper [=da poco] evulgatis) de donatione Ecclesiae Sancti Nicolai in Regno Sardiniae [...] Anno MCXIII.» Le parole di Muratori si riferiscono a J. Mabillon, Museum Italicum sev Collectio veterum scriptorum ex bibliothecis italicis, Parigi, 1687, 2 voll.; più precisamente al I vol., Iter italicum litterarium, annis 1685 & 1686, p. 182. Madao, in Ripulimento, p. 17, ricorda infatti i "tanti Diplomi di donazione" di svariati giudici, emanati "sin da' secoli XI, X, e IX [...] secondoché il Mabillonio li ricavò dall'Archivio Camaldolese di Fonte buono" (vedi sopra) "e li reca il Gazano nella sua Storia", cioè Michele Antonio Gazano, in Storia della Sardegna,Cagliari 1777. ]]

12. La Sardegna, insieme con la Corsica, è infatti Regnum dal 1297 in poi, sia sotto gli Aragonesi che sotto gli Spagnoli.

13. Come nel caso dei Savoia, ai quali succedette il titolo di Re di Sardegna.

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14. E. Blasco Ferrer, La lingua sarda, in Sardegna, Milano, Touring Club Italiano, 1990, p.197 / I; il concetto del "ben noto conservativismo" del sardo è stato ricordato ultimamente anche da C. Lavinio, questa volta in relazione ai significati antiquati (ovviamente tali) degli italianismi premoderni di questa lingua: "La grotta della vipera" XVII, n. 54, in cui figurano gli Atti della giornata di studio dedicata al tema "Raccontare della Sardegna", Cagliari, 14 giugno 1991, p. 35.

15. Cfr. Enciclopedia limbilor romanice, Bucarest 1989, p. 282 / II.

16. Si possono ricordare a questo proposito le parole di M. Contini: "Des innovations nombreuses ont affecté à des degrés différents toutes les variétés de l'île", comprese quelle centro-settentrionali; si sviluppano ad es. il 'colpo di glottide' esclusivamente sardo in ambito romanzo, la nasalizzazione ecc.. Egli perciò conclude: "les innovations [e non soltanto gli arcaismi] font aussi l'originalité du sarde à commencer par celles qui pourraient bien remonter à un substrat linguistique insulaire"; v. Etude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde, Alessandria, Ed. dell'Orso, l987, Texte, pp. 517, 577 - 580. Nonostante l'autorevolezza di chi la sostiene, l'opinione appena citata continua ad avere una posizione minoritaria in seno ai romanisti.

17. Sassari, Piattoli, 1774 - 1777, 3 voll.

18. Si noti che sono stati stranieri, francesi e tedeschi (C. Joret 1874, W. Meyer-Lübke 1889 - 1900), ad attribuire a [k + e, i] un valore discriminante o di soglia, probabilmente sotto l'impressione delle dispute intorno alla pronuncia del latino anche come problema scolastico.

19. M. Contini, Etude cit., pp. 106, 119 - 125.

20. Sulla natura caduca di [s, m] finali in latino v. A. Traina, G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Pàtron, 1982, III ed. aggiornata, pp. 105 - 107; R. Wallace, Variable deletion of -s in Latin: its consequences for Romance, in Papers from the XIIth Linguistic Symposium on Romance Languages, a c. di Ph. Baldi, Amsterdam / Philadelphia, Benjamins, 1984, pp. 565 - 577.

21. P. V. Mengaldo, Linguistica e retorica di Dante, Pisa, Nistri-Lischi, 1978.

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p. 95; idea riformulata nella voce Sardegna. Lingua cit., curata dallo stesso studioso, p. 34 / I.

22. M. Contini, Etude cit., p.10.

23. Per il concetto medievale e rinascimentale di grammatica quale lingua scritta e le sue implicazioni, v. F. Lo Piparo, Dante linguista anti-modista, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, Bologna, il Mulino, 1983, cap. 2; M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova, Antènore, 1984, 3.7 - 8.

24. Vale a dire P. Tronci, Annali pisani, Pisa-Lucca, 1828 - 1829, 4 voll., II, pp. 30 - 31, a proposito di un atto di donazione emanato nel 1173 da "Parassone (= Barisone) Giudice di Sardegna".

[[Lo storico e erudito pisano Paolo Tronci, vicario dell'Arcivescovo di Pisa Giuliano de' Medici, è vissuto tra il XVI - XVII secolo; nel 1682 si pubblicano le Memorie istoriche della citta di Pisa / raccolte da Monsigr. Paolo Tronci ... Con vn' indice copioso delle cose più notabili contenute in dett' opera, In Livorno : Apresso Gio: Vincenzo Bonfigli (ristampa anastatica Bologna, Forni, 1967), meglio note successivamente come Annali pisani. Ecco il fatto commentato dal Tronci: nel 1173, Parassone, Giudice di Sardegna, donò all'Opera del Duomo di Pisa alcune corti in quell'Isola, cioè in Sardegna: «L'instrumento della detta donazione in lingua antica più barbara che sarda, si conserva nell'Archivio dell'Opera».]]

