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Mare monstrum 2002 I NUMERI E LE STORIE DELLASSALTO ALLE COSTE Roma, 27 giugno 2002

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Mare monstrum 2002

I NUMERI E LE STORIE

DELL’ASSALTO ALLE COSTE

Roma, 27 giugno 2002

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IL "CHI E'" DI LEGAMBIENTE

LEGAMBIENTE è l'associazione ambientalista italiana con la diffusione più capillare sul territorio (1000 gruppi locali, 20 comitati regionali, 110000 tra soci e sostenitori). Nata nel 1980 sull’onda delle prime mobilitazioni antinucleari, LEGAMBIENTE è un'associazione apartitica, aperta ai cittadini di tutte le idee politiche, religiose, morali, che si finanzia con i contributi volontari dei soci e dei sostenitori delle campagne. E' riconosciuta dal Ministero dell'Ambiente come associazione d'interesse ambientale, fa parte del "Bureau Européen de l'Environnement", l'unione delle principali associazioni ambientaliste europee, e della “International Union for Conservation of Nature”. Campagne e iniziative Tra le iniziative più popolari di LEGAMBIENTE vi sono grandi campagne di informazione e sensibilizzazione sui problemi dell’inquinamento: "Goletta Verde", il “Treno Verde”, l'"Operazione Fiumi", che ogni anno "fotografano" lo stato di salute del mare italiano, la qualità dell'aria e la rumorosità nelle città, le condizioni d'inquinamento e cementificazione dei fiumi; "Salvalarte", campagna di analisi e informazione sullo stato di conservazione dei beni culturali; “Mal’Aria”, la campagna delle lenzuola antismog stese dai cittadini alle finestre e ai balconi per misurare i veleni presenti nell’aria ed esprimere la rivolta del “popolo inquinato”. LEGAMBIENTE promuove anche grandi appuntamenti di volontariato ambientale e di gioco che coinvolgono ogni anno centinaia di migliaia di persone (“Clean-up the World/Puliamo il Mondo” l’ultima domenica di settembre, l’operazione “Spiagge Pulite” l’ultima Domenica di maggio, i campi estivi di studio e recupero ambientale, “Caccia ai tesori d’Italia” all’inizio della primavera), ed è fortemente impegnata per diffondere l'educazione ambientale nelle scuole e nella società (sono migliaia le Classi per l'Ambiente che aderiscono all'associazione e molte centinaia gli insegnanti che collaborano attivamente in programmi didattici, educativi e formativi). Per una globalizzazione democratica LEGAMBIENTE si batte contro l’attuale modello di globalizzazione, per una globalizzazione democratica che dia voce e spazio alle ragioni dei poveri del mondo e che non sacrifichi le identità culturali e territoriali: rientrano in questo impegno le campagne “Clima e Povertà”, per denunciare e contribuire a combattere l’intreccio tra problemi ambientali e sociali, e “Piccola Grande Italia”, per valorizzare il grande patrimonio di “saperi e sapori” custodito nei piccoli comuni italiani. L’azione sui temi dell’economia e della legalità Da alcuni anni LEGAMBIENTE dedica particolare attenzione ai temi della riconversione ecologica dell’economia e della lotta all’illegalità: sono state presentate proposte per rinnovare profondamente la politica economica e puntare per la creazione di nuovi posti di lavoro e la modernizzazione del sistema produttivo su interventi diretti a migliorare la qualità ambientale del Paese nei campi della manutenzione urbana e territoriale, della mobilità, del risanamento idrogeologico, della gestione dei rifiuti; è stato creato un osservatorio su “ambiente e legalità” che ha consentito di alzare il velo sul fenomeno delle “ecomafie”, branca recente della criminalità organizzata che lucra migliaia di miliardi sullo smaltimento illegale dei rifiuti e sull'abusivismo edilizio. Gli strumentiStrumenti fondamentali dell'azione di LEGAMBIENTE sono il Comitato Scientifico, composto di oltre duecento scienziati e tecnici tra i più qualificati nelle discipline ambientali; i Centri di Azione Giuridica, a disposizione dei cittadini per promuovere iniziative giudiziarie di difesa e tutela dell'ambiente e della salute; l'Istituto di Ricerche Ambiente Italia, impegnato nel settore della ricerca applicata alla concreta risoluzione delle emergenze ambientali. LEGAMBIENTE pubblica ogni anno "Ambiente Italia", rapporto sullo stato di salute ambientale del nostro Paese, e invia a tutti i suoi soci il mensile “La Nuova Ecologia”, “voce” storica dell’ambientalismo italiano.

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MARE MONSTRUM 2002

INDICE 1. Premessa 1 2. La sporca dozzina: le bandiere nere 2002 di Legambiente ai "pirati" del mare e delle coste 8 3. I numeri del mare illegale 12 4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti” 16 5. Cemento in spiaggia 18 6. L’ultima spiaggia 61 7. Fronte del porto 66 8. L’erosione della costa 85 9. La pesca “miracolosa” 105 10. Il mare inquinato 132 11. L’onda nera 155 12. 20.000 bombe in fondo al mar 166

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Il dossier “Mare monstrum 2002” è stato realizzato dall’Ufficio Ambiente e Legalità, dall’Ufficio Aree Protette e Territorio, dall’Ufficio Campagne, dall’Ufficio Scientifico e dall’Ufficio Stampa di Legambiente Nazionale. Hanno collaborato: Pio Acito, Simone Andreotti, Francesca Biffi, Riccardo Biz, Michele Buonomo, Adolfo Cavallo, Stefano Ciafani, Nunzio Cirino Groccia, Leo Corvace, Milena Dominici, Luca Fazzalari, Lucia Fazzo, Domenico Fontana, Enrico Fontana, Salvatore e Tiziano Granata, Lidia Liotta, Angela Lobefaro, Angelo Mancone, Maurizio Manna, Umberto Mazzantini, Giuseppe Mele, Giuseppe Messina, Rossella Muroni, Luzio Nelli, Antonio Nicoletti, Carla Quaranta, Luca Ramacci, Luigi Rambelli, Peppe Ruggiero, Stefano Sarti, Sandro Scollato, Tommaso Tedesco, Vincenzo Tiana, Sebastiano Venneri, Lucia Venturi. Si ringraziano per i contributi forniti: il Comando generale delle Capitanerie di Porto, il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, il Comando generale della Guardia di Finanza, il Corpo Forestale dello Stato e delle Regioni Sardegna e Sicilia, che hanno fornito i dati statistici relativi alle attività di controllo in materia di tutela ambientale; Maria Cristina Gambi e Maria Cristina Buia della Stazione zoologica “Anton Dohrn” Laboratorio di ecologia del benthos, Ischia; la Prof.ssa Teresa Crespellani dell’Università di Firenze; Fias di Lecce e Lega Pesca; Ezio Amato, ricercatore Icram; Roberto Giangreco, Legambiente Sub; Enzo Incontro, Legambiente Sub; Alberico Simioli, direttore dell’Area Protetta di Punta Campanella; Alberto Vignali, giornalista de La Nazione de La Spezia; Andrea Costantini, Fias Gallipoli; Dante Matelli, de L’Espresso; Giancarlo Bussetti; Giulietta Rak; Chiara Della Mea, Franco Mancusi de Il Mattino; Giuseppe Contini e Giuseppe Fanelli; Il paragrafo Onda nera è tratto dal dossier “I traffici marittimi petroliferi - Regole, strumenti, soluzioni - Riflessioni a dieci anni dall’incidente Haven”, realizzato da Legambiente e WWF.

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Ecomostro (comp. di eco- (1) e mostro (2), 1999) s.m. Costruzione che suscita repulsione sul piano estetico

e dal punto di vista ambientale

(lo Zingarelli 2002 - Vocabolario della lingua italiana)

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1. Premessa

La “pianificazione urbanistica contrattata”, ovvero come ridisegnare il territorio, il profilo delle nostre coste, secondo le proprie volontà e i propri desideri. Contrattando, appunto, con le amministrazioni locali deroghe, soppressioni di vincoli, aumento di cubature e quant’altro. E’ questo, in sintesi, il sogno di ogni speculatore immobiliare. Ed è proprio quello che si sta materializzando in tante parti del nostro Paese, soprattutto lungo le coste, i territori più pregiati della nostra penisola. Basti pensare a quanto sta accadendo nei 150 chilometri di litorale delle province di Taranto e Matera. Si tratta di una delle più cospicue trasformazioni di un territorio costiero che sia mai avvenuta in Italia, più consistente della Costa Smeralda, paragonabile piuttosto alla realizzazione dei grossi insediamenti costieri nell’Alto Adriatico. Decine di migliaia di nuovi posti letto, centinaia e centinaia di posti barca in porti turistici nuovi di zecca, e poi discoteche, centri per la talassoterapia, ipermercati, campi da golf (immancabili!) ed altro ancora. Il tutto spalmato su una stretta fascia di costa omogenea che un tempo era una zona umida fra le più importanti del nostro Paese e ora è una striscia di sabbia e dune, protetta da una pineta e da vincoli comunitari che si stanno rivelando velleitari almeno quanto la nostra legge Galasso.

Ai pirati del golfo di Taranto è andata, non a caso, una delle dodici bandiere nere assegnate nel dossier Mare Monstrum di Legambiente. La nomination forse è un po’ generica, ma in questo caso era difficile stabilire delle priorità o gradi diversi di responsabilità fra gruppi imprenditoriali, amministratori locali, organi di controllo e quanti altri stanno contribuendo a cambiare i connotati ad uno dei tratti di costa più significativi del nostro Paese.

A partecipare a questa discutibile impresa urbanistica nella culla della Magna Grecia sono i principali gruppi imprenditoriali del settore. Sono loro che stanno ridisegnando l’intero golfo di Taranto costruendo una vera e propria città lineare che vivrà per qualche settimana all’anno, ospitando centinaia di migliaia di persone, per poi chiudere i battenti a ogni fine di stagione. Due accordi di programma siglati con il Ministero del Tesoro per centinaia di miliardi pubblici sono stati destinati a cofinanziare lo scempio. I sigilli della magistratura, intanto, hanno già chiuso i cantieri dell’intervento più significativo perché, neanche a dirlo, le norme in materia di sicurezza del lavoro non erano rispettate per nulla. Operai in fuga all’arrivo dei Carabinieri, subappalto utilizzato come norma, in una provincia in cui quasi la metà degli operai impiegati nell’edilizia lavorano in nero. Tornano, insomma, le caratteristiche di un fenomeno che poco ha da spartire con i toni pretenziosi e manageriali di quanti a parole reclamano la necessità di interventi di questa natura per dare sviluppo a queste regioni, ma nella realtà ne saccheggiano il territorio, comprano manodopera poco qualificata a buon mercato pagandola con i soldi pubblici e magari non riescono neppure a portare a compimento l’intervento.

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E’ l’imprenditoria “arruffona” che avevamo già evidenziato nel dossier dello scorso anno, capitanata da personaggi come Mario Bertelli, titolare della società bresciana che ha realizzato il Bagaglino a Stintino (un intervento su uno dei tratti più belli della costa sarda per il quale il sig. Bertelli, insignito della “bandiera nera” di Legambiente proprio lo scorso anno, qualche settimana fa è stato arrestato). O come quella che su uno dei più bei promontori del Salento, nel Comune di Santa Cesarea, ha preteso di realizzare ben due piscine, un intervento, anche questo segnalato da Legambiente lo scorso anno con una bandiera nera, che se non fosse diventato oggetto d’interesse per la locale Procura (sette avvisi di garanzia per reati urbanistici), sarebbe sicuramente stato al centro delle attenzioni di qualche psicopatologo. Costruire piscine a pochi metri da uno dei mari più belli e più puliti del Mediterraneo fa il paio con quanti, solo nelle barzellette, pretendono di costruire congelatori al Polo Nord. O magari posti barca in un’area sperduta dell’Abruzzo, alla foce di un fiume, a chilometri di distanza dal primo centro abitato. E’ successo anche questo, a Fossacesia, bandiera nera nel 2000, tanto che l’Unione Europea, sollecitata dal ricorso delle associazioni ambientaliste, ha aperto un procedimento contro la Regione Abruzzo. Nel frattempo il porticciolo è stato portato a termine, e i 400 posti barca sono ancora lì, belli e invenduti.

Valutazioni sbagliate, conti approssimativi, decisioni discutibili sembrano caratterizzare le scelte di un’imprenditoria scellerata che vuole devastare le parti più pregiate del nostro Paese. A cominciare dalla Sardegna, dove gli angoli più pittoreschi saranno oggetto di contrattazione fra privati facoltosi e amministratori locali se passerà la norma messa a punto dall’assessore all’Urbanistica e sponsorizzata fortemente dal Presidente della Regione, già pupillo del Presidente Berlusconi. Una norma in base alla quale gli accordi per la realizzazione di interventi urbanistici significativi potranno andare in deroga alla legge vigente. Siamo in presenza anche qui, insomma, di una pianificazione fatta caso per caso, tratto di costa per tratto di costa, con buona pace di quanti pensavano a norme vincolanti su tutto il territorio nazionale o almeno regione per regione.

Sempre sulla Sardegna incombe la minaccia del Master Plan: quasi due milioni di metri cubi rischiano di finire sulle coste più pregiate dell’isola e diventare oggetto di contrattazione fra grossi gruppi privati da un lato e piccoli sindaci dall’altro.

Se le coste della Sardegna piangono, quelle della Sicilia non ridono. Un patrimonio inestimabile di spiagge e litorali è anche in questo caso al centro di un attacco massiccio sferrato dai vertici della Regione, che dietro un disegno di legge dal rassicurante titolo sul “riordino delle coste” nasconde in realtà l’obiettivo di condonare gli abusi edilizi consumati sul demanio marittimo: quindicimila costruzioni illegali che neppure i due precedenti condoni erano mai riuscite a sanare.

Il tentativo di vendere il demanio marittimo che non è andato in porto con il famoso articolo 71 della Finanziaria, cancellato dal Governo dopo le proteste degli ambientalisti, rischia di riproporsi, insomma, regione per regione

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grazie a provvedimenti che nei fatti si traducono in condoni o svendita dei tratti di litorale ai privati.

Come se non bastassero le iniziative locali, a peggiorare la situazione delle nostre coste contribuiscono anche i provvedimenti del governo centrale. Ultimo in ordine d’arrivo quello del Ministro dell’Economia Tremonti che prevede l’alienazione di parte del nostro patrimonio, ivi compresi alcuni immobili sul demanio marittimo sorprendentemente sopravvissuti ai tentativi di speculazione degli anni passati.

Ad aggravare ulteriormente una realtà così difficile contribuisce, inoltre, il passaggio delle competenze in materia di gestione del demanio dalle Regioni ai Comuni. Una norma che doveva servire a semplificare le procedure in termini di affidamento delle concessioni rischia di tradursi in un pericoloso strumento discrezionale nelle mani di amministratori e tecnici locali, ansiosi di utilizzare, in molti casi, la nuova competenza per aumentare le cubature sulla costa o cambiare la destinazione d’uso di qualche immobile. E’ quanto sta accadendo sul tratto di costa adriatico del Salento, dove i piani di utilizzo della costa messi a punto dai Comuni rischiano di dare il via ad un’altra indigestione di cemento.

Dal sud al nord la musica non cambia: in Veneto l’area presa di mira è quella di Caorle, un chilometro e mezzo di spiaggia rischia di scomparire a favore di una nuova strada litoranea. Ancora più consistente il progetto messo a punto dalla Regione Veneto nella zona lagunare cara ad Hemingway subito a ridosso della cittadina costiera: qui si prevede di tirare su qualcosa come un milione e mezzo di metri cubi di cemento, per un totale di 18.000 posti letto e 3.500 posti barca su 450 ettari supervincolati.

Appetiti speculativi anche sull’ultimo tratto di litorale romagnolo scampato finora alla cementificazione. Le mani dei grandi gruppi immobiliari sono arrivate fin sulle dune del ravennate e nell’area del Delta del Po.

Situazione analoga sul versante opposto a Sanremo, in Liguria, dove due ecomostri nuovi di zecca hanno sostituito il vecchio panorama di cui si poteva godere passeggiando sul lungomare.

Alla pressione del cemento “legale”, o che perlomeno così si presenta, si sommano i fenomeni d’illegalità vera e propria, come emerge dai dati raccolti dalle forze dell’ordine e riportati in questo dossier. Si tratta di numeri in costante crescita che definiscono un trend in aumento del numero dei reati consumati ai danni di mare e coste italiane. Sicilia, Puglia, Campania e Calabria sono le quattro regioni che guidano la classifica delle illegalità che si consumano sul mare; la Sicilia in particolare svetta in testa alle classifiche per tutti i tipi di reati, che si parli di abusivismo edilizio o di pesca illegale, di reati da inquinamento o contro il codice della navigazione.

Per completare il quadro del “mare monstrum” Legambiente ha selezionato dodici casi esemplari di saccheggio del territorio: una “sporca dozzina”, come è stata definita, di pirati della costa cui Legambiente ha assegnato la bandiera con teschio e tibia incrociate. Tanti amministratori locali, ma anche imprenditori grandi e piccoli, nomi noti e altri conosciuti solo

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localmente, accomunati dalle iniziative ai danni della fascia costiera. Sono loro i pirati del terzo millennio, quelli che partono all’arrembaggio saccheggiando il futuro degli abitanti della fascia costiera. Contro questi nuovi pirati viaggerà la campagna di Goletta Verde di quest’anno, per riconquistare alla legalità anche questo pezzo di territorio, per restituire una possibilità di futuro ai suoi abitanti.

I numeri del mare illegale

Sono state 23.474 le infrazioni lungo la fascia costiera rilevate dalle

forze dell’ordine nel corso del 2001, 501 in più rispetto a quelle rilevate nel 2000. Nel merito di ciascuna tipologia di reato le violazioni al codice della navigazione e alla normativa da diporto restano al primo posto fra i reati consumati in questo territorio con 9.009 reati accertati (pari al 43,4% del totale). A seguire nella classifica del demerito sono i reati contestati per pesca di frodo (7.207) pari al 34,8% del totale e quelli per abusivismo edilizio sulle aree demaniali costiere (3.898). A guidare incontrastata la classifica del mare illegale la Sicilia, con 4.648 infrazioni accertate, seguita da Puglia (2.513), Campania (2.442) e Calabria (1.992). L’ordine cambia se si considerano invece i reati in rapporto ai chilometri di costa: in questo caso al primo posto sale il Veneto con più di 8 reati per chilometro di costa, seguito dall’Emilia Romagna (6,9 reati) e dalle Marche (6,36).

I frutti di mare della malavita organizzata

In Campania è la camorra. Ma anche in Veneto sono vere e proprie

organizzazioni criminali a tenere le fila della pesca illegale delle vongole e del commercio dei frutti di mare. La spiegazione è abbastanza semplice: il giro d’affari garantito da queste attività. Si spiegano così episodi clamorosi, dalla vera e propria guerra che si combatte fra le forze dell’ordine e i cosiddetti “caparozzolanti” nelle aree della laguna vietate alla pesca dei molluschi ai dati della Guardia Costiera napoletana, secondo i quali a marzo 2002 su 10 controlli effettuati solo uno è risultato in regola. E se il Procuratore Generale di Venezia ha ritenuto, nella relazione in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, di doversi soffermare diffusamente sull’illegalità che caratterizza il settore della pesca delle vongole, a Napoli secondo una denuncia avanzata da numerosi ristoratori la camorra impone i propri fornitori di frutti di mare ai ristoranti del capoluogo. E’ comunque la costa campana a detenere i record in questo settore: da quello delle denunce per violazione delle norme igienico sanitarie (12.000 procedimenti giudiziari nella sola provincia di Napoli) a quelle sugli allevamenti abusivi (su duemila quintali di cozze sequestrate in Campania 1.500 vengono coltivate alla foce del Sarno, un fiume noto per l’alto livello d’inquinamento.

Quest’anno inoltre si è andata affermando ulteriormente la pratica del pesce all’acqua pazza, così come è stata battezzata nello scorso dossier Mare Monstrum, ovvero l’abitudine tutta napoletana di rinfrescare pesce e frutti di

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mare con acqua inquinata, invalidando la pratica della stabulazione. Per questa ragione in sei mesi sono stati sequestrati e distrutti, sempre in provincia di Napoli, oltre 45 quintali di frutti di mare.

Il governo va a pesca

Se questi sono risultati che possono essere archiviati come esempi

d’illegalità, non meno preoccupanti sono, per l’ambiente marino, i provvedimenti messi in campo dal nostro Governo in materia di pesca. A cominciare dalla famigerata circolare sul cianciolo: un regalo di Natale fatto dal Ministero delle Politiche Agricole a poche imbarcazioni che, in virtù del provvedimento, possono calare le proprie reti fin sulle praterie di Posidonia distruggendo uno dei più importanti habitat di riproduzione delle specie marine. Con la decisione di liberalizzare la pesca dei piccoli pelagici in Adriatico, invece, è stata fatta piazza pulita dei timidi tentativi di gestione comune della risorsa che si stavano tentando in quell’area.

Nel frattempo proprio quest’anno sono stati pubblicati i risultati di una ricerca dell’Università di Siena che evidenziano le quantità considerevoli di diossina e Pcb accumulate dai grandi pelagici, tonno e pesce spada in primo luogo. I valori riscontrati sono allarmanti: si va dai 990 ai 2070 pg/kg p.f. (picogrammi per chilogrammo di peso fresco) nei tonni ai 1470 e 1660 pg/kg p.f. nei pesce spada, concludendo che è consigliabile un’assunzione settimanale di questi prodotti che non superi i 500 g. a persona. I nuovi “ecomostri”

I “pirati” del cemento selvaggio continuano l’assalto alle nostre coste.

Dall’abusivismo sulle aree demaniali marittime (monitorato dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di Porto) agli “ecomostri”.

Nel corso del 2001 la Sicilia è diventata la prima regione italiana per reati relativi all’abusivismo sulle aree demaniali costiere. E non solo: i reati per abusivismo edilizio sul demanio marittimo siciliano sono passati dai 480 del 2000 agli 857 del 2001, per un aumento percentuale di oltre il 78%. Coincidenza o conseguenza dei proclami a favore del condono da parte del Governatore siciliano? I dati storici sul fenomeno dell’abusivismo edilizio in Italia fanno ovviamente propendere per la seconda ipotesi.

La classifica, per il secondo anno consecutivo, non si discosta affatto per quanto riguarda il quadro emerso lo scorso anno. I primi quattro posti sono ben presidiati: Sicilia, Calabria, Campania e Puglia primeggiano per numero di infrazioni accertati sul demanio costiero. La Calabria scende al secondo posto con 654 reati (più o meno gli stessi consumati nel 2000), mentre Campania (557 reati) e Puglia (554) si confermano in terza e quarta posizione. Da segnalare il passo in avanti compiuto dall’Emilia Romagna, che dall’undicesimo posto del 2000 sale al quinto nel 2001, e quello all’indietro delle Marche, che dalla settima posizione scendono all’undicesima.

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Accanto ai tanti episodi di illegalità perpetrati da privati, ci sono i casi più eclatanti, i simboli dell’aggressione selvaggia del cemento al nostro patrimonio costiero: quelli che Legambiente definisce “ecomostri”. Anche quest’anno abbiamo voluto evidenziare diverse storie esemplari di aggressione alle coste del Belpaese: dall’abusivismo nella riserva di Capo Rizzuto a quello nella Baia di Copanello, sempre in Calabria; dalle minacce speculative sul Golfo di Taranto al “sacco del Salento”; dalla “saracinesca” di Punta Perotti all’Hotel Castelsandra a Castellabate fino all’ecomostro “legalizzato” di Pozzano a Castellammare di Stabia. Vere e proprie ferite sulle nostre coste contro le quali la Goletta Verde di Legambiente lancerà, anche quest’anno, i “Demolition day”, i blitz per fermare l’abusivismo e lo scempio sulle coste.

Non sono mancati, fortunatamente, segnali diversi. Come l’abbattimento del Villaggio Sindona, sull’Isola di Lampedusa, o quello ancora più recente degli scheletri di Montecorice, nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diana. Ma tanti, troppi ecomostri da tempo attendono l’accensione dei motori delle ruspe demolitrici. Il diluvio dei porti

Continua il diluvio di porti turistici lungo la costa, incrementato dalla semplificazione delle procedure autorizzative. Basti pensare che se in 50 anni si erano realizzati appena 44 porti turistici, negli ultimi 5 anni ne sono stati realizzati ben 36, altrettanti sono in fase di realizzazione e una quarantina aspettano di concludere l’iter autorizzativo. Al termine i posti barca lungo la nostra penisola aumenteranno di 30.000 unità. A questi si andrebbero ad aggiungere tutte le altre infrastrutture progettate al di fuori di qualsiasi pianificazione regionale, ad esempio la miriade di porticcioli previsti per gli insediamenti progettati sulla costa jonica lucana, o le marine che si prevede di realizzare all’interno del progetto Palalvo (3.500 posti barca).

E’ la solita storia: i porti turistici si progettano e si realizzano al di fuori di qualsiasi logica programmatoria. Gli stessi piani regionali dei porti, approvati peraltro solo da pochissime regioni, sembrano essere una pura e semplice dichiarazione d’intenti, senza alcun valore vincolante. L’erosione che avanza

Legambiente lo sostiene da anni: l’erosione procede a ritmo implacabile sottraendo un metro di spiaggia all’anno. E il risultato perverso di una serie di concause riconducibili alla mano dell’uomo, sia che si parli di cementificazione delle coste, di realizzazione di strade litoranee, di costruzione di moli a mare o di opere che impediscono l’apporto di materiale solido dai fiumi. E ogni metro di spiaggia in meno si traduce in una riduzione di introiti: è stato calcolato che i problemi d’erosione hanno comportato solo sull’isola di Ischia un mancato introito pari a circa 75 milioni di euro mentre per Procida i quattrini persi nella sabbia ammonterebbero a circa 13 milioni.

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Non stupisce quindi che stiano proliferando le operazioni di ripascimento lungo le nostre coste con effetti, in certi casi, peggiori del male cui si sperava di porre rimedio. E’ quanto accaduto lungo la spiaggia del Poetto, a Cagliari, teatro di uno scellerato tentativo di ripascimento che si è concluso con la cancellazione della vecchia spiaggia bianca e la sostituzione con un litorale grigio scuro, più simile alle spiagge dell’alto adriatico che a quelle della Sardegna. O quello che è accaduto a Ischia, dove l’operazione di ripascimento ha determinato la distruzione di numerosi ettari della prateria di Posidonia che proteggeva la spiaggia. La depurazione

Nulla di nuovo sul fronte della qualità delle acque di balneazione e

della depurazione: secondo i dati del Ministero della Salute nel nostro Paese risultano vietati alla balneazione oltre 400 chilometri di costa, 270 dei quali lo sono in modo permanente. Maglia nera per il cattivo stato di salute delle acque di balneazione è la regione Campania, con 84,1 km inquinati, seguita dal Lazio (36,1 km). Tra le province la più inquinata risulta essere Caserta dove quasi un chilometro su due risulta inquinato (47,5% del litorale).

Il depuratore che avrebbe dovuto servire la provincia di Napoli, intanto, è stato al centro di un’inchiesta giudiziaria che ha portato al sequestro dell’impianto, all’esautoramento della ditta privata che ne curava la gestione e all’affidamento dell’impianto al Presidente della regione Campania.

Ma i guai della depurazione nel nostro Paese non si limitano a quelli della Regione Campania. Tutta la penisola è caratterizzata da un grave deficit di depurazione che oscillerebbe dai 29 ai 41 milioni di abitanti equivalenti, da Milano a Palermo, per citare due capoluoghi che ancora attendono la realizzazione di un completo impianto di depurazione.

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2. La sporca dozzina: le bandiere nere 2002 di Legambiente ai “pirati” del mare e della costa

Al sindaco di Sanremo per la realizzazione di due ecomostri che hanno

chiuso le passeggiate della città dei fiori. Fine delle passeggiate a Sanremo. A decretarla è stato il sindaco Giovenale Bottini, da 8 anni a capo del Comune ligure, che ha proceduto alla realizzazione di due incredibili ecomostri, un albergo e un teatro, che bloccano la visuale a mare nei due tratti di passeggiata della città dei fiori. Un mega albergo a Portosole che supera di due metri il livello della strada sostituendo con la vista sui piani alti dell’albergo il panorama a mare della passeggiata. Poco oltre un imponente teatro ha cambiato il paesaggio di uno dei tratti più caratteristici della località della riviera, proprio di fronte al Casinò e nei pressi della Chiesa Russa. Anche in questo caso il fronte a mare del teatro di una trentina di metri ha sostituito il precedente panorama della passeggiata.

Al Presidente della Provincia di Cagliari per l’opera di ripascimento

della spiaggia del Poetto che ha compromesso una delle spiagge più belle del Mediterraneo. 370.000 metri cubi di sabbia scura, color cemento, sono stati riversati nel giro di poche settimane sulla spiaggia bianchissima del Poetto, cambiando un paesaggio unico nel Mediterraneo, punto di riferimento per migliaia di cagliaritani. Nessuna valutazione di impatto ambientale e nessuna gradualità in un’operazione che la Provincia di Cagliari ha portato avanti con arroganza a fronte delle preoccupazioni espresse dalla cittadinanza e da buona parte della comunità scientifica. Legambiente ha raccolto 11.000 firme di protesta indirizzate al Presidente della Provincia, in calce ad una petizione che chiede un intervento di ripristino del paesaggio ferito.

Al Presidente della Regione Veneto, Carlo Galan, per il progetto

Palalvo. La Regione Veneto ha elaborato e si appresta ad approvare un colossale piano urbanistico conosciuto come Palalvo (Piano di area delle lagune e dell’area litorale del Veneto Orientale) che produrrà effetti devastanti sulla costa del Veneto orientale e sui valori ambientali che ancora essa conserva. Sul territorio di Bibione e Caorle, due località già gravate dal peso dell’urbanizzazione degli anni '60, il progetto Palalvo prevede la realizzazione di 7 nuovi porti turistici (3.500 posti barca che si andranno a sommare ai 1200 attuali) ed edificazioni di strutture turistico ricettive per 1.500.000 di metri cubi (18.000 posti letto) su 450 ettari. Il tutto su zone straordinarie, vere e proprie oasi di naturalità quali la piccola e preziosa laguna di Caorle resa famosa da Hemingway, il selvaggio litorale di Valle Vecchia, le valli arginate di Bibione e quel prodigioso serbatoio di biodiversità che è la foce del Tagliamento. Tutte queste aree sono state designate dall’Unione Europea come Siti di Importanza Comunitaria e Zone di Protezione Speciale.

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Ai pirati del Golfo di Taranto. 150 chilometri di villaggi e porti

turistici ridisegneranno il profilo di due intere province costiere, quella di Taranto e quella di Matera. Migliaia di posti letto e posti barca all’interno di zone umide e Siti di Importanza Comunitaria. A cominciare dal megaprogetto Nuova Concordia a Castellaneta Marina, oggetto di uno specifico Accordo di Programma che ha previsto un investimento iniziale di 520 miliardi di lire per un complesso di alberghi, villaggi turistici, edilizia residenziale, parchi a tema, campi da golf, infrastrutture commerciali e sportive su un’estensione di circa 1000 pregiatissimi ettari di territorio a ridosso di una riserva biogenetica. A seguire, nel territorio di Castellaneta Marina, il piano di lottizzazione Perronello – Catalano, con un investimento di 50 miliardi per la realizzazione di un albergo, villette ed il raddoppio del villaggio turistico di Riva dei Tessali. Senza soluzione di continuità sono previsti tre villaggi turistici da realizzare a ridosso del Lago Salinella di Ginosa Marina, un’area vincolata come sito di importanza comunitaria. Nelle zone a mare di Massafra, nella radura della pineta Marinella, è stato approvato anche un progetto di villaggio turistico di 6000 metri cubi. Questa quantità impressionante di progetti mette a rischio la tenuta della pineta, già dichiarata riserva biogenetica e che per 37 km ricopre il versante occidentale del litorale tarantino.

Stessa situazione anche a levante della città di Taranto, un’area già gravata da un diffuso abusivismo edilizio, a cominciare dal villaggio turistico con annesso porticciolo in località Blandamura a Talsano, e proseguendo con i villaggi turistici delle società Kira e Ondablu a Lido Silvana e a Torretta, fino ad arrivare al progetto di porto turistico a Baia Colimena e al raddoppio del porticciolo turistico di Campomarino, una località sulla quale si concentrano numerosi progetti speculativi, dal Progetto Mirante (180 miliardi di lire in strutture ricettive su 40 ettari di costa con retroduna ancora intatta) al Messapia Golf club & resort, 120 miliardi di lire in alberghi, minialloggi, villaggi turistici per un totale di oltre 300.000 metri cubi da realizzare all’interno della riserva naturale della foce del fiume Chidro. La cementificazione delle coste richia di accentuare il già avanzato fenomeno di erosione delle spiagge.

E un altro accordo di programma apre la strada alla realizzazione di altrettanti villaggi e porti turistici sulla costa jonica lucana. E’ quello siglato tra il Ministero del Tesoro e la Cit Holding per oltre 200 miliardi di lire (la metà a carico dello Stato) per realizzare quattro progetti di villaggi turistici e alberghi su oltre 200 ettari di territorio del Comune di Scanzano Jonico. Ma villaggi turistici sono previsti lungo tutti i 37 km di costa lucana, a cominciare dai due porticcioli turistici a Lido di Metaponto e dall’ampliamento dei villaggi Argonauti, Ti Blu e Le Dune nelle vicinanze di Marina di Pisticci, proseguendo con un altro porto turistico e il villaggio Marinagri a Lido di Policoro, per concludere a Nova Siri, al confine con la Calabria, con il villaggio turistico Akiris, in parte già realizzato e un ulteriore porto turistico. Tirando le somme si prevede di realizzare 15.000 nuovi posti letto e 1.650 posti barca in poche

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decine di chilometri sui quali già esistono 11.500 posti letto, 4 Siti di Importanza Comunitaria e una Zona di Protezione Speciale.

All’Immobiliare Medusa srl per la realizzazione del Villaggio Elisea a

Porto Garibaldi (FE). Duemilacinquecento posti letto in una delle ultime aree rimaste sorprendentemente libere nella zona compresa fra Ravenna e il Delta del Po, nel territorio del Comune di Comacchio. Titolare della ditta è l’imprenditore Tomasi, già noto per aver costruito e venduto buona parte delle seconde case realizzate recentemente nei lidi comacchiesi. L’intervento in questione, per la mole della cementificazione proposta, per le caratteristiche delle costruzioni e per i problemi che arrecherebbe alla mobilità in un’area già congestionata, si presenta come una vera e propria struttura urbana spalmata su 39 ettari in un’area del Parco del Delta del Po (area di Preparco) a due passi dalla spiaggia, dal sistema dunale e dalla pineta. Il tutto nel silenzio, e in alcuni casi il benestare, degli enti locali.

Ai vandali delle dune dell’ex colonia Varese a Milano Marittima

(RA). Anche in questo caso uno splendido tratto di duna miracolosamente scampato all’urbanizzazione massiva di quest’area è vittima di una serie di interventi vandalici e oggetto di mire speculative che sembrano preludere ad interventi di speculazione sull’area. Per ora le dune vengono utilizzate come pista di motocross.

Al polo chimico di Ravenna (ex stabilimento Enichem) per l’impatto

inquinante sull’ecosistema pinete, valli, canale e litorale di Ravenna in termini di inquinamento delle acque superficiali e di falda; per il contributo al fenomeno della subsidenza con l’emungimento delle acque di falda; per il carico inquinante nell’aria e nel suolo; per la gestione degli impianti che negli anni ha provocato danni all’ecosistema ed alla salute di lavoratori e cittadini.

Al Sindaco di Campofelice di Roccella (PA) per l’approvazione di un

progetto che prevede la realizzazione di un megaalbergo nella fascia dei 150 metri dal mare. Sulla costa tirrenica siciliana, tra Termini Imerese e Cefalù, su una lunga spiaggia di sabbia finissima, l’amministrazione comunale di Campofelice di Roccella ha dato il via libera a uno pseudo intervento di recupero di un antico insediamento medievale dietro il quale si nasconde in realtà la costruzione di un mega albergo entro la fascia dei 150 metri. C’è da considerare che la precedente amministrazione comunale, caduta per le improvvise dimissioni del Sindaco vittima pochi giorni prima di un’atto d’intimidazione mafiosa, non volle mai approvare il progetto in questione, e stava lavorando invece per l’acquisiszione dell’area e il recupero della torre castello e del borgo.

Alla Società Italo-Belga per la realizzazione di una baraccopoli di

lusso sulla spiaggia di Mondello (PA). Una splendida spiaggia di sabbia fine e

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bianca dentro la città di Palermo per tre mesi si trasforma in una vera e propria baraccopoli grazie all’edificazione stagionale di 1600 cabine che invadono completamente la spiaggia impedendo qualsiasi utilizzo del litorale. Il canone irrisorio pagato dalla societa immobiliare (poco meno di venti milioni di vecchie lire) consente ricavi astronomici alla società (oltre tre miliardi di lire) e deturpa uno dei paesaggi più belli della costa palermitana.

Al Sindaco di Siracusa per la "generosa” variante urbanistica che

consentirebbe la realizzazione di un villaggio turistico a Punta Asparano, uno dei pochi tratti di litorale siracusano miracolosamente scampato all’abusivismo edilizio. Un investimento complessivo di 48 milioni di Euro, realizzato da un’azienda del gruppo Alpitour su 66 ettari di superficie per un totale di oltre 1500 posti letto. Il tutto su aree ricadenti in massima parte entro la fascia di rispetto dei 150 metri dal mare e come tali vincolate per legge al divieto assoluto di edificazione.

Alla Regione Campania per vent’anni di malfunzionamento del

depuratore di Cuma e per i ritardi accumulati sulla depurazione in generale lungo tutta la fascia costiera. 300 miliardi di lire spesi per una struttura che avrebbe dovuto servire i Comuni della provincia a nord e a sud di Napoli, compreso il capoluogo. Dal 1976 l’opera è affidata in gestione alla Regione Campania, ma non ha mai funzionato passando da un’emergenza all’altra, da un’inchiesta giudiziaria all’altra, fino a quella dello scorso gennaio che ha portato al sequestro dell’impianto, sottraendolo alla gestione della società privata e affidandolo al Presidente della Regione Campania. Secondo stime attendibili il 30% degli scarichi fognari in provincia di Napoli sfocia a mare senza alcun tipo di trattamento.

Ad Aurelio Misiti, Assessore ai Lavori Pubblici della Regione

Calabria e Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, per il caparbio impegno pluriennale a favore del Ponte sullo Stretto di Messina, coronato da successo con l’avvio della progettazione esecutiva. Per lo sperpero di denaro pubblico in un’opera improbabile per la quale sono evidenti le caratteristiche di diseconomicità, le riserve sulla fattibilità, gli impatti ambientali e, in definitiva, l’inutilità.

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3. I numeri del “mare illegale” “Avanti tutta!”. E’ questo il motto che sembra spingere i nuovi “pirati”

a minacciare i nostri mari con ogni tipo di illegalità. A confermarlo anche quest’anno sono i numeri elaborati da Legambiente sulle infrazioni (scarichi fognari non trattati, pesca illegale, violazioni alla normativa da diporto e costruzioni di case abusive sulle aree demaniali costiere) accertate lo scorso anno dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto. Nel 2001, infatti, sono stati 23.474 i reati accertati in mare, per i quali sono state denunciate o arrestate 10.278 persone e sono stati effettuati 8.954 sequestri.

Confrontando i dati sui più ricorrenti illeciti consumati nei mari italiani nel 2001 con quelli relativi all’anno 2000, tutti i numeri risultano in crescita. Aumentano, infatti, sia le infrazioni (501 in più) che le denunce (+1.399, pari ad un incremento di quasi il 16%). Ma il dato più rilevante è quello relativo ai sequestri che tra il 2000 e il 2001 aumenta di 2.536 unità, per un aumento percentuale del 39,5%.

IL QUADRO GENERALE DEL “MARE ILLEGALE” IN ITALIA NEL 2001

Cta-CC* Gdf** Cfs - Cfr*** Capitanerie di porto

TOTALE

Infrazioni accertate 2.852 5.296 647 14.679 23.474 Persone denunciate o arrestate

3.428 1.294 801 4.755 10.278

Sequestri effettuati 1.489 4.377 141 2.947 8.954 Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto. *: i dati del Comando Carabinieri tutela ambiente sono relativi al periodo 01/05/2001 - 30/09/2001. **: i dati della Guardia di finanza si riferiscono ai settori Pesca e Codice della

navigazione ed all’abusivismo su aree demaniali. ***: i dati dei Cfr si riferiscono a Sicilia e Sardegna.

Per il secondo anno consecutivo si conferma il trend in aumento del

numero dei reati consumati ai danni di mare e coste italiane, già riscontrato nel precedente dossier “Mare monstrum 2001” (erano infatti stati 19.324 nel 1999 e 22.973 nel 2000). Lo stesso si può dire del dato relativo ai sequestri compiuti: 4.744 nel ’99 e 6.418 un anno dopo. Per quanto riguarda invece le persone denunciate o arrestate, se dal 1999 al 2000 il dato era risultato in diminuzione (da 10.159 a 8.879), il 2001 con 10.278 denunciati o arrestati ha visto superare entrambi i dati precedenti.

Analizzando i numeri per singola forza dell’ordine, il dato dei sequestri del Comando Carabinieri tutela ambiente quasi si quadruplica, passando dai 400 del 2000 ai 1.489 del 2001. In forte aumento anche il numero delle infrazioni accertate dalla Guardia di finanza (da 4.077 a 5.296) e dei denunciati

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o arrestati dal Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a statuto speciale (414 nel 2000 contro gli 801 dell’anno appena trascorso). Il numero maggiore di reati accertati ai danni del mare è stato riscontrato anche quest’anno dalle Capitanerie di porto (14.679, pari al 62,5% del totale).

Analizzando la classifica delle regioni per numero di reati, la Sicilia si conferma al primo posto con 4.648 infrazioni, 1.437 persone denunciate o arrestate e 864 sequestri. La Puglia sale al secondo posto, con 2.513 reati, scavalcando la Campania. Il Lazio dal quarto posto del 2000 scende al settimo nel 2001. Da segnalare il numero elevato di sequestri compiuti in Sardegna (ben 1.888), riconducibile soprattutto all’azione di contrasto delle forze dell’ordine nei confronti dei pescatori di frodo. Chiudono la classifica, come lo scorso anno, Friuli Venezia Giulia, Molise e Basilicata

LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: VALORI ASSOLUTI (2001)

Infrazioni accertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Sicilia ↔ 4.648 1.437 864 2 Puglia ↑ 2.513 907 921 3 Campania ↓ 2.442 924 844 4 Calabria ↑ 1.992 993 414 5 Toscana ↑ 1.377 363 442 6 Liguria ↔ 1.348 239 161 7 Lazio ↓ 1.337 310 486 8 Veneto ↓ 1.302 607 495 9 Marche ↓ 1.101 155 527 10 Sardegna ↔ 906 372 1.888 11 Emilia Romagna ↔ 904 419 132 12 Abruzzo ↔ 393 105 135 13 Friuli Venezia Giulia ↔ 250 54 65 14 Molise ↔ 193 13 103 15 Basilicata ↔ 10 15 2

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

Anche la classifica dei reati per chilometro di costa vede la conferma

della “leadership” dello scorso anno: il Veneto con 8,19 infrazioni per Km (contro i 9,31 del 2000). A seguire l’Emilia Romagna con 6,90 reati per chilometro di costa (questa regione scala la classifica passando dal quinto posto del 2000 al secondo del 2001) e le Marche che scendono dal secondo posto dello scorso dossier all’attuale terzo, con 6,36 reati per Km. Da segnalare il balzo in avanti del Molise che dall’ottavo posto sale al quarto di quest’anno e quello all’indietro fatto dal Lazio che dal quarto del 2000 scende al settimo del

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2001. Chiude la classifica di quest’anno la Basilicata con 0,16 reati per chilometro.

LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: INFRAZIONI PER KM DI COSTA (2001)

Infrazioniaccertate

Km di costa Infrazioni per Km

1 Veneto ↔ 1302 158,9 8,19 2 Emilia Romagna ↑ 904 131 6,90 3 Marche ↓ 1101 173 6,36 4 Molise ↑ 193 35,4 5,45 5 Campania ↓ 2442 469,7 5,20 6 Liguria ↑ 1348 349,3 3,86 7 Lazio ↓ 1337 361,5 3,70 8 Sicilia ↑ 4648 1483,9 3,13 9 Abruzzo ↓ 393 125,8 3,12 10 Puglia ↓ 2513 865 2,91 11 Calabria ↑ 1992 715,7 2,78 12 Toscana ↑ 1377 601,1 2,29 13 Friuli Venezia Giulia ↓ 250 111,7 2,24 14 Sardegna ↑ 906 1731,1 0,52 15 Basilicata ↓ 10 62,2 0,16

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

Entrando nel merito di ciascuna tipologia di reato ai danni del mare le

violazioni al codice della navigazione e alla normativa da diporto restano al primo posto con 9.009 reati accertati, pari al 43,4% del totale (in aumento rispetto alle 8.524 dello 2000). Seguono la pesca di frodo con 7.207 reati (erano stati 4.885 nel 2000), pari al 34,8% delle infrazioni totali, e i reati di abusivismo edilizio sulle aree demaniali costiere (3.898 contro i 2.829 del 2000). In calo, infine, i reati di inquinamento riscontrati dalle forze dell’ordine (602 nel 2001 contro i 2.616 del 2000).

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I PRINCIPALI REATI NEL 2001 Reato Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

% sul totale

Abusivismo edilizio sul demanio

3.898 3.973 504 18,8

Depuratori, scarichi fognari, inquinamento da idrocarburi

602 504 50 2,9

Pesca di frodo

7.207 1.164 5.769 34,8

Codice navigazione e Nautica da diporto

9.009 1.022 1.156 43,5

Totale

20.716 6.663 7.479 -

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

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4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti”

Non gli piace indossare il giubbotto salvagente. Naviga dove non è

consentito e a velocità sostenuta. Usa l’acquascooter dove non può. Non si preoccupa delle aree protette marine. Sembra questo l’identikit del “popolo dei naviganti” del Belpaese, stando ai numeri sulle infrazioni alla normativa da diporto fornite a Legambiente da forze dell’ordine e Capitanerie di porto.

I reati in questo settore sono per il secondo anno consecutivo in netta crescita: 9009 in totale nel 2001, mentre erano state 7.440 nel ’99 e 8524 nel 2000. Anche i numeri delle persone denunciate o arrestate (1.022) e dei sequestri (1.156) sono in forte aumento rispetto all’anno precedente (nel 2000 erano state rispettivamente 603 e 752).

Nella classifica regionale la Sicilia si conferma al primo posto con 1.919 infrazioni accertate, 66 tra denunciati e arrestati e 65 sequestri compiuti dalle forze dell’ordine. La Campania è al secondo posto con 1.202 reati (era terza nel 2000), mentre la Liguria sale sul podio dell’illegalità della navigazione in mare con 877 infrazioni alla normativa da diporto (si era classificata quinta nel 2000). Il Lazio scende dal secondo posto del 2000 al sesto dell’anno scorso, mentre la Calabria sale al settimo posto con 641 reati (era undicesima nello scorso dossier).

LA CLASSIFICA DELL’ILLEGALITÀ DELLA NAVIGAZIONE IN MARE NEL 2001

Regione Infrazioniaccertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Sicilia ↔ 1.919 66 65 2 Campania ↑ 1.202 99 405 3 Liguria ↑ 877 83 46 4 Veneto ↔ 818 418 29 5 Puglia ↑ 815 88 86 6 Lazio ↓ 723 22 167 7 Calabria ↑ 641 67 105 8 Toscana ↓ 587 66 16 9 Marche ↓ 391 18 5 10 Emilia Romagna ↔ 375 66 4 11 Sardegna ↓ 324 3 206 12 Friuli Venezia Giulia ↔ 147 18 13 13 Abruzzo ↔ 133 8 7 14 Molise ↔ 57 0 2 15 Basilicata ↔ 0 0 0 Totale 9.009 1.022 1.156

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

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Stilando la classifica delle tipologie di infrazione alla normativa da diporto, prima con oltre 3.600 reati accertati la mancanza dell’attrezzatura di sicurezza a bordo. Seguono la navigazione in zona non consentita (3.153 infrazioni) e il mancato pagamento della tassa di stazionamento (901). Chiudono, con 1.351 reati, il trasporto di un numero eccessivo di persone a bordo, il mancato rispetto dei limiti di velocità, la pratica dell’attività subacquea e dello sci nautico non a norma di legge.

I REATI AL CODICE DELLA NAVIGAZIONE E NAUTICA DA DIPORTO NEL 2001

Reato Numero di infrazioni

%

Mancanza di attrezzatura di sicurezza (giubbotto salvagente, razzi segnalatori,

autogonfiabili)

3.604 40%

Navigazione in zona non consentita (sottocosta, aree marine protette)

3.153 35%

Mancato pagamento tassa di stazionamento

901 10%

Altro (p.es. trasporto di persone non consentito, sci nautico non

regolamentare, eccesso di velocità, violazioni nell’attività subacquea)

1.351 15%

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle Capitanerie di porto

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5. Cemento in spiaggia Dai numeri sul demanio costiero preda del cemento selvaggio alla

rassegna degli ecomostri d’Italia, vecchi e nuovi. Ma anche degli ecomostri finalmente abbattuti dopo le battaglie di Legambiente e i blitz “Demolition day” di Goletta verde. Tutto in un paragrafo interamente dedicato al cemento illegale e non che deturpa i paesaggi costieri d’Italia.

5.1 La classifica regionale dell’abusivismo costiero

Nel 2001 la Sicilia è diventata la prima regione italiana per reati relativi

all’abusivismo sulle aree demaniali costiere. E non solo: i reati per abusivismo edilizio sul demanio marittimo siciliano sono passati dai 480 del 2000 agli 857 del 2001, per un aumento percentuale di oltre il 78%. A tal proposito vale la pena sottolineare come proprio lo scorso anno la Giunta regionale siciliana di Totò Cuffaro ha presentato un disegno di legge sul condono edilizio che, sebbene non sia ancora stato approvato, ha prodotto i suoi effetti malefici in termini di ripresa del fenomeno. E del resto i dati storici sul fenomeno dell’abusivismo edilizio in Italia dimostrano che gli abusi edilizi progrediscono dopo il semplice annuncio di un ipotetico condono.

La classifica, per il secondo anno consecutivo, vede le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) primeggiare in reati di abusivismo demaniale costiero. La Calabria scende al secondo posto con 654 reati (più o meno gli stessi consumati nel 2000), mentre Campania (557 reati) e Puglia (554) si confermano in terza e quarta posizione. Da segnalare il passo in avanti compiuto dall’Emilia Romagna, che dall’undicesimo posto del 2000 sale al quinto nel 2001, e quello all’indietro delle Marche, che dalla settima posizione scendono all’undicesima.

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LA CLASSIFICA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO SUL DEMANIO NEL 2001 Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Sicilia ↑ 857 793 93 2 Calabria ↓ 654 702 76 3 Campania ↔ 557 601 124 4 Puglia ↔ 554 554 52 5 Emilia Romagna ↑ 241 248 21 6 Toscana ↓ 229 244 30 7 Sardegna ↑ 219 313 22 8 Lazio ↑ 172 143 27 9 Liguria ↓ 163 100 33 10 Abruzzo ↔ 83 83 5 11 Marche ↓ 78 93 8 12 Veneto ↔ 60 61 6 13 Friuli Venezia Giulia ↑ 15 16 5 14 Molise ↓ 8 8 2 15 Basilicata ↔ 8 14 0 Totale 3.898 3.973 504

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

5.2 Ecomostri: abusivismo edilizio, cemento legale, progetti insensati, storie esemplari di aggressione al Belpaese

Anche quest'anno gli attivisti di Goletta Verde daranno vita a numerosi “demolition day”: ville, villaggi turistici, alberghi e lottizzazioni abusive e non, verranno “assaltate” simbolicamente dagli equipaggi del Pietro Micca e della Catholica. Bliz anti-ecomostro verranno organizzati inoltre nelle zone in cui progetti insensati minacciano di distruggere e deturpare cornici paesaggistiche e naturali uniche al mondo.

Una campagna che, oltre a denunciare vecchi e nuovi attacchi al patrimonio ambientale del Belpaese, vuole dare un segnale preciso per quanto riguarda la lotta agli ecomostri e all’abusivismo edilizio. Dopo la demolizione del Fuenti, quelle nell’Oasi del Simeto a Catania, Eboli, la collina del disonore di Pizzo Sella a Palermo, la Valle dei Templi di Agrigento, sul lungomare di Rossano, e l’Hotel Baia delle Ginestre a Porto Malu a pochi chilometri da Teulada, le ruspe demolitrici, dopo una fase di stallo, hanno riacceso i motori proprio in questi ultimi mesi, andando all’attacco di altri due ecomostri storici. Gli scheletri in cemento armato di Baia Punta Licosa a Montecorice in provincia di Salerno, oggetto di numerosi bliz di Goletta Verde, che da oltre un decennio deturpavano la baia, sono finiti sotto i cingoli delle ruspe. Il Villaggio

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Sindona che dal 1973 sfregiava una delle aree costiere più belle ed interessanti di tutta l’isola, edificato in piena zona A della Riserva Marina. Anche sull’Isola di Lampedusa, quindi, si può cantare vittoria, almeno per quanto riguarda un altro ecomostro. Infine, anche dalla Calabria arriva qualche timido segnale nella lotta all’abusivismo edilizio, in una regione che continua a vantare numeri da primato nazionale nelle costruzioni di nuove case illegali. Il 12 giugno scorso, infatti è stato abbattuto una struttura abusiva costruita sullo scoglio in località Fosso Lamia, nel comune di Stalettì, in provincia di Catanzaro, grazie anche all’intervento economico del ministero dell’Ambiente. “Abbiamo cancellato così una ferita inferta al paesaggio italiano” ha commentato il Ministro Altero Matteoli. Ma la speranza è che quest’intervento straordinario non rimanga un fatto isolato, episodico ma si trasformi ben presto nel nostro paese in “ordinario”, e che la lotta all’abusivismo edilizio e agli scempi ambientali diventi finalmente una priorità per gli organismi istituzionali.

Tuttavia gli altri segnali raccolti in quest’ultimo anno non sono stati incoraggianti, per usare un eufemismo. A cominciare dai progetti che aleggiano sulle rovine del "mostro" di Fuenti, che fanno pensare a quei mostri che …a volte ritornano. E poi i ritardi della legge anti-abusivismo, che consentirebbe di rendere più efficace e tempestivo l’intervento dello Stato, ma che non è riuscita a vedere la luce nella precedente legislatura e, sebbene sia stata ripresentata in questa attuale (primo firmatario Ermete Realacci), rimane intrappolata nelle secche parlamentari. E come se non bastasse la Giunta regionale siciliana di centro-destra ha rilanciato la proposta di sanatoria per tutte le costruzioni che si affacciano entro la fascia dei 300 metri dal mare camuffandola come “riordino delle spiagge”. Il provvedimento, passato all’esame dell’Assemblea Regionale, sebbene non sia stato approvato ha già prodotto effetti negativi. L’iniziativa ha scatenato un duro attacco da parte di tutte le associazioni ambientaliste alla Giunta Siciliana e rischia di aprire una falla insanabile nel nostro Paese nella lotta all’abusivismo edilizio e nel ripristino della legalità.

L'abusivismo, intanto, continua ad “erodere” territorio e paesaggi, si è interrotto immediatamente il ciclo virtuoso che sembrava esservi avviato nell’anno 2000, vale la pena ricordare che nel precedente Rapporto Maremonstrum, avevamo segnalato una brusca inversione di tendenza nelle costruzioni di case illegali nel nostro Paese, ben 4.663 ossia in altre parole una flessione percentuale del 13,8%, con punte superiore al 15% nel Mezzogiorno: nel 2001, invece, la “ritirata” del cemento selvaggio si è fermata al 2,3%; non siamo ancora all’inversione di tendenza, che pure si è registrata in alcune regioni, ma l’abusivismo, continua a rimanere su livelli inaccettabili per un Paese civile. Secondo le stime elaborate dal Cresme, nel 2001 sono state immesse sul mercato edilizio del nostro Paese ben 28.276 case abusive (tra nuove costruzioni e trasformazioni d’uso illegali) rispetto alle 28.938 del 2000, per un valore immobiliare di 1.785 milioni di euro. In un anno è stata ricoperta di cemento una superficie complessiva di 3,8 milioni di metri quadrati. Il 53,6% di questa enorme massa di cemento illegale, ovvero 15.150 case

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abusive, si concentra, e non è un caso, nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

Soltanto negli ultimi tre anni, grazie alla martellante campagna di Legambiente contro gli ecomostri, sono stati demoliti almeno mille edifici fuorilegge, una cifra forse superiore alle demolizioni realizzate negli ultimi 20 anni.

Di seguito vengono riassunte delle storie esemplari di pezzi di Belpaese aggrediti dal cemento selvaggio. …le new entry Le villette di Campobello di Mazara

Venti villette sequestrate, per un valore di circa 6 miliardi di vecchie lire e sei persone denunciate, è questo il risultato di un operazione antiabusivismo condotta dai carabinieri della Compagnia di Mazara, in contrada Tonnara di Tre Fontane, un area ad alte potenzialità turistiche, nel comune di Campobello. Ad essere finiti sotto i riflettori degli inquirenti, sono stati, oltre al proprietario accusato di aver violato le prescrizioni previste dagli strumenti urbanistici comunali nonché le normative statali e regionali, anche cinque funzionari dell’ufficio tecnico comunale, accusati di aver rilasciato concessioni edilizie illegittime. In particolare è stato accertato che una parte delle villette è stata edificata in una area che il Prg comunale destinava ad “zona verde di rispetto del litorale”, dove è consentita soltanto la realizzazione di strutture a carattere temporaneo di supporto alle attività balneari, dove il proprietario a pensato bene di costruire delle vere e proprie villette in cemento armato. Inoltre quest’area ricade interamente all’interno dei 150 metri della battigia, dove è vietato ogni genere di costruzioni. La questione, adesso, è in mano alla magistratura, sperando che al più presto venga risanata la grave ferita inferta all’ambiente siciliano. All’assalto del Tempio di Hera Lacinia (Crotone)

E’ partito il 19 gennaio scorso l’assalto all’ultima colonna dorica superstite del Tempio di Hera Lacinia sul promontorio di Capocolonna a pochissimi chilometri a sud di Crotone. A sferrare l’orribile attacco è stato il derrick, una torre alta una sessantina di metri di supporto alle attività estrattive, realizzato dall’Agip a pochissimi metri dall’insediamento archeologico. Vedendo il danno oggettivo che il derrick con la imponente struttura in acciaio compie, sorge spontanea una domanda: come può il Ministero per i Beni e le Attività Culturali consentire tale scempio? Come può non intervenire per scongiurare questo assalto al patrimonio archeologico? Senza entrare nel merito della validità o meno della concessione mineraria, ma l’interesse alla tutela e alla salvaguardia del nostra storia, della nostra cultura non è tra le fondamenta della nostra Costituzione? E se questo non bastasse, il derrick dell’Agip si trova in prossimità della zona A della Riserva naturale marina di

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Capo Rizzuto e per giunta in piena area del istituendo Parco Archeologico di Capo Colonna. La ripresa estrattiva sul promontorio non solo è incompatibile, quindi, con la presenza del futuro parco, ma anche con la situazione ambientale e geologica dell’area, caratterizzata da una particolare fragilità che rischierebbe di minare la stabilità e l’equilibrio non solo dei resti del Tempio di Hera Lacinia, ma dell’intero promontorio.

