Maria rosaria madonna di giorgio linguaglossa (con un intervento di amelia rosselli)

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Titolo: Maria Rosaria Madonna. Autore: Giorgio Linguaglossa (con un intervento di Amelia Rosselli)

Edizione a cura di: In realtà, la poesia

Anno: 2013

Vol.: 7

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo

illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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Maria Rosaria Madonna

di Giorgio Linguaglossa

con un intervento di Amelia Rosselli

In realtà, la poesia

2013

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Il seguente saggio è stato sottoposto a un intenso lavoro di editing da parte dei coordinatori, possibile grazie al generoso via libera del suo autore, Giorgio Linguaglossa, e reso necessario dall’eterogeneità degli interventi che ci ha inviato, scritti in contesti diversi e per funzioni diverse. Per esempio, la sezione 5 è stata ricostruita a partire da uno scambio di commenti tra Linguaglossa ed Ennio Abate sul sito Moltinpoesia. Crediamo e confidiamo che i tagli e i cambiamenti apportati - per chiarezza verso i lettori, per occasionale non conformità agli scopi di In realtà, la poesia, o per altri motivi - tengano fede alla posizione del critico.

Luigi Bosco, Davide Castiglione, Lorenzo Mari

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1 - Introduzione

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo 1942-

Parigi 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie

che sarebbero apparse l’anno seguente con il titolo Stige

(Roma, Scettro del Re, 1992). A quel tempo avevo

pensato di tentare l’impresa editoriale, e infatti decisi di

pubblicare senza indugio il libro di Madonna con la quale

intrattenni poi dei rapporti epistolari anche per via della

sua collaborazione, seppur saltuaria, al quadrimestrale di

letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi.

Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò

la prima prefazione, seguita dalla mia in quello stesso

volume1.

Madonna era una donna di straordinaria cultura, sapeva di

teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai

1 Nel presente saggio l’ordine delle prefazioni è stato invertito, per

non spezzare la continuità del discorso di Linguaglossa; la prefazione di Amelia Rosselli figura in fondo, come appendice.

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nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era

sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna

le avrebbe poi sottoposte ad una meticolosa riscrittura,

con cancellazione di quelle a suo avviso non riuscite, in

vista di una pubblicazione che comprendesse anche una

vasta sezione di inediti. La prematura scomparsa della

poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione

in attesa di una idonea collocazione editoriale.

Madonna rottama un bel mannello di poesie di Stige2 e

sottopone molte altre composizioni a profonda riscrittura

con risultati senz’altro eccellenti. Nelle rare composizioni

degli ultimi anni della sua vita si nota un utilizzo di un

linguaggio poetico più snodato, una sintassi più elastica,

un avvicinamento al piano del quotidiano, l’inserimento

del parlato e del dialogo, una poesia più colloquiata, un

maggiore innesto di metafore, tutti elementi che

contrassegnano l'avvenuta mutazione del suo stile che si

muove adesso in direzione della assimilazione di un

linguaggio quasi prosastico e il frequente ricorso ad

immagini, con abbandono della caratteristica effrazione

semantica delle poesie in «neolingua» di Stige. Le

composizioni degli ultimi anni di vita dell’autrice

posseggono una tematizzazione, per così dire, blindata: le

caratterizzano il colloquio con i barbari e con personaggi

femminili del lontanissimo mondo pagano (la filosofa

Ipazia, l’imperatrice Teodora e Penelope).

2 Si tratta di quelle a pagina 52, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60 e 61.

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2 - Prefazione a Stige (di Giorgio Linguaglossa)

La poetessa che qui presentiamo: Maria Rosaria Madonna,

è giunta alla pubblicazione, ormai in età matura, per via di

un atto d’imperio mediante il quale le abbiamo strappato

un malcelato assenso. Madonna rifiuta febbrilmente la vita

letteraria, in essa non vede altro che fatuità; il suo

aristocraticismo è costruito, pezzo per pezzo, come un

castello di carte che, se soltanto fosse esposto, il vento del

mondo lo trascinerebbe alla rovina.