25. Pietro Meloni-Satta, Il Vero Dialetto Logudorese, in "Album di vedute e costumi sardi ossia La Sardegna illustrata" I, 1881, pp. 99 - 100.

26. Infatti nel 1905 Arrigo Solmi sosteneva ancora che il sospetto della contraffazione aveva gravato sull'intera produzione scritta in sardo antico: Le carte volgari dell'Archivio Arcivescovile di Cagliari. Testi campidanesi dei secoli XI-XIII, Firenze, Tipografia Galileiana, p. 5. Sui falsi di Arborea v. Luciano Marrocu, Les artifices de la mémoire: historiographie et tradition dans la Sardaigne du XIXe siècle, in L'île miroir, Actes du Colloque d'Aix-en-Provence 1987, Ajaccio, La Marge, 1989, pp. 103 - 105; v. inoltre il catalogo della mostra Falsi e falsari della Sardegna, Villanovaforru (Cagliari) 1989. L'ed. ottocentesca delle carte false, intitolata Pergamene codici e fogli cartacei di Arborea, Cagliari, Timon, 1863 - 65, 2 voll., fu quella di P. Martini,

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direttore della Biblioteca Universitaria di Cagliari; ristampa anastatica, con introd. di A. Boscolo, Bologna, Forni, 1986.

[[ 27. Titolo in sardo: Ortographia sarda nationale o siat Grammatica de sa limba logudoresa cumparada cum s'italiana.

28. Pergamene codici e fogli cartacei di Arboréa raccolti ed illustrati da Pietro Martini, presidente della Biblioteca dell'Università di Cagliari, Cagliari, Timon, 1863, completato da Appendice alla raccolta delle pergamene dei codici e fogli cartacei di Arborea, per Pietro Martini, Cagliari, Timon, 1865, curato nella parte finale da Baudi di Vesme.

29. "La più antica ed armoniosa e che soffrì alterazioni meno delle altre" (che è, cioè, ancor più vicina al latino) sarebbe comunque il logudorese ossia la varietà "centrale" (Ortografia, I, p. XII). Ecco la citazione per intero: il logudorese "forma la vera lingua nazionale, la più antica ed armoniosa e che soffrì alterazioni mano delle altre. [in nota:] La posizione della Provincia [del Logudoro ...] molto influì che il Logudorese non si mescesse a sorgenti straniere, ma vive ritenesse le usanze e gl'idiotismi senza tralignar dalla bella età della antica sua Madre di cui serbò un gran deposito fino all'età presente. La barbarie, il traffico ed il commercio infettò le terre marittime, non i Paesi centrali tenutisi indipendenti, e nei costumi e nella lingua con vincolo il più sacro tra loro." ]]

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LE CITAZIONI

I "Specialmente servì l'esempio de' [Provenzali, Corsi, e] Sardi a indurre gl'Italiani a servirsi anche in iscritto della loro propria lingua ... Rammentai l'esempio de' Sardi [e Corsi], che si servirono della loro lingua in iscrivendo, e pare che prima degl'Italiani ... [Lo Strumento esistente nell'Archivio del suddetto Monistero (=di Montecassino), e da me dato alla luce, è scritto nella lingua volgare di Sardegna, la quale era un misto d'italiana e spagnuola. E ciò mi rimette in mente l'osservazione fatta dal Sig. Antonio Maria del Chiaro fiorentino nella Storia della Valacchia, da lui pubblicata nell'anno 1718. Ritiene essa molti vocaboli latini, colà portati dai coloni antichi Romani, anzi contornati alla foggia della lingua d'Italia, ... Ciò, che fecero i Valacchi corrompendo alla lor maniera la lingua latina, si osserva fatto anche dai Sardi] ... Non credo che si possa dubitare, che i [Corsi e] Sardi prima che gl'Italiani cominciassero a valersi della loro lingua volgare negli atti pubblici ... Però sull'esempio suddetto anche la lingua volgare Italiana, che fino al secolo XIII. era stata solamente in bocca degli uomini, cominciò in quell'istesso secolo a farsi vedere ne' versi de' poeti, nelle lettere, ne' libri, e in altre memorie." (L.

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A. Muratori, Dell'origine della lingua italiana. Dissertazione XXXII sopra le antichità italiane, cura di C. Marazzini, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1988).