Legambiente, in considerazione della gravità della situazione rivolge un appello accorato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali affinché scongiuri l’assalto del derrick dell’Agip all’ultima colonna superstite del Tempio di Hera Lacinia.

L’ecomostro “legalizzato” di Pozzano a Castellammare di Stabia

“Un intervento di tipo conservativo delle strutture preesistenti rappresentando ciò … un obiettivo principale .. capace di garantire l’identità del complesso”: sono questi alcuni dei passaggi della Relazione descrittiva dell’intervento di recupero, approvata dalla Conferenza dei servizi il 30 ottobre 1998, dello stabilimento "Calce e Cemento" in località Pozzano a Castellammare di Stabia. Il complesso industriale costituito da un edificio a volte e da due torri dei forni si trova a 10 metri dalla statale per Sorrento e a due passi dal bagnasciuga, nella splendida cornice della penisola Sorrentina. Venne presentato come un progetto di recupero archeologico-industriale, di fatto del vecchio edificio a volte non è rimasto nulla, le due torre sono state solamente puntellate, al loro posto sono stati costruiti due edifici ex novo che diventeranno ben presto dei lussuosi alberghi, categoria quattro stelle, oltre 250 posti letti e come corollario una sala congresso e una paninoteca. Inoltre, il parcheggio è stato ottenuto dall’altra parte della strada sotto la montagna franata il 10 gennaio 1997, che ha causato la morte di quattro persone, in una zona ad altissimo rischio idrogeologico. L’intera operazione di “recupero” del vecchio cementificio grava come un macigno sul paesaggio dell’intera penisola Sorrentina, realizzato in un area di inedificabilità assoluta come regolamentato dal Piano paesistico della Penisola Sorrentina. Il grimaldello utilizzato è contenuto nella delibera del Consiglio regionale della Campania, la n. 53/1 del 18 novembre 1998, con la quale venne concessa una deroga al P.u.t. (Piano Urbanistico Territoriale della penisola Sorrentina) approvato con legge regionale n. 35 del 27 giugno 1987, che garantiva la permanenza dello stabilimento "Calce e Cemento" e il suo riutilizzo a fini turistici privato, nonostante le innumerevoli contestazioni mosse dall’opinione pubblica e dalle associazioni ambientaliste in prima fila Italia Nostra, Wwf e Legambiente, sull'opportunità di sottrarre al pubblico godimento uno dei più bei tratti di costa Sorrentina. Il gigante di cemento di Bassano a Torre del Greco

Sono più di trent’anni, ormai, che il gigante di cemento di Bassano a Torre del Greco (Na) continua a fare bella mostra di sé, proprio oscurando la

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torre saracena del 1600. L’albergo a forma di alveare, in parte realizzato illegittimamente su area demaniale (circa 20 metri in larghezza), con la sua imponente mole di sette piani, due in più rispetto ai cinque autorizzati, domina il bagnasciuga torrese. Sono queste alcune violazioni riscontrate nel maggio 2001 dalla Procura della Repubblica di Torre Annunziata.

La vicenda prende le mosse nel 1965 con il rilascio da parte del comune della concessione edilizia per la realizzazione di una serie di opere di edilizia residenziale e di un albergo sul mare.

Nel 1972 il comune di Torre del Greco si pronuncia sui manufatti dichiarando che l’albergo può essere realizzato mentre sorgono una serie di problemi per ciò che riguarda le case residenziali.

Nel corso del 1998 un’altra società subentra ai vecchi proprietari, la quale viene autorizzata dal comune a compiere solo lavori di ordinaria manutenzione, mentre la società di fatto lavora per ultimare l’albergo. Nel 1999 la Capitaneria di porto ha emanato un’ordinanza nella quale ha intimato alla proprietà della struttura di transennare la zona per pericoli di frana.

Ci troviamo davanti ad una situazione, da tempo già denunciata dai Circolo locale di Legambiente e dal Wwf, sempre più ingarbugliata, con l’ecomostro che continua a dominare imponentemente il litorale. L’assalto di cemento alla Baia di Campese (Isola del Giglio)

Una colata di cemento ha sommerso la baia di Campese davanti alla Torre Medicea sull’isola del Giglio. L’albergo realizzato lungo la via Provinciale in prossimità del centro abitato è arrampicato sul pendio che scende dolcemente a mare, rappresenta sicuramente uno scempio non solo visivo, ma soprattutto ambientale. Il cantiere, non ancora ultimato, è stato oggetto di numerosi sopralluoghi dell’Ufficio Tecnico comunale che hanno ravvisato notevoli violazioni urbanistiche in merito alle previsioni perimetrali e all’eccedenza di volumetria, ma soprattutto una difformità del progetto alle previsioni del Piano regolatore generale. Grazie, infatti, ad alcuni articifici tecnici, varianti, perizie geologiche ed ad una serie di sviste, è stata consentita la realizzazione di volumi notevolmente superiori rispetto alle indicazioni contenute nel PRG comunale. La questione ora è in mano al Tribunale amministrativo che dovrà pronunciarsi sulla regolarità delle procedure seguite. Il sipario sul lungomare di Sanremo

Cala il sipario sul lungomare di Sanremo. E’ questo il triste destino che incombe su di un tratto della passeggiata a mare denominata Trento-Trieste, uno dei pezzi più suggestivi e caratteristici della riviera ligure. Il rischio per gli appassionati frequentatori potrebbe ben presto trasformarsi in realtà se venisse ultimato l’albergo in fase di costruzione sul lungomare sanremese. Lo scempio prende le mosse da una errata rilevazione del dislivello, ormai acclarato tecnicamente, esistente tra le aree di sedime dove sono state impiantate le fondamenta dell’albergo e il livello della passeggiata. La differenza riscontrata è superiore ai due metri. Ma davanti a tali fatti, denunciati dal Circolo

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Legambiente di Sanremo, l’amministrazione comunale fa finta di nulla, considerando, anche, che non è il primo caso. Nel gennaio 1996, infatti, dopo la realizzazione di un primo lotto delle opere a terra del porto privato di Portosole, scoppia il precedente: una interpellanza consiliare solleva la questione dirompente delle altezze per un’altra infrastruttura di servizio al porto. I controlli successivi rilevarono che l’altezza del volume realizzato superava l’altezza della passeggiata e dei giardini di circa 1 metro, per un errore nelle tavole del Piano Particolareggiato e precisamente nell’indicazione della quota della passeggiata. Intanto la Soprintendenza sollecita l’Amministrazione Comunale ad “adottare provvedimenti cautelativi” e davanti all’inerzia della Giunta Comunale nell’agosto del 1997 esprime un severo giudizio di irregolarità delle opere eseguite e caldeggia il ripristino delle inquadrature panoramiche alterate. Inoltre, lo stesso Piano Particolareggiato L1 Portosole, per la realizzazione delle opere a terra a completamento del porto privato, prescrive esplicitamente la necessità di salvaguardare il litorale prevedendo che la localizzazione delle nuove volumetrie deve tener conto delle visuali godibili sia da mare che da terra nei confronti dei giardini di Villa Ormond.

Dall’Amministrazione comunale ancora nulla; anzi alla richiesta del Circolo di Legambiente di rivedere il Piano risponde affidando un incarico per un parere tecnico ad uno noto professionista, il quale - pur riconoscendo l’errore - arriva a sostenere che l’interesse pubblico attuale è quello di mantenere ciò che è costruito, seppure viziato. La storia si ripete, sperando che in questo caso, alla fine non cali il sipario. Teatro del Mare: l’ecomostro 2 di Sanremo

E’ li tronfio ed imponente, oscura oscenamente il paesaggio da tutte le angolazioni, occupa prepotente una zona di libero accesso al mare, fiero della ingombrante modernità. Una scelta scellerata, contro ogni regola e buon gusto. Sono queste alcune delle considerazioni fatte sul Teatro del Mare, l’Ecomostro 2, come è stato immediatamente etichettato, costruito in riva al mare di fronte alla Passeggiata Imperatrice, davanti ai Grandi Alberghi, al Casinò, Chiesa Russa, sul lungomare sanremese. La stessa Soprintendenza per i Beni ambientali di Genova ha dichiarato, fermo restando la provvisorietà che “la costruzione è molto avanzata sul mare, particolarmente vistosa, ingombrante e tipologicamente anomala, in contrasto con vincolo ambientale”. Di fronte a tale scempio la città si è indignata e mobilitata, come dimostrano le oltre tremila firme raccolte dal Circolo locale di Legambiente, in prima linea contro l’ecomostro, su di un esposto trasmesso alla magistratura e agli organismi regionali di controllo, per verificare la regolarità della struttura. Di fronte a tanto fervore, l’amministrazione comunale si affretta a dichiarare che si tratta di una struttura che non necessità di concessione edilizia, visto che è caratterizzata dalle condizioni di precarietà, eccezionalità, e di provvisorietà. I tecnici comunali ribadiscono che la struttura è “precaria” in quanto smontabile senza “atti demolitori”; la rete di putrelle sarebbe imbullonata e il basamento in

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cemento armato separato da fogli di pvc, quindi non ancorato al suolo. Le verifiche effettuate e documentate evidenziano che le putrelle sono saldate e non imbullonate, plinti e cordoli in cemento armato senza alcuna traccia di fogli di pvc di separazione, riempimenti di terra e pietrisco, rampe di accesso asfaltate. Gli stessi controlli effettuati dalla Regione hanno riscontrato delle difformità rispetto all’autorizzazione regionale.

La vicenda, inoltre, presenta notevoli zone d’ombra, ambiguità ed incertezze da chiarire, anche rispetto al rientro dei costi della struttura, in rapporto alla temporaneità dell’opera.

Sanremo e la sua costa, finalmente liberati dalla ferrovia, meritavano sicuramente altri destini. …. le vecchie conoscenze L’abusivismo edilizio nella Riserva marina di Capo Rizzuto

Ben 57 costruzioni abusive (10 nel comune di Crotone e 47 in quello di Capo Rizzuto) per 48.600 metri cubi, sono state individuate dalla Capitaneria di porto di Crotone, nell’area di demanio costiero della Riserva di Capo Rizzuto e nella fascia di rispetto.

Una morsa di cemento illegale, fatto di moli che si protendono in mare, porticcioli, fabbricati, muri di recinzione, piattaforme in cemento armato, porticati, che stringe e avvolge la stupenda riserva marina di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Tutte le gare fatte finora per demolire gli immobili sono andate deserte e nessuno, a cominciare dall’Ente gestore della Riserva, ha risposto alla stessa Capitaneria di Porto, che aveva dato la propria disponibilità a provvedere agli abbattimenti. E ancora oggi non si registrano novità volte a liberare questi luoghi.

Baia di Copanello

Siamo nel Comune di Stalettì, in provincia di Catanzaro, sulla costa ionica della Calabria. In uno scenario di straordinaria bellezza, “convivono” i due estremi, negativi e positivi, di tante aree del Mezzogiorno: l'ecomostro di cemento di Villaggio Lo Pilato, che con i suoi 16mila metri cubi deturpa la baia da oltre vent'anni; la tomba di Cassiodoro, il grande senatore e letterato romano del Vivarium, abbandonata a sé stessa nella più totale incuria e a pochi metri da un “illuminante” caso di scempio urbanistico. Sul Villaggio pende una ordinanza di demolizione del 1987, mai eseguita, e una gara di demolizione andata deserta. Alcuni mesi fa Legambiente ha presentato una denuncia le cui indagini sono ancora in corso. Capo Rossello

Capo Rossello è una baia nel tratto più bello della costa meridionale della Sicilia, nel comune di Realmonte (Agrigento). E’ un luogo di grande suggestione, reso unico da uno scoglio, chiamato, per via di una antica

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leggenda, “Do zitu e da zita”, cioè del fidanzato e della fidanzata, che si trova nel mare a trecento metri dalla spiaggia. La spiaggia di Capo Rossello, proprio per la sua straordinaria bellezza, è stata al centro delle mire speculative di un gruppo di politici e di imprenditori, denunciati e condannati dopo la pubblicazione di un dossier di Legambiente Sicilia. Nei primi anni Novanta, utilizzando uno strumento urbanistico scaduto ed in violazione del vincolo paesistico, alcuni assessori del Comune di Realmonte rilasciarono a sé stessi una serie di concessioni edilizie per realizzare palazzine in riva al mare, piantando i piloni nella sabbia e sbancando la costa di pietra bianca che completava il tratto costiero. Nel febbraio ’94, dopo la denuncia di Legambiente, l’intera Giunta Municipale, la commissione edilizia ed alcuni imprenditori furono tratti in arresto, processati e condannati. Si attende ancora, che il Comune demolisca lo scempio, fortunatamente bloccato. Assalto alla baia dei Turchi

Sempre in territorio di Realmonte (Ag), a pochi chilometri da Capo Rossello, in località Baia dei Turchi, si trova un altro monumento alla speculazione edilizia, realizzato illegalmente da un altro gruppo di palazzinari grazie a concessioni edilizie compiacenti. Si tratta del progetto di un albergo sul mare, su quel tratto di costa dove, come dice il nome, un millennio fa sbarcarono gli ottomani. L’intervento di Legambiente, obbligò la Regione ad annullare la concessione ed a bloccare i lavori. Anche in questa baia ancora oggi si attende l’arrivo delle ruspe demolitrici. Vico Equense

Gli scheletri dell'ecomostro di Alimuri, uno schiaffo all'immagine e al paesaggio naturalistico della penisola sorrentina, dal 1971 presidia maestoso una delle conche più belle del golfo di Napoli. Nel 1964 viene rilasciata la licenza per costruire, sulla spiaggia della conca di Alimuri, un albergo di 100 vani. Nel 1967 la licenza viene rinnovata per la costruzione di 50 vani più accessori per un altezza massima di 5 piani. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori ma il ministero della Pubblica Istruzione accoglie il ricorso proposto dal titolare della licenza. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di Fabbricazione, ma il Tar Campania nel 1979 ed il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. Nel 1986 i lavori sono sospesi dal Comune di Vico Equense perché si rendono necessari lavori di consolidamento del costone roccioso retrostante. Da allora, lo scheletro dell’albergo diventa un punto di ritrovo per la piccola delinquenza locale e per lo spaccio di stupefacenti, mentre tra i pilastri di cemento armato sorge spontanea una vera e propria discarica. Completare l'ecomostro di Alimuri avrebbe un duplice “effetto”: dare corso all'ennesimo assalto al patrimonio ambientale della penisola sorrentina e rendersi responsabili di un’opera a rischio, costruita alle pendici di un costone roccioso fragile, inserito nella zona rossa, quella a maggior rischio, dell'ultimo piano d’intervento per il dissesto

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idrogeologico realizzato dall'Autorità di Bacino del Sarno. Basti pensare che i solai del complesso di Alimuri risultano attualmente sfondati da numerosi "fori" del diametro anche superiore al metro provocati da ripetuti crolli di blocchi lapidei staccatisi dal costone. L'amministrazione comunale di Vico Equense ha fatto rientrare l'area tra quelle di maggior pericolosità, censite nel nuovo Piano di Protezione Civile Comunale. Il passaggio successivo è quello di predisporre tutte le procedure amministrative per arrivare all'abbattimento. L’isola dei Ciurli di Fondi

L’isola dei Ciurli, un'area agricola di grande valore paesistico, 21 scheletri in cemento armato illegali aspettano da decenni di essere demoliti. Il Tar di Latina con una sentenza dell’ottobre 1997 ha giudicato l'intero complesso abusivo. Il Comune di Fondi, anziché avviare le procedure per l’acquisizione della lottizzazione al patrimonio pubblico e prevedere un piano di demolizione degli edifici, ha invitato i titolari della lottizzazione a sospendere i lavori e a presentare una proposta di lottizzazione. Il 29 settembre 1998 il Consiglio comunale di Fondi ha approvato il “progetto di lottizzazione convenzionato e relativo schema di convenzione”. Questo è l’ultimo passaggio di una lunga storia iniziata nel 1968 che attraverso provvedimenti di sospensione dei lavori, sequestri giudiziari e ordinanze di sanatorie si è trascinata fino ai nostri giorni. Il Circolo Legambiente di Fondi, da tempo in prima linea contro l’ecomostro, ha presentato contro la decisione del Comune un esposto alla Procura della Repubblica di Latina. Gli scheletri di Agrigento

Dopo la demolizione di uno degli edifici di proprietà di un mafioso che, da tempo deturpavano una delle aree archeologiche più importanti e suggestive d’Italia e del mondo, si è aperta agli inizi di quest’anno una nuova stagione di abbattimenti. Il Ministero dei Lavori Pubblici e il comitato istituito presso il provveditorato per le Opere Pubbliche della Sicilia, con il positivo contributo dell’Assessore ai Beni Culturali e Ambientali regionale, Fabio Granata, e dell’allora Sottosegretario ai Lavori Pubblici, Antonio Mangiacavallo, hanno dato il via libera all’abbattimento di altri sei scheletri nella Valle dei Templi, sbloccando una situazione di stallo che si protraeva da tempo. Purtroppo resta ancora tanto da fare per liberare il Parco archeologico dal cemento selvaggio. Sono circa 600, infatti, le abitazioni realizzate illegalmente nell'area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta. Simeto: un'oasi a rischio

Complessivamente sono 550 le case abusive da demolire, realizzate all’interno dell’Oasi del Simeto in Provincia di Catania. Ad oggi ne sono state abbattute, dalla precedente amministrazione guidata da Enzo Bianco, circa 60. Una colata di cemento per un totale di 250mila metri cubi, ossia 6 volte la volumetria del Fuenti. Un altro segnale positivo nella vicenda è arrivato dal Tar siciliano, che ha sospeso il Decreto regionale con il quale si riduceva

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drasticamente la zona B di pre-riserva, determinando di fatto la sanatoria anche delle costruzioni abusive assolutamente incompatibili con i valori naturalistici della riserva. Sono passati due anni dallo stop agli abbattimenti imposto dalla nuova amministrazione comunale, mentre si era in attesa dei procedimenti di autodemolizione da parte dei proprietari, in virtù dei quali dovevano essere abbattute 40 costruzioni, per 20 è stato presentato ricorso, mentre delle restanti 20 ne sono state abbattute 3 o 4. L’Oasi del Simeto, alla foce dell’omonimo fiume, è una delle aree umide di maggior pregio ambientale d’Italia, dove ancora oggi transitano e nidificano rare specie di uccelli migratori. Legambiente chiede che si prosegua, senza ripensamenti, l’opera di abbattimento delle costruzioni illegali e di recupero dell’Oasi. Le ville di Pizzo Sella

Un milione di metri quadri di collina scoscesa e rocciosa sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico lottizzati abusivamente, 314 concessioni edilizie rilasciate illegittimamente dal Comune di Palermo in una zona destinata a verde agricolo, l59 unità immobiliari realizzate, il tutto corredato da opere di urbanizzazione primaria, strade, fognature, impianto di illuminazione, ecc. Si tratta delle ville di Pizzo Sella, a Palermo, un altro ecomostro il cui caso è quasi chiuso: le case abusive costruite sul promontorio palermitano di Pizzo Sella, ribattezzata la collina del disonore, vanno confiscate e il danno ambientale prodotto deve essere risarcito. Lo ha stabilito la sentenza emessa il 29 gennaio 2000 dal giudice Lorenzo Chiaramonte, che ha condannato dieci tecnici, funzionari comunali e imprenditori, accusati di aver partecipato a vario titolo ad un’enorme speculazione edilizia. Diversi lotti di terreno con rispettiva villetta sono stati "donati" ad alcuni tecnici e funzionari comunali, per facilitare e rendere possibile il rilascio delle concessioni. In particolare, il progettista del complesso edilizio allo stesso tempo faceva parte della commissione edilizia che dava il parere sulle concessioni e naturalmente aveva esercitato la sua influenza affinché i progetti fossero approvati senza problemi. Particolare non trascurabile, infine, le concessioni edilizie figuravano intestate alla sorella del noto boss mafioso Michele Greco il "papa della mafia". Una colossale speculazione immobiliare che nasconde un’imponente operazione di riciclaggio di denaro “sporco” da parte di Cosa Nostra. Dopo la demolizione dei primi scheletri, la sentenza apre adesso una pagina completamente nuova in questa vicenda, premessa indispensabile per la demolizione delle oltre 300 costruzioni illegali che da più di vent'anni deturpano la collina.

La “saracinesca” di Bari

Il 29 gennaio 2001 la Corte di Cassazione ha reso definitiva la sentenza emessa nel 1999 dal giudice per le indagini preliminari di Bari, Maria Mitola: l’ecomostro di Punta Perotti, 300mila metri cubi di cemento costruiti sul lungomare di Bari, è abusivo, annullando, così la sentenza della Corte d’Appello di Bari che aveva assolto gli imputati perché il fatto non sussisteva e restituito l’ecomostro di Punta Perotti ai proprietari. La sentenza, definitiva,

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prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dei due grattacieli e delle aree di sedime in cui sono stati realizzati e, soprattutto, non lascia margini di equivoco sul futuro della Saracinesca: le costruzioni devono essere abbattute. Spetta ora all’amministrazione comunale dare corso all’ultimo atto di una lunga vertenza, che ancora tarda a venire.

Nel frattempo Legambiente, in collaborazione col Ministero dei beni culturali, ha inserito Punta Perotti tra le aree oggetto di un concorso internazionale di progettazione, al fine di promuovere idee per la riqualificazione del tratto costiero violato dalla “Saracinesca”.

Una vertenza cominciata, grazie anche all’impegno dei Centri di azione giuridica di Legambiente Puglia, subito dopo l’avvio dei cantieri, nei primi anni Novanta, e che è proseguita, tra alti e bassi fino al gennaio scorso: prima la decisione del Gip di Bari, poi la revoca della sentenza in Corte di appello; infine la decisione della Terza sezione penale della Cassazione, che ha posto la parola fine a questa sorta di “telenovela” giudiziaria. Resterà comunque alta, in attesa della demolizione dei due grattacieli, l’attenzione verso le scelte che la Regione Puglia e l’amministrazione comunale di Bari porteranno avanti sotto il profilo urbanistico. Troppo a lungo, infatti, in questa terra, accanto ai fenomeni squisitamente illegali, è prevalsa la logica delle cementificazioni a tutti i costi, anche in barba ai vincoli previsti dalle normative nazionali, legge Galasso in testa.

La “Pietra” di Polignano a Mare

Nel febbraio del 1998 è scattata l'operazione “Pietra Igea”, condotta dagli uomini del Coordinamento provinciale del Corpo forestale di Bari su delega del sostituto procuratore Roberto Rossi contro una lottizzazione abusiva nel Comune di Polignano a Mare. L'area, in località Ripagnola, si estende su quattro ettari, e al momento del blitz già ospitava un volume complessivo di oltre 20.000 metri cubi di cemento: un complesso turistico, con albergo e villini annessi. Diciannove i “corpi di fabbrica” già sequestrati nell'area soggetta a vincolo paesaggistico, sette gli avvisi di garanzia emessi nei confronti dei responsabili di questo scempio. Villaggio Coppola: un paese abusivo

Dune mobili e una splendida pineta di proprietà demaniale costituivano la cornice di uno stupendo paesaggio unico nel suo genere: si presentava così il litorale domiziano in provincia di Caserta. Ora su quella dune c'è un “paese privato” di oltre 15.000 abitanti, il Villaggio Coppola “Pinetamare”, un mostro di pietre e cemento lungo quattro chilometri costituito da otto grattacieli identici di dodici piani, con almeno ottanta appartamenti l'uno, 1300 posti auto, hotel e residence, pizzerie e rosticcerie, un porto privato per seicento posti barca, una chiesa e un cinema.

La lottizzazione risale ai primi anni '60. A realizzarla fu la Società immobiliare Fontana Blu di proprietà dei fratelli Coppola, di Aversa. Nel 1995 scattano i sequestri disposti dal sostituto procuratore Donato Ceglie, inizio di

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una lunga vicenda giudiziaria che non ha ancora visto la parola fine. Nel frattempo le ruspe (pagate da chi aveva costruito abusivamente) hanno terminato d’abbattere la sopraelevata del Parco Saraceno, 800 metri di asfalto abusivo che collegavano la darsena con le strade principali. Una nuova primavera per il Villaggio Coppola, sul quale pendono ben 165 procedimenti penali, è iniziata. Questa accelerazione è dovuta, in buona parte, all'insediamento dell’allora Commissario Straordinario di Governo per le aree del territorio di Castel Volturno, il Prefetto Mario Ciclosi. Finalmente si passa ad una nuova fase, più incisiva, nella gestione della vicenda: sono nominati due Comitati operativi, nazionale e periferico, per coordinare le diverse attività e gli interventi. Nel frattempo 101 ettari della Pineta Grande, sopravvissuti al degrado, sono stati affidati al Corpo Forestale per un periodo sperimentale di tre anni, in modo che siano garantiti manutenzione e ripristino del verde. Ma il progetto di recupero del Villaggio Coppola non si deve fermare: una torre è già stata abbattuta, ma occorre demolire le altre sette torri abusive e dare corso al progetto di riqualificazione dell’intera area. Gli interventi per il ripristino della legalità in una zona già tanto danneggiata, passa necessariamente attraverso il rigoroso rispetto della legge sull’abusivismo e il divieto assoluto di nuove concessioni. Lo Spalmatoio di Giannutri

Una lunga fila di fatiscenti immobili in cemento armato per circa 11.000 metri cubi, fa bella mostra di sé da oltre 10 anni nell'insenatura dello Spalmatoio a Giannutri, isola che fa parte del Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano. Delle costruzioni, iniziate negli anni '80 dalla società Val di Sol e poi interrotte, rimangono oggi alcuni scheletri in cemento e qualche villetta in completo stato di abbandono. Dopo oltre 10 anni di oblio, la nuova società che ha acquisito gli immobili ha chiesto al Consiglio direttivo dell'Ente Parco il nulla-osta per “recuperare” il complesso. L'Ente Parco è in attesa di documentazione aggiuntiva dal Comune del Giglio (nel cui territorio rientra Giannutri) per chiarire una vicenda che presenta diversi lati oscuri. Il complesso residenziale di Fossa Maestra

"A trenta metri dall'incantevole spiaggia di Marina di Carrara, la Società Casa Fiorita 2 sta costruendo un complesso immobiliare denominato Residence Paradiso, formato da tre piccoli gruppi di ville a schiera immersi nel verde": così nel dicembre del '92 veniva pubblicizzato su alcuni giornali la costruzione del complesso residenziale di "Fossa Maestra", in un'area dove il Piano regolatore prevedeva "attrezzature collettive balneari". Il circolo Legambiente di Carrara nell'aprile '93 ha presentato un esposto alla magistratura; nel luglio '95 il pretore ha condannato i responsabili a 20 milioni di multa "per aver realizzato un albergo in contrasto con quanto previsto dal Prg e per aver realizzato l'edificio in difformità rispetto alla concessione edilizia rilasciata dal comune". La sentenza è stata successivamente confermata in Cassazione. Sono passati quattro anni ma lo scheletro è ancora in piedi,

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impedendo ogni possibilità di ripristino e recupero dell'area umida, prevista dal Piano strutturale in vigore. Quest’anno Legambiente Carrara ha organizzato nella stessa spiaggia l’operazione spiagge pulite per chiedere al Comune di abbattere, che continua a fare “orecchie da mercante”. Lo "scheletrone" di Palmaria

Circa 10.000 metri cubi di cemento incombono sul paesaggio del Parco Regionale delle Cinque Terre. Uno scheletro abusivo alto 30 metri nel Comune di Portovenere di cui Legambiente chiede la demolizione e il recupero dell'area, tra le più suggestive di Palmaria.

La vicenda inizia nel 1975 quando il Sindaco di Portovenere rilascia una concessione edilizia per la realizzazione di un albergo e di un residence di 45 appartamenti, con annessi servizi e infrastrutture. Nello stesso anno la Pretura blocca la speculazione, mette sotto sequestro il manufatto e rinvia a giudizio i titolari della società lottizzatrice, il Sindaco e l'impresa. La sentenza è poi confermata anche in appello. Si attende ancora un intervento della Giunta regionale. La Giunta comunale di Portovenere ha votato una delibera che rigetta definitivamente la richiesta di condono presentata dai proprietari. Il 23 maggio scorso è stato raggiunto un accordo tra la regione Liguria, il Comune di Portovenere e la Sovrintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria che dovrebbe portare all’abbattimento dello scheletrone di Palmaria che da oltre 30 anni sfregia uno dei tratti di costa più belli della Liguria. L’Hotel Castelsandra nel Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diana (Comune di Castellabate – Salerno)

Un vasto complesso immobiliare a destinazione alberghiera costruito su di una collina, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diana. Siamo nel comune di Castellabate in provincia di Salerno dove, a partire dalla meta degli anni ’80, in assenza di qualsivoglia lecito titolo concessorio, in una zona incontaminata soggetta a vincolo di inedificabilità e destinato all’uso civico boschivo, è stato costruito l’Hotel Castelsandra. Il complesso alberghiero è stato confiscato perché ritenuto oggetto di reinvestimento e di riciclaggio di attività illecite e criminali da parte del clan camorristico dei Nuvoletta.

Sull’annosa vicenda che va avanti ormai da un decennio sembrerebbe comparire la parola fine. Il Sottosegretario di stato per l’economia e la finanza Maria Teresa Armosino, nella seduta della Camera dei deputati del 28 novembre 2001 ha espressamente risposto in merito all’interrogazione parlamentare sull’Hotel Castelsandra che: “l’area interessata dalla costruzione e contraddistinta da un vincolo di inedificabilità assoluta, prevista dal Piano regolatore generale adottato dal Comune di Castellabate. Di conseguenza l’edificazione realizzata non è neppure suscettibile di un provvedimento di sanatoria edilizia”. Inoltre, “Il soggetto giuridicamente tenuto a procedere ad ogni attività occorrente per la demolizione secondo le regole tipiche dettate in

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argomento dalla legge n.47/85 è il Comune di Castellabate. Solo in caso di inerzia ingiustificata del comune, l’ente parco nazionale potrà ad esso sostituirsi, attivando le procedure di demolizione e rivalendosi, successivamente, sul comune per i costi sostenuti”. Le villette abusive di Piscina Rey a Muravera

Dopo una lunga vicenda giudiziaria fatta di appelli e riforme parziali di sentenze, il 9 aprile 1999 la Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza di demolizione per un complesso immobiliare di villette a schiera per migliaia di metri cubi costruito in un’area ad uso civico lungo la costa di Muravera. Dopo sette pronunce giurisdizionali non è stato ancora demolito nulla. Il “moncone in cemento armato” a Mondragone

Lungo il lungomare di Mondragone continua a fare bella mostra di se da oltre vent’anni un moncone di cemento armato mai ultimato, un pontile d’attracco che parte dalla terra ferma, attraversa l’intero arenile e si protrae per qualche decina di metri nel mare. Il progetto originario risalente al 1971, prefigurava un pontile di attracco per piccole imbarcazioni, che si sarebbe dovuto addentrare per oltre 256 metri nel mare e consentire così, anche, una gradevole passeggiata panoramica. I lavori partiti agli inizi degli anni ’80 non sono mai stati ultimati, non solo per lungaggini tecnico-burocratiche, ma soprattutto per lo stop decretato il 20 settembre 1990 dall’allora Ministro dei Beni Culturali e Ambientali che ritenne l’opera incompatibile con la vocazione turistico-balneare dell’area. Una colata di cemento senza futuro che continua a sfregiare e deturpare il litorale: dopo la pronuncia del Consiglio comunale per l’abbattimento si attende, auspichiamo al più presto, l’emissione dell’ordinanza di demolizione per liberare il litorale dal moncone di cemento. 5.3 L’assalto alle coste: i casi esemplari 5.3.1 Il cemento nel Golfo di Taranto

Centocinquanta chilometri di villaggi e porti turistici ridisegneranno il profilo di due intere province costiere, quella di Taranto e quella di Matera. Decine di migliaia di nuovi posti letto e posti barca all’interno di zone umide e Siti di Importanza Comunitaria, una vera e propria città distesa lungo il litorale, viva solo per qualche settimana e poi abbandonata e deserta per il resto dell’anno. Stiamo parlando del progetto di trasformazione forse più rilevante, per numeri ed estensione territoriale, che si sia mai verificato nel nostro paese. Paragonabile a quanto accaduto qualche decennio fa sulla Costa Smeralda, con risvolti socioeconomici da non sottovalutare. Il risultato sarà il completo stravolgimento di un territorio omogeneo, caratterizzato da un fronte a mare basso e sabbioso, da dune e da un entroterra con una fitta pineta interrotta dal passaggio di numerosi corsi d’acqua e da quanto rimane di quella che una volta era una delle più importanti zone umide della nostra penisola.

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Sono due gli elementi di punta di questo megainsediamento: per la provincia di Taranto il progetto Nuova Concordia a Castellaneta Marina, mentre sulla costa materana a fare da apripista ci pensa la Cit Holding con un megaprogetto a Scanzano Jonico.

Ma procediamo con ordine: il progetto Nuova Concordia, all’interno del quale insiste il famoso villaggio Valentino, è stato addirittura oggetto di uno specifico Accordo di Programma che ha previsto lo stanziamento di ben 520 miliardi da parte del Cipe per un’opera che interesserà 300 pregiatissimi ettari di territorio a ridosso di una riserva biogenetica. Proprietario dell’intera struttura è il gruppo imprenditoriale Putignano, una delle imprese più quotate del settore nel Sud Italia. Qualche settimana fa i carabinieri hanno apposto i sigilli al cantiere per le irregolarità riscontrate in materia di sicurezza sul posto di lavoro. Ancora una volta quindi l’imprenditoria arruffona e fuorilegge, che dietro il doppiopetto nasconde in realtà atteggiamenti che di manageriale hanno poco o nulla. Il blitz dei Carabinieri ha riscontrato che la pratica del sub appalto era la norma all’interno del cantiere, alla vista delle forze dell’ordine buona parte degli operai si sono dati addirittura alla fuga. Secondo quanto denunciato dalla Fillea Cgil di Taranto, più del 41% dei lavoratori del settore edile di Taranto e provincia sarebbe irregolare, per 2500 operai quindi non ci sarebbe alcuna forma di tutela contrattuale.

Procedendo sempre in provincia di Taranto si incontrano due villaggi turistici progettati e approvati a Ginosa Marina, a ridosso del Lago Salinella, al centro di una storica battaglia di Legambiente. Nei pressi dell’ex alveo del fiume Bradano, il lago Salinella è considerato la più importante zona umida della provincia di Taranto, meta di circa 150 specie diverse di uccelli, tra i quali esemplari di airone cinerino e cigno reale. Nonostante i numerosi vincoli esistenti sull’area il P.R.G. del Comune di Ginosa prevede proprio qui la realizzazione di villaggi turistici. E ancora, proseguendo lungo la costa, la lottizzazione Perronello Catalano e i villaggi turistici progettati all’interno della pineta Marinella sulla spiaggia di Chiatona. La situazione non cambia a levante della città di Taranto: qui si comincia con il villaggio turistico con annesso porticciolo in località Blandamura a Talsano, e si prosegue con i villaggi turistici delle società Kira e Ondablu a Lido Silvana e a Torretta, fino ad arrivare a Baia Colimena dove è progettato un porticciolo turistico. A poca distanza un altro porto turistico, in questo caso si tratta del raddoppio di quello già realizzato a Campomarino, una località sulla quale si concentrano numerosi progetti speculativi, dal Progetto Mirante (180 miliardi di lire in strutture ricettive su 40 ettari di costa con retroduna ancora intatta) al Messapia Golf club & resort, 120 miliardi di lire in alberghi, minialloggi, villaggi turistici per un totale di oltre 300.000 metri cubi da realizzare all’interno della riserva naturale della foce del fiume Chidro.

Altrettanto critica la situazione lungo il tratto di costa jonico lucana. E’ un altro accordo di programma ad aprire qui la strada alla realizzazione di villaggi, porti turistici e divertimentifici vari. E’ quello siglato tra il Ministero del Tesoro e la Cit Holding per oltre 200 miliardi di lire (la metà a carico dello

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Stato) per realizzare quattro progetti di villaggi turistici e alberghi su oltre 200 ettari di territorio del Comune di Scanzano Jonico. Ma villaggi turistici sono previsti lungo tutti i 47 km di costa lucana, a cominciare dai due porticcioli turistici a Lido di Metaponto e dall’ampliamento dei villaggi Argonauti, Ti Blu e Le Dune nelle vicinanze di Marina di Pisticci, proseguendo con un altro porto turistico e il villaggio Marinagri a Lido di Policoro, per concludere a Nova Siri, al confine con la Calabria, con il villaggio turistico Akiris, in parte già realizzato e un ulteriore porto turistico. Tirando le somme si prevede di realizzare 15.000 nuovi posti letto e 1.650 posti barca in poche decine di chilometri sui quali già esistono 11.500 posti letto, 4 Siti di Importanza Comunitaria e una Zona di Protezione Speciale.

La costa jonica ha già subito, nel volgere di un secolo, il grave stravolgimento passando da zona umida ad area agricola (con le bonifiche ed i rimboschimenti degli inizi del ‘900), perdendo importanti biotopi di foresta planiziaria (Policoro), sostituendo le molteplici varietà vegetazionali tipiche delle zone umide con monospecie resinose e conifere, eliminando le aree di laminazione ed espansione delle foci dei fiumi lucani, modificando i regimi dei venti di costa con la pineta e spostando più a monte i trasporti eolici salini, alterando la falda acquifera sottocosta, accentuando le modificazioni della linea di costa con le canalizzazioni e le idrovore.

Con la riforma agraria sorgono anche i primi insediamenti urbani (Scanzano, Metaponto Borgo) e si creano le premesse per le espansioni di nuovi abitati (Policoro, Nova Siri), mentre nascono i primi insediamenti balneari (Metaponto, Ginosa Marina, Castellaneta, e più recentemente Pisticci).

Il grande reticolo viario esistente in tutta l’area, le reti e servizi realizzati negli ultimi decenni per servire gli insediamenti agricoli sparsi o concentrati sono un ottimo supporto per la crescita insediativa nel metapontino. Più recentemente si espandono gli insediamenti balneari di Castellaneta (Il Valentino e Nova Yardinia che occuperà oltre mille ettari con fondi europei per il 50% su 600miliardi); Ginosa (lottizzazione alle Salinelle), Metaponto Borgo e Lido (numerose lottizzazioni e villaggi in costruzione), 48 (Porto degli Argonauti-Nettis Resort e complesso residenziale alla foce del Basento), Scanzano, Policoro (porto alla foce dell’Agri e numerosi complessi turistici) e Nova Siri con il rafforzamento di complessi residenziali turistici più o meno riservati. Nascono i complessi mimetizzati direttamente nella pineta: Riva dei Tessali, Club Med, il Valentino, etc. e si moltiplicano i campeggi e gli stabilimenti balneari che perdono sempre più la caratteristica di removibilità, diventando dei veri insediamenti in cemento direttamente sulle spiagge.

Qui dunque si stanno realizzando oltre cinque milioni di metri cubi di fabbricati, una grande città, senza essere una città, con l’accordo stretto tra amministratori e funzionari regionali, imprenditori, sindaci. Insediamenti turistici per almeno 300mila persone, con un forte turn over e richiamo in tre mesi di almeno tre milioni di turisti su un rettangolo di 45 km x 6.

Tre, quattro o cinque porti turistici, uno per ogni foce di fiume (porto canale sul Bradano a Metaponto, porto degli Argonauti alla foce del Basento,

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porto turistico all’ittica val d’Agri, etc.), e poi ipermercati, acqua park, mega discoteche, parcheggi di scambio, centri benessere. Tutta roba che richiede tanta energia, da fornire di acqua potabile, da dotare di depuratori, di discariche, di strade, fogne, pubblica illuminazione, sistemi di sicurezza; con flussi concentrati nel tempo e nello spazio, con modificazioni territoriali irreversibili, con perdita secca del valore paesaggistico ed ambientale.

Tutto questo senza essere una città, di fatto vuota per più di 9 o 10 mesi l’anno, ma costando alle comunità per tutto l’anno.

Questa nuova città sta sorgendo in un posto di grande sensibilità almeno sotto altri due profili, oltre quelli paesaggistici ed ambientali, quello storico e quello della sicurezza.

La Magna Grecia ha lasciato importanti segni della sua storia sulle popolazioni locali, sugli insediamenti urbani esistenti, sul territorio e sull’agricoltura, tracce che sono percepibili e che arricchiscono i viaggiatori curiosi.

Mentre sulla costa si costruiscono nuovi pseudo villaggi, all’interno si spopolano i centri storici di tutti i paesi lucani. Il recupero e la rivitalizzazione dei paesi della collina e dell’Appennino lucano possono rappresentare un investimento positivo ed una seria diversa prospettiva per il turismo e la ospitalità diffusi. I paesi della collina e dell’Appennino sono situati giusto a corona della fascia jonica, con tempi di percorrenza raramente superiori ai 30 minuti. Questi centri necessitano solo di interventi diffusi ed attenti. Il rischio idrogeologico della fascia jonica

Il Piano provinciale di emergenza della Protezione Civile predisposto dalla Prefettura di Matera indica la fascia jonica come ad altissimo rischio idrogeologico. L’evento di riferimento è quello accaduto nel novembre del 1959. Solo tre giornate di intense pioggie, con max di 300 mm. nelle basse valli dei fiumi lucani, furono sufficienti, accanto ad un persistente vento sciroccale, perché l’intera area metapontina, da Ginosa a Nova Siri, finisse sott’acqua e ci fossero anche delle vittime. Nessuno dei fiumi lucani riusciva a sfociare in mare, i livelli di guardia furono superati a partire dal medio corso degli stessi fiumi, furono interrotte le comunicazioni viarie e ferroviarie su tutta la linea jonica per molti giorni, l’energia elettrica mancò per due settimane, l’acqua potabile per oltre un mese. A Metaponto Borgo il livello dell’acqua raggiunse i secondi piani delle case appena costruite dall’Ente Riforma; parte della linea ferroviaria fu sepolta da oltre due metri di fango e limo per una lunghezza di circa venti chilometri. Nel novembre del 1959 i danni furono limitatissimi in confronto a quelli che si verificherebbero oggi ed insignificanti rispetto a quelli che si potrebbero verificare in futuro a fronte di un evento simile. Alla fine degli anni ’50 nel metapontino vivevano meno di 10mila persone (oggi sono quasi 40mila), l’agro era ancora in grado di assorbire discreti scrosci di pioggia (fino a 20 mm/h), le foci dei fiumi erano sostanzialmente libere mentre oggi sono tutte “urbanizzate” o regimentate da varia viabilità. Si può stimare che la superficie impermeabilizzata della fascia

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jonica fosse meno del 5% del totale nel 1960, che sia del 10% oggi e che sarà del 25-30% se si dovessero realizzare i diversi complessi edilizi e turistici previsti.

Proviamo ad immaginare quale effetto avrebbe sul territorio un evento come quello del novembre del 1959. Le capacità di intervento della Protezione Civile sono aumentate, ma non si potrebbe evitare l’esondazione dei fiumi, che siano investite le strutture, travolti i porti canali, sepolti i servizi ed i sotto servizi, che un numero di molte migliaia di cantine, appartamenti sotterranei, garage, depositi siano investiti dal fango, che le falde superficiali producano sommovimenti ai fabbricati. Possiamo sperare che la crescita del livello dell’acqua ed il suo deflusso avvengano in tempi medio lunghi, avremmo danni solo dall’acqua e dal fango, se i deflussi dovessero essere repentini, per via del calo improvviso dello Scirocco, avremo un importante fenomeno di trascinamento verso il mare con grave accentuazione dei danni.

Tutto ciò considerato crediamo che l’utilizzo a fini turistici della costa jonica debba essere fatto con grande attenzione, evitando di incrementare le impermeabilizzazioni, investendo sull’esistente dei centri storici, con una scelta di discrezione, di rispetto e non di omologazione a modelli che non appartengono alla nostra storia e che fanno solo danni al nostro territorio. 5.3.2 Sicilia Il condono edilizio

Affrontando il tema della crisi della pianificazione e dei rischi della deregulation urbanistica in Italia, in Sicilia non si può non soffermarsi sul fenomeno dell’abusivismo edilizio che, lungi dall’essere in una fase recessiva come qualcuno sostiene, come un virus mutante sta cambiando forma, diventando sempre più aggressivo e devastante non solo dal punto di vista paesaggistico-ambientale, ma soprattutto da quello sociale. E’ un’aggressione “stabilizzata” potremmo dire: nell’anno appena trascorso sono andate infatti deluse le aspettative di chi puntava su un’ulteriore marcia indietro del fenomeno. Nel 2000 infatti la costruzione di nuove case abusive in Italia ha visto una flessione del 13,8%, rispetto al 1999, con punte fino al 15,7% nel Mezzogiorno e nelle Isole. Era l’epoca degli abbattimenti: Valle dei Templi, parchi del Vesuvio e del Cilento; e poi nel 1999 era venuto giù il Fuenti. Insomma la comparazione tra il trend dell’abusivismo e l’attività demolitoria segnava un processo virtuoso che ora è stato interrotto. Non si abbatte più e allora ecco che nell’ultimo anno quella flessione nell’attività abusiva che era stata del 13,8%, si è ridotta ad appena il 2,3%: un segnale importante che dovrebbe allarmare tutti.

In Sicilia, nel 2001, sono state costruite 4.494 nuove case abusive, un dato che in realtà è ben più grave visto che ai censimenti sul patrimonio edilizio abusivo, sfuggono quasi tutti gli abusi, ed oggi ne rappresentano una parte consistente, che vengono realizzati nelle aree rurali attraverso l’uso di concessioni fasulle, formalmente rilasciate per la realizzazione di manufatti

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legati alla produzione agricola (magazzini agricoli ed opifici per la trasformazione dei prodotti agricoli), ma in realtà finalizzate alla costruzione di ville e villette da usare come residenze stagionali.

Solo in pochi casi tali abusi vengono denunciati e pertanto difficilmente possono essere censiti. Nonostante la sottovalutazione di questo fenomeno, possiamo senza retorica affermare che si tratta della nuova frontiera di un abusivismo edilizio contro il quale, purtroppo, si fa sempre meno.

Anzi, va denunciato il fatto che proprio questa nuova recrudescenza dell’abusivismo edilizio trova negli uffici tecnici comunali coperture e complicità, come sta venendo a galla nell’inchiesta giudiziaria relativa alla lottizzazione abusiva denunciata da Legambiente ad Agrigento, in località “Timpa dei Palombi”.

Si tratta di un caso veramente emblematico: in un’area di particolare pregio a ridosso della fascia costiera, zona agricola del PRG vigente, negli anni che vanno dal 1997 al 2000, quattro grandi lotti di terreno sono stati frazionati in oltre cento particelle di circa 2.500 mq ognuna. Dimensione certamente poco adatta alla localizzazione di aziende agricole, ma coincidente con il lotto minimo comunale.

Con una solerzia mai vista prima, l’Ufficio tecnico ha rilasciato nel periodo a cavallo tra la fine del 1999 e l’anno 2000 oltre settanta concessioni ricadenti su questi lotti. Le concessioni hanno formalmente ad oggetto la costruzione di magazzini agricoli ed opifici per la trasformazione dei prodotti agricoli, ma come è facile immaginare, basta dare un’occhiata agli elaborati grafici per rendersi conto che si tratta di ville, in molti casi anche di lusso.

Alla denuncia di Legambiente è seguito il sequestro da parte dell’Autorità Giudiziaria di trenta cantieri già aperti ed in fase di ultimazione.

Nonostante tutto però, nemmeno in un momento in cui l’attenzione era massima, il fenomeno si è arrestato. Nelle zone limitrofe a Timpa dei Palombi, nelle ultime settimane, sono stati aperti decine di cantieri per la costruzione di ville al mare o meglio, come recitano le concessioni, di “manufatti per la trasformazione di prodotti agricoli”.

Questo fenomeno, ormai diffusissimo in tutta la Regione, sta stravolgendo il paesaggio rurale ed il fisiologico equilibrio tra aree urbane, periurbane ed agricole, urbanizzando di fatto l’intero territorio.

Le motivazioni che spingono l’abusivismo verso questa “nuova frontiera” sono strettamente connesse alle complicità degli uffici comunali, non solo perché questi rilasciano scientemente concessioni fasulle, ma soprattutto perché la presenza di una concessione crea comunque un alibi per la completa assenza di controlli sulle reali destinazioni d’uso degli immobili.

Questo fenomeno è stato peraltro incoraggiato anche dal Governo regionale, che con la finanziaria 2001 ha emendato la legge regionale 17/94 che escludeva la possibilità di variare la destinazione d’uso degli immobili costruiti in zona agricola, trasformandola in “abitativa, alberghiera o ricettiva in genere”. L’Art. 89 della finanziaria, infatti, sopprimendo le parole alberghiera o ricettiva in genere, ha di fatto sanato surrettiziamente tutti quegli

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abusi edilizi che, almeno formalmente, verranno trasformati in strutture ricettive.

Ed è appunto questo il nocciolo della questione. Quali politiche di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio sono state messe in campo dagli ultimi governi regionali e dalle amministrazioni comunali?

Il quadro è desolante! Gli unici sforzi, infatti, vanno nella direzione opposta.

Oltre a favorire l’abusivismo nelle zone rurali, da anni ormai si tenta di sanare anche gli abusi insanabili realizzati sulla fascia costiera ed oggi esiste addirittura un DDL approvato dalla giunta regionale dal titolo altisonante, “Norme per il governo del territorio e il riordino delle coste”, ma che otterrà come unico risultato una nuova sanatoria nella fascia costiera.

Spiegare questa scelta semplicemente con un tentativo d’accaparramento dei consensi elettorali degli abusivi attuali e di coloro che si preparano a diventarlo, è riduttivo. Esistono anche altre motivazioni. In primo luogo occorre considerare il deficit politico-culturale che impedisce il dispiegarsi di una azione di governo capace di elaborare un progetto di reale sviluppo della Sicilia basato sugli indirizzi ormai consolidati dell’Unione Europea. Uno sviluppo realmente sostenibile che punti sui beni culturali, sulla qualità ambientale e sul pregio naturalistico di molti comprensori del territorio siciliano, come risorse da tutelare e valorizzare, nell’ambito di un credibile progetto di rilancio del settore turistico che, solo a parole, tutti riconoscono come essenziale per la crescita economica dell’Isola.

Questo deficit è stato chiaramente esplicitato nel confronto sul famigerato DDL “Norme per il governo del territorio e il riordino delle coste”.

La Legambiente non si è sottratta al confronto col Governo ed anzi ha ritenuto opportuno fornire anche il proprio contributo di contenuti e proposte alla luce sia del rilievo che questa norma potrebbe avere sulla gestione complessiva del territorio siciliano ma anche della condivisione di quegli obiettivi che il Governo in un primo momento aveva presentati come principali:

Un riordino del sistema costiero siciliano, che tenesse conto di tutti i fattori di degrado che negli anni hanno sconvolto un equilibrio già di per sé piuttosto fragile.

Il potenziamento della ricettività turistica legata alla fruizione del mare, nell’ambito di uno sviluppo equilibrato dalle esigenze di tutela.

Entrambi gli obiettivi rivestono un’importanza strategica per lo sviluppo socio-economico della Sicilia e vanno certamente considerati interconnessi sia nella fase di analisi che nella ricerca di possibili soluzioni. Anzi, il riordino della fascia costiera non può che costituire la precondizione di un reale potenziamento ricettivo.

Il contributo che Legambiente ha fornito, però, non ha trovato accoglimento da parte dell’Assessorato Territorio e Ambiente che ha predisposto, invece, un DDL dai contenuti inaccettabili e che rischia di pregiudicare per sempre la possibilità di uno sviluppo sostenibile della Sicilia.

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“Un atto di responsabilità”, così lo ha definito il Presidente Cuffaro, peccato però che il DDL approvato non è funzionale al riordino della costa né tanto meno allo sviluppo turistico.

In che modo la sanatoria edilizia di quindicimila case costruite sulla spiaggia, seppur filtrata da strumenti di pianificazione (sulla cui efficacia ci soffermeremo appresso), possa innescare un processo di riqualificazione della fascia costiera sfugge ai più. Come questo, poi, possa conciliarsi con lo sviluppo di un turismo legato alla fruizione del mare non ci resta che farcelo spiegare da coloro che, con straordinaria creatività , hanno redatto questo articolato di legge.

Chi può credere veramente che il riordino di un agglomerato abusivo costruito sulla spiaggia e la riqualificazione della costa si possano ottenere semplicemente dotando di fogne ed acqua le case abusive?

In Sicilia gli agglomerati abusivi ancora oggi, dopo due sanatorie edilizie ed il completo fallimento dei piani di recupero del patrimonio abusivo, per qualità urbana, somigliano più alle bidonvilles terzomondiali che a pezzi di città europee, e ciò che li rende molto simili alle favelas brasiliane o venezuelane non è tanto il ceto sociale d’appartenenza o le condizioni socio-economiche di chi vi abita, ma il disordine urbanistico. Bisogna però fare una distinzione essenziale: le bidonvilles sono nate come risposta spontanea ad un fenomeno di massiccio inurbamento originato dalla fame e dalla speranza in una vita migliore di enormi masse di diseredati; in Sicilia, molto più banalmente, l’origine è da ricercare in un consumismo sfrenato che fa sentire la seconda o la terza casa come un fabbisogno essenziale e comunque “il mattone” come un investimento sicuro.

Si tratta di una sub-cultura fondata sull’interesse particolaristico e sul disprezzo del bene comune, ma che purtroppo trova nelle nostre regioni, non solo in Sicilia e non solo nel Meridione, molti sostenitori. E ciò anche tra quelle classi dirigenti che, invece, dovrebbero sentire come propria la responsabilità dell’emancipazione culturale e della crescita di una reale coscienza civile delle popolazioni che rappresentano.

Non possiamo dunque prendere seriamente le analisi che ci presentano l’abusivismo come un fenomeno legato alle rimesse di poveri emigranti che investono tutti i loro risparmi o alla carenza degli strumenti urbanistici generali e del quale ci si deve limitare a prendere atto.

Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, infatti, si basa su valutazioni economiche molto precise è ha in ogni caso una natura speculativa: anche una piccola casa abusiva è frutto di un progetto speculativo con il quale si vuole ricavare una rendita che decuplichi il capitale investito. Si compra un terreno inedificabile e per ciò stesso molto conveniente; si edifica in nero e quindi con un costo di costruzione ridotto di circa il 40%; se si riesce a conseguire la concessione in sanatoria si ottiene la stessa rendita di una casa regolarmente costruita ad un costo nettamente più basso. Ovviamente vanno attentamente valutati e minimizzati i rischi, e per questo, nella maggior parte dei casi, si evita di costruire nelle aree già escluse dalle due sanatorie del 1985 e del 1994.

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Un caso esemplare è quello della Valle dei Templi di Agrigento: la speculazione abusiva la aggredì negli anni settanta e nella prima metà degli anni ottanta; dal 1986 (anno successivo alla sanatoria nazionale L.47/85 che escludeva tale area) il fenomeno si è sostanzialmente arrestato.

Ciò è avvenuto in quasi tutte le aree escluse dalle sanatorie, compresa la fascia d’inedificabilità assoluta di 150 dalla battigia, oggi oggetto del DDL del Governo.

Ed è appunto questo il dato di partenza su cui occorre riflettere. L’insanabilità blocca l’abusivismo, le nuove sanatorie creano grandi aspettative criminose. Così si spiega lo spostamento dei massicci interessi speculativi illegali verso le aree rurali: si ritiene tanto semplice evitare l’acquisizione o la demolizione in queste aree che le case abusive vengono regolarmente vendute dalle agenzie immobiliari.

Cosa avverrebbe se si approvasse una nuova sanatoria sulla fascia costiera, cioè in un’area dove il fenomeno si è sostanzialmente arrestato?

La risposta è scontata, ed infatti è stata sufficiente la sola approvazione in giunta per fare ripartire l’assalto alle nostre coste. La notizia del sequestro di alcune ville in costruzione e addirittura di un’intera lottizzazione in provincia di Trapani è più che significativa.

E certamente non sono credibili le rassicurazioni di chi ritiene di grande importanza avere fissato come limite per la sanabilità il 31 dicembre 1993. La storia ci ha insegnato che questo non serve a nulla, ma ancora meno servono le sanzioni previste, di solito negli ultimi articoli come corollario della sanatoria, per chi non vigilerà in futuro.

Anche su questo fronte infatti ci sono novità. "Con l’approvazione di questa legge – ha dichiarato Cuffaro – nessuno potrà più fare lo struzzo perché le sanzioni colpiranno il responsabile del provvedimento se non reprime l’abuso. Se esiste inerzia nell’adottare gli atti, l’assessorato regionale al territorio e ambiente comunicherà l’inadempienza all’autorità giudiziaria e al sindaco che è tenuto a rimuovere il funzionario dall’ufficio. Se il sindaco non provvede a questo adempimento, prima viene diffidato, e poi rimosso".

L’art.13 dunque prevede che i sindaci da responsabili diretti si trasformino in semplici controllori dell’operato dei funzionari ed in caso d’inerzia possano sollevare dall’incarico i funzionari negligenti; e si parla anche dei fantomatici poteri sostitutivi della Regione che può arrivare anche alla rimozione del Sindaco. Chi non ha la memoria corta, certamente ricorderà che quest’ultima sanzione è già prevista da molti anni dalle attuali norme e, ovviamente, non è mai stata irrogata. Forse perché tutti i Sindaci siciliani hanno combattuto con solerzia l’abusivismo edilizio? Crediamo debbano essere cercate altre spiegazioni.

In realtà si tratta di un film già visto e, come è sempre avvenuto nella storia del cinema, i numeri 2 o 3 di film di grande successo sono molto più scadenti degli originali.

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L’intera questione del risanamento della costa siciliana non può essere ricondotta ad un semplice ed ennesimo ricorso a strumenti di riqualificazione come fa il DDL approvato dalla giunta regionale.

"I comuni siciliani – ha detto ancora il presidente della Regione Sicilia – dovranno dotarsi di un moderno e aggiornato strumento di programmazione e risanamento, il cosiddetto Prua, all’interno del quale nell’ambito di interventi di riqualificazione ben più ampi potrà anche trovare spazio l’attività di recupero e risanamento di immobili compatibili con gli indirizzi del Prua e, comunque, realizzati non oltre il 31 dicembre 1993. Tutto il resto verrà acquisito al patrimonio comunale solo in quanto compatibile con gli obiettivi dello stesso Piano di riqualificazione urbanistica e ambientale, e destinato eventualmente a forme di ricettività alberghiera. Tutto ciò che risulta incompatibile con gli obiettivi del Prua sarà, in ogni caso, demolito".