L’aristocraticismo è la barriera dietro la quale la poetessa

ha potuto condurre in porto il processo di raffinamento

ed interiorizzazione artistica del suo linguaggio fino a

renderlo duttile e plastico, idoneo alla raffigurazione di

una poesia eminentemente lirica che si inserisce nella

tradizione alta della nostra letteratura. Il culto del mezzo

espressivo altro non è che la spia di una onestà assoluta

verso il mondo e di una disumana lealtà verso se stessi;

colpa grave che il vero artista paga di persona con la

disistima e l’aperta estraneità della generalità.

Come si vedrà, la metamorfosi della vita in

«autostilizzazione» è tormentosamente attraversata da

ambivalenti risultati stilistici. Ciò è dovuto in primo luogo

ai diversi processi di «sublimazione» cui la materia viva è

stata sottoposta: un inestricabile nodo di confessione,

inganno, autoinganno, finzione. Se pensiamo che le poesie

qui raccolte sono i rottami, i resti delle poesie che la

poetessa ha coscienziosamente distrutto durante gli ultimi

quindici anni, una distruzione capillare e minuziosa, non

possiamo non dichiararci soddisfatti. È una poesia di ciò

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che resta dopo il diluvio, ed ha la leggerezza friabile del

reperto archeologico. Il suo albero genealogico conta

poeti come Montale, Miłosz e Herbert vissuti e rivisitati

attraverso la assimilazione della poesia femminile del

nostro secolo: Else Lasker-Schüler, l’Achmàtova, la

Cvetaeva, Amelia Rosselli.

La imagery di Madonna appare straordinariamente ricca,

ma ad una analisi più attenta le immagini si presentano

come scorporate, liberate dalla realtà, svincolate dal

mondo, svuotate, per essere compiutamente innalzate sul

piano metafisico, assolutizzate. L’immagine è sintetica e

plastica, si ripete in variazioni continue come nel gioco

infantile delle tessere del mosaico, ed hanno una

giustificazione nell’ambito del proprio contesto semantico.

Potremmo ripetere per Madonna ciò che Gottfried Benn

disse per la Schüler: «Soltanto il ripetibile conduce

all’arte». Anche per Madonna è la variatio la chiave di volta

delle sue metafore. Rischiare la sortita verso l’abisso del

truismo, correre il rischio di sfiorare la lingua della

comunicazione pur di raggiungere l’approdo delle

emozioni linguistiche trasferibili.

La tecnica di Madonna la si può compendiare nella

seguente formula: impressionismo degli elementi astratti;

vale a dire, le poesie vengono sottoposte ad una rigorosa

opera di sfrondamento di tutto ciò che è realtà empirica,

ad una sottrazione di qualsivoglia realtà individuale-

esistenziale; nessun particolare biografico è individuabile:

seppure a volte la poetessa si abbandona a delle

confessioni, esse sono sempre artificiali, la luce dei suoi

versi proietta un’aureola non verso l’esistenza, bensì verso

l’apparenza, e l’essenza del mondo non è più tattile; al

contrario, è odorosa, è il profumo dell’astrazione.

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Leggendo queste poesie noi non ci chiediamo il perché

della sofferenza, non ci importa, godiamo soltanto dei

paesaggi astratti, degli accadimenti stilizzati. La materia

della vita è stata interamente plasmata dal processo di

stilizzazione, di distillazione. Probabilmente, l’arte, dinanzi

ad un mondo privo di «senso», non conduce ad alcun

luogo, non indica alcuna meta.

Il pubblico al quale questa sottile lirica si riferisce è un

pubblico astratto, verosimilmente inesistente, un pubblico

dal quale è scomparso il bisogno di interrogarsi sugli

avvenimenti della lirica, forse per un eccesso di sangue,

per eccesso di realtà, per eccesso di potenza dei nostri

organi ricettivi, così che non siamo più in grado di

recepire le onde hertziane come i raggi ultravioletti.

L’essenza di questa come della «nuova lirica» sembra

essere la prevalenza del fuggevole sul durevole,

dell’effimero sullo stabile. A volte si ha la sensazione che

questa poesia trapassi nel silenzio, o che comunque la

soglia del silenzio sia molto vicina. In breve, è una poesia

che accoglie il silenzio come unica condizione di esistenza,

una poesia che non tende all’autenticità, ormai dissolta nel

mondo ed inutilizzabile al pari di un reperto di ingegneria

del neolitico.

