Marina Mizzau glie conversazioni tenute da docenti di fama ... · artigli, si equipaggia vestendosi...

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LECTURES ON MEMORY SAN MARINO UNIVERSITY PRESS È UN GIOCO Marina Mizzau Guaraldi

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Marina MizzauÈ stata professore ordinario di Psi-cologia della comunicazione presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’u-niversità di Bologna, ha insegnato al Dipartimento di Discipline della co-municazione, e ha diretto l’omonimo istituto. Gli interessi alla base delle sue ricer-che sono la psicologia del linguaggio, della comunicazione e delle relazioni interpersonali, umorismo e ironia, psicologia e letteratura. Accanto a una produzione legata alle sue aree di ri-cerca ha scritto testi di narrativa, e ha collaborato a stesure cinematografiche e teatrali.

Il gioco può assumere molte forme nella vita quoti-diana, le più insospettabili. Camuffate sotto l’ambigua maschera del gioco, dello scherzo, dell’ironia sanno nascondersi tensioni, mistificazioni, insicurezze capaci di sclerotizzarsi in uno schema apparentemente ludico di comportamenti coatti e copioni fissi e ripetitivi di cui si è dimenticata l’origine. E allora l’unica soluzione per giocare davvero è uscire dal gioco, romperne la sterile circolarità per ritrovare la propria identità tramite la memoria. “Ricordare per cambiare, spiazzare, stupire. Divertirsi”.

La collana Lectures on Memory racco-glie conversazioni tenute da docenti di fama internazionale in occasione dell’o-monimo evento annuale organizzato dal Centro di Studi sulla Memoria del Dipartimento della Comunicazione di San Marino. Il tema della memoria è qui indagato nelle sue diverse forme e appli-cazioni: dalla storia alla psicologia, dalla letteratura all’arte, dal cinema al gioco.

ISBN 978-88-8049-819-3

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Euro 8,00

LECTURES ON MEMORY SAN MARINOUNIVERSITY PRESS

È UN GIOCO

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è un gioco

GuaraldiSan MarinoUniversity Press

L’editore dichiara di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per individuare i detentori dei diritti di tutto il materiale incluso nel presente volume. Resta a disposizione per ottemperare a quanto previsto dalla legge sul Diritto d’autore in caso di involontarie omissioni.

© 2013 by Guaraldi s.r.l.Sede legale e redazione: Via Novella 15, Rimini

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è un gioco Atti della giornata di studioLectures on MemoryGiochi di memoria13 luglio 2012

Università degli Studi della Repubblica di San MarinoDipartimento della ComunicazioneCentro di Studi sulla Memoriawww.unirsm.sm/centromemoria

In collaborazione con Biblioteca Universitaria Fondo Young

Redazione a cura di Paolo Castelli

Progetto graficoMaria Ianiri (Comunicazione Università degli Studi della Repubblica di San Marino)da un’idea di Francesco Messina (Polystudio)

FotografieMaria Ianiri e Karen VenturiniUniversità degli Studi di San Marino

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“È un gioco” lo si dice in diverse situazioni per sottolineare che quanto detto o fatto non deve essere preso seriamente, bensì con leggerezza, senza attribuirvi importanza, che è solo un gioco. È una frase usata con insistenza e direi con un certo compiacimento. Contromossa: “Non è un gioco. È una cosa seria, faccio sul serio”.“È un gioco” è un tormentone da annoverare tra quelli citati e analizzati da Bartezzaghi (Bartez-zaghi, 2010), anche se non ricordo di averlo let-to nella sua raccolta, forse sì, c’è, non potrebbe non esserci. Lo si dice per minimizzare uno sgar-bo, annullare un’offesa, invitando a considerarli una specie di scherzo. Lo si usa per consolare da un insuccesso (“non prendertela”). Per sedare lo spirito competitivo in una gara: molto usato nei giochi a premio televisivi. Per alleggerire gli ani-mi. Per evitare le conseguenze di parole e di gesti che potrebbero creare problemi, magari conflitti. E anche per fare passare banalità o sciocchezze fingendo che non lo siano, che sia “così per dire”. Le ricorrenze tra le più frequenti sono, credo, nel campo della moda:

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un gioco” è un messaggio che non appartiene alla classe dei giochi, non è esso stesso un gioco, così come, per riferirsi a un esempio noto in logica, e utilizzato dallo stesso Bateson, la classe delle se-die non è una sedia. Non possiamo dire “questo è un gioco” giocando. E neanche possiamo ordinare “gioca” perché un gioco prescritto non è più un gioco, così come appare impossibile da soddisfare l’ingiunzione “sii spontaneo”. Tuttavia un bambino sa benissimo quando gioca e quando fa sul serio, tanto da passare da un contesto all’altro usando la formula “è per finta”. Sentita da un bambino: “Parlo per scherzo. Parlo per scherzo seriamente.”Nei bambini il gioco è importante non tanto per imparare dei ruoli, impersonando la guardia o l’assassino, o un campione di calcio, ma perché attraverso queste assunzioni di parti si apprende che esistono dei ruoli, delle cornici che si pos-sono attraversare, delle posizioni che possono mutare e scambiarsi l’una con l’altra, passando dal vero al finto. “Non si tratta di imparare lo stile particolare richiesto da questo o quel gioco, ma la flessibilità degli stili e il fatto che la scelta di uno di essi o di un ruolo è collegata alla cornice e al contesto del comportamento” scrive Bateson ([1956] 1996). Più sorprendente è che questo pas-saggio dall’azione reale al gioco, dal vero al finto avvenga tra gli animali, che sono stati osservati a

È UN GIOCO

È un gioco, la donna firmata Outrage mostra gli artigli, si equipaggia vestendosi di grinta nel gioco della seduzione, l’ironia è la carta vincente contro la crisi.

Gioco, ironia: di quest’ultima come tormentone dirò qualcosa più avanti.

“Questo è un gioco?”

Al gioco, alla sua importanza nella comunicazio-ne e nel comportamento, fa frequente riferimen-to Bateson, psicologo, antropologo, semiologo e studioso del comportamento animale (Watzla-wick, Beavin e Jackson, [1967] 1971). Uno dei con-cetti chiave è il paradosso e la comunicazione patologica che da esso può derivare, il cui para-digma è il doppio legame.È noto il paradosso del mentitore. Chi dice “sto mentendo” nel momento in cui lo dice, mente o dice il vero? Se dice il vero mente, se mente dice il vero. Se tutti i nostri comportamenti, linguistici e non, sono inclusi in una cornice (frame) che dà loro un senso, si esce dalla cornice nominando-la, in qualche modo la si contraddice. Analoga-mente viene trattato e analizzato in tutti i suoi risvolti il messaggio Questo è un gioco (This is play, Bateson, [1956] 1996). Il commento “questo è

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complesse relazioni interpersonali. In quello che riproduco è riflessa una variante del paradosso del gioco:

“Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare il loro gioco, di non vedere che vedo il gio-co.”

Da questo nodo appare la pervasività del gioca-re, e anche la sua evanescenza e indicibilità: non posso dichiarare il gioco, smascheralo, guardarlo dall’esterno; posso solo starci dentro, giocare.

Giochi pericolosi

Nei contesti cui mi sono riferita, e ancor più nei successivi che vedremo, la parola gioco non evoca piacere, ma piuttosto situazioni di vin-coli costrittivi. Ci sarebbe da riflettere su come questa parola si discosti negli usi dal significato primo: divertimento, svago, spensieratezza, pia-cere, per assumerne altri molto meno distensivi, evocati anche da alcuni modi di dire: mettere in gioco, non stare al gioco, fino al gioco al massa-cro. E cosa c’è di svago, spensieratezza nel gioco del poker? Un gioco che mi divertiva, fino a che