I piani di recupero degli agglomerati abusivi previsti dalle norme vigenti hanno completamente fallito il loro obiettivo ed il tentativo di trovare strumenti leggermente diversi come i Prua, ci conferma come tale fallimento sia inconfutabilmente ammesso dallo stesso Governo regionale.

Il mancato recupero degli agglomerati abusivi però non può essere esclusivamente spiegato con la povertà dei finanziamenti disponibili (a proposito, quante migliaia di miliardi costerebbe il riordino previsto dalla proposta del Governo?? Quante decine d’anni occorreranno per averli?), cosa peraltro assolutamente reale, ma anche con le caratteristiche tipologiche di tessuti edilizi che, per come si sono sviluppati, difficilmente potranno assumere un aspetto diverso.

Il fatto che poi anche questi ultimi piani siano affidati ai Comuni, le cui responsabilità sulla crescita del fenomeno dell’abusivismo edilizio sono sotto gli occhi di tutti, ci dà il senso pieno della strumentalità della proposta.

Entrando nel merito del DDL, vale la pena di sottolineare due punti significativi:

• I Prua dovrebbero essere “redatti sulla base dei contenuti dell’Atto di indirizzo del PTUR” e non su quelli del Piano vero e proprio. Questo Atto d’indirizzo, inoltre, dovrebbe essere redatto entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge “nel rispetto dei principi delle Linee guida del Piano territoriale paesistico”. In buona sostanza si dovrebbe provvedere alla redazione dei PRUA in totale assenza di criteri oggettivi costruiti su una fase di analisi propedeutica, dignitosamente approfondita. In queste condizioni ovviamente verrebbe sanato tutto ciò che non ricadrebbe all’interno di aree protette. Potrebbe, infatti, essere questo l’unico criterio oggettivo adottabile.

• I Prua potranno prevedere il recupero solo per quegli abusi già oggetto di richiesta di concessione in sanatoria ai sensi delle precedenti leggi di condono. Cioè potranno sanare esclusivamente coloro che, pur non avendone titolo ma essendo dotati di sconfinata fiducia nelle classi dirigenti che si sono alternate alla guida della Regione, hanno comunque richiesto il condono

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edilizio. Saranno premiati quindi coloro che pensano: “tanto prima o poi arriverà una nuova sanatoria”, gli altri abusivi resteranno a guardare.

Ma è ancor più evidente l’altro profilo d’incostituzionalità di questo DDL. Non si fa una nuova sanatoria, ma si riaprono i termini delle precedenti sanatorie nazionali. Onestamente sfugge come possa l’Assemblea Regionale Siciliana riaprire i termini di una sanatoria approvata dal Parlamento nazionale che escludeva la possibilità di sanare gli abusi commessi in aree vincolate.

Legambiente è stata richiamata dal Governo ad un più sano realismo. E’ stato spiegato che non è credibile pensare alla demolizione di tutte e quindicimila le case in questione. Proprio in nome del realismo sono state dunque proposte due soluzioni alternative:

• L’acquisizione al demanio di tutte le case e la concessione in uso, in applicazione delle norme attualmente vigenti;

• L’acquisizione al demanio di tutte le case e il successivo riutilizzo di questo patrimonio, in termini di cubatura, da parte di quegli imprenditori turistici che vorranno realizzare strutture ricettive sulla fascia costiera, anche all’interno dei 150 metri dalla battigia, facendosi carico della riqualificazione dell’area. Questa previsione, riguardando ovviamente quei grossi agglomerati che hanno ormai cancellato ogni possibilità di rinaturalizazione del sito originario, avvierebbe un reale processo di recupero ambientale, paesaggistico ed urbanistico di questi, garantendo la sostenibilità ambientale di un nuovo sviluppo turistico, in un equilibrio attivo con quelle parti di costa ancora perfettamente conservate che dovrebbero rimanere intangibili. Tali interventi dovrebbero essere inseriti in specifici piani o progetti di comparto d’iniziativa privata. Il processo di riqualificazione potrebbe così realisticamente avviarsi, essendo affidato in gran parte alla finanza privata.

Quest’ultima proposta, peraltro ritenuta di grande interesse anche dagli industriali siciliani, denuncia uno sforzo reale di tenere insieme diverse esigenze ma soprattutto di raggiungere i due obiettivi già citati e sbandierati dal Governo per giustificare la redazione di questo testo di legge.

Non è stata presa minimamente in considerazione dal Governo ma è servita a smascherare il vero obiettivo della legge e cioè la sanatoria edilizia.

A questo punto è il caso di riflettere su un’altra tanto grave quanto significativa contraddizione. Uno degli atti contenuti del Prua inseriti nell’art.4 del DDL e quindi approvati dalla giunta è il ripristino del demanio. La stessa giunta ha però proposto nello stesso periodo, per l’approvazione delle commissioni competenti, l’art.1 di un altro DDL collegato alla finanziaria, il n.298. Questo articolo si intitola “Sdemanializzazione di aree e manufatti demaniali marittimi” e guarda caso prevede la sdemanializzazione anche per le “opere realizzate in assenza o in difformità dalla concessione” cioè per le case abusive. Appare superfluo ogni commento!

Se non si volesse regalare ai siciliani l’ennesima sanatoria ed al contrario si puntasse su uno sviluppo turistico “possibile”, sarebbe indispensabile fugare ogni dubbio in proposito e partire dall’assunto che è

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prioritario bloccare i meccanismi socio-economici che alimentano l’abusivismo edilizio.

Questo è necessariamente il presupposto per qualunque discussione seria sul riordino delle coste e per questo è comunque essenziale arrivare all’acquisizione delle case abusive. Solo così si può scoraggiare il nuovo abusivismo edilizio.

Tutte le leggi di sanatoria non hanno ottenuto alcun risultato in termini di risanamento ed hanno di converso rilanciato l’abusivismo edilizio.

Queste constatazioni portano ad una conclusione quasi banale: I contenuti degli artt. 4-5-6 (sanatoria e deregulation), contraddicono gravemente i principi generali e gli obiettivi che presiedono alla formulazione dello stesso DDL: infatti la norma prevede il potenziamento della strumentazione urbanistica generale attraverso la creazione del Piano regionale nonché consentendo ai comuni di far scattare le norme di salvaguardia solo dopo l’approvazione dello schema di massima del Prg. In estrema sintesi il DDL proposto è una pericolosissima mina: dietro l’apparenza di un condivisibile rafforzamento della disciplina urbanistica in Sicilia, nasconde una volgare sanatoria edilizia promessa in campagna elettorale ed un regalo ai peggiori interessi speculativi che da venticinque anni aspettano di poter ripartire all’assalto della fascia costiera. L’assalto dei nuovi barbari

Sono decine i casi che in questi anni Legambiente ha fatto conoscere anche attraverso il viaggio di Goletta Verde. Segnalazioni, vertenze, blitz, conferenze stampa, convegni: un tam tam ininterrotto per difendere un territorio dalle mille bellezze ma in continuo pericolo. E purtroppo anche quest’anno registriamo alcune new entry nella saga della mala gestione del territorio. Ne segnaliamo alcune: storie diverse che raccontano, meglio di tante parole, qual è il futuro che gli amministratori locali riservano a quest’Isola. Campofelice di Roccella (Pa)

Sulla costa tirrenica della Sicilia, tra la zona industriale di Termini Imerese e la rinomata città normanna di Cefalù, a due passi dall’antica città di Himera, c’è, nel territorio del comune di Campofelice di Roccella, una lunga spiaggia di sabbia finissima.

Il litorale è interrotto da una roccia isolata, dove, pare fin dai tempi degli arabi, si erge una torre fortificata, chiamata dal geografo Edrisi, Saharat al hadid, la rupe di ferro.

I resti adesso rimasti sono d’origine medievale: insieme alla torre, ben visibile, ci sono quelli di un antico casale, con annessi diversi ambienti e locali.

Alcuni mesi fa, l’Amministrazione Comunale di Campofelice di Roccella ha approvato un progetto presentato da una ditta privata che, ipotizzando un pseudo intervento di recupero dell’antico insediamento, vuole in realtà nascondere il suo vero obiettivo: la costruzione di un mega-albergo,

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entro la fascia dei 150 metri, con spregio totale della testimonianza storica esistente.

Sarebbe così cancellata una delle poche testimonianze storico-monumentali della zona, diventata, nel tempo, simbolo della comunità di Campofelice, non a caso sottoposto a vincolo di tutela e salvaguardia.

Inoltre, il progetto è in palese e netto contrasto con gli strumenti urbanistici in vigore in quel territorio.

Questo vergognoso e speculativo progetto di cementificazione ha fatto scattare la reazione dei cittadini, che, con una petizione, si sono rivolti a diverse Istituzioni, compresa la Procura della Repubblica di Termini Imerese, che, di recente, ha disposto il sequestro di tutto l’incartamento e bloccato l’inizio dei lavori.

La ditta privata presentatrice del progetto è, però, già riuscita a recintare i luoghi, impedendo, tra l’altro, il più frequentato degli accessi al mare utilizzato dagli abitanti di Campofelice di Roccella.

La precedente Amministrazione Comunale, caduta per le improvvise dimissioni del Sindaco, vittima alcuni giorni prima di un vile atto d’intimidazione mafiosa, non volle mai approvare questo progetto e stava, invece, già lavorando per l’acquisizione dell’intera zona interessata, il restauro conservativo del bastione e della torre-castello, una campagna di scavi archeologici e la ricostruzione del borgo circostante per il suo utilizzo per finalità socio-culturale.

Nella zona sono state già sequestrate altre speculazioni edilizie molto simili a quelle proposte: nate come strutture alberghiere con villini a schiera e realizzati con cubature difforme e superiori, sono stati poi lottizzati e messi in vendita singolarmente. Sos Punta Asparano (Sr)

Iniziano i saldi di fine stagione per l’Amministrazione comunale di Siracusa e per la maggioranza che la sostiene in Consiglio. Oggetto della svendita, però, non sono beni e servizi di largo consumo, ma interi pezzi del territorio della città.

Dopo la Tonnara di S. Panagia, sacrificata alle previsioni di assurdi programmi costruttivi, dopo l’Epipoli e la riserva Ciane – Saline, minacciate dagli interventi previsti nei PRUSST, un altro pezzo del patrimonio ambientale della città rischia di cadere sotto i colpi di uno sviluppo urbanistico irresponsabile: l’area dell’Asparano. Più precisamente quell’area ricompresa tra Punta Arenella e Punta Asparano, una delle poche miracolosamente risparmiata dall’abusivismo edilizio, sino ad oggi ancora fruibile dalla collettività.

Il “partito del mattone” e degli interessi privati è venuto nuovamente allo scoperto con l’approvazione di una variante urbanistica che rischia di privare tutti i cittadini siracusani della libera fruizione di questo splendido tratto di costa, riservandolo ad un esclusivo uso privato.

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In cambio della generosa variante urbanistica, la società “Blumarin Hotels Sicilia S.p.A.” del gruppo Alpitour, che nella stessa zona ha ottenuto l’autorizzazione per costruire un villaggio turistico, cederebbe gratuitamente al Comune una quota dell’area nella quale, a proprie cura e spese realizzerebbe una serie di opere di pertinenza della struttura alberghiera medesima.

Con l’opportuna variazione di alcune destinazioni urbanistiche si raggiungerebbero 3 risultati:

1) nell’area a ridosso dell’insediamento turistico, e sino alla linea dei 150 mt. dal mare, la suddetta società potrebbe realizzare: campi da tennis, piscine, campo di calcetto, centro fitness polifunzionale, palestre con spogliatoi e depositi annessi, posti di ristorazione, attrezzature per lo spettacolo, teatri, spogliatoi, piste da ballo, strutture ludiche con cubature fino ad ieri irrealizzabili;

2) la zona all’interno della fascia dei 150 mt. verrebbe destinata ad uso esclusivo del villaggio turistico;

3) si aprirebbe una maglia larghissima nelle previsioni di tutela delle coste siracusane: verrebbero vanificati anni di battaglie civili per la salvaguardia del patrimonio costiero e per uno sviluppo economico ecosostenibile.

In cambio della variazione di destinazione urbanistica la società costruttrice, come si diceva, cederebbe al Comune un’area nella quale, in mancanza della suddetta variazione, non potrebbe fare quasi niente; ma sostanzialmente si tratta di aree ricadenti in massima parte entro la fascia di rispetto dei 150 m dalla linea di costa e come tali vincolate per legge dal divieto assoluto di edificazione o comunque tutte a destinazione di pubblica fruizione, nelle quali – è il caso di ripeterlo - il privato avrebbe potuto fare ben poco. Insomma non proprio un atto così generoso.

Il Consiglio comunale avrebbe potuto correggere la proposta di variante assicurando ai cittadini la piena fruizione almeno del golfetto dell’Asparano, ma non lo ha fatto preferendo assecondare l’amministrazione in una scelta che potrà avere gravi conseguenze per il litorale siracusano, soprattutto nelle infinite more dell’approvazione del PRG.

E’ pertanto auspicabile assistere ad una nuova levata di scudi da parte dell’opinione pubblica e di quella parte della classe dirigente che appena pochi mesi fa si è opposta alla realizzazione di un massiccio impianto di tonnicultura a largo della Penisola Maddalena. Oggi il pericolo non è meno grave, è in gioco, ancora una volta, il patrimonio ambientale della città.

“Giù le mani dalla costa, giù le mani dall’Asparano!”, è lo slogan scelto dai numerosi cittadini che chiedono la tutela del golfetto dell’Asparano da vecchi e nuovi progetti speculativi.

L’invito rivolto al Consiglio comunale di Siracusa è perchè riveda la variante urbanistica proposta dalla “Blumarin Hotels S.p.A.” per un progetto che sottrarrebbe ai siracusani un’area così bella e cancellerebbe la rigogliosa macchia mediterranea che la interessa.

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Nelle osservazioni che le associazioni faranno pervenire fra breve al Consiglio comunale verrà chiesto, da un lato, di garantire ai cittadini la libera fruizione del mare nell’area oggetto dello scambio tra Comune e “Blumarin” e dall’altro, di definire con precisione quali attrezzature la società potrà realizzare all’interno delle altre aree. La maggiore preoccupazione degli ambientalisti è che, una volta realizzate le attrezzature previste nella variante, il Comune dia in concessione le aree costiere alla stessa società, che prevedibilmente ne riserverà l’accesso ai soli ospiti del complesso turistico. Insomma anziché riqualificare un area degradata e realizzarvi un parco urbano come previsto dal Piano Regolatore, il Comune pensa di mutarne la destinazione urbanistica e darla in concessione ai proprietari del villaggio turistico.

Quello che si ritiene sbagliato è il modello di sviluppo economico sotteso a queste scelte urbanistiche: a dividere non è tanto la prospettiva di investimenti nel settore del turismo quanto la scelta di privilegiare solo quegli investimenti che anziché valorizzare i beni paesaggistici del territorio li mortificano. Ora l’approvazione della tanto contestata variante aprirebbe un varco pericoloso anche per futuri progetti: se passasse questa variante, si creerebbe un precedente pericolosissimo. Sorprende infine che la Soprintendenza non si sia pronunciata su un progetto di tale fatta, in uno dei più importanti siti del neolitico e in un’area che, quanto a ricchezza della macchia mediterranea, non è inferiore a Capo Murro di Porco su cui invece ha posto il vincolo paesaggistico.

I numeri del megavillaggio “Bluemarin Hotels Sicilia Spa”: 48 milioni di euro l'investimento complessivo. 66 ettari la superficie interessata, così distribuita: 17 ettari destinati a costruzioni. 10 ettari per la creazione di una azienda agricola per produzioni biologiche. 11 ettari per attività di servizi del villaggio. 9 ettari per le spiagge. 4 ettari per un parco verde. 15 ettari è la quota ceduta al Comune per la costruzione di un nuovo parco naturalistico attrezzato dalla stessa Blumarin ma aperto alla fruizione della collettività. 1553 i posti letto totali. 460 le camere da letto. 2 anni il tempo previsto per il completamento della struttura . maggio 2002 l'inizio dei lavori. aprile 2004previsione fine-lavori. 200 le persone impiegate per la costruzione della struttura con picchi fino alle 500 unità. 150 i posti di lavoro stabili che si creeranno nel villaggio con picchi fino a 300 unità considerando l'indotto.

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La baraccopoli di Mondello (Pa) In Sicilia, nel cuore di Palermo, si può trovare un angolo di tropici: qui

la sabbia bianca e fine si incontra con un mare splendido, dal colore azzurro; è il Golfo di Mondello, la spiaggia dei palermitani, il luogo dove da sempre i cittadini si ritrovano per inaugurare la stagione balneare e dove da sempre si svolge un pezzo importante della vita cittadina.

Come spesso accade però qualcuno ha ben pensato che le tradizioni e le ricchezze ambientali e naturali debbono fruttare, insomma nulla ha valore se non diventa business.

Ecco allora che lo splendido scenario del golfo di Mondello, nei mesi estivi, cambia completamente aspetto: la spiaggia di sabbia bianca scompare, letteralmente cancellata da una moltitudine di “capanne” di legno, accostate l’una all’altra, in una frenesia di angusti cortili. Assi bianche, assi rosse, assi arancio, assi verdi… Le “capanne” si riuniscono in “cortili”, i “cortili” in “settori”. Il tutto rigorosamente sigillato da una cancellata in ferro, che solo da pochi giorni è stata alleggerita da paurosi spuntoni metallici. Pochi varchi consentono al cittadino comune l’accesso all’arenile e quindi al mare, che da Hemingway in poi è sinonimo di libertà.

Tutto questo dicevamo è questione di business, anche se da straccioni, visto che la società “immobiliare Italo-Belga” ha ricevuto i diritti di concessione, compreso lo Stabilimento in muratura sede permanente del ristorante Charleston per venti anni – dal 1992 - , del demanio al costo di circa diecimila euro (circa 20milioni di vecchie lire) per impedire alla collettività di poter utilizzare pubblicamente una grande porzione della città di Palermo. L’accesso è consentito, certo, ma solo agli estremi di una lunga spiaggia.

All’insegna del business a tutti i costi, una società – l’immobiliare italo-belga – reclama i suoi diritti e, contestualmente, azzera i diritti fondamentali del resto del mondo sotto gli occhi distratti delle autorità cittadine. Il tutto con ricavi esorbitanti (oltre tre miliardi di vecchie lire) a fronte di un canone irrisorio. E già, perché ogni “utente” munito di tessera sborsa cifre esorbitanti che non possono essere giustificate dai servizi resi, né danno giustizia alla anomala privatizzazione di un bene pubblico prezioso non soltanto per i palermitani ma per l’intera nazione. Una situazione questa contestata da tutti gli schieramenti politici. Legambiente ha trasmesso alle autorità competenti - Capitaneria di Porto di Palermo, Assessorato Territorio ed Ambiente e Comune di Palermo - la richiesta di revocare la concessione, un atto legale finalizzato ad innescare un procedimento amministrativo destinato a fare luce sulle inadempienze consumate prima e dopo il 1992 fino ai nostri giorni relativamente alla gestione dell’arenile di Mondello.

La lottizzazione Pantarei nel comune di Gioiosa Marea (Me) Lo scorso anno il Circolo Legambiente Nebrodi ha presentato un

esposto amministrativo per segnalare che l’approvazione della lottizzazione da parte del Consiglio Comunale è avvenuta in violazione dei vincoli preposti alla

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tutela della costa. In particolare, in violazione della legge regionale che vieta qualsiasi costruzione entro la fascia dei 150 metri, ad eccezione delle opere dirette alla fruizione del mare. Nel caso, la lottizzazione prevede una strada carrabile in zona vincolata.

Nell’esposto si chiedeva al Consiglio Comunale di revocare la delibera in autotutela ed al Sindaco di non procedere alla firma della convenzione urbanistica. In occasione del passaggio di Goletta Verde 2001, venne attribuita la Bandiera Nera al Sindaco ed al Consiglio Comunale di Gioiosa Marea.

Il Sindaco ha mantenuto l’impegno di non sottoscrivere la Convenzione; il Consiglio Comunale, invece, non ha revocato la deliberazione. Per questo motivo, il Circolo Nebrodi ha indirizzato un formale esposto alla Procura della Repubblica di Patti. La nuova amministrazione eletta nel maggio 2002 ha assicurato che non consentirà alcuna iniziativa in violazione dei vincoli ambientali. La Lottizzazione “Torre delle Ciavole” a Piraino (Me)

Nessuna novità dall’anno scorso, quando venne consegnata al Sindaco di Piraino la Bandiera Nera. La lottizzazione è stata approvata dal Consiglio Comunale e la Società immobiliare proprietaria si appresta a richiedere le concessioni per la realizzazione di diversi alberghi in un pendio molto ripido.

Nel suo parere, la Soprintendendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina ha limitato l’altezza dei muri di sostegno. Ciò può offrire la possibilità di un ridimensionamento dell’intervento. Il Circolo di Legambiente vigilerà a riguardo. 5.3.3 Il Salento in vendita

Basterà l’antico sistema difensivo delle torri di avvistamento ad allontanare l’arrivo dei barbari all’assalto delle coste salentine? Ma ora anche le torri costiere rischiano di scomparire, dopo secoli di assalti dei pirati, lasciando il varco al violento saccheggio dei nuovi barbari….

Il Salento è in vendita. Al mercato ulivi millenari, muretti a secco, pietre storiche, tratturi, grotte, capitelli, aie e macine di frantoi ipogei che saranno forse suppellettili alla moda di giardini, locali e soggiorni privati dei predatori di buon gusto.

Intanto milioni di turisti provenienti da tutt’Italia e dal mondo, non a caso scelgono la Puglia e in particolare le coste salentine per trascorrere le loro vacanze. La costa “di eccezionale bellezza paesaggistica costituita da uno dei pochi esempi di costa alta” (L.R. 19/97) del tratto Otranto S. Maria di Leuca è vista come una delle ultime roccaforti che tentano di resistere alla cementificazione selvaggia. E neanche la costa jonica, con i suoi nove Sic (Siti di Interesse Comunitario), una Zona a Protezione Speciale, un’Area Marina Protetta istituita e sei Parchi Regionali ancora da istituire, riesce a sottrarsi alle brame speculative.

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Il Salento piace e la formula natura/turismo sembra essere quella vincente per rilanciare il turismo di qualità e vincere la sfida dello sviluppo sostenibile. E mentre il Comune di Otranto portavoce di questa scelta politica di sviluppo sostenibile riceve le cinque vele di Legambiente come premio a questo impegno, ancora rimane sulla carta il Parco Otranto - S.Maria di Leuca, (L.R. 19/97 sulle aree protette) con una Regione Puglia che è in vetta ai primi posti nella classifica del cemento selvaggio affianco solo a Sicilia, Calabria e Campania.

E’ tutto sommato recente la revoca da parte della Regione Puglia della legge scandalo 3/98 che ha inaugurato la stagione della deregulation totale sulla pianificazione territoriale e consegnato alla memoria illustri ecomostri.

Ma la storia continua: in assenza di strumenti urbanistici e di ogni logica di programmazione territoriale, altre leggi meno note, come quella regionale n 13/2001, hanno previsto forme di semplificazione e accelerazione amministrativa per consentire ai Comuni di andare in deroga ai propri strumenti urbanistici finendo per affidare al solo buon senso degli Enti locali la destinazione e l’uso del proprio territorio.

Strade aperte quindi alle speranze degli speculatori delusi, la Regione Puglia raddoppia e rilancia: un Piano Generale Regionale delle Coste che, in attesa della sua approvazione definitiva, deroga ai Comuni la gestione delle concessioni demaniali, così come previsto dalla legge, ma che rischia in questo modo di mettere all’asta il patrimonio costiero.

E le danze sono aperte: un valzer di ruspe a ritmo di deroghe e violazioni sulle coste dei Comuni di Santa Cesarea Terme, quest’ultimo già entrato nella hit parade delle bandiere Nere riconosciute ai nuovi pirati del mare da Legambiente, seguono il comune di Salve, Castrignano del Capo e Nardò .

Non rimangono a guardare gli altri comuni come Diso, Castro, Gagliano del Capo, Patù, Gallipoli, Ugento che vedono nella delega della Regione un occasione per rilanciare un improbabile turismo locale a favore di lobby imprenditoriali senza scrupolo. Le direttive del Piano Regionale delle coste, che dovrebbero ispirare le istruttorie dei Comuni per l’affidamento o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime, di fatto prevedono meccanismi derogatori ai vincoli di salvaguardia ambientale, scatenando una vera e propria vendita all’asta al miglior offerente!

Sembra definitivamente bloccato sul tavolo delle trattative l’iter per l’istituzione del parco Otranto - Santa Maria di Leuca, che pure nel tentativo di fare salvi gli strumenti urbanistici comunali vigenti e/o programmati con assurdi stralci, su tutto il perimetro costiero, di fatto già disattende i veri obiettivi della legge regionale sulle aree protette, inabissando le numerose grotte marine che caratterizzano il paesaggio costiero salentino e ogni azione volta alla sua conservazione e promozione.

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S.O.S…grotte a rischio!!! Lungo il tratto di costa Otranto-Santa Maria di Leuca spiccano le

“Cipolliane” (insediamento paleolitico e neolitico), la “Grotta Grande del Ciolo” (paleolitico medio e superiore-neolitico), la grotta delle “Prazziche” (paleolitico, neolitico,bronzo). Da queste grotte, studiate fin dagli anni ’60 provengono moltissimi reperti archeologici ora esposti presso il Museo Castromediano di Lecce ed il Museo Paleontologico di Maglie.

Solo alcune grotte sono state già oggetto di studi propriamente di tipo biologico ritenute importanti anche da un punto di vista turistico, per esempio, la grotta Zinzulusa che per la sua eccezionale diversità biologica è l’unica grotta italiana inserita dal KWI (Karst Water Intitute, Charles Town Wv, USA) tra i primi sistemi carsici mondiali meritevoli di tutela.

Molte, poiché difficili da raggiungere in quanto situate lungo costoni di roccia inaccessibili via terra, non sono state ancora censite e studiate .

Il Salento occupa una posizione cruciale nel bacino del Mediterraneo, crocevia naturale tra il Mediterraneo Occidentale e quello Orientale e tra i mari settentrionali dell’Adriatico e quelli meridionali della costa africana. Per questa ragione l’area salentina è probabilmente il crocevia anche per forme di vita ed associazioni di organismi di diversa provenienza. Se le grotte marine si dovessero rivelare, alla pari di quelle “continentali”, ambienti del tutto particolari per il tipo di organismi che ospitano, è verosimile supporre che le grotte salentine possano offrire non poche sorprese ancora tutte da svelare.

I pirati salentini

In seguito un elenco dei casi più significativi censiti da Legambiente di aggressione alla fascia costiera salentina: patrimoni culturali, segni e tracce della storia ancora inesplorate che rischiano di sparire insieme all’unico modello di sviluppo possibile per il Salento, quello sostenibile.

1) Niente di nuovo o di buono sul litorale del Comune di Gagliano del Capo. Il villaggio “Quadrifoglio”, nella località “Ciolo”, rimane nei progetti del Comune che ha convocato nel novembre scorso una Conferenza di Servizi per la sua realizzazione in variante al P.d.F. vigente dell’insediamento turistico. Dieci ettari in area soggetta a vincolo paesaggistico e idrogeologico, adiacenti all’alveo del canale naturale della caletta del Ciolo consegnati all’industria del cemento fino al suo sbocco naturale.

Tutto il tratto costiero del Comune di Gagliano del Capo presenta elementi di notevole interesse: dal punto di vista geomorfologico, essendo un territorio roccioso ricco di fenomeni carsici, che lo hanno intessuto di grotte spesso ricoperte di stalattiti, dal punto di vista paesaggistico, essendo una delle zone panoramiche più belle del Salento, con alte scogliere a picco sul mare, con profonde insenature, canali naturali e innumerevoli grotte marine…messe a rischio da un impunito abusivismo a macchia di leopardo. Si segnalano inoltre, nella zona denominata “delle Mannute” (dal nome della prestigiosa Grotta detta appunto “delle Mannute” per la ricchezza di stalattiti che pendono

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dall’ampia volta) interventi per l’ampliamento dei tratturi e nuove vie di accesso al mare che lasciano presagire voglie espansive sulla costa. Inutile dire quanto rovinosa può essere la distruzione già in atto dei tipici muretti a secco di Gagliano del Capo, tipici e unici di questo tratto di territorio, più stretti sopra e spessi sotto, quasi a merletto dei vari terrazzamenti rocciosi e legati ad una originale funzione di recupero di risorse idriche dal vento umido del clima salentino.

2) Ancora nel mirino la gravina del Ciolo con la grotta delle Prazziche

che suscita, in un clima di roventi polemiche sulla carta stampata, un interrogazione consiliare in merito allo stato di conservazione e tutela della Grotta considerata un sito paleontologico ed archeologico di rilevante interesse. Al centro della polemica ancora il Comune di Gagliano del Capo. Le numerose denunce lamentano interventi di grave manomissione, quali la sostituzione del pavimento e l’installazione di punti-luce (faretti), che lasciano pensare ad una diversa e impropria destinazione d’uso dell’ambiente della grotta. Questo intervento ha già in parte compromesso lo stato di conservazione e l’aspetto tipico di un habitat proprio della vita e della cultura dell’uomo preistorico, che mal si concilia con pavimentazioni moderne e lampade elettriche.

3) Tra i Comuni di Castrignano del Capo e Patù esiste un canalone naturale di notevole pregio paesaggistico-ambientale in area sottoposta a vincolo di tutela ai sensi della Legge n.1497/1939 denominato “Canale di Volito”, dove già sono stati avviati lavori di sbancamento con mezzi meccanici finalizzati all’allargamento di un tratto di circa 200 metri della carreggiata stradale che, dal “pozzo di Volito” sito nell’alveo torrentizio del canale, risale il costone destro del canalone in direzione sud verso “Felloniche”.

I lavori stradali hanno comportato una notevole trasformazione dello stato naturali dei luoghi, con asportazione di macchia mediterranea ed alterazione e danneggiamento del costone roccioso. Tali lavori hanno determinato un parziale colmamento dell’alveo del canale con grave compromissione del flusso naturale delle acque dalle riconosciute proprietà terapeutiche .

4) Demanio marittimo a rischio in località San Gregorio Patù : due

tratti di strutture murarie megalitiche si trovano a pochi metri dalla linea di battigia e fanno parte dell’impianto dell’antico porto della Città di Vereto, l’attuale baia di San Gregorio. L’originario progetto di una passeggiata panoramica a soli due metri dalla battigia è oggi solo parcheggiato nei cassetti del Comune di Patù e grazie soprattutto agli innumerevoli esposti degli ambientalisti che chiedono di inserire il tratto di costa nell’istituendo parco costiero.

Il via libera agli enti locali nella gestione del demanio marittimo potrebbe rappresentare un rischio in più per le sorti di questa meravigliosa

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scoperta che andrebbe piuttosto approfondita e salvaguardata quale risorsa culturale e paesaggistica preziosa per la comunità di Patù.

5) A rappresentare la politica urbanistica scellerata del Comune di Diso

si erge ancora “il Colosseo” il famigerato centro di servizi dalle incongrue dimensioni, una mega opera, che di fatto inaugura una serie di scelte scellerate per il destino del territorio costiero del piccolo comune marittimo. L’Ente Locale infatti, con la approvazione in Consiglio Comunale della proposta di un Piano di utilizzo delle aree demaniali marittime realizzata dalla Società E.T.A. CONS. s.r.l. stravolge ora, in modo irreversibile, buona parte del tratto costiero e successivamente, il rimanente tratto con le previsioni del P.R.G. Sull’intera fascia costiera del comune di Diso sono presenti vincoli paesaggistici, ambientali, idrogeologici ed inoltre è inserita nel tratto costiero Otranto-Santa Maria di Leuca quale sito destinato a Parco dalla Legge Regionale 19/97.

“Area di eccezionale bellezza paesaggistica costituita da uno dei pochi esempi di costa alta…” (L.R. 19/97) è inserita nei Siti di Importanza comunitaria, la cui normativa mira alla conservazione degli Habitat naturali e seminaturali della flora e della fauna selvatica. Inoltre in particolare il Comune di Diso è classificato come comune ad elevato rischio idrogeologico. Il comune di Diso già nel 1999 è stato costretto a rivedere il progetto della fognatura previsto a confine del demanio a seguito del parere negativo della Soprintendenza che già in relazione al piano di recupero annullato poi dal Co.Re.Co. poneva l’accento sulla non compatibilità della proposta progettuale con la tutela ambientale. Nonostante ciò l’Ente Locale programma nuove discese a mare e vari percorsi pedonali fissi sul demanio, oltre ad “infrastrutture di supporto per allargare la nostra offerta balneare”, recita così la delibera di approvazione del P.C.C.

6) Porto Miggiano (Comune di Santa Cesarea Terme). Nonostante

l’allarme lanciato da Legambiente lo scempio ai danni di uno dei paesaggi cartolina del Salento si è compiuto. A fermare i lavori sono stati i sigilli della Guardia di Finanza su ordine dei sostituti procuratori della Repubblica. Iscritti nell’elenco degli indagati per i lavori relativi alla costruzione del complesso turistico dotato di ristorante, bar, due piscine di acqua salata, appartamenti e parcheggi su circa 45mila metri quadri: i fratelli Merico della Società turistico Alberghiera che ha realizzato la struttura, l’imprenditore Montinari e l’ex Assessore di Lecce Fausto Giancane, rispettivamente responsabile e tecnico per la Sis immobiliare proprietaria del comparto interessato; Aldo Bleve direttore dei lavori; Giuseppe Maroccia della “Maroccia Costruzioni” e il responsabile del Piano urbanistico Pietro Paolo Maggio.

L’intervento di Porto Miggiano rappresenta in pieno la logica di sviluppo che sembra avere la meglio nel Salento, a dare questo infausto ed esclusivo riconoscimento contribuisce il sopraggiungere della originale sentenza del Tribunale Amministrativo che accoglie il ricorso del Comune di Santa Cesarea Terme che in persona del sindaco chiedeva l’annullamento del

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provvedimento con cui il soprintendente dei Beni A.A.S.S. della Puglia annullava il nulla-osta rilasciato dallo stesso Sindaco per la realizzazione del complesso incriminato ricadente nel piano di lottizzazione del comparto 19/S.

Nella complicata vicenda una cosa sembra essere chiara: la proposta del sindaco di santa Cesarea di stralciare dal perimetro dell’istituendo Parco costiero proprio la porzione di territorio destinata alla realizzazione del complesso incriminato.

7) Comune di Porto Cesareo: una vicenda complessa di segnalazioni e

carte bollate ad oggetto un villaggio albergo di circa 50.000 mc nella zona di Punta Prosciutto. L’iter di approvazione in variante al Piano Regolatore è ritenuto illegittimo per vari ed articolati motivi tant’è che il TAR Lecce con propria sentenza annulla la Deliberazione del Consiglio Comunale con la quale si approvava l’insediamento in un’area di straordinaria valenza naturalistica.

In particolare l’intervento proposto dall’Immobiliare F.P.S. di Melendugno, previsto all’interno di area di pregevole rilievo naturalistico designata dalla Regione Puglia quale Riserva Naturale Regionale, ha conseguito il parere favorevole della Conferenza di servizi convocata dal Comune di Porto Cesareo, senza aver preventivamente conseguito la Valutazione di Impatto Ambientale positiva.

Il Tar Lecce accoglie le argomentazioni proposte da Legambiente, sostenendo che “quando ci si trovi in cospetto di interventi edilizi di notevoli dimensioni e di forte significato per l’ambiente e quando s’adotti la procedura di variante urbanistica prevista dall’art. 5 del D.P.R. n° 447/1998 (la tanto abusata norma sullo Sportello Unico della Attività produttive) la procedura di V.I.A. deve necessariamente trovare il suo spazio prima – o al più durante – la conferenza di servizi, convocata al fine di decidere circa la realizzazione dell’impianto produttivo in variante al PRG”.

Ora la palla ritorna al Comune di Porto Cesareo, presso il quale pendono altre istanze di approvazione di villaggi turistici e residence in zone tutelate dalla UE (SIC) su cui le Conferenze di Servizi già convocate devono pronunciarsi definitivamente: l’auspicio è che invece si apra finalmente il procedimento per l’istituzione delle Riserve Naturali Regionali previste dalla Legge Regionale n° 19/1997, quale richiamo turistico per Porto Cesareo insieme al Parco marino, che finalmente pare decollare.

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8) E siamo nel Comune di Salve, dove ben tre progetti, con iter autorizzativo già avanzato, da realizzarsi a cavallo della litoranea, minacciano uno degli ultimi tratti di costa salentina in cui sono ancora visibili i caratteri paesaggistici naturali ed antropici storicizzati, ed è ancora evidente il rapporto con l’immediato retroterra, splendido e denso di angoli dimenticati dal tempo, nonostante il quotidiano lavorio di ruspe e betoniere.

9) Ed infine di Comune di Nardò, dove la ormai storica battaglia per la

tutela della costa sotto Serra Cicora e contro la realizzazione di un porto turistico è giunta ad un punto cruciale: la sospensione della Conferenza di Servizi per l’approvazione del porto turistico proposto dalla ICOS, se da una parte darà il tempo ai proponenti dell’opera di affinare i mezzi e le strategie per superare gli ostacoli tecnici cui fino ad ora si è ricorso, dall’altra sposta sul piano più propriamente politico, “delle scelte”, anche sull’onda degli impegni presi durante la campagna elettorale appena conclusa, il livello dell’approccio al problema.

5.3.4 Il cemento illegale su Posillipo

La Legambiente ha fatto un’analisi delle richieste di condono delle

opere abusive realizzate sulle coste di Napoli nella zona di Posillipo. Il dato rilevato consente di conoscere il numero minimo di abusi edilizi commessi sul litorale partenopeo, in un’area soggetta a vincolo ambientale in cui buona parte delle opere realizzate, secondo la normativa vigente, non potrebbero mai essere condonate. Nell’analisi condotta, gli abusi sono stati distinti per tipologie, secondo lo schema che si riepiloga sinteticamente di seguito:

all’abuso di tipo “A” appartengono: le opere realizzate in assenza o in difformità della licenza e non conformi alle norme urbanistiche; le opere realizzate in assenza o difformità della licenza ma conformi alle norme urbanistiche alla data di entrata in vigore della legge 47/85; opere realizzate in assenza o difformità della licenza ma conformi alle norme urbanistiche al momento dell’inizio dei lavori;

all’abuso di tipo “B” appartengono: opere che non comportino aumento di superficie e volume; opere di restauro;

all’abuso di tipo “C” appartengono le opere di manutenzione straordinaria o opere non valutabili in termini di superficie o volume;

all’abuso di tipo “D” appartengono le opere realizzate in luoghi di attività non residenziale.

Il totale degli abusi è di 1.757, di cui 1059 del tipo “A”, 320 del tipo “B”, 171 del tipo “C”, 207 del tipo “D”. Abusi di Tipo A

Abusi di Tipo B

Abusi di Tipo C

Abusi di tipo D

Totale Abusi

1059 320 171 207 1757 Fonte Comune di Napoli Elaborazione Legambiente

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In particolare: in zona Marechiaro gli abusi sono 70, di cui 46 del tipo “A”, 16 del tipo “B”, 8 del tipo “C”; in zona discesa Gaiola gli abusi sono 66, di cui 31 di tipo “A” 11 di tipo “B”, 3 di tipo “C”, 21 di tipo “D”; in zona via Posillipo gli abusi sono 1057, di cui 651 di tipo “A”, 186 di tipo “B”, 97 di tipo “C”, 123 di tipo “D”; in zona via Ferdinando Russo gli abusi sono 150, di cui 87 di tipo “A”, 35 di tipo “B”, 17 di tipo “C”, 11 di tipo “D”; in zona S. Pietro ai due Frati gli abusi sono 38, di cui 31 di tipo “A”, 4 di tipo “B”, 3 di tipo “C”; in zona via Salvatore di Giacomo gli abusi sono 125, di cui 75 di tipo “A”, 22 di tipo “B”, 13 di tipo “C”, 15 di tipo “D”; in zona via Santo Strato gli abusi sono 62 di cui 38 di tipo “A”, 11 di tipo “B”, 5 di tipo “C”, 8 di tipo “D”. 5.3.5 Emilia Romagna 2002…le mani sulle dune

120 km stretti tra una forte urbanizzazione ed il mare che in questa

Regione rappresenta da sempre un pezzo importante dell’identità culturale e dell’economia locale: questa è la costa romagnola dove quel che rimane di "naturale" è ben poco anche se significativo. Sottoposta a forti pressioni dalle attività umane ha progressivamente perso il suo aspetto originario, sabbioso e regolare, cedendo il passo a una serie ininterrotta di costruzioni.

E così se si decide di fare una gita in barca lungo la costa da Cervia verso sud, quello che si vede è davvero impressionante: un muro lungo 50 Km di palazzoni, una vera e propria barriera che impedisce di ammirare i rilievi appenninici che sempre di più si avvicinano alla linea di costa fino a giungervi finalmente a Gabicce ormai nelle Marche. E' il "San Bartolo" un sistema montuoso costiero ricco di strapiombi a mare, baie e insenature deliziose che si prolunga fino a due passi da Pesaro e che rappresenta una parentesi felice fra la costa romagnola e l'altro gioiello del medio Adriatico: il Monte Conero. Da queste parti l'uomo si è dato da fare fin dagli anni '50 per lasciare i segnali non sempre positivi della propria presenza. Nonostante questo delirio di cemento, meta di vacanzieri italiani e stranieri, proprio qui ha preso avvio una delle esperienze migliori: gli alberghi consigliati per l'impegno in difesa dell'ambiente. Questa spinta a cercare di porre riparo - per quel che si può - ai danni provocati sull'ecosistema urbano, tentando un alleggerimento dell'impatto ambientale del modello, si nutre di una presa di coscienza della necessità di cambiare. Acqua e spiaggia pulite, assenza di rifiuti, contenimento dell'effetto città, sono le richieste più importanti dei turisti tedeschi diretti in Italia.

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Tutti i rapporti degli ultimi anni parlano chiaro: WTO, UNEP, DOXA, CISET e da ultima REISEANALISE 2002, prodotto dal Progetto VISIT in collaborazione con la ITB ( la prestigiosa Fiera del Turismo di Berlino), sono concordi nel segnalare la qualità ambientale come elemento primario nella scelta delle destinazioni turistiche in tutto il mondo e particolarmente in Europa. Uno studio presentato dalla DOXA realizzato alle frontiere italiane su turisti in uscita dall'Italia basato su un campione di 60.000 interviste fatte nel 2001 a turisti di ritorno dall'Italia, dice l'Emilia Romagna sta perdendo colpi rispetto alla media nazionale nel grado di soddisfazione avuto durante il viaggio. Tra i punti deboli i turisti hanno indicato il paesaggio e l'ambiente naturale.

Segnali importanti registrati negli ultimi anni e al centro dell'anno dell'ecoturismo indicano inoltre l'importanza della salvaguardia degli elementi naturali, dei residui di testimonianze sulla storia dei luoghi sia per dare voce alla memoria e ai ricordi, per conoscere ambienti che non riproducano la situazione caotica delle città di provenienza. Questo consiglia di salvare e recuperare quanto è oggi possibile di storia, cultura, paesaggio. E' un tema questa caro a chi ama la propria terra e le proprie radici e allo stesso tempo tutelare l'interesse pubblico consolidando un sicuro sviluppo economico per i comuni costieri. Anche il turista italiano o straniero che sia, secondo le più recenti indagini di mercato, cerca un mare pulito, strutture che si sviluppano in armonia con l'ambiente circostante, cibi sani, luoghi di interesse naturalistico e storico da visitare e da vivere.

Queste tendenze sempre più accentuate possono essere presenti anche nelle aree dedicate al turismo di massa specie se si considera che sempre più il turista non rimane fermo nella località scelta ma si rivolge alle offerte presenti in territori allargati: il retroterra, la provincia , la regione. Le nuove domande turistiche possono essere recepite e dare vita ad un nuovo modello solo se si prende coscienza dei limiti evidenziati dal logorio del modello fin qui perseguito. Recupero dell'identità, della storia e della cultura locale, sono possibili perfino nelle situazioni più compromesse sul piano ambientale ma trovano piena realizzazione soprattutto facendo tesoro del capitale ambientale e territoriale dei luoghi di grande pregio naturalistico e di grande importanza non solo per la conservazione dell'ecosistema, ma per l'identità stessa del luogo e di chi lo abita.

E' paradossale che mentre avanzano nuove tendenze, gli ultimi lembi di costa dell’Emilia Romagna, che si sono salvati dalla speculazione immobiliare e dalla cementificazione imperante negli anni dal 50 all'80, corrano rischi assai seri. Nel mirino di speculatori che non hanno valutato neppure quanto possono valere gli stessi immobili situati nei pressi di aree naturali conservate e tutelate sono finite aree vincolate dal Piano Paesistico (colonie, aree agricole residue, sistemi costieri con la presenza di dune, pinete, spiagge libere). In particolare sono prese di mira le ultime spiagge libere e le aree costiere del Parco Regionale del Delta del Po del ravennate e del ferrarese, dalla Foce del Po di Goro a quella del Savio. Aree protette, sistemi dunali, pinete, prati umidi e

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zone rurali sono sotto il tiro di egoismi privati che spingono per la realizzazione di grandi insediamenti (villaggi turistici, campi da golf, Centri Commerciali, Stabilimenti Balneari invasivi e quant'altro). Tra coloro i quali ignorano che le aree naturali costituiscono un elemento di forza per una proposta turistica che voglia avere un futuro possono essere collocate anche alcune amministrazioni pubbliche che si stanno dimostrando deboli e incapaci di tutelare il loro patrimonio, cedendo a progetti di imprenditori poco lungimiranti. Gli esempi 1) la spiaggia dell'ex- Colonia CRI di Marina di Ravenna

Il caso più eclatante è offerto dalle vicende della spiaggia dell'ex-Colonia CRI di Marina di Ravenna, divenuta il simbolo delle battaglie contro il nuovo assalto di speculatori privati ai beni demaniali, fenomeno ormai presente non solo in zone ad alta intensità di abusivismo come le coste meridionali. La spiaggia in questione è un luogo riconosciuto come Sito di Importanza Comunitaria, 450 metri di spiaggia libera non attrezzata di estremo interesse naturalistico per le sue dune alte fino a 2-3 metri intensamente vegetate. Nel tratto di spiaggia libera l'arenile mantiene un'ampiezza media sui 70-80 m. a riprova che le dune - come recentemente dimostrato - sono l'unico vero baluardo anche per la tenuta della linea di costa a fronte dell'erosione e quindi anche uno strumento importante di protezione civile degli abitanti. La pineta che protegge la duna - lungo il lato mare della vicina litoranea la pineta è ampia sui 70 - 80 m e risulta in buone condizioni - vede una vegetazione boschiva a prevalenza di Tamerici e con alcuni bei esemplari di Olivella - e rappresenta una tregua fra la linea di spiaggia e le strade di accesso al mare. E' ancora sufficientemente vasta da permettere lunghe passeggiate in un contesto di grande pregio ambientale. Proprio in questo angolo di paradiso, fiore all'occhiello del litorale ravennate, la società Villa Marina dell'industriale modenese Giacobazzi (altrimenti noto per produrre vino), ha chiesto e ottenuto di costruire una struttura balneare che cancellerà per sempre il ricordo di uno degli ultimi sistemi dunosi ancora intatti. Gli ultimi sviluppi della vicenda raccontano di un grave imbarazzo della Giunta Comunale di Ravenna al centro ora di un maldestro tentativo di retromarcia. L'imponente iniziativa dei cittadini animata da una petizione lanciata da Goletta Verde qualche anno fa, non è però riuscita ad ottenere finora un necessario atto di coraggio del Comune. Dichiarare esplicitamente – come sembrava si volesse fare in occasione delle scorse elezioni - di aver sottovalutato il grave errore potrebbe porre le basi per recuperare la fiducia dei cittadini (oltre 13 mila) di ogni parte politica che si sono mobilitati per evitare nuove vicende simili in altre aree della zona costiera del ravennate, dove incombono interventi di vario genere (campi da golf e strutture) che replicano un modello turistico già considerato fallito dai suoi stessi protagonisti.

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2) A Milano Marittima: la spiaggia e il parco dell'ex colonia Varese stanno correndo lo stesso rischio?

Altra vicenda analoga si sta rischiando in una delle località conservate a Milano Marittima nel territorio del Comune di Cervia. Qui il soggiorno turistico non è solamente imperniato sull'arenile, ma sul binomio spiaggia/pineta, di cui restano tratti non edificati. L'edificio dell'ex colonia, oggetto di Salvalarte, una campagna di Legambiente, rappresenta uno dei complessi più interessanti dell'architettura degli anni '30. Il Parco circostante e la spiaggia sono state lasciate incolte e naturali e sono però in balia dei barbari che fanno delle spiagge e delle dune piste per motocross. Nelle dune di fronte alla ex colonia Varese, si possono trovare: il granaccio delle sabbie, l'assenzio vero, il ravastrello marittimo, il vilucchio marittimo, la carota spinosa, la salsola erba-cali, l'enagra comune e una pungentissima graminacea, la nappola delle spiagge, presente un tempo su tutte le dune che fronteggiavano il litorale cervese. La tutela dell'area ha consentito il permanere di condizioni ideali per un auspicabile recupero conservativo che ne impedisca interventi devastanti anche se le autorità preposte non hanno ancora provveduto a mettere in opera le tutele (recinzioni e vigilanza) che possano evitare vandalismi e danni. Nel frattempo si addensano voci di corposi appetiti di grandi società alimentari multinazionali. 3) Il Villaggio Elisea di Porto Garibaldi

Tra i progetti in itinere per la realizzazione di nuovi insediamenti immobiliari e Villaggi Turistici nelle aree finora rimaste libere nell'area tra Ravenna e il Delta del Po c'è quello sul quale si è già aperta una procedura formale da parte del Comune di Comacchio. Qui si è votato un nuovo sindaco, il pittore Giglio Zarattini (DS) eletto nel maggio 2002, già vicesindaco nella precedente amministrazione, che ha fatto della realizzazione di questo insediamento uno dei punti forti della sua campagna elettorale. Il capo della precedente amministrazione comunale (l'Avv. Pierotti) anche lui grande sostenitore di questo progetto, è al momento candidato a fare l'assessore provinciale al turismo.

Sul piano normativo c'è da dire che già la Giunta Regionale intervenne verso la fine degli anni 80 bloccando l'espansione edilizia nell'area. I protagonisti politici dell'epoca sono scomparsi dalla scena anche per opera della magistratura, ma restano gli appetiti. Oggi c'è un piano regolatore comunale approvato da pochi mesi che prevede 34 ettari di urbanizzazione.

Il nuovo progetto privato da esaminare - non compreso nel PRG - occuperebbe altri 39 ettari in un'area del Parco del Delta del Po (area di Preparco) a due passi dalla spiaggia, dal sistema dunale e dalla Pineta. Il villaggio vacanze "Elisea" (2.500 posti letto) proposto dall'impresa Turistica immobiliare Medusa srl, dovrebbe insediarsi appunto in questa zona (area del Podere Forbino) una delle aree bloccate dalla Giunta Regionale all'epoca. Il costruttore Tomasi, proprietario dell'immobiliare (anche lui sostenitore dell'elezione del sindaco nelle ultime elezioni), è noto per aver costruito e

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venduto (anche grazie all'uso della pubblicità televisiva) buona parte delle seconde case di ultima generazione realizzate nei Lidi Comacchiesi. L'intervento, per la mole di cementificazione proposta, per le caratteristiche delle costruzioni, per i problemi che arrecherebbe alla mobilità in un'area già congestionata, presenta tutte le caratteristiche di una vera e propria struttura urbana con tutti i difetti che i turisti trovano già nelle loro città. Si tratta dell'ennesima operazione speculativa diretta a catturare investimenti in "beni rifugio" di risparmi in fuga dai BOT e dai CCT. Gli argomenti usati dai proponenti a difesa del loro progetto, criticato con dovizia di argomenti da Legambiente e dal WWF, sono stati assai deboli: una generica disponibilità a mitigare le cose più aberranti insieme al sostegno della tesi che le 2500 persone che arriveranno al villaggio Elisea useranno l'aereo e quindi non si sommeranno altre automobili! Non ci sarebbe nessun pericolo quindi né sul fronte del temuto aumento della mobilità, né per le dune e gli altri elementi di naturalità che hanno a suo tempo fatto sì che l'area scelta del Podere Forbino fosse prima inserita nel perimetro del Parco del Delta del Po e che oggi venga proposta per una nuova colata di cemento "nelle immediate vicinanze del Parco del Delta".

Legambiente ha fatto appello ai cittadini, al Parco, al Comune, alla Provincia e alla Regione perché siano bloccati questo ed altri progetti che si pongono in netto contrasto con le tendenze turistiche in atto e con la dignità e l'orgoglio di chi ama il proprio territorio e desidera difendere le sue zone più preziose da uno sviluppo dalle gambe corte. Purtroppo fino ad ora molti hanno preferito tacere. La Regione balbetta, il Parco del Delta del Delta del Po appare finora in una posizione abulica, il Comitato Scientifico presieduto da Giorgio Celli non si è ancora pronunciato. Purtroppo l'unica a parlare è stata la Provincia di Ferrara, organo di controllo per quanto riguarda gli strumenti urbanistici, e lo ha fatto con una delibera nella quale la Giunta Provinciale capeggiata da un esponente della Margherita, con un Vicepresidente DS (l'ex capogruppo alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati On. Zagatti,) e un assessore verde all'ambiente, ha deliberato la costituzione di una "cabina di regia" con l'intento di garantire un esito favorevole alla procedura per la costruzione del villaggio sostenendo che questo rientra negli obiettivi del piano d'area. Una situazione che desta allarme.

La situazione non è rosea, nonostante che il 15 giugno sia stato insediato dalla Regione Emilia Romagna il Comitato Istituzionale del Piano per la Gestione Integrata delle Zone Costiere. Ne fanno parte i 4 presidenti delle province e i 14 sindaci dei comuni costieri.

Legambiente ha preso atto della dichiarazione - fatta dal Presidente della Regione Vasco Errani in quella occasione - di volere una gestione integrata delle zone costiere che punti sulla qualità ambientale e che concorda con l'invito rivolto agli amministratori e alle categorie economiche a puntare sulla qualità delle produzioni, sulla valorizzazione dell'identità e su una gestione che non consumi ambiente e territorio, dato che l'ambiente rappresenta, specie per il turismo, un vero e proprio patrimonio economico,

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oltre che una risorsa culturale. E' sperabile che all'assenso formale degli esponenti di Province, Comuni, Parchi ed altri enti presenti all'incontro, seguano i fatti e che la Regione faccia uso dei poteri sostitutivi nei confronti di chi continua a dichiarare intenzioni e a fare il contrario di quanto dichiarato. Le prime verifiche si potranno avere proprio sulle questioni denunciate da Legambiente: l'intervento edilizio che si sta tentando con il Villaggio Elisea a Porto Garibaldi, la tutela di dune, pinete e zone umide residue nel litorale ravennate e cervese, l'assalto in atto in alcune località ai terreni collinari e della pianura rimasti finora liberi dal cemento.

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6. L’ultima spiaggia

Per alcune spiagge e località costiere italiane, l’estate 2002 potrebbe essere l’ultima occasione. O meglio: per noi, cittadini e turisti, potrebbe essere l’ultima opportunità di visitare e vivere questi luoghi ancora belli e incontaminati, prima che scelte scellerate e politiche miopi li trasformino irrimediabilmente. Nuove costruzioni abusive, sbancamenti di dune, strade illegali o altre azioni criminali perpetrate dall’uomo, minacciano infatti alcuni dei gioielli delle coste italiane. Gioielli sui quali Legambiente vuole attirare l’attenzione affinché questi interventi destinati a soddisfare le esigenze (economiche) di pochi, non danneggino per sempre un patrimonio di tutti.

E’ il caso della spiaggia di Galenzana all’isola d’Elba, isolata e selvaggia, attualmente meta ambita per chi vuole godersi un angolo di paradiso in tutta tranquillità. Un gioiello naturale che presto potrebbe sparire per fare posto ad un porticciolo per 650 posti barca.

Nella splendida zona dell’area marina protetta di Capo Rizzuto in Calabria, invece, la bella e frequentata spiaggia del Soverito rischia di venire inglobata nell’opera di ampliamento urbanistico di un villaggio vacanze posto nelle vicinanze: al posto dell’arenile turisti e residenti potranno trovare bungalow e piscine per vacanze “tutto compreso”, anche lo scempio del paesaggio.

L’estate del 2002 potrebbe essere l’ultima occasione anche per vedere ed apprezzare il litorale di Metaponto e Policoro in Basilicata: 37 chilometri di costa quasi incontaminata minacciati da un mega-progetto di nuovi insediamenti turistici per 30mila posti letto e 5mila posti barca. E tutto questo in un’area Sic (Sito d’Interesse Comunitario). Così, a Sanremo, rischia la pregiata costa dei Tre Ponti. Un delizioso tratto di litorale caratterizzato da scogli a picco sul mare intervallati da spiagge sabbiose, potrebbe sparire e trasformarsi da attuale paradiso dei surfisti in una lunga e dritta pista aeroportuale.

Scendiamo allora in Campania, in una delle zone più belle e famose in tutto il mondo: Positano, la perla della costiera Amalfitana. Qui, ogni giorno, incessantemente, l’erosione mangia centimetri di battigia minacciando pesantemente la spiaggia libera di Fornillo, dove il processo di sfaldamento è stato favorito e sostenuto dai lavori di realizzazione del nuovo pontile per l’attracco degli aliscafi. Vediamo allora se va meglio altrove, in Veneto per esempio, nell’affascinante laguna di Caorle, dove anche Hemingway amava fermarsi a scrivere e dove un altro imponente progetto rischia di distruggere la Valle Vecchia, unica oasi rimasta: un chilometro e mezzo di spiaggia, pari a 6 ettari di arenile, scompariranno seppelliti dalla nuova strada litoranea prevista davanti alla fascia degli alberghi. Al posto della vecchia litoranea, alle spalle degli hotel, nuove piscine e strutture turistiche.

Ma le perle da salvare non sono solo queste. Gli 8mila chilometri di costa italiana, costellati di calette preziose e baie belle da togliere il fiato, sono costantemente minacciate dall’uomo: a volte dalle sue mire speculative, altre

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semplicemente dall’incuria, spesso da piccoli e grandi atti di illegalità. Qui presentiamo solo i primi 12 casi segnalati dai circoli di Legambiente e dai singoli cittadini.