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3 - La crisi di Stige

Alcune brevi, ulteriori considerazioni su Stige, l’opera che

rivelò il talento di questa poetessa, a mio avviso

straordinaria.

Il libro appare assolutamente estraneo al clima culturale

dei primi anni Novanta, si presenta come un susseguirsi di

fotogrammi in una lingua inventata. Un personaggio

femminile recluso «nel monasterio» di un lontanissimo

medioevo che parla in una «neolingua», un misto di tardo

latino e di italiano antichizzato, lacerti temporali e

immaginifici di un altro tempo, di una anti-vita e di un

anti-mondo, sequenze disconnesse in geroglifici linguistici

dal poderoso passo del latino medievale riadattato, come

una incudine semantica, alla modernissima iconologia

della comunicazione per immagini. Stige va collocato sì in

un concetto di poesia finzionale ma nel filone di irrealismo

onirico a cui appartiene la stessa Amelia Rosselli. Si

possono notare disseminazione e disconnessione di

frammenti che si auto-compongono come tessere

magnetiche di un mosaico musivamente illusorio in

simboli e icone, scenografie atopiche, personificazioni

(«l’amante del Faraone», nel tema della meretrice reclusa in

una misteriosa segreta), traslati arditissimi portati da

anacoluti imperiosi e originalissimi. E a sottolineare questa

condizione irrelata, così esplicitamente super-finzionale,

fanno da sfondo le situazioni intertemporali e multi-

temporali dell’«io» poetico del tutto separato dall’«io»

empirico. Il tutto immerso nel liquido di contrasto

tipicamente post-moderno dello strumento linguistico,

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prodotto di mescidazione del latino medievale e di un

modernissimo psicologismo linguistico con molteplici

effetti di straniamento e spaesamento: due piani paralleli

che si intersecano e si giustappongono tra fabulazione in

«neolingua» e finzione poetica, metafore e iperboli. Se la

fotografia arresta il tempo, come nella poesia di una

contemporanea di Madonna, Giorgia Stecher, in Altre foto

per album (1996), la finzione poetica di Stige è un genere

che si muove nel tempo verso un epilogo «chiuso» dal suo

stesso linguaggio poetico, elitariamente ed olisticamente

intonso.

Il discorso poetico di Madonna è una avventura nel mare

dell'oggettità, nel mare dell'oggetto, dentro l'imbuto dello

spazio-tempo della metafora. Se andiamo a indagare la

struttura fraseologica e iconologica della poesia di Stige ci

accorgiamo che il tempo non è mai lineare ma curvo, ed è

la curvatura dello spazio-tempo di cui sono fatte le

metafore che determina lo svolgimento delle

composizioni; avviene così che il centro di gravità si sposti

di continuo da una fraseologia all’altra anche nell’ambito

di una stessa poesia. È uno spazio-tempo ellittico,

eccentrico, tangenziale. La svolta linguistica di Stige apre la

strada a un’ontologia post-metafisica dello spaesante e

della differenza in aperta rottura con le attuali declinazioni

della tematica del nichilismo nelle versioni del post-

minimalismo acritico che ipotizza consunti rovesciamenti

e superamenti, culto del corpo e del privato. Madonna

punta su una de-angolazione prospettica, raffigura la

dimensione esperienziale come materia metaforica, una

dimensione eccentrica della temporalità vista non più in

antitesi alla dimensione spaziale. La dimensione

metaforica e iconica è tutta dentro la dimensione spaziale,

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è una dimensione non statica ma cinetica. Se nella poesia

che va dal 1985 al 1992 la metafora prevalente è quella che

scaturisce dalla dimensione temporale e dall’iperbole, negli

anni successivi, e in particolare in quelli che precedono la

morte della poetessa, si può notare la prevalenza di

immagini e metafore legate alla spazialità, all’hic et nunc e

all’altrove, allo spaesamento delle dimensioni temporali e

spaziali, alla compresenza di immagini cinetiche, cioè

immagini in movimento reciproco.