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lungo e sistematicamente da Bateson. Fare come se. La lotta può trasformarsi da vera a finta, o anche viceversa. Un gatto che caccia un insetto, una farfalla, che può anche rappresentare un cibo che lo interessa, d’improvviso può trasformare la caccia in gioco, cercare di far sopravvivere la pre-da perché partecipi al suo rito, sfuggendo ai suoi movimenti. E, nell’interagire tra loro, è come se i cuccioli di lontra o di cani o gatti si comunicas-sero in qualche modo il messaggio questo è gioco, non è vera lotta. O più esattamente, si chiede Ba-teson, osservando due lontre, se possano gestire la domanda questo è un gioco? e si dà una risposta positiva individuando in alcuni colpi e graffi che gli animali si scambiano una metacomunicazione rispetto al senso del comportamento primario.Il gioco è il non serio, ma è estremamente serio il contributo che reca all’individuo e alle relazioni.

Un altro creativo e inquietante approccio ai gio-chi di relazione è proposto da Laing, psicologo e psichiatra che negli anni sessanta ha contribuito a rinnovare la visione dei rapporti interpersonali e l’approccio terapeutico (Laing, [1959] 1973). Raf-figurazioni psicologiche istantanee sono raccolte in Knots (Laing, [1970] 1974) dove Laing struttura in brevi componimenti quasi poetici momenti di

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“non è che io non ci provi, è lui che me lo impe-disce”). Una situazione tipica è la moglie che sce-glie un marito autoritario per lamentarsi: “è tutta colpa sua”.Vengono definite “vantaggi” le precarie soddisfa-zioni soggettive che si ottengono a scapito di una risoluzione vera del gioco. “Prendetemi a calci”, il cui corollario è “perché deve capitare sempre a me?”“Ti ho beccato figlio di puttana” (o “aspetta che ti becco”): dove si attende al varco l’antagonista (la moglie o il marito) finché non compie l’errore previsto e indotto dalla previsione stessa.“Perché non… sì ma...”: si pone un problema e si contestano tutte le soluzioni. Un esempio: A: “Il rubinetto del bagno perde” B: “Perché non chiami un idraulico?” A: “Sì, ma costa troppo, e poi chissà quando arriverebbe” C: “Perché non lo ripara tuo marito?” A: “Sì, ma non è bravo in queste cose, e non ha mai tempo” B: “Perché non lo fai tu?” A: “Sì, ma non sono capace” ecc.Gamba di legno: cosa ti aspetti da uno con un handicap? Ogni aiuto viene vanificato dal “gioca-tore” in nome della propria infermità, o incapaci-tà costituzionale.Il goffo pasticcione: è il gioco di chi danneggia e distrugge allo scopo di vedere fino a che punto può essere perdonato.

È UN GIOCO

mi sono trovata a registrare scontri di tensioni, fonti di rancori, aggressività, rivalse, frustrazioni. Cosa c’è di piacevole e ludico in questo? E ben lontani dallo svago e forse anche dal pia-cere, posto che non si può chiamare così quello ambiguo legato alla sofferenza subita e inflitta, e comunque caratterizzati da una forma di co-azione, sono i giochi descritti da Berne, anch’e-gli psicoterapeuta negli anni sessanta, fondatore dell’analisi transazionale. Questa teoria muove dagli stati dell’io, bambino, genitore, adulto, tri-partizione che può ricordare quella di Freud di Super io, Io, es (Berne, [1964] 1967). L’uso del termine gioco per Berne indica situa-zioni interattive, spesso familiari, per lo più di coppie, scripts, tracce di identità, schemi su cui costruiamo la vita, prevediamo e anticipiamo l’accadere degli eventi.I titoli di questi copioni, alcuni dei quali riporto, ne suggeriscono le trame, che vanno contestua-lizzate in diverse categorie: giochi coniugali, gio-chi di società, giochi sessuali e altro.“Guarda cosa mi hai fatto fare” (o “se non fosse per te” o “è tutta colpa tua”). Un gioco il cui “van-taggio” è quello di evitare le situazioni a rischio scaricando le responsabilità sull’altro, (“non è che io abbia paura, è lui che non me lo permette”,

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