Se andate in vacanza in Emilia Romagna allora, non perdete l’occasione di visitare la spiaggia dell’ex-colonia della Croce Rossa Italiana a Marina di Ravenna, dove la società “Villa Marina” ha chiesto e ottenuto la concessione per la costruzione di una mega-struttura balneare che, se realizzata, stravolgerebbe questo unico tratto di spiaggia libera rimasto con i caratteristici cordoni dunosi. Ovviamente si tratta di un’area tutelata paesaggisticamente e ambientalmente ricadendo, in parte, in un Sic. Non sfugge allo scempio nemmeno l’Abruzzo, dove la spiaggia della foce del Sangro a Fossacesia è a rischio sparizione grazie alla nuova darsena per 400 barche, costruita all’interno dell’istituendo Parco Nazionale della Costa Teatina. Qui Legambiente è già intervenuta con i blitz di Goletta Verde, la consegna al sindaco della Bandiera Nera, simbolo della peggiore gestione della costa e con una denuncia all’Unione Europea, che ha attivato un procedimento di infrazione contro la Regione Abruzzo, visto che lo scempio avverrebbe in un’altra zona Sic.

Ma i casi eclatanti per assurdità non risparmiano nessuna regione. In Sicilia, l’orrore riguarda la spiaggia più famosa di Palermo: Mondello. Qui la fascia costiera, già danneggiata dall’estensione degli stabilimenti balneari e sbarrata da una lunga inferriata metallica che la divide dalla strada, sta per sparire, cancellata alla vista da centinaia di cabine di legno che un concessionario affitterà ai turisti.

La spada di Damocle di una “villettopoli di cemento” minaccia invece il litorale marchigiano: la spiaggia di Sant’Elpidio, nota soprattutto per quel pregiato pezzo di archeologia industriale dell’ex fabbrica Fim che la sovrasta, rischia di essere completamente trasformata in area densamente costruita con palazzine, alberghi e centri commerciali, per un totale di 70mila metricubi di cemento senza alcuna destinazione pubblica. Un bel progettino realizzabile attraverso la demolizione della struttura della Fim, sottoposta ovviamente a vincolo da parte della Soprintendenza. Della spiaggia del Poetto, in Sardegna, si è molto parlato ma vale la pena ricordare il danno: oltre otto chilometri di sabbia bianca finissima dai riflessi luminosi, che costituisce un grande monumento naturale e che caratterizza la zona cagliaritana, ha subito i più svariati interventi di devastazione con indiscriminati e ricorrenti prelievi che hanno fortemente ridotto i sistemi dunali. Eppure, sebbene fortemente ridimensionata, la spiaggia era rimasta viva, bianca e luminosa, fino a quando un recente intervento di ripascimento con massiccio apporto di sabbia scura, totalmente inadeguata al contesto, ne ha stravolto il paesaggio.

Ma non sfugge alla logica della devastazione nemmeno una terra che della corretta gestione del mare potrebbe fare il volano dello sviluppo turistico ed economico: la Puglia. Nella rinomata zona del Salento, dopo la recente e pericolosa opera di distruzione della Piana di Porto Miggiano (Santa Cesarea Terme), devastata e resa pericolante dalla realizzazione di infrastrutture

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turistiche (tra cui una piscina a picco sul mare), è attualmente in via di realizzazione il porto turistico di ”Marina di Torre Inserraglio” a Serracicora (Lecce). In un’area prossima ad un Sic, vicina alla zona A (massima protezione) dell’Area Protetta Marina di Porto Cesareo e al Parco Regionale Attrezzato di Porto Selvaggio, ai piedi di un pregiato sito archeologico ancora oggetto di scavo, è previsto un porticciolo di 72mila metri quadrati che cancellerebbe la bellissima scogliera da sacrificare in cambio di un bacino interrato di 42mila mq con un lungo e ampio canale d’accesso.

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regione l'ultima spiaggia

visitarla perché… sacrificata per…

VENETO spiaggia di Caorle

si affaccia su un suggestivo tratto di laguna che affascinò

anche Hemingway

un km e mezzo di spiaggia (6 ha di arenile) verranno seppelliti dalla nuova strada litoranea prevista

davanti alla fascia degli alberghi

LIGURIA Spiaggia dei Tre Ponti

delizioso tratto di costa caratterizzato da scogli a picco sul mare intervallati da spiagge

sabbiose, è uno dei pochi paradisi italiani per surfisti

rischia di trasformarsi - a causa di un progetto insensato - in una lunga

e dritta pista aeroportuale.

EMILIA ROMAGNA

Marina di Ravenna

area tutelata paesaggisticamente e ambientalmente che ricade, in parte, in un Sito di Importanza

Comunitaria (SIC)

la società Villa Marina ha chiesto e ottenuto la concessione per una mega-struttura balneare che, se

realizzata, stravolgerebbe l’unico tratto di spiaggia libera sulla quale si sono ancora mantenuti intatti i

cordoni dunosi.

TOSCANA

spiaggia di Galenzana

all'Isola d'Elba

spiaggia selvaggia rimasta finora intatta, che non a caso Legambiente ha piazzato al

terzo posto tra quelle più belle della nostra penisola.

ha ripreso insistentemente a circolare l’ipotesi di un porto

turistico per oltre 600 barche a Marina di Campo, da realizzarsi a

spese della costa di Galenzana.

MARCHE Spiaggia di S. Elpidio

incantevole spiaggia libera caratterizzata dalla presenza, a poche centinaia di metri dalla

linea di costa, di uno splendido esempio di archeologia

industriale riconosciuta dalla Soprintendenza, la FIM

minacciata dal sinistro progetto di una "villettopoli di cemento" a soli

50 metri dalla spiaggia (11 palazzine e poi alberghi e

supermercati per un totale di 70.000 mc senza alcuna destinazione

pubblica). Naturalmente anche la FIM, vincolata dalla

Soprintendenza, verrebbe rimpiazzata da cemento fresco

fresco.

ABRUZZO foce del Sangro

(Fossacesia)

uno degli ultimi tratti di costa non cementificata del litorale adriatico. A due passi dalla

Lecceta di Torino di Sangro, è un Sic interessato da flussi

migratori avi faunistici e ricade perciò all’interno

dell’istituendo Parco Nazionale della Costa Teatina

l’amministrazione regionale, dopo aver riconosciuto il valore

naturalistico della zona, in un secondo momento, l’ha declassata

per consentire la realizzazione di un porticciolo turistico per circa 400 imbarcazioni. Per questo si è già

meritata, l'anno scorso, la Bandiera nera di Legambiente. Il porto oltre

ai posti barca prevede bar, ristoranti, minimarket, negozi.

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CAMPANIA spiaggia di Fornilo a Positano

una delle più grandi ed importanti spiagge di Positano, perla della costiera Amalfitana

sta del tutto scomparendo a causa dell’erosione marina: la sabbia è

quasi del tutto sparita ed i lidi degli stabilimenti si sono visti ridurre di

quasi tre metri la battigia. L'accelerazione del fenomeno è in

gran parte attribuibile alla realizzazione del nuovo pontile per

gli aliscafi.

CALABRIA spiaggia del Soverito

bella e frequentatissima, si trova nella Riserva marina di

Isola Capo Rizzuto

rischia di venire inglobata nell'opera di ampliamento urbanistico di un

limitrofo villaggio vacanze

PUGLIA Serracicora (Lecce)

area prossima ad un Sic, vicina alla zona A (massima

protezione) dell’Area Protetta Marina di Porto Cesareo e al

Parco Regionale Attrezzato di Porto Selvaggio, ai piedi di un

pregiato sito archeologico ancora oggetto di scavo

è prevista la realizzazione di un porticciolo di 72mila metri quadrati

che cancellerebbe la bellissima scogliera sacrificata per

l’escavazione di un bacino interrato di 42mila mq con un lungo e ampio

canale d’accesso

BASILICATA litorale di Policoro e Metaponto

37 km di costa quasi incontaminata in un Sito

d'Interesse Comunitario (SIC)

minacciato da un mega-progetto di nuovi insediamenti turistici per 30mila posti letto e 5mila posti

barca

SARDEGNA spiaggia del Poetto

rinomata per la sua sabbia bianchissima, accoglie da

maggio ad ottobre i cagliaritani che lì vanno a godersi i loro

bagni di sole

appare adesso agli occhi increduli dei visitatori nera. La causa del cambiamento è il ripascimento,

necessario ma realizzato in modo discutibile, commissionato dalla

Provincia.

SICILIA Mondello da secoli è la spiaggia dei palermitani

l’accesso al mare è impedito dagli stabilimenti balneari, che lungo i tre chilometri di litorale hanno lasciato aperti solo due varchi, invece di uno ogni 150 metri come prescritto dalla normativa. Arrivano poi ogni estate

centinaia di cabine di legno a nascondere la dolce vista sul mare.

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7. Fronte del porto

In epoca antica, i porti marittimi rappresentavano una risorsa importante per i territori che li ospitavano, essendo il crocevia dei percorsi dei mercanti, depositari di beni e conoscenze di difficile reperibilità in un mondo tutt’altro che globalizzato. Con l’avvento della società contemporanea questo ruolo è andato progressivamente sbiadendo, ma i porti per molte località del litorale italiano continuano a costituire una ricchezza molto importante. Non solo dal punto di vista commerciale, ma anche, e soprattutto, come volano dell’industria che ruota attorno al turismo.

Dietro a questo scenario idilliaco, però, spesso si cela una realtà ben diversa. Una realtà in cui i porti si trasformano nell’ennesima occasione per speculazioni a molti zeri, ai danni delle casse pubbliche, e in una vera e propria aggressione ai danni del patrimonio naturale. Così in alcuni casi decine di porti e porticcioli spuntano lungo la costa a poche decine di chilometri l’uno dall’altro come funghi dopo un temporale, in barba alla logica e a qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale. In altri casi, invece, strutture portuali progettate per rispondere a reali o presunte esigenze finiscono impantanate nella palude della burocrazia e dei ritardi incomprensibili, che trasformano vaste porzioni di territorio in un cantiere in pianta stabile. In altri casi ancora, porti realizzati facendo ricorso a stanziamenti dell’erario finiscono inspiegabilmente nelle mani di privati che li gestiscono a proprio piacimento. Il risultato è quasi sempre lo stesso: fiumi di denaro pubblico gettati al vento e nelle tasche degli speculatori, mentre il mare e i litorali agonizzano, insidiati sempre di più dal cemento. E’ quanto avvenuto, per esempio, in Sardegna, dove, in assenza di un adeguato controllo, gli interessi di progettisti e imprese costruttrici hanno spinto verso la realizzazione di infrastrutture sovradimensionate, spesso inadatte al loro ruolo.

Se da un lato il diporto nautico va considerato come una componente significativa dell’economia turistica delle aree costiere, dall’altro è evidente che le proposte di piani per la portualità turistica presentati fino ad oggi sono condizionati da alcune presunte esigenze che tendono ad appesantire più del necessario il livello delle infrastrutture presenti lungo il litorale. E’ opinione comune, infatti, che i porti turistici debbano avere una grande dimensione, pari ad almeno 700-800 posti barca, per ragioni di economia di gestione. Accettare indiscriminatamente questo principio significa ignorare la netta distinzione di funzione tra i porti stanziali, destinati a servire da basi logistiche permanenti, ed i porti di scalo, da utilizzare su base stagionale come semplici punti di tappa durante le crociere estive. I porti del secondo tipo non richiedono, in realtà, né le dimensioni, né l’insieme di servizi che devono essere presenti nei porti stanziali. Deve essere sfatata anche la presunta esigenza di attrezzare l’intero sviluppo costiero del nostro paese con una catena ininterrotta di porti da disporre a distanze di 20-30 miglia, vale a dire ad una normale giornata di navigazione l’uno dall’altro. Già oggi, infatti, è molto elevato il numero delle imbarcazioni che dai porti della Liguria, della Toscana e del Lazio migrano per

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le vacanze verso la Corsica e la Sardegna, coprendo tratte in mare aperto anche nell’ordine del centinaio di miglia, così come è considerato normale nell’Adriatico un trasferimento verso le coste della Dalmazia, di lunghezza poco inferiore.

E’ essenziale, perciò, che dagli sforzi volti ad avviare un processo di sviluppo della nautica nel nostro paese non emerga un approccio simile a quello proposto in passato con il progetto Bonifica per il Ministero della Marina Mercantile (“Sistema di Approdi nel Mezzogiorno”), che accettava in modo acritico i due postulati appena messi in discussione, vale a dire quello della dimensione dei porti, considerati tutti obbligatoriamente di grandi dimensioni, e quello delle distanze tra loro. Un simile modo di procedere si tradurrebbe in un’ulteriore cementificazione della fascia costiera o in uno spreco di risorse pubbliche. Appena ci si allontana dai principali bacini di utenza, infatti, la possibilità di realizzare dei porti turistici utilizzando esclusivamente capitali privati sussiste solo quando alla realizzazione di porti vengono abbinate grosse operazioni immobiliari. Un esempio chiaro in questo senso è rappresentato da quanto accaduto nelle isole Baleari, ed in particolare a Mallorca, dove i numerosissimi porti turistici sono, in realtà, soltanto i “garage da barche” dei complessi turistici realizzati a filo di costa.

Anche se lo sviluppo della nautica può avere delle ripercussioni positive dal punto di vista economico, c’è dunque il rischio concreto che dietro l’obiettivo ufficiale di tale sviluppo possano nascondersi interessi non dichiarati per operazioni immobiliari sul litorale o per la costruzione di porti inutili a carico di tutta la collettività. Innanzitutto è necessario fare chiarezza sui numeri: si è spesso parlato di 800mila barche, ma le dimensioni reali della flotta da diporto italiana si aggirano tra le 80-90mila unità. Il resto è composto da gommoni, lancette, derive e pattini, che con i porti non hanno nulla a che fare. La “densità nautica media” non è unque di una barca ogni 70 abitanti, ma di una ogni 700. La domanda di posti barca permanenti potrà dunque registrare una certa crescita ma sarà sempre difficile convincere i diportisti a scegliere come porti di armamento delle località lontane dalla loro residenza, e magari anche difficili da raggiungere.

E invece negli ultimi quattro anni sono stati realizzati nel nostro Paese 36 nuovi porti turistici contro i 44 costruiti nei cinquant’anni precedenti. Sono 35 i progetti (per un totale di 17mila posti barca) che hanno già ottenuto l’autorizzazione, mentre altre 50 richieste (altri 20mila posti barca) attendono il sì definitivo dalle Conferenze di servizi. Il tutto si andrà a sommare ai 110mila posti barca già esistenti.

Senza riportare documenti di fede ambientalista, che potrebbero essere sospettati di faziosità, vale la pena riportare quanto contenuto nel Documento sulla portualità turistica nel Mezzogiorno, curato dall’Ucina, l’organismo della Confindustria che raggruppa gli imprenditori della nautica. A detta dell’Ucina su intere regioni del nostro Paese la disponibilità attuale dei posti barca sarebbe più che sufficiente a soddisfare le esigenze della domanda: è il caso del Lazio, dell’Abruzzo e della Puglia. Al contrario, se si legge il Piano porti della

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Regione Lazio si scopre la volontà di realizzare nel prossimo periodo ben 10mila nuovi posti barca. In Abruzzo, se si portassero in porto, è il caso di dire, i progetti presentati, si conterebbe un approdo ogni 13 chilometri, senza considerare quanto sta accadendo in Puglia dove si prevede di realizzare un porticciolo, quello di Serra Cicora, a due passi da due aree protette, ma soprattutto a tre chilometri da un porto già esistente (porto Cesareo).

Queste valutazioni devono anche tenere in considerazione il tenore di vita che caratterizza le diverse aree della penisola: non a caso la grande maggioranza della flotta è concentrata nel mar Ligure, nell’Alto Tirreno e nell’Alto Adriatico. Lo sviluppo del turismo nautico nel Mezzogiorno dipenderà dunque in misura significativa dalla capacità o meno di attirare una clientela proveniente dall’Italia settentrionale e dal Nord Europa. Ciò implica l’abilità nell’attirare una clientela disposta a lasciare permanentemente la propria imbarcazione nel sud, dato che la maggior parte dei diportisti durante le crociere estive non si allontana più di 150-200 miglia dal porto di armamento.

L’acquisizione di una clientela stanziale può però venire solo a rimorchio di un massiccio sviluppo turistico a terra, oppure da un reale interesse nautico delle coste, come in Grecia, Turchia o in Croazia. Una prospettiva che, sulla scorta di quanto avvenuto in passato, può far venire i brividi: è auspicabile, infatti, che nell’Italia meridionale non si ripeta la tentazione di costruire più abitazioni sulla costa nella speranza di attirare più barche, e la demolizione di Coppola Pinetamare sembra dare un segnale positivo in questo senso. D’altra parte, molti tratti della costa del Mezzogiorno, per quanto dotati di grande potenziale turistico, hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti da un punto di vista nautico, a causa soprattutto del carattere lineare e poco articolato delle coste. Si giustifica così un approccio più selettivo, che concentri l’attenzione sulle zone più interessanti come bacini di vacanze nautiche, rifiutando la tesi del porto di grandi dimensioni ogni 20 o 30 miglia lungo il litorale. Abruzzo: nel 2000 bandiera nera per Fossacesia

Il Comune abruzzese di Fossacesia due anni fa si è meritato una delle bandiere nere di Legambiente. Il motivo? La realizzazione di un porticciolo turistico per circa 400 imbarcazioni di lunghezza variabile dai sei ai 12 metri, su uno degli ultimi tratti di costa non cementificata del litorale adriatico, in prossimità della foce del fiume Sangro, all’interno dell’istituendo Parco Nazionale della Costa Teatina.

Gli strali congiunti di Legambiente, Wwf e Italia Nostra, che si sono mobilitati per impedire la costruzione del porto, non sono serviti a bloccare i lavori, estesi su una superficie di 100mila metri quadrati ad un centinaio di metri dalla foce del Sangro e a due passi dalla Lecceta di Torino di Sangro, in un'area Sito di importanza comunitaria. Al contrario, l’ennesimo attentato all’ambiente, in un’area interessata da flussi migratori avi faunistici, è stato favorito dall’atteggiamento pilatesco dell’amministrazione regionale, che dopo aver riconosciuto il valore naturalistico della zona, in un secondo momento, per

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consentire la realizzazione del porto, l’ha declassata. Il tutto per fare spazio ad un porto che oltre ai posti barca prevede bar, ristoranti, minimarket, negozi e stutture di pronto intervento. La denuncia degli ambientalisti a Bruxelles ha sortito i suoi effetti e l'Unione europea ha avviato un procedimento di infrazione nei confronti della Regione Abruzzo per l'intervento.

Come testimoniato dai dati dell’Ucina, l’unione di cantieri, industrie nautiche e affini che aderisce a Confindustria, la domanda della navigazione da diporto poteva essere soddisfatta dalle vicine strutture di Pescara, Ortona e Vasto, ma grazie al furore cementificatorio di Regione ed enti locali, il litorale abruzzese rischia di raggiungere in un brevissimo arco di tempo una densità di aree portuali da Guinness dei Primati: una ogni 13 chilometri. Nella stessa fascia di litorale, infatti, è già in programma la costruzione di nuovi attracchi, sebbene gli stessi operatori economici del settore abbiano già espresso la propria perplessità rispetto a nuovi progetti. Calabria: il porto “fantasma” di Crotone

Il porto di Crotone si va progressivamente spegnendo. Paradossalmente, proprio ora che Crotone può contare su un porto attrezzato e su chilometri di banchine, non ci sono più imbarcazioni, mentre in passato spesso si creava la fila di quelle costrette ad attendere il proprio turno per poter sbarcare e imbarcare il proprio carico. Due anni fa è stato registrato un calo del 23,56 per cento del movimento delle merci, con un valore in assoluto pari a meno 73.507 tonnellate. Il maggior calo è stato registrato nelle merci sbarcate, meno 33,37 per cento, mentre quelle imbarcate, i cui volumi però sono inferiori, hanno fatto registrare un incremento del 17,86 per cento. A quest’ultimo risultato ha contribuito la chiusura dello stabilimento Pertusola: circa 50mila tonnellate di ferriti, 4.600 di cemento di rame e 1.550 di calamina calcinata, rappresentano infatti, i residui di lavorazione dello stabilimento metallurgico e costituiscono da sole poco meno dell’80 per cento del totale delle merci imbarcate.

Il crepuscolo del porto di Crotone si stava delineando da almeno un decennio, e si è aggravato ulteriormente negli ultimi tre anni, senza che ci fosse alcuna iniziativa per attrarre un volume di traffici più consistente. La soluzione del problema, come spesso accade, sembra dover passare ancora una volta dal cemento. La dotazione delle banchine, infatti, è destinata ad aumentare di 570 metri lineari, facendo del sistema portuale crotonese una struttura di notevoli dimensioni. Il tutto ad un costo complessivo pari a circa 32 miliardi. Altri ingenti investimenti, dunque, come se l’ampliamento di un porto già scarsamente utilizzato bastasse di per sé a rilanciare l’economia locale.

In effetti, a questa eventualità non sembrano credere in molti, tanto che già si punta sul turismo per lo sviluppo del territorio. Così fioriscono nuovi progetti, a cominciare da quello del porto turistico nel bacino sud (porto Vecchio), che prevede la sistemazione dell’intera area con l’apertura verso il quartiere marina e la costruzione di edifici per servizi. In questo contesto si inserisce anche la richiesta della società Aeroporto Sant’Anna di utilizzare una parte del bacino nord, banchina di riva e radice dell’attiguo molo foraneo,

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come approdo turistico riservato ad imbarcazioni di maggiore stazza. Sta prendendo corpo, inoltre, l’ipotesi della realizzazione di un approdo per navi da crociera, inserendo la città negli itinerari turistici.

Tutti questi progetti sembrano preludere all’ulteriore esborso di quattrini pubblici per la realizzazione di opere la cui effettiva utilità resta tutta da dimostrare. Visti gli errori compiuti in passato, sarebbe dunque preferibile cercare di far funzionare una volta per tutte le strutture già realizzate. A meno che non si pensi di rilanciare l’economia locale attraverso la continua apertura di nuovi cantieri fini a se stessi. Lazio: il caso di Tarquinia…

La teoria che sia sufficiente costruire un porto per promuovere lo sviluppo turistico di una zona sembra aver fatto proseliti anche nel Lazio. E’ il caso, almeno, di Tarquinia, culla della civiltà etrusca, dove è in progetto la realizzazione di una struttura portuale per imbarcazioni da diporto all’altezza della foce del fiume Marta. Un vasto terreno, distante circa due chilometri alla foce del fiume, è infatti oggetto da tempo di una tentata variante urbanistica per trasformare 43 ettari di zona agricola ad alto valore paesaggistico in zona portuale, in grado di ospitare più di mille imbarcazioni.

Contro il progetto si sono schierate le principali associazioni ambientaliste, che hanno sottolineato come sulla costa di Tarquinia siano già stati costruiti in passato un milione e mezzo di metri cubi di cemento in seconde case ed alberghi, mentre l’amministrazione comunale si è già attivata per consentire altre operazioni simili nelle lottizzazioni di San Giorgio, del Lido di Tarquinia e di Marina Velca.

Il progetto di Tarquinia non tiene conto, inoltre, dell’estrema vicinanza di un altro porto, progettato alla foce del fiume Fiora e inserito nel Piano dei Porti della Regione Lazio nel contratto d’area Tarquinia-Montalto di Castro. L’aver progettato due strutture portuali alla distanza di circa 10 chilometri l’una dall’altra, per di più insistenti su pianure alluvionali e servite da fiumi con scarso apporto idrico, sembra preludere alla distruzione delle due foci fluviali. Le dimensioni della variante sono anche del tutto incompatibili con l’attività balneare delle spiagge del Lido, a causa dell’inquinamento atmosferico e acustico, e dell’intorbidimento delle acque derivante dalla presenza del porto.

Il sospetto è che il progetto del porto possa in realtà rappresentare uno stratagemma per cambiare la destinazione d’uso dei terreni interessati. Il solo passaggio da zona agricola a zona portuale, infatti, ha determinato un aumento istantaneo del valore dei terreni pari a 40 miliardi di lire. Così, se il progetto della nuova area portuale sarà bocciato, basterà una piccola variante per dare il via alla costruzione di nuove seconde case. …e quello di San Felice Circeo (Lt)

La Delibera del Consiglio Regionale (n. 491 del 22/12/1998) prevedeva un ingrandimento “non eccessivo” del porto di San Felice Circeo, viste le

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“difficoltà di collegamento stradale, la ripidità delle pendici incombenti e la limitata disponibilità delle aree terrestri”. Consigliava, inoltre, di studiare provvedimenti per l’eliminazione della barra sabbiosa che si forma presso l’imboccatura portuale, e auspicava che il Comune assumesse iniziative decise per una razionalizzazione del porto esistente.

Quello che nella Delibera era un'ampliamento "non eccessivo" nella realtà è diventato il raddoppio secco dei posti barca.

Nel corso del mese di maggio 1999 la PENTA Srl presenta al Ministero dei Trasporti e della Navigazione – Capitaneria di Porto di Gaeta – un progetto per l’ampliamento del porto turistico di San Felice Circeo che andrà ad occupare un’area demaniale marittima di circa mq 56.650, comportando un incremento di oltre 200 posti barca, rispetto ai 250 già esistenti.

Tale progetto, pur ponendosi in contrasto con le direttive del Nuovo Piano di Coordinamento dei Porti della Regione Lazio, ha visto recentemente l’approvazione delle autorità competenti.

Oltre alla compromissione irreversibile degli ecosistemi marini e terrestri, tale opera comporterà un notevole aggravamento della già precaria situazione urbana dell’abitato di San Felice Circeo, soprattutto con riferimento al traffico veicolare, il rischio dell’incremento del fenomeno di erosione delle coste, già in atto, lungo il litorale fino a Terracina e la distruzione di una prateria di posidonia. Liguria: molti progetti, molti dubbi

Anche sul litorale ligure la situazione della portualità minore presenta alcune situazioni a rischio. Una di queste è quella di Levanto, dove il Piano Regionale della Costa prevede un porto con funzioni di rifugio, a mezza via tra il Tigullio e il Golfo della Spezia. Le caratteristiche della baia di Levanto implicano però dei costi elevatissimi a causa della necessità di fissare la diga su fondali oltre i 10 metri. Dato che il porto sarebbe molto piccolo, con 200-250 posti barca, il solo modo per realizzare l’opera sarebbe quello di abbinarla ad un’operazione immobiliare, contraddicendo così uno dei principi alla base del Piano: niente condomini con la scusa che servono a coprire i costi dei porti. In attesa che si chiarisca la fattibilità del porto rifugio, il Comune ha autorizzato la costruzione di un miniporto, realizzato con mezzi di fortuna, che rappresenta una vera e propria baraccopoli nautica.

Procedendo verso Genova, va segnalato il caso di Chiavari-Lavagna, da citare come esempio classico delle cose da non fare, con due porti collocati ai lati della foce del fiume che alimentava le spiagge circostanti. Oggi le spiagge sono in crisi e i due porti si insabbiano. L’unica attenuante è costituita dal fatto che si tratta di opere realizzate da tempo, prima che i problemi dell’equilibrio costiero fossero tenuti nella dovuta attenzione. Per lo meno a Chiavari il Comune ha preso in carico un’opera abbozzata dal Genio Civile Opere Marittime e lo ha trasformato in un porto ben gestito ed accogliente. Tutto sbagliato, invece, a Lavagna: localizzazione, progetto, costruzione (i pontili

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stanno sprofondando e la diga è in cattive condizioni), e modalità di gestione (la società realizzatrice è fallita clamorosamente). La “fame” di posti barca in questo tratto di litorale è nota, ma si sarebbe potuto provvedere ricorrendo a soluzioni più rispettose del contesto costiero.Sempre nel Tigullio sta montando una grossa polemica sull’ipotesi di sistemazione del porto di Santa Margherita. Le obiezioni, in particolare, si concentrano sulla realizzazione di una diga di sottoflutto a ridosso del castello, che gli autori del progetto ritengono indispensabile per garantire la tranquillità dello specchio d’acqua protetto. L’ammissibilità del progetto dovrà dunque essere valutata alla luce dei risultati della valutazione di impatto ambientale.

Merita attenzione anche il progetto di Noli-Spotorno, che ha messo d’accordo le aspirazioni dei due Comuni proponendo un porto a cavallo tra i loro territori. In quel punto, però, i fondali scendono rapidamente, tanto da limitare drasticamente la larghezza del bacino, nonostante la presenza di una diga posta in più di 10 metri d’acqua. Quattrini pubblici a disposizione non ce ne sono e il valore stimato dei posti d’acqua difficilmente arriverà a bilanciare il costo della costruzione. Ancora una volta, dunque, c’è il rischio concreto che per far quadrare i conti alla realizzazione del porto venga abbinata una speculazione edilizia sulle colline retrostanti.

La situazione non è rosea neppure a Loano. Il porto, infatti, sembra destinato a creare problemi reali alle spiagge di Pietra Ligure. Per di più, i lavori di Loano sono rimasti a metà per molti anni, con risultati paesaggistici facilmente immaginabili. A Diano Marina, invece, è in progetto un ampliamento del porticciolo attuale che, a causa del suo rilevante aggetto dalla linea di costa, rischia di bloccare i flussi di sedimenti che provengono da un torrente e alimentano la spiaggia a ponente del porto. Al termine della spiaggia, già sotto Capo Berta, è possibile “ammirare” uno dei migliori mostri litoranei della Liguria, costituito da un’orrenda roulottopoli sovrastata dai resti incompiuti di un complesso immobiliare abbarbicato alla falesia sovrastante.

Sospiro di sollievo per Imperia, il cui piano regolatore portuale inizialmente prevedeva l’occupazione di tutto il tratto di costa tra Oneglia e Porto Maurizio. Fortunatamente, trattandosi di un porto anche commerciale, la procedura di Via era di competenza nazionale ed il gruppo di valutazione lo ha bocciato. La revisione del piano che ne è conseguita ha notevolmente ridotto l’impatto delle opere previste. Va segnalato anche il caso di Sanremo, dove si vorrebbe saldare completamente Portosole con il vecchio porto pubblico, eliminando il tratto di spiaggia che si colloca tra i due bacini. Sebbene la spiaggia non abbia più un ruolo dal punto di vista balneare, dal punto di vista urbanistico è il solo elemento che evita la completa chiusura della città sul lato a mare, e dunque meriterebbe di essere conservata. Puglia: cresce il rischio speculazione

La Regione Puglia, pur priva di un piano organico dei porti e degli approdi turistici, ha inserito una serie di opere portuali in delibere funzionali all’accesso ai fondi strutturali (ex POP, ora POR), che per la provincia di Lecce

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comprendono, tra le altre, strutture portuali incongrue sia dal punto di vista dell’impatto paesaggistico e ambientale, sia per il loro dimensionamento. Si tratta dei porti di Santa Cesarea Terme, Ugento e Gallipoli.

Nel caso della struttura di Ugento-Torre San Giovanni i posti barca previsti sono ben 733. Il progetto, però, dopo essere stato approvato dal Consiglio Comunale è stato bocciato dalla Regione. Per quanto riguarda Gallipoli, invece, la tipologia di intervento prevede una stazione marittima in grado di ospitare 650 imbarcazioni, affiancata da spazi espositivi, aggregativi e di servizio. Nel complesso banchine e moli avranno un’estensione di 2.500 metri e le opere foranee di mille metri. Il contratto di programma per la realizzazione del porto è in via di completamento, ma il progetto è ancora privo della valutazione di impatto ambientale. Considerato che i porti di Sibari e Leuca sono già sottoutilizzati e ultrastagionali, e che ad essi si aggiungerà quello in programma a Taranto, queste strutture appaiono del tutto slegate da logiche di mercato, ma volte piuttosto ad alimentare una logica tutta affaristica e a valorizzare singoli insediamenti privati.

Al di là di questa bozza di pianificazione fioriscono poi, su istanza di ogni singola frazione “balneare”, tutta una serie di altri approdi di cui pullulano le coste salentine. Create quasi sempre come semplici scali d’alaggio con frangiflutti, in seguito queste strutture si trasformano di fatto in porti “abusivi” da condonare. In altri casi, come quello ormai tristemente famoso del porto turistico “Marina di Torre Inserraglio”, da realizzarsi nel Comune di Nardò, in località Serra Cicora, la società che possiede un villaggio turistico propone un porto per cui l’amministrazione comunale indice immediatamente una delle famigerate conferenze di servizi, tuttora in corso, per valorizzare la sua struttura e creare il precedente infrastrutturale per l’urbanizzazione turistica di un tratto di costa incantevole, non a caso tutelato dall’Unione Europea. Il progetto del porto di Serra Cicora prevedeva un’area totale d’intervento di 72mila metri quadrati, l’escavazione di un bacino interno di 42mila metri quadrati, un canale di accesso di 55 metri di lunghezza per 35 metri di larghezza, due dighe foranee a mare lunghe rispettivamente 148 e 15 metri, oltre ad infrastrutture a terra che comprendono un’area parcheggio per oltre 300 posti auto, strade di collegamento e due edifici per servizi. L’impatto che una struttura simile avrebbe avuto sull’ambiente circostante sarebbe stata senza dubbio devastante, e per questa ragione in molti tra associazioni ambientaliste, politici e privati cittadini si sono attivati per impedirne la realizzazione. Sardegna: troppi soldi gettati a mare

L’amministrazione regionale sarda negli ultimi 20 anni ha erogato finanziamenti a fondo perduto corrispondenti a più di 600 miliardi di lire di oggi per la realizzazione di porti turistici, senza riuscire tuttavia ad innescare un reale processo di sviluppo. Forse in nessuna regione come in questa, infatti, i soldi pubblici sono stati sperperati in decine di interventi inutili nella migliore delle ipotesi, ma spesso dannosi e convenienti solo per chi doveva speculare sulla costa. Un’indagine curata dall’ingegner Bussetti, un esperto del settore

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nautico e nella progettazione di opere portuali, ha portato a conclusioni sconfortanti: secondo Bussetti, infatti, il costo complessivo di un porto di medie dimensioni (500 posti barca) è di circa 30 miliardi, ovvero 60 milioni a posto barca, assumendo di operare in situazioni estreme, ovvero in litorali aperti e privi di ridossi naturali, anche se il costo medio di costruzione di un posto barca lungo il Tirreno non supera di norma i 50 milioni. Con queste cifre di riferimento, i 600 miliardi spesi in Sardegna avrebbero dovuto produrre qualcosa come 10-13mila posti barca. Se le cose fossero andate davvero così, l’isola italiana avrebbe doppiato la disponibilità offerta dai vicini corsi, sempre invidiati per i loro 5.900 posti barca ben distribuiti lungo tutto il litorale. In realtà, i posti barca messi insieme dal piano di intervento pubblico in Sardegna sono soltanto 2.500 e spesso di qualità discutibile. In pratica, dunque, ogni posto barca pubblico in Sardegna è costato alla Regione 240 milioni, quasi cinque volte il costo medio sul Tirreno. Dopo 15 anni di lavori, tutti i porti avviati sull’isola sono ancora cantieri in costruzione, secondo una pratica diffusa fatta di varianti in corso d’opera, contenziosi fra imprese e amministrazioni locali, e altri giochi di prestigio a spese dell’erario. In effetti, l’estrema frammentazione dei centri d’investimento sembra un meccanismo creato ad arte per mantenere costantemente aperti i canali di erogazione dei fondi pubblici. Un cantiere aperto, infatti, è il modo migliore per far continuare a scorrere i rubinetti dei finanziamenti.

Se da un lato i porti del nord-est dell’isola sono cresciuti al seguito di un’escalation immobiliare simile a quella delle Baleari, dall’altro i centri maggiori sono ancora privi di basi nautiche di buone dimensioni e di buon livello qualitativo. Cagliari, Alghero, Porto Torres e Olbia, infatti, dispongono solo di strutture precarie, di dimensione limitata ed incapaci di attirare una clientela qualificata. In compenso lungo il litorale dell’isola sono stati progettati, e spesso realizzati magari in forma incompiuta, porti disegnati come se dovessero sorgere in Liguria o in Costa Azzurra. Gli esempi di questo tipo non mancano. Alla Maddalena il Comune spinge per un porto con più di mille posti barca e c’è chi pensa di trasformare l’arsenale della Marina in un centro di manutenzione per grandi unità da diporto. Resta però da spiegare come un progetto di questo genere possa conciliarsi con il parco marino.

A Palau, invece, è prevista un’espansione del porto che finirebbe per eliminare tutta la spiaggia e la pineta ad est dell’abitato. E’ probabile che in questo caso la domanda di ormeggi sia reale, ma la loro realizzazione non può prescindere dalla valutazione dell’impatto delle infrastrutture sull’ambiente. Sulla costa di levante esiste effettivamente un buco di copertura tra Siniscola (La Caletta) e la zona di Arbatax, in quanto Cala Gonone è caratterizzata da dimensioni ridotte e durante la stagione è strapiena, tanto da essere stata ribattezzata Cala Gommone. Un’espansione del porto sul lato nord sarebbe però demenziale dal punto di vista dei costi, mentre a sud i danni alle spiagge recentemente risistemate sarebbero quasi certi. Se non si trova un’alternativa migliore dalle parti di Orosei sarebbe dunque preferibile lasciare le cose come stanno.

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Un vero e proprio caso di follia pianificatoria è quello di Porto Corallo. Realizzare un porto da quasi 700 posti barca con grandi piazzali ed altre infrastrutture di supporto, in una zona lontana da qualunque centro abitato, è stata un’operazione priva di qualunque significato. Il sospetto è che il porto sia stato utilizzato come grimaldello per far saltare i vincoli urbanistici della zona, ma la questione merita di essere approfondita. A Villasimius il porto è stato completato, ma stenta a trovare clienti. Evidentemente invece di costruire un porto stanziale da 650 posti sarebbe stato più ragionevole realizzare uno scalo stagionale di minore impatto, ma in tal caso non si sarebbero potuti spendere gli oltre 70 miliardi che si mormora siano stati investiti nella struttura di Villasimius. Che sia questa la ragione che ha fatto propendere per il porto stanziale?

Sulla costa meridionale non emergono casi macroscopici a proposito della portualità turistica. Spicca soltanto l’assenza a Cagliari di una base nautica importante, che dovrebbe diventare uno dei poli portanti dell’ipotetico sistema regionale. Sempre a Cagliari bisogna però ricordare il Porto Canale, opera ciclopica destinata a diventare una sorta di Porto Marghera della chimica, che invece col passare del tempo si è trasformata in un porto di trasbordo per contenitori. Il porto, infatti, è finito, con tanto di gru di banchina e mezzi di piazzale, ma di navi non se ne vede traccia, se si escludono le unità di cabotaggio della Tarros che ne utilizzano solo una piccola porzione. Una considerazione che sicuramente non interessa a chi attorno al Porto Canale è riuscito a spendere centinaia di miliardi di denaro pubblico. A Oristano la situazione è simile: il porto industriale, diventato famoso negli anni Ottanta come unico porto italiano sottratto al monopolio delle compagnie portuali, è una struttura macroscopica che sta manifestando in pieno la sua inutilità.

Tornando alle strutture turistiche, quella di Porto Teulada è stata lasciata a metà, e potrebbe forse essere completata in modo più congruo rispetto a quanto previsto dal progetto iniziale. Il porto è in una zona deserta, col paese a parecchi chilometri nell’entroterra, tanto che sulla diga già completata sono stati rubati rubinetti dell’acqua, lampade, fili elettrici degli impianti e quant’altro potesse servire ai costruttori di casette abusive della zona. Girato l’angolo si giunge a Carloforte, dove il piano regolatore del porto commerciale prevede un bacino protetto di dimensioni faraoniche, come se invece dei traghetti locali si dovesse accogliere tutto il traffico del porto di Genova. Il traffico commerciale è stato incredibilmente sopravvalutato, ed è dunque auspicabile che la realizzazione del piano regolatore venga bloccata.

Un altro caso eclatante è quello di Buggerru, una piccola località del Fluminese, sulla costa occidentale della Sardegna, in provincia di Cagliari. Collegata al resto del mondo da poche stradine tortuose, Buggerru non dispone di alberghi, né e facile trovare da dormire nel raggio di una ventina di chilometri. Eppure proprio qui,15 anni fa, la Regione decise di avviare i lavori di realizzazione di un porticciolo turistico. Avrebbe dovuto ospitare 150 barche, ma neppure nei periodi di maggiore affluenza turistica si registra il tutto esaurito. Anzi, chi conosce il porto lo evita: l’entrata, in caso di mare

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mosso, rappresenta un’ardua impresa anche per i marinai più esperti. Per non parlare dell’uscita: una volta entrati, infatti, non è raro ritrovarsi insabbiati. Nessuno sa come rimediare, ma in attesa di trovare una soluzione si è provveduto ad avviare la pavimentazione delle banchine con quadrotti di granito lucidato. Ovvero, quando l’apparenza conta più della sostanza...

Un altro caso di “faraonismo progettuale” è quello di Bosa, a metà strada tra Oristano e Alghero. L’idea è quella di trasformare l’attuale porto fluviale in una struttura importante e agibile in ogni condizione meteo. Con questo obiettivo, è stata ipotizzata la realizzazione di una di una diga monumentale che dovrebbe sorgere a ridosso di tutta la zona della foce del Temo, con implicazioni paesaggistiche ed economiche del tutto sproporzionate rispetto alla possibile utilità dell’opera. E’ evidente, infatti, che Bosa non può rappresentare altro che un porto di scalo, oltre che una base per i natanti leggeri dei villeggianti. Per il primo scopo sarebbe sufficiente proteggere meglio il porto esterno già esistente, mentre per il secondo non è necessario alcun intervento. Anche nel caso di Bosa, però, la spinta a spendere quattrini pubblici è difficilmente contrastabile.

La febbre dell’espansionismo ha colpito anche sulla costa settentrionale dell’isola. A Stintino, infatti, la situazione è a rischio perché come al solito si ipotizza un’espansione di Porto Mannu di dimensioni e caratteristiche esagerate. Il caso più clamoroso rimane comunque quello di Porto Torres, dove il porto industriale non è mai entrato in servizio e apparentemente non è neppure convertibile in porto turistico. Il piano regolatore portuale prevede, infatti, una grande espansione del vecchio porto commerciale. Sicilia: il cantiere di Capo d’Orlando compie 30 anni

Il cantiere del porto di Capo d’Orlando, aperto da più di un quarto di secolo, è riuscito nella poco invidiabile impresa di coniugare lo spreco di risorse pubbliche (10 i miliardi spesi finora) con il degrado dell’ambiente circostante. I lavori per la costruzione del porto, infatti, hanno determinato lo sconvolgimento di tutto il litorale nella zona di sottoflutto: a Brolo, a Piraino e a Gioiosa Marea intere spiagge sono state spazzate via dalla realizzazione del molo, che ha interrotto il trasporto litoraneo della sabbia e ridisegnato il profilo della costa, portando le onde fino a lambire le case e la litoranea. Anche in questo caso la soluzione al problema nelle menti degli amministratori locali prende corpo sotto forma di un raddoppio del progetto esistente. Così, invece di creare le condizioni per ultimare una buona volta i lavori avviati nel 1972, il Comune di Capo d’Orlando vorrebbe ampliare il porto.

Pochi chilometri più in là ecco Sant’Agata di Militello, 13mila abitanti per buona parte dediti alla pesca artigianale. Le barche tirate faticosamente a secco sulle spiagge convinsero l’Amministrazione Comunale della necessità di avviare anche qui la realizzazione di un porticciolo. I lavori sono partiti nel lontano 1979 e non se ne vede ancora la fine. Nel frattempo la realizzazione del molo ha determinato l’erosione della spiaggia. Oggi la spiaggia non c’è più e i pescatori sono costretti a tirare a secco le loro barche direttamente sulla strada.

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A Giardini Naxos la costruzione di un porticciolo avrebbe dovuto ospitare i diportisti, attirati magari dalla prospettiva di prendere il sole sulla spiaggia con lo sfondo del teatro greco, ma anche qui la costruzione del molo ha cancellato la spiaggia ed ora chi attracca nel porto va a fare il bagno a Taormina, portando i quattrini altrove e lasciandosi alle spalle le case abusive di Giardini. Nelle intenzioni dell’amministrazione provinciale, però, il futuro continua ad essere pieno di approdi.

Anche in Sicilia, dunque, la febbre dei Comuni per i porti è altissima: ognuno reclama il proprio approdo, ogni frazione confida nelle potenzialità di riscatto rappresentate dal cemento di una banchina. Eppure uno studio elaborato dal mensile Nautica qualche anno fa fra i 67 porti e approdi dell’isola ne aveva individuati 14 che avrebbero potuto essere attrezzati da subito con pontili galleggianti all’interno, creando così circa 3.500 posti barca a fronte di un investimento di circa 15 miliardi, meno del costo di realizzazione di un singolo porto. Si tratta dei cosiddetti “porti verdi”, ovvero dell’aumento di capacità dei porti esistenti realizzata attraverso strutture mobili o mediante la razionalizzazione ed il recupero delle vecchie strutture. Una soluzione abbondantemente praticata all’estero, ma ancora lontana da entrare nella mentalità dei nostri amministratori, forse perché il giro d’affari creato dalla costruzione di un porto è troppo ghiotto per essere ignorato. Toscana: sull’isola d’Elba progetti ad alto impatto ambientale

Un progetto che desta grande preoccupazione dal punto di vista ambientale, paesaggistico e idrogeologico è quello che prevede la creazione di un porto turistico nel Comune di Marciana, vicino al confine con Campo dell’Elba e nelle immediate vicinanze del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. L’area portuale, in base a quanto previsto dal Piano Strutturale del Comune, dovrebbe essere ottenuta scavando il fondo granitico della foce del fosso di Pomonte, fino a spingersi nell’entroterra con un canale. Oltre a non rispondere ad alcuna necessità di carattere economico, questa infrastruttura rappresenterebbe un danno per l’ambiente e non è contenuta né nel Piano dei Porti e degli Approdi Turistici della Regione Toscana né nell’accordo di Programma Quadro per lo sviluppo locale delle Isole Minori, che sottolinea come l’obiettivo sia quello di potenziare le strutture esistenti, dotandole di tutti i servizi richiesti dall’utenza. I nuovi progetti per il diportismo nautico, secondo quanto previsto dal Programma Quadro, possono essere presi in considerazione solo se fattibili economicamente e di basso impatto ambientale. Il porto canale di Pomonte, al contrario, sarebbe devastante per l’ambiente e incomprensibile dal punto di vista economico: si tratterebbe, infatti, di investire diversi miliardi per realizzare una piccola struttura adatta solo ad imbarcazioni di dimensioni ridotte e per un esiguo numero di utenti, con una ricaduta occupazionale irrisoria. Del resto, i vicini porti di Campo nell’Elba e di Marciana Marina rappresentano già rifugi sicuri per le piccole imbarcazioni in difficoltà. Lo stesso Piano Strutturale di Marciana riconosce che “poiché l’intervento ricade in area definita a rischio idraulico molto elevato (v. misure

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di salvaguardia, ai sensi della L. 183/89) per la sua attuabilità ne deve essere riconosciuta l’importanza essenziale e la non delocalizzabilità, a seguito della quale l’intervento deve essere realizzato in condizioni di sicurezza idraulica e purché la sua realizzazione non precluda la possibilità di attenuare o eliminare le cause che determinano le condizioni di rischio, e risulti comunque coerente con la pianificazione di interventi di emergenza di protezione civile, previo parere favorevole del Comitato tecnico di Bacino competente”. Meglio, dunque, avere il coraggio di rinunciare ad un porto irrealizzabile e dannoso per l’ambiente, e puntare invece su strutture leggere (scalo d’alaggio per le piccole imbarcazioni locali, campi boe), che potrebbero più facilmente ottenere il consenso della Regione Toscana e dell’opinione pubblica.

Quello di Pomonte non è, però, l’unico porto canale progettato all’interno del Comune di Marciana. Alla foce del Fosso del Gualdarone, nei pressi di un relitto di una nave romana del II secolo, è prevista infatti la costruzione di un porto turistico e dei servizi connessi, oltre a 47 nuove abitazioni. Il progetto prevede la realizzazione di un molo che, partendo dal territorio del promontorio della Guardiola, dovrebbe chiudere lo specchio d’acqua ad est dell’imboccatura del porto canale. Anche in questo caso, però, il nuovo porto, che in base ai dati del Documento Unico Programmatico Isole Minori dovrebbe ospitare una cinquantina di piccole imbarcazioni, non è contemplato dal Piano dei Porti e degli Approdi Turistici della Regione Toscana. Le previsioni non sembrano tenere conto né dell’altissimo pregio ambientale e paesaggistico dell’area del promontorio della Guardiola, interamente inserita nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, né della grande importanza dei reperti archeologici presenti nella zona, sottoposta a precisi vincoli da parte della Soprintendenza e della Capitaneria di Porto di Portoferraio. Il porto canale alla foce del Fosso del Gualdarone presenterebbe, dunque, costi altissimi se rapportati alla modesta funzione di ricovero di piccole imbarcazioni, anche perché nelle vicinanze sono presenti l’attrezzato porto rifugio di Marciana Marina, nel quale è prevista la prossima realizzazione di un approdo turistico per 350 barche, e un frequentato campo boe. Senza dimenticare che la presenza del porto canale e del molo della Guardiola comprometterebbero la balneazione, vietata nelle aree portuali e nelle immediate vicinanze, in tutta la zona orientale della spiaggia di Procchio. Anche in questo caso sarebbe dunque preferibile rinunciare al progetto e optare per soluzioni più leggere, individuando per esempio un’area per il rimessaggio delle imbarcazioni facilmente raggiungibile dalla spiaggia di Procchio.

Come se non bastasse, ha ripreso insistentemente a circolare l’ipotesi, già bocciata in passato, di un porto turistico per oltre 600 barche a Marina di Campo, nel territorio del Comune di Campo nell’Elba. Di fatto il porto dovrebbe essere realizzato distruggendo l’intera costa di Galenzana, spese di una spiaggia selvaggia rimasta finora intatta, che non a caso Legambiente ha piazzato al terzo posto tra quelle più belle della nostra penisola. La Regione Toscana, in ogni caso, non ha incluso questa ipotesi nel Piano dei Porti e degli

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Approdi Turistici, e prevede solo un piccolo approdo turistico all’interno del porto già esistente. Il Dupim 2000-2006: un mare di porti nelle isole minori

Si chiama Dupim, acronimo che sta per Documento Unico Programmatico Isole Minori, è stato redatto a cura dell’Ancim, l’Associazione Nazionale Comuni Isole Minori, ed è la lettura preferita di tutti coloro che sognano un mare pullulante di strutture portuali. Dalla lettura di questo documento si rileva, infatti, che quasi tutte le piccole isole del nostro paese dovrebbero essere dotate di almeno un approdo turistico.

Nella prima prima parte di analisi del fenomeno, le considerazioni del Dupim sono del tutto condivisibili. E’ vero, cioè, che si assiste ad un progressivo spopolamento delle isole minori italiane e che per controbilanciare questa tendenza si devono opporre una serie di misure che puntino a valorizzare le risorse tipiche di queste aree, quali il turismo, l’agricoltura e la pesca. Le misure da intraprendere dovranno perciò favorire processi di “destagionalizzazione” dei flussi turistici, di qualificazione in questo senso degli operatori economici locali, di individuazione di interventi che aumentino la qualità dei servizi per i residenti, e di valorizzazione delle risorse locali.

Le misure concrete individuate dal Dupim per mettere in atto questo progetto sembrano però contraddire clamorosamente le premesse iniziali. In primo luogo va sottolineato un deficit insito nel metodo che ha portato alla definizione del documento. L’Ancim, che pure è firmataria del documento in questione, si è limitata infatti a registrare le esigenze dei singoli Comuni, ma non ha provveduto a fare uno sforzo per inserire in un ambito più generale le richieste da essi avanzate. Le singole iniziative vanno approfondite una ad una e richiedono una valutazione più puntuale che il Ministero dell’Ambiente dovrebbe riservarsi di effettuare a cura di propri tecnici.

In ogni caso balza agli occhi uno squilibrio evidente a favore degli approdi turistici. Uno squilibrio che suscita più di una perplessità perché se da un lato è opportuno mettere a punto misure di “destagionalizzazione”, dall’altro è evidente che infrastrutture come i porti turistici rappresentano un forte elemento di “stagionalizzazione” dei flussi del turismo, tanto più che non viene neppure presa in considerazione l’ipotesi di porti di transito. Nel complesso gli stanziamenti necessari per la realizzazione o l’ampliamento dei porti delle isole minori ammontano a più di mille miliardi, 600 per le strutture di tipo turistico e 400 per quelle commerciali e da pesca. Un vero e proprio inno alla cementificazione, che rappresenta il leit-motiv del documento curato dall’Ancim, condito da alcune stravaganze, come la realizzazione di un ippodromo a Sant’Antioco o il campo da gol da 27 buche a Campo nell’Elba. Brillano invece per l’esiguità dei fondi previsti a loro favore, l’attività di formazione (23 miliardi) e gli interventi sociali (56 miliardi, 40 dei quali per una struttura sanitaria alla Maddalena). Davvero un modo bizzarro di bloccare l’esodo dei residenti, tanto più che nel documento non è contenuto alcun riferimento a progetti per la realizzazione di marchi o per il varo di altri

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strumenti di qualificazione dei prodotti e delle risorse delle isole minori italiane.

Una politica volta a promuovere il turismo di qualità per avere successo deve creare prima di tutto gli strumenti per la qualificazione e la valorizzazione delle risorse locali, ma gli estensori del Dupim sembrano non essersene accorti. O forse si illudono che basterà qualche colata di cemento per trattenere gli abitanti sulle isole e attirare frotte di turisti.

Dupim (Documento Unico Programmatico Isole Minori) 2000-2006 Interventi per la portualita’ turistica

Descrizione sintetica dei progetti

Costo previsto

ARCIPELAGO TOSCANO COMUNE DI CAMPO NELL’ELBA

Porto di Marina di Campo: costruzione del molo di sottoflutto 3.500.000.000 Realizzazione del Porto turistico (750 imbarcazioni ) 40.000.000.000 COMUNE DI CAPRAIA Isola di Capraia: Sistemazione area portuale commerciale e realizzazione del porto turistico 8.500.000.000 COMUNE DI ISOLA DEL GIGLIO Giglio Porto: ristrutturazioni porti e approdi turistici 10.500.000.000 COMUNE DI MARCIANA Patresi: ripristino del molo e dello scalo di alaggio S. Andrea, Chiessi: realizzazione dello scalo di alaggio

700.000.000

Procchio: porto canale foce fosso Gualderone ( 50 barche ) Pomonte: porto canale alla foce del fosso di Pomonte

7.300.000.000

COMUNE DI MARCIANA MARINA Approdo turistico di Marciana Marina ( 350 imbarcazioni ) 12.500.000.000 COMUNE DI PORTO AZZURRO Approdo turistico di Porto Azzurro ( 400 imbarcazioni ) 8.000.000.000 COMUNE DI PORTOFERRAIO Ristrutturazione della Rada di Portoferraio (600 imbarcazioni) 30.000.000.000 Approdo turistico di Magazzini (150 imbarcazioni) 2.500.000.000 Approdo turistico del Grigolo (150 imbarcazioni) 2.700.000.000 COMUNE DI RIO MARINA Approdo turistico di Rio Marina (350 imbarcazioni) 4.500.000.000 Approdo turistico di Cavo (350 imbarcazioni) 14.500.000.000 ISOLE PARTENOPEE COMUNE DI ANACAPRI Strutture per la nautica da diporto 5.400.000.000 COMUNE DI CAPRI Completamento del Porto turistico 13.500.000.000 Porto turistico: Separazione funzioni commerciale e turistica 33.500.000.000 COMUNE DI FORIO Completamento del porto turistico-peschereccio 11.900.000.000 COMUNE DI ISCHIA Ischia Ponte: realizzazione del porto turistico 28.000.000.000

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COMUNE DI PROCIDA M. Chiaiolella: ampliamento del porto turistico 18.000.000.000 M. Grande: completamento funzionale del porto turistico 7.000.000.000 ISOLE SARDE COMUNE DI CALASETTA Completamento del porto turistico (500 imbarcazioni) 15.000.000.000 COMUNE DI CARLOFORTE Sistemazione Darsena Nord e miglioramento Canale Saline 13.000.000.000 COMUNE DI S.ANTIOCO Approdi turistici in località Calalunga e Maladroxia 60.000.000.000

ISOLE SICILIANE COMUNE DI FAVIGNANA Marettimo e Levanzo: realizzazione porti turistico-commerciali 21.000.000.000 COMUNE DI LENI Molo Lazzaro: Completamento struttura e infrastrutture nautico 5.000.000.000 COMUNE DI LIPARI Marina Corta: ristrutturazione ampliamento struttura portuale 30.700.000.000 Porto Pignattaro: ristrutt. e ampliamento struttura portuale 29.000.000.000 Approdo di Ponticello: Opere di funzionalizzazione e arredo 1.500.000.000 loc. Acquacalda: arredo strutture e realizzazione porto turistico 10.000.000.000 Vulcano: arredo, funzionalizzazione e adeguamento approdi 12.000.000.000 Scari, Ficogrande, Ginostra: arredo strutture; difesa della costa 15.000.000.000 Filicudi –funzion. e arredo Filicudi Pecorini e di Filicudi Porto 10.000.000.000 Alicudi –funzion. e arredo Alicudi Porto e difesa costiera 2.000.000.000 Panarea – funzion. e arredo approdo S.Pietro e Iditella 12.000.000.000 COMUNE DI MALFA Scalo Galera – Opere di miglioramento fruizione mare 4.530.000.000 COMUNE DI PANTELLERIA Completamento porto turistico di Pantelleria 110.000.000.000 COMUNE DI S. MARINA SALINA Lavori di completamento della Darsena 2.100.000.000 COMUNE DI USTICA Realizzazione della diga foranea di Levante 9.827.000.000 Realizzazione di uno scalo di alaggio 500.000.000 TOTALE 625.657.000.000

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I 39 PORTI AI NASTRI DI PARTENZA Le strutture già approvate Località N. Posti barca

Liguria Genova porto antico 280

Toscana Scarlino 650 Porto Azzurro 250 Salivoli 450 Porto Ercole 300 Porto S. Stefano 330 Talamone 600 Castiglioncello 650

Sardegna Castelsardo 300 Santa Teresa di Gallura 400 Porto Corallo 800 Porto Scuso 387 Palau (Ampliamento) 290 S. Maria Navarrese 300 Villa Simius 270 Punta Aldia 385 Portisco Raddoppio in costruzione 300

Lazio S. Marinella 800 Ostia 800

Campania Castellamare di Stabia 1.300 Ischia Porto 120

Calabria Belvedere Marittimo 280 Gizzera Lido 531 Badolato 222 Amantea 360 Vibo Valentia Marina 450

Puglia Melendugno 427 Maruggio 300 Polignano 440 Vieste 600 Bisceglie 420

Molise

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Campomarino Emilia-Romagna

Misano Adriatico 280 Rimini 800 Ravenna 1.500

Veneto-Friuli Venezia Giulia Porto Levante 600 Chioggia 250 Monfalcone 370 Trieste (Porto S. Rocco) 550 Totale 18.342

Fonte: Ministero delle infrastrutture e dei trasporti

I 41 PORTI ANCORA SOTTO ESAME Le strutture che hanno le conferenze di servizio aperte

Località Situazione N. Posti barca Liguria

Bordighera Approvato progetto preliminare 400Ospitaletti Approvato progetto preliminare -Ventimiglia Approvato progetto preliminare 750Diano Marina Approvato progetto preliminare 500Varazze In discussione 843Spotorno e Noli La Regione ha convocato la conferenza -

Toscana Monte Argentario Respinta -

Sardegna Porto Rotindo Conclusa la prima conferenza servizi 40Sa Marinedda Conclusa la prima conferenza servizi -S. Teodoro In discussione -

Lazio S. Marinella In discussione 132S. Severa In discussione -Anzio Respinta -Fiumicinio-Fiumara Grande

Approvato progetto preliminare 1.500

Passo Scuro In discussione -Fiumicino Porto Nord Respinta -Gaeta Darsena Montesecco

Conclusa con contenzioso con il Comune

320

Ladispoli Contenzioso con il Comune 605S. Felice Circeo In discussione 218Civitavecchia Da stabilire 292

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Tarquinia In discussione 600Ponza Respinta -Circeo Verbale -

Campania Pozzuoli Contenzioso con il Comune 305Maiori Conferenza da svolgersi 70Casal Velino In discussione 250Casamicciola Ischia In discussione -Capri Respinta -Anacapri Respinta -

Calabria Crotone In discussione -Paola In discussione 650

Puglia Pisticci In discussione 480Peschici In discussione 188Nardò Marina di Torre In.