Il «reale», quel reale cui anelava lo sperimentalismo privato

del tardo Novecento, nella poesia di Madonna assume la

formalizzazione in immagini che si estendono, in lungo e

in largo, nello spazio-tempo. Il «concreto» è l’immagine

che occupa uno spazio. La storia della lingua poetica di

Madonna è inscritta nell’evoluzione delle sue metafore in

movimento. In Stige non è in causa un soggetto

trascendentale ma una frattura che espone il soggetto a

una disseminazione di tracce linguistiche, iconiche e

metaforiche. La «neolingua» di Stige pone il soggetto in

questione, lo sposta, lo mette tra parentesi, lo mette in

scena, lo drammatizza, lo problematizza attraverso il suo

particolarissimo logos effrattivo. Di qui la necessità di

abbandonare, dopo Stige (1992), quella neolingua che

rischierebbe, alla distanza, di isterilire il discorso poetico in

una, seppur brillantissima, forma di retorizzazione; di qui

la de-stilizzazione del suo linguaggio poetico che d’ora in

poi si appoggerà alle strutture regolative del logos; il

linguaggio poetico parlerà (attraverso l’impiego

calibratissimo della sintassi e delle immagini) tramite la

«reificazione» (una sorta di lingua in stato di rigor mortis)

delle proprie esperienze spirituali in quanto il miglior

modo per parlare del soggetto traslato.

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L’idea guida costante anche nelle poesie che seguiranno

alla crisi di Stige, è la certezza dell’impossibilità di un

linguaggio referenziale, la contezza che il locutore ha

cessato di essere il fondatore e il fonatore, che il processo

della significazione non è separabile da quello della

reificazione dei linguaggi e si costruisce sopra le

fondamenta della metafora e della retorizzazione del

«soggetto», il quale si scopre (si rivela) quale luogo retorico

del linguaggio, chiusura del linguaggio, impossibilità di

porre il domandare se non attraverso l’interrogazione sulle

metafore, sui traslati: in una parola, sul linguaggio.

Ma anche nelle poesie del dopo Stige vige una

interrogazione le cui leggi finiranno con l’autonomizzarsi

in immagini e in catene di immagini che si sostengono le

une sulle altre in un ordine architetturale muto, claustrale,

in una «lingua morta», com’è stato detto. Ma è appunto la

strategia con cui Madonna risponde alla crisi della poesia

del tardo Novecento. Volta le spalle al Novecento, prende

congedo dalla poesia del disincanto e dello scetticismo del

dopo Satura (1971) che ha contaminato la poesia italiana,

sceglie di andare per la strada maestra tracciata dalla poesia

modernista europea, abbandona il modello proposizionale

della ragione poetica del tardo Novecento, opta per una

poesia dell’Interrogazione, una Ragione poetica fondata

sul traslato, sulla retorizzazione del parlato e del

quotidiano nell’ambito del discorso metaforico. E questo è

il suo personale contributo per aprire il discorso poetico

alle istanze del futuro.

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4 - Sullo sfondo della crisi del tardo Novecento

Pessoa all’inizio del Novecento scriveva che la sua opera

era un insieme di frammenti e che la tradizione «è una

nota a margine di un testo completamente cancellato»3.

Passato quasi un secolo da quelle parole noi oggi

sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Madonna

parte da lì. Dopo la composizione di Stige cambia

completamente registro, passa dal frammento alla

ricomposizione drastica dei frammenti dispersi, dalla

neolingua alla Lingua media della commedia. Le poesie si

solidificano in corpi più estesi e concreti. Va in contro-

tendenza: nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni»

in cui è avvenuta la moltiplicazione delle «piccole

narrazioni» in una miriade di racconti miniaturizzati,

Madonna si dedica alle poesie della ricostruzione storica

delle personalità femminili del lontanissimo passato: ed

ecco le poesie su Ipazia, Teodora, Penelope, sull’arrivo dei

barbari. Il passato è diventato il futuro.