II Il "... volgo ... corrompe il linguaggio, e ne storpia i vocaboli, e ne guasta la pronunzia, e ne rende sì barbaro tutto il dialetto, che sembra un altro da quello, ch'abbiamo in eredità da' nostri antenati. Esso mutila le voci, e vi aggiunge delle sillabe, e ne varia le terminazioni, e accenta diversamente i vocaboli, e commuta spesso le lettere, e le raddoppia, e le traspone, e le fa sonare di modo che appena sembra la dizione figlia della Sarda lingua. ... Fa breve la penultima sillaba lunga ...; fa lunga la penultima breve ..." (M. Madao, Ripulimento ..., ms., p. 17 r)

III "I nomi Sardi sono perfettamente Latini, e solamente può distinguerli qualche piccola alterazione, fatta in alcuni di essi o per grammaticale figura, come per sincope, apocope, protesi, epentesi, antitesi, aferesi, paragoge, o metatesi; o per corruzione del volgo, uso mai sempre or d'accorciare, or d'aumentar, e dilungare, e in somma storpiare i vocaboli del più colto dialetto." (M. Madao, Ripulimento..., Cagliari 1782, p. 59)

IV "Nella lingua propiamente Sarda il fondo principale è Italiano. Vi si mischia il Latino nelle desinenze, e nelle voci: v'è pure una forte dose di Castigliano, un sentor di Greco, un micolìn [=una briciola] di Franzese, altrettanto di Tedesco, e finalmente voci non riferibili ad altro linguaggio, che io sappia. Voci prettamente latine sono Deus, tempus, est, homine etc. Latine sono le terminazioni in at, et, it, us nella coniugazione de' verbi; dicono meritat, devet, consistit, dimandamus ... Parole Castigliane sono preguntare ... Sono Castigliane le desinenze in os, peccados, santos, ..." (F. Cetti, Storia naturale della Sardegna, Sassari, Piattoli, 1774 - 1777, 3 voll., prefazione)

V Il sardo "è uno dei pochi [idiomi] che ricordano con minor travisamento (alterazione) la lingua madre di Roma"; ... "il celebre Muratori ... parlando del primato del dialetto sardo sugli altri d'Italia ebbe in esso a constatare le sembianze native del latino idioma" (P. Meloni-Satta, Il Vero Dialetto Logudorese, in "Album di vedute e costumi sardi ossia La Sardegna illustrata" I, 1881, pp. 99 - 100)

VI "... il Sardo Dialetto, e più per le sue tristi vicende, e per esser comparso adulto quando tutti gli altri dell'Italia vagivano appena, frai

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quali tutti oggidì esso è l'unico che ritragga dell'antica ed insigne Sua Madre che fu la Lingua latina. " (G. Spano, Ortografia ..., 1840, I, p. VII; enfasi mia)

VII il logudorese "forma la vera lingua nazionale, la più antica ed armoniosa e che soffrì alterazioni mano delle altre. [in nota:] La posizione della Provincia [del Logudoro ...] molto influì che il Logudorese non si mescesse a sorgenti straniere, ma vive ritenesse le usanze e gl'idiotismi senza tralignar dalla bella età della antica sua Madre di cui serbò un gran deposito fino all'età presente. La barbarie, il traffico ed il commercio infettò le terre marittime, non i Paesi centrali tenutisi indipendenti, e nei costumi e nella lingua con vincolo il più sacro tra loro." (G. Spano, Ortografia ..., 1840, I, p. XII)

VIII "Nach Dante's Urtheil sind also die Sardinier alles Anspruchs, zur Bildung einer italienischen Cultursprache das Ihrige beitragen zu dürfen, baar und ledig, weil sie gar keinen eigenen Dialekt zu besitzen scheinen, sondern nur die lateinische Schriftsprache nachnahmen, wie die Affen den Menschen. [...] Zu dem Zwecke [...] eine selbst höheren Bestrebungen entsprechende und genügende Cultursprache herauszubilden, konnte freilich der Sardinische Dialekt nicht mitwirken, eben weil er, nach Dante's Auffassung, eigentlich gar kein Dialekt ist, sondern, enger als die Idiome des italienischen Festlandes sich an das Latein anschliessend, aller dialektischen Selbständigkeit und Eigenartigkeit entbehrt." (N. Delius, Der Sardinische Dialekt des dreizehnten Jahrhunderts, Bonn, Adolph Marcus, 1868, p.2)("Secondo il giudizio di Dante i Sardi non possono minimamente pretendere di contribuire alla formazione di una lingua di cultura italiana, in quanto paiono privi di un loro proprio dialetto e capaci soltanto di imitare la lingua latina scritta come scimmie che imitano gli umani ... Alla formazione di una lingua di cultura appropriata e sufficiente in sé ad esprimere le aspirazioni più elevate, il dialetto sardo certamente non potrebbe prendere parte, proprio perché, nell'opinione di Dante, esso in realtà non è un dialetto ma, siccome più strettamente vicino al latino degli idiomi italiani peninsulari, può fare a meno dell'autonomia e dell'individualità dialettali.")