In discussione 737

Policoro In discussione 180Taviano 4 anni per costruzione 98Barletta In discussione -Castrignano del Capo In discussione -San Nicandro Garganico In discussione -

Abruzzo S. Vito Chientino Respinta -Vasto In attesa di variazione societaria 446

Molise Termoli In via di convocazione 280

Emilia-Romagna Cattolica Porto Canale In discussione 197Cattolica Squero In discussione 67

Veneto-Friuli Venezia Giulia Comune di Muggià lo. S. Bartolomeo

In discussione 210

Totale 10.790Fonte: Ministero delle infrastrutture e dei trasporti

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8. L’erosione della costa

Un metro di spiaggia in meno ogni anno. E’ questo il ritmo implacabile con cui procede l’erosione di gran parte dei circa 7.500 chilometri di coste della nostra penisola. Un fenomeno che assume ormai dimensioni drammatiche, determinato da un utilizzo delle aree costiere da parte dell’uomo spesso eccessivo e traumatico. La destabilizzazione dell’ambiente costiero è il frutto bacato di diversi fattori, a partire dall’intensa antropizzazione a fini turistici e industriali, e dall’impoverimento dell’apporto di materiale solido dei fiumi al mare, determinato dalla massiccia estrazione di materiale dagli alvei e dagli interventi di regimazione dei corsi d’acqua, che in molti casi si sono rivelati inutili o dannosi.

Normalmente, infatti, l’azione continua delle onde sulla riva viene bilanciata dalla formazione di nuove spiagge e banchi di sabbia, a seguito dei sedimenti trasportati dai fiumi e quindi deposti dal mare sulla costa, oppure dall’interazione di onde e vento con gli ambienti dunali e rocciosi. Questo processo naturale di reintegrazione viene però notevolmente ostacolato dalle attività umane. Quando si costruisce una diga lungo un fiume, per esempio, i sedimenti un tempo trasportati fino al mare vengono trattenuti nel bacino artificiale. Sul banco degli imputati, dunque, la cementificazione dissennata del territorio che in molti tratti ha interrotto, o ridotto in misura drastica, il processo naturale di ripascimento delle spiagge. L’attacco alle coste procede simultaneamente dalla terra ferma e dal mare: all’effetto delle infrastrutture realizzate sui fiumi e delle escavazioni condotte nei loro letti, infatti, si somma l’impatto di porti e porticcioli protesi sull’acqua, che modificando il gioco delle correnti marine hanno privato delle loro spiagge zone tradizionalmente ricche di sabbia. Fanno eccezione alcuni tratti in ripascimento, il più delle volte a scapito di altri tratti di litorale, come conseguenza della realizzazione di opere artificiali che hanno modificato la dinamica dei sedimenti.

Questa vera e propria aggressione ai danni dei litorali italiani si traduce in una costante riduzione delle aree umide della costa e delle dune sabbiose. Così dei circa 700mila ettari di paludi costiere esistenti in Italia all’inizio del XX secolo, nel 1972 ne restavano 192mila e nel 1994 meno di 100mila. Stesso discorso sul fronte dei sistemi dunari, la cui perdita è stata altissima in tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, Italia in testa: quattro quinti delle dune della penisola, infatti, nel periodo compreso tra il 1900 e il 1990 sono state perdute. L’erosione delle coste interessa tutte le regioni bagnate dal mare, ma la situazione risulta essere particolarmente grave in Calabria e Campania, dove la maggioranza della fascia costiera è caratterizzata da un rischio molto elevato. Arenili che in passato godevano di notevoli spazi in profondità per stabilimenti balneari e file di ombrelloni, infatti, a distanza di pochi decenni sono ridotti a strette lingue di sabbia.

Di fronte a questo quadro a tinte fosche, le istituzioni, come troppo spesso accade, invece di svolgere il ruolo di vigilanza di loro competenza, in

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molti casi hanno finito per avallare facili speculazioni, contribuendo alla distruzione di un patrimonio naturale di valore inestimabile. Nonostante la gravità della situazione, si continua così ad assistere alla realizzazione di interventi di regimazione idraulica in piena contraddizione con le indicazioni prodotte dalle stesse amministrazioni pubbliche.

Oppure si è intervenuti in modi quantomeno proditori con ripascimenti dei litorali del tutto sbagliati , quando non gravemente dannosi per l’ambiente. Nell’ultimo anno sono da segnalare due casi davvero eclatanti: quello della spiaggia del Poetto a Cagliari e quello dell’Isola di Ischia.

Nel caso del Poetto la situazione ha raggiunto vertici tragicomici, tanto che i cagliaritani hanno visto la loro spiaggia più famosa mutare colore nel giro di pochi giorni. La sabbia bianchissima, appare adesso agli occhi increduli dei visitatori nera, o grigio topo, secondo l’opinione dei più ottimisti. La causa del cambiamento, temporaneo secondo alcuni – l’amministrazione provinciale – definitivo secondo altri – gli ambientalisti e larga parte della popolazione – è il ripascimento commissionato dalla Provincia. La spiaggia del Poetto soffriva di progressiva riduzione della mole sabbiosa, fatto che ha saggiamente motivato l’intervento, meno saggio dice qualcuno, della Provincia: è stato messo in atto un piano di ripascimento della spiaggia servendosi di sabbia dragata a largo. Ma ecco la sorpresa: scaricata al Poetto, questa sabbia è risultata di un colore (grigio topo, appunto) e di una composizione notevolmente diversi da quelli ai quali i cagliaritani e i turisti erano affezionati.

Quello che può sembrare un colorito fatto di cronaca locale è invece un’imbarazzante esempio di quell’improvvisazione che tanto male fa al nostro territorio. Lo sversamento sull’arenile delle sabbie (dragate con autorizzazione del Ministero dell’Ambiente nel Golfo degli Angeli ad una profondità di 45 metri), per il quale non risulta presentato alcuno studio di valutazione di impatto ambientale, è cominciato l’8 marzo scorso ed è proseguito per tutto il mese depositando sull’arenile 370.000 mc di sabbia nera. Né l’evidenza che si tratta di trattava di sabbie più scure e più grossolane rispetto a quelle preesistenti, né le proteste e le preoccupazioni della cittadinanza sono servite a bloccare quest’opera che ha trasformato il litorale cagliaritano.

Episodio analogo, se non addirittura più grave, quello accaduto alla Baia dei Maronti nell’isola di Ischia, dove intere praterie di posidonia oceanica sono stati distrutte da ripascimenti sbagliati del litorale.

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Per dovere di cronaca, riportiamo di seguito due relazioni tecniche sui

due episodi che illustrano chiaramente quanto accaduto. 8.1 Relazione sullo stato ambientale della prateria di Posidonia oceanica della Baia dei Maronti Isola di Ischia a seguito degli interventi di ripascimento del litorale. a cura di Maria Cristina Gambi, Maria Cristina Buia (Stazione zoologica “Anton Dohrn” Laboratorio di ecologia del benthos, Ischia)

Riportiamo una sintesi della relazione tecnico-scientifica che è stata di recente trasmessa al Ministero dell’Ambiente, alla Regione Campania, al Circomare di Ischia e ai sindaci di tutti i comuni delle isole flegree, sullo stato ambientale di una prateria di Posidonia oceanica di fronte al litorale dei Maronti (isola d’Ischia), fortemente danneggiata a seguito degli interventi di ripascimento del litorale della spiaggia omonima. La Stazione Zoologica "A. Dohrn" di Napoli, ed in particolare lo staff del Laboratorio di Ecologia del Benthos di Ischia, è da anni impegnato in un monitoraggio continuo dell'ambiente costiero delle isole flegree (Ischia, Procida e Vivara), ed in particolare dei sistemi a fanerogame marine, tra le quali Posidonia oceanica che è ampiamente distribuita in quest'area.

A seguito di opere di lavoro a mare, collegate con il prelievo di sabbia per il ripascimento della spiaggia dei Maronti, sono stati da noi registrati alcuni profondi cambiamenti nella distribuzione e struttura delle formazioni a Posidonia presenti lungo questo tratto di costa, e riteniamo doveroso denunciare l'accaduto al Ministero dell'Ambiente e ad altri soggetti istituzionali interessati, al fine anche di aggiornare la situazione rispetto al recente Rapporto di Attività da noi prodotto aùl Ministe dell’Ambiente stesso relativo allo studio pilota per l’istituzione dell’Area Marina Protetta del “Regno di Nettuno” (isole di Ischia, Procida e Vivara) (Data Report, 2001).

Ricordiamo che l'ecosistema a Posidonia oceanica è soggetto a specifiche misure di salvaguardia, protezione e studio ai sensi della normativa sulle "Disposizioni in campo ambientale" della 426/98, più recentemente riprese dalla legge n.93/2001.

Con la presente relazione vorremmo focalizzare l'attenzione sullo scempio ambientale verificatosi nella Baia dei Maronti a carico soprattutto di una formazione a Posidonia oceanica, rilevata da noi, nell'ambito dello studio pilota sopra menzionato e di recente mappata nell’ambito di uno studio del Geomare Sud (Istituto di Gelogia marina del CNR, Napoli) finanziato dalla Regione Campania (Data Report, 2000; Marsella et al., 2001).

Questa formazione a Posidonia non era infatti riportata in una mappatura precedente della zona (Colantoni et al., 1982). L’area di fronte ai Maronti è una zona molto esposta al moto ondoso e con una notevole dinamicità nel trasposto sedimentario litoraneo (De Pippo et al., 2000), queste

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caratteristiche dinamiche limitano la presenza di Posidonia oceanica ad una stretta cintura distribuita solo nel versante più orientale della Baia dei Maronti, grosso modo delimitato a terra tra Cava Olmitello e le Fumarole, probabilmente favorita dal ridosso offerto dal promontorio di S. Angelo e dalla geomorfologia del fondo, che presenta una ampia piattaforma a debole pendenza.

Le osservazioni dirette in immersione effettuate durante lo studio pilota hanno mostrato una prateria ed un habitat particolarmente interessanti sia per quanto riguarda i popolamenti animali associati che in relazione alle caratteristiche geomorfologiche del fondale.

La prateria di Posidonia oceanica si distribuiva tra 18 e 24-25 m circa di profondità, ed era insediata su matte avente limite inferiore eroso e netto posto a circa 24 m di profondità. In alcune zone era osservabile l’esposizione di una matte alta anche oltre 2 m, in altre la medesima è degradante verso la sabbia. Sulla sabbia erano presenti macchie limitate di Posidonia oceanica con i rizomi sepolti da evidenti ripple-marks dovuti all’elevato idrodinamismo della zona.

Il limite superiore della prateria era posto a circa 18 m di profondità e pur rimanendo molto netto presentava uno spessore della matte inferiore (alcune decine di cm).

Tra i popolamenti avevamo segnalato numerosi individui di Pinna nobilis (grosso bivalve protetto), anche di grandi dimensioni, presenti nelle numerose radure inframezzate alla prateria. La fauna sessile dei rizomi era particolarmente abbondante e varia (poriferi, briozoi e tunicati). Dalla mappatura disponibile in Marsella et al. (2001) si rilevava la presenzza di una discontinuità a circa metà dello sviluppo di questa formazione. Le misure di densità dei fasci, condotte tra 19 e 23 m di profondità hanno fornito un dato medio di 221 fasci/m2 ed una copertura del fondale tra 60 e 80% (Dappiano et al., in stampa).

Il 26 marzo 2002 iniziavano i lavori di ripascimento dell’arenile dei Maronti, condotti tramite il pompaggio sulla spiaggia di sedimento prelevato sui fondali prospicienti la costa dalla Nave-draga "Antogoon", specializzata per questo tipo di operazioni.

Durante la tarda mattinata del 26 marzo la presenza di ingenti ammassi di foglie di Posidonia galleggianti nel tratto di mare a levante del porticciolo di Sant’Angelo, dove stava lavorando la Nave-draga, destava l’allarme di operatori locali della pesca e della subacquea sportiva. In seguito alle segnalazioni ricevute e all’interessamento della Capitaneria di Porto di Ischia, il personale del Laboratorio di Ecologia del Benthos effettuava nella mattinata del 27 c.m. ispezioni del materiale spiaggiato sia sulla spiaggetta interna al porto di Sant’Angelo che lungo il litorale dei Maronti.

La situazione risultava essere la seguente: - lungo buona parte della spiaggetta di Sant’Angelo erano depositati

ammassi di foglie singole e fasci fogliari di Posidonia evidentemente rimossi il giorno precedente, dato l’aspetto verde e vitale dei lembi foliari e l’assenza di segni di necrosi avanzata a carico delle basi delle foglie adulte;

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- verso l’estremità occidentale della stessa spiaggetta dominavano i residui di rizomi e radici di Posidonia, strappate evidentemente dallo strato superficiale del substrato;

-nello specchio d’acqua interno al porticciolo galleggiava un numero notevole di foglie verdi di Posidonia;

- lungo un buon tratto del litorale dei Maronti (perlomeno di quello accessibile all’atto dell’ispezione, visto che era in corso il pompaggio del sedimento) era rilevabile una fascia più o meno continua di rizomi di Posidonia, in prevalenza privi del ciuffo fogliare ma comunque ancora vitali.

Dal quadro descritto, risultava evidente che: 1) l’impatto sulle formazioni di Posidonia oceanica era stato cospicuo; 2) il danno era da attribuirsi alle operazioni di dragaggio svoltesi il giorno

precedente; ciò anche per successiva ammissione del direttore dei lavori all’atto dell’esame del materiale spiaggiato;

3) l’azione della draga aveva provocato una frammentazione delle piante, per cui gli organi epigei (le foglie) erano stati in larga misura separati dai rizomi in un qualche momento delle operazioni di dragaggio;

4) considerata l’estensione dell’area di intervento della nave-draga, il sito che aveva subito l’impatto era quello localizzato di fronte alla spiaggia dei Maronti. Da una riunione tenutasi nel primo pomeriggio presso il Circolare di

Ischia con il Comandante Tomas e la direzione dei lavori (Ing. L. Carbucicchio) si veniva a conoscenza che le operazioni si svolgevano in alcuni poligoni predefiniti in base ad uno studio di progetto, indicati come “cave” e dislocati in alcune zone, tra cui la cava A sita in prossimità della formazione a Posidonia. Raggiunta la ragionevole certezza, da accordi con il Circomare e la direzione dei lavori, che le operazioni sulla cava A, sospese già dalla mattinata del 27, non sarebbero state più riprese e si sarebbe attinta la sabbia dalle altre “cave” site in zone prive di formazioni a Posidonia, si rimandava a data da destinarsi l’ispezione in situ; ciò anche in previsione delle condizioni operative che sarebbero state verosimilmente difficili per i subacquei fin quando fossero proseguiti i lavori di ripascimento e le acque fortemente intorbidite non fossero tornate limpide, permettendo una ricognizione ed una documentazione ottimale dell'accaduto. Era difatti ovvio che il danno maggiore, di qualsiasi entità esso fosse, era già stato prodotto.

In data 7 e 15 maggio 2002 il personale del Laboratorio di Ecologia del Benthos effettuava ispezioni in immersione in varie porzioni di prateria in vicinanza alla zona operativa della nave "Antigoon" del 267 marzo. Le ispezioni subacquee sono state effettuate da Lorenti Maurizio, Dappiano Marco, Gambi Maria Cristina, Iacono Bruno e Raffaele Di Martino, con il supporto di videocamera digitale e macchina fotografica subacquee. L'area ispezionata si estende lungo la costa per tutto lo sviluppo della prateria stessa e in una fascia batimetrica variabile tra 18 e 27 m. L'osservazione del fondale nel tratto in cui la formazione a Posidonia era più esteso, nella parte grosso modo di fronte a Olmitello, ha messo immediatamente in evidenza la sostanziale

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alterazione della morfologia del fondo sia per quanto riguarda batimetria e topografia, che per gli habitat bentonici presenti. Il dato più drammatico era la sostanziale scomparsa delle formazioni a Posidonia oceanica (e di tutte le comunità animali e vegetali ad esse associate) nelle ampie aree e nella zona a copertura continua prima colonizzate dalla pianta. Il fondale era invece caratterizzato da ampi solchi profondi da 2 a 5-6 m, a seconda del numero di passaggi dello strumento di aspirazione, tutti orientati in direzione est-ovest. Lungo i versanti di questi avvallamenti affiorava nella porzione superiore "matte" di Posidonia che in alcuni punti raggiungeva 3-4 m di spessore seguita da uno strato di sabbia ben classata ed infine, nella parte inferiore non interessata dalla ricaduta di sabbia e detrito di Posidonia, fango e pelite più o meno compattati su cui erano evidenti i segni dell'intervento meccanico degli attrezzi di prelievo della sabbia. Nel fondo degli avvallamenti era presente sabbia, verosimilmente da apporto limitrofo, e cospicua quantità di fasci eradicati e zolle di matte scalzata di Posidonia di varia grandezza. Intervallati a tali avvallamenti erano presenti elevazioni del fondale in forma di dune o costoni di sabbia alla sommità dei quali emergevano residui di matte morta o di limitate formazioni residuali vive di prateria. Verosimilmente tali formazioni rappresentano residui di prateria a volte ricoperti dai sedimenti risospesi durante lo scavo e rideposti nelle vicinanze. Alcune di queste formazioni assumevano l'aspetto di pinnacoli e lenti di matte erosa delimitate dalle alterazioni indotte dallo scavo. Molti dei fasci vivi residui, rimasti in posto, presentavano, inoltre, foglie eziolate (prive del pigmento naturale verde) e andamento prostrato che faceva supporre l'intervento di un qualche meccanismo di copertura e scopertura alternata della prateria da parte del sedimento mobilizzato. Risultava impossibile effettuare qualsiasi misura di densità dei fasci e copertura del fondale da parte della prateria, che fosse rapportabile ad una situazione a noi nota, anche in siti sottoposti a forte degrado, o alla situazione rilevata nelle osservazioni precedenti.

Per quanto riguarda il popolamento associato alla prateria, si notava la totale assenza di qualsiasi facies riconoscibile, associata anche ai pochi fasci superstiti, la cospicua presenza sul fondo, frammista alla sabbia, di resti di organismi associati, quali ascidie (Halocynthia), gorgonacei (Eunicella cavolinii) e molluschi (Venus, Callista, Pecten). La fauna ittica risultava assente sia sul fondo che lungo la colonna d'acqua, e appariva incongrua ai fini della pesca la presenza di filari di nasse osservata lungo il transetto da noi effettuato.

La porzione di prateria localizzata verso l’estremità occidentale della Baia, grosso modo all’altezza delle Fumarole appariva invece meno danneggiata rispetto a quella più orientale prima descritta. La prateria di Posidonia, quantomeno al di sopra della batimetrica dei 20 metri manteneva una sua fisionomia sia in termini di copertura che di densità dei fasci foliari. Tuttavia, i segni di un forte impatto meccanico erano molto evidenti, specialmente verso la parte più profonda osservata (21-22 m).

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Infine, per completare la documentazione e a conferma di quanto osservato, abbiamo riportato sulla carta batimetrica 1:3000 prodotta dal Geomaresud per lo studio della regione, il poligono di lavoro (definito come area di cava A) in cui la nave-draga "Antigoon" era autorizzata al prelievo di materiale, ed in cui ha operato nella giornata del 26 marzo, riportando le esatte coordinate che la direzione dei lavori aveva dato al Circomare di Ischia. Come si evince dalla cartina, larga parte del poligono rientra al di sotto della batimetrica dei 25 m e coincide con la distribuzione delle formazioni a Posidonia oceanica e con il danno alle medesime da noi documentato e che possiamo stimare nell'ordine di circa 3,6 ettari di prateria alterata o distrutta in varia misura. Riteniamo quindi che la definizione "a monte" del poligono di prelievo e la sua approvazione nell'ambito della valutazione del progetto, non abbiamo tenuto conto della possibile presenza di P. oceanica nella zona.

Riteniamo che la non attenta conoscenza, integrazione e considerazione reciproca dei risultati ottenuti durante i diversi studi effettuati in questa zona (studio del Geomaresud per la Regione Campania, studio della Stazione Zoologica per il Ministero Ambiente, studio del progetto per il ripascimento), unita allo sfalsamento temporale nella consegna e valutazione dei diversi studi, ed alla procedura "di emergenza" che ha seguito la pratica di ripascimento (la quale non ha previsto uno studio di impatto ambientale), abbiamo giocato un ruolo determinate nella dinamica di quanto si è verificato.

I diversi soggetti che hanno valutato ed approvato lo studio relativo all'intervento di ripascimento, da quanto ci risulta presentato in Aprile 2000, ma approvato a Settembre 2001, tra i quali anche il Ministero dell'Ambiente stesso, avrebbero dovuto valutare che gli studi e le conoscenze su quest'area erano in alcuni casi ancora in corso (es. quello relativo al Parco Marino "Regno di Nettuno"), e avrebbero dovuto tenere in maggiore considerazione gli inevitabili aggiornamenti ed integrazioni, soprattutto quelli relativi alla componente biotica dei fondali, che da tali indagini sarebbero derivati.

In conclusione, non ci resta che constatare l'alterazione morfo-batimetrica del fondale e la sostanziale, rapida e drastica rimozione di questa formazione a Posidonia nella zona che corrispondeva alla porzione più cospicua di quella che era la prateria nella Baia dei Maronti; ed una sensibile riduzione della copertura nella zona più occidentale, dove il danno massivo ha riguardato solo la porzione al di sotto dei 20 m.

Nella zona più impattata, non ci sembra realistico che i pochi residui di matte vitale rimasti (stimati al di sotto del 5% della formazione originale), siano in grado di innescare una ricolonizzazione, dati i lenti ritmi di crescita di questa pianta e la notevole dinamica dell'area, in cui la formazione prima presente aveva trovato un delicato equilibrio che ne permetteva la persistenza. Testimone di ciò è la notevole estensione verticale della matte (4-5 m) prima dell'impatto verificatosi.

Non da ultimo, a parte il danno provocato alla pianta ed alle comunità associate, non va dimenticato il potenziale danno ambientale indotto dalla scomparsa di una struttura, prateria-matte (che in questa area raggiungevano

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sviluppo notevole), che notoriamente ha una funzione di attenuazione del moto ondoso, e stabilizzazione del fondale e della linea di riva. A tale proposito ricordiamo che alcuni studi (Boudouresque e Meinesz, 1982; Jeudy de Grissac, 1984) hanno stimato che la perdita di un solo metro di matte di Posidonia provoca un arretramento di circa 10 m di arenile antistante, possiamo ipotizzare che quello che rimane della prateria davanti a buona parte della spiaggia dei Maronti, non sarà in grado di contrastare come prima l'erosione del litorale in modo naturale. Considerando che ai Maronti un solo m2 di arenile produce un indotto di ca 400 Euro in una stagione, l'arretramento provocato dalla distruzione della prateria antistante, avrà sicuramente ripercussioni economiche evidenti.

Ci auguriamo che la documentazione sopra riportata, oltre e denunciare e documentare un grave danno ambientale, possa essere utile ad evitare futuri errori di valutazione sui rischi ecologici che interventi di ripascimento, o comunque di pesante intervento sul litorale, e che possono avere comunque conseguenze a medio-lungo termine per gli habitat marini costieri. In tal senso auspichiamo per il futuro la necessità che vengano effettuati studi di impatto ambientale, come peraltro in genere prevede la legge anche nel caso dei ripascimenti.

In tale contesto, il nostro Laboratorio, che da oltre 25 anni studia e effettua monitoraggi sui sistemi biotici costieri del nostro territorio, è a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento e supporto tecnico-scientifico finalizzato ad una migliore conoscenza e gestione futura dei litorali e fondali delle isole flegree. 8.2 Il ripascimento della Spiaggia del Poetto: un risultato “certo” e molti interrogativi A cura della Prof.ssa Ing. Teresa Crespellani - Università di Firenze

Prescindendo dagli aspetti estetici, di impatto ambientale e di accettabilità sociale dell’intervento di ripascimento della Spiaggia del Poetto, può essere utile soffermarsi su alcuni risvolti ingegneristici del problema, che, benchè non servano a ripristinare l’incanto della magica spiaggia, dovrebbero renderci più avvertiti in futuro, in modo da evitare il ripetersi di altri episodi di violenza ambientale (peraltro già preannunciati) sulle spiagge della Sardegna.

Premetto che da più di vent’anni non sono più residente a Cagliari e che le mie considerazioni e i tanti interrogativi scientifici che l’intervento mi pone nascono da due elementi: l’osservazione diretta in sito e la lettura di un opuscolo informativo, a cura della Provincia, dal titolo “Il Poetto, una spiaggia, una storia”, diffuso il giorno della processione di S. Efisio o per tal via pervenutomi.

La progettazione degli interventi di difesa dei litorali è, in campo mondiale, un settore molto specialistico, che, anche se si avvale di conoscenze

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scientifiche che ricadono in altri settori disciplinari (sedimentologia, geomorfologia, difesa del suolo, ingegneria geotecnica, ecc.) è di esclusiva competenza dell’ingegneria idraulica marittima.

Per il numero di fattori che governano l’equilibrio dei litorali, per la complessità dei fenomeni idrodinamici e per l’”ignoranza” associata ad una loro previsione, il principio “Cautela” è alla base della progettazione ingegneristica delle opere di difesa, che deve perciò basarsi sui risultati di modelli analitici e numerici, di modelli fisici in piccola e grande scala in laboratorio, di sperimentazioni in scala reale in “campi prova” opportunamente attrezzati con strumenti di monitoraggio idraulico e geotecnico. Oltre al confronto tecnico-economico e di efficienza di diverse soluzioni alternative, già in fase di progetto si deve prevedere una “gradualità” nella realizzazione, l’esecuzione di controlli di efficacia in corso d’opera, la disposizione di un’adeguata strumentazione per il controllo dell’intervento in opportune finestre temporali. Occorre perfino prevedere la possibilità di modifica e/o di interruzione dell’intervento nel caso in cui gli effetti osservati si discostino da quelli ipotizzati nella progettazione.

Nei testi ingegneristici di idraulica marittima e di difesa dei litorali, sono spesso riportati e descritti in dettaglio, per l’alto valore didattico implicito in un modello negativo, numerosi casi in cui gli interventi di difesa hanno prodotto effetti contrari a quelli desiderati.

Il ripascimento della spiaggia del Poetto potrebbe rientrare utilmente tra tali esempi negativi per almeno queste ragioni:

- sproporzione dell’intervento - carenza di progettazione ingegneristica - mancanza di gradualità nell’esecuzione - assenza di misure di “sperimentazione” preventiva e di controllo

ingegneristico. L’opuscolo citato porta molti argomenti “oggettivi” a sostegno di tale

ipotesi. Il semplice buon senso che avrebbe suggerito un intervento più

misurato se in 60 anni la linea di costa è arretrata di 25 metri (valore massimo) il tratto di riempimento dell’intervento avrebbe dovuto, al massimo, raggiungere questo valore. Perché è stato superato tale limite? Questa è la prima domanda, che, almeno nell’opuscolo, non trova risposta scientifica.

Ammesso che ci siano delle ragioni per un intervento “smisurato” (ma quali? Un fenomeno di subsidenza accelerato? Un movimento eustatico anomalo? Urgenza di terreno edificabile come in Giappone?), che sarebbe stato bene esporre in un libretto informativo (dato che si tratta, oltretutto, di un intervento di protezione civile), c’è un’altra domanda. Perché l’alimentazione della spiaggia con il materiale di riempimento è stata effettuata in un’unica soluzione, in tempi ridottissimi (15 giorni) e non è stata distribuita nel tempo? La gradualità è strenuamente raccomandata da tutti i testi specialistici come elemento indispensabile per il controllo obiettivi – risultati.

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Anche negli stessi esempi citati a modello da uno degli estensori dell’opuscolo, il prof. Leopoldo Franco, consulente alla progettazione e direzione lavori, il ripascimento è stato effettuato in modo graduale. Si dice ad esempio che la spiaggia di Miami “viene periodicamente ripasciuta”. Perché allora tanta urgenza?

La soluzione adottata viene poi presentata come l’unico intervento “moderno” possibile. Non solo non è ingegneristicamente corretto dire, come dice il prof. Atzeni, che la sola alternativa siano le barriere rigide longitudinali e trasversali emerse, quali pennelli e frangiflutti (esiste oggi una grande quantità di soluzioni ingegneristiche non tradizionali, più rispettose e naturalistiche, che utilizzano elementi “soffolti”, sommersi e invisibili, capaci di mantenere in sito il materiale di erosione e di ridurre in misura apprezzabile il potere erosivo del flutto sottocosta), ma l’affermazione del prof. Franco (ma ribadita nel concetto anche dai proff. Orrù e Atzeni) che al Poetto è stata scelta una soluzione “senza alcun’opera di ingegneria, quindi un puro di versamento di materiale” è di una gravità senza precedenti. E’ comico invece che poco oltre il prof. Franco dica che questo riempimento è stato fatto con metodi moderni (“rifluimento idraulico con draga”, cioè non con secchielli e palette) e – visto che nessuna operazione di cantiere sarebbe più semplice – si affermi che è stato fatto con “professionalità nel rispetto delle indicazioni di progetto” (sic!).

Quanto al progetto in che cosa possa consistere non è chiaro. Secondo la procedura di VIA avrebbe dovuto essere esposto per la raccolta delle osservazioni dai cittadini. Vivendo fuori dalla Sardegna non so se tale procedura sia stata eseguita e ci sia stato un controllo pubblico del progetto. Ma in ogni caso, l’osservazione diretta in situ conferma che si è realmente trattato di un “puro versamento di materiale”, alla rinfusa e senza selezione, e che la superficie è stata spianata orizzontalmente come per la realizzazione di una pista di atterraggio.

Un progetto di ripascimento “ingegneristicamente corretto” avrebbe invece dovuto comprendere, oltre allo studio della distribuzione nel tempo del ripascimento, almeno altri due elementi:

1) una disposizione per strati, con rinterri selezionati del materiale di riempimento;

2) uno studio delle pendenze, sia della superficie di spiaggia sia degli altri strati.

Si tratta di elementi che non possono essere lasciati al caso o alla natura (spesso matrigna) perché solo attraverso un’appropriata selezione e distribuzione spaziale dei materiali di ripascimento e l’assegnazione di idonee pendenze è possibile realizzare una libera circolazione di flutti, una riduzione dell’erosione negli strati superficiali, un’omogeneità dell’intervento nella sua estensione (evitando lo sfrangimento del profilo costiero per piccoli crolli locali da sifonamento) e soprattutto l’attivazione di processi naturali controllati.

Per una disposizione stratigrafica selettiva dei materiali e l’assegnazione di pendenze idonee esistono oggi procedure di calcolo

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scientificamente sperimentate, che vengono generalmente associate (soprattutto laddove gli interventi hanno un’estensione elevata) a una sperimentazione diretta su modello (in laboratorio e/o in scala reale su piccoli tratti di costa), Nell’opuscolo si insiste invece sui controlli fatti sulla dimensione dei grani, ma il problema non è effettuare analisi granulometriche in quantità (come pare sia stato fatto), bensì l’uso “ingegneristico” che se ne fa.

Quanto poi al monitoraggio del ripascimento gli interrogativi sono ancora maggiori. Come viene controllata l’efficacia del ripascimento? Quali sono gli strumenti? Il sospetto che sia lasciato al solo rilevamento aereo e topografico, e non siano stati installati strumenti idraulici e geotecnici è grande. Nell’opuscolo informativo non se ne parla; sul posto non si nota la presenza di strumenti (generalmente protetti da ripari visibili).

Per concludere, la realizzazione di interventi di difesa dei litorali richiede, come tutti gli interventi ingegneristici sul territorio, conoscenza, sperimentazione, modellazione, calcoli, ricerca di soluzioni alternative, cautela. Nel caso specifico. Il libretto informativo, non solo non tranquillizza gli animi, ma suscita molti interrogativi, per non dire inquietudini 8.3 L’erosione in Italia, regione per regione Abruzzo

I tratti di costa abruzzese minacciati dal rischio di erosione più elevato sono quelli all’altezza del settore centrale e delle foci dei fiumi. Il litorale è costituito da brevi tratti di costa alta, ubicati nella parte più meridionale, e da un centinaio di chilometri di spiagge, in molti casi letteralmente assediate da insediamenti turistici, centri urbani, vie di comunicazione di interesse nazionale, e impianti industriali, realizzati a ridosso della battigia. Per questa ragione, il 25 per cento del litorale è a rischio molto elevato e un altro quarto a rischio elevato.

Basilicata

Gli insediamenti turistici, realizzati sfruttando tutto lo spazio disponibile, rappresentano il fattore più grave all’origine dell’erosione del tratto tirrenico del litorale della Basilicata. Il 92 per cento della costa situata su questo versante risulta così essere a rischio elevato. Si tratta, in ogni caso, di una piccola porzione di territorio. La costa tirrenica della regione, estesa per 17 chilometri, si compone infatti soprattutto di coste alte, mentre le spiagge occupano solo due settori, a nord e a sud, per circa quattro chilometri. Radicalmente diversa la situazione del settore ionico, costituito quasi esclusivamente da spiagge (36 chilometri su 38), alimentate dai numerosi fiumi che scorrono lungo la “Fossa bradanica”. I tratti a rischio elevato e molto elevato sono pari a circa 24 chilometri, con un’erosione che provoca un arretramento della linea di riva di oltre cinque metri all’anno. Tale fenomeno è dovuto all’impoverimento degli apporti solidi per i pesanti interventi antropici

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sui bacini fluviali e all’asporto di sedimenti che dalle spiagge, attraverso canyon sottomarini, raggiungono fondali molto profondi.

Calabria

Il litorale della Calabria che si affaccia sul mare Tirreno si estende per 246 chilometri, 188 dei quali di costa bassa, ed è in condizioni piuttosto precarie. Il 64 per cento delle spiagge, infatti, è a rischio molto elevato di erosione per la realizzazione, a breve distanza dalla battigia, di strutture connesse ad insediamenti urbani. Lungo il versante ionico, costituito da 56 chilometri di costa alta e da 384 di spiagge, il fenomeno erosivo risulta essere meno diffuso e più recente: i tratti a rischio molto elevato, pari al 44 per cento dei litorali sabbiosi, sono concentrati nella zona più meridionale, dove le spiagge sono fortemente irrigidite dagli insediamenti urbani e dalle vie di comunicazione, mentre nella zona settentrionale la situazione è più tranquilla. In questa area, caratterizzata da una scarsa diffusione di insediamenti urbani, il 30 per cento delle spiagge è, infatti a rischio basso. Emilia Romagna

La riduzione del trasporto solido fluviale e dei fenomeni di subsidenza si sono sommati lungo il litorale romagnolo agli effetti provocati da manomissioni profonde dell’assetto naturale della costa. Ben 77 chilometri dei 130 di litorale sono difesi da opere di vario tipo, e la Regione ha stanziato di recente quasi 20 miliardi per finanziare il piano di interventi elaborato dalle province di Ferrara e Ravenna allo scopo di combattere l’arretramento delle spiagge, che in alcuni punti procede ad un ritmo preoccupante. Il 13 per cento dei litorali è considerato a rischio molto elevato e i tratti che suscitano più timori sono quelli in corrispondenza delle Valli di Comacchio, fra i fiumi Savio e Rubicone e a nord del fiume Conca. Nel complesso, sono 32 i chilometri di costa interessati dall’arretramento, ma d’altro canto altri 98 chilometri sono stabili o, addirittura, in accrescimento. All’erosione contribuisce anche l’estrazione del gas al largo dell’Adriatico, che interessa diversi punti davanti alle coste romagnole. Friuli Venezia Giulia

Il rischio erosione in Friuli Venezia Giulia riguarda principalmente la fascia costiera che si estende dai litorali lagunari al lembo più occidentale della regione. Lungo tutto il litorale della regione, costituito da una quindicina di chilometri a costa alta, nel settore orientale, e da 90 chilometri di costa bassa e sabbiosa, non sono comunque presenti tratti a rischio molto elevato. La modesta intensità di rischio, che a est delle lagune di Marano e Grado è addirittura nullo o basso, è dovuta al fatto che i due maggiori centri urbano-portuali, vale a dire Trieste-Muggia e Monfalcone, sono protetti rispetto alle mareggiate più violente, mentre i centri turistici possono contare sull’ampiezza della spiaggia, è il caso di Lignano, o su opere quali frangiflutti e dighe, come avviene a Grado. I lidi delle lagune, inoltre, sono pressoché disabitati e

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comunque dissipativi nei confronti dell’energia del moto ondoso grazie alla presenza di estesi banchi sabbiosi sui fondali antistanti. Lazio

Nel Lazio i fenomeni erosivi e l’arretramento degli arenili si presentano con caratteristiche generalizzate su tutto il litorale, anche se con forme e connotati diversificati. Si tratta di una situazione che, oltre a compromettere grandi valori ambientali, mette a rischio porzioni rilevanti dell’economia costiera, che nel turismo balneare ha uno dei suoi punti di forza, e talvolta pone dei problemi anche per la salvaguardia delle infrastrutture e degli abitati. L’estensione del litorale è di circa 290 chilometri, suddivisi in 70 chilometri di coste rocciose e in 220 di spiagge. Per quanto riguarda quest’ultime, il 18 per cento è minacciato da un rischio molto elevato e il 42 per cento da un rischio elevato. Tra i tratti più esposti, i settori costieri a cavallo della foce del Tevere: nel tratto Fregene-Fiumicino l’erosione interessa il 76 per cento della costa, e tra Fiumicino e Ostia questa percentuale sale all’87 per cento. Punte significative si registrano anche tra Nettuno e Sabaudia, e tra San Felice Circeo e Sperlonga. Il fenomeno erosivo e l’arretramento dell’ arenile si manifesta anche su tutta la costa del Comune di Ladispoli. Particolarmente critica è la situazione che riguarda il tratto antistante Torre Flavia, sottoposta alla salvaguardia dei Beni Culturali, dove i problemi derivanti dal fenomeno di erosione della costa hanno raggiunto un livello tale che richiede interventi urgenti per contenere il fenomeno. Le cause di questa situazione e del suo progressivo aggravamento in tutto il litorale laziale spaziano dalle opere che determinano erosioni localizzate, strutture e moli portuali prima di tutto, alla edificazione incontrollata di ampie zone costiere. La causa decisiva, tuttavia, va individuata nella drastica diminuzione degli apporti solidi fluviali, quelli del Tevere in testa, dovuta alle escavazioni in alveo, alle dighe, e agli stessi interventi di controllo dei fenomeni erosivi dell’entroterra. Il deficit di ripascimento, nel complesso dello sviluppo costiero laziale, oscilla così tra un minimo di 600mila metri cubi all’anno ed un massimo di oltre un milione di metri cubi. Liguria

In Liguria su un totale di 211 chilometri di spiagge, sono 32 quelli a rischio molto elevato, concentrati in misura prevalente a sud-ovest di Capo Noli e lungo le spiagge del settore appenninico (Lavagna e Marinella). L’alternanza di scogliere e piccole spiagge comporta una grande ricchezza e varietà sia paesaggistica che naturalistica. Purtroppo, però, questo patrimonio è stato pesantemente influenzato e modificato dall’attività umana, tanto che oggi alcuni problemi risultano strettamente legati alla presenza di infrastrutture e alle modifiche ambientali del passato: molte delle spiagge liguri, infatti, sono soggette ad erosione a causa della modifica della linea di costa, della diminuzione degli apporti solidi causata dallo stravolgimento degli alvei fluviali, della artificialità delle spiagge stesse, talvolta costruite per scopi

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turistici. L’instabilità delle falesie richiede continuamente nuovi interventi a causa delle opere, viarie e insediative, da cui sono state colonizzate. I fenomeni erosivi sono dunque direttamente legati ai processi di intensa urbanizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, tanto più che oggi oltre l’80 per cento della popolazione vive in permanenza in prossimità del litorale. Lungo le scogliere della regione sono stati rilevati numerosi fenomeni di instabilità, il più delle volte generati dall’azione erosiva del moto ondoso. Una delle vicende più note è quella del crollo quasi totale della Grotta di Byron, che costituisce il logico riferimento di tutti gli aspetti culturali e turistici del Comune di Portovenere. Marche

Nonostante la presenza di opere di difesa di vario tipo, in particolare quelle realizzate per proteggere la Strada Statale 16 e la linea ferroviaria, la situazione lungo il litorale marchigiano continua a destare preoccupazione.Con la sola esclusione dei promontori di Gabicce e Ancona, la fascia litoranea, ampia 200 metri a ridosso delle spiagge, presenta infatti un tasso di urbanizzazione media pari a circa il 45 per cento. I 145 chilometri di spiagge della regione presentano dunque alcune situazioni dove il rischio di erosione è molto elevato. E’ il caso, per esempio, delle zone a nord delle foci dei fiumi Tronto, Potenza, Esino e Cesano e, nel complesso, l’intensità più grave del fenomeno interessa il 14 per cento delle coste basse. Sardegna

L’assenza di insediamenti e di vie di comunicazione lungo la costa ha reso quasi immune al fenomeno erosivo il versante occidentale della Sardegna. Le spiagge nell’isola coprono solo 457 dei quasi duemila chilometri di costa, e quelli a rischio molto elevato sono solo sette sulla costa orientale e nove sulla costa meridionale, mentre le spiagge del versante occidentale, malgrado siano battute spesso dal maestrale, restano quasi immuni dai processi erosivi per l’assenza d’insediamenti e di vie di comunicazioni lungo la costa. Sicilia

Il litorale siciliano si estende per un totale di 998 chilometri, isole escluse, ed è caratterizzato dall’alternanza di coste alte, pari a 375 chilometri, e di spiagge sia sabbiose che ciottolose, che raggiungono i 621 chilometri di lunghezza. Lungo la costa settentrionale i tratti a rischio molto elevato si estendono per 73 chilometri e sono localizzati soprattutto nel settore centrale e in quello orientale. Sul versante a est e a sud dell’isola, invece, i chilometri a rischio molto elevato sono rispettivamente 32 e 29. Toscana

Dei 190 chilometri di spiagge della Toscana, circa la metà è soggetta a erosione. I tratti in cui il rischio è molto elevato sono pari al 17 per cento e si concentrano soprattutto sulle ali deltizie dei fiumi Arno e Ombrone, e in

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corrispondenza delle foci dei fiumi minori. Un caso esemplare è quello rappresentato dalla spiaggia dell’Uccellina a Marina di Alberese, nel Parco Regionale della Maremma, dove il mare sta erodendo la costa penetrando nella pineta: in questo stesso punto, dove i gli alberi cadono sotto l’azione delle onde, fino a pochi decenni fa c’erano alcune centinaia di metri di terreno in più. Nel bacino superiore dell’Ombrone si continua infatti ad intervenire negli alvei e a sottrarre materiale inerte. Materiale che viene dunque sottratto a questa stessa spiaggia. Veneto

Le spiagge del litorale veneto, caratterizzato dalla totale assenza di coste alte, si estendono per circa 160 chilometri, 12 dei quali a rischio di erosione molto elevato: due chilometri immediatamente a sud della foce del Tagliamento e 10 chilometri in prossimità del lido di Pellestrina, all’estremità meridionale della Laguna Veneta. Nel primo tratto le mareggiate hanno destabilizzato l’area protetta del delta, che continua a subire l’aggressione marina. Il litorale di Pellestrina mostra invece segni di cedimento dei murazzi dal 1966. Il recente intervento di ripascimento artificiale della spiaggia potrebbe abbassare il livello del rischio, ma molto dipenderà dall’efficacia dell’opera successiva di manutenzione. Da alcuni anni si sta inoltre verificando e intensificando il processo di erosione di tutti gli scanni del Delta del Po. Prima era un fenomeno che si localizzava in qualche parte, in relazione alla mobilità delle terre nuove (gli scanni), che sono in continua evoluzione per il gioco di correnti e di carichi di materiali portati dal fiume. Ora il processo è visibile a occhio nudo e vede, da un anno all’altro, la sparizione di pezzi rilevanti di spiaggia. Lo scorso anno il faro di Goro era lontano dal mare 15-20 metri. Alla fine dell’estate sono stati installati i tubi che Regione, Magistrato del Po e Consorzi di Bonifica (ente operativo) ritengono la tecnologia risolutiva da più di 20 anni. Risultato: dopo due mesi sabbia non se ne era accumulata, i tubi erano o sommersi o strappati, e il faro oggi ha il mare che gli batte sul muro di cinta. In 10 anni circa sono spariti 50-100 metri di spiaggia. Sempre a sud c’è il caso dello scanno di fronte alla sacca di Goro: in espansione in passato, perché la sabbia sottratta a nord si accumulava a sud, da due-tre anni subisce anch’esso una forte erosione. Risalendo a nord, è semidistrutto lo scanno di fronte alla Sacca di Scardovari, alla foce del Po delle Tolle. I tubi messi 20 anni fa sono stati un vero e proprio fallimento tecnologico e finanziario. Per di più, con una decisione assurda, lo scanno è stato tagliato per aumentare l’ossigenazione della sacca che pure gode di un’entrata dieci volte più larga. L’ossigenazione, invece, non è aumentata, le mareggiate si sono mangiate più sabbia e lo scanno si è ridotto. D’altro canto, la Sacca non riesce ad alimentare le colture di mitili perché non riceve più sabbia dal fiume e il fondo si copre di strati sempre più spessi di materiale organico che aumenta l’anossia delle acque. Gli scanni intorno alle Bocche di Pila erano fino a poco tempo fa i più riforniti di sabbia, oggi non lo sono più. La velocizzazione del fiume, in seguito alle rettifiche del suo corso, spinge

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infatti i materiali più a largo e li sottrae così alla costa. A nord la spiaggia di Boccasette è sparita per i due terzi in due anni, ovvero qualcosa come venti metri circa di sabbia. L’erosione alle bocche dell’Adige è in atto da molti anni e divora ormai la base delle dune, una volta retrostanti la spiaggia. Destino o sottrazione fraudolenta di milioni di metri cubi di ghiaia e sabbia dal bacino del Po? Un altro caso particolare e molto dibattuto è quello relativo alla laguna di Venezia, dove si registra un aumento progressivo delle acque alte, dovuto all’innalzamento del livello del mare, pari a 8,8-10,5 centimetri nel corso del XX secolo, e al fenomeno della subsidenza, nella misura di 9,5-13 centimetri, indotta soprattutto dalla grande estrazione di acqua dal sottosuolo per le industrie di Marghera, sospesa dopo l’alluvione del 1966. Ogni intervento in un’area vasta rischia di provocare un’ulteriore subsidenza che rischia di comportare l’allagamento permanente di piazza San Marco. Ulteriori conseguenze sarebbero rappresentate dall’indebolimento delle “difese a mare” e dall’innesco di processi di erosione della costa più consistenti, oltre al dissesto delle fondazioni degli edifici di Venezia e Chioggia, e allo sconvolgimento del sistema delle valli da pesca. Alla luce di queste considerazioni, risulta dunque necessario valutare l’impatto dell’estrazione di gas sull’assetto di questa area. Da quasi 50 anni, infatti, l’Eni ha acquisito l’esclusiva di ricerca ed estrazione di idrocarburi in Alto Adriatico, ed ha previsto l’installazione di 15 piattaforme di produzione insieme alla perforazione di 79 pozzi produttori di metano. Le preoccupazioni per il destino della costa comportarono nel 1995 l’obbligo dello studio di impatto ambientale, che l’Agip presentò l’anno seguente. Lo studio è stato però bocciato da un gruppo di lavoro nominato dal Comune di Venezia, perché i parametri scelti non tenevano nel debito conto gli effetti di subsidenza lungo le coste. Il lavoro di una commissione di esperti e l’esame della commissione Via hanno portato al decreto del 5 dicembre 1999, che vieta l’attività di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi entro 12 miglia nautiche dalla linea di costa, pari a circa 22 chilometri. Il provvedimento legislativo non prende però in considerazione la concatenazione di eventi che un inizio di estrazione metterebbe in moto: non solo quelli evidenti e misurabili di abbassamento del suolo, ma anche gli “effetti imbuto” che si ripercuoterebbero sugli equilibri costieri anche in tempi più lontani. D’altro canto, il modello ingeneristico adottato dall’Agip è troppo semplificato. Tace, perché non può certificarlo, sulle dimensioni del cono di subsidenza, ma soprattutto non tiene conto che gli effetti continuerebbero anche dopo la sospensione delle estrazioni. Questo perché la scelta compiuta dall’Agip è quella di estrarre acqua metanifera in strati di sabbia pliocenica non consolidata, che inevitabilmente finirà per comportare un effetto di compattazione, conseguente all’estrazione di acqua e non di metano secco. Infine, nessun cenno alla mappa del Cnr di Trieste del 1987, che prova la presenza di discontinuità tettoniche che dalla pianura veneta si prolungano in laguna e nel golfo di Venezia. Queste faglie, tra l’altro, attraversano i giacimenti, dove si rilevano pure epicentri di sismi avvenuti nella zona dell’Alto Adriatico. Il “gioco” non sembra valere la candela. La posta

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energetica in palio, infatti, ammonta secondo l’Agip a 30 miliardi di metri cubi da estrarre in 25 anni, con investimenti di 1.200 miliardi. L’apporto di questa attività, frazionata in un quarto di secolo, non sembra compensare il prezzo ambientale, economico e sociale che la comunità nazionale sarebbe costretta a pagare. E’ senza dubbio preferibile, dunque, dirottare le stesse risorse verso investimenti di risparmio energetico e di potenziamento delle fonti di energia rinnovabili.

REGIONE TOTALE KM DI COSTA

COSTA A RISCHIO MOLTO ELEVATO

Abruzzo 125 25% Basilicata 53 57% Calabria 690 67% Campania 350* 58% Emilia Romagna 130 13% Friuli Venezia Giulia 100 4,2% Lazio 290 18% Liguria 355 15% Marche 145 16% Sardegna 1.900 1,5% Sicilia 996* 12% Toscana 470 17% Veneto 160 7,5% Totale 5764 - * isole escluse Fonte: dati tratti da uno studio di Leandro D’Alessandro, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Chieti, e di Giovanni Battista La Monica, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università “La Sapienza” di Roma.

8.4 Un caso esemplare: la Campania

Spiagge risucchiate dal mare, costruzioni di cemento armato piegate dalle onde, alberghi come palafitte. Sono 95 i chilometri di costa campana a rischio di erosione molto elevato. Dei 350 chilometri di litorale della regione (escluse le isole) 170 sono di costa alta e 162 di spiagge, cui vanno sommati altri 16 chilometri coperti da banchine e strutture portuali. Una accentuata spinta all’urbanizzazione, la costante tendenza alla violazione delle leggi e all’abusivismo edilizio, la preferenza per la infrastrutturazione trasportistica in aree costiere, se non addirittura sulla linea di costa, dai porti all’uso sconsiderato del territorio. Dalla fine degli anni ’50 ad oggi, la fascia costiera

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campana è stata utilizzata come un bene inesauribile ed indistruttibile su cui fosse possibile gravare con un numero illimitato di opere, senza curarsi delle conseguenze, invece di amministrarlo come un bene prezioso che doveva durare nel tempo per permettere una migliore resa economica. Spesso i successivi interventi, con la costruzione delle più svariate opere di difesa, sono stati spesso del tipo “ tampone” sotto la spinta dell’urgenza. Opere realizzate in tempi diversi, in aree limitate, che hanno rimandato la soluzione del problema senza risolverlo. Le strutture portuali a difesa della costa (Pinetamare, Casalvelino, Policastro, Ischia, foce del Volturno, Monte di Procida) e gli interventi realizzati lungo le aste fluviali (Traversa di Ponte Annibale sul Volturno, Traversa di Persano sul Sele, diga del fiume Alento) hanno contribuito negli ultimi anni a modificare gli equilibri naturali creando locali vantaggi e diffusi scompensi ai litorali. L'emergenza riguarda in particolar modo la costa salernitana, il litorale domizio flegreo e l'isola di Ischia e Procida. Secondo uno studio della Provincia di Salerno, i salernitani ogni anno perdono circa un metro di spiaggia all'anno. A rischio il litorale sabbioso, che va da Salerno a sud, con maggiori problemi verso Eboli, dove in alcuni punti il mare lambisce la strada provinciale costiera mentre nel Cilento, dove i ritmi di erosione, superano sicuramente di gran lunga i valori di un metro all'anno. Nel tratto salernitano compreso tra piazza della Concordia fino alla foce del fiume Fuorni, negli ultimi 25 anni, si è assistito ad un arretramento generalizzato con punte massime di 15 metri. Qui sotto accusa il consistente prelievo di "inerti". Nella zona di Mercatello, sistemando una scogliera davanti all’omonimo lido nel ’90, si è determinato un tombolo sabbioso che ha accentuato l’erosione nelle zone adiacenti. Andando verso la litoranea, caso emblematico ai confini del comune di Pontecagnano dove il mare lambisce addirittura la strada provinciale che va verso Paestum. Meno grave il problema nella costiera amalfitana, dove nelle insenatura in cui sono presenti le spiagge, il fenomeno esiste ma in misura minore anche perché i torrenti a monte non riforniscono più come un tempo le spiagge stesse. Significativi arretramenti si registrano nel tratto Casalvelino - Ascea, alla foce del fiume Mingardo, a Palinuro, e da capo San Marco al promontorio del castello di Agropoli, dove in quest'ultimo tratto vi è pericolo di crolli di prismi rocciosi. Risultato di tutto ciò, danno all'ambiente, distruzione del territorio, perdite ingenti dal punto di vista occupazionale e di indotto economico. Secondo una proiezione della Confcommercio di Salerno si stima, che nel caso di interventi migliorativi solo sulle spiagge cittadine, si potrebbe avere un aumento occupazionale del 114%. Basti pensare che sono circa 600 le aziende balneari che operano lungo la costa salernitana. Oltre al danno ecologico, molte imprese rischiano di chiudere. In base ai dati dell'Università degli Studi di Napoli e dell'Autorità di Bacino del Liri-Garigliano e Volturno risulta che ogni anno dalle spiagge alla foce del fiume Volturno spariscono circa 200.000 mc di materiale. Negli ultimi 30 anni questa zona ha perso 6 milioni di mc di spiaggia, con arretramenti di varie centinaia di metri ed una sostanziale modifica morfologica della linea di costa. Ad alto impatto ambientale le opere di difesa messe in atto che riducono di

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molto l'appetibilità turistica della zona e i cui effetti sono visibilmente discutibili. Le radicali modificazioni di questa fascia costiera risalgono a partire dagli anni'70. In particolare alla destra della Foce del Volturno, in un'area pari a 3 milioni di mq, vengono realizzati circa 5.000 piccoli fabbricati. Le modificazioni sono dovute oltre all'intensa urbanizzazione anche alla realizzazione di opere portuali e di difesa costiera. Il litorale di Pinetamare, a sud della foce del Volturno, mostra una costante progradazione. Con la realizzazione nel 1974, del porto turistico di Pineta Mare, i materiali sabbiosi trasportati dalla zona di foce Volturno verso sud-est vengono intercettati dal molo foraneo del porticciolo causando nel volgere di tre anni un ripascimento di oltre 30 metri. Nello stesso periodo le spiagge sottoflutto entrano in erosione con una perdita di arenile nell’ordine di 20.000 mq. Allo scopo di difendere la linea di riva dall’azione erosiva innescata dalla costruzione del porto sono stati realizzati dei pennelli trasversali, i cui risultati di queste realizzazioni sono diventati visibili nel 1989 con un sostanziale arrestarsi del processo erosivo e con un incremento della superficie totale del litorale di circa 12.000 mq. Interessate dal fenomeno la piana del Sele e le foci dei fiumi Alento, Mingardo e Bussento. In queste aree la riduzione delle superfici a spiaggia è avvenuta a partire dalla fine degli anni '70 con un'accelerazione repentina del fenomeno negli anni '90. Gli arretramenti complessivi sono stati anche di 80 metri, come si è verificato alla foce del fiume Alento e, in particolare nel corso degli ultimi cinque anni, sono state registrate riduzioni dell'ordine dei sei metri per anno. Il disastro dell' erosione delle coste non è un processo naturale: è un danno provocato dalla cattiva gestione del territorio. Un primo attacco viene da terra con la cementificazione dei fiumi, il prelievo sfrenato ed illegale di sabbia e ghiaia che determina lo sconvolgimento di un percorso dell'acqua naturale. Ma, non basta. In mare è stato creato un secondo ordine di problemi. Il dilagare di porti e porticcioli, di colate di cemento, di costruzioni pretese sull'acqua ha modificato anche il gioco delle correnti marine facendo sì che zone ricche di sabbia si trovassero all'improvviso senza più spiaggia. Una delle aree più pregiate della nostra regione viene lentamente ma inesorabilmente limata. In questo modo si ha non solo una ovvia diminuzione dell'offerta turistica nella zona colpita, ma più in generale danno d'immagine per una Regione che si dimostra incapace di difendere uno dei suoi tesori più preziosi. Non secondario l'effetto dell'urbanizzazione selvaggia della fascia costiera con la realizzazione di mega- villaggi turistici, spesso costruiti in deroga a qualsiasi licenza edilizia, della subsidenza accelerata dei suoli, dell'errata progettazione di opere marittime e di porti, porticcioli, lingue di cemento che hanno modificato il gioco delle correnti marine facendo si che zone ricche di sabbia si trovassero all'improvviso senza più spiaggia. Di fronte ad una situazione di queste proporzioni, si avverte l’esigenza di provvedimenti drastici in grado di invertire la tendenza in atto. Servono misure capaci di intervenire sui vari fronti del problema, ovvero il dissesto idrogeologico, l’avanzata del mare, le frane e il danno paesaggistico. Un imponente piano di difesa del territorio da cui potrebbe derivare anche un consistente rilancio dal punto di vista

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occupazionale. Il danno per tutta la Campania oltre che ambientale è anche economico: nel caso delle località più rinomate, infatti, è stato calcolato che le perdite derivanti dall’abbruttimento del paesaggio possono raggiungere i due milioni di lire per metro quadrato. Moltiplicando questa cifra per le centinaia di migliaia di metri quadrati di superfici erose in tutta la regione, l’impatto del fenomeno emerge nella sua interezza, quantificabile nell’ordine di decine di miliardi. Critica anche la situazione dell'Isola di Ischia e di Procida dove i fenomeni di erosione stanno mettendo a dura prova l'economia turistica locale. In prossimità di queste aree si sono verificate riduzioni cospicue delle superficie a spiaggia. A Procida la conseguenza più evidente è stato lo smantellamento e la continua demolizione della scarpata costituita da depositi vulcanici degradabili. Pertanto l’isola è afflitta da continui crolli di roccia che mettono in pericolo sia la vita dei bagnanti che i manufatti attigui. Emblematica può essere considerata anche l’attuale situazione dell’Isola d’Ischia. Il fenomeno d’arretramento coinvolge tutto il litorale: a seguito della scomparsa di intere spiagge è aumentato il rischio legato alle frane di crollo nei versanti a falesia, che ora risultano essere assolutamente indifesi dall’azione erosiva del moto ondoso. Ad Ischia particolarmente a rischio è la località Punta Molino, ad est di Ischia Porto, dove una marcata erosione ha provocato l’asportazione della sabbia e l’affioramento di massi che hanno reso difficile la fruizione della spiaggia e l’ormai famoso caso della spiaggia dei Maronti (una lingua di sabbia lunga 2 km) al centro degli studi da circa 25 anni e dove il lido in questione è per metà scomparso. Il danno economico derivante dalla diminuzione della superficie delle spiagge va dai 3 € a mq per semplici concessioni demaniali a danni economici indiretti dovuti all'imbruttimento del paesaggio delle località più rinomate come quelle di Ischia, dove il valore della perdita economica può raggiungere i 1.000 € a mq. Dunque, perdite notevolissime, dell'ordine delle decine-centinaia di miliardi se si considera che per la sola costa cilentana sono circa 500.000 mq le superfici erose.