È già con gli anni Ottanta del Novecento che la grande

narrazione si è risolta in una piccola narrazione, nella

fabulazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività

privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del

privato nel presente attualizzato. La modalità, il modus che

nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il

soggetto trascendentale è stata sostituita dalla pluralità dei

soggetti empirici e dall’egoità dell’io posto nell’attualità. Se

ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale

3 F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1935.

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e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo

prendere atto che abbiamo accertato con evidenza

assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto

trascendentale» che aveva ancora coscienza di sé ha

compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha

esaurito le sue potenzialità narrative, lasciando il pensiero

estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del

soggetto. Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul

piano etico questo significa il conflitto delle volontà

(Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano

estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini

empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare

soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della

sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della

divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato

democratico. In una parola: soggetto della democrazia.

Presto però si è scoperto che il soggetto democratico che

scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i

romanzi del nostro tempo altri non era che un

complemento ideologizzato del «globale», insomma, che il

«locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del globale.

Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi

mimetici della sfera artistica corrisponderebbe

l’ideologizzazione inconsapevole dell’estetico.

Il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo

sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del

soggetto (la sua morte trascendentale) e nella

disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo

luogo trascendentale ma in compenso ha i suoi soggetti

empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili

moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di

esistenzialismo che si avverte nella narrativa e nella poesia

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contemporanee. E la poesia obbedisce supinamente a tale

quadro di sproblematizzazione del reale. Tutto l’odierno

minimalismo post-deangelisiano e post-magrelliano ha qui

la sua origine e il suo marchio di fabbrica.

C’è da chiedersi come la poesia contemporanea possa

replicare a tale contesto di sproblematizzazione del reale;

c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna

pensa di avere a che fare. Mettere in campo un riduttore

del poetico è il riflesso di quelle enormi forze motrici che

fanno da moltiplicatore dell’estetico tramite la diffusione

dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti

dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella

privacy demoltiplicata e manifestata alla piena luce dei

neon alogeni.

Direi che con la de-moltiplicazione del soggetto siamo

giunti a ridosso del nuovo soggetto empirico, della

ottimizzazione delle risorse umane nelle moderne

economie a capitalizzazione del lavoro salariato, e del

post-minimalismo dei soggetti empirici e perimetrabili.

Nella stragrande maggioranza dei romanzi e delle poesie

contemporanee (anche di autori ritenuti di rilievo) appare

evidente che i risultati di una tale de-moltiplicazione non

potevano essere diversi: il trionfo del post-minimalismo e

della micrologia. Ma se il minimalismo (venato di un

candido aproblematico e aproteico autologismo) è il

portato di un potente vento di sproblematizzazione, ciò

non toglie che vi sia anche chi, come Maria Rosaria

Madonna, opera, all’incontrario, per la via di una

problematizzazione di ciò che la cultura della

giustificazione aveva derubricato come irrilevante e

minoritario.

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Anche la sintassi assume una imprevedibile elasticità,

segue la declinazione dei toni e delle intenzioni significanti

volte a fronteggiare, anche stilisticamente, la maggiore

complessità delle tematiche e delle tematizzazioni.

Avviene che nel mondo della democrazia del globale

mediatizzato corrisponde così la democrazia del

minimalismo e dei soggetti empirici. L’autologia è

l’involucro del soggetto empirico, il genere oggi prevalente

nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra

sull’altare del privato opportunamente scisso e deturpato

negli esiti più intelligenti in una galleria di situazioni e di

maschere, in una liturgia, diciamo, con un linguaggio

liturgico.

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5 - Appunti sulla «lingua morta» di Madonna

Tutto questo favellare, tutto questo balbo

balbutire, mi è ostico - lo capisci?

La lingua dei famuli - lo capisci?

La detesto.

In questa poesia c'è tutta la poetica di Madonna: il rifiuto

di tutto «il balbo balbutire» della poesia dei giorni nostri.

Da notare la raffinatissima proposizione utilizzata

dall'autrice per bollare d'infamia il volgare del volgo.

C'è qui una presa di posizione che va dritta contro i

linguaggi della piccola borghesia impiegatizia del mondo

occidentale, contro il loro parlarsi addosso e intorno ma

non verso la «cosa» che rimane ostica e sconosciuta.