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9. La pesca “miracolosa”

Vongole alla diossina, datteri illegali, specie catturate sottotaglia,

metodi di pesca devastanti per l’ambiente costiero. Sono queste alcune delle tante facce che animano l’immenso e variegato panorama del mondo della pesca nel nostro Paese. Un panorama che vede agire fianco a fianco, piccoli operatori che lavorano ancora con metodi artigianali, a professionisti armati di sofisticatissimi attrezzi, a veri e propri malviventi che devastano e fanno man massa di ogni risorsa. Il tutto, in barba alla salute dei consumatori, del lavoro degli onesti e soprattutto del mare.

Se si amplia poi il discorso alla gestione complessiva della risorsa mare non resta che constatare che le misure del nostro Governo a proposito di pesca sono poche e contraddittorie. Le ultime trovate del Ministero delle Politiche Agricole poi sono tutte all’insegna del liberismo sfrenato e rischiano di scatenare una guerra fra marinerie. Qualche esempio può servire a chiarire la situazione. In Adriatico dopo anni di regolamentazione della pesca dei piccoli pelagici che costringeva le marinerie del sud a rispettare le regole che si erano date in quelle della zona, ora, grazie all’introduzione di nuove normative ognuno è più o meno libero di pescare dove, quando e quanto gli pare. Una norma che smantella quei timidi tentativi di gestione dell’attività di pesca da parte delle marinerie attuati negli anni passati, i soli strumenti in grado di legare le marinerie al proprio territorio di pesca obbligandole, di conseguenza, a definire politiche di gestione delle risorse. Oppure il caso della pesca con il cianciolo, una vera e propria strage “legalizzata” dal nostro Governo di cui si parla più diffusamente in un capitolo dedicato. O ancora, la nuova proposta di fermo biologico di pesca per il triennio 2002-2004, che di “biologico” ha assai poco, dal momento che per la prima volta da quando esiste questo provvedimento, si lascia la facoltà alle singole imprese di effettuare il fermo come e quando si crede e non in relazione al ciclo riproduttivo delle specie pescate. Anche in questo si potrebbe tristemente titolare l’iniziativa in “come smantellare l’unica misura vigente di tutela delle risorse biologiche del mare”. 9.1 La pesca di frodo

Ancora una volta è la Sicilia la “prima della classe” nella pesca illegale in Italia con ben 1.707 infrazioni accertate (erano state 1.039 nel 2000). In seconda posizione si conferma la Puglia (1.127 reati), mentre Campania e Marche si scambiano la posizione dello scorso anno, piazzandosi nel 2001 rispettivamente terza e quarta. Da evidenziare il numero dei sequestri operati in Sardegna, ben 1.656. Chiudono la classifica, come nel 2000, Molise, Friuli Venezia Giulia e Basilicata.

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LA CLASSIFICA DELLA PESCA DI FRODO NEL 2001 Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Sicilia ↔ 1.707 218 701 2 Puglia ↔ 1.127 248 783 3 Campania ↑ 643 189 309 4 Marche ↓ 623 35 514 5 Calabria ↑ 587 111 213 6 Toscana ↑ 525 17 396 7 Veneto ↓ 411 118 458 8 Lazio ↓ 390 101 283 9 Sardegna ↓ 317 8 1.656 10 Emilia Romagna ↑ 274 91 107 11 Liguria ↓ 235 14 78 12 Abruzzo ↓ 166 4 123 13 Molise ↔ 123 0 99 14 Friuli Venezia Giulia ↔ 77 9 47 15 Basilicata ↔ 2 1 2 Totale 7.207 1.164 5.769

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

9.2 La “miniera” datteri

Il dattero di mare (Lithophaga lithophaga) è un mollusco bivalve perforatore che colonizza le rocce calcaree, fino a 35 metri di profondità. Ad eccezione di alcune zone in cui è divenuto una vera rarità, non è una specie in via di estinzione, ma la sua cattura provoca la distruzione delle scogliere in cui vive: i datteri vengono raccolti spaccando e sminuzzando la roccia con picconi, scalpelli e addirittura martelli pneumatici. Il risultato è la completa rimozione della copertura biologica dei substrati duri superficiali (da 0 a 15 metri di profondità), con conseguente desertificazione dei fondali. Si tratta di uno dei più gravi fenomeni di erosione della biodiversità in Mediterraneo. Il dattero vive nel suo cunicolo scavato nella roccia, in gallerie fusiformi che costituiscono dei veri e propri microhabitat popolati da un gran numero di organismi. Gli ambienti più minacciati dalla cattura del dattero sono quelli litoranei di falesia calcarea, particolarmente abbondanti proprio nelle aree prescelte per l’istituzione di riserve marine e risultato di processi evolutivi particolarmente lunghi e complessi. Le zone più battute dai datterai nel nostro paese sono le coste della penisola sorrentina, in particolare i fondali dell’area marina protetta di Punta Campanella, le coste pugliesi, quelle delle Cinque Terre e del litorale spezzino e le coste sud orientali della Sicilia.A causa della

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pesca del dattero, siti caratterizzati dalla presenza di comunità complesse e che svolgono un’attiva funzione filtratrice dell’acqua, si trasformano in deserti rocciosi. Un dattero raggiunge 5 cm di lunghezza dopo circa 20 anni: una crescita così lenta costringe i pescatori di datteri (datterai) a cambiare continuamente luogo di raccolta, distruggendo ettari di fondale e riducendo al tempo stesso la produzione di nuove larve. Le tecniche di immersione subacquea consentono oggi a chiunque di accedere ai banchi, senza difficoltà e senza limitazioni di tempo e profondità. Per prelevare i datteri vengono utilizzati piccozze, scalpelli, martelli pneumatici e persino piccole cariche esplosive, una vera catastrofe ambientale, uno dei più gravi fenomeni di erosione della biodiversità in Mediterraneo paragonabile solo ai disastri ecologici causati dal naufragio delle petroliere.

Il divieto di raccolta, detenzione e commercio di dattero di mare vige nel nostro paese sin dal 1988. Più recentemente il decreto del 16 ottobre 1998 ha prorogato questo divieto. Una circolare del Ministero delle Politiche Agricole ha chiarito infine che è perseguita allo stesso modo anche l’importazione dall’estero di datteri di mare. Dunque chi offre datteri, sia in pescheria che al ristorante, è di sicuro fuori legge. Nonostante tutto, ogni anno in Italia vengono raccolte tra le 80 e le 180 tonnellate di datteri, equivalenti a 6-15 milioni di individui e a 4-10 ettari di fondali desertificati. Ogni consumatore di datteri contribuisce in maniera sostanziale a questo scempio: basti pensare che un piatto di linguine ai datteri ne contiene circa 200 grammi, pari a 16 individui: pochi rispetto ai milioni di cui si è detto, molti se si considera che per raccoglierli si è distrutto un quadrato di fondale di 33 centimetri di lato. Le cifre del disastro 15-25 kg: il prelievo giornaliero da parte di un datteraio “professionista” 500 kg: il prelievo giornaliero di datteri lungo la penisola sorrentina 30.000 mq i fondali desertificati dai datterai ogni anno nel Salento 70.000 mq di fondali desertificati ogni anno lungo la penisola sorrentina 2 milioni di euro: il giro d’affari annuale dei datterai nella sola penisola sorrentina 1000 cmq: le dimensioni dell’area distrutta per un piatto di linguine ai datteri

9.3.1 Datteri: i casi esemplari La Penisola Sorrentina: Punta Campanella

Un vero e proprio disastro ecologico è in atto sotto i nostri occhi nella Riserva Naturale di Punta Campanella che si estende tra i golfi di Napoli e Salerno, dal Capo di Sorrento a Punta San Germano a due passi da Positano. I datterai usano gli stratagemmi più inverosimili, affilano le armi in prossimità delle festività natalizie e si adeguano facilmente allo sviluppo tecnologico delle attrezzature subacquee. Il decreto che ne vieta la pesca e la

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commercializzazione si è dimostrato insufficiente a preservare i fondali dalla “catastrofe ecologica”, come viene definita dall’Enciclopedia Britannica. Un motivo, questo, che garantisce ai datterari una certa immunità e la motivazione a proseguire nella loro azione devastatrice senza che qualcuno intervenga ad interromperne gli interessi a nove zeri.

Sia nella Penisola Sorrentina che nella Costiera Amalfitana la modalità di estrazione del dattero di mare ha subito, negli anni, cambiamenti determinati dagli avvicendamenti dei quadri preposti al controllo ed in dipendenza dello sviluppo tecnologico delle attrezzature subacquee. Ed è proprio con il miglioramento delle tecniche e la diffusione sempre maggiore dell'immersione subacquea, che un gran numero di persone si dedicano a questa lucrosa e distruttiva attività. Oggi nella sola area della Penisola Sorrentina e Costiera Amalfitana sono circa 50 quelli che, ogni giorno, armati dei loro arnesi da lavoro (scalpello e martello) distruggono le meraviglie e la vita dei nostri mari. Questa pesca indiscriminata oltre che distruggere gran parte della biodiversità, vanto del nostro mare, danneggia tra l'altro, l'intera economia del comparto della piccola pesca, in quanto il distacco di intere pareti di roccia desertifica l'area allontanando da essa alcune specie ittiche.

La giornata dei "datterai" inizia alle prime luci dell'alba. Provvisti di piccoli scafi veloci, con tutte le dotazioni di sicurezza in perfetta regola, partono da Castellammare di Stabia (Na) nell'area denominata "acqua della madonna" ed approdano lungo tutto la costa: da Castellammare di Stabia a Salerno, isola di Capri compresa. Ma anche nei residenti non mancano quelli che si dedicano a questa criminosa attività, come nel caso di località rinomate della penisola sorrentina e costiera amalfitana: Seiano, Massa Lubrense (Recommone) e Praiano. Ogni scafista lascia uno o due subacquei sotto costa, quindi si allontana, anche per centinaia di metri ed aspetta l'ora concordata per il loro recupero che avviene di solito dopo 4/5 ore. Il datteraio, si inabissa nei fondali marini ed armato di un pesante martello bipenna, ma anche di picozze e martelli, frantuma indisturbato la parete rocciosa. E per non essere visti in superficie, lo stratagemma è semplice ed efficace: affondano il recipiente in cui sono conservati i datteri. Nella loro azione criminale, non poteva mancare il ruolo dei bambini. Infatti spesso, a bordo degli scafi, al fine di disorientare le forze dell'ordine, vi sono minorenni e signore. Un quadro perfetto per una bella gita in barca, ma con obiettivo non la tintarella o qualche tuffo in mare bensì i datteri. Il giro di affari è notevole, i rischi vicini allo zero. Ciascun datteraio preleva in media 10 kg al giorno (valore sottostimato) di prodotto che rivende al 40 mila al Kg per un guadagno di 400.000. Il periodo di attività, che un tempo era di sei mesi l’anno, ora non conosce sosta. Una colonia di datteri conta in media 150 individui per mq, ma può arrivare fino a 300 per mq. In termini ecologici questo significa la desertificazione di una fascia di costa dai 4 ai 6 km per una profondità di 15 m. Un dato allarmante se si considera, per esempio, che le falesie della penisola sorrentina amalfitana si estendono per non più di 100 km di costa.

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E per ironia della sorte l'istituzione della Riserva Marina, se da un lato rappresenta un maggior controllo dell'area, dall'altro ha determinato un aumento vertiginoso del prezzo dei datteri sul mercato nero. Infatti nelle festività natalizie ed in quelle pasquali e durante il mese di agosto, il prezzo dei datteri oscilla dalle 70.000 alle 150.000 al chilo. Compiuto il saccheggio, i predoni del mare ritornano alla base scaricano la preziosa merce praticamente indisturbati. Tranne le limitate ma efficaci operazioni condotte dall'Arma dei Carabinieri con nuclei subacquei ed elicotteristi, i controlli effettuati dalla Capitaneria di Porto si limitano alla richiesta di accertamento dei documenti dell'imbarcazione e delle dotazioni di sicurezza. A questo clima di illegalità diffusa, va aggiunta, poi, la mancanza di controlli e repressione nei luoghi di vendita, basti pensare che nei pressi di Porta Nolana, a Napoli, i datteri di mare vengono venduti alla luce del sole!! Molti datterai, annusato l’affare, si sono organizzati con veri e propri depositi, attrezzature e strutture di vendita. Ecco che nei periodi precedenti le festività indicate, comincia la conservazione dei datteri in apposite vasche (vere e propri impianti di stabulazione). I datteri sono poi venduti a prezzi vertiginosi sia al dettaglio che all'ingrosso ai ristoratori. Dietro questa organizzazione gli inquirenti sospettano la presenza dell'immancabile longa manus della camorra. E in questa grande operazione di distruzione dell'ecosistema marino, c'è anche la complicità e la responsabilità indiretta di ognuno di noi. Basti pensare che quando un ristorante ci offre nel menù il raffinato e prelibato piatto di linguine ai datteri, in quel momento dobbiamo ricordarci che quel piatto significa la distruzione di un quadrato di fondale di 33 cm di lato. Che questo meccanismo perverso e illegale stia diventando un affare interessante è noto alle Forze dell’ordine. Nel dicembre di due anni fa un'operazione condotta dalla Procura di Torre Annunziata insieme ai Carabinieri ed agli uomini della Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia, ha portato a quattro arresti ed al sequestro di ben 20 quintali di datteri di mare. Il reato ipotizzato, per la prima volta in Italia in un caso del genere è di associazione a delinquere finalizzata al danneggiamento aggravato ed continuato del patrimonio ecomarino dello Stato. Nel mirino della legge sono finiti, questa volta anche i ristoratori della zona: i veri committenti del prezioso frutto di mare, coloro che non vogliono far mancare sulla tavole imbandite di Natale un ingrediente tradizionale e molto richiesto dai clienti. Per procurasi le prove dei bottini proibiti gli investigatori hanno usato mezzi sofisticatissimi, seguendo per mesi gli equipaggi dei "predoni". Armati di microcamere hanno filmato i sub fuorilegge. I datterai arrestati sono stati quattro. Secondo gli inquirenti, questi bracconieri del mare avevano addirittura lottizzato la costa sorrentina, dividendola in quattro pezzi. Ognuno ne gestiva uno. Alle indagini è seguito un blitz della Guardia di Finanza di Napoli che ha sequestrato tonnellate di preziosi ricci, frutti fragili e delicati del nostro mare. Denunciati sei pescatori clandestini che rifornivano con regolarità i mercati pugliesi (qui i ricci rappresentano una specialità gastronomica irrinunciabile).

Dopo appostamenti ed indagine durati mesi, non è stato difficile risalire ad una sorta di "ponte commerciale" fra le scogliere napoletane ed i mercati

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ittici di Bari, Barletta, Brindisi, dove ogni mattina finivano i costosissimi ricci di mare, prelibati come condimento per gli spaghetti, nonché come antipasto. Di qui la decisione di procedere ad un blitz combinato terra-mare: in azione due vedette, che hanno sorpreso sei subacquei intenti a scippare molluschi dalle scogliere, ed alcune pattuglie mobili che hanno bloccato un furgone dei commercianti pugliesi.

Grazie agli sforzi profusi attualmente la pesca illegale dei datteri è diminuita del 20% circa, ma c’è ancora molto da fare. La costa di Siracusa

Il fenomeno della pesca di frodo del dattero di mare, in Sicilia assume proporzioni devastanti soprattutto in provincia di Siracusa a causa della conformazione geologica della costa, costituita da roccia calcarea. Anche se sono aumentati i controlli da parte degli organi di sorveglianza preposti alla repressione del consumo del mollusco nei ristoranti, il prelievo doloso del dattero è ancora molto praticato.

Si stimano fra i 15 e i 25 bracconieri che quotidianamente (dati non ufficiali scaturiti da notizie fornite dalle stazioni di ricarica), armati di mazza e pinzette, in un tratto di mare che va da Brucoli – Augusta a Capo Murro di Porco, in provincia di Siracusa, praticano la pesca distruttiva del bivalve, riuscendo a raccogliere dagli 8 ai 15 chili di molluschi al giorno, su una batimetrica che va dai 3 ai 10 metri di profondità. Attraverso l’utilizzo di una bibombola di 20 litri, i datterai riescono a rimanere sott’acqua per oltre due ore, distruggendo un tratto di fondale procapite di oltre 50 metri. Da questo calcolo sono esclusi i “dilettanti”, datterai dell’ultima ora che pescano, seppur occasionalmente, con metodi molto più sbrigativi e distruttivi quali compressori e martelletti pneumatici. Gli organi di vigilanza, Capitaneria di Porto, Polizia, Guardia di Finanza ecc., sono in assoluta difficoltà nel fronteggiare tale fenomeno, anche perché, oltre al fatto che i bracconieri del mare svolgono la loro “attività” dalle sette alle dieci del mattino, mentre le motovedette cominciano la perlustrazione di turno routinaria dopo le ore 9, la pesca del dattero avviene su un fondale abbastanza basso dove le motovedette delle forze dell’ordine non possono giungere. Nel 1999 sono stati colti in fragranza di reato appena tre bracconieri e sequestrati solo 60 kg di datteri, oltre alle attrezzature subacque ( dati Questura di Siracusa). Ad oggi non ci sono novità di rilievo.

Il quadro già di per sé sconfortante, si completa se si aggiunge alla pesca al mollusco la pesca di frodo con l’autorespiratore, praticata e a volte “tollerata”, e la pesca con gli esplosivi. Da Porto Cesareo a Gallipoli

La pesca dei datteri è uno dei problemi più gravi che interessa la zona che va da Porto Cesareo a Gallipoli, in Puglia. L’area in questione è stata oggetto di una vera e propria spartizione, cosicchè ogni pescatore di dattero ha il suo perimetro dove operare. Sembra che i datterai utilizzino circa 20

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pescherecci che arrivano a raccogliere, più o meno, 25 kg di datteri a barca. La modalità di pesca è simile a molte altre zone d’Italia: due sub si immergono servendosi di una barca o di un gommone di appoggio che li recupera ad un’orario stabilito. Uno dei blitz effettuati dalla Capitaneria di Porto di Gallipoli, dietro segnalazione del circolo Legambiente di Porto Cesareo, ha portato al sequestro di 70 chili di datteri e 6 quintali di ricci. Durante la perquisizione delle barche i militari non riuscivano a trovare nulla: poi hanno scoperto che i recipienti con i datteri già pescati erano stati affondati e sarebbero stati trasferiti in seguito a bordo di un camion parcheggiato distante dalla riva. La manodopera era albanese. Numerose azioni si sono susseguite a questa. Nonostante la coscienza da parte delle Forze dell’ordine del problema e la volontà di contrastarne gli effetti devastanti all’ambiente marino, i mezzi a disposizione non sono ancora sufficienti per opporre una resistenza decisiva alla determinazione dei pescatori “fuori legge”. Datteri di mare? No grazie

Sebbene la pesca illegale di datteri di mare rappresenti a tutt’oggi vero e proprio flagello per l’ecosistema marino, negli ultimi tempi sono state avviate alcune iniziative per limitare questo fenomeno. 1. Non rompeteci gli scogli

E’ una campagna promossa dalla provincia di Bari, dalla Riserva naturale marina di Punta Campanella, da Legambiente in collaborazione con il Parco Nazionale delle Cinqueterre, Lega Pesca e Ipercoop, che hanno messo insieme le loro forze per denunciare le gravi conseguenze prodotte dal plelievo dei datteri di mare nel nostro paese. La campagna si propone di fare una diffusa opera d’informazione sui danni causati dal plelievo di datteri di mare rivolta a tutti i cittadini ed in particolare ai clienti delle pescherie e ristoranti, quelli che più frequentemente entrano in contatto con il commercio abusivo di datteri di mare. L’iniziativa prevede anche il coinvolgimento attivo delle marinerie locali, dei ristoratori, delle pescherie, delle forze dell’ordine e dei mezzi di informazione per dare più forza e incisività al messaggio.

2. L'Osservatorio Ambiente e Legalità della Riserva Naturale Marina di Punta Campanella

Quello di Punta Campanella è il primo Osservatorio Ambiente e Legalità istituito presso una Riserva naturale marina. L’istituzione dell’Osservatorio è stata deliberata dal Consorzio di Gestione il 2 aprile 2001 (delibera numero 7) e, con successiva convenzione firmata il 7 agosto 2001, ne è stata affidata la gestione a Legambiente. L’Osservatorio si caratterizza innanzitutto come uno strumento a servizio del territorio, attraverso il quale migliorare la diffusione della cultura della legalità e del rispetto dell’ambiente, contribuire all’attività di analisi, monitoraggio, prevenzione e contrasto dei fenomeni di illegalità ambientale in stretta collaborazione con le forze dell’ordine impegnate sul territorio, nel rispetto dei rispettivi ruoli istituzionali,

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promuovere e valorizzare lo straordinario patrimonio ambientale e naturale dell’area marina protetta.

L’Osservatorio è stato dotato di un numero verde, per raccogliere segnalazioni dei cittadini su fenomeni di illegalità ambientale, per fornire informazioni sulla riserva naturale e consulenze sulle normative di riferimento. Accanto al numero verde è stato istituito il Consiglio direttivo, che vede la presenza di tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati (forze dell’ordine, magistratura, rappresentanti degli enti locali, sindacati, associazioni, ecc.), come tavolo di lettura ed analisi dei dati e delle informazioni raccolte, sia a fini preventivi che a fini repressivi, creando una reale sinergia tra soggetti diversi nel rispetto dei ruoli specifici di ognuno. Inoltre l’Osservatorio, proprio per la sua unicità, svolgerà un ruolo nevralgico per la realizzazione di una serie di iniziative a carattere nazionale sul tema del “mare legale”.

Gli obiettivi dell’Osservatorio possono essere così riassunti: elevare ed ottimizzare il sistema di controllo e prevenzione dei fenomeni delle illegalità ambientali nell’area protetta; diffondere una più attenta cultura della legalità e del rispetto dell’ambiente; rappresentare l’elemento di collegamento tra cittadini e istituzioni; realizzare momenti di incontro tra i vari soggetti istituzionali e non (prefetture, forze dell’ordine, enti locali, sindacati, associazioni, etc.) deputati alle attività di controllo e repressione dei fenomeni illegali e alla valorizzazione e promozione delle straordinarie bellezze che caratterizzano il territorio della Riserva marina e della penisola sorrentina più in generale; monitorare costantemente i settori a maggior rischio ambientale e i principali fattori di aggressione; delineare, in collaborazione con le istituzioni competenti, le migliori strategie d’intervento. 9.4 Il caso Campania, ovvero… pesce all’acqua pazza atto II

Sembra il titolo di un film di cui si prospetta una lunga serie. Noi ci auguriamo il contrario, ma dopo la denuncia nello scorso dossier il fenomeno della vendita abusiva ed illegale di frutti di mare in condizione igienico sanitarie assenti, a Napoli e provincia, non ha subito cambiamenti sostanziali. Alcuni numeri per rendere chiaro la gravità del fenomeno. Tra Napoli e provincia nel periodo che va da dicembre 2001 a maggio 2002 si stima, secondo le principali operazioni di Polizia, che siano stati sequestrati e distrutti oltre 45 quintali di frutti di mare (cozze, vongole, novellame, ostriche e datteri) coltivati abusivamente e venduti privi di qualsiasi elementare requisito igienico sanitario. Spigole ed orate scongelate con acqua torbida, mitili, cozze e calamari decorati con spicchi di limone sulle bancarelle di mezza città ma immersi in acqua di dubbia provenienza. E lo sfizio di regalarsi una spaghettata o magari la famosa impepata per i cittadini diviene un rischio. Infatti epatite A, quella alimentare, viene spesso associata al consumo di frutti di mare, che nella maggior parte dei punti di vendita cittadini, soprattutto quelli abusivi, che particolarmente in estate si moltiplicano e sorgono come funghi, vengono

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sistemati in bacinelle piene d’acqua marina. Con questo procedimento che i pescatori chiamano “rinfrescata”, il prodotto - anche dopo il trattamento di purificazione effettuato in uno stabulario - ridiventa infetto se cozze, vongole, tartufi, fasolari vengono immesse in bacinelle piene di acqua di mare raccolta in zone in cui è vietata la balneazione. La situazione è particolarmente grave soprattutto a Napoli, dove solo nel periodo tra marzo ed maggio 2002 sono state sequestrate dalla Nucleo di Polizia Giudiziaria della Guardia Costiera di Napoli, congiuntamente al personale dell’ Asl Na1 Distretto 51, ben 15 quintali di prodotti ittici ed effettuate verbali amministrativi per quasi 165mila euro.

Sotto controllo non solo venditori abusivi ma anche ristoranti di zone rinomate come Posillipo e Mergellina. Secondo una nota della Guardia Costiera, i risultati del mese di maggio sono incoraggianti perché mostrano una tendenza alla riduzione delle violazioni della legge: a marzo infatti su 10 controlli 9 erano non in regola, mentre a maggio la quota è scesa a circa 5 su dieci. A Napoli, quindi più che mucca pazza, sono i frutti di mare infetti a preoccupare. Del resto secondo gli ultimi dati registrati presso i principali ospedali specializzati in malattie infettive a Napoli e provincia si registrano numeri da record per contagi da epatite A, una malattia endemica la cui diffusione sarebbe tornata a livelli della metà degli anni ’80 dopo dieci anni di relativo calo.

Ma a Napoli, dove la fantasia e gli affari non finiscono mai, nel febbraio 2002 un altro tassello si aggiunge ad un quadro, già di per se molto preoccupante. Se vai al ristorante e ordini cozze, gamberi e fasolari, sappi che li sceglie per te "mamma" camorra. Infatti, secondo una denuncia dei commercianti dei quartieri Chiaia, Mergellina e Santa Lucia presso la questura di Napoli, gli "scagnozzi" si presentano in alcuni ristoranti, anche tra i più rinomati della città, ed impongono la lista dei cosidetti “fornitori di fiducia”. Vendono frutti di mare. E anche spigole. Ed alla fine il cittadino, colui che paga non ha possibilità di scelta, si ritrova nel piatto quello che i clan hanno deciso di fargli trovare.

Non diversa è la situazione in provincia di Napoli, soprattutto nel triangolo Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia. Qui è un continuo stillicidio di notizie di sequestri. Non c’è bisogno di aspettare l’estate. Infatti il 14 febbraio 2002, oltre 10 tonnellate di mitili fuorilegge, del valore commerciale di circa 40mila euro vengono sequestrati e distrutti nello specchio antistante il cantiere navale e la corderia di Castellammare di Stabia. L’operazione è stata effettuata dalla locale Capitaneria di Porto in collaborazione con il secondo nucleo subacqueo della Guardia Costiera. Il blitz è scattato alle ore 9. Distrutti centinaia di filari di cozze. Uno sterminato allevamento di mitili, privo di autorizzazione e non controllato e potenzialmente infetto. Nel luglio del 2001, sull’asse Torre del Greco- Ercolano, un operazione dei Carabinieri del servizio navale di Torre del Greco con la collaborazione della Guardia di Finanza, porta al sequestro di una tonnellate di frutti di mare, tenuti in pessime condizioni igienico sanitarie e messi sul mercato dai commercianti senza scrupoli. Cozze, tartufi, vongole e

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mitili vari: sui banchetti improvvisati, gli uomini del gruppo speciale hanno ritrovato di tutto e tutto conservato male. L’organizzazione della task force si è resa necessaria in seguito all’esame dei dati in possesso della Procura di Torre Annunziata, secondo i quali la città del Corallo sarebbe il comune con il più alto numero di ammalati di epatite virale di quanti se ne possano contare in tutto Napoli e provincia. È il fiume più inquinato d'Europa, è la causa di tutti i mali del Golfo di Napoli, è la prima ragione per cui il turismo da Pozzuoli a Castellammare fa tanta fatica a decollare. Eppure, proprio qui, alla foce del fiume Sarno, c'è chi ha pensato di allevare frutti di mare e filari di cozze (il sequestro ha riguardato circa 15 quintali). E se non fosse che all'alba del 26 luglio 2001, il comando provinciale dei Carabinieri, in collaborazione con gli uomini del Nas, avesse provveduto a rompere quei filari e a sequestrare tutto quanto di abusivo vi era coltivato, con ogni probabilità quelle cozze sarebbero finite sulle nostre tavole. E magari anche sulle tavole di qualche insospettabilissimo ristorante. Non è una novità. È già accaduto in passato. Non è un caso, d'altra parte, nello stesso mese di luglio, la Procura di Torre Annunziata, per violazione alle norme igienico sanitarie in fatto di alimentazione, denunciava la provincia di Napoli come la più "sporca" d'Italia, con dodicimila procedimenti giudiziari avviati nei confronti di ristoratori, ambulanti e commercianti.

I quindici quintali di mitili sequestrati nella foce del fiume Sarno, sono tanti, tantissimi, niente, tuttavia, se rapportati ai duemila messi sotto chiave in tutta la costa da Pozzuoli fino a Massalubrense, in seguito all'operazione «a tavola sicuri» è cominciata nel mese di giugno 2001. E si è avvalsa della collaborazione dei carabinieri subacquei e di tutte le motovedette dell'Arma. Dai risultati dello screening marino è emerso un dato che la dice lunga su come vengono rispettate le norme igienico sanitarie soprattutto nell'area stabiese e torrese e come da queste parti sia particolarmente facile restare vittime di malattie infettive. La costa di Torre Annunziata e Castellammare vanta, infatti, il record dell'allevamento abusivo: su duemila quintali di cozze sequestrate, millecinquecento vengono, infatti, coltivate proprio dove sorge la foce del fiume Sarno. Appena settanta quintali a Pozzuoli, qualche decina in penisola Sorrentina e nel porto di Napoli, sparso qua e là qualche filare anche nella provincia di Caserta, tra Teverola e Casaluce. I mitili sono stati distrutti, portati in alto mare e gettati nei fondali. Nessuna denuncia.

Restano i consigli da dare ai consumatori: i mitili vanno comprati in confezioni sigillate, garantiti dal cartellino ove sono indicate le norme Cee. Perchè per chi non lo sapesse ancora le cozze vanno coltivate esclusivamente in acque depurate. Altro, allora, che fiume Sarno, con tutto il suo carico di veleni. Guai, dunque, ad affidarsi ai venditori ambulanti. E se oltre a stare attenti alla salute qualcuno volesse anche rendersi utile alla società, denunciando qualsiasi violazione delle norme igienico sanitarie, l'Asl Napoli 5 quest'anno ha istituito il numero verde 800/306042, al quale oltre alle denunce si possono anche chiedere consigli su come tutelarsi da alimenti a rischio infezioni. Lo scorso settembre è stata violata anche la Riserva di Punta

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Campanella. Con un operazione ad ampio raggio, gli uomini della Capitaneria di porto di Castellammare di Stabia hanno portato a termine una serie di colpi non solo contro i pescatori di frodo ma anche contro le pescherie dell’area stabiese e della penisola sorrentina.

Oltre a mezza tonnellata di mitili, cozze, vongole e a dieci quintali di novellame sono stati sequestrati anche dieci chili di datteri marini che da soli sui mercati ittici valgono cifre da capogiro. I 500 kg di mitili, cozze e lupini erano messi in vendita senza il previsto bollino sanitario, mentre i 10 kg di datteri di mare, prelibati frutti di mare, erano stati prelevati da datterai, veri esperti subacquei che per l’estrazione hanno utilizzato martelli idropneumatici. Alla fine del blitz denunciati all’autorità giudiziaria i titolari di sei pescheria, elevato 10 verbali amministrativi per circa 40 milioni di vecchie lire.

Oltre 20 kg di datteri di mare e 26 nasse sono state sequestrate dalla Sezione Operativa navale di Salerno della Guardia di Finanza nel febbraio scorso durante un operazione di pattugliamento nella riserva marina di Punta Campanella. I finanzieri hanno notato un gommone con a bordo due persone che alla vista dei militari sono fuggiti, lanciando a mare un sacchetto. Nell’involucro, 20 kg di datteri di mare. Nel corso della stessa operazione, nel tratto di acqua ricadente nel comune di Postano, i militari hanno notato dei palloncini galleggianti. Issati a bordo i singoli segnalatori di reti, i finanzieri hanno scoperto le 26 nasse, brulicanti di pesci di ogni tipo, compreso polpi e seppie, tutti vivi, per oltre 30 kg di peso. Sotto Natale, quando la richiesta dei datteri di mare aumenta, entrano in azione datterai senza scrupoli. Lo scorso 21 dicembre, la Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia sequestra 700 kg di prodotti ittici, tra cui 200 kg di datteri di mare. Al blitz, avvenuto dopo mesi di appostamenti e videoriprese hanno preso parte circa 50 uomini con mezzi navali e terrestri. Sono state denunciate 8 persone, sequestrati cinque autoveicoli e attrezzature utilizzate per la pesca (mute, bombole, erogatore, mazzole) per un valore pari a circa 800 milioni.

Infranto anche il mare della costiera amalfitana. Lo scorso marzo, scatta l’operazione “Coast Guard Two” eseguita dalla Guardia costiera di Salerno. Oltre 100mila euro di multa, numerosi sequestri e 16 persone denunciate. Messi sotto controllo ristoranti e rivendite di prodotti ittici. Oltre 200 persone identificate, sessanta pescherie controllate, 25 ristoranti e diciotto ipermercati. Sotto controllo l’area costiera tra Positano e Sapri. Distrutti oltre 150 kg di specie ittica protetta e messa in vendita senza ottemperare alle norme sanitarie. L’acqua di mare veniva prelevata dalle banchine del porto turistico “Masuccio Salernitano”. E’ stata anche sequestrata una elettropompa che veniva utilizzata per il prelievo d’acqua che veniva successivamente utilizzata per il rinfresco e lo scongelamento della specie ittica. La strage dei piccoli

Una battaglia portata avanti dal quotidiano “Il Mattino” in difesa del novellame nel golfo di Napoli. Spadini scheletrici di 1 kg., tonnetti appena abbozzati di 700-800 grammi, ricciole nate da poche settimane. Non c’è pace

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per il malcapitato novellame presente nei fondali del Golfo di Napoli. Sono tantissimi i cosiddetti “predoni” del mare, pescatori dilettanti o con “licenza” che tutto l'anno, approfittando dalla benevolenza del clima, delle condizioni di vento e di correnti, danno la caccia e distruggono quintali di minuscoli capi di pesce che nel giro di pochi mesi potrebbe diventare pesci di taglia e di prelibata specie. Nel mese di ottobre dello scorso anno, sono stati pescati quintali di spadini e connetti, venduti poi a prezzi stracciati nei mercati all’ingrosso e nelle pescherie e ristoranti. Centinaia di piccole imbarcazioni, soprattutto nei giorni del week-end si addensano sulle secche e nelle zone di passaggio armati di coffe, lenze a traino, sardine ed esche per fare incetta di novellame. Il bottino viene poi rivenduto a Pozzuoli, Portici, Procida, Ischia ma anche sui pontili di Mergellina, 10-15 € a capo, senza procedere al peso per far presto e non dare troppo nell’occhio. Ma il tutto è stato sequestrato in seguito ad un operazione disposta dall’ammiraglio Ubaldo Scarpati e affidata al coordinamento del comandante Francesco Cammarota, responsabile della sezione Unità Navali della Capitaneria di Porto di Napoli. Controlli a tappeto: motovedette in azione da un capo all’altro del golfo; contemporaneamente, blitz nei mercati e nelle cucine di molti ristoranti. Operazione che testimonia la crisi del settore. Per far quadrare bilanci sempre più magri, le piccole imprese sono costrette a raschiare il fondo del barile, ad impiegare strumenti sempre più pesanti di pesca e razziare quantità sempre più elevata di novellame, senza porsi minimamente il problema degli equilibri biologici e della salvaguardia della specie pregiata. Ed ecco che nei mesi ancora più caldi dell’autunno, inizia la strage di piccoli spadini, la distruzione di mini ricciole, proseguendo nel tempo con la pesca delle fravaglie e del bianchetto. Un giro questo del novellame, fiorito per il vezzo dei ristoranti e ristorantini marini sorti come funghi sul litorale flegreo. Per pescarli gli armatori non esitano ad impiegare attrezzature micidiali: reti con maglie strettissime o anche con il famoso “panno” finale, con un coppo che stringe e distrugge non soltanto pascetti piccolissimi ma anche larve appena abbozzate. Del resto il novellame viene a costare molto di più del pesce adulto. Un esempio? Gli spadini da un chilo e mezzo possono essere venduti anche a 12 euro l’uno. Un pesca illegale che incide anche sul pescato futuro. Gli stessi spadini nel giro di qualche mese riescono a crescere sino a 12 chili complessivi. L’unico novellame legale sono i rossetti (in napoletano i cosiddetti cicicielli). Ma nonostante il divieto, il novellame lo si può trovare facilmente. Pignasecca, Mergellina, piazza Mercelli fino alla Sanità. A venderlo soprattutto i pescivendoli abusivi, quelli che girano con il “tre ruote”. Contro venditori e pescatori si susseguono controlli e blitz. Oltre i sequestri, i titolari di esercizio trovati in possesso di novellame proibito rischiano forte multe. Ma poiché il fenomeno è diffuso, che riguarda la gran parte di ristoranti e pescherie napoletane, è difficile da combattere e da arginare. Ed alla fine il novellame rimane uno dei piatti tipici della cucina napoletana.

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9.5 La pesca abusiva di molluschi nella Laguna di Venezia di Luca Ramacci (Sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia e Co-Presidente nazionale dei Centri di Azione Giuridica di Legambiente) (www.lexambiente.com)

L’esercizio dell’attività di pesca dei molluschi nella laguna di Venezia rappresenta un serio problema non solo per l’integrità dell’ambiente, ma anche per la tutela della salute dei consumatori e non interessa soltanto i veneziani.

Sono infatti di dominio pubblico le condizioni di gravissimo inquinamento in cui versa l’area lagunare a causa della compresenza di diversi fattori inquinanti rappresentati non solo dalle immissioni in atmosfera (che determinano la ricaduta di polveri) e dagli scarichi del vastissimo polo industriale di Marghera, ma anche dalle numerose vetrerie della zona di Murano – con il loro contributo di arsenico superiore anche decine di migliaia di volte rispetto ai limiti di legge - e dalla caotica circolazione di imbarcazioni a motore unita agli scarichi delle abitazioni e degli insediamenti artigianali, alberghieri, ospedalieri e di altro tipo esistenti nelle zone abitate della laguna.

I dati dell’inquinamento lagunare, diffusi anni addietro e relativi all’inchiesta che portò alla chiusura dello scarico SM15 del Petrolchimico, se confrontati con i valori di inquinamento del mare Adriatico – che pure non gode di ottima salute – sono impressionanti e superano ogni immaginazione.

E’ importante ricordarli per avere un’idea dell’habitat in cui nascono e crescono le vongole pescate.

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Ecco i dati ripartiti secondo le “aree virtuali” individuate dai consulenti:

VALORI MINIMI E MASSIMI DEI DIVERSI INQUINANTI NEI SEDIMENTI

SUPERFICIALI (primi 20 cm) DELLE AREE VIRTUALI NEL CORSO DEL PRIMO STUDIO PERITALE (GIUGNO 1996)

AREE VIRTUALI

AREA 1 (INDUSTRIAL

E)

AREA 2 (URBANA)

AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENTO

LOCALITA’

PORTO

MARGHERA

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA, FOCE DESE

E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

Min max min max min max min max min Max IPA (ng/g) 1600 54000 8000 4800

0 150 1300 62 660 n.d. 99 2500

PCB (ng/g) 220 720 71 610 3.1 77 0.47 8.3 n.d. 2.5 27 PCDD+PCDF (pgTE/g)

23

570

4.8

23

0.48

8.5

0.8

1.8

n.d.

0.16

17

DDE (ng/g) 3.4 10 1.3 27 0.78 19 0.55 1.3 n.d. 0.59 0.94 DDT (ng/g) 0.3 5.2 0.51 24 < 0.3 10 0.059 1.3 n.d. 0.5 0.52 HCB (ng/g) 35 470 0.33 5 0.097 6.2 0.059 0.29 n.d. 0.039 44 Cd (µg/g) 2.56 22.9 0.723 5.69 0.184 1.87 0.099 1.73 n.d. 0.488 0.721 Cu (µg/g) 97.1 247 36.2 297 10.7 42.3 9.99 33.2 n.d. 9.09 13.9 Hg (µg/g) 1.52 14.2 0.531 2.08 0.023 1.94 0.194 3.33 n.d. 0.021 0.534 Pb (µg/g) 58.1 282 47.8 109 7.22 37.4 9.44 20.3 n.d. 10.4 26.2 Zn (µg/g) 248 1820 104 592 2.31 70.1 2.03 64.6 n.d. 10.1 90.2 n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti al sedimento secco

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VALORI MINIMI E MASSIMI DEI DIVERSI INQUINANTI NEI SEDIMENTI SUPERFICIALI (primi 20 cm) DELLE AREE VIRTUALI NEL CORSO DEL SECONDO

STUDIO PERITALE (LUGLIO 1997) AREE

VIRTUALI AREA 1

(INDUSTRIALE)

AREA 2 (URBANA)

AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENT

O

LOCALITA’

PORTO MARGHERA

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA,

FOCE DESE E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

Min max min max min max IPA (ng/g) 1000 46000 14000 140 390 130 n.d. 6.4 2300 PCB (ng/g) 56 9800 790 15 23 9.8 n.d. 1.6 26

PCDD+PCDF (pgTE/g)

1

230

14

25

25

3.3

n.d.

0.6

10

DDE (ng/g) 1.5 17 18 0.057 < 5 < 0.05 n.d. < 0.05 0.98 DDT (ng/g) < 0.5 10 7.1 0.080 < 5 < 0.05 n.d. < 0.05 0.74 HCB (ng/g) 33 2400 5.5 0.28 20 < 0.05 n.d. < 0.05 17 Cd (µg/g) 0.18 6.6 4.2 2.2 2.2 0.61 n.d. 0.06 0.77 Cu (µg/g) 41 1200 195 46 46 24 n.d. 2.4 17 Hg (µg/g) 0.26 50 4.0 2.0 2.0 0.60 n.d. 0.053 2.6 Pb (µg/g) 47 190 120 49 49 29 n.d. 5.4 55 Zn (µg/g) 350 860 700 390 390 180 n.d. 10 100

n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti al sedimento secco

NOTA: i risultati dei due studi peritali indicano che, allontanandosi dall’area industriale (AREA 1) verso il mare, i valori di contaminazione dei sedimenti diminuiscono. Va segnalata l’inattesa contaminazione di alcuni campioni di sedimento marino prelevati nella zona di mare antistante il litorale del Lido, presumibilmente dovuta allo scarico dei fanghi industriali avvenuto nel periodo 1950 - 1980.

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Ecco, infine, quello che venne trovato all’interno del pescato, sempre nelle varie zone:

VALORI MEDI DEI DIVERSI INQUINANTI RILEVATI NEI REPERTI DI BIOTA (MITILI, VONGOLE, OSTRICHE) PRELEVATI NELLE AREE VIRTUALI NEL CORSO DEL

SECONDO STUDIO PERITALE (LUGLIO 1997) AREE

VIRTUALI AREA 1

(INDUSTRIALE) AREA 2

(URBANA) AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENTO

LOCALITA’

PORTO

MARGHERA Zona Nuovo

Petrolchimico

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA, FOCE DESE E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

IPA (ng/g) 134 (mitili) 31(vongole)

n.d. 34 (mitili) 17 (vongole)

50 (mitili) n.d. 7 (mitili) 14 (ostriche)

PCB (ng/g) 160 (mitili) 12 (vongole)

n.d. 245 (mitili) 13 (vongole)

40 (mitili) n.d. 35 (mitili) 25 (ostriche)

PCDD+PCDF (pgTE/g)

3.2 (mitili) 1.2 (vongole)

n.d. 2.3 (mitili) 0.56

(vongole)

0.68 (mitili) n.d. 0.27 (mitili) 0.66 (ostriche)

DDE (ng/g) 21.2 (mitili) 1.06 (vongole)

n.d. 17 (mitili) 0.47

(vongole)

2.1 (mitili) n.d. 2.9 (mitili) 2.2 (ostriche)

DDT (ng/g) 0.32 (mitili) 0.067 (vongole)

n.d. 0.59 (mitili) 0.097

(vongole)

0.25 (mitili) n.d. 0.89 (mitili) 0.44 (ostriche)

HCB (ng/g) 13.7 (mitili) 12 (vongole)

n.d. 10 (mitili) 3.95

(vongole)

4.4 (mitili) n.d. 5.3 (mitili) 16 (ostriche)

Cd (µg/g) 1.05 (mitili) 0.37 (vongole)

n.d. 0.80 (mitili) 0.39

(vongole)

0.56 (mitili) n.d. 0.31 (mitili) 0.9 (ostriche)

Cu (µg/g) 3.15 (mitili) 5.5 (vongole)

n.d. 2.45 (mitili) 5.68

(vongole)

2.7 (mitili) n.d. 2.5 (mitili) 38 (ostriche)

Hg (µg/g) 0.1 (mitili) 0.070 (vongole)

n.d. 0.053 (mitili) 0.040

(vongole)

0.042 (mitili) n.d. 0.030 (mitili) 0.039 (ostriche)

Pb (µg/g) 0.9 (mitili) 0.79 (vongole)

n.d. 0.46 (mitili) 0.45

(vongole)

0.23 (mitili) n.d. 0.25 (mitili) 0.22 (ostriche)

Zn (µg/g) 30 (mitili) 21 (vongole)

n.d. 34 (mitili) 21 (vongole)

33 (mitili) n.d. 29 (mitili) 520 (ostriche)

n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti alla matrice fresca. Il prelievo dei mitili è avvenuto sulla colonna d’acqua, mentre vongole ed ostriche sono state raccolte nel sedimento.

NOTA: i risultati di questa tabella indicano che i mitili e le vongole raccolti in prossimità della zona industriale (AREA 1) sono mediamente più contaminati rispetto a quelli raccolti in altre zone, secondo un fattore variabile da 2 a 10 volte. Va segnalata inoltre l’elevata contaminazione delle ostriche prelevate sul fondale marino antistante il litorale del Lido. In tali organismi sono stati registrati, per alcuni inquinanti, valori di contaminazione nettamente superiori a quelli presenti nelle vongole raccolte nel tratto lagunare antistante la zona industriale. Tale risultato, oltreché dalla contaminazione del fondale, potrebbe dipendere da una diversa capacità di accumulo dei due tipi di organismi.

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Fornita dunque un’idea, peraltro incompleta, della situazione esistente

va poi ricordato con quali modalità viene esercitata la pesca dei molluschi. L’attività avviene a bordo di imbarcazioni che utilizzano diverse tecniche. Le imbarcazioni di maggiori dimensioni utilizzavano dapprima il sistema del c.d. turbosoffiante, costituito da una sorta di grosso aspirapolvere che risucchia i molluschi devastando in modo irreparabile i fondali, come può osservarsi in alcune foto aeree che evidenziano la presenza di lunghi solchi sotto la superficie delle acque. A questo sistema, che elimina praticamente ogni forma di vita vegetale ed animale nel sedimento lagunare, si è poi sostituito quello analogo e asseritamente meno dannoso del “rastrello vibrante”, tuttora in uso.

Altra tecnica di pesca, non meno pericolosa per i fondali, è quella della “rasca” o “giostra” effettuata con i c.d. barchini. Si tratta di imbarcazioni molto piccole (poco più di 4 – 5 metri) e leggere dotate di un potente motore fuoribordo (spesso anche di 200 Hp) e talvolta di radar, modificate mediante l’apposizione di un braccio trasversale con due supporti laterali ai quali vengono applicati altri due motori fuoribordo di minore potenza. Questi piccoli motori vengono montati in modo tale che le eliche possano girare toccando il fondo e smovendo così il sedimento lagunare. Una gabbia di ferro (la “rasca”) viene trascinata dall’imbarcazione in movimento e raccoglie le vongole.

Anche in questo caso è facile intuire quali conseguenze subisca il fondo della laguna.

Ma, come accennato in precedenza, l’attività di pesca non determina soltanto la progressiva distruzione dei fondali poiché costituisce quasi sempre un vero e proprio attentato alla salute dei consumatori. Vediamo perché.

Quasi mai le imbarcazioni che esercitano la pesca abusiva svolgono la loro attività nelle aree destinate a tale scopo. Le zone preferite sono infatti quelle in cui la pesca è vietata perché interessate da vasti fenomeni di inquinamento. Non è raro vedere, passando sul ponte che collega Mestre a Venezia, numerosi barchini “al lavoro” in prossimità degli scarichi industriali di Marghera.

Le vongole così pescate non sono, ovviamente, sottoposte ad alcun controllo di carattere sanitario e, seppure lo fossero, il controllo riguarderebbe solo parametri presi in esame dalle indagini di routine (ad esempio quelli relativi ai coliformi) e non anche quelli tesi ad individuare le sostanze presenti nelle acque dell’area industriale che, per fortuna, non si trovano normalmente nei prodotti destinati all’alimentazione umana.

Il pescato viene quasi sempre immesso sul mercato nazionale attraverso canali paralleli a quelli della normale distribuzione dei prodotti utilizzando, molto spesso, documentazione sanitaria di accompagnamento contraffatta.

E’ un grossissimo guadagno “in nero” per i pescatori abusivi che traggono così notevoli vantaggi da questa attività incuranti del danno che arrecano agli ignari consumatori. Secondo una stima approssimativa della Guardia di Finanza, ogni camion di vongole pescate abusivamente frutta un

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guadagno conseguente all’evasione della sola I.V.A. pari a circa 150 - 200 milioni di lire.

Le cifre ricavate dalla vendita al dettaglio sono ancora più elevate e parlano da sole. Possono essere citati, a titolo di esempio, i dati relativi ad un’operazione del Nucleo Antisofisticazione dei Carabinieri di Treviso.

In un procedimento che vede coinvolte poco più di dieci persone per una serie di reati connessi alla pesca abusiva delle vongole, poi distribuite per il consumo con documentazione sanitaria falsa costituita da bollettari recanti un timbro oggetto di furto in danno di una USL o, in altri casi, recanti l’impronta di altro timbro ULS falsificato, si è calcolato che in un periodo di pochissimi mesi sono stati commercializzati - lo si ripete, soltanto da una decina di persone - oltre 600.000 Kg di vongole per un corrispettivo di circa due miliardi e cinquecento milioni di lire proveniente dalla vendita al dettaglio!

L’operazione condotta dai NAS, per quanto importante, rappresenta solo una parte quasi insignificante nel giro complessivo di affari dei c.d. caparozzolanti.

Il ricavato di queste attività illecite è talmente elevato che, nonostante il sistema delle bolle contraffatte sia stato scoperto, i pescatori abusivi continuano imperterriti ad utilizzarlo come dimostrano le decine di denunce provenienti anche da province limitrofe ed i recenti arresti per associazione a delinquere ai quali la stampa nazionale ha dato ampio risalto.

Questa attività illecita, che rappresenta un danno evidente non solo economico ma anche di immagine per i pescatori “regolari”, non viene esercitata soltanto la notte quando i controlli sono resi più difficoltosi dalla scarsa visibilità, ma anche senza particolari problemi anche durante il giorno.

Spesso gruppi organizzati di pescatori dispongono di “vedette” munite di apparecchi radio o cellulari per dare l’allarme in caso di intervento delle forze dell’ordine ed i barchini, in particolare, grazie ai potentissimi motori utilizzati ed alla conoscenza della laguna di chi li conduce possono sfuggire agli inseguimenti rifugiandosi sulle numerose secche dove le imbarcazioni delle forze di polizia non possono raggiungerli.

Forse l’indifferenza al problema o, peggio, la tacita comprensione delle autorità preposte ai controlli ha per lungo tempo consentito lo sviluppo incontrollato di questo fenomeno che solo da pochi anni riceve la dovuta attenzione con interventi decisi da parte delle forse di polizia e della magistratura.

Va poi precisato che gli interventi delle forze dell’ordine non presentano facilità di esecuzione non solo per le ragioni in precedenza illustrate, ma anche perché l’area da controllare è particolarmente vasta e, molto spesso, l’intervento non può essere portato a termine con successo se non con l’appoggio determinante degli elicotteri.

A rendere ancor più difficoltosi i controlli contribuisce anche la assoluta mancanza di rispetto delle regole da parte degli equipaggi delle imbarcazioni e dei loro familiari i quali assumono atteggiamenti non solo di sfida alle autorità, ma anche estremamente violenti.

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Per dare un’idea di cosa può succedere quando l’intervento delle forze dell’ordine – come spesso avviene – comporta non solo il sequestro del pescato e degli attrezzi (di valore contenuto) utilizzati per la pesca, ma anche dell’intera imbarcazione, è sufficiente ricordare alcuni episodi di cronaca.

Uno dei più significativi avvenne qualche anno fa a seguito del sequestro di un “turbosoffiante” che pescava in zona di divieto in ore notturne. L’imbarcazione, sequestrata dal personale intervenuto, venne collocata presso la Capitaneria di Porto, dunque in zona militare. Immediatamente, in piena notte, si radunarono sul posto altri pescatori unitamente a loro familiari nonostante la distanza tra le isole ove gli stessi risiedono ed il luogo dove si trovava l’imbarcazione in sequestro. La Capitaneria venne assaltata da un numero considerevole di persone ed i locali vennero letteralmente devastati (furono distrutte le suppellettili, divelti i termosifoni, e compiuti altri atti di vandalismo).

Il fatto fu talmente grave che il Procuratore Generale di Venezia ritenne di doverlo ricordare nella relazione sull’amministrazione della giustizia presentata il 15 gennaio 2000 in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario (pag. 13).

Sempre in quell’occasione vennero ricordati altri episodi più recenti, pure verificatisi sempre in occasione di interventi delle forze dell’ordine.

Si fece così riferimento agli innumerevoli atti di resistenza e tentativi di speronamento da parte dei pescatori abusivi ed, ancora, ad un altro significativo episodio avvenuto nell’isola di Pellestrina, una delle roccaforti dei pescatori abusivi.

Si doveva, infatti, procedere al sequestro di 84 imbarcazioni “turbosoffianti” disposto dal G.I.P. per violazione dell’articolo 1231 del codice della navigazione, trattandosi di imbarcazioni che – per la presenza di caratteristiche costruttive particolari non erano in possesso dei requisiti in tema di sicurezza della navigazione.

L’operazione, pianificata da tempo dalla Prefettura e dalla Questura, vide impegnati oltre 300 uomini appartenenti alla Polizia di Stato, la Guardia di Finanza e l’Arma dei Carabinieri provenienti anche da altre parti d’Italia. Nonostante l’imponente spiegamento di forze, i pescatori ed i loro familiari scatenarono una vera e propria azione di guerriglia urbana consentendo ai pescherecci di mollare gli ormeggi e prendere il largo.

Vennero sequestrate solo 4 imbarcazioni su 84, mentre gli altri pescherecci dell’isola formarono un blocco navale che impedì alle imbarcazioni delle forze dell’ordine di rientrare nelle sedi di appartenenza (dovettero farlo uscendo in mare aperto ed aggirando, con un lungo percorso, il blocco che interessava l’area lagunare).

I sequestri vennero effettuati solo nei giorni successivi. Spesso i “barchini” – forti del loro numero – occupano

minacciosamente lo specchio d’acqua antistante la Stazione Navale della GdF nell’isola della Giudecca, praticamente di fronte a San Marco, quale reazione al

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sequestro di un natante dopo aver praticamente inseguito fino alla base l’imbarcazione militare che li aveva precedentemente sorpresi.

Il Procuratore Generale di Venezia, nella relazione di cui si è detto, così commentava questi avvenimenti: “Tali episodi, che richiamano altri particolarmente violenti che hanno visto protagonisti in Puglia gruppi di contrabbandieri, sono emblematici di una certa cultura dell’illegalità e delle conseguenze cui porta. Sottrarsi ripetutamente con tali modalità all’Autorità delle decisioni giudiziarie è indicativo dei rilevanti guasti prodotti nel sistema da tale “cultura”.

Non sorprenderà certo il lettore apprendere che tali affermazioni non sono state affatto gradite dai pescatori e dai loro familiari tanto che gli stessi si sono sentiti in dovere di rilasciare dichiarazioni fortemente critiche alla stampa locale.

Costoro non perdono inoltre occasione per concedere interviste o lanciare appelli attraverso i mezzi di informazione rivendicando un proprio diritto ad esercitare la pesca con le modalità descritte e trovando talvolta, purtroppo, anche chi ne giustifica l’operato.

Il fenomeno è stato oggetto di attenzione, anche recentemente, da parte dei mass media in generale e, in particolare, di un noto programma televisivo ed è assolutamente necessario che sia costantemente presente a tutti coloro che si occupano di tutela dell’ambiente e della salute non solo perché chi svolge l’attività illecita di pesca possa comprendere che non esistono “aree di extraterritorialità” dove la presenza dello Stato viene avvertita come una fastidiosa intrusione, ma anche per le gravi conseguenze che potrebbe determinare il diffondersi di un commercio clandestino di molluschi destinati al consumo umano senza i dovuti controlli sanitari.

Fortunatamente, l’attività di repressione esercitata (seppure con i limiti in precedenza evidenziati) dalle forze di polizia comincia a fornire i primi risultati. Pesanti sanzioni sono state inflitte all’equipaggio di un “barchino” che aveva opposto resistenza ad una imbarcazione della Guardia di Finanza in occasione di un controllo effettuando evoluzioni pericolose e diversi speronamenti.

Oltre al reato di resistenza a pubblico ufficiale, sanzionato dall’articolo 337 C.P., in casi del genere risultano perfezionati anche gravi reati previsti dal codice della navigazione che si aggiungono a quelli contemplati dallo stesso codice e conseguenti alle modifiche effettuate sulle imbarcazioni per esercitare la pesca abusiva.

Le imbarcazioni utilizzate dalle forze di polizia sono infatti qualificate come “navi da guerra” essendo dotate dei requisiti richiesti per tale categoria di natanti. Le attività finalizzate all’elusione dei controlli possono dunque configurare anche l’ipotesi di resistenza o violenza a nave da guerra punita dall’articolo 1100 con una pena da tre a dieci anni di reclusione per il comandante della nave, ovvero il meno grave reato previsto dall’articolo 1099 (rifiuto di obbedienza a nave da guerra). Inoltre, quando i tentativi di speronamento sono tali da impedire il galleggiamento o la regolare navigazione

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del natante delle forze di polizia, può anche configurarsi il reato di naufragio, anch’esso pesantemente sanzionato.

Nell’anno in corso, per meglio contrastare il fenomeno e verificarne in modo più incisivo la portata, la Procura della Repubblica ha organizzato il lavoro dei magistrati in modo tale da concentrare tutti i procedimenti in capo ad alcuni magistrati tanto per gli aspetti relativi alla pesca abusiva quanto per quelli riguardanti l’immissione in commercio di molluschi pesantemente inquinati. La soluzione consente, inoltre, una più meditata valutazione delle richieste di patteggiamento e dissequestro che puntualmente pervengono dopo l’azione delle forze dell’ordine al solo scopo di rientrare in possesso delle costose attrezzature sequestrate per riprendere l’attività ed evitare l’onere di gravose spese di custodia delle imbarcazioni.

Va detto, infine, che reati sopra menzionati consentono anche l’arresto in flagranza dei responsabili ed a tale misura si è più volte fatto ricorso per reprimere un fenomeno ormai eccessivamente diffuso e che merita, da parte di tutti, una continua attenzione in quanto terreno fertile per possibili infiltrazioni, sinora fortunatamente solo paventate dagli organi di stampa, da parte della criminalità organizzata. 9.6 Tonno, un patrimonio da depredare

Davanti alle coste di Siracusa, da qualche tempo si può assistere ad una strana processione sull’acqua. Sei rimorchiatori vanno su e giù poche miglia al largo trascinando notte e giorno enormi gabbie piene di tonni. Non possono fermarsi perché non hanno ancora ottenuto una concessione demaniale per l’installazione delle gabbie e così sono costretti a navigare con il loro strano carico, a bassissima velocità. Il sabato e la domenica l’area attorno alle gabbie si affolla di barche di pescatori sportivi che buttano le lenze in acque dove la presenza dei tonni richiama un gran numero di pesci. Qualche furbo è riuscito addirittura, nottetempo, a gettare l’amo con successo anche dentro le gabbie. I tonni all’ingrasso nelle gabbie sono l’ultima trovata della pesca al tonno, forse la pesca più redditizia del Mediterraneo. E’ stato calcolato che ognuna delle sei gabbie che navigano nelle acque siracusane frutta ai proprietari, una società siculo-giapponese, circa 50 miliardi di vecchie lire. In Spagna ci sono già 40 gabbie per l’ingrasso dei tonni (m.50x70) mentre altre ne sono state realizzate in Marocco, Croazia e Malta. Il nostro Paese sta provvedendo. Il tonno, una volta ingrassato, arriva sul mercato di Tokio spuntando prezzi superiori al milione di lire al chilo. Chi non si è attrezzato con le gabbie vende il pescato alle navi giapponesi, taiwanesi o coreane che stazionano nel Mediterraneo, lo acquistano in acque internazionali pagandolo da 12$ ad oltre 26$ al chilo, per gli esemplari meno traumatizzati. La preparazione sapiente dei macellatori giapponesi e il viaggio in aereo fino a Tokio riesce insomma a moltiplicare il valore del tonno anche per cinquanta volte.

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Nelle vecchie tonnare costiere, quelle di Favignana o di Carloforte, la cattura dei tonni e la relativa mattanza è ormai solo una messa in scena per turisti annoiati e dallo stomaco forte. In realtà sono pochissimi i tonni che dall’Atlantico, attraverso lo stretto di Gibilterra, riescono ad arrivare fino alle coste di Sicilia e Sardegna. La prima pesca la fanno gli aerei che intercettano i branchi di tonni al largo, ne segnalano la posizione alle tonnare volanti che stendono le grandi reti a circuizione. Cattura e vendita avvengono al largo, in acque internazionali, con buona pace dei tentativi di regolamentazione di questo tipo di pesca.

Qualche anno fa la Commissione Europea (obbligata dall’ICCAT, l’organismo della Fao per la conservazione dei tunnidi) adottò per il tonno la politica delle quote, nel tentativo di salvaguardare lo stock del tonno rosso. Sulla base dei dati prodotti dagli stessi pescatori l’UE assegnò alle imbarcazioni italiane un tetto massimo di 5000 tonnellate ritenendo che quella fosse la capacità di pesca della nostra flotta, salvo poi scoprire, secondo stime più verosimili, che i pescatori tiravano su in realtà oltre 12.000 tonnellate di tonno. E lo sforzo di pesca sul tonno del Mediterraneo continua ad aumentare e del resto non potrebbe essere altrimenti, dal momento che i Paesi tenuti a rispettare le norme comunitarie sono solo 4 dei 22 che si affacciano sul bacino del Mediterraneo: la flotta tunisina nel giro di qualche anno è passata da 10 a 80 tonnare, la Turchia ha riconvertito alla pesca del tonno i ciancioli utilizzati per le acciughe, in Marocco proliferano le società miste che utilizzano le reti derivanti per la cattura dei tonni. Fuori dalle norme ICCAT anche la pesca praticata dai Paesi terzi, Corea, Taiwan, Belize, Panama, ecc., che seguono i branchi di tonni con le grandi navi palangriere o da trasporto. I giapponesi stendono normalmente due palangari in parallelo lunghi oltre 100 chilometri, spesso oggetto di furti del pescato da parte di imbarcazioni italiane e maltesi che, in classico stile levantino, recuperano i tonni e provvedono a rivenderli ai derubati. Nella pesca del tonno ci sta anche questo.

La vicenda del tonno è emblematica: lo stock del tonno è una risorsa comune per tutti i Paesi del Mediterraneo, ma i tentativi di gestione della risorsa vengono praticati solo da pochi Paesi. La politica delle quote ha difficoltà reali d’applicazione. I controlli cartacei vengono elusi facilmente, è difficile controllare quello che avviene al largo, senza considerare l’impatto ambientale che le gabbie pare stiano generando. Se c’era bisogno poi di una conferma sui problemi della politica delle quote, basterebbe andare a vedere cosa è successo nei Mari del Nord con merluzzo e baccalà per i quali, nonostante i drastici tagli dello sforzo di pesca, si parla di almeno dieci anni prima di poter recuperare i danni subiti dagli stocks. Come è già accaduto per il pesce spada, l’estrema specializzazione verso un tipo di pesca porta alla progressiva diminuzione della risorsa.

La confusione sopra il mare insomma è grande, ma la situazione non è affatto eccellente. La politica di quote e demolizione per ridurre lo sforzo di pesca praticata dall’UE diminuisce le flotte, ma non intacca la capacità di pesca. E del resto non poteva essere altrimenti per strumenti di gestione che

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sono stati trasferiti tal quali dai Mari del Nord al Mediterraneo senza tararli sulle specificità e le caratteristiche delle flotte mediterranee. 9.7 Il cianciolo, una strage a norma di legge

Nei primi mesi dell’anno è stato fatto passare in sordina un provvedimento vergognoso che rischia di danneggiare in modo gravissimo l’ecosistema marino, soprattutto le praterie di posidonia, nonché compromettere seriamente l’economia di molte zone costiere d’Italia, in cui si vive di piccola pesca praticata con attrezzi artigianali. Si tratta di un provvedimento del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali che consentirà di pescare con un tipo specifico di rete a circuizione anche sottocosta, fino ai 30metri di profondità, provocando gravi danni ai fondali marini. In breve, nel nostro paese esiste una legge che dal 1965 vieta la pesca con le reti a strascico, le sciabiche o reti analoghe fino ai 50 metri di profondità. In questa norma rientra anche un tipo di pesca a circuizione detta con il cianciolo, una grande rete che può arrivare a misurare 800 metri lunghezza e 300 metri di altezza, usata per la pesca dei banchi di pesce pelagico in mare aperto. In Italia, e in particolare nel napoletano, questo tipo di pesca viene effettuata anche sottocosta, adagiata sul fondo con l’ausilio di pesi e catene, e quando il sacco viene chiuso imprigiona tutta la colonna d’acqua dalla superficie al fondale e ara il fondo come una rete a strascico. Questa pratica è altamente distruttiva per i fondali, - le praterie di Posidonia oceanica vengono danneggiate in modo gravissimo - affatto selettiva per il tipo di specie pescata e grazie al provvedimento voluto dal Ministero delle Politiche Agricole, diventerà legale. La “trovata” del Ministero è stata quella di applicare una normativa europea che consente questo tipo di pesca fino ai 30 metri, con la motivazione che la normativa comunitaria prevale sempre su quella nazionale. Motivazione priva di ogni senso, perché essendo la legge nazionale più restrittiva e migliorativa per la tutela dell’ambiente di quella europea, in realtà il Ministero non aveva nessun obbligo ad emanare questa nuova norma. Nasce forte il sospetto che si tratti di un “favore” per compiacere l’interesse di pochi, con scarso interesse alle gravi conseguenze dei danni all’ambiente e delle persone. 9.8 L’allarme diossina

La valutazione qualitativa e quantitativa della presenza di sostanze chimiche contaminanti e di altri materiali di origine antropica nei prodotti ittici rappresenta uno degli aspetti emergenti da tenere sotto osservazione in un’ottica di controllo e certificazione della qualità dei prodotti del mare e dell’acquacultura. Studi recenti evidenziano come differenti tecniche di allevamento ed ambienti marini caratterizzati da livelli diversi di inquinamento

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determinano condizioni di bioaccumulo di sostanze inquinanti nei tessuti. In particolare è proprio l’alimentazione attraverso mangimi artificiali e trattamenti con ormoni e farmaci a rappresentare uno dei fattori in gradi di condizionare la qualità del pesce. Secondo uno studio dell’Università di Siena, le analisi sui pesci italiani dicono che i valori di tossici equivalenti alla diossina nel Mediterraneo sono bassi, mentre è evidente che l’emergenza riguarda prevalentemente i prodotti provenienti dai Mari del Nord, dove i dati mostrano presenza di sostanze inquinanti molto superiori a quelle della nostra penisola.

Il discorso cambia se si prendono in analisi le grandi specie pelegiche (tonni e pesce spada) che per le grandi dimensioni che raggiungono e per le loro caratteristiche alimentari predatorie sono le specie più a rischio diossina e PCB. Recenti studi sulle specie ittiche del Mediterraneo dimostrano infatti che in queste due specie sono state trovate notevoli quantità di queste sostanze inquinanti, (da 990 a 2070 pg/kg p.f nei tonni e da 1470 a 1660 pg/kg p.f. nei pesce spada) tanto che si consiglia di non superare un assunzione settimanale superiore ai 500g di prodotto fresco (la quantità di assunzione tollerata per settimana secondo l’Organizzazione mondiale della sanità è di 700pg per donne di 50Kg e di 1120pg per uomini di 80 Kg di peso). 9.9 Allevamento ittico, una fotografia a chiaro scuri

La stragrande maggioranza di pesce consumato sulle nostre tavole proviene dagli allevamenti. Ma si può davvero essere sicuri del pesce che finisce nei nostri piatti? Quali sono le garanzie per i consumatori di non trovarsi a mangiare una bella spigola, allevata ad antibiotici, nutrita con mangimi di dubbia provenienza e cresciuta in vasche pulite con sostanze tossiche, se non addirittura cancerogene? Se è vero, infatti, che la produzione italiana per la maggior parte è garantita, altrettanto non si può dire per quella che arriva dall’estero - più del 60% del pesce che finisce sulle nostre tavole - dove regna, soprattutto negli allevamenti dei paesi extra-europei una totale deregulation. Per scongiurare il rischio di una nuova emergenza alimentare, è necessario che il nostro Paese si doti perciò urgentemente di una normativa più rigorosa e precisa per garantire la sicurezza dei consumatori. Da una legge che non ammetta frodi e sofisticazioni, ad una sorta di “vademecum del buon allevamento” per certificare ogni passaggio della filiera produttiva, dalla preparazione del mangime all’arrivo del prodotto sui banchi di vendita.. L’import di prodotti ittici

Si stima che una quota superiore al 60% dei prodotti ittici arrivi da oltre frontiera. In cifre questo vuol dire che nel primo semestre del 2001 sono state importate più di 400mila tonnellate di pesce, provenienti per più del 56% dai paesi dell’UE (Spagna, Danimarca, Olanda, Francia, Grecia, Regno Unito e Germania) e per il restante 44% (più di 177mila tonnellate) da altri paesi fra cui Argentina, Marocco, Thailandia e Colombia.

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E’ nell’importazione, soprattutto quella dai paesi extra-europei, che risiede il rischio maggiore per il pesce che consumiamo sulle nostre tavole. La garanzia di un prodotto “di qualità” in questi casi è assolutamente aleatoria e il rischio per il consumatore italiano, risiede proprio nel fatto che al momento dell’acquisto, nella maggioranza dei casi, non è assolutamente possibile distinguere il prodotto nostrano da quello proveniente da altri paesi.

Ma quali sono i maggiori rischi evidenziati? In primo luogo, in molti dei paesi extra-europei importatori vige un regime da far-west, in cui è consentita qualunque frode, purché venga garantito il profitto economico. Alcuni esempi: - si utilizzano antibiotici nella fase larvale del pesce che conseguentemente

finiscono nel piatto del consumatore; - per la disinfestazione delle vasche vengono adoperate sostanze tossiche o

addirittura cancerogene come il furaltadone, il furazolidone (sostanze potenzialmente tossici), il verde malachite (nocivo per esposizione acuta, presenta gravi rischi per la salute se ingerito, inalato o portato a contatto con la pelle), la formalina. Anche in questo caso la catena alimentare porta queste sostanze direttamente dalle carni del pesce al piatto di chi mangia;

- negli impianti di maricoltura per la protezione delle reti vengono utilizzate vernici antifouling, che contengono stagno, altri metalli pesanti e PCB, Policlorobifenile (cancerogeno)

- si utilizzano mangimi scadenti, in alcuni casi vere e proprie concentrazioni di veleni.

Provenienza delle principali specie di importazione dell’acquacoltura Spigole ed orate dalla Grecia, Turchia, Malta e Tunisia Salmone dalla Norvegia, Scozia e Cile Mitili dalla Spagna e dalla Grecia Ostriche dalla Francia Cozze dalla Grecia e dell’Albania La situazione italiana

La garanzia dei prodotti ittici allevati nel nostro paese arriva principalmente dall’autocontrollo da parte delle cooperative di pescatori. Non solo, grazie all’introduzione della normativa Haccp destinata a tutti i produttori (Analisi del Rischio e Controllo dei Punti Critici) periodicamente gli impianti di maricoltura e pescicoltura vengono sottoposti alle ispezioni da parte delle Asl locali, dei Nas che una volta l’anno controllano i mangimi, dei Laboratori di Igiene e profilassi che due volte l’anno controllano le acque reflue.

Ma la buona volontà e lo spontaneismo dei produttori non bastano. Nel nostro paese, infatti, ancora non esiste una reale garanzia per fermare la frode e le incertezze e il potenziale di rischio legati all’emergenza alimentare, dimostrano che non è possibile abbassare la guardia. Attualmente in Italia non esiste una legge in materia. E’ perciò urgentissimo che si istituisca un quadro normativo preciso e rigoroso che fissi, senza possibilità di deroga, quelle

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norme di sicurezza e garanzia irrinunciabili. Attraverso il rafforzamento dei sistemi di prevenzione ed un controllo esteso a tutta la catena produttiva, attraverso procedure di tracciabilità del prodotto, attraverso l’etichettatura di origine e adeguate clausole di cautela.

Allo stato attuale l’unico provvedimento in tal senso riguarda l’utilizzo di farine animali ed è previsto nell’emendamento alla Legge Finanziaria a favore dell’agricoltura biologica, approvato alla camera lo scorso novembre. Nell’emendamento si stabilisce che gli animali da allevamento devono essere nutriti compatibilmente con l’alimentazione naturale ed etologica della singola specie, e pertanto ai pesci vanno somministrate solo farine di pesce.

Le regole del buon allevamento

E’ necessario istituire una piattaforma su cui impostare una normativa rigorosa in materia di allevamento ittico e che garantisca al consumatore l’acquisto di un prodotto sano e garantito e, soprattutto, scongiuri il rischio di un’emergenza alimentare. Le linee guida dovrebbero ricalcare quelle del codice FAO dell’acquacoltura responsabile. In particolare: - certificare e controllare ogni passaggio della filiera produttiva, dalla

preparazione del mangime all’arrivo del prodotto sui banchi di vendita; - vietare l’utilizzo di qualunque sostanza o procedura nell’allevamento

pericolosa per la salute del consumatore (antibiotici, sostanze tossiche, vernici antifouling, etc);

- utilizzo di mangimi selezionati e di cui si conosca la provenienza e la produzione;

- imporre la riconoscibilità del prodotto nazionale, attraverso l’etichettatura del pescato;

- garantire la catena del freddo (+4° costanti) dal momento della pesca, al trasporto, fino a quello della vendita;

- per la tutela dell’ambiente impedire l’introduzione di specie alloctone, che rischiano di compromettere l’ecosistema marino ed imporre la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) per la realizzazione degli impianti di maricoltura.

Prodotti ittici a rischio: come difendersi

La repressione del fenomeno della vendita abusiva di prodotti ittici resta la strategia principale ma deve essere necessariamente accompagnata dall’informazione e la profilassi per combattere la diffusione del virus dell’epatite e di malattie gastroenteriti ed intossicazione alimentari. L’invito ai consumatori resta sempre quello di diffidare dalle rivendite abusive e di affidarsi solo a commercianti di fiducia. Recentemente si è molto parlato di etichettatura del pesce per certificare la provenienza del prodotto e garantire la salute dei consumatori. La lodevole iniziativa del Ministero delle Politiche Agricole, a parte il merito di aver riempito le pagine dei giornali, desta qualche perplessità sulla reale efficacia per la garanzia dei consumatori. Sull’etichetta, infatti, vengono indicate soltanto il nome della specie, se il prodotto è di

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allevamento o pescato in mare libero, la zona di provenienza in modo assolutamente generico: Italia se si tratta di allevamento, Mediterraneo se si tratta di pescato. Come, da queste specifiche si possano evincere delle garanzie di qualità e di freschezza del pesce rimane un mistero, affiancato però alla speranza che questa iniziativa sia solo un primo passo e non un’occasione mancata. Il fenomeno della vendita abusiva si intensifica con l’arrivo dell’estate e nelle prossimità delle festività natalizie. Legambiente propone un piccolo vademecum per i consumatori per un acquisto all'insegna della sicurezza alimentare: 1) in prossimità dell’estate, venditori di cozze ed altri mitili sorgono come funghi, si moltiplicano e ne trovi uno ad ogni angolo La prima regola è non comprare mai frutti di mare da rivenditori che non conoscete. Rivolgetevi solo alle vostre pescherie di fiducia e diffidate dell’aspetto sano( per farle diventare lucide basta un po’ d’acqua). 2) i mitili devono essere acquistati nelle reti con etichettatura e devono essere muniti di bollo sanitario che va conservato per 60 giorni; 3) i mitili vanno sempre consumati cotti, con una cottura di almeno 15 minuti; evitare di mangiare cozze che rimangono chiuse dopo la cottura; odorare il frutto di mare prima di acquistarlo. Ricordatevi che il limone non disinfetta i frutti di mare crudi e non salva da infezioni pericolose; 4) spigole, orate devono avere branchie rosso vivo, devono avere aspetto lucente, l'occhio vivo; 5) non comprare e ordinare al ristorante piatti con datteri di mare: è fuori legge e per pescare la quantità di datteri di mare necessaria per preparare tre piatti di linguine un metro quadrato di fondale marino viene ridotto a deserto roccioso privo di qualsiasi forma di vita.

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10. Il mare inquinato

Un dato in contro tendenza quello sui reati per inquinamento del mare (erano stati 2.616 nel 2000 e sono diminuiti a 602 nel 2001) rispetto al quadro generale delle illegalità in Italia. Questo risulta dalle elaborazioni di Legambiente sui dati delle forze dell’ordine e delle Capitanerie di porto.

La Sicilia sale al primo posto anche in questa classifica, con 165 reati, spodestando la Calabria che “vanta” 110 infrazioni accertate. Grande balzo in avanti della Liguria (dall’ottavo posto del 2000 sale sul podio nel 2001) e del Lazio in quarta posizione che nella classifica precedente era invece decimo. Scendono invece di diverse posizioni la Puglia, l’Abruzzo e le Marche.

LA CLASSIFICA DEL MARE INQUINATO NEL 2001 Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestrieffettuati

1 Sicilia ↑ 165 110 5 2 Calabria ↓ 110 113 20 3 Liguria ↑ 68 42 0 4 Lazio ↑ 52 44 9 5 Sardegna ↔ 46 48 4 6 Campania ↓ 40 35 6 7 Toscana ↑ 36 36 0 8 Puglia ↓ 17 17 0 9 Friuli Venezia Giulia ↑ 16 11 4 10 Emilia Romagna ↑ 14 14 0 11 Veneto ↔ 13 10 2 12 Abruzzo ↓ 11 10 0 13 Marche ↓ 9 9 0 14 Molise ↔ 5 5 0 15 Basilicata ↔ 0 0 0 Totale 602 504 50 Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

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10.1 I dati del Ministero della Salute sulle acque di balneazione

All’inizio del mese di maggio, come ogni anno, il Ministero della Salute ha presentato il Rapporto annuale sulla qualità delle acque di balneazione, valido per la stagione balneare di quest’anno. Dei 7.375 km totali ne risultano balneabili 5017,1, pari al 68%. Analizzando i singoli dati l’aumento della costa balneabile di quest’anno rispetto all’anno precedente (5017 contro i 4842,6 del 2001) non è dovuto ad un miglioramento della qualità delle acque, ma semplicemente ad un aumento dei controlli: la percentuale della costa balneabile rispetto al totale della costa controllata si attesta intorno al 97,5% (97,3% nell’anno scorso). Sono invece 400,5 i km di costa che risultano inquinati, rappresentando un rischio per la salute dei bagnanti. 269,7 di questi lo sono in maniera permanente tanto che su di essi non viene più fatto alcun tipo di monitoraggio.

Esaminando i dati a livello regionale, ancora una volta la “maglia nera” spetta alla Campania, come regione con la maggiore percentuale di chilometri costieri non idonei alla balneazione per inquinamento (84,1km, pari al 17,9%), seguita dal Lazio (36,15km, pari al 10%). Tra le province, la più inquinata è Caserta con il 47,5% di costa non balneabile, seguita da Napoli (22,9%) e Roma con il 16,2%.

Nel 2001 circa 129 km di costa sono risultati balneabili facendo ricorso alla deroga per quanto riguarda i limiti della percentuale di saturazione dell’ossigeno disciolto (regioni Sardegna, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Lazio), registrando una diminuzione rispetto ai circa 250 km dell’anno scorso, determinata soprattutto dai 140km in meno della costa sarda. Come punti negativi riguardo al ricorso alla deroga di questo parametro, è da registrare che l’anno passato la Toscana non aveva richiesto tale deroga, che invece quest’anno ritorna per 2,2 km della costa lucchese, e che il Lazio aumenta i km di costa complessivi che fanno ricorso a tale deroga, pari a 23,2 nella sola provincia di Roma (nella stessa l’anno scorso erano 4,4), la costa soggetta a deroga aumenta anche nelle Marche e nel Veneto (di circa 1 km in entrambi i casi).

E’ da chiedersi ancora una volta il senso delle continue deroghe che ad inizio di ogni stagione balneare vengono date ad alcune regioni. Sembra mancare del tutto la consapevolezza che per dare un futuro alla vocazione balneare dell’Italia, bisognerebbe concedere meno deroghe e impegnarsi di più per migliorare davvero la qualità ambientale delle coste, delle spiagge, del mare. Sarebbe inoltre molto utile capire quali sono le principali cause dell’inquinamento delle coste, e quindi oltre a fare i campionamenti delle acque di mare, è necessario avere il quadro di cosa succede nell’entroterra. Questo è stato l’approccio utilizzato dalla scorsa Commissione sulle acque di balneazione (decaduta a settembre 2000) che ha portato alla redazione e all’inserimento nel rapporto annuale sulle acque di balneazione anche di un resoconto delle acque interne, della depurazione ecc. , di cui non c’è più traccia nel rapporto del Ministero.

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Tali rapporti ambientali, di relazione tra i dati sulla qualità delle acque di balneazione e le pressioni antropiche presenti sul territorio, sono peraltro necessari per le azioni di risanamento già previsti dal testo unico sulle acque 152/99, e rientrano nelle indicazioni della commissione europea di revisione della direttiva comunitaria sulla qualità delle acque di balneazione, in quanto strumenti utili anche ai fini della tutela delle acque a scopo ricreativo.

A partire da quest’anno è in vigore l’art.17 della legge 422 del dicembre 2000, che prevede alcune modifiche al Dpr.470/82, rese necessarie per rendere il nostro ordinamento omogeneo alla direttiva comunitaria d’origine. Le principali modifiche riguardano la definizione della qualità delle acque di balneazione e il numero di prelievi minimi da effettuare nell’arco di tempo dei sei mesi previsti come periodo di riferimento, in pratica i 12 prelievi divengono il minimo possibile, per cui attualmente non è possibile rivedere il giudizio di balneabilità del Rapporto del Ministero durante la stagione balneare in corso.

In base a questa legge di modifica le competenze dei controlli della qualità delle acque di balneazione passano alle Agenzie regionali di protezione ambientale (che non esistevano al momento della stesura del Dpr.470/82). Inoltre, tale legge risulta maggiormente restrittiva, in particolare:

l’art. 7 è completamente sostituito e non esiste più la possibilità di definire un punto “temporaneamente non balneabile” e durante la stagione balneare in corso in caso di risultati sfavorevoli, non esiste più la chance dei 5 prelievi consecutivi favorevoli, infatti nel caso in cui : “i risultati dei campioni routinari prelevati in uno stesso punto dimostrino la non idoneità alla balneazione con un numero di campioni non conformi superiori ad un terzo di quelli effettuati, la zona interessata dovrà essere vietata alla balneazione”.

La zona sarà nuovamente aperta alla balneazione qualora, rimosse la cause di inquinamento, i campioni effettuati negli ultimi sei mesi (anche a cavallo di due stagioni balneari ) diano esito favorevole.

qualora i parametri coliformi totali e coliformi fecali superino i valori di 10.000/100ml e 2000/100 ml, la percentuale dei campioni conformi per detti parametri è aumentata al 95 per cento (anziché all’80 %);

se nella stagione balneare precedente sono stati effettuati campionamenti in numero inferiore a quelli minimi previsti, la zona dovrà essere vietata alla balneazione e il divieto potrà essere rimosso solo a seguito dell’esito favorevole di analisi eseguite per un intero periodo di campionamento.

Particolarmente importante è l’inserimento degli obblighi per le Regioni di adottare misure di miglioramento, nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 152/99 (con obbligo di comunicazione al Ministero dell’Ambiente ogni anno), quindi non è più possibile vietare in maniera permanente alla balneazione tratti di costa per inquinamento, ma è necessario rimuovere i fattori d’impatto che ne hanno determinato la non balneabilità.

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RAPPORTO QUALITA’ DELLE ACQUE DI BALNEAZIONE REGIONE PROVINCIA

COSTA TEMP. VIETATA PER INQUIN. (KM)

COSTA PERMAN. VIETATA PER INQUIN. (KM)

COSTA NON CONTROLLA-TA O INSUFF. CAMPIO- NATA (KM)

COSTA CON DEROGHE (KM)

COSTA BALNEA-BILE (KM)

Imperia 3,1 0.0 0.0 0.0 54.0 Savona 2,2 0.0 0.0 0.0 69,0 Genova 5,0 0.8 0.0 0.0 77,3 La Spezia 0.4 0.3 0.0 0.0 76.2 LIGURIA 10,7 1.1 0.0 0.0 276,5 Forlì 0.0 0.2 0.0 1,5 8,8 Ravenna 0.0 2.0 0.0 6,5 36,3 Ferrara 0.0 0.0 0.0 16.3 21,8 Rimini 0.3 0.5 0.0 0.0 32,1 EMILIA ROMAGNA

0.3 2.7 0.0 24,3 99,0

Rovigo 0,0 0.0 0.0 13.6 13,6 Venezia 3,4 0.0 0.0 0.0 89,5 VENETO 3,4 0.0 0.0 13.6 103,1 Udine 0.0 0.0 0.0 0.0 12.5 Gorizia 0.0 0.0 0.0 0.0 25.3 Trieste 0.0 0.0 0.0 0.0 24.6 FRIULI VENEZIA GIULIA

0.0 0.0 0.0 0.0 62.4

Massa Carrara

0,1 0.5 0.0 0.0 10.1

Lucca 0,1 0.0 0.0 2,2 19.7 Pisa 0,0 4.4 0.0 0.0 25,1 Livorno 0,4 1,0 72.6 0.0 195,9 Grosseto 0.0 4.8 55.2 0.0 136,2 TOSCANA 0,6 10,7 127.8 2,2 387.0 Viterbo 0,0 2.2 0.0 0.0 25.5 Roma 3,9 19.1 0.0 23,2 89,5 Latina 5,0 6.1 0.0 0,0 162,8 LAZIO 8,9 27.4 0.0 23,2 277,8 Chieti 0.2 3.9 0.0 0.0 60.9 Pescara 1.4 0.6 0.0 0.0 10,5 Teramo 0.0 1.2 0.0 0.0 43,4 ABRUZZO 1,6 5.7 0.0 0.0 114,8 Campobasso 0.0 0.7 0.0 0.0 34,4

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MOLISE 0.0 0.7 0.0 0.0 34,4 Ascoli Piceno 0.6 3,2 0.0 2,2 42.5 Macerata 1,6 1.5 0.0 0.0 18.1 Ancona 0,0 2,6 0.0 0.0 47.5 Pesaro 0.1 1,0 0.0 17.1 42.8 MARCHE 2,3 8,3 0.0 19.3 150.9 Caserta 21.4 0.0 0.0 0.0 22,3 Napoli 35.7 15,1 2.2 0.0 149,8 Salerno 11.8 0.0 0.0 0.0 181,3 CAMPANIA 68,9 15,1 2.2 0.0 354,0 Potenza 0.0 0.0 1.3 0.0 22,3 Matera 0.0 1.6 0.0 0.0 36.3 BASILICATA 0.0 1.6 1.3 0.0 58,6 Catanzaro 1,9 5.8 0,0 0.0 94,5 Cosenza 1,1 14.4 2.2 0.0 205.3 Crotone 0.0 2,0 2.5 0.0 100,0 Reggio Calabria

3,0 4.9 2.1 0.0 174,6

Vibo Valentia

0,0 2.7 0.9 0.0 63,5

CALABRIA 6,0 29.8 7.7 0.0 637,9 Foggia 12,9 6.7 8,7 0.0 192,8 Bari 6,7 16,3 8.5 0.0 108,5 Taranto 0.0 0.8 23.5 0.0 85.5 Brindisi 0.0 4.3 1.8 0.0 83,0 Lecce 0.0 13.4 29,8 0.0 212,8 PUGLIA 19,6 41,5 72,3 0.0 682,6 Trapani 0.0 7.2 168.0 0.0 145.4 Palermo 2,5 22.9 23,9 0.0 98,0 Messina 0.6 19.1 22,5 0.0 320,8 Agrigento 0.0 3,8 76,1 0.0 108.5 Caltanissetta 2.4 0.9 0.0 0.0 24.9 Catania 0.8 3.8 3,1 0.0 43.0 Ragusa 0.4 0.6 8.4 0.0 83.5 Siracusa 0.6 5.6 2.9 0.0 105.9 SICILIA 7,3 63.9 304,9 0.0 930,0 Sassari 0,1 38,0 330,0 20,2 352,6 Nuoro 1,1 4.6 70.0 5,6 151,1 Cagliari 0.0 12.9 140.5 3,8 271,8 Oristano 0.0 5.7 15.7 16,7 72,6 SARDEGNA 1,2 61.2 557.0 46,3 848.1 Totale Nazionale 130,8 269.7 1.073,2 128,9 5017,1

Fonte: Ministero della Sanità, 2002

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10.2 Le analisi di Goletta Verde 2001

Da un paio di anni è in discussione in sede europea la revisione della direttiva 76/160/CEE, sulla qualità delle acque di balneazione, da cui discende il Dpr.470/82, che dovrà tener conto della direttiva quadro sulle acque, che l’Italia ha recepito con il Dlgs. 152/99.

Nell’ultima comunicazione della Commissione europea al Parlamento e al Consiglio (dicembre 2000), si fanno presente i limiti della normativa attuale, rilevando che, seppure vi sia stato un miglioramento rispetto ad una decina di anni fa, negli ultimi anni la qualità delle acque di balneazione costiere è migliorata in maniera meno consistente, risultando così la direttiva attuale non più capace di contribuire a migliorare ulteriormente le condizioni delle acque di balneazione. La prossima direttiva dovrà dunque contenere strumenti più sofisticati e attribuire maggiore importanza all’utilizzo delle informazioni e alla partecipazione dei cittadini. Alcuni limiti dell’attuale direttiva evidenziati dalla Commissione sono:

alcuni parametri sono obsoleti e non significativi; il monitoraggio serve solo a verificare la conformità delle acque e

non a comprendere la situazione e quindi le cause; le sole analisi microbiologiche non prevengono i rischi sanitari che

possono esserci durante il tempo di analisi mancano indicazioni di gestione e garanzia della qualità delle

acque. Limiti che ormai da anni Legambiente sottolinea e che ha cercato di

mettere in evidenza con l’azione svolta da Goletta Verde, che già da qualche edizione sta effettuando sperimentazioni su nuovi parametri da usare quali indicatori microbiologici.

In particolare dal 2001, da quando cioè è in corso a livello europeo la discussione sulla nuova direttiva, Legambiente oltre ad aver dato il proprio contributo presentando osservazioni e partecipando alle riunioni tecniche, svolge la campagna di monitoraggio di Goletta Verde seguendo le indicazioni della Commissione, sui nuovi parametri microbiologici che nel 2001 per la prima volta (quest’anno verrà ripetuto) sono stati sperimentati su oltre 400 campioni di acqua marina costiera.

Sono stati quindi inseriti tra i parametri microbiologici analizzati come indicatori della qualità delle acque di balneazione, gli Enterococchi, indicati dalla Commissione come migliori indicatori di inquinamento fecale e quindi di rischio sanitario per i bagnanti, così come riportato anche nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001. Nel documento dell’Oms vengono indicate classi di qualità delle acque di balneazione per le diverse concentrazioni di Enterococchi, sulla base di dati e di indicazioni epidemiologiche riguardo al rischio di contrarre gastroenteriti.

La Commissione europea propone gli Enterococchi come unico parametro da utilizzare quale indicatore microbiologico di contaminazione

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fecale, ma Goletta Verde ha affiancato a questo parametro anche l’analisi dei batteri fecali “classici”, i coliformi fecali e gli streptococchi fecali, previsti dalla normativa vigente (Dpr 470/82) anche per una valutazione della significatività e della correlazione tra i tre parametri di origine fecale.

Rispetto, dunque, ai parametri microbiologici previsti dall’attuale normativa non sono stati analizzati i coliformi totali, vista l’ormai accertata loro poco significatività come indicatori di possibile rischio sanitario delle acque di balneazione, così come affermato anche nella proposta della Commissione europea.

In base, dunque alle classi di qualità delle acque di balneazione presenti nelle linee guida dell’Oms, definite in base alle concentrazioni di Enterococchi (Ufc/100ml) e ai limiti del Dpr 470/82 dei coliformi fecali e degli streptococchi fecali, Legambiente ha elaborato la seguente tabella, che è stata utilizzata per la definizione del grado di qualità delle acque di balneazione durante l’edizione 2001 di Goletta Verde, e che verrà riproposta anche per l’attuale edizione: * Non inquinato (Coliformi fecali e streptococchi fecali entro i limiti del Dpr 470/82 e Enterococchi < 50ufc/100ml) * * Leggermente inquinato (almeno uno dei due parametri CF e SF oltre i limiti del Dpr470/82 e/o Enterococchi tra 50 e 200 ufc/100 ml) * * * Inquinato (uno o entrambi i due parametri CF e SF almeno 5 volte oltre i limiti del Dpr 470/82 e/o Enterococchi tra 200 e 1000 ufc/100ml) * * * * Gravemente Inquinato (uno o entrambi i due parametri CF e SF almeno 10 volte oltre i limiti del Dpr470/82 e/o Enterococchi > 1000 ufc/100 ml) Limiti Dpr 470/82: Coliformi fecali: 100 Unità Formanti Colonia in 100 millilitri (100 Ufc/100 ml) Streptococchi fecali: 100 Unità Formanti Colonia in 100 millilitri (100 Ufc/100 ml) 10.3 Lo stato della depurazione in Italia

La connessione alle reti fognarie interessa circa l’80% del carico inquinante, mentre solo il 65% risulta collegato a impianti di depurazione. Nell’ultimo decennio è proseguita, sia pure con ritmi più lenti rispetto ai primi anni ‘90, l’attuazione dei Piani Regionali di Risanamento, attuati in ottemperanza alla L. 319/76, ormai superata dalla L.152/99.

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Il numero complessivo di impianti e di popolazione equivalente servita è quasi raddoppiato dall’inizio degli anni ‘90 a oggi1. Oltre alla progressiva estensione della rete di depurazione ad aree via via più marginali del territorio, spesso gli interventi di questo periodo hanno anche comportato l’adozione di fasi di trattamento terziarie negli impianti già esistenti (in particolare nei bacini dell’Alto Adriatico).

Nonostante questi sforzi, tuttavia, l’Italia ha tutt’altro che risolto i problemi di degrado qualitativo dei corpi idrici superficiali (Ministero dell’Ambiente 1998; Irsa-Cnr 1999), in parte per il mancato completamento dei sistemi di depurazione (questo deficit interessa alcuni capoluoghi di provincia e perfino di regione, come Firenze2, Milano3, Palermo e Catania, alcune aree a sviluppo industriale intensivo, e in modo diffuso i centri minori) e in parte per la cattiva gestione dei depuratori: in particolare, molti impianti medio-piccoli funzionano male o non funzionano affatto.

La speranza di colmare queste carenze è affidata sia ad un’effettiva e corretta attuazione della legge Galli, con il passaggio delle gestioni inefficienti a nuovi enti gestori, sia ad un cambio di orientamento quanto alle scelte tecnologiche. Oggi quasi tutte le reti fognarie italiane sono di tipo “misto” (227.230 km su 310.000), il che comporta inevitabili malfunzionamenti dei depuratori 4; inoltre gran parte degli impianti è del tipo “a fanghi attivi”, sebbene in molti casi sarebbero molto più efficaci ed economiche soluzioni depurative di tipo naturale (fitodepurazione o lagunaggi)5.

Un altro problema deriva dall’aumento delle reti fognarie che recapitano gli scarichi nei corpi idrici senza passare per alcun sistema depurativo (circa il 20% degli abitanti equivalenti allacciati alle reti non è servito da depuratore): in tal modo, liquami che in precedenza venivano almeno in parte depurati “naturalmente” (nel suolo o nella rete idrografica minore), adesso si concentrano nei corpi idrici che così devono sopportare carichi superiori alla propria capacità autodepurativa.

Infine, un terzo fattore che incide negativamente sulla qualità delle acque superficiali è la scarsità d’acqua. Molti fiumi e torrenti italiani hanno, soprattutto nei mesi estivi, portate minime, per cui sono alimentati quasi del

1 La dotazione di impianti di depurazione ha raggiunto nel 1996 il numero di circa 10.000 unità, per una capacità di trattamento totale di 70 milioni di abitanti equivalenti. All’inizio degli anni 90, gli impianti erano circa 5.000 e la capacità di 35 milioni di ab.eq. 2 Il primo lotto depuratore di S.Colombano, che tratterà circa un terzo del carico previsto a completamento dell’impianto, è entrato in funzione nell’ottobre 2000. 3 Finalmente la situazione dovrebbe migliorare con la approvata realizzazione di 3 impianti. 4 Le ampie oscillazioni di carico organico caratteristiche delle reti miste provocano stress nelle popolazioni batteriche che sono il «motore» dei depuratori: da qui la perdita di efficienza degli impianti. 5 Si tratta dei centri di piccole dimensioni (inferiori ai 5000 abitanti equivalenti) e di quelli che presentano ampie oscillazioni del carico idraulico e organico in ingresso (tipicamente i centri turistici). Per questo motivo il D.L. 152/99 suggerisce, in queste situazioni, il ricorso a tecnologie naturali.

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tutto da scarichi che, sebbene depurati, non possono certo garantire al corso d’acqua una qualità accettabile.

Si deve poi sottolineare che molte forme di inquinamento hanno un carattere diffuso, e richiederebbero perciò, più che interventi di tipo infrastrutturale o soluzioni tecnologiche puntuali, azioni a monte capaci di ridurre i carichi inquinanti e di recuperare la capacità depurativa dei corsi d’acqua attraverso interventi di rinaturalizzazione o mediante altre tecniche di prevenzione quali l’utilizzo delle cosiddette fasce tampone o il recupero del terreno agricolo lungo gli argini per l’allagamento in caso di piene.

Il testo unico sulle acque (il decreto legislativo 152/99), che recepisce la direttiva europea 91/271, definisce anche gli obblighi per l’adeguamento delle infrastrutture idrauliche di raccolta e smaltimento delle acque reflue urbane. Per il nostro Paese, l’adeguamento agli standard imposti dall’Unione europea è anche l’occasione per completare e rendere finalmente efficiente la rete di depurazione delle acque reflue. Fino ad oggi il problema della depurazione è stato affrontato con la realizzazione di impianti di depurazione sempre più grandi e costosi, senza tenere conto delle necessità e delle peculiarità del territorio italiano: le carenze delle reti fognarie, le esigenze di manutenzione e di separazione tra acque bianche e nere, un approccio basato su un modello “diffuso”, che comprenda anche impianti di minori dimensioni soluzioni di fitodepurazione.

In questo settore così delicato, la prima lacuna da colmare è l’insufficienza di dati su estensione, stato di conservazione e funzionalità sia delle reti fognarie che degli impianti di depurazione. L’ultimo censimento nazionale disponibile è quello effettuato nel 1993 dall’Istat, pubblicato nel 1996, da cui risultavano 9806 impianti di depurazione, comprese le fosse Imhoff e gli impianti privati al servizio di insediamenti turistici e residenziali. Di questi ben 1236, pari al 12,6% degli impianti e al 6,1% della popolazione servita totale, al momento del censimento non erano in esercizio. Alla data del censimento, risultavano in via di realizzazione 1412 nuovi impianti, che una volta completati avrebbero servito una popolazione equivalente complessiva di 14 milioni di abitanti equivalenti.

Le uniche indagini più recenti sono quella effettuata da Proaqua, l’istituto di ricerche sui servizi idrici che fa capo a Federgasacqua, riferita a solo 14 regioni (mancano i dati su Basilicata, Calabria e Val d’Aosta, Liguria, Sardegna e Sicilia, regioni per le quali si dispone solo di una stima, e il censimento commissionato dal Ministero dell’Ambiente al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri che ha interessato il 60% dei Comuni italiani (4899), corrispondenti però a circa il 93% della popolazione totale residente.

Malgrado la disomogeneità dei dati più aggiornati, tutti gli studi concordano su una stessa conclusione: l’Italia è caratterizzata da un grave deficit depurativo, che oscilla dai 29 milioni di abitanti equivalenti stimati dal censimento Istat, ai 41 milioni dell’indagine di Proaqua. In particolare, secondo Proaqua 16 milioni di abitanti equivalenti sono allacciati alla rete fognaria ma non depurati, e i restanti 25 milioni non sono neanche allacciati alla rete. Ciò

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significa, in termini generali, che solo il 77% della popolazione equivalente è allacciata alle fognature, e che la popolazione trattata da impianti in esercizio è il 63% della popolazione equivalente totale. Tabella 1. Impianti di depurazione delle acque reflue urbane per regione (dati aggiornati al dicembre 1993) Regione Totale presenti In esercizio Totale non in

esercizio In corso di esecuzione, appalto e in

progetto n % n. %

Piemonte 1807 1677 92,3% 130 7.2% 237 Val d’Aosta 146 142 97.3% 4 2.7% 9 Lombardia 887 815 91.9% 72 8.1% 68

Liguria 436 392 89.9% 44 10.1% 70 Trentino A.Adige 283 267 94.3% 16 5.7% 56

Veneto 797 725 91% 72 9% 50 Friuli V.Giulia 520 474 91.2% 46 8.8% 49

E.Romagna 1193 1148 96.2% 45 3.8% 73 Toscana 574 530 92.3% 44 7.7% 115 Umbria 313 238 76% 75 24% 35 Marche 433 386 89.1% 47 10.9% 61 Lazio 417 341 81.8% 76 18.2% 114

Abruzzo 378 310 82% 68 18% 96 Molise 96 77 80.2% 19 19.8% 63

Campania 304 204 67.1% 100 32.9% 86 Puglia 181 170 94% 11 6% 11

Basilicata 129 67 52% 62 48% 24 Calabria 335 168 50.1% 167 49.9% 77 Sicilia 246 150 61% 96 39% 80

Sardegna 331 289 87.3% 42 12.7% 38 Italia 9806 8570 87.4% 1236 12.6% 1412 Fonte: elaborazione Legambiente su dati Istat (1996)

Un altro aspetto da considerare riguarda il tipo di trattamento dei liquami effettuato da ogni singolo impianto. Il Dlgs. 152/99 prevedeva scadenze scaglionate per la progressiva diffusione dei trattamenti secondari o equivalenti entro il 2000 per gli scarichi provenienti da agglomerati con oltre 15000 abitanti equivalenti, entro il 2005 per gli scarichi provenienti da agglomerati tra 10000 e 15000 (o da agglomerati tra 2000 e 10000 abitanti che recapitano le acque reflue in acque dolci e di transizione). Inoltre, venivano fissati precisi criteri di qualità per le zone sensibili: abbattimento dell’80% del fosforo totale e del 70-80% dell’azoto totale (standard che richiedono un trattamento terziario).

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In effetti, in base alle tipologie di trattamento adottate le acque reflue vengono depurate totalmente o parzialmente. Nell’indagine Istat, gli impianti sono raggruppati in tre differenti categorie, corrispondenti a tre differenti tipologie di trattamento:

- Trattamento primario: rimozione di buona parte dei solidi sospesi sedimentabili per decantazione meccanica in bacini di sedimentazione, con o senza uso di sostanze chimiche (Flocculanti);

- Trattamento secondario: processi di ossidazione biologica della sostanza organica biodegradabile sospesa e disciolta nelle acque di scarico utilizzando batteri aerobi;

- Trattamento terziario: processi adottati a valle dei trattamenti primari e secondari quando, in considerazione del corpo idrico recettore, in base alla Legge Merli (319/76) si deve procedere alla rimozione dei nutrienti, nitrati e fosfati.

Dai dati del censimento del ’93, risulta che il 43,1% degli impianti allora in esercizio utilizzava il trattamento più semplice, consistente in una griglia manuale o meccanica per la sola rimozione dei solidi e da un sedimentatore; si tratta generalmente di piccoli impianti, che soddisfano solo il 4,1% della popolazione servita. In particolare, nell’Italia settentrionale quasi la metà degli impianti in esercizio era di tipo primario, anche se la popolazione servita da tali impianti si attestava sul 4%.

Gli impianti di trattamento secondario erano invece 4325, il 44% del totale, distribuiti più o meno equamente su tutto il territorio nazionale.

Infine, gli impianti del tipo più moderno e tecnologicamente più avanzato (terziario) erano solo 242, concentrati nelle regioni settentrionali e centrali dove servivano quasi il 50% degli abitanti equivalenti.

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Tabella 2. Impianti di depurazione delle acque reflue urbane in esercizio secondo la tipologia di trattamento, per regione (dati aggiornati al dicembre 1993)

Regione Primario Secondario Terziario Non indicata Totale n. A.E.S. n. A.E.S. n. A.E.S. n. A.E.S. n. A.E.S.

Piemonte 1.012 289.767 626 3.120.471 13 3.489.842 26 19.840 1.677 6.919.920 Val d’Aosta 126 38.351 14 185.920 1 3.060 1 15 142 227.346 Lombardia 130 93.864 585 4.770.115 82 3.754.319 18 35.690 815 8.653.988

Liguria 243 232.678 139 1.309.612 8 909.107 2 1.700 392 2.453.097 Trentino A.A. 130 102.831 114 840.509 23 559.996 267 1.503.336

Veneto 316 126.607 372 2.267.367 36 3.719.760 1 725 6.113.734 Friuli V.G. 269 409.619 197 932.229 7 448.710 1 400 474 1.790.958 E.Romagna 651 143.272 414 2.993.671 72 3.984.574 11 4.800 1.148 7.126.317

Toscana 140 99.511 337 2.667.153 36 4.324.808 17 4.700 530 7.096.172 Umbria 134 36.770 86 325.394 17 201.311 1 60 238 563.535 Marche 159 36.207 210 729.249 17 610.100 386 1.375.556 Lazio 55 36.824 146 2.449.580 38 2.128.650 2 37.500 341 4.702.554

Abruzzo 149 35.452 148 743.158 6 288.100 7 356 310 1.067.066 Molise 26 4.765 47 169.763 4 26.800 77 201.328

Campania 26 642.322 167 6.239.244 9 10.185 2 204 6.891.761 Puglia 28 297.913 111 3.631.541 30 729.634 1 300 170 4.659.388

Basilicata 8 26.434 38 342.412 20 164.587 1 2.000 67 535.433 Calabria 41 61.293 113 1.412.972 5 80.387 9 24.276 168 1.587.928 Sicilia 17 86375 125 2.606.359 6 206.230 2 9.275 150 2.908.239

Sardegna 32 36.710 236 1.148.051 20 1.137.659 1 289 2.322.420 Italia Nord Occidentale

1.511 654.660 1.364 9.386.118 104 8.156.328 47 57.245 3.026 18.254.351

Italia Nord Orientale

1.366 782.329 1.097 7.033.776 138 8.713.040 13 5.200 2.614 16.534.345

Italia Centrale

488 209.312 879 6.221.376 108 7.264.869 20 42.260 1.495 13.737.817

Italia Meridionale

278 1.068.189 624 12.548.090 74 1.299.693 20 26.932 996 14.942.904

Italia Insulare

49 123.085 361 3.754.410 26 1.343.889 3 9.275 439 5.230.659

Italia 3.692 2.837.565 4.325 38.934.770 450 26.777.819 103 140.912 8.570 68.700.076Fonte: elaborazione Legambiente su dati Istat (1996)

Come già detto, dati più aggiornati si ricavano dallo studio di Proaqua del 1996. In base a questo studio, che per alcune regioni si affida a stime, la domanda complessiva di depurazione supera i 111 milioni di abitanti equivalenti, con una capacità di trattamento degli impianti di depurazione di 69,9 milioni di abitanti equivalenti e un conseguente deficit depurativo di circa 41 milioni di abitanti equivalenti, di cui 16 milioni risultano allacciati alle reti fognarie e non depurati e 25 milioni non sono neanche allacciati alle reti.

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Tabella 3. Popolazione allacciata e trattata in abitanti equivalenti (AE), per Regione (dati aggiornati al dicembre 1996)

Regione Popolazione residente

AE totali milioni

AE allacciati AE trattati

milioni % tot milioni % tot Piemonte 4.302.565 10,8 10,3 95% 6,8 63%

Val d’Aosta (1) 115.938 0,1 0,1 77??? 0,1 73?? Lombardia 8.856.074 16,2 14,6 90% 9,5 59% Liguria (1) 1.676.282 5,3 2,7 51% 2,4 46%

Trentino A.A. 890.360 1,9 1,8 95% 1,5 79% Veneto 4.380.797 13,1 11,3 86% 11,3 86%

Friuli V.G. 1.197.666 2,9 2,4 83% 2,4 83% E.Romagna 3.909.512 6,1 5,4 89% 3,8 62%

Toscana 3.529.945 8 7,3 91% 6,8 85% Umbria 811.831 1 0,7 70% 0,7 65% Marche 1.429.205 1,7 1,3 76% 1,2 71% Lazio 5.140.371 6,6 5,7 86% 5,1 77%

Abruzzo 1.249.054 2,9 1,9 66% 1,9 66% Molise 330.900 0,4 0,4 100 0,3 57%

Campania 5.630.280 10,7 6,5 61% 3,5 33% Puglia 4.031.885 5 4,7 94% 4,7 92%

Basilicata (1) 610.528 0,7 0,6 77% 0,5 73%

Calabria (1) 2.070.203 2,5 2 80% 1,9 76%

Sicilia (1) 4.966.386 8,5 2,9 34% 2,6 30%

Sardegna (1) 1.648.248 6,8 3,3 48% 3 44% Italia 56.778.030 111,2 85,9 77% 69,9 63% (1) Valori stimati Fonte: Proaqua (1996)

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Il deficit depurativo di oltre 41 milioni di abitanti equivalenti viene

confermato anche dalle stime riportate nell’ultima “Relazione sullo stato dell’ambiente” del Ministero dell’Ambiente (2001). Tabella 4. Stima del deficit depurativo

Regione Popolazione equivalente AE (migliaia) Totale(*) Allacciata rete

civile Trattata rete civile(**)

Deficit depurativo

Piemonte 12.866 10.800 6.800 4.000 Valle d’Aosta 258 100 100 0 Lombardia 31.054 16.200 9.500 6.700 Trentino Alto Adige 2.450 1.900 1.500 400 Veneto 14.027 13.100 11.300 1.800 Friuli Venezia Giulia 3.202 2.900 2.400 500 Liguria 3.484 5.300 2.400 2.900 Emilia Romagna 14.224 6.100 3.800 2.300 Toscana 10.598 8.000 6.800 1.200 Umbria 2.498 1.000 700 300 Marche 4.527 1.700 1.200 500 Lazio 10.597 6.600 5.100 1.500 Abruzzo 3.369 2.900 1.900 1.000 Molise 787 400 300 100 Campania 10.280 10.700 3.500 7.200 Puglia 8.099 5.000 4.700 300 Basilicata 1.253 700 500 200 Calabria 3.376 2.500 1.900 600 Sicilia 8.784 8.500 2.600 5.900 Sardegna 3.555 6.800 3.000 3.800 Italia 149.288 111.200 70.000 41.200

(*) La popolazione equivalente totale è ottenuta dalla somma della popolazione residente e della popolazione equivalente industriale al 1991 (**) Dati Federgasaqua (1995) e Istat (1998) Fonte: Relazione sullo stato dell’ambiente, Ministero dell’Ambiente (2001) Le politiche per la depurazione

Nel settore della fognatura e della depurazione, occorre da un lato far fronte alle esigenze di completamento della rete, anche alla luce degli impegnativi traguardi imposti dal Dlgs152/99. Più in generale occorre, tra l’altro, abbandonare la logica dello “scarico puntuale”, fin qui dominante, per intercettare fonti di inquinamento più “diffuse”; introdurre tecnologie appropriate per i piccoli centri; promuovere il riuso delle acque reflue per

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l’irrigazione e il riuso e il ricircolo dell’acqua nei cicli di lavorazione industriale.

Infatti, con l’approvazione del D.Lgs 152/99 che recepisce la Direttiva Comunitaria 91/271, tutti gli scarichi degli insediamenti urbani (inclusi quelli turistici) dovranno essere provvisti di reti fognarie e di sistemi di trattamento entro i seguenti termini:

- entro il 31 dicembre 2000 quelli con un numero di abitanti equivalenti (a.e.) superiore a 15.000;

- entro il 31 dicembre 2005, quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 2.000 e 15.000 che scarichino in acque interne e quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 10.000 e 15.000 che scarichino in acque costiere.

L’attuazione del D.Lgs potrebbe essere un'ottima occasione per affrontare seriamente il problema dell'inquinamento delle nostre acque, ma potrebbe trasformarsi in una ennesima corsa alla realizzazione di nuove opere che spesso restano inutilizzate. Infatti il problema della depurazione è stato affrontato fino ad oggi in Italia con la realizzazione di reti di collettamento e impianti di depurazione sempre più grandi e costosi, trasferendo al nostro territorio approcci e tecnologie importate dall’estero. A tale proposito un’importante documento del Ministero dei Lavori Pubblici uscito nel 1998 sostiene: “Se sicuramente necessari sono gli interventi per il completamento del trattamento nelle aree urbane e nelle concentrazioni industriali, numerose perplessità sorgono circa l’opportunità di estendere il medesimo modello di ragionamento anche ai piccoli centri. In altri Paesi, come la Francia, si cerca di ridiscutere certi aspetti della direttiva 91/271 - e in particolare il suo appiattimento su una situazione insediativa e climatica di tipo «nordeuropeo» mettendone in discussione il «cuore», rappresentato dall’accoppiata fognatura-impianto di depurazione, e sostenendo invece l’equiparabilità in termini di risultati e la superiorità schiacciante in termini di costi di un approccio basato su un modello «diffuso», basato sull’ingegneria naturalistica e la fitodepurazione su piccola scala.”

L’applicazione del D.Lgs 152/99, che consentirà l'adeguamento del sistema di depurazione italiano alla Direttiva Comunitaria, rappresenta dunque un importante banco di prova per verificare la politica di tutela delle acque nel nostro Paese. La Stoppani di Cogoleto

Un tuffo in un mare di cromo. Questo è quello che si rischia facendo un bagno nel mare antistante le spiagge di Arenzano e Cogoleto, a causa delle lavorazioni della Luigi Stoppani S.p.A.. Un’azienda chimica che produce bicromati e che è presente da oltre 100 anni nella Val Lerone.

Durante il suo lungo periodo di attività, e soprattutto negli ultimi decenni, sono stati accertati gravi situazioni di inquinamento di aria, suolo, sottosuolo, sabbie delle spiagge delle due località ed oltre, a ponente sino a

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Varazze nonché nei sedimenti e nella catena alimentare (pesci, molluschi, crostacei) dovuti a Cromo esavalente (cancerogeno), Zinco nella discarica dei fanghi di risulta in località Molinette), polveri, SO2, ecc. in atmosfera.