È un linguaggio poetico privo di interlocutore, che non

vuole interloquire con «il balbo balbutire» dei «servi», degli

«iloti».

Ritengo che la genialità della poesia di Madonna risieda

proprio qui, nel fatto che l'italiano utilizzato è impiegato

come una «lingua morta». Il sistema linguistico con cui ha a

che fare un poeta è sempre «consolidato», la tradizione

funziona come un sistema linguistico e stilistico

consolidato, come un immaginario di soluzioni

metaforiche che la poesia deve ravvivare per renderle

nuovamente comunicabili. E qui Madonna opera con il

minimo dispendio di energia per ottenere il massimo

risultato stilistico e metaforico.

Il problema affrontato e risolto da Madonna è: usare una

«lingua morta» come se fosse una cosa viva e ignorare «la

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lingua dei vivi» proprio perché essa è morta, e morta per

sempre, uccisa dalla telecomunicazione mediatica che

maciulla e trebbia la lingua di color che furono vivi e che

ora non lo sono più.

Insomma, non mi meraviglia che la lingua poetica di

Madonna sollevi tante e tali questioni e incomprensioni e

difficoltà di ricezione, ma qui il fatto è che entrare nei suoi

delicatissimi congegni metaforici e simbolici significa

mettere tra parentesi tutta la balbuziente iconologia del

quotidiano e la lingua dei vivi dei quotidianisti e degli

sperimentalisti. E poi c'è una considerazione importante

da fare (che ha conseguenze politiche, cioè che attengono

alla polis) che l'adozione di una lingua morta da parte della

poetessa palermitana significa che lei considera quella

lingua morta più viva della lingua dei morti viventi che

abitano la società del villaggio dei villaggi che crede di

parlare una lingua di vivi quando invece utilizza una lingua

di morti, di zombi, a-significante.

Poetare in una lingua morta è ovviamente un concetto

straordinariamente complicato e sottile e sfuggente. La

lingua che Madonna impiega è qui, come dire, generata da

una forma-interna, una lingua messa in frigorifero dalla

stagnazione delle forme simboliche operata dal

minimalismo e dal post-sperimentalismo. Madonna

compie una operazione di portata rivoluzionaria, mette

fuori gioco la balbuzie, il «balbutire» dei suoi

contemporanei, il «favellare» dei «famuli» (cioè dei servi) i

quali non possono che suonare il piffero del

conformismo. Anche la glaciale compostezza del verso e

delle strofe della poesia di Madonna è un segnale del rigor

mortis che inerisce a quella lingua morta.

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Ciò che dico nel prosieguo può forse aiutare il lettore ad

entrare nella giusta sintonia di lettura. Da Inediti (1995–

2002):

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano

il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso

e le voci fluirono nella carta assorbente

d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento

dove un narciso guardava nello specchio

d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro

danzante muoveva il nitore degli arabeschi

e degli intarsi.

*

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.

Il silenzio nuota come una stella

e il mare è un aquilone che un bambino

tiene per una cordicella.

Un antico vento solfeggia per il bosco

e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma

che rimbalza contro il muro

e torna indietro.

*

Con rumore di carrucola venne giù il temporale.

Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.

«Ricordi?»; «sì, la ricordo come un altoparlante

che abbia inghiottito la voce… non più

di un secolo di luce fa. Forse più, forse meno…».

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Il silenzio di chi ascolta (il lettore), il silenzio, dicevo,

conduce (tende) al limite estremo del linguaggio. Il

linguaggio poetico di Madonna viene teso come un arco

fino all’estremo, al diapason delle sue possibilità interne

affinché possa scoccare la freccia del senso. Ed il senso è

sempre uno: il ricongiungimento tra il morto passato e il

vuoto presente.

In queste poesie il «morto» è il campo di macerie del

passato che il presente continuamente ricrea mediante la

sua produzione di merci; è la feticizzazione della merce

che ha invaso, come un tessuto tumorale, il linguistico

della Lingua della comunicazione. Questa problematica,

questa sensibilità è talmente presente nella poesia di

Madonna come forse in nessun altro poeta del tardo

Novecento. Ma non è affatto semplice scoprire ciò all’atto

della lettura veloce.