Recentemente (Febbraio 2001) la Stoppani, attraverso un emendamento alla finanziaria del Governo Amato, è stata inserita nei siti da bonificare indicati dalla legge 426/98.

Questo obbiettivo era stato richiesto a gran voce da Legambiente Liguria, e raccolto dalla Regione, dalla Provincia di Genova, e da alcuni consiglieri regionale e deputati liguri.

Infatti, numerosi sono le indicazioni che indicano uno stato ambientale a dir poco allarmante della Val Lerone.

Dati della Regione Liguria parlano di 92000 m3 di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre l’agenzia regionale protezione ambiente (Arpal) ha trovato concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64000 volte superiore ai valori consentiti nelle acque sotterranee in siti da bonificare (Dati ARPAL).

Per quanto riguarda l'area dello stabilimento la concentrazione media nei suoli ritrovata nel'99 è stata di 28 milligrammi per chilo, quantità 140 volte più alta del limite previsto per gli scarichi industriali e 5 mila volte superiore ai limiti per le acque sotterranee. La concentrazione minore è stata rilevata sotto il silos soda; mentre i livelli più preoccupanti sono stati registrati sotto le vasche e il reparto acido cromico (rispettivamente 3l2 e 322 milligrammi per chilo).

All'esterno della fabbrica le quantità di cromo diminuiscono, anche se restano molto preoccupanti. Sotto il viadotto dell'Aurelia i milligrammi di cromo esavalente presenti nel suolo risultano 2,03 per chilo. Vale a dire 10 volte in più che in uno scarico industriale e 400 volte in più del limite per le acque sotterranee.

Per quanto riguarda le acque di battigia in 16 casi negli ultimi tre anni sono state rilevate concentrazioni di cromo superiori a 0,30 milligrammi per chilo.

Preoccupante anche l’inquinamento della discarica di Molinetto per la presenza di metalli pesanti, soprattutto zinco, presente in quantità fino a 24 volte i limiti consentiti nelle acque che filtrano dalla discarica. La sostanza nociva non rientra nel processo produttivo della Stoppani ma non era presente a Molinetto prima dell'arrivo dei camion dell'azienda di Cogoleto (fonte: Provincia di Genova). Il cromo, pur in concentrazioni altissime, non supera i limiti consentiti per la discarica, 100 milligrammi su chilogrammo.

I limiti di legge sono stati invece superati più volte per quanto riguarda i valori di cromo esavalente nell'aria della zona abitata prospiciente lo stabilimento. Tali esuberi, di cui si è venuto a sapere solo di recente, sono stati registrati tra il settembre del 1998 e I'aprile del 1999 con punte massime risalenti alla primavera dell'anno passato.

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Recentemente sono stati diffusi dati sui campionamenti delle spiagge del ponente ligure, dai quali si deduce che il litorale, sino al comune di Varazze è interessato a inquinamento da cromati.

Un accordo, mai trasformato in vero e proprio accordo di programma, tra Regione, Comuni di Cogoleto e Arenzano, Sindacati e Azienda, prevedeva la chiusura della fabbrica e la bonifica del sito entro il 2001, ma dopo un breve periodo di ristrutturazione (da agosto a dicembre 1999), vi è stata una consistente ripresa delle attività a partire dal 1 gennaio 2000.

Nel 1997 è stato approvato un progetto di bonifica (Envireg) con finanziamento europeo di 7 miliardi a Stoppani con scadenza entro il 2000, per il trattamento dei fanghi tossici e conseguente inertizzazione; bonifica del torrente e dei canali di gronda per acque piovane, nonché la bonifica dell’arenile. Di tali attività nessuna è stata portata al termine e tranne l’ultima nemmeno iniziata.

Recentemente, nel 2001, l’azienda ha aperto l’esercizio di un forno sperimentale, cosa che ha provocato reazioni negative da parte delle associazioni ambientaliste, delle amministrazioni locali e dei cittadini

E’ altresì notizia di questi giorni l’accordo raggiunto tra Regione Liguria, Provincia di Genova, Comuni di Arenzano e Cogoleto per arrivare al più presto ad un accordo di programma con la società Stoppani per la chiusura, entro il 1/1 2003 e la successiva messa in sicurezza, e bonifica del sito produttivo.

L’azienda contesta questa data proponendo scenari più prolungati (2005 o addirittura 2006).

Legambiente chiede la chiusura nei tempi più rapidi possibili dello stabilimento Stoppani, ormai palesemente incompatibile con la zona e con le vocazioni economiche specifiche che non sono certo quelle della produzione chimica, ma semmai turismo e tutela dell’ambiente e valorizzazione del territorio.

Bisognerà arrivare ad un accordo di programma che contempli la chiusura totale entro il 1/1/2003 e l’avvio di un progetto di messa in sicurezza e bonifica, ai sensi del Dm 471/99.

Comunque bisognerà da subito sospendere l’attività del forno sperimentale e chiudere il forno 70, per la produzione di cromati, il più inquinante secondo i dati di Provincia e Arpal. La depurazione e l’inquinamento del mare in Campania

L'intero golfo di Napoli, da Via Caracciolo a Castellammare di Stabia, continua a rimanere un sogno per i bagnanti. Uno specchio di mare chiuso tra due fonti di inquinamento a cinque stelle, da un lato il Sarno e dall'altro Volturno e Garigliano. Scarichi fognari, più o meni abusivi, più o meni "avvelenati", foci dei fiumi da livelli di inquinamento da record, interi comuni privi di allacciamento alle fogne. Sono tante le cause da mettere sul banco degli imputati per la mancata balneazione di interi tratti di costa della Campania. In

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Campania siamo in presenza da anni ad un danno ambientale diretto, cagionato dallo scarso grado di concentrazione dei reflui agli impianti di trattamento. Secondo il I Rapporto Ambientale dell' Arpac (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania) su un campione rappresentativo, che include quasi l'intero comune di Napoli, e che rappresenta il 48% del totale della popolazione regionale ed il 52% dell'acqua erogata, si riscontra un coefficiente di ritorno globale in fognatura, con collettamento sino all'ingresso negli impianti di trattamento, pari ad appena al 44% dell' immesso in rete con un valore aerale minimo del 31% per il comprensorio Acerra- Pomigliano. All'interno del dato complessivo, inoltre, esistono comuni per i quali non è ancora realizzato il collegamento alla rete dei collettori intercomunali di collegamento agli impianti, cioè comuni per i quali il coefficiente di ritorno alla rete di depurazione è nullo. Basti pensare che i cittadini di Portici, San Giorgio a Cremano, Ercolano in provincia di Napoli e circa 300 mila napoletani sversano nei propri wc quotidianamente nel giro di pochi minuti giunge tal quale in mare. A tal proposito bisogna terminare al più presto il collegamento di queste aree con il depuratore di Napoli est. Basti pensare che circa 8000 mc/h che tratta tale depuratore vengono attualmente sversati attraverso un alveo sul litorale di S. Giovanni. Il depuratore di Napoli Est, secondo stime dell’assessore alla difesa del suolo del Comune di Napoli, Ferdinando Di Mezza, sarà in grado di filtrare cinquecento litri di liquami al secondo. Il depuratore sarà ingrandito anche qui con un operazione di project financing (quasi 75milioni di euro) il cui promotore sarà presto individuato ufficialmente. A Napoli, l’ultimo impianto di sollevamento (che pompa i liquami nei collettori fino ai depuratori) è stato inaugurato poco tempo fa nel rione Pazzigno. Ma non basta, oggi almeno 300mila abitanti del capoluogo fra il Ponte dei Francesi e Via Duomo, sversano quotidianamente reflui che arrivano in mare tal quale attraverso le vecchie fogne. La regione Campania, attraverso il Commissariato per l'emergenza rifiuti, bonifiche e tutela delle acque si è impegnato ad intervenire con un piano articolato che prevede il completamento del depuratore Napoli Est (entro il 2003), di un vero e proprio lifting alle fognature ed al sistema di depurazione del litorale fino alla foce Sarno ed il riordino dei collettori principali nella zona oprientale di Napoli.Non diversa la situazione del Golfo di Napoli. Non diversa la situazione nell’intera provincia di Napoli, Infatti, dopo due anni di pazienza ricerca, la Provincia di Napoli ha presentato uno studio completo della situazione, un vero e proprio catasto degli scarichi inquinanti che vanno dalla Campanella a Capo Misero. Un dossier allucinante: con 500 sbocchi inquinanti rilevati da Cuma a Foce del Sarno. Ben 96 sono risultati i casi che sono stati definiti “significativi” ossia ad alto rischio inquinante. Napoli è in testa con il censimento di ben90 scarichi a maree, seguito da Pozzuoli e Castellammare con 41 scarichi, segue Forio d’Ischia con 35 e Torre del Greco con 32. Di ogni scarico la Provincia di Napoli ha dati precisi di rilevamento, caratteristiche inquinanti, tipologia e volume annuo di refluo. Nel complesso della regione, dunque, dei circa 714 milioni mc/anno prelevati a scopo civili ed industriali, ben 385 milioni

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raggiungono il ricettore finale privi di trattamento, o comunque risultano dispersi sul territorio. Per ciò che attiene la consistenza di impianti di trattamento esistenti si ricorda che dei 549 Comuni della regione ben 192 fanno capo a 9 impianti comprensoriali più 4 in corso di realizzazione. Per la rimanente parte risultano esistenti ed operanti altre 202 unità di trattamento per totale complessivo di 394 municipalità servite su 549 (72%). Sempre secondo lo studio dell'Arpac, sul campione degli impinati di trattamento, riferibile al 48% della popolazione regionale, si rileva che le tecnologie utilizzate sono ancora aggiornate anche se sono affetti da problemi di obsolescenza dei componenti elettromeccaniche e strumentali, nonchè del mancato aggiornamento alle recenti normative sulla sicurezza dei lavoratori. Nessun impianto in servizio, tranne piccoli casi particolari, è in grado di provvedere all'abbattimento dei nutrienti. Con l'entrata in vigore del d.lgs. 152/99 che fissa nuovi parametri qualitativi per lo scarico delle acque provenienti da impianti di trattamento, la situazione diventa peggiore con quasi la totale assenza di impianti che si sono adeguati ai nuovi riferimenti legislativi. Se ci trasferiamo al salernitano, uno studio dell'Ato4 che comprende ben 144 comuni di cui 141 della provincia di Salerno la copertura della rete di depurazione è pari al 76% della popolazione, ma appena il 59% è servita da impianti funzionanti mentre il 24% non è allacciata ad alcun impianto. Senza contare che dei 208 impianti di depurazioni solo 161 sono in esercizio. Nello scorso febbraio il Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque della Regione Campania ha presentato il più grande ed importante project financing fino ad oggi attuato in Italia. Protagonisti dell’impegnativa esperienza un “tris d’assi” composto da Arin, Acea e Acquedotto Pugliese. Questo pool d’imprese si è aggiudicato la gara per il potenziamento e la gestione della fognatura, del collettore e della depurazione di tutta l’area napoletana. Il raggruppamento d’imprese gestirà il servizio per 15 anni: l’attività interesserà ben 72 comuni campani, compresa Napoli per un totale di oltre 2 milioni di abitanti. L’appalto è finalizzato all’adeguamento ed alla realizzazione di collettori ed impianti di depurazione in alcuni degli “snodi” fondamentali dell’inquinamento della Regione: Acerra, Cuma, foce Regi Lagni, Marcianise e Napoli Nord. Oggi la gestione di un impianto di depurazione di medie dimensioni, destinato a servire circa 50mila persone , costa oltre 1 milione di euro l’anno. Cuma: inchiesta sul depuratore che non funziona

Una macchina infernale di miasmi e veleni. Un mostro d’acciaio e ingranaggi di macchine e vasche in esercizio da oltre vent’anni. Stiamo parlando del depuratore di Cuma, costato circa 300 miliardi di vecchia lire. Dagli inizi degli anni ’80 ad oggi serve tutti i comuni della provincia a nord e sud di Napoli, compreso il capoluogo. L’impianto sorge a Licola di fronte al mare. Lo scorso 8 gennaio il procuratore della Repubblica Agostino Cordova, firma il dispositivo di sequestro dell’impianto, strappandolo dalle mani della società che da anni, si occupa della manutenzione e della gestione dell’impianto e affidandolo al Presidente della Regione Campania.Il sistema di

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purificazione delle acque reflue, nel contempo continueranno a funzionare, anche se a singhiozzo, in attesa di opere di ristrutturazione.In questo modo il provvedimento se da un lato cerca le responsabilità del mancato funzionamento, dall’ altra tenta di evitare disagi a tutti i comuni dell’hinterland a Napoli che qui scarica i liquami di un milione di abitanti. Sotto accusa le anomalie tecniche, il mancato funzionamentodi una parte dell’impianto, l’inquinamento dell’aria e del mare della costa di Licola. La procura , insieme con la Polizia ambientale della Provincia di Napoli, ha accertato che a non funzionare sono le macchine che servono alla grigliatura e alla “di sabbiatura “ dei rifiuti. In pratica i liquami una volta arrivati al depuratore, finiscno in vasche, che per la scarsa manuetenzione non permette il primo processo di purificazione, attraverso semplici paratie e griglie. Si stima che il 30% degli scarichi fognari sfocia a mare, senza nessuno tipo di trattamento. Questa macchina, perfetta sulla carta, è oggi superata da ingegni molto più complessi, che la rendono antiquata ed inefficace. Per questro motivo la Regione Campania ha indetto il project financing che prevede la ristrutturazione di cinque depuratori compreso Cuma. Il mostro che ingoia liquami per trasformarli in fango non ha mai funzionato a dovere. Sarà anche una casualità, ma secondo dati scientifici,il tasso di mortalità per cancro, nella zona del depuratore sono sopra la media. Nel provvedimento della magistratura si impone di copmpiee una serie di interventi urgenti, ben 13, entro e non oltre l’8 luglio 2002. Ora i tecnici della Regione Campania stanno facendo la corsa contro il tempo per adempiere al compito. Si va dal”ripristino di funzionalità del sistema di sollevamento esterno dell’alveo dei Camaldoli” a quello “del sistema di sollevamento esterno della stazione di Licola Mare” dal “ripristino della fase di “grigliatura a quello dei “sistemi di sollevamento interno , primario e secondario”; ancora si chiede il ripristino “ della funzionalità della stabilizzazione dei fanghi, i cui silos di stoccaggio sono risultati fuori esercizio”. Sarno: un fiume di veleni

Anche quest'anno il mare non bagna Napoli e provincia. Infatti quasi del tutto off limits alla balneazione il tratto di mare che va da Via Caracciolo a Pozzano, vicino Castellamare di Statbia. Sul banco degli imputati l'ecomostro per eccellenza. Si scrive Sarno, si legge sversatoio per ogni genere di rifiuti: sulle sue acque navigano le scorie prodotte dalle industrie conserviere e dalle concerie dell'entroterra. Il fiume scorre lungo 24 km. Il bacino idrografico ha un estensione di circa 500 kmq, pari a circa il 4% della superficie regionale. Interessa tre province: Napoli, Avellino e Salerno e comprende 39 comuni. Interessa una popolazione di circa 750mila residenti, pari al 13% di quella intera regione Campania, con una densità urbana media pari a circa 1300 ab/kmq con punte di oltre 2000ab/kmq nelle zone costiere. Un fiume ormai tristemente famoso per essere diventato l'emblema del degrado in cui dono ridotti numerosi corsi d'acqua. I prelievi effettuati a più riprese dai vari Enti, dalla stessa Legambiente delineano un quadro a dir poco allarmante: le acque

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del fiume e quelle dei suoi affluenti sono un concentrato di acqua di fogna e reflui industriali. Dichiarato "area ad elevato rischio ambientale" nell'agosto 1992, il bacino del Sarno secondo un ultimo censimento Istat, ospita complessivamente oltre 5000 imprese. Di particolare interesse per l'impatto ambientale, sono il settore conciario, che si concentra nel polo Solofrano in provincia di Avellino, che comprende circa 120 concerie, e quello conserviero, di trasformazione del pomodoro, con altre 100 imprese (oltre la metà dei quali ha i propri stabilimenti nei Comuni di Scafati ed Angri e Sant'Antonio Abate). Attualmente la incompletezza della rete fognaria, la dotazione episodica di impianti di depurazione a livello comunale e la loro scarsa efficienza, i lavori a rilento del sistema depurativo predisposto dal Ministero dell'Ambiente ed infine, la esiguità delle industrie che applicano il pretattamento delle acque reflue, hanno trasformato il reticolo idrografico in una fogna a cielo aperto con basse capacità dell'ecosistema fluviale di autodepurarsi vista la scarsa portata del fiume, il suo breve corso e la esiguità dei tratti di vegetazione naturale e perifluviale presenti lungo il percorso. Secondo dati del Noe, negli ultimi anni sono stati effettuati nell'area circa 1500 ispezioni, accertate circa 1000 violazioni e posti sigilli a quasi 100 piccole imprese. Secondo un' analisi della Prefettura sulla copertura della rete fognaria dei 39 comuni del Bacino del Sarno, ben 19 comuni rientrano in una fascia di copertura di fognature tra l’0 ed il 33%, 7 comuni tra il 34 ed il 66% e solo 13 presentano una copertura di rete fognaria pari ad una fascia tra il 67 ed 100%. Del resto la maggior fonte di inquinamento delle acque marine-costiere viene da terra, attraverso le acque dei fiumi. In Campania, dai dati della Goletta Verde su sei foci dei fiumi, 5 risultano gravemente inquinato (uno o più parametri almeno 10 volte oltre i limiti di legge) e il rimanente considerato inquinato. Un eccesso significativo di mortalità, per le cause non tumorali per malattie cerebrovascolari (+11% rispetto alla media regionale pari a 997 casi), un aumento di mortalità anche per malattie dell’apparato respiratorio totali e croniche pari +27% (745 casi) +36% (582 casi). Tra le donne preoccupanti gli eccessi di mortalità nelle malattie dell’apparato respiratorio con +15% rispetto alla media regionale (369 casi). Per quanto riguarda l’intera area a rischio, in cui è presente un’intensa attività agricola legata alle industrie conserviere del pomodoro, si segnalano, tra le cause tumorali, nelle femmine, rischi molto elevati per i linfomi non – Hodgkin (+53% pari a 51 casi), malattia associata in “letteratura” alle esposizioni di pesticidi. Questi i dati di uno studio dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) per conto del Ministero dell’Ambiente sulle 15 aree a rischio ambientale, tra le quali rientar l’area del fiume Sarno. “La zona maggiormente a rischio, secondo lo studio dell’Oms sono i quattro comuni (Mercato san Severino- Monitoro Inf-Montoro Sup e Solfora) del polo conciario, dove negli uomini i valori delle stime di rischio, collegati a malattie totali e croniche dell’apparato respiratorio sono superiori all’intera area con un aumento del 47% pari a 112 casi”. Infatti nel commento finale dello studio dell’OMS viene scritto: “che la concentrazioni dei rischi più alti è situata nei pressi del polo conciario di Solfora, dove si registrano rischi in crescita

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statisticamente significativa tra i maschi ed i rischi cumulativi per le generazioni più giovani tendenzialmente elevati in contrasto con i trend della mortalità regionale.

In sette mesi, dal luglio del 2001 fino al 31 gennaio del 2002 sono state scoperte e denunciate ben 61 aziende che indisturbate inquinavano il fiume Sarno. Su 284 sopralluoghi presso le aziende della Provincia di Napoli, Salerno ed Avellino, ben il 21,4% delle visite ha portato a riscontri di violazione di legge. Questi alcuni dati anticipati da Legambiente sull’attività di controllo della task-force dell’Arpac della Regione Campania. I dati sono emblematici: in totale sono stati effettuati 255 sopralluoghi lungo l’intero tratto di fiume mentre 284 sono state quelle mirate presso le industrie dove sono state comminate 29 sanzioni amministrative, 22 denunce presso la Procura della Repubblica e 10 segnalazioni fatte dal Corpo Forestale. Visitate 99 aziende in provincia di Napoli, 54 ad Avellino e 131 a Salerno, Secondo il monitoraggio dell’Arpac soprattutto nel periodo estivo sono state le industrie conserviere e quelle conciarie i principali rei dell’attività inquinante del fiume. Gli inquinatori farla da padrone, ad inquinare indisturbati. E’ necessario intensificare i controlli da parte di tutti gli enti preposti, colpirli nelle tasche infliggendo loro forti sanzioni pecuniarie e parallelamente completare la realizzazione dei collettori e reti fognarie, senza la quale ogni partita è persa. Lo schema depurativo del Sarno e lo stato di realizzazione dell'opera

Ad oggi sono stati realizzati i progetti do solo 9 comuni, sono in fase di gara l’affidamento dei progetti per altri 9, 3 dovrebbero essere nella fase di progettazione diretta da parte dei comuni, mentre allo stato attuale, per i collettori del medio Sarno esistono solo i progetti. La storia della depurazione del fiume, è una leggenda lunga 20 anni. La storia inizia con il progetto speciale per il disinquinamento del Golfo di Napoli(PS3) elaborato negli anni '70 dalla Cassa del Mezzogiorno. Sin dall'inizio avversato dagli ambientalisti e cittadini. Dopo varie vicissitudini, azioni giudiziarie, nel 1996 viene affidato all'ISMES lo studio di fattibilità delle proposte di rimodulazione del vecchio progetto- che accoglieva anche le istanze territoriali degli ambientalisti. Nel gennaio '97 il Ministro dell'Ambiente Edo Ronchi approva il progetto annunciando lo stanziamento di 800 miliardi per il risanamento dell'intero bacino del Sarno

Ai fini della depurazione, il bacino del Sarno viene suddiviso in tre comprensori Alto, Medio e Foce Sarno. 1) Comprensorio Alto Sarno: previsto un impianto di depurazione

centralizzato a Mercato San Severino destinato al trattamento di tutti i reflui urbani ed industriali prodotti nel comprensorio. L'impianto è in funzione dall'aprile 1999, ma attualmente è in corso la realizzazione delle opere di adeguamento alla normativa comunitaria che prevede un affinamento degli affluenti.; un impianto di pretrattamento degli scarichi del polo conciario nel Comune di Solofra, in funzione dall 'agosto del 1997;

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una rete di collettori comprensoriali costituita dalle canalizzazione fognarie principali, in cui è previsto il recapito degli emissari delle reti fognarie interne di ciascun comune. I collettori recentemente sono stati oggetto di lavori di manutenzione straordinari al fine di ripristinare l'efficienza. Le reti fognarie dei singolo comuni già ultimati

2) Comprensorio Medio Sarno: l'intero comprensorio è allo stato attuale privo di impianti di depurazione. Si prevedono la realizzazione di 4 impianti di piccole e medie dimensioni così ubicati: a)Impianto di depurazione localizzato nei Comuni di Scafati- Sant'Antonio Abate a servizio di circa 367.000 abitanti; b)Impianto localizzato a Poggiomarino- Striano a servizio di 145.000 abitanti c)Impianto localizzato ad Angri a servizio di 355.000 abitanti d) Impianto localizzato a Nocera Inferiore a servizio di 311.000 abitanti Nell'aprile 1999 si è svolta la consegna dei lavori alle imprese aggiudicatarie delle gare d'appalto. Per il completamento dei lavori sono stati concessi 35 mesi ed i lavori dovrebbero essere ultimati sulla carta entro marzo 2002. Per quanto attiene alla rete dei collettori, ad oggi anch'essi mancanti, si prevede il completamento delle opere entro la metà di aprile 2002. Le reti fognarie dei singoli comuni risultano affette da gravi carenze, dovute sia a deficienza funzionali che alla completa inesistenza. Per la fine di quest'anno previsto il completamento dei progetti esecutivi per passare, poi, alla fase realizzativa.

3) Comprensorio Foce Sarno: prevede un impianto di depurazione centralizzato, ubicato nel comune di Castellammare. In esercizio dalla metà del 1999, attualmente oggetto dei lavori di adeguamento alla normativa comunitaria il cui termine è previsto per il terzo trimestre del 2002; una rete di collettori comprensoriali suddivisa in sistema sinistra Sarno, dove saranno realizzati un collettore che raccoglie gli scarichi di Castellammare, ad oggi ultimato, ma che richiede lavori di manutenzione straordinaria per la messa in esercizio, ed uno a Gragnano a servizio dei comuni interni a sinistra idraulica del Sarno, in corso di realizzazione e sistema a destra Sarno costituito da un unico collettore il cui tratto iniziale si sviluppa in galleria sotto il centro storico di Torre Annunziata. Realizzato interamente, la messa in esercizio è tuttora condizionata da interferenze con la rete idrografica secondaria locale. Per quanto riguarda la rete fognaria urbana è in corso di completamento in alcuni comuni ed in fase di progettazione esecutiva per altri.

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11. L’onda nera

Era stato salutato appena un anno fa dalle stesse associazioni ambientaliste come l’accordo più avanzato in materia di trasporto di petrolio e sostanze pericolose che fosse stato mai sottoscritto. Stiamo parlando dell’accordo volontario siglato in extremis dall’ex Ministro dell’Ambiente Willer Bordon con il suo omologo ai Trasporti, Confindustria, Sindacati, associazioni ambientaliste, Assoporti ed altri soggetti, che prevedeva una serie di misure volontarie che l’industria italiana si era impegnata a rispettare ed un calendario di phasing out per l’eliminazione delle “carrette dei mari” che avrebbe anticipato di alcuni anni quanto previsto a livello internazionale. Per parte sua l’Amministrazione Centrale avrebbe provveduto a predisporre una serie di provvedimenti ed iniziative per facilitare le iniziative dell’industria. Il tutto con la benedizione di sindacati e associazioni ambientaliste.

In particolare l’accordo prevedeva l’anticipo di ben 4 anni delle scadenze fissate dall’Unione Europea e dall’IMO (International Maritime Organization), per quanto riguarda l’eliminazione delle carrette dei mari . Tra i vari punti cruciali stabiliti nell’accordo, l’impegno da parte di armatori e utilizzatori di bandire entro il 31 Dicembre 2003, le navi preMarpol per il trasporto di greggio e entro il 31 Dicembre 2005 di preMarpol adibite al trasporto di sostanze pericolose. L’accordo prevedeva inoltre che l’industria italiana inserisse nei contratti di noleggio la clausola che vieta il transito delle petroliere, qualunque sia la bandiera di appartenenza, nelle Bocche di Bonifacio, area di notevolissimo pregio naturalistico.

A un anno di distanza nessuna delle iniziative previste dall’accordo volontario è stata avviata. Le firme dei soggetti che hanno sottoscritto l’impegno sono rimaste chiuse nei cassetti del Ministero dell’Ambiente, cui spettava il compito di dare seguito agli impegni presi istituendo in primo luogo un comitato di monitoraggio dell’accordo.

E così si è persa un’occasione per allontanare le carrette dai nostri mari e per modernizzare l’industria nazionale. Un anno passato inutilmente.

Ne sono passati 11, invece, di anni dall’incidente che ha portato all’affondamento della Haven e allo sversamento di decine di migliaia di tonnellate di idrocarburi nel mare Ligure. La carcassa della Haven giace tuttora sul fondo marino e tonnellate di catrame e petrolio ricoprono i fondali. Dieci anni dopo quello che è considerato il più grave disastro ambientale del Mediterraneo si sta cominciando a rimettere mano alle regole che governano il traffico marittimo petrolifero. Ci sono voluti altri incidenti, dalla Erika alla Ievoli Sun, perché l’Unione Europea cominciasse a prendere in considerazione la possibilità di dotarsi di una normativa più avanzata in questo settore ed è tuttora all’esame il cosiddetto pacchetto “Erika 1”, che prevede una serie di misure per rendere più sicuro il trasporto di prodotti petroliferi lungo le coste europee. Anche l’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale) sta lavorando in questa direzione per estendere al naviglio internazionale una

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regolamentazione più severa, ma i tempi degli accordi internazionali rischiano di non tener conto delle tante emergenze che quotidianamente si consumano nei mari del pianeta.

11.1 Alcuni dati sul bacino del Mediterraneo Il mare Mediterraneo è un mare semi chiuso circondato da tre

continenti, Europa, Asia ed Africa. Su di esso si affacciano oltre venti stati, di condizione politica, economica e sociale molto diversa per un totale di 360 milioni di abitanti, di cui un terzo abita nelle aree costiere. All’interno del bacino interagiscono numerosissime attività, sia i Paesi rivieraschi sviluppati sia quelli in via di sviluppo dipendono in gran parte dalle sue risorse. L’area totale è di 2.5 milioni di km2, che costituisce lo 0,8% della superficie totale degli oceano. La lunghezza totale tra Gibilterra e la costa della Siria è di 3,800 chilometri, e la larghezza massima tra Francia ed Algeria è di 900 km. La massima distanza di un punto dalla costa è di 370 km, ma oltre il 50% della superficie del Mediterraneo è a meno di 100 km dalla costa più prossima. La profondità media è di 1500 m, con punte di oltre 4000 m.

Negli ultimi decenni si è assistito ad un continuo flusso di nuovi abitanti lungo le coste. Questo trend è particolarmente evidente sulla riva nord, dove in certe aree il livello di urbanizzazione ha quasi raggiunto il 100%, come nell’area tra Mentone e Marsiglia in Francia, la riviera Ligure e la zona intorno a Napoli in Italia. Alla pressione abitativa, si deve poi aggiungere lo sviluppo del settore turistico. Il Mediterraneo è sempre stato una delle destinazioni preferite a livello mondiale. Un terzo dei turisti mondiali, quasi 150 milioni di persone, sceglie annualmente il Mediterraneo come destinazione per le loro vacanze, attratto da mare, spiagge e sole.

La pesca nel Mediterraneo è ancora in gran parte portata avanti con metodi “artigianali”, utilizzando imbarcazioni di piccole e medie dimensioni, e da pescatori individuali o in cooperative, con una produzione in gran parte indirizzata al mercato interno. Il settore della pesca è molto importante a livello sociale oltre che economico, in quanto da esso dipendono non solo i pescatori, ma anche gli occupati dei settori collegati della trasformazione, distribuzione e cosi via, con un rapporto tra gli addetti di quasi 1:2,5. Solo in Italia, il settore della pesca marittima in quanto tale occupa 43,757 addetti (dati dal IV Piano Triennale della pesca e acquacultura 2000-2002), cui si devono aggiungere 17,000 addetti nei settori dell’acquacultura, trasformazione e cantieristica, e circa 46,000 addetti nelle attività correlate (come ad esempio distribuzione, commercializzazione e servizi portuali), per un totale di occupati di circa 107,000 unità. In caso di incidenti con sversamento di idrocarburi, i danni subiti da queste attività pregiudicherebbero in maniera determinante la situazione economica di un altissimo numero di famiglie.

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Operazioni Offshore Nel Mediterraneo esistono una serie di aree di piattaforma continentale

piuttosto vaste, come l’Adriatico, che nella parte settentrionale non è mai più profondo di 200 metri, il Golfo del Leone, l’Egeo settentrionale e lo stretto di Sicilia. In queste aree sono già partite attività di esplorazione e sfruttamento delle risorse dei fondali, soprattutto gas, ma anche petrolio. Anche se queste attività sono limitate a poche aree, il rischio di impatti negativi sull’ambiente marino e sulle altre risorse ed attività economiche che vi si basano è comunque molto alto, ed aumenta con lo sviluppo di tali attività.

Trasporto Marittimo Fin dall’apertura del Canale di Suez, il Mediterraneo è tornato alla

ribalta come canale preferenziale per il trasporto di merci di ogni genere. Ogni anno il bacino è attraversato da centinaia di navi che trasportano merci di ogni genere, dal petrolio greggio alle merci manufatte. Ma è il trasporto di petrolio greggio e dei prodotti della raffinazione che rappresenta la voce principale del trasporto marittimo nel Mediterraneo.

11.2 Il traffico marittimo di idrocarburi

A livello mondiale il petrolio è la merce maggiormente trasportata via mare. Secondo fonti EUROSTAT e OECD/IEA, nel 1998 sono stati trasportati via mare petrolio greggio e prodotti della raffinazione per un totale di 2.000 milioni di tonnellate che in termini di peso rappresentavano il 40% dell’intero trasporto via mare. Il trasporto di greggio rappresenta tre quarti del trasporto mondiale di prodotti petroliferi (1.590 milioni di tonnellate), mentre i prodotti raffinati sono il restante quarto (430 milioni di tonnellate).

Traffico marittimo mondiale di materie prime (1995) Materia prima Totale trasportato (milioni di tonnellate) Petrolio greggio 1.415 Carbone 423 Minerali di ferro 402 Granaglie 196

Fonte: Confitarma Le vie di traffico principali sono quelle che vanno dai paesi produttori,

dal Medio Oriente e Golfo Persico, verso Asia, Europa e Stati Uniti, dal Nord Africa verso l’Europa, e dai Carabi verso gli Stati Uniti. Lungo queste direttrici il petrolio prodotto in Africa occidentale e nel mare del Nord viene trasportato in navi di 130-150000 tonnellate (cosiddette Suezmax), quello prodotto dai Paesi Arabi è trasportato in VLCC di dimensioni superiori alle 250.000 t, mentre dai Caraibi, dal Mediterraneo e dal Mar Nero il greggio è trasportato in navi di 80-100,000 tonnellate (cosiddette Aframax). Nel caso di trasporto

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intraregionale, come quello che si svolge all’interno del Mediterraneo, le navi utilizzate superano raramente le 50,000 tonnellate.

La flotta mondiale di petroliere e chimichiere è composta da 8.720 navi per un totale di 324,340,718 tonnellate di stazza lorda (dati OMI). Di queste 1.780 sono petroliere e 6.940 trasportano invece prodotti raffinati. Da notare comunque che al maggior numero di chimichiere non corrisponde una stazza complessiva più elevata, in quanto le petroliere sono generalmente di maggiori dimensioni.

Secondo stime recenti, più del 60% della flotta circolante ha più di 17/18 anni di età, mentre sarebbe addirittura del 90% la percentuale delle grandi petroliere (con stazza superiore alle 200.000 tonnellate) che hanno superato i 16 anni di età. Unasituazione oltremodo allarmante, se si considera che una petroliera dovrebbe essere avviata al disarmo tra i 15 e i 20 anni di età.

Il traffico di petrolio all’interno dell’Unione Europea rappresenta il 27% del traffico mondiale ed il 90% del trasporto di petrolio viene effettuato via mare, mentre gli Stati Uniti da soli importano il 25% del totale.

Il traffico petrolifero nel Mediterraneo, che costituisce lo 0,8% della superficie delle acque mondiali, rappresenta più del 20% del traffico mondiale marittimo del petrolio, ed ammonta a 360 milioni di tonnellate annue (fonte Rempec), di cui:

300 milioni entrano nel Mediterraneo diretti verso Paesi del bacino stesso 180 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal Medio Oriente (125 milioni di tonnellate attraverso il Canale di Suez e la condotta di Sumed, 50 milioni attraverso il Bosforo, e 5 milioni dalla Turchia) principalmente verso l’Italia;

100 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal Nord Africa (60 milioni dalla Libia, 40 milioni dall’Algeria) principalmente verso la Francia;

20 milioni di tonnellate partono da Paesi mediterranei verso altri Paesi del bacino (8 milioni di prodotti della raffinazione dalla Francia all’Algeria).

20 milioni di tonnellate lasciano il Mediterraneo, 10 milioni attraverso lo stretto di Gibilterra (prodotti raffinati, soprattutto in partenza dalla Francia);

10 milioni attraverso il canale di Suez (prodotti raffinati).

40 milioni di tonnellate attraversano il Mediterraneo 20 milioni di petrolio greggio e condensato partono dal Mar Nero attraverso il Bosforo e lo stretto di Gibilterra

20 milioni dall’Egitto (canale di Suez e condotta di Sumed) e attraverso lo stretto di Gibilterra.

In media, 250/300 petroliere sono in circolazione nel Mediterraneo ogni giorno.

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Dal 1996 per effetto della MARPOL, le navi cisterna devono essere costruite con scafo doppio o con tecnologia equivalente, mentre quelle monoscafo andranno gradualmente dismesse.

La MARPOL però non fissa una tempistica rigorosa e celere per l’eliminazione delle petroliere monoscafo. Dati INTERTANKO danno al 1 gennaio 2000 una percentuale di cisterne a doppio scafo in servizio nel mondo del 20,8%, che sale al 42,8% per i tankers tra le 80.000 e le 200.000 tonnellate ed al 33.3% per quelli superiori alle 200.000 tonnellate, percentuale che in Mediterraneo sembra essere molto più bassa.

L’Oil Polluction Act americano del 1990, approvato in seguito al disastro dell’Exxon Valdez, e che stabilisce un calendario per vietare totalmente l’accesso nelle acque territoriali americane alle petroliere monoscafo, ha iniziato a concentrare la parte più vecchia della flotta cisterne, che non potrebbe più accedere ai porti americani, verso le destinazioni asiatiche o mediterranee. Solo poche petroliere a doppio scafo agiscono abitualmente nel Mediterraneo, su 250-300 con stazza lorda oltre le 100 GRT.

Nel 1998 (fonte UPI) sono transitate nei porti Italiani 123.800.000 di tonnellate di petrolio greggio, in gran parte movimentate nei porti dell’Adriatico. Nel 1999 (fonte U.P.I.) sono state importate nel nostro paese 80.369.000 tonnellate di greggio, con una movimentazione di circa 2.000.000 di barili al giorno, di cui il 65% nei porti maggiori. 11.3 Gli incidenti

Secondo una definizione del GESAMP, l’inquinamento marino è l’“Introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino... che provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua per gli usi dell’acqua marina e riduzione delle attrattive”

Si possono quindi inquadrare tre differenti tipi di inquinamento: - Inquinamento sistematico: causato dall’immissione continua nel

tempo di inquinanti (scarichi fognari, reflui industriali, dilavamento terreni, e così via).

- Inquinamento operativo: causato dall’esercizio di natanti (lavaggio cisterne, scarico delle acque di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antivegetative, e così via).

- Inquinamento accidentale: causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da piattaforme, rottura condotte).

Secondo fonti OMI tra le fonti di inquinamento delle acque marine solo il 23% sono costituite da sorgenti marine e tra queste la percentuale del 12% è quella legata all’inquinamento dovuto al trasporto marittimo, il resto è dovuto a cause di origine terrestre, ad attività di dumping e off-shore ed al trasporto aereo.

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Principali sversamenti di petrolio in mare DATA LOCALITA' NAVE SVERSAM.(tonn.)Luglio 1979 Trinidad Atlantic Express 276.000 Novembre 1987 Iran Fortuneship 260.000 Maggio 1991 Angola Abt Summer 260.000 Marzo 1978 Francia Amoco Cadiz 228.000 Settembre 1985 Iran Son Bong 200.000 Agosto 1983 Sud Africa Castillo de Belver 190.000 Aprile 1991 Italia Haven 144.000 Maggio 1988 Iran Barcelona 140.000 Novembre 1991 Terranova Odissey 140.000 Marzo 1967 Gran Bretagna Torrey Canion 121.000 Dicembre 1972 Golfo di Oman Sea Star 115.000 Febbraio 1980 Grecia Irenes Serenade 102.000 Maggio 1976 Spagna Urquiola 101.000 Luglio 1985 Iran M.Vatan 100.000 Febbraio 1977 Pacifico del Nord Hawaian Patriot 95.000 Novembre 1979 Bosforo Independenta 95.000 Gennaio 1993 Gran Bretagna Braer 85.000 Dicembre 1987 Oman Norman Atlantic 85.000 Gennaio 1975 Portogallo Jacob Maersk 84.000 Dicembre 1992 Spagna Aegeum Sea 80.000 Agosto 1979 India World Protector 70.000 Dicembre 1985 Iran Nova 70.000 Dicembre 1989 Marocco Khark V 70.000 Febbraio 1971 Sud Africa Wafra 63.000 Febbraio 1996 Gran Bretagna Sea Empress 60.000 Maggio 1983 Iran Panoceanic Fama 60.000 Febbraio 1985 Iran Neptunia 60.000 Maggio 1975 Porto Rico Epic Colocotroni 57.000 Dicembre 1960 Brasile Sinclail Petrolone 56.000 Gennaio 1983 Oman Assimi 54.000 Agosto 1974 Stretto di Magellano Metula 53.000 Novembre 1974 Giappone Yuyo Marn 50.000 Ottobre 1987 Iran Shinig Star 50.000 Maggio 1988 Iran Seawise Geant 50.000 Dicembre 1978 Spagna Andros Patria 47.000 Dicembre 1983 Qatar Pericles G C 46.000 Giugno 1968 Sud Africa World Glory 45.000 Gennaio 1975 Nord Pacifico British Ambassade 45.000 Aprile 1979 Francia Gino 42.000 Febbraio 1968 Oregon Mandoil 2 40.000 Gennaio 1975 Delaware Corinthos 40.000 Dicembre 1978 Stretto di Hormuz Todotzu 40.000 Novembre 1979 Texas Burmah Agate 40.000 Giugno 1973 Cile Napier 38.000 Dicembre 1982 Iran Scapmount 37.000 Marzo 1989 Alaska Exxon Valdez 35.000 Dicembre 1999 Francia Erika 31.000 Fonte: Bilardo e Mureddu 1992, Intertanko

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Nel Mediterraneo, secondo le statistiche OMI, la percentuale degli inquinamenti da idrocarburi dovuti a sversamenti da navi è del 10%. Si tratta ovviamente di statistiche relative agli sversamenti accidentali che non tengono conto delle operazioni illegali, quali il lavaggio delle cisterne. Secondo una stima dell’Unione Petrolifera il Mediterraneo riceverebbe ogni anno circa 1 milione di tonnellate di idrocarburi provenienti da varie fonti (sversamenti intenzionali e accidentali, fonti endogene, apporto dai fiumi, ecc.).

Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64% dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.

Per avere un quadro più vicino alla realtà bisogna tenere presente come la gran parte delle percentuali attribuibili agli errori umani e alle cause non determinate possono senz’altro essere ascritte ai problemi connessi alla presenza di vecchie imbarcazioni con equipaggi improvvisati e impreparati che percorrono in gran numero il Mediterraneo.

Secondo statistiche elaborate dall’ITOPF, l’associazione di categoria dei trasportatori di idrocarburi, le cause degli sversamenti si manifestano secondo le seguenti proporzioni:

- durante le operazioni di carico e scarico circa il 35%, - durante il bunkeraggio circa il 7%, - per collisioni circa il 2%, - per arenamento circa il 3% - per falle nello scafo circa il 7%, - in seguito a incendi o esplosioni (come nel caso della Haven) per il

2%, - per altre cause non meglio determinate il 29%, - per altre operazioni di routine il 15%. Nel 1999 sono stati compiuti oltre 100 interventi per oil spill superiori

alle 500 tonnellate, un record per gli ultimi anni. Di questi, una consistente parte è avvenuta in Mediterraneo. La media annuale di spill superiori a 500 tonnellate si aggira per il nostro bacino sulle 21.000 tonnellate annue.

Negli ultimi 20 anni, 550.000 tonnellate di idrocarburi sono state sversate in mare in seguito a tre soli incidenti, per un totale del 75% della quantità totale (Cavo Cambanos nel 1981, Sea Spirit ed Hesperus nel 1990, Haven nel 1991). Dati REMPEC.

Per quanto rilevanti tuttavia, gli sversamenti accidentali dovuti ad idrocarburi, rappresentano solo una piccola quota del totale degli scarichi dovuti al traffico marittimo, la maggior parte di essi infatti, dall’80 al 95% a seconda dei criteri di stima è infatti determinata da operazioni di routine, in particolare dallo zavorramento e dal lavaggio delle cisterne, con uno spill medio a livello mondiale, valutabile da 8 a 20 milioni di barili, con 1 milione di barili nel solo Mediterraneo.

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Densità del catrame pelagico negli oceani mondiali Catrame trovato in media (mg/m3 ) Mediterraneo 38 Mar dei Sargassi 10 Sistema giapponese 3,8 Corrente del Golfo 2,8 Atlantico nord-occidentale 1 Golfo del Messico 0,8 Caraibi 0,6 Pacifico nord orientale 0,4 Pacifico sud occidentale < 0,01 Fonte: Bilardo e Mureddu

11.4 Inquinamento da petrolio, cause ed effetti sull’ambiente La maggioranza degli sversamenti accidentali di idrocarburi si ha in

seguito all’arenamento (grounding) della nave. È proprio in seguito a questa constatazione che negli anni ottanta e novanta fu sviluppato il sistema del doppio scafo come mezzo più sicuro per evitare lo sversamento degli idrocarburi direttamente in mare in caso di arenamento o collisione. Il doppio scafo infatti, pur non aumentando in assoluto la sicurezza della navigazione, minimizza gli effetti negativi in caso di incidente, garantendo la presenza di uno strato intermedio tra le cisterne e l’esterno, per evitare che l’eventuale scontro causi la dispersione in mare di tutto il carico.

Nella grande maggioranza dei casi, gli incidenti sono generalmente imputabili ad errore umano, come evidenziato nel grafico seguente.

Il Mediterraneo: cause di sversamenti accidentalidi idrocarburi da navi cisterna

1 6 %

6 4 %

1 0 % 1 0 %

P r o b l e m i s t r u t t u r a l i d e l l a n a v e

G u a s t i m e c c a n i c i

E r r o r i i m p u t a b i l i a l l ' e l e m e n t o u m a n o

C a u s e n o n i d e n t i f i c a t e

Dott. E. Amato

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Fonte: Ezio Amato - Icram

L'impatto degli sversamenti di petrolio nell'ecosistema marino dipendono da molti fattori concomitanti: quantità di petrolio sversato, modalità dell'incidente (l'incendio del petrolio può trasferire parte degli idrocarburi in atmosfera), distanza e morfologia della costa, condizioni meteorologiche.

In generale, uno sversamento consistente produce effetti acuti nel breve termine e cronici nel lungo periodo sugli organismi marini (in particolare sulle uova o sui piccoli pesci), sui crostacei (ad esempio lo zooplancton, che rappresenta la principale fonte di cibo per i pesci), sugli invertebrati filtratori (coralli, spugne, anemoni di mare, bivalvi, etc.) e sull'avifauna che viene a contatto con gli strati oleosi galleggianti. Quando le chiazze raggiungono il litorale, i danni colpiscono anche gli organismi stanziali, siano essi alghe, piante o animali.

In particolare, per quanto riguarda gli effetti acuti, il petrolio forma una sottile pellicola che:

- impedisce gli scambi gassosi provocando condizioni di anossia; - limita la penetrazione della luce con ripercussioni sull’attività

fotosintetica di alghe, fanerogame marine, fitoplancton e quindi provoca una diminuzione della produzione primaria;

- aderisce agli organismi che vivono o interagiscono all’interfaccia aria/acqua (mammiferi marini, uccelli, organismi bentonici intertidali, alghe, stadi larvali, gameti, ecc.) impedendone le normali funzioni vitali.

Gli effetti cronici, si verificano per gli organismi quando la tossicità rimane ad un livello sub-letale ma, la presenza delle sostanze inquinanti provoca alterazioni sostanziali delle condizioni chimico-fisiche che, con tempi più o meno lunghi si ripercuotono sulla comunità, presentandosi come:

- alterazioni fisiologiche, fisiche e comportamentali; - modificazioni della composizione in specie; - modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-predatore). Il petrolio nell’ambiente marino subisce una serie di trasformazioni

chimico-fisiche e biologiche, in percentuale variabile a seconda del tipo di greggio. Il petrolio evaporato viene fotossidato in alcune ore o in alcuni giorni producendo emissioni di anidride carbonica, ossido di carbonio, composti organici ossigenati ed aerosol secondari. La fotossidazione interessa anche il petrolio galleggiante.

Il petrolio che sedimenta sul fondo è quello più dannoso per l'ecosistema marino: analisi condotte sui sedimenti di una spiaggia inquinata hanno evidenziato che alcune componenti idrocarburiche rimanevano assolutamente inalterate per molti anni. Il petrolio sedimentato nei fondali può interferire con la vita sia degli organismi superiori che dei microrganismi.

Goletta Verde ha effettuato una ricerca sulla presenza di idrocarburi nei sedimenti dei fondali marini. L’indagine ha riguardato principalmente i fondali del Tirreno e dell’alto Adriatico, e ha sostanzialmente confermato la situazione

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già rilevata in precedenti occasioni: un inquinamento da idrocarburi forte e diffuso, con valori molto superiori a quelli registrati dall'Unep in altre aree del Mediterraneo. Particolarmente significativi i picchi rilevati lungo la costa del Friuli Venezia Giulia, in prossimità del porto di Trieste e della centrale Enel di Monfalcone, e davanti al litorale di Reggio Calabria.

Oltre agli sversamenti, ci sono altri danni che una petroliera può causare all'ambiente. Particolarmente rilevante è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino attraverso le acque di zavorra. Infine, un rischio collegato all'attività delle petroliere è quello dell'inquinamento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di trasporto, infatti, le navi usano carburanti in cui il contenuto in zolfo non è sottoposto ad alcuna limitazione. 11.5 Le proposte: le dieci regole per cambiare il mondo del trasporto marittimo delle sostanze pericolose 1) Via le vecchie carrette dai nostri mari. Eliminazione entro il 2005 delle cosiddette “petroliere Premarpol” (costruite prima del 1982) e prive di doppio scafo e accorgimenti protettivi da tutti i porti italiani. Fissazione della durata massima di attività per una nave addetta al trasporto di idrocarburi o sostanze pericolose in 23 anni dal varo. 2) Stop al lavaggio delle cisterne in mare. Chiediamo che vengano intraprese iniziative a livello di bacino del Mediterraneo per la piena applicazione dello status di area speciale ai sensi dell’annesso I della MARPOL e per l’efficace repressione degli inquinamenti volontari. Chiediamo un impegno per l’adozione delle reception facilities e di misure che consentano di rendere economicamente conveniente lo scarico delle acque delle cisterne presso i depositi costieri e rischioso e svantaggioso il lavaggio a mare e misure serie per l’armonizzazione e l’applicazione delle sanzioni. 3) Basta con gli “equipaggi babele” e privi di capacità professionale. E’ necessario intervenire sempre più sulla formazione degli equipaggi e dei comandanti, chiediamo un controllo continuo sulla composizione e sulla professionalità degli equipaggi delle navi che trasportano merci pericolose. 4) Basta con le navi insicure. Chiediamo controlli severi e stringenti sulla adeguatezza delle navi e il blocco di quelle che non offrono garanzie adeguate di sicurezza. 5) Stop al rischio tempesta. Chiediamo venga imposto il divieto di navigazione alle navi che trasportano sostanze pericolose e inquinanti in condizioni meteomarine particolarmente avverse.

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6) Anche il bunker uccide il mare. Chiediamo l’introduzione di misure relative al bunker (combustibile di bordo) trasportato dalle navi sia a livello assicurativo che costruttivo. 7) Chi inquina deve pagare. Chiediamo l’allargamento della responsabilità in solido per tutti i soggetti coinvolti nel trasporto delle sostanze pericolose e nel viaggio della nave, dall’armatore, al noleggiatore, al trasportatore e così via. Chiediamo la piena applicazione del principio “chi inquina paga”, perché il mare non sia più l’unico soggetto costretto a pagare. 8) Anche l’ambiente ha un costo. Chiediamo il pieno riconoscimento e risarcimento del danno ambientale in ambito IOPCF, superando la definizione escludente contenuta nel Fondo 1992, e un conseguente adeguato innalzamento del massimale. Ci rivolgiamo all’Unione Europea perché contribuisca in tutte le sedi internazionali a individuare una definizione precisa di “danno ambientale” e promuova strumenti e forme anche integrative di risarcimento. 9) Stop al traffico nelle Bocche di Bonifacio. Chiediamo un impegno italiano ed europeo, anche in sede IMO, per giungere all’eliminazione del traffico dalle Bocche di Bonifacio, cominciando con l’adesione volontaria degli Stati U.E. e di quelli che hanno richiesto di entrare nella Comunità alle iniziative italo-francesi di limitazione dei traffici del naviglio di bandiera. 10) Il petrolio non è solo un problema di trasporto, ma soprattutto ambientale Chiediamo che il trattamento delle questioni relative alle problematiche del trasporto marittimo di sostanze pericolose venga svolto a livello UE congiuntamente dalle Commissioni Ambiente e Trasporti e che si faccia chiarezza sui ruoli e sulle competenze dei ministeri nei rapporti internazionali e sovranazionali prevedendo anche la tempestiva comunicazione alle autorità ambientali di situazioni di crisi o di pericolo. È necessario che gli obiettivi ambientali vengano sempre più integrati all’interno delle disposizioni sulla sicurezza in mare proposte dall’Unione Europea che, pur condivisibili, finora hanno mantenuto un’accezione prettamente trasportistica.

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12. 20.000 bombe in fondo al mar

Bombe a grappolo, bombe a mano, da aereo, da mortaio, mine, un arsenale quasi interamente caricato con agenti chimici altamente tossici, proiettili all’uranio impoverito: la guerra continua in fondo al mare.

Tutto è cominciato durante la prima guerra mondiale quando alcuni paesi belligeranti iniziarono una grande produzione di armi chimiche. Nonostante il trattato di Versailles del 1922 e la convenzione di Ginevra del ’25 misero al bando il loro uso, molte nazioni, tra cui l’Italia, continuarono a produrne. I centri di stoccaggio e costruzione degli armamenti furono allestiti tra Bari e Lecce. Dopo la guerra tutto il materiale bellico inutilizzato finì nell’Adriatico. Molti residuati del secondo conflitto mondiale seguirono la stessa sorte e comunque fino a una trentina di anni fa, come riferisce l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologia applicata al mare (ICRAM), la pratica corrente di smaltimento per il munizionamento militare obsoleto era l’affondamento in mare. Nel 1999 sono arrivate le famigerate “bombe a grappolo” sganciate in Adriatico dalla NATO dopo la guerra in Kossovo e l’urgenza di bonificare le zone interessate a fatto riemergere un arsenale sommerso: l’Icram ha individuato per il momento, in quattro aree al largo delle coste di Molfetta, 20 mila ordigni a “caricamento speciale”. Un’enorme discarica sommersa che rilascia sostanze letali come l’iprite e composti di arsenico. Quante altre ce ne sono nel resto dell’Adriatico? Impossibile saperlo: le autorità militari non forniscono informazioni che sono “riservate”. Si sospetta inoltre la presenza di proiettili all’uranio impoverito utilizzati sempre dalle forze NATO. “Non sono pericolosi” avevano assicurato i militari, ma un manuale Nato dice l’esatto contrario. Il dato certo è che il caricamento dei 20.000 ordigni stimati dall’Icram è composto da 24 diverse sostanze, 18 di queste sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi sull’ambiente e sull’uomo. Costituiscono un pericolo per i pescatori e per tutti coloro che a vario titolo esercitano le loro attività in mare. Solo nel basso Adriatico sono più di 200 i casi documentati di pescatori intossicati e ustionati dalle esalazioni sprigionatesi da ordigni a carica chimica salpati con le reti. Le sostanze rilasciate provocano la distruzione delle cellule umane, attaccano gli occhi, pelle e apparato respiratorio, alterano la trasmissione degli stimoli nervosi. Ne conseguono congiuntiviti, bruciori, edemi, danni polmonari cronici e asfissia. “Esposizioni gravi producono la morte per insufficienza respiratoria e polmonite. E soprattutto, tumori.” Queste le notizie drammatiche che ci giungono da studi approfonditi condotti dal Professor Assennato dell’Università di Bari su 232 pescatori pugliesi vittime di incidenti tra il 1946 e il ’94. Anche l’ecosistema marino non se la passa bene. Dalle prime indagini compiute dall’Icram, nonostante la letteratura sull’argomento sia ancora scarsa, non c’è da stare allegri: i pesci dell’Adriatico sembrano essere particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori, subiscono danni all’apparato riproduttivo e sono esposti a mutazioni genetiche che portano a generare esemplari mostruosi. Quali saranno le conseguenze per la salute dei consumatori? Lo sapremo

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quando avranno fatto studi specifici. L’Icram, su richiesta del Ministero dell’Ambiente, ha presentato un “piano per la valutazione dei rischi ambientali e delle opzioni per minimizzarli”, dove sottolinea la complessità e l’urgenza di affrontare il problema: “l’individuazione ed esplorazione delle aree d’affondamento, l’identificazione delle sorgenti di rischio ambientale e del loro potenziale nocivo e l’esperimento di attività di bonifica, richiede la collaborazione di enti civili e militari, di società specializzate, di ecologi marini, ecotossicologi, oceanografi, sedimentologi, chimici, biochimici, modellisti, storici ed esperti di armamenti. La tutela della sicurezza degli operatori, minacciata dalla pericolosità delle sostanze studiate, è priorità imprescindibile e richiede anch’essa la collaborazione di specialisti.”

I dati sulla bonifica rimangono lacunosi. Lo sganciamento di bombe a grappolo, ognuna delle quali conteneva 202 bombe lunghe qualche decina di centimetri, fa supporre che una bonifica completa dell’Adriatico dagli ordigni sarà difficile da conseguire con le tecnologie oggi a disposizione.

E l’emergenza, purtroppo, potrebbe estendersi anche oltre l’Adriatico: si sospetta la presenza di armi chimiche nel Mar Ligure. Finora solo ipotesi ma la nascita del Parco nazionale delle Cinque Terre ha riacceso la memoria, sino a farla giungere agli anni cinquanta. Proprio in quel periodo, alla fine della guerra, alcuni pescatori recuperarono degli strani contenitori di metallo rivestiti in piombo, erano in gran parte stati già intaccati dalla corrosione e l’acqua era penetrata all’interno. Il piombo era un ottimo materiale da commercializzare e quindi alcuni pescatori pensarono di fare a pezzi uno di questi contenitori e rivenderlo come ferro vecchio. Uno di questi contenitori venne tagliato in un cantiere navale del golfo spezzino: conteneva iprite. Vi furono diversi feriti, fortunatamente l’acqua infiltrata nell’ordigno aveva diluito la terribile sostanza. Racconti di incidenti simili si tramandano di generazione in generazione e sono stati raccolti anche dall’Icram. All’epoca però non c’erano verbali quindi si deve fare affidamento solo sulle testimonianze orali dei vecchi pescatori. Si parla di un vero e proprio deposito di ordigni situato sul fondo del mare: si tratta in gran parte di rifiuti o smaltimenti d’emergenza fatti durante le ultime due guerre mondiali, in particolare negli anni quaranta. Nella zona ci sono anche quantitativi di munizioni tedesche gettate in mare dopo l’8 settembre. Fino agli anni ’70 poi anche nelle relazioni della Marina Militare erano segnalati i depositi ufficiali di questi ordigni, in seguito ogni riferimento è misteriosamente scomparso.

Per anni questa “storia” è stata trascurata perché in quelle aree non ci si pescava nemmeno. Ma ora con l’arrivo del parco ed il possibile incremento dell’attività subacquea questo segreto è inevitabilmente “venuto a galla”.

Bombe di ieri e di oggi. Tutte egualmente pericolosissime per l’uomo e dannosissime per l’ambiente. Oggi e domani.

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