Io ripeto sempre che la poesia non si dà per decreto o per

imposizione, richiede una educazione estetica del lettore

che spesso il lettore non ha. La poesia parla attraverso la

fragilità delle sue immagini cristallizzate. E l’orma mestica

della fragilità del cristallo si ripercuote e si riverbera

nell’atto sensorio della fragilità del silenzio, e quindi

dell’ascolto da parte del lettore.

La estrema fragilità di una rete di immagini che vuole

sottrarsi alla utenza feticizzata della Lingua di relazione. È

questo il modo con cui la poesia di Madonna si oppone al

feticismo della merce. Si oppone richiamando il «tacere»

all’interno del suo sistema di immagini. È una modalità di

difesa dal feticismo della merce che colpisce anche le

immagini, le eidola, la circolazione delle segnaletiche del

mondo mediatico.

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Il linguaggio poetico è un sistema di relazioni che è in

rapporto dialettico con altri sistemi di relazioni. Che cosa

voglio dire? Voglio dire che il linguaggio poetico di Maria

Rosaria Madonna è un sistema relazionale che entra in

rapporto conflittuale con i sistemi relazionali adottati dalla

tradizione poetica italiana del tardo Novecento. Madonna

mette in opera un (e qui ha ragione Ennio Abate)

linguaggio cristallizzato (morto) per metterne in risalto ciò

che non è morto di quel linguaggio morto, opera una

resurrezione di un linguaggio morto. Ma qui il distinguo è

più sottile: in questo modo mette fuori gioco i linguaggi

maggioritari del post-sperimentalismo e della poesia degli

oggetti mostrando (indirettamente) come quel linguaggio

morto e stereotipato sia, quello sì, un linguaggio morto! In

questo modo Madonna rivitalizza quegli «oggetti» che

entrano nel suo linguaggio poetico.

La poesia di Madonna la si può apprezzare soltanto se si

coglie questo distinguo sottilissimo: è un linguaggio

relazionale perché non si riferisce ad altro che non sia il

mondo degli oggetti entro il proprio linguaggio poetico.

Del resto, criticamente parlando, non si può valutare un

linguaggio poetico da ciò che è esterno a quel linguaggio

poetico ma la valutazione deve iniziare e finire entro il

contesto storico stilistico e filosofico di quel linguaggio

poetico. Il «merlo» che gracchia diventa il simbolo (il

correlativo oggettivo) della tradizione poetica italiana, la

quale «gracchia» non sa fare altro che «gracchiare», e il suo

suono sinistro e lugubre è il contrario della dizione

apollinea dei versi di Maria Rosaria Madonna, la cui poesia

avviene sotto il segno di Apollo, è apollinea e dionisiaca (e

non cristiana!). L'accenno al mare che entra «sciabordando

nel peristilio» è un simbolo relazionale che ci collega a

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un'altra civiltà del passato che è scomparsa ad opera del

«merlo» che «gracchia».

Quello che più conta poi è la siderale distanza che

Madonna pone tra la propria poesia e quella che si è fatta

nel Novecento (in specie la seconda metà). È proprio

questa distanza della sua poesia da quella del suo tempo

che ne fa un valore relazionale inestimabile.

Se uno dei criteri per la valutazione di un'opera di poesia è

il suo valore relazionale, quello della poesia di Madonna

sta proprio in quell'atto di negazione della direzione

intrapresa dalla poesia italiana del secondo Novecento. La

sua massima relazione è nell'assenza di relazioni con quella

tradizione. È questo il punto centrale della sua poesia. Il

punto altamente politico, se mi si passa il termine. E la

critica ha un senso e un valore soltanto se è capace di

sviscerare i punti critici di un certo tipo di linguaggio

relazionale, altrimenti è chiacchiera.

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Appendice

Stige, ossia Acheronte

Prefazione a Stige di Amelia Rosselli

Il latino «Stix» - Stygis equivale al nominativo italiano

«Stige», ed è di formazione letteraria; significa il fiume

dell’oltretomba nella mitologia degli antichi Greci e

Romani. Oggi viene aggettivato nelle allocuzioni, per

esempio: «le acque stigie», «la palude stigia» = «formato

dalle acque dello Stige».

Tanto letteraria è l’espressione che infatti è rara. È più

che probabile che l’autrice l’abbia ricavata invece dalla

lettura di Dante (la quale ovviamente l’ha molto

influenzata), nelle sue due accezioni di nominativo

geografico in realtà derivanti dalla prima: e cioè: 1) nome

d’una palude infernale già nella mitologia pagana; 2) nome

d’una palude posta nel quinto cerchio dell’inferno (canto

VII). In questa palude si trovano: a) a galla, gli iracondi

«aperti» (e forse anche gli orgogliosi), b) nel fondo, gli

accidiosi, quegli iracondi che covarono l’ira dentro

l’anima. Dante, invece, viene traghettato al canto III da

Caronte, attraversando il fiume Acheronte, che è fiume

infernale nella mitologia Greca anch’esso, oltre che

sotterraneo e ultraterreno. Il nome Acheronte proviene

etimologicamente dal greco Acheron-ontos; nel latino

mutato in Acherontis.

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La signora Maria Rosaria Madonna scrisse il suo Stige tra i

trentacinque e i quarant’anni; da giovane fece studi di

teologia ed era medievalista quanto a letture, ed anche

studiava la patristica; inoltre è informatissima di poesia

antica e moderna, madre e moglie, dà alle stampe questo

libretto solo oggi che è cinquantenne, avendo per molto

tempo distrutto le poesie di cui era, evidentemente,

insoddisfatta.

Così come il suo editore [Linguaglossa] la presenta, è sì

poeta eminentemente lirico, che si inserisce nella

tradizione «alta» della nostra letteratura. Differisco dal

prefatore [Linguaglossa] quando egli parla di

«sfrondamento di tutto ciò che è realtà empirica, una

sottrazione di ogni realtà individuale-esistenziale», in cui

«nessun particolare biografico è individuabile». Anzi, direi

grosso modo che l’intero libretto si distingue per la sua

originalità e compattezza per un buon tre quarti delle

poesie, ove l’inizio inventivo-linguistico in pseudolatino, è

davvero originale e ispirato. Man mano che l’autrice passa

dal suo ritmicissimo pseudolatino inventivo ad un italiano

frammisto di latino e poi ad un italiano semplice, sembra,

strano a dirsi, indebolirsi la sua ispirazione che è religiosa e

pagana insieme.

Non potrei dire, specie per l’ultima parte del libro, che i

temi non siano amoroso-biografici; direi anzi che il libro

intero, con le sue iniziali poesie di genere metafisico, abbia

come tematica principale (nascostamente), quella della

ribellione alla borghesia: tema che nel violento isolamento

dell’autrice è ancor più aspro, e poco risolto, perché poco

conscio.

Se vi siano state, tre le prime quaranta e più poesie,

«paesaggi astratti degli accadimenti stilizzati»,

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«distillazione», e «confessioni pur sempre artificiali», nel

passare alla lingua itala, la rinuncia anche tecnica alla

formalizzazione e sublimazione è graduale, e a volte, per

qualche stanchezza o altro, la poesia perde la prima forte

originalità.

Da una molto autentica religiosità, da una molto musicale

latinità, nascono alcuni versi e poesie intere, quale Veniat

sua jurisdictione terribilis, Dove sono le catene e Egredientes

latrinitatibus meo pectore, nonché Quando ero giovane e bella, Nel

buio Tartaro, perturbationibus e Non adularmi per la mia misura -

che illustrano la crisi e il passaggio, infatti, agli inferni,

proprio come è descritto in Dante quel quinto cerchio

detto la «palude stigma», il luogo degli iracondi, degli

orgogliosi e degli accidiosi. «Si cum tuo licore nel mio core

/ versato, si cum tuo livore sul mio / onore posato, si

cum tuo stiletto in mio / diletto infernato...»; «Bevo il

calice dell’ebrezza / condito di aceto e fiele». E anche:

«Accorto all’ingiuria, all’ira ratto / va il mio cuore matto di

colore».

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